The Last Half Blood's Sacrifice

di erflascor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Addio ***
Capitolo 2: *** Epiphany ***
Capitolo 3: *** Trauma ***



Capitolo 1
*** Addio ***


Su un letto ad una piazza e mezzo, due giovani ragazzi avevano appena consumato il loro atto d'amore. Giacevano stanchi sul materasso, ricoperti da un sottile lenzuolo bianco, e i loro corpi erano abbracciati in un silenzio quasi inquietante. Con gli occhi chiusi si baciavano, si annusavano, si amavano. L'atmosfera mistica e immobile era disturbata solamente da Luna, l'unica figura presente all'interno della casa oltre i due giovani, una piccola gatta nera, non più grande di una palla da rugby, trovata solo qualche giorno prima sul ciglio di una strada ma che era già diventata a tutti gli effetti un membro della famiglia. La passeggiata del piccolo felino lasciava dietro di sé una scia di matite, libri e fogli accartocciati che precipitavano dalla scrivania del quindicenne disordinato. I richiami poco convinti del ragazzo (forse non aveva voglia di staccarsi dalla fidanzata e di alzarsi dal letto per portare Luna in un'altra stanza?) non scalfivano minimamente la gattina, che anzi prosegue la sua scalata verso la vetta lanciandosi su un ripiano della libreria pieno di cornici e ricordi dei diversi viaggi del ragazzo (un ventaglio rosso raffigurante un toro acquistato a Siviglia, un sacchetto che emana per la camera il profumo della lavanda portato da Marsiglia, un boccale da birra da un litro preso alla Guinnes Factory di Dublino...) facendo cadere di tanto in tanto uno di questi souvenires dal ripiano.

La madre del ragazzo era partita insieme a Bill, suo marito. Si stavano godendo nella loro casa al mare gli ultimi giorni caldi di un'estate ormai agli sgoccioli, la più afosa e torrida che il ragazzo abbia mai visto, ma che nonostante ciò sarà presto costretta a timbrare il cartellino e far posto al freddo, all'inverno, alla noia, e soprattutto ad un altro lunghissimo anno. L'ha sempre vista così lui: il nuovo anno non inizia a gennaio, ma il “suo” capodanno (che però non festeggia) è a settembre, con la fine delle vacanze estive e la ripresa della vera vita.
Leon, così si chiama il ragazzo. Come è intuibile, significa “leone”. Il nome lo scelse sua madre: è di origini greche. Sembra quasi che la donna, come se fosse stata una sibilla e forte dei suoi studi delle lingue antiche, avesse visto il futuro del ragazzo in una sfera di cristallo, e avesse capito fin dalla nascita di suo figlio che avrebbe avuto bisogno di molta forza per riuscire ad andare avanti nella vita che lo attendeva.
Un silenzio stupendo e magico regnava nella stanza ormai da diversi minuti. I corpi nudi dei due giovani erano uniti sotto il lenzuolo bianco: ogni centimetro quadrato di pelle era attaccato all'altro, con le gambe tra loro intrecciate, il braccio di Leon cingeva deciso ma con delicatezza la esile vita della ragazza con le dita affondate nella carne, la sua mano ruvida accarezzava la guancia rosea della fidanzata, e le labbra non si staccavano un istante l'una dall'altra. Sono così in simbiosi da poter essere visti come un solo corpo, come un sinolo di amore e passione. Non c'è spazio per le parole in un momento come questo. Sono di troppo.

Dall'altra parte della finestra, un acquazzone estivo stava portando via con sé tutto il caldo e l'afa accumulato nei giorni precedenti, dando all'aria una carica elettrizzante e rendendo il cielo grigio e triste come i vecchi palazzi della città. Le gocce continuavano una dopo l'altra a bagnare il davanzale della camera del ragazzo, mentre dalla finestra aperta a vasistas la pioggia scivolava sul parquet chiaro e inzuppava il tappeto bianco. Nella stanza entrava un tenue odore di bagnato, di pioggia e di muschio. L'aria fresca che penetra dalla finestra e i continui brontolii che quel cielo color piombo continua a far cadere sulla terra spinsero la ragazza ad abbracciarsi ancora di più a Leon. Appoggiò la testa di lunghi capelli rossi sul petto del ragazzo e sfregò la guancia con dolcezza sul suo corpo. Una parte di quella chioma rossa finì nel viso di Leon. Non li scacciò. Lui amava quei capelli color cremisi, rossi come una fragola matura. Li ama fin da piccolo. Fin da piccolo ama Rebecca.
Il respiro di Rebecca era turbato, pesante. Leon capì il suo malessere e l'abbracciò ancora più forte. Nessuno è in grado di comprenderla come fa lui: una smorfia, uno sguardo un po' spento, o qualsiasi gesto impercettibile, come anche quando si tocca i capelli o si morde delicatamente il labbro inferiore. Tutte piccole azioni che gli rivelano i sentimenti di Rebecca come se fosse un libro aperto. Capisce ogni sua sensazione, ogni suo pensiero, e dà tutto ciò che ha per renderla felice. Per questo lei l'ha scelto. La generosità di Leon non conosce limiti: sarebbe capace di buttarsi da un palazzo per le persone che ama.
Come un piccolo fiumiciattolo in una foresta, una lacrima si fece strada sulla pelle liscia e perlata di Rebecca, fino a infrangersi sulla mano di Leon, che prontamente afferrò con dolcezza la sua testa, la guarda dritta nei suoi occhi azzurri, quasi disegnati con un pastello, asciugò le lacrime con il pollice ruvido e le sussurra all'orecchio un “ti amo” di quelli sinceri, che quando viene detto fa venire i brividi lungo la schiena. Le labbra umide si raggiunsero di nuovo, e le loro lingue tornarono a giocare tra di loro. Si baciavano con tutto l'amore di cui erano capaci, fino a quando lei non smise di piangere.

Poi Rebecca si staccò dal ragazzo e gli diede un altro bacio. Il suo corpo fuggì dal candido lenzuolo bianco ed uscì nuda dal letto. Lo scroscio dell'acqua bollente proveniente dalla doccia rompeva la silenziosa atmosfera che si era creata, mentre uno strato di vapore acqueo iniziò a depositarsi sullo specchio e le pareti. È sempre stata una sua abitudine quella di farsi una doccia dopo aver fatto l'amore, un po' come se un essere tanto tenero, aggraziato e virtuoso sentisse il bisogno di purificarsi e di lavare via dall'anima il peccato del sesso.
Rebecca amava stare sotto la doccia. È l'unico momento della giornata in cui aveva la possibilità estraniarsi da tutto e pensare liberamente. Poteva focalizzarsi su ciò che aveva veramente in testa. L'acqua bollente scivolava sul suo corpo longilineo e sottile, e si mischiava insieme ai suoi pensieri e alle suo lacrime.
Nel frattempo, Leon se ne stava seduto sul bordo del letto, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le dita intrecciate a sorreggere la testa, anch'essa pesante e densa, forse troppo, di pensieri e preoccupazioni.
Sapeva bene cosa c'è che non va in Rebecca: Simon, suo fratello. Gli avevano diagnosticato la SLA circa dieci mesi fa. Cos'è la SLA? Beh, la prima cosa da dire è che si tratta dell'acronimo di una malattia dal suono ben più temibile, sclerosi laterale amiotrofica. La seconda domanda che qualcuno si potrebbe porre è che cosa fa concretamente questa SLA. La SLA è una malattia che va a colpire i motoneuroni, cioè quei neuroni che permettono al cervello di muovere i muscoli volontari. È degenerativa, logora il malato piano piano: all'inizio magari si iniziano ad avere delle difficoltà a correre, a ballare, a giocare una partita di pallone, ma più si va avanti e più si inizia ad essere ingabbiati nel proprio corpo, finché non si riescono a muovere solamente gli occhi. Ovviamente la maggior parte della gente non ci arriva a questo punto. Non è ancora stata trovata una cura. Esistono solo diverse terapie e trattamenti per rallentare gli effetti degeneranti della malattia.
Ma cosa poteva farci lui? Come poteva salvare Simon? In che modo avrebbe potuto ostacolare l'avanzare, lento ma inesorabile, della malattia? Ormai Simon aveva smesso di giocare a football dall'inizio dell'estate, sta cominciando ad avere i primi disturbi nel parlare, non riesce più a guidare la macchina come si deve. Ma Leon non riusciva a darsi pace per la sua impotenza. Non poteva accettare il fatto di non poter aiutare in nessun modo, di vedere Rebecca triste, depressa, sempre più magra e sempre più spesso in preda a degli attacchi di panico.
Leon si riprese da questo stato di trance mentale, forse anche grazie al ritorno di Luna nella stanza che con un balzo si era adagiata comodamente sul letto.
“Avanti, scendi.” gli ordinò Leon indispettito. Ma Luna, incurante del comando impartito dal ragazzo, non sembrava intenzionata a spostarsi. “Ma tu guarda questo microbo quanto rompe!” borbottò spostando di peso il piccolo felino che, offeso, uscì dalla stanza.
Leon, accorgendosi del marasma all'interno della camera, cominciò a raccattare i vestiti da terra e a metterli a posto, disponendo quelli di Rebecca ordinatamente piegati sul letto, e approfitta del momento per riportare un po' di ordine all'interno della camera, in cui regnava la confusione da almeno una settimana: toglie dalla sedia ben sei magliette e tre paia di pantaloni, selezionando quali di questi capi sarebbero dovuti finire dritti in lavatrice e quali invece potevano essere utilizzati ancora. Dei cinque libri sopra la sua scrivania, ne ripose tre che non aveva più intenzione di leggere su uno scaffale della libreria, mentre lasciò gli altri due in pila in un angolo della scrivania (quando diavolo si deciderà a smettere di iniziare a leggere un nuovo libro senza averne prima terminato un altro?!). I fogli accartocciati pieni di scarabocchi e simboli strani vennero tutti scaraventati nel cestino, così come le cartacce delle caramelle e un paio di bicchierini di plastica che ancora profumavano di caffè.
Quando la camera sembrava aver finalmente ritrovato un ordine che non vedeva da tempo, lo scrosciare dell'acqua bollente non sembrava ancora accennare a smettere.
“Becca, va tutto bene?”. Nessuna risposta.
Come al solito, Leon capì che il silenzio di Rebecca non dipendeva dal fatto che lei non lo avesse sentito. Aprì la porta del bagno ed entrò anche lui nella doccia, unendosi insieme a lei sotto la cascata d'acqua calda.

