Babylon di Martyx1988 (/viewuser.php?uid=51220)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La Colonna ***
Capitolo 2: *** L'Angelo ***
Capitolo 3: *** Ombre dal passato ***
Capitolo 4: *** Verso il Santuario ***
Capitolo 5: *** Gemelli ***
Capitolo 6: *** Synagein ***
Capitolo 7: *** I bambini di Rodorio ***
Capitolo 8: *** Che cos'è l'amore? ***
Capitolo 9: *** Lacrime e Malinconia ***
Capitolo 10: *** Dal tramonto all'alba ***
Capitolo 11: *** Accompagnatore cercasi ***
Capitolo 12: *** Sabotaggi e contro-sabotaggi ***
Capitolo 13: *** Sovraccarico ***
Capitolo 14: *** Petali di ricordi ***
Capitolo 15: *** Bambini in fuga ***
Capitolo 16: *** Gioco di ruoli ***
Capitolo 17: *** Missioni impossibili ***
Capitolo 18: *** Rose, spine e veleni ***
Capitolo 19: *** Fili di legami ***
Capitolo 20: *** Incubi ***
Capitolo 1 *** Prologo - La Colonna ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
Prologo – La Colonna
Un silenzio tombale era
sceso sulla grande sala, talmente cupo che parve oscurare il sole, i
cui raggi erano liberi di illuminare l’ampio ambiente
passando per
il lucernario sulla volta. Ma nemmeno il suo caldo chiarore era in
grado di scacciare le tetre preoccupazioni che in quel momento
tormentavano la mente del giovane uomo seduto sullo scranno
d’oro
in fondo alla sala.
Il gomito poggiato sul
bracciale, la mano alla fronte a coprire gli occhi fissi e quasi
vuoti di speranza, la chioma bionda a nascondere il resto del volto
alla vista di altri, l’uomo tentava in tutti i modi di
trovare una
soluzione a quella tragica notizia appena arrivatagli.
Mai avrebbe pensato che
qualcosa sarebbe arrivato a distoglierlo dal suo obiettivo primario.
Ma mai, sapeva anche, era una parola pesante e da
usare con
parsimonia, proprio come egli aveva mancato di fare.
E ora iniziava a subirne
le conseguenze, talmente gravanti da costringerlo a fare una cosa che
gli bruciava fare: tornare sui suoi passi. Si giustificò al
pensiero
che lo faceva per amore della sua grande e potente famiglia, la cui
memoria non voleva venisse dimenticata o rilegata in qualche borioso
libro che il tempo avrebbe consunto.
Già pochi erano quelli
che si ricordavano dei loro nomi, delle loro imprese, del loro
potere. Ancora meno quelli che decidevano di servirli fedelmente.
Altri nomi, altre famiglie erano nate per prendere il loro posto, per
essere ricordate, le loro azioni esaltate, i loro insegnamenti
tramandati.
Per questi nomi, alcuni
avevano infine deciso di agire, di minacciare. Magra consolazione gli
portò il pensiero che, alla fine, erano soltanto nomi.
Zeus sospirò e riprese
la posizione eretta sul trono che gli si confaceva, puntando lo
sguardo dorato sul suo messaggero. Hermes aveva portato la funesta
ambasciata più velocemente possibile, quindi aveva atteso
paziente
la decisione finale del suo signore. Nulla trapelava dalle iridi
color del fulmine del re degli dei, i muscoli del viso non
accennavano a dare al volto severo un’espressione
decifrabile, il
respiro regolare non ingannava nessuna agitazione.
“Porta Apollo e
Artemide al mio cospetto” ordinò secco. Hermes non
si perse in
inutili considerazioni e sparì fulmineo oltre
l’apertura sulla
volta.
In breve fu di ritorno,
entrando dal pronao affiancato dalle divinità che il suo re
desiderava vedere.
I divini gemelli si
inchinarono al suo cospetto, figli devoti di un sovrano che stava
perdendo il suo regno.
“Alzatevi”
comandò
Zeus, ed essi eseguirono.
“Cosa comanda il padre
degli dei?” domandò Apollo reverente.
Zeus volse però lo
sguardo alla sorella.
“Che ne è
stato del
Santuario di Atene?” le chiese.
“L’ho
lasciato, come
voi avete ordinato, dopo lo scontro con Atena e i suoi Cavalieri.
Adesso è nelle mani degli esseri umani che ivi sono rimasti,
fedeli
ad una dea che non vi ha fatto ancora ritorno”
Dalle parole di Artemide
trapelò il fastidio per il fallimento della sua missione
sulla Terra
e la sconfitta riportata contro la sorellastra, senza dubbio la
favorita di Zeus.
“E la
colonna?”
indagò ulteriormente il dio.
“Intatta, mio signore.
In quanto artefatto divino, non può essere scalfita da
alcunché e
il suo contenuto è rimasto quindi imprigionato in
essa”
“Perdonatemi, divino
Zeus” si intromise Apollo “Ma possiamo sapere a
cosa queste
informazioni sul Grande Tempio vi servano?”
“Il tempo per le
spiegazioni è poco, quello per agire ancora meno”
rispose Zeus,
volgendo lo sguardo sulla divinità del Sole “Per
ora sappiate che
le vostre sorelle sulla Terra sono in grave pericolo e che se la
minaccia che al momento incombe su di loro non sarà arginata
in
tempo, è possibile che raggiunga anche
l’Olimpo”
“Ma è
impossibile!”
obiettò Apollo “Nessuno è mai riuscito
a scalare l’Olimpo
contro la volontà degli dei”
“I tempi del mito sono
finiti, figlio mio” ribatté greve Zeus
“Nuovi nemici premono
alle nostre porte, ben più potenti di quelli di allora.
L’era
della supremazia di noi olimpici sta volgendo al termine e le
continue reincarnazioni ne sono una dimostrazione. Ma là
fuori c’è
qualcuno che non solo vuole toglierci il potere, ma persino
l’immortale vita”
I gemelli ammutolirono di
fronte a quel presagio nefasto che fece crollare tutte le loro
certezze. Era quasi impossibile credere alle parole di Zeus, ma il
barlume di apprensione che infine trapelò dai suoi occhi li
convinse
che era tutto vero.
“Tuttavia
un’azione
tempestiva può andare a nostro vantaggio. Il nemico
è ancora acerbo
e, secondo le mie riflessioni, procederà per tentativi prima
di
organizzare un attacco studiato e deciso. È fondamentale
estirpare
il male prima che cresca troppo e acquisisca sicurezza”
“Come fare, allora, mio
signore?” domandò Artemide, turbata.
“Attaccheranno sul
fronte più debole, sulle reincarnazioni, sulle
divinità in Terra, e
lo faranno di sorpresa. Intervenire di persona ci esporrebbe troppo.
Serve perciò inviare in soccorso delle vostre sorelle coloro
che più
si avvicinano a noi in potenza”
“Divino Zeus, non
vorrete…”
“Sì, Apollo.
È mio
volere che la colonna venga distrutta, e che siate voi a
farlo”
Una calma quasi irreale
regnava al Grande Tempio, devastato dalla furia degli Angeli di
Artemide e ormai irriconoscibile. Quel luogo di gloria e potenza non
era altro che un cumulo di macerie tra le quali camminavano lenti gli
ultimi guerrieri rimasti. Pieni di volontà avevano deciso di
restare
e di piegare le loro schiene affinché il Tempio tornasse al
suo
antico splendore, con le Dodici Case a svettare su tutti gli altri
edifici e i loro futuri custodi sulla soglia.
Di quelli precedenti non
era rimasto che quell’inquietante colonna al centro
dell’area
occupata dal Santuario, eretta a monito dagli dei per ricordare la
punizione inflitta a chi osa ribellarsi al loro volere.
In molti avevano pregato,
pianto, semplicemente atteso sotto gli sguardi di pietra dei volti
dei Cavalieri d’Oro, nella speranza che un giorno la loro
memoria
fosse ristabilita e che altri prendessero e onorassero il loro posto
alle Dodici Case.
Marin dell’Aquila
poggiò una mano guantata sulla parete liscia della colonna,
il volto
mascherato sollevato a guardare uno solo dei volti, per non
dimenticarne mai le fattezze. Molti mesi erano passati da quando i
dodici guerrieri si erano sacrificati sotto il Muro del Lamento,
nelle profondità degli Inferi, ma per lei il dolore era
ancora
bruciante.
Un potente cosmo alle sue
spalle la fece voltare di scatto, pronta ad un eventuale
combattimento, ma i suoi muscoli si rilassarono subito a sentire le
parole di pace della dea Artemide.
“Ferma, donna, non sono
bellicose le mie intenzioni”
Ben presto accorsero in
molti alla colonna, richiamati dal potente cosmo della dea. Marin si
affrettò a placare gli animi più irruenti. Dal
gruppo si fece
avanti Shaina, coperta dall’armatura di Ophiuco, per
esprimere con
un’unica voce il dubbio di molti.
“Qual è il
motivo del
vostro ritorno, dea Artemide?”
Lei e gli altri Cavalieri
che un tempo erano stati devoti ad Atena erano passati sotto il suo
comando una volta che Artemide aveva preso in mano il potere sulla
Terra, ma l’unico motivo per cui l’avevano fatto
era la totale
devozione alle dea della giustizia, il cui volere non andava
discusso, anche se contrario ai loro principi. Per Shaina era stato
doloroso attaccare Seiya, ma non aveva avuto altra scelta.
“Non intendo occupare
nuovamente il tempio” esordì la dea, distaccata
“Eseguo solo gli
ordini del divino Zeus, poi di me non vedrete più neanche
l’ombra”
L’uditorio
ammutolì
quando Artemide allargò le braccia e un piccolo arco con una
freccia
incoccata comparve davanti a lei, puntando la colonna.
Marin si affrettò ad
allontanarsi quando il dardo venne scoccato. L’esile punta
perforò
la possente colonna da parte a parte e una profonda crepa la
venò
lungo tutta l’altezza, andando a crearne altre più
piccole in
un’infinita ragnatela che, infine, esplose in un accecante
bagliore
di luce.
I presenti furono
costretti a ripararsi gli occhi e, una volta cessato il bagliore, si
meravigliarono di cosa aveva rivelato.
Artemide sembrava
scomparsa, così come la colonna, di cui neanche un piccolo
frammento
era rimasto. In compenso, tutt’attorno al luogo in cui si
trovava,
immersi in un liquido viscoso e trasparente, stavano i corpi nudi dei
Cavalieri d’Oro.
“Non è
possibile”
esclamò qualcuno.
“È un
miracolo” gli
fece eco qualcun altro.
Marin non disse niente.
Lo stupore per ciò a cui aveva appena assistito le aveva
fatto
morire le parole in bocca. Non uno mancava all’appello, e
oltre ai
dodici custodi, anche il Gran Sacerdote Shion e Kanon erano tornati
in forma corporea.
La Sacerdotessa
dell’Aquila fu la prima che osò avvicinarsi con
discrezione agli
uomini, puntando verso la chioma castano chiara impregnata di quel
liquido viscoso simile all’amnios che le arrivava alle
caviglie. Si
inginocchiò e lo voltò delicatamente sulla
schiena, per poi
pulirgli il volto con un lembo della sciarpa che teneva in vita.
Quando glielo passò sul collo, non riuscì a
trattenere un grido
emozionato nel sentire che il battito carotideo era presente.
“Sono vivi!”
esclamò
allora, rivolta agli altri guerrieri.
“Presto, andate ad
aiutarli” ordinò severa Shaina, efficiente come al
solito. Lei
stessa andò a soccorrere i leggendari guerrieri.
Una volta eliminato il
liquido dal volto di Aiolia, Marin lo trascinò fuori dalla
grande
pozza in cui era stato immerso e ne coprì le
nudità con un telo che
qualcuno le porse. Al contatto con la terra scaldata dal sole, il
corpo del Cavaliere del Leone iniziò a contrarsi in piccoli
movimenti, quindi il petto riprese ad alzarsi e abbassarsi
ritmicamente col respiro e le palpebre si socchiusero, rivelando gli
occhi chiari e pieni di vita di Aiolia.
Nonostante quella nuova
nascita, al Cavaliere non sfuggì l’ombra che
incombeva sopra di
lui, non minacciosa ma amorevole. Volse lo sguardo alla sua padrona e
sorrise, gli occhi colmi di lacrime. Col tempo aveva imparato a
scrutare oltre la maschera e a carpire le emozioni che agitavano la
donna china su di lui. In quel momento era sicuro che anche lei
stesse piangendo di gioia.
Sollevò piano un
braccio
e con la mano accarezzò il freddo metallo della maschera fin
sotto
il mento. Con poca forza la staccò dal volto di Marin, come
aveva
previsto bagnato da copiose lacrime.
“Sei tornato”
sussurrò lei tremante “Non posso ancora
crederci”
“Nemmeno io, Marin.
Nemmeno io”
Di nuovo pieno di vigore,
Aiolia si sollevò da terra poggiandosi su un gomito, per
raggiungere
le labbra umide e salate della sua amata, per nulla preoccupato che
qualcuno potesse vederli. Gli dei gli avevano fatto grazia di una
nuova vita ed era deciso più che mai a viverla appieno.
In breve tutti i
Cavalieri si risvegliarono, non meno sorpresi del miracolo di cui
erano stati protagonisti dei loro soccorritori. Molti di essi
domandarono il motivo della loro resurrezione, ma nessuno seppe
rispondere.
“Artemide ha solo detto
che questo era il volere di Zeus” fu l’unica
spiegazione che Shaina fu in grado di dare a Shion, mentre gli forniva
degli abiti
per coprirsi.
“Zeus, hai
detto?”
domandò il Gran Sacerdote, subito sorpreso ma poi
preoccupato da
quella notizia.
Era stato proprio Zeus a
imprigionare lui e gli altri guerrieri nella colonna, per punirli
dell’affronto fatto al signore degli Inferi. Per quale motivo
aveva
infine fatto marcia indietro? Cosa aveva avuto il potere di mettere
in dubbio le azioni del re degli dei a tal punto?
Shion sollevò lo
sguardo
accigliato sull’amico di sempre che gli era seduto poco
distante.
Anche Dhoko aveva ascoltato le poche parole di Shaina e sul suo volto
era dipinta la stessa preoccupazione del Celebrante. Gli dei erano
rinomati per essere irremovibili nelle loro decisioni, e
quell’eccezione aveva un retrogusto amaro.
La risata mista al pianto
di un bambino di circa dieci anni spezzò momentaneamente la
tensione. Kiki corse a perdifiato in mezzo ai presenti, incurante di
chiunque urtasse, per gettarsi tra le braccia del suo fratello
maggiore, inginocchiato a braccia aperte e pronto ad accoglierlo.
Anche gli occhi di Mu dell’Ariete erano velati di lacrime e
non
tentò minimamente di frenare il pianto di gioia causato dal
rivedere
il suo fratellino.
Un sorriso si dipinse sul
volto di tutti i presenti davanti a quella scena commovente quanto il
bacio tra Aiolia e Marin di poco prima. Nessuno aveva osato
commentare né lo fece in quel momento, tutti erano
consapevoli di
quanto fosse doloroso vedere un legame profondo spezzato dalla morte
e quanta gioia portasse il vederlo improvvisamente ripristinato.
Un potente raggio di luce
andò ad illuminare lo spazio in cui erano raccolti i
Cavalieri e,
poco dopo, la luminosa figura del dio Apollo comparve al suo interno,
provocando scompiglio e suscitando mormorii preoccupati. Il dio
sorrise e alzò entrambe le mani in segno di resa.
“Calmatevi”
intimò
con voce chiara ai presenti “Come mia sorella non
è mia intenzione
recarvi offesa. Sono solo portatore di istruzioni per i Cavalieri
d’Oro”
I quattordici guerrieri
si riunirono attorno ad Apollo, in fremente attesa.
“Zeus ha deciso di
farvi grazia di una nuova vita per un motivo preciso”
iniziò “Una
nuova minaccia incombe sulla Terra, potenzialmente pericolosa anche
per l’Olimpo stesso. Siete dunque stati chiamati ad arginarla
prima
che divenga talmente grande e potente da travolgere le schiere
divine”
“Chi ci minaccia,
divino Apollo?” domandò Shaka di Virgo reverente.
“Non conosciamo
l’identità del nemico, ma in qualche modo siamo
riusciti a
carpirne i piani. I loro primi obiettivi sono le dee reincarnate che
dimorano sulla Terra, il fronte debole della resistenza olimpica.
Sarà un attacco a sorpresa che bisogna a tutti i costi
prevenire…”
“Aspettate…perdonatemi,
ma, avete detto ‘dee’? Chi altri si è
reincarnato oltre ad
Atena?” chiese incuriosito Milo di Scorpio.
“Afrodite ha deciso di
lasciare la sua celeste dimora per restare accanto ad Atena e
aiutarla nella difesa della Terra. Vivono entrambe a Tokyo ed
è
proprio lì che dovete andare. So che alcuni di voi sono al
momento
privi di armatura, distrutta nella lotta contro Hypnos nei Campi
Elisi, ma se riuscirete ad intervenire tempestivamente allora si
potrà porre rimedio. Ora come ora, però, ogni
momento di indugio
rischia di farci perdere tempestività nelle nostre
azioni”
Tutti i guerrieri attorno
a lui annuirono.
“Solo questo sono in
grado di dirvi, Cavalieri, ma Zeus mi ha pregato di farvi un
dono”
Apollo si voltò verso
il
pendio su cui una volta si ergevano le Dodici Case dello Zodiaco e
levò una mano nella sua direzione. Il terreno sotto i loro
piedi
prese a tremare e con difficoltà riuscirono a mantenere
l’equilibrio. Le macerie si librarono in aria sotto il
comando del
dio e, ordinatamente, andarono a ricostituire i dodici templi, di
nuovo intatti e splendenti sotto la Tredicesima Casa del Gran
Sacerdote.
I Cavalieri rivolsero al
pendio sguardi meravigliati e increduli di fronte a
quell’ennesimo
miracolo.
Dhoko si fece avanti e
ringraziò il dio da parte di tutti. Apollo chinò
leggermente la
testa in risposta.
“Ora basta indugiare.
Siete al diretto servizio del sommo Zeus e la vostra missione
è
fondamentale per la sconfitta del nuovo nemico. Buona fortuna,
Cavalieri”
Il dio del Sole scomparve
davanti a loro nello stesso bagliore di luce con cui era giunto,
lasciando i quattordici guerrieri con ancora mille domande in testa,
ma determinati più che mai a compiere la missione loro
affidata.
Buongiorno e buon weekend a
tutti!
Come promesso, ecco a voi
il lunghissimo prologo del secondo capitolo delle avventure di Ayame...
che qui non c'è ma che presto arriverà :)
Spero sia di vostro
gradimento e di essere riuscita un pochino ad incuriosirvi. Ringrazio
Panenutella per la supervisione e auguro a tutti buona lettura!
Martyx
|
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Capitolo 2 *** L'Angelo ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
1-
L’angelo
Il
salone delle feste di palazzo Kido non era mai stato così
splendente
come quella sera. Il grande lampadario di cristallo al centro del
soffitto attirava i raggi luminosi dalle plafoniere alle pareti e
dalle candele accese sulle tavolate per riverberarli
tutt’attorno,
ancora più sfolgoranti e ricchi di luce. Sotto di esso era
uno
sciamare di gente da un tavolo all’altro, da un piatto di
antipasti
alla grande torta a cinque piani, da una conversazione semiseria ad
una barzelletta. Uomini, donne, vecchi e giovani si mescolavano in un
carosello di voci e risate totalmente adatto all’occasione.
Era
il compleanno di Saori Kido*. La fanciulla aveva approfittato
dell’avvenimento per festeggiare anche la fine della
battaglia
contro Efesto, che aveva visto sul campo i suoi Cavalieri combattere
spalla a spalla con le Sacerdotesse di Afrodite contro i Ciclopi del
dio loro avversario. All’inizio era sembrata Afrodite la
nemica da
combattere, ma grazie a quell’amore di cui era reincarnazione
la
dea era passata dalla parte giusta.
Era
stata lei la vera protagonista dello scontro decisivo contro Efesto,
avvenuto ai piedi del cratere principale dell’isola di
Vulcano,
sotto gli occhi degli altri guerrieri e dell’Olimpo stesso,
che
aveva concesso ad Afrodite di restare sulla terra, accanto alla
sorella ma, soprattutto, accanto all’uomo di cui era
innamorata.
Saori,
dalla sua postazione un po’ distaccata, sorrise nel vedere
Hyoga e
Ayame, ricca ereditiera nel cui corpo Afrodite si era reincarnata,
dare dimostrazione di uno spiccato e inaspettato talento nel ballo
latino-americano, a ritmo di una salsa improvvisata per
l’occasione
dalla piccola orchestra che Tatsumi aveva ingaggiato per
l’occasione.
Come
a raccogliere la sfida, alle danze si unirono poi Shun e Talia,
dimostrando anch’essi di saper muovere i piedi con una certa
bravura.
Dopo
una piroetta, Ayame si accorse che Saori la stava guardando e,
sorridente e raggiante come sempre, lasciò ad Hyoga
l’onore e
l’onere di insegnare qualche passo base ad
un’invitata ormai
avanti con l’età e dall’abito
decisamente ingombrante per andare
a recuperarla e tentare di coinvolgerla.
“Andiamo,
Saori! Non mi sono dannata anima e corpo per cambiarti il look per
vederti fare da tappezzeria alla tua stessa festa”
Senza
ascoltare le proteste dell’amica la trascinò al
centro
dell’improvvisata pista da ballo, affidandola alle cure di
Shun e
andando a riprendersi Hyoga, il quale, con un bacio focoso quanto la
musica di sottofondo, le fece intendere quanto fosse contento del suo
ritorno.
In
quel momento erano semplicemente un ragazzo e una ragazza che si
amavano. Era quello il ruolo che, in quella scena dello spettacolo
che era la vita, dovevano recitare. Ciascuno dei ragazzi e delle
ragazze presenti alla festa lo stava facendo, in attesa di quel
cambio di scena che li avrebbe portati ad indossare nuovamente le
armature. Ad essere Cavalieri e Sacerdotesse e divinità.
Chiunque
fosse stato a conoscenza della doppia identità di quei
giovani,
avrebbe capito quale delle due parti preferivano recitare.
Nel
ruolo di ricca ereditiera amante del divertimento e dello shopping,
Ayame era perfetta e, soprattutto, si sentiva a suo agio, libera
dalle responsabilità e dagli obblighi che l’essere
dea comportava.
A differenza di Saori, Ayame aveva patito fin da subito il suo ruolo
di reincarnazione di Afrodite, che l’aveva quasi costretta a
rinunciare a Hyoga. Il minimo che potesse fare era godersi quei
momenti in cui Afrodite poteva essere messa da parte ed essere solo
Ayame. Perché, come Saori aveva provveduto a dirle, in
quanto
reincarnazioni di divinità, per loro non c’era
pace, ma solo
tregue tra una guerra e l’altra. E Saori aveva il
presentimento che
quella tregua stesse per finire.
Si
staccò gentilmente da Shun, il quale non parve accorgersi
della
preoccupazione sul volto della ragazza e tornò a ballare con
Talia,
quindi si diresse verso il fondo della sala, dove il grande portone
in legno dava sul corridoio principale della villa. Aveva bisogno di
silenzio per interpretare la marea di sensazioni che le agitavano il
cuore.
Imboccò
il corridoio sotto lo sguardo attento di Ayame.
Nonostante
l’atteggiamento festaiolo e il contagioso buon umore, anche
lei
percepiva qualcosa di strano nell’aria. All’inizio
aveva sperato
che la festa riuscisse a distrarre Saori, ma il legame profondo della
fanciulla con la Terra di cui era protettrice aveva avuto il
sopravvento.
Tuttavia
nessun altro aveva avvertito niente e, per evitare di creare
allarmismi inutili, Ayame avrebbe continuato a comportarsi come
sempre.
Il
tocco dolce di Hyoga sulla schiena le fece intendere che anche lei
era sotto sorveglianza speciale.
“Qualche
problema con Saori?” le chiese il ragazzo, apprensivo.
Ayame
ripensò: niente allarmismi.
“Nah,
figurati! Semplicemente è ancora abituata alle sue feste
mosce e non
ad una cosa del genere”
Dicendo
questo, Ayame accennò col capo al centro della sala, dove
chiunque
si stava lanciando in qualsiasi tipo di danza improvvisata.
Hyoga
rise leggermente, dando ragione alla ragazza, quindi si
voltò per
raggiungere il cuore della festa, con Ayame dietro.
Accadde
al terzo passo. Ayame lo percepì come un semplice alito di
vento
caldo sulla nuca lasciata scoperta dall’acconciatura
spettinata, ma
aveva la forza di una tempesta tropicale e urlava parole di sangue e
morte. Parole rivolte a Saori.
I
rumori attorno ad Ayame si fecero ovattati e distanti, tutti i suoi
sensi erano concentrati su quella voce, quella presenza oltre la
grande porta di legno che era riuscita a raggiungere con
velocità
impressionante persino per lei.
Sentì
a malapena la sua voce che chiamava l’amica, arrivata quasi
alla
fine del corridoio. Vide distintamente quegli occhi grigi incombere
su di lei, impietosi e inanimati. Esattamente come se li ricordava
lei.
Non
può essere…
Le
grandi lampade appese al soffitto a volta si oscurarono quando le due
ali di luce comparvero, enormi e minacciose, dalla schiena della
creatura dagli occhi grigi sospesa sopra Saori.
La
fanciulla, accortasi della potenza scaturita da quelle ali, prese a
indietreggiare appena l’angelo iniziò a perdere di
quota per
abbattersi su di lei. Contemporaneamente Ayame mise tutte le sue
forze nelle gambe, nella speranza che fossero sufficienti ad evitare
l’ignota catastrofe di cui quell’angelo era
portatore.
Come
catalizzati entrambi da Saori, lei e l’angelo la raggiunsero
nello
stesso momento. O forse Ayame un attimo prima. Giusto il tempo per
evitare che quello spillo pungesse Saori e colpisse, invece, il suo
braccio.
Caddero
tutti e tre a terra, e l’angelo perse le sue ali.
“NO!”
gridò con una voce che pareva provenire da
un’altra dimensione.
Quasi
a rappresentare un’eco per quel semplice monosillabo carico
di
rabbia, le vetrate del corridoio andarono in frantumi, e tre armature
d’oro risplendettero alla luce artificiale dei lampadari,
aiutandoli a riprendere la loro egemonia sulla stanza.
Ma
Ayame non vide tutto questo né sentì le grida
concitate dei
Cavalieri giunti in loro soccorso contro quell’angelo.
In
quel momento tutto il suo corpo era in preda alle convulsioni. I suoi
sensi erano annebbiati e un’unica, travolgente sensazione
pervadeva
il suo corpo.
Afrodite
stava scomparendo dall’anima di Ayame, lasciando al suo posto
un
vuoto sconfinato in grado di assorbire tutto come un buco nero.
Esattamente come stava facendo con la vita di Ayame.
Hyoga
oltrepassò la soglia del corridoio in tempo per vedere Ayame
accasciarsi a terra come un burattino a cui si erano improvvisamente
staccati i fili.
“Ayame!”
gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre muoveva
il primo
passo verso il fondo della sala.
Si
fermò solo perché riconobbe la voce che
accompagnò la stretta
ferrea attorno al suo braccio. Una voce che mai più avrebbe
pensato
di udire.
“No,
fermo!” lo sollecitò Camus, piazzandosi davanti
agli occhi
increduli del suo allievo. Il Cavaliere non portava
l’armatura,
andata distrutta ai Campi Elisi, al contrario dei suoi compagni che
si trovavano nel corridoio insieme a lui, intorno all’essere
alato
che aveva aggredito Ayame e Saori.
Aphrodite,
Mu e Saga lo stavano tenendo sotto scacco, ma la creatura non
sembrava preoccuparsene più di tanto. Nonostante le sue
fattezze
fossero in tutto e per tutto umane, nel suo sguardo c’era una
luce
buia che escludeva la sua appartenenza al genere umano.
“Che
cos’è? Cosa ha fatto ad Ayame?”
domandò Hyoga a voce tremante,
facendo vagare lo sguardo dalla creatura ad Ayame, al cui capezzale
era rimasta Saori.
Camus
lo guardò senza nascondere il dispiacere che provava in quel
momento
nell’essere senza una risposta plausibile. Deglutì
la poca saliva
che gli era rimasta in bocca e ne percepì un retrogusto
amaro.
Alle
loro spalle i battenti si chiusero col minimo rumore possibile.
Voltandosi, Hyoga incrociò gli occhi cerulei di Shaka,
anch’egli
senza armatura, concentrati totalmente sulla situazione di stallo al
centro del corridoio. Il Cavaliere della Vergine avanzò con
passo
deciso verso l’angelo privo di ali che gli stava rivolgendo
un
sorriso di scherno da dentro il cerchio umano in cui era
imprigionato. Si fermò a pochi passi dal perimetro,
perfettamente in
grado di vedere il sudore freddo sulla fronte della creatura e di
percepire il suo respiro affannato.
“Stolti”
sibilò tra un ansimo e l’altro “Non
bastano cento di voi per
fermarci”
“Chi
siete voi?” domandò inespressivo Shaka.
“Siamo
passato, presente e soprattutto futuro. L’unico futuro di
questa
terra” rispose risoluto, prima di allargare le braccia
ricoperte
dal tessuto nero della sua tenuta.
Dalla
schiena della creatura ricomparvero le ali di luce. Nel vedere la
loro lucentezza, la potenza che emanavano e la facilità con
cui
sbalzarono i tre Cavalieri da terra, Shaka dedusse che fossero
l’equivalente del loro cosmo.
Le
ali circondarono il loro padrone fino a che non un centimetro della
sua figura fosse più visibile, coprendo anche la cupa risata
che
fuoriusciva dalla sua bocca. Poi, con un bagliore accecante,
l’angelo
sparì nel nulla.
Con
malagrazia Hyoga si liberò dalla presa di Camus per andare a
soccorrere Ayame, ancora a terra priva di sensi. Anche Shaka si era
avvicinato alle due ragazze e, in quel momento era intento ad
osservare qualcosa sul braccio di Ayame.
Hyoga
si sentì mancare il cuore quando vide in che condizioni
versava la
sua donna. Il viso cereo era coperto da una patina di sudore freddo,
le labbra avevano perso il colorito roseo di sempre. Tutto di lei
faceva pensare che fosse morta.
“No…”
sussurrò appena il Cavaliere, cadendo in ginocchio accanto a
Shaka,
i cui occhi erano nuovamente chiusi.
“C’è
ancora vita in lei, seppur flebile” disse Shaka, concentrato
sempre
sul braccio di Ayame.
“Ma
il cosmo di Afrodite è praticamente scomparso”
obiettò Saori,
allarmata.
“E
più svanisce, più si prende le ultime briciole di
vita di questa
ragazza” sentenziò greve Mu. Insieme agli altri
Cavalieri in
armatura, si era avvicinato con cautela, per accertarsi che il
pericolo fosse veramente svanito.
Concentrati
su Ayame e sulle sue sorti, nessuno si accorse che il battente del
portone si era leggermente aperto. Dopo un’iniziale
confusione, fu
la sorpresa a pervadere l’animo di Psiche alla vista del
capannello
in fondo alla sala.
“Maestro?”
esclamò quasi senza fiato.
Aphrodite
dei Pesci si voltò al richiamo familiare della sua allieva,
lasciando intravedere il volto cereo di Ayame, ancora riversa a
terra.
“Afrodite!”
Come
Hyoga pochi attimi prima, anche Psiche si lanciò di corsa
verso la
sua dea, prontamente intercettata dal suo maestro.
“No,
Psiche, aspetta…”
“Che
le è successo?” domandò isterica, col
volto già rigato dalle
lacrime “Perché non si alza? Che ne è
del suo cosmo?”
Shaka
di Virgo, infastidito da quelle urla, voltò il capo per
lanciare uno
sguardo di rimprovero alla Sacerdotessa. Quando i loro occhi si
incrociarono, Psiche sembrò placarsi. Socchiuse gli occhi e
smise di
opporre resistenza ad Aphrodite, che la lasciò andare.
“Tu
sei l’uomo più vicino agli dei, giusto?”
chiese Psiche, come se
quella dote fosse invece una colpa.
Shaka
non rispose.
“Puoi
salvarla, non è vero?” incalzò ancora
Psiche, avanzando di
qualche passo.
Subito
il Cavaliere dei Pesci la bloccò per un braccio.
“So
che puoi farlo!” esplose alla fine la Sacerdotessa,
riprendendo a
piangere. “Devi salvarla, hai capito?!?”
Ulteriori
invettive vennero soffocate da Aphrodite, il quale attirò la
sua
allieva a sé, permettendole di sfogare la sua frustrazione.
Quanto
a Shaka, chiuse gli occhi e abbassò il capo a terra.
“È
vero ciò che dice?” domandò la voce
spezzata di Hyoga, le cui
attenzioni non avevano mai abbandonato Ayame.
“Posso
provare” rispose Shaka, incerto.
“Fallo,
ti prego” fu la supplica che si sarebbe aspettato da Hyoga,
ma che
invece arrivò da Saori.
Sorpreso
da quella richiesta accorata, percependo quasi come suo il dolore che
permeava la sala in quel momento, trasformato in suono dal pianto di
Psiche e in immagine dai volti distorti di Hyoga e di Atena, Shaka
sospirò e si avvicinò ulteriormente al corpo di
Ayame. La sollevò
per il busto e, sorreggendola con una gamba, fece passare un braccio
attorno al collo per poterle poggiare una mano sulla fronte.
Posizionò l’altra mano all’altezza del
cuore, quindi accese il
suo cosmo.
Nessuno
dei presenti osò chiedere cosa stesse facendo, se stesse
riuscendo.
Tutti rimasero in silenzio, in attesa, concentrati sul Cavaliere di
Virgo e sulla ragazza tra le sue braccia, che poco prima era stata
una potente dea. Non sapevano quanto arduo potesse essere
ciò che
Shaka stava facendo, non sapevano nemmeno cosa stesse facendo,
perché
mai era capitato qualcosa come quello che era avvenuto poco prima.
Quando
il corpo di Ayame si rianimò d’improvviso, quando
la sua bocca si
spalancò per prendere una grossa boccata d’aria
come dopo una
prolungata apnea, quando la respirazione affannosa venne sostituita
da un pianto a dirotto, capirono che Shaka ce l’aveva fatta.
Il
suo cosmo risultò notevolmente provato da
quell’impresa, ma tutti
sapevano che si sarebbe ripreso in breve tempo. Egli stesso sembrava
non fare troppo caso alla spossatezza, impegnato com’era a
tranquillizzare Ayame, il cui corpo era scosso da forti tremiti e il
cui pianto non accennava ad arrestarsi. Le braccia della ragazza
erano strette al ventre, come se un dolore lancinante la
attanagliasse in quella parte del corpo.
“Va
tutto bene, sei salva” le ripeteva Shaka a mo’ di
litania nelle
orecchie, ma Ayame non sembrava ascoltarlo e la sua stretta alla
pancia aumentava ogni volta.
Shaka
alzò lo sguardo allarmato su Saori, ricevendone in cambio
uno ancora
più preoccupato.
Hyoga
diede voce alle inquietudini di tutti i presenti.
“Ma
che le prende?”
Né
Shaka né Saori seppero dare risposta a quella domanda.
Tuttavia essa
ebbe il potere di riscuotere Ayame dal suo pozzo di disperazione. La
ragazza sollevò il capo dalla spalla del Cavaliere e
chiamò Hyoga
con voce flebile.
“Hyoga,
sei qui?”
Ancora
prima che lo chiedesse, il ragazzo era già al suo capezzale,
con le
braccia tese a raccoglierla da quelle di Shaka. Oltre le lacrime non
ancora scese, vide due occhi che una volta erano di un verde
splendente, ma la cui luce ora sembrava essersi spenta.
Subito
Ayame si rannicchiò contro la sua spalla, nascondendo quello
sguardo
appena toccato dalla vita alla vista dei presenti, e riprese
silenziosamente a piangere, una mano sempre sul ventre a coprire un
vuoto che solo lei poteva percepire, buio e profondo come la
disperazione.
*Il
compleanno di Saori sarebbe il 1 settembre, ma per esigenze narrative
l'ho modificato. Ogni cambiamento è comunque giustificato
dall'avvertimento AU, come ogni modifica involontaria al carattere dei
personaggi è coperta dall'OOC :)
Eccomi
tornata col primo capitolo della storia!
Sono stata onoratissima
delle recensioni che ho ricevuto e vi ringrazio, spero che questo
capitolo sia altrettanto di vostro gradimento :)
Approfitto della domanda di
uno dei recensori riguardo al titolo della storia: l'ho preso
dall'omonimo un brano musicale degli Scars on Broadway, mi sembrava
azzeccato per la fic e comunque avrà anche ruolo nella
trama, seppur piccolo :)
Detto questo, buona lettura!
Martyx
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Capitolo 3 *** Ombre dal passato ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
2
–
Ombre dal passato
Era ormai notte
inoltrata. Dei clamori della festa restavano solo alcune briciole sul
pavimento del salone e un vago e offuscato ricordo, come se fosse
stata tutta un’illusione.
Illusione poteva anche
sembrare la scena che si presentava davanti agli occhi di Atena e dei
Cavalieri di Bronzo, radunatisi tutti nel grande salone di villa Kido
insieme ai redivivi Cavalieri d’Oro accorsi in aiuto della
fanciulla pochi minuti prima.
All’appello mancava
solo Hyoga, ritiratosi in stanza insieme ad Ayame. Nonostante Shaka
fosse riuscito a tenerla in vita dopo l’attacco
dell’angelo, la
ragazza ne era uscita fortemente debilitata e priva di forze. Di
comune accordo con il Cavaliere del Cigno, Saori aveva disposto che i
due si ritirassero in stanza per permettere ad Ayame di riposare.
“E questo è
tutto,
Atena” sospirò Shaka esausto “Come avete
potuto capire, nemmeno
noi conosciamo questo nemico tanto temuto dagli dei. La creatura
alata che vi ha attaccate stasera ne è la prima
manifestazione
effettiva”
Il Cavaliere della
Vergine si concesse solo in quel momento di adagiarsi contro lo
schienale del divano su cui era seduto e di chiudere gli occhi in
quel breve momento di relax che la serata gli concedeva. Per
riportare a coscienza Ayame gli era servita buona parte delle sue
forze e la stanchezza derivatane gli aveva reso difficile tentare di
spiegare il motivo del loro ritorno in vita così
d’improvviso.
Atena accennò un
movimento del capo per far intendere al suo sottoposto di aver
compreso, quindi tornò ad osservare l’oggetto
incriminato posto
sul tavolino di cristallo al centro del salone.
Lei stessa aveva
rinvenuto quello spillo dorato sul pavimento del corridoio non appena
Hyoga aveva portato via Ayame. Era stata sul punto di prenderlo in
mano quando Mu le aveva intimato di non farlo. Lui stesso
l’aveva
poi raccolto da terra, ponendo tra lo spillo e la pelle della sua
mano la stoffa del mantello.
“Come può un
oggetto
così piccolo creare tanto danno?”
domandò la dea al nulla, o
forse allo spillo stesso, nella speranza che gli desse una risposta.
“Ho ragione di temere
che avrebbe fatto danni ben peggiori, se solo avesse raggiunto il suo
reale obiettivo”
Saga di Gemini si fece
avanti dalla postazione un po’ discostata che aveva mantenuto
fino
a quel momento.
“Spiegati, Saga. Che
intendi dire?” incalzò Saori, rivolgendo le sue
attenzioni al
Cavaliere.
“Quello spillo doveva
pungere voi, Atena, ma per un fortuito caso ha invece ferito
Afrodite. Ciò ha portato ad un ingente indebolimento del
cosmo della
dea e quasi al decesso della ragazza ospitante. Quasi. Ho ragione di
credere che, nel vostro caso, la parola quasi sarebbe stata da
escludere”
“Credo che Saga abbia
ragione” intervenne Shaka, senza tentare di nascondere la
stanchezza che permeava la sua voce “Per risvegliare Ayame, e
con
essa Afrodite, ho dovuto cercare in fondo all’anima della
ragazza
anche solo un bagliore della dea che albergava in essa. Devo
ammettere che, per un attimo che mi è sembrato lungo una
vita, ho
temuto di non riuscirci, tanto era il vuoto che ho trovato dove un
tempo stava l’anima di Ayame. Nonostante questo, ho
continuato ad
andare sempre più giù, a immergermi sempre
più in quel buio,
finché non ho trovato quel bagliore.
“Afrodite esisteva
ancora dentro Ayame, ma era come se fosse caduta in un sonno eterno.
Col mio cosmo ho solamente potuto ridare all’anima di Ayame
la
forza per tornare a pulsare, ma per la dea non sono riuscito a fare
molto di più”
Il silenzio che cadde
dopo quella spiegazione era pesante quanto una montagna.
Una volta tornati in
stanza, Hyoga aveva adagiato Ayame sul letto e le era rimasto accanto
anche dopo che la ragazza era caduta in un sonno profondo. Da quel
momento non aveva tolto gli occhi un attimo dal suo petto, impaurito
che il movimento ritmico dovuto al respiro, già debole, si
arrestasse del tutto. Ogni tanto, però, il suo sguardo
indugiava sul
volto della ragazza, che nel sonno si era leggermente disteso. Del
colorito roseo di un tempo, però, era rimasto solo un lieve
accenno
circoscritto alle labbra, non più prive di vita come dopo
l’aggressione.
Hyoga non riusciva a
capacitarsi della facilità con cui erano riusciti a
risucchiare dal
corpo di Ayame tutta l’energia e la voglia di vivere che la
caratterizzavano, rendendola una semplice adolescente
dall’aspetto
emaciato e cagionevole. Quella non era la sua Ayame, ma meno della
sua ombra. Giurò a se stesso che avrebbe fatto tutto il
possibile
per farla ritornare quella di un tempo.
Fu Ayame a risvegliarlo
dai suoi pensieri di vendetta, aumentando la stretta attorno alla sua
mano ed emettendo un debole lamento. Poco dopo prese ad agitarsi nel
sonno, finché non si risvegliò di colpo
spalancando gli occhi e
sollevando il capo dal cuscino. Subito due leggere lacrime le scesero
lungo le guance e la mano libera corse al ventre, stringendo la seta
dell’abito elegante che ancora indossava.
Hyoga si sedette sul
letto accanto a lei per tranquillizzarla.
“Va tutto bene,
piccola. Sei al sicuro a casa di Saori. Ricordi?”
Gli occhi di Ayame
saettarono dal volto del giovane alla stanza e, in breve, la ragazza
parve calmarsi. Si rilassò e ripose il capo sul cuscino.
“Come ti
senti?” le
domandò Hyoga, poggiando la mano libera su quella che Ayame
aveva
sulla pancia. La risposta che la giovane gli diede riempì
quel gesto
di significato.
“Vuota…”
Tuttavia Hyoga non
comprese e corrugò la fronte. Ayame riportò lo
sguardo su di lui e
cercò di spiegargli meglio.
“Come se dentro al mio
corpo non ci fosse niente. Quel niente che ti rende pesante e ti
opprime, che incombe come una minaccia, che ti risucchia le forze. La
cosa peggiore è che so che, al posto di quel niente,
dovrebbe
esserci lei”
“Afrodite
dici?”
Ayame annuì e
strizzò
gli occhi, lasciando uscire ancora due lacrime, forse le ultime che
ancora poteva piangere. Hyoga le asciugò le guance col
pollice.
“Probabilmente
è solo
una cosa momentanea, presto tornerà tutto normale, come
prima che
Afrodite entrasse in te”
“No, Hyoga. Non
può
più essere come prima del suo arrivo, non dopo quello che
è
successo con Efesto. Io e Afrodite siamo diventate una cosa sola, e
perdere lei ha significato perdere una parte importante di me”
Il Cavaliere sospirò
e,
annuendo, abbassò il capo, per poi risollevarlo subito dopo.
“Allora ti prometto che
Afrodite sarà vendicata, che tu sarai vendicata. Quando
quegli
esseri torneranno se la vedranno con me e pagheranno per quello che
ti hanno fatto”
Ayame sorrise debolmente,
ma subito si corrucciò, come se un pensiero improvviso
l’avesse
indotta a riflettere. Poco dopo chiese ad Hyoga di aiutarla a
rialzarsi. Il ragazzo si raccomandò di fare piano, per
evitare
capogiri, ma Ayame sembrò sopportare bene il cambio di
posizione e,
una volta seduta, si avventò sul cassetto del suo comodino.
Ne
estrasse un portagioie in legno cesellato, rivelando sotto di esso
una fotografia dai margini leggermente rovinati. La tirò
fuori con
cautela, quasi scottasse, e la mostrò ad Hyoga.
L’immagine ritraeva una
classica famiglia, composta dai genitori e da due bambini, un maschio
di cinque anni o poco più, dall’aria corrucciata,
e una bambina di
pochi mesi ma con due inconfondibili occhi verdi e luminosi.
“Questa è la
mia
famiglia, molto prima della morte dei miei genitori”
spiegò Ayame.
“Non mi avevi mai detto
di avere un fratello” le fece notare Hyoga, indicando il
bambino.
“È scomparso
poco dopo
che è stata scattata quella foto”
“Lo stesso incidente
dei tuoi genitori?”
“No, qualche anno
prima”
“E per cosa
è morto?”
Ayame attese qualche
secondo prima di rispondere, greve.
“Ho detto che
è
scomparso, non che è morto”
Solo allora Hyoga alzò
lo sguardo dalla fotografia per guardare Ayame, che prontamente gli
diede ulteriori spiegazioni.
“Una mattina i miei
genitori sono entrati nella sua stanza. Hanno trovato il letto
disfatto e la finestra spalancata. E Mikio non c’era
più. Lo hanno
cercato per quasi un anno, ma alla fine si sono arresi, accettando
l’ipotesi che fosse stato rapito per poi chiedere un riscatto
e che
qualcosa fosse andato storto prima che questo venisse richiesto. Il
suo corpo non è mai stato ritrovato e adesso so il
perché”
Ayame vide gli occhi di
Hyoga farsi due fessure. Forse prevedeva come sarebbe continuato il
discorso.
“Mikio non è
mai
morto. È stato rapito, è scomparso per quasi
diciotto anni e ora è
tornato. La creatura che ha attaccato Saori nel corridoio è
mio
fratello”
Da sottili fessure che
erano, gli occhi di Hyoga si fecero grandi per lo stupore.
Riportò
la sua attenzione alla fotografia, concentrandosi sul bambino col
broncio in primo piano.
“L’ho capito
dagli
occhi. Anche nella foto ha le iridi grigie e minacciose. Doveva
essere già segnato al tempo di quello scatto”
spiegò
ulteriormente Ayame.
“Che vuoi
dire?”
domandò Hyoga, ancora confuso.
“Dopo la morte dei miei
genitori, ho chiesto tante volte alla Tata di parlarmi della mia
famiglia. Avevo così pochi ricordi e tutti così
approssimativi. Una
volta, parlando di Mikio, mi disse che era nato con gli occhi verdi
come i miei e che caratterialmente mi somigliava. Poi,
all’improvviso, è cambiato. Non ha mai
più sorriso, teneva sempre
lo stesso broncio della foto, e i suoi occhi hanno perso il colore
limpido di sempre, per diventare grigi e tenebrosi. Dopo poco tempo
da quella trasformazione è scomparso, portato via da
chissà quali
forze”
La stanchezza prese di
nuovo il sopravvento su Ayame, che si appoggiò con un
sospiro alla
spalla di Hyoga. Questi prontamente le circondò le spalle
con un
braccio e le diede un leggero bacio sulla fronte.
“Pensi che ti abbia
riconosciuta?” chiese poi.
Ayame cambiò posizione
in modo da poter vedere la fotografia. Anche in quel modo gli occhi
di Mikio riuscivano ad incuterle timore e a risvegliare orrendi
ricordi.
“Non lo so”
rispose
infine, sussurrando appena “Forse non ricorda più
nulla della sua
vita precedente oppure il rivedermi non gli ha fatto alcun effetto
particolare”
“Ad ogni modo penso sia
importante che Saori e gli altri sappiano quello che mi hai
raccontato. In qualche modo rappresenta un punto di partenza”
“Puoi farlo tu per
me?”
Hyoga percepì quella
richiesta come se fosse una supplica.
“Ma certo!
Però non mi
va di lasciarti sola. Cerco una delle ragazze e le dico di venire
qui, ok?”
Ayame si limitò ad
annuire. Hyoga mise da parte la fotografia e la aiutò a
distendersi
a letto. Chiuse subito gli occhi e rallentò la frequenza del
respiro. Il ragazzo capì che non ci avrebbe messo molto ad
addormentarsi di nuovo. Con un bacio a fior di labbra, le
augurò un
sonno ristoratore e privo di sogni.
Ayame attese finché
non
sentì l’inconfondibile suono della porta che si
chiudeva alle
spalle di Hyoga, quindi riaprì gli occhi e si rimise a
sedere sul
letto.
Accanto a lei era rimasto
il portagioie. Lo prese e lo aprì lentamente, forse temendo
ciò che
conteneva.
Tra gli innumerevoli
ninnoli che ne riempivano l’interno, Ayame frugò
fino a trovare un
sacchettino di velluto color porpora, chiuso
all’estremità da un
nastrino di raso dorato. Aprì anch’esso con
estrema lentezza e ne
svuotò delicatamente il contenuto sul palmo della mano. Una
semplice
catenina in oro bianco reggeva un’elegante
“M” dello stesso
materiale, con rifiniture in oro giallo.
Ayame posò il
sacchettino e si appese il ciondolo al collo, quindi sollevò
la
lettera e sospirò.
Mikio, che cosa sei
diventato?
A voi il secondo capitolo :)
Spero
sia di vostro gradimento e che l'arrivo del fratello scomparso non sia
troppo scontato nè patetico :) Buona lettura!
|
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Capitolo 4 *** Verso il Santuario ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
3
– Verso il Santuario
Nonostante
le persiane chiuse e le tende tirate, un esile raggio di sole
riuscì
ad infiltrarsi tra le barriere per andare a riscaldare un punto
circoscritto sulla guancia di Ayame. Su quel punto comparve un
leggero rossore, che un tempo avrebbe donato alla ragazza, ma che ora
metteva in risalto quanto fosse pallida e debole.
Ayame
dormiva profondamente, probabilmente non stava nemmeno sognando.
A
Psiche dispiaceva doverla svegliare, ma era tardi. Per tutto. Per la
colazione, per risolvere quella situazione, per qualsiasi cosa
riguardasse quella che era stata la sua dea, era tardi.
La
Sacerdotessa la scosse leggermente dalla spalla, chiamandola
sottovoce.
Ayame
si svegliò con lentezza, negli occhi tutto il vuoto che
portava
dentro. Si voltò per vedere chi l’aveva destata e
sorrise
debolmente a Psiche, che ricambiò con più vigore.
Era
bella, Psiche, tra le donne più belle che avesse mai visto,
con
labbra rosee e carnose e occhi limpidi, di chi ha sofferto ma
è
andata avanti. Ayame si chiese se anche lei sarebbe riuscita ad
andare avanti.
“Come
stai?” le chiese Psiche, premurosa.
“Meno
stanca, ma sempre uno straccio” rispose sincera Ayame.
Psiche
annuì e l’aiutò ad alzarsi. Ayame non
ebbe nessun problema a
cambiare posizione, come non ne ebbe a mettersi in piedi.
Vacillò
solo un pochino per il fatto di essere rimasta sdraiata tanto tempo.
Il
vestito che indossava era ancora quello della festa e aveva i capelli
tutti annodati e ancora duri per la lacca che le aveva tenuto in
posizione l’acconciatura. Sentiva quindi il bisogno di farsi
una
doccia e Psiche la assistette per tutto il tempo, per intervenire
prontamente nel caso fosse stata di nuovo male.
Ma,
a parte la spossatezza e la solita sensazione di vuoto che provava
dentro, Ayame stava bene.
Una
volta che Ayame si fu asciugata e vestita, Psiche le disse che era
necessario che scendesse in salotto per delle questioni importanti.
Ayame
non si sentiva in grado di affrontare neanche una questione banale,
figurarsi quelle importanti.
Scese
comunque insieme alla Sacerdotessa e con lei varcò la soglia
del
salotto di Saori.
L’amica
sedeva sul divano, con accanto Hyoga, che subito si alzò per
andarle
incontro. Sugli altri divani e poltrone sedevano altri uomini. Ayame
ne riconobbe solo uno, il primo viso che aveva visto dopo essere
caduta nell’abisso. Era un personaggio curioso, con
un’aria
mistica enfatizzata dagli occhi perennemente chiusi. Lei
però li
ricordava azzurri come il mare e rassicuranti.
Hyoga
e Psiche l’accompagnarono al divano di Saori e Ayame si
sedette tra
l’amica e il ragazzo, che le teneva la mano.
Gli
altri presenti si presentarono. I loro nomi erano Mu, Saga, Camus e
Aphrodite. Il mistico, invece, si chiamava Shaka. Erano tutti
Cavalieri d’Oro, le spiegò Saori, devoti ad Atena
come lo erano il
suo Hyoga e gli altri Cavalieri di Bronzo.
“Ho
sentito parlare molto di voi” sorrise Ayame, cercando di
mostrarsi
più affabile e meno penosa del solito.
“Soprattutto di te,
Aphrodite dei Pesci. È merito tuo se Psiche figura tra le
schiere
della dea Afrodite”.
“È
stato per me un onore allenare una futura Sacerdotessa di
Afrodite”
rispose composto il bel Cavaliere.
Era
strano, sia Aphrodite che lei stessa parlavano della dea che era
stata come se fosse un’entità astratta e lontana.
Ayame
cercò di riprendere a sorridere e si rivolse stavolta a
Camus.
“Tu,
invece, hai addestrato Hyoga alla manipolazione delle energie
fredde”
“Esatto,
Afrodite, e non posso che ritenermi soddisfatto del guerriero, ma
soprattutto dell’uomo che è diventato”
Ayame
sorrise grata al Cavaliere dell’Acquario per il suo tentativo
di
farla sentire ancora una dea. Ma in quel momento era l’ultima
cosa
che si sentiva di essere.
“C’è
un motivo per cui abbiamo disturbato il vostro riposo…
“ iniziò
Mu, ma Ayame lo interruppe subito.
“Vi
prego, tutti quanti. Non sono più una dea, è
inutile continuare a
mentirci a vicenda, perciò niente riverenza e niente
‘voi’. Non
l’ho mai voluto da dea e non lo voglio ora”.
I
cinque Cavalieri annuirono, quindi Mu proseguì.
“Dunque, Ayame, è
difficile da spiegare in poche parole. Suppongo saprai a quale sorte
fummo destinati dagli dei”
Ayame
annuì. Zeus aveva voluto che tutti gli dei
dell’Olimpo
assistessero all’imprigionamento delle anime dei Cavalieri
d’Oro
nella Colonna nel Santuario. Non le era sembrato giusto, al tempo, ma
non aveva potuto farci niente.
“Bene.
A quanto pare, è stato Zeus in persona a volere il nostro
ritorno.
Voleva che evitassimo quello che stava per succedere ieri
sera”
“Stava
per succedere? Non capisco…” Ayame si
sentì in qualche modo
offesa da quell’affermazione, come se ciò che le
era accaduto
fosse cosa di poco conto rispetto a qualcos’altro.
“Non
eri tu l’obiettivo dell’Angelo, Ayame”
spiegò Mu. “Il suo
bersaglio era Atena, ma nella colluttazione ha colpito te, e questo
è
stato un bene per due motivi. Atena si è salvata e Shaka
è stato in
grado di salvare te. Se l’Angelo avesse colpito Atena,
sarebbe
morta sul colpo”
A
quel punto, vedendo Ayame confusa, intervenne Saga.
“Quello
che Mu sta cercando di dirti è che il tuo sacrificio non
è stato
vano. Hai mostrato ai nostri nuovi nemici che il loro piano aveva una
falla piuttosto grossa, hai salvato Atena e hai dato a noi il tempo
di rimediare alla nostra mancanza. Probabilmente se fossimo arrivati
poco prima saremmo riusciti a proteggervi entrambe. Ti chiedo scusa a
nome di tutti per questo”
Ayame,
colpita dalle parole del Cavaliere dei Gemelli, sorrise e fece cenno
col capo che non era necessario scusarsi.
“Adesso
ho abbastanza capito, anche se alcuni particolari ancora mi sfuggono,
ma non penso siano fondamentali”
Mu
riprese la parola.
