Amor onni cosa vince.

di Chemical Lady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Parte Prima, Capitolo Primo. ***
Capitolo 3: *** Parte Prima, Capitolo Secondo. ***
Capitolo 4: *** Parte Prima, Capitolo Terzo. ***
Capitolo 5: *** Parte Prima, Capitolo Quarto. ***
Capitolo 6: *** Parte Prima, Capitolo Quinto. ***
Capitolo 7: *** Parte Prima, Capitolo Sesto. ***
Capitolo 8: *** Parte Seconda, Capitolo Settimo. ***
Capitolo 9: *** Parte Seconda - Capitolo Otto ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


modellostorieefp

Buonasera a tutti!

Non ho intenzione di dilungarmi troppo sull’inizio della storia.

Avverto solo che ci saranno spoiler sia sulla prima che sulla seconda stagione, perché ora iniziamo a lavorare seriamente su di esse!

Ringrazio chiunque abbia deciso di rimanere fedele alla nostra Beatrice, arrivando a leggere anche il sequel!

Una nota tecnica: ho fatto un pasticcio linguistico e culturale, in questo capitolo. Ho la fortuna di studiare antropologia delle Americhe (Vespuccie) – materia che io adoro- e quindi ho inserito qualcosa sugli Aztechi (le parole in lingua quaecia, per farvi capire.)

Visto che gli sceneggiatori di DvD hanno deciso di usare la cultura azteca in  contesto Inca –perché si sa che Machu Picchu fa figo- ho deciso anche io di contaminare come una matta la cultura peruviana! Evviva!

Inoltre, sia il titolo che i titoli delle parti (prologo, parte dalla prima alla quarta ed epilogo) sono frasi dette da Leonardo da Vinci nel corso della sua vita. Le ho trovate bellissime e ho deciso di utilizzarle.

Grazie Leo! Grazie a te, mi do agli aforismi, oltre che alle canzoni.

Bene, vi lascio alla lettura.

A presto,

Jessy

 

 

 

 

Amor onni cosa vince

 

Prologo:

Meglio la piccola certezza, che la gran bugia.

 

 

 

Be strong, and hold my hand.

Time becomes for us, you'll understand.

We'll say goodbye today,

And were sorry how it ends this way

https://www.youtube.com/watch?v=76WJJ57YoG0

 

 

*

 

 

La leggenda narra che Pachamama, la Dea madre dell’universo, fosse sposata a suo fratello, Pachakamac. Dalla loro unione nacquero due gemelli, un maschio e una femmina, che diventarono i pilastri della vita della Madre dopo la morte del consorte.

Rimasta vedova con due figli, la donna scivolò nella tristezza e nella melanconia, lasciando che il mondo venisse  avvolto dall’oscurità.

Così nacque il caos, il male antico e insaziabile che divora l’uomo.

Esso tocca solamente due dei tre piani in cui era suddiviso il mondo: il Kay Pacha, il mondo terreno, il ‘mondo di qui’ e il Uku Pacha, il mondo sotterraneo, ove risiedono le anime dei morti e dei bambini mai nati.

Le anime dei mortali passano da un piano all’altro, ambendo all’Hanan, il cammino degli Dei, il terzo e ultimo mondo. Lì, il caos non esiste.

Il solo modo per raggiungerlo era quello di immolarsi per le divinità stesse, lasciandoli dissetarsi con il sangue e nutrirsi con il cuore.

Questo è il sentiero che Pachamama ha insegnato ai suoi figli, dopo averlo egli stessa compiuto facendosi divorare da Wakor, il custode della luce. Divenendo la madre del tutto, della terra e dei viventi, Pachamama da ogni segno di benevolenza verso ogni suo figlio, in particolare innanzi ad un’offerta o un sacrifico fatti in suo nome.

Insieme a Wiraqucha, Dio degli astri, mantiene l’ordine che è stato duramente riportato grazie alla sua grande pazienza e benevolenza. Se il sangue smettesse di bagnare la terra e le spighe di mais essa potrebbe infuriarsi, cacciando via il Sole e le Stelle e facendo ricadere la terra nel caos più supremo…

È facile però tenerla paziente, con il sangue e con il cuore.

Con la vita e con l’amore.

 

Perché ogni atto d’amore è gradito a Pachamama.

 

 

 

 

 

 

27 ottobre 1478, Machu Pichu.

 

La voce di Ima si interruppe bruscamente, mentre finiva di disegnarle degli anelli dorati lungo il braccio destro.

Forse era stato il suo tono basso, o l’italiano stentato ma chiaro che aveva usato, ma Beatrice aveva perso la cognizione dello spazio e del tempo nell’esatto momento in cui la Sacerdotessa aveva iniziato a raccontarle quel mito.

Il suo volto rimase duro, impassibile, mentre un’altra donna si inginocchiava dietro di lei, iniziando ad acconciarle i capelli.

Il tempo riprese a scorrere molto velocemente, quando nella sala di pietra calò il silenzio. Lasciò libertà alla Sacerdotessa, –visto che ogni scelta ormai le era stata negata- che continuò a disegnare linee nere sul suo corpo e sul suo collo. Le permise di vestirla con gli abiti tradizionali della loro gente e di truccarla a festa.

Perché quella doveva essere, un’occasione di gioia.

Gioia che la contessa non condivideva affatto.  “Ironico come qui la morte si mescoli con la felicità.” Considerò, mentre Ima metteva fra i suoi capelli un filo d’oro lungo il quale erano state assicurate molte piume. Quando esse le sfiorarono l’orecchio, Beatrice avvertì un tuffo al cuore.

“La morte è solo un’altra via.” Le rispose la sacerdotessa, sistemandole un copricapo dorato, in modo che si in castrasse perfettamente con i capelli tenuti indietro da molte spille, ma che le ricadevano sulla schiena, liberi. “Un altro modo per lasciare un segno in questo mondo, prima di passare all’altro. Stai per andare in un luogo infinitamente più bello e luminoso, devi ringraziare gli Dei per questo.”

L’altra donna, che era rimasta quasi tutto il tempo con loro, le lasciò, andando chissà dove. La tenda che fungeva da porta tornò ad essere immobile dopo il suo passaggio e solo in quel piccolo frangente,  la fiorentina ne approfittò “Il bambino che porto in grembo, secondo la tua tradizione, finirà in un mondo diverso da quello in cui andrò io, quando oggi morrò?” la voce le uscì bassa, sottomessa. Così stanca, che quasi non la riconobbe come propria.

Ima sospirò, guardando il ventre lievemente rigonfio della donna che le stava di fronte, prima di annuire piano. Non le diede nemmeno la soddisfazione di una risposta definita, troppo presa da ciò che aveva per le mani. Appoggiò una scatolino di osso sopra ad un ripiano pieno zeppo di candele, prima di alzare gli occhi sul dipinto che coinvolgeva l’intera parete innanzi a lei.

Il serpente piumato del sole, Quetzalcoatl, percorreva la via dell’antica  Teotihuacan, conducendo sul suo dorso azzurro coloro che decidevano spontaneamente di donare loro stessi agli Dei.

Beatrice tentò un ultimo approcciò, affiancandosi a lei e studiando attentamente la superficie sulla quale tutti i ninnoli erano stati disposti.

Dall’esterno, i tamburi ripresero a cantare insieme ad un flauto, che però arrivava ovattato, appena accennato. Alzò a sua volta il capo verso il dipinto, non cogliendone l’essenza come invece stava facendo Ima, ma cercando in esso qualcosa che potesse convincere la sacerdotessa “Tu potresti salvarmi, potresti salvarci tutti. Così come Wakor ha risparmiato i figli di Pachamama. Mi hai scelta, quando avresti potuto lasciare che mi portassero verso la morte o la schiavitù. L’hai fatto solo per darmi in pasto ai tuoi Dei successivamente o per darmi una possibilità?”

L’impassibilità di Ima, sommata alla musica sempre più incalzante, la stavano conducendo verso la pazzia. La frustrazione raggiunse livelli troppo alti, tanto che decise volutamente di allontanarsi dalla donna.

Passava da uno stato all’altro. Da infuriata a triste, da rassegnata a risoluta e non poteva essere solo a causa del suo stato. Portò le mani al volto, ritraendole e trovandole sporche di polvere d’oro.

Aveva scelto lei di seguire Leonardo, aveva scelto lei di andare avanti.

In un certo senso, aveva scelto lei di morire.

Troppe cose però erano cambiate, durante quel lungo viaggio.

Stava per parlare nuovamente, quando Ima disse qualcosa nella sua lingua, voltandosi poi verso di lei con un sorriso benevolo in volto. Pareva il ritratto di una Madonna, esposto su di una pala d’altare, disposto a condannare così come ad assolvere.

“Avrai la possibilità di decidere il destino di uno di loro. Solo uno, però.” Disse semplicemente, prima di appoggiarle le mani alle spalle, attenta a non distruggere i cerchi concentrici che aveva disegnato con precisione.   “Ricorda le parole che dovrai dire e i gesti che dovrai compiere.” Le ricordò, alludendo ai pochi insegnamenti che le aveva dato in quelle ultime ore, per poi avviarsi verso la tenda. Indossò un pesante copricapo, guardando la fiorentina un’ultima volta “Pachamama ama tutti gli atti d’amore, ma tu dovrai fare una scelta, Beatrice de’Medici.”

La guardò sparire oltre la tenda di un rosso sbiadito, aggiungendo solo un ‘se solo fosse facile’ fra sé e sé.

Aveva fatto qualcosa di semplice, da quando era partita a quella parte? O da quando si era sposata?

Aveva vissuto una vita serena, negli ultimi due anni? Assolutamente no.

E non avrebbe iniziato quella notte, lasciandosi andare all’auto-commiserazione.

Quaehuchi! Quaehuchi! Quaehuchi!”

Dall’esterno, le urla della folla presero ad alzarsi nell’esatto momento in cui strinse così forte le mani da ferirsi con le unghie.

Si guardò attorno, cercando qualcosa con cui distrarsi in quei pochi minuti che la separavano dal suo ingresso trionfale. O almeno, così sarebbe dovuto sembrare agli occhi dei suoi carnefici.

Notò che le donne avevano lasciato  i pigmenti a terra, così li afferrò, andando verso il muro. Doveva lasciare un segno su quella terra? Bene.

Lo avrebbe fatto a modo suo.

Quaehuchi! Quaehuchi! Quaehuchi!”

Le voci sembravano alzarsi, ma lei decise volutamente di chiuderle fuori dalla sua testa. Immerse un dito nel colore nero, iniziando a tracciare linee sulla parete accanto a quella con il dipinto, all’altezza del suo viso, laddove tutti avrebbero potuto vederlo.

Collasuyu” sussurrò piano, ricordando quel poco che aveva imparato durante quella folle avventura.

Pensò a ciò che sarebbe potuto accadere di lì in avanti, alla sua vita. Scoprì che non era poi così fondamentale, per la prima volta, la sua presenza. Avevano aperto la Volta Celeste, vi erano entrati e avevano fallito.

Beatrice non era più indispensabile.

Leonardo ce l’avrebbe fatta, era in gamba e non aveva bisogno di lei per salvarsi di nuovo la pelle. Forse era addirittura un intralcio.

Prese il rosso, disegnando cinque sfere prima di farne una sesta e tingerla di blu.

Cuntisuyu panaca Chinchasuyu” disse piano, stupendosi del tono che assumeva la sua voce nel pronunciare parole che non le appartenevano.

Si alzò quindi in piedi, guardando la sua opera con fierezza. Il blasone dei de’Medici avrebbe marchiato almeno per una notte quella terra inospitale.

Si appoggiò alla parete, sentendo gli occhi velati dalle lacrime e dalla stanchezza, per poi posare la fronte sulla superficie fredda della roccia, accanto a quel simbolo famigliare.

“Mi dispiace così tanto, Alessandro. Non credo che riuscirò a tornare a casa da te.”

Ripensare a tutti coloro che non avrebbe più riabbracciato la stava uccidendo. Ancor di più, se poi si concentrava sulla vita che stava crescendo nel suo ventre, così piccola e innocente. Istintivamente, portò la mano sulla pancia, sentendola dura e rigonfia al tatto. Il solo fatto che con tutto ciò che era accaduto non avesse perso quella creatura, era un chiaro segno.

Non doveva arrendersi.

Si caricò di una nuova determinazione, mentre la tenda veniva scostata di colpo da un soldato, con la pelle tinta di plumbeo e una mazza nella mano.

La guardò burbero, indicando poi l’uscita come se avesse a che fare con una stupida. 

Çinchi! Çinchi!”

Beatrice lo superò, camminando per il corridoio scavati nella pietra grigia del monte.
“Mi manca Grunwald, quando mi urlava addosso in tedesco …” disse ironicamente, sbrigandosi a tenere il passo. Quel bruto non si sarebbe di certo preoccupato a spingerla, se necessario.

Intravide la luce dell’uscita e le si accapponò la pelle. Sentì il cuore batterle così forte in petto da rischiare di farle venire un mancamento. Lo stomaco le si rovesciò nell’esatto momento in cui mise un piede all’esterno, notando davanti a lei la folla che gremiva ogni spazio libero sotto all’altare.

Sembravano tante formichine pronte a divorarla, mentre scendeva le scale cautamente, appoggiandosi alla roccia alla sua destra per tenersi in equilibrio.

Gradino dopo gradino, ripassò ogni parola che aveva precedentemente cantilenato fino alla nausea insieme ad Ima. Sarebbe dovuta sembrare credibile, o l’avrebbero riportata in cella e uccisa lì, come un cane in un angolo.

Meglio avere un pubblico.

Meglio dare un senso a quella fine.

Prese un respirò, alzando lo sguardo e credendosi pronta, ma rischiò di dimenticare tutto quando i suoi occhi incontrarono quelli di Girolamo. Accanto a lui, allo stesso modo meravigliato, c’era anche Leonardo.

Quaehuchi! Quaehuchi! Quaehuchi!”

La giovane si morse il labbro, mentre l’artista cercava di muovere un passo verso di lei, risvegliandosi da quello sconcerto solo ad uno strattone del guerriero che lo tratteneva.

Beatrice sarebbe rimasta immobile tutto il giorno a guardarli, con il cuore che si infrangeva assieme ad ogni sua speranza, ma Ima si mise nel suo campo visivo, fissandola intensamente.

Sapeva che li avrebbe trovati lì, anche se il suo cuore sperava ardentemente di sbagliarsi.

Doveva farlo. Doveva tornare in sé.

Aveva una sola occasione per impressionare il Sacerdote del Tempio e offrirsi a Pachamama. Poi avrebbe dovuto compiere la scelta…

Scese anche l’ultimo gradino, fingendo di aver perso ogni interesse per i due uomini e avanzò quindi verso la folla, fermandosi alle spalle dei musicisti.

Yntichuricuna!” gridò, alzando le braccia verso il cielo. Immediatamente la folla si ammutolì, mentre il tamburo venne messo a tacere. Deglutì, voltandosi verso il Sacerdote e lo guardò seria, prima di passarsi la lingua sulle labbra. Un ultima, piccola indecisione, poi si lasciò del tutto trascinare “Yupana Lloque sichi noh panaca Guyan.

L’uomo corazzato d’oro non disse nulla per secondi che parvero durate in eterno. Beatrice non poteva nemmeno spiare una reazione del suo viso, visto che questo era del tutto celato alla vista dalla possente maschera.

Poi, lentamente, le si avvicinò, prendendole il mento fra pollice e indice.

Riario, che era rimasto totalmente senza parole da quell’atto dimostrativo, tentò di divincolarsi, imitato da Leonardo. “Lasciala stare!” ringhiò, mentre sul suo volto rassegnato si dipingeva nuovamente l’ardore e la rabbia.

Parole non comprese e largamente ignorate dal Sacerdote; questi infatti lasciò andare Beatrice per sua scelta, prima di voltarsi verso la folla, alzando il pugnale aureo al cielo.

Hanan!” gridò, mentre la folla esultava insieme a lui e la musica riprendeva, più energica e frenetica di prima.

Quaehuchi! Quaehuchi! Quaehuchi!”

Beatrice lo guardò avanzare verso la folla con ancora il braccio alzando e quando egli levò anche l’altro, si voltò verso Ima. Un solo cenno di assenso, seppur piccolo e quasi impercettibile, e subito la fiorentina corse verso i due uomini.

La lasciarono fare in modo sorprendentemente docile. Addirittura, il guerriero che teneva a sé Leonardo, nel vederla avvicinarsi, abbasso l’arma facendo un passo indietro.

Lei non ci pensò due volte, abbracciandolo per una frazione di secondo, prima di guardarlo e prendergli le mani legate fra le sue. Con un’abilità che sicuramente un ladro le avrebbe invidiato, fece scivolare lo spillone che l’artista teneva assicurato alla camicia sin dentro alla sua e lui subito lo strinse nel palmo, senza battere ciglio. 

“Cosa sta succedendo? Perché ti hanno vestita così?”

Era viva e incolume, nonostante le premesse che aveva avuto riguardo il destino della ragazza non fossero rosee. Alzò le mani per accarezzarle la guancia con il dorso, sporcandosi di polvere d’oro. Abbassò lo sguardo sul ventre della giovane, socchiudendo le labbra come se volesse chiederle qualcosa.

Ma non avevano tempo.

“Devi mantenere la tua promessa, Leonardo.”

I loro occhi si incontrarono e lui parve capire, tanto che il panico iniziò ad uscire dalla sua bocca insieme a parole veloci.

Cos-no, Beatrice! Cosa gli hai detto?!”

“Non c’è tempo!” disse disperata la fiorentina, stringendogli le mani fra le sue “Devi mantenere la tua promessa, hai capito? Io manterrò la mia, sempre.”

Da Vinci non ebbe il coraggio di aggiungere altro, travolto dalla melanconia che le parole di Beatrice portavano con loro. Si sporse in avanti, incontrando le labbra della giovane e premendole con forza sulle sue, in un bacio che sapeva di disperazione.

… E  che sembrava un addio.

Quando si separarono, Beatrice abbassò gli occhi umidi, ricordandosi poi in quel momento che non era solo Leonardo quello a cui doveva dire qualcosa.

Spostò lo sguardo su Girolamo, ma quello che vide fu solo un volto celato da una gelida apatia. I loro occhi si incontrarono per un istante, miele nell’azzurro, poi voltò il capo.

Quasi non si era accorta di Topa Inca, che ora la affiancava, guardando i due uomini come se fossero solamente dei pezzi di carne da macello.

Quando indicò Girolamo con la punta della lama, Beatrice sentì la terra mancarle sotto ai piedi. Guardo due uomini prenderlo per le braccia, mentre lei era costretta a sposarsi di lato, accanto a Leonardo, per permettere loro di passare.

Il panico le torse le budella, mentre pensava così veloce da non comprendere cosa era meglio fare.

Doveva prendere la sua decisione, subito.

Come?! Come poteva decidere a quale dei due uomini sostituirsi?

Girolamo venne fatto mettere in ginocchio e ciò bastò.

Senza quasi accorgersene, scattò.

Nocha!” gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, facendo voltare non solo Ima che parve sorpresa, ma anche il sacerdote. La guardarono entrambi in silenzio, in cerca di una conferma che non tardò ad arrivare. “Nocha patai.” Ripetè, senza staccare gli occhi da Girolamo.

Ima fece un solo cenno e subito i soldati riportarono Riario esattamente dove era prima. Lei, invece, prese per mano la fiorentina, sorridendole incoraggiante mentre la conduceva al posto dell’uomo che aveva scelto …

C-cosa sta succedendo?” domandò Riario confuso, mentre Beatrice rimaneva immobile davanti alla pietra dei sacrifici, senza  inginocchiarsi.

“Succede che ha preso il vostro posto …” la voce dell’artista arrivò delicata come una brezza marina, sottile eppure bassa.

Se l’avesse gridato, però, avrebbe ottenuto il medesimo risultato.

Il conte sbarrò con violenza gli occhi, iniziando a divincolarsi “No, no!” gridò, ma un pugno nello stomaco e tre di quei bestioni dipinti a trattenerlo bastarono a farlo desistere.

Uno di loro lo prese per i capelli, come se volesse in qualche modo costringerlo a guardare quello che stava succedendo.

Uno sguardo, uno solo, e fu come una volta.

Si compresero.

La resistenza di Beatrice cessò, comprendendo che non avrebbe mai ottenuto ciò che si era prefissata. Che forse Girolamo non le avrebbe mai perdonato tutto ciò che aveva fatto, nemmeno mentre stava dando la sua vita per riscattare la sua.

Nemmeno se, dentro agli occhi profondi del conte, poteva ancora veder brillare dei sentimenti. 

Che brutta storia, l’orgoglio.

Çinchi cocha!”

Cadde sulle ginocchia, sentendo distintamente ogni piccolo sassolino ferirla, mentre il sangue non ancora del tutto rappreso delle vittime precedenti le sporcava il petto, appoggiato ora alla roccia.

Chiuse un istante gli occhi, prima di riaprirli con fierezza, combattendo contro una singola lacrima che premeva per scorrerle lungo la guancia. L’orgoglio non le permise di farla cadere.

China su quella pietra, con un pugnale puntato alla gola e la morte ad un palmo dal naso, Beatrice si ritrovò a guardare i due uomini che aveva  amato con tutta se stessa, ma venne contraccambiata solo da uno.

 

 

 

As we fade in the dark, just remember

You will always burn as bright…

 

 

 

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Capitolo 2
*** Parte Prima, Capitolo Primo. ***


modellostorieefp

Buon inizio settimana a tutti quanti!

Tanto per iniziare, ringrazio chi ha letto il prologo e ha deciso di inserire la storia tra le seguite.

Siete più di quanti mi aspettassi, grazie!

Detto ciò, due avvertenze: in primo luogo, il capitolo è autobetato, quindi spero che non contenga troppi strafalcioni.

Secondariamente, qui si aggiungono diversi nuovi personaggi, che ci serviranno in vista dello scopo finale.

Nessuno è inutile, tutti hanno una meta, un arrivo.

Anche il nuovo animaletto di Beatrice e il misterioso Corax. (chi vi aspettate che sia, questo losco figuro?)

Trovate i pv che ho scelto sulla mia pagina, così che possano aiutarvi nella lettura.

Vi segnalo anche questo piccolo video che ho trovato per caso mentre sceglievo la canzone per il capitolo. Visto che immagino lei come Beatrice, magari è ispirante!

Inoltre, la festa della Madonna di Fuoco è davvero il patrono di Forlì, che io vi ho descritto così come veniva festeggiato nel tardo rinascimento: i poveri andavano dai propri parroci e chiedevano di scrivere su un foglio un messaggio per la Vergine, che poi veniva lanciato in un grande falò prima della messa e seguivano quindi tutte le preghiere del caso.

Detto ciò, buona lettura :D

Come sempre, un pensierino è ben accetto, se no a presto!

Jessy  

 

 

 

Amor onni cosa vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo primo:

Cose che erano e cose che sono.

 

 

 

*

 

 

 

Everyone thinks that I have it all

But it's so empty living behind these castle walls

https://www.youtube.com/watch?v=qjY3LfHbdL0

 

 

 

 

4 febbraio 1478, Ducato di Forlì.

Patrono della Madonna di Fuoco.

Sette mesi prima dell’arrivo nel Nuovo Mondo

 

 

 

Il crepitare delle fiamme lo ipnotizzava, rendendo tutti i giocattoli che lo circondavano noiosi.

Nonostante potesse a stento star seduto, il bambino tentò di avvicinarsi al camino, allungando una manina verso il fuoco lontano. Si sbilanciò troppo e, quando la schiena si staccò del tutto dalla pila di cuscini e pelli che lo tenevano sollevato, cadde in avanti.

Non un solo vagito uscì però dalle sue labbra.

Per quanto piccolo, Alessandro non piangeva mai.

Era assai strano che un neonato di quattro mesi non emettesse un fiato dopo aver immerso il volto nelle più svariate pellicce stese sul pavimento, eppure lui insisteva, cercando di far leva sulle deboli e grassocce braccina per rimettersi seduto.

Gli venne data la possibilità di riuscire da solo, ma dopo qualche minuto fu aiutato.

Un paio di mani percorse da un dedalo di rughe e calli lo riappoggiarono sui cuscini, prima di passare le dita tra i radi capelli neri sulla sua testolina.

“Col padre che ti ritrovi, è un miracolo che tu sia tanto buono, creatura.”

Che fosse il figlio del conte, nessuno poteva negarlo; aveva gli stessi occhi del colore del miele, eppure al contrario di quelli del genitore, i suoi erano limpidi e puri di curiosa innocenza.

Ogni singolo giorno della sua longeva vita, monna Agnese pregava affinché essi rimanessero tali anche crescendo, seppur avesse ben poca fiducia in ciò.

“Una mela non cade mai troppo lontana dall’albero, dicono. Se diverrai come tua madre, avrai solo il coraggio di una tigre e la forza d’animo di cento uomini. Cresci per bene, piccolo Sandro.”

Aveva visto nascere più bambini di quanti ne potesse contare, nell’arco della sua vita; aveva sempre fatto la levatrice, sopravvivendo alle sue tre sorelle e arrivando alla veneranda età di settantasette anni per accudire il figlio del conte Riario e della contessa Beatrice.

In fin dei conti, le erano sempre piaciuti i castelli e il suo corpo le consentiva ancora di fare lunghe passeggiate per i genti giardini che la sua signora aveva provveduto a bonificare nell’ultimo anno.

La città era rinata, sotto la guida di Beatrice Riario de’Medici, fiorendo in tutta la sua antica bellezza.

Servirli era quindi un onore perché, per quanto male giudicasse il conte, la reggente della cittadella era più che meritevole della sua stima.

Rialzò gli occhi dalla figura del nobile fanciullo, tutto preso dal masticare la testa di un cavallino di legno lucido, riprendendo quindi a sferruzzarsi una copertina di lana.

Quello era l’inverno più rigido che avessero mai avuto.

Di rado nevicava, nella Romagna, ma ormai da più di due mesi ve ne era una gamba quasi ogni mattina al risveglio.

“Che tempo inclemente, chissà cosa il buon Signore vuole dirci.”

Quasi non fece in tempo a riabbassare gli occhi sui ferri, che le porte si aprirono.

Soprassedette sulla giovane guardia che non si era premurata di bussare, troppo presa dal  guardarlo in cagnesco.

“Vi chiedo perdono, madonna Agnese.” Iniziò, ma venne interrotto.

“Vi sembro una donna di nobili natali?” rilanciò lei, appoggiandosi al bracciolo della poltrona “Cosa volete?”

“Un ospite illustre quanto inaspettato è giunto alla rocca, ma in tende parlare solamente con la contessa.” Spiegò, timoroso.

Quella donna sapeva spaventar anche l’animo più forte.

“Beatrice non è a Forlì.” Riferì Agnese, sicura che quel ragazzetto lo sapesse e desiderasse solo tediarla. “Che torni un’altra volta.”

“Viene da Firenze.”

Furono quelle a risvegliare l’interesse della balia. Un po’ a fatica si alzò, sistemando il grembiule che portava in vita.

Nelle assenze sia della sua signora che del conte, era lei ad amministrare i loro affari alla rocca di Ravaldino, scavalcando spesso lo stesso Tommaso Feo. Era stata Beatrice stessa a deciderlo, viste le grandi abilità di persuasione di monna Agnese.

Era in grado di vendere acqua di mare ad un pescatore, se ci si impegnava davvero.

“Me ne occuperò subito.”  Reclamò autoritaria, prima di fermarsi davanti alla guardia, per guardarlo negli occhi “Il vostro nome, giovane?”

Buononato,  monna.” Rispose questi in fretta “Pio Buononato.”

Lei annuì, pensierosa, mentre lo memorizzava. Prese poi il ragazzo a braccetto, conducendolo davanti al focolare. Solo in quel momento, egli si accorse del bambino “Lo vedete, Pio? Quello è il pargolo di Girolamo Riario, sangue del suo sangue. Il suo erede. Rimarrete con lui e baderete alla sua incolumità. Se dovesse in qualche modo ferirsi, riporterò il vostro nome all’attenzione del conte o peggio... A quella di sua moglie.”

Lasciata la sfortunata guardia a quel pericoloso incarico – tanto che sicuramente avrebbe desiderato diventare un fante di prima linea, poi- Agnese si recò nell’atrio del castello.

Sapeva che chiunque non poteva spingersi oltre, previa autorizzazione della signoria o di lei stessa.

Ad attenderla, trovò uno stuolo di guardie in  cappa vermiglia e una donna.

La mantella nera le donava magnificamente, visto la sua figura snella.

Con lei vi era anche un uomo alto, che pareva un generale, visti i titoli che portava.

Agnese li guardò, schiarendosi poi la voce mentre scendeva le scale “Una delegazione fiorentina inaspettata.” Sottolineò, come a far pesare il fatto che nessuno aveva annunciato il loro arrivo “Io sono Agnese Casadei, balia e tutrice personale del figlio del conte Riario. Ho inoltre l’incarico di amministrare la dimora della mia signora quand’ella si intrattiene fuori dalle mura. Posso domandarvi chi siete? Nessuno mi ha riferito che sarebbe arrivata una diligenza.”

La donna abbassò il cappuccio, rivelando un paio di lucenti occhi zaffiro “Questa è una sorpresa, madonna Casadei.” Decretò, ma venne subito interrotta.

L’anziana finì di scendere i gradini, avvicinandosi “Io non sono una nobile, sono solo Agnese.” Studiò attentamente la donna, prima di alzare un sopracciglio “Le sorprese possono non venir gradite, sapete? Sono tempi duri, questi.”

L’altra parve risentita “Sono certa che Beatrice vorrà vedermi, se ho l’occasione di scambiare con lei un  paio di parole.”

“Peccato che la contessa non sia a Forlì.” Disse Agnese, calcando molto sul titolo della sua signora, come se il modo di esprimersi dell’ospite fosse inappropriato.

“Dove si trova?”

“A Rimini, siede ad un consiglio di guerra.”

Quelle parole parvero in qualche modo tranquillizzare l’ospite “Rimini è molto vicina. Tornerà per la cena, immagino.”

La balia annuì “Non vi è sera che non sia qui a mettere a letto suo figlio.”

Un sorriso sincero nacque sulle labbra della madonna, mentre sfilava i guanti da viaggio e muoveva un paio di passi verso Agnese  “Il mio nome è Clarice Orsini.”

“L’avevo ben inteso. Posso sentire il fetore di nobiltà romana fuoriuscire dalla vostra belle mantella. Il Magnifico, sta bene? Ho sentito dire che s’è ingrassato parecchio.”

Clarice non seppe come offendersi.

Presa di contropiede, non riuscì a ribattere subito e naturalmente Agnese non le regalò tempo “Seguitemi, madonna Orsini. Farò avere alla moglie del fratello della mia signora i migliori alloggi della rocca. Benvenuta a Forlì.”

 

 

“Se ci fermano ad ovest, non avremo modo di contrastare le truppe degli Este  presso quell’ invallamento. Attaccare ora sarebbe la nostra disfatta.”

La contessa alzò gli occhi dalla mappa della Romagna, puntandoli in quelli di Federico I Gonzaga.