 

Dopo un'altra infinità di baci, molti più di quelli tra Catullo e Lesbia, e qualche “ti amo” sussurrato all'orecchio che si mischiava al rumore delle gocce, i due finalmente si decisero ad uscire dalla doccia. Facendosi strada nel vapore sollevatosi all'interno del bagno, Rebecca pescò dalla sua borsa un paio di mutande nere pulite e rubò dall'armadio del fidanzato una maglietta bianca con lo stemma della scuola di Karate in cui Leon si allena, troppo grande di almeno un paio di taglie per i suoi quarantasei chili. Poi, con spazzola e asciugacapelli alla mano, cominciò la complicata opera di asciugare la sua chioma rossa, che, con i capelli bagnati, arrivava fino al fondo schiena.
A qualche metro di distanza, in cucina, Leon prese una mela rossa e succosa e affonda i suoi canini affilati nel frutto. Luna entrò miagolando e si strofinò sulle gambe del suo padrone, come a dirgli: “Guarda che ho fame anch'io!”. Allora, tirando fuori dal frigorifero una bottiglia di latte, riempie un po' una ciotola in alluminio e il piccolo gatto subito smette di adularlo falsamente e inizia a bere a piccoli sorsi.
“Ruffiano!” bofonchiò Leon, buttando il torsolo della mela nella spazzatura.
Dopo aver terminato con l'asciugacapelli, Rebecca si fece strada nella cucina scalza e con la sola maglietta di Leon addosso, con i lunghi capelli rossi ancora umidi che le scivolavano delicati lungo la schiena. Senza un velo di trucco, con una manciata di lentiggini che le ricoprivano gli zigomi, gli occhi grandi e verdi come un'oliva e il naso piccolo e all'insù sembrava proprio la figlia di un angelo.
“Baby sei bellissima!” le sussurrò Leon portando la testa della ragazza al suo petto in un abbraccio e poi stampandole un bacio sulla fronte.
I complimenti non sono mai indifferenti a Rebecca: un “sei bellissima” detto dal suo fidanzato fa sparire tutte le sue lentiggini dietro un rossore che si espande sulle guance.
“Ti va se quando abbiamo messo a posto andiamo un po' sul tetto? Devo dirti una cosa...” gli chiese lei.
“Tranquilla, ci penso più tardi a riordinare casa: la mamma e Bill dovrebbero tornare verso le nove, c'è tutto il tempo”.
“Va bene, allora vado in camera tua a prendermi una felpa e a mettermi un paio di pantaloncini. Prendo una felpa anche per te?”
Leon scosse la testa come a dire che non ce n'era bisogno. Pochi attimi dopo Rebecca tornò con un'enorme felpa grigia chiara senza cappuccio, la sua preferita tra quelle del suo ragazzo, sotto alla quale si nascondono un paio di pantaloncini di jeans di lunghezza minimale.
L'accesso al tetto della palazzina di Leon è stato ufficialmente vietato ai non addetti ai lavori un anno e mezzo prima in seguito ad una votazione da parte dei condomini, e così la porta è stata chiusa con un lucchetto la cui chiave è gelosamente custodire dal portiere della palazzina; ma dal piccolo balcone del suo appartamento basta salire su un tavolino e arrampicarsi sul muro per accedervi facilmente. Per terra tutto era fradicio e sporco, come era facilmente prevedibile, a causa dell'acquazzone che è stato protagonista della prima metà del pomeriggio, e i due decisero quindi di andare a sistemarsi sotto il portico.
“Guarda che bello!” affermò Leon tutto preso indicando con l'indice un arcobaleno perfetto e ben definito alto nel cielo, “Guarda, sembra proprio che finisca lì in mezzo al mare. Chissà se davvero c'è una pentola d'oro lì sotto... dopo tutto questa pioggia non è stata proprio inutile”.
“Se vuoi l'arcobaleno devi sopportare la pioggia. Per tutte le cose belle devi essere pronto a sopportare qualcosa” gli rispose Rebecca, uscendosene con un'altra delle sue citazioni giuste al momento giusto, letta in chissà quale libro.
“E questa ora? Da dove l'hai tirata fuori?”
“Da un libro che ho letto qualche giorno fa... davvero molto bello!”
“Lo sapevo! Devi smetterla di essere così intelligente” le disse Leon, fingendosi invidioso, “Mi fai sentire un idiota con tutti quei libri che mi porta mia madre e che puntualmente finiscono in mezzo agli altri quando sono ancora a metà perché mi sono stufato di leggerli.”
“Se soltanto la smettessi di iniziare un libro senza terminarne un altro. Inizi dieci libri insieme ed è tanto se riesci a finirne due... Con Siddharta, per esempio, a che punto sei?”
“In alto mare, anzi, altissimo direi! Mi sembra a pagina 17 più o meno” dice Leon cercando di giustificarsi con un sorriso a trentadue denti “Ma non è colpa mia, è il libro che è pesante.”
“No, è colpa tua perché sei uno scemo!” sbottò a ridere Rebecca “lo vedi che ho ragione io?! Che non finisci mai nulla”.
“Ti ho detto che devi smettere di fare quella mentalmente superiore” le ordina lui, intonando una voce simile a quella di un cattivo dei cartoni animati e mordendo il labbro inferiore della ragazza. Entrambi scoppiano a ridere.
“Allora, dovevi dirmi qualcosa?” riprese il discorso Leon.
“Già, è arrivato il momento anche di questo...” un'altra lacrima si fece strada sulla guancia sinistra di Rebecca, e venne bloccata prontamente dall'indice del ragazzo.
“Piccola che ti prende? Cos'è successo di così grave?” cercò di intervenire Leon, spiazzato nel vedere questo sbalzo d'umore della ragazza. Poi pensò alla cosa più ovvia: “è successo qualcosa a Simon?”
“No, lui sta bene” ribatté subito Rebecca in un fiume di lacrime “il problema riguarda noi due.”
“Cosa dici? Io e te non abbiamo nessun problema, siamo perfetti così! Dimmi, ho sbagliato qualcosa?”
“No, Leon, hai ragione: siamo perfetti. Ma io questa sera parto, me ne vado”
“E quindi? Vai in vacanza, e allora? Quando torni recupereremo tutto il tempo perduto piccola, non c'è bisogno di piangere. Mi stupisce che tu la prenda così male...”
“Ma io non tornerò più. Me ne andrò per sempre!” strilla Rebecca con la voce rotta dal pianto “questa è l'ultima volta che ci vedremo.”
Il viso di Leon aveva assunto l'espressione di un grosso punto interrogativo; Le parole di Rebecca si erano si erano infrante su di lui come una grossa pietra che viene scaraventata su uno specchio. Semplicemente, Leon non sapeva cosa dire. Non aveva mai neanche lontanamente pensato ad un'eventualità del genere. Ma per quale razza di motivo se ne sarebbe dovuta andar via? Glielo aveva promesso che non se ne sarebbe mai andata. Ora sentiva il cuore battere all'impazzata, quasi come se si stesse dimenando per uscire dal torace; era diventato pallido come un fantasma, aveva iniziato a sudare freddo. Ci mise almeno un minuto prima di riuscire a parlare, e, anche dopo essersi ripreso, tutto quello che riuscì ad uscire dalla sua bocca venne strozzato dal nodo che aveva in gola. A quel punto fu Rebecca a riprendere a parlare:
“Ci trasferiamo a New York: lì stanno studiando una nuova cura che potrebbe far guarire Simon entro due o tre anni. Ma dovrebbe fare molti controlli periodici, quindi non sarebbe sostenibile andare lì ogni volta, anche perché ci vorrà tempo per vedere i primi miglioramenti e nel frattempo le sue condizioni potrebbero peggiorare ancora di più. Potrebbero precipitare a tal punto da non riuscire a reggere tutti questi spostamenti. Papà ha già firmato un contratto con il Times, gli danno un ottimo salario, un ufficio tutto suo... è un passo importante per la sua carriera. Mia madre invece è già stata contattata da un paio di case editrici, e poi lei dice che New York offre ottimi spunti per la scrittura, e che potrebbe dare una svolta ai suoi prossimi libri. Mi hanno già iscritto in un liceo a Manhattan, inizio la scuola tra una settimana. Ho già la valigia pronta e tra poco i miei mi verranno a prendere per andare in aereoporto.”
“E tu” la interruppe Leon che a quel punto si era in parte ripreso dallo shock, “tu non puoi rimanere qui? Non puoi stare dai tuoi zii e andarli a trovare lì a New York? Ti prego Becca... resta qui!”
“Credi che non mi dispiaccia di lasciare tutto quanto? Per cosa pensavi che piangessi in tutti questi giorni? Vorrei tanto rimanere qui con te, con la persona che amo. Vorrei continuare a vederti tutti i giorni, così come vorrei continuare a vedere Pleun, Sophie, Ethan, Julian... tutti quanti! Guarda che è la mia la vita che verrà stravolta tra pochi giorni. È ovvio che mi mancherete tutti e sappi che ho lottato per rimanere qui. Ma non si può fare nulla, Leon. È questa la realtà dei fatti: devi soltanto accettarla, così come ho fatto io.”
“Ma cosa cazzo dici, Becca?!” urlò arrabbiato Leon. “Accettare che la ragazza che amo mi venga strappata così? Sapere che tra qualche ora chiunque potrà girarti intorno e io, il tuo ragazzo, non potrò far nulla per impedirlo perché sono a chissà quanti cazzo di chilometri da te? Spiegami come posso accettarlo. Dimmelo!”
“Non puoi decidere di accettarlo Leon, dovrai semplicemente farlo, prima o poi. Neanche per me è facile...”

