La rivolta del Niben

di QWERTYUIOP00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Attenzione: questa storia è un sequel de “Segreti nella Baia”, perciò si raccomanda la lettura di quella storia prima di iniziare questa. Buona lettura.
 
Atmah prese la bottiglia di Tamika 415 tra le mani, osservandone il liquido rosso scuro contenuto all’interno.
Presi due calici, li pose s un tavolo e, delicatamente, versò il vino nei bicchieri riempiendoli.
Si portò il collo della bottiglia al naso, assaporandone l’aroma speziato.
Il liquido le entrò in gola scendendo lentamente, mentre in bocca le esplodeva il suo sapore misto agli aromi delicati.
Una volta posata la bottiglia, la Redguard prese i calici e si diresse verso lo studio, passando attraverso un lungo corridoio con arcate cieche alle pareti che conferivano un ritmo alle altrimenti spoglie pareti in marmo bianco.
A terra, un lungo tappeto di Daggerfall accompagnava i passi della donna rendendoli attutiti, felpati.
Il corridoio era silenzioso, mentre al di là della porta verso cui Atmah si stava dirigendo, si potevano udire delle voci sommesse.
Una volta arrivata alla porta, la Redguard la scostò quanto bastava per lasciarla passare senza difficoltà con i bicchieri.
Non voleva fare rumore.
Al di là della porta si apriva un’anticamera riccamente decorata con arazzi alle pareti, un tappeto di Elswyr a terra decorato con motivi arabeschi e alcune poltrone decorate con fili d’oro che intrecciati formavano eleganti e sinuosi disegni.
Questa camera comunicava da una parte con lo studio, un ambiente raccolto ma accogliente con un’imponente scrivania di legno d’ebano e una libreria che copriva tutte le pareti ad eccezione di quella d’ingresso dove erano appesi due quadri a fianco alla porta.
Atmah entrò e salutò i signori che parlavano all’interno chinando rispettosamente il capo.
“Ah, ecco il vino” la accolse con voce melodiosa il suo padrone sorridente “grazie, Atmah”
Era un uomo di media statura, abbastanza esile, di circa sessant’anni con dei capelli bianchi e corti.
Ma prima cosa che saltava all’occhio, in quell’uomo erano, neanche a farlo apposta, i suoi occhi. I suoi occhi incavati dalle palpebre pesanti con un iride talmente scura da confondersi con la pupilla.
Il suo era uno sguardo stranamente affilato e pesante da sopportare; se la sua bocca spesso sorrideva, i suoi occhi non smettevano mai di squadrarti freddi e senza pietà.
“E’ un piacere signor Sintas” rispose la donna, passando poi all’ospite.
Un Thalmor.
Un Altmer vestito completamente con la classica divisa del suo partito, quel mantello nero con i bordi dorati e il cappuccio abbassato.
Il suo volto, a differenza di quello di Sintas, non lasciava trasparire nessuna gioia, neanche finta, e suoi sorrisi erano maliziosi, apparivano quasi sadici.
Atmah non avrebbe dubitato del fatto che in passato fosse stato un inquisitore, un torturatore.
Il mer la guardò con i suoi occhi pallidi, dello stesso colore della sua pelle, e prese senza dire niente il bicchiere.
“Puoi andare ora” la congedò Sintas, mentre i suoi occhi erano più eloquenti della sua lingua.
La Redguard si ritrasse nell’anticamera e, appiattitasi contro il muro opposto, si mise a guardare ed ascoltare.
“Sì, certo” disse l’altmer “ma c’è una cosa che non ho ancora capito” e bevve un po’ di vino.
“Perché indirizzare Bantos verso i maghi guerrieri?” chiese infine.
Sintas ridacchiò, quella volta i gusto e, dopo aver sorseggiato il Tamika, rispose: “Semplice, mi credi forse un traditore? Mede si era fatto troppo insistente, troppo sospetto, troppo in breve. E quando ho scoperto le sue vere intenzioni ho capito che era meglio fare buon viso a cattivo gioco. Mettere lentamente e in sicurezza Bantos sulla buona via e poi sperare che fosse abbastanza furbo da riuscire a scoprire il tutto.
“Io ne sarei poi uscito incolume, con le dovute sollecitazioni e donazioni qua e là. Ma Maudelaire si era fatto più insistente, sapeva che lui sapeva. Mi invitava ad agire, insisteva… a dare il colpo di grazia è stata quella dannata lettera… il resto è storia”
Il Thalmor sembrò soddisfatto della risposta e si concesse un sorrisetto molto eloquente mentre finiva il Tamika.
“Ed ora permettimi di soddisfare una mia curiosità…” suggerì Sintas.
“Vediamo se potrò farlo” acconsentì l’Altmer.
“Perché ucciderlo?” domandò schiettamente Sintas “credevo agisse anche nei tuoi interessi”
Quella volta fu il turno del mer a ridacchiare.
“Io ho agito nei miei interessi” rispose quello “Mi dovevo accordare con il tipo del magazzino per un trasporto ma lui aveva, diciamo… un certo astio verso Bantos? E così gli concessi la vendetta agendo nei miei interessi. E i miei, di piani, stanno funzionando”
“Oh, ma anche i miei, Lewie, mi creda” assicurò l’Imperiale, sorridendo “e quindi, possiamo dire che è in buoni rapporti con questo… Vossan, al porto”
“Si, potremmo…” convenne il Thalmor, senza il tono spavaldo di prima, gli occhi come due fessure.
“Ad una salda amicizia, allora” propose Sintas alzando il calice e annuendo in direzione della Redguard.
Atmah tornò in corridoio e lo attraversò celermente.
Dopo di ciò, uscì dagli appartamenti di Sintas dirigendosi verso la Torre Oro Bianco, continuando a voltarsi indietro guardando  se qualcuno la stesse seguendo.
 
 
 
Arrivata nella stanza si sedette ed attese, riempendo due coppe con Brandy Cyrodillico.
Dopo circa dieci minuti, un uomo alto, abbronzato, e stempiato entrò nella stanza.
“Salve, Monarca Thules” lo accolse Atmah alzandosi.
L’uomo che governava l’Impero, un Nibenese che era noto per essere stato un potente mago guerriero, si sedette sul divano al centro della stanza.
“Dunque?” chiese con impazienza dopo aver accettato la coppa di brandy “Hai assistito al colloquio tra Sintas e Lewie?”
Vedendo la Redguard annuire, l’uomo si concesse una silenziosa esultanza prima di baciare Atmah .
“Oh, ti adoro, Saadia…”
“Atmah” disse scocciata la donna.
“Sì, certo. Atmah” il Nibenese lasciò risuonare per un attimo quel nome per poi tornare alla carica “di cosa hanno parlato? Cos’hanno detto? Dimmi tutto, tutto, Atmah!”
“Parlavano della morte di un certo Bantos”  rispose secca Atmah “l’elfo si è messo d’accordo con un Redguard di nome Vossan, il titolare del magazzino al porto e l’ha ucciso. Ora sembrano essere in buona confidenza”
“Ah” annuì soddisfatto Thules “lo stramaledetto elfo deve averlo irretito, deve essere una sua creatura ora… ebbene non nel mio Impero, no, proprio no. Lo sostituirò! Ah! Non ci saranno suoi uomini al porto. Ma miei!” emise un gridolino di scherno “e Sintas? non ha detto niente?”
“No” rispose annoiata Atmah “è stato zitto e ha ascoltato tutto il tempo”
“Oh, fa niente piccola” la rassicurò Thules accarezzandole la guancia “Un giorno avrò anche lui in pugno!”
“Ma ora” disse infine il Nibenese alzando la coppa “brindiamo! Alla mia migliore spia! Alla mia donna preferita!”
La Redguard si concesse un sorriso per il successo della missione.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


I due uomini avanzavano per il corridoio, dritti, splendenti nelle loro armature.
Quello davanti indossava la corazza da Generale della Legione Imperiale, formata da un metallo bianco splendente con finiture dorate; era un uomo vecchio, con diverse rughe che gli solcavano il volto.
Eppure non dava segni di debolezza, marciava con passo fiero, l’elmo sotto il braccio, per nulla rallentato dalla pesante armatura.
Quello dietro, invece, era rivestito di una comune corazza in ferro battuto senza elmo, e camminava tenendo in mano un registro, gli occhi che saettavano da tutte le parti ammirando i graziosi decori del Palazzo Imperiale.
Al termine del corridoio, i due salirono una rampa di scale illuminata da una lanterna posta sul soffitto e, una volta arrivati in cima, continuarono la marcia in un altro corridoio, dove si affiancò loro un altro soldato.
“Generale Gratiatus” salutò quello, un Imperiale pelato,  grasso e tozzo che a malapena riusciva ad entrare nella propria armatura da generale.
“Generale Sintav” disse  l’altro “ha saputo niente di nuovo?”
“No” rispose il primo con voce sconsolata “Temo dovremo attendere il rapporto degli uomini di Maudelaire”
“Ah!” sbottò Gratiatus “come al solito dovremo tutti pendere dalle labbra di quel verme!”
“E non è tutto” continuò Sintav “E’ confermata la presenza di Thules”
“’Thules il farneticante’ viene a farci visita?” esclamò il vecchio comandante “Davvero magnifico!”
I tre uomini procedettero per il corridoio fino ad un’altra rampa di scale che conduceva ad una spaziosa stanza elegantemente arredata che comunicava con una sala circolare con al centro un tavolo della stessa forma.
Ignatius seguì i due generali all’interno e aspettò che prendessero posto prima di mettersi dietro a Gratiatus, quale suo attendente personale.
Oltre a loro vi erano altri quattro generali: un Nord biondo corpulento che stava tracannando un boccale d’idromele, un Redguard pelato con la mascella  sporgente che guardava tutti con aria annoiata, un Imperiale dai lunghi capelli neri che leggeva una pergamena e un bretone.
Un gigantesco bretone dai capelli color sabbia, alto e robusto.
“Generali” salutò quest’ultimo.
“Maudelaire” rispose secco Gratiatus.
“Hai dunque informazioni importanti da riferirci?” chiese dopo un lungo silenzio imbarazzato Sintav.
“Oh, sì. E parecchie” annuì il bretone ridendo “ma le riferirò quando il Monarca Thules ci degnerà della sua presenza”
Quella risposta parve soddisfare i generali che, posati gli elmi sul tavolo, si riempirono una coppa di brandy.
Un attendente alto e minuto vestito con un elegante farsetto nero entrò nella stanza portando con sé una grossa pergamena arrotolata.
Una volta aperta al centro del tavolo, quella si rivelò essere una mappa di Cyrodiil che segnava ogni città, insediamento o forte di rilevanza strategica nella Provincia Imperiale.
Dopo un quarto d’ora un alto uomo vestito con una lunga veste azzurra, ricamata con fili d’oro, e piccole gemme in prossimità delle cuciture.
Tutti gli ufficiali presenti nella stanza si alzarono i segno di rispetto.
“Monarca” dissero questi in contemporanea “è un onore averla qui con noi”
“Sì, sì” rispose spazientito Thules facendo cenno agli altri uomini di sedersi mentre lentamente si dirigeva verso il suo posto, nella sedia opposta all’ingresso della sala.
 Una volta che il Monarca ebbe preso posto, sospirò con aria avvilita guardando i presenti serio in volto.
“Miei generali” si rivolse loro “in questo momento, la stabilità dell’Impero è in crisi a causa del tradimento perpetrato dai conti di Bravil e Leaywiin con la dichiarazione d’Indipendenza dall’autorità del Potentato. “Ebbene,  generale Gratiatus, ha ottenuto nuove informazioni?”
“No” rispose secco Gratiatus guardando torvo Thules “I miei scout non sono riusciti a scorgere niente di nuovo da Bravil, e i pochi membri della Legione ancora fedeli all’Impero stanno fuggendo dalla zona del Diarcato”
“Mi ha deluso, generale” dichiarò il monarca contrariato “E, se ci tiene al suo posto nel Consiglio del Gabinetto di Guerra, farebbe meglio a rivolgersi a me con maggior rispetto”
Suppongo che dovremo affidarci a Maudelaire, dunque” aggiunse poi, guardando il Bretone.
“Suppone bene, monarca” dichiarò quest’ultimo alzandosi.
“Innanzitutto, pare che il conte Marius Caro, e con lui il battaglione di uomini che l’ha seguito a Bravil, sta per lasciare la città per tornare a Leyawiin”
“Dunque devono aver già sviluppato una strategia di guerra verso l’Impero” osservò Sintav prima di bere dalla coppa.
“E, soprattutto, a Leyawiin il figlio sedicenne di Caro ha iniziato delle contrattazioni con mercanti i Valenwood e Black Marsh per acquistare ingenti quantità di legname” aggiunse Maudelaire serio in volto.
“Vogliono costruire una flotta” disse il terzo ufficiale Imperiale.
“Questo dev’essere assolutamente impedito” dichiarò il Redguard, che esibiva nella corazza pettorale delle piastrine da ammiraglio “La nostra flotta nel Niben è inadatta per sostenere delle battaglie navali. Vi sono le navi appena sufficienti per trasportare una legione”
“E come potremmo mai impedire la vendita?” si aggiunse il Nord “le trattative sono in corso con mercanti del Regno di Argonia e del Dominio Aldmeri, due nazioni che sarebbe maglio non far partecipare a questa guerra. No, vi dico io cosa bisogna fare. Datemi due legioni e marcerò lunga la Strada Verde e vi prenderò sia Bravil che Leyawiin. Vedrete che si pisceranno addosso sulle mura vedendomi arrivare e apriranno le porte subito!”
“La smetta di dire scempiaggini!” lo rimproverò Thules “qualcuno ha un’idea un po’ più brillante?”
Nella sala calò il silenzio per qualche secondo.
“Li impossibilitiamo economicamente” suggerì infine Gratiatus.
Il monarca lo guardò confuso.
“La loro strategia è chiaramente quella di puntare ad una guerra veloce impadronendosi in fretta della capitale” spiegò l’Imperiale “e questo come sapete, non è per limitare le perdite, ma per evitare di rimanere a secco.
“Le scorte auree di Bravil e Leyawiin sono assai limitate; questo in base al vostro decreto e anche per la pessima gestione delle contee. Ma questo, una volta presa la Città Imperiale, non è più un problema, anzi. Loro rimarrebbero con le riserve auree dell’intero Impero mentre le altre contee rimaste fedeli avrebbero fondi limitati, troppo esigui per permettersi un contrattacco, mentre loro potrebbero assoldare interi eserciti di mercenari”
Il monarca annuì. Cominciava a capire cosa sarebbe seguito.
“Perciò l’unica cosa da fare è accelerare il processo di impoverimento delle casse delle due contee. Battiamo moneta, aumentiamo l’inflazione. In questo modo ogni costo si gonfierà ma noi saremo in grado di sostenerlo, mentre Bravil e Leyawiin no. I prezzi per il legname diventeranno troppo alti e i ribelli dovranno rinunciare alla costruzione della flotta per poi entrare in crisi per comprare pane, armi, uomini.
Le loro tasse si alzeranno, il malcontento pure. E magari i ritroveranno a dover affrontare anche rivolte interne”
Tutti nella sala approvarono la proposta e l’addetto la segnò al verbale.
“Molto bene” dichiarò Maudelaire “E ora un’ultima questione. Nella giornata di ieri la contessa Arianna Valga di Chorrol ha scritto una lettera a sua figlia, che come tutti sapete è la sposa di Marius Caro e quindi la contessa di Leyawiin. In più, Titus mede ha raccolto un esercito nei pressi di Kvatch che comprende la forza di tutte le città della Colovia come Anvil, Chorrol, ovviamente Kvatch e Forte Sutch, da poco assegnato dal Monarca Thules a Lazare Milvan. A quest’esercito si uniranno presto le truppe di Elsweyr, che hanno nominato Capo dell’Armata il re di Rimmen J’Rakka e, una volta che quest’esercito si sarà mosso, accoglierà anche le truppe di Skingrad. Questo potrebbe voler dire che Titus Mede vuole schiacciare la rivolta, come potrebbe voler dire che vuole appoggiarla per ottenere l’indipendenza della Colovia e, magari, di Elsweyr. Questo spiegherebbe la lettera di Valga alla figlia: una proposta di alleanza”
Dopo il giubilo che aveva seguito la soluzione al problema precedente, un cupo silenzio si fece di nuovo largo tra i presenti.
Quella volta fu il monarca a trovare una soluzione.
“Allora dovremo stimolarlo a fare la scelta giusta” disse con voce imperiosa “gli scriveremo una lettera promettendogli, in caso di aiuto nel sopprimere la ribellione, il titolo di Conte di Kvatch. Gli piacerà molto questo, ne sono sicuro. Ma, nel caso la sua ambizione sia ancora maggiore, dovremo porgli un freno. Ordinate a Re Waylas di Hammerfell di radunare un esercito che comprenda la forza di Hammerfell, High Rock e Orsinium e di posizionarlo al confine con Cyrodiil. Con un tale esercito a poca distanza, Mede si renderà presto conto che non gli è concesso scherzare con il Potentato”
Maudelaire si sedette dove aver annunciato di aver concluso.
“Molto bene” convenne Thules “ed ora passiamo alla nostra strategia d’attacco”
“Come ho già detto” intervenne il Redguard “la nostra flotta nel Niben può trasportare un’intera legione senza problemi. Questa legione, speriamo insieme all’esercito di Titus Mede, dovrebbe essere più che sufficiente per prendere Bravil e quindi aprire la strada per tutto il Niben fino a Leyawiin. Ma chi comanderà questa forza?”
“Penso di conoscere la persona giusta” rispose prontamente Maudelaire con voce tonante “Un Legato capace e ambizioso al punto giusto da permetterci una vittoria sicura. Aurelius Scavatus“
“Non mi fido dei tuoi uomini, Maudelaire” lo interruppe Gratiatus con voce colma di disprezzo “quindi permettimi di affiancare a questo… Scavatus il mio attendente, qui presente come secondo in comando: Ignatius Scitio” e indicò la persona in piedi dietro di sé.
“Ma che diavolo?” pensò Ignatius preoccupato “No, ti prego, generale, no…” e guardò il monarca Thules.
Quello ricambiò lo sguardo e, notando l’espressione preoccupata di Scitio, sorrise.
“Come osa?” sbraitò Maudelaire alzandosi.
“Generali, generali. Calmatevi, ve lo ordino” disse infine Thules, divertito dalla scena “se ci tiene così tanto, generale Gratiatus” aggiunse poi “il suo attendente sarà il secondo in comando di Scavatus. Gli ordini per la legione sono di prendere Bravil. A qualsiasi costo. Le modalità saranno a discrezione di Scavatus”
Tutti i presenti convennero mormorando assensi.
“Bene, il consiglio è sciolto” concluse Thules alzandosi “la legione partirà domani mattina. Buona giornata, miei generali”
“A lei, monarca” salutarono un’altra volta in coro i generali.
Gratiatus uscì dalla stanza in fretta seguito da Ignatius.
“Perché mi ha proposto, generale?” chiese una volta che l’ebbe raggiunto.
“Non sono stato abbastanza chiaro?” domandò il generale, non scomponendosi.
“Sì ma, come lei sa, io non ho mai combattuto, sono solo un attendente. Non sono un soldato!” disse in tono disperato l’attendente.
“Beh, figliolo, quella è una scusa che d’ora in avanti non potrai più utilizzare” ridacchiò il vecchio soldato.
Notando la faccia di Ignatius, si rabbuiò.
“Dubiti forse del mio giudizio?” sbottò in tono burbero.
“No, no. Assolutamente!” si ritrovò a strillare l’attendente.
“E’ un bene” convenne Gratiatus, poi alzando un dito ordinò con voce imperiosa: “Perché tu sarai su una di quelle navi domani mattina o ti pentirai del giorno in cui hai deciso di diventare il mio attendente, sono stato chiaro?”
“Sì, signore” si arrese Ignatius, sinceramente preoccupato di cosa il generale avrebbe potuto fargli.
Rabbrividì al solo pensiero e continuò a camminare.
 