Di tutti i suoi alleati, quello era il più allarmista. Uomo colto, certo, e sicuramente il suo buon senso evidenziava una grande saggezza, ma in guerra era deprecabile esser troppo cauti.

Per fortuna, ci pensò il padrone di casa a far gli onori del giorno.

“Se convinciamo anche i Malaspina di Faenza ad unirsi a noi, avremo tutta la Romagna sotto il nostro comando. Commercialmente e strategicamente, non avremo eguali.”

Levando gli stivalacci dalla tavola e ben piantandoli in terra, Pandolfo Malatesta si alzò in piedi. Dall’aspetto  di un giovane ragazzo, dai chiari capelli biondi come il grano e gli occhi di un turchese baciato dal cielo, poteva sembrava un giovane pacato di belle maniere. Mai descrizione fu più sbagliata.

Dopo la morte di suo padre aveva riconquistato la sua amata Rimini, prendendo a calci gli Estensi in quei loro ‘nobili culi’. Quando aveva poi minacciato di prendersi anche Ferrara per divertimento, il signore della città aveva dato sua figlia Ginevra come sposa a Pandolfo, ottenendo una traballante alleanza che si era inclinata negli ultimi mesi, quando il giovane aveva deciso di prendersi l’intera Romagna.

In un tempo irrisorio aveva stipulato patti su patti con il signore dei Gonzaga e Beatrice Riario de’Medici, i suoi più accaniti sostenitori, minacciando poi tutte quelle ‘ridicole masse di casette chiamate ducati’ di abbracciare la sua crociata o di perire nel suo fuoco. I signori di Ravenna lo avevano scoperto a loro spese, quando l’esercito forlivese e quello di Rimini avevano quasi dato fuoco a tutte le campagne del ravennate. Era il turno di Faenza, che ancora non si piegava.

Era giunto quindi il tempo di dimostrare cosa avveniva a coloro che non prestavano la dovuta attenzione, ancora una volta.

Beatrice prese in mano una statuetta intagliata. Una donna, con in mano una spada e nell’altra una rosa tinta con toni dorati.

Con attenzione, la posizionò accanto al pallino che indicava la città da assediare “Io direi di farlo appena cala il sole. Le mura dei Malaspina non sono troppo solide, ma il fossato è profondo. Se collochiamo i cannoni, non vi sarà esercito cittadino che potrà fermarci.”

Un terzo uomo, di bella presenza seppur la scarsa altezza, si fece avanti. Di aspetto fisico era più simile alla madre ormai defunta, che a suo padre, il signore dei Gonzaga. Francesco II era in assoluto il più tranquillo di quella stravagante compagnia e la sua età bilanciava un fragile equilibrio tra i ‘vecchi modi’ di suo padre Federico e i ‘nuovi modi’ di Beatrice e Pandolfo.

Prese una statuetta, con un giovane uomo che recava sulla spalla il falcone dei Gonzaga, e lo collocò accanto a quella di Beatrice “Mantova ci sarà, ma non credo che  alcun assedio avrà luogo. Ai Malaspina piace governare, una volta visti i nostri uomini, certamente caleranno le brache.”

Federico si sedette sulla sedia con un lungo sospiro.

Inavvertitamente, diede un calcio a uno dei due lupi che dormivano sotto la tavola e un ringhio basso lo fece quasi tremare “Tra le bestie e le scelte avventate, inizia a far caldo in questa stanza.”

Pandolfo non lo degnò di uno sguardo, mentre appoggiava la sua statuetta, un giovane fanciullo con la testa di un nemico stretta nella mano, proprio tra quella di Beatrice e quella di Gonzaga. “Attaccheremo di giorno, così che possano vedere attentamente chi siamo. Porterò un terzo delle mie lance e metà dei miei arcieri, circa mille e cinquecento uomini.”

Francesco parve pensieroso. Portò una mano al mento, analizzando attentamente la cartina come se cercasse in essa una falla in quel piano molto chiaro. Poi guardò verso il giovane Malatesta “Duemila teste da Mantova. Io porterò metà del mio esercito. Madonna Riario de’Medici?”

Beatrice prese un ultima statuetta, un uomo con un grande scudo e un biscione disegnato su di essa, collocandola poi ai confini a nord della mappa.

“Se io dovessi portare metà esercito forlivese, sarebbero sei mila uomini.” Ammise, facendo un paio di conti “Credo che tre mila fanti e cinquecento arcieri basteranno, per intimidire i Malaspina, gli altri rimarranno a guardia della città. Nel caso in cui gli Este decidano di alzare la testa e attaccarci, sarà il Moro da Milano a prenderli di sorpresa, con un attacco alle spalle.”

Pandolfo osservò la tavola, appoggiandosi ad essa con entrambe le mani. Il suo volto era una maschera satirica, piena di soddisfazione per quella che sapeva, sarebbe stata l’ennesima schiacciante vittoria.  Schioccò le dita e tre paggi bardati di verde e bianco iniziarono a versare calici d’oro contenenti vino invecchiato.

Beatrice li guardò mentre li distribuivano, alzando il suo quando il capo della casata dei Malatesta iniziò a brindare “Ai ducati di Rimini-Cesena, Forlì e Mantova.”

“E Milano.” Aggiunse la giovane, cercando di non mostrarsi eccessivamente scocciata all’occhiata allusiva che Panfoldo le lanciò.

“E Milano.” Aggiunse accondiscendente, prima di schiarirsi la voce, appoggiando la mano libera sull’elsa della spada. Immediatamente, anche i due Gonzaga alzarono i loro calici. “Oggi beviamo, portandoci così avanti con i festeggiamenti quando, presto, l’intera Romagna risponderà solo a noi.” Concluse, prendendo un bel sorso.

Quando la fiorentina appoggiò il calice ormai mezzo vuoto sulla superficie di legno del tavolo, non le parve di aver mai bevuto nulla di così dolce.

 

“Detesto invitarli sempre alle nostre riunioni. Quei Gonzaga sanno solamente esser cauti.”

Beatrice rise, lasciando che la sua limpida voce riecheggiasse per il giardino esterno della rocca malatestiana di Rimini “Sono la nostra banca, Pandolfo. Senza i loro finanziamenti, i nostri eserciti vivrebbero di aria. I fondi papali devo usarli per la mia città.” I due lupi passarono accanto alle loro gambe, rincorrendosi e giocando. La ragazza sorrise, guardandoli mentre arrivavano sino alla piccola delegazione forlivese che l’attendeva per tornare a casa “Mi chiedo se sia possibile, vivere di aria.”

“Sicuramente no.” Rispose a tono il ragazzo, senza risparmiarsi l’ironia “Ma voi avete un fratello che gestisce la più grande banca d’Europa e-”

“Per la milionesima volta, non chiederò prestiti a Lorenzo. Non è la battaglia della Repubblica di Firenze, questa.”

Il biondo alzò gli occhi al cielo, chiedendosi come facesse una ragazza tanto carina a rendersi così sgradevole, solo usando le parole.

“Quando Federico I morirà, avremo una bella gatta da pelare, temo.” Disse, indeciso tra l’essere ottimista riguardo l’anzianità dell’uomo e il preoccuparsi davvero su cosa mai deciderà di fare il buon Francesco.

Beatrice, però, grondava di ottimismo “Di solito è più preso lui del padre, ai nostri consigli. I Gonzaga non ci abbandoneranno e Federico non morirà a breve. Ricordati una cosa: la Romagna porta soldi, i soldi portano gli uomini.”

“Ormai  è così vecchio che le sue ossa non vanno bene nemmeno per il brodo.” Asserì il biondo, bussando contro lo spallaccio di metallo dell’armatura di Beatrice.

Lei rise, fermandosi accanto a lui, proprio al centro del cortile “C’è chi dice che noi siamo quelli sbagliati. Troppo giovani per tenere in mano degli eserciti.”

“Lo dicono perché vinciamo.”

Malatesta si bloccò, guardando la giovane fiorentina avanzare sino alla sua giumenta, che Olivieri teneva per le briglie.

A prima vista, Beatrice Riario de’Medici doveva parere davvero strana; aveva il viso di una fanciulla, ma l’espressione seria e distaccata di una donna. Aveva un meraviglioso abito nero, ricamato in oro su bordi dell’ampia gonna e maniche,forse persino sulla scollatura, se solo essa fosse visibile dall’armatura lucente che aveva sul busto. Un soldato nel corpo di una bellissima ragazza, ancor acerba nell’aspetto, ma sbocciata nell’animo.

Ogni uomo avrebbe perso la testa, per averla. Pandolfo per primo.

Si era mai vista, una donna così tanto forte da reggere sulle spalle il peso di un ducato in perenne guerra? La Romagna era una terra in fermento; vi erano più terre e famiglie in quel fazzoletto d’Italia che nel resto del nord della penisola e tutte si odiavano, cambiando ogni anno le loro alleanze. Eppure riusciva egregiamente nel suo ruolo.

La Tigre della Romagna, la contessa del popolo.

Titoli più che meritati.

Le si avvicinò mentre rammendava la strada da farsi al suo capitano della guardia e si inchinò in modo alquanto enfatizzato, prima di salutarla “Ti auguro un piacevole ritorno. Riposa bene, con la prossima luna avremo di che divertirci sul campo. Non vorrei lasciarti indietro.”

Beatrice prese il viso del duca tra le mani, baciandogli la fronte, prima di salire sulla sua cavalla grigia  “Cerca di crescere un poco in altezza, entro la prossima luna, o ti perderò sul campo.”

“Non mi hai mai perso.” Sottolineò lui, arretrando con le braccia incrociate sulla casacca dorata “E nella botte piccola fermenta il miglior vino, ragazza ingrata!”

Beatrice rise di cuore, voltandosi a guardare Edoardo, che le stava sistemando il mantello nero e la gonna di velluto sul dorso della bestia “Hai sentito, Olivieri? Con quella voce da gattino dovrebbe intimidirci?”

Il povero rosso, messo in mezzo, fece solo un breve inchino al duca, prima di montare a cavallo.

Nessuno parlava così a Pandolfo Malatesta, eccetto lei.

Nessuno, eccetto chi non bramava di vedere la sua testa su di una picca, come ornamento delle mura della rocca malatestiana.

Un ultimo cenno di saluto e il levatoio venne abbassato. Uno dei due lupi alzò il capo verso il drappello di forlivesi, prima di sfrecciare fuori dal castello per primo, aprendo la strada alla delegazione verso le loro terre.

 

 

Il falò ardeva in tutta la sua potenza, mentre uno ad uno, tutti i contadini portavano rotolini di carta verso di esso e li gettavano fra le fiamme.

Altezzosa come suo solito, una donna di alto lignaggio, con sottili occhi praticamente neri, scrutava la folla “Non capisco il perché ti questo inutile rito. Sembra quasi eretico.”

Camilla, che di natura non era mai stata una ragazza paziente, le schioccò un’occhiata tutt’altro che gentile “La Madonna del Fuoco è la patrona di questa città, dovreste averlo compreso la decima volta che vi è stato detto.”

Accanto a loro, una terza  giovane, che pareva più piccola di loro in età, ridacchiò allegra “Io la trovo un’usanza pittoresca e originale. Vorrei averlo saputo prima, per poter fare anche io una richiesta alla Beata Vergine.”

“Cosa mai avresti chiesto, Ombretta?” domandò acidamente la prima, stringendosi addosso lo scialle di volpe. Nessuna delle tre si accorse delle due figure che si stavano avvicinando a loro, scortate da altrettante guardie, nella piazza pubblica davanti alla basilica di San Mercuriale “Un po’ di senno, magari.”

“Non  parlatele così.” soffiò la Colonna, mentre la biondina sospirava affranta, domandandosi cosa avesse mai fatto di male nella vita per meritarsi un simile comportamento nei suoi riguardi.

“Se no, cosa? Andrete dalle contessa?” ribatté con ferocia la più matura delle tre, prima di sistemarsi i ricci corvini dietro alle spalle “Fatemi il piacere.”

“Siete voi la spia, qui in mezzo.” Camilla parve decisa a passare le mani, tanto che sbottonò il mantello “Andrete dal conte a dirgli chissà quale altra menzogna per infangare il nome di Beatrice?”

“Adesso basta, stupide oche!” la voce di monna Agnese le zittì come uno schiaffo in pieno viso. L’anziana si avvicinò, insieme ad una bellissima donna che tutte e tre le dame riconobbero subito. “Portate rispetto, abbiamo ospiti.”

“Madonna Orsini.” Camilla si fece avanti, sorridendo allegra a Clarice, mentre questa vezzeggiava il piccolo bambino che teneva sotto all’ampio mantello nero “Vedo che avete già conosciuto vostro nipote.”

“Monna Agnese mi ha permesso di vederlo, sostenendo che la madre non avrebbe avuto nulla da dire a riguardo.” Rispose cordiale la signora di Firenze, sorridendo a sua volta “Vi trovo in splendida forma, madonna Colonna.” I suoi occhi sottili, simili a zaffiri e luminosi come diamanti, saettarono poi alle altre due donne, a cui però rivolse solamente un cenno elegante con il capo. Un atto di gentilezza e di rispetto che venne ricambiato con la stessa riottosità.

Erano entrambe ben note a madonna Orsini, in quanto entrambe fiorentine.

La più giovane, dai lunghi capelli biondi conciati in tante trecce tenute insieme da fiocchi colorati era in assoluto la più innocua; si chiamava Ombretta Pitti e aveva da poco compiuto sedici anni. Per lei, divenire l’ancella della contessa di Forlì era stato un grande privilegio, quindi nonostante l’antipatia che la sua famiglia aveva nei riguardi dei de’Medici, le era stato garantito un buon posto all’interno dell’aristocrazia del tempo.

Lo stesso non poteva dirsi per l’altra donna.

Maddalena Pazzi non veniva solo da una famiglia che nutriva un’antipatia, verso i Medici, no. Erano i loro rivali diretti, erano coloro che, agli occhi dei Pazzi, stavano distruggendo la purezza e la santità di Firenze.

Non era tutto, però.

Maddalena era ancora nubile,  nonostante le mancasse poco per raggiungere i trent’anni. Sarebbe stato molto difficile, per lei, trovare un marito senza l’aiuto della contessa. Sarebbe stato difficile a priori, secondo Beatrice, visto che Maddalena aveva la stessa simpatia di suo fratello Francesco.

Tutto a causa di un patto finito male tra i Pazzi e gli Scaligeri. Mai fidanzarsi con un cavaliere di ventura; quando esso parte per anni e poi decide di morire sul campo di battaglia, non può tenere fede al patto.

Ironicamente, il conte Riario aveva scelto davvero due valide spie, da affiancare a sua moglie come donne di compagnia: una bambina troppo stupida per capire cosa le accadeva intorno di preciso, viziata e facile da compiacere e una de’Pazzi che aveva assolutamente bisogno dei favori della sua signora per maritarsi prima di venir giudicata troppo vecchia per procreare.

Naturalmente Beatrice sapeva fruttare bene quella situazione.

Monna Agnese anche meglio, “La signora tornerà a breve.” Disse con tono autoritario, appoggiando una mano sul braccio di Ombretta, mentre iniziavano ad avviarsi verso la chiesa, facendosi più vicini al falò. Arrivò addirittura a sorreggere la ragazzina, quando questa scivolò sulla neve fresca “Così come desidera, ci recheremo alla messa delle sei e poi andremo a cena al palazzo di giustizia con le altre famiglie. A quanto ha lasciato detto, il banchetto si terrà nella stanza di Apollo e Dafne, la più bella.”

Clarisse ascoltò interessata, ammirando come tutti lì paressero pendere dalle labbra della sua piccola Beatrice.

Quasi tutti.

 “Faremo così come la contessa comanda, immagino.” Con uno tono deciso, Maddalena si avvicinò alle fiamme, scoprendo appena la veste nera ricamata con un filo d’argento, sotto al pesante mantello invernale, quando allungò le mani verso il fuoco per scaldarsi.

Odiava quel luogo e ne odiava gli inverni freddi e spossanti.

Agnese ci mise poco a ribattere “Se la contessa lo comanda, tu le leccherai la spada ancora grondante di sangue Estense, madonna Pazzi”

“Una nobildonna come Beatrice non dovrebbe combattere le guerre. Non è costume, ergo è sbagliato.” Insistette Maddalena, sotto lo sguardo colmo di disapprovazione delle altre tre donne. Esse infatti non sembravano seccate da cosa ella stesse dicendo, ma dal tono che si permetteva di usare con monna Agnese.

A primo impatto, tutti le portavano rispetto e non solo per la sua veneranda età. aveva una luce diverse negli occhi e tutti si domandavano cosa essi avessero visto.  “Disse quella che a trent’anni ancora non s’è maritata. Se imparaste a tacere, magari, andrebbe meglio anche per voi. Solo le puttane possono permettersi un punto di vista.”

La donna si zittì, offesa da quelle parole che non si poteva nemmeno permettere di riportare alla sua signora.

Rimase quindi in silenzio, tenendo le mani incrociate sotto alla mantella e lo sguardo fisso sulle fiamme del falò. Chiunque l’avesse scorta in quel frangente, avrebbe detto che ella stava pensando di buttarci qualcuno dentro.

Come molte altre volte, nel bel mezzo dei litigi, l’arrivo di Beatrice fu provvidenziale.

Entrò in città allo squillare di un corno da guerra. Tutti si voltarono verso la discesa che conduceva alle porte, mentre sei cavalli arrivavano nella piazza al trotto.

La contessa scese per prima appena adocchiò le sue dame, sorridendo stupita e al tempo stesso felice a Clarice.

“Per il cielo,  non posso crederci!” quasi gridò dalla gioia, andando verso la cognata per poterla abbracciare. Le baciò le guance, prima di sorridere intenerita al figlio, che le venne subito dato in braccio insieme alle pelli in cui era stato avvolto “Non mi aspettavo una vostra visita, Clarice! Qual buon vento vi porta nella mia terra?”

“La felicità di rivederti, Beatrice.” Le rispose madonna Orsini, prima di ricordarsi con chi stava parlando. Fece un piccolo passetto indietro, chinando il capo “Volevo dire contessa.”

“Non siate ridicola.” La riprese subito la giovane de’Medici, appoggiandosi il piccolo Alessandro sul fianco con fare materno, così da poter prendere a braccetto la cognata. Solo allora, da sotto l’ampio mantello nero, si intravide lo scintillio metallico dell’armatura. Clarice sembrò non credere ai suoi occhi per un istante, nonostante quella non paresse la cosa più assurda. Un lupo grigio di dimensioni piuttosto allarmanti stava camminando accanto a loro. “Io per te sarò sempre Beatrice e basta. Mi hai in parte cresciuta.”

“Madonna” la voce di Agnese la richiamò all’ordine, come l’abbaiare di un mastino “La messa.” Le ricordò, minacciosa.

Con un sospiro, la contessa forzò un sorriso “La messa.” Asserì, accondiscendente, prima di rivolgersi di nuovo alla Orsini “Avremo il tempo dopo di parlare.”

 

 

La cena andò avanti più del previsto, al palazzo della signoria.

Tornate alla rocca di Ravaldino, sia Beatrice che Clarice si fecero preparare un bagno caldo, per rinfrancare le ossa dopo il freddo patito a messa.

Quando si incontrarono nello studio della contessa, nell’anticamera dei suoi alloggi, entrambe parevano stanche, ma al tempo stesso più serene.

Sedettero una di fronte all’altra, alla scrivania della giovane de’Medici, con una brocca di vin santo portato da madonna Orsini e due coppe che venivano sollevate anche troppo spesso.

All’inizio parlarono di frivolezze, per alleggerire la tensione che poteva esserci dopo quasi un anno e mezzo di lontananza ma poi, complici il vino e l’affetto che provavano l’una per l’altra, iniziarono a scavare più  nel profondo.

“Ti chiedo scusa se suonerò spaventata.” Ammise di punto in bianco Clarice, mentre Beatrice, giocherellava con una ciocca di capelli “Però quella bestia…. È addomesticata a dovere, voglio sperare.”

Gli occhi della contessa corsero per la stanza, individuando subito la ‘bestia’ in questione, addormentata davanti al camino. Sorrise, appoggiandosi con i gomiti al ripiano dello scrittoio “Si possono addomesticare i lupi?” chiese seria, ridendo poi divertita davanti alla faccia sbigottita della cognata “Posso assicurarvi che Mae è educatissima. Inoltre, è un regalo che mi è stato fatto da un caro amico, quando ho scoperto di aspettare Alessandro.”

“Un regalo?” chiese Clarice con un sospiro, incapace di accettare una cosa del genere “Che razza di persona donerebbe mai un lupo ad una donna incinta?”

“Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e Cesena. Lui ha il fratello, che però è quasi tutto nero. Sono bellissimi lupi della Foresta Nera, fatti arrivare su ordine del duca in persona.” La informò la contessa “Mae è perfetta per cacciare, fermare chiunque mi stia sfuggendo, caricare soldati in battaglia…. Vi stupireste di come sia protettiva nei confronti di mio figlio; quando fa molto freddo e nevica si stende su un tappeto con lui e se lo tiene vicino, facendogli così caldo.” Beatrice pareva molto allietata da quella discussione  “Poi, se vi consola, il regalo di Girolamo quando è nato il suo primo erede è stato ancor meno romantico o fine di un lupo.”

Madonna Orsini pareva meno divertita di lei “Ho quasi timore a chiederti di cosa si tratta.”

Per risposta, Beatrice si alzò in piedi. Si sentì un po’ instabile a causa di tutto quel vino, ma riuscì comunque ad arrivare alla sua stanza. Facendo piano per non svegliare Alessandro che dormiva beato nella sua culla, ai piedi del grande baldacchino, prende l’oggetto che cercava da sopra una panca.

Tornò da Clarice e questa portò subito una mano alla fronte “Temevo fosse una spada.” ammise, guardando l’arma che la giovane fiorentina ora brandiva, dopo averla estratta dal suo fodero.

“Non una semplice spada” ammise, prendendola per la lama per passarla così alla cognata “Guardate vicino all’elsa, vi è un blasone.”

Madonna Orsini lo fece, ritrovandosi di fronte lo stemma delle famiglie Riario e de’Medici unite. “Un dono molto bello.” Ammise, passando un dito su quel rilievo dorato, prima di riconsegnarle quell’arma “Tuo marito deve avere molto a cuore la tua incolumità. Non sono una grande intenditrice di spade, ma mi è parsa molto leggera eppure solida.”
“Una lega speciale.” Ammise Beatrice, sedendosi parzialmente sulla scrivania, mentre rinfoderava la lama. “Mi mancava la spada di mio nonno e Girolamo ha deciso di rimpiazzarla con qualcosa che fosse per me famigliare, aspettando a darmela sino al giorno in cui ho messo al mondo Alessandro.”

“Come la nomina a cavaliere.” Ironizzò Clarisse, facendo ridere la più giovane.

“La fatica è di gran lunga superiore, però.” Puntualizzò Beatrice,trovando subito il consenso di madonna Orsini “Ero così stremata che il braccio mi tremava, mentre la tenevo alzata. Alla fine ho ceduto e ho dormito quasi un giorno intero.” Un ultimo sorso di vino, poi pose la domanda che più le premeva “Siete qui per Lorenzo, ammettetelo.”

Clarice parve a disagio. Si morse le labbra, sistemando la gonna sulle gambe con un paio di movimenti nervosi, prima di parlare “In verità, sì.” Attese lo stretto necessario per dare alla contessa l’opportunità di fermarla. Ciò non avvenne, Beatrice la guardava dall’alto dello scrittoio con espressione seria, così si costrinse a parlare “Tuo fratello domanda agevolazioni per il trasporto delle merci che giungono sui porti adriatici. Il Papa ha pesantemente tassato i mercanti, che vendono stoffe e spezie a prezzi altissimi, una volta giunti a Firenze. Sappiamo che qualsiasi cosa arrivi a qualsiasi porto della Romagna, da Ravenna a Rimini, deve passare per la tua giurisdizione, qui a Forlì. Ti chiediamo solo di abbassare i dazi per ciò che giungerà poi nella nostra Repubblica.”

Beatrice parve pensierosa. Si alzò in piedi e misurò la stanza ad ampi passi.

Fu in quel momento, mentre attendeva un responso, che Clarice finalmente la vide davvero.

La giovane fanciulla che correva per i campi attorno a Firenze con un ghirlanda di fiori sul capo e un sorriso dolce e spensierato sulle labbra non c’era più; al suo posto vi era una donna, diventata tale troppo in fretta, che agli abiti dei colori dell’estate prediligeva eleganti vesti nere o blu notte. La bambina che adorava farsi pettinare i capelli da lei era stata sostituita dalla contessa di Forlì, che prediligeva l’elmo alla ghirlanda. Le fughe improvvise, i dolci portati via dalle mense….

Erano tutti ricordi ormai.

Di Beatrice, della sua Beatrice, era rimasto poco.

Intristita, Clarice si alzò in piedi. Per lei, era come rivedersi allo specchio.

Vedere come il matrimonio aveva portato quel triste rigore nella sua vita, seppur con minori responsabilità.

“Puoi pensarci con calma, dormici su.” Le disse, prendendole una mano e destandola da quei pensieri.

Beatrice, però, sembrava pronta a darle una risposta “Accetto.” Ammise, stupendola. La prima volta che qualcuno si era azzardato a presentarsi da lei con una richiesta, era stato Giuliano, che si era sentito dire di no dal conte Riario.

“Non vuoi parlarne con tuo marito?”

La giovane scosse il capo “Con Girolamo discuto solo le questioni riguardo Imola. Ho carta bianca su questa città.”

Era così. Da quando era tornata a Forlì dopo ciò che  era successo a Roma, dopo ciò che Sisto le aveva fatto, aveva preso in mano le redini del suo destino.

Aveva bonificato la città, creato un esercito di volontari pagati, raccogliendo giovani contadini da tutta la penisola e invitandoli a scegliere la carriera militare, aveva provveduto ai molti malati di peste che affollavano le vie a causa del via vai di mercanti.

Tutto questo utilizzando i soldi del papato, ma senza mai chiedendo nulla la marito.

Lui firmava i documenti che lei compilava in anticipo.

“In cambio, però, voglio una cosa.”

Clarice non si stupì, mentre le sorrideva “Nulla è gratis, nemmeno per la famiglia.”

Beatrice asserì con il capo, prima di tornare verso lo scrittoio “Dite a Lorenzo che mi deve un favore. Lo incasserò con il tempo.”

Madonna Orsini chinò il capo in segno di riconoscenza, mentre nella stanza un bambino iniziava a piangere “Qualcuno ti reclama” disse, sorridendo come solo una madre era in grado di fare “Ne discuteremo meglio domani.”

“Ti farò avere un contratto, quando partirai per Firenze.” Beatrice si avviò verso la porta e così fece anche Clarice. Prima che la donna se ne andasse, però, la contessa la fermò “Sono felice che tu sia qui.”

Si scambiarono un sorriso e la buonanotte, poi la fiorentina entrò nella stanza da letto e la romana si diresse verso il suo alloggi.

Ancora persa in quel dolce momento, Beatrice non adocchiò subito la figura che troneggiava sulla culla. Quando la vide, però, si spaventò.

Istintivamente però alla spada, lasciata sullo scrittoio, mentre l’uomo alto si alzata di nuovo diritto, tenendo il bambino tra le braccia.

Si chiese come fosse entrato, visto che le finestre erano chiuse e che lei non aveva mai lasciato l’anticamera. Nemmeno Mae aveva dato segni di aver sentito un intruso e la signora della rocca comprese presto il motivo. A questi cadde il cappuccio ed ella si sentì nuovamente tranquilla.

Avanzò di qualche passo, mentre il bambino rideva verso il nuovo arrivato.

“Piangeva.” Si giustificò semplicemente l’uomo ammantato di nero, quando Beatrice gli fu davanti. Le mise il piccolo fra le braccia, prima di incrociare le sue sul petto, come per rimproverarla.

“Faccende di stato.” Lo liquidò lei, coccolando Alessandro e riempiendogli il viso di dolci baci. Quando puntò gli occhi su quelli dell’altro, questi stava sorridendo intenerito “Deve mangiare, dopo di che inizieremo a lavorare, Corax.”

La figura alta fece un breve inchino, prima di girare sui tacchi per andare nello studio e lasciarla sola, ad accudire con amore il suo pargolo.

Mentre usciva, lo stemma dei Riario de’Medici brillò d’argento sopra al suo mantello nero come le più cupe tenebre.

Rimasta sola, Beatrice si slacciò il corsetto, così da poter sfamare la sua creatura.

Gli accarezzò i capelli tutto il tempo, cantando a bocca chiusa una vecchia ninnananna.

In quel momento di solitudine e silenzio, tutta la tristezza e l’infelicità che covava dentro di sé strisciarono fuori inumidendole gli occhi. Dietro alla facciata di nobile signora e di stratega militare, c’era una ragazza non ancora ventenne che ogni notte si addormentava in un letto freddo e vuoto, dopo molte ore passate a studiare i libri lasciatagli da suo nonno.

Le mancavano così tante cose e persone da non riuscire più a ricordarle tutte.

Giuliano, che nonostante ricevesse tutte le settimane una sua lettera, avvertiva così lontano e distaccato; Lorenzo, che mandava sempre emissari e mai si mostrava o inviava di suo pugno una missiva; la sua Firenze, così lontana da quella città che ormai era casa sua, ma che sapeva essere fredda come quell’inverno senza fine; la sua innocenza, persa per sempre.

Suo marito, che non vedeva dall’investimento a cardinale del cugino Raffaele a dicembre.

Si chiedeva spesso chi fosse avvero Beatrice Riario de’Medici: La contessa di Forlì, la sorella del Magnifico, la Tigre della Romagna o una figlia di Mitra. Così spaccata, in quattro parti speculari e opposte, non sapeva rispondersi.

 

 

 

On top of the world is beautiful,

But there’s no place to fall….

 

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Capitolo 3
*** Parte Prima, Capitolo Secondo. ***


modellostorieefp

Eccomi qui di nuovo!

Chiedo scusa per la lentezza- sia di questa long che della week- ma domani ho un esame e sono di corsa.

Volevo, oltre che ringraziare come sempre chi legge e chi recensisce (il prologo ha raggiunto già le 150 visualizzazioni, vi adoro!) fare una piccola precisazione.

Il tempo nella serie, la prima serie e anche la seconda, per la precisione.

Secondo Goyer e anche i produttori – tra cui Tom Riley- nella prima serie ciò che accade dalla prima all’ultima puntata avviene nell’arco di una settimana. Si, sette giorni, dalla domenica delle palme quando muore Francesco Sforza alla domenica di Pasqua quando muore Giuliano.

Si, certo.

Leonardo c’è stato una notte da Vlad? Vogliamo parlare di tutti i su e giù da Roma?

Io ho deciso di dilatare i tempi di ben due mesi. Scusate, ma voglio farlo per bene xD

Detto questo, vi lascio alla lettura!

A presto!
Jessy

 

 

Amor onni cosa vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo Secondo:

Combattere per la pace è come spegnere il fuoco con l’olio.