“E quanto pensi di restare lì?”
“Per la cura di Simon dovrebbero volerci due o tre anni, ma non è escluso che rimarremo lì molto di più. Per ora non abbiamo venduto la nostra casa, ma sinceramente non sono sicura di ritornare.”
“Va bene, in questi tre anni cercherò di venire a New York il più possibile; poi, quando finirò il liceo, mi iscriverò all'università di New York se tu non tornerai qui, così potremo vivere nella stessa città.”
“Leon, ti rendi conto di quello che stai dicendo? Lo capisci anche tu che è una pazzia?”
“E allora cosa vuoi fare? Dimmelo tu perché a me non viene in mente nessun'altra idea. Visto che sei tanto intelligente, trovala tu la soluzione a questo casino.” disse Leon strillando, con la voce rotta dal pianto.
Rebecca, che fino a quel momento non aveva mai visto il suo ragazzo piangere in preda alla disperazione, cominciò anche lei a singhiozzare e a respirare a fatica.
“Leon, non c'è una soluzione... Basta, è finita così. Il mondo ha vinto, ci ha battuti. Non c'è altro da fare...”
“No, Becca, non finisce così. Non lo permetto.”
“Ti prego, non rendere la cosa ancora più difficile.”
“Potevi dirmelo, cazzo! Quanto tempo è che sapevi di dovertene andare?! Perché non me ne hai mai parlato e non ti sei tenuta tutto dentro. Potevamo trovare una soluzione, insieme.”
“Volevo farti vivere i nostri ultimi giorni insieme senza farti avere preoccupazioni in testa. Era inutile essere in due a soffrire. Volevo farti vivere spensierato e ti ho nascosto tutto; l'ho fatto per te. Credi che sia stato facile riuscire a tenermi tutto dentro così? Fidati che non lo è stato.”
A quel punto, Leon, con due occhi rossi che sembrava stessero per uscire dalle orbite, tirò un grosso sospiro.
“Ti prego, Becca, resta qui con me. Non lasciarmi solo... ci siamo fatti una promessa, ricordi?”
“Le promesse fatte con leggerezza a tredici anni non possono durare per tutta la vita, non trovi anche tu? Mi dispiace Leon, le cose stanno così. Non è giusto ma non si può neanche fare nulla per cambiarle. Ora devo andare” le disse Rebecca alzandosi in piedi.

“Aspetta, ti accompagno alla porta.” fece Leon alzandosi anche lui da terra.
“Tranquillo, non c'è bisogno, la so la strada.” le disse lei togliendosi la felpa preferita del ragazzo e porgendogliela. “La maglietta la lascio sul tuo letto. Ti ho lasciato anche un libro sul letto. Parla di una ragazza che perde la madre da un giorno all'altro, e di come affronta il trauma. Tra l'altro la protagonista si chiama anche come me.”
“No, tienila. E anche la felpa. Mi piace l'idea che tu abbia qualcosa lì a New York che ti faccia ritornare in mente il mio viso.”
“Non servirà certo una felpa per farmi ricordare di te. Non ti dimenticherò mai, Leon. Grazie mille per tutto.”.
“È un addio quindi?” le chiese Leon per un ultima volta, sperando quasi che si tratti di un brutto sogno e di essere sul punto di svegliarsi.
“Direi proprio di sì...” rispose la ragazza.
“Sarebbe soltanto stupido darsi un bacio d'addio ora, vero?”
“Molto stupido” convenne la ragazza “e ci farebbe soltanto soffrire di più.”
Un istante dopo, le labbra di Leon si erano poggiate su quelle della ragazza. Questo era l'ultimo bacio, quello che avrebbe dovuto essere il più intenso, che avrebbe dovuto essere ricordato anche a distanza di molti anni. Eppure entrambi provavano un senso di amaro in bocca in questo bacio. C'era l'amore, forse anche più di ogni altra volta, ma insieme c'erano anche la tristezza, la rabbia, la rassegnazione, la malinconia e la paura. Avevano entrambi paura. Erano terrorizzati da come sarebbe stata stravolta la loro vita una volta che quella relazione, che durava ormai da quasi due anni e che entrambi desideravano da molto più tempo. I cambiamenti non sono mai facili da accettare, specialmente quando implicano la mancanza di una persona. Specialmente quando quella persona è così importante.
Il bacio durò almeno due minuti. Ogni tanto uno dei due accennava a separarsi, ma dopo neanche una frazione di secondo tornava subito dall'altro. Alla fine fu Rebecca ad allontanarsi, con un espressione sul viso che era la rappresentazione di ogni sentimento malinconico. In quel momento pensò al loro primo bacio: quella volta, quando i due staccarono le loro labbra, entrambi sorrisero perché era arrivato un momento che cercavano da anni. E ora il fato ha voluto dividerli. Qualcosa non andava bene in questo mondo, e i due lo sapevano bene.
“Amore mio, me ne devo andare” gli sussurrò lei all'orecchio “grazie ancora per tutto, sei fantastico.”
Leon non rispose e vide la ragazza allontanarsi e calarsi nel balcone di casa sua. Si era seduto con la schiena poggiata sul muro, le ginocchia al petto e le mani tra i capelli. Probabilmente non aveva ancora realizzato bene ciò che era successo. Non aveva compreso fino in fondo cosa sarebbe successo. Strillò quanto più poté per qualche minuto, poi iniziò a singhiozzare sdraiato per terra come un neonato.

 

Erano le dieci di sera quando i genitori di Leon, disperati perché non riuscivano a contattarlo in nessun modo per sapere dove fosse, lo trovarono sul tetto del palazzo. Era disteso al suolo e dormiva. Aveva perso così tante energie nei lamenti che alla fine era caduto in un sonno profondo. La sua pelle bruciava ancora di rabbia, il viso era segnato dalle lacrime e le sue nocche piene di tagli per i pugni dati al pavimento.
Nel frattempo, a qualche isolato di distanza, Rebecca aveva finito di caricare tutti i bagagli in un grande taxi giallo. Si mise seduta nei sedili posteriori, insieme a sua madre, che tanto le somigliava, e Simon, che un po' a fatica riuscì a salire nell'auto. Nel silenzio profondo che regnava in quel taxi, Rebecca si sentiva come se stesse precipitando in un burrone. Le sembrava quasi di avare il vuoto sotto i piedi. Decise di combattere quel vuoto scegliendo la giusta playlist dal suo iPod. Si mise le cuffiette nelle orecchie e appoggiò la testa sul finestrino, formando con il naso delle appannature sul finestrino ad ogni respiro. La attendeva un viaggio di tre quarti d'ora verso l'aeroporto, in compagnia solamente della sua musica e dei pini che le scorrevano davanti uno dopo l'altro quasi come se non fossero dovuti mai terminare.   

FINE CAPITOLO 1

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Buonasera ragazzi, ecco a voi il mio primo capitolo della mia prima storia, spero vi piaccia ^^ I primi capitoli saranno un po', come dire, fuori tema rispetto alla piega che la storia prenderà in seguito. Per ora il nostro Leon si ritrova abbandonato dalla sua ragazza, ma vi assicuro che non sarà l'ultima volta che vedremo questa bella rossa in azione. Se vi è piaciuto questo primo capitolo fatemelo sapere con una bella recensione! A prestooooo.