 
 
Ignatius non era mai stato in guerra.
Non aveva mai visto una guerra.
E vedere un’intera legione schierata al porto che si imbarcava sulle navi della Flotta Imperiale del Niben fu per lui una vista grandiosa.
Un migliaio di soldati, tutti con l’armatura in ferro grigio della legione e l’elmo con il pennacchio nero, tutti armati con la spada in argento in dotazione e l’arco in legno schierati in formazioni compatte.
Davanti alle file marciava un’imponente figura con l’armatura standard per un legionario senza l’elmo.
I suoi erano lineamenti duri: l’alta fronte si posava sopra degli occhi marroni che emanavano perennemente un’aura di odio e freddezza, la bocca era costantemente piegata in una smorfia e la mascella che pareva d‘acciaio sporgeva notevolmente.
L’uomo era pelato, lungo i lati del viso scendevano due lunghi basettoni neri che si univano ai baffi senza coprire il mento.
La sua voce era aspra e raschiante.
“Soldati dell’Impero” urlò con voce decisa “sono il Legato Aurelius Scavatus, comandante in capo di questa spedizione contro la ribelle città di Bravil.
“Durante questo viaggio voi risponderete a me e agli uomini che io incaricherò di comandarvi. Io vi ho avvertito, se c’è una cosa che non tollero, legionari, è la disobbedienza. Chi si rifiuterà di eseguire un mio ordine si aspetti la morte. Non ci saranno ripensamenti: per me o per voi.
“Ed ora andiamo a prendere questa città!”
Un boato travolse il porto, mentre l’intera legione urlava sbattendo il suo braccio contro lo scudo.
Ignatius era ancora più preoccupato.
Non era fatto per quel genere di cose.
“Molto bene, legionari” sebbene Scavatus sembrava soddisfatto, nulla era cambiato nei suoi lineamenti d’acciaio o nella su voce “Avete forza in corpo. Sarà meglio per voi avercela anche sotto le mura di Bravil, sotto i dardi dei nemici, di fianco ai cadaveri dei vostri compagni massacrati perché, a differenza di quanto alcuni idioti tra voi credono, la guerra è quello. No c’è gloria, non c’è onore.
“Ma la vittoria. Quella sarà la vostra unica vera dea”
I legionari stettero in silenzio.
“Ed ora salite sulle navi! Si parte per Bravil!” gridò sguainando la spada d’argento e issandola in alto.
Il metallo che emanava luce sotto il sole.
“Tu devi essere Scitio” disse infine avvicinandosi ad Igniatius, mentre tutto intorno a loro i soldati si gettavano verso le imbarcazioni.
“Sì, signore” rispose con la voce più sicura che riuscisse a fare l’altro.
“Cerca di non intrometterti troppo” ribatté secco Scavatus “o ti farò impiccare e avrò la tua testa per insubordinazione, sono stato chiaro?”
“Sì, signore” rispose pietrificato Ignatius.
“Magnifico” disse con tono ironico il Legato “ed ora Sali, o partiremo senza di te”
 
 
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e di non aver fatto alcuna pestata in ambito economico/ finanziario. Al prossimo capitolo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Le possenti mura del castello circondavano il battaglione silenziose.
I cavalli nitrivano e scalciavano, le armi stridevano quando strusciavano tra loro e contro le armature.
Tutto intorno, silenzio.
La città era ancora addormentata mentre il sole spuntava dall’orizzonte dando le prime luci del giorno mentre le ombre si estendevano lunghe per terra.
S’virr percorse velocemente il cortile, diretto al suo cavallo, un esemplare calmo ma imponente, di colore chiaro, proprio come il suo padrone.
“Ecco il tuo cavallo, gatto” sbottò il maniscalco, un uomo basso e tozzo, con la faccia butterata che digrignava osservando il Khajiit con tutto il suo disprezzo riusciva a dimostrare.
“Un gatto nella cavalleria di Leyawiin” continuò a berciare quello sputando per terra “dove andremo a finire?”
S’virr salì sulla sella, noncurante.
“Non ascoltarlo” si disse “agli uomini piace insultare gli altri, specialmente se Khajiit. Così non devono pensare al loro stato. Ma sai cos’è che piace di più agli uomini di insultare un Khajiit? Un Khajiit che si ribella”
Il cavallo avanzò per le fila e, posizionatosi davanti al varco del castello, si mise ad attendere.
Dall’alta parte del cortile le porte della Sala Grande si spalancarono.
Il conte Marius Caro marciava verso il suo destriero bianco.
L’armatura del conte fluiva silenziosamente con i suoi movimenti.
Al centro della placca pettorale, lo stemma di Leyawiin, un cavallo rampante bianco coi contorni gialli in campo verde, minuziosamente ricamata con filigrana dorata e ornata ai bordi da piccoli smeraldi, splendeva attirando l’occhio.
Alle spalle, due teste di cavallo dorate ornavano i fermagli su cui si appoggiava il pesante mantello bianco con lo stemma della contea.
A coronare il tutto, l’elmo che lasciava intravedere il viso, bianco e oro nei finimenti era sormontato da un piccolo cavallo dorato rampante.
L’armatura, regalo di nozze da parte della suocera Arianna Valga, contessa di Chorrol, era una delle più belle di Cyrodiil, se non di Tamriel e non era mai stata usata fino a quel momento se non per qualche cerimoni o premiazione.
Quell’armatura leggendaria avrebbe avuto,  a breve, il suo battesimo di sangue.
Raggiunto il cavallo, il conte Caro montò in sella e, con una brusco colpo di redini, fece partire il destriero lungo la stretta passerella in legno che collegava la città al castello.
Dopo il conte S’virr e gli altri cavalieri partirono al trotto, seguiti dalla fanteria.
Superato il ponte, il conte di Leyawiin volle fare un breve giro per le strade di Bravil, prima di lasciare la città.
I cittadini, svegliati dal trambusto dell’esercito, cominciarono ad affacciarsi alle strette finestre delle baracche in legno o ad uscire per le sporche strade in terra battuta.
I cavalieri di Leyawiin continuavano ad avanzare, seguendo il conte nella sua splendente armatura raccogliendo gli sguardi stupiti e ammirati di alcune persone, o quelli carichi d’odio di altre.
Il conte sorrideva.
“Sta avendo lo spettacolo che desiderava da giorni” pensò S’virr “Agli uomini piace mettersi in mostra ed esibirsi. Li fa sentire potenti, non importa quanto fragile sia l’incantesimo. Loro vogliono crederci”
Tsavi conosceva proprio bene quella strana razza che erano gli uomini, del resto aveva lavorato affianco a loro per anni e anni.
Tsavi.
Pensare a lei fece apparire un sorriso sul volto di S’virr. Presto l’avrebbe abbracciata di nuovo, presto avrebbe potuto passare con lei il tempo piuttosto che con gli ingrati umani.
Presto sarebbe tornato a casa.
Il corteo passò attraverso una piazza su cui si affacciava la Cappella di Mara, con lo snello campanile che si stagliava per decine di metri in altezza.
Al centro della piazza vi era una statua singolare che raffigurava una donna sopra un elaborato piedistallo.
Al termine della processione il conte soddisfatto fece uscire l’esercito dalla città attraverso i cancelli principali.
Presero la Via Verde, che dirigeva verso sud, verso Leyawiin, e seguiva la riva ovest del fiume Niben.
Dopo qualche minuto, Caro fece segno a S’virr di raggiungerlo.
Il Khajiit spronò il cavallo che, con qualche colpo di zoccoli sul terreno fangoso, arrivò all’altezza del destriero del conte.
“Mio caro S’virr” lo salutò Marius “ci siamo: siamo in guerra”
“Ne è felice?” chiese sorpreso il Khajiit, per poi ricoradrsi subito.
“Agli uomini piace andare in guerra, per loro è come fare un bagno in quella linfa che ritengono vitale: la gloria” la voce risuonava nella sua testa.
Tsavi conosceva troppo bene gli umani.
“Non dovrei esserlo?” rispose Caro “S’virr, questo non è un massacro, non è una battaglia, ma qualcosa di più semplice: giustizia”
Il Khajiit non controbatté.
“Vedi, noi adesso stiamo andando ad uccidere dei traditori: dei disertori, dei briganti”
“Come? Che cosa hanno fatto per meritarsi un attacco di cavalleria?” domandò ancor più sorpreso S’virr.
“Sono i responsabili dei recenti naufragi nel Niben” spiegò l’Imperiale “degli attacchi alla nostra sovranità, alla nostra sopravvivenza. E l’Impero non punirà quei banditi che si fregiano del titolo di Maghi Guerrieri Imperiali. Per questo noi non apparteniamo più all’Impero, ma al Diarcato del Niben”
Il Khajiit non era sicuro di capire, ma non volle continuare a parlare di quell’argomento.
“Vedrai, giustizia sarà fatta: da noi!” esclamò esultante Maro portando il pugno al petto, per sottolineare l’ultima affermazione “e saremo accolti a Leyawiin con feste e banchetti!”
“Dalla contessa?” chiese S’virr ironico.
Il conte rise di gusto piegando indietro la testa.
“Ah! Sì, mio caro S’virr. Dalla mia amata moglie… ecco, forse tu non tanto” disse infine trattenendo a stento le risate.
“A stento sopporta il fatto che vi sia un Khajiit nella cavalleria” osservò il soldato.
“Sì, va bene” concesse Caro “sappiamo tutti e due del grande amore della contessa mia moglie per la tua razza e quella degli argoniani. Ma si tratta sempre di mia moglie. Io la amo e questo discorso finisce qui”
“Dunque, stiamo andando contro un gruppo i maghi guerrieri” disse S’virr.
“Esatto, perché?” chiese il conte.
“S’virr pensava che forse Tsavi ci sarebbe stata utile” osservò il Khajiit.
“Già, la maga di corte poteva rappresentare un vantaggio contro degli utilizzatori della magia” concordò Maro, per poi tornare a ridere “ma sarebbe stata un’altra Khajiit da festeggiare e per mia moglie sarebbe davvero troppo! Piuttosto si darebbe all’Impero!”
“Crede che noi possiamo farcela?” chiese improvvisamente cupo S’virr.
“Certamente” assicurò il conte “mio figlio sta concordando con dei mercanti di Black Marsh e Valenwood del legname per una flotta e, dopo esserci occupati di questo problema interno dei maghi guerrieri, attaccheremo la capitale, solleveremo il vessillo del Diarcato sulla Torre Oro Bianco, parola mia”
“Vostro figlio ha soltanto sedici anni” obbiettò S’virr.
“È abbastanza uomo per occuparsene” rispose secco il conte “e, forse, potrà anche comandare una nave durante le battaglie a venire”
“Sarà un massacro” continuò il Khajiit.
Il conte rise di nuovo.
“Ah, mio caro S’virr, è per questo che mi piaci: sai dire le cose schiettamente e sei un guerriero formidabile” rispose infine “ma è la guerra, del resto. La guerra è come una corsa, solo che alcuni partecipanti non arrivano al traguardo”
E rise di nuovo.
La colonna continuò a marciare in silenzio, mentre S’virr continuava a pensare alle parole del conte.
“Ci arriveremo al traguardo?”
 