“Sta
di fatto, comunque, che sei uscita dallo scontro enormemente
indebolita e la dea dentro di te è assopita”
Assopita.
Quindi Afrodite non l’ha abbandonata completamente! Non
potè non
rallegrarsi di quella notizia.
“Sei
un bersaglio facile per i nostri nemici, perché sicuramente
tenteranno di rimediare all’errore commesso, Ayame. Dobbiamo
quindi
portarti in un luogo sicuro”
“Qui
non è abbastanza sicuro?” domandò
Ayame, conoscendo però già la
risposta.
“Non
per te, purtroppo. Temo che dovrai venire con noi al Grande
Tempio”
Ayame
sospirò e si voltò a guardare Hyoga. Le
bastò un’occhiata per
capire che lui non sarebbe venuto ad Atene con lei, che sarebbe
rimasto lì a Tokyo per proteggere la sua dea.
Tornò
a rivolgersi ai Cavalieri d’Oro. “Quando
partiamo?”
Di
nuovo nella sua stanza, con la fedele Psiche ad aiutarla a preparare
i bagagli, Ayame si guardò un’ultima volta
intorno, per ricordare
ogni momento meraviglioso passato in quel luogo dopo la sconfitta di
Efesto.
Non
era solo la sua stanza, la condivideva con Hyoga. Su quel letto
avevano fatto l’amore e si erano coccolati tante volte, sul
terrazzo si erano scattati tante fotografie, più o meno
serie, e in
bagno si erano dati battaglia molte volte con l’acqua, per
poi
finire di nuovo a fare l’amore.
Posò
sul letto tutto ciò che aveva raccolto in bagno, vicino alla
sacca
che Psiche aveva preparato. Anche con le ragazze aveva vissuto
momenti indimenticabili. Le venne in mente il loro primo pigiama
party, passato, come voleva la tradizione, a farsi la manicure e
raccontarsi pettegolezzi più o meno peccaminosi sui maschi.
Non
avrebbe mai dimenticato le espressioni imbarazzate di Galatea nel
sentire i commenti delle sue compagne sugli uomini.
Insieme
a Psiche, tentò di far entrare tutto il voluminoso beauty
case nella
sacca. A missione compiuta, Psiche sospirò vistosamente.
“Qualcosa
non va?” si preoccupò subito Ayame, notando lo
sguardo basso della
Sacerdotessa.
Questa
rialzò la testa, risoluta come sempre, ed espose il problema.
“Voglio
venire ad Atene con te”
Dopo
la decisione di partire coi Cavalieri d’Oro, Ayame aveva
predisposto che le Sacerdotesse restassero invece a Tokyo, per
affiancare i Cavalieri e proteggere Atena. Aveva dovuto insistere un
po’ per convincerle, ma, alla fine, tutte avevano ceduto. O
almeno,
così le era parso.
“Psiche,
starò bene anche senza il vostro aiuto. Bastano i Cavalieri
d’Oro
per proteggermi…”
“Non
voglio venire per te” la interruppe bruscamente
l’amica, che
subito si corresse “Voglio dire, anche per te, ma il fatto
è che…
ho bisogno di andarmene da qui. E tu sai perché”
Sì,
lo sapeva. Durante lo scontro con Efesto, Psiche si era innamorata
del Cavaliere della Fenice, Ikki, ma non era riuscita a scalfirne il
cuore di pietra ed era andata incontro ad un netto rifiuto che
l’aveva ferita nell’orgoglio, oltre che nel cuore.
Probabilmente
sperava che Atene le desse la possibilità di ritornare ad
essere la
Psiche energica e sicura di un tempo.
“Ho
già parlato col mio maestro e con Saori e loro sono
d’accordo”
si affrettò ad aggiungere Psiche.
“Allora
chi sono io per andare contro ai tuoi desideri?”
Felice
come poche volte lo era stata, Psiche abbracciò Ayame
ringraziandola
mille volte. Presa, poi, una maniglia del borsone ciascuna, fecero
per portare il bagaglio al pian terreno. Una volta aperta la porta,
però, si imbatterono in Galatea. Aveva il pugno chiuso
sollevato a
mezz’aria. Probabilmente erano minuti che stava lì
davanti alla
porta, incerta se bussare o meno.
Sia
ad Ayame che a Psiche sembrò più nervosa del
solito. Deglutì molte
volte prima di iniziare a parlare.
“Io
volevo sapere se… insomma… se potevo venire con
te ad Atene”
Ayame
si trovò in difficoltà. L’aver
acconsentito alla richiesta di
Psiche quasi la costringeva ad accogliere anche quella di Galatea.
Psiche, però, le aveva dato una valida motivazione.
“Perché
vorresti venire con me?” le chiese allora, curiosa.
Galatea
prese un respiro profondo, quindi spiegò tutto.
“Sono
sempre stata la più piccola, la più timorosa, la
più inesperta, la
più tutto e… non voglio più esserlo.
Voglio crescere e so che ad
Atene posso farlo”
Era
strano sentire un discorso del genere uscire dalla bocca di Galatea,
l’unica delle Sacerdotesse ad essere nata ai tempi del mito e
quindi, in termini di anni, la più anziana. Ma molti di
quegli anni
li aveva passati sotto forma di statua d’avorio, insieme a
suo
fratello Palemone, che in quel momento era in giro per il mondo al
fianco di Julian Solo e Sorrento.
Ayame
e Psiche si lanciarono uno sguardo di approvazione e Ayame rispose
alla sua Sacerdotessa. “Ok, puoi venire con noi”
Indicò
Psiche a Galatea, facendole intendere che sarebbero state in tre a
partire, quel pomeriggio. La ragazza abbracciò le amiche con
trasporto e corse subito nella sua stanza a preparare i bagagli.
Mentre
scendeva le scale, Ayame si accorse che il pensiero di andare ad
Atene in compagnia delle sue due Sacerdotesse le faceva pesare di
meno l’allontanamento da Hyoga, che comunque le sarebbe
mancato
come l’aria.
Terzo capitolo per voi :)
Per il momento non sono ancora lunghissimi nè emozionanti,
me ne rendo conto, ma il movimento arriverà, promesso ;)
Buona lettura!
|
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Capitolo 5 *** Gemelli ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
4
– Gemelli
Per
andare in aeroporto, Saori aveva messo a disposizione tre delle sue
vetture private, con tanto di autista.
Quattro
dei cinque Cavalieri d’Oro sarebbero tornati ad Atene, mentre
Saga
sarebbe rimasto a Tokyo assieme ad Atena e presto altri due Cavalieri
lo avrebbero raggiunto.
Saori
e Hyoga avrebbero accompagnato Ayame e le Sacerdotesse
all’aeroporto.
Una macchina portò loro tre e i bagagli di Ayame, Camus,
Shaka e Mu
ne avrebbero occupata un’altra mentre Psiche e Galatea
avrebbero
viaggiato con l’ultima auto insieme ad Aphrodite.
Dopo
essersi accomiatati dai restanti Cavalieri di Bronzo e dalle
Sacerdotesse, che accettarono di buon grado la partenza di due delle
loro compagne, salirono tutti quanti a bordo e partirono verso
l’aeroporto, dove un aereo della fondazione Kido li avrebbe
condotti ad Atene.
Saori
prese posto a fianco dell’autista e diede istruzione che
venisse
abbassato il separé tra le due file di posti, per lasciare
un po’
di intimità ad Ayame e Hyoga. I due ragazzi, tuttavia, non
parlarono
durante il viaggio, perché c’erano troppe cose da
dire, una più
malinconica dell’altra. Avrebbero reso il distacco
più difficile.
Ayame
teneva sempre una mano sul ventre, con quella di Hyoga sopra a
stringerla.
Le
trafficate strade di Tokyo sfilavano davanti ai finestrini oscurati
dell’auto, in un tripudio di modernità e
tecnologia. Da quello che
si ricordava e che le avevano detto del Santuario, era un luogo
diametralmente opposto a quello, legato alle antiche tradizioni e al
buon lavoro manuale.
Ma
non erano dettagli fondamentali, dopotutto sarebbe rimasta
là il
tempo necessario ad arginare e debellare questa nuova minaccia.
Dopodiché sarebbe tornato tutto come prima. Tutto tranne
lei,
probabilmente.
Ben
presto i grattacieli cominciarono a diminuire, lasciando spazio alle
case di periferia, più distanziate e basse, e quindi ai
capannoni
industriali e agli hangar dell’aeroporto. In pochi minuti le
auto
raggiunsero il posto di blocco del terminal. Saori diede poche
indicazioni all’agente nel gabbiotto e questi
sollevò la sbarra di
metallo per consentire loro l’accesso. L’hangar
privato della
fondazione Kido non era molto lontano e in pochi secondi il loro
viaggio terminò.
Scesero
tutti dalle vetture, mentre Ayame e Hyoga rimasero ancora in auto.
“Non
sarà per molto tempo, vedrai” cercò di
tirarla su Hyoga,
circondandole le spalle con un braccio.
“Lo
so” rispose lei cercando di sembrare convinta. “Ma
poi dopo? Cosa
farò quando sarò tornata? Non sono più
una dea, non appartengo più
al vostro mondo”
“Appartieni
al mio” ribatté con convinzione Hyoga, mentre
prendeva il viso di
Ayame tra le mani per costringerla a guardarlo. “E io al tuo.
Siamo
quasi morti per questo, ricordi? Non sarà un Angelo sbucato
dal
nulla a rovinare tutto”
Rincuorata
da quelle parole, Ayame gli gettò le braccia al collo e lo
baciò
per l’ultima volta, mettendo in quel gesto tutto
l’amore che
provava per Hyoga.
Quando
uscirono dalla macchina, solo Saori e le Sacerdotesse erano ancora a
terra.
Ayame
salutò con un caloroso abbraccio l’amica e si
raccomandarono
prudenza a vicenda.
Le
tre ragazze salirono poi sulla scaletta che conduceva al portellone
dell’aereo. All’ultimo gradino, Ayame si
voltò ancora una volta
per guardare Hyoga, che le sorrise e la salutò sollevando
una mano.
Anche lei sorrise. Ce l’avrebbero fatta anche quella volta.
Il
viaggio verso Atene fu lungo ma piacevole. L’aereo era
fornito di
ogni comfort e il personale riuscì a mettere tutti a proprio
agio.
Ayame
si sedette insieme a Psiche e Galatea, mentre i Cavalieri rimasero in
disparte. Shaka si isolò del tutto andando ad occupare un
sedile in
fondo. Rimase lì, in silenzio e ad occhi chiusi, per tutta
la durata
del viaggio.
Gli
altri tre si alternarono per andare a controllare la situazione di
Ayame e delle altre ragazze, ma non si intrattennero mai con loro e
spesso rifuggivano i loro sguardi, come se si sentissero in
imbarazzo, soprattutto nei confronti di Psiche e Galatea. Solo
Aphrodite si comportava normalmente da quel punto di vista, ma
nemmeno lui fu di molte parole.
Atterrarono
dopo quasi cinque ore di volo. A causa del fuso orario, ad Atene era
ancora pomeriggio pieno al momento del loro arrivo, ma le ragazze si
sentivano stanche come se fossero le due di notte.
All’aeroporto
montarono su due taxi che portarono tutti alle pendici dell'Acropoli
di Atene. Nessuna delle tre badò troppo al monumentale
altopiano. Da
lì proseguirono a piedi, costeggiando il sito. I Cavalieri
si
caricarono i loro bagagli e le guidarono tra viuzze attorno
all’Acropoli, gremite di turisti, fino ad un piccolo negozio
di
fiori poco in vista.
Quando
entrarono, quelli che Ayame identificò come i proprietari
dell'attività si inchinarono al passaggio dei Cavalieri e
guardarono
lei e le Sacerdotesse con curiosità. Gli altri quattro
salutarono la
coppia con un minimo cenno del capo, quindi condissero le ragazze sul
retro del negozio. Lì, tra innumerevoli vasi colmi di fiori
e varie
casse di legno, si intravedeva appena un'anonima porticina di legno
appena socchiusa.
Mu
la aprì, lasciando che l'abbagliante luce del sole
illuminasse
l'ambiente, e la varcò per primo, seguito a ruota dal resto
della
compagnia.
Ayame
si era aspettata di vedere qualcosa di simile ad un cortile spoglio,
con qualche attrezzo abbandonato in disordine. Oltre la porta,
invece, si estendeva un vicoletto pavimentato di ciottoli e
affiancato da entrambi i lati da piccole abitazioni di legno e
mattoni. La sensazione di essere piombata improvvisamente in un'altra
epoca tolse il fiato ad Ayame, che rimase sulla soglia a fissare il
panorama di fronte a lei a bocca aperta.
Camus
sorrise nel vedere l'espressione stupefatta della ragazza.
“Benvenuta
a Rodorio” le disse, riportandola così con gli
occhi ad altezza
d'uomo.
“È
il villaggio che precede il Tempio e ne custodisce il segreto. La
bottega del fioraio, invece, ne nasconde il passaggio”
spiegò il
Cavaliere dopo che Ayame gli si fu affiancata. “Appartiene
più al
nostro mondo che a quello 'esterno'”
“Sembra
di essere tornati indietro nel tempo” confermò
lei, mentre
continuava a guardarsi intorno. Altre vie si aprivano tra le
abitazioni. Imboccarono una di esse e raggiunsero quella che doveva
essere la piazza principale del villaggio. Una fontana di marmo
sorgeva al centro dello spiazzo. A ridosso delle abitazioni, invece,
sorgevano numerose bancarelle in cui si vendeva e comprava una gran
varietà di prodotti, principalmente alimentari e manufatti
d'artigianato.
Gli
abitanti si voltarono al loro passaggio per inchinarsi come al solito
ai Cavalieri, mentre i bambini agitavano le mani sorridenti ed
emozionati di vedere quelli che, pensò Ayame, consideravano
i loro
eroi. Le ragazze, invece, furono raggiunte dai soliti sguardi
curiosi, a cui si aggiunsero alcuni mormorii e commenti sommessi.
“Non
badateci” disse loro Aphrodite “Non sono abituati a
vederci in
compagnia di donne senza una maschera sul volto”
“Beh,
che si abituino” ribattè contrariata Psiche
“Perchè non ho
nessuna intenzione di indossarne una”
“Mi
sarei stupito del contrario, mia cara” commentò il
suo maestro con
un mezzo sorriso.
Superata
la piazza, si immersero nuovamente nei vicoli stretti di Rodorio, per
poi sbucare ai piedi di un'imponente scalinata di marmo. Risaliva
tutto il pendio del monte ed era intervallata, a distanze
più o meno
regolari, da maestosi templi, ognuno in uno stile diverso. Una di
esse era a pochi scalini di distanza da loro.
“Benvenute
al Grande Tempio!” annunciò Mu, più
sorridente e affabile del
solito. “E benvenute nella mia casa. La Prima, la Casa
dell’Ariete”
Come
all'entrata nel villaggio, Ayame, insieme a Galatea, ammirò
estasiata la magnificenza delle Tredici Case, le dodici dello Zodiaco
più la Tredicesima, dimora del Gran Sacerdote e ultimo
ostacolo al
tempio più imponente di tutti, quello della dea Atena.
“Che
è successo qui?” domandò invece Psiche,
che sembrava quasi
sconvolta a quella visione. “Non c’erano tutte
queste macerie
quando me ne sono andata. Sono rimaste in piedi solo le Dodici
Case!”
“Molte
battaglie sono state combattute qui” si accinse a spiegare
Aphrodite. “Non ultime quelle contro Hades e Artemide, che
hanno
ridotto tutto il Santuario ad un cumulo di sassi. Per volere di Zeus
e per mano di Apollo, le Tredici Case sono state riportate
all’antico
splendore, ma per il resto serviranno ancora mesi e mesi di
lavoro”
“Chissà
come doveva essere prima che accadesse tutto ciò”
disse Ayame,
sempre contemplando le facciate immense dei tredici templi.
Il
gruppo passò attraverso il colonnato della Casa
dell’Ariete e
arrivò al cospetto della Seconda Casa, quella del Toro.
Un
uomo nerboruto e dalla folta chioma castana attendeva dinanzi al
tempio. Ayame pensò che era l’uomo più
grosso che avesse mai
visto.
Salirono
la breve scalinata che conduceva al pronao del tempio e si fermarono
davanti all’omone. L’espressione severa che teneva
non piacque
per niente alle ragazze.
“Salve,
Aldebaran” salutò Mu, cordiale. “Queste
giovani saranno nostre
ospiti per qualche tempo. Ti presento Psiche e Galatea, Sacerdotesse
di Afrodite, mentre questa è Ayame, reincarnazione della
dea”
Un
tempo, aggiunse Ayame nella sua testa, ma cercò di
mostrarsi
affabile.
L’uomo
chiamato Aldebaran le squadrò per bene, prima di distendersi
in un
larghissimo sorriso e dare il suo caloroso benvenuto a tutte e tre.
“Finalmente
un po’ di facce nuove in questo mortorio!”
esclamò poi,
circondando col suo immenso braccio Ayame e caricandosi in spalla la
sua borsa. “Le ultime visite che abbiamo ricevuto non sono
state
molto amichevoli e molti di noi ci hanno lasciato le penne, me
compreso. Ma adesso siamo di nuovo in sella, vero ragazzi?”
Aldebaran
riuscì a strappare ad Ayame il primo sorriso spontaneo
dall’incidente. Si offrì di accompagnare le tre
fanciulle nella
visita alle restanti case e, vista la grande simpatia
dell’omone,
nessuna obiettò.
Il
Cavaliere del Toro si mise in testa alla piccola comitiva, con Ayame
subito dietro e gli altri a seguire. Salirono fino alla Terza Casa,
quella dei Gemelli, che in teoria sarebbe dovuta essere vuota. Si
fermarono comunque all’ingresso.
“Kanon!”
tuonò Aldebaran. “Ci sei?”
La
sua voce riecheggiò tra le possenti colonne di marmo, ma
nessuna
risposta giunse alle loro orecchie.
“Chi
è Kanon?” domandò Ayame, incuriosita.
“Il
gemello di Saga” spiegò cupo Camus, sempre
cercando con lo sguardo
qualche segno di vita dell’inquilino della Terza.
“Suo fratello
gli ha affidato il compito di custodire la Terza, mentre lui
è a
Tokyo”
Ayame
annuì e prese a guadarsi intorno, nel tentativo di scorgere
questo
fantomatico Kanon da qualche parte. Nonostante i richiami sempre
più
potenti di Aldebaran, però, nessuno si fece vivo.
Mu
prese in mano la situazione e guidò tutti attraverso la Casa.
Una
volta entrata, Ayame sollevò lo sguardo verso il soffitto
del
tempio, talmente alto che si scorgeva a malapena. Percepiva qualcosa
in quella Casa, una specie di formicolio alla nuca, come se qualcuno
la stesse osservando.
Vagò
con gli occhi per tutto il soffitto fino alla prima fila di colonne,
quindi giù lungo una di esse, finché non
incrociò due occhi blu
oltreoceano che la fissavano severi.
Quello
che doveva essere Kanon uscì dall’ombra, sempre
guardandola con
uno sguardo impenetrabile. Era identico al fratello, ma anche
totalmente diverso, e la incuriosiva.
Non
si era accorta di essere rimasta indietro finché Galatea non
la
richiamò. Il resto del gruppo era già fuori dalla
Terza, ai piedi
della scalinata che conduceva alla Casa del Cancro.
“Arrivo!”
rispose Ayame, e gettò un ultimo sguardo tra le colonne. Di
Kanon,
però, nessuna traccia.
Raggiunse
svelta gli altri, ripromettendosi che sarebbe tornata alla Terza.
Proseguendo
lungo l’immensa scalinata di marmo, le tre ragazze fecero la
conoscenza dei restanti Cavalieri d’Oro e delle loro
variopinte
personalità.
Alla
fine della salita, appena fuori dalla Casa dei Pesci, la ragazza
potè
finalmente stilare un elenco sommario dei dieci Cavalieri:
-
Mu dell’Ariete: affabile, cortese, disponibile, ma troppo;
-
Aldebaran del Toro: mitico;
-
Kanon dei Gemelli: da definire molto presto;
-
Death Mask del Cancro: inquietante;
-
Aiolia del Leone: tutto d’un pezzo, un gran pezzo;
-
Shaka della Vergine: mistico;
-
Dhoko della Bilancia: non pervenuto;
-
Milo dello Scorpione: simpatico ma dall’occhio lungo,
soprattutto
su Psiche;
-
Aiolos del Sagittario: non pervenuto;
-
Camus dell'Acquario: da sciogliere; -
Shura del Capricorno: un po’ troppo tutto d’un
pezzo;
-
Aphrodite dei Pesci: elegante.
Avrebbe
voluto esporre la sua classificazione alle compagne, ma
l’inizio
della loro conversazione fu interrotto dall’arrivo del Gran
Sacerdote del Santuario.
Shion
dell’Ariete aveva l’aspetto di un ventenne e il
piglio di un uomo
saggio e subito incusse reverenza nelle tre ragazze. Si
presentò con
freddezza e le guidò all’interno della Tredicesima
Casa. Congedò
i quattro Cavalieri d’Oro sulla soglia della Sala del Trono,
quindi
entrò con le tre ragazze al seguito.
La
sala era immensa e tappezzata di arazzi che ritraevano le
più epiche
battaglie del mito, alternate a specchi e statue di marmo di dei ed
eroi. Lungo il pavimento fino allo scranno d’oro era steso un
tappeto rosso dai motivi dorati.
Shion
non prese posto sul trono, ma si fermò poco dopo
l’ingresso e si
rivolse alle tre fanciulle.
“Vi
do il benvenuto al Grande Tempio di Atene. Come ben sapete, per noi
è
strano che donne guerriere girino per il complesso a volto scoperto,
ma non siete devote ad Atena, quindi non serve che sottostiate alle
nostre regole. Vi pregherei comunque di seguire in linea di massima
le altre, soprattutto per il vostro bene, Afrodite. Sarebbe
più
facile, per noi, proteggervi, se vi limitaste a rimanere nei confini
del Santuario, sotto il nostro controllo”
Ayame
annuì, ma non disse una parola. Il distacco che Shion stava
dimostrando nei loro confronti l’aveva subito messa a
disagio.
Inoltre aveva notato una nota di diffidenza mentre pronunciava il
nome di Afrodite, segno che non si fidava di lei. Probabilmente aveva
le sue buone ragioni, ma la cosa la mise comunque in soggezione.
“Voi
alloggerete qui alla Tredicesima, con me. Voi, Psiche, avete una
stanza a vostra disposizione alla Casa dei Pesci, col vostro maestro,
mentre Galatea sarà ospitata da Camus
dell’Acquario
all’Undicesima. Sarete abbastanza vicine alla vostra dea da
poter
accorrere in suo soccorso in qualsiasi momento”
Le
due Sacerdotesse annuirono.
Le
porte della sala si aprirono, e una giovane donna dai capelli rossi e
dal volto mascherato fece capolino.
“Mi
avete fatto chiamare, Eccellenza?”
“Sì,
Marin. Accompagna le due Sacerdotesse alle rispettive stanze, io
mostrerò ad Afrodite la sua”
Marin
annuì riverente e fece spazio a Psiche e Galatea, che
recuperarono i
bagagli lasciati dai Cavalieri all’ingresso della stanza ed
uscirono dal tempio, promettendo ad Ayame che sarebbero tornate a
trovarla.
Questa
seguì Shion attraverso gli intricati corridoi della
Tredicesima.
All’imbocco di uno di essi, il Celebrante si fermò
davanti ad una
porta e la invitò ad entrare con un semplice gesto della
mano.
La
stanza era immensa, con un letto a baldacchino al centro, di fronte
ad un grosso comò, e fiancheggiato da un armadio gigantesco.
Due
poltrone e un tavolino di vetro erano posti davanti alla grande
porta-finestra che dava su un terrazzo affacciato sul mare.
“Grazie”
disse Ayame, sforzandosi di essere cordiale.
Shion
mosse appena il capo, quindi se ne andò, chiudendosi la
porta alle
spalle.
Nonostante
il viaggio e le novità della giornata, quella notte Ayame
non riuscì
a prendere sonno. Cercò di attribuire la cosa al jet lag, ma
in
fondo al cuore sapeva che il motivo era un altro. Era ancora lontano
il giorno in cui sarebbe riuscita a ritornare l'Ayame di un tempo, e
forse quel giorno non sarebbe mai arrivato.
Arresasi
una volta per tutte all'insonnia, la ragazza si alzò dal
letto e si
sporse dal piccolo terrazzo della sua stanza alla Tredicesima casa
del Santuario. Accolse il piacevole soffio della calda notte greca
che subito le lambì il corpo, coperto solo dal leggero
pigiama
estivo, e lasciò vagare lo sguardo oltre l'orizzonte marino
baciato
dai raggi della luna. Per la prima volta dall'aggressione, Ayame
dovette ammettere di sentirsi in pace. Il peso dell'assenza di
Afrodite, seppur sempre presente, non sembrava gravoso come a Tokyo,
e la calorosa accoglienza che aveva ricevuto al suo arrivo, se non si
contava quella del Gran Sacerdote, era riuscita a rendere
l'allontanamento da Hyoga meno drammatico. Nonostante questo, le
mancava comunque come manca l'ossigeno ad un uomo che sta affogando.
Lasciando
vagare lo sguardo, Ayame studiò le Dodici Case dello Zodiaco
ad una
ad una, ancora meravigliata dalla loro imponenza e contemporanea
eleganza. Tanti stili diversi per tante personalità diverse.
Una fra
tutte aveva attirato la sua attenzione quel pomeriggio. L'alone di
mistero che attorniava l'abitante della Terza Casa dei Gemelli,
Kanon, l'attraeva come una calamita. Stava giusto osservando quel
tempio quando, dal lato di esso rivolto alla scogliera, il Cavaliere
uscì a passo cadenzato. Un flebile canto si sparse per tutto
il
tempio, carico di tristezza e malinconia.
Ayame
non resistette e, afferrato al volo un leggero golf di cotone,
uscì
dalla sua stanza e dalla Tredicesima, incurante di qualsiasi
possibile sorveglianza,e si precipitò giù per la
ripida scalinata
che fiancheggiava le Dodici Case, rallentando solo in
prossimità del
colonnato della Casa dei Gemelli.
Come
previsto, il canto veniva da lì, e precisamente dalla
scogliera.
Ayame si addentrò cauta all'interno dell'imponente tempio,
in cerca
dell'uscita laterale.
Gli
altri Cavalieri l'avevano avvertita dell'effetto di quella Casa sui
visitatori. Molti ci si erano persi, col fisico e con la mente, a
causa delle illusioni elaborate dai loro custodi. Quella notte,
però,
il custode non sembrava curarsi della sicurezza del suo tempio.
Ayame
procedette comunque con prudenza, fino a trovare l'apertura verso il
mare.
Kanon
era sul ciglio della scogliera e le dava le spalle. Aveva lo sguardo
rivolto al cielo e alla luna gridava il suo canto. Ayame si
appoggiò
ad una colonna in rovina lì vicino e ascoltò
assorta quelle parole
tristi e rivelatrici di un animo profondo racchiuso dentro una dura
scorza di freddezza, finché le stelle in cielo non
iniziarono a
brillare e muoversi al ritmo della melodia. O così almeno le
sembrò.
La
ragazza levò gli occhi al cielo, a contemplare quella
visione di
astri cadenti e galassie turbinanti, totalmente coinvolta nel canto
liberatore di Kanon di Gemini da non accorgersi di nient'altro
attorno a lei. Sapeva che c'era molto di più del guerriero
imperturbabile in quegli occhi profondi come abissi. Ne stava avendo
la prova in quel momento.
Tutto
cessò, poi, all'improvviso. La magia scomparve e in Ayame si
fece
strada la consapevolezza. Voltò rapida lo sguardo verso la
scogliera. Kanon si era accorto di lei e la stava fissando, duro e
inespressivo. Riuscì comunque a farla sentire un'intrusa.
Dopotutto,
era esattamente quello che era in quel momento. Sentiva di aver
varcato un confine proibito.
“Che
ci fai qui?” le domandò con voce atona Kanon.
Ayame
aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di biascicare
un
sottilissimo “Mi dispiace...”. Nel frattempo aveva
inconsapevolmente iniziato ad arretrare. Bastò un passo di
Kanon
nella sua direzione per convincerla ad aumentare la
velocità. Perse
però l'equilibrio e cadde a terra. Rialzatasi velocemente,
voltò le
spalle al Cavaliere e corse dentro il tempio e verso la Tredicesima.
A
niente valsero i richiami di Kanon. La ragazza scappò lesta
dentro
la Casa dei Gemelli, forse urlando ancora uno
“Scusami” affannato
nella sua direzione. La vide risalire velocemente verso la dimora di
Shion, agile come un'amazzone e fragile come un fuscello al vento.
Era
stata la sua fragilità a fargli notare che c'era qualcun
altro alla
scogliera. La faccia dura gli era venuta di riflesso, come sempre
quando aveva a che fare con qualcuno. Solo che, almeno per quella
sera, non l'aveva desiderata.
Ad
ogni modo, la ragazza nel cui corpo una volta era reincarnata
Afrodite era scappata e Kanon aveva perso l'unica occasione per
poterle parlare. Shion non gli avrebbe mai permesso di avvicinarsi a
lei. Probabilmente nemmeno lui l'avrebbe fatto, se fosse stato al
posto del Gran Sacerdote.
Eppure
c'era qualcosa in Ayame – era così che si chiamava
la ragazza, se
aveva ben capito – che lo attraeva e lo incuriosiva. Sebbene
ne
fosse stata la reincarnazione fino a pochi giorni prima, era sicuro
che in lei ci fosse molto di più della bellezza e frivolezza
caratteristiche di Afrodite.
Mentre
faceva lentamente ritorno alla Terza Casa, il suo sguardo cadde su
qualcosa di luccicante a terra. Sembrava un ciondolo. Si
chinò per
controllare meglio. Il ciondolo era a forma di M, appeso ad una
semplice catenina. Doveva essere caduto ad Ayame nella fretta di
scappare da lui. Lo raccolse e se lo mise in tasca, ripromettendosi
di restituirlo alla ragazza il giorno dopo. E magari anche di parlare
con lei, chissà.
Ecco il quarto capitolo! Le
nostre tre fanciulle sono giunte al Santuario, chissà cosa
combineranno in questo mondo di machi ;)
So che 'Kanon che canta'
non è una cosa che tutti si aspettano di vedere... nemmeno
lui si aspetta che qualcuno lo veda cantare, a dire la
verità :P ad ogni modo, nella mia mente contorta la sua
canzone è "Go the distance" di Michael Bolton, se voi avete
pensato a qualcos'altro, sarei curiosa di vedere (e magari sentire) le
vostre canzoni :)
A presto!
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Capitolo 6 *** Synagein ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
5
– Synagein
Quando
sorse il sole su quella prima mattina greca, Ayame era già
in piedi,
nonostante non avesse la minima idea di casa avrebbe potuto fare per
il resto della giornata. Pochi minuti dopo che i raggi del sole
ebbero lambito il suo corpo in attesa davanti alla finestra, qualcuno
bussò alla sua porta. Ayame si trovò davanti una
ragazzina di
massimo quindici anni, vestita decisamente all'antica, con in mano un
vassoio ricco di vivande.
“La
vostra colazione, signorina” sorrise la bambina,
porgendoglielo.
“Oh,
grazie” rispose lei sorpresa, prendendo il cabaret.
“Il
Gran Sacerdote vuole che scendiate nella Sala del Trono tra un'ora,
per il Synagein” continuò la ragazzina, sempre con
voce
cristallina e allegra.
“D'accordo,
grazie dell'informazione”
“Mi
ha anche detto che gradirebbe che voi veniste in abiti consoni alla
situazione”
“Nient'altro?”
indagò Ayame, evitando di guardare com'era vestita.
“No,
questo è tutto quello che dovevo dirvi. Adesso vado, devo
aiutare la
mia mamma col bucato. Ci vediamo domani mattina, signorina!”
Ayame
non fece i tempo a ricambiare il saluto che la bambina era
già
scomparsa dietro il muro del corridoio.
Richiuse
la porta alle sue spalle e posò il vassoio sul tavolino
davanti alla
finestra. La colazione abbondante comprendeva due fette di pane, uova
sbattute, una mela, una tazza di latte e un bicchiere di succo di
frutta. Ayame spiluccò qualcosa qua e là,
pensando a quale dei suoi
vestiti poteva essere adeguato per il Synagein, la riunione dei
dodici Cavalieri d'Oro al cospetto di Atena e del suo Celebrante.
Non
aveva mai posseduto abiti tradizionali, nemmeno quando era ancora una
dea. Non voleva sfigurare in mezzo a tutti quanti, ma, al contempo,
non concepiva tutto quel tradizionalismo.
Finita
la colazione tentò di abbinare qualcuno dei suoi abiti in
modo che
somigliasse vagamente a qualcosa di greco, con scarsi risultati.
Quando
bussarono di nuovo alla porta, Ayame aprì e si
trovò davanti la sua
salvezza.
Galatea
teneva in mano una candida e semplice veste di lino, fresca di
bucato.
“Quando
mi hanno comunicato del Synagein, ho pensato che ti sarebbe servito
qualcosa del genere” sorrise la Sacerdotessa, accennando al
vestito.
“Non
puoi neanche immaginare quanto ci hai azzeccato!”
esclamò Ayame,
tirando poi un sospiro di sollievo mentre lasciava entrare l'amica.
Galatea
notò la confusione che regnava nella stanza e si
lasciò scappare
una risata.
“Hai
cercato una soluzione alternativa?”
“Sì,
ma con pessimi risultati. Grazie al cielo sei arrivata tu”
rispose
Ayame, iniziando a spogliarsi.
“È
bastato chiedere un po' in giro per ottenerne qualcuna in prestito
per tutte e tre” spiegò Galatea.
“Spero
solo che non sia obbligatorio usarle anche per girare per il tempio.
Non credo che potrei resistere”
“A
me sembra di essere tornata a casa invece” ribattè
Galatea con
tenerezza, mentre fissava alcuni fermagli sulle spalline dell'abito
con maestria.
Ayame
sorrise. “Ti trovi bene qui?”
Galatea
scosse le spalle. “Mi sento più a mio agio. Il
Santuario è ciò
che di più simile ai miei ricordi abbia mai visto.
Però è solo il
primo giorno, magari tra un po' di tempo rimpiangerò tutte
le
comodità del ventunesimo secolo. Anche se devo dire che le
Case dei
Cavalieri d'Oro non sono così antiche come sembrano. Camus
possiede
una cucina con ogni genere di elettrodomestico”
“Non
mi sembra di aver visto nulla del genere alla Casa dei
Gemelli”
commentò senza pensarci Ayame.
Galatea
fermò a mezz'aria la mano con cui stava acconciando una
ciocca di
capelli dell'altra ragazza. Ayame notò l'espressione
sorpresa della
Sacerdotessa e si affrettò a raccontarle quanto avvenuto la
notte
precedente.
“Forse
avevo talmente fretta di togliermi di torno, che non ho badato a
guardare in giro” concluse con semplicità Ayame.
L'espressione
sconvolta sul volto di Galatea però non se ne
andò.
“Sei
entrata nella Casa dei Gemelli... di notte?”
ripetè dopo qualche
secondo, scandendo bene le parole.
“Sì,
ma non è successo niente di strano. Te l'ho detto, quel
Kanon mi
incuriosisce. C'è molto di più di quanto non dia
a vedere”
“A
me mette i brividi quasi quanto Death Mask” disse Galatea,
che
aveva ripreso ad annodare i capelli di Ayame con cura.
“Come
fai a dirlo, se non l'hai mai visto?” domandò
l'altra bionda,
incuriosita.
“L'ho
incrociato mentre salivo a portarti la veste. Mi ha anche chiesto se
potevo dirti che ti stava cercando, ma dovevi vedere che faccia aveva
mentre mi parlava”
Ayame
si alzò di scatto dalla poltrona, rischiando di strapparsi
la ciocca
di capelli che Galatea le stava pettinando.
“Kanon
vuole vedermi?” domandò incredula all'amica.
“Sì,
ha detto così” rispose lei, preoccupata
dall'eccessiva reazione di
Ayame. Dal canto suo, questa non sapeva se essere spaventata o
elettrizzata dalla cosa. Forse voleva metterla in guardia nel caso le
fosse venuta un'altra volta l'idea di entrare in casa sua di
nascosto. Forse voleva dirle di stare alla larga da lui, se non
voleva rischiare la vita. Forse voleva soltanto parlarle.
Sopraffatta
dalla curiosità, Ayame uscì di corsa dalla
stanza, senza badare ai
richiami di Galatea. Superato l'intrico di corridoi che separavano la
sua stanza dall'ingresso, andò quasi a sbattere contro
qualcosa di
metallico, che si scansò all'ultimo momento.
“Accidenti!”
esclamò Milo, divertito. “Non avevo mai visto
nessuno così
impaziente di partecipare ad un Synagein”
“No,
io... veramente stavo cercando Kanon” spiegò
Ayame, leggermente
imbarazzata.
“Kanon?
Non ti basto io?” ammiccò il Cavaliere, per poi
concludere il
teatrino con una risata e indicare ad Ayame che Kanon era fuori dal
Palazzo.
Questa
lo ringraziò e uscì dal Tempio.
Kanon
era in cima alla scalinata, seduto sull'ultimo gradino, con lo
sguardo perso oltre le Dodici Case. Non indossava un'armatura d'oro
come gli altri. Pur essendo sempre dorata, la fattura era diversa.
Ayame
gli giunse a pochi metri di distanza e cercò di attirare la
sua
attenzione con un timido “Ciao”.
Kanon
si voltò per vedere chi l'aveva distolto dai suoi pensieri.
Mostrò
ad Ayame il solito sguardo di pietra, quindi si alzò con
molta
calma, raccolse l'elmo dell'armatura, che pose sotto il braccio
sinistro, e la raggiunse.
Senza
dargli il tempo di ribattere, Ayame si lanciò in una
lunghissima
giustificazione degli avvenimenti della sera prima.
“Senti,
mi dispiace per ieri notte. Lo so, non è educato entrare in
casa
degli altri senza permesso, ma non riuscivo a dormire e ti ho visto
dal terrazzo mentre cantavi. Mi sono incuriosita e sono scesa, ma ti
giuro che non volevo spiarti o cose del genere, solo che sei l'unico
Cavaliere che non avevo visto. Cioè, ci siamo visti, ma per
poco, e
su di te non mi hanno detto molto, allora pensavo che potesse essere
una buona occasione per conoscerci, ma ho scelto il momento sbagliato
e...”
“Io
non volevo parlarti di questo” la interruppe Kanon. Il suo
tono di
voce era monocorde, distaccato, ma potente.
Ayame
rimase interdetta qualche secondo, prima di ribattere. “Ah,
no?”
Kanon
ribadì la cosa scuotendo leggermente la testa, quindi
allungò la
mano destra chiusa a pugno verso la ragazza.
“Deve
esserti caduta ieri sera, mentre scappavi” le
spiegò, sempre
inespressivo.
Ayame
aprì la mano e Kanon vi lasciò cadere il ciondolo
di Mikio.
“Grazie”
sorrise Ayame. “Pensa che non me ne ero nemmeno
accorta”
Se
lo riagganciò subito al collo e lo nascose sotto la veste.
“Stava
meglio con l'abbigliamento che avevi ieri” disse Kanon,
spiazzando
totalmente la ragazza, che lo guardò con tanto d'occhi.
“Suppongo
sia stato Shion ad intimarti di vestirti
così”continuò lui,
accennando alla veste.
“Sì,
infatti. Perché, sto male?” domandò
Ayame preoccupata.
“Dubito
che qualcosa stia male, addosso a te, però diciamo che non
è il tuo
genere. Comunque il supplizio durerà poco, non sarete
torturate a
lungo”
Detto
questo, Kanon la superò con noncuranza ed entrò
nella Tredicesima,
lasciando Ayame basita in cima alla scalinata.
Quell'uomo
era riuscito ad essere gentile, ironico e gentiluomo con poche parole
e senza mai cambiare tono di voce.
La
ragazza si voltò appena in tempo per vedere il suo marcato
profilo
greco scomparire dietro una colonna e una domanda le sorse spontanea:
chi era Kanon di Gemini?
Il
richiamo di Psiche dal fondo della scalinata la fece tornare alla
realtà. Anche la Sacerdotessa era in abiti tradizionali, ma,
dopo
anni di abbigliamento moderno, anche lei non sembrava a suo agio
dentro quella palandrana bianca.
Insieme
le due ragazze rientrarono al Tempio, dove si riunirono a Galatea per
fare il loro ingresso nella sala del trono.
Altri
dieci seggi erano stati aggiunti a fianco dello scranno del Gran
Sacerdote, in due file da cinque per lato. Tre sgabelli finemente
intagliati e adorni di cuscini rossi chiudevano il rettangolo. Le tre
ragazze sarebbero state, dunque, faccia a faccia col Gran Sacerdote.
La
maggior parte dei Cavalieri aveva preso posto e ammazzava l'attesa
chiacchierando. Ayame e le due Sacerdotesse presero posto senza
proferir parola, intimorite da tutta quella magnificenza, e si
presero istintivamente per mano.
Mentre
si guardava intorno nervosa, Ayame incrociò di nuovo lo
sguardo di
Kanon di Gemini, il quale, a differenza degli altri, non stava
parlando con nessuno dei presenti. Lei abbozzò un mezzo
sorriso e il
Cavaliere le rispose con un impercettibile movimento dell'angolo della bocca che perturbò
di poco
la sua solita espressione insondabile.
Non
le era mai successo di sentirsi un pesce fuor d'acqua. Aveva sempre
avuto la capacità di adattarsi a tutte le situazioni, ma
quella le
sembrava troppo al di fuori della sua portata. La
grandiosità di
tutto il complesso del Santuario e di quella sala in particolare,
poi, avevano il potere di metterla in soggezione. Era avvezza a
palazzi e opulenza, ma il Grande Tempio faceva parte di un'altra
epoca, di un altro mondo a cui, ormai, sentiva di non appartenere
più.
Il
silenzio calò bruscamente nella sala, segnando l'entrata del
Celebrante. Shion, a capo scoperto e con la lunga tunica blu addosso,
si sedette sul trono, dando ufficialmente inizio al Sinaygen. I suoi
occhi scuri puntarono subito sulle tre donne di fronte a lui.
Iniziò
a parlare fissando intensamente Ayame, seduta rigidamente sullo
sgabello centrale. La ragazza sostenne lo sguardo.
“Tutti
voi sapete il motivo della nostra presenza qui” disse senza
perdersi in preamboli. “Un nuovo misterioso nemico ci
minaccia. Non
solo noi esseri umani, ma anche gli dei dell'Olimpo. Zeus in persona
ha dovuto mettere da parte gli antichi rancori per avere i mezzi per
fronteggiare questo pericolo. Noi. Sulla Terra siamo i guerrieri
più
potenti, secondi solo alle reincarnazioni stesse. Reincarnazioni che
ci è stato ordinato di proteggere. Ed è quello
che faremo.
“Abbiamo
rischiato che il nemico portasse a compimento la sua prima mossa, ma
un caso fortuito ha fatto sì che ciò non
accadesse e ci ha dato la
possibilità di rimediare. La dea Afrodite si è
sacrificata per sua
sorella Atena, rendendo vano l'attacco di questi Angeli.
Tuttavia la dea non ne è uscita incolume. È
rimasta imprigionata
nel suo involucro, esposta al più semplice nemico come un
comune
essere umano”
A
sentirsi definire involucro, Ayame avrebbe voluto far notare al Gran
Sacerdote che era presente e sentiva benissimo ogni sua parola. E
involucro non era
proprio un complimento.
“Ayame
era la reincarnazione di Afrodite” proseguì Shion,
indicandola con
una mano “Ma adesso è una comune mortale e ci
è stato affidato il
compito di proteggerla. Due delle Sacerdotessa di Afrodite si sono
rese disponibili per aiutarci in questa missione. Alloggeranno qui,
insieme ad Ayame, per tutto il tempo necessario, ossia
finché il
nemico non sarà sconfitto o reso incolume. Nel frattempo,
per motivi
di sicurezza, Ayame non dovrà uscire dai confini del Tempio
per
nessun motivo. Il che significa che voi
dovrete fare in modo che ciò non accada”
Ayame
ne aveva abbastanza di sentire parlare di lei in terza persona, come
se non fosse presente.
“Non
preoccupatevi, Gran Sacerdote” si intromise di forza,
zittendo
Shion “Non ho ancora tendenze suicide e so obbedire agli
ordini”
“Allora
suppongo non ti dispiacerà se ti ordino
di non uscire più dalla Tredicesima di notte”
La
ragazza non riuscì a ribattere prontamente, dando
l'opportunità al
Celebrante di riprendere il discorso.
“Mi
auguro inoltre che le Sacerdotesse siano disponibili a rafforzare
questa sorveglianza, motivo per il quale hanno preso alloggio nelle
due Case immediatamente precedenti a questo palazzo. Queste sono le
mie disposizioni” concluse, concedendosi di appoggiarsi allo
schienale del trono. “Qualcuno di voi ha qualcosa da
aggiungere?”
Dopo
qualche secondo di silenzio, rotto solo da lievi bisbigli, la voce di
Shaka si fece largo fra tutte.
“Avrei
una proposta, Eccellenza” esordì il Cavaliere
della Vergine, per
poi mettersi in piedi in modo che tutti potessero sentirlo.
Shion
gli diede il permesso di procedere.
“Dopo
l'attacco a palazzo Kido, ho avuto modo di sondare l'anima di Ayame.
Volevo solo precisare che Afrodite non è imprigionata
all'interno
della ragazza, ma quasi addormentata e incapace di risvegliare se
stessa e i suoi poteri. Detto questo, io penso di poterla
risvegliare, ovviamente con la collaborazione di Ayame. Se si
sottoporrà a delle sedute giornaliere insieme a me, e non
metto in
dubbio che ci metterà tutto l'impegno richiesto, Afrodite ha
buone
probabilità di risvegliarsi in lei. Ayame e Afrodite
potranno
tornare ad essere una cosa sola come un tempo”
Ayame
ringraziò mentalmente mille volte Shaka per la sua proposta.
Almeno
qualcuno sembrava veramente interessato a lei. Shion soppesò
le
parole del Cavaliere per qualche secondo, prima di rispondere.
“E
sia, Shaka. Sarai il mentore di Ayame in questo tentativo di recupero
dei poteri. Se non altro per qualche ora sarà strettamente
sorvegliata. Altre proposte?”
“Come
agiremo se gli Angeli tenteranno di attaccarci?”
domandò Kanon,
senza giri di parole.
“Cercherò
informazioni sul loro conto nella Biblioteca del Tempio...”
“La
Biblioteca è andata distrutta, Eccellenza” gli
fece notare il
Cavaliere. “L'unica raccolta di libri a cui potete accedere
è la
Biblioteca Pubblica di Atene, al momento”
“Grazie
dell'appunto, Generale. Perché allora non andate voi per
primo a
cercare informazioni là?”
Quelle
poche battute bastarono ad Ayame per stimare Kanon e odiare Shion
ancora di più. E poi, perché Kanon era stato
chiamato Generale?
“La
testimonianza diretta di Ayame potrebbe venirmi utile. Se ho ben
capito, l'Angelo che l'ha attaccata è suo fratello e questo
indizio
potrebbe essere un buon punto di partenza per le ricerche”
“Sono
sicuro che potrai avere tutte le informazioni che vorrai dai quattro
Cavalieri che si sono recati a Tokyo e che hanno assistito alla
scena. Non è necessario che parli direttamente con lei.
Questo per
evitare malintesi di ogni sorta tra te e la nostra dea
addormentata”
A
quelle parole, per la prima volta, la maschera impassibile di Kanon
si incrinò. Una profonda ruga andò a solcargli la
fronte e gli
occhi lampeggiarono in direzione del Gran Sacerdote. L'intervento
pronto di Mu, che poggiò una mano sul copri-spalla del
compagno,
bastò a calmare l'animo del Generale.
“Direi
che è tutto, per il momento” concluse Shion,
alzandosi dal trono.
Tutti i presenti lo imitarono, con gran gioia di Ayame, che
cominciava a sentire l'atmosfera farsi pesante e insostenibile.
Una
volta fuori dalla Sala del Trono, Ayame sentì il bisogno di
uscire
dal tempio per prendere una boccata d'aria e calmare i bollenti
spiriti.
Poteva
accettare un atteggiamento di distacco da parte di Shion, ma non il
disprezzo così per partito preso. E la reazione alla sua
fuga
notturna della sera prima le sembrava eccessiva. Non era una bambina,
sapeva benissimo badare a se stessa, senza per forza impedirle di
uscire dai confini del Tempio. Dopotutto, dovevano proteggerla, non
rinchiuderla.
Mentre
i pensieri si rincorrevano nella sua testa, Ayame iniziò a
percepire
un senso di oppressione al petto. Il respiro si era fatto
più
affannoso e il caldo le pareva insopportabile. Presto iniziarono a
comparirle punti neri nel campo visivo, quindi perse forza nelle
gambe, che non furono più in grado di sorreggerla.
Sentì
a malapena una voce allarmata chiamarla, forse quella di Galatea,
mentre con quella che le parve una lentezza estenuante cadeva a
terra. Quando avrebbe dovuto toccare terra, però, due
braccia forti
giunsero in suo soccorso e la sorressero cingendola per la vita e
risollevandola con estrema facilità.
Aveva
la vista ancora annebbiata e non riuscì a distinguere i
lineamenti
del suo soccorritore, né vide in che luogo la stava
portando.
Percepì soltanto un cambio di luce, da cui intuì
che doveva averla
riportata dentro alla Tredicesima, quindi sentì che la
poggiava su
una superficie dura e fredda, lasciandole le gambe sollevate.
Una
mano grande e callosa si poggiò sulla sua fronte, che
scoprì essere
ricoperta di sudore freddo, e le scostò le ciocche bagnate
dal viso.
Pian
piano la sensazione opprimente scemò e Ayame
ritornò a vedere
nitidamente. Subito incrociò due occhi blu che la fissavano
seri. Se
fosse stata bene, probabilmente avrebbe sorriso nel constatare che il
suo soccorritore era Kanon.
“Si
sta riprendendo” affermò col suo solito tono
monocorde, per poi
prenderle il polso tra le dita.
A
quelle parole altri due volti entrarono nel suo campo visivo,
totalmente diversi da quello imperturbabile del Generale. Psiche e
Galatea erano infatti visibilmente preoccupate, la seconda in special
modo e, pensò Ayame, più per il fatto di essere
in compagnia di
Kanon che per le sue effettive condizioni di salute.
Kanon
le lasciò il polso e accompagnò le sue gambe, che
aveva tenuto alte
con un braccio fino a quel momento, finché non poggiarono
sulla
panca.
“Come
ti senti?” chiese ad Ayame.
“Meglio,
grazie”
“Adesso
prova ad alzarti lentamente e a metterti seduta” le disse.
Non
appena Ayame ebbe sollevato la schiena, Kanon la cinse con un braccio
per sorreggerla nel caso avesse avuto di nuovo un mancamento. A parte
un lieve giramento di testa, però, la ragazza non ebbe alcun
problema e il Generale lasciò la presa.
“Il
Synagein fa questo effetto a molte persone, non è niente di
grave”
commentò Kanon, sorprendendo Ayame quando un mezzo sorriso
comparve
sul suo volto.
“E
tu le hai sempre soccorse tutte?” domandò lei,
sorridendo a sua
volta.
“Solo
quelle più interessanti”
“Kanon!”
Il
richiamo del Gran Sacerdote rimbombò per tutto l'ingresso.
Ayame lo
trovò più fastidioso del solito e non era sicura
che fosse per
colpa del malore di poco prima.
Il
Generale si alzò prontamente, senza più nemmeno
l'ombra del sorriso
in volto.
“Sì,
Eccellenza” rispose poi con poca enfasi.
“Ti
suggerisco di affrettarti ad andare ad Atene, la Biblioteca potrebbe
chiudere” gli fece notare senza nemmeno tentare di nascondere
il
sarcasmo delle sue parole.
Kanon
tuttavia non reagì, ma si congedò rapidamente da
tutti loro e sparì
lungo la scalinata delle Dodici Case.
“Dovresti
andare nelle tue stanze a riposarti, Ayame”
suggerì invece a lei.
“Sei evidentemente ancora cagionevole e spossata dal viaggio.
Un
po' di riposo di farà bene”
Shion
non le diede nemmeno il tempo di ribattere che si richiuse la porta
della Sala del Trono alle spalle.
“Sono
convinta che a lui farebbe bene qualcos'altro, invece”
commentò
Ayame fra i denti, per poi rimettersi velocemente in piedi. Psiche e
Galatea accorsero subito da lei, ma la ragazza sembrava aver ripreso
le ottime condizioni di sempre.
Tornò
nella sua stanza a passo marziale, con le due Sacerdotesse dietro.
Una volta che Psiche si fu richiusa la porta alle spalle, Ayame
esplose.
“Che
si strozzi col pranzo, sua Eccellenza capelli color acido!”
esordì
infatti, slacciando con poca grazia la cintura che aveva in vita.
“'Non ti dispiace se ti ordino di qui...', 'Ti suggerisco di
fare
di là...', 'Dovresti di su...'... E io ti suggerisco di
esplodere,
pallone gonfiato!”
Gettò
quel che restava del suo abito sul letto e si infilò le
prime cose
che le capitarono sotto mano, quindi uscì sul terrazzino.
Sfogò
tutta la sua ira urlando epiteti poco fini per Shion al mare che
aveva di fronte, quindi prese un respiro profondo e tornò in
stanza,
dove Psiche e Galatea la osservavano ammutolite. Non l'avevano mai
vista così arrabbiata e si ritennero molto fortunate che
fosse
successo in un momento in cui era priva di poteri.
“Sapete
che vi dico?” riprese Ayame, ancora fremente. “Che
ha fatto
incazzare la persona sbagliata nel momento sbagliato. Celebrante di
Atena o meno, se ne pentirà amaramente. Sarà
l'estate peggiore di
tutta la sua vita, vecchia e nuova”
“Sicura
che sia una buona idea?” si azzardò a chiedere
Galatea. “Potrebbe
non concederti più la sua protezione”
“Staremo
a vedere” concluse Ayame. “Ad ogni modo ci conviene
scendere a
Rodorio per il pranzo, ho bisogno di stare il più distante
possibile
da Shion per almeno cinque ore”
Ben ritrovati! Per fortuna
nessuno mi ha linciato a parole per aver fatto cantare Kanon :)
In
questo cap ho reso Shion un po' antipatico e forse un po' OOC, lo so,
ma tutto verrà giustificato a tempo debito. In questa
storia,
poi, Ayame si comporterà più da ragazza 'normale'
e
abbandonerà la veste di reincarnazione di dea Kido style,
primo
perchè non è come la cara Saori (e infatti non si
fa
problemi a mandare a ramengo Shion, come avete visto), secondo
perchè, anche come Afrodite, la vedo più fresca e
spontanea, e comunque meno impostata di Atena. Di sicuro un
comportamento che avrà delle conseguenze al Santuario (e che
conseguenze!)
Basta anticipi! Buona
lettura!
|
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Capitolo 7 *** I bambini di Rodorio ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
6-
I bambini di Rodorio
Galatea
si asciugò col tovagliolo una goccia d'olio che le era
scivolata sul
mento dopo aver addentato la sua fetta di pane e olive. Erano secoli
che non ne mangiava di così buoni, esattamente come erano
secoli che
non vedeva la sua dea così alterata.
“Almeno
adesso siamo sicure che Afrodite sia ancora viva”
affermò dopo
aver ingoiato il boccone, guardando in direzione di Ayame, intenta ad
osservare con attenzione tutte le bancarelle del mercato di Rodorio.
La sua ira sembrava in parte scemata, visti i sorrisi che dispensava
a tutti i mercanti.
“Cosa
te lo fa pensare?” le domandò Psiche, seduta
accanto a lei sul
bordo della fontana in mezzo alla piazza.
“Faceva
sempre così quando un'altra divinità o chi per
essa osava
contraddirla” spiegò la Sacerdotessa.
“Dopodichè entravamo in
gioco noi, ci usava come spie per scoprire i punti deboli del povero
malcapitato. Al che si rivolgeva a Eros e a quel punto iniziavano i
guai seri. Ayame si è comportata esattamente come Afrodite
faceva
millenni fa, il che vuol dire che è ancora la nostra
dea”
“Dea
o non dea, muovere guerra a Shion è comunque una pessima
idea, a mio
modesto parere” ribattè Psiche.