 

 

 

*

 

 

 

My heart is a weapon of war

My voice is my weapon of choice

An eye for an eye, a heart for a heart

A soul for a soul, we fight for the dream

We fight to the death, we fight for control

https://www.youtube.com/watch?v=mpd9AZ6twC8

 

 

 

 

 

20 Febbraio 1478, Ducato di Forlì.

 

 

 

“A Firenze è  iniziato e finito  il carnevale oramai, ed io anche quest’anno mi sono persa il lancio della colombina.”

Corax smise di giocherellare con la penna che reggeva in mano, alzando gli occhi chiari su quelli della contessa.

S’era fatta notte fonda, il momento perfetto per entrambi; da quando il signor conte Riario si era prefissato di controllare la povera Beatrice con l’ausilio della de’Pazzi e della Pitti, se le ritrovava continuamente tra i piedi.

Corax stesso aveva rischiato di venir scoperto dalla giovane Ombretta, la prima volta che si era presentato da madonna de’Medici. Poi s’erano fatti furbi e avevano deciso di operare solo con l’ausilio delle tenebre. Si addiceva assai bene ad un corvo come lui, dopotutto.

Appoggiando i gomiti alla superficie lignea dello scrittoio, il ragazzo guardò con entrambe le sopracciglia alzate madonna de’Medici “Triste, ma inopportuno. Stanotte vi siete distratta anche troppo, lo sapete? Non abbiamo tradotto quasi nulla!” concluse, enfatizzando il tutto con un gesto repentino della mano, ad indicare i libri di cui erano circondati.

Beatrice sbuffò “Non ho tradotto quasi nulla, vorrete direi. Ve ne state lì in pancioni a dormire, mentre io faccio tutto il lavoro.”

“Questo è compito della nipote di Cosimo de’Medici. Non ricordo di avere questo titolo.” La ragazza si massaggiò la fronte, mordendosi le labbra per non rispondere a tono a quelle provocazioni. Corax sapeva sempre dove colpire “Avanti, madonna, leggetemi l’ultima frase. Siamo al termine, oramai”

Giusto per controllare, Beatrice aprì il diario e notò che quella era l’ultima pagina di appunti; il resto delle pagine era costellato di disegni più o meno precisi.

Decisa, lesse quindi quell’ultima frase.

Solis et Luna, in Caelum Fornix incendetis totum.

Come per le pagine precedenti, la frase doveva avere dentro di sé un significato più profondo. Altrimenti non aveva alcun senso.

Un lampo illuminò a giorno la stanza, mentre lo scrosciare della pioggia colmava quel momento di vuoto e silenzio.

“Il Sole e la Luna entreranno insieme nella Volta Celeste” concluse,  appoggiando la penna nel calamaio “Io che speravo che la frase finale sarebbe stata la chiave di soluzione. Invece non mi dice assolutamente nulla.

 “Lo pensate voi.”  Corax si appuntellò con i gomiti al bracciolo della sedie, che ormai dopo ore seduto iniziava a parere scomoda “Va analizzato nel contesto. Chi è la Luna, per iniziare?”

Stupita, Beatrice socchiuse appena le labbra.

Non ci arrivò subito, dovette pensarci bene, eppure quell’epiteto l’aveva già udito. Qualcuno l’aveva chiamata così.

Al Rahim, la notte che aveva portato via il libro in ebraico da villa Orsini.

“Io sono la Luna.” Non era esattamente una domanda, quanto una sconvolta realizzazione.

Allargando le braccia come per accogliere la benedizione vescovile, Corax spostò lo sguardo verso il soffitto “Grazie.” Sussurrò estatico, facendo sbuffare nuovamente la contessa “Un passo avanti, finalmente. Quindi, ricapitolando le cose che abbiamo appreso dalla traduzione del diario, cosa vi manca?”

“Tutto!” sbottò Beatrice, stanca di quei giochetti “Mi manca la mappa dell’abissino che qui viene citata almeno venti volte. Mi manca il libro in ebraico che- a quanto pare- è  quello che il Turco si è portato via. Mi mancano le chiavi e una ce l’ha mio marito, cosa che rende davvero complicato il resto del piano. Mi manca tutto, Corax.”

Lui assistette a quel momento di profondo sconforto e rabbia con imperturbabile ironia “Vi manca qualcosa di più importante di tutti questi oggetti sommati, invero!”

“Per esempio? Illuminatemi!”

“Il vostro Sole.”

Oh, non ci aveva davvero pensato. Il famoso prescelto, doveva essere di certo lui.

Con un lungo, sofferto sospiro, si ricordò del suo ruolo: lei era un mezzo, uno dei tanti oggetti che andavano ricercati. Il prescelto avrebbe fatto tutto il lavoro, trovando il Libro e scoprendone i segreti. Lei era la depositaria di un sapere che avrebbe dovuto aiutarlo e basta. E la custode della chiave.

Corax si sporse in avanti, appoggiando una mano su quella della giovane contessa “Lo riconoscerete, è scritto nelle stelle. Poi, come anche Al Rahim ha avuto il buongusto di rivelare, il prescelto sarà il fortunato detentore della seconda chiave e del libro dell’Ebreo. Andrà tutto per il meglio, scoprire l’identità del Sole sarà, a mio modesto parere, la parte più semplice di tutta questa storia!” concluse, riprendendo rispettosamente le distanze e lasciandole la mano.

Trovando nuovamente la tranquillità, Beatrice annotò qualche appunto su una pergamena,  “Sembra una favola. Quanto il sole si innamorò della luna e nacquero le stelle!” Ironizzò, pensando a uno dei molti racconti di suo nonno “Quando Cosimo tornò da un lungo soggiorno in Oriente, portò con sé questo enorme libro di leggende e ce le lesse davanti al fuoco del camino. Quella del Sole e della Luna è una delle più belle, Voi la conoscete?” domandò incuriosita. Corax era di certo nato in una famiglia da bene, vista la sua istruzione.

Non solo.

Era incredibilmente acuto e l’aveva visto in un paio di occasioni scarabocchiare con un carboncino su di un vecchio quaderno dalla copertina in cuoio lisa.

“Si, la conosco.” Ammise il giovane, senza alzare gli occhi dalla penna che aveva preso ad arruffare per la noia  “Mio padre me la raccontava, quando ero piccolo.”

Beatrice ne rimase colpita.

Da che lo conosceva, ormai diversi mesi, non l’aveva mai udito pronunciare alcunché su di sé. Era un po’ un patto, il loro; lui la aiutava a tradurre e la indirizzava su sentieri più nitidi, senza mai scoprirsi troppo, mentre lei semplicemente non faceva domande. Eppure, quella notte, non poté trattenersi.

Complice il sorriso tenero apparso sul volto di Corax e la vena curiosa che alberga in ogni donna, pose per la prima volta una domanda che riguardava solo lui “Vostro padre doveva essere un brav’uomo. È forlivese come voi?”

Corax ridacchiò “Non posso dirvi nulla. Al Rahim mi leverebbe la pelle, se solo mi lasciassi sfuggire qualcosa.”

Beatrice non mollò “So che non potete dirmi nulla, seppure molte cose le conosciate già e potreste addirittura sostituirvi al prescelto.”

Il morettino scosse il capo, velocemente “Oh no, nessuno potrebbe. Poi è vero, so qualcosa, ma i dettagli che vi serviranno li ignoro totalmente.”

“Sapete cosa ho imparato dal Turco? Che il tempo è un fiume tondo, che la storia è una menzogna e che noi siamo tutti fregati.” Corax scoppiò a ridere, mentre Beatrice riponeva qualche foglio al sicuro, in un cassetto che avrebbe poi provveduto a chiudere a chiave. “Parlatemi di vostro padre. Solo qualche dettaglio per sfamare la mia evidente curiosità, non voglio strapparvi nulla di più di quanto non possiate dirmi.”

Il morettino, alla fine, cedette. Spostò lo sguardo dietro alla spalla di Beatrice, come se stesse cercando di ricordare qualcosa che aveva da tempo messo da parte “Mio padre era un uomo molto- come dire … Particolare. Mi confidò, anni orsono, che mai si sarebbe visto padre. Ne tanto meno innamorato di una donna. Per indole, posso assicurarvi, che era difficile immaginarlo con degli affetti.”

La fiorentina ascoltò in silenzio, unendo le mani sotto al mento e sorridendo con dolcezza “Ogni uomo ha bisogno di qualcuno che lo ami e da amare di rimando. Per quanto possa non mostrarlo.”

Corax si limitò ad annuire “Mi ha insegnato tutto quello che poteva. Penso sia il miglior uomo al mondo, ma ammetto che il mio parere sia largamente influenzato dal mio affetto.”

Incoraggiata dalla dolcezza di quell’istante, Beatrice sorrise dolcemente al giovane Corax, guardandolo poi abbassare il capo di colpo. C’erano tante cose che davvero non capiva di lui; sembrava un uomo senza tempo.

Portava una cappa nera, con ricamati in argento i blasoni delle famiglie de’Medici e Riario. Sapeva che i Figli di Mitra più abili erano in grado di scavalcare il tempo e addirittura lo spazio, se lo ritenevano necessario. Addirittura, riuscivano a prevaricare la morte, così come aveva fatto Cosimo quando le si era palesato la notte che fece quel sogno …

Il sogno* che le permise di salvare Girolamo.

Dopo tanto tempo, quasi un anno e mezzo, le tornò alla mente ogni singolo segno, ogni singola persona che aveva albergato quel viaggio onirico.

Non era tutto, però.

Aveva fatto altri sogni, nel corso di quell’ultimo anno in particolare. Alcuni erano troppo confusi, altri eccessivamente nitidi.

Istintivamente, si chiese se Corax potesse aiutarla a scoprire se tutte quelle cose che aveva visto potevano definirsi, o meno, profetiche.

Non ebbe però il tempo di domandare.

Uno squillare di trombe interruppe la calma placida della notte. Beatrice scambiò uno sguardo stranito con  il ragazzo, mentre entrambi si alzavano per avvicinarsi alla finestra.

Fu lui a dare alito alla domanda che imperversava nelle mente della contessa “Chi mai può essere, a quest’ora della notte?”

La giovane scostò la tenda, affaccia dosi sul cortile interno della rocca proprio nell’esatto momento in cui un corteo di otto o nove uomini lo invadeva. Tra tutte quelle figure vestite di scuro, Beatrice riconobbe il profilo del marito, illuminato dal fuoco tenue delle torce.

“Girolamo.” istintivamente, prese Corax per la manica, tirandolo via dalla finestra. Andò verso la scrivania, chiudendo il diario di suo nonno e porgendolo all’amico “Nascondi tutto nel cassetto e riponi la chiave sotto al piede dello scrittoio. Poi vattene più velocemente che puoi.”

Il giovane non se lo fece ripetere “Ci rivedremo appena sarà sicuro.” La rassicurò, mentre la guardava sistemarsi la vestaglia che copriva l’abito da camera che indossava “Non che abbiate più bisogno di me.”

Mae si alzò dalla sua postazione accanto al camino, stiracchiando la schiena prima di seguire la padrona sino alla porta.

“Ho più bisogno di te di quanto credi.” Terminò lei, avviandosi alla porta e sperando vivamente che monna Agnese si fosse levata per badare ad Alessandro. Grazie al cielo, dalla stanzetta del neonato, non provenne nessun suono.

Beatrice aprì la porta, dopo un ultimo cenno a Corax, uscendo nel corridoio e avviandosi verso l’ingresso della rocca.

Camilla si affacciò dalla sua stanza “Che accade?” domandò assonnata e lievemente allarmata.

“Il conte è tornato.” Disse semplicemente la contessa, mentre anche la porta della stanza di  madonna Pazzi si apriva lentamente.

“A quest’ora?” chiese stralunata madonna Colonna.

“A quanto pare. Ti prego, Camilla, va a cercare monna Agnese.”

La sua prediletta non se lo fece ripetere. Si richiuse nella stanza giusto per poter recuperare uno scialle con cui proteggersi dal freddo della dura pietra di cui tutto era fatto, prima di uscire nella direzione opposta a quella percorsa dall’amica.

Beatrice, nel contempo, aveva già sceso due rampe di scale e si era ritrovata a stringersi nella sua vestaglia. Una folata di vento gelido entrò dal pesante portone, facendole desiderare di avere una folta pelliccia come quella della lupa.

Fu quest’ultima ad accogliere al meglio il conte Riario, con un ringhio basso, ma ben distinto. 

Tenendo chiusa la vestaglia con una mano, Beatrice portò l’altra sul collare in spesso cuoio che la bestia teneva al collo, in un vago tentativo di trattenerla. Se davvero avesse voluto saltare alla gola del marito, di certo la contessa non avrebbe mai avuto la forza di trattenere Mae.

Girolamo avanzò con sicurezza, sfilandosi i guanti senza levare gli occhi dalla lupa. Il suo mantello grondava pioggia, così come i suoi capelli. Si schiarì la voce, ma ciò che disse non fu ne un saluto ne un’accortezza.

“Avevo ordinato che quella bestia venisse legata nel cortile, o sbaglio?”

Beatrice non abbassò gli occhi nemmeno un istante.

Si congratulò con se stessa per non l’essersi aspettata di trovare suo marito di buon umore.

“Edoardo, per cortesia, portereste Mae nelle stalle?”  chiese, tenendo puntati gli occhi azzurri in quelli miele del marito, mentre si rivolgeva al suo capitano delle guardie.

Dal canto suo, il povero Olivieri stava dormendo in piedi.

Aveva smontato un turno di sentinella che gli era parso eterno poco prima dell’arrivo del conte e bramava così tanto un letto da avvicinarsi senza fiatare alla sua signora.

Con qualche resistenza, la lupa si fece portare fuori sotto alla pioggia battente, mentre Beatrice girava le spalle al marito per aprirgli la strada verso le loro stanze.

Si sa mai, si disse, che in tutto quel tempo si fosse dimenticato dove esse si trovassero.

Ordinò ad un delle serve di preparare un bagno caldo al conte nella toletta dei loro alloggi, prima di aprire la porta della stanza ed entrarvi per prima.

Lì, in piedi accanto al baldacchino color porpora, Agnese teneva fra le braccia il piccolo Alessandro. Fece per passarlo alla contessa, ma quando lei alzò una mano per fermarla, la guardò perplessa. Solo l’ingresso del conte dissipò ogni domanda.

La vecchia lo guardò, falsamente meravigliata “Ma guarda, piccolo Sandro, non sei più un figlio bastardo! Tuo padre si è degnato di tornare a casa.”

Girolamo, che non aveva assolutamente voglia di reggere il gioco di monna Agnese, si liberò del mantello zuppo. “Ben trovata anche a voi, monna.” Disse, mentre quel pezzo di stoffa inspessito dalla pioggia cadeva a terra con un piccolo tonfo. Fece un passo avanti verso il bambino, alzando una mano indolenzita per il freddo a causa della lunga cavalcata  e lo passò sulla guancia paffuta del bambino, prima di perdere ogni interesse per chiunque in quella stanza.

Si sedette allo scrittoio, da cui Corax aveva provveduto a far sparire ogni cosa – iniziando a scribacchiare una lettera.

Agnese, però, non cedette “Sapete che solo i ladri arrivano con il favore delle tenebre?”

Nessuna risposta parve arrivare dal conte, che doveva essere davvero stanco per lasciar passare quell’insolenza senza la solita risposta piccata.

Beatrice si fece avanti, accarezzando il capo del piccolo, prima di sussurrare piano alla vecchia balia di tenere il bambino con lei.

Il volto del marito non prevedeva nulla di buono. Uno sguardo di intesa e i due coniugi rimasero soli nella stanza.

La contessa accese un altro paio di candele, portandone una al marito per poter scrutare oltre la sua spalla  il messaggio che stava scrivendo. Sicuramente era diretto in vaticano. O forse no?

Corrugando le sopracciglia, Beatrice parve stupita “Stai scrivendo a mio fratello Lorenzo?” domandò.

Girolamo, senza mostrare alcun segno di irritazione, alzò il viso su di lei “In vero, sì: impegni diplomatici ci porteranno alla corte fiorentina, la prossima settimana. Domando con garbo a tuo fratello di potermi ricevere.”

“Tu che domandi, marito mio? Deve essere davvero qualcosa di importante.”  Un bussare leggero e la serva di prima entrò con un secchio di acqua calda, domanda di potersi recare nella toletta “Fa pure.” Rispose la contessa, sedendosi di fronte al marito, sulla sedia che poco prima aveva occupato Corax. Lo guardò scrivere concentrato e una volta terminato, lo vide imprimere nella cera lacca il sigillo vaticano che sigillò la lettera “Mi chiedo perché non usi mai il nostro sigillo, ma usi sempre quello di tuo zio.”

“Perché è una faccenda che riguarda Santa Madre Chiesta.” Le spiegò il marito, alzando finalmente gli occhi in quelli azzurri di Beatrice.

Come sempre, si disse la giovane.

Le serve finirono di preparare il bagno, raccomandandosi di attendere qualche istante, visto che l’acqua era molto calda.

La porta si chiuse e così parve anche per il loro discorso.

Dal ripiano accanto allo scrittoio, Girolamo prese una bottiglia di vino ormai a metà e due calici, porgendone uno alla moglie e premurandosi di riempirlo fin quasi all’orlo.

Nel linguaggio universale di Riario, quel gesto significava che dovevano parlare.

Seriamente, per giunta.

La ragazza lo portò alle labbra, prendendo un piccolo sorso, mentre aspettava che Girolamo iniziasse a parlare. Non dovette attendere poi molto.

“Sono tornato per due motivi, principalmente.”

Che non fosse lì per lei, era palese. Non sarebbe dovuto giungere prima dell’inizio di marzo, quando con i primi tepori primaverili vi sono da prendere le decisione più incresciose e fare una cernita dei possedimenti che hanno retto bene l’inverno per poter seminare.

Se era arrivato con dieci giorni di anticipo, allora doveva avere un motivo valido.

“Ti ascolto.” Gli disse la moglie, prendendo un altro sorso, stavolta generoso.

Ironicamente, per quanto all’esterno paresse imperturbabile, internamente faceva ancora male.

“I Malaspina hanno chiesto protezione Papale, pagando un ingente contributo per la cappella che il Santo Padre sta realizzando.” Iniziò pacato Girolamo, appoggiando il suo calice e appoggiandosi con la schiena alla sedia. Storse il naso, infastidito nell’avvertire che la pioggia era passata attraverso la giubba arrivando fino alla pelle della schiena “Capirai quindi cosa va fatto ora.”

La contessa non lo guardò. Fissò l’oscillare del vino dentro alla coppa che reggeva in mano, con un sorrisetto spento ad incresparle le labbra di rosa. “Mi stai chiedendo di scrivere a Pandolfo Malatesta, avvertendolo che il nostro piano di attacco contro la città di Faenza va annullato?”
“Io non te lo sto chiedendo.”

Beatrice rise senza colore, prima di finire il vino. Schioccò la lingua contro al palato, mentre provvedeva a riempirsi da sola il calice “ Non ti occupi dei nostri affari da mesi, qui in Romagna; se ti fossi degnato di chiederlo, stiamo costruendo qualcosa di grande. Unificando queste terre, creeremo una sorta di lega, un’unione commerciale che permetterà a Forlì di vivere senza bisogno dei fondi pontifici.” Prese un piccolo sorso, tornando ad addossarsi alla sedia, guardando il volto serio di Girolamo “Quindi dimmi, in virtù di cosa dovrei ubbidirti?”

“Sei una donna.” Sottolineò il conte, facendole perdere il sorriso divertito. Quella era una minaccia detta e ridetta, nell’ultimo anno e mezzo. Non che Girolamo credesse davvero che perdere le terre l’avrebbe fermata, da quando si era presa quelle frustate la vera tigre era uscita fuori. Eppure, aveva sempre lui il coltello dalla parte del manico; in quanto donna, aveva potere fin quando lui decideva di concederglielo “Non ti permetterò di attaccare la città di Faenza. Provaci, Beatrice, e nemmeno Malatesta potrà ridarti in dietro la città di Forlì.”

Con un sospiro, la contessa alzò gli occhi verso il soffitto, appoggiandosi con la nuca allo schienale “Perché non mi eviti di stupirti e apri semplicemente il primo cassetto? Lì troverai una missiva assai interessante.”

Girolamo alzò un sopracciglio, prima di fare come gli era stato detto. Prese la prima missiva che trovò su una piccola pila, notando lo stemma dei Malatesta, spezzato nella ceralacca che chiudeva la lettera.

La lesse attentamente, tenendo il foglio alzato vicino alla candela che teneva accanto.

Una volta terminato, la rimise a posto “Quando è giunta questa notizia?”

“Stamattina.” Disse la contessa, abbassando nuovamente il capo e lasciando ricadere il mento mollemente in avanti “Galeotto Manfredi, figlio bastardo del signore della città di Faenza, ha conquistato tramite una rivolta popolare il ducato. Poi ha invitato un messo di corsa alla corte di Rimini e lì ha fatto ampiamente sapere del suo appoggio alla nostra causa. Non so quando Carlo II ha chiesto l’aiuto della chiesa, ma i suoi soldi sono andati sprecati: ha perso la città e la testa.”

Girolamo non disse nulla.

Il fatto che Faenza fosse, come Forlì, un ducato pontificio con reggenza di signoria non permetteva allo Stato della Chiesa di mettere becco sulle questioni di tipo economico. Peccato che quella fosse anche una chiara intesa militare.

Prese il calice, sospirando  “Combattete come le ragazzine, tu e quel Malatesta.” Dichiarò, con un leggero tono di scherno “Avete quanto? Trentacinque anni se sommiamo le vostre età?”

“Saremo anche giovani, ma imbattuti.”sottolineò Beatrice con un tono fiero, ritrovando il sorriso divertito di prima. Era sempre bello farsi minacciare a vuoto, soprattutto quando le circostanze permettevano alla sua buona stella di brillare più luminosa di quella del marito  “Combatterò  anche come una ragazza, ma non sottovalutarmi lo stesso, Girolamo. L’hai già fatto in passato.”

L’aveva fatto e lei era stata largamente punita e quasi bandita dall’Urbe.

Ormai non era più ospite gradita a Castel Sant’Angelo, come se mai lo fosse stata.

Beatrice studiò attentamente l’uomo che aveva di fronte, non riuscendo a non amarlo nonostante quel suo voler sembrare sempre così sgradevole, al suo ritorno da Roma.

Tempo un paio di giorni e sarebbe tornato il falsamente mite marito che conosceva bene. Magari avrebbe dedicato qualche attenzione anche a loro figlio.

Fu solo a quel punto, che a Beatrice parve di aver tralasciato qualcosa.

Girolamo aveva esordito con poca chiarezza, riguardo al motivo del suo ritorno.

“La seconda cosa?” domandò quindi “Hai detto che i motivi del tuo ritorno erano due e immagino non sia per spirito paterno.”

Girolamo incurvò il labbro nel primo, vero sorriso dal suo arrivo “Ti chiedo di Alessandro in ogni lettera e cerco di scriverti il più possibile, quando sono lontano da Forlì.”

“Un conto è leggere di lui, un conto è vederlo con i tuoi occhi.” rispose la giovane, appoggiando il calice di nuovo vuoto e decidendo di fermarsi  dal prenderne un altro ancora “Quindi? È così brutta, questa notizia, che ti spinge a tergiversare?”

“Dovrei accompagnarmi a Firenze, come ti ho già detto, e intercedere se tuo fratello farà resistenze riguardo il motivo della mia visita.”

Se lo aspettava, Beatrice se lo aspettava.

Aveva sperato che quella richiesta non sarebbe mai arrivata; essere un veicolo del Papa per i suoi loschi traffici e macchinazioni era davvero troppo.

Quel bicchiere di vino si fece improvvisamente necessario, ma Girolamo le allontanò la bottiglia dalle mani “Questo è profondamente ingiusto. Non puoi levarmi il vino mentre mi chiedi una cosa del genere.”

Il conte alzò le sopracciglia “Ti ho solo chiesto di parlare con il tuo adorato fratello.”

“No, mi hai chiesto di diventare la messaggera della Chiesa.” Beatrice portò una mano alla fronte, sconfortata. Ecco qualcosa che davvero non sapeva come affrontare “Posso almeno sapere per quale motivo dovrei perdere il poco rispetto che la mia famiglia nutre nei miei confronti?”

Girolamo parve infiammarsi, a quelle parole. “Sembra che tu stia parlando di un atto spregevole, come una prostituta che si fa bella per un cliente importante.”

La contessa sbuffò una risata ironica “Ci si avvicina abbastanza, come allegoria.”

“Lo facciamo per il volere di Dio, che tramite la voce del Santo Padre ha stabilito che l’arcidiocesi di Pisa passerò a Francesco Salviati.” Sottolineò con veemenza l’uomo, puntando il dito sulla superficie dello scrittoio come ad indicare che quello era un paletto che nemmeno lei poteva confutare  “Anche tu combatti per il controllo, quale è la differenza?”

“Combattere per il controllo geografico della Romagna, che è nelle mani di stupidi duchi e conti senza cervello ha un senso.” Si difese piccata la moglie, prima di riprendersi la bottiglia. Si era sporta così tanto sullo scrittoio da appoggiarsi con il petto ad esso  “Combattere per la pace è come buttare olio sul fuoco.”  Aggiunse, tornando seduta e versando un calice per sé e uno per Girolamo “E non venirmi a dire che l’ha deciso Dio, perché puzza di politica da ogni parte, questa decisione. Non avreste scelto tuo cugino dalla parte dei Della Rovere, se no.”

Calò un silenzio teso, che andò avanti sino a che Beatrice non acconsentì a parlare con Lorenzo. Avrebbe quietato il suo animo e l’avrebbe convinto a parlare di nuovo con Girolamo, se necessario, ma non ci avrebbe messo becco.

La conversazione parve finire lì, per qualche istante. Girolamo andò a farsi il bagno, lavando via così il freddo della pioggia e lo sporco della cavalcata.

Beatrice si stese a letto, sentendo la testa girare per via del vino. Attese l’arrivo di suo marito e quanto questi ebbe preso posto al suo fianco, la contessa stava ancora fissando con aria assorta il baldacchino.

“Hai sentito della sorte toccata a Francesco Sforza?” disse  con tono sognante, appoggiando una mano al petto del marito. “Dicono che sia stato sgozzato come il porco che era al centro della navata del duomo …”

“Dicono che siano stati i Visconti.” Disse Girolamo, stringendole la mano, mentre lei girava il capo per guardarlo.

“Dicono che è stato un ordine del Papa. Quindi che sei stato tu a eseguirlo.”

“Io non ammazzerei mai nessuno dentro a una chiesa e lo sai benissimo.” Le ricordò Girolamo, avvicinandola a sé e appoggiando la guancia sul suo capo quando lei appoggiò il suo sulla spalla scoperta del conte “Macchiare di rosso i pavimenti della casa del Signore è abominevole.”

La contessa non poté non credere al marito. Dopotutto, gli si poteva contestare molte cose, ma non quella di essere il perfetto ‘bacia pilette’ dell’acqua santa.

Iniziò a sentire il tepore del sonno, così chiuse gli occhi, girandosi del tutto verso Girolamo per poter appoggiare meglio il corpo al suo.

Colse il calore di quell’uomo, quel calore che tanto le era mancato.  “Abbiamo qualche giorno prima di partire per Fiorenza, spero mi accompagnerai a caccia come in passato.”  Disse con tono basso, sorridendo lievemente, come se avesse d’improvviso trovato la pace dopo tanta inquietudine“Sei venuto qui sperando di levarmi una battaglia, almeno un cervo puoi concedermelo.”

“Va bene.” Acconsentì Riario, passando una mano sulla schiena della moglie, incapace di chiudere gli occhi  “Quando?”

“Quando cosa?” domandò la giovane con tono sempre più fiacco.

“Uccidere ha iniziato a piacerti.”

Girolamo attese qualche secondo, ma allo stupore che si sarebbe aspettato da Beatrice, si sostituì il respirare leggero del sonno che l’aveva colta prima ancora di udire quell’ultima frase.

 

 

 

Cause I fight like a girl

I'll get my revenge on the world

Or at least fourty-nine percent of the people in it

And if I end up with blood on my hands

Well I know that you'll understand

'Cause I fight like a girl

 

 

 

 

 

 

 

*Con questo sogno, mi riferisco al capitolo ‘Il Dono ptI’ di No Good Deed, quando Beatrice ha la visione della battaglia di Forlì.

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Parte Prima, Capitolo Terzo. ***


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Amor onni cosa vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo Terzo:

Iustus ut palma florebit.

 

 

*

 

 

 

Every demon wants his pound of flesh

But I like to keep some things to myself

I like to keep my issues drawn

It's always darkest before the dawn

 

And I've been a fool and I've been blind

I can never leave the past behind

I can see no way, I can see no way

https://www.youtube.com/watch?v=FyGUg9u_psU

                                                                                               

 

 

26 Marzo 1478, Repubblica Fiorentina,

Un mese prima della morte di Giuliano de’Medici .

 

 

 

 

“Non negherò che il rapporto con Firenze s’è fatto più aspro, in quest’ultimo periodo: ti pregherei quindi di recarti da tuo fratello un paio di giorni prima di me, mentre io svolgo un paio di faccende lungo il Chianti.”

Girolamo non s’era fatto scrupolo alcuno nel domandare alla moglie di precederlo in Fiorenza, la sera prima del giorno pattuito per la partenza.

Dal canto suo, Beatrice non s’era stupita affatto.

L’aria era sempre stata tesa fra la sua città d’origine l’Urbe, tanto che nemmeno il matrimonio tra lei e il nipote prediletto di sua Santità aveva posto una pezza a quella traballante pace.

Senza contare che Girolamo le aveva detto deliberamente che avrebbe dovuto intercedere presso Lorenzo.

Lì per lì, Beatrice avrebbe desiderato solamente rifiutarsi, ma l’amore per quell’uomo che aveva ormai imparato a conoscere meglio per se stessa la stava portando addirittura a mediare trattative fra Roma e Firenze.

La cosa non avrebbe portato a nulla di buono, ma sperava sempre nel buonsenso del Magnifico e in una sana dose di fortuna. Dopotutto, Girolamo sapeva essere assai persuasivo se lo voleva.

Beatrice pregò, quindi, per un lieto soggiorno in Fiorenza, lontano da drammi.

Pregò, ma era pronta al peggio, come ogni volta.

Le importava poco di ciò che sarebbe successo, avrebbe rivisto la sua famiglia e ciò le bastava. In particolare, aveva patito troppo la lontananza da Giuliano.

Nonostante i rapporti si fossero incupiti, le mancava troppo.

Alessandro meritava di conoscere suo zio, così come meritava di fare il suo ingresso a Firenze. Aveva metà sangue toscano nelle vene e sua madre era figlia dell’arte e della bellezza di quella città magica.

Beatrice avrebbe fatto di tutto, in futuro, per farlo studiare presso le migliori menti del loro tempo in quella città così bella e unica. A costo di litigare in eterno con suo marito.