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Capitolo 2
*** Epiphany ***


Inutile dire come Leon avesse passato il periodo immediatamente successivo alla partenza della ragazza: ci mise tre settimane per uscire di casa. Era terrorizzato come un bambino all'idea di dover affrontare il mondo esterno da solo. Vedeva la realtà un po' come se si trovasse in un film horror, e ogni oggetto che vedeva fuori dalla finestra e gli faceva ritornare in mente Rebecca, sembrava che volesse ucciderlo togliendogli tutta l'aria per respirare. 
Quando si accorsero che non si faceva sentire da qualche giorno, inizialmente i suoi amici non gli davano peso: immaginavano che non avesse voglia di uscire, che stesse poco bene o qualcosa del genere. Poi, quando videro che né lui né Rebecca si erano fatti vivi il primo giorno di scuola, iniziarono a preoccuparsi. L'enigma fu risolto durante la seconda ora: la signora Planck, la professoressa di chimica, una donna piccola e graziosa, sulla cinquantina con gli occhi scuri e i capelli di una particolare tonalità biondo cenere, esordì all'inizio dell'ora dicendo di avere un'importante notizia da comunicare alla classe. Si schiarì la voce con un paio di colpi di tosse, poi  rivelò di aver trovato una lettera scritta da Rebecca nella sua cassetta della posta una settimana prima. Probabilmente la ragazza aveva scritto alla docente di chimica perché era l'insegnante con la quale aveva un rapporto più confidenziale, con la quale poteva parlare di altro al di fuori della scuola. Forse aveva deciso di scrivere alla signora Planck perché lei era l'unica professoressa che durante il primo anno di liceo fosse riuscita a lasciare qualcosa impresso nella coscienza di Rebecca, qualcosa che va oltre una semplice lezione di chimica.     
Ad ogni modo, dopo aver spiegato alla classe il modo in cui era venuta in possesso di tale lettera, tirò fuori dalla borsa un foglio di carta a quadretti piccoli piegato in quattro parti. La signora Planck rimase qualche secondo a fissare il manoscritto, rendendosi conto del fardello che le aveva affidato Rebecca. Diverse volte aveva pensato con ansia al momento in cui avrebbe dovuto leggere alla classe ciò che la ragazza le aveva scritto, e ora, alla fine, era giunta l'ora di espandere la brutta notizia anche alla classe e agli altri professori. Dopo un istante che agli altri alunni sembrò esser durato un'eternità, finalmente la signora Planck iniziò a leggere le parole di Rebecca, scritte con una grafia piccola e perfettamente chiara e ordinata:    

Salve prof, sono Rebecca Grint.    
Probabilmente in questo momento si starà chiedendo perché io le abbia scritto questa lettera, e perché tra le tante persone avrei dovuto scrivere una lettera proprio ad una professoressa. Volevo, tra le altre cose, ringraziarla per questo primo anno trascorso insieme. Trovo che lei sia un'insegnante fantastica, che sa trasmettere la propria materia nel modo giusto ai suoi alunni e ho sempre creduto che molti dei nostri professori debbano prendere esempio dalla sua pazienza e disponibilità. Se le dicessi che è riuscita a farmi appassionare alla chimica, nonostante la mia totale incompatibilità con le materie scientifiche non creda che la stia adulando: non ne avrei alcun motivo e presto capirà il perché.    
Come lei ben sa, mio circa dieci mesi fa fu diagnosticata la SLA a mio fratello maggiore Simon. Trovo che sia inutile girarci intorno, le sue condizioni non sono buone e l'attuale cura non dà segni di poter portare miglioramenti. Tuttavia alcuni mesi fa i miei genitori scoprirono durante uno dei numerosi controlli all'ospedale che in un ospedale privato di New York hanno messo a punto una nuova terapia che, dicono, potrebbe portare alla guarigione di Simon entro due o tre anni. I primi soggetti di questa terapia devono ancora terminare il ciclo, tuttavia i medici affermano che i risultati sono incoraggianti. Questa cura però sembrerebbe richiedere molto impegno, e come converrà, non è possibile effettuare degli spostamenti così importanti più volte al mese. È per questo che mio padre mi ha comunicato, circa un mese e mezzo fa, che ci saremmo trasferiti a New York. L'aereo che mi porterà nella mia nuova città è domani. Il tempo è agli sgoccioli, e vorrei che comunicasse alla classe della mia partenza.    
“Ma come, Rebecca, parti senza dire nulla a nessuno?”. Purtroppo è proprio così. Non ho voluto parlare a nessuno del mio trasferimento, mi sono tenuta tutto dentro nelle ultime settimane: non si poteva fare nulla per evitarlo, quindi ho deciso di far trascorrere agli altri gli ultimi giorni in mia compagnia con la solita spensieratezza alla quale sono abituati.    
Domani dovrò dirlo a Leon, e già so che non sarò pronta. Ho paura. È come se si avvicinasse sempre più il momento della mia morte. Sto per perdere un ragazzo meraviglioso, che sa capirmi a volte anche meglio di me e che mi ha sempre messo in cima alle sue priorità. Non si merita di venire abbandonato da un momento all'altro, ma gliel'ho detto: ho voluto passare l'ultimo periodo con lui in totale serenità. Domani faremo l'amore l'ultima volta, passeremo molto tempo nel letto ad abbracciarci e poi, quando me ne dovrò andare, gli dirò tutto. Spero soltanto che non la prenda troppo male... non riuscirei a perdonarmelo se entrasse in depressione per colpa mia.    
Volevo anche spendere qualche parola per i miei amici più cari: ringrazio Pleun per essere stata sempre la mia migliore amica, per avermi sempre ascoltata quando sentivo il bisogno di parlare di qualcosa, per avermi sempre appoggiata ed aiutata in ogni mia scelta, pur sbagliata che fosse. Ringrazio Ethan, perché anche se non sempre siamo andati d'accordo per il suo essere scorbutico, so che è una persona con un cuore d'oro, che è soltanto nascosto dietro ad un apparente aria da duro. Grazie anche a te, Julian, che sei una persona fantastica; non importa se sei un po' distratto, perché hai una gentilezza e una pacatezza d'animo che difficilmente ho trovato in altri ragazzi. Infine volevo parlare anche della piccola Sophie, anche se non frequenta la nostra classe: sei speciale piccola, non dimenticarlo. Non cambiare mai, per nessuno al mondo, e in bocca al lupo per l'inizio del liceo... vedrai, ti troverai benissimo.     
Pare che sia finalmente arrivata la fine di questa lettera d'addio al mondo in cui ho vissuto fino ad ora. In questi giorni stavo riflettendo sul detto “ognuno è artefice del proprio destino”. Forse è la più grande cazzata di tutti i tempi. Non l'ho scelto io di andare a New York e di lasciare tutto e tutti, è stato il fato a volerlo. È come un'onda anomala, non si può domare, non si può sconfiggere; si può solamente cercare di rimanere a galla al meglio possibile. Mi mancherà stare qui, mi mancherà la mia classe, Leon, i miei amici. Mi mancherà questa piccola città.