“Già,
anche a me non piace. Può essere, però, che un
pomeriggio lontano
dalle Case la aiuti a sbollire e a dimenticare”
“Dimenticare
cosa?” domandò Ayame mentre raggiungeva le
compagne.
“Il
battibecco con Shion di poco fa” rispose Psiche.
“Vuoi
scherzare?!? Ho già in mente un paio di idee niente male per
farlo
uscire di testa”
La
bionda addentò la sua fetta di pane e feta con
un'espressione goduta
in volto e andò a sedersi vicino ad una preoccupata Galatea.
“Ayame,
se ti cacciasse dal Tempio...”
“Non
mi caccerà dal Tempio, tranquille. È desiderio di
Atena che io stia
qui e Shion, in quanto Gran Sacerdote, non andrà mai contro
i voleri
della sua dea”
“Spero
vivamente che sia così” concluse Psiche, molto
scettica a
riguardo, prima che uno spruzzo d'acqua poco innocente la bagnasse
completamente.
Psiche
dovette fare appello a tutto il suo limitato autocontrollo per non
esplodere, ma si voltò con uno sguardo furente in viso da
rivolgere
al malcapitato al solo scopo di avvertirlo a non farlo mai
più.
Tutta
la sua rabbia andò scemando quando incontrò
quattro paia di limpidi
occhi spaventati. I quattro bambini, due maschi e due femmine,
sembravano essersi immobilizzati completamente una volta capito cosa
avevano combinato e, probabilmente, non osavano muovere un muscolo
per paura di scatenare l'ira di Psiche.
“Ops!
A quanto pare l'abbiamo fatta arrabbiare” rise una voce
dietro la
fontana.
La
faccia divertita di Milo sbucò poco dopo, in netto contrasto
con
quella della Sacerdotessa.
“Ti
chiedo scusa da parte mia e loro” disse allora il Cavaliere,
frapponendosi tra Psiche e i bambini. “Stavano solo giocando
e lo
spruzzo avrebbe dovuto colpire me, ma mi sono scansato. Non pensavo
ci fosse qualcuno dietro”
Psiche
non rispose, ma continuò ad osservare Milo, impassibile.
Questi le
tese una mano in segno di pace, sempre col sorriso sulle labbra. La
ragazza la guardò qualche istante, prima di sospirare e
stringergliela.
“Solo
perché siete bambini”
“Lo
prendo come un complimento” ribattè pronto Milo.
“Sono
tuoi amici, quindi” constatò Ayame, sopraggiunta
assieme a
Galatea. “Non ce li presenti?”
“Ma
certo! Bambini, queste belle signore sono Ayame, Galatea e Psiche.
Staranno al Santuario per un po'. Belle signore, questi sono alcuni
bambini dell'orfanotrofio”
“Rodorio
ha un orfanotrofio? Ma è un villaggio così
piccolo!” esclamò
sorpresa Galatea.
“A
quanto pare non è una condizione sufficiente per non
abbandonare dei
neonati” replicò Milo, lasciando trapelare una
punta di amarezza.
“Quasi tutti noi Cavalieri proveniamo da orfanotrofi.
È più
facile mandare un orfano ad allenarsi in qualche landa sperduta. Non
hai nessuno da cui tornare, quindi nessun motivo perchè ti
manchi
casa”
Si
voltò a guardare i quattro bambini, che avevano ripreso a
giocare
poco distanti.
“Loro,
per fortuna, non sono destinati a niente del genere”
“Vieni
spesso a trovarli?” gli domandò, Ayame, per poi
sedersi sul bordo
della fontana, in ascolto.
“Appena
posso, sì. Rodorio esiste per coprire il Santuario e i
bambini del
villaggio ci vedono come degli eroi, degli esempi da seguire, loro in
particolare. Tutti noi veniamo al villaggio a turno per stare con
loro, per dare ancora meglio il buon esempio, ma soprattutto, per far
vedere loro che anche noi siamo esseri umani, non molto diversi da
loro”
“E'
una cosa molto bella e molto nobile” constatò
Galatea.
“Non
lo facevamo spesso, prima dello scontro con Hades. L'essere ritornati
in vita, aver avuto questa nuova occasione, ci ha ridimensionati un
po' tutti. Non capita tutti i giorni di tornare dall'aldilà
e
nessuno di noi è intenzionato a sprecare questa nuova vita.
Stando
coi bambini, mi sembra di riscattarmi di tutti gli sbagli del
passato. E poi è divertente”
“Abbiamo
notato” commentò acida Psiche. “Io vado
ad allenarmi in arena”
disse poi, dirigendosi verso il Tempio. I bambini si bloccarono al
suo passaggio e la osservarono finchè non fu scomparsa
dietro un
angolo.
“Ho come
l'impressione di non
piacerle” notò Milo, senza però
prenderla a male.
“Diciamo che
l'incidente con l'acqua
è stato il primo passo falso lungo la tortuosa strada che
porta al
suo cuore” spiegò Ayame. “Sempre che a
te questo interessi”
“Beh, di sicuro
si fa notare. E non
credo che abbia il cuore di pietra come vuol dare a vedere”
“Molto bene,
rubacuori!” esclamò
Ayame. “Allora l'unica cosa che devi fare è avere
pazienza. Psiche
è una rosa da curare con dedizione, perchè sbocci
in tutto il suo
splendore”
“Lo
terrò a mente”
Una campana lontana
segnò lo scoccare
dell'ora e parve risvegliare Milo dai suoi sogni su Psiche.
“Accidenti! Si
è fatto tardi e devo
riportare i bambini all'orfanotrofio, ma confido che continueremo
questo discorso un'altra volta”
Sorrise furbescamente e
andò a
radunare i bambini che stavano iniziando a sparpagliarsi tra le
bancarelle. Questo lasciò il tempo a Galatea di parlare
privatamente
con Ayame.
“Perdonami,
Ayame, ma posso sapere
che intenzioni hai?”
L'altra neanche si
voltò a guardarla,
teneva fisso lo sguardo sul Cavaliere.
“Sento che
è quello giusto”
rispose convinta ed elettrizzata.
“Giusto per
cosa?”
“Per Psiche,
è l'uomo giusto per
lei”
“E come fai a
saperlo con certezza?”
“Non so
spiegarlo” sospirò Ayame,
voltandosi finalmente verso la Sacerdotessa. “È
una sensazione,
come un formicolio. L'ho provato non appena si sono guardati negli
occhi. Ho capito che erano fatti l'uno per l'altra”
A Galatea parve che gli
occhi verdi di
Ayame avessero riacquistato un po' della loro luminosità
originaria.
“Ed è
una cosa che ti succedeva
anche prima?” indagò allora. “Voglio
dire, prima dell'incidente,
per esempio con Shun e Talia”
“Non lo
so” rispose Ayame,
leggermente sconsolata. “Forse non ci ho dato peso o il fatto
che
adesso non abbia più i miei poteri fa sì che
queste sensazioni
siano più evidenti...”
“Beh,
è un buon segno no?”
constatò allora Galatea, stringendo affettuosamente la
spalla
dell'amica. “Vuol dire che sei ancora Afrodite, anche se un
pochino
addormentata”
Sorrisero entrambe e Ayame
ringraziò
in cuor suo Galatea per il semplice fatto di essere lì e di
essere
così genuina e spontanea, anche se forse troppo insicura per
essere
una Sacerdotessa.
Milo le chiamò
da lontano e fece loro
cenno di raggiungerlo. Quando gli furono vicine, il Cavaliere sorrise
loro, un po' imbarazzato e molto divertito.
“Io e i bambini
abbiamo pensato che
sarebbe carino se faceste visita anche ai ragazzi che sono rimasti in
orfanotrofio” disse quasi supplicandole di accettare.
Le due ragazze si
dimostrarono
entusiaste dell'idea, Ayame in particolare, che così aveva
un motivo
per restare lontana dalla Tredicesima e da Shion.
Al loro sì si
levò un boato di gioia
da parte dei bambini, i quali, sull'onda dell'entusiasmo, le
trascinarono letteralmente attraverso le vie del villaggio fino
all'agglomerato di edifici che costituiva l'orfanotrofio. Si trovava
ai margini del piccolo paesino ed era formato da tre case a due piani
disposte a ferro di cavallo, a delimitare un piccolo cortile
ombreggiato adibito a spazio giochi per i suoi piccoli ospiti.
Una volta entrati, Milo le
presentò
come ospiti importanti da trattare con riguardo, ma le sue parole si
persero tra le grida d'entusiasmo dei bambini, che subito coinvolsero
le due ragazze nei loro giochi.
Ad Ayame venne in mente un
giorno di
poco tempo prima, quando era andata a portare un po' di gioia ai
bambini di un altro orfanotrofio, a chilometri di distanza. Quella
volta aveva reincontrato Hyoga e la sua vita era cambiata totalmente.
Mentre ricacciava indietro
le lacrime
di malinconia che le pizzicavano gli occhi, si chiese se anche quel
giorno l'avrebbe condotta ad un incontro importante.
Forse lo fece per caso, o
forse
qualcuno o qualcosa aveva guidato il suo sguardo sul cortile, ad ogni
modo la sua attenzione venne catturata da quel bambino, uno dei
più
grandi della casa. Se ne stava da solo, seduto sul bordo di pietra
del pozzo ormai in disuso al centro del cortile.
Guardava i suoi compagni
che si
divertivano come se tutto quello non facesse per lui, forse pensando
con arroganza di essere troppo grande per quel genere di cose.
Oppure, come se fosse sicuro che quello non era il suo posto.
Ad Ayame venne in mente
Kanon. Aveva
la stessa espressione quella mattina al Sinaygen. E, le
sembrò,
anche gli stessi occhi.
Si era avvicinata a lui
quasi senza
accorgersene. In quel momento si stavano studiando, occhi negli
occhi, ma nessuno dei due aveva intenzione di parlare.
“Non vuoi giocare
con noi?” chiese
alla fine Ayame, accennando col capo al resto del gruppo radunato
intorno a Milo e Galatea.
Il bambino scosse la testa
con
sufficienza e rivolse lo sguardo ad una lucertola che stava prendendo
il sole sul pozzo.
“Come ti
chiami?” domandò ancora
Ayame, che aveva preso quel silenzio come una sfida.
“Proteo”
rispose rapido il
bambino, senza guardarla.
“E' un nome
importante”
“No, invece.
È un nome strano che
nessuno ha”
“Io conoscevo una
persona che aveva
il tuo nome”
Finalmente ottenne
l'attenzione del
ragazzino, che però la guardò ancora con un
leggero scetticismo.
“E chi
era?”
“Era un vecchio
dio del mare, che
sapeva trasformarsi a suo piacimento in quello che voleva per
sfuggire agli uomini che gli chiedevano del loro futuro”
“Te lo stai
inventando”
“Ti giuro che
è tutto vero. Il
giovanotto laggiù te lo può confermare, se
vuoi”
Lo sguardo di Proteo
andò allora a
Milo, assalito da tre bambini agguerriti.
“Lo sai chi
è lui, vero?” chiese
Ayame a Proteo, avendo notato un leggero luccichio negli occhi del
bambino appena aveva accennato a Milo.
“È un
Cavaliere di Atena” rispose
Proteo con tono reverenziale. La voce gli tremò leggermente
a quelle
parole.
“Hai mai parlato
con uno di loro?”
indagò ulteriormente la ragazza.
Proteo scosse la testa.
Tutto sul suo
volto diceva che, però, avrebbe tanto voluto farlo.
“Posso
presentartelo, se vuoi”
propose allora Ayame.
“Davvero?”
Proteo si accese di
entusiasmo a
quell'offerta e colse di sorpresa la stessa Ayame, che però
poteva
capire cosa significavano i Cavalieri per quei bambini. Gliel'aveva
detto anche Milo poco prima. Erano un esempio da imitare, ma
soprattutto, rappresentavano la possibilità di un futuro
glorioso
con cui riscattare una vita iniziata con un abbandono.
“Ma
certo!” rispose allora lei,
con lo stesso entusiasmo.
Proteo, però,
cambiò improvvisamente
espressione e perse tutta l'eccitazione di poco prima.
“Grande, ma
adesso non ne ho voglia”
disse con aria noncurante e un'alzata di spalle. “Tanto
girano
sempre da queste parti, prima o poi lo conoscerò anche senza
il tuo
aiuto”
“Oh, come vuoi
tu, allora”
“Beh... ci
vediamo in giro, no?”
chiese il bambino dopo essere balzato giù dal pozzo.
“Credo di
sì”
Proteo fece un cenno
affermativo con
la testa e si allontanò in direzione dell'entrata
dell'orfanotrofio.
Per essere un bambino di
sì e no otto
anni, aveva un comportamento più adulto del normale. La
stessa
camminata rigida e composta stonava con il suo essere ancora
fisicamente un bambino.
“Spero non vi
abbia offesa,
signorina”
La voce di una delle
istitutrici
dell'orfanotrofio la riscosse dai suoi pensieri. La ragazza, che
aveva all'incirca la sua età, la osservava sorridente ma
anche
visibilmente preoccupata.
“No!
Assolutamente, figurati” si
affrettò a rispondere Ayame, sorridendo a sua volta.
La ragazza parve
rilassarsi, ma si
sentì comunque in dovere di motivare il comportamento di
Proteo.
“È un
bambino difficile ed è
diverso dagli altri ospiti dell'istituto” iniziò a
spiegare.
“Mentre tutti gli altri sono giunti qui perchè
abbandonati davanti
alla nostra porta, Proteo qui ci è nato”
La giovane istitutrice era
riuscita ad
captare la sua attenzione e Ayame si fece tutta orecchie.
“Sua madre
è stata una delle tante
bambine abbandonate e mai adottate. Era ateniese d'origine,
perchè è
stata lasciata davanti alla porta che dà sulla
città. Questo è
l'unico edificio oltre al fioraio in contatto con Atene. Una volta
cresciuta, sua madre rimase qui come istitutrice. Sembrava felice di
stare coi bambini. Ma poi incontrò un uomo, e le cose
cambiarono”
“Perché?
Cosa successe?” incalzò
Ayame, ormai presa dalla narrazione.
“La poverina si
illuse di poter
avere una vita diversa accanto a quell'uomo, dedicava a lui tutto il
tempo libero e anche parte di quello che avrebbe dovuto passare coi
ragazzi. Ma, come ho detto prima, fu tutta un'illusione. Un giorno
quell'uomo scomparve, senza darle una spiegazione, lasciandole solo
una creatura in grembo.
“Lei non fu
più la stessa da
allora, trascurò la sua salute e quelle del bambino. Tutte
noi
riuscimmo in qualche modo a farle portare a termine la gravidanza, ma
quando nacque Proteo, non sopravvisse alla notte”
Gli occhi della ragazza di
velarono di
lacrime. Probabilmente conosceva bene la mamma di Proteo, ma Ayame
non volle indagare oltre. Per quella giovane sembrava già
doloroso
raccontare quella vicenda senza approfondimenti ulteriori.
L'istitutrice
continuò. “Da subito
Proteo si è dimostrato un bambino forte. È
cresciuto sano
nonostante i pochi mezzi che avevamo a disposizione. Tuttavia non ha
mai dimostrato inclinazione a fare conoscenze e a stringere amicizie,
di conseguenza anche gli altri bambini lo evitano e spesso lo
prendono in giro, portandolo a reagire male e ad allontanarsi da
loro”
“Mi dispiace per
lui” disse alla
fine Ayame, sincera. “Anche se ci ho parlato poco assieme, mi
è
sembrato un bambino brillante e pieno di vita. Penso che abbia delle
potenzialità che nemmeno lui conosce”
"Beh, è sempre
stato molto
agile. Più volte ci ha costretto ad andare a cercarlo in
paese dopo
che era scappato dalla finestra. Inoltre passa la maggior parte del
suo tempo a costruirsi armi di legno e, a quanto dice lui, ad
allenarsi con le sue creazioni”
“Ah, adesso
capisco l'ammirazione
per i Cavalieri” commentò Ayame, ma la ragazza non
sembrava
contenta quanto lei.
“È
convinto che prima o poi anche
lui diventerà un Cavaliere, ma nulla ha finora fatto pensare
che
quello possa essere il suo futuro”
“Non è
ancora detto, ha solo...
quanti anni? Sette? Otto?”
“Otto,
sì”
L'istitutrice dovette
chiudere la
conversazione quando venne richiamata da una sua collega. Solo allora
ad Ayame venne in mente di chiedere informazioni sul padre del
bambino. Se aveva frequentato il villaggio per un certo periodo,
qualcuno doveva conoscerlo.
Si stava già
avvicinando alla
ragazza, quando Galatea le venne incontro insieme a Milo.
“Credo sia meglio
tornare al Grande
Tempio, adesso” suggerì la Sacerdotessa, ma la
proposta non riempì
di entusiasmo Ayame.
“Guarda che non
devi tornare per
forza alla Tredicesima” le fece notare Milo. “Io
devo raggiungere
i miei allievi all'arena per gli allenamenti. Potreste rimanere ad
assistere”
“In questo caso,
d'accordo”
accettò Ayame.
Dopo aver salutato i
bambini, i tre si
avviarono verso l'arena dei combattimenti. Poco prima di arrivare a
destinazione, Milo si affiancò ad Ayame e la prese in
disparte.
“Credo sia
doveroso spiegarti il
comportamento di Shion di questa mattina” iniziò
il Cavaliere.
Ayame non
ribattè, anche se sentì di
non avere un'espressione entusiasta sul volto. Milo comunque
continuò
a spiegare.
“Sai cosa
è successo durante,
diciamo, la sua prima nomina?”
“Non di preciso.
Ho sentito parlare
della Notte degli Inganni, ma solo a grandi linee”
“Quella notte un
Cavaliere si è
macchiato della colpa di tradimento, ha assassinato Shion e tentato
di uccidere Atena, che allora era poco più che neonata. Lei
si è
salvata grazie all'intervento di un altro Cavaliere, la cui memoria
è
rimasta macchiata per troppo tempo. È normale, quindi, che,
adesso
che è di nuovo in vita e di nuovo sul trono del Santuario,
Shion
sia più diffidente del dovuto verso chiunque. L'ultima volta
che si
è fidato di qualcuno, è finito sotto tre metri di
terra”
Con quelle parole, Milo si
congedò da
Ayame per andare dai suoi allievi. Tuttavia la ragazza non era
soddisfatta della spiegazione del Cavaliere. Sapeva che c'era
dell'altro, qualcosa che non volevano che sapesse ma che lei aveva
notato.
Qualcosa che c'entrava con
Kanon. Era
chiaro che Shion non lo vedesse di buon occhio e che avrebbe fatto di
tutto per tenere lontano il Generale il più possibile sia
dal tempio
che da lei.
Che fosse lui il traditore?
Milo però
aveva parlato di Cavaliere, non di Generale.
Non vide quasi nulla
dell'allenamento
di Milo, davanti a lei mille domande davano vita ad altre mille e la
storia di Shion, quella di Proteo e il mistero intorno a Kanon si
sovrapponevano l'una all'altra, in una matassa disordinata di fili
che, prima o poi, sarebbe riuscita a dipanare.
Ciao a
tutti!
Capitolo importante,
introduce un personaggio determinante per una parte della storia... A
voi capire quale ;)
Cosa ne pensate
dell'orfanotrofio e dei suoi bambini? Spero che l'idea vi sia piaciuta
:) Grazie, come sempre, a Panenutella per la sua consulenza!
A presto e buona lettura!
|
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Capitolo 8 *** Che cos'è l'amore? ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
7- Che cos'è l'amore?
Quella
notte, appena chiuse gli occhi, Ayame precipitò in uno degli
incubi
peggiori della sua vita. Precipitava e precipitava in un abisso senza
fine, passando davanti a volti conosciuti e deformati. Hyoga, Kanon,
Shion, Proteo. E tutti avevano gli occhi grigi. Come lui. Occhi che
la guardavano cadere, maligni e impietosi, con ghigni che deturpavano
quelli che lei aveva sempre visto come volti belli e piacevoli.
Ridevano
di lei, che non era più niente, che non poteva
più fare niente. Non
poteva andare avanti, perchè la dea l'aveva abbandonata,
né tornare
indietro, perchè quella dea l'aveva cambiata per sempre.
Infine
arrivò il fondo dell'abisso, e con esso di nuovo quegli
occhi grigi,
enormi, terrificanti. Là in fondo c'era Mikyo ad aspettarla,
con la
bocca spalancata in una risata perfida che l'avrebbe inghiottita,
condannandola al buio.
Sì
svegliò urlando, il volto bagnato di lacrime e sudore, il
cuore
impazzito e quella sensazione di vuoto opprimente come non lo era mai
stata.
La
luce della luna invadeva la sua stanza, calda e benevola, e lo
sciabordio del mare suonava per lei una ninna nanna dolce, che
però
non sarebbe riuscita a darle il riposo che cercava.
Come
la notte precedente, Ayame scese dal letto e uscì sul
terrazzo,
nella speranza che il panorama riuscisse a cancellare le ultime
immagini di quell'incubo che le erano rimaste in mente.
Il
promontorio dove aveva visto Kanon la sera prima era deserto, la luce
della luna proiettava le lunghe ombre delle antiche macerie fin sulla
parete della Terza Casa. Eppure non le sembrarono ombre inquietanti,
al contrario le davano una certa sicurezza, quella sicurezza che solo
i posti speciali riescono a dare.
Shion
sicuramente non avrebbe approvato un'altra sua fuga notturna, cosa
che le diede un ulteriore motivo per pensare seriamente di uscire
dalla Tredicesima e tornare là, al sicuro tra le colonne in
rovina e
i capitelli coperti di muschio.
Qualcuno
bussò alla porta, interrompendo l'elaborazione del suo piano
di
fuga. Dall'altra parte della porta Ayame trovò Shion, in
camicia da
notte e chioma spettinata, che la fissava serio e le spense il mezzo
sorriso che stava per nascerle sul volto.
“Ho
sentito urlare” disse il Gran Sacerdote. “Stai
bene?”
Ayame
non rispose subito. Nonostante fosse proprio minima, la
preoccupazione del Celebrante per lei la sorprese.
“Sì”
rispose infine. “È stato solo un brutto
sogno”
“Bene.
È meglio se torni a dormire, allora”
“Ci
proverò”
Shion
fece un cenno minimo col capo, poi si allontanò lungo il
corridoio
per tornare nella sua stanza.
Richiusasi
la porta alle spalle, Ayame decise di mettere da parte i piani di
fuga per quella notte, come minimo gesto di gratitudine nei confronti
della minima apprensione che Shion aveva dimostrato nei suoi
confronti.
Tuttavia
non tornò a dormire. Non voleva ripiombare nell'abisso di
quell'incubo. Perchè sapeva che sarebbe ritornato, che non
l'avrebbe
lasciata in pace neanche per una notte da quella in avanti.
Tornò
sul terrazzo e si sedette sulla balaustra, con la schiena appoggiata
al muro del palazzo, ad ammirare il panorama intorno, per
imprimerselo bene nella mente e rievocarlo quando l'abisso sarebbe
tornato a farle visita.
Quando,
la mattina successiva, la solita ragazzina venne a portarle la
colazione, Ayame era già vestita e pronta per uscire.
“Ho
un messaggio per voi da parte del Cavaliere Shaka” le disse
la
bambina, dopo averle dato il vassoio. “Vuole che vi facciate
trovare tra un'ora davanti al fioraio del villaggio”
“Il
fioraio?” domandò Ayame, pensando che fosse un
luogo un po' strano
per quello che avrebbero fatto. Di conseguenza le venne in mente che
non aveva la minima idea di cosa Shaka le avrebbe fatto fare.
“Esatto,
davanti all'entrata del villaggio, tra un'ora”
“D'accordo
ehm... come ti chiami?”
“Selene”
“D'accordo,
Selene, grazie dell'informazione. Io comunque mi chiamo Ayame e ti
pregherei di darmi del tu, visto che non ho molti anni più
di te”
“Oh,
va bene. Allora ciao!”
Selene
scappò via esattamente come il giorno prima, sotto il
sorriso
divertito di Ayame.
Posò
il vassoio e iniziò a mangiare, con più appetito
rispetto alla
mattina precedente e con un'involontaria fretta. L'idea del suo
incontro con Shaka era riuscita ad elettrizzarla e sembrò
dare un
senso alla sua giornata e, soprattutto, al suo soggiorno ad Atene.
Era partita con l'aspettativa di dover stare al Grande Tempio ad
aspettare passiva l'evolversi degli eventi e, al massimo, di dover
nascondersi durante un attacco da parte di questo nuovo nemico.
Invece, da quella stessa mattina, con l'aiuto di Shaka, avrebbe
provato a tornare quella di un tempo, anche solo in parte.
L'impazienza,
alla fine, la portò ad abbandonare la sua mela mangiata a
metà sul
vassoio e a precipitarsi giù verso il villaggio. Sarebbe
sicuramente
arrivata con largo anticipo, ma meglio che in ritardo.
Il
richiamo di Galatea la bloccò all'altezza dell'Undicesima
Casa. La
Sacerdotessa sbucò dalle colonne del tempio e la raggiunse.
“Dove
vai così di corsa?” le chiese incuriosita.
“Al
villaggio. Shaka mi ha dato appuntamento lì per iniziare le
nostre... sedute di recupero poteri”
“Bene,
ottimo” esclamò Galatea soddisfatta.
“Psiche?”
“E'
scesa poco fa con Aphrodite, andavano ad allenarsi all'arena”
“E
tu che fai?”
Galatea
rispose con un'alzata di spalle.
“Vieni
con me?” le propose allora Ayame. Così avrebbe
avuto qualcuno a
farle compagnia durante l'attesa.
La
Sacerdotessa accettò di buon grado e, insieme, le due
ragazze
continuarono la discesa verso Rodorio.
Nonostante
fosse mattino presto, il villaggio era già nel pieno delle
sue
attività. Al mercato si contrattavano i prezzi delle merci,
i
bambini scorrazzavano per le strade, le donne spettegolavano e gli
uomini si davano di gomito al loro passaggio.
“Direi
che la materia prima non manca, qui” commentò
Ayame, una volta che
due giovani guerrieri del Santuario le ebbero sorpassate.
“Notato
qualcuno di interessante, Galatea?”
“Oh
no, no-no, assolutamente no. A me non... interessa nessuno”
rispose
la Sacerdotessa, gesticolando e scuotendo la testa più del
dovuto.
“Io
invece direi di sì” ribattè, infatti,
Ayame. Prese sotto braccio
l'amica e abbassò il tono della voce con fare cospiratorio.
“Allora,
chi è il fortunato?”
“Nessuno,
davvero” insistette Galatea. “Sono qui da neanche
due giorni,
dammi il tempo di guardarmi intorno”
Ayame
non sembrò molto convinta dalla risposta della Sacerdotessa,
ma
lasciò correre, sicura che prima o poi avrebbe scoperto
qualcosa.
Arrivarono
davanti alla bottega del fioraio con una ventina di minuti di
anticipo, ma anche Shaka aveva deciso di scendere un po' prima e le
due ragazze dovettero attenderlo solo per dieci minuti scarsi.
“Mi
fa piacere vederti già qui. Pensavo di essere in anticipo...
tanto
meglio! Avremo più tempo a disposizione. Volete scusarmi un
attimo?”
Le
superò per entrare nel negozietto, dove andò
direttamente a parlare
col proprietario. Nel mentre qualcuno di inaspettato varcò
l'altra
soglia della bottega. Kanon fece giusto un rapido cenno a Shaka per
salutarlo, quindi percorse rapido il vano nel negozio per uscire dal
retro, dove Ayame e Galatea erano rimaste in attesa. Le due ragazze
si allontanarono per lasciarlo passare e Ayame accennò un
saluto
alzando la mano. Kanon si limitò a guardarla con la solita
espressione indecifrabile, quindi proseguì.
“Che
maleducato!” commentò Galatea.
“Chissà
dove sarà stato?” si chiese invece Ayame. Non
l'aveva più visto
da quando Shion l'aveva gentilmente mandato a cercare informazioni
sugli Angeli alla biblioteca di Atene.
“In
biblioteca” rispose infatti Shaka, tornato con una cassetta
di
legno dalla bottega.
“Fino
ad ora? È partito ieri” si stupì la
ragazza, ma il Cavaliere
parve non scomporsi.
“Si
vede che aveva tanto da leggere. Se sei pronta, cominciamo. Galatea,
grazie, ma qui non è necessaria la tua presenza.
Perché non vai
all'arena?”
Sulle
prima la Sacerdotessa non seppe cosa rispondere. Non sapeva se
sentirsi offesa o semplicemente accettare il consiglio di Shaka.
Tuttavia non era un tipo permaloso come Psiche e sapeva che il
Cavaliere non voleva assolutamente essere scortese. Semplicemente
aveva bisogno di stare da solo con Ayame per fare il suo compito.
Galatea
annuì, salutò e si diresse senza fretta verso
l'arena.
“Non
è stato molto carino, da parte tua” fece notare
Ayame a Shaka,
dopo che Galatea era scomparsa all'angolo di un vicolo.
“Posso
assicurarti che ha capito alla perfezione le mie intenzioni”
ribattè il Cavaliere serenamente.
Si
incamminò quindi lungo il villaggio, con Ayame dietro.
Camminarono
per alcuni minuti in silenzio, che venne rotto dalla ragazza dopo
alcuni minuti.
“Volevo
ringraziarti per quello che hai fatto per me, a Tokyo”
“Era
il minimo” sembrò giustificarsi Shaka, sempre con
un tono
serafico. “La missione che Zeus ci ha affidato era di
proteggerti e
abbiamo fallito. Dovevo rimediare in qualche modo e lo sto ancora
facendo”
“Quindi
l'hai fatto solo per la missione che Zeus vi ha affidato”
“No,
a dire il vero” confessò lui. “L'ho
fatto anche perché c'erano
delle persone che stavano soffrendo per le tue condizioni”
Ayame
sorrise, soddisfatta della spiegazione. Le sorse poi spontanea
un'altra domanda.
“Pensi
che potrò mai tornare quella di un tempo?”
Shaka
a quel punto si fermò. Erano in mezzo ad un incrocio, le due
strade
formavano un piccola piazzetta deserta, con al centro un albero
d'ulivo protetto da una bassa ringhiera e circondato da una panca di
pietra ad anello.
Il
Cavaliere posò la cassetta sulla panca e si rivolse ad Ayame.
“Mettiamola
così: farò ogni cosa in mio potere per farti
tornare quella di un
tempo, se non una dea migliore”
“Grande!”
“Ma
voglio la tua parola che farai qualsiasi cosa ti chiederò e
con il
massimo impegno” fu la precisa richiesta di Shaka.
“Assolutamente”
rispose Ayame risoluta.
“Ottimo!
Possiamo cominciare”
Shaka
invitò Ayame a sedersi sulla panca vicino a lui, quindi
aprì la
misteriosa cassetta che si era portato appresso. Conteneva una
dozzina di boccioli di rosa che ancora dovevano sbocciare.
Ayame
rivolse uno sguardo perplesso al suo mentore.
“Ho
dovuto implorare Aphrodite di concedermi questi boccioli. Sono le
rose più belle che esistano, ideali per te”
spiegò il Cavaliere,
senza però soddisfare Ayame.
“E
io cosa dovrei farci?” domandò infatti, scettica.
“Per
prima cosa, voglio che rispondi a questa domanda: che cos'è
l'amore?”
La
richiesta spiazzò la ragazza, che quasi si
vergognò di non avere
una risposta pronta da dargli. Shaka, però, non
mostrò il minimo
segno di impazienza.
“L'amore
è... insomma... “
“Non
avere fretta di rispondermi. Pensaci bene”
Ayame
dovette ammettere di non averci mai pensato. Quando pensava
all'amore, le veniva in mente Hyoga e come risposta le bastava. Ma
quello era l'amore per lei, non l'amore in generale. Quello
è quando
due persone si vogliono talmente bene da pensare di non poter
esistere l'una senza l'altra, perché solo l'esistenza
dell'altro
sembra dare loro...
“...
vita”
“Come?”
domandò Shaka, anche se aveva perfettamente capito.
“L'amore
è vita” ripetè Ayame con più
convinzione.
“Esatto,
Ayame, ed è molto importante che tu lo sappia.
Perché tu sei la dea
dell'Amore ed è fondamentale che tu sia cosciente di
ciò che sei,
per poter tornare quello che eri. Mi segui?”
“Penso
di sì”
“Bene.
Se quindi tu sei la dea dell'Amore e l'amore è vita...
“ Shaka
indicò Ayame perché concludesse lei il sillogismo.
“Allora
io sono vita?” terminò infatti lei.
“Precisamente!
E puoi dare vita. Questo è il nostro punto di
partenza”
Shaka
prese un bocciolo dalla cassetta e lo porse alla ragazza, che lo
accettò ancora incerta su cosa avrebbe dovuto farci.
“Voglio
che provi a farlo sbocciare semplicemente tenendolo in mano”
Ayame
aggrottò la fronte, scettica sul fatto che far fiorire un
bocciolo
di rosa potesse restituirle i suoi poteri.
“E
ricordati la promessa. Farai tutto quello che ti dico e con il
massimo impegno. A partire da ora”
Detto
questo, Shaka richiuse la cassetta e se la mise sottobraccio mentre
si alzava dalla panca.
“Scusa,
dove stai andando adesso?” gli chiese Ayame, sconcertata da
tutta
quella situazione.
“È
la mia ora di meditazione, ma tu resta pure qui, se vuoi, non sei
obbligata a seguirmi. Tornerò per vedere i tuoi
progressi”
Ayame
non riuscì a ribattere in tempo, potè solo
restare a guardare la
schiena di Shaka che si allontanava e spariva dietro l'angolo di uno
dei vicoli. Non poteva credere che l'aveva lasciata sola, in una
piazzetta deserta, all'ombra di un ulivo rachitico con un bocciolo da
far fiorire col pensiero.
Tuttavia
aveva fatto una promessa e non voleva deludere Shaka. Prese un
respiro profondo e si portò il fiore davanti agli occhi,
iniziando a
fissarlo intensamente. Il mal di testa la fece aspettare solo pochi
minuti, prima di andarle a martellare il cranio.
Seppur
con riluttanza, Galatea eseguì il velato ordine impartitole
da Shaka
e si diresse verso l'arena dei combattimenti. Per ritardare il
momento dell'arrivo, procedette col passo più lento che
riuscì a
tenere, soffermandosi di quando in quando ad osservare qualcuno dei
resti del Tempio.
Stare
lontana da Ayame o da Psiche la faceva sentire scoperta e
vulnerabile, un pesce fuor d'acqua in quel mondo tanto diverso da
quello in cui era nata e a cui ancora non era abituata. Memore del
motivo per cui aveva supplicato Ayame di portarla con sé ad
Atene,
però, Galatea si disse che quella poteva essere una buona
occasione
per mantenere il suo proposito. Preso un respiro profondo,
coprì con
passo deciso gli ultimi metri che la separavano dall'ingresso
nell'arena.
La
accolsero il clangore delle spade che cozzavano tra loro miste alle
grida dei combattenti e alle incitazioni dei loro maestri. Quel
giorno erano Camus e Aiolia a dividersi lo stadio. Il suo ospite
stava seguendo in silenzio l'allenamento dei suoi allievi, ma Galatea
capì dallo sguardo del Cavaliere che neanche il loro minimo
errore
sfuggiva al suo occhio.
La
Sacerdotessa prese posto a metà delle gradinate e si mise ad
osservare distrattamente i vari gruppi di allenamento. Dopo qualche
minuto, vide Camus interrompere un duello con la spada tra due
allievi e mostrare ad uno di loro il corretto movimento del polso per
disarmare l'avversario. Galatea rimase incantata a fissarlo per quei
lunghi istanti che il Cavaliere impiegò ad eseguire il
movimento e
un sospiro le uscì spontaneo dalle labbra, accompagnato da
un
battito un po' troppo forte nel petto. Subito si riscosse e
tornò a
far vagare lo sguardo, che sembrava però calamitato verso
Camus. Di
nuovo lo vide intercettare un pugnale lanciato maldestramente,
correggere la posizione dei piedi di un'allieva, rimproverarne un
altro per aver attaccato alle spalle il compagno.
“Basta,
è ridicolo” commentò ad alta voce
mentre si alzava per andarsene,
ma il richiamo di Milo la bloccò solo dopo un gradone.
“Già
vai via? Volevo scambiare due chiacchiere”
Galatea
rimase sorpresa dalla richiesta, ma decise di restare.
“No,
stavo...cercando un po' d'ombra” s'inventò sul
momento, indicando
una zona ombreggiata poco distante. Si diresse là insieme a
Milo, il
quale poi si sedette sul gradone sotto al suo.
“Complimenti
per la colazione, comunque” esordì lui, pensando
di farle piacere,
ma l'espressione interdetta di Galatea lo obbligò a
spiegarsi.
“Vedi,
ogni tanto...cioè, molto spesso, vado a fare colazione da
Camus. Lui
è un mago delle colazioni, sai? Stamattina, però,
ha gentilmente
condiviso con me quella che gli hai lasciato. Devo dire che non sei
male neanche tu”
“Oh,
beh, grazie” pigolò la Sacerdotessa, cercando di
nascondere
l'imbarazzo. Aveva preparato quella colazione per farsi perdonare la
sua assenza a cena, ma doveva essere solo una cosa per Camus, non per
chiunque. Chissà se aveva anche letto il bigliettino che
aveva
lasciato sul tavolo vicino alla crostata?
“Figurati!”
ribattè Milo, risvegliandola dai suoi timori adolescenziali.
“Allora, che mi sai dire della tua amica Psiche?”
“In
che senso?” chiese Galatea, che non pensava che per due
chiacchiere il
Cavaliere
intendesse parlare di Psiche.
“Sì,
insomma, che tipo è, cosa le piace fare, il suo colore
preferito,
con quanti ragazzi è uscita...le solite cose”
spiegò Milo con
leggerezza.
La
Sacerdotessa rimase interdetta qualche istante prima di rispondere.
“Ecco,
io non saprei... la conosco solo da un paio di mesi e di questo non
mi ha mai parlato. In effetti, Psiche non è un tipo di molte
parole,
a meno che non ti voglia dare l'estremo saluto”
“Strano”
constatò Milo. “Io me la ricordo quando era una
bambina e si
allenava con Aphrodite. Era una piccola peste, sempre in movimento e
a fare casino, specialmente quando ero nei dintorni. Pensavo
addirittura che avesse una cotta per me ma, nel caso, deve esserle
passata”
“Esatto,
sono rinsavita, fortunatamente”
Milo
e Galatea si voltarono contemporaneamente per incrociare lo sguardo
severo di Psiche che li osservava dall'alto della gradinata.
La
Sacerdotessa scese verso di loro e si fermò vicino a
Galatea, che
subito abbassò gli occhi. L'espressione della compagna aveva
l'inspiegabile potere di farla sentire in imbarazzo.
Quanto
a Milo, accennò un saluto alzando la mano, ma Psiche lo
ignorò e si
rivolse a Galatea.
“Hai
voglia di allenarti? Aiolia ci lascia un po' di spazio”
La
bionda balbettò qualche parola senza senso, prima di
accettare
l'offerta e rincorrere Psiche giù per i gradoni e attraverso
l'arena. Il suo passo era così svelto che dovette correre
per
raggiungerla. Passarono tra i vari gruppi di allievi, ignorando le
loro occhiate interessate e le proteste di Aiolia riguardo al fatto
che erano motivo di distrazione, e si fermarono una volta raggiunto
il deposito delle armi. Psiche iniziò ad indossare le
protezioni,
subito imitata da Galatea, in un silenzio teso che fu la prima a
rompere.
“Ti
sarei grata se non facessi più di me il tuo argomento di
conversazione con Milo” disse fredda Psiche, senza smettere
di
vestirsi.
“Mi
dispiace, sono stata colta alla sprovvista. Non ho detto niente,
comunque. Non so niente di te che possa interessargli”
“Meglio
così” commentò infine Psiche,
lasciandosi sfuggire un mezzo
sorriso. “E stagli alla larga, potrebbe ripiegare su di te e,
sinceramente, non è il tuo tipo”
“No,
decisamente no” confermò Galatea, non riuscendo ad
evitare di
lanciare un'occhiata furtiva verso Camus.
Una
volta finito di vestirsi, scelsero le armi per il combattimento
–
Psiche una scure, Galatea una spada ad una mano – e si
posizionarono nello spiazzo lasciato libero per loro.
Dopo
qualche scambio di riscaldamento, diedero inizio al vero duello.
Psiche dimostrò la grinta di sempre, ma Galatea oppose la
resistenza
e la determinazione giuste a far si che lo scontro procedesse in
perfetta parità. Dopo non molto tempo, nell'arena presero a
riecheggiare le urla di Camus e Aiolia che tentavano di riportare
l'attenzione dei loro allievi sull'allenamento.
Le
due Sacerdotesse continuarono comunque a combattere, finché
alle
orecchie di Galatea non giunse l'urlo allarmato di Milo.
“Camus,
ATTENTO!”
La
bionda ebbe giusto pochi attimi per vedere i due pugnali volare
dritti verso la schiena del Cavaliere dell'Undicesima Casa,
dopodiché
fu il suo istinto ad agire. Erse la barriera d'avorio giusto in tempo
per bloccare una delle due lame a pochi centimetri dal dorso di
Camus. L'altra venne deviata da una rosa di Psiche e cadde a terra
poco distante.
Il
silenzio cadde su tutto lo stadio, congelando il tempo.
Camus,
che al richiamo di Milo si era accucciato a terra, osservava attonito
la lama del pugnale che spuntava dalla cupola d'avorio che lo aveva
protetto. Il Cavaliere dello Scorpione raggiunse il compagno quasi
contemporaneamente ad Aiolia. Entrambi facevano vagare lo sguardo da
Camus alla cupola d'avorio alla rosa, cercando di dare un ordine a
quella marea di avvenimenti succedutisi nell'arco di pochi istanti,
finché, sempre insieme, non rivolsero la loro attenzione a
Galatea.
Sul loro volto era disegnata una sorpresa quasi incredula.
Nel
frattempo, Camus era uscito da sotto il guscio. Milo gli fu subito
appresso.
“Ehi,
amico, stai bene?”
Il
compagno annuì, quindi seguì lo sguardo del
Cavaliere dello
Scorpione e andò ad incrociare quello limpido di Galatea,
che subito
lo distolse, approfittando dei richiami provenienti da dietro le
spalle dei due guerrieri.
“Maestro,
perdonaci!” si prostrò in fretta uno degli allievi
di Camus,
seguito a ruota da un compagno. “Ci sono sfuggite di mano
mentre
provavamo a disarmarci e..:”
“Va
bene così” li interruppe Camus lapidario. I due
ragazzi rimasero
qualche secondo a bocca aperta. Probabilmente si aspettavano qualche
sorta di punizione per il tentato omicidio.
“Direi
che per oggi può bastare” decretò
allora Camus, rivolto anche
agli altri suoi allievi.
I
due colpevoli se la diedero velocemente a gambe, forse temendo un
repentino cambio di idea del maestro.
Aiolia,
invece, spronò i suoi a continuare l'allenamento.
“Direi
che può bastare anche per noi” disse Psiche,
muovendo i primi
passi verso il deposito delle armi.
Galatea
la seguì a ruota, ma Camus la bloccò prendendola
deciso per un
polso. Alla Sacerdotessa morì in bocca qualsiasi parola
avesse
voluto dire, e non solo per quanto gelida fosse la mano del
Cavaliere. La sensazione di freddo, però, scomparve quasi
subito e
Camus ne sembrò sorpreso.
“Grazie”
disse poi il Cavaliere, una volta ripresosi. “Ti devo la
vita”
“Sì...cioè,
no...voglio dire...devo andare”
Galatea
balbettò ancora qualche scusa mentre si liberava dalla presa
di
Camus per correre dietro a Psiche e si costrinse a non voltarsi mai.
Eccomi qui!
Tempo di "meditazione" per Ayame, chissà se
riuscirà a far sbocciare la rosa. E intanto Cavalieri e
Sacerdotesse cominciano a guardarsi intorno :) sono previste
scintille! Appena ho un attimo risponderò alle recensioni,
ad ogni modo grazie a tutti quelli che seguono la storia!
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Capitolo 9 *** Lacrime e Malinconia ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
8-
Lacrime e
malinconia
Due
stranezze nello stesso giorno era più di quanto Camus
riuscisse a
concepire. Prima si era distratto durante l'addestramento dei suoi
allievi più giovani e ci aveva quasi rischiato la pelle. Mai
in vita
sua qualcosa era riuscito a distrarlo dai suoi impegni, qualunque
essi fossero, dai più banali ai più importanti. E
poi la sua mano
che, al contatto con la pelle di Galatea, si era subito scaldata.
Nemmeno questo era mai successo.
Essendo
padrone delle energie fredde, anche con il cosmo al minimo la sua
temperatura corporea è sempre stata più bassa del
normale.
All'inizio era stato solo un adattamento al clima rigido delle zone
in cui si era allenato, poi, dopo la sconfitta contro Hyoga e la sua
rinascita, aveva deciso di mantenere sempre e comunque il suo corpo
ad una temperatura via via più bassa, allo scopo di
raggiungere,
quando sarebbe stato necessario, lo zero assoluto.
Eppure
era bastato quell'attimo, quel breve contatto con la pelle chiara di
Galatea, perché il gelo sparisse dalla sua mano ed uno
strano calore
lo pervadesse.
Perché?
Perché con lei? Non sapeva nulla di quella ragazza, anche se
doveva
ammettere che, sin dal primo momento in cui l'aveva vista, a Tokyo,
ne era rimasto affascinato. Aveva capito da subito che era diversa
dalle altre, forse per la grande malinconia che i suoi occhi nocciola
sembravano nascondere.
Di
nuovo quel calore strano lo colse. Erano i suoi occhi, allora? Ma
perché?
Cercò
di eliminare dalla mente l'immagine dello sguardo di Galatea, quindi
poggiò la mano sul primo gradino della scalinata che correva
verso
la Casa del Capricorno. Subito una sottile lastra di ghiaccio
ricoprì
tutti i gradini fino in fondo, un ghiaccio così freddo che
nemmeno
il caldo sole dell'estate greca riusciva a sciogliere.
Allora
erano proprio i suoi occhi. Camus sospirò e prese a
guardarsi la
mano, sovrappensiero.
“Se
non vuoi visite, la prossima volta basta che lasci un messaggio a
Shura. Non è necessario rendere la scalinata un campo di
pattinaggio”
Il
Cavaliere dell'Acquario lasciò perdere la distratta
contemplazione
della sua mano per dar retta all'amico in fondo alla scala. Milo
stava saggiando con la punta della scarpa la consistenza della lastra
di ghiaccio davanti a lui.
“E
comunque, hai fatto di meglio” commentò alla fine.
“Lo
so” sbottò Camus, rompendo il ghiaccio con un
leggero pugno. “Dai,
sali”
Milo
lo raggiunse, facendo molta attenzione ad ogni gradino.
“Siamo
di umore grigetto, a quanto vedo. Ma forse lo sarei anche io se due
miei allievi avessero tentato di assassinarmi”
“Non
è per quello” disse Camus, sempre intento a
fissarsi la mano. Non
diede, però, ulteriori spiegazioni.
“E
non vuoi dire al tuo amico Milo cos'è che ti
turba?” tentò
l'altro Cavaliere.
“Se
lo sapessi, te lo direi” sospirò Camus, lasciando
perdere la mano
e sperando di essere stato convincente. In realtà sapeva
perfettamente cosa, o meglio, chi lo turbava, ma Milo non era la
persona adatta per parlare di cose del genere. Sicuramente gli
avrebbe dato del paranoico e, probabilmente, avrebbe avuto ragione.
“Quindi
ti sei rabbuiato così, tutto d'un tratto” dedusse
Milo, seppur con
un certo scetticismo.
“Diciamo
di sì” confermò l'amico, laconico.
“Posso
allora proporti un rimedio al tuo grigiore interiore?”
Dall'intonazione
della voce, Camus capì che quello era l'argomento che Milo
voleva
affrontare sin dal principio e, quasi sicuramente, il motivo
principale della sua visita. Gli fece cenno con la testa di andare
avanti.
“C'è
una festa, giù ad Atene, venerdì sera. Pensavo di
invitare Psiche,
ma ho la sensazione di non starle molto simpatico. Se però
facessimo
un'uscita di gruppo magari accetterebbe. Tu potresti invitare Ayame,
per esempio”
“Non
posso invitare Ayame! È la ragazza di Hyoga!” gli
fece notare
Camus, sconcertato.
“Allora
Galatea...” iniziò a proporre Milo, ma l'amico lo
interruppe
subito.
“Sei
impazzito?!?” scattò infatti Camus, sorprendendo
non poco il
Cavaliere dello Scorpione.
“Neanche
ti avessi chiesto di invitare una Gorgone, che cavolo!”
“Non
se ne parla. Io non inviterò Galatea, chiaro?”
precisò Camus,
mentre si alzava per rientrare in casa.
“Mica
ti ci devi fidanzare! È solo per fare un favore ad un amico.
Andiamo, Camus!” lo implorò Milo, ma l'amico non
volle sentir
ragioni.
“Dannazione,
Milo! Sei adulto a sufficienza da poter chiedere ad una ragazza di
uscire senza qualcuno che ti spalleggi, nella fattispecie il
sottoscritto”
“E
tu sei già morto un numero sufficiente di volte per capire
che,
forse, è ora di sciogliersi un po'”.
Camus
si bloccò sulla soglia della casa. Non era la prima volta
che lui e
Milo discutevano, ma questa volta l'amico sembrava essere
più serio
del solito, a giudicare dallo sguardo fermo che gli stava rivolgendo.
“Siamo
di nuovo in vita, Camus” continuò lo Scorpione,
calmo ma con voce
tremante. “Non a tutti è concessa un'occasione del
genere e già
in parecchi l'abbiamo capito. Un esempio su tutti: Marin e Aiolia. Io
non sprecherò quest'opportunità, e tu?”
Milo
non attese risposta, ma si voltò e scese la scalinata per
tornare
alla sua Casa. Camus rimase qualche istante a rimuginare sullo sfogo
dell'amico. Era pienamente d'accordo con lui, non era nemmeno nelle
sue intenzioni sprecare quella sua nuova vita, né,
però, gli
sembrava che stesse facendo qualcosa del genere. Lui e Milo avevano
sempre avuto idee diverse sul come viversi la vita e, forse, per
questo erano sempre andati così d'accordo. Se per Milo
approfittare
dell'occasione voleva dire provarci con Psiche, non per forza doveva
valere la stessa cosa per lui.
Forte
di questa convinzione, Camus rientrò in casa, ma si
bloccò sulla
soglia della cucina. Galatea stava armeggiando coi fornelli e un
libro di cucina era aperto sul ripiano lì vicino, alla
pagina della
ricetta per il pastitsio greco. Si accorse della
sua presenza
quando si voltò per posare il piatto da portata sul ripiano
di
granito grigio al centro della stanza, dove di solito consumava i
pasti.
“Ciao”
gli sorrise imbarazzata, con le guance imporporate e gli occhi
leggermente più luminosi. Camus sentì di nuovo
caldo e distolse lo
sguardo da lei per posarlo sul piatto.
“Ho
tentato di cucinare qualcosa di tipico. Pensavo che, dopo la giornata
di oggi, non avessi voglia di far da mangiare e
così...”
“Grazie
per il pensiero, ma penso che stasera salterò”
tagliò corto
Camus, prima di avviarsi a occhi bassi verso la sua stanza, dopo aver
borbottato un quasi incomprensibile “Buonanotte”.
Una
volta al sicuro tra le mura della sua austera camera, Camus stava per
girare la chiave e buttarsi a letto quando alle sue orecchie
arrivarono stralci di una conversazione che Galatea stava avendo con
Shura.
“È
tutto a posto qui? Poco fa è passato Milo e sembrava
tutt'altro che
allegro”
chiese il Cavaliere a
Galatea. Una pentola sbattuta in lavastoviglie e il portellone chiuso
con poca grazia.
“Non
ne ho idea, mi spiace” fu la
laconica risposta della Sacerdotessa.
“Quello
è pastitsio?” domandò poi
Shura. “È una vita che non
lo mangio”.
Una risata alla battuta involontaria, ma gli parve solo di Shura.
“Serviti
pure. Qui è passato l'appetito a tutti”.
Passi
affrettati lungo il corridoio, la porta della stanza degli ospiti
sbattuta, la chiave girata nella toppa.
Sentì
ancora Shura dire qualcosa, forse un ringraziamento, poi
imitò la
Sacerdotessa e si barricò in camera. Accese lo stereo e in
breve
partirono le note di uno dei tanti pezzi di musica classica della sua
collezione. La musica era una delle poche cose che riuscisse a
rasserenarlo, ma quella sera sembrava davvero una missione
impossibile.
Zittì
il brano appena iniziato e andò alla finestra. Il Santuario
era
immerso in un tripudio di oro e rosso. Da quando era tornato in vita,
i tramonti gli sembravano uno più bello dell'altro.
Aprì le imposte
per godersi il calore dell'ultimo sole e la brezza fresca ma, una
volta sportosi dal davanzale, rientrò subito.
Galatea
era seduta sul suo davanzale e stava guardando anche lei
all'orizzonte. Non si era accorta di lui, nonostante non avesse
badato a non far rumore.
Uno
strano senso di colpa gli attanagliò lo stomaco e
l'espressione
malinconica sul volto della ragazza non gli alleggeriva il peso.
Sapeva che avrebbe dovuto chiederle scusa per non aver apprezzato il
suo sforzo e la sua collaborazione, ma quell'insolito calore lo
metteva a disagio ed era sicuro che sarebbe riuscito a rovinare
tutto.
Non
riusciva, però, a staccare gli occhi dal riflesso della
ragazza sul
vetro della sua finestra, l'unico modo che aveva in quel momento per
guardarla senza trovarsi in difficoltà né essere
scoperto. Galatea
era una bellezza antica, statuaria, quasi irreale, e gli appariva
fragile e bisognosa di protezione, nonostante sapesse che era una
guerriera esattamente come lui.
Un
raggio di sole passò attraverso gli alti palazzi di Atene e
andò ad
illuminarle il viso con un'angolazione tale che il risultato, sebbene
fosse solo riflesso, tolse il fiato a Camus. Desiderò per un
attimo
possedere quell'immagine per sempre. E sapeva anche come fare per
ottenerla. Afferrò la costosa reflex dalla scrivania e,
calibrando
perfettamente ogni movimento, scattò la foto a Galatea. Si
ritrasse
nuovamente nella stanza prima che lei potesse vederlo e premette il
tasto della fotocamera per accedere alla gallery.
Non
poté non sorridere davanti alla perfezione del suo
risultato, ma
ebbe solo poco tempo per contemplarlo, perché una guardia
del
Santuario bussò alla sua porta per comunicargli che il Gran
Sacerdote desiderava vederlo con urgenza.
Dopo
la giornata devastante passata a provare ad eseguire l'assurdo
compito assegnatole da Shaka, la scalata fino alla Tredicesima le
sembrò più faticosa del solito. Fosse poi servito
a qualcosa.
Neanche un petalo si era mosso, il bocciolo era rimasto chiuso come
gli occhi del suo mentore. L'unica cosa ce ci aveva guadagnato era
solo un martellante mal di testa.
Nonostante
tutto, comunque, non le sfuggì il ciuffo rosa che scomparve
dietro
una delle colonne della Casa dei Pesci, accompagnato da un singhiozzo
sommesso.
“Psiche?”
chiamò, spostandosi per vedere meglio. Nessuno rispose, e
anche i
singhiozzi sembrarono cessare.
Non
convinta, Ayame arrivò fino al lato lungo del tempio dietro
cui la
sua Sacerdotessa era sparita. Nel frattempo i singhiozzi erano
ripresi, ma sembravano comunque trattenuti.
Psiche
era seduta a terra, appoggiata contro una colonna, col volto nascosto
tra le braccia e le gambe al petto. Un altro singhiozzo
scappò al
suo controllo.
Senza
dire niente, Ayame si avvicinò silenziosa all'amica e le
accarezzò
la testa. Psiche non sobbalzò, ma sollevò la
testa lentamente per
mostrarle il viso rigato di lacrime.
Ayame
non l'aveva mai vista così disperata. Anzi, non aveva mai
visto
Psiche piangere.
Le
si sedette accanto e le scostò alcune ciocche di capelli dal
volto
bagnato.
“Non
è cambiato nulla” gemette la Sacerdotessa.
“Cosa
non è cambiato?” le domandò Ayame
dolcemente.