 
 
  
 “Sono… sono tutti appostati lì… nella… nella radura” l’esploratore ansimava mentre parlava.
“Fermo, fermo” gli disse S’virr “prendi fiato e poi parla”
La collina sulla quale si erano appostati si discostava di poco dalla Strada Verde e, dal crinale su ci si trovavano, pendeva ripidamente andando ad insinuarsi nella fitta foresta, più in là si apriva una radura nella quale ardevano dei fuochi.
L’esploratore fece quanto gli aveva detto e poi parlò: “Non si sono divisi o distaccati e tutti gli uomini sono appostati nella radura”
“Quanti sono in tutto?” chiese imperioso Caro, il cavallo bianco che scalpitava e sbuffava.
“Hmm” l’esploratore rifletté un momento “Una ventina circa, non posso essere più preciso. Dovevamo stare abbastanza lontani per essere al di fuori dei loro incantesimi Individua Vita”
“Bene” convenne il conte “dovremmo essere in grado di distruggerli senza difficoltà”
L’esploratore si congedò mentre i cavalieri fissavano davanti a loro.
La radura era circondata da tre i lati dalla foresta e il quarto da un’altura rocciosa.
Il campo con i fuochi risaltava in quella notte buia; neppure Secunda splendeva quella notte in cielo, e questo a S’virr non piaceva.
“Hai qualche piano?” chiese Maro fissandolo intensamente.
“È possibile” rispose il Khajit pensieroso “Ma gli uomini dovranno essere molto silenziosi. Si può contare su questo fattore?”
“Direi di sì” disse il conte, dubbioso “che cos’hai in mente?”
“I due reparti di fanteria potrebbero prenderli ai lati” rispose S’virr “Quelli non vogliono ingaggiare combattimento; penseranno a scappare”
“E lo faranno lungo questa collina” lo interruppe Caro.
“Esatto” concesse il Khajiit “ai lati della formazione, gli arcieri li inonderanno di frecce. Loro proseguiranno, solo per andare incontro ad una carica di cavalleria”
“Le loro formazioni saranno spezzate” osservò raggiante , con gli occhi spalancati il conte, sorridendo “saranno separati, soli, circondati. Perfetto, agiremo così, solo voglio lasciare un manipolo di fanteria qui sul crinale nel caso alcuni maghi guerrieri sopravvivano alla carica, non voglio che qualcuno riesca a fuggire”
Gli altri cavalieri assentirono e vennero chiamati tre tenenti che avrebbero comandato le tre divisioni di fanteria.
Mentre Caro illustrava la tattica per l’assalto agli ufficiali, S’virr galoppò lungo il crinale per dare istruzioni agli altri cavalieri circa la formazione d’attacco.
Gli uomini risposero con grugniti e saettate d’odio verso il Khajiit che osava dare loro ordini, ma obbedirono.
“Gli uomini sono orgogliosi. Non si piegheranno facilmente, o comunque di buon grado, davanti ad un Khajiit. Ma si faranno massacrare per uno che appartenga alla loro razza; sarà anche stupido, ma loro lo seguiranno”
Troppo bene.
“Presto sarò con te” pensò di nuovo il Khajiit, per poi tornare al fianco del suo conte.
Stettero sul crinale, immobili e silenziosi come il predatore pronto al balzo, dovevano solo aspettare che la preda uscisse dalla tana.
I due reparti di fanteria scesero rapidamente la collina, portandosi sempre di più ai lati, attraversando i boschi che circondavano la radura.
Dopo qualche minuto, un urlo fu lanciato, i corni suonarono nella piana, gli ordini volarono veloci.
Nella silenziosa piana calò il caos.
I fanti si lanciarono ai lati dell’accampamento sventolando le armi al cielo e gridando: “Leyawiin! Il conte Maro!” alcuni persino “Per l’Impero!”
Le fiamme saettarono nella radura raggiungendo gli alberi, che si accesero.
Tutto lo scenario si rischiarò mentre l’incendio si espandeva, si riuscivano a distinguere i soldati e i maghi guerrieri, che evocavano daedra minori, alcuni persino dremora.
Un’esplosione riaccese l’ambiente e alcuni uomini del Diarcato volarono indietro; alcuni atterrarono a terra, altri contro gli alberi rompendosi l’osso del collo.
Sul lato sinistro i fanti indietreggiarono e i maghi, per aumentare l’efficacia del contrattacco si mossero i gran parte su quel lato.
Il reparto destro, approfittando dello spazio concesso, si lanciarono all’assalto più violenti di prima, invitando i loro compagni a fare  lo stesso.
I fanti risposero e un manipolo di uomini si lanciò contro i maghi in massa, mulinando asce e mozzando arti e teste nel frattempo.
Schiacciati dai due schieramenti, una decina di maghi cominciò ad inerpicarsi sulla collina, faticando per la ripidità della salita.
Il conte diede l’ordine, i corni suonarono di nuovo, gli arcieri lanciarono i loro dardi che fischiavano tra le urla straziate degli uomini.
La cavalleria si mosse seguendo i vessilli del conte in un’incredibile sinfonia di nitriti, urla di guerra, armi che stridevano tra di loro.
L’orchestra avanzò lungo la discesa, i cavalieri che mulinavano le asce mentre nei loro occhi spalancati trasmettevano la loro voglia di sangue che usciva anche dalla loro bocca sotto forma di gridi di battaglia.
Sotto il ritmico incessare dei cavalli andarono incontro ai maghi guerrieri, di cui alcuni, di fronte a quella orribile immagine, cominciarono persino a piangere, ad invocare gli dei, a correre loro incontro chiedendo il perdono del conte mentre si rivolgevano ai divini.
Vennero tutti travolti dalla carica, le ossa che scricchiolavano mentre alcuni corpi addirittura volavano, di fronte all’impatto con la cavalleria, i loro volti ancora segnati dalle lacrime.
Uno sparuto   gruppo di maghi decise di resistere e a lanciare palle di fuoco contro gli attaccanti.
Il cavallo si S’virr, colpito da un dardo incendiario, si incurvò di lato, le gambe piegate mentre  con un nitrito esprimeva tutto il suo dolore.
Il Khajiit, intento a spegnere il fuoco che avvampava sul suo braccio destro, venne sbalzato in avanti, al termine della collina.
Il corpo atterrò bruscamente nella radura, con il bracciò che scrocchiò, rompendosi.
S’virr urlò di dolore, ma subito si rialzò prendendo la sua spada, caduta poco più avanti.
Un mago si avventò su di lui, con una spada evocata.
Il Khajiit parò facilmente i colpi dell’avversario, gemendo ad ogni botta per il dolore.
Una volta aperto uno spiraglio con una carica di fendenti, S’virr, mozzò di netto la testa dell’avversario.
Si guardò intorno.
La cavalleria, che aveva finito la carica si stava girando per compierne una nuova, quando si fermò ad un grido.
“Ci arrendiamo!” vociò un uomo sulla cinquantina, che aveva evocato uno scudo.
Accanto a lui era steso un uomo, il terreno sotto di lui era coperto di sangue.
“Qual è il tuo nome?” chiese il conte.
“Albert Nelles, comandante di questo reparto di maghi guerrieri” rispose orgoglioso il bretone “ho solo due condizioni per la resa: curate questo mio uomo e poi lasciatelo andare. Io… risponderò io per i crimini commessi dal mio reparto”
“Soldati, arrestate quel Nelles” ordinò il conte.
L’uomo venne preso e ammanettato con delle manette incantate in modo da silenziare il mago: non poteva usare incantesimi con quelle addosso, gentile regalo del mago di corte di Bravil.
“Quanto a quell’uomo…” aggiunse infine Caro “uccidetelo, non vi è niente che possiamo per un fuorilegge traditore”
Tra le urla e i calci di Nelles, un soldato si fece avanti e, con la sua ascia, decapitò il ferito.
“Che gli dei mi siano testimoni!” urlò il bretone inveendo contro il conte “un giorno, tu pagherai per quello che hai fatto oggi, Caro, mi hai sentito? Te lo prometto!”