Addio per sempre,       
Rebecca Grint            

Quando la signora Planck sollevò lo sguardo verso la classe, vide un'espressione che dipingeva in maniera impeccabile quel sentimento chiamato tristezza sui visi di ventidue quindicenni. Fu come un proiettile per molti. Rebecca era una ragazza che non poteva non essere amata: era dolce, gentile, sempre disponibile a dare una mano a qualcuno, sempre pronta a sacrificarsi per il prossimo.    
Pleun nascose la sua testa tra le braccia e la poggiò sul banco, e stette per alcuni minuti a piangere e singhiozzare ininterrottamente prima di risollevare il capo mostrando due occhi gonfi e color porpora. Julian ebbe un comportamento simile. Ethan invece, dopo aver passato qualche minuto con le mani tra i capelli biondi e spettinati, si alzò di scatto in piedi, facendo cadere la sedia per terra.    
“Signora Planck, posso uscire un momento dalla classe?”.    
“Hai bisogno di qualcosa, Ethan?”    
“Solo di prendere un po' d'aria. Qualche minuto e torno”    
“Va bene, ma non andare troppo in giro per i corridoi, altrimenti i richiami me li prendo io”.    
Chiusa la porta della classe con violenza, Ethan cominciò a gironzolare per i corridoi della scuola. Passeggiava distrattamente e con la testa altrove, costeggiando una lunga fila di armadietti, i distributori automatici e una finestra che dava su un ampio cortile con al centro un campo da basket con i canestri arrugginiti e le reti sfilacciate. Quando, ad un tratto, incrociò un professore.    
“Tu, biondino, che ci fai qua fuori? In che classe sei?”    
“Secondo anno, sezione C, signore” disse il ragazzo al docente, seccato per esser stato beccato da un insegnante.    
“Non puoi stare qui, lo sai vero? Avanti, fila in classe”    . 
“È che...” Ethan cercò di inventarsi sul momento una scusa più convincente possibile “mi sono perso... Sa, dovevo andare in bagno ma non sono mai stato in questo piano della scuola, quindi cercavo qualcuno a cui chiedere dove andare”. Gli sembrava una scusa così assurda che non se la beveva neanche lui. A quanto pare però il professore gli credette (o per lo meno volle far finta) e indicò al ragazzo la strada per i bagni maschili.     
Si diede un'abbondante sciacquata al viso con acqua fredda, e cominciò a scrutare lo specchio davanti a sé, quasi come se non riconoscesse la persona che era riflessa in quella lastra di vetro e alluminio. Eppure era sempre lui, sempre il solito ragazzone con un'altezza notevole per i suoi sedici anni, con le spalle larghe e il fisico palestrato, gli occhi piccoli color cobalto e le sopracciglia bionde sempre aggrottate a suggerire un'aria arrabbiata che però è sempre stata soltanto apparente. Eppure, in quel momento, c'era qualcosa che non andava in quel viso. Perché si sentiva così per la partenza di quella dannata ragazzina? Non facevano altro che discutere, e ora, per qualche strano motivo, sentiva i crampi allo stomaco quando pensava a Rebecca. Aveva capito l'importanza di una persona solo dopo averla persa. A sedici anni, Ethan aveva finalmente capito cosa volesse dire tenere veramente ad una persona. Aveva capito quanto effettivamente contassero gli affetti nella vita.     
Alla fine dell'ora una mandria di studenti si catapultò fuori dalle proprie aule per dirigersi a consumare il proprio squallido pasto alla mensa scolastica. Ethan continuava a vagare senza una meta per il corridoio principale. Non aveva fame, aveva solo voglia di stare un po' da solo, di non avere nessuno che gli girasse intorno e lo disturbasse nel suo momento meditativo. Con la testa china e lo sguardo basso, fissava un oceano di sneakers e di jeans passargli davanti, ma nessuno sembrava far caso al suo stato di smarrimento, fino a quando non sentì il suo nome pronunciato da una voce fin troppo familiare: la signora Planck gli fece segno di venire da lei.    
“Che hai fatto fuori per tutta l'ora? Ti senti bene?”    
“Credo di sì... Sentivo solamente il bisogno di restare un po' da solo. Sa, professoressa, questa storia di Rebecca mi ha sconvolto. L'ho sempre ritenuta una ragazza irritante e viziata, non facevamo altro che discutere e mi sono sempre chiesto per quale motivo Leon continuasse a stare con una così... Però, ora che so che non la vedrò più, sento come un vuoto allo stomaco. Un po' come quando i miei genitori sono morti. Solo che allora avevo otto anni, non capivo fino in fondo cosa significasse perdere una persona per sempre”.    
“Lo capisco bene, Ethan, ma non puoi startene tutta un'ora fuori in questo modo. So che per voi che eravate più legati a Rebecca questa storia di cui siete venuti a conoscenza tutto di un botto è stata come una bastonata, e per questo se potrò aiutarvi in qualche modo sarò ben felice di farlo... ma Ethan, non puoi passare un'ora così. Questa volta ho deciso di far finta di nulla, ma per favore, cerca di non passare più le ore a zonzo per la scuola, ok?”    
“... Va bene, grazie. Se non c'è altro, andrei alla mensa.”    
“Nient'altro, puoi andare. Buon pranzo.”    
Dopo aver riempito il vassoio con quello che sarebbe dovuto essere puré di patate, un paio di fettine di carne provenienti da qualche animale indefinito, un budino al cioccolato e un succo di frutta, Ethan si mise alla ricerca di un tavolo in cui sedersi. Dopo una rapida occhiata, trovò i suoi compagni di classe seduti intorno ad un tavolo al centro della sala. Mentre lui si avvicinava, Pleun si fece più a sinistra per permettergli di sedersi accanto a lei, mentre Julian era nel bel mezzo di una discussione con Alan, un ragazzo della sua classe con dei capelli scuri portati a spazzola, un vistoso apparecchio sull'arcata dentale superiore, un paio di occhiali con una piccola montatura rettangolare  e il viso che, in generale, ricordava vagamente un topo. Il topos del dibattito era il seguente: secondo Julian il miglior pranzo della settimana è quello del martedì, in cui viene servita la pizza, mentre Alan sosteneva che non c'è nulla di meglio che mangiare un buon hot-dog il venerdì. Dall'altra parte del tavolo, seduta accanto a Pleun, la piccola Sophie era persa nelle sue fantasie, mentre assisteva alla sua prima mensa da liceale. Tutti quegli studenti così grandi e la confusione che generavano erano una completa novità per lei. Era proprio come nei film: c'erano i tavoli riservati alla squadra di football (non c'era propriamente scritto “per la squadra di football”, ma nessuno avrebbe mai osato sedersi lì), così come quelli per i team di baseball e di basket; vicino agli sportivi sedevano le cheer-leaders, o comunque le ragazze più popolari e carine della scuola; ai tavoli più esterni e meno in vista della sala sedevano quelli che erano considerati dalla masse gli “sfigati”, cioè coloro che avevano degli interessi particolari che andavano oltre il calcio e la pallacanestro, e magari discutevano di computer, videogiochi, motori ecc.; alcuni poi, avevano i tavoli tutti per sé: erano i cosiddetti asociali, coloro che non riescono a farsi degli amici. Oltre a queste categorie, esistevano le persone “normali”, la classe media del liceo. Ben presto Sophie avrebbe scoperto la stupidità di questa divisione in “caste”, e di come gli studenti più popolari e in vista della scuola fossero costretti a tenere sempre un certo comportamento in ogni situazione per non rischiare di essere degradati tra la gente comune, tra la plebe.    
Un altro aspetto era simile ai classici film sulle high school americane: il capitano del team di football, un certo Nicholas Drums, del quarto anno, aveva appena bloccato in mezzo alla sala pranzo un ragazzo della sua classe, Vincent Grundler, un ragazzetto piccolo e mingherlino, che se non fosse stato il secondo studente più brillante della scuola, nessuno lo avrebbe distinto da un ragazzo del primo anno: non arrivava neanche al metro e settanta, indossava un paio di jeans tenuti alla vita da una cintura marrone tirata fino all'ultimo foro disponibile, un paio di occhiali squadrati con delle lenti spesse come binocoli che contribuivano ancora di più a dargli la classica aria da secchione poco sveglio, e una costellazione di brufoli che prendeva spazio lungo il viso.        
Quando Nicholas lo vide con il suo vassoio in mano dirigersi ad uno dei “tavoli degli sfigati”, si incamminò verso il piccolo Vincent.    
“Ehi Grundler! Sì, dico proprio a te” gridò Nicholas in mezzo alla sala, facendo girare molte persone, compreso il gruppo di Ethan e gli altri, che si trovava solamente ad un tavolo di distanza, “devi aiutarmi a fare quel lunghissimo  e noiosissimo compito che ci ha dato il prof di storia, non ho idea di come si faccia”    
“V-va bene, Nicholas... Vuoi che c-ci vediamo in biblioteca d-dopo i tuoi allenamenti?” disse balbettando, intimorito.    
“C'è un problema, piccolo Vincent” il giovane quarterback lo prese sotto il  braccio, facendolo sembrare suo figlio “dopo gli allenamenti dovevo uscire con la mia ragazza, e non ho il tempo di venire in biblioteca... temo proprio che ti toccherà fare anche il mio tema”    
“M-ma io questa sera ho una cena a casa dei miei nonni...”    
“Mi dispiace, significa che porterai i libri dai tuoi cari nonnini”    
A quel punto, le orecchie di Ethan avevano già sentito troppo. Posò il suo succo di frutta con violenza sul vassoio e scattò verso i due, scostando il ragazzo più gracile.    
“Senti se quest'idea ti piace: lasci stare questo povero ragazzo, il tuo dannato tema di storia te lo fai da solo e la tua ragazza la fai uscire con me. Allora?”. Sebbene Ethan fosse due anni più piccolo, fisicamente era ben piazzato come Nicholas, e forse anche più alto di qualche centimetro, e visti da fuori sembravano due leoni pronti per sbranarsi.    
“E tu chi diavolo saresti?” chiese Nicholas senza scostarsi di un centimetro.    
“Uno che si è stufato di voi idioti del team di football che ve ne girate per la scuola come se foste delle divinità: tornate con i piedi  per terra, sfigati. Come vedi, basta trovare qualcuno grosso quanto voi per zittirvi.”    
A quel punto, il giocatore di football si lasciò partire un gancio destro con il quale sperava di stendere l'altro ragazzo, ma Ethan schivò con velocità il pugno e con una spinta lo mandò per terra, a tre metri di distanza.    
Immediatamente i compagni di squadra di Nicholas si precipitarono ad aiutare il loro amico. Dall'altra parte, Ethan guardava i suoi avversari con occhi indemoniati. Aveva una lunga vena gonfia che gli attraversava il collo, e il respiro pesante, che sembrava quello di un animale feroce; il suo corpo era molto caldo, stava con il petto all'infuori e le braccia aperte, come se stesse invitando il team ad attaccarlo. Questi, però, sembravano intimoriti e non osavano avvicinarsi. Appena prima quel diavolo biondo andasse all'attacco contro dieci ragazzi, sentì due braccia che lo bloccarono. Pleun aveva abbracciato Ethan intorno alla vita, appoggiò la fronte sulla sua schiena larga e gli disse con voce bassa di smetterla, o sarebbe finito nei guai.     
Quelle parole furono come un narcotizzante per Ethan: la vena sul collo cominciò pian piano a sgonfiarsi, il respiro tornò ad un ritmo regolare e i livelli di adrenalina nel suo corpo si abbassarono rapidamente. Un professore giunse sul posto quasi istantaneamente, facendosi spazio tra la folla di studenti che si era riunita a guardare la scena. Era lo stesso che aveva incrociato prima Ethan per i corridoi.     
“Che succede qui? Ci sono problemi? Voi due... cosa avete combinato?”    
“Niente signore, non c'è nulla che non va. Cosa mai sarebbe dovuto essere successo?” rispose Nicholas all'insegnate, sperando di riuscire a farla franca.    
“Non lo so... ho visto che si erano tutti riuniti intorno a voi due, e temevo che ci fossero dei problemi, magari una rissa. Ma a quanto pare mi sbagliavo, non è vero?”    
“Una rissa?” chiese Nicholas cercando di fingersi il più stupito possibile “con l'impegno che ci metto nel football e con quello che studio per avere una media scolastica del genere, sarebbe stupido farsi punire per una cosa così futile, non trova?”    
La faccia di Ethan era sbalordita nel vedere quanto Nicholas potesse essere sfacciatamente bugiardo e bravo con le parole quando gli serviva per non rimetterci.     
“Sì, hai ragione Nicholas. Non avrei nemmeno dubitare di te” disse il professore, quasi rassicurato dalle parole del capitano della squadra. Dopodiché, rivolse un altro sguardo ad Ethan e lo ammonì: “ti ho riconosciuto, sai? Sei quello che ho beccato oggi in giro per i corridoi! Ti tengo d'occhio, sappilo”.    
Nicholas fece una strizzata d'occhio a Ethan, come a fargli capire che se non fosse stato per lui ora sarebbe si sarebbe trovato in presidenza in un mare di problemi.     
Ben presto tutti tornarono ai propri posti per terminare il pasto. Appena Ethan ritornò al tavolo, venne subito ripreso da Julian. Non erano mai andati d'accordo i due, ma c'è da dire che, sebbene Ethan fosse fin dalla nascita particolarmente scontroso e difficilmente riusciva a non discutere con qualcuno grazie al suo caratteraccio, tra i due c'è sempre stato un astio particolare, fin da quando erano bambini. Non si è mai riuscito a capire il motivo di tanto disaccordo, ma anche da piccoli erano come cane e gatto, e finivano sempre per picchiarsi.    
“Come al solito tu sai sempre come trovarti nelle situazioni migliori, non è vero?” disse Julian rompendo il silenzio che regnava nel tavolo.    
“Io starò anche in mezzo ai casini ogni volta, ma tu invece il coraggio lo sai che cos'è? Potevi aiutarlo tu quel ragazzo al posto mio, e invece hai anche da ridire su ciò che ho fatto...”    
“Non sto dicendo che tu abbia fatto una cosa sbagliata: è stato un gesto altruista e nobile il tuo, senza dubbio, ma anche incredibilmente stupido. Perché mai avrei dovuto farmi picchiare per una persona con cui non ho neanche mai scambiato una parola? Non ha senso, Ethan”    
“C'è una cosa che si chiama etica in questo mondo. Tu che passi tutto il tempo sui libri, l'hai mai sentita? Se puoi aiutare qualcuno in qualche modo, allora devi farlo. Quel ragazzo aveva bisogno di aiuto, e io gliel'ho dato. E poi l'altro, quel Nicholas... meritava una lezione, e ancora non l'ha ricevuta. Per ora.”    
“Va bene, va bene” interruppe Pleun il discorso, evitando così un altro dei numerosi litigi “che hai fatto fuori dalla classe per tutta l'ora di chimica invece?”    
“Mi sono fatto un giro per la scuola: sai, avevo bisogno di starmene un po' da solo a riflettere. E così ho deciso di farmi una passeggiata..”    
“Immagino che il nostro filosofo abbia fatto delle scoperte sensazionali” lo interruppe Julian con l' ironia che Ethan ha sempre odiato; ricambiò questa battuta con uno sguardo fulminante “Ti prego, illuminaci, o maestro”    
“Sì” rispose Ethan indispettito “ho scoperto quanto sono importanti le persone come voi”.    