Tornado al mattino della partenza, aveva salutato il marito dopo una frugale colazione consumata a letto –un lusso concessole solo al fine di ammorbidirla, ormai aveva imparato a leggere in mezzo alla ruffianeria di Girolamo-e s’era messa in marcia con le sue dame di compagnia, la balia a badare al piccolo Alessandro e una decina di soldati forlivesi, ai comandi di Edoardo.

Aveva indossato una veste più leggera, poiché ormai la primavera pareva aver deciso di albergare anche in Italia e aveva deciso di non negarsi quella lunga cavalcata, rifuggendo come di suo solito le comodità della carrozza.

Accanto a lei, su un destriero bruno, con un’ampia veste azzurra, c’era Camilla.

Dopo ciò che era successo a Roma, dopo ciò che il Papa le aveva fatto, qualcosa era radicalmente mutato in madonna Colonna. Seppur non portasse seco una spada, aveva sempre un pugnale sotto alle sottane e aveva iniziato a tirare di scherma e di arco.

Era ancora fin troppo lontana dall’essere un soldato abile come Beatrice, ma il farsi insegnare dall’amica quelle basi di combattimento l’aveva portata quanto meno al riuscire di nuovo a dormire la notte.

Il mutamento di Camilla era stato molto, molto più profondo di così.

S’era fatta più taciturna e l’essere stata violentata con tanta crudeltà l’aveva portata a chiudersi di più  e a fidarsi meno. Nonostante ciò, il caratterino frizzante che l’aveva sempre distinta, era rimasto intoccato.

Così come l’amore di Olivieri per lei.

 

La marcia fu lunga, ma Beatrice aveva la testa altrove, così quasi non si accorse d’aver infine preso la via che conduceva verso Firenze, una volta svoltato il passo degli Appennini.

A loro si affiancò un carretto, guidato da un uomo anziano.

Le guardie forlivesi s’apprestarono a fermarlo, ma Beatrice alzò una mano affinché non intralciassero il cammino del mercante, il quale appoggiò una mano alla visiera dell’ampio cappello che indossava sul capo, in segno di galante ringraziamento.

“Che il buon Dio possa vegliare su una così gentile Madonna!” disse questi, con un marcato accento marchigiano “Dirò una preghiera pe’voi, se mi fate la gentilezza di svelarvi chi siete, mia signora.”

“Costei è Beatrice Riario de’Medici.” Disse a voce alta Olivieri, stupendo l’uomo che immediatamente si levò il cappello, scendendo dal carretto e prostrandosi davanti alla contessa “Signora di Forlì e Imola, moglie del Conte Girolamo Riario”

La signora, senza scendere da cavallo, sorrise benevola all’uomo, lanciando poi uno sguardo a Camilla che accaldata la implorò silenziosa per una pausa.

Le fu concessa, visto che Beatrice allentò le redini, appoggiando le mani sul pomo della sella “Ditemi buon uomo, dove siete diretto?”

“Nella vostra bella Firenze, mia signora.” Rispose immediatamente l’anziano “Il mio nome è Ubaldo Vittori e  commercio vini dalle Marche. Vostro fratello, il Magnifico, m’ha incaricato di portare le migliori damigiane per il carnevale di stasera.”

Beatrice scambiò uno sguardo sorpreso con Madonna Colonna “Un carnevale, avete detto? Come mai?”

“Non saprei dirvi mia signora.” Rispose sempre molto educato Vittori “Si vocifera sia per festeggiare la Quaresima.”

“Quest’idea dev’esser di Giuliano” meditò divertita Beatrice, prima di unire le mani sotto al mento “Ci sarà una colombina, quindi! In marcia ora, non voglio rischiare di attardarmi!” Poi vece ceno alle guardie di occuparsi di Vittori “Vi scorteremo con noi, Ubaldo. Così che i vostri vini arrivino salvi alla tavola di mio fratello!”

Il mercante parve più che felice della scorta e in poco più d’un ora di viaggio, arrivarono alle mura fiorentine.

Ad attenderla a palazzo, così come le era stato comunicato da un messo, vi era Gentile Becchi.

Beatrice lasciò il cavallo a uno stalliere, prendendo in braccio il piccolo Alessandro che curioso scrutava il giardino interno a Palazzo de’Medici, mentre il consigliere si avvicinava, senza parole.

Vedere colei che per lui era ancora una bambina con quella creatura fra le braccia lo destabilizzò.

“Che bello rivedervi, Becchi” esordì Beatrice, mentre Edoardo le si affiancava, felice di non dover di nuovo recitare tutti i titoli della sua signora da capo. “Vi trovo bene.”

Per risposta, il consigliere sorrise, ritrovando poi la sua compostezza “Auguro un caloroso benvenuto alla Contessa di Forlì.” Recitò, così come gli era stato chiesto da Lorenzo in persona “Se volete seguire la servitù, vi condurrà ai vostri alloggi. Lorenzo de’Medici vi riceverà entro sera.”

Quella così formale accoglienza gelò Beatrice sul posto.

Un anno e mezzo prima Becchi l’aveva strinta in un abbraccio chiamandola ‘bambina mia’, e ora…. Contessa di Forlì.

Cercò di boccheggiare una risposta, ma fu Edoardo ad anticiparla, nel vederla così in difficoltà “La mia signora è grata dell’accoglienza. Non vede l’ora di rivedere i fratelli, ma giustamente deve riposare insieme a suo figlio, ora.” E senza aggiungere altro, appoggiò una mano sulla schiena di Beatrice, scortandola via da quell’atrio freddo.

Lontana da quel così distaccato modo e dalla tristezza profonda che esso le aveva lasciato nell’animo.

 

 

 

Giuliano si sistemò la camicia bianca e rossa che indossava quella sera per la centesima volta, prima di sfilarsela e buttarla con disprezzo oltre il letto.

Si passò le mani fra i capelli, rimirando la sua immagine nello specchio e desiderando ardentemente di romperlo frantumarlo in una miriade di piccole schegge di luce.

C’erano giorni in cui, per lui, essere un de’Medici era una condanna.

Il giorno in cui suo padre aveva iniziato a istruire suo fratello alla politica, ignorando del tutto gli altri figli. Il giorno in cui suo nonno era morto e si era sentito dire che mai lui avrebbe potuto rasentare la sua perfezione.

Il giorno in cui aveva compreso che non si sarebbe mai maritato per amore.

Il giorno in cui aveva visto sua sorella maritata con un uomo che non era degno nemmeno di un sorriso da parte di un angelo come Beatrice, per esempio. Il giorno in cui l’aveva quasi persa su un campo di battaglia e i suo maledetto cognome gli aveva impedito di farsi giustizia da solo.

Il giorno in cui lei aveva scelto quel marito, quella città così lontana e tutte quelle incombenze che la stavano distruggendo.

Poi era arrivata quella sera.

Non vedeva Beatrice da quando era tornata a Roma un anno e mezzo prima, dopo quella brutta lite che li aveva tenuti divisi e muti per mesi, prima di riprendere a scambiarsi lettere su lettere, sentendo al contempo un sapore amaro in bocca ad ogni risposta leggermente forzata.

Girolamo Riario non aveva solo portato via a Giuliano la cosa più preziosa che aveva, ma aveva anche distrutto un rapporto che sembrava prevalicare ogni cosa.

Non v’era persona al mondo che Giuliano amasse più di sua sorella e non v’era uomo al mondo che Beatrice prediligesse a Giuliano, ma tutto s’era fatto così difficile da distruggere entrambi i fratelli.

Nulla era più doloroso di quella separazione.

Giuliano non poteva nulla, per quanto si sforzasse.

Un bussare alla porta precedette la serva che gli annunciò che era giunto il momento, così prese un’altra camicia, indossandola.

Quella che doveva essere un’allegra serata stava tramutandosi in una lenta agonia.

Trovato il coraggio  necessario per uscire dai suoi alloggi, Giuliano si recò nell’anticamera in cui Lorenzo accoglieva sempre i suoi ospiti.

Lì trovò la sua famiglia al completo, ma non degnò di uno sguardo il fratello, preferendo la compagnia delle nipoti. Maddalena si aggrappò al suo braccio, tirandolo verso di sé affinché si chinasse su di lei. Solo quando fu alla sua altezza, la piccola portò una mano a coppa sino al suo orecchio e lì parlò direttamente, piano affinché i genitori non la udissero “Perché non possiamo andare da zia Beatrice quando entra?”

Giuliano aveva già la risposta pronta, ma dire che Lorenzo era un autentico deficiente sarebbe parso poco rispettoso e poco educativo; preferì usare le stesse parole del fratello.

“Tua zia è una contessa. Dobbiamo riserbarle l’atteggiamento che merita.”

O quello che lei stessa si era scelta, sposando Riario.

Maddalena parve confusa, ma non chiese altro. Si limitò a stringere la mano dello zio, abbassando gli occhi sul pavimento con muta rassegnazione.

Giuliano non era il solo a non capire quella situazione.

 Nessuno aggiunse altro, sino all’arrivo dell’ospite.

Fu preceduta da Olivieri, che entrò nella stanza con addosso la miglior divisa di rappresentanza: una casacca d’oro e blu scuro, i nuovi colori della città di Forlì in accordo con gli stemmi delle casate della Signoria.

Il rosso si schiarì la voce, salutando con un cenno Giuliano che l’osservava con trepidante nervosismo.

“La mia signora porge i suoi omaggi alla Signoria vostra de’Medici.” Disse con gentile osservanza il forlivese, facendo un piccolo inchino “Permettetemi di introdurvi a sua grazia Beatrice Riario de’Medici, signora di Forlì e Imola e suo figlio, Alessandro di ser Girolamo Riario.”

Scostandosi dalla porta, Olivieri fece spazio a madonna Colonna e madonna Pitti che precedettero l’ingresso di Beatrice di qualche istante.

Dietro di lei vi erano anche madonna de’Pazzi e monna Agnese, che teneva fra le braccia il piccolo Alessandro. Dietro ancora, almeno cinque guardie forlivesi chiudevano il piccolo corteo.

Per Giuliano, però, vi era una sola presenza lì insieme a lui. Quella stanza affollata era, di fatto, vuota ai suoi occhi.

Beatrice era così diversa da come la ricordava.

Dinnanzi a lui, l’austera signora di Romagna entrò con lo sguardo alto e serio, in totale disaccordo con gli occhi dolci e il sorriso sognante che aveva sempre posseduto.

Indosso aveva un abito in broccato nero, con ampie maniche trasparenti. Sul capo, i capelli erano intrecciati in un’elaborata pettinatori tenuta unita da un diadema di pietre preziose candide come neve.

Sullo scollo generoso del corpetto stretto, una collana d’oro bianco risaltava luminosa sulla pelle diafana della contessa.

Un’immagine gli balenò innanzi agli occhi, mentre la guardava avvicinarsi.

Una giovane ragazza con i capelli sempre liberi sulle spalle, sorridente e gioiosa con indosso una veste bianca merlettata di pizzi raffinati. Ballava accarezzata dal vento, che trasportava le sue risa per tutta la campagna, mentre il sole tramontava alle sue spalle.

Incoronata da rosse rose intrecciate, Beatrice, la sua Beatrice, le parve così differente dalla donna che ora gli stava innanzi.

Così lontana da parere irraggiungibile e persa per sempre.

Lorenzo, invece, si trovò incapace di spostare lo sguardo dal bambino.

Era piccolo, ma aveva lo sguardo molto vispo, nonostante se ne stesse buono tra le braccia della balia anziana.

Quegli occhi, grandi e dei colori del miele, erano identici a quelli di Riario.

Un insieme di pensieri si fece largo nella mente del Magnifico in quel frangente, destabilizzandolo; quello era sangue del suo sangue, che doveva condividere con la feccia romana.

Senza contare che, in un certo senso, l’onta del non aver concepito un erede maschio mentre quell’infame di Riario vi era riuscito al primo colpo facendosi sua sorella, era davvero troppo.

Nonostante ciò, trovò la prontezza d’animo di guardare verso Beatrice.

Le sorrise compiaciuto, allargando le braccia mentre scendeva quei pochi gradini che li separavano “Mia adorata.” Le disse, abbracciandola forte.

Si era preparato un discorso, ma non riuscì ad aggiungere altro.

Il conte non c’era e la più giovane delle sue sorelle era lì, dopo tanto tempo.

Lei sentì tutta la tensione scemare fra le braccia di Lorenzo.

Sospirò e chiuse gli occhi, mentre appoggiava il viso nell’incavo della spalla del fratello, sentendo di nuovo un profumo familiare che la riportò con la mente alla sua infanzia.

Quando si staccarono, la contessa di Romagna prese fra le mani il viso dell’uomo, baciandolo sulla guancia “Vi trovo bene, Lorenzo.” Gli disse, facendo un passo indietro, per poter guardare verso il resto della famiglia. Non abbastanza coraggiosa da chiamare a sé Giuliano, strinse forte Clarice che s’era avvicinata mentre ancora abbracciava il maggiore, lanciando poi uno sguardo alle nipotine che fremevano dalla voglia di raggiungerla “S’è persa l’usanza del saluto, qui?” domandò Beatrice proprio verso di loro, accogliendole poi fra le sue braccia, quando corsero da lei.

Anche Becchi , visto l’atteggiamento di Lorenzo, mise da parte la compostezza e accarezzò il capo di Beatrice, la quale finalmente guardò Giuliano.

Non  chiedeva nulla alla sua famiglia, nulla all’amato fratello se non un po’ di rispetto verso quel marito che lei stessa alle volte non capiva.

“Tuo marito l’hai lasciato nel porcile?”

Per l’appunto.

Giuliano non s’era fatto alcun pensiero nell’esternare ciò che gli passava per la testa e nemmeno l’occhiata di fuoco del precettore lo fece desistere dal sorridere sfrontato.

Vi era qualcosa d’irrisolto nell’aria.

L’argomento Girolamo era ancora spinoso e avrebbero dovuto parlarne, ma era così desiderosa di un abbraccio che non disse nulla.

Si lasciò cullare dal calore di Giuliano, rischiando di commuoversi in quel frangente, ignorando la pessima battuta e cercando di concentrarsi solo su di lui.

Su quanto le era davvero mancato.

Si staccarono di controvoglia e si sorrisero, poi finalmente Beatrice parlò “Sei sempre così delicato, fratello mio. Come un badile sbattuto ripetutamente sulla testa.” Lo schernì, prima di voltarsi e far cenno ad Agnese di avvicinarsi.

Finalmente avrebbe fatto qualcosa che bramava da mesi.

Prese il piccolo Alessandro fra le braccia e lui subito corse a stringere con il pugnetto l’orlo del corsetto, guardando con i suoi grandi occhi curiosi quelle buffe persone mai viste.

“Voglio presentarvi il nuovo uomo della mia vita.” Disse Beatrice, facendoli sorridere tutti, mentre Lorenzo allungava le braccia per prendere il piccolo.

La contessa glielo concesse, volendo imprimersi quell’immagine nella mente per non cancellarla mai più.

Per un istante, il mondo le parve giusto.

Per un istante s’illuse che forse, il tempo, avrebbe aggiustato ogni conflitto.

S’illudeva, lo sapeva anche da sola.

 

I fuochi del duomo accesi, i cittadini in maschera, la musica per le vie…

Questa era la Firenze che Beatrice tanto amava.

Per quanto si sforzasse di portare anche a Forlì un po’ di quella magia, non vi riusciva.

Il cuore della città toscana era nei suoi cittadini, nel loro non confacersi alle regole del loro stesso tempo.

Nonostante il rivedere Francesco de’Pazzi – il quale portò la fiaccola per l’accensione della colombina a Lorenzo, cedendola con non poca stizza mal celata- non le fece piacere, lo spettacolo fu sublime.

Giuliano l’aveva stretta a sé con un braccio, tenendo con l’altro il piccolo Alessandro, e aveva quasi urlato per l’entusiasmo quando quell’uccello meccanico era volato vicino a loro, senza esser sorretto da filo alcuno.

Beatrice non si stupì nell’apprendere che l’ideatore di cotanta arte era Leonardo da Vinci.

“Quest’artista è un eretico, si vede dalle diavolerie che architetta.” Aveva sussurrato maligna Maddalena de’Pazzi, trovando subito il consenso di Ombretta.

Beatrice s’era sforzata di non mandarla al diavolo, desiderosa di evitare inutili battibecchi: Leonardo era un genio, lo dimostrava in ogni cosa facesse.

“Lo spettacolo è stato di vostro gradimento?” aveva domandato il Verrocchio quando s’era ritrovato la contessa innanzi, dopo averla osservatamente salutata.

“L’ho trovato a dir poco strabiliante, tanto che vorrei congratularmi io stessa con il maestro da Vinci” aveva risposto lei, ricevendo uno sguardo esasperato come risposta.

“Vorrei tanto aiutarvi, ma non ho idea di dove possiate trovarlo” dispose il povero maestro, mentre un Zoroastro vestito da bacco si faceva avanti.

Il tartaro abbozzò un inchino goffo “Leo è come l’aria, difficile da catturare ma purtroppo, tristemente necessaria! Vi trovo meravigliosa come sempre, mia signora.”

S’erano visti un paio di volte, eppure quell’uomo le era rimasto impresso. Divertita, Beatrice rispose “Anche io vi trovo bene, messer Zoroastro.”

“Chiamatemi Zoroastro, o Zo. Non occorrono titoli inesistenti.” Aveva proseguito lui, sventolando una mano come per scacciare una mosca. L’aveva infine allungata verso la madonna, sorridendo suadente “Un ballo? Sarebbe un onore poter dire di aver danzato con voi.”

La ragazza non si fece pregare.
Appoggiò la mano chiara in quella più olivastra dell’uomo, “E sia! Ho voglia di ballare!”

La magia del carnevale consisteva in quello, dopotutto.

Abbandonare il proprio ruolo in favore di una maschera.

Beatrice si sentì libera, quella sera.

Libera di essere di nuovo una ragazza fiorentina, dedita alla leggerezza delle feste e all’ozio di una vita senza preoccupazioni.

Un lusso che non si sarebbe più concessa per molto tempo.

La città si spense dopo molte ore, sotto lo sguardo severo delle guardie della notte.

A riaccompagnare la contessa al palazzo de’Medici fu il giovane Sandro Botticelli.

“Vi ringrazio per la premura, Sandro.” Disse Beatrice, mentre camminavano con molte altre persone per le viuzze della città animata dalla festa “Ho seminato le mie guardie da molto. Saranno tutti in ansia e mi staranno cercando.”

Botticelli sorrise divertito “Come un tempo.” Replicò, porgendole un braccio affinché lo accettasse.  Una volta che Beatrice si fu appoggiata a lui, il ragazzo sospirò “Siete crudele Madonna, sono passati quasi due anni da quando m’avevate promesso di ritrarvi.”

Era vero.

Beatrice s’era fatto amico quel giovane di grandi speranze, quell’artista tanto decantato da suo fratello Giuliano, ad una festa molto simile a quella a cui avevano appena partecipato.

Ancora non gli aveva commissionato nulla e si sentì in colpa.

“Non so se riuscirete a ritrarmi prima della mia partenza per Forlì, ma in ogni caso vi chiamerò appena potrò. Stavolta lo prometto.”

Arrivarono innanzi alle porte, dove un Olivieri pallido fu più che felice di vedere rincasare la sua signora.

“T’avevo detto che stava bene! Non m’hai creduto, scemo!” gli disse Camilla, afferrandolo per un braccio e trascinandolo lungo il loggiato interno, mentre Beatrice ridacchiava.

Si voltò infine verso Sandro, che fece un piccolo inchino con il capo, baciandole il dorso della mano “Abbiate cura di voi, mia signora. Non aspetto altro che i vostri comandi per munimi di colori e arte per ritrarvi.”

“A presto, Botticelli. Abbiate un buon riposo, stanotte.”

Lasciato il giovane sulla porta, la ragazza andò verso i suoi alloggi, fermandosi prima per salutare Giuliano che però, a detta di Bertino, s’era perso con una giovane ragazza per la piazza.

Divertita, Beatrice andò verso la sua stanza, pronta a mandare a letto anche Monna Agnese che s’era ritirata con  Alessandro subito dopo il lancio della colombina.

Non trovò lei a vegliare sul sonno del figlio, però.

“Lorenzo.” Sussurrò piano la donna, fecendo qualche passo verso di lui.

Chino sulla culla, a osservare il nipotino beato, stava il maggiore della casata.

Le fece cenno di seguirlo verso la piccola saletta adiacente alla camera da letto, così da non disturbare il sonno del pargolo e lei eseguì.

Era stanca e sperava di poter riposare tutto il resto della notte, ma parlare un po’ con suo fratello le  avrebbe fatto piacere.

Per la prima volta, Beatrice realizzò che dinnanzi a lei aveva praticamente un suo pari.

Un uomo saggio che governava una città al meglio, così come si adoperava ella stessa di fare.

Sedettero su un paio di poltroncine, uno di fronte all’altra e Lorenzo si allungò per afferrare la spada della giovine, appoggiata al tavolino in mezzo a loro.

La estrasse dalla guaina, osservando la lama lucente e affilata, premurandosi anche di passare un paio di dita sullo stemma dei de’Medici e dei Riario, che spiccava in rilievo quasi alla base dell’elsa.

Poi notò le parole incise in oro sul corpo della lama.

“Iustus ut palma florebit…” Lesse con la voce bassa e leggermente arrochita “Un salmo?”

I  giusti fioriranno e persisteranno come la palma, che sempre verde sta.” Recitò a memoria Beatrice, accavallando le gambe e rilassandosi contro allo schienale della poltrona rossa “Dal Vangelo secondo Matteo, terzo canto, versetto dodici.”

“Il motto della famiglia Riario.” Ponderò Lorenzo, prima di rinfoderare l’arma, rimettendola laddove l’aveva trovata “Ambizioso, come motto, per un uomo avventato come tuo marito.”

“Ammetto che hai ragione.” Rispose a tono la mora, sorridendo però divertita “Io penso che non siano gli atti a rendere giusto un uomo, quanto l’intento.”

Lorenzo sbuffò una risata senza colore “Ti prego, non avventuriamoci in un discorso che non finirebbe bene. Sono troppo felice di riaverti qui per rovinare la giornata.”

“Hai ragione, ti chiedo scusa. Solo, ho una richiesta da farti.”

Il Magnifico la guardò  un po’ timoroso, accettando poi di sentire questa richiesta.

“Cercherò di renderti felice, sorella mia, ma sai che non posso promettere.”

La contessa annuì piano, consapevole “Lo so, ma vorrei lo stesso che ci provassi.” Gli disse, prima di sospirare e domandare “Vorrei che dopo domani, quando Girolamo verrà a comunicarti il motivo della visita, tu ti prenda un istante per ponderare la sua richiesta. Non essere anche tu avventato.”

Lorenzo scosse piano il capo “Deve essere qualcosa di brutto, se mi prepari così.”

“Vorrei solo che tu provassi a fidarti di lui.” Sussurrò Beatrice, già certa della replica del fratello.

 

“Fidarsi di Girolamo Riario è come stipulare un patto con il Diavolo e meravigliarsi quando viene a reclamare la tua anima.”

Cosa poteva dire, per discolparlo?

Nulla.

Girolamo aveva scelto da solo quella via.

Nonostante ciò, Lorenzo non riusciva a vedere così triste Beatrice, così si mise diritto sulla poltrona “Farò il possibile, posso prometterti questo.” Le disse, strappandole un sorriso intenerito “Ora parliamo d’altro, non so quasi  nulla della tua città. Parlami di Forlì.”

Rimasero quasi tutta la notte lì seduti a parlare di come governare e cittadini, di commerci e di leggi e per la prima volta in vita sua, Beatrice si sentì davvero vicina a Lorenzo.

Non avevano mai avuto una simile complicità.

 

 

 

 

 

I'm always dragging that horse around

Our love is pastured, such a mournful sound

Tonight I'm gonna bury that horse in the ground

So I like to keep my issues drawn

But it's always darkest before the dawn…

[….]

And it's hard to dance with a devil on your back

And given half the chance would I take any of it back

It's a fine romance but it's left me so undone

It's always darkest before the dawn

 

 

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Capitolo 5
*** Parte Prima, Capitolo Quarto. ***


modellostorieefp

Buongiorno a tutti!

Prima di tutto, chiedo scusa per l’attesa che vi sto facendo penare, ma all’ispirazione non si comanda così come alle duemila cose che ogni universitario deve fare prima dell’inizio del nuovo anno.

Per me, il terzo.

Anno difficile.

Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito, in particolare coloro che hanno iniziato a seguirmi ora, recuperandosi anche tutta No Good Deed.

Vostra è la gloria.

Ok, le acquee si smuovono molto, molto male da qui in poi ma non vi anticipo nulla!

Come sempre, una recensioncina è gradita!

A presto.

Jessika.

 

 

Amor onni cosa vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo Quarto:

Il sottile margine tra amore e odio.

 

 

*

 

 ‘Cause you are the piece of me

I wish I didn't need

Chasing relentlessly

Still fight and I don't know why

(https://www.youtube.com/watch?v=OO0nSm8yUp4&list=UUWrtsravWX0ANhHiJXNlyXw )

 

 

 

 

28 Marzo 1478, Firenze

Visita ufficiale del legato papale, Girolamo Riario.

 

 

 

 

Il ticchettio delle gocce sulle vetrate fungeva da lenta litania, per il piccolo Alessandro.

Addormentato sulla spalla della madre, pareva il bambino più buono di tutta la corte.

Clarice sorrise, unendo le mani in grembo e smettendo di ricamare.

“Quel bambino è una benedizione, ormai siete qui da qualche giorno e non mi pare d’averlo mai udito piangere.”

La contessa non riuscì a trattenere un sorrisetto compiaciuto, mentre sistemava la copertina sulla schiena dell’infante “Non piange quasi mai. Non si lamenta, ne fa capricci. Sono stata baciata dalla fortuna, lo dicono tutti.”

Come chiamato in causa, il piccolo alzò la testolina, prima di riappoggiarla fiaccamente contro il collo di Beatrice, senza nemmeno sforzarsi di aprire gli occhi.

Maria, la più grande delle figlie di Lorenzo, alzò gli occhi dal disegno che stava ricamando sul tessuto morbido del fazzoletto, guardando la zia “Alessandro diventerà conte, un giorno?”

“Sì, Maria.” Rispose Beatrice, mentre anche Maddalena e Luisa prestavano attenzione al giovane cuginetto “Prenderà il posto di suo padre, quando verrà il momento.”

“Anche al servizio del Papa?” chiese ingenuamente la più piccola, mentre le due donne si scambiavano uno sguardo ironicamente allarmato.

“Spero che Sisto tiri le cuoia molto prima, piccola.” Rispose Clarice per la cognata, appoggiando una mano sulla testolina di Maddalena.

La sua omonima, Madonna de’Pazzi, storse il naso a quell’insinuazione “Dovrebbe essere eresia, parlar male del Santo Padre.”

Camilla, alla sua destra, alzò lo sguardo al cielo, pronta a tirar giù tutti i santi tant’era indispettita “Per voi è tutto eresia, Maddalena.”

“Avreste dovuto sposarlo voi, il conte Riario.” Rilanciò con una punta di cattiveria Beatrice, guardando suo figlio dormirle in collo “Se mai vi sposerete, un giorno, spero prendiate un clerico con voi; sapete se no quanto dovrà pregare quel pover uomo per farvi aprire le…. Grazie?” 

La contessa si trattenne davanti alle nipoti, mentre le altre tre donne esplodevano in una risata divertita.

A salvare la situazione, ci pensò Monna Agnese “Dovreste portare a letto quella povera creatura.” Disse risoluta, appoggiando le mani sui fianchi.

Beatrice non poté far altro che alzarsi, con un lieve cenno del capo come se a comandare fosse proprio la balia “Vado, vado!” disse ridendo, quando Agnese quasi la spinse fuori dalla stanza in cui tutte le donne si erano riunite a ricamare.

Beatrice percorse pochi metri, scendendo di qualche gradino la scalinata dell’ultimo piano, quando si trovò di fronte Leonardo da Vinci.

“I miei ossequi, madonna” le disse l’artista, facendo un piccolo inchino, prima di prestare attenzione al neonato “Vostro figlio, suppongo.”

“Già, il divin pargolo.” Ironizzò la contessa, facendo sorride Leonardo “Vi prego maestro, accompagnatevi. Vi troverò qualcosa con cui asciugarvi.”

Leonardo grondava di acqua.

Senza replicare, l’uomo eseguì quel semplice ordine, stupendosi quando si ritrovò a entrare negli alloggi privati della contessa.

Lei appoggiò il piccolo nella culla posta davanti al letto, prima di invitare Leonardo nel salottino adiacente.

Gli porse un piccolo straccio, con cui asciugare i capelli dalla pioggia battente, prima di sedersi di fronte a lui “Anelavo l’incontrarvi dal mio arrivo.” Disse, incrociando le mani sul ginocchio, laddove la veste creava una leggera increspatura color bottiglia “Cosa vi porta a corte?”

Leonardo appoggiò lo straccio sul tavolino fra loro “Devo ritrarre madonna Donati e far qualche commissione per vostro fratello,Lorenzo.” Rispose senza perdersi nei dettagli, ma cogliendo l’espressione poco divertita della giovane “Qualcosa non va?”

“Posso farvi una confidenza?”

“Sempre, contessa.”

La ragazza si sporse in avanti, sussurrando piano “Non ho mai potuto vedere madonna Donati.” Disse con franchezza, facendo sollevare entrambe le sopracciglia di Leonardo “Quella è una donna che ha qualcosa di oscuro. Glielo si legge in viso.”

“Cosa vi fa dire ciò, mia signora?”

“Chi apre le sue gambe per potere non può esser ritenuto esattamente etico, non credete, maestro?”

Quella frase parve spiazzarlo “Come fate a dire che il potere sia il fine di madonna Donati?”

Beatrice riserbò all’artista uno sguardo ovvio “Lorenzo è la massima carica cittadina e lei gli ronza attorno dall’età di quattordici anni, quando Lorenzo passava le giornate a decantare la sua bellezza nei poemetti che componeva in alternanza per lei e per la sua vecchia fiamma, Ippolita Sforza. Poi Lucrezia è sbocciata e Lorenzo ha riposto la penna in favore di altro. Credetemi Leonardo; noi donne sappiamo ben riconoscere le nostre attitudini”

Leonardo sorrise divertito per una frazione di secondo, facendosi poi cupo di improvviso.

Il lamentarsi di Alessandro li distrasse.

Beatrice andò a riprenderlo, portandolo poi con sé nel salottino e appogginadoselo sul petto.

Leonardo ci mise due secondi a prendere il suo quadernino, iniziando poi a scarabocchiare freneticamente su di esso.

Beatrice sorrise, l’era mancata quella fulminea ispirazione, per quanto poco avesse frequentato l’artista prima e dopo il suo matrimonio.

“Ho saputo che vostro marito sta per venire in visita.” Disse l’artista, staccando gli occhi dalla carta solo per concentrarsi su alcuni dettagli del viso della ragazza o del bambino che stava via a via riprendendo sonno fra le braccia calde della madre.