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Leyawiin era ormai in vista.
Si vedevano le i bastioni della cinta muraria che emergevano dal verde della Foresta Nera.
La colonna procedeva silenziosa immersa nello scrosciare della pioggia che picchiettava sorda sugli elmi e sulla strada o cadeva silenziosa sull’erba, o si congiungeva rumorosamente con le acque del Niben.
La sella cominciava ad essere scomoda e S’virr continuava ad aggiustare la sua posizione e a massaggiarsi le cosce doloranti mentre con la testa guardava dritto avanti a sé. 
“Tsavi”, il suo unico pensiero.
“Sto arrivando”
“Pane” sussurrò Nelles, al suo fianco, legato e caricato sul cavallo di un caduto.
Non aveva ancora parlato da quando aveva giurato vendetta contro Caro: se aveva sete, alzava la tesa e apriva la bocca, o succhiava l’umidità dalle foglie e se doveva liberarsi, strisciava sulla riva del fiume e faceva quello che doveva fare, mentre una guardia lo sorvegliava perché non si buttasse in acqua.
Ma lui non si era buttato. Doveva vivere per la sua vendetta.
Riguardo alla fame… aveva resistito due giorni, ma poi aveva ceduto.
Un cavaliere si girò e o guardò divertito, mentre S’virr non si mosse.
“Ancora poco e sarò tornato”
Sentiva lo sguardo carico d’odio di Nelles su di lui, gli occhi erano folgoranti.
Non voleva ripeterlo. Non voleva prolungare la sua umiliazione.
Il comandante dei maghi guerrieri chinò il capo, per poi rialzarlo.
“Pane” disse di nuovo “Ho fame”
Scocciato, il Khajiit volse lo sguardo sul prigioniero, poi prese dalla borsa appesa al fianco del cavallo un pezzo di pane e glielo tirò, poi tornò a fissare innanzi a sé e accelerò il passo.
Nelles divorò il magro pasto poi tornò a guardare S’virr.
“Chi ti aspetta? Famiglia? Una donna?” chiese.
“I prigionieri dovrebbero rimanere zitti” replicò acido il Khajiit.
“Una donna” ridacchiò l’altro.
“Avevo anch’io una donna” disse poi “la amavo tantissimo, tanto che, quando mi arruolai nei maghi guerrieri, scelsi la pattuglia. Rinunciai alla gloria, ad una promettente carriera, ad una grassa paga per un servizio tranquillo, mal pagato. Per stare con lei!”  e scosse la testa.
Non vedendo una reazione nel suo carceriere continuò: “Io feci tutto quello per stare con lei e lei cosa faceva? Passava i tempi delle mie pattuglie con altri uomini! Io… io…” ricominciò a ridacchiare “Mi lasciò perché ‘ero una persona senza prospettive’! Oh, da quel momento io cambiai. Entrai nel reparto dei maghi guerrieri da battaglia, non rinunciai ad una missione. E feci strada, oh se la feci.
“Senza prospettive’. Era lei la mia prospettiva!
“Quello… quello che ho fatto… era la mia pensione, sa? Mia e dei miei uomini. Noi siamo uomini da macello per l’Impero, peggio della fanteria. Beh, quella ricchezza ce la eravamo guadagnata!”
“Ora appartiene al Diarcato del Niben” ripose freddo S’virr “e tu sei un tuo prigioniero, farai meglio a ricordartelo, ora mangia e taci, per gli dei!”
“Oh” sorrise lui “non ho insinuato niente sulla tua donna”
“Taci!” lo zittì il Khajiit, schiaffeggiandolo col guanto d’acciaio.
Nelles sputò un dente spargendo sangue sul terreno.
“Farò meglio a stare zitto” concluse goffamente.
Il portale di Leyawiin era in vista, i cavalieri percorsero al trotto la spianata antistante ai cancelli accolti dalle urla delle vedette sulle mura che si gridavano ordini.
I portali si aprirono mostrando le strade della città, ai cui lati si ergevano gli imponenti palazzi vivacemente colorati che si stagliavano sul cielo grigio.
La gente era tutta radunata all’ingresso della città per dare il glorioso benvenuto al conte vittorioso.
Con gli abiti fradici, alzavano le braccia al cielo ed esclamavano al passare del loro signore nella sua fulgida armatura.
La colonna sfilò tra le vie della città, fino ad arrivare al castello.
Una volta arrivati alla corte della fortezza, si fermarono e scese il silenzio.
Un fulmine lacerò il celo, mentre il suo rimbombo riecheggiò tra le mura.
Dal portale del castello emerse la sottile figura della contessa Alessia Caro, sorridente, accompagnata dal giovane figlio Lucien Caro.
Le trombe squillarono e il conte scese da cavallo.
“Bentornato, mio amatissimo signore” lo accolse la moglie, vestita con un lungo abito verde decorato con fantasie bianche ed oro.
“Sono tornato” rispose sorridendo Marius Caro e, girandosi verso il popolo annunciò “Sono tornato vittorioso. Ma questa gloria non è che un granello in confronto a quella del mio prossimo ritorno, alla conquista della Città Imperiale!”
Il boato delle urla riuscì a sovrastare i rumori della tempesta imminente.
Ridendo, il conte varcò la soglia del palazzo accompagnato a braccetto dalla contessa e seguito dall’erede e dalle urla di giubilo.
S’virr cominciò  salire i gradini, ma venne subito fermato da dei soldati.
Imprecando si volse verso di loro domandando quale fosse il problema.
“Calma, gatto” risero i suoi compagni “non rischi di perderti il banchetto, è tra due ore. Ma devi portare il prigioniero”
Nelles venne spinto verso il khajiit e i soldati si diressero ridendo alla torre del corpo di guardia.
“Beh, salve ancora” disse il bretone ironico “temo dovrai spettare ancora un po’”
S’virr non rispose e, prendendolo per un braccio, lo spinse dentro il castello.
Attraversarono la sala grande e, raggiunta la sala del trono, voltarono a destra verso uno stretto corridoio che conduceva alle segrete.
Queste erano a malapena illuminati dalle torce.
S’virr trascinò per il braccio il prigioniero per tutto il corridoio nella penombra fino al tavolo dell’annoiato carceriere.
“Bentornato, eroe!” esclamò sprezzante quello, una volta visto il Khajiit “Hai trovato un nuovo amichetto?”
“Mettilo al fresco e, per una buona volta, taci” replicò S’virr spingendo Nelles in avanti.
“Agli ordini, messer micio!” ridacchiò il carceriere.
“Vedo che l’ultimo ordine ti riesce molto difficile” sibilò il Khajiit.
“Non immagini quanto” rispose il carceriere prima di prendere il bretone per un braccio e condurlo alle celle.
“Finalmente!” esclamò S’virr, ringraziando gli dei.
Si diresse nella sala del trono e, da lì, ai sotterranei.
Si sedette ed aspettò.
E lei non tardò ad arrivare.
 “Tsavi!” esclamò il Khajiit andandole in contro.
“S’virr!” gli rispose lei.
I due innamorati si abbracciarono, avvolti dalle loro code che si dibattevano felpate fendendo l’aria.
“Sei tornato.
“È vero quello che dicono quindi? Siamo in guerra?”  domandò lei preoccupata.
S’virr annuì gravemente.
“Sarà uno sterminio” pensava.
“Abbiamo buone possibilità, devi avere fiducia del conte” diceva invece.
La donna lo guardò contrariata.
“Smettila di mentirmi” sussurrò, stretta nell’abbraccio “ma cosa è passato nella testa di Caro quando si è unito a questa faccenda?!”
“Non lo so” sospirò S’virr “non lo so”
“Tu sei molto vicino a lui, perché non gli hai parlato!?” lo assalì ”Perché non gli hai fatto capire che era una pazzia?!”
“Sono soltanto un soldato” ribatté S’virr “soltanto un soldato Khajiit”
I loro respiri erano diventati coordinati, e rimasero in silenzio per qualche secondo.
“Io sono appena tornato dalla guerra” ricominciò il Khajiit “e non voglio parlare di guerra. Non con te. Non adesso”
Tsavi annuì pensierosa.
“Ma cosa faremo?” chiese.
“Perché mi vuoi rendere le cose più difficili, Tsavi?” pensò S’virr “non lo vedi che non lo so?”
“Non con te. Non adesso” rispose.
E la baciò
 
 
 