“Io”
singhiozzò Psiche. “Sono passati sei anni e io non
sono riuscita a
dimenticare”
“Quindi
non riguarda Ikki” dedusse la bionda. Psiche rispose
scuotendo la
testa. “Probabilmente non ha mai riguardato
Ikki”
“Ti
va di parlarne?” provò a domandare Ayame, ma di
nuovo la
Sacerdotessa fece di no col capo.
“È
un problema solo mio e sarò io a risolverlo”
rispose, poi, con la
sua tipica determinazione. Si asciugò gli occhi alla bell'e
meglio e
fece dei respiri profondi per calmarsi.
“Com'è
andata col santone?” chiese poi ad Ayame.
“Un
disastro” rispose la bionda amareggiata, mentre si
massaggiava le
tempie. Iniziò poi a raccontarle del suo pomeriggio, quando
due voci
provenienti dall'Undicesima attirarono la loro attenzione.
Raggiunta
la scalinata che congiungeva i due templi, le ragazze videro Camus
salire rapido, preceduto da un soldato semplice che gli stava
spiegando sommariamente qualcosa.
“Il
Gran Sacerdote è nella Sala del Trono con il Generale Kanon
e il
Sommo Mu. Pare che quest'ultimo abbia portato notizie importanti dal
Giappone”
Subito
Ayame si fece più attenta. Seguì con lo sguardo i
due uomini mentre
entravano nella Casa dei Pesci per chiedere ad Aphrodite il permesso
di passare. Quando questi glielo concesse, aggirò il
perimetro del
tempio e raggiunse l'uscita della Dodicesima in tempo per vedere
Camus e il soldato salire la scalinata.
“Chissà
cos'è successo a Tokyo?” domandò
Psiche, leggermente in
apprensione.
Ayame
ci rimuginò sopra qualche secondo, prima di prendere l'amica
per
mano e iniziare la salita verso la Tredicesima. Psiche cercò
di
protestare, ma la bionda neanche la sentì. Aveva bisogno di
sapere
qualcosa su Hyoga e gli altri e il fatto che Camus fosse stato
chiamato non era, secondo lei, di buon auspicio.
L'ingresso
alla Sala del Trono era presidiato da due guardie, una delle quali
era il soldato che aveva condotto lì Camus e che stava
uscendo dalla
stanza in quel momento.
“Psiche,
riesci ad addormentarli?” chiese Ayame alla sua Sacerdotessa,
senza
perdere di vista la porta che, lentamente, si stava chiudendo.
“Non
mi sembra una buona idea, ad essere sincera...”
iniziò ad
obiettare la ragazza, ma quando Ayame si voltò per
implorarla sia
con lo sguardo che con le parole, dovette cedere.
Si
avvicinò furtiva alle due guardie e soffiò loro
addosso una fine
polvere dorata che le fece subito crollare a terra, prive di sensi.
Ayame
la raggiunse subito dopo, guardando con circospezione i due soldati
svenuti.
“Sicura
che non si sveglieranno?” domandò, lasciando
trapelare una
notevole agitazione.
Psiche
scosse la testa. “Usciranno dal Palazzo di Zefiro quando lo
vorrò
io”
La
bionda annuì, quindi si avvicinò all'imponente
porta della Sala del
Trono, rimasta socchiusa. Le voci degli uomini all'interno erano
lontane, ma dopo qualche secondo fu in grado di sentire le loro
parole.
“...
e Atena?”
domandò Camus,
anch'egli in preda alla preoccupazione.
“Sana
e salva. Il suo intervento non si è reso necessario. Shun e
Hyoga
sono riusciti a disarmare l'Angelo prima che si avvicinasse a
lei”
gli
spiegò Mu. “Lo
spillo è stato inviato ad un laboratorio della fondazione
Kido, per
essere analizzato insieme a quello che ha colpito Ayame. Kiki
è a
Tokyo, al momento, e ci fornirà tutti i dettagli appena
saranno
pronti”
“Almeno,
finalmente, sapremo come
stanno tentando di eliminare le divinità
reincarnate” considerò
Shion. “Hai trovato qualche spunto per
continuare le tue
ricerche, Kanon?” domandò poi
il Gran Sacerdote. Dalla sua voce trapelava una stanchezza talmente
grande, pensò Ayame, che riusciva persino a surclassare
l'astio nei
confronti del Generale. Ripensando alla sua giornata, i due dovevano
essere in colloquio da poco dopo che lei e Galatea avevano incrociato
Kanon al villaggio.
“Se
ho capito bene, non era lo stesso Angelo che ha ferito
Afrodite”
constatò il Generale.
“Stando
al racconto di Kiki, no. Era una donna, con le ali rosse e sembrava
comandare il fuoco. È stata sopraffatta dall'acqua, o
meglio, dal
ghiaccio” confermò
Mu.
“Ma
a quale prezzo...” commentò
Camus. “Se Hyoga, il cui potere
è pari a quello di un
Cavaliere d'Oro, ha dovuto portare il suo cosmo al massimo rischiando
la vita contro uno solo di loro, mi chiedo cosa dovremmo fare per
contenere un attacco più massiccio...”
Le
ultime parole giunsero alle orecchie di Ayame ovattate. Il suo
cervello e il mondo intorno a lei si erano fermati molto prima, alla
notizia che Hyoga era in pericolo di vita.
Il
respiro le si fece pesante e la vista si annebbiò d'un
tratto.
Qualcosa di bagnato, lacrime probabilmente, le scendeva lungo le
guance. Il vuoto all'addome divenne così opprimente da fare
male e
da toglierle l'aria. Iniziò a respirare affannosamente a
bocca
aperta, liberando ogni tanto qualche singhiozzo.
Qualcuno
le prese il volto con le mani. Forse la stava chiamando, ma lei non
sentiva nulla. La sua mente era totalmente nel pallone, non riusciva
a ragionare. Vedeva solo immagini di Hyoga e di fiamme, alcune di
pura fantasia, altre di ricordi non molto lontani di una guerra
contro il fuoco.
Hyoga
sopraffatto dall'Angelo del Fuoco. La sua unica ragione di vita che
rischiava di morire. E lei era lì, tra quei quattro sassi
antichi,
impotente e inutile. Lontana da lui.
No.
Non
per molto ancora.
La
lucidità tornò in un baleno e con essa la
determinazione che diede
alle sue gambe la forza per fare quello scatto.
Si
liberò delle attenzioni di Psiche e Galatea, che doveva
essere
giunta lì poco prima, ignorò totalmente i loro
richiami e si lanciò
lungo la scalinata delle Dodici Case. Iniziò ad
attraversarle ad una
ad una senza chiedere permessi di sorta. Pesci. Acquario. Capricorno.
Sagittario.
Le
gambe iniziarono a dolerle e il respiro a farsi affannoso, ma
continuò a correre.
Scorpione.
Bilancia. Vergine. Leone.
Sentiva
i richiami dei custodi delle Case, ma non vi prestava ascolto. Non
avrebbero capito.
Sulla
soglia della Casa del Cancro udì altri passi dietro di lei.
Incitandosi con un verso quasi animalesco, accelerò la sua
corsa.
Era
quasi alla fine. Gemelli. Toro.
Aldebaran
era sulla soglia. Vide lei e chi le correva appresso. Tentò
di
placcarla, ma appena le sfiorò la pelle, si sentì
un sinistro
sfrigolio e un'imprecazione poco fine del Cavaliere. Ayame se lo
lasciò alle spalle che si reggeva una mano, dolorante.
Passò
l'ultima Casa, l'Ariete Bianco, e imboccò la via verso
Rodorio. Era
quasi arrivata alla curva a gomito che nascondeva le prime case alla
vista, quando qualcuno l'afferrò per un braccio. Di nuovo
udì
quello sfrigolio e la persona dietro di lei soffocò un
lamento, ma
non mollò la presa. Ayame si sentì tirare
indietro e due braccia
forti la cinsero, impedendole qualsiasi movimento. Provò a
dimenarsi
ma fu tutto inutile, la corsa l'aveva stancata e chi la stava
trattenendo era nettamente più forte.
“Ayame,
ferma!” le venne intimato.
Nella
confusione dei suoi pensieri riconobbe la voce di Kanon, ma non era
un buon motivo per arrendersi.
“Lasciami!
Devo andare da lui!” gridò lei in risposta,
continuando a muoversi
nel disperato tentativo di liberarsi dalla morsa del Generale.
Con
un lampo di luce, Mu si materializzò davanti a loro e
allargò le
braccia. Solo allora Kanon lasciò andare Ayame, la quale
approfittò
subito della libertà per riprendere la corsa. Un ostacolo
invisibile
tra lei e Mu la costrinse a fermarsi. Il Cavaliere dell'Ariete aveva
eretto il Crystal Wall davanti a lei per impedirle di proseguire.
Kanon le sbarrava la strada dall'altro lato, il volto contratto in
un'espressione sofferente a causa delle bruciature sulle braccia e
sulle mani nei punti in cui era venuto a contatto con la pelle di
Ayame.
Questa,
ormai in preda alla disperazione, si lanciò contro il muro
invisibile davanti a lei e prese a tempestarlo di pugni.
“Lasciami
passare!” piangeva Ayame, senza nemmeno vedere Mu, tante
erano le
lacrime nei suoi occhi. “Ha bisogno di me, lasciami andare da
lui!”
“Mi
dispiace, Ayame... non posso” si scusò il giovane
uomo dall'altra
parte, ma Ayame sembrava sorda a qualsiasi parola.
“Devo
passare, Mu! Fammi passare! Ti prego!”
Dopo
quell'ennesimo sfogo, la stanchezza e la rassegnazione ebbero la
meglio sulla ragazza, che si abbandonò ad un pianto
disperato e
liberatorio al tempo stesso. Scivolando lungo il Crystal Wall, le sue
mani lasciarono scie dorate lungo la superficie invisibile, che la
accompagnarono nella sua lenta discesa.
Una
volta a terra, il muro scomparve. I due guerrieri si avvicinarono con
cautela ad Ayame e Mu le si inginocchiò di fronte. Quando
posò la
sua mano sulla spalla nuda della ragazza, non accadde nulla di
ciò
che era successo ad Aldebaran e Kanon. La sua pelle era fresca e
liscia come sempre.
“Ayame,
sono davvero desolato” ripetè l'Ariete,
sinceramente dispiaciuto.
“Ma è nostro compito tenerti al sicuro tra i
confini del
Santuario”
“Non
serve a niente scusarsi” gli fece notare Kanon.
“Probabilmente
non ti sta nemmeno ascoltando”
“Devo
vederlo” singhiozzò la ragazza, infatti, prima di
sollevare il
volto rigato dalle lacrime verso Mu. “Solo un attimo. Ti
prego...”
Ayame
si aggrappò con forza al suo braccio per dare più
enfasi alla sua
richiesta.
Mu
sembrava combattuto. Da un lato c'erano il suo dovere di Cavaliere e
il desiderio di non disobbedire al suo maestro Shion, dall'altro
c'era Ayame sull'orlo del baratro che gli stava chiedendo un aiuto
che solo lui poteva darle. Cosa fare quindi?
Alzò
lo sguardo verso Kanon, in piedi dietro ad Ayame. Il suo sguardo
serio passò dalla ragazza al compagno d'armi e le sue
sopracciglia
si inarcarono leggermente.
“Ci
vorranno solo pochi minuti” gli fece notare.
Ayame
fece un vigoroso cenno affermativo con la testa e la sua presa sul
braccio di Mu si accentuò, così come si fece
più marcata la sua
espressione supplice.
Il
Cavaliere sospirò, quindi acconsentì con un
sorriso. Al suo “Va
bene”, Ayame parve sciogliersi in un sorriso felice come
pochi
altri che aveva visto e talmente contagioso che si ritrovò a
sorridere anche lui. Bastò quel sorriso a fargli dimenticare
ogni
preoccupazione, ogni motivazione contraria a quel breve viaggio. Era
la cosa giusta da fare. Quella ragazza stava già soffrendo
abbastanza, anche se non lo dava a vedere. Era giusto concederle
anche solo pochi minuti di felicità.
Mu
si rialzò in piedi ed aiutò Ayame a fare
altrettanto. Quando il
Cavaliere iniziò a concentrarsi per effettuare il
teletrasporto, la
ragazza si voltò e afferrò Kanon per un braccio
prima che questi
potesse realizzare quali fossero le sue intenzioni.
In
un batter d'occhio l'ambiente intorno a loro cambiò. La
macchia
mediterranea lasciò il posto ad un giardino curato ed
illuminato
dalla luce argentea della luna.
Palazzo
Kido portava ancora i segni dello scontro avvenuto poche ore prima. I
muri erano solcati da profonde crepe, parte della grande terrazza che
dava sul giardino era crollata e della natura prossima alla dimora
non era rimasto che cenere.
Le
luci alle finestre erano per la maggior parte accese. Lo sguardo di
Ayame corse subito verso la finestra della sua stanza e
trovò
anch'essa accesa.
Rapidamente
raggiunse la terrazza ed entrò in casa, seguita a breve
distanza dai
due guerrieri. Superato il salotto, percorse un primo tratto del
breve corridoio che conduceva all'ingresso e voltò a
sinistra verso
la scalinata che portava ai piani superiori. Al terzo scalino una
voce la chiamò alle sue spalle.
“Ayame!
Che ci fai qui?” le domandò sorpresa Talia, che
era sbucata dalla
cucina. La Sacerdotessa la guardava seriamente, ma i suoi occhi
lasciavano trasparire la gioia che stava provando nel rivedere la sua
dea.
Poco
dopo venne raggiunta da Shun, che porse la stessa domanda sia a lei
che ai suoi accompagnatori.
“Ecco
io ho saputo... dell'attacco e...allora... Shun, devo vedere
Hyoga”
rivelò infine, di nuovo con le lacrime agli occhi.
Il
ragazzo sorrise e annuì col capo. “Sai dove
trovarlo”
Ayame
sorrise di rimando, quindi riprese a salire le scale, ma si
bloccò
prima di raggiungere la cima e tornò a rivolgersi a Shun.
“Shun...
come sta?”
“Starà
molto meglio dopo averti vista” rispose sibillino il
Cavaliere, per
poi incitarla con un cenno del capo a proseguire.
Ayame
non se lo fece ripetere. Una volta in cima alla scala,
imboccò il
corridoio che portava alla sua stanza, l'ultima in fondo. La porta
della camera si aprì poco dopo e ne uscì Hyoga,
bendato su buona
parte del torace ma apparentemente in buone condizioni.
Non
appena si videro, entrambi i ragazzi si bloccarono sul posto. Nel
corridoio scese il silenzio, rotto solo dai battiti accelerati dei
loro cuori che rimbombavano loro nelle orecchie.
“Ayame,
che...” iniziò a dire Hyoga, incerto se essere
felice o
preoccupato della presenza della ragazza lì. Si
bloccò, però,
quando la vide scoppiare in lacrime.
“Stai
bene... Dei, ho pensato... ho avuto paura... avevo sentito che avevi
rischiato la vita e...”
Le
sue parole si persero tra le labbra di Hyoga, che aveva raggiunto
Ayame mentre cercava di mettere su una frase di senso compiuto tra un
singhiozzo e l'altro.
Tutto
ciò che era al di fuori di lei e Hyoga cessò
improvvisamente di
esistere per quel breve istante in cui le loro labbra furono a
contatto. Non esistevano Angeli, incubi, sensazioni di vuoto,
tensioni e tristezze. Era tutto perfetto per il semplice fatto che
loro due erano di nuovo insieme.
Una
volta staccatosi da lei, Hyoga prese il volto di Ayame fra le mani e
lo tenne vicino al suo, le fronti attaccate e i nasi a sfiorarsi.
“Piccola,
pazza Ayame” le sussurrò dolcemente. “Ti
rendi conto di cosa
stai rischiando ad essere qui?”
“Lo
so che non è stato prudente, ma dovevo vederti. Appena ho
saputo, mi
sono sentita morire e ho solamente desiderato di essere qui, vicino a
te, perchè avevi bisogno di me... e io di te”
Ayame
scoppiò di nuovo in singhiozzi, stavolta per sfogare la
tensione che
si era accumulata dentro di lei in quei pochi giorni. Pianse a
dirotto sul collo del suo Cavaliere, stretta nel suo caldo abbraccio
e rassicurata dalle sue parole di conforto.
In
quel momento più che mai si rese conto di quanto Hyoga fosse
importante e vitale per lei, di quanto fossero bastati pochi giorni
lontano da lui per sentirsi ancora più incompleta di quanto
già non
fosse, di quanto fossero vere le ultime parole che si erano scambiati
prima della sua partenza. Hyoga era il suo mondo, la sua ragione di
vita, la stella del suo universo. Più orbitava lontana da
lui, più
sentiva freddo. Il suo posto era vicino a lui. Aveva bisogno di
tornarci al più presto e conosceva un solo modo per farlo.
Quello
indicatole da Shaka.
Sarebbe
tornata al Santuario e si sarebbe dedicata al suo recupero con tutta
se stessa, per tornare da Hyoga.
Il
suo pianto si calmò e sciolse l'abbraccio col Cavaliere per
guardarlo negli occhi. Sembrava afflitto da qualche pensiero cupo.
“Non
pensavo che stessi così male ad Atene” disse,
infatti, scostandole
una ciocca di capelli bagnati di lacrime dal viso.
“Non
è facile” ammise Ayame, tuttavia
proseguì con una nuova
risolutezza nella voce.”Ma andrà meglio. Shaka mi
sta aiutando a
risvegliare Afrodite. Siamo solo agli inizi, ma tornerò
quella di
una volta. E tornerò da te”
“E
io sarò qui ad aspettarti, promesso”
Si
baciarono di nuovo, più a lungo e più
profondamente, perché il
sapore dell'altro rimanesse bene impresso nelle loro menti. Hyoga
accompagnò, poi, Ayame al piano terra, dove Mu e Kanon la
stavano
aspettando, insieme a Shun, Talia e agli altri abitanti della casa.
La
ragazza andò subito ad abbracciare le sue Sacerdotesse e
Saori,
quindi salutò gli altri Cavalieri e fece finalmente la
conoscenza
dei due che mancavano all'appello.
Dhoko
della Bilancia era un ragazzone nerboruto con la saggezza di un
bicentenario e non mancò di rimproverarla bonariamente per
la sua
visita. Aiolos, invece, era un uomo pacato che trasmetteva una grande
tranquillità, assieme ad una grande forza.
Sapere
della loro presenza a Tokyo, insieme a quella di Saga, convinse Ayame
che le persone a lei più care erano più che al
sicuro.
Dopo
un ultimo saluto generale, Mu teletrasportò tutti loro
nuovamente ad
Atene, sotto il rosso del tramonto.
Salve :)
dunque, so che a qualcuno farà un po' strano pensare alle
Dodici Case come a piccoli appartamenti arredati stile Ikea, con tanto
di comfort ed elettrodomestici, ma secondo me un minimo di attrezzatura
ce la devono avere sti bravi uomini per sopravvivere senza ricorrere a
legnetti e pietra focaia... che diamine, siamo nel ventunesimo secolo!
E poi Zeus non è uno che bada a spese :D
Forse non
piacerà il mio Camus fotografo e -spero di no- forse potrei
essere andata in OOC, non lo so, ad ogni modo dovrei essermi cautelata.
Comunque per quanto mi riguarda, da buon francese l'algido Cavaliere
è un amante di tutte le forme d'arte e della fotografia in
special modo. Non so come spiegarlo, mi è piaciuto mentre me
lo figuravo con una reflezx da millanta euro al collo :D
Il piatto che gli prepara
la povera Galatea, poi, è un pasticcio di pasta con feta,
ragù e parmigiano...insomma, una cosetta semplice per una
che mangiava solo pane e olive e non sa cosa sia un rubinetto (scusa
Gala ;P)
A voi i commenti e non
siate clementi!
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Capitolo 10 *** Dal tramonto all'alba ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
9-
Dal tramonto
all'alba
Ad
Ayame fece uno strano effetto passare dalla notte tinta di stelle di
Tokyo al caldo tramonto di Atene. Non erano passati che pochi minuti
dalla loro partenza, esattamente come aveva predetto Kanon, eppure a
lei sembravano un'eternità.
Era
strabiliante quante cose potessero succedere in pochi minuti. A lei
erano bastati per percorrere migliaia di chilometri, riabbracciare il
suo uomo e sincerarsi delle sue condizioni, rivedere amici vecchi e
nuovi e ritornare indietro. Ma soprattutto le erano bastati per
passare dall'essere sull'orlo della disperazione allo straripare di
determinazione e ottimismo riguardo al suo futuro.
“Va
un po' meglio?” le chiese Mu, dopo averle lasciato la mano.
Ayame
annuì vigorosamente e riuscì anche a sorridere.
“Grazie di tutto”
gli disse poi, sinceramente riconoscente. In quel momento, a mente
lucida, poteva ben immaginare che rischio avesse corso il Cavaliere
ad andare contro il volere del suo maestro teletrasportando entrambi
in Giappone.
Mu
rispose con un gesto noncurante, per poi avviarsi verso le Dodici
Case, seguito da Kanon.
Già,
Kanon. All'ultimo momento aveva deciso di trascinare anche lui in
quel viaggio da incoscienti attraverso lo spazio e il tempo, senza
nemmeno chiedergli cosa ne pensasse e dopo che si era procurato
quelle terribili bruciature per fermare la sua folle corsa. Ayame
sentì il bisogno di dirgli qualcosa, qualsiasi cosa.
“Kanon?”
lo chiamò, incerta della sua reazione.
Il
Generale lasciò proseguire Mu e si voltò verso
Ayame, che lo
raggiunse in breve.
“Ascolta...
mi dispiace, per tutto. Per le scottature e... per averti portato con
noi...”
“Sì,
beh, il viaggio me lo sarei evitato volentieri”
confermò lui,
bloccando le scuse di Ayame. “Odio gli incontri lacrimevoli.
Ma per
queste”, si guardò le bruciature, “non
c'è da preoccuparsi,
credo. Mu me le sistemerà stasera in poco tempo”
“Bene”
si sforzò di sorridere Ayame. “Comunque, io non
volevo far del
male a nessuno, non so come sia successo”
“Se
è per questo, nemmeno io, ma forse Shaka ne sa qualcosa di
più. Ti
conviene parlargliene domani, o rischi di bruciarli i boccioli,
invece che farli fiorire”
La
bionda fece per ribattere, quando le sorse spontanea una domanda:
come faceva Kanon a sapere del compito assegnatole da Shaka? Che
gliel'avesse detto lui? A che scopo? Forse perché era stato
Kanon a
chiederglielo?
“Hai
finito di fare domande?” Kanon interruppe bruscamente la sua
valanga di dubbi. “Le mie braccia cominciano a fare
seriamente
male, vorrei andare a farmele curare”
“Co...
ma... hai sentito quello che stavo pensando?” chiese Ayame,
sconcertata.
“Sì”
rispose il Generale con superficialità.
“'Sì'?
Solo 'sì'? Ti sei intrufolato nella mia testa e tu mi
rispondi con
un inutile 'sì'?”
“Sì.
Ci vediamo, divinità da strapazzo”
“Sono
tornati” comunicò Camus alle Sacerdotesse, dopo
aver percepito la
comparsa dei cosmi di Mu e Kanon in fondo alla scalinata delle Dodici
Case.
Dopo
la fuga di Ayame, aveva lasciato agli altri due l'onere di inseguire
la ragazza e di convincerla a tornare. Quando aveva sentito i loro
cosmi scomparire, aveva intuito che Ayame doveva essere stata
più
convincente. Aveva quindi comunicato la cosa a Galatea e Psiche,
mandandole totalmente in agitazione, la sua ospite in primo luogo.
Sembrava terrorizzata all'idea che potesse succedere qualcosa ad
Ayame e si era sentito in dovere di tranquillizzarla.
“È
con due guerrieri preparati e potenti. Non corre alcun
rischio” le
aveva detto, ma le sue parole non aveva sortito l'effetto desiderato.
Era
poi sopraggiunto nell'atrio il Gran Sacerdote, il volto stanco e
tirato composto in un'espressione impassibile. Il silenzio era calato
tra loro quattro. Non era un mistero che Shion non vedesse di buon
occhio le tre nuove arrivate, Ayame specialmente, e quel colpo di
testa della ragazza rischiava di peggiorare la situazione.
Probabilmente conscia di questo, Galatea si era gettata ai piedi di
Shion poco dopo la sua comparsa, supplicandolo di non punire Ayame e
di comprendere le ragioni del suo gesto.
“Lei
e Hyoga sono quasi morti per conquistarsi la libertà di
amarsi”
gli aveva spiegato, levando verso il Celebrante il volto rigato di
lacrime. “Perdere lui significa perdere una ragione
fondamentale di
vita per Ayame, soprattutto adesso. Vi prego, Eccellenza, cercate di
capire”
Shion
era rimasto spiazzato da quella supplica e non aveva ribattuto niente
sul momento. Si era, poi, trovato ancora più in
difficoltà quando
anche Psiche gli si era inginocchiata davanti, con un espressione di
ferma decisione nettamente in contrasto con quella supplice della
compagna d'armi.
“Sappiamo
che la nostra signora ha molti difetti, ma forse questa devozione
verso l'uomo che ama è il miglior pregio che
possieda” aveva
aggiunto la Rosa a quanto già detto da Galatea.
“Se riuscite anche
voi a vederla sotto questo punto di vista, vi preghiamo di non
prendere provvedimenti nei suoi confronti”
Il
Gran Sacerdote aveva sospirato e aveva chiuso gli occhi per qualche
secondo, quindi si era chinato per prendere le due giovani ai suoi
piedi per le braccia.
“Alzatevi,
Sacerdotesse. Non è degno del vostro rango prostrarvi ai
miei piedi”
Si
erano rimessi tutti e tre in piedi. Galatea si era asciugata alla
bell'e meglio il viso col dorso della mano e aveva lanciato un breve
sguardo a Camus, per poi rivoltarsi col volto acceso da un lieve
rossore.
“Attenderemo
il ritorno della vostra dea qui, insieme, d'accordo?” aveva
infine
domandato Shion, accondiscendente. Le due ragazze avevano annuito e
di nuovo il silenzio era calato.
Galatea
e Psiche avevano preso posto sui primi scalini davanti all'atrio e la
bionda era sembrata a Camus fermamente convinta a non voltarsi verso
di lui. Il Cavaliere non aveva saputo comprendere se
quell'atteggiamento fosse dovuto al modo in cui l'aveva trattata
all'Undicesima oppure all'imbarazzo per quanto successo col
Celebrante poco prima. Stava di fatto che lui, invece, non riusciva a
staccare gli occhi dalla sua schiena. La sua devozione verso Afrodite
l'aveva profondamente colpito, forse perché non era ancora
riuscito
ad inquadrare quella fanciulla come sacro guerriero quale era. Non
che non la considerasse una sua pari, ma Galatea aveva sempre
dimostrato una freschezza e una fragilità che poco si
sposavano con
la figura di una Sacerdotessa guerriera. Forse era per questo motivo
che Camus la trovava sempre più interessante. Quel caldo che
sentiva
ogni volta che incontrava il suo sguardo cominciava a diventare
stranamente piacevole e l'idea lanciata da Milo di invitarla fuori
non gli sembrava più così abominevole. Poteva
essere un'occasione
per conoscere meglio quella ragazza a lui fisicamente vicina in quel
momento, ma che percepiva ancora a chilometri di distanza.
Quando
comunicò ai presenti del ritorno di Ayame, Kanon e Mu, le
Sacerdotesse scattarono in piedi e presero a scrutare il fondo della
lunga scalinata, dove, poco dopo, comparve la figura di Mu, seguita a
breve distanza da Kanon e, quindi, da Ayame.
Una
volta intravista la ragazza, entrambe si voltarono a guardare di
sottecchi Shion, che si era avvicinato a loro. Il suo volto era
imperscrutabile e fisso a seguire la risalita del suo allievo e di
Ayame.
Dopo
minuti interminabili, Mu e la ragazza emersero dalla Dodicesima Casa
e si accinsero a salire verso la Tredicesima. Galatea e Psiche
anticiparono, però, l'incontro, correndo verso Ayame. La
prima gettò
le braccia al collo alla ragazza, sorprendendola, mentre Psiche
mantenne la sua compostezza di sempre e si limitò a
sorriderle
sollevata.
“Scusatemi
per avervi fatto preoccupare, ma sto bene. Stanno bene tutti”
le
rassicurò Ayame, per poi procedere con la scalata insieme
alle due
Sacerdotesse.
Una
volta giunta davanti a Shion, questi smise di parlare con Mu e
puntò
il suo sguardo ametista su di lei. Non sapeva cosa aspettarsi da lui,
il suo volto non lasciava trasparire nulla né lei sapeva se
sentirsi
nel torto o nella ragione. I piani di sabotaggio dell'estate del
Celebrante erano chiusi in un cassettino remoto della memoria di
Ayame, passati in secondo piano rispetto a tutto quanto era accaduto
in quei pochi minuti.
Riuscì,
comunque, a sostenere lo sguardo di Shion finché non ruppe
il
silenzio.
“Sembri
molto stanca. Vuoi andare a riposare?” le domandò
semplicemente,
senza dare alla sua voce un'inclinazione particolare. Neanche un
rimprovero od un'ammonizione. Che fine aveva fatto il Gran Sacerdote
acido e velenoso del giorno prima?
Dopo
un attimo di spiazzamento, Ayame rispose gentilmente
“Sì, ne ho
proprio bisogno”.
Shion
si spostò per lasciarle libero il passaggio. Ayame
entrò alla
Tredicesima dopo aver congedato le sue Sacerdotesse. Percepì
lo
sguardo del Gran Sacerdote fisso sulla sua schiena finché
non girò
l'angolo per imboccare il corridoio che conduceva alla sua stanza.
Quella
notte, le tre ragazze dormirono tutte un sonno profondissimo e
tranquillo, fiaccate dagli eventi che avevano reso la loro giornata
più intensa del previsto.
Il
sonno profondo e beato di Ayame durò fino alle prime luci
dell'alba,
quando l'incubo del baratro senza fondo tornò a farle
visita. Di
nuovo la caduta senza fine sotto quegli occhi maligni, di nuovo il
buco nero delle fauci di Mikyo, di nuovo il risveglio traumatico e le
lacrime agli occhi. Come si era ripromessa la notte precedente, Ayame
cercò di focalizzare il panorama della notte greca per
rilassarsi e
calmare i battiti del suo cuore.
Poco
dopo il brusco risveglio, Selene bussò alla porta, come da
copione,
per portarle la colazione.
“Ti
senti bene?” le chiese, preoccupata, la bambina, dopo averla
vista
in faccia. Doveva avere proprio una brutta cera.
“Certo!
Mai stata meglio” mentì Ayame, tirando la bocca in
un sorriso
falso.
Selene
se ne andò, non del tutto convinta, dopo averle comunicato
che Shaka
la aspettava alla Sesta Casa quella mattina.
Ayame
andò allora in bagno a risciacquarsi nella speranza che il
suo
aspetto migliorasse, cosa che avvenne, in parte, solo dopo una mano
pesante di fondotinta e correttore per le occhiaie.
Aveva
lo stomaco ancora chiuso per l'agitazione derivata dall'incubo,
perciò lasciò il vassoio così come le
era stato recapitato e se lo
portò appresso nella sua discesa verso la Casa della
Vergine. Non
voleva sprecare quel ben di dio e sperava che qualcuno dei custodi
dei templi ne avrebbe approfittato. Alla Decima, Shura prese solo
qualche assaggio perché era ancora appesantito dalla cena
della sera
prima. All'Ottava, invece, Milo non fece complimenti e si prese tutto
il vassoio.
“Sai,
oggi ho un sacco da fare” spiegò con mezzo
croissant in bocca. “Mi
servono energie”
Ayame
non indagò oltre riguardo agli impegni di Milo e procedette
fino
alla Sesta Casa.
Varcata
la soglia, si ritrovò immersa in un'atmosfera di irreale
serenità
che riuscì a scacciare l'ultima traccia di turbamento che il
sogno
aveva lasciato nella sua testa.
“È
bene che l'oscurità non si faccia largo nella tua mente, se
vuoi
riuscire nel tuo intento di rinascere, Afrodite”
La
voce di Shaka la raggiunse da un antro non troppo distante
dall'ingresso della Sesta. Un enorme fiore di loto troneggiava tra le
colonne e, sopra di esso, il Cavaliere levitava nella sua posa
meditativa, emanando un'energia talmente grande che persino nelle sue
condizioni di normale essere umano riusciva a sentirla.
“Mi
dispiace” disse istintivamente Ayame.
Shaka
sorrise, ma non si mosse.
“Posso
capire che non sia facile mantenere la serenità quando un
incubo del
genere viene ogni notte a farti visita” continuò
l'asceta, per poi
tornare serio “Ma devi cercare di essere più forte
delle tue
paure, altrimenti esse ti tireranno sempre più verso il
fondo. O
peggio”
Nel
pronunciare le ultime due parole, Shaka aveva aperto gli occhi, dando
al suo cipiglio un'ulteriore nota di serietà che
riuscì ad
intimorire Ayame. Cosa poteva esserci di peggiore della sua
condizione?
“In
che senso 'peggio'?” domandò per esternare il suo
cruccio.
“Parlo
di quanto successo ieri sera, di ciò che la paura e la
preoccupazione per le sorti di Hyoga ti hanno fatto fare”
“Lo
so, non sarei dovuta fuggire, ma non riuscivo a ragionare
e...”
iniziò a giustificarsi Ayame, ma si interruppe quando vide
Shaka
scuotere la testa.
“Non
parlavo di questo, ma di ciò che hai fatto ad Aldebaran e
Kanon”
spiegò ulteriormente Virgo, sempre con gli occhi pervinca
puntati
sulla ragazza.
“Non
volevo fare loro del male, giuro...”
“Ma
l'hai fatto. In quel momento erano ostacoli sul tuo cammino e li hai
feriti per raggiungere l'obiettivo. Ringraziando il cielo il cosmo
che in te è ancora profondamente addormentato, altrimenti
chissà
cosa avresti potuto causare loro”
Shaka
era sinceramente preoccupato per tutta quella situazione. Quando, la
sera prima, Kanon e Aldebaran si erano presentati da Mu per farsi
curare, l'Ariete l'aveva subito fatto chiamare perché, per
la prima
volta, non era stato in grado di curare completamente una ferita
banale come una bruciatura. Shaka aveva esaminato i segni sulle
braccia e sulle mani dei due guerrieri a fondo e aveva riconosciuto
le tracce di un cosmo arrabbiato e cupo, nonché di ingente
potenza.
Si era fatto allora spiegare da cosa erano state procurate quelle
ferite e aveva capito che bisognava porre rimedio a quella
situazione.
Mentre
osservava impassibile Ayame, capì che anche la ragazza era
profondamente preoccupata ed era comprensibile. Probabilmente non
aveva mai raggiunto la massima espansione del suo cosmo divino,
né
tanto meno ne conosceva le ombre. Perché ogni cosmo, si
ripeté per
l'ennesima volta nella sua vita Shaka, ha luci e ombre.
Il
Cavaliere abbandonò la posizione del loto per avvicinarsi ad
Ayame,
il cui sguardo spaventato si era spostato a terra.
“Mi
dispiace” si scusò subito. “Non volevo
allarmarti ma è
importante che tu capisca questo. Ogni cosmo, grande o piccolo che
sia, può tendere alla luce o all'oscurità e a
seconda della sua
inclinazione ha effetti diversi. Per quanto sia la nostra
volontà a
decidere questa inclinazione, sono le emozioni e gli stati d'animo ad
influenzare la nostra scelta. Serenità, fiducia,
determinazione
portano il nostro cosmo verso la luce. Rancore, invidia, desiderio di
vendetta, paura lo portano verso il buio”
Ayame
tornò a guardare il suo mentore. Non aveva più
l'espressione severa
di poco prima e le palpebre erano di nuovo chiuse.
“Perché
la paura porta all'oscurità?” osò
domandare, sperando di non
apparire troppo ingenua od ottusa.
“La
paura mina le nostre convinzioni, fa vacillare la nostra
volontà.
Per paura di perdere o, al contrario, di non ottenere qualcosa,
spesso si sceglie la più rapida via del male che quella
impervia del
bene. Capito cosa intendo?”
Ayame
ripensò agli avvenimenti di poche ore prima, alla paura per
Hyoga e
alla reazione istintiva che essa aveva provocato. Non una delle sue
azioni era stata ponderata, aveva dato libero sfogo alla sua parte
più irrazionale, che con ogni probabilità era
giunta ad attingere
forza da quella parte di lei ancora addormentata.
“È
stato il mio cosmo a causare le bruciature di Aldebaran e
Kanon”
concluse Ayame. “Per paura ho lasciato che il mio istinto
risvegliasse una parte del mio cosmo per aiutarmi a raggiungere il
mio obiettivo. È così?”
Shaka
annuì, sorridendo soddisfatto.
“Bada,
non sto dicendo che l'istinto porti al male. Anzi, sai perfettamente
quante volte ricorrere ad esso sia fondamentale per salvarci la vita.
Ma non bisogna cedervi e lasciare che siano le nostre emozioni a
comandarci. Tu stessa hai visto che effetto può avere una
scelta del
genere”
“Mi
dispiace davvero per quanto accaduto, Shaka, ma penso di aver
imparato la lezione” disse Ayame e Shaka seppe subito che era
vero.
Consapevole di ciò che aveva fatto, sentiva che era
più serena e
determinata a portare avanti la sua rinascita.
Si
congedò da lei per un attimo e scomparve tra le colonne del
tempio,
per riemergere con un bocciolo di rosa tra le mani che porse ad
Ayame.
“Sai
cosa devi fare” le disse dopo che la ragazza lo ebbe preso
dalle
sue mani.
Questa
annuì, ma rimase sulla soglia della casa, incerta sul da
farsi,
mentre Shaka tornava sul fiore di loto. Si guardò un attimo
intorno,
per cercare un posto in cui mettersi a lavorare, ma l'atrio della
Sesta era spoglio di qualsiasi minimo comfort, eccezion fatta per la
postazione di meditazione di Shaka.
“Ehm,
Shaka?” lo chiamò allora, piano per paura di
distrarlo da
qualsiasi cosa stesse facendo.
“Che
c'è, Ayame?” rispose lui, accondiscendente.
“Dove
posso mettermi a fare... questo?”
“Dove
più ti aggrada, basta che resti nei confini del
Santuario”
“Bene,
ottimo! Allora... ci... vediamo dopo” si congedò
titubante la
bionda, mentre arretrava verso l'entrata della Casa della Vergine.
Shaka non accennò a muoversi né a rispondere,
allora Ayame si voltò
e prese a scendere le scale verso il tempio del Leone. Aiolia la
salutò cordialmente e le permise di passare. Giunta alla
Casa del
Cancro inciampò in una maschera dal naso eccessivamente
prominente e
cadde a terra imprecando in modo poco fine e divino, con la faccia a
pochi centimetri da quella di pietra di un uomo estremamente brutto.
“Ehi!
Occhio a non rovinarmi la tappezzeria ogni volta che passi!”
le
urlò Death Mask da qualche oscuro meandro del tempio.
Ayame
cercò di mantenere quel poco di serenità che
aveva recuperato da
Shaka e procedette verso la Terza Casa, che trovò vuota.
Rimase
leggermente delusa dall'assenza di Kanon. Dopo il discorso con Virgo,
sentiva il bisogno di chiedergli nuovamente scusa. Le si
presentò,
però, l'occasione di farlo con Aldebaran, che comparve, poco
dopo il
suo arrivo, sulla soglia della Terza.
“Ciao!
Come sta la mano?” gli chiese subito, andandogli incontro.
“Buongiorno,
bellezza!” la salutò calorosamente, mostrandole
poi la mano
bendata. “Va benone! Sono morto e risorto, una bruciatura
cosa vuoi
che sia?”
La
ragazza si sciolse in un sorriso davanti all'espressione bonaria del
Cavaliere.
“Bene,
sono contenta. Mi dispiace molto, non volevo farvi del
male...”
“Ah,
non starci a pensare! È andato tutto bene, alla fine,
no?”
“Sì,
ma...” provò ancora a scusarsi lei, ma il Toro non
voleva sentir
ragioni, era un fiume in piena di affabilità.
“E
se quel brutto muso di Kanon dice il contrario, tu vieni a dirlo al
vecchio Al, capito?”
“E
cosa pensa di fare, a quel punto, il vecchio Al a quel
brutto muso di Kanon?”
Un
silenzio gelido cadde sotto la volta della Terza Casa. Aldebaran si
voltò con estrema lentezza verso l'entrata del tempio, dove
Kanon si
stava spogliando delle sue vesti di Generale con lo sguardo fisso
verso gli altri due.
“Ahah!”
rise il Toro, per smorzare la tensione. “Ti darei un
amichevole
assaggio del mio Great Horn, che altro? Ma tanto non sei arrabbiato
per l'incidente di ieri con la signorina, no?”
Aldebaran
passò un braccio massiccio attorno alle spalle sudate di
Kanon, che
nel frattempo si era addentrato nella Casa e in quel momento guardava
seriamente Ayame. Questa, in soggezione, prese a giocare col bocciolo
che teneva in mano, nel tentativo di mascherare l'ansia che provava
mentre attendeva la risposta del Generale. Risposta che si fece
attendere per infiniti attimi, in cui la ragazza sbirciò
l'espressione di Kanon, sempre impassibile e sempre puntata su di
lei.
“No,
naturalmente no” disse infine il guerriero, e Ayame si
lasciò
scappare un sonoro sospiro di sollievo.
“Le
consiglio, tuttavia, di non perdere tempo qui e di andare a fare
ciò
che le è stato assegnato” continuò poi,
parlando in una
distaccata terza persona. “Questo non è il posto
giusto per
concentrarsi”
“Sì,
certo, io...” ribattè in fretta Ayame,
dileguandosi prima di
mettere insieme una frase sensata.
Aldebaran
la seguì con lo sguardo mentre correva verso Rodorio, mentre
Kanon
non accennò nemmeno a voltarsi, fingendosi impegnato a
sfilarsi i
bracciali dell'armatura.
“Lo
sai, quando fai così sei veramente un brutto muso”
lo accusò il
Toro, meno bonariamente del solito, prima di lasciarlo per proseguire
la salita.
Una
volta solo, Kanon si sentì libero di pensare che era meglio
essere
un brutto muso e tenere Ayame lontana da lui, che fare il socievole e
passare le notti insonni come quella precedente a causa sua.
Quella
mattina era il turno degli allievi di Milo di allenarsi all'arena. In
teoria si sarebbe dovuto dividere lo spazio con Shaka, ma il compagno
non aveva allievi al momento e sembrava molto preso dal recupero di
Ayame. Di questo aveva subito approfittato Aphrodite, che aveva
chiesto una piccola parte dello stadio per un allenamento con Psiche.
La
ragazza doveva essere scesa all'arena molto presto, perché
Milo la
trovò già attiva e a far volteggiare con grazia
un'arma. Poteva
essere l'occasione propizia per invitarla fuori, pensò lo
Scorpione,
ma l'ammonimento di Aphrodite della sera prima gli tornò a
ronzare
nelle orecchie. Era anche vero che mancava poco a venerdì e
che,
senza l'appoggio di quell'ingrato di Camus, ottenere una risposta
affermativa dalla Sacerdotessa iniziava a risultare un'impresa
titanica.
Non
era, tuttavia, il tipo che si arrendeva facilmente e, forte di questa
convinzione, mosse i primi passi verso la zona di allenamento di
Psiche. Questa lo vide avvicinarsi, ma si ostinò a guardare
dritta
davanti a sé finché Milo non le si
fermò a pochi passi.
“Siamo
mattiniere, oggi” esordì il Cavaliere, sorridente.
“Non
mi piace perdere tempo” ribattè lei, seria e senza
fermarsi.
“Nemmeno
a me, a dire il vero. Pare che abbiamo qualcosa in comune”
“Così
pare, ma finché è solo questa piccola cosa, non
mi preoccupo”
commentò acida lei, senza smettere di agitare la lancia con
cui si
stava allenando.
“Eppure
sono fermamente convinto che abbiamo più di questa piccola
cosa in
comune” continuò Milo, senza scoraggiarsi.
“Lasciami
indovinare: è stata Galatea a dirtelo?” lo
provocò Psiche, pur
sapendo che non era vero. La compagna le aveva assicurato di non aver
rivelato nulla al Cavaliere e si fidava delle sue parole.
Milo
sorrise. “No. L'ho intuito da solo”
Psiche
smise di far volteggiare l'arma e degnò lo Scorpione della
sua
attenzione. “Allora hai davvero un pessimo intuito”
“Oh,
io non credo proprio. E te lo posso dimostrare”
Psiche
non rispose, ma gli rivolse uno sguardo più che scettico.
“Da
quello che ho visto, cara Psiche, sono quasi sicuro di riuscire a
disarmarti della tua lancia in meno di dieci secondi, mentre tu non
riusciresti a riprendertela in meno di cinque minuti”
La
provocazione nelle parole di Milo era lampante, ma la Sacerdotessa
non era intenzionata a cedervi facilmente, anche se la tentazione era
forte.
“E
se invece riuscissi a non farmi disarmare o a recuperare la lancia
entro i cinque minuti?”
“Mi
stai chiedendo qual è la posta in palio? Dunque, se vinco
io, mi
concederai un appuntamento, diciamo per venerdì sera. Se
vinci
tu...”
“La
smetterai di ronzarmi intorno come un moscone su una cacca”
“Quanta
poca autostima, Psiche!” le fece notare con un mezzo sorriso
e
azzardando un mezzo passo nella sua direzione. La ragazza non
tentò
di mantenere le distanze, ma sostenne il suo sguardo. “Nel
tuo caso
starebbe meglio 'come un'ape su una rosa'”
Mentre
parlava, Milo aveva continuato la sua avanzata, lo sguardo fattosi
magnetico puntato su Psiche, che ne era rimasta totalmente
calamitata. La sua presa sulla lancia si era allentata notevolmente,
esattamente come Milo aveva previsto.
“...
nove, dieci”
Con
un gesto fulmineo, il Cavaliere disarmò Psiche. Questa parve
risvegliarsi dallo stato di ipnosi in cui era caduta e, dopo aver
realizzato di essere caduta nella trappola di Milo come una ragazza
qualsiasi, lanciò al ragazzo uno sguardo assassino.
“Ti
conviene sbrigarti, ti restano solo quattro minuti e mezzo per
riprendertela”
Psiche
non se lo fece ripetere due volte e si lanciò all'attacco
dello
Scorpione, senza risparmiarsi. La notevole esperienza di Milo,
però,
dava a quest'ultimo un vantaggio non indifferente, aiutato anche dal
fatto che era la rabbia a guidare gli attacchi di Psiche, rendendola
prevedibile.
Dopo
quasi due minuti ininterrotti di assalti, la lancia era ancora
saldamente nelle mani di Milo e il Cavaliere pareva fresco come fosse
appena sveglio, mentre Psiche iniziava ad accusare una certa
stanchezza che la convinse a calmare gli animi e a cambiare
strategia. Doveva recuperare quell'arma, ne andava del suo orgoglio
di guerriera e non solo. I suoi attacchi si fecero più
studiati e
riuscirono, alcune volte, a cogliere Milo di sorpresa. Tuttavia anche
lo Scorpione sembrava intenzionato a non perdere la sfida e trovava
sempre un modo per non perdere la lancia dalle mani. Le cose si
fecero, poi, ancora più ardue per lui quando Psiche decise
di
ricorrere alle sue rose, costringendolo a sfruttare anch'egli la sua
mossa segreta, ma solo a scopo difensivo. Non sarebbe mai riuscito a
colpire intenzionalmente la Sacerdotessa con la Scarlet Needle.
Allo
scoccare del quinto minuto, Milo decretò la sua vittoria
immobilizzando Psiche tra il suo corpo e l'asta della lancia.
“Trecento
secondi... che fanno cinque minuti... direi che ho vinto”
mormorò
all'orecchio di Psiche, tra un ansimo e l'altro.
Questa
gli lanciò uno sguardo carico di astio, ma non
ribattè, consapevole
di essere l'unica responsabile di quella sconfitta. Molte erano state
le occasioni per sopraffare l'avversario ma, forse inconsciamente,
non ne aveva sfruttata neanche una.
Milo
allentò la presa su di lei, che si allontanò
sollevando la lancia
con poca grazia e si diresse a passo spedito verso l'uscita dello
stadio.
“Passo
a prenderti alle otto!” le urlò dietro il
Cavaliere, ma Psiche
parve non ascoltare. Sulla soglia dell'uscita, però, la
Sacerdotessa
si fermò e si voltò verso di lui.
“Vedi
di essere puntuale, almeno!” gli urlò di rimando,
per poi
proseguire il suo cammino.
“Come,
scusa?” domandò Galatea, sicura di non aver capito
bene quello che
Camus le aveva appena chiesto. Sicuramente aveva frainteso, era
appena sveglia ed era facile capire fischi per fiaschi. Inoltre era
pienamente convinta che Camus non era tipo da chiedere a chiunque
fosse di uscire con lui.
“Mi
chiedevo se ti andrebbe di uscire, venerdì sera... con
me” ripetè
il Cavaliere, più lentamente, smentendo la Sacerdotessa su
tutta la
linea. Tuttavia Galatea non riusciva ancora a realizzare la
serietà
della richiesta, non quando ricordava perfettamente la freddezza con
cui Camus l'aveva trattata la sera precedente.
“Uscire
con te?” richiese, infatti, e Camus sembrò andare
parecchio in
difficoltà.
“Sì,
cioè, non solo con me. Ci saranno anche Milo e Psiche...
credo... e
comunque un sacco di altra gente... insomma, è per fare un
favore a
Milo, che vuole uscire con Psiche, ma pare non corra buon sangue tra
loro quindi...”
“D'accordo”
lo interruppe Galatea.
“Cosa?”
“Uscirò
con voi. Qualunque sia il motivo per cui lo facciamo”
spiegò
serafica la ragazza.
“Bene...
allora... vado a dirlo a... Milo... ok?”
Galatea
annuì. Quando Camus lasciò l'Undicesima, la
Sacerdotessa si sentì
finalmente libera di sorridere.
Bentornati, perdonate il
ritardo, ma questo cap ha subito molte modifiche (come ben sa
Panenutella, che ringrazio per la collaborazione :D). Le spiegazioni di
Shaka lo fanno sembrare un giovane Obi Wan Kenobi, lo so, mancava solo
che dicesse ad Ayame "Che la forza sia con te" XD. Parlando seriamente,
ringrazio come sempre chi legge, segue, commenta ecc ecc. Attendo i
pareri!
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Capitolo 11 *** Accompagnatore cercasi ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
10-
Accompagnatore cercasi
Erano
minuti, ormai, che Galatea si stava contorcendo le mani in preda
all'ansia. Ed erano minuti che fissava la maniglia della porta della
stanza di Psiche senza decidersi a bussare o ad aprirla direttamente.
Sapeva
che i suoi timori erano infondati, eppure non riusciva a non pensare
a Psiche come ad una specie di Cerbero in grado di divorarti alla
prima parola sbagliata. Nei pochi mesi passati assieme a lei non
l'aveva mai vista perdere il controllo, ma il suo temperamento
irascibile dava comunque adito a supposizioni simili. Inoltre
l'argomento di cui voleva parlarle era, per lei, delicato e motivo di
profondo imbarazzo e non era sicura che la compagna fosse la persona
giusta con cui confrontarsi.
Stava
di fatto, però, che era l'unica raggiungibile. Quando aveva
provato
a raggiungere Ayame a Rodorio, Shaka l'aveva fermata sulla soglia
della sua Casa chiedendole cortesemente di non disturbare la sua
allieva.
Dopo
aver preso un respiro profondo, Galatea si decise a bussare alla
porta. Attese parecchi secondi, durante i quali nulla sembrò
muoversi dall'altra parte dell'uscio, quindi ritentò.
“Sono
qui” le disse Psiche, con voce greve, dal fondo del corridoio.
Galatea
si voltò per salutarla sorridente, ma la faccia da funerale
della
compagna la fece desistere.
“Giornataccia?”
azzardò Galatea.
“Puoi
dirlo forte” confermò Psiche con poco entusiasmo,
mentre la
superava e apriva la porta della sua stanza. “Dai,
entra”
Galatea
eseguì. Psiche chiuse la stanza a chiave e iniziò
a liberarsi degli
abiti sudati, rimanendo in biancheria.
“Se
hai bisogno di qualcosa, dovrai parlarmene in bagno. Ho bisogno di
una doccia” la avvertì Psiche, mentre si dirigeva
verso l'altra
stanza.
“No,
figurati. Ti aspetto qui, se non è un problema”
Psiche
si fermò qualche secondo a squadrare la compagna.
“Hai
paura di me, per caso?” le domandò poi, a
bruciapelo.
“Chi?
Io? Ma che dici!” rispose Galatea, leggermente isterica.
“Siamo
compagne, serviamo la stessa dea, non c'è motivo di...
sì, un
pochino sì”
Psiche
rise di gusto, quindi cercò di tranquillizzare la bionda.
“Non
preoccuparti, non sei di sesso maschile, difficilmente mi faresti
arrabbiare” le disse, infatti, mentre entrava in bagno.
“Dai,
vieni. Se sei venuta qui nonostante i tuoi timori, la cosa è
seria”
Galatea
accettò l'invito con meno riluttanza di prima. Psiche era
già
dietro il paravento della doccia, da cui cominciava ad uscire qualche
nuvoletta di vapore caldo.
La
bionda si accomodò per terra, con la schiena contro il muro
piastrellato. Non sapeva da dove cominciare a raccontare.
Psiche
accorse in suo aiuto.
“Allora,
chi è il fortunato?”
“Cosa?”
“Il
ragazzo per cui ti sei presa una cotta da manuale, chi è? Lo
conosco?”
“Beh,
sì, credo” rispose Galatea titubante.
“È Camus. Mi... mi ha
invitata ad uscire, venerdì sera”
“Almeno
te l'ha chiesto. Milo mi ci ha costretta”
“Quindi
venite anche voi due, alla fine?”
Psiche
sbucò da dietro il paravento con la testa insaponata.
“Che vuoi
dire?”
“Camus
mi ha detto che ci sareste stati anche tu e Milo,
perché...”
iniziò a spiegare Galatea, ma l'amica la fermò.
“Shhh!
Stop! Lo so il perché... che grandissimo stronzo!”
Psiche
tornò sotto il getto d'acqua, continuando ad imprecare.
“Ma se
pensa di farmela, ha capito male, il ragnetto”
“Va
tutto bene, Psi?” indagò Galatea, preoccupata per
la sua reazione.
“Alla
grande! Mi passi l'asciugamano, per favore?”
Galatea
consegnò il telo alla mano impaziente che spuntava dal
paravento.
Poco dopo Psiche uscì dalla doccia e fece sedere Galatea
sulla tazza
del water, un sorriso malefico stampato in faccia.
“Stammi
bene a sentire, Galatea. Ti prometto che venerdì avrai la
tua serata
con Camus senza me e Milo a disturbarvi. A lui penso io”
“No,
no, non hai capito, io non voglio stare da sola con Camus”
chiarì
la bionda, rivolgendo uno sguardo supplice a Psiche.
“Perchè
no?”
“Perchè
non saprei cosa dirgli, come comportarmi... ci parliamo a stento, a
me si impasta la lingua ogni volta che lo vedo, lui invece scappa
sempre”
“Cavolo,
è una cosa seria” commentò Psiche.
“Qui ci vuole un'esperta,
che però è occupata fino a sera coi boccioli di
rosa. Vedrò cosa
posso fare nell'attesa. Vieni”
Presa
l'amica per la mano, la trascinò in camera e la fece
accomodare sul
letto, quindi le si sedette di fronte.
“Avanti,
parlami di Camus. Voglio sapere ogni dettaglio a partire da ieri
mattina all'arena”
Galatea
arrossì fino alla punta del naso, ma iniziò a
parlare, sorridente.
Ayame
tornò, affranta, alla Sesta Casa nel tardo pomeriggio. Shaka
era ad
aspettarla in cima alla scalinata, sempre sorridente e fiducioso.
Prese
dalle mani della ragazza il bocciolo di rosa, ancora stoicamente
chiuso, che gli stava porgendo.
“Riproveremo
domani” le disse, sperando di incoraggiarla.
Ayame
annuì. Aveva fiducia in Shaka e doveva averne in se stessa.
Era solo
il secondo giorno di prove.