“Arriverà domani, suppongo.” Lo informò Beatrice, accarezzando piano la schiena del pargolo, per poi voltarsi col capo verso l’altro “Maestro, posso chiedervi una cosa, voi che vivete fra il popolo?”

Leonardo annuì “Certamente, madonna. Chiedete.”

Beatrice aveva sentito dell’esecuzione di un ebreo e aveva sentito lo stomaco chiudersi per un istante. Non sapeva nemmeno lei il motivo, ma in cuor suo sentiva che la cosa andava indagata.

“L’uomo che è stato giustiziato ieri…. Ne sapete qualcosa?”

La punta del carboncino di Leonardo si spezzò sul foglio, lasciando l’uomo di stucco.

Per qualche secondo rimase immobile, prima di prendere un’altra matita e riprendere a disegnare con non curanza, lasciando in sospeso Beatrice ancora un poco.

“No, mia signora. So solo che era ebreo e che l’avevano accusato di aver rubato qualcosa.”

Capisco….”

Il resto dell’intera ora che Leonardo trascorse con Beatrice fu piuttosto silenzioso, ma non vi era tensione fra i due.

Tutt’altro; Beatrice avvertiva una strana armonia provenire dall’artista, che alla fine le presentò un  bellissimo ritratto, seppur su un piccolo e giallo foglio di diario.

“Vorrei dirvi che questo schizzo diventerà un ritratto, ma siete stata fortunata e avete già avuto qualcosa di mio. E terminato!”

Beatrice sorrise, grata per quel dono “Mi basta questo, maestro. Abbiate una buona giornata.”

“Anche voi.”

Si sorrisero, poi Leonardo lasciò la stanza, andando verso la piccola saletta dove Lucrezia lo stava già aspettando.

Sorprendentemente, trovò difficile ritrarla, quel giorno.

Disse che la trovava diversa, cambiata, ma la realtà era che in quell’istante gli sarebbe piaciuto ritrarre un altro volto, per la seconda volta nell’arco di poche ore…

 

 

 

 

Potevano passare mesi, anni o solo un ventaglio di ore sparse, ma Raffaele Riario Sansoni non sarebbe mai cambiato.

Che la toga da lui portata fosse nera, viola o di un potente rosso carminio, il suo entusiasmo era irrefrenabile e il suo chiacchiericcio irreprensibile.

Sin dal momento in cui aveva messo piede a palazzo de Medici su invito della contessa Beatrice, s’era fatto riconoscere come sua consuetudine, recando alla signoria ospite pregiati doni da Roma.

“Mi manca Pisa, cedere la diocesi al mio  successore non sarà facile.” Disse alla cugina, quando si sedettero insieme su una pelle di orso, di fronte al caminetto acceso.

Beatrice era così felice di poterlo avere tutto per sé per qualche ora che non fece altro se non ascoltare tutte le incombenze che aveva ora che l’avevan fatto cardinale, osservandolo mentre passava di tanto in tanto la mano sul pelo argentato di Mae.

Girolamo diceva sempre che il solo fatto che il giovane cugino non provasse alcun terrore ne disprezzo per quella fiera, fosse l’evidente risultato di una condotta morale impeccabile e – a detta sua- incredibilmente noiosa.

Che Raffaele fosse di natura eccezionalmente buona era palese agli occhi di Beatrice, che ancora si chiedeva perché portasse il cognome dei Riario quando non aveva nulla a che spartire con esso.

Rimasero tutto il pomeriggio insieme, accompagnati dal suono dolce di una cetra in lontananza, con un piatto pieno d’uva e lamponi a tener loro compagnia.

Fu solo quando ormai il sole iniziava a calare serafino oltre i tetti delle case, che Lorenzo interruppe quella pace che s’era venuta a creare fra le mura della sua dimora.

“Beatrice!”

La ragazza sobbalzò, sentendo il cuore in gola, quando l’udì urlare con tanta foga il suo nome. Sembrava irato, come quando lei e Giuliano ne combinavano una delle loro e lo veniva a sapere.

“Che hai fatto, cugina?” chiese spaventato Raffaele mentre l’aiutava ad alzarsi, udendo nuovamente il maggiore della casata chiamarla.

“Non credo di aver fatto nulla, in vero.” Si difese la ragazza, mentre usciva dalla stanza preceduta dalla lupa, con le sottane sollevate al fine di far prima.

Insieme a Raffaele, s’affacciarono dalle scale, scorgendo Lorenzo nell’atrio che stava parlando frenetico a Giuliano.

“Lorenzo, sono qui!” richiamò la sua attenzione la sorella, appoggiandosi con la mano alla ringhiera mentre iniziava a scendere gradino dopo gradino, verso quella che sarebbe arrivata come una sentenza.

“Eccoti, finalmente! Devi rispondere del comportamento di tuo marito e bada bene; non crederò che non ne sai nulla.”

Come conferma che stava sbagliando, sia la contessa che il cardinale lo guardarono straniti, quasi come se si fosse ammattito del tutto.

Forse era così.

“Che cosa ha fatto Girolamo?” domandò quindi Beatrice.

Giuliano sbuffò una risata amata “Vi avevo detto, Lorenzo, che lei non poteva esserne al corrente!”

“Di cosa??” chiese quindi la ragazza, sempre più agitata “Cosa è successo, di grazia?”

Ritrovato un poco di contegno, Lorenzo sospirò “Il conte Riario ha fatto esplodere la bottega di da Vinci, letteralmente.” Spiegò, sfilandosi i guanti neri “Fonti certe attestando che è accampato fuori dalle mura romane, alle antiche rovine, da ieri notte. Ieri notte, Beatrice! Cosa diavolo aspetta a presentarsi a corte?? Lui ha richiesto udienza e ora che cosa crede di fare? Giocare con noi??”

La contessa scosse il capo, amareggiata.

Doveva saperlo che Girolamo aveva qualcosa in mente

Lui aveva sempre qualcosa in mente.

“Ci penserò io.” Disse semplicemente, facendo segno a Raffaele di seguirla verso i suoi alloggi.

Avrebbe fatto luce su quella faccenda subito, a costo di invitare Girolamo a tornare a Roma immediatamente.

 

 

Era già sceso il buio quando finalmente Beatrice riuscì a lasciare il palazzo con la sola compagnia di Raffaele e Mae.

S’era dovuta battere contro le sue dame, la balia e Olivieri al fine di avere quella concessione, quasi come se la sua incolumità fosse in pericolo.

Erano a Firenze, non a Roma.

Sapeva girar quella città meglio di chiunque altro nel palazzo e non si sarebbe avventurata troppo lontana dalle mura.

Senza contare che il solo pericolo in cui poteva incappare erano proprio gli uomini di suo marito, sicché il problema non sussisteva.

Arrivarono all’accampamento delle guardie svizzere e Beatrice sentì le viscere contrarsi.

“Si sono davvero accampati bene.” Decretò acidamente, mentre Raffaele sospirava.

Entrambi, però, vennero distratti da qualcos’altro.

Una figura, nascosta da un ampio cappuccio marrone, sfrecciò accanto a loro su di un cavallo bianco, tenendo con la mano guantata il mantello stretto in modo da non poter essere riconosciuta.

Tutti e due frenarono i cavalli, voltandosi a guardarla sparire via, verso la città.

“Quello chi era?” domandò scettico Raffaele, voltandosi verso la cugina.

“M’è quasi parso fosse una donna…” sussurrò con tono basso in risposta, prima di udire il marito chiamarla.

“Eccolo lì, Girolamo Riario in tutta la sua gloria!” lo beffeggiò, portando il cavallo al passo mentre si faceva più vicina.

Scese, mentre una guardia prendeva le briglie della sua giumenta, fischiando per richiamare a sé Mae che già ringhiava verso l’uomo.

Lui non si lasciò intimidire né dalla lupa né dall’arroganza della moglie “Perché siete qui?” domandò sia a lei che al cugino, che aveva indugiato prima di lasciare la sua cavalcatura.

“Perché tu sei qui.” Rilanciò lei, calcando molto quell’ultima parola, mentre si guardava attorno “Non dirmi che sei arrivato in anticipo e non volevi sfigurare, perché potrei riderti in faccia. Far esplodere una bottega d’arte di fa già sfigurare abbastanza.”

“Non ho interesse in ciò che tuo fratello pensa di me” rispose senza fretta l’uomo, invitando il congiunto e la moglie a entrare nella sua tenda.

A far loro compagnia, ci pensò Lupo Mercuri che entrò per ultimo.

Beatrice andò a sedersi alla tavolata imbandita, buttando su di essa i guanti da cavalcatura “E di far vergognare me? Ti interessa?” chiese sempre più sfrontata, fronteggiandolo.

Lui, per risposta, portò le mani sul suo capo, chinandolo per poterle baciare la fronte.

Beatrice non cedette, inizialmente, permettendogli di guardarla direttamente negli occhi.

Se fossero stati soli, l’avrebbe senza dubbio corrotta con un bacio, ma con un pubblico non si sarebbe mai spinto a tanto.

“M’interessa cosa tu pensi di me.” La corresse sottile, portando una ciocca di capelli corvini oltre la spalla di Beatrice “Ti sei sentita oltraggiata?”
“Sei qui da ieri notte e non me l’hai fatto sapere. Dimmi tu come dovrei sentirmi. Poi perché Leonardo da Vinci? Cosa vuoi da lui? Che diamine combini?”

Girolamo le diede le spalle, andando a versare un paio di calici di vino e offrendoli a Raffaele e Mercuri, che s’erano messi a parlottare fra loro dall’altra parte della tenda

Ne prese altri due, tornando dalla moglie che si stava torturando l’unghia del pollice con i denti, pretendendo risposte.

“Ero curioso di conoscere l’artista che tanto decanti.” Fu la risposta per niente credibile del conte “Peccato che lui non fosse…. Esattamente amichevole nei confronti di coloro che vanno a trovarlo in bottega.”

“Vorrai dire che si intrufolano furtivi? Ti ho visto uccidere per molto, molto meno.”

Giorno dopo giorno, diventava sempre più difficile per Riario risponderle a tono senza calcare la mano. Cosa che non faceva per tedio, più che per paura o per rispetto.

Sospirò, alzando il calice in un sarcastico brindisi, prima di prendere un sorso, imitato dalla moglie “Perché dovrebbe interessarmi tanto da Vinci? Se credi che io mi sia intrufolato, dammi una risposta.”

Beatrice rise “Questi giochini mi hanno sempre annoiata, Girolamo. Sei tu che devi dirlo a me.”

“Non so nulla di questo Leonardo da Vinci, volevo semplicemente costatare se fosse talentuoso come tu dici.”

Non avrebbe cavato un ragno dal buco, ormai la contessa lo aveva capito.

Finì il vino in un sorso esasperato, prima di restituire il calice dorato al marito.

“Vieni con me a Firenze, ora.” Gli disse, ammorbidendo il tono e accarezzandogli piano la giubba “Sono stanca di litigare, stanca di questi stupidi sotterfugi; entra in città e smettila con i segreti.”

Il conte si sporse, lasciandole un tenue bacio sulle labbra, prima di tornare al tavolo. Si appoggiò a esso con entrambe le mani, pensieroso “Entrerò a Firenze, come tu desideri, stasera.” Disse con tono chiaro, sorprendendo le tre persone nella stanza “Ma ti chiedo di precedermi. I miei uomini devono tirar su le poche cose che hanno portato con loro ed io necessito di un minuto prima di metter piede nella casa del Magnifico.”

Colpita per l’averlo convinto così in fretta, Beatrice gli si avvicinò, portando le mani alle sue spalle e massaggiandole “Così sia. Farò preparare tutto per il tuo arrivo. Prima però, voglio che tu prenda questo, così che possa aiutarti a rimembrare a chi devi davvero la tua lealtà.”

Il conte si voltò verso di lei, mentre la giovine gli porgeva un pezzo di carta ingiallita, arrotolato su se stesso.

Sulla pagina di un quadernino, un perfetto ritratto di sua moglie e di suo figlio faceva bella mostra di sé.

“Notevole.” Ammise con tono carezzevole, prima di sistemarlo ripiegato con cura dentro al panciotto.

“Quello è di Leonardo da Vinci, per intendersi.” Lo sorprese la giovane moglie, prima di recuperare i guanti e uscire dalla tenda, seguita da Raffaele. Appena Mae la vide guaì, alzandosi in piedi dalla sua posizione, stesa sotto alla cavalla grigia della contessa.

“Che ti ha detto?” domandò Raffaele mentre salivano sui cavalli.

Lei sospirò, guardandolo amareggiata “Nasconde qualcosa di grosso, per ora so dirti solo questo.”

Il cardinale annuì grave, prima di spronare il suo cavallo verso la città fiorentina.

Beatrice gettò uno sguardo dietro di sé, alla tenda del marito, prima di seguire il cugino verso le campagne e le mura.

Le sue parole, gettate al vento come sempre, non avrebbero fermato Girolamo da qualsiasi obiettivo avesse, ma sperava in cuor suo che l’aver in mente il figlio l’avrebbe quanto meno portato a ponderare sulle scelte che aveva.

 

Girolamo era arrivato a corte come da promessa e si era presentato innanzi al fratello e all’intera famiglia de’Medici, ringraziando per la gentile ospitalità come se nessuno in quella stanza sapesse cosa aveva fatto in città quello stesso giorno.

Clarice lo aveva accolto con tutte le grazie del caso, prima di vederlo seguire il marito per un colloquio privato.

Era stato a quel punto, quando i due si erano incamminati, che Beatrice aveva passato il figlio a Clarice e aveva afferrato la mano di Giuliano, iniziando a correre per i corridoio come quando erano bambini.

“Voglio sentire cos’hanno da dirsi.” Ammise la giovane, mentre giravano l’angolo e imboccavano una ripida rampa di scale.

“Sei certa che vuoi venirne a conoscenza?” chiese Giuliano cauto, ma anche lui infondo voleva sentire quel colloqui privato.

Arrivarono al corridoio designato che lei ancora doveva decidere se davvero voleva o meno udire le parole del marito e del fratello. Si acquattarono contro un angolo, riuscendo anche a spirare le immagini degli uomini nel riflesso di una vetrata.

“Da Vinci è un semplice dilettante. Un imbonitore, niente di più.” Stava dicendo Lorenzo in quel frangente, facendo capire alla contessa di cosa stessero parlando.

Dell’incidente.

“Davvero?” la voce melliflua del marito arrivò molto tenue alle sue orecchie, tanto che Beatrice si trovò costretta a sporgere appena il capo per udirlo a dovere “Eppure mi hanno detto gli che gli avete anticipato la somma di cinquanta fiorini…. Una bella remunerazione, per un semplice dilettante…

Beatrice si voltò di scatto verso Giuliano, che sembrava raggelato da quell’ultima frase del conte.

“Cinquanta fiorini? Per cosa?” sibilò la ragazza, ma ci pensò il marito a rispondere al posto del fratello.

“Roma riesce a sentire ogni bisbiglio, Lorenzo. Persino i più bizzarri che riguardano artigiani capaci di costruire macchine da guerra.” Più parlava, meno Beatrice credeva alle sue orecchie. Guerra? Lorenzo? No, doveva essere un gigantesco errore. Senza contare che il discorso pareva lontano dall’essere concluso “La formazione di armamenti potrebbe essere interpretata come una mossa provocatoria…

“Così come anche l’assassinio del Duca Sforza” lo riprese Lorenzo, interrompendo il mutismo in cui era caduto. “O…. Il rifiuto di pagare i propri debiti.”

“L’usura però…” il tono di Girolamo ora era velato di sarcasmo divertito e velenoso “è un affare piuttosto sconveniente.”

“Ho sentito che il Santo Padre ha chiesto un prestito alla famiglia Pazzi, intende fare gli occhi dolci anche a loro?”

Beatrice non riusciva davvero a credere a quel quantitativo d’informazioni assurde.

Sembrava una guerra a chi dei due conosceva meglio gli affari degli altri.

“Cosa diavolo succede?” sibilò alla volta di Giuliano.

Questi la guardò ovvio “Non è chiaro? Stanno mettendo in piazza le loro carte per-” il giovane de Medici venne interrotto dalla mano di Beatrice sulla sua bocca, quando lei sentì il marito riprendere la parola.

“A proposito di provocazioni, credo che sia giunta l’ora di illustrarvi il motivo della mia visita…

“Prepariamoci alla cannonata.” Sussurrò stremata Beatrice, mentre Giuliano le prendeva la mano per stringerla alla sua.

Se prima poteva avere anche il minimo dubbio della buona fede della sorella, ormai esso si era estinto.

Beatrice sembrava stanca, impotente dinnanzi a tutte quelle brutte novelle che stavano udendo così abusivamente.

Come se non  bastasse, poi, sembrava del tutto all’oscuro dei piani del marito.

Girolamo riprese a parlare dopo una piccola pausa d’effetto, lasciando tutti senza parole “Sua Santità vuole informarvi su chi ha scelto come prossimo Arcivescovo di Pisa.”

“Pisa rientra sotto la giurisdizione di Firenze!” si intromise Becchi, senza sortire effetti.

“Ciò nonostante, la selezione è già stata fatta. Sua Santità ha appena scelto Francesco Salviati.”

Beatrice trattenne il respiro, mentre nella sua testa si palesava l’immagine di un uomo sulla cinquantina, magro come uno stelo e dall’aria incredibilmente arcigna.

“Vostro cugino….” Sussurrò Lorenzo, ma in tono chiaro, dando luce ai pensieri di Beatrice.

Mentre Girolamo rispondeva con un semplice ‘mh’, lei scrollò il capo rivolgendosi a Giuliano, che capì solo a quel punto “Al posto di Raffaele mette un altro dei suoi nipoti, quel porco bastardo”

“Ebbene.” Procedette Lorenzo dopo uno sbuffo divertito “A questo punto le congratulazioni sono d’obbligo. Vi prego di informare il Santo Padre che voi e Salviati dovrete armare il più grande esercito mai visto prima perché potrete mettere piede a Pisa solo quando io sarò morto e sepolto!”

“È  chiaro…. Quindi, sarebbero queste le condizioni?”

Lorenzo era furente “Roma è stata la prima a sparare un colpo, non io.”

“E siamo intenzionati a sparare per ultimi…. Auguro la buonanotte al Magnifico.”

Con un colpo di reni, Giuliano scattò in piedi tirando con sé la sorella e infilandosi nella prima stanza.

Sentirono Girolamo passare accanto a loro e solo quando non udirono più passi uscirono di nuovo nel corridoio.

Scioccata, Beatrice andò ad appoggiarsi nella loggia di una finestra.

“Non posso crederci.” Sussurrò con tono basso, mentre Giuliano si inginocchiava di fronte a lei tenendole le mani. “Sapevo che era grave, la situazione, ma qui stiamo parlando di una guerra.”

“Col marito che ti ritrovi ancora ti stupisci?” chiese tagliente il giovane, prima di sospirare dandosi dell’idiota da solo “Ti chiedo perdono, sto esagerando.”

Beatrice sorrise tristemente, guardando le sua mani chiuse in quelle del fratello “No, hai ragione. Non dovrei stupirmi.” Fu la sua risposta amara, prima di alzarsi in piedi, decisa “Mi sono maritata con lui affinché non vi facesse la guerra. È ora di scoprire quando vale la sua lealtà e la sua parola.”

Con passo pesante, andò verso gli alloggi in cui erano ospiti, scendendo una scalinata quasi di corsa.

Giuliano la lasciò andare, guardandola indeciso su come reagire a tutto ciò.

Sapeva che era forte e che avrebbe trovato il modo di scontrarsi col marito, ma temeva lo stesso per lei.

Intanto, Beatrice era giunta alla sua stanza.

Vi entrò senza bussare, pronta a dire peste e corna contro il marito, ma si bloccò innanzi alla scena che le si parò sotto agli occhi.

Girolamo era seduto sul letto, con Alessandro fra le braccia e un sorriso sottile eppure sincero sulle labbra.

Il bambino rideva deliziato, come se la semplice presenza del padre lo rendesse il più felice dei pargoli.

Entrambi si voltarono a guardarla con i medesimi occhi e, lì innanzi a loro, Beatrice lasciò cadere ogni maschera di ostilità.

Si sentì debole, ma nonostante questo avanzò verso il letto e di prese posto, accarezzando il capo del figlio, mentre Girolamo la studiava.

“Dov’eri finita?” le domandò con tono dimesso, come se quell’informazione fosse giusto tale e non un’accusa.

“Con Giuliano, nella sala dei Magi. Salutavo il nonno prima di venire a letto.” Sussurrò con lo stesso tono la ragazza, incapace però di guardarlo negli occhi. Sistemò invece i vestiti del figlio, cercando di impedire alle mani di tremare per la rabbia di poco prima “Com’è andata con Lorenzo?”

“Credo bene.” Rispose il marito con una sottile nota sarcastica nella voce “Diciamo che sono stato chiaro con lui.”

“Come è giusto che sia…

Quando finalmente la giovine alzò gli occhi celesti nei suoi, Riario comprese.

Entrambi sapevano esattamente cosa era successo, ma proseguirono in quella farsa famigliare.

Misero a letto il bambino, prima di coricarsi, consumano un rapporto che di dolce non aveva nulla.

Mentre Girolamo stava sopra di lei, Beatrice s’impegnò graffiandogli la schiena e sperando, al buio, di aver screziato la pelle chiara del marito, affinché su di essa rimanessero segni come quelli di frusta che lei aveva impressi per l’eternità.

Quella doveva essere la punizione di Riario.

Il sapersi amato e odiato dalla sola donna che sapeva di amare e odiare.

 

 

 

If our love is tragedy why are you my remedy

If our love's insanity why are you my clarity

...Why are you my remedy ?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                            

 

 

 

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Capitolo 6
*** Parte Prima, Capitolo Quinto. ***


modellostorieefp

Chiedo scusa, as always, per il ritardo, ma la storia la finisco non temete! Capitolo di transizione, dal prossimo si balla!

 

Amor onni cosa

vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo Quinto:

La tana delle maguste.

 

 

*

 

 

 

It's so quiet here

And I feel so cold

This house no longer

Feels like home.

(So Cold – Ben Clocks)

https://www.youtube.com/watch?v=ga94wVeFBac

 

 

 

29 Marzo 1478, Firenze

Festa in onore dei Riario.

 

 

 

C’era un odore buono nell’aria.

Doveva provenire dalle cucine e risalendo repentino le scale, s’era insinuato nelle narici del conte di Fontenera, inebriandolo.

Come da protocollo, Levi sentì la pancia borbottare per la fame “Deve essere arrosto di vitello.” Considerò ad alta voce, tanto per rendere partecipe il giovine accanto a lui, che nemmeno alzò il capo per guardarlo “Quando le cuoche iniziano a spignattare e portare le pietanze nella sala, significa solo una cosa. Siamo in ritardo.”

Le labbra di Raffaele smisero di accarezzargli la pelle del collo, permettendo così al cardinale di rispondere “Noi siamo sempre in ritardo, che sia per lussuria o per permetterti di abbinare correttamente il cappello alla camicia.”

Levi roteò gli occhi, indeciso se infastidirsi o lasciar perdere come ogni volta.

Alla fine, ovviamente, lasciò stare.

Con un gesto fiacco, scostò la trapunta lavorata ad arabeschi che lo copriva dalla vita in giù e si alzò seduto, passandosi una mano sulla nuca.

Fuori era buio e loro avevano oziato a letto tutto il giorno.

Non sapeva cosa gli fosse passato per la testa, ma quando si voltò per chiederlo a Raffaele ci arrivò in un istante; la pelle candida del cardinale romano si sposava alla perfezione col bianco profumato delle lenzuola del baldacchino.

Senza pensarci due volte si ributtò famelico sulle sue labbra, lambendole con baci sempre più sospirati e sentiti, fino a che non fu lo stesso Riario-Sansoni  a fermarlo.

Appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle, distanziandolo da sé per scrutarlo negli occhi, “Dici bene, quando parli di ritardo, ma poi come tuo solito tergiversi. Dovremmo alzarci e vestirci, non abbiamo il tempo per questo.” E senza attendere oltre gli buttò la trapunta sul viso, alzandosi in piedi.

Quando Levi riabbassò i lembi morbidi della coperta, Raffaele aveva già addosso una camiciola  bianca.

Uno sbuffò contrariato e un’imprecazione dopo e anche lui era in piedi, alla ricerca della sua camicia rosso sanguinaccio e della giacca di broccato blu che si era fatto cucire prima della partenza da Fontenera. Fonterossa.

Fontenera, suonava ancora così male che il povero conte storse il naso.

Levi Bacci conte di Fontenera e tante grazie Girolamo.

Doveva aggiungere una postilla ai suoi titoli.

“Sono felice di rivedere tuo cugino” disse con tono più ironico che altro Levi, “Non credo però sia ricambiata, la mia cortesia.”

“Sì, figurati.” Rise Raffaele, infilando una camicia a merletti e una giubba nera di broccato orientale, prima di sistemarsi il caschetto castano che s’era spettinato circa un’ora prima, mentre a quattro zampe pregava il Signore come il buon cristiano che era “Girolamo non è contento di vedere nessuno. Nemmeno sé stesso.”

Il giovane conte ridacchiò, prima di accorrere ad aiutare l’amante con i lacci della giubba. Tornò quindi ai suoi calzoni bluastri, tirando un bel sospiro poco entusiasta mentre li allacciava “Nemmeno una moglie e il primo erede l’hanno reso più dolce.”

“Nemmeno il Signore in persona ci riuscirebbe.”

Un ultimo sguardo fugace, poi Raffaele uscì dagli alloggi di Levi. Si sarebbero rivisti di lì a pochi minuti, ma già bramava di poterlo riavere su di sé.

Beatrice dormiva in quelle che erano le stanze di quando era bambina.

Lo ripeteva sempre a Raffaele, che amava quel luogo perché le dava serenità, riportandole alla mente tanti dolci ricordi.

Quella sera, però, Beatrice pareva tutto men che serena.

Il cardinale bussò alla porta e quando ebbe licenza entrò, trovandosi di fronte la contessa di Forlì, che mai prima dall’allora l’era sembrata tanto bella.

Addosso aveva un abito abbastanza semplice, di un tessuto chiaro dei colori dei raggi della luna. Un argento particolare, appena lucido e opalescente, che le donava molto visto l’incarnato delicato della giovane donna. La gonna era liscia, con un leggero strascico dietro, e puntellata qua e la di rose gialle che dovevano essere state cucite quella sera stessa visto quanto parevano vive e fresce. Il bustino era stretto ed evidenziava la vita esile e, seppur i fianchi paressero più larghi da quando aveva dato alla luce Alessandro, non pareva esser mai stata gravida.

La ragazza gli dedicò un sorriso tenue, alzando la mano per salutarlo e Raffaele vide sbucare quella piccola e delicata meraviglia da sotto alla manica di pizzo,  larga e lunga più del normale, ma che non stonava affatto con le linee dell’abito. A contornare il tutto, le spalle magre della contessa spuntavano dalla scollatura, delicate anch’esse e pallide.

Sembravano morbide.

Raffaele, se fosse stato un uomo dedito a certi piaceri, si sarebbe innamorato di Beatrice.

Si chiedeva come fosse possibile non farlo, visto che non era solo bella, ma dotata di una certa astuzia, mista a tanto buonsenso che mancava a tutti, in quell’ultimo periodo.

Come accennato prima, però, non pareva affatto felice.

“Cosa ti atterrisce, cugina? Sei così bella stasera che farai di certo invidia alla luna. Se poi sorriderai, nemmeno il sole del mattino potrebbe oscurarti.”

La Contessa sorrise tenue, ritrovando un po’ di colore alle guance. “Chiudi la porta, cugino. Devo dirti una cosa.”

Velocemente, Raffaele esaudì quel desiderio, andando poi a sedersi sul fondo del letto il più vicino possibile a Beatrice, che sedeva allo scrittoio.

“Che accade, dunque? Girolamo ne ha fatta un'altra delle sue?”

La ragazza sospirò, scuotendo il capo “No, Girolamo per una volta non c’entra.” Abbassando la voce, la contessa iniziò a spiegare “Mio fratello Lorenzo è in collera con me e Giuliano perché insiste nel dire che mi ha rivelato dettagli importanti circa…. Beh, qualcosa di cui non posso parlarti ora.”

“L’ingegnere bellico?” si informò il cardinale, suscitando lo stupore di Beatrice “Ne parlano tutti a corte. Se mio cugino voleva far vedere che è ben informato senza metter te nei pasticci, doveva solo aspettare un paio di ore. Ne parlano pure le cuoche nelle cucine.”

“Il fatto, comunque, non cambia di gravità; Giuliano mi ha taciuto una cosa importante e Lorenzo non mi crede!” insistette Beatrice, prima di portare una mano alla fronte “Io non sono stupida, dannazione. Son bene di esser donna, ma non mi limita sul piano politico. Se Forlì è florida è grazie a me, è così complesso capirlo?”

Raffaele avrebbe voluto dire che no, non lo era, ma così facendo avrebbe posto in pessima luce i fratelli de’Medici, come se essi non conoscessero affatto la sorella minore o non la considerassero abbastanza.

Si limitò a fissare i merletti del baldacchio, con  interesse. “Questo è broccato veneziano?” chiese con un filo di voce, non ricevendo ovviamente risposta.

L’arrivo di Girolamo fu poi provvidenziale.

Entrò senza bussare, guardando il cugino seduto sul letto e salutandolo con un cenno del capo. Aprì la bocca per parlare, ma Beatrice lo aggredì con una domanda quindi la richiuse piano.

“Dove sei stato??”

Il conte la guardò, sospirando e sopportando, prima di avvicinarsi a lei per appoggiarle le mani sulle spalle, scostando i capelli acconciati da esse “Parlavo con Lupo, nulla di che. Dobbiamo scendere alla festa. Sei pronta?”

“Si, lo sono.”

“Anche io, per la cronaca.” Si intromise Raffaele, strappando un altro sorriso a Beatrice e alzandosi dal letto, porgendole con eleganza il braccio. “Volete farmi la cortesia di accompagnarmi, madonna?” domandò con tono cencioso, strappando un piccolo sorrisetto anche a Girolamo.

Beatrice accettò, appoggiando una mano sul suo braccio e tirandosi su, mentre il profumo delle rose si sporgeva nell’aria attorno a loro.

 

Beatrice pensava di essere una persona molto tollerante, visto che al mondo non sopportava la vista solo di tre personalità poco apprezzabili.

La prima era Porpora di Vallesanta, ma di lei non si sapeva più nulla da un pezzo. Dopo ciò che era successo ad Orso –che non appena messo piede alla festa, iniziò a mancare a Beatrice, visto che l’aveva incontrato ben due volte in quelle ricorrenze a corte- era sparita dalla scena.

Un'altra era il Papa, ma fin qui nulla di sorprendente. In pochi adoravano Sua Santità e essi si potevano contare sul palmo di una mano aperta. Compreso il diretto interessato, ovviamente.

La terza persona le era appena passata d’innanzi, salutandola con un sorriso di circostanza e una profonda riverenza, prima di sparire nella folla a braccetto con suo marito.