Dagli appartamenti privati si potevano distinguere le voci nella sala del trono.
Tutti i soldati e alcuni cittadini benestanti erano accorsi al castello per partecipare al banchetto e in quel momento stavano tutti attendendo il conte e la contessa.
S’virr avanzava fiero nel corridoio spoglio della fortezza; dalle poche finestre si vedeva il cielo tetro e i primi segni dell’imminente tempesta.
Una volta raggiunta la camera del lord il Khajiit si fermò sulla soglia e batté ritmicamente il guanto d’acciaio sul legno tre volte.
La porta si aprì rivelando la figura della contessa, abbigliata con un suntuoso abito da cerimonia blu con decorazioni bianche avvolto da un largo mantello bianco tenuto fermo sulla spalla destra grazie ad un fermaglio raffigurante una quercia bianca in campo blu.
“Khajiit” lo apostrofò lei.
“Contessa” disse S’virr inchinandosi rispettosamente “avete scelto i colori di Chorrol” osservò.
“E il fatto che io abbia scelto i colori di mia madre ti causa qualche problema?” ribatté quella scocciata.
“Affatto” si ritrasse il Khajiit, ritenendo opportuno non mettere troppo alla prova la pazienza della contessa.
“Bene” rispose indignata “è già tanto che mio marito il conte abbia concesso l’investitura di un’istituzione secolare e onorevole ad uno della tua razza, devo anche farmi dire come devo vestirmi?”
“Nient’affatto” concordò il soldato.
“S’virr!” lo salutò il conte, vestito con un’elegante abito ricamato in oro “è tutto pronto?”
“Mancate solo voi” gli rispose ossequioso il Khajiit.
“Magnifico, vieni cara” esclamò il Caro, prendendo a braccetto la moglie.
S’virr fece strada per il corridoio, seguito dalla copia e dal giovane Lucien, che avanzava  passo fiero.
La porta per la sala del trono si aprì; il Khajiit si fece di lato e un soldato annunciò: “Il conte Marius Caro e la contessa, Alessia Caro”
Tutti i presenti si alzarono e si inchinarono, i soldati appena tornati addirittura urlarono, mentre gli uomini della guarnigione rimanevano fermi ai lati della stanza, la mano sull’elsa della spada.
I Caro scesero la scalinata e presero posto sui troni rialzati, a cui erano stato affiancato un tavolo d‘ebano.
I commensali presero posto nelle varie tavolate e cominciarono a consumare il banchetto.
In tutta la stanza si percepiva l’odore della carne rosolata, del pesce o del vino.
Le caraffe di vino finirono molto presto, ma furono rimpiazzate da altre ancora più grandi.
S’virr era seduto all’angolo di una tavolata, di fianco al carceriere che aveva tutta la tunica imbrattata di vino o pezzi carne.
“Che, c’è micio, non sei affamato?” domandò quello dopo un po’.
“Ho già mangiato abbastanza” rispose secco l’altro.
“Oh oh oh” ridacchiò l’Imperiale, facendo cadere pezzi di una coscia di vitello sulla già sudicia tunica “ad un banchetto non devi mangiare perché hai fame” sentenziò sputacchiando “devi mangiare perché è buono. E perché paga il conte. Almeno un po’ di vino? Oh hai paura?”
“Non bevo” tagliò corto S’virr, mentre cercava con lo sguardo Tsavi, seduta al tavolo delle cortigiane dall’altra parte della sala.
Il suo sguardo scocciato e quello rilassato, ma con una vela di preoccupazione di Tsavi si incrociarono.
E rimasero così per minuti interi.
Ad un certo punto, Alessia Caro si alzò, reggendo un calice intarsiato di smeraldi.
“Vorrei ringraziare tutti voi” esordì con voce melliflua mentre innalzava il calice “per aver partecipato a questo gioioso banchetto. Vorrei ringraziarvi per essere andati in guerra con mio marito. Vorrei ringraziarvi per essere uomini e donne fedeli verso mio marito.
“Ma tutto questo non può essere comunicato a parole, o almeno io non ne sono capace. Perciò vi offro semplicemente un brindisi. Grazie tutti voi!”
Tutti insieme, nella sala ormai silenziosa, gli invitati bevvero un calice.
Il vino era molto forte e amaro, e S’virr rimase stordito dopo un solo bicchiere.
“Per la contessa lo bevi, eh?” ridacchiò strascicando le parole il carceriere, completamente ubriaco, come la maggior parte dei presenti.
“Ed ora” continuò la contessa “vorrei proporre un brindisi per il mio amatissimo marito, il conte”
“Sei, troppo gentile, cara” ringraziò il conte, rosso in faccia per i troppi bicchieri, mentre si alzava.
“Al conte!” urlarono i commensali.
“A te, mio marito” disse sorridendo e porgendo con una mano il calice a Marius Caro.
Il conte bevve, seguito dai soldati.
“Goditi il tuo ultimo brindisi, traditore!” urlò la contessa tirando fuori un pugnale e puntandolo alla faccia del conte.
Le guardie, rimaste finora silenti e vigili, sfoderarono le loro spade e cominciarono a mulinare fendenti sui soldati, ubriachi e intontiti dal cibo, mentre alcune andarono ad aiutare la contessa per catturare il conte.
S’virr scattò in piedi e impugnò la sua lama, parando un affondo di una guardia, mentre il carceriere, tentando di alzarsi, inciampò e cadde a terra.
“Tsavi, devo trovarla” pensò subito il Khajiit, mentre con un assalto decapitò il nemico.
Un’esplosione di fuoco si udì dall’altra parte della sala e tre guardie caddero davanti alla maga di corte Tsavi.
Il Khajiit scattò verso la donna, schivando colpi e mozzando arti vaganti.
La maga di corte, vedendolo, cominciò a lanciare palle di fuoco aprendosi la via verso S’virr.
Quando finalmente si congiunsero, corsero subito verso l’uscita, con Tsavi che faceva strada e dietro S’virr che la proteggeva.
Ma un gruppo di soldati li vide e corsero verso di loro.
Una volta superata la sala grande vuota, nella quale riecheggiavano le urla della sala dei banchetti e i tuoni della tempesta arrivata con tutta la sua terribile potenza.
Il portale del castello si chiuse dietro di loro e, credendosi salvi, i Khajiit corsero nella corte, bombardati dalla pesante pioggia.
Il gruppo di guardie uscì nel cortile e imbracciarono gli archi scagliando una decina di frecce sibilanti nella tempesta.
S’virr cadde a terra, colpito alla gamba.
“Forza, S’virr, dobbiamo andare!” gridò disperata Tsavi, che per la prima volta aveva il terrore negli occhi, mentre lanciava un incantesimo di Cura sulla gamba ferita.
“Non… non ce la faccio” gridò S’virr arrancando, quando le guardie li raggiunsero.
Due lo superarono raggiugendo Tsavi; il Khajiit ne decapitò uno con un largo fendente, ma prima ti attaccare l’altro venne fermato da una guardia che lo tirò afferrandogli la coda.
S’virr cadde a terra e venne trascinato lontano da Tsavi che stava lottando contro tre nemici, mentre artigliava il terreno e urlava.
La spada della guardia calò mozzando la coda del Khajiit che gridò per il dolore.
“Un gattino senza coda, questo è molto comico, non trovi?!” urlò gioiosa la guardia che teneva in mano la coda dalla quale zampillava sangue.
Con un ultimo disperato sforzo, S’virr affondò la spada nell’addome del nemico, che cadde sopra di lui.
Scansando il cadavere, il Khajit si alzò e cominciò a correre verso Tsavi…
Era quasi arrivato quando la maga, vedendolo, si distrasse un attimo… abbastanza per essere poi sgozzata da una guardia.
“Tsavi…”
Non aveva neanche la forza di urlare ormai.
Un’altra freccia lo colpì alla gamba.
E non vide più nulla.
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Le volte annerite della piccola sala incombevano sui presenti.
Quando tutte le voci si erano spente il crepitare del focolare era divenuto prepotentemente l’unico rumore.
Il corriere, la sovrintendente, il mago di corte, l’inquisitore e la comandante delle guardie; guardavano tutti l’Imperiale seduto sulla sedia con la fronte aggrottata e la mano che copriva il volto.
-Coppiere- sussurrò rauco infine -altro vino-, alzando il calice di cristallo che teneva in mano.
Rodrick avanzò versandogli uno scuro Tamika 390 e poi ritraendosi.
Il conte soppesò il liquido, facendolo oscillare nella mano.
Ne bevve un sorso, poi con un impeto di rabbia lo scagliò contro il muro, macchiando i suoi abiti e quelli dei presenti con gli schizzi.
-Mi era sembrato chiaro- sbottò volgendo gli occhi furenti verso il corriere -di aver ordinato di bloccare la Strada Verde perché Titus Mede non potesse passare con il suo esercito-.
Il diretto interessato annuì goffamente.
-E voi mi dite che è bastata la sua avanguardia per prendere Forte Variela?!- urlò Terentius alzandosi dal trono -cosicché abbiano la strada libera fino a Bravil?! Saranno qui in un paio di giorni!-.
La sovrintendente aggiunse con tono grave: -Non… non è tutto, mio signore-.
-Cos’altro c’è?!- sbraitò ondeggiando le mani il conte in modo scimmiesco.
-C’è anche la piccola flotta partita dalla Città Imperiale…- rispose la Khajiit -è a neanche un giorno da qui-
Il conte proruppe in una risata grottesca.
-È finita!- urlò additando i presenti -Siete soddisfatti, imbecilli, ora- Incompetenti, traditori…-
-Andate via!- ordinò, indicando con voga la porta.
Una volta che i funzionari se ne furono andati,  Terentius volse lo sguardo verso Rodrick, rimasto fino a quel momento impassibile.
-Cos’hai tu guardare? Sì, sono un conte morto, morto! Ma tu, tu sei un misero coppiere, un coppiere! Vattene!- ordinò continuando ad additare la porta.
Rodrick chinò il capo e dopo un inchino impacciato e un: -S sì, signore-
Una volta fuori, si diresse verso la sua stanza quando fu fermato dalla sovrintendente.
-Non così in fretta- lo trattenne –la città non si trovava in una situazione tanto difficile dai tempi della Crisi dell’Oblivion. La nostra unica speranza è che Caro ci soccorra, ma non credo riuscirà a fare in tempo. E in tempi tanto bui, ogni cittadino di Bravil deve aiutare la sua città, e tu, da quando sei arrivata noi e ti sei messo al servizio del conte, sei un cittadino di Bravil-
“Sono uno schiavo di Bravil” pensò Rodrick grave.
-In co cosa posso a aiutare?- chiese invece.
-Questo è lo spirito giusto per un buon servitore- sorrise soddisfatta la sovrintendente – vai alla cappella. Troverai il Primate Tersitus con i feriti di Forte Variela, aiutalo-
-Lo lo farò con pia piacere- balbettò obbediente Rodrick, avviandosi verso l’uscita.
Non era mai piaciuto alla sovrintendente, principalmente per il suo passato servizio sotto Servatus Bantos.
Nei primi giorni che era stato a Bravil aveva chiesto il motivo di tanto astio verso il suo precedente padrone a Dro’shanji, il giardiniere del palazzo.
-Dro’shanji sa- aveva annuito quello –anni fa Dro’Nahrahe aveva amato un altro Khajiit, un Khajiit appartenente alla Renrijra Krin, il movimento indipendentista Khajiit del Niben.
-Bantos lo scoprì e, per entrare nelle grazie del conte, o denunciò all’inquisitore. Non si è più visto-
“E io che pensavo di star combattendo contro un uomo malvagio e senza scrupoli come Titus Mede” aveva pensato amaramente il Bretone “e non mi sono mai accorto che ne stavo servendo uno”
Passando per i calmi giardini del Castello di Bravil vide Dro’shanji, come al solito chino sulle sue rose.
-Ciao, Dro’shanji- lo salutò il bretone.
-Rodrick!- esclamò quello alzando la testa sorridente –Dro’shanji ti saluta. Com’è andata la riunione?-
-Non bene- rispose amaro l’altro – per niente. Gli uomini di Mede hanno preso Forte Variela-
Il Khajiit spalancò gli occhi, passandosi la zampa sporca di terra sulla fronte sudata.
-Forte Variela?- esclamò con voce tremante – ma… ma questo vuol dire che saranno qui in un paio di giorni!-
Il Bretone annuì gravemente.
Rodrick decise di tacere la notizia riguardante la flotta imperiale.
-Oh, dei- sussurrò il Khajiit vagando con lo sguardo sul suo giardino.
-Oh, dei!- continuava ad esclamare guardando le sue rose– non… Dro’shanji non credeva certo che potessimo vincerla, questa guerra. Ma Dro’shanji non avrebbe mai pensato che si fosse giunti a questo! Insomma, Bravil fa parte da sempre dell’Impero. Non… non possono, non possono!-
Il Bretone rimaneva a fissarlo col volto straziato.
“Non si preoccupa di se stesso” osservò meravigliato “ma… del giardino?”
-Adesso devo andare- disse infine, mortificato  -devo aiutare un certo Primate Tersitus con i feriti-
-Ah, il primate!- gli occhi di Dro’Shanji si illuminarono – brav’uomo, il primate. Cerca di aiutarlo il più possibile. Forse Dro’shanji andrà alla Cappella oggi…-
-Lo… lo farò- promise Rodrick, per poi avviarsi verso la Cappella.
Passando per il ponticello di legno che collegava l’isoletta del castello alle altre due che formavano la città il Bretone osservò il canale sottostante, colmo di rifiuti e di tutte le navi, che avevano avuto l’ordine di rientrare mentre sulle mura un insolito numero di guardie guardava verso ovest in attesa dell’arrivo della flotta nemica.
C’erano addirittura alcuni soldati che guardavano speranzosi verso sud.
Aspettavano il conte di Leyawiin Marius Caro.
Una persona normale avrebbe forse sorriso amaramente nel vederli, ma Rodrick rimase a fissarli, sperando di vederli esultare indicando la strada.
E invece rimasero fermi, sicuri nella loro fragile speranza.
Il ragazzo si inoltrò nell’insieme di vicoli, affiancato dalle alte baracche di legno marcio.
Nessuno era per strada.
C’era chi passava quelle ore con la propria famiglia, chi si ubriacava, chi, nella baracca nota a tutti, consumava skooma.
C’era chi passava quelle ore sulle mura ad attendere amici e nemici, chi la passava nei giardini, chi nelle sicure sale del castello, maledicendo gli dei e la propria sorte.
C’erano i mendicanti, rifugiati nella baracca abbandonata della Gilda dei Maghi, dopo che questa era stata sciolta, per evitare il freddo e avere un riparo nell’imminente battaglia.
Infine c’era chi passava quelle ore a curare i feriti di guerra, come il Primate Tersitus.
Infine giunse nella piazzetta antistante la cappella, un’elegante costruzione in marmo con le vetrate colorate la cui facciata era composta da una snella torre ai cui lati si aprivano tre portali.
Quello spazio era però rinomato per un’altra opera.
La statua della donna fortunata.
Il monumento, formato da una base su cui poggiava la statua di una donna.
Si diceva che chi baciasse la guancia della donna sarebbe stato fortunato.
“Fortuna” pensò il Bretone “cosa farei per un po’ di fortuna!”
Rodrick si guardò intorno, per evitare che qualcuno lo vedesse, ma, a prima occhiata non c’era nessuno per strada.
Si avvicinò allo scuro metallo dalla forma di una donna col viso sereno.
Dopo un attimo di titubanza, baciò il gelido corpo.
Una fitta lo percosse, dentro il suo petto sentì il vuoto.
E, riguardando il volto inanimato, lo trovò quasi spettrale.
Sceso dalla piattaforma, il ragazzo si bloccò quando vide in lontananza qualcuno.
Un’esile sagoma, avvolta in un mantello nero con cappuccio lo osservava immobile.
Spaventato, Rodrick si diresse verso i portali lignei della cappella, sentendo continuamente gli occhi della figura su di sé.
“Speriamo ne sia valsa la pena” pregò prima di fare pressione sul legno del portale.
Nella cappella aleggiava un religioso silenzio, attaccato ma non sopraffatto dai sussurri delle preghiere dei pochi fedeli e dai lamenti dei feriti.
In mezzo agli ultimi c’era un piccolo ma robusto uomo vestito con una tunica marrone.
Avvicinandosi, il Bretone notò che quello era molto anziano; sulla sua testa pelata si intravedevano le vene scure mentre il resto del volto era profanato da una lunga cicatrice che gli percorreva la faccia andando ad insinuarsi nella rada barba bianca.
Era intento ad infondere l’ultima benedizione ad una donna, martoriata da profondi tagli lungo tutto il corpo; dopo la benedizione, le mani ferme si adagiarono sulla fronte della moritura.
Infine il prete sfilò da una tasca una boccetta viola, che appoggiò sulla bocca della donna dalla parte del collo.
-Bevi, presto ti sentirai meglio- le disse. Il tono era gentile, eppure nella sua voce vi era qualcosa di fermo, duro.
-È… è la fine? – chiese la donna con tono straziato dal dolore.
Tersitus la fissò per qualche secondo.
-È la fine, Luciana- disse infine, con una smorfia di sofferenza sul volto –presto sarai nell’Aetherius-
-Non… voglio…- dalla bocca di Luciana usciva un rantolo, seguito da un urlo –dammi la pozione-, disse infine.
La donna si addormentò, il suo volto divenne sereno, mentre Tersitus la fissava.
-Com’è successo?- chiese senza distogliere lo sguardo al soldato che l’aveva portata precedentemente.
-È accaduto nella ritirata da Forte Variela- spiegò quello grave –Mede ci ha fatto braccare dalla cavalleria khajiit e una pattuglia ci ha raggiunti. Lei era venuta per rifornire la guarnigione-
-Non potevate ritirarvi prima, sciocchi?- inveì il primate, volgendo lo sguardo sul soldato.
-Avremmo lasciato Bravil scoperta- rispose il soldato.
-Ed ora non la è?- ribatté il prete.
-Abbiamo fatto quello che potevamo- ribadì l’accusato –l’importante è questo. Ed ora lei dovrà fare quello che può per concedere la pace a questi caduti- e indicò con la mano i corpi vivi e non appoggiati sui tavoli sparsi per la cappella.
-Chiedete la pace a me per gli esamini e quelli travolti dalla sorte della guerra?- irruppe Tersitus –io vorrei invece concederla anche ai vivi!-
-Fa il tuo lavoro, prete- gli intimò il soldato –io ho altro da fare, mentre l’Impero si avventa su di noi-
-Va’ a farlo allora, il tuo lavoro- gli ordinò il primate –e lasciami compiere il mio-
Il soldato fu ben lieto di accontentare il prete e, dopo aver guardato per un’ultima volta Luciana, si avviò verso l’uscita, squadrando con occhio attento Rodrick.
-A quanto pare hai visite, sacerdote- comunicò ad alta voce, per poi uscire.
Il Bretone avanzò lungo la navata, sotto lo sguardo duro di Tersitus.
I suoi occhi erano di un azzurro pallido ed erano coperti per metà dalle pesanti palpebre.
Il vecchio attese in silenzio che Rodrick fosse giunto al termine della navata, davanti all’altare, prima di parlare.
-Che cosa cerchi, ragazzo nella casa degli dei?- chiese a bassa voce in tono imperioso.
-So… sono stato man mandato qui…- balbettò Rodrick intimorito –dalla so so sovrintendente del ca castello-
Tersitus alzò un sopracciglio, incuriosito.
-E a far cosa?- continuò infine.
-Per… per aiutare con i i feriti- rispose il Bretone.
-Ah, ah, ah- la risata del sacerdote era amara -i gentiluomini del castello si sono abbassati a mandare un loro servo per aiutare, eh? Devono proprio essere disperati. Ad ogni modo, come ti chiami, ragazzo?-
-Ro Rodrick Saine- rispose l’altro.
-Bene, Rodrick- annuì il primate –ai cancelli della città ci sono carri pieni di feriti, di cui tu ed io ci dovremo occupare, capito?-
Rodrick annuì e Tersitus continuò soddisfatto: -Bene, allora andiamo- e, facendo un cenno ad una sacerdotessa, le ordinò di badare a Luciana.
Attraversarono la navata e, una volta fuori, passarono per la piazza antistante alla cappella.
Rodrick notò con sollievo che la figura misteriosa era sparita.
-Non ti ho mai visto- dichiarò Tersitus dopo un po’.
-So sono arrivato da poco- rispose brevemente il ragazzo.
-Capisco- si limitò a dire il prete.
-Ti vuoi arruolare?- chiese poi.
-Come? No, no- disse il Bretone.
-Bene. Non farlo mai- ordinò il primate – che tu lo voglia, che te lo ordinino, tu non farlo. Molti non ci credono, o non vogliono crederci, ma siamo uomini liberi. Se non vogliamo combattere, non dobbiamo combattere, a prescindere da cosa dicono quei signorotti come Terentius-
-Tu ha hai combattuto?- chiese Rodrick.
Il vecchio rimase un attimo in silenzio, come per passare in rassegna i ricordi.
-Lo dici per la cicatrice? Sì, comunque- rispose infine –ma me ne sono andato. Ho smesso quando mi sono accorto che non provavo più niente quando uccidevo qualcuno. Quando portavo via la vita ad una persona. Quando ero diventato più una macchina che un uomo. Un marchingegno dwemer creato per uccidere.
Se mai dovessi combattere nella vita, per la sopravvivenza, non per giocare alla guerra sotto conti e imperatori, smetti prima che questo accada. Lo ripeto ora e non mi stancherò mai di ripeterlo. Tu sei l’unico padrone di te stesso, Rodrick. Ricordalo, in qualsiasi modo finisca questa storia, qualsiasi cosa accada, ricordatelo. Sei libero, capito?-
-S sì- rispose il ragazzo.
-Bene, bene- borbottò Tersitus –io sono vecchio e non credo sopravvivrò a questa storia, ma tu ci sarai ancora. Non fare il mio stesso errore, Rodrick. Scegli! –
Infine giunsero al portale, davanti al quale erano stati adagiati una decina di feriti sulla terra.
-Oh, ma chi è l’idiota che a avuto questa brillante idea?!- urlò Tersitus cominciando a prendere un corpo gemente.
-Il carro serve per la staffetta- rispose una guardia, aiutando il primate –Se vogliamo resistere dobbiamo riuscire a contattare Caro-
-Che lo prendano i Daedra, Caro- ribatté il sacerdote.
Dopo che ebbero sistemato i feriti nella cappella, tornarono al portale, dove vennero indirizzati verso una pattuglia di ritorno ad un centinaio di metri all’infuori delle mura con alcuni feriti.
-Quanto è distante Mede?- chiese Tersitus a questi, sulla via del ritorno, mentre sorreggeva con l’aiuto di Rodrick un mutilato.
-Un giorno- rispose grave il comandante – e non siamo riusciti ad ostacolarlo. L’avanguardia è troppo maledettamente preparata. Ma sembra si sia fermato, o almeno crediamo. Non ci resta che aspettare-
Arrivati ai cancelli della città, vennero accolti dalle urla delle guardie.
-Che cosa succede?- gridò il sacerdote dal basso, prima di varcare la soglia.
-È meglio che vi sbrighiate, Primate Tersitus- risposero le guardie affannate dall’alto delle mura –la flotta imperiale è arrivata! Stasera dovremo combattere!-
 