Il
Cavaliere le diede il permesso di attraversare la sua Casa,
così
come tutti gli altri fino alla Dodicesima, dove trovò Psiche
e
Galatea ad attenderla. Capì che c'era qualcosa di strano dal
modo in
cui le corsero incontro e ne ebbe la conferma dalla foga con cui la
trascinarono nella stanza di Psiche.
Quasi
la costrinsero a sedersi sul letto, prima di iniziare a spiegarle la
situazione.
“Abbiamo
un problema, anzi due” esordì Psiche.
“Sia io che Galatea siamo
state invitate ad uscire, venerdì sera, rispettivamente da
Milo e
Camus”
“E
non mi avete detto niente? Vergognatevi!” replicò
indignata Ayame.
“Avete fatto presto comunque”
“Parla
per lei, io ne farei volentieri a meno” specificò
Psiche.
“Ad
ogni modo, non vedo dove stia tutto questo problema” fece
notare
Ayame.
“Milo
ha praticamente costretto Psiche ad uscire, mentre Camus ha invitato
me per spalleggiare l'amico, pare” spiegò
ulteriormente Galatea,
con poco entusiasmo.
“Solo
in parte vero” precisò Psiche. “Il loro
appuntamento è più
autentico del nostro”
“Ok,
capito. E io cosa c'entro in tutto questo?”
domandò Ayame, il cui
principio di mal di testa non l'aiutava a comprendere a pieno la
situazione.
“Ho
intenzione di rovinare l'appuntamento a Milo, senza coinvolgere loro
due, e per fare questo mi serve che tu venga con noi e che mi nomini
tua guardia del corpo personale” iniziò ad esporre
la
Sacerdotessa. “In questo modo sarò costretta
a
restarti accanto per tutta la serata e i piani di approccio di Milo,
qualsiasi essi siano, andranno in fumo. È
perfetto!”
“Certo,
tranne che per un punto: non posso uscire da qui, ricordi?”
puntualizzò Ayame. “Per quanto lo farei
volentieri, ho dieci
uomini grandi e grossi che cercheranno di ostacolare il mio cammino
rendendosi, così, belli agli occhi di Shion”
“Veramente,
ha pensato anche a questo” intervenne Galatea, lanciando
un'occhiata eloquente ad una soddisfatta Psiche.
“Galatea
ed io siamo state dal Gran Sacerdote, poco fa, e lo abbiamo convinto
a lasciarti una serata libera, ad una condizione”
“Che
sarebbe?” chiese Ayame, ora molto più interessata
alla faccenda.
“Devi
essere accompagnata da uno dei Cavalieri” rispose Psiche,
sempre
con un certo ottimismo che la bionda non riusciva a spiegarsi.
“E
suppongo che siano tutti qua fuori a fare la fila per questo”
concluse con sarcasmo evidente.
“No,
ma scommetto che non ci metterai molto a convincerne uno” la
adulò
Psiche.
Ayame
sospirò. Non era ancora dell'umore giusto per mettere in
atto i suoi
piani di rivalsa verso Shion, ma l'idea di una serata fuori la
attirava non poco. Sentiva il bisogno di un pochino di
normalità
dopo tutto quello che le era successo. In più, non voleva
deludere
Psiche, non tanto per i suoi piani di sabotaggio, quanto
perché
sentiva che quell'uscita avrebbe cambiato le carte in tavola per
quanto riguardava il suo rapporto con Milo.
“D'accordo”
accettò, alla fine, per la gioia di Psiche. “Direi
di cominciare
dal più vicino”
Ma
Aphrodite non era intenzionato a disobbedire agli ordini superiori.
Quanto agli altri, Shura lamentava problemi intestinali per qualcosa
che aveva mangiato la sera prima, Shaka non era tipo da mischiarsi
alla folla, Aiolia aveva altri programmi con Marin, Death Mask si
rifiutò categoricamente di fare da
babysitter ad una
mocciosa,
Kanon era
irreperibile, Aldebaran non era disponibile e Mu si era già
esposto
troppo il giorno prima.
“Mi
dispiace, Ayame” la congedò quest'ultimo.
Questa
scrollò le spalle in un gesto di apparente noncuranza.
“Non
importa, grazie lo stesso”
“E
comunque non è ancora sicuro, per te, uscire”
puntualizzò
Aldebaran, che aveva accompagnato le ragazze alla Prima Casa.
“Saremmo
in cinque, a difenderla” obiettò Psiche.
“Non
sareste abbastanza per controllarla in mezzo alla folla”
affermò
Mu con sicurezza. La Sacerdotessa provò a ribattere, ma
Ayame la
precedette.
“Adesso
basta, Psiche, è inutile. Probabilmente Shion sapeva che
sarebbe
finita così. Quando tornerò alla Tredicesima a
mani vuote si farà
una risata e si godrà la sua cena della vittoria, ma va bene
così.
È la vostra serata, non la mia. Godetevela senza troppi
pensieri,
per una volta”
“Tu
non capisci” sibilò Psiche, che per tutto il tempo
aveva scosso la
testa contrariata. Dopodichè girò i tacchi e
uscì di corsa dalla
Casa dell'Ariete.
“Psiche,
aspetta!”
Ayame
fece per andarle dietro, ma Galatea la bloccò e si
offrì di andare
al suo posto.
Era
l'ennesimo indizio che c'era qualcosa di più sotto il pianto
di
Psiche della sera prima e sui suoi piani di boicottaggio
dell'appuntamento, qualcosa che non voleva che si sapesse.
“Ayame”
la chiamò Aldebaran, piano. “Senti, non sono mai
stato bravo con
le parole, ma conosco un metodo infallibile per risollevare il
morale, di sicuro migliore della risatina sarcastica di Shion. Ti va
di provarlo?”
La
ragazza annuì. L'ultima cosa di cui aveva voglia, in
effetti, era
vedere Shion nuovamente trionfante su di lei, anche se, questa volta,
non era stata una sua iniziativa sfidarlo.
Dopo
essersi congedati da Mu, risalirono insieme la scalinata verso la
Casa del Toro. Qui, il Cavaliere la fece accomodare in cucina, dove
era apparecchiato già per due.
“Non
potevo non rifiutare, deduco” disse Ayame.
“In
realtà ci deve raggiungere un altro commensale, ma sono
sicuro che
non gli dispiacerà la tua compagnia” le
spiegò il Toro, per poi
metterle sul piatto uno sformatino dal profumo delizioso. Ayame lo
assaggiò, nonostante fosse ustionante, e il sapore
confermò ciò
che l'odore aveva già preannunciato.
Mentre
la ragazza si godeva la cena, Aldebaran preparò il coperto
per
l'altro ospite, che non tardò ad arrivare.
“Scusa
il ritardo” brontolò velocemente Kanon, per poi
bloccarsi
sull'entrata della cucina non appena ebbe notato Ayame.
Questa
gli sorrise e accennò un saluto che il Generale non
contraccambiò.
“Non
ti dispiace se resta anche lei a cena, vero?”
domandò Aldebaran.
Kanon
attese qualche secondo, durante i quali nei suoi occhi passarono
miriadi di pensieri, prima di rispondere.
“Certo
che no”
Con
sguardo basso, andò a sedersi di fronte ad Ayame, ma
evitò per
tutto il tempo di guardarla negli occhi. La ragazza
abbandonò allora
ogni tentativo di conversazione e tornò al suo sformato,
quasi
finito.
“Hai
apprezzato, vedo!” notò Aldebaran.
“Porta qui il piatto, che ti
servo il bis. E prendi anche quello di Kanon”
Ayame
eseguì, seppur con un certo imbarazzo quando dovette
avvicinarsi a
Kanon, il quale, però, si spostò insieme alla
sedia per farle
spazio.
Raggiunti
i fornelli, vide che il padrone di casa stava tagliando le porzioni
con una precisione eccessiva.
“Vedi
quel brutto muso lì dietro?” le
sussurrò Aldebaran, facendo finta
di lavorare sodo dietro al suo sformato.
Ayame
annuì, temendo ciò a cui quel discorso li stava
conducendo.
“Secondo
me, è un potenziale accompagnatore” disse allora
il Toro.
“Ma
non vuole avere niente a che fare con me” gli fece notare la
ragazza.
“Sciocchezze!
Se lo crede, ma in realtà non vede l'ora di conoscerti
meglio”
“E
tu come lo sai?”
“Mi
ha chiesto subito di te, il giorno che siete arrivate”
Ayame
rimase spiazzata da quella rivelazione e non potè fare a
meno di
dare una sbirciata verso Kanon, che si ostinava a dar loro le spalle.
“Pensi
che accetterà?” domandò ancora ad
Aldebaran.
“Non
ne ho idea, ma se non provi, non potrai mai saperlo”
Ayame
sospirò, non del tutto convinta. Era vero che tentare non
costava
nulla, ma quando si trattava di Kanon non sapeva come comportarsi.
Quell'uomo era talmente enigmatico che prevedere le sue reazioni era
impossibile.
“Ci
vuole ancora molto?” si lamentò Kanon.
“Va
bene, glielo chiedo, ma tu dammi una mano”
sussurrò Ayame ad
Aldebaran, prima di tornare al tavolo coi due piatti.
Iniziarono
a mangiare in silenzio, nel mentre il padrone di casa si
servì la
sua porzione e li raggiunse, sedendosi a capotavola tra i suoi due
ospiti.
Aldebaran
cercò lo sguardo di Ayame e le fece l'occhiolino, prima di
dare il
via alla conversazione.
“Ehi,
Kanon, hai sentito della festa di venerdì sera,
giù ad Atene?”
“Mmh,
mmh” mugugnò il Generale, senza alzare gli occhi
dal piatto.
“Pare
che Milo e Camus ci vadano, e in ottima compagnia”
continuò il
Toro, enfatizzando l'ultimo concetto.
“Buon
per loro, ma perché mi dovrebbe interessare?”
Aldebaran
lanciò un'occhiata eloquente ad Ayame. La ragazza
deglutì il
boccone che stava masticando e alzò lo sguardo verso Kanon.
“Ci
vanno insieme a Psiche e Galatea, che vorrebbero andassi anche io con
loro” spiegò cauta.
Kanon
alzò appena gli occhi su di lei, per poi tornare a
concentrarsi sul
suo piatto.
“Suppongo
che Shion te lo abbia proibito”
“Non
proprio. Ha posto una condizione. Avrei dovuto trovare uno di voi
disposto ad accompagnarmi”
A
quella spiegazione, Kanon sogghignò. “Ti hanno
dato tutti buca,
scommetto. Nessuno di noi è tanto sconsiderato da andare
contro un
ordine del Gran Sacerdote”
“Quindi
neanche tu” dedusse Ayame.
“Esatto.
Ce n'è ancora un po', Al?”
Ayame
sbuffò e si lasciò andare contro lo schienale
della sedia. “Puoi
prendere la mia parte, non ho più fame”
Kanon
la fissò per un po', pensieroso, mentre la ragazza teneva lo
sguardo
sul suo piatto mezzo pieno.
“Ci
tieni così tanto, a quella festa?” le
domandò alla fine.
“Non
è per me” iniziò la bionda.
“È Psiche che vuole che vada con
loro. Vuole sabotare il suo appuntamento con Milo, senza rovinare
quello di Galatea... sì, ci terrei moltissimo”
ammise, alla fine
dello sproloquio. “Sia chiaro, quello che ti ho detto
è tutto
vero, ma è ancora più vero che non so resistere
ad un evento
mondano, sia esso il concerto del secolo come la sagra della feta col
sushi. Capisci cosa intendo?”
“Capisco
che appartieni ad un altro universo”
“Che
vuoi dire?”
“Penso
che Kanon stia cercando di dirti che sei un po' fuori dai canoni del
Santuario” intervenne Aldebaran, dopo aver spazzolato la sua
doppia
porzione di sformato. “Cosa che, a parer mio, non
è poi così
male”
Il
Toro si guadagnò un'occhiata scettica dal Generale.
“Almeno ha
portato un po' di novità e movimentato l'ambiente”
spiegò allora
Aldebaran. “Sta cominciando a venirci la muffa sotto le
ascelle, da
tanto siamo antichi”
“Parla
per le tue ascelle” puntualizzò Kanon, mentre
Ayame nascondeva una
risatina dietro una mano. “Allora, se sei così
aperto di mente,
perché non la accompagni tu ad Atene?”
“Gliel'ho
detto, ho già un impegno” ribadì, anche
se un po' in difficoltà.
“Perchè
dovrei farlo io, allora? Potrei avere altri impegni, come te”
“Hai
altri impegni?” lo provocò il Toro.
“Ma
perché proprio io?!?”
“Ok,
basta, per favore” intervenne Ayame, mettendo fine al
dibattito.
“Non importa, non ci andrò. Non voglio costringere
nessuno, perciò
lasciamo stare”
Si
alzò dal tavolo, cercando di nascondere la sua delusione con
un
sorriso di circostanza. “Grazie per la cena e per la
compagnia.
Adesso è meglio che vada. Buonanotte”
Ayame
uscì dalla cucina, lasciando i due guerrieri ammutoliti.
Mentre si
accingeva a salire la scalinata bianca, si diede della stupida anche
solo per aver pensato che Kanon potesse accettare, quando era lui il
primo a voler mantenere le distanze. Chissà
perché, poi, si
rifiutava così categoricamente di avere a che fare con lei.
Non
pretendeva di stare simpatica a tutti, ma, da come era iniziata, le
era sembrato di stargli simpatica.
Non
fece in tempo a ripromettersi che gliene avrebbe parlato alla prima
occasione, che si ritrovò il Generale davanti e
andò quasi a
sbatterci contro.
Fece
vagare la testa da Kanon alla Casa del Toro per un paio di volte,
prima che l'uomo desse una risposta ai suoi dubbi.
“Velocità
della luce. Ora, prima che cambi idea, perché non so come mi
possa
essere venuta in mente, visto che, per Shion, sono l'ultima persona
che ti dovrebbe stare anche solo a dieci metri di distanza, ho deciso
di aiutare Psiche a sabotare il suo appuntamento con Milo. Devo
restituirgli il favore di quattordici Scarlet Needle. Ci vediamo
davanti alla Casa dell'Ariete e, per favore, non urlare ai quattro
venti questa cosa”
Ayame
restò in silenzio qualche secondo, durante il quale
cercò di
memorizzare quello che, quasi certamente, era il monologo
più lungo
che aveva sentito uscire dalla bocca di Kanon, quindi rispose.
“D'accordo,
alle otto. Buonanotte”
Il
Generale fece un cenno impercettibile col capo, quindi scomparve tra
le colonne della Terza. Ayame soffocò un urlo isterico di
gioia e
riprese la salita, con un'insana voglia di sbattere in faccia a Shion
il suo successo.
In
ritardissimo, ma sono tornata :) niente di rilevante da dichiarare qui,
a parte qualche parolaccia ogni tanto. Per il resto sì, so
che
poteva venirmi meglio questo cap*, ma era necessario superare il blocco
per poi arrivare al capitolo della festa, che sarà il
prossimo
:) ringrazio la mia beta Panenutella, come sempre, e spero che il cap
sia comunque di vostro gradimento. A presto!
*Perdonatemi, ma era
proprio venuta male l'ultima parte, me ne sono resa conto rileggendola
e ho cercato di rimediare. Non c'è più tutto il
movimento di prima, ma penso sia più "aderente" alle
personalità dei vari personaggi (o almeno spero!)
|
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Capitolo 12 *** Sabotaggi e contro-sabotaggi ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
11-
Sabotaggi e
contro-sabotaggi
“E
lui?” domandò Psiche, ormai sopraffatta dalla
curiosità.
“Ha
risposto, col suo solito modo altezzoso: 'Spero vivamente che tu ti
diverta'. 'Farò il possibile' ho detto io. Gli ho sorriso
con fare
innocente e sono andata in stanza”
Dopo
aver orgogliosamente raccontato alle sue Sacerdotesse della reazione
di Shion al fatto che qualcuno dei suoi avesse accettato di
accompagnarla, Ayame tornò ad occuparsi dei capelli di
Galatea.
Le
tre ragazze si erano radunate nella stanza di Psiche alla Dodicesima
per prepararsi per la festa, visto che il luogo di ritrovo per gli
altri quattro era ai piedi della scalinata della Casa dei Pesci.
Vista la poca esperienza di Galatea con la moda del ventesimo secolo,
Ayame l'aveva presa sotto le sue cure maniacali, con l'intento di
renderla splendente e fare in modo che Camus non le togliesse gli
occhi di dosso per tutta la serata. Psiche, invece, sapeva cavarsela
da sola egregiamente.
Grazie
al pensiero della serata ad Atene, Ayame riuscì ad
affrontare con
filosofia anche il forte rimprovero che Shaka le aveva riservato nel
tardo pomeriggio, dopo che era tornata nuovamente senza un risultato
evidente. La accusò di non stare mantenendo la promessa e di
non
mettere l'impegno dovuto in quel semplice compito che le aveva
affidato. Tutto ciò era vero solo in parte, in quanto, nei
giorni
precedenti, Ayame aveva messo anima e corpo nel suo compito, ma la
cosa non era servita a molto.
Aveva,
quindi, preso quel rimprovero in silenzio e con remissione, aveva
rinnovato la promessa a Shaka e si era precipitata in stanza alla
ricerca degli abiti per la sera. Era talmente elettrizzata che nulla
avrebbe potuto rovinare il suo buonumore.
“Ancora
non ci hai detto chi è questo accompagnatore” le
fece notare
Psiche, mentre era alle prese col mascara.
“Sorpresa.
Sappiate solo che ci è voluto molto per convincerlo, ma alla
fine ha
ceduto, anche abbastanza inaspettatamente”
“Io
scommetto su Shaka” puntò Galatea, ma Psiche era
di un altro
avviso.
“Nah!
Per me è Death Mask”
Ayame
rise, ma non si lasciò sfuggire nient'altro. Non voleva
compromettere il grande risultato che aveva ottenuto.
Camus
guardò per l'ennesima volta l'orologio. “Sono le
otto e dieci”
fece notare, annoiato, a Milo, il quale non sembrava troppo
preoccupato per il leggero ritardo. Questi si strinse nelle spalle.
“Sono
in ritardo solo di dieci minuti, dovremmo essere fortunati”
“Ma
avevamo detto alle otto” ribadì Camus.
“Si
vede che non hai avuto molto a che fare con le donne in vita tua,
ghiacciolino” lo canzonò lo Scorpione.
“È un loro diritto
essere in ritardo agli appuntamenti e far stare noi maschietti sulle
spine”
“Non
sono sulle spine” obiettò Camus, che non si era
accorto di aver
perso l'attenzione di Milo.
“Beh,
dovresti esserlo, amico. Girati” gli disse questo, accennando
col
capo a qualcosa dietro di lui.
Camus
eseguì, solo per dare una spiegazione all'espressione
inebetita
dell'amico. La stessa che si dipinse sul suo viso quando
capì a cosa
si stava riferendo Milo.
Galatea
stava scendendo le scale della Dodicesima. Indossava un abitino
azzurro cielo con le maniche corte a sbuffo, stretto in vita da una
cintura di una tonalità più scura del vestito. I
capelli
leggermente mossi le ricadevano a boccoli sulle spalle e alcune
ciocche erano fermate dietro da un nastro blu. Ai piedi, infine,
calzava un paio di ballerine che richiamavano il colore della
cintura.
Se
il ritardo era servito ad ottenere quel risultato, per Camus fu
più
che giustificabile. In vita sua non pensava di aver mai visto niente
di più bello.
“Scusate
se vi abbiamo fatto aspettare” disse la ragazza quando era
quasi
alla fine della scalinata.
“Direi
che ne è valsa la pena” la giustificò
Milo, anticipando il
silenzio imbarazzante che sarebbe caduto se avesse aspettato che
fosse Camus a rispondere. Dopo aver dato una leggera spallata al
compagno perché si risvegliasse e si desse un contegno,
andò a
salutare la ragazza con un lieve baciamano. “Sei davvero
molto
carina”
“Guarda
che sono io quella che hai costretto ad uscire, stasera” si
sentì
in dovere di precisare Psiche, dalla cima della scalinata. Galatea,
che era già leggermente arrossita, divenne di un tenue color
pomodoro e si affrettò a ritrarre la mano. Cercò
aiuto in Camus, ma
il Cavaliere sembrava ancora più in imbarazzo di lei.
“Andiamo,
Psi, cerca di non essere scorbutica con chiunque, almeno per
stasera”
la rimproverò amichevolmente Ayame, apparsa al suo fianco e
anche
lei vestita di tutto punto. Il suo abbigliamento assomigliava molto a
quello di Galatea: indossava un abito bianco senza spalline e stretto
sotto il seno da un nastro elastico rosso come le scarpe dal tacco
vertiginoso che calzava ed il cerchietto che le adornava la liscia
chioma bionda. Di tutt'altro stile era Psiche, che aveva abbinato una
lunga maglia monospalla tenuta in vita da una cintura ad anelli con
un paio di shorts di jeans e dei sandali col tacco alto. I capelli
erano raccolti in una morbida treccia che le cadeva su una spalla.
“Ayame,
dove pensi di andare?” domandò Camus alla ragazza,
dopo aver messo
da parte l'imbarazzo per tornare ad essere il ligio servitore di
Atena.
“Con
voi, naturalmente, e sì, Shion lo sa” rispose lei,
mentre scendeva
le scale, anticipando la domanda successiva. “Ora, se non vi
dispiace, il mio cavaliere mi sta aspettando giù alla Prima
da ben
un quarto d'ora. Non voglio farlo aspettare oltre”
“Hyoga
è qui?” chiese Milo.
“No,
naturalmente, non gli faccio fare mille mila chilometri solo per una
festa”
“E
allora chi è?”
“La
mia guardia del corpo, insieme a Psiche, ovviamente”
“Cosa?
Psiche!” protestò Milo, ma la Sacerdotessa non
parve curarsene.
“Ordini superiori a cui non posso disobbedire. Ma sono sicura
che
ci divertiremo comunque” sorrise ironica lei, pizzicando la
guancia
del Cavaliere che, invece, era notevolmente contrariato.
Il
gruppetto iniziò a scendere attraverso le Dodici Case, con
Ayame in
testa, seguita a ruota da Psiche e Milo e Camus in coda con Galatea,
a lanciarsi occhiate brevi e furtive. Raggiunta la Casa dell'Ariete,
trovarono Mu ad attenderli all'entrata.
“Non
sei ancora pronto” gli fece notare Camus.
“Io
non vengo con voi” rispose semplicemente il Cavaliere, per
poi
rivolgersi ad Ayame. “Ti aspetta fuori dalla bottega del
fioraio,
l'ha ritenuto più prudente”
“Va
bene, grazie” si congedò Ayame.
Procedettero
attraverso le vie di Rodorio fino alla bottega, rimasta aperta
apposta per permettere loro di uscire. Come Mu le aveva detto, Kanon
li aspettava dall'entrata del negozio che dava su Atene.
“Tu?”
domandarono in coro tutti gli altri, notevolmente sorpresi, per poi
guardare Ayame, la quale pareva, invece, soddisfatta.
“Io”
rispose Kanon, monocorde. “La cosa vi disturba, per
caso?”
“N-no,
certo che no, Kanon!” ribattè prontamente Milo,
sfoggiando un
sorriso conciliante. “Siamo tutti, però, molto
sorpresi di vederti
qui, tutto in tiro, per partecipare ad una festa”
“Sai,
mi hanno detto che c'era un sabotaggio di mezzo e non ho saputo
resistere alla tentazione” spiegò il Generale con
ironia.
“Sabotaggio?
Che sabotaggio?” chiese Milo, cercando di nascondere
l'apprensione
con una risatina isterica.
“Oh,
niente di cui preoccuparsi, Milo” lo rassicurò
Kanon, con fare
canzonatorio. “Vedrai, ci divertiremo un mondo questa sera.
Vogliamo andare? Sto facendo radici qui. Psiche, non ti scollare da
Ayame per nessun motivo”
La
Sacerdotessa eseguì e si affiancò subito ad
Ayame. Con Milo, molto
preoccupato per l'esito della sua serata, e Kanon in testa, il gruppo
si immerse nella confusione di Atene.
“Sei
perfida” disse Ayame a Psiche.
“Non
è vero” ribattè lei prontamente.
“Non
se lo merita”
“Io
dico di sì”
“Puoi
spiegarmi questo tuo accanimento contro di lui?”
“Penso
di no”
“Potrei
ordinartelo”
“Potrei
non obbedire”
“Si
chiama insubordinazione, lo sai?”
“No,
si chiama privacy”
“Tanto,
prima o poi, lo scoprirò”
Psiche
sorrise. “Goditi la tua serata libera e non pensare a Milo.
Per
quello ci sono io”
Ayame
capì che la Sacerdotessa considerava il discorso chiuso e
non
aggiunse altro, ma si ripromise di osservarla bene durante tutta la
serata e nei giorni a venire, per capire cosa le frullasse in testa.
Dopo
ancora qualche minuto di cammino, finalmente raggiunsero la piccola
piazza in cui si stava tenendo la festa. Ai lati dell'area, banchetti
di leccornie, giochi a premi e merci d'artigianato circondavano il
palco centrale, dove alcuni gruppi musicali si esibivano e facevano
danzare la folla accorsa per celebrare la ricorrenza religiosa a cui
la festa era dedicata. Al momento, tra le bancarelle giravano per lo
più famiglie. Perché la festa si animasse
avrebbero dovuto
aspettare ancora un po'.
“Sembra
carino” commentò Ayame, dopo essersi data una
veloce occhiata in
giro.
Non
ricevette nessuna risposta. Voltatasi verso Psiche, vide che la
Sacerdotessa aveva perso il cipiglio di poco prima e il suo sguardo
era perso nel vuoto, inoltre le tremavano leggermente le labbra.
“Psiche,
tutto bene?” si accertò la ragazza, risvegliando
Psiche da quella
specie di trance in cui era caduta.
“Sì,
tutto bene” rispose lei, sbrigativa.
“Potremmo
mangiare qualcosa, nel frattempo” propose Milo, indicando uno
dei
banchetti di alimentari. Pur senza troppo entusiasmo, furono tutti
quanti d'accordo e si accinsero a seguirlo. Quando quasi tutti si
furono immersi nella coda di fronte alla bancarella, Ayame
afferrò
Kanon per un braccio e lo trascinò via.
“Che
c...” provò a protestare il Generale, ma Ayame gli
tappò la bocca
con la mano e gli intimò di fare silenzio.
“Shhhh!
Sto sabotando il sabotaggio. Vieni con me”
Prima
che potesse nuovamente trainarlo da qualche parte, Kanon la
bloccò
con poca grazia.
“Ti
avverto che mi sto già pentendo di essere qui,
ragazzina” le
sibilò a pochi centimetri dal naso.
“L'avevo
intuito, ma ormai sei qui, perciò, ti prego, assecondami
solo in
questa cosa e ti prometto che farò la brava”
Il
Generale grugnì qualcosa di incomprensibile, quindi
domandò: “Cosa
vuoi fare?”
“Semplice,
lasciare i quattro piccioncini da soli. Dobbiamo solo stare lontani
da loro”
“Il
che significa che tocca a me farti da balia. Sapevo che c'era la
fregatura”
“Sarò
brava, promesso e ripromesso. Non ti accorgerai nemmeno che
esisto”
“Ne
dubito. Ho fame. Spera che all'altro lato della piazza vendano
qualcosa di commestibile”
In
breve, la piazza iniziò a popolarsi di persone e voci, di
luci e di
canti. Attraversare la folla cominciava a diventare un'impresa non da
poco, ma Psiche non sembrava intenzionata a lasciarsi fermare da quel
piccolo dettaglio.
Avevano
perso di vista Ayame e Kanon poco dopo aver deciso di andare a
prendere da mangiare. Milo e Galatea erano riusciti a convincerla ad
aspettare almeno che avessero finito di mangiare per andarla a
cercare. Non aveva toccato cibo e, quando la sua compagna aveva
ingerito l'ultimo boccone, si era alzata immediatamente e si era
immersa nella folla.
Non
cercava Ayame solo perché, senza di lei, il suo piano
sarebbe andato
in fumo, ma soprattutto perché si era resa conto che la sua
dea era
esposta ad un serio pericolo. Come aveva detto Mu, controllarla in
mezzo a tutta quella gente era un compito che cinque persone sole non
potevano portare a termine senza rischi, ed era suo dovere di
Sacerdotessa proteggere la dea a cui era devota, specialmente nello
stato in cui si trovava ora Ayame.
Una
presa ferma attorno al suo braccio arrestò la sua avanzata.
Milo
l'aveva raggiunta e sembrava aver perso tutto il suo spirito
festaiolo.
“Si
può sapere dove stai andando?” le
domandò, duro.
“A
cercare Ayame” gli rispose Psiche, asciutta.
“È
con Kanon, è al sicuro” le ribadì, ma
Psiche non era intenzionata
a dargli retta.
“No
che non lo è, qui è troppo esposta. Io sono una
sua Sacerdotessa,
proteggerla è un mio dovere”
La
ragazza provò a muovere un passo, ma Milo
rafforzò la presa.
“Senti,
ho capito benissimo quale sia il tuo piano. Non c'è bisogno
di
nascondersi dietro a doveri inesistenti”
“Non
so di cosa tu stia parlando”
“Voglio
che mi dici in faccia che non vuoi avere niente a che fare con
me”
le rivelò il Cavaliere.
“Ti
farebbe desistere, se te lo dicessi?”
Milo
attese qualche attimo, prima di rispondere con sicurezza. “So
riconoscere una battaglia persa”
“Psiche?”
domandò una voce tra la folla, che poco dopo prese il volto
di una
giovane ragazza dai lunghi capelli castani. Si avvicinò con
sguardo
incredulo alla Sacerdotessa, la quale stava cercando di ricordare
dove avesse già visto quel volto conosciuto.
“Sei
proprio tu?” domandò ancora la ragazza, che ormai
aveva raggiunto
la coppia.
“Ci
conosciamo?” chiese a sua volta Psiche.
“Sono
Georgia. Mio padre aveva il bar vicino al vostro negozio e noi
giocavamo sempre insieme, ricordi?”
La
Sacerdotessa rimase inebetita per qualche istante, in preda alla
cascata di ricordi che quelle poche parole avevano fatto fluire nella
sua mente. Immagini di momenti lontani, felici, vissuti in un angolo
di mondo che, per lei, era il paradiso, dove poteva dire di avere
tutto ciò che le serviva per essere felice. Un padre, la sua
unica
famiglia, una casa piccola ma meravigliosa ai suoi occhi di bambina,
un negozio di fiori che per lei era meglio di un parco giochi ed
un'amica più fortunata di lei, sotto certi punti di vista,
ma dal
cuore così grande da permetterle di condividere quella sua
fortuna
con lei. Quella bambina era Georgia.
“Sì,
certo che mi ricordo” le rispose infine, incapace di non
sorridere.
Georgia
ricambiò e la abbracciò. Psiche si
irrigidì a quel gesto
inaspettato, ma ricambiò. Quando le due amiche si sciolsero
dall'abbraccio, Georgia riprese a parlare.
“Ma
dove sei stata per tutti questi anni? Ci sei mancata, soprattutto a
tuo padre. Ci ha detto che eri andata in una scuola privata, ma
speravamo che saresti tornata a trovarci, qualche volta”
“Ho
provato, davvero” disse Psiche, cercando di mascherare la
voce
spezzata, conseguenza di quelle poche parole che erano state in grado
di riaprire vecchie ferite. “Ma i miei studi mi hanno
impegnata per
quasi tutto il tempo. Mi dispiace”
Georgia
annuì, comprensiva, quindi riprese a sorridere.
“Ora, però, sei
tornata. È bello rivederti dopo tanto tempo, e in ottima
compagnia,
oltretutto”
Milo,
che era rimasto ad ascoltare la conversazione tra le due amiche con
molto interesse, approfittò della sua chiamata in causa per
presentarsi. “Mi chiamo Milo, sono un amico di Psiche.
Abbiamo
frequentato la stessa scuola speciale”
“Lieta
di conoscerti. Ah, Psi, prima che mi dimentichi, a casa ho dei
documenti da darti. Ci sono state lasciati dopo la morte di tuo padre
e dovresti dar loro un'occhiata, appena hai tempo”
“D'accordo,
passerò senz'altro” acconsentì Psiche,
cercando di sembrare il
più naturale possibile. “Adesso, però,
devo andare a cercare una
persona. È una questione piuttosto urgente, sai”
“Certo,
nessun problema. Goditi la festa e, se hai tempo, vieni a trovarci al
bar, ci farebbe molto piacere averti come ospite”
“Farò
il possibile” promise Psiche, quindi si congedò in
fretta da
Georgia e sparì tra la folla. Milo la imitò, con
più affabilità
rispetto a lei, e tornò al suo inseguimento. Il colloquio a
cui
aveva assistito aveva fatto nascere in lui molti dubbi che la sua
insana curiosità non vedeva l'ora di sciogliere e che, ne
era certo,
l'avrebbero aiutato a scoprire qualcosa di più su
quell'enigmatico
personaggio quale Psiche era.
Galatea
provò a mettersi in punta di piedi, nella speranza di
scorgere
Psiche o Ayame in mezzo alla folla che stava aumentando di minuto in
minuto.
Lei
e Camus erano stati letteralmente abbandonati al chiosco dove avevano
mangiato. I primi a sparire erano stati Ayame e Kanon: li avevano
persi di vista poco dopo essersi messi in coda alla bancarella. Poi
era stato il turno di Psiche, che per tutto il tempo non aveva
nascosto la sua impazienza di andare a cercare Ayame e, soprattutto,
di allontanarsi da Milo. Questi, però, l'aveva seguita in
mezzo alla
folla, e alla fine erano rimasti loro due, soli col loro imbarazzo.
Galatea
abbandonò ogni speranza di riuscire ad individuare anche uno
solo
dei loro compagni e tornò a sedersi sulla panchina dove,
dalla parte
opposta alla sua, stava Camus.
Era
quella la situazione che avrebbe voluto evitare, quella sera, ma
sembrava proprio che il piano elaborato da Psiche e Ayame stesse
andando tutt'altro che a buon fine.
Lanciò
un rapido sguardo a Camus, concentrato a guardarsi le mani congiunte
davanti a sé.
“Sono
preoccupata” confessò la Sacerdotessa, seppur con
riluttanza.
Camus si voltò a guardarla con espressione interrogativa, a
cui lei
subito rispose. “Per Ayame”
Il
Cavaliere annuì. “Anche secondo me non
è stata una buona idea
portarla qui. Ma stai tranquilla, è con Kanon e sono sicuro
che farà
di tutto per tenerla d'occhio”
“Lo
spero”
Qualcuno
da dietro poggiò con poca grazia una mano sulla spalla di
Galatea.
Lo sconosciuto le si affiancò e le rivolse un sorriso che,
probabilmente, riteneva affascinante.
“Tutta
sola, biondina? Vuoi un po' di compagnia?”
Galatea
cercò di ritrarsi e rifiutò gentilmente, ma il
ragazzo non sembrava
intenzionato a demordere.
“Andiamo,
bellezza, solo un ballo o un giretto qui attorno”
“Ha
detto che non vuole” ribadì duramente Camus,
guadagnandosi
un'occhiata torva dallo scocciatore.
“Non
stavo parlando con te, capellone”
“Ma
stai importunando la mia amica”
“No,
tu stai importunando noi. Stavamo facendo conoscenza”. Lo
sconosciuto passò un braccio attorno alle spalle di Galatea.
Questa
stava per muoversi e metterlo al tappeto, ma Camus la
anticipò e la
liberò da quell'abbraccio torcendo il polso al ragazzo.
“Non
lo voglio ripetere: lasciala stare” scandì bene il
Cavaliere,
mantenendo comunque il suo autocontrollo.
“Va...
bene...” accettò con voce strozzata
“Adesso lasciami andare, per
favore”
Camus
mollò la morsa, prese Galatea per mano e fece per
allontanarsi
dall'importunatore, ma questi, dopo essersi ripreso, lo
fermò
afferrandolo per una spalla e fece per dargli un diretto in pieno
volto. Il suo pugno venne fermato, stavolta, da Galatea, che poi
spinse indietro il ragazzo, facendolo finire col sedere sulla
panchina che avevano occupato poco prima.
“Ti
conviene restarci, se non vuoi farti ancora più
male” lo avvertì
la Sacerdotessa, quindi si lasciò guidare da Camus
attraverso la
folla. Il Cavaliere continuava a tenerla per mano, forse stringendo
con forza eccessiva, ma non le importava. Era il primo contatto
fisico dall'incidente allo stadio e non aveva intenzione di
interromperlo fintanto che non l'avesse voluto lui.
Arrivati
al centro della piazza, la folla era talmente accalcata che furono
costretti a fermarsi e Galatea venne letteralmente schiacciata contro
Camus. In un gesto forse istintivo, il Cavaliere la cinse col braccio
mentre cercava una via d'uscita da quel marasma che sembrava mal
sopportare. Una volta individuatala, ripresero ad avanzare mano nella
mano.
Un
ragazzo incappucciato che procedeva in direzione opposta alla loro la
colpì con una spallata e, per un attimo, i loro sguardi si
incrociarono. Due occhi cerulei spiccavano sul volto scuro sia per la
carnagione che per l'ombra del cappuccio. Un lampo azzurro
passò
sulle sue iridi e Galatea avvertì distintamente il suo cosmo
accendersi per un istante. L'uomo proseguì per la sua
strada, sotto
lo sguardo di Galatea.
Anche
Camus si era fermato: aveva sentito pure lui quella breve emanazione
cosmica e stava cercando di individuarne la fonte.
Ligia
al suo ruolo di Sacerdotessa, Galatea lasciò, seppur
malvolentieri,
la mano del Cavaliere per lanciarsi all'inseguimento dell'uomo
incappucciato prima di perderlo di vista.
“Galatea!”
la chiamò Camus, dopo che la ragazza ebbe lasciato la sua
mano. La
Sacerdotessa non rispose, ma proseguì nell'inseguimento, con
gli
occhi puntati sul cappuccio davanti a lei.
Un
gruppo di persone di passaggio rallentò l'avanzata di Camus,
che
perse così di vista Galatea. Preoccuparsi gli venne
stranamente
istintivo, così come sentire la mancanza del contatto con
lei. Ora
che non erano più insieme, il freddo tornò a fare
da padrone dentro
di lui.
“Dobbiamo
per forza stare qui?” si lamentò Ayame. Dopo
essersi rifocillato,
Kanon l'aveva parcheggiata su un muretto e, da allora, la controllava
a vista.
“Sì”
rispose, monotono, il Generale.
“Potremmo
andare a ballare” propose con leggerezza la ragazza.
“No”
“Sei
noioso”
“Desolato,
ma qui posso tenerti d'occhio, quindi non ci muoviamo”
Ayame
sbuffò e abbandonò la testa sulle mani, mentre i
gomiti erano
poggiati sulle gambe che penzolavano dal muretto.
Da
quando erano arrivati alla festa le risultava difficile stare ferma,
si sentiva stranamente euforica e persino la solita sensazione di
vuoto sembrava quasi essere scomparsa. Tuttavia non sapeva come
sfogare quell'energia, Kanon le aveva più volte fatto capire
che non
era minimamente intenzionato a schiodarsi da lì.
Quando
Ayame notò i bagni chimici dall'altro lato della piazza, le
venne
un'idea che le avrebbe, se non altro, consentito di muoversi un po'.
“Devo
andare in bagno” gli comunicò con fare innocente.
Kanon
alzò gli occhi al cielo, scocciato, e sospirò,
quindi abbandonò
l'appoggio del muretto.
“Basta
che sia una cosa rapida. Dai, andiamo”
Ayame
balzò subito giù e atterrò agilmente
sui tacchi vertiginosi, poi
si incamminò col Generale verso i servizi igienici. Una
volta
inglobati dalla folla, la sensazione di euforia in Ayame si fece
più
intensa. Sentì i suoi sensi acuirsi, percepiva rumori e
odori
amplificati di decine di volte, in una cacofonia di sensazioni che,
presto, iniziarono a stordirla.
Un
formicolio strano e fastidioso le percorse il braccio destro e,
voltatasi in quella direzione, vide una coppia di ragazzi scambiarsi
effusioni con eccessiva passione. Un altro prurito le prese la nuca,
e di nuovo individuò due persone che si stavano baciando.
Quando
voltò il capo per individuare la fonte dell'ennesimo
formicolio,
venne colta da un capogiro accompagnato da una forte sensazione di
nausea. Un nuovo prurito la colpì in pieno volto e Ayame
riuscì a
mantenere a stento l'equilibrio.
Ben
presto le fu impossibile distinguere la provenienza delle varie
sensazioni. La vista prese ad annebbiarsi e la nausea si fece
insopportabile, la testa le girava talmente tanto che mantenere
l'equilibrio divenne un'impresa impossibile. Riuscì a
rimanere in
piedi solo grazie al tempestivo intervento di Kanon.
“No
no no no no! In piedi, forza!” la incitò,
sollevandola di peso.
“Ci manca solo che attiriamo l'attenzione su di noi”
“Devo
vomitare” lo avvertì Ayame.
“Magnifico.
Dai, andiamo. Cerca di far finta di camminare e, ti prego, resisti.
Questi vestiti sono di Saga”
Ayame
annuì. Attraversarono la piazza alla maggior
velocità possibile e
raggiunsero i bagni chimici. Kanon forzò la porta di una
delle due
cabine e cacciò fuori in malo modo chi la stava tenendo
occupata,
sordo alle sue proteste, lasciando via libera ad Ayame.
La
ragazza vomito letteralmente l'anima, sotto lo sguardo vigile e
seriamente preoccupato di Kanon.
Durante
tutta la traversata della piazza, l'uomo col cappuccio si era voltato
più volte, quasi a voler constatare che Galatea lo stesse
seguendo.
Dimentica
del suo appuntamento con Camus, la Sacerdotessa aveva ora come
obiettivo quello di raggiungere la figura davanti a sé e di
scoprirne le intenzioni. Non era un volto conosciuto e il suo istinto
le diceva che, probabilmente, apparteneva alle schiere nemiche.
Ai
lati del palco, la folla si diradò, lasciando ad entrambi
più
libertà di movimento. L'uomo incappucciato
accelerò il passo e,
quando fu sicuro che Galatea l'avrebbe visto, scomparve una via
laterale. La ragazza corse al suo inseguimento ed imboccò la
stessa
strada, in fondo alla quale vide il suo obiettivo, in attesa. Di
nuovo l'uomo imboccò un altro vicolo alla sua sinistra e di
nuovo
attese che la Sacerdotessa fosse a portata d'occhio. Continuarono
così finché non sbucarono in una piazzetta
più piccola nei pressi
della festa, il cui eco giungeva sino alle loro orecchie.
Galatea
raggiunse l'uomo e, per precauzione, accese il suo cosmo, pronta a
battersi.
“Buonasera,
Sacerdotessa” si sentì salutare dalla sua voce
melliflua.
“Chi
sei e che cosa ci fai qui?” domandò lei,
ostentando sicurezza.
“Mi
chiamo Jez e, puoi non crederci, vengo in pace” rispose
quello,
apparentemente con sincerità.
“Per
fare cosa?” continuò a chiedere Galatea.
“Osservare”
spiegò Jez, criptico, lasciando passare uno sguardo furbo
sul suo
volto scuro.
Quando
provò a muovere un passo, Galatea bloccò ogni suo
movimento
imprigionandogli i piedi con due manicotti d'avorio. Jez
lanciò uno
sguardo soddisfatto alle due manette.
“Non
vai da nessuna parte finché non mi dici cosa sei venuto a
fare” lo
avvertì la Sacerdotessa, guadagnandosi una risata di scherno
da
parte del nemico.
“Pensi
che questo basti a fermarmi? Povera sciocca”
Con
il minimo della forza, Jez si liberò dalla morsa d'avorio
che
avrebbe dovuto costringerlo a stare fermo. Due ali azzurro cielo si
aprirono sulla sua schiena, mandando in cenere la felpa che aveva
usato per restare nell'ombra.
“Non
sei abbastanza potente per competere con me”
“Ma
io sì” intervenne una voce alle spalle di Galatea.
Camus le fu, in
breve, a fianco, il cosmo acceso e pronto per essere scatenato.
“Un
Cavaliere d'Oro, quale onore!” esclamò Jez,
prostrandosi in un
accenno di inchino. “Purtroppo non sono qui per battermi.
Come ho
detto alla Sacerdotessa qui, sono venuto solo per osservare. E ho
osservato quanto basta, quindi arrivederci”
Con
un possente battito d'ali, Jez si alzò di parecchi metri da
terra e
balzò su uno dei tetti dei palazzi lì attorno,
quindi scomparve
alla vista.
Galatea
fece per lanciarsi al suo inseguimento, ma Camus la fermò.
“Aspetta!
Non è saggio seguirlo. Meglio cercare Ayame e
Kanon”
La
Sacerdotessa fece per protestare, ma alla fine annuì.
“Tu
stai bene?” le domandò poi Camus, sinceramente
preoccupato. Di
nuovo Galatea rispose con un cenno del capo, senza nemmeno provare a
nascondere il fatto che qualcosa non andava. Tuttavia la loro
priorità, in quel momento, era trovare gli altri due e
avvertirli
della visita dell'Angelo. Una volta che la situazione fosse tornata
sotto controllo, si sarebbe preoccupato di Galatea.
La festa è qui!
Ho cercato di usarla come pretesto per approfondire i rapporti tra i
vari personaggi, nella speranza di essere rimasta in linea con la loro
personalità, per fare un accenno alla natura divina di Ayame
e cosa essa comporta e, infine, per reintegrare nella storia il nemico
iniziale, che è sempre presente e presto si farà
vedere :) spero che sia di vostro gradimento! Come sempre, grazie a
Panenutella che beta e non mi fa scrivere strafalcioni ;)
PS: su sua notifica, il
termine mille mila
è una libertà stilistica che mi sono presa :)
è un termine che usiamo tra amiche per intendere,
simpaticamente, un numero molto grosso.
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Capitolo 13 *** Sovraccarico ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
12- Sovraccarico
La
via che si apriva davanti a Milo era anonima, non molto dissimile
dalle mille altre che si potevano trovare ad Atene. A livello della
strada si aprivano numerosi negozi e botteghe, a quell'ora ormai
chiusi, mentre i piani superiori degli edifici erano costituiti da
appartamenti. Alcune finestre erano aperte e la luce all'interno
delle stanze aiutava i periodici lampioni ad illuminare la strada.
Nulla
di quel posto avrebbe potuto attirare l'attenzione di un qualsiasi
passante, tranne la bottega abbandonata al centro della via, un buco
nero in mezzo a quell'universo di anonima normalità.
Era
proprio quella bottega che Psiche stava osservando, ormai, da diversi
minuti, seduta sul basso marciapiede di fronte all'entrata chiusa da
tre travi di legno, con le ginocchia al petto e il viso affondato tra
le braccia conserte di modo che solo gli occhi chiari e lucidi
fossero visibili. Dallo stesso tempo Milo la teneva d'occhio da un
angolo buio della strada e ne contemplava l'inaspettata
fragilità,
che la rendeva, ai suoi occhi, ancora più bella.
“Quello
era il loro negozio” disse una voce alle spalle del
Cavaliere.
Subito dopo, Georgia gli fu accanto.
“Di
chi?” domandò Milo, nella speranza che la ragazza
fosse disposta a
rispondere non solo a quella, ma anche a molte altre domande.
“”Di
Psiche e suo padre. Subito a fianco, invece, c'è il nostro
bar”.
Georgia indicò la saracinesca accanto all'entrata sprangata
della
bottega.
“Come
mai è ridotto così?” chiese ancora Milo.
Georgia
sospirò, prima di iniziare a raccontare.
“È
stato dopo la partenza di Psiche. Gli affari per Kostas, per suo
padre, hanno iniziato ad andare male. Non che prima navigassero
nell'oro, ma riuscivano a vendere abbastanza fiori da permettersi una
vita dignitosa. Poi Psiche se n'è andata e Kostas ha
cominciato a
badare sempre meno al negozio e a perdere clienti, anche tra quelli
più affezionati. Dopo un paio d'anni si ammalò
gravemente e dovette
chiudere l'attività. Mia madre e mia zia si alternarono per
settimane al suo capezzale, ma Kostas sembrava non voler guarire.
Quando è morto, abbiamo mandato a Psiche una lettera,
indirizzandola
all'unico recapito che la scuola aveva lasciato, ma lei non si
presentò comunque al funerale, né dopo, fino ad
oggi”
Milo
notò una certa amarezza nel tono di Georgia, ma non si
sentì di
dare alcuna colpa a Psiche. Sapeva bene cosa volesse dire diventare
un guerriero del Santuario di Atene e la totale rinuncia a famiglia e
affetti era, probabilmente, il prezzo più alto da pagare.
Per questo
motivo si prediligevano gli orfani ai bambini con una situazione
familiare normale.
“Non
credo che la sua assenza fosse voluta” disse, infatti, il
Cavaliere. “La nostra scuola si trova molto lontana da
qualsiasi
centro abitato, in un luogo a stento raggiunto dalla rete stradale e
dai mezzi di comunicazione in generale. È probabile che la
vostra
lettera non sia mai arrivata a lei e che Psiche abbia scoperto della
morte del padre da poco”
“Non
era mia intenzione giudicarla, se è questo che
pensi” ribattè
Georgia. “Ma non posso fare a meno di pensare che la Psiche
con cui
giocavo da bambina fosse una persona totalmente diversa dalla
creatura fredda e silenziosa che ho ritrovato stasera”
Milo
pensò istintivamente che il Grande Tempio faceva
quell'effetto a
molti.
“E
sua madre?” chiese poi, sfruttando la voglia di raccontare di
Georgia.
“È
morta anche lei, dando alla luce Psiche. Mi hanno detto che non ha ma
goduto di una buona salute e la gravidanza le era stata caldamente
sconsigliata, ma lei ha voluto portarla avanti a tutti i costi.
Psiche è il risultato della sua sofferenza e della sua
tenacia”
“Un
ottimo risultato, direi” si lasciò scappare Milo,
per poi voltarsi
verso la ragazza, leggermente allarmato. Georgia, però,
sorrideva
serena.
“La
lascio in ottime mani, quindi” disse a Milo, che
però non
comprese.
“Che
vuoi dire?”
“Ho
visto che ha avuto una reazione strana al nostro incontro e mi sono
preoccupata, così l'ho seguita per capire che intenzioni
avesse. Ma
ci sei già tu ad occuparti di lei, quindi posso stare
tranquilla”
“Sì,
beh, farò del mio meglio” si impegnò
Milo, leggermente in
imbarazzo.
“Ne
sono sicura” fu l'ultima cosa che disse Georgia, prima di
voltarsi
e tornare alla festa.
Il
Cavaliere tornò a guardare Psiche, che non si era mossa di
un
millimetro durante tutta la loro conversazione.
Ora
sapeva cosa la Sacerdotessa nascondeva dietro quella corazza da
guerriera dura e parca di sentimenti e sapeva anche che gli sarebbe
stato impossibile rinunciare a lei. Decise che avrebbe seguito il
consiglio di Ayame: avrebbe coltivato la sua rosa con cura e
dedizione, sfruttando il terreno fertile che i racconti di Georgia
gli avevano fornito.
Ma
non quella sera. Quella sera avrebbe solamente vegliato su di lei
finché fosse stato necessario e poi l'avrebbe riaccompagnata
al
Santuario.
Si
andò a sedere dall'ingresso di un condominio lì
vicino, dove
avrebbe potuto tenere d'occhio Psiche e contemporaneamente restare
nell'ombra, per lasciarla nell'intimità dei suoi ricordi.
Ayame
provò ad aprire gli occhi per vedere se il mondo aveva
finalmente
smesso di girarle attorno. Il volto di Kanon, che la vegliava
appoggiato allo schienale della panchina su cui l'aveva fatta
sdraiare, ballò ancora per qualche istante, prima di
fermarsi del
tutto.
“Adesso
riesci a spiegarmi cos'è successo senza
rimettere?” le domandò
col suo solito tono monocorde.
Ayame
si stropicciò gli occhi e si passò una mano sulla
fronte. Sentì il
mal di testa incipiente pulsare attraverso la cute.
“Credo
di essere andata in sovraccarico” spiegò
sbrigativamente.
“Che
intendi dire?”
“Da
quando Afrodite si è addormentata, sono più
sensibile ai sentimenti
delle persone. Percepisco l'affetto che provano verso qualcun altro
come un formicolio che è più o meno piacevole a
seconda delle
situazioni. A quanto pare, queste sensazioni sono in grado di ridarmi
energia, per questo prima mi sentivo euforica e iperattiva. Se,
però,
mi espongo a troppe sensazioni contemporaneamente... vado in
sovraccarico” concluse Ayame in un sospiro. Chiuse di nuovo
gli
occhi e si portò le mani al ventre, dove la sensazione di
vuoto
cominciava a farsi risentire con prepotenza.
“Il
che avvalora la mia ipotesi secondo la quale lasciarti venire qui
è
stato un errore madornale” commentò Kanon,
velatamente
soddisfatto.
“Allora
perché hai accettato di accompagnarmi?” gli
domandò la ragazza,
automaticamente.
Il
Generale non rispose, ma distolse lo sguardo da lei, cosa che,
comunque, non scoraggiò Ayame.
“Perchè
Shion non vuole che tu abbia a che fare con me?”
“È
una lunga storia” rispose Kanon, lasciandole intendere che
non
aveva nessuna voglia di raccontargliela.
La
ragazza spostò lo sguardo verso la fetta di cielo che si
intravedeva
tra le cime dei palazzi. Sporadiche stelle riuscivano a surclassare
la diffusa illuminazione artificiale della città.
“Hai
ragione, sai?” disse Ayame, dopo qualche attimo di silenzio,
ricaptando l'attenzione di Kanon.
“Riguardo
a cosa?”
“A
me” rispose subito lei, con semplicità, per poi
spiegarsi meglio.
“Al fatto che provengo da un altro universo. È
vero. Fino ad un
mese fa il mio universo era molto simile a questa festa, tra
chiacchiere superficiali e vestiti della domenica. Poi una
divinità
si è svegliata in me e sono stata catapultata nel vostro
universo, fatto di miti, cosmi, Guerre Sacre e poteri sovrannaturali
con un potere distruttivo pari alla bomba atomica.
“Quando
stavo iniziando ad abituarmi a tutto questo, a convincermi che
Afrodite non è un'entità estranea dentro di me,
ma che io
sono Afrodite, lei è stata resa inerme e io abbandonata in
un limbo
a metà tra due mondi, senza appartenere realmente a nessuno
dei due”
Ayame
strinse gli occhi e lasciò che due lacrime solitarie le
rigassero le
tempie, per poi tornare a rivolgersi direttamente a Kanon.
“Ti
starai chiedendo perché ti dico tutto questo. Non lo so, ma
avevo
bisogno di parlarne con qualcuno e tu mi sei sembrato la persona
più
adatta, forse perché anche tu mi sei sembrato a cavallo tra
due
universi... come me” gli confessò timidamente. La
determinazione
che quelle parole fecero comparire sul volto di Kanon
trasparì
distintamente anche dalla sua risposta.
“Io
appartengo ad Atena. Lei è il mio universo e solo a lei
rispondo”
La
ragazza sorrise. “Saori è fortunata ad avere un
guerriero devoto
come te fra le sue schiere”
Kanon
si sbilanciò in una risata dal retrogusto amaro, per poi
risollevare
il capo, un'espressione concentrata e allarmata sul volto. Ad Ayame
fu subito chiaro che qualcosa non andava.
“Kanon?”
lo chiamò piano, sollevandosi sugli avambracci. Il Generale
alzò
una mano per richiederle silenzio.
Rimasero
immobili e sul chi vive per istanti interminabili, dopo i quali Kanon
tornò a prestare attenzione ad Ayame.
“Sei
in grado di rimetterti in piedi?”
“Penso
di sì, ma che succede?”. Ayame non ebbe il tempo
di mettere i
piedi a terra che Kanon la stava già trascinando in un
anfratto buio
tra due palazzi, occupato da diversi cassonetti della spazzatura.
Il
Generale la nascose nell'ombra e le intimò di fare silenzio,
quindi
si avvicinò all'imbocco della rientranza e si mise in
ascolto.
Dovettero
aspettare solo pochi secondi, prima che un lampo azzurro passasse
sopra le loro teste. L'Angelo atterrò sulla cima
dell'edificio
dall'altra parte della strada e spiccò subito il volo, senza
apparentemente badare a loro. Aspettarono comunque alcuni istanti
prima di riuscire allo scoperto, abbastanza sicuri che la creatura
non sarebbe ricomparsa.