“Lucrezia Donati.” Aveva detto Raffaele, sussurrandole nell’orecchio, mentre gli occhi della contessa fissavano la schiena delle fiorentina. “L’amante di tuo fratello.”

“La sua puttana, intendi?” domandò Beatrice stringendo appena i denti. Lucrezia aveva poco più di quattordici anni, un paio di più lei, quando era entrata nelle grazie di Lorenzo. Le scriveva poemetti, poesie e odi. Poi si sa, Lucrezia era sbocciata e allora s’era fatta più furba, aprendo le gambe per aprirsi più porte.

“Odio quando una donna usa ciò che ha fra le gamba per ottenere quello che desidera.”

Il cardinale ridacchiò, sentendo la mano di Beatrice stringersi attorno al suo braccio “Si beh… Tu non l’hai mai fatto?”

La contessa sbuffò “Girolamo è troppo intelligente per cedere a certe cose. Lo renderei solo di buon umore, ma non otterei niente di più di quello che potrei ottenere a parole.”

“Anche la bocca vuole la sua parte, dopotutto.” Ridacchiò Raffaele, ricevendo un buffetto sulla spalla e una risata da Beatrice.

A loro si unirono anche Levi di Fontenera e la famosa Bianca Ordelaffi, che Raffaele aveva chiamato ‘la tardona’ per tutto il pomeriggio.

Non sprizzava energia ne intelligenza, dopotutto. Il nomigliolo le calzava bene, anche se fu un’ospite squisita con cui parlare.

Molto più della Donati, la quale si era attaccata a Leonardo da Vinci non appena esso aveva messo piede nella sala. Beatrice si perse un attimo a guardarlo scribacchiare sul suo quadernino, con quella gatta morta a ridacchiare e cinguettargli attorno.

Non era gelosia, quella che la contessa provava.

Solo, le mancava la sua spada.

“Vorrei salutare messer da Vinci, ma ha una mosca appoggiata sulla spalla.”

Raffaele e Levi colsero subito, mentre sul viso di Bianca si dipinse un’espressione confusa. Comunque sia non chiese.

“Vai e cacciala.” Disse con semplicità Raffaele, passando casualmente la mano sul braccio di Bacci, che era così tanto vicino al prelato da non riuscire a capire dove iniziasse uno e finisse l’altro.

Beatrice non avrebbe mai fatto una cosa del genere, perché così facendo avrebbe dato alla Donati un’importanza che non aveva.

Lei e Leonardo, però, si scambiarono diversi sguardi e un paio di sorrisi.

I loro occhi erano calamitati, ma nessuno dei due cercò mai di raggiungere l’altro, così Beatrice rimandò la chiaccherata.  Si limitò a prendere un calice di vino, quando Levi glielo porse, cercando con gli occhi il marito che si aggirava per la sala, guardando tutti quanti dall’alto in basso e studiando in modo particolare proprio l’artista del momento.

Beatrice guardò curiosa il modo in cui Girolamo non levava gli occhi di dosso a Leonardo e iniziò a farsi delle domande…

Mentre, impensierita, osservava quella scena, qualcuno di sua conoscenza ma che non doveva trovarsi lì attirò la sua attenzione.

Per poco non si versò il vino addosso per lo stupore.

“Con permesso.” Disse agli amici e a Bianca, congedandosi e camminando a piccoli passi verso quell’inusuale ospite. Quando arrivò da lui, notò che sul viso aveva una maschera di penne nere, ma gli occhi erano assolutamente inconfondibili “Sei vestito da corvo…. Non credi di essere caduto nel banale?”

Il giovane le sorrise, facendo una bella riverenza e mostrando anche il mantello, anch’esso ricoperto di lucenti penne corvine “Non mi trovi nel personaggio?”

“Ho visto di meglio, Corax. Poi se tutti avessimo avuto l’obbligo di rispettare il personaggio, ci sarebbero più porci e cagne che cervi e lupi a questa festa.” I due si scambiarono un sorriso complice, poi si scostarono verso uno degli ingressi, così da non attirare su di loro gli sguardi delle persone che li circondavano, presi dallo sfarzo della festa. “Come mai sei qui? Anzi, come sei entrato, per iniziare.”

Corax alzò le spalle, appoggiandosi con una mano allo stipite della porta “Mi ha fatto entrare il Conte di Fontenera. Basta solo solleticarlo nel punto giusto.” Sussurrò lascivo, ricevendo una pacca sul petto come ricompensa.

“Se il cardinale Riario Sansoni dovesse venirlo a sapere…”

“Io non voglio rovinar idilio alcuno. Volevo solo entrare ad una festa dei de’Medici. Biasimami pure, se lo desideri, ma mi è sempre piaciuta la corte fiorentina.” Nella voce del giovane c’era una certa malinconia, che subito Beatrice colse.

“C’eri già stato?”

“Sì, ma mi ricordo Lorenzo diverso…”

Mistero, sempre mistero nella voce di quello strano fanciullo, dalla cadenza romagnola ma che a quanto pare aveva visitato sia l’Urbe che la bella Fiorenza.

Beatrice non chiese altro perché sapere che non avrebbe scoperto altro. Ormai aveva fatto il callo con Corax; quando non intendeva più rispondere alle sue domande smetteva semplicemente di guardare nella sua direzione.

Così si misero semplicemente a guardarsi attorno, studiando i visi degli invitati sotto alle maschere animali.

Leonardo si voltò a guardarli, interessato a Corax, il quale alzò il calice per salutarlo, ricevendo un cenno di risposta.

“Lo conosci?” chiese interessata Beatrice.

Il ragazzo sbuffò una risata “Quello è Leonardo da Vinci. Non vi sarà persona che non conoscerà il suo nome.” Rispose con la solita supponenza, prima di tirar su col naso e passare il peso da un piede all’altro “Mi piace quel tizio.”

La contessa sorrise, prima di abbassare un istante gli occhi “Anche a me.”

Lo sguardo che le lanciò Corax fu…. Intraducibile.

Avrebbe voluto domandargli perché era lì di nuovo e perché la controllava da vicino, ma non ne ebbe la costanza ne il tempo.

Lorenzo richiamò l’attenzione di tutti con l’aiuto di Giuliano e la contessa fu invitata a ricongiungersi al marito “Non sparire.” Sussurrò a Corax prima di lasciargli in mano il calice ormai vuoto.

Lui rispose con una leggerissima riverenza del capo, prima di guardarla sparire in quella moltitudine di abiti eccessivamente colorati.

“Con chi parlavi?” le domandò Girolamo, quando lei lo prese a braccetto.

“Un cugino.” Fu la risposta secca della contessa che non ammetteva ulteriori repliche.

Si scambiarono un lungo sguardo, mentre Giuliano continuava a richiere l’attenzione, agitando le braccia e rivelando a tutti un panciotto dorato che Beatrice non trovò esattamente di buon gusto.

Dio, come si stava riducendo per colpa di Girolamo…

Non era più abituata a vedere uomini che indossavano colori differenti dal nero.

Lo stesso Lorenzo, dentro alla sua bella casacca rossa damascata, le parve un pugno nell’occhio. L’intera sala addobbata lo era.

Presò attenzione al fratello maggiore quando questi prese a parlare; “Do il benvenuto a tutti voi a uno dei banchetti di Firenze” iniziò con fierezza, guardando i suoi ospiti con lo stesso sguardo di un padre coi figli. Era sempre stato carismatico e convincente, ma agli occhi di Beatrice ormai sembrava solo un millantatore di folle come molti altri. Sapeva vendersi e per quanto lei lo adorasse, sul suo viso lesse una certa falsità “Così piena di vita e di persone vivaci!” Proseguì, beandosi degli applausi della piccola folla che si era radunata nel salone. “Come il Giardino dell’Eden pieno di frutti rigogliosi, pieno di animali e giochi, pieno della grazia della natura.”

Era tutto così pacchiano che Beatrice non riuscì a non sorridere eccitata. Era tutto così famigliare….

I Medici erano sempre stati incredibilmente teatrali in tutto quello che facevano.

Le maschere, i giochi, le rappresentazioni ludiche…

Era il loro vanto e il loro pregio, saper imbastire con poco meravigliosi ed indimenticabili feste.

Ovviamente, però, Lorenzo non mancò di rovinare quella bella atmosfera, andando al centro della rappresentazione e prendendo in mano il serpente  “Quindi come l’eden, ma ovviamente l’Eden aveva degli ospiti… così come noi.” Un coretto di risa si alzò e andò amplificandosi quando Lorenzo aggiunse; “È pur vero che i nostri sono un pochino più piacevoli del serpente in effetti”.

Beatrice perse del tutto il sorriso, quando comprese, così come ogni altra persona presente che il padrone di casa si stava rivolgendo a suo marito.

Istintivamente, si strinse di più al braccio di Girolamo che non solo non si scompose, ma tirò anche un tagliente sorriso, affilato come una minaccia.

Lorenzo doveva sempre esagerare, qualsiasi cosa facesse.

“Lasciate quindi che dia il benvenuto al conte Girolamo Riario, inviato da Roma e alla sua bellissima moglie, mia sorella Beatrice, contessa di Forlì, al nostro Eden, la nostra amatissima firenze.”

Con quel discorso, Lorenzo riuscì non solo a sottolineare che Beatrice e Girolamo non erano lì per il medesimo motivo, ma anche a prendere le distanze da lei che fra quelle mura ci era cresciuta esattamente come lui.

Ferita, nuovamente, tenne lo sguardo basso.

Farla sentire una straniera in casa sua era divenuta una moda alquanto sgradevole.

Grazie al cielo fu annunciata la cena e senza più nulla da aggiungere andò al tavolo del marito.

Quest’offesa non l’avrebbe rimossa dal cuore facilmente…

 

Lei e Girolamo non erano nell’Eden.

Erano finiti nella tana delle manguste.

 

La cena non fu esattamente piacevole.

Riuscì a litigare sia con il marito, che come ebbe il coraggio di dirgli doveva solamente tacere dopo tutte quelle macchinazione, che con entrambi i fratelli.

Giuliano se ne tirò fuori, dicendo che non era il paroliera di Lorenzo, il quale le disse che dovevano aver frainteso il discorso.

“Non sono stupida, anche se sono donna! Se ti sentisse il nonno vi prenderebbe a schiaffi per ricordarvi come si ci costuma a corte!”

Non si fece grandi problemi, quando l’intera sala la sentì dire quelle parole. Lorenzo divenne rosso, mentre Clarice portava il calice al viso per non mostrare il sorrisetto divertito.

Persino la Donati parve prendere parte a quel giubilio femminile, ma la contessa ne aveva già piene le tasche.

Se ne sarebbe tornata nei suoi alloggi, da Alessandro, se Raffaele non l’avesse fermata. Rimase tutta la sera col cugino, dimenticandosi anche di Corax e danzando con lui.

Raffaele aveva un effetto calmante su di lei. L’aiutava a rilassarsi e trovare un po’ di pace, grazie al cielo.

Il suo matrimonio era una farsa, il Turco non le aveva più fatto sapere cosa fare e i suoi fratelli mortificavano la sua famiglia ad ogni occasione.

Non era davvero in vena di festeggiamenti, così si mise al tavolo, insieme a Bianca, Levi e il cugino, godendosi la loro compagnia fino a che Raffaele e l’amante non sparirono misteriosamente.

Rimasta sola con Bianca, si persero a parlare di Forlì, anche se la rossa non sembrava aver colto che Beatrice le aveva ucciso il parente per poter prendere quella città.

Tanto di guadagnato, chi non capisce non può odiare. Chi odia senza capire non è abbastanza furbo da essere una minaccia.

Il tedio finì con l’arrivo di Corax, che la invitò a danzare.

Lei non aveva una gran voglia, ma sempre meglio di sentire come Bianca si fosse ferita da giovane mentre cercava di catturare una rana.

Si congedò dalla rossa con rispetto, afferrando la mano ruvida del corvo e seguendolo al centro della sala.

“L’ultima persona che ha provato ad attirare le mie attenzioni è finita sulla ruota.” Disse Beatrice, mentre iniziavano a danzare fra gli altri “Non farti vedere da Girolamo.”

“Saprei gestirlo.” Si difese Corax, muovendosi aggraziato, mentre Beatrice rideva.

“Nessuno sa gestirlo, nemmeno io.”

Il giovane non replicò, limitandosi a guardarla  da dietro la mascherina ricca di piume. Corax aveva degli occhi unici, di un azzurro strano, screziato di verde e oro. Beatrice non aveva mai visto uno sguardo più magnetico e particolare.

Danzarono sorridendosi per diversi minuti, poi lui riprese a parlare, con tono basso, come se le stesse per svelare un segreto “Mio padre è seriamente convinto che io non troverò mai una brava moglie. Critica il mio modo di pormi col gentil sesso…. Quando nemmeno lui sa farlo. L’essere in un determinato modo è anche indicativo delle nostre origini.”

“Stai cercando di dirmi che sono come Lorenzo? Perché se è così ti zittirò con un ceffone.” Lo riprese bonaria Beatrice, prima di guardarlo divertita “Poi mi pare d’aver inteso che non sei particolarmente attratto dalle dame…”

“Quello è un discorso a parte.”

Risero insieme, applaudendo all’orchestra quando la musica terminò.

Beatrice stava per congedarsi, dispiaciuta di non aver salutato Levi e Raffaele, ma pronta a tornare dal suo bambino, quando notò un certo fermento.

Vide Lorenzo e Giuliano fissare un punto sulle scale con intensità, così si congedò da Corax, andando anch’ella e vedere cosa mai stesse succedendo.

Aveva un pessimo presentimento, che si materializzò quando vide l’oggetto di tanta inquietudine.

Ovviamente c’era Girolamo, su quelle scale.

Non era solo, però.

Stava parlando con Leonardo da Vinci e il modo in cui gli toccò la spalla, prima di strizzargli l’occhiolino come per sancire un patto non piacque a nessuno dei tre de’Medici.

Specialmente a Beatrice.

“Cosa diavolo sta architettando quel folle di tuo marito?” chiese Giuliano, prendendole il braccio, quando Lorenzo se ne fu andato con l’amaro in bocca.

Beatrice lo guardò negli occhi, prima d’esser così sincera che le credette immediatamente.

“Non lo so. Non lo so, ma ho paura…”

 

 

 

 

 

 

Oh,you can't hear me cry

See my dreams all die

From where you're standing

On your own

 

 

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Capitolo 7
*** Parte Prima, Capitolo Sesto. ***


 
Ciao a tutti!
Questo capitolo…. Dio mi viene da piangere quindi non dico nulla se non buona lettura e non odiatemi!
Con questa sofferenza si chiude la prima parte della storia.
La seconda è più complessa e iniziano un po’ le sofferenze per tutti, primo Raffaele.
Ringrazio coloro che leggono e in particolare la mia bellissima coinquilina Lechatvert che mi ha permesso di prendere un pezzetto della sua storia ‘L’ombra del Giglio Rosso’ che trovata linkato a fine capitolo.
Se volete conoscere davvero  Levi di Fonterossa/nera – suo personaggio- andate a leggerla. Se la conoscete già, mi dispiace davvero.
A presto,
Jessy
 
Amor onni cosa
vince
 
Parte prima:
Raro cade, chi ben cammina.
Capitolo Sesto:
Appesa fu la fiducia.
 
 
*
 
 
Will you still love me when I’m no longer young and beautiful?
Will you still love me when I got nothing but my aching soul?
Young and Beautifull - Eli Lieb cover
https://www.youtube.com/watch?v=JG-0F-WF9oU 
 
 
 
 
 
 
Fu il freddo e una strana sensazione di solitudine a svegliarla.
Si girò fra le lenzuola candide e le trapunte ricamate a mano, prima di aprire gli occhi disturbata da quell’assenza non ancora registrata.
Girolamo non c’era.
La cosa non la stupì, inizialmente, prima di riportare alla mente il luogo in cui si trovavano. Ma poi una sensazione di forte disagio la colse. Dove poteva essere andato, suo marito, all’alba a Firenze?
Si alzò, prendendo una vestaglia lunga per coprire la camicia da notte e si affacciò nella stanzetta in cui dormiva Alessandro.
La sola presenza che riscontrò, eccetto quella del pargolo addormentato, fu quella di Mae sotto alla culla, che alzò il capo per guardarla.
Beatrice sospirò, tornando indietro e cambiandosi.
Si vestì alla meno peggio, infilando un vestito molto semplice che poteva allacciare da sola sul corsetto, prima di infilare gli stivali e uscire dalla stanza.
L’intero palazzo pareva ancora addormentato.
Come dar torto a tutti? Il sole stava sorgendo stancamente proprio in quel momento.
Scese la scalinata ampia, accarezzando il corrimano marmoreo quasi con la dolcezza di una madre che accarezza il volto del figlio.
Era così strano…
Aveva camminato per quei saloni e quelle scale per così tanti anni, correndo, ridendo, piangendo o semplicemente vivendo fra quei grandi saloni che, improvvisamente, s’erano fatti enormi ai suoi occhi. Tutta l’intimità di casa sua era del tutto svanita, lasciando il posto a quegli ampi spazi freddi e umidi.
Spostò gli occhi ceruli dal corridoio che conduceva alle stanze di suo fratello Lorenzo, finendo di scendere una delle scalinate e ritrovandosi sul pianerottolo centrale.
Fu a quel punto Giuliano la raggiunse.
Scese con impeto la prima scalinata, ritrovandosi di fronte la sorella “Cosa t’ha svegliata all’alba?” domandò stupito, mentre lei sorrideva pallidamente per salutarlo.
“Sono diventata mattiniera.” Fu la risposta sardonica della contessa, che celava una mezza verità. Era mattiniera per le preoccupazione che gravavano sulle sue spalle, non per scelta.
Forlì, la sua gestione, la sua gente, il figlio…. Girolamo.
“Tu, piuttosto, cosa ci fai sveglio? Mi sembra di ricordare che vederti sveglio prima del mezzogiorno, eccetto quando c’è da andare a messa, sia raro.”
Giuliano aveva un viso grave, teso che non fece altro che incupirsi quando sentì quella domanda.
Beatrice capì che qualcosa non andava.
La guardò indeciso, come se vi fosse un segreto tra lui e qualcun altro, ma poi si convinse e parlò.
“Leonardo da Vinci. È scappato. Siamo andati a rincorrerlo, diciamo.”
Beatrice corrugò le sopracciglia “Come scappato?”
“Lorenzo l’aveva posto sotto stretta sorveglianza, che stamane ha eluso.”
Beatrice lo guardò sorpresa, ma non ebbe il coraggio di chiedere altro.
Non avrebbe sopportato ancora insinuazioni di Lorenzo, non voleva che l’accusasse di nuovo di essere una spia del marito o peggio…
Del Papa.
Fu Giuliano a chiudere la parentesi che egli stesso aveva aperto, tutto d’un fiato, evitando inutilmente di indorare un’amara pillola.
“Si è incontrato con Girolamo Riario, con tuo marito.” Disse e quando lei non trasalì lui proseguì nel racconto, senza domandare quanto immischiata fosse, ma fidandosi naturalmente di lei “Pensavamo volesse vendergli le macchine belliche di cui Lorenzo stesso aveva pagato la costruzione…. Invece le ha testate su di lui. Ma sta bene!” si affrettò a dir veloce il fratello, quando la vide sgranare gli occhi di colpo “Quella viscida serpe di tuo marito è fuggita, incolume, seppur spettinato e non a lungo composto e cencioso.”
La contessa sospirò, chiudendo gli occhi e portando una mano al petto con sollievo, prima di realizzare cosa effettivamente Giuliano aveva detto.
“Aspetta…. Come scappato? Ha lasciato Firenze?”
“Grazie a Dio sì!” esordì il ragazzo, quasi sollevato.
Non capiva però perché la sorella fosse così ferita da quell’atto, fino a che non si ricordò di un piccolo dettaglio. Era suo marito e aveva lasciato la città alle prime luci dell’alba dopo una batosta morale e fisica.
Lasciandola lì, dimenticandosi di lei.
“Perdonami, Beatrice.” Le disse costernato, facendosi vicino e appoggiandole le mani sulle spalle, per poterle accarezzare piano fino al gomito “Sono stato un idiota… Io…”
“Non devi scusarti. Non tu.” Ammise la giovane, guardandolo attentamente, prima di sospira profondamente, schiacciandosi contro al suo petto e godendosi un lungo abbraccio.
Stretta fra le braccia di suo fratello, per un istante, dimenticò la tristezza.
Si ritrovò di nuovo bambina, coccolata e amata.
Non aveva bisogno di altri se c’era Giuliano, lui era un balsamo per le sue ferite e le leniva dal profondo, curandole l’anima.
“Rimani.” Le disse il fratello con tono deciso, accarezzandole il volto fino alla linea della mascella, nascosta dai capelli scuri. “Non tornare a Roma, né a Forlì. Rimani qui con noi…. Almeno per un po’. Non posso pensarti al centro di una faida di questa portata.”
Beatrice ci pensò su il tempo di un sospiro, poi annuì.
“Resto.” Disse risoluta, seppur appena sussurrandolo e Giuliano la strinse di più, baciandole il capo.
Forse era azzardato sfidare suo marito a quel mondo, ma l’aveva abbandonata al suo destino insieme a loro figlio e lei era risoluta a prenderne le redini una volta per tutte.
Sarebbe rimasta a Firenze sino a che l’avrebbe desiderato.
O fino a che forze maggiori l’avrebbero portata a lasciarla.
Si staccò dal fratello, sorridendogli pallidamente, ma caricandosi di una nuova energia mentre scendevano anche l’ultima rampa di scale.
“Perché non andiamo a fare colazione? Sono sicuro che Becchi sarà felice di aver compagnia, si solito è il solo che scomoda le cucine a quest’ora infausta.”
Giuliano rise, aprendo la bocca per rispondere con la solita, sottile battuta di spirito, ma venne interrotto ancor prima di iniziare.
Riuscì giusto a porgere il braccio a suo sorella affinché lo prendesse, quando dall’ingresso spunto Olivieri.
Era sudato e ansante.
Beatrice lo guardò stupida, mentre cadeva con le ginocchia a carponi sugli ultimi due gradini della rampa, un paio di metri sotto di loro.
“Edoardo, che accade??” chiese preoccupata, sollevando appena l’orlo della gonna e lasciando il fratello per correre da lui.
Il poverino era ansante e troppo stanco per parlare subito, così lei passò una mano fresca sul suo viso, portando via il sudore dalla sua fronte e scostando i capelli.
“Edoardo, per carità, parla!”
“Mia Signora…” iniziò il rosso, provando a parlare nonostante l’affanno “Dovete seguirmi immediatamente….”
“Non ti seguirò da nessuna parte, siediti e calmati.” Fece per aiutarlo a sedersi, ma quando lui si aggrappò al suo braccio, lei capì che la situazione doveva essere davvero drastica.”
“Il… Il conte di Fontenera…”
Farfugliò, mentre Giuliano gli passava un calice pieno di acqua, portato con furia da una serva.
“Cosa è successo a Levi?” chiese preoccupata Beatrice.
A quel punto, Olivieri si bloccò per un istante.
Abbassò il capo, mentre la sua bocca si torceva in una smorfia.
Poi, con un rassegnazione, parlò.
“È morto, mia Signora.”
E tutto tacque. 
 
 
Beatrice aveva visto molti uomini morti, nella sua vita.
Prima di diventare contessa, solo in occasioni delle impiccagioni pubbliche, alle quali la sua famiglia doveva presenziare, visto che spesso era suo fratello a infliggere quel tipo di pena.
Quando però arrivò correndo davanti alla facciata in costruzione di Santa Maria del Fiore, non poté evitare di gridare perchè, appeso a testa ingiù dalle impalcature del cantiere, non trovò un uomo morto, magari trucidato da una lancia o una freccia nell’atto di compiere il suo dovere verso il Signore e verso la sua terra, ma il Conte di Fontenera, con gli occhi aperti e la bocca tagliata in un macabro sorriso. Era appeso per la gamba sinistra, con la destra piegata e legata al ginocchio dell’altra.*
Quella, però, non era nulla se paragonata alla scena che si stava consumando sotto al corpo del giovane.
In ginocchio, come nell’atto di pregare, c’era Raffaele.
Fissava con sguardo perso la figura dell’amante, ucciso e sfigurato.
Avvicinandosi Beatrice inorridì.
Le gocce di sangue, che colavano dalla gola tagliata del povero Levi e che cadevano verso terra, non arrivavano mai a colpire il suo, bensì cadevano sul volto del cardinale.
Come vermiglie lacrime.
“Cugino…” Lo chiamò dolcemente, ma lui non sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza. Con la manica stretta nel pugno, Beatrice gli pulì il viso, spargendo il sangue sul volto e strofinandolo via, sporcandosi l’abito e le mani. Tremava, aveva paura e voleva solamente esplodere a piangere. Non sapeva cosa fare “Raffaele, ti prego…. Raffaele! Mio Dio…Giuliano!”
Suo fratello stava cercando di dissipare la folla accalcata, insultando e spingendo i guardoni e ordinando alle guardie cittadine di svolgere il loro compito, ma non appena Beatrice lo chiamò corse da lei.
“Aiutami, ti prego…”
Si diedero il cambio.
Giuliano si chinò sul cardinale, sfilandosi la cappa con su il blasone dei de’Medici per avvolgerci la figura sottile del giovane Riario, sollevandolo praticamente di peso e mettendolo in piedi mentre Beatrice scoppiava.
Con un singhiozzo rumoroso, iniziò a piangere, totalmente distrutta e incapace di rialzare gli occhi.
Portò il dorso della mano alla bocca per frenare i singhiozzi, ma non ci riuscì molto, perché così facendo vide i palmi, tinti del sangue di Levi che aveva tolto dal volto di Raffaele.
“Tiratelo giù, Dragonetti.” Farfugliò tra i singhiozzi, mentre guardava Giuliano portar via Raffaele “Tiratelo giù e portatelo nella cappella di famiglia, ma non fatelo toccare a nessuno.”
“Come ordinate, madonna.”
Beatrice si sbrigò a seguire il fratello e il cugino verso il palazzo de’Medici, senza più levar lo sguardo sul corpo del povero Levi, ben sapendo che anche così non avrebbe mai rimosso dalla mente un tale scempio.
 