 


Per chi non lo sapesse, la Statua della Signora Fortunata è in realtà il luogo dove sorge la Cripta della Madre Notte, dove riposano i suoi resti più o meno fino agli eventi di Skyrim.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Ignatius venne svegliato da un fascio di luce.
Stropicciandosi gli occhi si alzò, rabbrividendo per un leggero colpo di vento gelido.
Barcollò mentre si alzava per il lieve dondolio della nave e mentre si guardava intorno notò con soddisfazione che il cielo non era più coperto dalle grigie nuvole dei giorni passati.
Guardando verso sud, scorse le nere  nubi che si dirigevano verso Bravil e infine Leyawiin.
Sentendosi osservato si voltò e notò il legato Aurelius Scavatus che lo fissava con le braccia conserte, scuotendo il capo.
Rabbrividendo di nuovo, Ignatius tornò a guardare verso sud maledicendosi per essersi addormentato sul ponte, seduto su un barile.
La flotta avanzava lungo il Niben silenziosa, come il paesaggio intorno.
Le foglie degli alberi cadevano a mutare il loro colore e a cadere lungo le sponde del fiume.
Alcune arrivavano sull’acque, leggere, e iniziavano a girare dolcemente, per poi lasciare lo spazio alle prue delle navi chi sfilavano imperiose.
Sulla costa est si ergeva un torrione massiccio che pareva però abbandonato.
Ignatius si sforzò mentalmente per ricordare il nome del fortilizio.
-Forte Variela- sussurrò infine soddisfatto.
Osservando oltre gli spogli alberi, l’Imperiale notò degli stendardi e degli uomini.
-Basta così!- urlò il legato e, fatto passare l’ordine di nave in nave, la flotta si fermò.
-Soldato- ordinò a Ignatius –riesci a riconoscere i vessilli di quei soldati?-
Aguzzando la vista, l’Imperiale scorse due lune, una rossa più grande e una più piccola bianca, all’interno di un cerchio blu notte coi bordi bianchi.
-Vedo lo stemma di Skingrad, signore- rispose infine Ignatius.
Il legato fece un sorriso amaro.
-Come pensavo- dichiarò –Mede è arrivato prima di noi. Attracchiamo!-
Passato l’ordine, le navi si avvicinarono lentamente alla sponda ovest del Niben e alcuni uomini prepararono le cime.
Scavatus scese dal ripiano davanti al timone e si preparò a sbarcare.
-Ha fretta di guadagnare il titolo il nostro signore della guerra, eh?- disse quello ai suoi legionari –Beh, vedremo se saprà meritarselo-
Alcuni soldati di Skingrad si avvicinarono alla riva sfoderando le armi.
-Tranquilli, soldati!- urlò Scavatus –Sono i rinforzi!-
-Ce ne avete messo di tempo, contando che venite dalla Città Imperiale- ironizzò il soldato.
-Bada a come parli- lo zittì il legato –stai parlando ad un superiore. Avete preso Forte Variela?-
L’altro lo guardò torvo: -Sì… signore. Re J’Rakka sta inseguendo i superstiti col resto dell’avanguardia-
-Bene, bene. E Mede? È al forte?-
-È con la retroguardia – gli risposero – deve ancora arrivare-
-Bene, andate a riferire ai vostri superiori che siamo arrivati- ordinò loro Scavatus.
Quando la pattuglia di Skingrad si fu allontanata, Scavatus convocò gli ufficiali sul ponte della sua ammiraglia.
-Speravo di arrivare prima dei Coloviani- comunicò a quelli il legato –ma purtroppo non è stato così. Dobbiamo raccogliere altra legna, come abbiamo sempre fatto, questa volta stando attenti ad ogni possibile spia di Mede-
-Ma, signore, ormai le navi sono piene, stiamo andando già troppo lenti, e per questo ci hanno raggiunti… non potremmo usare quella che abbiamo già?- obbiettò Ignatius.
-Quante volte te lo devo spiegare, soldato?- latrò Scavatus –non voglio perdere un solo uomo nella conquista di Bravil. Temo troppo quella lettera che la contessa Valga, che ti ricordo è con Mede in questo momento, ha mandato a sua figlia. Se quel coloviano si volesse rivoltare contro l’Impero, voglio combatterlo da dentro le mura di Bravil, non a campo aperto-
-E se la raggiungesse prima lui, Bravil?- chiese un altro.
-Se si rivoltasse asserragliato dentro le mura di Bravil commetterebbe la più grande sciocchezza di questa era- ribatté Scavatus –l’esercito del re di Hammerfell Waylas è al confine con la Colovia. Un passo falso e tutte le contee ribelli sarebbero riconquistate. E noi avremmo come supporto nell’assedio di Bravil il più potente esercito in circolazione. Se, resosi conto della follia del suo gesto, Mede decidesse di abbandonare Bravil e marciare verso la sua terra per difenderla si troverebbe noi a sbarrargli la strada. Ci basta una settimana per preparare così tante trappole e agguati da rendere la Via Verde invalicabile, e non dimenticare la guarnigione della Città Imperiale-
-E se decidesse di attraversare il fiume?- chiese Ignatius.
-Triplicherebbe la distanza da percorrere e, comunque,  ti ricordo che abbiamo una flotta nel fiume-
Seguì un breve attimo di silenzio, carico per l’emozione di avere Mede sotto scacco.
-Fidatevi, soldati- disse infine il legato –è bloccato qui. L’importante è perdere il minor numero di uomini a Bravil e quel legname fa a caso nostro-
Ignatius guardò Scavatus. La sua testa pelata era imperlata di sudore per il calore della sua armatura e i suoi occhi, seppure fossero austeri come sempre, scintillavano compiaciuti.
-E adesso- ordinò infine il legato- andate a tagliare quel dannato legname-
 
 
 
Il sole stava scomparendo dietro i Monti Valus, oltre la sponda opposta del Niben.
L’accetta ormai proseguiva da sola, meccanica, in quei fluidi movimento.
Ignatius sollevò la testa, passandosi il freddo guanto metallico sulla fronte imperlata di sudore.
Riuscì a notare, a debita distanza, alcune ombre che osservavano la legione.
“Spie di Mede” pensò l’Imperiale “devo avvertire il comandante”
Lasciando il legname tagliato al suo posto, si mosse verso le navi, disperdendo il suono delle foglie cadute calpestate dagli stivali metallici.
-Comandante!- chiamò una volta raggiunta la riva –Comandante!-
-Sì, soldato?- rispose quello apparendo sul ponte dell’ammiraglia.
-Siamo osservati- dichiarò Ignatius.
Scavatus fissò il bosco, scrutando tra i rami, poi volse lo sguardo in alto, verso il forte illuminato dai fuochi, dove il signore della guerra coloviano stava banchettando con i suoi conti.
-Carichiamo il legname- ordinò ad alta voce infine –e salpiamo, dovremmo arrivare a Bravil nel pomeriggio-
Subito la legione si vitalizzò e i tronchi vennero caricati sulle già cariche imbarcazioni.
-Ma, signore, adesso Mede saprà che stiamo salpando per Bravil- osservò Ignatius.
Gli occhi di Scavatus guizzarono verso di lui, entusiastici.
-Tanto meglio- rispose il legato –mettiamogli pure fretta. Facciamo in modo che il leone lasci la tana. La fretta potrebbe addirittura fargli dimenticare di lasciare una guarnigione al forte-
Ignatius tornò a guardare Forte Variela.
Tra quelle luci guizzanti sedeva la più grande incognita della loro epoca.
Chi era quell’uomo?
E che cosa voleva veramente?
 
 
Come previsto, arrivarono in vista della città il pomeriggio seguente.
Intorno a loro, il fiume Niben si era allargato considerevolmente.
Ignatius, sul ponte dell’ammiraglia poteva vedere stagliarsi tutto intorno a lui le coste della Baia del Niben e, su alcuni isolotti, la agognata Bravil.
Scavatus gli si avvicinò pensieroso, scrutando la costa.
Un piccolo fiumiciattolo divideva a nord l’isolotto principale della città dalla costa ovest; le due rive erano collegate da un ponte che conduceva agli unici cancelli cittadini.
-Attracchiamo là- ordinò il legato indicando un’insenatura della costa distante un centinaio di metri dal ponte, tra gli spogli alberi –Cominceremo a montare le catapulte là, al sicuro dalle frecce nemiche-
Ignatius annuì e urlò l’ordine.
La città si era rivitalizzata; le urla si sentivano fino alle navi, mentre i soldati si appostavano sulle mura ad osservare la flotta; il legionario riuscì addirittura a vedere alcune persone presso i cancelli che entravano frettolosamente.
Le navi arrivarono alla sponda della baia e i soldato scesero cominciando a montare le catapulte.
Scavatus marciava tra di loro controllando che tutto procedesse al meglio, mentre il sole si avvicinava sempre di più alle montagne.
-E se arrivasse Caro?- chiese un legionario mentre sistemava due travi.
-Non arriverà- gli rispose il legato –i messaggeri non possono averlo raggiunto in tempo-
-Ma è partito solo due giorni fa, secondo le nostre fonti- ribatté un ufficiale.
-E se non fosse partito?- si aggiunse un altro soldato.
-Caro non ci sarà- ribadì duro Scavatus –E se anche ci fosse, abbiamo abbastanza uomini per batterlo, anche senza Mede.  Ed ora riprendete a lavorare-
Una volta che le catapulte vennero ultimate, la legione cominciò a muoversi, dopo che il legato ebbe lasciato una pattuglia a sorvegliare le navi.
I soldati marciarono in silenzio sotto gli esili rami spogli che venivano tranciati dalle robuste catapulte.
Quando le mura furono in vista, alcuni uomini cominciarono a far cozzare le armi contro le armature, altri a far sbattere il pugno contro la placca pettorale mentre in alcuni reparti cominciavano a intonarsi inni.
Sempre più soldati si aggiungevano ai canti mentre diffondevano il rumore del metallo contro metallo.
Ignatius si guardò in giro, stupito.
Non aveva mai visto una scena simile e tutto gli sembrava strano.
Eppure il ritmo frenetico cominciò ad entrargli in corpo: i suoi piedi stavano marciando a tempo, e man mano acceleravano; il cuore stesso cominciò a battere e a gridare il suo inno.
Cominciò a voltarsi, a guardarsi intorno. Voleva correre.
Le mura di Bravil diventavano sempre più basse e sempre meno imperiose, lui sempre più grande e pericoloso.
Vide Scavatus che sorrideva, con gli occhi divampanti.
Era la prima che lo vedeva sorridere.
“Che cosa sta succedendo?” pensò ormai farneticante.
Raggiunsero la fine della foresta e, quando il legato alzò il braccio con il pugno chiuso, tutti si fermarono.
-Disponete le catapulte!- urlò Scavatus voltandosi –Forza, forza! Le catapulte, muovetevi!-
Veloci, i legionari corsero portando seco la ingombrante macchina da guerra e raggiunsero il limitare della foresta.
Gli addetti fecero ruotare le manopole e i tronchi delle catapulte scesero sicure.
I legionari più robusti caricarono il concavo delle macchine, correndo nonostante il peso dei macigni.
-Signore, non siamo troppo vicini per attaccare le mura?!- urlò Igniatius a Scavatus, cercando di soverchiare il rumore circostante.
-E chi ha detto che voglio attaccare le mura?!- rispose l’altro per poi prendere una torcia e avanzare solennemente.
-Soldati!- chiamò quello, mentre un silenzio carico di eccitazione calò di nuovo tra i legionari.
-Vedete il sole, che tramonta, debole tra le montagne ad occidente?- urlò indicando i monti, dietro i quali il sole stava lentamente scomparendo –Questa città. Questa Bravil, ha osato rivoltarsi contro il glorioso Potentato. Bravil si è ribellata ai degni successori dei Septim! Si è ribellata ai Nove, vi dico! Ma oggi, noi cancelleremo tutto ciò che questa sciocca rivolta ha lasciato nelle menti dei folli rivoltosi. Noi, oggi, siamo gli esecutori degli dei! Oggi, è il giorno di Bravil. Questo, soldati è il suo tramonto! E, vi dirò, oggi è il giorno di questa città… domani, invece, sarà il giorno degli elfi!-
Un boato si alzò dalla schiera.
-È solo questione di tempo, ve lo assicuro- continuò il legato, avvicinandosi alla catapulta –Ed ora, prendete con me questa città!- e lasciò cadere la torcia nel concavo della macchina.
L’interno divenne rovente, e un sottile fumo si levò in aria, mentre nelle altre catapulte si eseguiva la stessa manovra.
-Bravil è fatta di legno, Ignatius- disse Scavatus continuando a sorridere –dopo che avremo finito, non rimarrà niente di quella città, se non un monito per Leyawiin, per Mede, per il Dominio Aldmeri e tutti coloro che si ribelleranno al Potentato-
Ignatius continuava a non capire, continuava a pensare a quante persone sarebbero morte.
Per lui la guerra non era mai stata questo, eppure continuava a star zitto perché in fondo gli andava bene, la febbre da battaglia lo aveva conquistato  e lottava per difendere la posizione.
-Ed ora…- disse il legato –Fuoco!-
 I tronchi si mossero contemporaneamente salendo e sfondando alcuni spogli rami nella salita e riversando il loro contenuto ardente al di là delle mura.
Tra i merli si riuscivano a vedere alcuni arcieri che, dopo essersi abbassati per proteggersi dalle faville, avevano seguito terrorizzati con lo sguardo le palle infuocate.
Dalla città cominciarono a levarsi degli urli disperati, i rumori delle baracche che crollavano e il crepitare del legno.
Dalla città assediata arrivò un’ondata di frecce che sibilarono impigliandosi tra i rami della foresta.
I canti e le urla di guerra dalla legione si facevano sempre più potenti mentre le catapulte incidevano in aria neri archi per il fumo.
 