“Direi
che è il momento di tornare a casa”
sentenziò Kanon e Ayame si
trovò in totale accordo con lui.
Prima
che si incamminassero, qualcuno li chiamò dal fondo della
strada e
videro Camus e Galatea correre nella loro direzione.
“State
bene?” si sincerò subito il Cavaliere,
estremamente allarmato.
“Sì,
ci siamo nascosti appena in tempo” lo rassicurò
Kanon. “Suggerisco
comunque di andarcene da qui al più presto”
Camus
annuì, ma Galatea fece notare agli altri l'ormai lunga
assenza di
Psiche e Milo.
“Forse
dovremmo avvisarli”
“Se
dovessero incontrarlo, sarebbero in superiorità numerica. Se
la
caveranno benissimo da soli. La nostra priorità è
portare Ayame al
sicuro, adesso” disse Kanon, senza darle tempo di replicare.
Galatea
acconsentì con la stessa riluttanza dipinta sul volto di
Ayame, che
non era tranquilla a lasciare la sua Sacerdotessa fuori dal
Santuario, sola con l'unico uomo che sembrava renderla eccessivamente
emotiva.
Tuttavia
le priorità che aveva dato Kanon erano le più
ragionevoli. Si tolse
le scarpe alte per non essere rallentata lungo rapido cammino verso
casa. In pochi minuti furono, infatti, davanti al fioraio. Kanon
aprì
il negozio con la chiave che il proprietario gli aveva lasciato prima
che andassero alla festa e fece entrare tutti dentro, quindi richiuse
velocemente l'uscio alle sue spalle e si concesse, insieme agli
altri, un sospiro di sollievo.
Non
sapeva di aver chiuso la porta sotto gli attenti occhi azzurri di
Jez, che sorrise soddisfatto e consapevole di aver veramente
osservato a sufficienza.
Usciti
dal negozio, li accolsero le stradine silenziose e deserte di
Rodorio, che percorsero senza proferir parola, ognuno pensando ai
singoli eventi che avevano reso quella serata un totale fiasco.
Per
Ayame quella doveva essere un'occasione per distrarsi, dopo quanto
successo a Tokyo e il malumore che ne era derivato, e invece si era
guadagnata un faccia a faccia col bagno chimico più putrido
che
ricordasse e un alito in bocca che avrebbe ammazzato un elefante.
Kanon, dietro di lei, pensava già a quale supplizio
l'avrebbe
sottoposto Shion solo per aver assecondato la sua curiosità
di
vedere com'era Ayame al di fuori di quell'universo a lei poco
congeniale quale era il Santuario. Galatea rimuginava sulla figura da
donzella in pericolo che aveva fatto di fronte a Camus e su cosa in
quel momento il Cavaliere stesse pensando di lei, inconsapevole del
disagio che, invece, stava provando il ragazzo nel vederla
così
mogia, in quanto convinto al novanta per cento che fosse per colpa
sua.
Sbucarono
a passo di processione nello spiazzo antecedente la Casa dell'Ariete
Bianco, sulla soglia della quale Mu li attendeva. Il tibetano li
intercettò a metà della scalinata per recapitare
loro un messaggio
che sembrava urgente.
“Il
Gran Sacerdote vuole vedere Ayame e Kanon, immediatamente”
riferì
senza giri di parole e senza lasciar trasparire uno sguardo
preoccupato.
Ayame
alzò gli occhi al cielo, visibilmente scocciata, mentre
Kanon annuì
impassibile e spinse la ragazza, riluttante ad obbedire, davanti a
sé, sordo alle sue proteste. Camus e Galatea li
accompagnarono lungo
la salita fino all'Undicesima Casa, nell'atrio della quale il
Cavaliere si decide ad affrontare la Sacerdotessa, così da
avere la
giusta privacy.
“Galatea,
aspetta” le intimò, forse un po' troppo
perentorio. Lei si fermò
comunque, dandogli, però, le spalle, e rimase in attesa
senza
rispondere.
“Che
cos'è successo in città, con l'Angelo?”
domandò dopo qualche
istante, cercando di essere il più delicato possibile.
“Non
è successo niente” ribattè lei, brusca.
“A
me non sembra” Camus usò il suo stesso tono
involontariamente, ma
ciò non parve intimidire la Sacerdotessa, che si
voltò a mostrargli
il volto contratto in un'espressione a metà tra il ferito e
il
furibondo.
“E
cosa ti sembra allora?”
“Mi
sembra che tu abbia un problema e vorrei aiutarti a risolverlo, se mi
facessi capire qual è”
Galatea
rise amaramente e scosse la testa. “Nemmeno tu puoi risolvere
un
problema vecchio di millenni, Cavaliere di Atena”
Camus
rimase un po' interdetto, non capendo cosa volesse dire Galatea con
quelle parole. Non potè fare altro che esplicare i suoi
dubbi.
“Che
vuoi dire? Non capisco”
“No,
come potresti capire? Neanche mi conosci”
“Beh,
aiutami a capire, allora!” esclamò il Cavaliere,
esasperato.
“Aiutami a conoscerti” aggiunse poi, più
dolcemente, avanzando
di qualche passo verso Galatea.
Questa
lo scrutò per alcuni secondi, trovando nel suo sguardo
determinazione e un'insistente curiosità che decise di
soddisfare.
Prima
con titubanza, poi con sempre maggior enfasi, gli raccontò
la sua
incredibile storia. Narrò della statua che era, insieme a
suo
fratello, e del dono della vita che Afrodite ed Efesto avevano fatto
loro, in risposta all'accorata preghiera di loro padre,
nonché loro
scultore. Rivisse i giorni da Sacerdotessa durante la gloriosa era
olimpica, fino al tradimento di suo fratello, al fatale destino di
entrambi e al loro risveglio nell'era moderna.
Camus
ascoltò tutta la narrazione rapito ed estasiato. Sentendo la
storia
triste di Galatea era riuscito a trovare una risposta a molte delle
sue domande riguardo la ragazza, dal perché sembrasse sempre
così
spaesata alla perfezione quasi irreale della sua figura. Ma non erano
quelli i punti che la Sacerdotessa aveva voluto mettere in chiaro.
“Per
tutto questo tempo sono stata la 'piccola Galatea', la creatura
bizzarra e inesperta che faticava ad appartenere al mondo reale e,
ancor più, a quello dei Sacri Guerrieri, di cui sembrava non
possedere nemmeno una qualità. Sono venuta qui per
dimostrare di
valere qualcosa e mi trovo di fronte un qualsiasi Angelo piovuto dal
cielo che non mi ha mai vista e comunque non mi reputa alla sua
altezza. Come posso dimostrare quanto valgo se tutti mi reputano un
gradino sotto di loro, a partire da mio fratello fino, forse, ad
Afrodite stessa?”
“Io
non credo che Ayame ti reputi l'ultima ruota del carro”
rispose
Camus, ma capì, dall'espressione che fece Galatea, che non
erano
propriamente le parole che voleva sentirsi dire. La ragazza
lasciò
cadere le spalle e si asciugò gli angoli degli occhi, da cui
erano
cadute alcune lacrime di frustrazione.
“Già,
probabilmente sono solo mie preoccupazioni inutili. Scusami se ti ho
tediato. Buonanotte”
Non
attese neanche che il Cavaliere replicasse e scomparve tra le
colonne.
Camus
la guardò andare via, impotente e solamente in grado di
maledirsi
per la poca mancanza di tatto che aveva dimostrato, troppo intento a
realizzare che la ragazza di fronte a lui era un guerriero del mito,
qualcosa di simile ad una divinità per la sua generazione,
che dei
miti aveva fatto il suo credo. Solo quando Galatea non fu
più a
portata d'occhio Camus realizzò che lei era una persona
reale,
nonostante la sua strana storia, che come tale voleva, anzi,
desiderava essere trattata e che ciò che aveva cercato
quella sera
in lui era solamente un po' di conforto. Ed era ancora in tempo per
darglielo.
Le
corse dietro, sperando che non si fosse già ritirata in
camera per
la notte. La raggiunse che lei aveva appena abbassato la maniglia
della porta della sua stanza.
“Mi
dispiace, Galatea” si scusò, quando era ancora in
cima al
corridoio, riuscendo a bloccarla sul posto. “Sono un idiota,
lo so”
Galatea
lo guardò nella penombra della stanza, sorpresa, ma non fece
in
tempo a ribattere che il Cavaliere aveva ripreso a parlare.
“Non
devi credere a quello che pensano gli altri di te. La loro opinione
non ha nessuna importanza, conta solo quello che pensi tu di te
stessa. Se credi nelle tue capacità, nessun Angelo piovuto
dal cielo
può tenerti testa”
Mentre
parlava, Camus si era avvicinato alla Sacerdotessa un passo alla
volta, fino a trovarsi faccia a faccia coi suoi occhi limpidi di
mille emozioni. Per la prima volta, quella sera, Galatea si distese
in un sorriso ampio e, per la prima volta in tutta la sua vita, Camus
sentì una vampata di calore risalirgli dal ventre fino alla
testa.
Quasi sicuramente gli si erano pure arrossate le guance, ma per
fortuna la penombra del corridoio nascose il suo vistoso imbarazzo
alla vista della ragazza.
Poi
Galatea gli diede un veloce bacio sulla guancia imporporata e gli
sussurrò un sentito “Grazie” che,
però, non giunse alle sue
orecchie. Non la vide nemmeno entrare nella stanza sotto il suo
sguardo inebetito, perché era perso in un mondo fantastico
dove il
sorriso splendente della Sacerdotessa faceva da sfondo a mille
immagini di loro due insieme, vicini e sempre persi l'uno negli occhi
dell'altra.
Come
un automa, Camus uscì dalla sua Casa e discese le scale fino
a
quella che la precedeva. Qui andò a scontrare contro Shura,
che si
rovesciò il contenuto effervescente del suo bicchiere
addosso.
“Attenzione,
amigo!” gli intimò,
contrariato, per poi preoccuparsi una
volta visto il suo sguardo stralunato.
“Ehi,
Camus!” lo scosse, per ottenere la sua attenzione. “Todo
bien?”
Il
Cavaliere sollevò lo sguardo sul compagno d'armi e si
lasciò
sfuggire una risatina isterica. “Credo di essere
innamorato”
I
battenti del portone della Sala del Trono erano spalancati e
permisero ad Ayame e Kanon di vedere il Gran Sacerdote seduto
compostamente sullo scranno in fondo al corridoio, in attesa.
La
ragazza non attese l'annuncio delle guardie alla porta per entrare e
si diresse verso Shion a passo marziale, seguita a ruota da Kanon
che, invece, aveva rispettato il protocollo.
Giunti
che furono al cospetto del Celebrante, Kanon si inginocchiò
di
fronte a lui e attese di essere interpellato, mentre la ragazza gli
si piazzò davanti, le mani sui fianchi ed un'espressione
scocciata
in volto.
Presentiva
già cosa sarebbe successo in quella stanza. Shion l'avrebbe
rimproverata per la sua incoscienza e le avrebbe limitato
ulteriormente i movimenti nei confini del Santuario, il tutto senza
ammettere repliche. Ma in quel frangente Ayame avrebbe avuto da
replicare eccome.
“Avanti,
sentiamo: cos'ho fatto di male stavolta?” partì
subito all'attacco
la ragazza.
“Perchè
pensi di aver fatto qualcosa di male?” domandò di
rimando Shion,
fingendosi sorpreso.
“Non
sei il tipo da convocarmi per fare una semplice chiacchierata”
“Esatto,
Afrodite. Sono il tipo che ti convoca per chiederti accoratamente di
rispettare le misure di sicurezza imposte da me per te. E ti avverto
che questa è l'ultima volta che te lo chiedo
gentilmente”
Shion
aveva ripreso il cipiglio di comando di sempre e, per enfatizzarlo,
si era anche alzato in piedi, così da sovrastare Ayame.
“Ho
rispettato tutte le misure. Mi hai dato il permesso di uscire,
stasera, a delle condizioni che ho rispettato. Non hai nessun motivo
di riprendermi” obiettò la ragazza, senza
lasciarsi intimorire.
“Ho
motivo di riprenderti ogni qual volta tenti, involontariamente o
meno, di rovinare il mio operato. Sto facendo tutto il possibile per
soddisfare le richieste di Atena e di Zeus, sto cercando di
proteggerti, eppure sembra che tu non veda l'ora di gettarti nelle
braccia del nemico, di quello stesso nemico che ti ha reso quella che
sei adesso. Non capisco se è solo incoscienza o voglia di
mettermi i
bastoni tra le ruote”
I
toni si stavano alzando e i termini infuocando. Kanon, rimasto in
silenzio per tutto il tempo, avrebbe voluto intervenire, ma il suo
ruolo gli imponeva di starsene inginocchiato lì ad assistere
impotente allo scontro tra due personalità titaniche come
quelle di
Ayame e Shion.
“Ah,
allora è questo il problema!” esclamò
la ragazza. “Il grande
Shion ha paura, in prima istanza, di fare brutta figura coi suoi
superiori. E io, ingenua, che pensavo che un minimo tenessi alla mia
incolumità, senza secondi fini”
“Atena
è il mio fine ultimo, e bada a come parli! Sei in presenza
del suo
Celebrante, non di un uomo qualsiasi, perciò non tollero
questa
impudenza, Afrodite”
“Perchè
continui a chiamarmi Afrodite quando nemmeno credi che possa tornare
ad esserlo?” esplose alla fine Ayame, definitivamente in
lacrime.
“Perchè fai finta che ti importi qualcosa di me
quando so che mi
consideri una scomoda palla al piede e mi vorresti a chilometri di
distanza?”
“Maledizione,
Ayame! Io sto cercando di aiutarti. Sei tu che fai di tutto per
rendermi il compito impossibile”
“No,
tu stai facendo di tutto per non rendermi un problema più
grande di
quello che, per te, già sono”
Con
la vista annebbiata dalle lacrime, Ayame girò i tacchi e
corse fuori
dalla Sala del Trono in preda ai singhiozzi, che riecheggiarono
ancora per qualche istante nel silenzio attonito che si era lasciata
dietro. Poi una porta sbattè ed il silenzio fu assoluto.
Kanon
rimase impassibilmente inginocchiato, in attesa di ordini che, forse,
non sarebbero mai venuti. Teneva lo sguardo basso sul prezioso
tappeto rosso, perciò potè solo sentire il
fruscio delle vesti di
Shion mentre si lasciava cadere sul trono con un sospiro.
“Ottimo
lavoro, Kanon” si complimentò il Gran Sacerdote,
subito dopo, pur
senza troppa enfasi. “Pur non condividendo la tua scelta di
assecondare il suo capriccio, alla fine è stato un bene che
tu fossi
lì con lei quando è comparso il nemico. Alzati
pure”
“Dovere,
Eccellenza” rispose il Generale, remissivo, obbedendo
all'ordine.
“Le
tue ricerche hanno fatto progressi?” si informò
poi, cercando di
dimostrare un minimo interesse.
“Purtroppo
sono ad un punto morto. Gli indizi che possiedo sono troppo vaghi per
poter procedere con una ricerca mirata e la Biblioteca Pubblica di
Atene non è famosa per i suoi testi esoterici, se mi
permettete”
Shion
si sbilanciò in un sorriso divertito, quindi
portò una mano alla
fronte per massaggiarsi le tempie. Si stropicciò, infine,
gli occhi,
per poi tornare a rivolgersi al Generale in attesa davanti a lui.
“Puoi
chiedere informazioni ad Ayame riguardo a suo fratello, se lo ritieni
necessario” gli concesse il Celebrante, sorprendendolo. Tutto
si
sarebbe aspettato, quella sera, tranne quel cambio di idea. Kanon si
azzardò ad interpretarlo come un segno di una crescente
fiducia nei
suoi confronti.
“Se
sarà necessario, lo farò”
ribadì.
Shion
lo congedò con un cenno del capo. Una volta fuori dalla Sala
del
Trono, coi battenti chiusi alle sue spalle, Kanon si concesse di
rilassarsi. Abbassando lo sguardo, notò le scarpe rosse che
Ayame
aveva abbandonato per terra prima di fare la sua prepotente entrata
nella stanza. Le raccolse e rimase a fissarle qualche istante.
Non
si fidava ad avvicinarsi a lei. Aveva paura che il carattere
frizzante e, a volte, irriverente della ragazza andasse ad urtare il
suo, burbero ed impulsivo, facendogli perdere il controllo.
Già una
volta era stato sul punto di causare la morte di una dea indifesa,
seppur non direttamente. Non voleva rischiare di ricadere in
quell'errore una seconda volta, nonostante non avesse nulla contro
Ayame.
Ricordava,
tuttavia, come si era sentito affine all'animo della ragazza la sera
che l'aveva sorpresa a sbirciare il suo, al promontorio vicino alla
Terza Casa. Ayame poteva essere il primo passo verso la riconquista
della fiducia nei confronti del mondo e di se stesso.
Si
fece dare indicazioni riguardo l'ubicazione della sua stanza e
percorse i vari corridoi a passo cadenzato, cercando di non pensare a
tutti i motivi che l'avrebbero indotto a fare dietrofront. Poi la
porta della camera di Ayame si presentò davanti a lui. Udiva
distintamente il pianto sommesso della ragazza dall'altra parte, ma
Kanon bussò comunque.
“Vattene
via”. L'ordine di Ayame somigliò
più che altro ad un
miagolio, ma, secondo il Generale, non era la giornata giusta per
insistere.
Posò
le scarpe accanto alla porta e si allontanò, diretto alla
sua
dimora.
Salve a tutti e perdonate
il ritardo! Questo capitolo ha avuto un incidente di percorso, ho perso
il manoscritto originale e ho dovuto, quindi, riscriverlo da capo
cercando di mantenerlo il più simile possibile
all'originale. Spero di esserci riuscita, mi saprete poi dire :)
è probabile che non tutti apprezzerete la scenata di Ayame
con Shion, ma è un punto cruciale del conflittuale rapporto
tra i due, che deve ancora raggiungere il culmine. Per il resto, spero
che il capitolo vi piaccia e ringrazio Panenutella per la
collaborazione :)
A presto!
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Capitolo 14 *** Petali di ricordi ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
13-
Petali di
ricordi
Rimase
seduta sul quel marciapiede tutta la notte, sorda al dolore che la
posizione rannicchiata in cui si era messa aveva provocato a schiena,
glutei e gambe. Non erano nulla in confronto a quello provato in
fondo al cuore nel vedere le condizioni in cui quel negozio –
il
suo negozio – era ridotto. Per colpa sua. Era riuscita a
distruggere il sogno di suo padre per un'ambizione personale,
perché
qualcuno le aveva promesso che sarebbe stata speciale. Solo che lei
era già speciale e suo padre glielo aveva dimostrato ogni
giorno,
durante quei sei brevi anni che avevano passato insieme, prima che il
Santuario la inghiottisse e la rendesse così diversa da
quello che
era.
La
sua decisione di partire, che sembrava così giusta allora,
alla fine
aveva distrutto tutto e tutti, suo padre per primo. Era mancato che
Psiche aveva otto anni, ma lei l'aveva scoperto a tredici e per i
successivi sei non si era più azzardata ad avvicinarsi a
quel posto,
a quella strada che aveva rappresentato l'unico universo in cui
orbitare durante tutta la sua infanzia. Né si era recata al
cimitero, per la vergogna di dover chiedere al custode dove fosse la
tomba di quel padre che aveva lasciato morire in solitudine.
E
in solitudine era morto anche il loro piccolo negozio, un pezzo di
vetro e una scritta vandalica alla volta. Tre travi di legno erano la
sua lapide, un insulto ad ignoti il suo epitaffio.
Le
lacrime, quelle lacrime che per tanti anni non aveva voluto versare,
erano finite da un bel pezzo, ma non si erano portate dietro il
dolore che le aveva fatte sgorgare. Esso era sempre lì,
radicato al
centro del suo petto, a fianco dei mille altri che quel ritorno ad
Atene aveva fatto ricrescere, ricordandole che ci sono sentimenti che
nemmeno la lontananza può eradicare.
Si
decise ad alzarsi quando un vecchio ubriacone, forse reduce dalla
festa, tentò un approccio poco galante con lei. Troppo in
preda dei
ricordi per reagire a suo modo, Psiche si scansò dallo
scocciatore e
lo lasciò a biascicare parole impastate appoggiato ad un
lampione
per non franare a terra.
Tutto
il suo corpo protestò per quel cambio di posizione, ma la
Sacerdotessa ci fece poco caso e proseguì imperterrita,
intenzionata
a tornare al Santuario. Al primo svincolo, però, dovette
fermarsi.
Sull'ingresso del portone del palazzo all'angolo Milo stava dormendo,
con la testa appoggiata al muro dei citofoni ed il resto del corpo in
una posizione tutt'altro che comoda.
Miriadi
di pensieri le invasero la testa, sovrapponendosi a quelli che
già
vi ronzavano dentro. Il dolore provato sino a poco prima si confuse
con mille altre sensazioni indecifrabili, lo stomaco si contorse in
uno strano sussulto ed un brivido le percorse la schiena fino al
capo, trasformandosi sulle sue labbra carnose in un sorrise
intenerito che Psiche si affrettò a nascondere con la mano.
Si
avvicinò cauta al ragazzo, cercando di dissimulare il
piacere che il
vederlo lì, in attesa di lei, le aveva provocato. Non poteva
farci
niente, era e sarebbe sempre stata orgogliosa.
Si
accovacciò davanti a lui e sentì che russava
leggermente,
alternando anche qualche borbottio incomprensibile. Gli scosse piano
la spalla per svegliarlo. Il Cavaliere impiegò qualche
attimo a
metterla a fuoco e ad orientarsi. Si passò poi una mano sul
volto
stanco, sentendo distintamente i segni che le imperfezioni del muro
avevano lasciato sulla sua pelle, quindi si stiracchiò,
rompendo il
silenzio del primo mattino con gli inquietanti rumori delle sue ossa
che tornavano al loro posto.
“Mi
devi un mal di schiena” borbottò mentre si
massaggiava il collo.
“Perchè
sei rimasto?” gli domandò Psiche, andandosi a
sedere accanto a
lui.
“Chiamiamola
cavalleria, ti va? Sono un Cavaliere, dopotutto” rispose
Milo,
sbrigativo. “E, comunque, mi devi anche un altro
appuntamento. Me
lo sono guadagnato, non credi?”
“Prima
di quest'uscita infelice, adesso non più”
ribattè lei, fedele al
suo orgoglio, quindi si rimise in piedi. Colta da un capogiro, forse
dovuto alla brusca alzata e alla stanchezza che cominciava a farsi
sentire e non aiutata dai tacchi vertiginosi dei suoi sandali,
rischiò di perdere l'equilibrio. Milo l'afferrò
al volo prima che
ciò accadesse e, anticipando le sue proteste, se la
caricò in
braccio.
“Prima
ricomincio a guadagnare punti, prima usciamo insieme, no?”
disse,
per dare una spiegazione a Psiche, che lo stava guardando
contrariata. Tuttavia era troppo stanca e le sue gambe troppo felici
di non dover camminare fino all'Acropoli perché lei
protestasse.
“Se
ti aggrappassi, gentilmente, al mio collo, la mia schiena ne sarebbe
grata. Ti ricordo che ho dormito quasi cinque ore appoggiato ad un
muro”
Visibilmente
scocciata, la Sacerdotessa eseguì. Milo se la
sistemò meglio tra le
braccia e si incamminò verso il Santuario. Il passo lento e
cadenzato ed il movimento cullante delle braccia del Cavaliere fecero
presto cadere Psiche in un sonno profondo. Prima che i sogni
prendessero il sopravvento, le sembrò di sentire il tocco
leggero di
un bacio tra i capelli.
Non
era riuscito a resistere, Milo. Quando l'aveva vista così
vulnerabile e totalmente alla sua mercé, la tentazione di
darle quel
lieve bacio era stata troppo forte. Non sapeva nemmeno se sperare che
se ne fosse accorta o no. Da un lato voleva che capisse che le era
vicino, in quel momento difficile per lei, dall'altro aveva paura di
essersi esposto troppo e di aver aumentato la pendenza di quel
sentiero in salita che portava al cuore di Psiche. Tuttavia la
Sacerdotessa non reagì, probabilmente già in
viaggio nelle terre di
Morfeo.
Lungo
il tragitto verso il Santuario, Milo si concesse, qualche volta, di
contemplare il viso di Psiche per qualche istante, in modo da potersi
ricordare quanto bella fosse quando era rilassata e lontana da ogni
preoccupazione. Arrivarono, comunque, davanti al negozio di fiori
troppo presto. Il proprietario, ancora mezzo insonnolito, stava
aiutando alcuni trasportatori a scaricare la nuova merce e gli fece
intendere, con un vago cenno, che poteva passare.
Il
Cavaliere si godette ancora qualche momento di intimità
con
Psiche mentre attraversava Rodorio, quindi si accinse a risalire le
Dodici Case. Sulla soglia della Seconda, Aldebaran lo fermò.
“Bentornati,
finalmente! È tutta la notte che vi aspetto” lo
accolse il Toro,
un po' più burbero del solito.
“Sei
rimasto sveglio ad aspettare noi? Perché? Non sei mica
nostro
padre!” fu la risposta irritata di Milo, dovuta
più che altro alla
stanchezza.
“No,
sono quello che ti ha evitato di diventare il puntaspilli personale
di Aphrodite” precisò l'omone. “Quando
non vi ha visti tornare,
è sceso a chiedere notizie promettendoti le peggiori torture
nel
caso avessi fatto qualcosa di male a Psiche. Allora gli ho detto che
lei era tornata per i fatti suoi e si era fermata a dormire da me
perché era troppo stanca e leggermente brilla per salire
fino alla
Dodicesima. Quindi, adesso, dalla a me e fila alla tua Casa, prima
che Aphrodite scenda a controllare”
“Oh,
beh... in questo caso, d'accordo” accettò Milo e,
seppur un
pochino riluttante, passò Psiche ad Aldebaran. Nel
passaggio, la sua
mano indugiò qualche istante sulla nuca della Sacerdotessa e
qualcosa della sua espressione parve divertire il grosso Cavaliere,
che si lasciò sfuggire una breve risatina.
“Che
c'è?” domandò subito Milo.
“C'è
che ne hai di cose da farti perdonare da questa fanciulla, caro
Scorpion”
Il
ragazzo si accigliò, ma non riuscì a chiedere
delucidazioni ad
Aldebaran, perché questi gli diede le spalle e scomparve nei
suoi
alloggi privati.
Quando
Psiche si svegliò, la prima cosa che percepì fu
un intenso dolore
alla schiena, che subito ricordò essere dovuto alle lunghe
ore che
aveva passato seduta sul marciapiede a contemplare il negozio in
rovina di suo padre. Cercò di eliminare quella triste
immagine da
davanti ai suoi occhi e allargò le braccia per stirarsi,
urtando
involontariamente un oggetto sul tavolino lì vicino, che
cadde e si
frantumò in mille pezzi. La Sacerdotessa si sporse subito
per
valutare l'entità del danno che aveva causato. La statuina
del
Cristo Redentor era priva di testa, braccia e gambe, queste ultime
rimaste attaccate al piedistallo di plastica del souvenir.
Psiche
si morse il labbro inferiore maledicendosi per la sua poca grazia.
Quello era il souvenir preferito di Aldebaran, poco mancava che ci
andasse anche a dormire assieme, e lei l'aveva appena ridotto ad un
ammasso di macerie in miniatura.
“Temo
che la Super Colla non funzionerà, questa volta”
Il
vocione del Toro raggiunse le orecchie di Psiche amplificato di mille
volte. La Sacerdotessa si voltò lentamente verso di lui,
mostrandogli uno sguardo dispiaciuto e supplice. Non era la prima
volta che gli mandava in frantumi qualche suppellettile proveniente
dai suoi molteplici viaggi. Quando era bambina, al Santuario, la Casa
del Toro era il suo rifugio, il suo luogo di pace lontano dalla
violenza che permeava il Grande Tempio e a cui, a quel tempo, non era
ancora abituata. Tante, troppe volte Psiche si era seduta sui gradini
della Seconda, a piangere sommessamente dietro la maschera di
metallo, in attesa che arrivasse il suo grande amico – grande
in
ogni senso – a dirle qualcosa di gentile o di spiritoso che
la
rasserenasse e le desse la forza di andare avanti con
l'addestramento. E anche se Aldebaran era stanco e spossato per la
pesante giornata, non aveva mai mancato di consolare il suo
funghetto,
come l'aveva
soprannominata il giorno che Aphrodite l'aveva portata al Santuario.
I primi anni, poi, le aveva anche concesso di giocare coi suoi
molteplici souvenir, alcuni dei quali avevano poi fatto una brutta
fine. Ma il Cristo Redentor no. Quello era intoccabile.
“Scusa,
Al, non pensavo... non credevo di... come ci sono finita
qui?”
domandò alla fine la ragazza, dopo aver realizzato
completamente di
non essere nella sua stanza alla Dodicesima.
Aldebaran
andò a recuperare la statuina con sguardo afflitto e ne
ripose i
pezzi sul tavolino con eccessiva cura, quindi rispose alla
Sacerdotessa.
“Ti
ho prelevata dalle braccia di Milo, tra le quali sembravi molto a tuo
agio, lasciatelo dire, per salvare lui dalla Royal Demon Rose del tuo
apprensivo maestro. Aphrodite si è preoccupato quando non vi
ha
visti rientrare con gli altri e ha promesso a Milo ogni male
possibile se ti avesse fatto qualcosa, tuttavia, per quanto se li
possa meritare, ho pensato non fosse dovere di Aphrodite fargliele
pagare tutte. Sei d'accordo?”
“Io
non spreco le mie rose con quell'insetto” sbottò
Psiche,
mettendosi a sedere sul divano e incrociando braccia e gambe.
“No,
infatti, ma sembri dormire bene tra le sue zampe da aracnide”
la
provocò Aldebaran, ghignando.
“Non
gli ho chiesto io di portarmi in braccio fino al Santuario, chiaro?
Mi ha presa di peso”
“E
non ti è dispiaciuto”
“Certo
che mi è... cioè... insomma... no, in effetti
no” ammise alla
fine Psiche, dopo aver visto ogni suo tentativo di obiezione andare
in fumo di fronte all'espressione scettica del Toro. “Ma
questo non
vuol dire niente” precisò poi, puntando il dito
contro di lui.
“Proprio
non riesci ad ammettere che sia cambiato, vero?”
“Perchè
non lo è!” rispose la Sacerdotessa esasperata.
“È il solito
furbo sbruffone cascamorto che manda sguardi seducenti ad ogni essere
femminile che si trovi a tiro. Ma io non cascherò nella sua
trappola
come tutte le altre. Non di nuovo”
“Se
lo dici tu” Aldebaran si alzò dalla poltrona e
prese i resti del
suo souvenir tra le mani.
“Tu
non mi credi, vero?” lo accusò Psiche, alzandosi
dal divano e
seguendolo lungo la lenta marcia funebre verso il cestino della
spazzatura.
Aldebaran
pigiò il pedale per sollevare il coperchio e, dopo un
addolorato
sospiro, lasciò cadere i cocci nella pattumiera, quindi
lasciò
rapidamente il pedale e si voltò verso Psiche, rimasta in
attesa
alle sue spalle.
“Io
credo solo che a chiunque vada data una seconda opportunità.
Le
persone cambiano, Psiche. La vita le cambia. Il Milo che conoscevi
quando sei andata via da qui non è lo stesso di oggi,
credimi. Io
l'ho visto crescere, l'ho visto soffrire, tanto. Tu l'hai conosciuto
ragazzo e l'hai rincontrato uomo. Ed è l'uomo, adesso, che
ti sta
chiedendo una possibilità”
La
Sacerdotessa rimuginò qualche secondo sulle parole di
Aldebaran. Non
poteva dargli torto, effettivamente anche lei si era accorta della
maturazione cui Milo era andato incontro. Tuttavia non riusciva a
dimenticare la cocente delusione che le aveva involontariamente dato
anni prima e questo la portava inevitabilmente a non fidarsi di lui,
dei suoi gesti premurosi, delle sue parole piene di significati
nascosti.
“Io...
non ci riesco, Al, mi dispiace” ammise alla fine delle sue
elucubrazioni.
“Ascolta,
funghetto, non ti sto mica dicendo di gettarti tra le sue braccia
appena uscita da questo tempio” le spiegò il Toro,
paziente,
poggiandole le manone sulle spalle. “Ti sto solo suggerendo
di
provare a conoscerlo per come è adesso”
Psiche
sospirò e rifletté ancora qualche secondo sulle
parole dell'amico,
su Milo, su di lei, quindi tornò a guardare Aldebaran.
“Hai
detto che ha sofferto tanto...” ricordò la
Sacerdotessa. Il
Cavaliere annuì. “È stato per Camus,
vero?” domandò lei, anche
se conosceva già la risposta. Lei stessa l'aveva visto
piangere
sulla tomba dell'amico, quando aveva fatto ritorno al Santuario per
poggiare una rosa sulla tomba del suo maestro, dopo la battaglia alle
Dodici Case in cui i due Cavalieri avevano perso la vita la prima
volta.
“Anche
per gli altri, ma sì, soprattutto per Camus”
confermò Aldebaran.
“Perché me lo chiedi?”
“Così...”
rispose vaga Psiche, troppo concentrata a ricordare ogni dettaglio di
quel pomeriggio grigio che aveva fatto da sfondo al suo incontro con
Milo al cimitero dei Cavalieri. Per tutti quegli anni aveva solo
associato al nome di Milo il volto di un playboy in erba con una scia
di cuori spezzati dietro, dimenticandosi totalmente dell'espressione
contratta e del volto rigato dalle lacrime del giovane uomo divenuto
consapevole degli orrori della guerra. Probabilmente era stato da
quel pomeriggio che Milo aveva iniziato a maturare, e lei aveva avuto
l'inconsapevole fortuna di assistere a quel momento.
“Adesso
è meglio che vada” Psiche scostò le
mani di Aldebaran dalle sue
spalle e gliele strinse con affetto. “Grazie di tutto,
Al”
Il
Cavaliere le sorrise e ricambiò la stretta. Quando Psiche
ebbe
raggiunto la soglia della Seconda Casa, la richiamò.
“Ehi,
funghetto! Guarda che mi devi un souvenir, non dimenticarlo!”
Psiche
risalì la scalinata lentamente, con la mente immersa in
mille
pensieri intrecciati tra loro in una trama confusa e senza senso.
Pensava a Milo, a Georgia, a suo padre, alla loro bottega, e di nuovo
a Milo. Milo che piangeva sulla tomba di Camus, lei che soffocava una
lacrima su quella di Aphrodite, esattamente come le era stato
insegnato nel corso dei lunghi anni di addestramento e che, in
quell'ultimo periodo, pareva aver disimparato. Il destino non era mai
stato troppo clemente con lei, ma in quegli ultimi giorni sembrava
essersi letteralmente accanito. Uno dietro l'altro, i ricordi che
era, con grande fatica, riuscita a lasciarsi alle spalle erano
ritornati con una prepotenza inaudita a cui sapeva di non poter
resistere a lungo. Se l'incontro con Milo se l'era, in qualche modo,
cercato decidendo di accompagnare Ayame al Santuario, quello con
Georgia e con quella sua parte di passato era stato completamente
involontario e, per questo, ancora più scioccante. La cosa
peggiore
era che Milo aveva assistito a tutto quanto, al suo crollo, alla sua
fuga, e non ne aveva fatto parola. Non che le importasse il suo
parere, ma si aspettava che uno come lui approfittasse della
situazione per volgerla a suo vantaggio. Invece così non era
stato.
Che non gliene importasse? Che stesse programmando qualche tiro
mancino? Ma poi perché a lei doveva
importare qualcosa di
quello che pensava Milo? Non meritava tutta quell'importanza che gli
stava inconsciamente dando, non aveva mai meritato nulla da lei,
nemmeno le lacrime che per lui si era ritrovata a piangere, giorni
prima.
A
dimostrazione che il destino ce l'aveva veramente con lei, Psiche si
trovò, alla fine delle sue elucubrazioni, davanti alla Casa
dello
Scorpione Celeste, ed era necessario che la attraversasse, per poter
raggiungere la Dodicesima e concedersi un po' di – forse
–
tranquillo riposo.
Quando
mosse i primi passi dentro la Sala dei Combattimenti, i suoi tacchi
sul marmo produssero un rimbombo che le parve assordante. Rimase
qualche secondo in attesa sulla soglia, pronta a fare dietrofront al
primo segnale che le avesse fatto anche solo sospettare l'arrivo di
Milo, ma nulla si mosse.
“Milo?”
chiamò a voce più bassa possibile, per nulla
intenzionata a farsi
sentire. Come previsto e sperato, non arrivò nessuna
risposta e
Psiche proseguì verso l'uscita in punta di piedi. Una volta
fuori
dall'Ottava, tirò un sospiro di sollievo e
proseguì la sua salita.
Anche
la Casa dei Pesci sembrava deserta. Psiche si addentrò tra
gli
alloggi privati per cercare il suo maestro e avvertirlo che era
tornata, ma quando bussò alla sua stanza, nessuno rispose.
La
Sacerdotessa si arrischiò ad abbassare la maniglia della
porta, che
si aprì docile sotto i suoi occhi.
La
stanza di Aphrodite era molto semplice ma denotava al contempo una
cura maniacale del dettaglio e dell'ordine. L'arredamento consisteva
in un letto a due piazze affiancato da un basso comodino, una
scrivania posta sotto la finestra che dava sul giardino di rose
dietro la casa, un ampio armadio con tre ante a specchio ed un paio
di mensole. Colori e materiali erano stati scelti secondi il gusto
personale e raffinato del Cavaliere e, nell'insieme, sembrava una
stanza da catalogo immobiliare, con tanto di cuscini e tappeti
abbinati alla tappezzeria.
Probabilmente
fu per tutti questi motivi che Psiche non poté non notare il
foglio
di carta lasciato sulla scrivania. Era strano, infatti, che Aphrodite
lasciasse fuori un documento, qualsiasi fosse la sua importanza. In
cuor suo sapeva che, da brava allieva, avrebbe dovuto lasciare tutto
com'era ed uscire dalla stanza, ma quel foglio lasciato lì
era
troppo fuori posto per non suscitare la sua curiosità. Lo
prese in
mano e pensò che era sbagliato. Lesse le poche righe con cui
era
stata vergata la carta e non poté fare a meno di credere di
essere
lei, quella sbagliata, perché poteva essere solo quello il
motivo
per cui il destino si stava accanendo in quel modo contro di lei.
Cara
Psiche,
sentiamo
tanto la tua mancanza qui nel quartiere. Spero vivamente che i tuoi
studi nella nuova scuola procedano bene, ma ancora di più
spero che
tu possa trovare un po' di tempo per tornare qui da noi.
Ti
scrivo questa lettera perché non sappiamo in che altro modo
contattarti per darti questa brutta notizia. Kostas, il tuo caro
papà, è mancato stamattina, e l'ultima parola che
ha pronunciato
prima di andarsene è stato il tuo nome, Psiche.
Tra
due giorni celebreremo il suo funerale, spero che i tuoi insegnanti
possano concederti di presenziare. Nel frattempo, ti mandiamo il
nostro più sincero appoggio e le nostre più vive
condoglianze. Sai
che siamo sempre a tua disposizione per qualsiasi cosa.
Georgia
insiste perché ti mandi i suoi saluti, a cui aggiungo i
nostri e
quelli di tutti i vicini.
Un
abbraccio,
Eirene
Il
foglio le cadde dalle mani, insieme a due lacrime amare, nella testa
solo un doloroso vuoto attraversato di tanto in tanto da qualche
pensiero irrazionale. Psiche iniziò a tremare e a respirare
affannosamente, mentre in mezzo a quel vuoto e a quei pensieri si
facevano strada, come una lama attraverso la carne, le parole scritte
dalla mamma di Georgia.
“Psiche,
cosa ci fai qui?” domandò Aphrodite, comparso
sulla soglia della
stanza e già visibilmente teso, gli occhi chiari che
settavano dal
profilo semi-nascosto dell'allieva alla lettera a terra.
La
ragazza volse lentamente il capo verso di lui e un pensiero nitido le
si formò in testa.
“Tu
lo sapevi” disse con un fil di voce. “E non me lo
hai mai detto”
“Psiche,
mi dispiace...”
“Mi
hai lasciato credere che fosse ancora vivo per tutto
l'addestramento”
continuò lei imperterrita. “Hai lasciato che
scoprissi che era
morto da un qualunque sconosciuto passante, quando invece era stata
la madre della mia migliore amica la prima a dirmelo. Mi hai impedito
di partecipare al suo funerale, di vederlo un'ultima volta”
Ad
ogni parola, la voce di Psiche salì di un tono e i suoi
occhi si
velarono di una lacrima in più.
“Sono
le regole, lo sai” obiettò sicuro Aphrodite.
“Me
ne frego delle regole! Era mio padre!” esplose la
Sacerdotessa.
“E
con questo? Solo perché sei te pensavi di avere diritto a
qualcosa
di più degli altri? Nessuno di noi che sia entrato qui
dentro con
ancora un genitore sa che fine abbia fatto sua madre o suo
padre”
“Ma
quando sono andata via potevi dirmelo, vero? Non ero più un
guerriero di Atena, appartenevo ad Afrodite. Le regole del Santuario
non valevano più per me. Invece non me lo hai detto.
Perché?”
“Non
lo so!”
“Mi
hai rovinato la vita! Non sarei mai dovuta venire con te, non avrei
mai dovuto abbandonare mio padre e il mio roseto. È tutto in
rovina,
tutta la mia vita è in rovina, ed è solo colpa
tua!”
In
quel momento Psiche non riusciva a capire se le parole pesanti che
aveva appena rivolto al suo maestro fossero veritiere o solo frutto
della sua frustrazione arrivata al culmine. La sua mente era in una
tale confusione che elaborare anche un solo semplice pensiero
razionale sembrava un'impresa titanica. Non fu tuttavia necessario,
perché Aphrodite rimase in silenzio dopo il suo ultimo
sfogo,
attonito, e si mosse solo quel tanto che bastava per farla uscire
dalla stanza. La Sacerdotessa corse in camera sua, dove si
abbandonò
sul letto in preda ad un pianto isterico, l'ennesimo dal suo
disastroso ritorno al Santuario. Doveva esserci un senso a tutto
quello che le stava succedendo, a Milo, ad Aphrodite, a Georgia, a
suo padre. Doveva esserci un motivo per cui le stava accadendo tutto
questo e tutto insieme. In quel momento, però, non era in
grado di
trovarlo.
Aphrodite
riuscì difficilmente ad attutire il colpo che le parole di
Psiche
gli avevano dato. Sapeva, infatti, in cuor suo, che non erano altro
che la verità. Negli anni di addestramento della
Sacerdotessa, si
era spesso chiesto se avesse fatto bene a portarla via dal suo
piccolo paradiso per iniziarla al sanguinoso inferno che era in
Grande Tempio. Ma più l'aveva vista crescere e apprendere
sotto la
sua guida, più si era convinto che sì, era stata
la cosa giusta.
Quando era arrivata la lettera che comunicava la morte del padre di
Psiche, il primo timore di Aphrodite fu che Psiche se ne sarebbe
andata per sempre dal Santuario e da lui. Istintivamente aveva
nascosto la lettera e aveva taciuto la cosa a chiunque, tenendosi la
bambina accanto.
A
distanza di anni, e dopo due decessi, analizzando tutta la vicenda
Aphrodite si rese conto che aveva fatto tutto quanto per puro
egoismo. Era sempre stato abbastanza solo al Santuario, ad eccezione
dell'amicizia di Deathmask, se così si poteva definire
quello strano
rapporto che avevano e che l'aveva portato a commettere azioni di cui
non andava fiero. Psiche, invece, era la creatura più simile
a lui
che avesse mai incontrato e, nella sua mente, era fisiologico che
dovessero stare insieme. Per questo aveva tenuto il più
possibile
Psiche vicino a sé, per questo l'aveva addestrata ad essere
il meno
emotiva possibile, per questo le aveva impedito quasi ogni contatto
con gli altri abitanti del Grande Tempio. E tutto ciò, alla
fine,
aveva avuto come unico risultato quello di perdere la sua unica
allieva e di lasciarlo più solo di prima.
Quella
nuova vita, però, gli aveva anche dato l'occasione per
riscattarsi
dei molti errori commessi, tra cui quelli che riguardavano Psiche.
Raccolse
la lettera da terra e discese la scalinata fino all'Ottava Casa.
Senza chiedere il permesso entrò negli alloggi privati di
Milo e
andò a bussare alla porta della sua stanza.
“Chiunque
tu sia e qualunque cosa tu voglia, torna tra almeno cinque
ore”
bofonchiò lo Scorpione dall'altra parte.
“Sono
Aphrodite, devo parlarti” si annunciò il Cavaliere.
“Aphrodite,
se vuoi parlarmi, torna tra almeno cinque ore”
ripeté l'altro.
“Riguarda
Psiche”
“Non
so cosa ti abbia detto lei, ma ti giuro sul mio onore di Cavaliere
che non è colpa mia”
spergiurò Milo, un po' meno addormentato di prima.
“Non
sono qui per questo. Avanti, apri” insistette Aphrodite.
Finalmente
Milo andò ad aprire l'uscio. Aveva la faccia assonnata, i
capelli
scompigliati e sembrava proprio che si fosse cacciato a dormire con
addosso gli abiti indossati per la festa. Dopo un portentoso
sbadiglio, si rivolse al visitatore.
“Che
è successo?”
“Devo
chiederti un grosso favore. Una cosa che solo tu puoi fare”
iniziò
Pisces.
“Allora
c'è bisogno di un caffè. Se vuoi precedermi in
cucina” Milo fece
cenno con la mano alla stanza di fronte, quindi si incamminò
dietro
ad Aphrodite strascicando i piedi e si diresse subito alla caraffa di
caffè vicino al forno a microonde. Offrì una
tazza di caffè al suo
ospite, ma questo rifiutò. Dopo essersene versata una dose
abbondante, si sedette di fronte all'altro Cavaliere e si mise in
ascolto.
“Sentiamo,
cosa dovrei fare? Sempre che la tua cara allieva me lo
permetta”
Aphrodite
si passò una mano tra i voluminosi capelli chiari e
sospirò, quindi
passò la lettera che aveva in mano a Milo. Questi
iniziò a leggerla
distrattamente, ma scorrendo le parole si fece sempre più
interessato.
“Chi
è Eirene?” domandò alla fine, sempre
con gli occhi sulla lettera.
“Non
ne ho idea, la mamma di quella Georgia penso”
“Sì,
certo! È la lettera di cui mi ha parlato Georgia”
rammentò Milo,
illuminandosi. Pian piano la consapevolezza si fece strada nella sua
mente e lo sguardo passò dal foglio che aveva in mano
all'uomo di
fronte a lui.
“Glielo
hai tenuto nascosto”
Ad
Aphrodite sembrò quasi che Milo avesse usato lo stesso tono
con cui
Psiche gli si era rivolta una volta entrato nella stanza. Non
poté
fare altro che annuire mestamente.
“Quando
l'ha trovata?” domandò lo Scorpione.
“Dieci
minuti fa, secondo più, secondo meno”. Aphrodite
iniziò a
raccontare dell'acceso litigio che c'era stato tra lui e la sua ex
allieva e delle accuse che Psiche gli aveva rivolto. Era la prima
volta che si apriva con Milo, non avevano mai avuto molto da spartire
e spesso, quando erano ancora ragazzine, era stato vittima degli
scherzi e delle battute dello Scorpione. In quel momento,
però, era
l'unico in grado di capirlo e di aiutarlo.
“Sarà
stata semplicemente stanca. Ieri sera non è stata una serata
tranquilla, abbiamo incontrato Georgia...
sì, proprio quella
della lettera” Milo sollevò il foglio di carta
“E tutto
l'insieme l'ha fatta sbottare un po' troppo”
“Ma
ha ragione, Milo! Io le ho rovinato la vita, le ho tolto tutto, l'ho
tolta da tutto... solo per farla stare con me, per farla diventare
come me” spiegò Aphrodite con enfasi.
“Le ho solo fatto del
male”
“Beh,
io non so molto del vostro rapporto, sinceramente”
confessò Milo.
“Ma sono quasi sicuro che Psiche ti sia affezionata e ti
rispetti
come sempre e che questo sia solo un momento, sai, tipo crisi
adolescenziale”
Aphrodite
si lasciò scappare un mezzo sorriso.
“Ma,
di preciso, cosa volevi da me?” si sentì domandare
subito dopo.
“Non credo solo qualche parola di conforto”
“No,
hai ragione” Aphrodite tornò serio e
puntò i suoi occhi cerulei
su quelli altrettanto azzurri di Milo. “Ho bisogno che tu le
ridia
ciò che io le ho tolto. Sei l'unico in grado di
farlo”
“Può...
darsi, ma non capisco cosa effettivamente tu voglia da me”
ammise
lo Scorpione, sulla difensiva.
“Tu
tieni a Psiche, vero?” domandò Pisces.
“Sì,
certo che tengo a lei”
“Allora
saprai trovare il modo giusto perché torni ad essere la
bambina che
era, prima che le portassi via tutto”
“Ma...
Aphrodite!” protestò Milo, nella speranza che
bastasse a fermare
l'altro Cavaliere, che nel frattempo si era alzato e si era
incamminato verso l'uscita dei suoi alloggi.
Non
provò comunque a fermarlo, sapeva che era tutto inutile.
Finì in un
sorso la tazza di caffè e iniziò a giocherellarci
mentre rifletteva
sugli ultimi avvenimenti e, soprattutto, sull'accorata richiesta del
compagno d'armi che non sapeva minimamente come soddisfare. Un
dettaglio, infatti, sembrava essere sfuggito all'avvenente Cavaliere
dei Pesci: Psiche non sembrava minimamente interessata ad avere a che
fare con lui. Il tam tam di pensieri e riflessioni si fece via via
più frenetico, finché, improvvisamente,
arrivò. L'idea più
assurda e perfetta che gli fosse mai venuta in mente.
Buon pomeriggio!
L'aggiornamento si è fatto attendere per via del delirante
periodo d'esami, ma sono comunque riusciva a ricavarmi un po' di tempo
per buttare giù questo capitolo. Come avrete notato,
è totalmente incentrato su Psiche, in quanto, per proseguire
con la parte di storia che riguarda lei, ho dovuto rivangare alcune
parti fondamentali del suo passato come Sacerdotessa e della sua storia
familiare. Dal prossimo capitolo, comunque, torneranno tutti gli altri
personaggi e le tre storie torneranno - credo - a svilupparsi in
parallelo. Un grazie, come sempre alla mia beta Panenutella, ma anche a
tutte le ragazze del gruppo su facebook, che non si risparmiano mai dal
darmi consigli e pareri :) spero che gradiate questo capitolo.
Buona lettura e a presto!
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Capitolo 15 *** Bambini in fuga ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
14-
Bambini in
fuga
Puntuale
come ogni mattina, l'incubo del baratro giunse a svegliare Ayame
contemporaneamente al bussare alla porta di qualcuno che, poco dopo,
si identificò come Selene.
“Un
momento” biascicò la ragazza con voce impastata,
mentre si passava
una mano sul viso nel tentativo di svegliarsi e di togliere la solita
patina di sudore freddo che andava ad imperlarle la fronte dopo
l'incubo. Si ritrovò con la mano sporca dei mille colori
scelti per
il make-up della sera precedente. Dopo lo scontro verbale con Shion
ed il successivo sfogo, si era gettata a letto senza cambiarsi ne
struccarsi e quello sulla sua mano era il risultato. C'era vivamente
bisogno di una doccia, prima di tutto.
Disse
alla bambina di lasciare la colazione vicino alla porta, si
trascinò
giù dal letto fino in bagno e si abbandonò sotto
il getto caldo
della doccia, in attesa dei suoi sperati effetti benefici.
Le
parole di Shion tornarono a riecheggiarle in mente. Era innegabile,
ormai, che il Gran Sacerdote non fosse entusiasta della sua presenza
lì, ma quell'accanimento nei suoi confronti era
ingiustificato.
Dopotutto, non era colpa sua se si trovava in quelle condizioni e se
il Santuario era il posto più sicuro per la sua
incolumità. Lei
stessa avrebbe evitato con tutto il cuore di lasciare Tokyo e Hyoga,
ma sapeva che non aveva senso mettere a repentaglio la sua stessa
vita per quello che, in confronto a tutto il resto, si risolveva ad
essere un capriccio. Tuttavia sapeva anche che solo Hyoga sarebbe
stato in grado di risollevarle il morale dopo una serata come quella
precedente. Uscì quindi dalla doccia e si preparò
per il solito
appuntamento con Shaka, sulla cui utilità cominciava
seriamente a
dubitare.
Non
degnò di uno sguardo il vassoio della colazione e
cercò, lungo
tutta la discesa verso la Sesta Casa, di togliersi dalla testa i suoi
dubbi sul lavoro che Virgo stava facendo con lei. Conosceva i poteri
del Cavaliere ed era certa che avrebbe percepito le sue incertezze
non appena avesse messo piede all'interno del tempio.
Alla
fine si rivelò uno sforzo inutile, in quanto Shaka non si
trovava
alla Sesta e aveva lasciato alla sua ancella personale il compito di
consegnare ad Ayame il bocciolo di rosa. Demotivata al massimo, la
ragazza proseguì la sua discesa verso Rodorio: forse
là si sarebbe
sentita meno sola.
Non
sarebbe stata una giornata soleggiata come le altre: il cielo era
velato da qualche nube e i raggi del sole passavano a stento, pallidi
e deboli. Ad Ayame sembrò quasi che il clima si fosse
adattato al
suo stato d'animo, che lentamente si stava svuotando di ogni granello
di ottimismo e, contemporaneamente, rassegnando a vivere in quel
limbo in cui era stata catapultata il giorno dell'aggressione.
Qualche
abitante del villaggio la salutò o le rivolse un sorriso,
che lei
cercò di ricambiare con più naturalezza
possibile. Raggiunse la
piccola piazzetta dell'ulivo prima del previsto: ad accezione di
qualche saltuario passante, era deserta.
Ayame
si lasciò cadere sulla panca sotto l'albero e
iniziò a concentrarsi
sul bocciolo tra le sue mani.
Io
sono la dea dell'Amore... Io sono l'Amore... Io sono vita... iniziò
a ripetersi nella mente come un mantra, con gli occhi fissi sulla
corolla di petali serrata come il caveau di una banca svizzera.
Io
sono vita... Io sono vita... Io sono vita... Ad
ogni ripetizione la stretta sullo stelo del fiore aumentava sempre di
più, finché questo non cedette del tutto sotto la
pressione delle
sue dita. Il bocciolo si afflosciò davanti ai suoi occhi e,
contemporaneamente, Ayame scivolò lungo lo schienale della
panchina,
la testa infossata tra le spalle e un broncio deluso sul volto.
Nello
stato mentale in cui era quella mattina non pretendeva certo di
ottenere dei risultati, ma quel piccolo incidente le sembrò
un
peggioramento della sua ripresa su tutti i fronti. Il bocciolo che
teneva in mano sembrava tutto fuorchè vivo.
Una
leggera brezza di incanalò tra i vicoli del villaggio,
andando a
scuotere i rami dell'ulivo dietro di lei. Ayame alzò lo
sguardo
verso le fronde dell'albero, ne osservò i movimenti e ne
ascoltò il
fruscio. Quello era il suono di qualcosa di vivo, quello era il
movimento di una creatura vitale, in armonia con ciò che la
circondava, come il vento che l'aveva accarezzata.
Pur
essendo in grado di percepire tutte quelle cose, Ayame non riusciva a
sentirsi parte di esse, né, quindi, a comprenderle. In quel
momento
non si sentiva affatto nella condizione di dare la vita a qualcosa,
perché non sentiva la vita nemmeno in lei. Per quanto si
fosse
sforzata, durante quei giorni al Santuario, di essere la solita,
vitale Ayame, sapeva nel profondo del suo cuore di essere stata solo
una pallida imitazione di quella che era un tempo. Aveva, in questo
modo, mentito agli altri, per far sembrare loro che, in fondo, stava
bene, ma soprattutto, aveva mentito a se stessa pensando di poter
tornare ad essere quella di prima.
Con
la mente persa tra le riflessioni e lo sguardo lontano tra le foglie
dell'albero, Ayame non riuscì a focalizzare in tempo l'oliva
che il
vento aveva fatto staccare da un ramo e che andò a caderle
esattamente al centro della fronte.
“Auch!”
si lamentò portandosi una mano alla testa.