Il suono della campanella si diffuse con vigore per tutta la scuola sancendo definitivamente la fine della giornata scolastica. Con una velocità inversamente proporzionale a quella con cui, svogliati, entravano in classe la mattina per iniziare le lezioni, tutti gli studenti si sbrigarono ad uscire dalle loro classi, contenti più che mai di non doverci più entrare fino alla mattina successiva. E sebbene il primo giorno di scuola potesse riservare agli studenti qualche aspetto positivo, come ad esempio poter rivedere tutti i compagni che erano stati lontani per un'intera estate, questa parvenza scomparve ben presto, facendo posto alla routine e alla noia.    
Pleun, Sophie e Julian percorrevano insieme a piedi la strada che li avrebbe ricondotti a casa. Quest'ultimo precedeva le due ragazze, spazientendosi continuamente per l'andatura lenta delle amiche, che però sembravano non dargli molto credito. Dietro, Sophie parlava con occhi sognanti delle sue impressioni sulla scuola. Le raccontò di un ragazzo della sua classe che trovava molto carino, del professore di ginnastica che si credeva un allenatore di una squadra olimpionica e faceva fare molti esercizi complicati e di un gruppo di ragazzi che venivano dalla stessa scuola media e che volevano comandarsela all'interno della classe. Aggiunse anche però credeva di aver fatto una gran figura con i suoi compagni facendosi vedere con degli studenti più grandi, e che tre persone le hanno chiesto se conosceva Ethan dopo la pausa pranzo, rimanendo scioccate quando Sophie gli rivelò che erano amici d'infanzia. Quando Pleun sentì il nome di Ethan arrossì di colpo. Non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva un debole per quel ragazzo, e le faceva piacere che solo poche ore prima era riuscito a calmarlo mentre era infuriato. Persa nei suoi pensieri, si perse l'ultima parte del discorso di Sophie, che ormai da più di un quarto d'ora non faceva che vomitare tutto ciò che gli era passato per la mente durante la mattinata.    
“Insomma, vi volete sbrigare?!” le riprese il povero Julian, risvegliando Pleun dal suo sogno a occhi aperti “non è possibile che siate così lente. Che cosa avete oggi?”    
“Sei sempre così noioso” lo apostrofò Sophie “se hai tanta fretta vai pure, nessuno ti ha chiesto di aspettarci. Ci vediamo domani”    
Spiazzato dalla risposta, Julian non poté fare altro che adeguarsi al passo delle due, mettendosi all'ascolto del monologo della piccola Sophie, finché non fu interrotta da Julian, quando i tre passarono sotto casa di Leon.    
“Secondo voi starà tanto male?”    
“Parli di Leon? Credo di sì, molto peggio di tutti noi...” rispose Pleun, ancora traumatizzata dalla partenza della sua migliore amica “spero solo di rivederla il prima possibile, anche se ha detto che probabilmente passerà un bel po' di tempo prima che tornerà.”    
“Vorrei solo poter fare qualcosa per lui. In questo momento, il periodo peggiore lo sta passando proprio Leon, e noi, maledizione, non possiamo fare nulla”.    
“Non ti preoccupare, Julian” disse Pleun “non siamo supereroi che devono salvare qualcuno, siamo semplicemente suoi amici, e l'unica cosa che possiamo fare è stargli vicino il più possibile per non farlo sentire solo”    
I restanti cinque minuti di cammino furono percorsi in silenzio, mentre i tre ragazzi riflettevano sulle conseguenze a cui avrebbe portato il trasferimento di Rebecca tra loro.

Ethan suonò il campanello. Ad aprirgli fu un uomo alto quanto lui ma decisamente più largo. Aveva una grossa pancia, un gran numero di piercings sul viso e una lunga barba bionda con un po' di ciuffi bianchi sparsi qua e là. Indossava una maglietta nera di un gruppo rock a Ethan sconosciuto, dalle cui maniche spuntavano due grosse braccia, così come il collo taurino, coperte da ogni genere di tatuaggio. Il ragazzo, un po' intimorito dalla burbera figura dell'uomo che gli si era presentato davanti, entrò nella piccola sala.    
“Come posso aiutarti, ragazzo?”    
“Vorrei fare un tatuaggio...” disse Ethan un po' esitante.    
“Non avevo dubbi su questo” rispose il tatuatore, terminando con una risata, più simile ad una serie di colpi di tosse, che mostrò due file di denti non proprio bianchissimi.    
“Avevo in mente un diamante, o una gemma, qualcosa di simile...”    
“Quanti anni hai, ragazzo?”    
“Diciotto”    
“Hai un documento con te?”    
“Mi dispiace, ma l'ho scordato a casa”    
“Perché vuoi farti questo tatuaggio?”    
“Sono affari miei questi, non credi?” rispose Ethan con la sua solita spavalderia a quell'uomo che aveva le dimensioni di un orso.    
“È vero, ma dal momento che non puoi dimostrarmi di essere maggiorenne, non ti farò nessun tatuaggio se non vedrò prima che hai un'ottima motivazione per farlo. Abbiamo una nostra etica, noi tatuatori, capisci? Quindi avanti, ti ascolto”        
Cosa diavolo voleva adesso questo tizio? Come si permetteva di trattarlo come un ragazzino e di ricattarlo? Per un momento si rizzò, come pronto per iniziare una rissa, poi ripensando a chi aveva di fronte, pensò che forse era meglio non andare in escandescenza come al suo solito e rispondere alla domanda.    
“Vedi” sospirò Ethan “oggi ho scoperto che una ragazza con la quale sono cresciuto si è trasferita a migliaia di chilometri e probabilmente non la rivedrò mai più. Non che sia mai stato innamorato di lei o cosa: era fidanzata con il mio migliore amico, e in più non facevamo altro che litigare. Però oggi ho scoperto che era partita, e ho iniziato a stare male. Per la prima volta, ho sentito veramente di voler bene a qualcuno, e ho realizzato che anche se non mi è mai andata molto a genio quella ragazza, siamo cresciuti insieme. Così ho capito che le persone più importanti che ho a questo mondo sono quelle che mi hanno accompagnato fino ad ora, sono i miei amici. Sono la cosa più preziosa che ho, per questo avevo scelto il diamante... so che è un collegamento stupido, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente...”    
Ethan abbassò lo sguardo in silenzio, in attesa del giudizio.    
“Sai, ragazzo... hai ragione, è un'idea un po' strana in effetti. Però mi hai raccontato una storia niente male, e sembra che questa esperienza in qualche modo di abbia fatto crescere. Come ti chiami?”    
“Ethan”    
“Io sono Michael. Vediamo se ho già qualcosa di pronto” gli disse iniziando a spulciare tra decine di disegni “ecco qui! Che ne dici di questo?”    
Mostrò un diamante avvolto in un sottile nastro giallo ocra, con un piccolo fiore sullo sfondo.    
“È fantastico! Proprio quello a cui pensavo.”    
“Mi piaci, Ethan” strillò Michael facendo quasi prendere un infarto a Ethan “vieni con me, ma ti avviso: essere così grosso a “diciotto” anni non ti allevierà il dolore. Sta' pronto a soffrire”    
“Non c'è problema: nessun dolore mi spaventa” rispose Ethan , che aveva appena ritrovato il suo classico sorriso beffardo.