 
 
Andò avanti per un’ora.
La legione cantava e faceva cozzare tra loro le armi mentre l’odore acre del fumo si diffondeva sempre di più nella zona.
Poco tempo prima si era sentito un rimbombo immane, come se le stesse ossa della terra si fossero spezzate: la vertiginosa torre della Cappella di Mara era crollata, probabilmente schiacciando le abitazioni circostanti.
Scavatus si ritenne soddisfatto e ordinò ad un gruppo di soldati pesantemente corazzati di farsi avanti con il gravoso ariete e di sfondare il portale della città.
I legionari scelti corsero più velocemente che potevano lungo il ponte, seguiti da un nuvolo di frecce e da altri tizzoni roventi, fino ad arrivare ai portali.
La dura testa dell’ariete si avventò quattro volte contro il pesante portone ligneo, prima che questo si inclinasse.
Un altro colpo e i cancelli si scardinarono aprendo ai legionari le porte per l’inferno.
Ignatius non riusciva a vedere oltre l’arco rimasto vuoto per il fumo, ma sapeva che lì vi era ciò che rimaneva della guardia cittadina di Bravil.
Il cornò rintronò negli elmi metallici, accompagnato dall’urlo di Scavatus.
Il momento era giunto.
Ignatuis sfoderò finalmente la spada metallica, ebbro, per lanciarsi insieme ai suoi compagni legionari.
-Per l’Impero!- urlavano.
-Per Thules!-
Dalla schiera dei soldati di Bravil non uscivano urli, i guerrieri erano tutti fermi, armi in pugno, immersi in un tacito consenso.
I sibili si fecero sempre più vicini mentre attraversavano la pianura alcuni andavano avanti, altri cadevano gemendo brevemente, prima di essere schiacciati dai legionari che erano loro dietro.
L’esercito avanzava come un fiume in piena, continuava ad avvicinarsi all’obbiettivo sicuro.
-Restate uniti!- si sentì dall’altra parte. Una voce di donna.
Finalmente arrivarono all’arco; il predatore finì di spiccare il balzo e si avventò sulla preda.
Penetrarono la formazione nemica per una decina di metri, i soldati di Bravil cominciarono a contrattaccare anche dai lati, le frecce piovvero da tutte le direzioni, il fuoco illuminava vivamente la cruenta scena.
Igantius menava fendenti a destra con tutta la sua forza, travolgendo le esili figure che apparivano in quel momento impaurite.
Ma lui non si fermava, andava avanti; il cuneo imperiale aveva sfondato completamente  la formazione nemica che si era divisa in due: una parte, più sostanziosa dalla parte della piazza della cattedrale, l’altra schiacciata contro le baracche invase dalle lingue di fuoco.
 Dall’ultimo schieramento emerse la donna che aveva parlato prima, probabilmente il comandante della guardia cittadina, che in quel momento gridava disperata per rinforzare i ranghi dei suoi uomini allo sbando.
I soldati di Bravil si fecero rincuorare e formarono un cuneo con a testa la donna che, a volto scoperto, avanzava, tagliando in due la colonna imperiale.
I legionari corazzati intertenerono, probabilmente inviati da Scavatus, circondando il comandante che poté ben poco.
Dopo aver ucciso due uomini, cadde per un fendente che le recise la carotide, lordando di sangue le scintillanti armature pesanti imperiali, già annerite dal fumo.
Il cuneo ebbe vita breve e in breve venne respinto verso le baracche e distrutto.
L’intera colonna si espanse nella strada principale e la piazza della Cappella che bruciava.
I pochi uomini rimasti cominciarono ad indietreggiare fino alla Statua della Signora Fortunata e poi ancora sino ai portali del Tempio, tra le rovine della torre.
Le finestre colorate erano incredibilmente illuminate per le fiamme; i volti severi degli dei in risalto guardavano con durezza il massacro che si compiva davanti al loro luogo sacro.
Il cielo notturno fu illuminato di nuovo da profonde cicatrici ardenti, altri tizzoni si formarono nella città che già sanguinava, colpita a morte.
I soldati, schiacciati contro le mura nere per il fumo della Cappella della dea dell’amore si arresero.
Alcuni vennero trucidati, ad altri vennero sequestrate le armi, altri ancora vennero brutalmente picchiati, prima di essere presi in ostaggio.
I legionari cominciavano a scorrazzare per la città, come cani impazziti, mentre i cittadini si gettavano in strada urlanti e piangenti.
Ignatius non se ne curava e continuava a correre e a menare fendenti.
Alcune truppe vennero inviate a conquistare la seconda isola cittadina, già in fiamme.
Scavatus radunò il resto delle truppe riordinandole nei reparti precedenti alla battaglia, per poi lanciarsi per le vie al seguito dei suoi uomini che urlavano trionfanti.
L’emozione venne spenta quando si trovarono di fronte a ciò che restava del ponte ligneo che collegava il resto della città all’isola del castello. Terentius doveva averlo fatto distruggere prima che arrivassero i soldati imperiali.
-Bene, per oggi basta così- ironizzò Scavatus urlando, ebbro della vittoria –Mettete in sicurezza il resto della città e spegnete le fiamme. E poi… prenderemo il castello del traditore Terentius!-
Tutti urlarono.
Anche Ignatius urlava anche se era conscio di ciò che era successo.
“Presto…” pensava “presto prenderemo il castello del traditore!”

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Una dura contrazione della gamba lo svegliò.
L’arto bruciava. Il Khajiit tratteneva a stento le imprecazioni mentre un gelido sudore permeava tutto il suo pelo e aveva reso la sua coperta fradicia, se così poteva chiamarsi quello straccio.
Si guardò intorno, spasimante.
Riconobbe le spoglie pareti della sala d’addestramento della Gilda dei Guerrieri, ma il pavimento era ricoperto di tappetini con gli stracci, come quello su cui era in quel momento che erano, però, vuoti.
“C’è stata una battaglia? Gli Imperiali sono arrivati?” si chiese S’virr mentre a fatica cercava di sollevare il collo per guardarsi attorno “Forse Tsavi me lo può spiegare, ma perché non è qui con me?”
Poi si ricordò.
I dolorosi ricordi si ripresentarono, più vivi che mai assieme alle fitte.
Si ricordò di Tsavi, si ricordò della guarnigione, si ricordò della contessa.
Un’ombra gli oscurò il cuore.
La contessa…
Tsavi...
Subito dopo, fece leva col suo gomito sinistro per sollevare la schiena.
Violente fitte lo percorsero come fulmini mentre il busto si reggeva nonostante i violenti spasmi.
La mano destra esplorava tra le pieghe del tappetino fradicie per il sudore e, a giudicare dal puzzo, permeate di altri liquidi corporei, e lo trovò.
Un impacco di carta unto con essenze di erbe medicinali, ma intrisa anche di sangue era attaccato alla sua schiena, proprio dove prima vi era la sua coda.
Sconfitto dal dolore, ritrasse velocemente la mano mentre lasciava cadere la schiena sul duro pavimento, imprecando.
Eppure non uscì nessuna parola dalla sua bocca troppo arida.
-Aiuto!- cercò di gridare cominciando a sbattere sul pavimento la mano destra –Aiuto!-.
Qualcuno parve sentire quei rantoli: una donna avvolta nelle vesti di guaritrice sbucò da dietro una grata, curiosa.
Dalla faccia che fece parve sorpresa.
Prese una caraffa d’acqua su un tavolo adiacente e gentilmente versò il fresco liquido sulla sua bocca.
La lingua del Khajiit si divincolò come impazzita per cercare di ricevere più acqua possibile per poi passare lungo le labbra pelose ancora umide.
Il ferito si schiarì rumorosamente la gola.
-Sei sveglio, dunque- osservò la guaritrice con un velo di pietà verso il paziente.
S’virr  non mancò di notarlo, provando una profonda repulsione per quell’innocente donna.
-Hai dormito per due giorni- gli annunciò la guaritrice –Eri l’unico ferito rimasto e mi rammarico nel confidarti che ancora mezza giornata senza un segno di vita e avremmo avuto l’ordine di buttarti nel fiume, come per i morti della battaglia al castello-
Il paziente inarcò le sopracciglia grottescamente “quindi Tsavi…”.
-Oh, non fare quella faccia- gli disse la donna seria –non l’ho scelto io. Ordine della contessa. Voleva che ci si fosse occupati dei feriti prima della sua partenza-
-Pa… partenza?- chiese il Khajiit.
-Sì- confermò l’altra –siamo sempre in guerra, non trovi? La contessa sta per partire con quasi tutta la guardia cittadina e la guarnigione per Bravil. In qualche modo dovremo farci perdonare per la nostra ribellione, non credi?-
S’virr rimase in silenzio.
-Personalmente, non ci vedo nulla di sbagliato. Ha veramente fatto male la contessa? Io sono una guaritrice, quindi conosco la guerra e, aldilà del fatto che sia giusta o sbagliata, questo mi sembra il modo più veloce per finirla, perciò è sicuramente la cosa giusta-
L’iniziale repulsione del paziente si tramutò in odio incondizionato.
-Vedo che non sai dire molto altro, oltre che aiuto- osservò ironica la guaritrice –un po’ egoistico, non trovi?- e si allontanò.
Dopo qualche minuto tornò con una gruccia di legno sotto il braccio.
-Ed ora, non me ne volere male, ma, se riesci a reggerti in piedi, dobbiamo dimetterti- annunciò porgendogli la mano e la gruccia –sempre ordini della contessa, mi dispiace. Ora puoi tornare alla tua famiglia-
“Io non ho una famiglia” rispose mentalmente S’virr mentre, con l’aiuto della donna si sollevava.
Per qualche momento la stanza cominciò a girare e le sue gambe si fletterono, ma venne intercettato dalla guaritrice che lo risollevò e gli mise sotto il braccio destro la gruccia.
Una volta in equilibrio, Khajiit chiuse gli occhi e contrasse i muscoli per evitare le vertigini e cercare di contrastare le fitte alla gamba ma gli apparve subito Tsavi.
Gli stava sorridendo.
Aprì subito gli occhi.
-Forse è meglio che aspetti ancora un po’, se non te la senti- propose la donna, preoccupata.
-No- rispose il paziente scuotendo la testa per enfatizzare la risposta –no, io devo andare-
-Sei sicuro?- continuò lei -In questo momento stanno per giustiziare il conte Caro, non mi sembra un bello spettacolo. È meglio che tu rimanga…-
-No- ribadì S‘virr mentre quasi ringhiava –io… devo andare. Mi stanno aspettando-
-Nessuno è venuto a trovarti- disse la guaritrice dubbiosa –chi ti sta aspettando?-
Il Khajiit cominciò a camminare con l’aiuto della gruccia, non pensando alla fatica che avrebbe fatto nel salire le scale della sede della Gilda.
“La contessa Alessia Caro” rispose tra sé e sé.
 
 
 