“Stavo
per avvertirti del pericolo, ma l'oliva è stata
più lesta di me”
commentò una voce poco distante, senza celare l'ironia. Poco
dopo
Kanon spuntò dall'ombra di un vicolo e prese ad avanzare
verso Ayame
con passo lento e cadenzato.
La
ragazza si raddrizzò subito sulla panchina e
cercò di non fare caso
al dolore sordo alla fronte.
“Vai
in biblioteca?” domandò al Generale.
“Shion ti ha cortesemente
chiesto di cercare altre informazioni, come al suo solito?”
“Sì,
in effetti” rispose Kanon, serafico, per poi sedersi a fianco
di
Ayame. “Ma non in biblioteca”
La
bionda attese qualche istante che fosse lui a concludere la frase,
cosa che Kanon non sembrava intenzionato a fare.
“E
allora dove?” lo sollecitò quindi.
L'uomo
volse lo sguardo verso di lei e rispose semplicemente “Qui,
da te”
Ayame
spalancò gli occhi dall'incredulità. Shion le era
sempre sembrato
contrario ad ogni contatto, anche minimo, tra Kanon e lei, e poi,
d'improvviso e, soprattutto, dopo uno scambio di pareri tutt'altro
che amichevoli con lei, chiedeva a Kanon di raccogliere la sua
testimonianza diretta.
“Era
per caso ubriaco quando te l'ha detto?” non poteva esserci
altra
spiegazione plausibile, secondo lei.
“No,
perfettamente sobrio. E, fossi in te, la smetterei di fare
dell'ironia su di lui, potrebbe essere controproducente”
Ayame
aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse subito: lo
sguardo di
Kanon non ammetteva repliche a riguardo, tanto meno quelle velenose.
Calò
il silenzio per qualche attimo, quindi Ayame chiese “Allora,
cosa
ti serve sapere?”
“Tutto
quello che sai su tuo fratello, per cominciare”
“Non
molto, purtroppo” rispose la ragazza con poco entusiasmo.
“Quando
è scomparso ero nata da poco. So solo quello che mi ha
raccontato di
lui la Tata”
“E'
comunque qualcosa”
Ayame
sospirò e prese a giocherellare col bocciolo, quindi
iniziò a
raccontare. “È successo poco prima della mia
nascita, stando a
quello che ricordava la Tata. La sera Mikio era un normale e
sorridente bambino di cinque anni, la mattina dopo 'un essere
che
pareva aver visto il lato peggiore dell'inferno'. Testuali
parole. Non sorrideva più, parlava il minimo indispensabile
ed
evitava la compagnia di tutti. Teneva gli infissi della sua camera
completamente serrati e passava le sue giornate al buio.
“Poi
sono nata io. Mikio non ha mai dimostrato molto attaccamento verso di
me, ma, secondo i miei genitori e la Tata, era un atteggiamento
dovuto alla gelosia nei miei confronti e pensavano che, col tempo,
sarebbe passato. Alcune volte, mi disse lei, l'avevano trovato in
piedi davanti alla mia culla a fissarmi mentre dormivo. Quando si
accorgeva di essere osservato, però, usciva velocemente
dalla mia
stanza per tornare nella sua”
Contemporaneamente
al racconto, Ayame provò ad immaginarsi tutti quei pochi
episodi che
riguardavano suo fratello, finché, veloce come un lampo, non
comparve un ricordo, nitido come se fosse accaduto meno di un minuto
prima.
Mikio
era davanti alla sua culla. Lei era sveglia e piangeva, spaventata.
Fuori c'era il temporale e il cielo era squarciato dai fulmini.
Suo
fratello aveva uno sguardo per niente rassicurante, di sicuro non era
lì per tranquillizzarla.
Un
lampo. La lama di un tagliacarte levata sopra di lei. L'ombra di due
gigantesche ali proiettata contro il muro. Il suo vagito coperto dal
fragore del tuono. Vetri rotti, un vento freddo e gocce di pioggia
sulla pelle.
“...
Ayame!” la richiamò Kanon, scuotendola per la
spalla. La ragazza
tornò in sé, nemmeno si era accorta di essersi
estraniata dalla
realtà. Guardò il Generale, che sembrava
preoccupato.
“Poi
è scomparso” continuò a raccontare lei,
come se niente fosse
successo. “Una mattina la Tata ha trovato la sua stanza
vuota,
perfettamente in ordine e con le finestre spalancate. Da allora non
ne abbiamo più saputo niente”
Mentre
parlava il suo cuore si era calmato e il suo respiro era tornato
regolare, ma le immagini di quel redivivo ricordo seguitavano a
saettarle nella mente.
“Fino
al giorno della tua aggressione” concluse Kanon.
Seconda
aggressione
precisò
automaticamente lei nella sua mente, ma frenò in tempo la
sua
lingua. Per qualche strano motivo, non riusciva a parlare di
quell'episodio, rimasto sopito nella sua mente per tutti quegli anni.
Si
limitò ad annuire, quindi attese che Kanon le chiedesse
qualcos'altro.
“Cos'è
successo quella sera?”
“Avevo
notato che Saori era strana, sembrava in pensiero per qualcosa. Poi
l'ho vista dirigersi verso l'uscita del salone. Non appena ha aperto
la porta sono stata percorsa da un brivido gelido e sapevo
perfettamente che proveniva dal corridoio che Saori aveva appena
imboccato, così come sentivo che dovevo intervenire. Ho
attraversato
il salone a tutta velocità e, una volta nel corridoio, ho
visto
subito quegli occhi di ghiaccio incombere su Saori. Ho capito subito
che era Mikio, avevo visto così tante volte l'ultima foto in
cui
c'era anche lui che sarebbe stato impossibile confondersi.
Poi
ha spalancato le ali ed è planato su Saori. In qualche modo
sono
riuscita a mettermi in mezzo. Dopodichè ricordo solo di aver
sentito
una puntura sul braccio, seguita da una sensazione di mancanza
d'aria. Poi è diventato tutto buio e... ho perso i
sensi”
Rivivere
quel momento alla luce di ciò che la sua mente aveva
riportato alla
luce fu, per Ayame, ancora più doloroso. Durante la
narrazione le
sue braccia si erano strette istintivamente attorno al ventre,
nell'inutile tentativo di lenire quella dolorosa sensazione di vuoto
che, da quella tragica sera, l'accompagnava.
Dal
canto suo, Kanon si era accorto del malessere della ragazza e se ne
sentiva in parte responsabile. Era tuttavia consapevole che il suo
lavoro sarebbe, forse, servito ad aiutarla a stare meglio, e questo
alleggeriva di non poco il suo cuore già oppresso dal
passato.
“Perché
ti stringi la pancia il quel modo?” non potè,
però, fare a meno
di domandare: non era la prima volta, infatti, che notava
quell'atteggiamento.
Ayame
volse prima lo sguardo verso di lui e, successivamente, alle sue
braccia, la cui presa si allentò, seppur di poco.
“Perché
spero mi faccia stare meglio, anche se so che non serve a niente.
Afrodite non tornerà e di lei non mi resterà che
questo vuoto
incolmabile” spiegò con una spontaneità
che sorprese anche lei.
Non era, però, sicura, che il Generale avesse capito, a
giudicare
dalla sua espressione corrucciata. Quando fece per spiegarsi meglio,
l'uomo distolse lo sguardo da lei e le prese il bocciolo martoriato
dalla mano per studiarlo con attenzione.
“Parli
di lei in terza persona” constatò dopo qualche
istante. “Di
Afrodite, intendo”
“Sì,
e allora?”
“Allora
conviene che ti abitui a questo malessere” rispose lui,
brusco.
“Senti,
se avessi voluto un'ulteriore spinta dentro il mare di melma in cui
mi trovo, sarei andata da DeathMask, perciò se non hai altro
da
domandarmi...”
“Non
hai capito nulla, zuccona” la rimproverò Kanon.
“Zuccona?
Come ti...?” riprese a protestare Ayame, per poi bloccarsi
quando
Kanon le fece penzolare davanti il bocciolo di rosa.
“Quello
che volevo dirti è che non riuscirai mai a tornare quella di
un
tempo, se non lo vuoi” le spiegò.
“Certo
che lo voglio!”
“No,
non lo vuoi veramente. Continui a pensare ad
Afrodite come ad
una persona diversa da te, tu stessa me l'hai confidato ieri sera.
Questo vuol dire che, in fondo, non desideri che torni a fare parte
di te. Io non ne conosco i motivi, non sono affari miei, ma sappi
che, con questa inclinazione, i boccioli finiranno con l'appassire
tra le tue dita, invece che crescere”
Kanon
le rimise in mano il fiore e si alzò. “Grazie per
le informazioni,
comunque”
Non
ricevette risposta. Il Generale s'incamminò verso la via da
cui era
giunto, lasciandosi alle spalle un'Ayame in preda ai dubbi e alle
elucubrazioni. Forse era stato un po' brusco, ma sapeva di esserle
stato, in qualche modo, d'aiuto.
Camus
si svegliò in preda ad un tremendo mal di testa. Non era
stata una
grande idea accettare l'invito di Shura a bere qualcosa, la sera
prima, ma non era riuscito a rifiutare. Anzi, per la verità,
non era
riuscito proprio a spiccicare parola, nello stato confusionale in cui
si trovava.
Non
era da lui perdere la lucidità per così poco. Si
era allenato anni
e anni allo scopo di rinchiudere i sentimenti dentro una corazza di
ghiaccio proprio per evitare che questi gli facessero abbassare la
guardia, come era successo la sera prima.
Sempre
freddo ed equilibrato, non si era mai dato all'eccesso nemmeno nel
bere, che comunque gli piaceva. Quando, però, si era
ritrovato a
parlare con Shura di Galatea, a pensare ai suoi occhi caldi, ad
immaginarsi il suo viso dolce, ogni corazza era crollata e non c'era
stato freno inibitore alcuno in grado di fermarlo. I bicchieri si
erano svuotati sotto i suoi occhi ad una velocità
impensabile, ma lì
per lì non gli era importato. Ad ogni sorso un nuovo cruccio
veniva
a galla ed usciva dalla sua bocca come un fiume in piena.
Chissà
cosa aveva pensato Shura nel vederlo così, sbronzo e
innamorato come
non lo era mai stato.
Qualcuno
bussò alla porta, non dandogli tempo di scervellarcisi
troppo su.
L'ospite
entrò senza attendere l'avanti.
“Vedo
che non sono l'unico che ogni tanto si caccia a letto
vestito”
constatò Milo, mentre prendeva la sedia della scrivania e ci
si
sedeva sopra al contrario.
“Nemmeno
tu hai una bella cera” ribattè Camus.
“Sì,
ma in confronto a te sono un fiore, bello mio. Ti ha fatto sbronzare
per bene il Capricorno, eh? Così la prossima volta impari,
prima di
spifferare le tue pene d'amore al primo che incontri”
“Shhhhh!
Abbassa la voce! Vuoi che Galatea senta tutto?” gli
intimò
Aquarius, mentre si alzava per andare a chiudere la porta.
“Conoscendoti,
sarebbe l'unico modo per farglielo sapere”
sottolineò Milo.
“Ma
tu come fai a saperlo?” indagò Camus, tornando a
stendersi sul
letto.
“Me
l'ha detto Shura, è ovvio. Dovevi essere proprio disperato,
ieri
sera, per farti fuori tutta una bottiglia di sangria da solo”
“Ehi,
se hai attraversato due Case solo per prendermi in giro, puoi pure
tornartene al tuo tempio”
“No,
signor Permaloso, sono venuto qui per chiederti un'altra
cosa” Milo
si avvicinò ulteriormente al letto dell'amico e lo
guardò con fare
cospiratorio. “Dovresti accompagnarmi ad Atene e poi, forse e
soprattutto, da DeathMask”
“E
perché dovrei?”
“Perchè
sei il mio migliore amico” rispose Scorpio, come se fosse una
cosa
ovvia.
“E
allora?”
“Allora
non voglio andare da solo in casa di quel beccamorto! Lo sai che mi
inquieta”
Camus
sbuffò sonoramente. “Sei maggiorenne, vaccinato e
perfettamente in
grado di difenderti. La mia presenza non è assolutamente
necessaria,
ergo, io non vengo”
Per
enfatizzare ulteriormente la sua presa di posizione, il ragazzo si
mise il cuscino sulla faccia.
“E
va bene. Io non volevo farlo, ma... GALATEA! Vieni un attimo, per
favore?” urlò a squarciagola Milo, ricevendo
immediatamente il
cuscino di Camus in faccia.
“Ma
che diavolo ti salta in mente! Sei impazzito?”
sibilò Camus, di
nuovo in piedi e con tutti i sensi all'erta per captare ogni minimo
suono o movimento che indicasse l'arrivo della ragazza.
“Allora
vieni?” domandò Scorpio, ammiccando.
Camus
serrò pugni e mascella per trattenersi dall'usare l'amico
come
punging-ball. Si diresse quindi a grandi falcate verso l'armadio,
sputando uno “Stronzo” in direzione di Milo, e
prese il cambio
per uscire.
“Sai,
se Galatea fosse stata in casa, probabilmente ti avrei fatto un
favore” gli rivelò il greco, dopo essersi alzato e
una volta sulla
soglia della stanza.
“In
che senso 'se fosse stata in'... aspetta un attimo... era tutto un
bluff!” realizzò Camus.
“Amico,
sei proprio disperato. Ti aspetto fuori, ok?”
Dopo
lo scambio di opinioni con Kanon, la testa di Ayame si era riempita
di tutti i dubbi possibili. Fino a poco prima, le poche certezze che
le erano rimaste dopo l'incidente erano state gli appigli a cui se
era aggrappata per iniziare la ripida scalata verso la riacquisizione
delle sue capacità. Al Generale, però, erano
bastate poche parole
per farle crollare, e con esse le sue già poche speranze di
ritornare ad essere Afrodite.
Se
era stato così facile smontarla, pensò Ayame,
forse Kanon aveva
ragione e lei non era veramente convinta di voler
tornare ad
essere una dea reincarnata. Perché? Per quale motivo il suo
inconscio voleva impedirle di riprendersi? Come Afrodite, a parte i
primi tempi, era riuscita a fare grandi cose, prima fra tutte la
sconfitta di Efesto. I suoi poteri sarebbero tornati sicuramente
utili anche nella probabile lotta contro i nuovi nemici,
perciò
perché una parte del suo essere si rifiutava di tornare ad
essere
Afrodite?
“Accidenti
a me!” esclamò, al culmine della frustrazione,
alzandosi di scatto
dalla panchina e gettando lontano il bocciolo di rosa martoriato.
Che
delusione che si era rivelata essere! Per Shaka, che si era preso la
responsabilità della sua rinascita; per Psiche e Galatea,
che la
vedevano come qualcosa che non era più; per Hyoga, che
l'aveva
lasciata partire con la speranza di vederla tornare di nuovo quella
di un tempo; per lei stessa, che si era creduta in grado di poter
essere qualcosa che non è.
Ayame,
infatti, non era una dea, non si sentiva una dea, non era un ruolo
adatto a lei. Lei, così diversa dalla composta e matura
Saori, non
si sentiva adatta ad assumersi la responsabilità dei poteri
di una
dea: questa era la verità. In passato aveva rischiato di
usare male
le sue potenzialità, per colpa della sua inesperienza, e la
tragedia
era stata sfiorata per un soffio.
Per
quanto sentisse la mancanza della sua parte divina, non si sentiva
ancora pronta a gestirla, come non si sentiva pronta a rinunciare a
tutto quello che il mondo reale aveva ancora da
offrirle.
Sollevò
lo sguardo verso le Dodici Case, simboli di un universo di cui non
riusciva ad essere ancora parte, come aveva detto a Kanon la sera
prima. Anche sforzandosi, non riusciva a pensare a se stessa come
alla dea Afrodite, ma semplicemente come ad Ayame Kobayashi, il cui
posto era fuori dalla porta della bottega del fioraio, in mezzo alla
gente normale a vivere una vita normale.
Il
fatto che tutte le persone a lei care appartenessero all'altro
mondo non faceva che complicare le cose.
Arresasi
all'evidenza che, per quel giorno, non sarebbe stata in grado di
combinare nulla, Ayame raccolse il bocciolo e si avviò verso
il
centro di Rodorio, unico scorcio di normalità in
quell'angolo di
Terra dove il tempo sembrava essersi fermato e le leggi della fisica
sovvertite.
Era
quasi arrivata nella piazza principale del villaggio quando un
agitato clamore la riscosse dai suoi grigi pensieri. Una piccola
folla si era radunata attorno a qualcuno a cui sembrava essere
successo qualcosa di grave. Incuriosita, Ayame mosse qualche passo
verso il capannello di gente, ma un'ombra rapida le passò
davanti e
si fece largo tra le persone. Kanon raggiunse la ragazza in mezzo al
cerchio di gente, che Ayame riconobbe come una delle educatrici
dell'orfanotrofio, e le chiese di spiegargli cosa fosse successo.
“Un
bambino è scappato dall'orfanotrofio dopo un litigio coi
compagni.
Ho provato ad inseguirlo ma l'ho perso di vista tra i vicoli”
spiegò concitata l'educatrice.
“Chi
è il bambino?” domandò allora Kanon.
“Proteo...”
“Proteo?”
ripetè istintivamente Ayame, attirando l'attenzione degli
altri due.
Kanon
tornò subito dopo ad interrogare l'educatrice, che sembrava
notevolmente in soggezione di fronte alla sua figura imponente.
“Descrivimelo
brevemente” le ordinò. La ragazza
arretrò di un passo e iniziò a
balbettare parole appena udibili.
Vedendo
che il Generale stava iniziando a spazientirsi, Ayame corse in
soccorso dell'educatrice.
“Ha
otto anni, ma sembra più grande”
iniziò. “Capelli castani,
mossi e un po' lunghi, e occhi azzurri. È magrolino, ma mi
è
sembrato abbastanza agile...”
Mentre
Ayame descriveva Proteo, l'educatrice annuiva ad ogni sua parola,
sollevata dall'onere di dover rivolgere la parola a Kanon, il cui
sguardo viaggiava da lei alla bionda.
“D'accordo,
più o meno ho capito. Dove pensi che sia andato?”
domandò ancora
il Generale.
“N-non
lo so” pigolò la ragazza. “È
saltato fuori dalla finestra,
quando sono entrata nella sua stanza era spalancata...”
“Potremmo
chiedere al fioraio” si azzardò a proporre Ayame,
ricaptando
l'attenzione di Kanon. “Se lui non l'ha visto passare allora
potremo limitare le ricerche a Rodorio”
“Sì,
sperando che così sia” acconsentì
l'uomo, mentre si incamminava a
passo svelto verso la bottega, seguito dall'educatrice e da Ayame,
anch'ella preoccupata per il bambino.
Quando,
però, descrissero al fioraio la fisionomia di Proteo, questi
si
ricordò subito del bambino.
“È
passato di qui non più di qualche minuto fa. Sembrava di
fretta ed
ha urtato in malo modo quasi tutti i clienti che c'erano in
bottega”
Alcuni
di essi confermarono la versione del negoziante, dimostrando anche
una certa irritazione per il comportamento del bambino.
L'educatrice
prese ad iperventilare dall'agitazione e per poco non svenne ai piedi
del bancone. Ayame la sorresse e la fece sedere su uno sgabello che
la moglie del fioraio le mise prontamente sotto il sedere.
“Lo
troveremo, stai tranquilla” cercò di rassicurarla
la bionda.
“In
mezzo ad Atene?” obiettò Kanon, burbero.
“Sarebbe più facile
trovare un ago in un pagliaio”
Ayame
gli lanciò un'occhiata contrariata. “Faremo
comunque del nostro
meglio per trovarlo” rimarcò, cercando di essere
il più
convincente possibile.
“Tu
non farai proprio un bel niente, visti i tuoi precedenti. Vado io a
cercarlo” concluse il Generale, già avviato verso
l'uscita del
negozio che dava verso la città.
Tuttavia
Ayame era convinta che quattro occhi fossero meglio di due,
soprattutto in una città grande come Atene,
perciò lasciò
l'educatrice alle cure della fioraia e corse dietro a Kanon.
Nonostante l'uomo l'avesse già distanziata di molto,
riuscì a
scorgerlo tra la folla grazie alla sua notevole altezza e,
soprattutto, agli sguardi ammirati che le donne gli rivolgevano al
suo passaggio e che faticavano a staccarsi dalla sua imponente
figura.
Poco
dopo il Generale si fermò ed iniziò a far vagare
lo sguardo in
tutte le direzioni. Ayame ebbe così il tempo di raggiungerlo.
“Se
non chiedi informazioni, sarà difficile trovarlo in mezzo
all'Acropoli” gli fece notare, una volta affiancataglisi.
“Mi
sembrava di averti detto di non venire” le fece notare Kanon,
visibilmente contrariato.
“E
a me sembri un po' in difficoltà, Sherlock. E se continuiamo
a
discutere, perdiamo solo tempo”
“Per
caso hai qualche idea geniale, divinità da
strapazzo?” le domandò
lui, provocatorio.
“No,
ma questo non ti da il diritto di chiamarmi 'divinità da
strapazzo',
chiaro?”
“È
chiaro che qui mi sei solo d'intralcio, pseudo-Watson,
perciò torna
al Tempio, ora!”
“Grrrr!
Sei quasi scorbutico quanto Proteo, lo sai?”
ringhiò Ayame, prima
di illuminarsi. “Ci sono!” Si battè
sorridente un pugno sul
palmo della mano. Kanon la guardò incuriosito.
“Se
ti trovassi in una situazione del genere, dove scapperesti?”
gli
domandò la bionda, lasciandolo non poco perplesso.
“Scusa,
ma questo che c'entra?”
“Per
quel poco che vi conosco, tu e Proteo avete più o meno lo
stesso
carattere, perciò è presumibile che vi
comportereste allo stesso
modo, no?” spiegò Ayame, come se fosse ovvio.
“È
la deduzione più campata per aria che abbia mai sentito e mi
stai
facendo perdere tempo” commentò il Generale,
spazientito.
“Hai
un'idea migliore, per caso?” domandò irritata la
ragazza.
“Ma
certo! Ce l'ho sempre avuta” Kanon puntò il dito
verso una strada
traversa. “Ho visto il ragazzino imboccare quella via poco
dopo che
sei arrivata e, nonostante le tue chiacchiere, sono riuscito a non
perderlo d'occhio un istante...maledizione!”
“Cosa?”
chiese allarmata Ayame, ma il Generale non le diede risposta e si
diresse veloce verso la strada che aveva indicato poco prima. Invece
di inoltrarcisi dentro, però, con agili balzi raggiunse i
balconi
del primo edificio che la delimitava, tra le esclamazioni della
gente, e iniziò a correre lungo balaustre e cornicioni.
La
ragazza dovette, invece, inoltrarsi tra la gente, faticando non poco
a stare dietro a Kanon, unico suo punto di riferimento dal momento
che non era riuscita a scorgere Proteo né tanto meno a
capire cosa
gli fosse successo.
“Guardate
quell'uomo!”
“Ma
che cosa vuol fare?”
“È
impazzito!”
Le
esclamazioni dei passanti continuavano a sovrapporsi a mille altri
commenti, uno dei quali attirò subito la sua attenzione.
“Se
cominciano a rubare quando sono così piccoli,
chissà dove andremo a
finire!” stava pontificando un'anziana signora, circondata da
un
gruppo di comari. “Spero che la polizia riesca ad acciuffare
quel
piccolo demonio e a dargli la punizione che si merita...”
Non
riuscì a sentire il resto della filippica, non poteva
permettersi di
rallentare e perdere di vista Kanon, ma era quasi certa che la donna
si stesse riferendo proprio a Proteo e a qualche sua malefatta.
Il
Generale, davanti e sopra di lei, aveva quasi raggiunto la fine della
via, dove questa si immetteva in una delle arterie principali della
viabilità ateniese. Alle voci della gente si stavano
sovrapponendo i
rumori della strada, ma su tutti, improvvisamente, si impose un urlo
allarmato.
“No,
fermo! ATTENTO!”
Seguirono
la strombazzata di un clacson e lo stridore di una lunga frenata.
Ayame
sollevò lo sguardo, ma di Kanon neanche l'ombra. Si fece
allora
largo tra la folla accalcatasi allo sbocco della strada,
finché non
riuscì ad emergerne. Dall'altra parte dell'attraversamento,
uno
spaventatissimo Proteo si stringeva convulsamente al petto di Kanon.
La
ragazza tirò un sospiro di sollievo e approfittò
del fatto che il
traffico si fosse momentaneamente fermato per attraversare la strada
e raggiungere gli altri due.
Vide
Kanon sincerarsi delle condizioni del bambino. Quando Proteo
alzò lo
sguardo ed incrociò quello del Generale, ad Ayame
sembrò di essere
investita da una folata di vento caldo. Il suo corpo venne percorso
interamente da un potente formicolio e i visceri le si torsero in
pancia, dandole una sensazione piacevole e fastidiosa allo stesso
tempo. La marea di sensazioni l'aveva, però, costretta a
fermarsi in
mezzo alla corsia tornata funzionante.
Un
automobilista in arrivo, troppo lanciato per potersi fermare in
tempo, cercò di risvegliarla a suon di clacson, ma Ayame non
si
mosse. Provò allora a frenare, prontò
all'impatto, che non avvenne.
Quanto
alla ragazza, non si accorse né dei richiami della gente,
né di
quelli dell'autista. Si riprese solamente quando qualcuno la
sbattè
violentemente con la schiena contro un muro. Non appena
sollevò il
capo, incontrò gli occhi ametista e fiammeggianti di Shion.
Buona sera e Buona Pasqua!
Nonostante i soliti impegni di studio, sono riuscita a stendere il
nuovo capitolo, che spero sia di vostro gradimento :) non mi
perdo troppo in chiacchiere, attenderò i vostri pareri e,
nel caso, risponderò ai vostri dubbi. Ringrazio sempre la
mia beta Panenutella, la quale ha trovato un congiuntivo sbagliato che
io, forse a causa dell'ora tarda, non sono riuscita ad identificare:
sarò felice di correggerlo qualora qualcuno me lo segnali :)
Buona lettura e a presto!
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Capitolo 16 *** Gioco di ruoli ***
Babylon
(seguito di "A Divine Love")
15
– Gioco di
ruoli
Un
silenzio surreale imperava lungo tutta la strada, normalmente abitata
dal frastuono del traffico e adesso solo percorsa da un sommesso
brusio.
Non
era roba di tutti i giorni, infatti, assistere all'inseguimento di un
piccolo ladruncolo non solo da parte delle forze dell'ordine, ma
persino da un uomo in grado di correre lungo sottilissimi cornicioni
senza la minima difficoltà. A tutto questo erano, poi,
seguiti due
incidenti miracolosamente evitati, che avevano ulteriormente
contribuito a catalizzare l'attenzione dei passanti.
Tutto
questo, però, a Kanon faceva tutt'altro che piacere. Non era
tipo da
stare sotto i riflettori e il ruolo di eroe urbano
non gli calzava bene. Tuttavia non riusciva a scrollarsi di dosso il
bambino, ancora scosso e tremante dopo il salvataggio.
La
situazione più critica era, però, quella in cui
si trovava Ayame.
Lo sguardo fiammeggiante di Shion la teneva inchiodata al muro e la
rendeva incapace di abbassare gli occhi o, eventualmente, di
rivolgerli altrove.
Il
volto del Gran Sacerdote era inespressivo e, all'apparenza,
imperturbabile. Dalle labbra serrate non una parola aveva intenzione
di uscire, rendendo il silenzio ancora più teso. Dal canto
suo, la
ragazza non si osava a proferire nemmeno una sillaba, probabilmente
consapevole di aver sfidato troppo la sorte, nonché la
pazienza del
suo salvatore.
Dopo
momenti che parvero infiniti, Shion distolse lo sguardo da Ayame e lo
rivolse a Kanon.
“Direi
che è ora di tornare tutti a casa”
affermò con fermezza. Lasciò
andare la ragazza e, senza attendere risposta, si incamminò
per
risalire la via da cui lei e Kanon erano venuti.
Ayame
esitò a seguirlo e cercò aiuto nel Generale, che
le intimò di
seguire il Celebrante con un cenno del capo. Kanon si
incamminò
dietro di lei, con Proteo sempre in braccio.
A
metà strada, la silenziosa piccola processione si
fermò.
“Il
bambino deve riconsegnare qualcosa, se non sbaglio”
sentenziò
Shion, senza nemmeno voltarsi.
Ayame
e Kanon guardarono Proteo, che dalla tasca del giacchetto
tirò fuori
un pacchetto di caramelle.
“Ayame,
riconsegnalo al negoziante”
La
ragazza si guardò intorno finché non
individuò il negozio di
caramelle alla loro sinistra. Proteo le consegnò il
pacchetto e la
ragazza eseguì. Il proprietario si riprese la refurtiva e la
rimise
subito a posto nell'ordinato espositore all'esterno del suo negozio,
ringraziando Ayame con un borbottio.
La
ragazza si scusò col negoziante, ma si ripromise mentalmente
che
avrebbe comprato qualche dolciume a Proteo appena ne avesse avuta
l'occasione.
“Possiamo
andare” decretò Shion, per poi riprendere il
cammino. Ayame gli si
accodò rapida e insieme ripartirono verso il Santuario,
sotto lo
sguardo incuriosito dei passanti, per la maggior parte rivolti al
giovane ed autoritario tibetano in testa e all'aitante greco in coda.
Quanto
ad Ayame, per tutto il tragitto il suo sguardo restò
piantato a
terra. Sapeva che c'era una tempesta in arrivo, e anche imponente,
ma, seppur intenzionata a non farsi mettere i piedi in testa, in quel
momento si sentiva in trappola e senza difese, ma soprattutto senza
nulla da ribattere ai rimproveri che Shion le avrebbe rivolto.
Giunsero
ben presto a Rodorio, dove si fermarono di nuovo.
“Kanon,
porta il bambino all'orfanotrofio. Accompagno io Ayame nei suoi
alloggi” ordinò Shion.
“Come
desiderate, eccellenza” rispose prontamente il Generale.
Il
Gran Sacerdote proseguì verso le Dodici Case, ma Ayame,
prima di
seguirlo, lanciò un'occhiata verso Kanon, il quale le
rispose
scuotendo la testa: non poteva aiutarla in alcun modo, ormai.
“Eccoli
qua” disse Georgia, posando i documenti sul tavolino, davanti
a
Milo. Lui e Camus erano scesi fino al suo bar per chiederle
informazioni riguardo al vecchio negozio del padre di Psiche. Sul
motivo del suo interessamento, però, lo Scorpione non si era
sbottonato con nessuno dei due.
“Atto
di proprietà, diritto di successione e
quant'altro” illustrò la
ragazza, sfogliando il plico di carta.
“Che
pensi di fartene di tutta questa roba?” domandò
Camus per
l'ennesima volta, sorseggiando una limonata ghiacciata.
“Scommetto
che non sai nemmeno da che parte cominciare a leggerla”
“Perchè,
tu sì?” ribattè Milo, eludendo
nuovamente la domanda.
“Posso
spiegarti io, se vuoi” si propose Georgia. “Ho un
diploma di
ragioneria e sto studiando giurisprudenza. Per quel che riesco, do
una mano ai miei genitori con la parte burocratica della gestione del
locale”
“Trovata
la soluzione, scettico amico” rimarcò il greco.
Camus
sbuffò e si lasciò andare contro lo schienale
della sedia,
lasciando a Milo l'onere di comprendere ciò che Georgia gli
stava
spiegando e che, per lui, nonostante l'espressione concentrata, era
praticamente arabo.
Ancora
non capiva il motivo di tanto interesse verso quelle scartoffie, e
doveva ammettere che il rigoroso silenzio dell'amico riguardo a
quella strana faccenda lo irritava non poco. Si erano sempre detti
tutto e, dei due, il più riservato era sempre stato Camus:
quell'inversione di ruoli stonava troppo con le loro
personalità.
C'era,
tuttavia, qualcosa in Milo che Camus non aveva mai visto prima di
quella mattina. Nonostante i postumi della sbornia, era riuscito a
notare una luce nuova nei suoi occhi, segno di una determinazione
ancora più grande di quella che Milo aveva sempre dimostrato.
Per
quanto, poi, si ostinasse a comportarsi bonariamente in ogni
occasione, chiunque si sarebbe accorto che Milo era maturato, era
diventato uomo ed era desideroso di dimostrarlo al mondo intero, o,
forse, solo a qualcuno in particolare.
Camus
dovette ammettere a se stesso di invidiare un po' l'amico,
perché
era uno che non faceva mai marcia indietro e non si pentiva delle
proprie scelte. Nemmeno ai tempi della battaglia contro i Cavalieri
di Bronzo, per quanto fosse poi diventato consapevole della menzogna
di cui era stato vittima, insieme alla maggior parte dei loro
compagni, aveva lasciato intendere di provare rimorso per le azioni
compiute per ordine di Saga: era stato convinto di agire in nome
della giustizia e per essa aveva levato la sua mano.
Per
quanto riguardava lui, come Cavaliere Camus sentiva di non avere
nulla da rimproverarsi... ma come uomo?
Erano
state poche le occasioni in cui si era potuto comportare come tale,
forse troppo preso dal suo ruolo si sacro guerriero. Tuttavia, in
quegli ultimi giorni gli era capitato più volte di vivere
delle
situazioni che molti avrebbero definito normali ma che erano comunque
riuscite a spiazzarlo.
L'unica
costante di tutti quei momenti era lei: Galatea. Lei, che normale non
era, era stata la prima ragazza a dormire sotto il suo stesso tetto,
la prima con cui aveva avuto un appuntamento,
la prima che gli aveva donato un dolce bacio sulla guancia.
Camus
si portò istintivamente una mano alla gota. Gli pareva di
percepire
ancora il tocco morbido di Galatea sulla pelle e la magia di
quell'atmosfera in penombra che aveva fatto da sfondo a quella
innocente quanto per lui sconvolgente effusione. Talmente
sconvolgente da portarlo a bere senza ritegno, dando prova di non
essere assolutamente in grado di gestire una situazione normale,
specialmente se di tipo sentimentale.
“Che
c'è? Hai mal di denti?”
La
domanda fuori luogo di Milo lo risvegliò dai suoi pensieri e
gli
fece realizzare perché era realmente invidioso dell'amico:
Milo
avrebbe saputo affrontare la situazione in maniera egregia
semplicemente perché era se stesso. Non aveva mai tentato di
nascondere una parte di sé, era una persona autentica, nel
bene e
nel male.
Camus
no, perché quello era il suo ruolo. Ma forse era giunto il
momento
di interromperlo, questo gioco di ruolo.
“No,
mi sto semplicemente addormentando. E pensare che, a quest'ora, avrei
potuto dormire ancora, se qualcuno
non fosse venuto a svegliarmi”
“Stellina!
La prossima volta ti sveglio con un bacino sulla fronte, come farebbe
la cara Galatea”
“Solo
che tu sei decisamente più brutto”.
Dopo
neanche ventiquattr'ore dal loro ultimo diverbio, Ayame e Shion si
ritrovarono di nuovo faccia a faccia, nella sala del Trono. Il Gran
Sacerdote era fermo davanti al suo scranno e dava le spalle alla
ragazza, in piedi all'inizio della breve scalinata che elevava il
Celebrante sopra il suo uditorio.
Per
quanto fosse consapevole di meritarsi il rimprovero che, di
lì a
poco, Shion le avrebbe rivolto, Ayame non era intenzionata a subirlo
passivamente. Certo, sarebbe stato più semplice obbedire
alle
indicazioni di Shion, se lui non si fosse comportato in modo
eccessivamente autoritario con lei sin dal primo giorno,
guadagnandosi la sua antipatia. Nel profondo Ayame sapeva che il suo
comportamento era infantile, ma era anche consapevole del fatto che
quella che si erano velatamente lanciati al Synagein era stata una
sfida e che come tale andava affrontata.
Shion
si voltò lentamente verso di lei e la studiò
impassibile per alcuni
istanti, prima di rompere il silenzio.
“Cosa
dovrei dirti, secondo te?” le domandò senza dare
un'intonazione
particolare al quesito.
“Volevo
soltanto dare una mano...” provò a giustificarsi
Ayame.
“Come?
Facendoti investire? Un grande aiuto, davvero!”
“No,
non hai capito! Io stavo...”
“Certo,
sono sempre io quello che non capisce, giusto?”
sbottò Shion, che
ormai aveva perso del tutto la pazienza. “Sono sempre io
quello che
ti tiranneggia, che ti controlla a vista, ti impedisce il minimo
movimento. Ma credi che mi diverta a farti da baby-sitter, ragazzina?
Rischi il collo uno giorno dopo l'altro e sembra quasi tu stia
cercando di mandare la nostra missione a rotoli!”
“Se
la tua missione è così importante, nessuno ti
chiede di perdere del
tempo con me” ribattè Ayame a tono.
“Non
è solo a me che stai facendo perdere tempo, mia cara. Stai
impegnando Shaka più del dovuto. Il suo aiuto è
più prezioso di
quello di chiunque altro qui dentro, ma sembra che a te non importi,
che quello che sta cercando di insegnarti sia superfluo”
“Ma
tu che ne sai? Non sai niente di me e di quello che sto
passando”
“Esatto!
Non ne so niente e non ne voglio sapere niente! Di te, di Afrodite e
di tutto il resto!”
Shion
le era arrivato ad un palmo dal naso e la sovrastava in tutta la sua
imponenza. “Io sono il Gran Sacerdote di Atena. Servo lei e
nessun
altro, Afrodite”
sputò
l'ultima parole come se fosse veleno di serpente appena succhiato via
da una ferita.
Ayame
lo guardava con tanto d'occhi, ammutolita. Non era quella la reazione
che si aspettava da Shion, né pensava che si sarebbe sentita
così
costernata dopo la sua ramanzina.
“E
ora fuori di qui” sibilò il Celebrante, per poi
darle le spalle e
risalire verso il suo seggio.
Ayame
corse via appena Shion si fu voltato. Questa volta avrebbe seguito il
suo ordine. Sarebbe uscita dalla Sala del Trono, e non solo da
quella.
Entrò
come una furia nella stanza e prese a riempire il suo borsone, ancora
mezzo pieno, con tutto ciò che gli capitava a tiro.
In
breve la sacca fu ricolma. Ayame richiuse con malagrazia la zip e si
precipitò fuori in corridoio, per il momento con un'unica
direzione
in testa: via dal Santuario.
Uscì
dalla Tredicesima col sole di mezzogiorno a picco sulla sua testa,
trascinando il pesante borsone per la tracolla, incurante dei danni
che quel gesto provocava al tessuto della borsa.
Molte
altre cose più importanti le erano indifferenti in quel
momento,
prima fra tutte la sua incolumità.
Stava
scappando dall'unico luogo sulla Terra che le garantiva una completa
protezione e che, come tutti i luoghi che promettono protezione, alla
fine si era rivelato più una prigione che altro. E poi c'era
un
altro posto in cui poteva essere al sicuro, per giunta in compagnia
di persone conosciute, che sapeva che le volevano bene.
Decise
che sarebbe tornata a Tokyo, in un modo o nell'altro. Da Saori, dalle
sue Sacerdotesse, da Hyoga. Come ulteriore incentivo a continuare la
sua discesa verso Atene, le parole di Shion le riecheggiarono in
mente.
“Non
voglio più saperne! Di te, di Afrodite, di nulla!! Io servo
Atena e
nessun altro! ”
Sentì
le lacrime pungerle agli angoli degli occhi. Era stanca di piangere,
stanca di sentirsi debole. Le parole del Gran Sacerdote avevano avuto
il potere di ferirla nel profondo, di non lasciarle diritto di
replica, di farla sentire una nullità. Andò
comunque avanti,
nonostante la vista annebbiata, finché il peso che si
portava dietro
non venne a mancare all'improvviso e rischiò di cadere in
avanti
sulla scalinata.
Ayame
si voltò a guardare cosa era successo. La tracolla della
borsa si
era staccata e la sacca stessa non era in ottime condizioni. Strappi
di varie dimensioni si aprivano nel tessuto.
Bastarono
quelle piccole cose a farle comprendere l'assurdità dal suo
gesto.
Il denaro per un biglietto aereo non le mancava, ma quanto ci
avrebbero messo gli Angeli a venire a sapere della sua fuga? E Tokyo
era molto distante da Atene. Troppo.
Per
orgoglio personale, però, non poteva risalire fino alla
Tredicesima.
Né poteva andare a stare con Psiche o Galatea, i loro
alloggi erano
sempre troppo vicini a Shion e in quel momento era l'ultima persona
che voleva vedere la mattina.
Spaesata,
ferita e affranta, Ayame tirò su rumorosamente col naso e si
accasciò su uno scalino, il moncherino della tracolla ancora
tra le
mani.
Non
sapeva nemmeno a che altezza del Santuario si trovava. Una voce
profonda glielo fece capire immediatamente.
“Siamo
già in partenza?” le chiese Kanon, inespressivo
come al solito.
Stava appoggiato ad una colonna, le mani affondate nelle tasche dei
jeans. Probabilmente era appena tornato dall'orfanotrofio. In
un'altra situazione gli avrebbe chiesto di Proteo, ma al momento i
pensieri di Ayame erano altri.
“Era
il piano originario” ribatté lei laconica,
asciugandosi rapida le
lacrime senza alzare lo sguardo dal ciuffo di fili che una volta
costituivano la cucitura della tracolla.
“Avresti
dovuto metterci meno roba in quella valigia. A quest'ora saresti
già
all'Acropoli a chiamare un taxi”
Ayame
alzò lo sguardo, interdetta. “Parli seriamente o
mi stai prendendo
in giro?”
Kanon
non rispose e andò a sedersi qualche gradino sopra Ayame.
“Non
conosco il motivo della tua tentata fuga, ma non credo ti
convenga”
riprese il Cavaliere, cambiando totalmente discorso.
“Se
è per questo nemmeno io. Per la cronaca, ho discusso
nuovamente con
Shion”
“Posso
saperne il motivo?”
“Perchè
lui è... lui” rispose semplicemente lei, senza
sapere come altro
esprimersi. “Ogni occasione è buona per
rimproverarmi, anche
quando cerco di fare qualcosa di buono. Sembra che ci goda ad
accanirsi contro di me”
“Non
è accanimento, è prudenza” la corresse
Kanon. “Ed è così
prudente perché, beh, tu sei tu”
“Che
vuoi dire con questo, scusa?” domandò Ayame,
corrucciata.
“Niente,
divinità da strapazzo, adesso andiamo”
Il
Generale si alzò e sollevò il borsone lacero per
la maniglia come
se pesasse quanto una piuma.
“Ehi!
Ma che fai?” protestò Ayame, facendo per
riprendersi la sacca.
“Vuoi
dormire sui gradini, stanotte?” suggerì Kanon,
imperturbabile come
sempre.
“Ovviamente
no!”
“Allora
niente storie. Ti prendi la stanza di Saga. Non toccare niente che
non sia o il letto o l'armadio. La colazione è alle sette e
mezza,
un minuto di ritardo significa che non mangi, come non mangerai
pranzo se non ti sbrighi a sistemarti...”
Kanon
andò avanti nel decalogo delle regole della casa per altri
cinque
minuti buoni, mentre guidava Ayame per gli innumerevoli corridoi fino
alla stanza che una volta apparteneva al gemello.
Nel
mentre Ayame valutò la situazione.
Era
in un luogo sicuro? Sì.
Era
abbastanza lontana da Shion da non rischiare spiacevoli incontri
casuali? Sì.
Era
insieme a qualcuno che le voleva bene?
Guardò
di sottecchi Kanon e questi ricambiò con una delle sue
solite
occhiate gelide. Forse, col tempo...
“Si
è fermata alla Terza Casa. Kanon si è offerto di
ospitarla”
comunicò Mu al suo maestro.
Era
salito alla Tredicesima insieme a Shaka. Una volta giunti, Shion
aveva sentito il bisogno di uscire all'aria aperta e si erano
così
spostati sulla scalinata ai piedi della statua di Atena. Il Gran
Sacerdote, lasciato un attimo da parte il suo ruolo, si era tolto i
paramenti ed era rimasto a torso nudo sotto il sole rovente del
mezzodì, seduto su un gradino e con le mani tra i lunghi
capelli
verdi. Alle parole del suo allievo, sollevò lo sguardo.
“Devo
intervenire?” domandò Mu, seppur non troppo
convinto.
Shion
sospirò. Aveva perso il controllo con Ayame, poco prima,
evento
raro, per un uomo con la sua esperienza e saggezza.
La
sua sortita dal Grande Tempio, con tutto quello che ne era
conseguito, era stata l'ultima goccia in un vaso di mille pensieri
vorticanti che erano traboccati a cascata e si erano riversati sulla
prima vittima disponibile. Non era, infatti, solo Ayame ad occupare
la sua mente. Tutta quella situazione assurda e nebulosa non lo
faceva dormire la notte, perché era qualcosa su cui non era
possibile avere controllo, così come non lo era la ragazza.
Ma avere
il controllo di tutto era il suo ruolo, e non
riuscirci, per
Shion, era niente meno che un fallimento.
In
cuor suo, però, dovette ringraziare Kanon per aver evitato
che il
diverbio nato tra lui e Ayame si trasformasse in un disastro totale.
“No.
Va bene così” sentenziò greve Shion,
alzandosi dal suo scomodo
seggio.
“Se
mi consentite di esporre il mio parere, Eccellenza” si
inserì
Shaka, rimasto in silenzio fino a quel momento. “Non poteva
andare
meglio”
Allievo
e maestro lo guardarono con aria interrogativa. Shaka sorrideva
sornione, con lo sguardo serrato rivolto al limpido orizzonte.
“Con
le vostre parole avete lanciato ad Ayame una sfida, mettendo in palio
l'unica cosa che veramente conta per una divinità:
l'orgoglio. Se ci
aggiungiamo i metodi rudi di Kanon, penso che il risultato sia
assicurato” spiegò l'asceta, soddisfatto, mentre
cominciava a
scendere la scalinata.
“Dove
stai andando?” gli domandò Mu, quando Shaka gli
passò accanto.
“A
spiegare a Kanon cosa dovrà fare con Ayame. Il mio compito
con lei è
terminato” fu la sbrigativa spiegazione che Virgo diede.
“Quindi
non ti farai più carico della sua ripresa?” chiese
conferma Shion.
Shaka
si fermò per rispondere al suo superiore. “Esatto,
Eccellenza. Ne
osserverò i progressi da lontano e mi farò
riferire da Kanon ogni
minimo dettaglio del suo lavoro, ma no la seguirò
più di persona.
Non riesco a darle... come dire, gli stimoli giusti”
“Kanon,
invece, sì?” domandò Mu, scettico.
Nonostante fosse stato il
primo a dimostrarsi fiducioso nei confronti del compagno d'armi,
dubitava che fosse in grado di portare a termine un compito arduo
persino per il grande Virgo.
Shaka,
tuttavia, annuì convinto. “Posso anzi affermare
che è l'unico, al
momento, che può veramente fare qualcosa di utile per Ayame.
Lo
dicono anche le stelle”
Dopo
l'ultima sibillina rivelazione, Shaka riprese il suo cammino verso le
Dodici Case. Né Mu né Shion provarono a fermarlo.
L'Ariete sapeva
bene quando bisognava smettere di chiedergli spiegazioni riguardo le
sue frasi criptiche.
Tornò
dal suo maestro, la cui testa spuntò dopo poco dalla veste
sacerdotale che aveva nuovamente indossato.
“Voi
che ne dite, maestro?” gli domandò. Al contrario
di lui, Shion,
per ovvi motivi, aveva faticato a fidarsi del Generale degli Abissi.
“Che
potrebbe avere ragione” rispose lui dopo qualche istante,
sorprendendo l'allievo. “Ad ogni modo, staremo a vedere.
Anzi, tu e
Aldebaran starete a vedere, e mi riferirete qualsiasi cosa possa
essere degna di nota. Sono stato chiaro?”
“Certo,
maestro” acconsentì Mu, senza esitare.
Shion
indossò l'elmo del Gran Sacerdote e si rivolse ancora una
volta
all'Ariete. “Vuoi sapere perché Shaka ha parlato
delle stelle,
vero?”
“Beh,
sì, diciamo che mi è sorta una spontanea
curiosità. Come sempre,
quando parla Shaka” rispose frettolosamente Mu, spiazzato
dalla
domanda del maestro, che ancora una volta gli aveva dimostrato quando
potenti fossero le sue capacità di telecinesi.
“Voleva
semplicemente dire che Ayame è del segno dei Gemelli, ma io
non ho
mai creduto molto a queste cose”.
Salve a tutti, seppur con
immenso ritardo, ma, come ovvio, l'ispirazione viene quando viene, e
ultimamente a me viene pochi giorni prima di un esame, quando, invece
che scrivere, dovrei studiare... ma vabbè! Eccovi il
15° capitolo, un po' più breve rispetto agli altri
ma spero che vi piaccia lo stesso :) ringrazio come sempre la mia beta
Panenutella, senza la quale pubblicherei strafalcioni a non finire,
soprattutto in questo periodo un cui non distinguo la destra dalla
sinistra XD attendo qualsiasi vostro parere, se avrete piacere di
darmelo :)
Buona lettura e a
presto!
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Capitolo 17 *** Missioni impossibili ***
Babylon
(seguito di A Divine
Love)
16 - Missioni
impossibili
“Io
dovrei fare cosa? Dì un po', ho scritto
'balia' in faccia,
per caso?” sbottò Kanon, indicandosi la fronte col
piatto che aveva in mano.
“No,
ma mi ci sembri portato, senza offesa, soprattutto con Ayame”
rispose serafico Shaka, apparentemente divertito dalla situazione.
“Ho
evitato che scappasse di nuovo dal Santuario, le ho dato un letto
su cui dormire rischiando l'ira di mio fratello e adesso vuoi anche che
le
insegni a diventare la bella giardiniera? Non ho fatto già
abbastanza? E
soprattutto, non era compito tuo badare alla sua ripresa?”
obiettò il Generale,
speranzoso di aver colto nel segno. Tuttavia Shaka non si scompose.
“A
quanto pare non riesco a darle gli stimoli giusti per migliorare,
cosa che a te sembra riuscire molto bene invece. Ho accidentalmente
ascoltato
la vostra conversazione di stamattina e le tue parole l'hanno colpita
nel
profondo”
“Volevo
darle un incentivo, è vero, ma questo non fa di me un
maestro
di vita. E poi ho già altro a cui pensare” ammise
con un tono di voce
stranamente diverso dal solito. Gli occhi chiusi di Shaka riuscirono a
vedere
un certo turbamento nel profondo della sua anima, sempre stata
impenetrabile ed
imperturbabile, appunto.
Kanon
tornò a guardare nella sua direzione, quasi si fosse accorto
della piccola indagine di Shaka nel profondo della sua mente. L'asceta
sorrise.
“Non
vedo perché non possiate aiutarvi a vicenda, allora. La
collaborazione è ciò che rende una squadra
vincente”
“Lo
stai dicendo alla persona sbagliata, e lo sai” gli fece
notare il
Generale, ma Shaka non voleva sentir ragioni.
“Invece
penso proprio che tu sia la persona giusta per questo lavoro.
E non lo penso solo io”
“Può
pensarlo anche Atena in persona, io non farò questa cos...
Shaka,
torna qui! Ho detto di no!”
Ma
Shaka era già quasi ai piedi della scalinata che portava
alla Casa
del Cancro, volontariamente sordo alle proteste di Kanon.
“No
per cosa?” domandò Ayame, sbucata fuori dalle
colonne della Terza
Casa. “Quelli non sono i boccioli di rosa che dovrei far
fiorire?” domandò la
ragazza, indicando la scatola che Kanon teneva in mano.
Il
Generale guardò prima lei e poi il contenitore, quindi
lasciò
cadere le braccia lungo i fianchi, rassegnato.
“Sì”
“Perché
ce l'hai tu?”
L'uomo
sospirò. “Perché a quanto pare sei
riuscita a far perdere la
pazienza a Shaka. Congratulazioni, hai vinto un nuovo
baby-sitter” le porse la
scatola con malagrazia, colpendola alla pancia. “E sei in
ritardo per il
pranzo”
“Mi
sono persa. Questo posto è un labirinto!”
“Consiglio
da balia numero uno: disegnarsi una mappa. Questa scusa te
la sei già giocata, non voglio più
sentirla” disse ad Ayame mentre si dirigeva
verso la cucina.
“Shion
era quasi più ospitale” borbottò la
ragazza, prima di seguirlo.
Galatea
corse su per la scalinata marmorea a perdifiato, chiedendo a
malapena il permesso di passare ai custodi dei dodici templi,
finché non
raggiunse l'ultimo. Si prese un attimo per calmare il respiro, quindi
chiamò
Aphrodite per vedere se era presente. Solo
l'eco delle sue parole rimbombate per la grande sala dei
combattimenti
le diedero risposta. La Sacerdotessa si avviò allora verso
gli alloggi privati
del Cavaliere dei Pesci e andò a bussare con frenesia alla
porta di Psiche.
La
compagna le aprì dopo quasi un minuto, e alla vista del suo
volto
pallido, scavato, rigato dal rimmel colato con le lacrime, Galatea
ammutolì.
“Hai
bisogno di qualcosa?” le domandò brusca Psiche,
con voce roca.
“Ma...
che ti è successo?” chiese di rimando la bionda,
visibilmente
preoccupata per la compagna.
“Niente
di cui voglia parlare e per cui voglia essere compatita”
rispose dura, tornando verso il suo letto.
“No,
certo, capisco, io... se posso aiutarti... non adesso, è
chiaro”
balbettò Galatea, rossa in volto e in visibile
difficoltà.
“Se
avrò bisogno, ti cercherò... grazie”
Psiche stirò la bocca in un
forzato sorriso, nella speranza di sembrare un minimo convincente.
“Ad ogni
modo, dovevi dirmi qualcosa di importante?”
Galatea
si ricompose e comunicò all'altra ragazza il motivo per cui
era corsa da lei. “Ayame ha lasciato la Tredicesima, meno di
un'ora fa”
“Che
cosa?”
“Ha
avuto l'ennesimo diverbio con Shion e... se n'è
andata...” Galatea
sembrava essere arrivata al succo della faccenda, ma non riusciva a
trovare le
parole giuste.
“Andata
dove? Via dal Santuario?” Psiche si avvicinò alla
compagna,
allarmata.
“No,
no! Però... Kanon l'ha presa con sé alla Casa dei
Gemelli” disse
tutto d'un fiato la bionda.
Psiche
non attese un istante di più. Prese Galatea per il polso e
la
trascinò giù fino alla Terza.
“Quindi,
ricapitolando: vorresti rimettere in sesto questo posto”
Camus indicò l’ingresso sbarrato del negozio di
fiori davanti a loro.
“Sì”
annuì Milo.
“Per
farlo poi vedere a Psiche” continuò ad elencare il
Cavaliere dell’Acquario.
“Esattamente”
“E
lei sarà talmente impressionata da non poter fare altro che
cedere
ai tuoi corteggiamenti, per dirla in modo elegante”
“Ancora
sì, e non è necessario che tu mi faccia passare
per donnaiolo,
questa volta sono serio”
“Il
tutto, ovviamente, prima che lei se ne torni a Tokyo con la sua
dea”
“Motivo
per cui ho chiesto il tuo aiuto, fratello” Milo
guardò Camus
con occhi supplichevoli.
“Ti
rendi conto che è praticamente impossibile? Insomma, guarda
in che
stato è ridotto!”
“Non
fare il disfattista come tuo solito! Siamo Cavalieri d’Oro,
per
noi niente è impossibile”
“A
me non risulta che la bacchetta magica della Fata Madrina fosse
compresa nell’armatura”
“Senti,
lo so che è una follia” ammise Milo, piazzandosi
davanti a
Camus e poggiandogli le mani sulle spalle “Ma per Psiche vale
la pena anche
solo tentare. Tu non faresti lo stesso per Galatea?”
Camus
spostò lo sguardo dal volto determinato di Milo al rudere
che
era diventato il negozio di fiori e non potè fare a meno di
chiedersi se vi
fosse un’impresa paragonabile a quella che potesse dargli
l’accesso al cuore
della timida Sacerdotessa e quindi risparmiargli tutti quei pensieri
che gli si
stavano annodando nel cervello dalla sera prima. Forse avrebbe dovuto
fare come
Milo, non pensare ed agire, senza soffermarsi troppo sui
perché e i per come.