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Ecco qui il secondo capitolo :D la storia procede a rilento causa esami di maturità, ma vi prometto che prossimamente sfornerò un capitolo dopo l'altro! Fatemi sapere cosa ne pensate :))
Ciaooo!

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Capitolo 3
*** Trauma ***


Una signora dai capelli corvini e la pelle abbronzata stava parlando al telefono con un'amica, quando sentì qualcuno bussare alla sua porta. Dopo essersi scusata e aver promesso che avrebbe richiamato a breve, si affrettò verso la porta, non avendo la più pallida idea di chi potesse essere. Si ritrovò davanti un ragazzone di venti centimetri più alto di lui che conosceva decisamente bene:
“Ethan! Che piacevole sorpresa, sarà passato un mese dall'ultima volta che ti ho visto. Sei cresciuto ancora, o sbaglio? Ah, perdonami... entra pure! Non cambi mai tu, eh? È quasi l'ora di cena, adesso ti obbligo a restare a cena da noi!”
“Grazie, zia Lisa, ma penso che me ne tornerò a casa...”
“Dici davvero?” gli disse la donna sistemandogli una sedia in cucina “Questa sera preparo la pizza con la mozzarella e il pomodoro, sei sicuro di non voler restare? Oh, ma ora che ci penso la cucina di tua nonna è insuperabile! Come sta ora? Ha sempre quel fastidioso dolore alla schiena? Perché la settimana scorsa è passato un signore in libreria, mai visto prima: aveva acquistato un libro di Tolstoj e uno di Allan Poe. Tu sai quanto io apprezzi gli uomini che hanno gusto in fatto di libri, e così ho iniziato a fargli qualche domanda. Ho scoperto che si è trasferito in città all'inizio dell'estate e che è un osteopata. Ricordandomi dei dolori di tua nonna mi sono fatto lasciare il biglietto da visita, ma poi mi sono scordata di chiamarla. Ora te lo do subito” disse cercando in una borsa piena di ogni tipo di oggetto.
Ethan, nonostante conoscesse la donna da così tanto tempo da chiamarla zia, non si era mai abituato alla sua eccessiva eloquenza, e rimase sbigottito nel sentire tante parole tutte insieme. La gentilezza, l'amabilità e i modi cortesi della signora Lisa stridevano nettamente con il carattere burbero e talvolta indisponente di Ethan. Ma anche se sapeva del caratteraccio del ragazzo, era certa che dentro di lui ci fosse anche un lato tenero, solo che bisognava scavare un po' in profondità per trovarlo.
“Se c'è la pizza, credo proprio che dovrò chiamare mia nonna e dirle che non ci sarò a cena. Comunque ultimamente con la schiena sta meglio: sto cercando di aiutarla con i lavori di casa, quindi si sta sforzando un po' di meno.”
“L'ho sempre detto che hai un cuore d'oro” disse la signora Lisa dandogli un pizzicotto sulla guancia “e ora sei diventato proprio un uomo: guarda che muscoli, e che spalle! Non capisco ancora perché tu non ti sia ancora fidanzato con Pleun.”
“Zia Lisa, te l'ho detto mille volte...” cercò di giustificarsi Ethan.
“Ma finiscila, che lo so benissimo che ti piace da quando eri piccolo. Che vi piacete, anzi. Proprio non capisco perché vi facciate tutti questi problemi. Bello mio, ormai sei grande e grosso, è possibile che a sedici anni tu non abbia il coraggio di andare da una ragazza e dirle ciò che senti per lei?”
Le guance di Ethan divamparono violentemente colorandosi di un rosso scarlatto, come quello della maglia che aveva addosso.
“Forse hai ragione...” ammise il ragazzo imbarazzato.
Ethan cercò subito di cambiare il discorso.
“Comunque ero venuto per lui... Come sta Leon?”
La donna si incupì di colpo.
“Sapevo che purtroppo saremmo arrivati a questo punto. Non sta bene, Ethan. Non sta bene per niente. È da una settimana che non esce di casa, che per strappargli qualche parola dalla bocca faccio una fatica immensa, sta mangiando pochissimo, non fa altro che stare sdraiato sul letto a guardare il soffitto... anche Bill non sa più cosa inventarsi... Ti prego, tesoro, tu sei il suo migliore amico: cerca di fare qualcosa per lui.”
“Certo zia, certamente. Ora dov'è?”
“È in camera sua, credo che stia dormendo. Vuoi che vada a svegliarlo?”
“Non preoccuparti, aspetterò che si svegli. Intanto...” si interruppe un momento Ethan, come se stesse pensando se fosse il caso o meno di pronunciare quelle parole “che ne dici di insegnarmi a preparare la pizza?”
Un raggio di luce riaccese il viso smorzato dalla preoccupazione per il figlio della signora Lisa.
“Ma certo! Così la prossima volta la cucinerai per Pleun.” disse la donna, che aveva capito subito i pensieri di Ethan.
Dopo un po' di farina e una manciata di minuti, l'impasto era spalmato sul tavolo, con cinque pizze belle tonde pronte per essere condite e infornate.
“Sai, Ethan, è stato un cuoco italiano ad insegnarmi a fare la pizza. È successo tutto quando andai in vacanza in Italia, quasi diciassette anni fa: partimmo io e la Catherine, la madre di Rebecca. A quei tempi io ero ancora single, mentre lei aveva iniziato a frequentarsi da qualche mese con un ragazzo che poi si è trasferito l'anno successivo. Eravamo riuscite a risparmiare i soldi per farci un viaggio insieme, solo noi due, tutto il resto del mondo alle spalle. Catherine stava per finire l'università, mentre io ero sempre più desiderosa di aprirmi una di quelle piccole librerie, dove non vengono venduti i soliti libri scontati, ma quelli che ti cambiano la vita... Ehm, dove ero rimasta? Ah, sì... Si venne a presentare quest'uomo, avrà avuto qualche anno in più di noi, che ci vide totalmente smarrite per le vie di Roma con una cartina in mano. Allora chiuse il ristorante per quel pomeriggio, andò dai suoi dipendenti e gli pagò il turno senza che lavorassero e ci portò in giro per il centro. Ancora lo ricordo, alto, con i suoi occhi color miele e il suo inglese un po' traballante. Anche Catherine era persa di lui, ma aveva occhi solo per me... alla fine ci portò a cena alla sua pizzeria, avresti dovuto vedere quanto era carino quel posto... Mangiai la pizza più buona della mia vita. Mi piacque così tanto che gli chiesi di insegnarmi a prepararla. Così lui mi portò nelle cucine quando i clienti iniziarono ad andarsene via, e mi insegnò la ricetta, ma mai, in sedici anni, per quanto mi impegni, sono riuscita ad avvicinarmi alla sua bravura.”
“E poi?” chiese Ethan, che per la prima volta avrebbe voluto che la zia avesse parlato un po' di più.
“Poi cosa?”
“Cos'è successo con questo signore? L'hai più rivisto? Non vi siete mai più sentiti? Cos'è successo dopo?”
“Cos'è tutta questa curiosità?” chiese imbarazzata la signora Lisa, abbassando lo sguardo “Cosa può essere successo in seguito? Ci siamo promessi che se fossi tornata in Italia l'avrei cercato, ma non è successo. Poi Catherine ha conosciuto Evan poco prima che si laureasse, all'università, e entrambi si innamorarono del modo in cui scriveva l'altro. Io, pochi mesi dopo aver aperto la mia libreria e aver coronato il mio sogno, mi ritrovai un giorno Bill dentro il negozio ed iniziai ad uscirci... ed ora eccoci qui, io e te a cucinare la pizza, e Catherine e Evan a New York, lasciandomi con una lettera strappalacrime nella posta che solo loro sanno scrivere, con la promessa che, prima o poi, ci rivedremo.” disse la donna facendosi cadere una lacrima e tirando su con il naso.
“Già, anche Rebecca ha lasciato una lettera alla scuola... l'ha detto solamente a Leon, ma secondo te perché?”
“Te lo dico io il perché” si sentì una voce irrompere nella cucina “lei mi ha detto che ha agito così perché non voleva che anche noi dovessimo sopportare un fardello del genere, e ha preferito godersi gli ultimi giorni in nostra compagnia senza che da parte nostra ci fosse qualche segno di malinconia, di sofferenza... ha detto che per lei era già abbastanza vedere questi giorni come un conto alla rovescia, e che non voleva in nessun modo condividere quella sensazione d'ansia con noi”
“Ciao, tesoro” disse la madre riacquistando il sorriso in un secondo, come solo lei sa fare “finalmente hai ripreso a parlare un po'... Stasera faccio la pizza, resta anche Ethan a cen...”
“E tu cosa ne pensi?” la interruppe bruscamente Ethan.
“Non so più nemmeno io cosa pensare. Pensare mi fa male, guardami come mi sono ridotto” disse Leon, che effettivamente esibiva un bel paio di occhiaie sotto i suoi occhi ambrati e una corporatura un po' più longilinea ed esile rispetto ad appena una settimana prima.
“E quindi hai intenzione di rimanere recluso dentro casa fino alla fine dei tuoi giorni?” rispose Ethan, con i suoi soliti modi poco alla mano.
“Certo che no, idiota. Ho solo bisogno di riprendermi un attimo, di calmare un po' il macello che ho in testa. Mi sarà concesso dopo quello che è successo, no?”
“Certo che devi riprenderti, Leon, ma non chiudendo le tue porte a tutti: esci, sfogati, fai qualcosa. Parla con i tuoi amici! A questo servono gli amici, maledizione! Finché te ne starai da solo dentro casa a fissare il soffitto o le vostre foto appese al muro sarà solo peggio. Devi rassegnarti, tanto non tornerà. O comunque, anche se dovesse rifarsi viva, non lo farà di tre anni.”
“Andiamo in un'altra stanza, Ethan. Dobbiamo parlare in privato” disse Leon, dopo un lungo attimo di silenzio”.
Senza dire una parola, Ethan seguì l'amico. Attraversarono la stanza di Leon (era piuttosto disordinata, con il letto disfatto, il portatile sulla scrivania affiancato da una tazza e una scatola di cereali vuota, mentre a terra c'era la guerriglia dei fogli di carta appallottolati), uscirono fuori in balcone e, con un'agilità e una grazia degna di nota, salirono sul tetto del palazzo. Si sedettero sul muretto con i piedi a penzoloni verso il sole che cominciava a disperdersi al di là dell'orizzonte. Per un istante i due osservarono quel disco di fuoco che si faceva sempre più piccolo, sempre più lontano. Stormi di rondini cominciavano la loro marcia verso i paesi caldi e attraversavano il cielo, che aveva assunto tutte le tonalità dell'arancione, del rosa e del viola. Un leggero soffio di aria fresca manteneva la temperatura gradevole nonostante fosse ancora soltanto metà settembre e non erano neanche le otto di sera. Ethan si sfilò la felpa, mostrando il tatuaggio nuovo di zecca sull'avambraccio.
“E quello?” chiese Leon indicando il braccio dell'amico “non sapevo che volessi farti un tatuaggio”
“Oh, è una cretinata, l'ho fatto perché non avevo nulla da fare” rispose Ethan. Il suo orgoglio non gli avrebbe mai concesso di rivelare il significato di quel disegno. Poi riprese: “Comunque... cosa devi dirmi?” chiese, incuriosito dal motivo per cui Leon desiderasse una conversazione privata.
“Niente, forse sono io che mi immagino le cose, ma... non ti sembra un po' strano il modo in cui Becca se ne è andata via?”
“Cosa intendi?”
“Vedi, da quando se ne è andata si è cancellata da facebook, non risponde alle mail e il telefono è sempre staccato... è un po' come se fosse sparita dal mondo. Non è rintracciabile in alcun modo. In più controllo la Homepage del Times ogni ora, ma ancora niente: suo padre non ha ancora scritto nessuno stramaledetto articolo. Va bene, Simon sarà malato e avrà tutta una lunga serie di problemi, ma mi sembra una scusa un po' campata per aria, mi è parso di capire che non era veramente quello il motivo per cui sono scappati così di fretta a New York, senza dire nulla a nessuno...” rivelò Leon, con gli occhi color miele che brillavano illuminati dalla luce scarlatta del Sole che si andava ad inabissare dietro le basse montagne che davano ad ovest.
convinto
“Te l'ha detto il perché: non voleva trasmettere a nessuno l'ansia degli ultimi giorni. Ha voluto tenere la propria frustrazione tutta per sé. È un comportamento da ammirare, non su cui bisogna giocare a Sherlock Holmes”
“Per lei ho come una specie di sesto senso, capisci? È un po' come se riuscissi a leggere la sua mente, a comprendere ciò che pensa. Non credo di aver immaginato tutto quanto”
“Beh” disse Ethan che confidava poco in ciò che credeva Leon “hai detto che comunque, ora come ora comunque Becca è introvabile, vero?”
“Già” sbuffò Leon, grattandosi la testa e sistemandosi allo stesso tempo i capelli mori che ormai iniziavano a diventare lunghi. “A meno che non si faccia sentire lei, non la riuscirei a trovare nemmeno se andassi a darle la caccia da New York...”.
In quel momento una ragazzina con dei lunghi capelli castano scuro, gli occhietti vispi e neri come dei chicchi di caffè, con addosso una tuta azzurra e la stessa maglietta della scuola di karate presso cui si allenava il fratello. Arrivò nel balcone che si affacciava dalla camera di Leon, fiera dei suoi dodici anni compiuti appena due giorni prima. Si piazzò in mezzo al balcone, e dopo una rapida occhiata attorno a sé inspirò a pieni polmoni e strillò: “LEOOOOOON! È PRONTA LA PIZZA, SBRIGATI E VATTI A LAVARE LE MANI!!!”. Probabilmente il fratello l'avrebbe sentita anche se si fosse trovato dall'altra parte dell'America.
“Che cosa avrai mai da strillare?” bofonchiò il fratello mentre si calava all'interno del suo balconcino. Si aggiustò il ciuffo scuro di capelli quando arrivò a terra
La ragazzina arrossì di colpo quando vide Ethan che scendeva anche lui. Il ragazzo dai capelli dorati eseguì come se fosse niente un salto da almeno tre metri, cadendo a terra totalmente illeso.