 
Il cerusico uscì dalla stanza in cui Raffaele riposava, rassicurando la contessa che per nulla al mondo doveva essere disturbato.
Aveva anche proposto un piccolo salasso, per riequilibrare gli umori e cercare di farlo alzare da quel letto che sembra quasi esser stato scelto per divenire la sua tomba, ma il giovanissimo cardinale si era rifiutato.
Non voleva vedere nessuno, parlare con nessuno o aver contatto di alcun tipo.
Tornati dalla piazza aveva solo disposto che nessuno toccasse Levi, che nessuno s’avvicinasse o l’avrebbe processato per eresia personalmente.
Tutti avevano ascoltato le sue esortazioni, non spaventati ma pieni di pietà verso un così giovane animo, dilaniato da folle dolore.
Beatrice ascoltò il medico, tenendo gli occhi sulla porta della stanza, ma rispettò il volere del cugino.
Doveva avere il tempo per metabolizzare, per farsene una ragione.
Sicuramente non lo avrebbe mai accettato, ma doveva scendere a patti con se stesso.
Scendendo piano le scale, Beatrice guardò sempre verso il basso, troppo triste per dire o fare qualsiasi altra cosa non fosse mettere un piede di fronte all’altro e tenersi la gonna dell’abito nero a lutto, per non inciampare.
Nella cappella della famiglia de’Medici, a vegliare il corpo senza vita di Levi di Fontenera, trovò Giuliano e Clarice, insieme a Gentile Becchi.
La donna le andò incontro, abbracciandola e non chiedendo nulla.
Vedere Raffaele in quello stato aveva fatto sprofondare il cuore di Beatrice nella tristezza più assoluta, che comunque non poteva essere equiparata a quella che doveva provare il cugino per aver perso l’amore della sua vita.
La contessa rimase abbracciata alla padrona di casa, tenendo il capo appoggiato alla sua spalla, sino a che non azzardò qualche passo verso il tavolo su cui il giovane era stato disposto, intoccato come richiesto dal cardinale, se fatta eccezione per gli occhi.
Qualcuno glieli aveva chiusi, in segno di rispetto.
Ora, con quegli orribili tagli a deturpargli la bocca e le guance meno visibili all’occhio, sembrava quasi dormisse.
“Che brutta fine.” Disse Giuliano, avvicinandosi alla sorella e abbracciandole le spalle, mentre lei accarezzava il dorso freddo della mano del malaugurato.
“Chi mai potrebbe aver fatto una cosa del genere?”  chiese indignato Becchi, non trovando un senso a quel quadretto.
Chi poteva voler tanto male a quel giovane che non aveva colpa alcuna se non una spensieratezza che s’addiceva alla sua età?
Nessuno parlò, ma quando Clarice scambiò uno sguardo con  Giuliano, questi non si riuscì a trattenere “Perdonami Beatrice, ma credo tu sappia bene a chi mi riferisco, quando dico che una volta entrata una faina nel pollaio, non possono esserci altro che morti.”
La contessa sorrise tristemente “Paragoni mio marito a una faina? E io ti rispondo che hai ragione…”
Tutti rimasero in silenzio, guardando la più giovane lì presente.
Sapeva benissimo che era stato Girolamo.
Chi altri poteva essere stato?
Se fossero stati di manigoldi, ubriachi e in cerca di ricchezze da spendere al Can che Abbaia, lo avrebbero semplicemente spogliato di qualsivoglia oggetto prezioso e forse buttato dentro all’Arno.
Non avrebbero perso tempo ad appenderlo come un pupazzo.
Non l’avrebbero messo in mostra, per la gioia dei lor stessi occhi e della folla che bramava storie da raccontarsi mentre aspetta l’ora di messa.
No.
Quella era stata una dimostrazione e solo Girolamo Riario dava dimostrazioni.
Anzi, come aveva insegnato a Beatrice, mandava messaggi.
“Perché dovrebbe averlo fatto?” chiese Clarice, non trovando un senso a quel gesto così sconsiderato “Il Conte Riario aveva interesse nella morte di questo giovane?”
“Sì.” Rispose Beatrice quasi assente “Ma non per colpa sua…. Semmai di sua moglie.”
Becchi la guardò sorpreso “Non sapevo che il Conte di Fonterossa avesse una moglie, poiché la donna che portava con sé ieri sera alla festa era la moglie del caro Rangoni, un buon uomo che ho conosciuto in quanto governatore di un modesto ma prolifico paesello. È passato al censo non più di un anno fa.”
No, la contessa non parlava di Bianca, ma di Porpora di Vallesanta, di cui fra l’altro ignorava la sorte.
Era semplicemente sparita dalla circolazione e a Beatrice non mancava. Non poteva mancare, dopo quanto aveva fatto per portare alla fine di Orso.
O almeno di questo la contessa si era convinta.
“Girolamo ha ucciso Levi perché l’ha visto crescere.” Decretò infine Beatrice, come se con quella frase all’apparenza priva di senso e che se mai doveva dimostrare un sentimento diverso da quello che Riario manifestava nei confronti di Levi, smise di speculare su quella morte.
Fu qualcun altro, però, ad avere l’ultima parola.
“Girolamo ha ucciso Levi perché è cresciuto insieme a me.”
Tutti si voltarono verso la porta, dove Raffaele se ne stava immobile, a fissare con espressione persa il tavolo su cui Levi giaceva, sotto all’affresco della venuta dei Magi.
Avanzo di qualche passo, tirando con sé la porpora che aveva deciso di indossare in quanto momento solenne.
Con un piccolo inchino reverenziale, sia Clarice che Becchi lasciarono la stanza, chiudendo la porta.
Giuliano si fece solo da parte, mentre guardava la sorella abbraccia Raffaele così forte da fargli cadere a terra il cappello rosso come la toga.
Lo strinse forte, mentre il corpo del ragazzo veniva scosso dai tremiti dei singhiozzi e anche lei riprese a piangere.
Si sentì un po’ ipocrita perché conosceva poco Levi e l’aveva visto in poche occasioni, ma quel giovane dirompente le aveva fatto bene al cuore. Era buono di cuore e teneva alti gli spiriti.
Non meritava una tale fine.
Erano sempre coloro che dovevano vivere per il bene degli altri, a lasciare il mondo per raggiungere il Signore.
Il cardinale si staccò dall’abbraccio per primo, voltandosi verso il corpo dell’amato. Si chinò su di lui, mentre le labbra gli tremavano in modo a dir poco incontrollabile e gli accarezzò i capelli, permettendo a qualche lacrima di sfiorare il volto di Levi.
“Sento che sto morendo anche io…” sussurrò, tra un singhiozzo e l’altro, e subito la cugina accorse, appoggiandogli le mani sulle spalle e accarezzandole piano, mentre anche lei guardava il viso di Levi, che più avrebbe sorriso ne a lei ne a Raffaele “Era da me, stanotte. Era al convento con me e io l’ho lasciato andare via…. Gli avevo promesso che avrei scritto a Girolamo di lasciarlo in pace come ogni volta, per poi portarlo a passeggiare a Ponte Vecchio. Dio, sono così stupido…. Dovevo tenerlo lì con me a costo di legarlo. Non dovevo farlo uscire!”
Un pianto folle, incontrollato, lo scosse al punto tale che Beatrice dovette sostenerlo e quando anche lei si sentì venir meno, caddero entrambi sulle ginocchia, di nuovo stretti nel pianto.
Giuliano capì.
Dal modo in cui Raffaele aveva parlato…. Dal modo in cui l’aveva guardato….
Capì e sentì una stretta allo stomaco che non seppe spiegarsi.
“Il Conte Riario pagherà.” Si limitò a dire, leggermente nel panico, prima di lasciare la stanza e il lutto a sua sorella e al cardinale.
Beatrice lo guardò andarsene di volata, tenendo gli occhi su di lui fino a che la porta non si chiuse. Poi si concentrò sul cugino.
Non seppe dire quanto tempo rimasero così, abbracciati ai piedi del tavolo, con lei che gli accarezzava i capelli e lui che le piangeva sul petto. Si addormentarono anche, totalmente stremati da tutto quel dolore che aveva straziato il cuore di Raffaele, lesionandolo in modo permanente.
Quando Raffaele tornò in sé si scostò, destando Beatrice “Devo occuparmi di lui.” Disse sottovoce, prima di sollevarsi sulle gambe tremolanti.
Lei lo seguì e insieme si diedero da fare.
Spogliarono Levi, lavarono il suo corpo con una paio di delicate pezze di pelle di agnello, poi lo rivestirono, pronto per le esequie.
Il tutto senza parlare.
Solo quando ormai avevano fatto, Raffaele si decise ad aprire bocca per spezzare quel silenzio assordante.
“Non lo perdonerò mai.” Disse deciso e la sua voce non più sussurrata rimbombò per tutta la stanza. Prese fra le mani il cappello rosso da cardinale che gli era caduto appena entrato e lo appoggiò sul capo di Levi, ricordando tutte le volte che il giovane aveva espresso la volontà di averne uno.
‘Potresti regalarmelo, Raffaele’, cielo, gli pareva di sentirlo ‘tu ne hai così tanti!’
Riprese a piangere senza rendersene conto.
Decisamente non avrebbe mai perdonato Girolamo.
Aveva visto crescere il loro amore con i suoi stessi occhi, li aveva in un certo senso protetti da loro stessi e non aveva fatto menzione di ciò che erano per non farli sembrare abominevoli agli occhi del papato….
E poi gli aveva portato via la cosa più bella che gli fosse mai accaduta.
“Non lo perdonerò mai.” Ripeté nuovamente, stavolta con rabbia. “Brucerà all’inferno, per questo e se Dio mi ascolta, non dovrò aspettare la vecchiaia per godere della sua rovina.”
Beatrice non disse nulla, perché se avesse dovuto prendere una parte, sarebbe stata quella del cugino e non quella del marito.
Sospirò, guardando Raffaele sistemare i capelli mossi di Levi, prima di tornare al suo fianco “Dove lo seppellirai?”
“Nel duomo di Pisa, non permetterò che marcisca a Fontenera.” rispose il cardinale, sorprendendola. “Laddove tutti i giusti dovrebbero stare, ovvero in un luogo che renda loro giustizia e dove gli uomini pii possano pregarli e prenderli a modello. Il nostro mondo sarebbe un luogo ricco di bellezza se tutti fossimo più come lui…”
Fece una pausa, poi guardò Beatrice e nei suoi occhi, la ragazza non lesse nulla se non un profondo vuoto che doveva essere il medesimo che aveva nel cuore.
“Poi Fonterossa è troppo lontano da me. Devo averlo vicino, per andare a trovarlo tutti i giorni, come avrei voluto fare quando era ancora mio. Ora perdonami, ma vorrei rimanere solo con lui…”
Lei annuì piano “Mi trovi nei miei alloggi. Per qualsiasi cosa, sono qui per te.”
Raffaele si chinò su di lei, baciandole piano le guance e poi le labbra, con un delicato tocco simile ad ali di farfalla.
“Ti amo, cugina. Sei la persona più buona che esista e ringrazio il Signore per l’averti qui ora.”
“T’amo anche io, cugino. Non esiste esercito che possa impedirmi di piangere con te, adesso…”
Raffaele sentì le lacrime tornargli agli occhi, così fece un piccolo cenno a Beatrice, che si incamminò velocemente, lasciandolo solo.
Quando la porta si chiuse, il cardinale si piegò su Levi, baciandolo piano sulle labbra gelide per un ultima volta.
“Mi dispiace tantissimo, amor mio.” Sussurrò, stremato “Non sono stato in grado di proteggerti, di badare a te.”
Si morse il labbro fin quasi a farlo sanguinare, cercando di non singhiozzare.
C’erano cose che sentiva di dover dire ad ogni costo.
“Ora tu baderai a me, però. So che qualsiasi cosa farò, in qualsiasi luogo si compirà il mio destino, ci sarai tu. Ti giuro che mi vendicherò di ciò che ti è accaduto e renderò giustizia alla tua memoria per il resto dei miei giorni…”
Tolse una lacrima dalla sua guancia, ma quando ne cadde un'altra e poi molte altre, smise anche solo di provarci.
“Ti amo”
Disse ancora.
“Mai ti dimenticherò.”
 
 
 
 
Dear lord when I get to heaven
Please let me bring my man
When he comes tell me that you’ll let him
Father tell me if you can
 
*Pezzo riportato quasi pari dal capitolo di Lechatvert sulla morte del povero Levi:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1946917&i=1

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Capitolo 8
*** Parte Seconda, Capitolo Settimo. ***




 

Parte Seconda:
Le minacce sol son arme dello imminacciato.
Capitolo Settimo:
Sei sono le Case, sei le sfide.


*


I may seem crazy or painfully shy
 And these scars wouldn’t be so hidden
 If you would just look me in the eye
 I feel alone here and cold here
 Though I don’t want to die
 But the only anesthetic that makes me
feel anything kills inside
(Plumb – Cut https://www.youtube.com/watch?v=Ty0SF6jmDf8 )


 

6 Aprile 1478, Firenze
Venti giorni prima della Santa Pasqua.

 


La luce brillava attraverso le spighe di alto grano dorato, mentre la giovine riposava fra di esse, col capo rivolto verso il sole al tramonto. Doveva pian piano andar morendo, ma ancora riluceva, illuminando la sagoma di un giovane uomo che pareva danzare tra le spighe. Tre piume sporche, ma ancora lucide di colore rilucevano contro gli ultimi raggi morenti. Accarezzava lentamente la sommità dell’erba e del grano, mentre camminava lento fra di esso, come se non avesse alcuna fretta.
I suoi abiti parevano più sporchi del normale, ma la ragazza non vi prestò attenzione quando s’alzò, raggiungendolo lentamente.
“Sei sono le Case, sei le prove.” La voce del ragazzo era esattamente come la ricordava, anzi, come temeva di non riuscire a ricordarla: calda e dolce, come quella di un ragazzino. “La prima è la Casa Buia, in cui per far luce van usate torce che non devono venir consumate…. La luce è la speranza e non deve mai venir spenta. È una prova di Fiducia, perché è da essa che si genera tutto.”
Il giovane avanzò di qualche altro passo, accorgendosi che lei e il suo interlocutore stavano girando intorno ad una pietra scura, di forma circolare e con strane incisioni che ella mai aveva visto prima di allora.
Quando l’altro riprese a parlare, gli rivolse tutta la sua attenzione “La Casa dei Rasoi sarà la prima di molte dolorose. Essa rappresenta la Forza, la tempra che segnerà se il Pretendente è degno di ricevere il massimo Dono.”
La pietra parve quasi tremare sotto alle dita della mora, quando passò l’indice sopra a una delle incisioni.
Come prima, non disse nulla e fu il giovane a parlare nuovamente “La Casa Fredda e la Casa Calda offrono due tipi diversi di sfida. La prima è emblema della Tenacia che da sola va sviluppata, individualmente, come premio personale. La seconda è la Riconoscenza, poiché non dipenderà dal Pretendente il suo esito. L’aver però sfiorato la morte è il solo modo per apprezzare davvero la vita e riconoscerne il valore.”
La pietra crepitò ancora, quando il sole battè nel suo centro esatto, ed Ella fece un passo indietro.
Ma il racconto non era ancora finito. “La Casa dei Giaguari è tetra e richiede un sacrificio. In essa dimora il Coraggio di colui che è in grado di immolarsi per coloro che ama. Così come una fiera di dilania la carne, l’attesa della salvezza è lenta e dolorosa. Infine, vi è la prova finale e la più gravosa di tutte; nella Casa dei Pipistrelli, laddove anche Hunahpú ha incontrato la morte. Essa è la Decisione Finale, l’Adeguatezza del Prescelto. Una riprova della sua volontà di cavalcare le onde del Fiume del Tempo. Solo con la Fiducia, la Forza, la Tenacia, la Riconoscenza e il Coraggio, il Pretendente potrà accompagnare il Prescelto nella sua missione e rivedere il volto dei Predecessori.”
Un forte vento si levò, piegando le spighe di grano. La giovane afferrò le piume che il giovane portava sopra all’orecchio mutilato, che l’aria forte aveva condotto sino al suo pugno.
E lì, di fronte alle Prove, comprese.
Beatrice comprese.
“Ti ha mandato mio nonno, Orso?”
E fu buio.

Beatrice non aveva mai lasciato il palazzo, dal giorno in cui suo fratello aveva accettato di tenerla con loro, purché ella si facesse regolarmente controllare le missive che le arrivavano e quelle che dovevano partire. Non solo. Doveva essere seguita giorno e notte da Dragonetti e i suoi. Qualcuno doveva sempre tenere conto dei suoi spostamenti e delle persone con cui parlava, perché Lorenzo non si fidava e pretendeva di arginare la fuga di informazioni che pareva ormai irrefrenabile.
La giovane contessa aveva accettato solo perché così facendo, suo figlio sarebbe stato al sicuro. Peccato che non potevano controllarla sempre e non si era rivelato affatto complesso lasciare il palazzo nel cuore della notte.
L’aveva fatto una miriade di altre volte e con Alessandro addormentato e sorvegliato dalla lupa, lei poteva concedersi un istante per prendere aria.
Le mancava il respiro, certe volte, come quando indossava corsetti troppo stretti.
Aveva gli occhi di tutti addosso e s’era ritrovata dal sentirsi una sconosciuta nella casa in cui era cresciuta, all’essere etichettata come un potenziale nemico, al contrario di come tutti trattavano Madonna Donati. Era sullo stesso piano di una meretrice, ma pareva dettar ordini a palazzo de Medici più di Clarice, in certe occasioni. La sua vanagloriosa brama di mostrare quanto fosse vantaggioso farsi usare da Lorenzo era a dir poco ridicola.
Se non fosse stata così superficiale e frivola, Beatrice avrebbe attribuito il ruolo di spia proprio a Lucrezia, ma non era abbastanza furba, o almeno così pareva.
Non capiva come Clarice potesse sopportarla. Anzi, lo capiva benissimo visto che anche lei era sapeva cosa provava una moglie nel sapere il marito infedele. Quando meno, questa volta non era una serva abissina, ad umiliare la matrona.
Con un sospiro, Beatrice guardò sotto di sé l’acqua dell’Arno scorrere lenta. Ponte Vecchio era silenzioso e anche l’ultima luce alla finestra pareva essersi spenta ormai da tempo.
Chissà da quanto tempo era seduta lì a pensare. Il fatto che avesse anche iniziato a fare quel sogno ricorrente, quasi ogni notte, non le dava pace nemmeno fra le braccia di Orfeo. Era frustrante sotto ogni punto di vista.
Orso che parlava per metafore, che mai aveva fatto in vita sua, immerso in un luogo meraviglioso e pacifico, da far concorrenza ai Campi Elisi. A Beatrice piaceva immaginarlo proprio così, finalmente in pace e sereno dopo una vita di stenti e sofferenze.
Peccato che tutta la faccenda delle Case, delle sfide da superare per arriva a un ipotetico Dono non le piacesse affatto, stonava col contesto angelico.
Non era nemmeno divertente da pensare. Altre fatiche, altre sofferenze.
“Fiducia, forza, tenacia, coraggio e riconoscenza…. Come se non fossi già fin troppo riconoscente ogni giorno del fatto che codesta missione mi condurrà nella tomba.” Istintivamente lanciò un sasso nelle acque pacate del fiume, cercando di disturbarle come si sentiva disturbata lei.
Poi si diede della folle e decise che, magari, era il caso di tornare verso palazzo e dormire un paio di ore, sperando di non scomodare nuovamente il povero Vallesanta, che meritava di riposare in pace e di non far più il lacché di nessuno, specialmente dei Figli di Mitra.
Stava giusto per imboccare una viuzzola che costeggiava Palazzo de'Medici, per entrarvi delle stalle e non destare interesse alcuno, quando si ritrovò di fronte una persona che non credeva che avrebbe mai incontrato, in tale situazione.
"Madonna Donati." disse sorpresa, guardando il volto della donna improvvisamente più pallido e come stravolto dalla sorpresa. Cosa ci faceva una nobildonna di quel rango, a spasso per le strade di Firenze in quell’ora così tarda?
Certo, lei era l'ultima persona a poter parlare di simili casualità, ma quel momento stonava parecchio con ciò che si aspettava da Lucrezia Donati.
La fiorentina però parve di nuovo a suo agio "Mi avete spaventato, contessa Riario de'Medici." si sbrigò a dire, con una piccola riverenza. "Mi scuso per l'ora tarda e per l'avervi sbarrato la strada, ma sto tornando a casa or ora..."
"Un orario un po' insolito per una passeggiata fuoriporta, non credete madonna?"
"Sono stata chiamata da vostro fratello, contessa. Comprenderete da voi il motivo della mia presenza a Palazzo."
Ah, giusto. Lucrezia Donati non era solo la donna più volubile di Firenze, ma sottolineava questa inclinazione andando a letto con Lorenzo. Beatrice avrebbe dovuto pensarci, ma tutte le volte che associava suo fratello a quella donnaccia aveva come un rifiuto spontaneo per il fatto; la storia però era credibile visto che il Magnifico si dilettava spesso con madonna Donati.
"Comprendo, Lucrezia." replicò semplicemente la contessa, tenendo testa all'altra che s'era fatta leggermente sfrontata nell'ultima risposta. La guardò spostare i capelli dal viso, notando l'anello di acquamarina sull'anulare sinistro. E non solo "Fareste meglio ad affrettarvi, ordunque. Non è luogo per una dama, la città che dorme. Senza contare che passerete dei guai, se Dragonetti vi trova fuori durante il coprifuoco."
La Donati sorrise, abbassando leggermente il capo "Lo stesso vale per voi, mia signora. Fareste meglio a tornare da vostro figlio prima che vi scorgano. La gente parla, dopotutto e non vorrei che vostro fratello pensasse male di voi."
Beatrice sorrise leggermente, con amarezza. Dietro quella falsa premura si nascondeva un'atroce realtà. La risposta era quindi ovvia: lei non aveva visto Lucrezia ed ella, in risposta, non aveva visto lei.
"Passate una buona notte, madonna."
"Anche voi, vostra Grazia."
Senza aggiungere altro, Beatrice la superò, dirigendosi ad ampi passi verso Palazzo de'Medici.
C'era qualcosa di strano in quella donna, nascosto fra lo sguardo e le parole. Senza tener conto dei fatti...
Lucrezia Donati aveva le mani sporche di gesso.


“Nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, si ritrovarono sette giovani donne...”
Il timido raggio di sole primaverile che si rispecchiava sul marmo bianco di Carrara della basilica, illuminava la giornata nonostante essa fosse iniziata da poche ore.
Un insolita quiete regnava sul mercato della Novella, pronto però a vedersi rovinato da una manifestazione di infame Malvagità.
Beatrice non credeva davvero nell’esistenza del demonio, poiché era quasi del tutto sicura che il vero male fosse solo arte dell’uomo, per questo aveva osservato un’insolita scena con freddezza, quasi fra la folla, mentre suo fratello Giuliano dava nuovamente prova di senso pratico, sedando la folla.
Una suora, colta da malore, che pareva posseduta da una manifestazione demonica.
Non s’era capito da dove essa avesse acquisito quel morbo, ma era stata assai lesta a puntare il dito contro coloro che, a detta sua, avevano trasformato Firenze in una Sodoma; ovviamente i de’Medici.
La contessa aveva quindi goduto di quella scena, non scomponendosi affatto. Non aveva trovato un vero senso in ciò che aveva udito, che andasse al di la delle comuni calunnie con le quali veniva spesso infamata la sua famiglia, ma aveva intuito che sotto doveva esserci molto di più, per giustificare una così drammatica scena al centro del mercato cittadino.
Aveva quindi concordato con Giuliano, quando egli aveva deciso di partire alla volta del convento di provenienza della sventurata, al fine di carpire l’origine di quel – a quanto pareva- generale malessere.
Lei era rimasta a palazzo, a cercare un modo per avere udienza con suo fratello, che s’era chiuso in un assoluto mutismo dopo ciò che era avvenuto circa Girolamo e le armi. A lei era andata la colpa, il fardello di qualcosa di cui era all’oscuro e che amareggiava la giovane molto più di Lorenzo.
Tra un bisticcio e l’altro con Becchi e Fabrizio, che negavano alla ragazza di vedere il maggiore della casata, Beatrice passava in rassegna ogni suo dovere. Primo fra tutti, quello nei confronti del figlio piccolo.
Secondariamente, le missive.
Amministrazioni cittadine per Forlivio, controlli delle magioni di famiglia e della prossima raccolta di messi e vendemmia….
Aveva sempre qualcosa da legge e da spulciare, quando non riusciva a prendere sonno la notte, in quel letto così grande e incredibilmente freddo per lei e Alessandro soli.
Nel momento in cui adempiva al dovere di contessa, però, Girolamo le mancava più che mai. Come maestro e come marito.
Con quel pensiero poco felice a perseguitarla, Beatrice si destreggiava fra una missiva e l’altra, leggendo e rispondendo ormai meccanicamente. Proprio mentre selezionava l’ultima a cui rispondere prima di coricarsi, cercando quella meno panciuta e quindi meno piena di incombenze, gliene capitò una strana fra le mani.
La prese, corrugando le sopracciglia per il modo in cui era stato scritto il suo nome, voltandola e studiando il sigillo che la teneva chiusa. Sulla cera lacca vi era un pesce stilizzato, un simbolo ebraico che lasciò perplessa la contessa. Forlì era una contea papale, ergo non  aveva creditori semitici.
La aprì incuriosita, chiedendosi cosa potesse mai essere e si ritrovò alquanto stupita di ritrovarsi  fra le mani un ducato d’oro e un piccolo foglietto spiegazzato e sporco di polvere. Un necrologio, che annunciava la morte di Abrahm Lysimacus.
Beatrice rimase per un istante senza parole.
Poi venne investita da una marea di ricordi, che andarono a sommarsi a tutta la melanconia di quei giorni.
Un sorriso amaro si aprì sulle sue labbra, mentre di nuovo metteva in discussione tutto il suo operato di quell’ultimo anno. Se avesse potuto scegliere un'altra vita, sarebbe tornata indietro dragando il Fiume del Tempo e non avrebbe fatto nulla di ciò che invece aveva deciso. Non avrebbe dato ascolto a Brancacci e non avrebbe cercato quel Lysimachus…
Poiché nulla era più stato lo stesso. Non avrebbe mai più potuto fidarsi di Girolamo, poiché in vero, non sapeva più chi egli fosse.
Alle volte, il non sapere è la miglior difesa contro i demoni del passato.


Otto mesi prima....

Affacciandosi all’ampia vetrata dello studio, Beatrice non poté che chiedersi se aveva avuto un’idea  saggia. Mandare Edoardo a cercare i Vallesanta poteva rivelarsi un passo falso, visto che nonostante i molti mesi passati alle sue dipendenze, il rosso sembrava non volersi adattare a quella grande e pericolosa città, risultando spesso fin troppo evidente e peccando di mancata cautela.
Sospirò, passandosi una mano sul ventre che continuava a crescerle di giorno in giorno, mentre si chiedeva chi poteva mandare per recuperarlo nel caso in cui non avesse fatto ritorno sulle sue gambe.
Grunwald era fuori discussione, dopotutto era partito per Biscegliere insieme a suo marito. Non sarebbero tornati per almeno altri quattro giorni, dando così il tempo a Beatrice di organizzarsi.
Era prigioniera a Villa Orsini, ma una prigioniera molto astuta.
Poteva ancora ricevere visite e scomparire con il favore della notte, se lo desiderava e se la gravidanza lo permetteva. Le serviva però una valida guida per raggiungere incolume la sua meta.
Da qualche tempo, la voce di Brancacci aveva ripreso a ronzarle nella testa, cantilenando quel nome – Lysimacus- come una lenta litania. Era successo per caso, il riportare alla mente quel nome e quel volto martirizzato dalle torture; mentre raccontava ad un banchetto di Forlì e delle sue difese militari, astutamente ricreate dalla contessa, non era riuscita a non pensare a quell'uomo affascinante dai biondi e ricci capelli. 
Era sempre stata eccessivamente curiosa e spesso ne aveva pagato le conseguenze, manon temeva più nulla ormai. Se Girolamo non l’aveva fatta fuori in ben peggiori occasioni, non sarebbe più  successo. Difficilmente avrebbe dimenticato l'incidente di Costantinopoli.
Stava iniziando a tramontare il sole, quando finalmente il Capitano della sua scorta personale apparve insieme ai suoi quattro uomini, con al suo seguito i due gemelli di Vallesanta.
Bussò allo studio del Conte, dove era certo di trovare la sua Signora, e una volta che gli fu concessa l’entrata sorrise vittorioso “Li abbiamo quasi persi, quando hanno deciso di fuggire. Catturata la ragazza, però, l’altro non se l’è sentita di lasciarla a noi.”
“Non volevano venire di loro iniziativa?” domandò confusa la Contessa, alzandosi dal tavolo pieno di carte disordinate e timbri papali.
Edoardo scosse il capo “Sono ancora convinti che si tratti di vostro marito, Beatrice. Non vi è stato verso di far capire loro che invece siete voi, a desiderare una consulenza.”
La mora sospirò, comprendendo le motivazioni dei suoi due ospiti. “Portami da loro.” Disse solamente, indossando una vestaglia da camera su un vestito candido che soleva portare in casa. Ormai era troppo abbondante per corsetti e merletti.
I due fratelli sedevano  su un divano dell’’anticamera del palazzo, poco distante dall’ingresso principale, sorvegliati da tre guardie forlivesi. Quando la giovane entrò insieme a Zita, del teh e un sorriso, parvero stupiti di vedere che si trattava davvero di lei.
Porpora si era fatta un po’ più grande di statura, senza arrivare però alle spalle del fratello, e aveva i capelli più lunghi, legati a coda di cavallo sopra la nuca.
Orso, invece, era rimasto più o meno lo stesso, con le sue sgargianti piume a coprire l’orecchio mancante. Quel giorno, erano tutte verdi e rosse.
“Beatrice”, biascicò, alzando le mani come a voler dare un saluto che non arrivò mai. Rimase invece immobile con lo sguardo fisso sul ventre rigonfio di lei e per un istante non respirò nemmeno.  “Credevamo foste vostro marito ad averci convocati”.
La Contessa, così presa dalle buone maniere, non si rese conto di dove lo sguardo del ragazzo fosse caduto. Si sistemò la vestaglia, prima di riempire ella stessa tre tazze di teh e passarne due ai due giovani, sistemando anche un vassoio pieno zeppo di vivaci biscotti innanzi a loro.
Prese poi posto sulla poltrona davanti a loro, sorridendo ancor di più “Sono così felice di incontrarvi di nuovo, amici mie.” Strinse la tazza in mano, mentre Zita si inchina e prendeva concedo.
Edoardo fece uscire le guardie, rimanendo solo davanti alla porta chiusa, con le braccia incrociate.
“Perdonatevi se vi ho fatti prelevare, ma temo di aver bisogno di voi per un favore.”
Veloce come il vento, Porpora allungò la mano sui biscotti, ficcandosene un pugno intero in bocca e cominciando a masticare rumorosamente.
Orso la guardò, accigliandosi appena, ma si voltò subito verso Beatrice, prendendo un sorso di tè con fare elegante.
“Perdonateci”, esordì, poi, prendendo a sua volta un biscotto. “Non mangiavamo da due giorni”. Fece una pausa che utilizzò per buttare giù il boccone. “Anche noi siamo molto felici di rivedervi, Beatrice. Non sapevamo foste a Roma”.
Porpora alzò gli occhi al cielo.
“Io lo sapevo”.
La mora scostò una ciocca dal viso “Allora spero che accetterete di rimanere a cena con me, stasera. O quanto meno, che permettiate ai miei cuochi di prepararvi qualcosa da portare con voi” Ripose la tazza sul ripiano del tavolo, incrociando le mani sul ginocchio accavallato “Sono sola a casa. Mio marito si è recato nel Regno di Napoli per una missione…. Diciamo umanitaria.”
Storse la bocca in una smorfietta sarcastica, mentre Edoardo si avvicinava a passi lenti, portandosi dietro alla sua poltrona e controllando i due giovani.
“Anche per questo vi ho fatti chiamare ora.”
Porpora mollò la tazzina vuota in grembo, spostandosi un poco per seguire meglio con lo sguardo i movimenti del capitano. Doveva ancora avere bene in mente la sua cattura di poco prima.
“Lieto di sapere che vostro marito è fuori città”, commentò Orso, sorridendo da dietro la tazza di tè. Poi parve accorgersi di essersi fatto troppo spavaldo e arrossì di colpo, chinando il capo con aria affranta. “Nel senso che non credo sarebbe stato molto felice di vederci. Non è mai felice di vederci”.
Beatrice gli sorrise, mentre i suoi occhi azzurri scintillavano appena “Bhe, se contassimo tutte le persone che non sono mai felici di vedere lui, potremmo riempire tutta la città di Roma. Io sono felice di vedervi, Orso.”
Olivieri trattenne un sorrisetto, prima di rivolgersi a Porpora “Io sono lieto di vedere voi, Porpora. Scusate per i capelli, ma non sono arrivato alla spalla.”
La ragazza si portò le mani alla coda, aggiustandosela un poco con fare scocciato prima di avvicinarsi al fratello in cerca di protezione.
“Fatevi crescere le braccia più lunghe, la prossima volta”, ribatté, sbuffando. “E non sono lieta di rivedervi”.
Con un sorriso, Orso le passò un braccio attorno alle spalle e parve calmarsi un poco.
“Cosa possiamo fare per voi, Madonna?”, riprese dopo un po’ il ragazzo, guardando nuovamente nella direzione di Beatrice. “Un animale da imbalsamare?”
Olivieri trattenne una risata, mentre scambiava uno sguardo birichino con la sua Signora. Poi tornò serio, drizzando le spalle.
“Diciamo più che altro che mi servono due guide esperte.” Disse la Contessa, prendendo a sua volta un biscotto “Devo uscire di nascosto, nel cuore della notte, e devo trovare una persona. Voi dovete condurmi nel luogo in cui vive.”
Passò gli occhi da uno all’altro, valutando se potevano o meno accettare.
La posta in gioco era alta, lo sapeva bene. Se fosse successo qualcosa a lei o alla creatura che le cresceva in grembo, Girolamo non avrebbe lasciato in piedi una sola casa.
Il gioco però valeva la candela
“Ovviamente il compenso sarà proporzionale al disturbo.”
Orso aprì la bocca per parlare; sembrava indeciso.
Peccato che non ebbe il tempo di proferire parola.
“D’accordo!”, trillò Porpora, svegliandosi improvvisamente dall’abbraccio del fratello. “Se c’è un lauto compenso, noi ci siamo”.
Scambiò un’occhiata con Orso, poi si mise a sedere in modo più composto.
“Di chi si tratta?”, chiese, assottigliando appena lo sguardo scuro.
Beatrice si torturò le mani, giocherellando con l’anello nuziale. Passò una mano sul rubino rosso, prima di sospirare “Devo recarmi nel quartiere ebraico.” Disse decisa “Nottetempo, così che nessuno possa vedermi. Una volta lì, chiederò della persona che cerco. Edoardo...?”
Il soldato si voltò, prendendo qualcosa su uno scaffale.
Quando appoggiò davanti ai Vallesanta uno scrigno, i due parvero non crederci. Non era molto più grande di due dei pugni di orso tenuti vicini, ma sembrava piuttosto pieno.
Una volta aperto il coperchio, videro tante monete come mai in vita loro.
“Questo non è solo per il fare da guide” disse Olivieri “Ma per la discrezione. Non dovrete porre domande e, cosa più importante, dir nulla a nessuno.”
Porpora gli scoccò un’occhiata seccata.
“Lavoriamo per il Papa, secondo te non sappiamo tenere la bocca chiusa?”, sbuffò, scrollando il capo. “Non vogliamo impicci. Siete in cerca di una persona pericolosa? Se è così, il prezzo sale”.
Orso annuì, seppur poco convinto.
“Non ne faremo parola con nessuno”, promise.
Beatrice guardò pensierosa Porpora “Non conosco l’uomo che devo incontrare, quindi non saprei dirvi. So solo che è legato da qualche vincolo al conte Riario e io devo saperne il motivo.”
Allungò una mano, raccogliendo un pugno di monete e lasciandole ricadere una ad una, fissando la ragazza negli occhi.
“Trecento fiorini d’oro, Porpora. Per una sola notte nella quale non farete altro se non camminare.”
“Anche l’ultima volta non si doveva far altro che camminare fino a Vignola”, ribatté Porpora, stretto tra i denti. “Ma non sono stata io quella che ha trovato un passatempo, durante la passeggiata”.
Non spostò lo sguardo dagli occhi di Beatrice finché non fu Orso ad alzarsi e a mettersi in mezzo, afferrando sua sorella per la spalla e ributtandola con la schiena sul divanetto.
“Trecento fiorini andranno benissimo”, borbottò, un po’ rosso in viso. “Tuttavia sarò io, a fare da guida. Nel ghetto c’è tanta brava gente quanto briganti”. Si voltò verso Beatrice e le sorrise appena. “Ma conosco le strade giuste per evitare brutti incontri”.
Per nulla toccata dalle parole della ragazza, Beatrice ricambiò il sorriso di Orso “E sia, mi accompagnerete voi soltanto. Trovo che questa sia anche meglio, come soluzione. Mi fido molto più di voi che di vostra sorella.”
Si alzò in piedi, ignorando la giovane e porse la mano ad Orso.
Edoardo non pareva soddisfatto per nulla, ma non disse niente.
“Abbiamo un patto?”
Orso le prese la mano, portandosela alle labbra per onorarla con un lieve bacio.
“Abbiamo un patto”.