Appena fuori dalla Gilda S’virr cercò subito una panchina su cui sedersi.
Aveva sottovalutato troppo le scale e la gamba era un inferno per lui.
Rimase per qualche momento a guardarsi intorno. A guardare la sua città, a guardare se stesso.
Bastava un paio di gradini a sfinirlo.
“Io… io ero un guerriero” pensava.
“Ma ora non lo sono più. Sono un mutilato, un peso… ormai non sono più neanche un uomo, non ho neanche più la coda. E sono solo”
Forse ce l’avrebbe fatta a sopportare quella situazione, ma non da solo, no.
“Ho bisogno di Tsavi” continuava mentre lacrime fredde come pugnali gli solcavano gli zigomi.
Riparò il viso tra le mani e chiuse gli occhi.
“Dove sei?!”
Ed eccola lì, sorridente lo guardava con i suoi dolci occhi.
Non ce la faceva a sopportare quelle visioni. Riaprì gli occhi e si asciugò le lacrime.
Delle urla lo richiamarono.
“L’esecuzione, giusto” ricordò.
Zoppicante, si diresse più velocemente possibile verso la piazza antistante il castello, dove si era radunata una piccola folla.
Davanti a tutti era stato allestito un piccolo patibolo di legno.
Sulla piccola piattaforma  lignea vi erano la contessa, vestita con un sobrio vestito azzurro, che osservava con sguardo austero la scena, il boia che, a giudicare dalla faccia, era alquanto spaesato, probabilmente non si sarebbe mai aspettato di dover giustiziare il suo signore, e il conte Caro, che fissava prima sua moglie, poi il popolo, e poi di nuovo Alessia Caro con sguardo torvo, come per giudicarli traditori, come se in quel momento era lui giudice.
Il Khajiit notò che Lucien Caro, l’erede sedicenne del conte era assente.
Ad un certo punto, gli sguardi di Marius e di S’virr si incontrarono.
Il volto del conte si rasserenò, aveva incontrato un alleato, un vero alleato in quella folla di traditori.
La contessa emise la sentenza e il conte decaduto fu fatto inginocchiare dal boia.
Marius Caro volse il suo sguardo verso la moglie, perché guardasse quello che stava facendo.
-Le ultime parole del traditore?- chiese imperiosa Alessia Caro.
-Che uno, almeno uno di questa folla apra gli occhi e ti veda per ciò che sei veramente- rispose sprezzante il condannato –e agisca di conseguenza-
Un cenno del capo e l’ascia calò silenziosa, decapitando il conte.
In quel momento, un uomo in armatura salì solennemente sul palco e annunciò alla folla: -Dopo il banchetto funebre l’esercito partirà. Fatevi trovare pronti-
S’virr conosceva quell’uomo…
Albert Nelles si ritrasse poco dopo, seguendo la vedova che si incamminava verso il castello, a sua volta seguito da alcuni nobili e cittadini facoltosi.
Il sentir nominare il banchetto fece lamentare lo stomaco del Khajiit.
“Non mangio da giorni” osservò mentre si avvicinava zoppicante al patibolo, osservando la testa del conte caduta nella cesta.
Era indeciso. I morsi della fame non erano da sottovalutare, S’virr lo sapeva bene, ma non era sicuro di volersi umiliare a tal punto.
Decise di sì.
La distanza percorsa aveva stancato la gamba del Khajiit e, mentre questo entrava nella sala grande, la gruccia cominciò a tremargli man mano che avanzava esitante.
Raggiunse la sala del banchetto, un pasto molto più sobrio di quello preparato due giorni prima e molto più silenzioso.
Appena entrò, S’virr fu bombardato dagli sguardi degli invitati.
Cominciò la sua questua girando tra i banchi dei commensali, lentamente passava uno ad uno.
Le sue parole erano un sussurro –Pane, vi prego. Un po’ di pane-, i suoi occhi correvano sui volti dei nobili che velocemente abbassavano lo sguardo, come non degni di poter scambiare uno sguardo con lui.
Il Khajiit continuava lentamente e girare.
-Un po’ di pane, vi prego…- solo un sussurro.
Nella sala era calato il silenzio. Stava accadendo proprio ciò che S’virr voleva evitare.
“Nessuno” osservava “nessuno è degno di guardarmi? O io non sono degno di essere guardato? Rispondetemi, vi prego, almeno rispondetemi. Sono un uomo, io! Non sono un insetto fastidioso, un pensiero imbarazzante, non potete dileguarmi col silenzio! Sono un uomo!”
Ma nessuno rispondeva.
Al suo pallido passaggio si presentavano solo pietosi “inchini”.
Sentiva lo sguardo compassionevole di tutti che lo stavano fissando, anche Nelles, anche la contessa.
Ma lui non era degno di risposta.
Ad un certo punto girò troppo stretto di fianco ad un tavolo.
La gruccia gli scappò di mano, lui si piegò avendo come appoggio solo le sue gambe doloranti, e cadde rumorosamente.
Ma l’unico rumore che si sentì nella sala fu la sguaiata risata di Alessia Caro.
-Tutti questi anni da soldato… sprecati- disse ad alta voce –dovevi fare il giullare! Ma c’è ancora tempo. Sei vivo, hai fame. Puoi ancora adempiere alla tua vocazione. Diventa il mio giullare personale, e non patirai la fame. Oggi mi sento misericordiosa, ahah! Sì, io ho bisogno di qualcuno che mi allieti le serate in questa marcia verso Bravil e tu sarai quel qualcuno!- e gli lanciò un’ala di pollo.
Il Khajiit, a quattro zampe, fissò l’offerta per qualche secondo.
Chiuse gli occhi.
Tsavi gli stava ancora sorridendo.
Abbassando il capo, prese l’ala.
 
 
 
Dopo il primo giorno di marcia, l’esercito si fermò nei pressi di un cimitero.
Era un luogo lugubre, ed era esattamente dove S’virr voleva stare.
Davanti all’entrata di un piccolo tumulo vi era una recinzione che delimitava il terreno di sepoltura, illuminato da due fioche fiaccole.
Il Khajiit zoppicò per avvicinarvisi, fermandosi però quando notò che qualcuno era già lì.
Un ragazzo stava scavando.
S’virr decise di continuare; oltrepassando l’apertura nella recinzione schiacciò un ramoscello.
L’improvviso rumore fece voltare l’estraneo che sollevò la pala per difesa puntandola al Khajiit.
“Oh, dei…” pensò S’virr.
Lucien Caro mantenne la punta della pala verso il nuovo arrivato, mentre sulla sua faccia era scolpita un’espressione risoluta.
-Come mai qui- chiese il Khaiit, fermo –signore?- aggiunse poi.
L’altro parve riconoscerlo, ma tenne l’arma puntata.
-Scavo- rispose brevemente –tu?-
-Ormai nessun vivo può farmi compagnia- rispose S’virr –meglio che la cerchi tra i morti-
L’attrezzo venne abbassato.
-Ma certo- convenne Lucien –mi ricordo di te… in effetti tu potresti aiutarmi, se mi prometti di non farne parola con nessuno-
-Dipende. Che cosa hai in mente?- chiese il Khajiit.
-Sto raccogliendo ingredienti- cominciò l’altro.
-Per cosa?- domandò S’virr dubbioso.
-Per il Sacramento Nero- rispose deciso il ragazzo.
“Non… non vorrà?” pensò improvvisamente a disagio l’altro.
-Ha ucciso mio padre- si giustificò Lucien, probabilmente dopo aver visto lo sguardo del Khajiit, come leggendo nei suoi pensieri e confermando le sue paure –lo ha tradito, ha tradito tutti noi. Anche te -.
-E io…- chiese S’virr –in che modo ti dovrei aiutare?-
“Sto veramente pensando di farlo?”
-Io… ho raccolto tutti gli ingredienti. Mancano solo le ossa, ho preparato il sacramento dentro questo tumulo…- spiegò il ragazzo –voglio dire… è sempre mia madre, no? Non credo di riuscire a farcela-
“Questo ragazzo è folle, come può pensare che…”  continuò a riflettere il Khajiit.
-E tu sei sicuro di questa tua scelta?- gli domandò incredulo.
L’altro annuì con decisione, poi prese le ossa e le portò dentro il tumulo.
S’virr rimase fermo sull’uscio della recinzione.
Una volta che Lucien fu uscito gli venne incontro.
-È tutto pronto- annunciò con voce tremolante quello –dentro… dentro c’è un manuale-
Il khajiit stava per dirgli di no quando gli tornò in mente.
Tsavi continuava a sorridergli.
Lottò con tutte le sue forze per distogliere quell’immagine, per dimenticare…
Ma non ce la fece.
In silenzio entrò nel tumulo.
Sulla nuda roccia era stato assemblato uno scheletro, con affianco un cuore umano, il tutto circondato da candele.
Vi erano anche un pugnale e un pezzo di belladonna.
“No, no. Questa è stata una brutta idea, non posso farlo” pensò.
Eppure, dolorante, si inginocchiò e lesse il manuale.
“È stata decisamente una brutta idea, no, no. Non posso farlo” continuava a pensare mentre leggeva.
Ma quando ebbe finito, raccolse il pugnale e lo strofinò sulla belladonna, per poi sollevarlo in aria.
Chiuse gli occhi un attimo e rivide l’immagine che tanto lo distruggeva.
-Dolce madre, dolce madre…- sussurrò mentre scagliava la prima pugnalata contro lo scheletro.
-Invia a me il tuo figliolo…- la sua voce si faceva sempre più forte e le pugnalate più intense –perché i peccati degli indegni devono essere battezzati…-
Aveva cominciato ad urlare mentre quasi gemeva per la violenza dei suoi affondi che sbattevano sulla roccia.
-Nel sangue…- un’ultima accoltellata – e nella paura-
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Dro’Nahrahe l’aveva preceduto.
Rodrick avanzò lentamente nella notte, lungo le mura frontali del castello.
Il ragazzo si sporse tra i merli i fredda pietra, osservando l’esercito che si era ammassato sugli isolotti cittadini.
Anche Titus Mede era arrivato col suo esercito, unendosi alla legione già presente.
La Khajiit lo notò e sorrise sarcasticamente.
-Oh, non temere- gli disse –hanno finalmente costruito il ponte. Sfonderanno stasera, ne sono certa-
Rodrick continuò a fissare lo schieramento.
Ricordava come l’esercito imperiale era arrivato due notti prima, annunciato dalle saette infuocate che avevano invaso il cielo nero come il carbone.
Si ricordava la pioggia di lapilli e il tuonare dei masse che precipitavano contro le baracche di legno.
Appena  arrivato dentro i giardini signorili del castello aveva assistito ad una lite tra il comandante della guardia cittadina che voleva difendere la città e il conte che ordinava di mantenere la guarnigione all’interno del castello.
La discussione era divenuta un crescendo continuo, specialmente quando le guardie si erano radunate nella corte per assistere, incitando la donna, che era arrivata a colpire il conte, facendolo cadere per terra per l’urto.
Nessuno era intervenuto.
Il comandante aveva marciato lungo il ponte che collegava la città al castello, seguita dalla maggior parte della guarnigione, mentre il conte, rosso per la furia, ordinava alle guardie rimanenti di bruciare quel collegamento alla città.
Rodrick era rimasto a guardare senza dir nulla.
Quella sera non pensò ad altro se non alle parole del Primate Tersitus.
Il suo duro discorso rimbombava nella sua testa, come i massi che piombavano sulla città.
“Tu sei l’unico padrone di te stesso, Rodrick”
Aveva ripensato  a Llanas Dreth, la mercante dunmer che lo aveva preso con sé quando lo aveva trovato vicino a Wayrest e lo aveva portato a Mournhold, crescendolo e insegnandogli a mercanteggiare; tutto era finito con l’arrivo a casa sua di un sicario dei Morag Tong.
Qualche pugnalata ed era tutto finito, e le guardie non avevano fatto nulla. Era legale.
Aveva ripensato ai mesi che aveva passato per le strade mendicando, facendo lavori a prezzi stracciati, e di quando lo aveva visto Helseth Darys, un mercante impegnato in giri di contrabbando con uno schiavo Khajiit di nome K’Rattad.
Si ricordò dei numerosi viaggi che aveva fatto, sotto mentite spoglie, in tutta Tamriel portando merce illegale, ripensò a quando lo avevano scoperto e Darys lo aveva bastonato per una notte intera, come quando Rodrick aveva aiutato K’Rattad a fuggire.
Ripensò a quando era andato nella capitale in cerca di lavoro dopo che il suo padrone era stato ucciso da una pattuglia argoniana durante una vendita illegale e aveva trovato Bantos.
Ripensò a quando era andato a consegnare la lettera al conte di Bravil, e di come ne era diventato servo.
Ed era arrivato lì.
Ripensò all’ultima volta in cui aveva potuto scegliere.
-Tu cosa farai?- chiese alla sovrintendente.
La Khajiit si voltò per guardarlo, sorpresa, forse perché aveva parlato per la prima volta dopo due giorni, o forse perché non aveva balbettato.
-Mi consegnerò, naturalmente- rispose secca –ormai è tutto finito-
Sospirò.
Rodrick si ricordò di quando, all’inizio dei lanci delle catapulte, una serva era andata disperata da Dro’Nahrahe e le aveva chiesto urlante cosa sarebbe accaduto a loro.
-Noi?- aveva risposto la Khajiit –Siamo solo un ricordo, adesso-
Anche Rodrick sospirò.
-E il conte ci ha abbandonato- aggiunse la sovrintendente guardando il Bretone di nuovo silenzioso.
Il mago di corte aveva rivelato a Terentius, dopo che questi aveva bruciato il ponte, l’esistenza di un passaggio segreto che conduceva dal castello sino ad una torre fuori città.
Il conte aveva colto subito l’occasione e, portandosi dietro suo figlio, il mago di corte e le guardie del castello, era fuggito, premurandosi anche di far crollare il tunnel.
-E tu?- chiese Dro’Nahrahe –Che cosa farai?-
Quella domanda era rimasta, opprimente nella testa di Rodrick in quei giorni.
Forse quella era l’occasione che aspettava? L’occasione di scegliere veramente?
“È arrivato il momento di decidere, di fare la mia scelta, per il mio bene” pensò.
Non c’era Darys, non c’era Bantos, non c’era Terentius.
“Sono libero” rifletté ”ma perché fare una scelta solo per il mio bene?”
Si guardò intorno, con Dro’Nahrahe che lo fissava, curiosa.
Le baracche distrutte di Bravil raccolsero il suo sguardo e si fecero presenti nella sua mente.
La stessa cappella era distrutta. Quando la torre era crollata Rodrick aveva subito pensato a Tersitus, seera sopravvissuto.
E mentre aveva pensato a Tersitus aveva pensato a Llanas, a K’Rattad, a Dro’Shanji, che piangeva affianco alle sue piante.
“È questo il nostro impero?” continuò “Noi ci affidiamo a persone come Terentius o Caro, che mandano a morire il loro popolo per sete di gloria, ricchezza o chissà cos’altro? Ci affidiamo a persone come Bantos  o Sintas che sacrificano tutto e tutti per far carriera e, mentre le persone muoiono loro passano le giornate a giocare ai loro complotti?”
E in tutto quello, che cosa facevano tutti gli altri?
“C’è qualcuno che vuole veramente cambiare le cose?”
-Rodrick?- lo chiamò la sovrintendente.
Il ragazzo guardò verso l’esercito.
Un manipolo di uomini avanzava portando pezzi di un ponte di legno che stavano assemblando, degli uomini che mostravano uno stemma già visto.
-Titus Mede- sussurrò il Bretone.
La Khajiit si voltò verso i soldati e annuì.
-È lui- confermò.
Gli uomini riuscirono a montare il ponticello largo appena per tre persone.
Una sottile colonna avanzò portando un ariete fino al portone del castello.
I colpi rintronarono nel fortezza e, come un richiamo, fecero radunare tutte le persone presenti nei giardini,
 mentre queste avanzavano  passo lento, rassegnati.
I soldati, messi in difficoltà dallo spazio ristretto, continuarono a colpire il legno, gemendo per la fatica.
Dro’Shanji si alzò sospirando e raggiunse il piccolo gruppo che si era formato davanti al portone.
I cardini cominciarono ad incrinarsi, sotto colpi sempre più potenti.
Anche l’inquisitore Theran arrivò nel cortile nella sua elegante veste nera.
Al centro del portale si aprì una breccia e poi le pesanti ante si staccarono completamente dai cardini cadendo rumorosamente ai lati.
I soldati di Kvatch, esausti, lasciarono a terra l’ariete ed entrarono nella corte del castello sfoderando le spade e minacciando i prigionieri.
Dro’Nahrahe sospirò un’altra volta, per poi rivolgersi al Bretone.
-Beh, il tempo è scaduto, Rodrick. Tu, cosa farai?- 

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