“C-Ciao, Ethan...” balbettò la ragazzina profondamente imbarazzata, mentre cercava di nascondere in malo modo l'innamoramento segreto per quello che effettivamente era suo cugino e che conosceva da quando era nata.
“Ciao, Anne” rispose Ethan rivolgendole un sorriso radioso (con la famiglia Ewart riusciva quasi ad eliminare ogni aspetto del caratteraccio che aveva di solito) “come sono andati gli allenamenti di karate?”
“Ehm... bene!” rispose Anne con un velo di incertezza “ho vinto un combattimento con un ragazzo più grande di un anno, anche se è un ragazzo un po' magrolino”
“Bravissima, piccolina” disse il ragazzo passandole la mano sui capelli e dandole una vigorosa carezza sulla testa, provocando, per altro, un ulteriore arrossimento delle guance. “Andiamo a mangiare un po' di pizza? Ho aiutato io la zia a farla”
“V-va bene” disse Anne con entusiasmo.
“Anne, noi arriviamo” la persuase Ethan dolcemente “ti dispiace se però prima parlo solo un altro minuto con tuo fratello?”
Senza dir nulla, la ragazzina fece un cenno di assenso uscì dalla stanza. Ethan rimase in silenzio, alla ricerca del modo giusto in cui costruire ciò che aveva da dire. Ci fu un breve, ma interminabile, momento di silenzio, in cui si sentiva solamente il suono dei respiri dei due ragazzi.
“Senti, Leon...” cominciò “sai che non sono molto bravo con le parole, quindi cerca di venirmi incontro e prendi per buono quello che ti sto per dire. Devi riprenderti da questa cosa: torna a scuola, con i tuoi amici. Non startene rintanato dentro casa, altrimenti non smetterai mai di pensare a lei. Torna da noi, ci manchi” disse Ethan mettendosi sotto braccio l'amico e stringendolo forte a sé.
Leon capì che era arrivato il momento di reagire. Era stato dieci giorni rinchiuso in casa, facendo preoccupare i genitori e i suoi amici.
“Va bene... domani torno”
“Bravo, così mi piaci!” rispose Ethan portando la sua fronte attaccata a quella dell'amico e incatenando i loro sguardi. Per un secondo, quei due paia di occhi che sembravano fatti di miele e di vetro si fissarono, quasi entrarono in contrasto, esprimevano tutto l'affetto che c'era tra i due.
La voce acuta di Anne proveniente dalla sala da pranzo li interruppe:
“Insomma, ragazzi! Sbrigatevi o si fredderà la pizza”.
“Sarà meglio che ci sbrighiamo” disse Ethan “altrimenti tua sorella picchia anche noi”. I due, ridacchiandosela, uscirono dalla camera in disordine. Leon chiuse la porta, lasciandosi dietro le spalle la brutta storia della partenza di Rebecca e pronto per iniziare una nuova fase della sua vita.

 

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