 

I’m not a stranger
 No I am yours
 With crippled anger
 And tears that still drip sore
 I do not want to be afraid
 I do not want to die inside just to breathe in
 I’m tired of feeling so numb
 Relief exists I found it when
 I was cut

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Capitolo 9
*** Parte Seconda - Capitolo Otto ***


Parte Seconda:
Le minacce sol son arme dello imminacciato.
Capitolo Ottavo:
Alle volte è  meno saggio conoscere i fatti, che esserne totalmente estranei.
 
 
 
 
It's better to feel pain, than nothing at all
The opposite of love's indifference
Pay attention now, I'm standing on your porch screaming out
And I won’t leave until you come downstairs
(Stubborn Love – Lumineers
https://www.youtube.com/watch?v=UJWk_KNbDHo )
 
 
 
 
7 Aprile 1478, Firenze
Un giorno prima della dichiarazione di guerra
dello Stato Pontificio.
 
 
Otto mesi prima.
 
“Chi è, che stiamo cercando?”
S’erano incontrati come d’accordo, lasciando Porpora ed Edoardo indietro; Orso era stato molto chiaro in merito, sarebbero stati molto più lesti se fossero stati soli. In più, quella pareva per lui una buona occasione per spendere del tempo insieme a Beatrice, da soli. Non era più capitato, da Bologna e gli mancava quella sensazione di calore all’altezza del petto che solo lei sapeva donargli. Lanciò quindi uno sguardo al ventre rigonfio della giovane nobildonna, attendendo una risposta a quella domanda di primaria importanza.
“Cerco qualcuno di cui non so nulla. Ne che sia uomo o che sia donna, non so chi sto cercando.” Si fece più vicina a lui, sussurrando piano “Tu sei la sola persona al mondo, a parte Camilla, che sa di me cose che i più non sanno.” Non ci fu bisogno di aggiungere altro “Non c’entra con … Loro. Centra con mio marito. Io credo che Girolamo non sia davvero chi dice di essere. Il tarlo del dubbio mi sta uccidendo.” Scese anche gli ultimi gradini, prima di infilarsi sotto ad un portico, appoggiandosi ad una parete, nascosta insieme ad orso da un’alta pila di legna da ardere “Inizio a credere che la sua parentela con il Papa sia fasulla. O di tutt’altra natura. Ma non so come.”
“Credete sia di famiglia ebrea?”, le chiese Orso, facendosi perplesso, mentre si affiancava a lei. “Non l’ho mai notato, qui in giro. E poi alla taverna se ne parlerebbe di certo”.
La guardò un istante in volto, poi si imbronciò un poco, chiudendosi in chissà quale ragionamento. Naturalmente nessuno poteva saperne nulla. Non avrebbe avuto senso il contrario. Girolamo era bravo a sapere i segreti degli altri quanto a celare i propri.
“Avete detto di sapere molto poco circa la persona che state cercando”, considerò il giovane. “Non sapete chi sia, né che aspetto abbia. Sapete almeno il suo nome?”
Beatrice portò le mani alle tempie, sentendo delle piccole fitte “Vi posso solo dire che, prima di morire, un uomo del quale mi fidavo  mi ha detto che se avessi saputo la verità su Girolamo, non mi sarei mai più fidata di lui.”
Ricordare il nome preciso fu difficile, ma Beatrice si impegnò.  Ricordò il volto di Brancacci, stravolto dalla sofferenza, mentre la metteva a parte di questo grande segreto. I suoi occhi brillanti, spenti per sempre di ogni luce…
Abramo Lisymachus” soffiò fuori, guardando poi Orso costernata “Non so altro. Deduco sia ebreo, dal cognome, ma potrebbe anche non esserlo e allora avrei fatto tutto questo per nulla, vi avrei coinvolto per niente.”
Il ragazzo rimase un istante a guardarla, con il suo mezzo sorriso ancora sul volto ma spento, spezzato, rubato. Guardò Beatrice sbattendo più volte le palpebre.
“Abramo Lisymachus”, ripeté, perplesso.
La reazione di Orso parve molto strana agli occhi della Contessa. Lo guardò senza capire “Questo nome vi dice qualcosa, per caso?”
Alzò una mano, scostando con un gesto leggero una ciocca di capelli dal viso del giovane.
“Sembrate quasi…. Turbato, ma stranito insieme.”
Orso si riprese con una scrollata di capo.
“Non sono turbato solo … “ si prese un istante per cercare le parole esatte. “Bé, non capita tutti i giorni che Beatrice de’ Medici faccia visita alla mia famiglia”.
La ragazza boccheggiò per qualche istante, corrugando la fronte “La tua… Orso!”
Con un ringhio mezzo frustrato, Beatrice portò le mani al volto, appoggiandosi al muro dietro di lei.
Iniziava a detestare le coincidenze, che una alla volta si accavallavano nella sua mente. Quella era davvero una di troppo.
“Essere me è un incubo.” Sussurrò, devastata. Non voleva mettere in mezzo nessuno a cui orso era affezionato “Forse dovrei tornare a casa.”
“Che c’è? Che ho detto?”
La mano di Orso le afferrò il polso, costringendola ad avvicinarsi a lui in un abbraccio.
Le accarezzò piano i capelli, intrecciando le dita con qualche ciocca che sfuggiva da sotto il cappuccio.
“Vieni”, le disse dopo un po’ il ragazzo. “Si gela, qua fuori. Visto che non c’è Porpora, abbiamo qualche possibilità che mio zio ci lasci entrare in casa a scaldarci”.
 
~˚~˚~˚~
 
Beatrice non s’era mai sentita così tanto sola in tutta la sua vita.
Quell’infausta sensazione s’era palesata per la prima volta nell’esatto istante in cui, dopo giorni di attesa, le erano giunte notizie del marito.
Una lettera sgualcita dal messo, lunga e tortuosa, che però non voleva dire nulla le fu recapitata che era quasi notte inoltrata. Lei aveva passato quelle che dovevano essere ore di sonno a leggerla e rileggerla, sperando di trovarvi un senso che non v’era.
Non le chiedeva nulla, ne come stave Alessandro ne della sua stessa salute.
Parlava per parabole e metafore come sempre, congratulandosi dell’aministrazione di Forlì e dell’egregio modo in cui lo faceva sentir fortuna d’aver sposato una così pia donna.
Non sembrava nemmeno che parlasse di lei, a dire il vero.
A nove giorni dalla sua partenza da Firenze, aveva scritto tanto per non dir nulla.
La cosa la mise così tanto di cattivo umore che non rispose nemmeno.
Per altro, Girolamo non aveva fatto altro che discorrere di frivolezze, come di ciò che avveniva a Roma, al primo erede che Giacomo avrebbe avuto di li a poco fino al tempo.
Se prediligeva discorrere delle condizioni climatiche favorevoli rispetto che di suo figlio, allora la contessa non aveva nulla da aggiungere.
Appallottolò la lettera, sentendosi poi incredibilmente triste nel farlo, così semplicemente la dispiegò di nuovo, ficcandola dentro a un grande tomo di letteratura classica per lasciarla lì.
Però perseverò nel non rispondere.
La sola cosa degna di nota che la giovane donna trovò fra quelle righe fu la promessa del conte di tornare a Firenze, il prima possibile. Non una sola nota circa il fatto che l’avrebbe riportata a casa con sé o che bramava vederla.  O un solo cenno al modo in cui era stato cacciato dalla città, non sembrava ne indignato ne adirato.
Non era affatto interessato, invero.
Era chiaro come il sole che non gli importasse assolutamente nulla del suo benessere, così ella non si sentì ispirata al fine di informarlo.
Aveva di meglio a cui pensare, come il fatto che ancora Lorenzo si rifiutava di ricervela. Ad ogni richiesta che la giovane faceva, si sentiva rispondere con ogni sorta di scusa da parte di Gentile Becchi. Quasi come se di fronte a lui si trovasse ancora la bambina dagli occhi grandi che aveva visto diventare donna troppo in fretta.
Beatrice, da parte sua, tendeva a comportarsi come un infante, qualora si alterava ad ogni porta che le veniva chiusa in viso.
“Con chi è, ora? Con il viso infilato negli affari di stato o fra le gambe della sua troia??”
Becchi non sapeva più che dirle, così semplicemente si scusava e la pregava di non alterarsi.
Era ridicolo, davvero ridicolo.
Anche Giuliano non capiva il motivo di tutte quelle scena, ma si sapeva fin troppo bene che Lorenzo non era in grado di gestire i moment di crisi e prediligeva un capro espiatorio.
Quell pomeriggio non fece eccezione, poiché quando Beatrice si presentò alla porta dello studio, Becchi la pregò di non disturbare il Magnifico.
Aveva però qualcosa, in serbo per lei.
“Avete una visita, Beatrice.  Un uomo distinto, che dice di essere un noto commerciante di Costantinopoli in trattative con la vostra Forlivio, ha chiesto di vedervi. L’ho fatto accomodare nella sala dei ritratti.”
La contessa non capì a cosa il segretario fiorentino si stesse riferendo, ma quando mise piede nella stanza, si sentì incredibilmente stupida.
Abbassò gli occhi sulla pavimentazione di marmo ad arabeschi, unendo poi le mani sul grembo mentre un sorrisetto amaro le appariva sul viso. Quando riportò lo sguardo in quello di Al Rahim, si domandò quanto sfrontato dovesse essere quell’uomo per presentarsi a casa sua.
“Potete lasciarsi, Becchi. Io e il mio buon amico abbiamo di che parlare, ora.”
 
 
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“Zio! Aprite!”
Dall’interno della casa provenne un lieve fruscio di vesti, seguito dal pianto stridulo di un bambino. Orso sbuffò. “Zio, sono Orso”, ripeté, calmo. “Da solo, più o meno.” Mise la mano nel mantello e fece tintinnare qualche moneta che portava nella tasca.  “Fa freddo, qui fuori e …”
Non arrivò a terminare la frase che la porta si aprì, invitando seppur poco cordialmente i due giovani a entrare.
Orso scoccò un’occhiata fugace a Beatrice, facendole cenno di stargli vicino.
Beatrice non se lo fece di certo ripetere, portando una mano a stringere il tessuto ruvido della sua cappa grigia.   “Orso…” sussurrò appena, chiedendogli con gli occhi chi delle persone presenti fosse il suo obiettivo.
Arrivati nell’unica stanza della casa, Orso indicò con un cenno del capo il vecchio uomo che li osservava nascosto nella penombra, armato di una candela accesa e di un’espressione tutt’altro che rassicurante. Sulla destra, una donna sfrecciò sulle scale di legno, sparendo al piano superiore da cui proveniva il pianto di un bambino.
Orso sospirò.
“Zio”, esordì, prendendo posto al tavolo di legno e invitando Beatrice a fare lo stesso. “Abbiamo bisogno di te”.
La ragazza prese posto, ringraziando il Signore. Le caviglie la stavano uccidendo. Volse uno sguardo a quell’uomo dall’aria tetra, rimanendo in un educato silenzio, in attesa anche di un solo cenno. Questi, inizialmente, non la degnò di uno sguardo.
Si limitò a fissar male il nipote, sussurrando qualche parola che la giovane non capì. Poi notò il pancione e subito si rivolse ad Orso “Se siete qui in cerca di soldi perché avete ingravidato questa meretrice, allora potete anche andarvene, Vallesanta.”
La contessa storse il naso, indecisa se dire o meno chi fosse in realtà.
“Non sai chi hai dinanzi”, rispose Orso, apparentemente calmo e per nulla scosso dai modi bruschi dello zio. “Non parli con la madre di mio figlio, ma con Madonna de’ Medici, sorella del Magnifico, moglie del Conte Riario. Moderna i termini, sei in presenza di una signora!” Sorrise appena, voltandosi verso Beatrice con fare rassicurante. In quell’istante, Orso pareva tutto fuorché intimorito.
La ragazza sorrise quasi timidamente, un po’ in soggezione per tutta quella scomoda situazione. La famiglia di Orso, messa così in mezzo ai suoi affari.
Non le piaceva per nulla.
Di contraccolpo, il vecchio Lisymachus sbiancò. Guardò la donna come se si fosse trovata innanzi un fantasma e balbettò qualcosa in ebraico.
Lei non capì, ma Orso sì.
“Sono qui per chiedervi un favore e sono disposta a pagar bene il vostro aiuto.” Iniziò Beatrice, incrociando le mani sul tavolo, dopo aver abbassato il cappuccio dal capo.
Il vecchio guardò verso Orso, il quale annuì commentando con un paio di parole in ebraico dal tono gentile. “Va tutto bene”, disse poi, sorridendo appena. “E’ un’amica”.
Suo zio gli scoccò un’occhiataccia. “Ed è esattamente questo che mi preoccupa, Vallesanta”.
La Contessa lo guardò stralunata, prima di corrugare la fronte, non capendo “Io non sono qui per fare del male a nessuno.” Disse, appoggiandosi una mano sul cuore come se stesse giurandolo “Tengo molto ad Orso, e mi duole recar torto alla sua famiglia, ma necessito di risposte.”
Prese dalla mantella un sacchetto pieno di monete d’oro- quella che aveva tenuto dal furto in Vaticano-, e lo passò all’uno.
“Teneteli, sono venti ducati d’oro. Potrete averne altri, se mi darete delle risposte.”
L’uomo sospirò, mostrandosi seccato ma non disdegnando di far sparire sotto la sua mantella il denaro appena ricevuto.
“E sia”, concesse, sedendosi al tavolo per incrociare le braccia sul petto. “A quale domanda devo rispondere, mia Signora?”
Non mancò di lanciare l’ennesima occhiataccia a Orso, che nel frattempo si era perso a curiosare qua e là con lo sguardo.
La ragazza deglutì un paio di volte, prima di prendere un respiro profondo “Tempo fa, una persona a me molto cara, mi disse che mio marito non era l’uomo che io credo che sia.”
Abbassò gli occhi sulle venature del legno, cercando di non pensare a cosa potessero pensare di lei i due uomini nella stanza.
Per quanto ella sapesse di amare Girolamo, ma non si fidava.
“Non ha detto altro. Se non che voi mi avreste  detto chi si nasconde dietro al Conte Girolamo Riario.” Riportò gli occhi in quelli di Lisymachus “Quindi vi domando questo: cosa sapete su mio marito?”
In un istante, Orso parve tornare alla realtà.
Abbassò lo sguardo sul tavolo di legno e si rabbuiò, stringendo i pugni mentre apriva appena la bocca.
Suo zio lo richiamò con un paio di parole in ebraico, e stavolta nel suo tono parve mettere della sentita preoccupazione.
Per risposta, Orso non tolse gli occhi dal tavolo.
“Lo so”, si limitò a commentare, sottovoce, quasi nessuno dovesse udire.
Beatrice li guardò senza capire e, di istinto, appoggiò la mano su quella di Orso sul tavolo, ma l’uomo davanti a lei non le diede il tempo di chieder nulla.
“Siete venuta in casa mia a domandarmi cose che potrebbero non compiacervi affatto, Madonna de’Medici.” Commentò, guardandola incerto. “Siete certa che volete davvero sapere? Alle volte, l’ignoranza è amica del sonno, mentre la conoscenza del tormento.”
“Preferisco essere una donna tormentata, che non sapere chi ho sposato, Signor Lisymachus.”
 
~˚~˚~˚~
 
Zita era esausta, inginocchiata ai suoi piedi, col volto rigato da centinaia di lacrime e il capo fiaccamente appoggiato contro alla sua gamba, come un cucciolo in cerca delle attenzioni del padrone.
Girolamo non faceva nulla, per consolarla.
Teneva fra le mani quello che sembrava uno straccio bianco, stretto nel pugno come se volesse usarlo contro qualcuno per ferirlo, in qualche modo.
Il viso contorto da una smorfia di puro disappunto e la collera a bruciare le sue iridi di miele, infiammandole.
Non era certo di cosa gli provocasse più disagio, se i singhiozzi bassi dell’abissina, che ormai si erano fatti sempre più sporadici, oppure se la totale assenza di risposta da parte di Beatrice.
Aveva sempre giudicato sua moglie molto più intelligente di quanto non fosse, dunque?
Se non aveva risposto, però, c’era da porsi due domande: aveva compreso che le sue missive verso di lei erano controllate dal Papa in persona oppure semplicemente s’era offesa perchè lui non le aveva detto quasi nulla?
Di nuovo, Girolamo confidò nel suo buon senso e nel suo cervello, poiché non vi era altro modo per comunicare con lei. Non prima del suo viaggio a Firenze, programmato per il giorno successivo, che però non si sarebbe rivelato un soggiorno di piacere.
Tutt’altro.
Con un sospiro, poggiò la mano sui capelli di Zita, che alzò il viso per guardarlo, incontrando il suo sguardo.
La serva aveva gli occhi tristi, quello sinistro gonfio e livido; il labbro inferiore, carnoso e bello, era solcato da una piccola frattura laddove uno schiaffo l’aveva rotto.
Eppure la notte passata col Santo Padre non pareva aver scalfito il suo orgoglio. Teneva la testa alta, quasi come a sfidare il suo padrone a proferire parola.
Girolamo spostò lo sguardo, sorridendo appena.
Il padre stava cercando di distruggere quel poco di genuino che aveva nella sua vita, così come aveva sempre fatto.
Lupo era stato molto chiaro circa i provvedimenti che avrebbe preso contro Beatrice, se questa non fosse ritornata a Roma il prima possibile. Girolamo sapeva che ormai il Santo Padre era stanco e che bastava una parola per condurla al rogo.
Meno di una parola, uno stizzito cenno con la mano sarebbe stato più che sufficiente.
Forlì doveva dare un appoggio alla Santa Sede, in caso di Guerra. Un appoggio verbale e con testimoni, preferibilmente Lorenzo de’Medici sarebbe dovuto essere tra costoro.
Con un gesto deciso, allontanò Zita, che ricadde seduta sul pavimento freddo, senza fiatare. Si alzò, quindi, afferrando un paio di fogli appoggiati sulla scrivania, lasciando scorrere lo sguardo su di essi prima di avvicinarsi al camino. Lasciò cadere quella lettera, che mai sarebbe stata spedita, sulle braci ormai spente, prima di appoggiarsi con entrambe le mani al camino.
“Va a preparare la cena, Zita. Stasera avremo Mercuri a farci compagnia.”
Non una sola parola.
La sentì semplicemente alzarsi in piedi e lasciare le sue stanze, tenendo fra le mani la camicia da notte che l’aveva coperta solo nel tragitto da Castel Sant’Angelo a villa Orsini.
Impotente, Riario comprese che il solo modo che aveva per proteggere coloro che amava era tenerli lontani da sè.
In particolare suo figlio, poiché non avrebbe mai permesso che Alessandro sarebbe divenuto, al pari di lui, un galoppino della Santa Sede.
Nessuno lo meritava.
Prese un fiammifero dalla tabacchiera di madreperla appoggiata sul camino, lanciando uno sguardo alla finestra.
Avrebbe tenuto quella maschera di strafottente apatia sul viso, mentre il suo cuore moriva giorno dopo giorno.
Però avrebbe fatto ciò che era giusto, così come quando aveva deciso quale delle due lettere che aveva scritto sarebbe finite fra le mani di Beatrice.
Il fiammifero acceso cadde sulle pagine colme di verità per sempre celate, bruciandole affinché nessuno potesse leggerle.
‘….per questo e per altri motive, ti prego di andare a Forlì immediatamente, laddove non ti potranno far nulla…. T’ho pensata e per la tua salvaguardia devi capire il motive per il quale, d’ora in avanti, non potrai più vedermi…’
Impotente, fissò i suoi sentimenti bruciare e diventare ciò che erano nati per essere. Cenere.
Il presente non l’avrebbe mai definito, come ormai il suo passato e i suoi segreti avevano fatto. Non aveva vie di salvezza, poiché aveva un compito più alto da portare a termine.
Sapeva, però, che avrebbe provato in eterno il rimorso per quell ‘ti amo’ mai scritto, in nessuna delle due version della lettera.
 
 
 
 
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Beatrice iniziava a perdere la pazienza. Il discorso non pareva aver ne capo ne coda e Orso sapeva che di li a poco, la giovane donna si sarebbe stancata. Con un sospiro, ella riprovò  “Di chi è figlio Girolano,  se dei Riario ha solo il cognome?” ormai era quello il punto della discussione, fatto di contraddizioni continue.
L’anziano uomo sorrise ancora di più, traboccante di divertimento “Ma di Sua Santità il Papa Sisto IV, naturalmente. Chi se no? Anche se, invero, non è figlio di alcun Papa scelto da alcun concistoro.”Si concesse una risata profonda, notando quanto la ragazza pareva essere sull’orlo di un collasso nervoso. Si alzò e prese un paio di fichi, posandoglieli davanti insieme ad una tazza sbeccata piena di acqua.
“Questi vi serviranno, Madonna. Ora dobbiamo parlare della madre.”
Beatrice prese in mano un fico, scuotendo piano il capo, senza forza “Non può di certo esser peggio del padre. Questa notizia mi sconvolge nel profondo e neppure ne comprendo a pieno la verità celata. Figlio del Papa che non è il Papa, è così intricato da portarmi un gran mal di testa.”
“Ed è solo l’inizio.” L’uomo riprese posto, guardando però il nipote e non l’illustre ospite “La madre del Capitano Generale dell’esercito di Santa Madre Chiesa altri non è che un’ebrea. Una poveraccia, un’infedele. Mia sorella, Celia. Lei ha messo al mondo quel mostro, empio e crudele.”
Prima che Beatrice avesse modo di rispondere, Orso scattò in piedi, tanto pallido da sembrare un morto.
“Zio, tu vaneggi!”, esclamò, con la voce acuta e stridula di chi fa fatica a mantenere il controllo. “Dì un po’”, aggiunse poco dopo, ridacchiando nervosamente. “Quante pinte ti sei scolato, alla taverna?!”
“Stasera? Due.” Ammise accondiscendente l’uomo, prima di guardare il nipote diritto negli occhi “Ma non vi è menzogna nelle mie parole; la donna che ti ha messo il mondo ha fatto molto più di due errori. Celia è la madre di Girolamo, costretta a lavorare come serva per poterlo veder crescere. Quando è scappata, ha conosciuto tuo padre. Il resto della storia mi pare che lo conosci, Orso. Secondo te, perché è morta? Che bugia ti ha raccontato tuo nonno?”
Orso deglutì pesantemente.
“Hanno dato il ghetto alle fiamme”, rispose, balbettando. “C’eri anche tu, quella notte, ad implorare il perdono delle guardie”. Digrignò appena i denti, battendo una mano sul tavolo talmente forte che le pareti parvero tremare. “Mia madre e mio padre se li sono presi le fiamme”, sibilò. “L’unico fratello che avevo, è morto sotto le travi di casa tua”
“E chi ha appiccato il fuoco? Buon Dio misericordioso, ragazzo, ragiona!” anche l’anziano si alzò in piedi, fronteggiando il nipote “Ti ricordi quanto tempo fa è avvenuto? Ti ricordi che cosa è successo qualche giorno prima? Francesco della Rovere è diventato Papa! Usa il cervello per una buona volta, Vallesanta! È stato un omicidio bello e buono!”
Beatrice portò le mani alla bocca, incapace di emettere suono.
Guardò quell’uomo tanto crudele da divertirsi nel portare brutte notizia, mentre questi alzava un braccio ed indicava il pavimento. “Gli sgherri di della Rovere l’hanno decapitata proprio in quel punto.” poi spostò gli occhi verso la contessa, disgustato “Perché mia sorella aveva messo al mondo un vero demonio.”
Orso grugnì, ma trovò la calma necessaria per riprendere posto accanto a Beatrice.
La guardò, un po’ stralunato.
“Mi dispiace”, borbottò, voltando il capo verso lo zio, il quale ricambiò l’occhiata con uno sbuffo divertito. “Non ne avevo idea.”
“Oh, nemmeno io, fidati.” Replicò la contessa, prima di portare le mani alle tempie. “Ricapitoliamo.” Sussurrò, non troppo convinta di volerlo fare, ma decisa a chiudere quell’incresciosa situazione “Mio marito è figlio del Papa, che però non è, e di un’ebrea che è anche la madre di Orso e Porpora di Vallesanta. Una cosa davvero semplice da digerire.”
Beatrice voleva solo alzarsi e scappare, ma sapeva che sarebbe caduta in terra se solo avesse provato ad alzarsi.
“Chi lo sa, eccetto voi e Sua Santità?”
Lisymachus ci pensò su “Il Prefetto Mercuri. Ha accompagnato qui Girolamo, quando come voi, è venuto in cerca di informazioni.”
“Quindi mio marito sa tutto?!”
“Sì, Madonna. Anche di più, a mio avviso.”
“Cosa sa più di noi?”, chiese Orso, sospirando rumorosamente con le mani incrociate sul petto. “O, meglio. Cosa c’è in più da sapere?”
Piantò lo sguardo su suo zio e da lì non lo mosse, scuro in volto e oltremodo alterato, sebbene ciò non trasparisse dal suo tono.
Lisymachus però parve avvertirlo, visto che prese appena le distanze, sporgendosi con il busto indietro “La sorte di tua madre per quasi quindi anni alle dipendenze dei Della Rovere. L’ha cresciuto lei e per lui non è stata altro che una serva. Eravamo la famiglia ebrea più ricca di Savona, prima che lei rimanesse incinta. Poi abbiamo perso tutto e lei è sparita. Quando è tornata, non era più la stessa di un tempo.”
Orso strinse i pugni sul tavolo, chiudendo gli occhi.
Scandì bene le parole e per un istante fu come se la rabbia esplodesse dalla sua bocca.
 “Perché non era la stessa?”, sibilò, tagliente.
Beatrice lo guardò impotente, ferma e diritta su quella sedia come una statua di sale.
Era troppo sopraffatta, per poter dire qualcosa.
Poi non c’era nulla da dire, quanto meno non da parte sua.
Il padrone di casa, per la prima volta, si concesse un’espressione più umana. Sospirò tristemente, prima di sussurrare con tono basso e affaticato “Perché deve aver patito quindici anni di inferno, soprattutto grazie a quel figlio che non ha mai smesso di amare fino a che non è morta.”
“Ti sbagli”.
Orso mormorò quelle parole alzandosi dalla panca su cui si era accomodato pochi minuti prima, muovendo un paio di passi verso la porta.
Pareva distante, amareggiato, probabilmente furioso.
“Mia madre amava me e mia sorella”.        
Voltò le spalle a suo zio e a Beatrice e lasciò l’abitazione, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
Dal piano di sopra, il bambino ricominciò a strillare.
La Contessa si alzò a sua volta molto, molto lentamente “Dovrei andare anche io. Vi ringrazio,  farò in modo che abbiate ciò che desiderate tramite Orso, in qualche modo…. Ora voglio solo andare a casa e pensare.”
Lisymachus la prese per il polso, trattenendola senza però far forza. “Aspettate, voglio che prendiate una cosa.” L’anziano si alzò, prendendo da un cassetto una vecchia lettera stropicciata. “Questa l’ha scritta mia sorella, qualche giorno prima della sua morte. In un certo senso, lei se lo sentiva. Lei sapeva sempre tutto.”
La Contessa la prese fra le mani, guardando la carta ingiallita dal tempo. Sulla busta non vi era scritto nulla, se non il nome ‘Girolamo’ in un corsivo stretto ma elegante.
“Perché la date a me?”
“Bruciatela, o datela a vostro marito. Leggetela voi se lo desiderate, ma io qui non la voglio più.” Le rivolse uno sguardo stanco “Dandola a voi, rispetto il giuramento che feci a Celia, ovvero di attendere che Girolamo venisse qui a chiedere di lei per fargliela avere. Lui, anni fa, non ne volle sapere. Ora, magari, servirà a voi o a Orso.”
Beatrice la strinse al petto, sentendo il cuore batterle in gola “Mi duole l’aver richiamato in voi pensieri così cupi.”
“Non mi hanno mai abbandonato.” La corresse subito l’uomo, prima di ammorbidire la voce “Adesso vi prego di andare. Dobbiamo entrambi riposare. Non fatemi avere altro, domani non sarò di certo qui ad aspettare la lama di vostro marito.”
“Vi ringrazio nuovamente, Lisymachus. Buona fortuna.”
“Buona fortuna a voi, Madonna. Ne avete molto più bisogno di me.”
Non attese altro.
Con gran sollievo, Beatrice uscì di nuovo nel fresco della notte, sempre stringendo quella lettera come il più prezioso dei tesori. Cercò nel buio il suo accompagnatore, trovandolo appoggiato al bordo di un pozzo, con il capo incassato tra le spalle.
Si avvicinò, accarezzandogli la schiena piano “Orso..?”
Lui non si voltò, restando a fissare il buio del pozzo dinanzi a sé.
Tremava, tanto era scosso.
Rimase in silenzio a contemplare la notte, dopodiché trasse un profondo sospiro e si decise a parlare.
“Di una cosa vi prego, Beatrice”, esordì, prendendo a camminare nella direzione da cui erano arrivati. “Non fatene parola con Olivieri, quando lo incontreremo. Mia sorella non deve saperne niente”.
Quella sera, con gli occhi,Beatrice lo promise. Sarebbe morto con loro due, quel segreto. Non sapeva, però, che per Orso sarebbe stato davvero così.
 
 
 
 
Make you thinks she means it this time
She'll tear a hole in you, the one you can't repair
But I still love her, I don't really care

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