“So
già che me ne pentirò… va bene, ti
aiuterò in questa pazzia, ma
solo perché senza di me cominceresti dalla fine invece che
dal principio” acconsentì
Camus, scostandosi subito Milo di dosso quando tentò di
abbracciarlo a labbra
protese. “Dai, fammi entrare, vediamo quanto disastrosa
è la situazione”
Ayame
stava raccogliendo i piatti sporchi dal tavolo quando Psiche e
Galatea giunsero alla Terza chiamandola a gran voce. Si era detta che,
per
farsi strada nell’aura tenebrosa del suo nuovo ospite,
avrebbe dovuto
cominciare col presentarsi meglio di come aveva fatto con Shion al suo
arrivo
al Santuario. Tuttavia avrebbe anche dovuto prevedere la reazione delle
sue
Sacerdotesse, dal momento che il loro ruolo era quello di proteggerla e
non
potevano adempiere al loro compito se quanto meno non le informava dei
suoi
spostamenti.
“Arriveranno
sempre urlando come delle pazze quando verranno a
trovarti?” le domandò Kanon, visibilmente
irritato, prendendole le stoviglie
dalle mani.
“Colpa
mia, ho dimenticato di avvisarle del cambio di residenza” si
giustificò la ragazza, quindi uscì e le raggiunse
nel grande atrio della Casa
per tranquillizzarle.
“Eccomi!
Va tutto bene, sarei venuta ad informarvi io stessa dopo
pranzo, Kanon ha delle regole un po’ ferree e… oh!
Ok, forse avrei dovuto farlo
prima”
Psiche
e Galatea le si erano gettate al collo. Ayame le lasciò
fare,
ma quando si sciolsero dall’abbraccio non potè
fare a meno di preoccuparsi per
la Sacerdotessa della Rosa.
“Psi,
hai un aspetto orrendo! Che ti è successo?”
“Nulla
di importante, quel che conta è che tu stia bene”
rispose
brevemente la ragazza, senza però convincere Ayame.
“Sto
bene, solo non sarò la benvenuta ai piani alti per almeno
qualche
secolo, ma che volete che sia” scherzò, riuscendo
a far rilassare Galatea ma
strappando solo un mezzo sorriso a Psiche. “Avanti,
cos’è che ti tormenta,
Psiche? Lo sai che con noi puoi parlare”
“Ho
detto che sto bene!” sbottò la Sacerdotessa,
allontanandosi dalle
due ragazze e avviandosi verso l’uscita che portava alle
scale dirette alla
Seconda Casa.
“Psiche,
aspetta!” la richiamò Ayame, provando a seguirla,
ma una
presa decisa sulla spalla la bloccò.
“Lasciala
andare” le consigliò Kanon. “Ci sono
fantasmi che bisogna
affrontare da soli”
La
ragazza annuì, ma seguì comunque la discesa di
Psiche con lo
sguardo, fin quando non scomparve all’interno della Casa del
Toro.
Ogni
volta che oltrepassava l’ingresso della Seconda Casa,
sembrava
che il mondo e tutte le preoccupazioni che esso portava non
esistessero. Ma non
quella volta. Ciò che era successo quella mattina,
ciò che aveva scoperto, non
poteva essere messo da parte così facilmente, nemmeno con
l’aiuto delle sue
stelle. Aldebaran doveva saperlo, perché lo trovò
nel grande atrio, pronto ad
accoglierla seppur con le braccia conserte, come era sua abitudine.
Tuttavia,
quando incrociò gli occhi perduti della sua protetta, non
poté negarle il
calore del suo abbraccio.
Psiche
pianse lacrime che non credeva di poter ancora versare e al
possente Cavaliere sembrò più piccola del solito,
e soprattutto più fragile,
come non lo era mai stata nemmeno da bambina, quando aveva dovuto
rinunciare a
quello che era ed indossare la maschera delle Sacerdotesse di Atena.
Come allora,
Aldebaran aveva avvertito che ci sarebbe stato bisogno di lui e si era
fatto
trovare pronto, ma Psiche sembrava tutto fuorchè in grado di
parlare, di
spiegare e quindi di farsi aiutare.
Il
grande Cavaliere provò a fare il primo passo.
“È forse il caso che
strappi un pungiglione ad un certo scorpione di mia
conoscenza?”
Psiche
scosse la testa in senso di diniego e provò a calmarsi, con
scarsi risultati, ma sapeva anche lei che prima o poi avrebbe dovuto
parlare di
quello che era successo e se non era Aldebaran, non sarebbe stato
nessun altro.
Si scostò da lui e lo sguardò attraverso il velo
di lacrime che ancora aveva
sugli occhi.
“Ho…
ho ucciso mio padre” confessò, prima di rifugiarsi
nuovamente sul
petto del Cavaliere, che tornò ad abbracciarla, sconvolto
dalla rivelazione ma
convinto che ci fosse una spiegazione plausibile per quella rivelazione
e che,
a suo tempo, Psiche gliel’avrebbe data.
Ben ritrovati!
Non voglio nemmeno pensare a quanto sia durato il mio silenzio, ma
purtroppo esami e laurea prendono un sacco di tempo :(
Tuttavia sono tornata e proverò a portare a termine qualche
storia, o almeno a portarla ancora un po' avanti, incominciando da
questa, a cui tengo particolarmente :)
Capitolo di transizione, giusto per riprendere le fila del discorso e
non scrivere strafalcionate in futuro :P spero abbiate ancora la
pazienza e la voglia di seguirmi, ogni commento o critica è
sempre ben accetto!
Buona lettura!
Martyx
|
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Capitolo 18 *** Rose, spine e veleni ***
Babylon
(seguito di A Divine
Love)
17 - Rose, spine e
veleni
La
Terza Casa aveva uno stile architettonico austero, con una pianta
squadrata a
forma di ferro di cavallo. Due imponenti bassorilievi raffiguranti
Castore e
Polluce accoglievano i visitatori e chiudevano due imponenti colonnati.
Questi
delimitavano due lati dell’ampio cortile antecedente il
pronao d’ingresso del
tempio. Le colonne che sorreggevano l’intera struttura erano
in un semplice
stile dorico, mentre lungo tutta la trabeazione sottostante lo spoglio
timpano
i triglifi si alternavano a metope prive di bassorilievi decorativi.
“Non
hai neanche uno smile adesivo da appicicare… da qualche
parte?” domandò Ayame
continuando a far vagare lo sguardo intorno a sé.
“Casa
mia, arredamento mio. E adesso pensa alla tua rosa”
ribatté sbrigativo Kanon,
quindi tirò un pugno nel vuoto.
“È
tutto così spoglio, così… freddo.
Persino la Casa dell’Acquario è più
accogliente” rimarcò la ragazza, ma il Generale
non sembrò cogliere l’allusione
e proseguì col suo allenamento dicendo semplicemente
“La rosa, adesso”.
“Perché
ti alleni qui quando hai un’arena a tua
disposizione?” chiese ancora Ayame,
riuscendo alla fine a distogliere il guerriero dal suo esercizio.
“Perché
mi è capitata una divinità da strapazzo
addormentata tra capo e collo che
rischiava di passarsi le prossime notti sui gradini del Santuario, la
quale
divinità da strapazzo è talmente addormentata da
aver fatto perdere la pazienza
al suo mentore asceta che stava cercando di risvegliarla, quindi il
mentore
asceta ha deciso di darmi anche l’incombenza
dell’insegnante oltre che del baby
sitter, perciò non posso muovermi da qui fintanto che quel
dannatissimo fiore
non sboccia davanti ai miei occhi. Ci sono altre domande?”
Ayame
scivolò ancora di più lungo la colonna a cui era
appoggiata, incassando la
testa tra le spalle. “Nossignore”
bofonchiò, riportandosi la rosa davanti agli
occhi.
Kanon
sospirò e riprese il suo allenamento, seppur con un
po’ più di amaro in bocca
rispetto al solito. ‘Non ne verremo a capo’
pensò mestamente dopo il primo colpo
a vuoto. In cuor suo il Generale voleva sinceramente aiutare Ayame, non
solo
per ridare un minimo di lustro in più alla sua immagine, ma
anche perché era
semplicemente la cosa giusta da fare. Non era un caso, secondo Kanon,
che la
fuga della ragazza si fosse arrestata proprio sulla soglia della Terza:
qualcosa, che fosse il destino piuttosto che il semplice caso era
irrilevante,
aveva deciso di mettere Ayame sulla sua strada e di affidargli la
missione di
far rinascere Afrodite a nuova vita. Il problema principale era che non
aveva
la minima idea di come riuscirci.
Uno
scalpiccio rapido di piedi lungo la scalinata interruppe i pensieri del
Generale. Poco dopo la chioma scapigliata di Proteo fece capolino. Il
bambino
si fermò, imbarazzato, ad un gradino dalla meta.
“Salve,
signore…” balbettò ciondolando.
Ayame
si avvicinò a Kanon per salutare anche lei Proteo e di nuovo
quella strana
sensazione la permeò. Un caldo formicolio le salì
lungo la spina dorsale e le
avvolse il capo in un piacevole abbraccio, la morsa alla pancia
andò piano
piano a colmarle parte del vuoto che la sua parte divina aveva lasciato.
“Che
ci fai qui?” domandò gelido l’uomo,
arretrando istintivamente di un passo.
“La…
l’istitutrice mi ha detto di venire a… a
ringraziarvi per… per… avermi salvato…
oggi” spiegò incerto Proteo, con lo sguardo basso
e gli occhi che ogni tanto
salivano a sondare il volto di Kanon, che però rimase rigido
e impassibile.
“Sì,
beh vedi che non debba più intervenire, intesi?”
ribattè bruscamente il
Generale, prima di voltare le spalle a Proteo per tornare verso il
tempio. In
quel preciso istante, il calore che aveva permeato Ayame
svanì di colpo.
Il
bambino abbassò ancora di più il capo e scese uno
scalino, sussurrò un
impercettibile “Intesi” e ritornò verso
Rodorio sotto lo sguardo costernato di
Ayame, che subito si precipitò dietro Kanon.
“Avresti
potuto tirargli un pugno in faccia, già che c’eri,
sarebbe stato sicuramente
meno doloroso” gli urlò dietro.
“Non
sono affari tuoi” ribattè gelido il guerriero,
senza nemmeno voltarsi.
“Può
darsi, ma nessuno si merita un trattamento del genere, tantomeno
Proteo. Voleva
semplicemente ringraziarti, dannazione!”
“E
io ho risposto al ringraziamento” Kanon si voltò
ad affrontare Ayame, sul volto
la sua solita espressione marmorea ma negli occhi ardeva una luce
diversa che
alla ragazza non sfuggì. “Io sono così,
Ayame. Sono stato scolpito dalla vita
ad immagine e somiglianza del mio tempio: spoglio, freddo, con un cuore
di
marmo. E in quanto tale esso è freddo anche sotto il sole
più cocente”
L’uomo
gettò via il panno con cui si era asciugato il sudore e
rientrò nella Terza
Casa, lasciando Ayame a rimuginare sulle ultime parole da lui dette. La
ragazza, nel lasciar vagare distrattamente lo sguardo, posò
gli occhi sul
bocciolo di rosa tra le sue mani, che subito andò a studiare
con più
attenzione. Un petalo si era leggermente aperto, allontanandosi dal
resto della
corolla, ancora ermeticamente chiusa. Istintivamente il pensiero di
Ayame andò
all’arrivo di Proteo alla Casa dei Gemelli e alla strana
sensazione da cui era
stata pervasa in quel momento. Un’intuizione si fece largo
nella sua mente.
Volse lo sguardo al pronao, oltre il quale Kanon era sparito pochi
istanti
prima, e riferendosi alle forti parole pronunciate dal Generale,
sussurrò “No,
non è vero”.
Infilato
il bocciolo nella tasca posteriore dei pantaloncini, Ayame si
precipitò giù per
la scalinata, verso Rodorio e l’orfanotrofio, in cerca di
risposte.
“…
si è lasciato morire” singhiozzò
Psiche, rannicchiata sul divano di Aldebaran
mentre gli raccontava quanto aveva scoperto dopo il suo ritorno dalla
festa. Il
Cavaliere del Toro, seduto accanto a lei, aveva ascoltato in paziente
silenzio
fino ad allora.
La
ragazza continuò “Io me ne sono andata e lui si
è lasciato morire. E non ho
potuto fare niente per impedirlo perché quello che si
è sempre spacciato per il
mio maestro mi ha impedito di essergli accanto mentre se ne andava,
nascondendomi la lettera che la mamma di Georgia mi aveva scritto per
avvisarmi. Forse avrei anche potuto salvarlo ma Aphrodite ha ritenuto
mio padre
una vittima sufficientemente sacrificabile per tenersi la sua pupilla
che
nemmeno competeva per un’armatura! Si è portato
questo segreto nella tomba due
volte prima che scoprissi la lettera e ha anche avuto il coraggio di
farmi la
morale. Come può un uomo così essere degno di
un’armatura d’oro?”
Aldebaran
rimase in silenzio qualche istante prima di rispondere. Sapeva di dover
ponderare bene le parole, la situazione che si era creata era a dir
poco
pesante, ma per quanto comprendesse Psiche, poteva immaginare anche le
motivazioni che avevano portato il Cavaliere dei Pesci ad agire in quel
modo.
“Aphrodite
è sempre stato un uomo ambiguo nel suo comportamento. Era
uno dei pochi di noi
a sapere dei piani di Saga quando aveva preso il potere qui al
Santuario,
insieme a Death Mask, e la sua visione della vita e della guerra ha
sempre
avuto un qualcosa di sinistro e al contempo affascinante. Tu lo sai
meglio di
tutti, perché è stato il tuo maestro. Nonostante
tutto, però, l’armatura dei
Pesci non l’ha mai rinnegato, a dimostrazione del fatto che,
nel profondo del
suo cuore, egli è un vero Cavaliere di Atena.
“La
storia del guardiano della Dodicesima dall’alba dei tempi in
due parole:
bellezza e solitudine. Aphrodite è una rosa con molte spine
letali e per tale
motivo non è mai riuscito, da che ricordo, a stringere un
legame sincero con
qualcuno qui al Santuario. Questo finché non ha trovato te,
così simile a lui e
così pura. Credo di non esagerare a dire che in te avesse
trovato una ragione
per andare avanti, una ragione per continuare ad essere un Cavaliere di
Atena. Suppongo
che l’arrivo di quella lettera abbia risvegliato in lui una
tale paura di
perderti da indurlo a nascondertela, cosicché tu non avessi
mai una ragione per
andartene da lui. Aphrodite aveva semplicemente paura di restare solo
di nuovo,
questo non giustifica il suo agire ma penso che sia una ragione
abbastanza
valida per alleggerire, anche se di poco la sua colpa”
“Lo
giustifica ai tuoi occhi, però” sibilò
Psiche dopo qualche attimo di silenzio.
“Sto
provando a capire il suo punto di vista, tutto qui. E vorrei che tu
provassi a
fare altrettanto” specificò Aldebaran in tono
conciliante, pur sapendo che
probabilmente sarebbe stato tutto inutile.
“Vuoi
che io capisca perché il mio maestro ha lasciato che mio
padre morisse senza
più vedermi?” domandò furiosa Psiche,
alzandosi dal divano. “Come puoi anche
solo pensare che possa accettare una cosa del genere? Sono venuta qui
perché credevo
di trovare un amico e un alleato, ma sei esattamente come tutti gli
altri”
“Psiche,
aspetta!” provò a chiamarla il Toro, ma la
Sacerdotessa aveva già preso la via
d’uscita dalla Seconda Casa e nessuna parola
l’avrebbe fermata.
Corse
senza pensare a dove stesse andando, asciugandosi con rabbia le ultime
lacrime
che cadevano dai suoi occhi. Non se le meritavano, Aphrodite,
Aldebaran, Milo,
nessuno di loro. Nemmeno il Santuario stesso, che le aveva succhiato
via la
vita e l’anima, meritava la sua tristezza e la sua rabbia.
Doveva trovare un
posto tranquillo in cui riuscire a riprendere il controllo di se
stessa, in
modo da poter riprenderlo poi anche della sua vita. Era tempo che
tornasse ad
essere la donna indipendente e fiera che era diventata dopo la nomina a
Sacerdotessa di Afrodite, era tempo che la sua dea diventasse
nuovamente il suo
sole, che la sua esistenza tornasse a girare attorno a lei senza
perdere la sua
identità, come le era successo al Santuario per colpa di
più di una persona.
Giunse
alla spiaggia senza ricordare la strada percorsa, ma le
sembrò il luogo adatto
a riacquistare la pace interiore di cui aveva bisogno. Tuttavia il
destino
sembrava aver deciso diversamente per lei.
Poco
distante, una donna emerse dalle onde del mare. Shaina era andata alla
spiaggia
a rinfrescarsi dopo una seduta di allenamento con le reclute. Anche
Psiche era
stata una recluta, tempo prima, ma aveva erroneamente pensato che
Shaina
potesse essere qualcosa di più di una semplice insegnante di
lotta e tattica. Questa
sua idealizzazione l’aveva portata a confidarsi con lei
riguardo l’infatuazione
per il Cavaliere dello Scorpione. La Sacerdotessa era stata categorica
a
riguardo: per quanto non dovesse vergognarsi dei suoi sentimenti, non
era
opportuno che una giovane Sacerdotessa come Psiche avesse a che fare
con un
Cavaliere del massimo grado come Milo. Qualche giorno dopo, vedendo
Shaina
avvinghiata al corpo scultoreo del Cavaliere mentre contravveniva a
quei
dettami che lei stessa aveva citato, Psiche capì che le
parole della
Sacerdotessa avevano avuto come unico scopo quello di tenerla lontana
dalla
preda dell’Ofiuco, perché lei stessa potesse
cibarsene.
Se
al tempo Psiche si era fatta una ragione dell’accaduto,
l’insieme degli
avvenimenti delle ore precedenti fecero salire in lei una rabbia mai
provata
verso Shaina, e senza i vincoli del Santuario, si sentì
libera di sfogarla. Dopotutto
quella donna rappresentava tutto ciò che in quel momento
odiava: le bugie e i
tradimenti del Grande Tempio.
La
rosa che scagliò tolse dalle mani della Sacerdotessa la
maschera che era in
procinto di indossare e la costrinse a voltarsi nella sua direzione.
“Psiche,
che ti salta in mente?” le domandò, mettendosi
comunque in guardia.
“Io
mi fidavo…” la ragazza iniziò ad
avanzare, quindi scagliò un’altra rosa che
Shaina evitò.
“Sei
impazzita per caso? Smettila!” la ammonì
l’Ofiuco in un ultimo tentativo di
farla ragionare.
“Sei
una bugiarda come tutti gli altri… e una puttana”
lanciò un’altra rosa, andando
a segno. Un graffio profondo comparva sul volto di Shaina, la cui furia
era cominciata
a montare dopo l’epiteto che Psiche le aveva affibbiato.
Decise che il tempo
delle parole era finito, mentre era giunto quello di andare al
contrattacco.
Milo
e Camus raggiunsero finalmente la piazza principale di Rodorio. Avevano
passato
l’intero pomeriggio a fare una stima dei lavori di cui il
negozio di fiori
aveva bisogno e ne era risultata una mole enorme persino per due
Cavalieri d’Oro.
“Non
so quanto tu ne sappia di falegnameria e affini” stava
dicendo l’Acquario “Ma
se ne sai quanto me, allora siamo in un mare di guano”
“Vuoi
essere ottimista almeno una volta nella vita? Troveremo un modo, come
abbiamo
sempre fatto. Siamo una squadra o no?”
Camus
osservò scettico per qualche istante il pugno teso di Milo,
quindi ricambiò il
gesto nonostante fosse sempre poco convinto che ce la potessero fare.
“Questo
è lo spirito giusto! Sono sicuro che se diventi un
po’ più ottimista riuscirai
a strappare un altro appuntamento a Galatea”
continuò lo Scorpione.
“Perché
dobbiamo sempre tornare su questo argomento?”
domandò Camus esasperato.
“Perché
la pulzella sta correndo verso di noi” rispose Milo,
indicando la strada che
congiungeva Rodorio al Santuario. Galatea stava effettivamente correndo
verso
di loro e sembrava piuttosto agitata. A Camus si prosciugò
subito la bocca, ma
cercò di mantenere un’apparenza di
tranquillità. La Sacerdotessa tuttavia non
era interessata a lui, almeno in quel momento.
“Milo!”
chiamò a gran voce, mentre li raggiungeva.
“Dici
a me? Non Camus?” una gomitata nel costato da parte
dell’amico smorzò la risata
incipiente del Cavaliere, ma furono le parole di Galatea a spegnerla
del tutto.
“Psiche
e Shaina si stanno affrontando, giù alla spiaggia. Non so
cosa sia successo,
sono arrivata che era già tutto iniziato. Ti prego, devi
fermarle o si
ammazzeranno!”
Milo
quasi non aspettò che la ragazza finisse il racconto e
partì diretto alla
spiaggia. Poteva vagamente immaginare il motivo per cui le due donne
erano arrivate
a scontrarsi, ma non poté fare a meno di chiedersi per quale
motivo fosse
tornato tutto a galla in quel momento. Sperò, inoltre, in
cuor suo di essere in
grado di sedare la rissa senza peggiorare la situazione.
Giunse
sul campo di battaglia che le due guerriere erano allo stremo delle
forze, con
gli abiti laceri e macchiati di sangue in più punti. Una
numero imprecisato di
rose di vari colori era sparso per la spiaggia e tutt’attorno
di potevano
notare gli effetti dei colpi di Shaina, a dimostrazione del fatto che
nessuna
delle due si era risparmiata.
Psiche
si era rimessa nuovamente in piedi ed era pronta a scagliarsi su Shaina
in un
ultimo disperato assalto, ma Milo si frappose fra le due e
bloccò la
Sacerdotessa di Afrodite per le braccia.
“Basta!
Smettetela tutte e due!” provò ad intimare, ma la
sua presenza sembrò far
infuriare ancora di più Psiche, che cercò di
passargli oltre e attaccare
Shaina.
Avendo
capito che le parole sarebbero servite a poco, il Cavaliere
intercettò
nuovamente l’assalto e, caricatosi Psiche in spalla, sordo
alle sue proteste,
la portò verso il mare e la gettò in acqua.
Ripresasi
dalla sorpresa iniziale, la ragazza si rimise in piedi e, in preda alla
collera, tentò di sfogarla questa volta su Milo, il quale
però la rispinse in
acqua con poca fatica.
“Basta,
Psiche! È finita, perciò vedi di
calmarti”
“Al
diavolo! Non sei nessuno per dirmi cosa devo o non devo fare! Sei solo
un
bugiardo, come tutti gli altri!” gli urlò contro
la Sacerdotessa, che ormai non
sapeva più come sfogare la rabbia che aveva dentro se non
con le parole. “Sei
un bugiardo come lei, che mi ha fatto credere che non fosse giusto
avere una
cotta per te quando era la prima ad infilarti la lingua in gola alla
prima
occasione… e come Aphrodite, che non mi ha mai detto che mio
padre era molto perché
io non ero con lui e mi ha tenuta in questo posto maledetto fino alla
fine dei
suoi giorni… e come Aldebaran, che non ha saputo fare altro
che trovare una
giustificazione a tutto questo… voi siete i bugiardi e
l’unica che ha perso
tutto sono io!”
Psiche
riprese a singhiozzare, in ginocchio nell’acqua di mare che
le arrivava alla
vita, sotto lo sguardo mesto di Milo, che di fronte
all’enormità della
tristezza della ragazza non poteva che sentirsi impotente. Si
inginocchiò di
fronte a lei e provò ad incrociare il suo sguardo, ma Psiche
lo rifuggì.
“Mi
dispiace” disse allora Milo, con la voce spezzata. Psiche
sollevò
impercettibilmente il capo, senza smettere di piangere.
“Mi
dispiace… per tutto” continuò il
Cavaliere. “Ti chiedo scusa, a nome del Grande
Tempio, per tutto quello che ti ha tolto, per le delusioni che ti ha
riservato,
per le persone che ti ha fatto incontrare, per ogni cosa. Questo posto
ha
tradito te più di tutti gli altri perché noi
abbiamo tradito te, io, Shaina,
Aphrodite, tutti. Solo una persona non lo ha mai fatto, Psiche, nemmeno
oggi,
anche se a te può sembrare così. Aldebaran
è l’unico, qua dentro, di cui puoi
fidarti ciecamente. È l’unico che con te
è stato, è e sarà sempre sincero. In
fondo
lo sai anche tu che è così, perciò
torna da lui, Psiche, ed evita tutti quanti
noi”
La
Sacerdotessa non ribatté, ma si fece coraggio per scrutare
negli occhi di Milo
e cercare quel barlume di sincerità che fino a quel momento
non aveva visto in
nessuno. Lo trovò nei solchi della sua fronte corrucciata,
nelle labbra
tremanti, nel respiro affannoso e in quegli occhi blu come il mare in
cui erano
immersi, che già anni prima l’avevano colpita.
Quella limpidezza non aveva mai
abbandonato le iridi di Milo da che lei aveva memoria e, per quanto
avesse
cercato di convincerla del contrario, lui era stato l’unico
sincero con lei
quel giorno.
Per
questo decise di dare ascolto alle sue parole e di tornare alla Casa
del Toro.
Buonasera a
tutti!
Mi sono fatta attendere un po' ma alla fine l'aggiornamento
è arrivato :) è stato scritto di getto sull'onda
dell'ispirazione, quindi è probabile che sia pieno di errori
di battitura e di grammatica per cui vi chiedo venia, mi riprometto di
rileggerlo e correggerli.
Spero comunque che sia di vostro gradimento, attendo i vostri commenti
se avrete voglia di darmi un vostro parere :)
A presto!
Martyx
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Capitolo 19 *** Fili di legami ***
Babylon
(seguito di A Divine
Love)
18 - Fili di legami
“Dei
del cielo, non vi si può lasciare sole un momento, a voi
due!” disse Ayame,
mentre osservava da un promontorio sul mare Psiche dirigersi verso le
Dodici
Case, ferita e bagnata come un pulcino.
Galatea
era a fianco a lei. Dopo aver avvertito Milo e Camus di quanto stava
succedendo
alla spiaggia aveva intercettato Ayame alle porte del villaggio e aveva
informato
anche lei dello scontro tra la Sacerdotessa della Rosa e Shaina. Con
non poco
rammarico, Ayame aveva deciso di rimandare la questione Kanon al giorno
seguente, era di primaria importanza capire a cosa fossero dovuti i
recenti
sbalzi umorali di Psiche.
“Non
avevo mai visto Psiche così in collera”
commentò Galatea.
“E
nemmeno così sconvolta” continuò Ayame
“Comincio a pensare che portarla qui con
noi sia stato un grosso errore”
Volendo
vederci più chiaro, la ragazza si avvicinò a
Camus, anche lui rimasto ad
osservare la scena dopo essere accorso con Milo alla spiaggia.
Che
il Cavaliere dello Scorpione c’entrasse con
l’instabilità emotiva di Psiche era
praticamente certo, mancava solo da capirne il motivo e Camus, in
quanto amico
intimo di Milo, doveva per forza saperne qualcosa.
“Che
è successo tra Milo e Psiche?” gli chiese Ayame
senza troppi preamboli.
Il
Cavaliere dell’Acquario non si scompose per la domanda a
bruciapelo e rispose
pacatamente dopo qualche attimo di riflessione.
“Non
credo di essere la persona più adatta per
spiegarti… quello” disse indicando la
spiaggia e facendo riferimento a quanto accaduto poco prima.
“Senti,
non mi interessa se tu e Milo siete vincolati da un patto di sangue per
cui non
potete rivelare i vostri segreti da amici del cuore a
nessuno” lo investì Ayame
con poca grazia “Quella ragazza è una mia
Sacerdotessa ed è anche mia amica e
si da il caso che il tuo amichetto
laggiù abbia a che fare con i titanici sbalzi ormonali di
cui hai avuto una
dimostrazione poco fa. Perciò se non vuoi essere vittima dei
miei titanici sbalzi ormonali, ti
conviene dirmi quello che sai”
Camus
però non si fece intimorire dallo sguardo truce di Ayame e
rimase fermo sulla
sua posizione.
“Credimi,
la questione va ben oltre Milo e quello che potrebbe aver fatto a
Psiche. Non
ho ben chiaro nemmeno io il quadro generale, mi sono ritrovato in mezzo
a
questo casino quasi per caso. Capisco che tu la voglia aiutare ed
è per questo
che ti dico che non sono in grado di darti informazioni accurate sulla
faccenda. Mi sembra talmente complicata che anche solo una parola detta
male
potrebbe far saltare in aria l’intero Santuario”
“Ayame,
penso che Camus abbia ragione” intervenne timidamente Galatea
“L’unico modo che
abbiamo per capire veramente cosa è successo è
chiedere direttamente a Psiche”
La
bionda sospirò. Sia Galatea che Camus avevano ragione, ma
non era comunque
convinta che Psiche si sarebbe aperta completamente con lei. Aveva
già provato
ad indagare sulla faccenda e ne aveva ottenuto solamente una risposta
criptica
e un sacco di lacrime. Espose le sue perplessità alla
Sacerdotessa, che però
sembrava convinta che l’approccio diretto fosse quello giusto.
“Vale
la pena tentare, almeno per dimostrarle che siamo dalla sua
parte”
In
quel momento vennero raggiunti da Milo, il quale sembrava aver perso la
baldanza che lo aveva sempre contraddistinto. Aveva
un’espressione scura in
volto, come di chi aveva perso tutto.
Gli
sguardi degli altri tre non poterono fare a meno di convergere tutti su
di lui.
“Lo
spettacolo è finito” disse con voce greve
“Il miglior stronzo protagonista se
ne torna a casa. Considerati libero per domani” concluse
rivolgendosi a Camus,
per poi voltar loro le spalle e dirigersi verso le Dodici Case.
“Milo,
aspetta!” gli intimò Acquarius, correndogli dietro
“Non puoi abbandonare il
progetto proprio ora”
Il
prosieguo della loro conversazione si perse nell’eco delle
onde che si
infrangevano sul mare, tuttavia quelle poche parole erano bastate ad
attirare
l’attenzione delle due ragazze.
“Secondo
te di quale progetto parlavano?” domandò Ayame a
Galatea, che rispose con
un’alzata di spalle.
“Potresti
indagare” le propose Ayame, mentre si dirigevano anche loro
verso le Dodici
Case “Dal momento che abiti con Camus…”
“Cosa?
No! Io non… non posso, voglio dire…
come…” balbettò affannosamente Galatea,
visibilmente rossa in faccia.
“Oh,
andiamo! Qualche sorriso ammiccante, sbatti le ciglia un paio di volte
e ti
dirà anche di che colore erano le mutande di sua madre.
È praticamente cotto di
te”
“Ma…
cosa?... figurati, lui… è un Cavaliere
d’Oro… e io sono… beh, io”
disse
mestamente la Sacerdotessa, facendo storcere il naso ad Ayame.
“Che
diamine blateri! Non vedo perché un uomo come Camus non si
dovrebbe innamorare
di una ragazza come te”
“Beh,
è frigido come una vecchia zitella, quello potrebbe essere
un problema”
intervenne una voce sopra di loro.
Ayame
e Galatea si fermarono di colpo e alzarono lo sguardo. Era Psiche che
le
attendeva in cima alla scalinata del Tempio dell’Ariete. Tra
una chiacchiera e
l’altra non si erano accorte di essere giunte ai piedi delle
Dodici Case.
“Che
ci fai qui?” le chiese Ayame, iniziando a salire le scale.
“Vi
ho viste, o meglio, sentite arrivare dalla Seconda Casa e, potendo
intuire il
motivo della vostra visita, vi sono venuta incontro” rispose
la Sacerdotessa.
Si
incontrarono a metà scalinata e rimasero a fissarsi tutte e
tre per qualche
istante, prima di rompere il silenzio.
“Come
stai? Sinceramente” le domandò Ayame, stringendole
un braccio con tenerezza.
Era ancora leggermente umida dal bagno in mare che era stata costretta
a fare.
“Ho
avuto momenti migliori, sinceramente” rispose lei, ma
sembrava più serena
dell’ultima volta che si erano ritrovate ad affrontare
l’argomento “Ma mi rendo
conto che non posso più tenervi tutto nascosto, dopotutto
abbiamo deciso di
affrontare questo viaggio insieme ed è giusto che sappiate
il vero motivo del
mio ritorno al Santuario, nonché le conseguenze che ne sono
derivate”
Il
sole stava tramontando sul villaggio di Rodorio, proiettando le lunghe
ombre
delle casette in pietra sulle stradine selciate. Nascosto da una di
queste
ombre due occhi profondi come l’oceano osservavano un
gruppetto di bambini
giocare con un vecchio pallone logoro. Benché il gioco
prevedesse che ci
fossero due squadre, uno dei bambini non sembrava darci troppo peso e
non
perdeva occasione di rubare la palla agli altri, a prescindere che
fossero
compagni di squadra o avversari e ostinatamente sordo ai loro
rimproveri.
Gli
ci vorrebbe una
strigliata come si deve
pensò Kanon, non riuscendosi però ad impedire di
lodare
un minimo lo spirito combattivo di Proteo.
Già,
era proprio lui che il Generale stava osservando nascosto
nell’ombra, perché
per quanto si fosse sforzato di dimenticarle, le parole di rimprovero
che Ayame
gli aveva rivolto poco prima avevano continuato a rimbalzargli in testa
senza
dargli tregua, e solo in quel momento si stavano lentamente
affievolendo.
“Non trovi che ricordi qualcuno di tua
conoscenza?” riecheggiò una voce alle
sue spalle, come se provenisse
dall’aldilà.
Kanon
si voltò, aspettandosi di vedere il volto di quella donna,
innocente e limpido come
se lo ricordava, invece si ritrovò ad osservare il vicolo
che in quel momento
gli serviva da nascondino, desolato e buio. E si ricordò con
lieve rammarico
che quel volto non l’avrebbe visto mai più,
avrebbe solo potuto coglierlo in
qualche tratto di quello di Proteo.
Un’altra
voce, questa volta reale, si innalzò sopra le grida dei
bambini per richiamarli
per la cena. Quasi tutti si misero a protestare e ad implorare
l’educatrice di
farli giocare ancora un po’ per designare il vincitore una
volta per tutte, ma
la donna non volle sentir ragioni e minacciò di riportarli
tutti quanti in casa
prendendoli per le orecchie se non avessero obbedito. Tanto
bastò a convincerli
a non farsi richiamare un’altra volta e ad incamminarsi,
seppur con poco
entusiasmo, verso l’orfanotrofio.
Proteo
rimase in coda al gruppo e mentre camminava portava avanti il pallone
malconcio
a calci. Prima che scomparisse dalla vista di Kanon, il ragazzino si
fermò e al
Generale sembrò che volgesse lo sguardo nella sua direzione,
per cui si nascose
ancora di più nell’ombra, finché Proteo
non riprese la sua strada.
Dopo
qualche minuto di attesa, il guerriero uscì dal suo
nascondiglio e si incamminò
verso il Grande Tempio, con la testa nuovamente affollata di pensieri.
Dal
momento che si era spinto fino al villaggio per osservarlo di nascosto,
era
chiaro che non poteva più fare finta che Proteo non
esistesse e che non fosse
un suo problema. Probabilmente il destino stesso era intervenuto per
ricordarglielo, quella mattina, quando l’aveva salvato tra le
strade di Atene.
Ma
come fare? Come raccontare ad un bambino di otto anni una storia simile
e
sperare che la accettasse senza battere ciglio? Se ci fosse stata lei,
probabilmente avrebbe saputo come fare… o forse no, dal
momento che era
riuscita a cacciarsi in quella situazione scomoda e non era riuscita ad
uscirne
se non nel più estremo dei modi.
L’unico
che avrebbe potuto aiutarlo, con le dovute riserve, era suo fratello
Saga, che
però in quel momento aveva altro a cui pensare e si trovava
dall’altra parte
del mondo.
Ma
era veramente l’unico? Due insolenti occhi verdi incastonati
in uno sguardo di
rimprovero si insinuarono tra quei pensieri tempestosi.
Ayame
aveva dimostrato sin da subito un interesse nei suoi confronti che non
riusciva
a spiegarsi, così come sembrava aver preso a cuore Proteo.
Che sospettasse
qualcosa? Sulla base di quali indizi? Nessuno al Santuario poteva
sapere.
Tuttavia Ayame era stata, e probabilmente nel profondo ancora era, la
dea
dell’amore. Che anche quel tipo di amore fosse di sua
competenza?
Un
potente cosmo infuocato interruppe bruscamente quel susseguirsi di
domande
senza risposta nella mente di Kanon e arrestò il suo cammino
ai confini del
villaggio. Il Generale si lanciò subito al suo inseguimento.
La fonte di quel potere
si fece sempre più vicina, quasi stesse aspettando che
qualcuno andasse ad
accoglierla. Quando fu quasi al confine tra Rodorio e Atene, quel cosmo
fiammeggiante ebbe un volto. Una donna dai capelli scarlatti sembrava
attenderlo all’imbocco del vicolo che conduceva al negozio di
fiori. Vestiva
abiti civili, probabilmente per confondersi tra la folla che riempiva
le strade
di Atene in quel periodo, ma alle sue spalle era ben visibile una
traccia delle
ali di fuoco che caratterizzavano i guerrieri della sua genia.
“Finalmente
qualcuno è venuto ad accogliermi” disse con voce
suadente la donna, sollevando
la tesa del cappello che aveva in testa e rivelando due occhi
fiammeggianti.
“Come
ha fatto un Angelo a superare la barriera che protegge il Grande
Tempio?”
domandò Kanon, accendendo il suo cosmo
nell’eventualità che quell’incontro
sfociasse in uno scontro.
La
donna scoppiò in una fragorosa risata di scherno.
“Siete stati voi a portarci
qui, rammenti?” rivelò quindi “Qualcuno
vi stava osservando”
Il
Generale capì subito che l’Angelo stava facendo
riferimento al suo compagno che
avevano visto sorvolare i tetti di Atene la sera della festa. Il fatto
che
fossero riusciti a trovare l’ingresso per il Santuario
costituiva un enorme
problema. Quell’Angelo andava eliminato.
Non
appena Kanon ebbe solo che formulato quel pensiero, una barriera di
fuoco si
erse tra lui e il suo nemico, emanando un calore che sembrava quasi
infernale.
“Non
ho intenzione di combattere con te, Generale” ammise la donna
da dietro la
cortina di fuoco.
“Allora
perché disturbarsi a venire fin qui?”
domandò Kanon “Perché non
attaccare?”
“Non
è ancora il tempo di passare
all’attacco” rispose semplicemente
l’Angelo “Ma lo
sarà ben presto… e la piccola dea addormentata
non avrà scampo”
Senza
lasciar cadere il muro di fuoco tra lei e Kanon, la donna si
incamminò di nuovo
lungo il vicolo, sventolando la mano a salutare il suo nemico.
Dall’altra
parte, il Generale dovette attendere che la cortina calasse prima di
lanciarsi
all’inseguimento dell’Angelo, poiché
affrontarle senza armatura sarebbe equivalso
a suicidarsi.
Una
volta che il passaggio fu di nuovo libero, Kanon corse lungo il vicolo
e
irruppe nel negozio di fiori, incurante dello spavento che fece
prendere ai
clienti. Si precipitò quindi fuori dal negozio, nel traffico
di Atene, ma del
cosmo infuocato dell’Angelo non v’era
più traccia.
Per
raccontare la sua storia alle ragazze, Psiche aveva preferito
appartarsi
all’ombra di un uliveto nei pressi della casa
dell’Ariete, lontana da orecchie
indiscrete. Non le capitava spesso di aprire il suo cuore a qualcuno,
dal
momento che, le poche volte che l’aveva fatto, non ne aveva
ricavato che dolore
e delusione. Ma di Galatea e soprattutto di Ayame, della sua dea,
sapeva di
potersi fidare.
Le
due ragazze non la interruppero mai durante il suo racconto,
permettendole
piano piano di sciogliersi e dare fluidità alla storia, di
cui non tralasciò
neanche un dettaglio.
Ad
ogni parola le sembrava di togliersi un peso dal petto e quella
sensazione di
leggerezza via via più accentuata le permise di calmare il
suo lato emotivo per
lasciar spazio a quello più razionale.
Solo
alla fine della narrazione comprese l’inutilità
del suo attacco a Shaina e la
sincerità delle parole di Aldebaran. Tuttavia perdonare il
suo maestro per
averle tenuto nascosta la morte di suo padre era per lei ancora
inconcepibile.
Calò
il silenzio per qualche istante tra le tre ragazze, quindi Ayame e
Galatea la
abbracciarono in contemporanea, gesto che lì per
lì la spiazzò ma che subito
dopo fu felice di ricambiare. Dopotutto non era male avere delle amiche
con cui
condividere quei pesanti ricordi.
“Oh,
Psiche, ma come ti è saltato in mente di affrontare tutto
questo senza dirmi
niente?” la rimproverò Ayame, sciogliendo
parzialmente l’abbraccio.
“Avevi
altro a cui pensare, giusto?” rispose la Sacerdotessa con
un’alzata di spalle.
“Per
come sta andando, credo che impiegherei meglio il mio tempo ad
ascoltare i
vostri problemi piuttosto che a provare a far sbocciare quelle dannate
rose”
ammise Ayame.
“Ce
la farai, devi solo credere più in te stessa…
Afrodite” Psiche sottolineò
l’ultima parola, lasciando intendere che aveva intuito i
dubbi di Ayame
riguardo la sua natura divina.
“Certo
che siamo proprio un bel trio di disastri” intervenne
Galatea, ridacchiando.
“Già
ma siamo il trio di disastri più bello che questo Santuario
abbia mai avuto
occasione di vedere” aggiunse Ayame.
“Puoi
dirlo forte!” concluse Psiche, battendo poi un cinque con le
due amiche.
“Sarà
meglio tornare alle nostre Case, è quasi ora di
cena” constatò Galatea.
“E
a me conviene correre come una scheggia alla Terza, altrimenti Kanon mi
fa
digiunare” aggiunse Ayame.
Si
incamminarono tutte e tre verso le Dodici Case ma vennero intercettate
poco
dopo da alcune guardie del Santuario a pochi passi dalla Casa
dell’Ariete.
Anche Mu era con loro e dallo sguardo non sembrava foriero di buone
notizie.
“Spiacente
di interrompere la vostra chiacchierata, ragazze, ma il Gran Sacerdote
vi ha
convocate nella Sala del Trono” spiegò il
Cavaliere.
“Evviva…
e per quale ragione?” commentò sarcasticamente
Ayame, che in cuor suo aveva
sperato di non dover rivedere il volto di Shion per almeno qualche
giorno. Quel
finto entusiasmo le fece guadagnare un silenzioso rimprovero da parte
di Mu,
che rispose comunque con garbo “Sarà egli stesso
ad informarvi di tutto”.
Dal
canto suo, Psiche pensò di essere lei la responsabile di
quella convocazione:
probabilmente l’aver attaccato Shaina, una Sacerdotessa del
Santuario, era
stata un’avventatezza che non era passata inosservata alle
alte sfere. Era comunque
decisa ad accettare le conseguenze delle sue azioni, qualunque esse
fossero.
“Fateci
strada” disse accondiscendente.
Giunti
all’ingresso della Tredicesima Casa, le tre ragazze
scoprirono di non essere le
sole ad essere state convocate. Anche Milo e Camus attendevano di
essere
ricevuti da Shion.
“Che
ci fai qui?” domandò brusca Psiche allo Scorpione.
“Sappiamo
entrambi perché siamo qui” rispose Milo
pacatamente “Se ci saranno delle
conseguenze da affrontare, concedimi almeno di non fartelo fare da
sola”
Le
parole del Cavaliere lasciarono Psiche spiazzata. Provò a
rispondere in modo
tagliente ma non ebbe il tempo di formulare nessuna cattiveria,
poiché il Gran
Sacerdote uscì a passo svelto dalla Sala del Trono, seguito
a ruota da Kanon.
“Quali
che siano i motivi per cui vi ho fatti venire qui, possono aspettare.
Abbiamo un
faccenda ben più urgente di cui occuparci”
spiegò Shion senza nascondere un
minimo di apprensione, quindi si voltò verso Kanon dandogli
tacitamente la
parola.
“Gli
Angeli hanno scoperto come accedere al Grande Tempio, ne ho incontrato
uno io
stesso poco fa al villaggio. Attaccheranno presto, perciò
dobbiamo essere
pronti a difenderci in qualsiasi momento”
“Perché
non attaccare subito, sfruttando l’elemento
sorpresa?” domandò Camus.
“Non
ne ho idea” rispose Kanon “L’unica cosa
che quell’Angelo ha lasciato trapelare
è che Ayame rimane il loro obiettivo”
“Credo
sia saggio allora che ritorno alle tue stanze qui alla
Tredicesima” intervenne
Shion, ma la ragazza non voleva sentir ragioni.
“No!”
rispose perentoria, lanciando poi uno sguardo supplice a Kanon.
“Sei
troppo vicina all’ingresso del Santuario!”
cercò di farla ragionare il
Celebrante.
“Non
torno in un posto dove non sono la benvenuta”
ribatté decisa Ayame.
“Io
posso rimanere alla Casa del Toro” intervenne Psiche,
risparmiando a Shion un’inutile
replica “In questo modo dovranno superare quattro di noi
prima di arrivare ad
Afrodite, e lei avrà il tempo di mettersi in salvo”
Il
silenzio calò sul patio della Tredicesima Casa. Gli sguardi
di tutti,
principalmente di Psiche, Ayame e Kanon, erano rivolti a Shion, in
attesa di
una sua sentenza.
La
Sacerdotessa della Rosa non poteva sperare in un’occasione
migliore per
svincolarsi dalla convivenza con Aphrodite, insieme al fatto che in
questo modo
sarebbe tornata a sorvegliare Ayame da vicino.
La
ragazza dal canto suo non aveva intenzione di lasciare la Terza. Non
che Kanon
fosse un maestro di ospitalità, ma era comunque riuscito a
farla sentire più
accettata di quanto non avesse fatto Shion. Inoltre vivere con lui era
il modo
migliore per risolvere l’enigma che Kanon era.
Quanto
a Kanon, infine, si sorprese nello sperare che Shion accettasse di
lasciare a
lui la custodia di Ayame. Lui, amante della solitudine a cui era stato
destinato sin dalla nascita, sentiva che quella ragazzina invadente gli
sarebbe
mancata, e si era stabilita alla Terza Casa da neanche dodici ore.
Doveva essere
completamente impazzito.
“E
sia” disse alla fine Shion, quindi si rivolse ad Ayame
“Ma non uscirai dal
perimetro del Santuario per nulla al mondo e se vorrai recarti al
villaggio
dovrai essere sempre accompagnata, chiaro?”
“Signorsì!”
rispose lei, già contenta che avesse accettato quel
compromesso. Scambiò quindi
uno sguardo di intesa con Psiche, poi si voltò verso Kanon
giusto in tempo per
vedere l’ombra di un sorriso sparire dietro la solita
espressione di pietra. Gli
sorrise comunque, prima o poi avrebbe imparato anche lui a farlo senza
vergognarsi.
Buonasera a
tutti!
Anche per questo capitolo mi sono fatta attendere più della
cometa di Halley, ma spero ne sia valsa la pena.
Mi rendo conto che non succeda granchè ancora, in termini di
azione, ma mi sto concentrando, come dice anche il titoto di questo
capitolo, sui legami tra i vari personaggi, che saranno poi importanti
nel momento in cui inizierà l'azione. Come sempre ho scritto
di getto, quindi qualche strafacione ci sarà, seganalate
tutto quando nei commenti che vorrete lasciare e, per il resto, buona
lettura!
Martyx
|
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Capitolo 20 *** Incubi ***
Babylon
(seguito di A Divine
Love)
19 -Incubi
L’ultimo
raggio di sole andò ad illuminare fiocamente i resti di una
vetrata colorata
che adornava la navata della chiesa sconsacrata che avevano adibito a
quartier
generale.
L’immagine
ritraeva l’Arcangelo Michele, il comandante delle schiere
celesti, sopraffare
quello che una volta era stato suo compagno d’armi ma che
comunque rimaneva suo
fratello, Lucifero il traditore.
Mikio
non si stancava mai di contemplare quella raffigurazione, nonostante
l’incuria
e le intemperie l’avessero deturpata in numerosi punti, il
tutto nella speranza
di ritrovare un po’ di se stesso nella figura angelica del
protagonista.
Michele, l’Arcangelo senza macchia, ciecamente fedele al suo
Signore, era
tuttavia così diverso da lui, che probabilmente di angelico
aveva solo la
manifestazione della sua potenza, quelle ali lucenti che in quel
momento erano
serrate e spente.
Un
bagliore fiammeggiante alle sue spalle diede ancora più vita
ai colori della
vetrata, seppur solo per qualche istante.
“Ebbene?”
domandò Mikio alla sua sottoposta dalla chioma scarlatta.
“Come
pensavamo. Sono impreparati e spauriti, la preda perfetta”
rispose lei,
soddisfatta.
“E
la dea?” la interrogò ancora.
“Non
si percepisce niente di divino in quel posto malcelato”
Mikio
sospirò. Stava passando troppo tempo, presto sarebbero
potuti sorgere i primi
sospetti ed arrivare le prime domande sulla loro competenza. Gli ordini
erano
stati chiari, occuparsi di quel che era rimasto di Afrodite il prima
possibile,
non potevano tergiversare ancora a lungo.
“È
tempo di dare una scrollata a quel Santuario sonnacchioso. Richiama Ari
e Jez”
ordinò Mikio, rivolgendosi direttamente alla donna, la quale
però sembrava poco
convinta.
“Sei
sicuro che funzionerà?” gli domandò
infatti.
“Deve funzionare, altrimenti
sarà la fine
per tutti” rispose l’Angelo a denti stretti.
La
rossa annuì, quindi domandò ancora “Coi
soliti tempi?”
“Coi
soliti tempi” confermò Mikio.
Quella
lunga giornata era infine giunta al termine. Le tinte rosse del
tramonto
lasciavano via via spazio al blu della limpida notte ellenica, che
avrebbe
portato ancora una volta con sé un cielo punteggiato di
innumerevoli stelle.
Insieme
ad essa giunse anche il silenzio, rotto solo ogni tanto dal vociare
delle
guardie di ronda, in numero maggiore rispetto al solito data
l’emergenza che si
era presentata. Anche alla Casa dei Gemelli, da sempre rinomata per il
silenzio
che vi regnava all’interno quasi quanto quella della Vergine,
qualcosa
disturbava la quiete che la notte avrebbe dovuto portare con
sé.
Era
la prima notte che Ayame passava al Terzo tempio e scioccamente si era
aspettata che sarebbe stata diversa dai sonni agitati cui era andata
incontro
quando dimorava dal Gran Sacerdote. Tuttavia gli incubi
l’avevano seguita anche
lì. Occhi grigi e spenti e fauci che la divoravano, sempre
la solita
inquietante giostra che comunque riusciva a turbarla come la prima
volta. Si
svegliò di soprassalto, esclamando qualcosa di insensato
alla stanza di Saga,
nel girarsi convulsamente perse l’appoggio sul materasso e
cadde dal letto
battendo la testa contro il comodino.
Ormai
perfettamente sveglia, la ragazza trattenne a stento
un’imprecazione per non
rischiare di svegliare Kanon e si portò la mano alla fronte:
perdeva sangue.
“Ci
mancava anche questa, maledizione!”
Tenendosi
una mano sulla ferita, cercò di raggiungere la cucina, per
quanto col buio
avventurarsi per i corridoi della Casa di Gemini si rivelò
essere un’impresa
più ardua del solito.
Giunta
finalmente a destinazione, prese a setacciare ogni meandro della stanza
nella speranza
di trovare qualcosa che la aiutasse a tamponare la lieve emorragia, ma
interruppe la sua ricerca quando un lamento più simile ad un
ringhio giunse
alle sue orecchie. Per quanto poco conoscesse la sua nuova dimora,
capì che
quel rumore proveniva dagli alloggi di Kanon.
Lasciò
perdere la ferita e si avventurò per i corridoi della Casa,
guidata unicamente
da quei lamenti strazianti, finché non si trovò
davanti a quella che intuì
essere la porta della stanza di Kanon. Da vicino i lamenti risultarono
essere
delle vere e proprie grida che quasi convinsero Ayame a desistere
dall’aiutare
il suo ospite. Pensò che, qualsiasi incubo lo stesse
tormentando, doveva essere
di gran lunga peggiore del suo.
Prese
allora un respiro profondo ed entrò nella stanza. Era
semplice come la sua,
forse ancora più austera: un letto e pochi altri mobili
essenziali la
riempivano. Il giaciglio si trovava di fronte a lei, sotto la finestra
da cui i
raggi della luna e delle stelle entravano senza ostacoli ad illuminare
bene
l’ambiente e il suo inquilino.
Nel
suo agitarsi durante il sonno, Kanon aveva fatto cadere a terra il
leggero
lenzuolo e in quel momento, prono sul letto, si stava aggrappando con
tutte le
sue forze al coprimaterasso e stava addentando il cuscino, quasi nel
tentativo
di soffocare le sue grida.
Ayame
non poté che provare pena per quell’uomo che
sembrava tormentato da demoni
peggiori dei suoi, ma per quanto poco lo conoscesse era facile intuire
che non
era tipo da accettare compassione da chicchessia, così si
fece forza e si
avvicinò a Kanon, allungando un braccio per svegliarlo.
Non
l’ebbe neanche toccato che il guerriero si sollevò
di colpo.
“IO
NON LA UCCIDERÒ!” gridò agitando un
braccio nel vuoto, come a scacciare
qualcuno o qualcosa che probabilmente albergava solo nella sua mente.
Quando la
sua mano incontrò il braccio teso di Ayame, che nel mentre
stava arretrando per
lo spavendo, lo afferrò con tutte le sue forze e
tirò la ragazza a sé.
“Kanon…
Ah!” urlò lei, che nel vedere l’altra
mano del Generale cercare il suo collo,
parò d’istinto il colpo e gli bloccò il
braccio sul letto.
“Kanon,
svegliati!” gli intimò alla fine.
Il
guerriero si ridestò e il suo sguardo vagò per
qualche istante dal suo braccio
tenuto fermo da Ayame sul materasso, alla sua mano che stringeva il
polsi di
lei, quindi al volto della ragazza, insanguinato.
In
un attimo si divincolò dalla sua presa, il volto contratto
in un’espressione
sconvolta, arretrando finché non fu contro il muro dal lato
opposto.
“No…
io… che cosa ho fatto?” cominciò a
balbettare, quindi si portò le mani tremanti
davanti al volto.
Ayame
rimase qualche istante a scrutarlo, nel tentativo di capire cosa
agitasse a tal
punto Kanon. Che non fosse ancora del tutto sveglio?
Poi
accadde di nuovo come la prima notte al promontorio. La stanza
lasciò spazio ad
un universo costellato da astri in collisione, a cornice di
ciò che
imperversava nella mente turbata di Kanon.
In
quel momento il Generale vedeva se stesso, vestito della sua armatura
di
scaglie d’oro, ai piedi della colonna
dell’Atlantico del Nord. Le sue mani
erano grondanti di sangue e due cadaveri giacevano ai suoi piedi:
quelli di
Atena e Poseidone. Subito dopo un terzo andò a completare la
macabra visione.
Era il corpo di Ayame.
Subito
la ragazza arretrò terrorizzata, poi il suo sguardo si
soffermò su un dettaglio
che diede un senso a tutto. Anche nella visione di Kanon, infatti, un
rivolo di
sangue scendeva dalla fronte della bionda. Probabilmente
l’averla vista in
quelle condizioni nello stato di dormiveglia in cui si trovava aveva
scatenato
in Kanon quel sogno raccapricciante.
Recuperata
la lucidità, Ayame provò a svegliare il Generale
con richiami via via più
insistenti, che però non sortirono alcun effetto. Sperando
di non doversene
pentire in futuro, la ragazza decise allora di ricorrere a maniere
più
drastiche e si scagliò contro Kanon per dargli un pugno.
Questi
parò il colpo e la visione scomparve.
Lo
sguardo di Kanon, prima perso nel vuoto, andò ad incontrare
quello di Ayame.
“Ti
sei svegliato, finalmente”
La
bionda ritrasse il pugno. Kanon però sembrava ancora turbato.
“Il…
il tuo volto…” sussurrò a malapena.
Ayame
gli sorrise serena e gli rispose “Non sei stato
l’unico ad avere gli incubi,
stanotte. Solo che io sono stata riportata alla realtà dallo
spigolo del
comodino”
“…
comodino?” ripetè l’uomo, ancora non del
tutto convinto.
“Già!
A quanto pare a tuo fratello piacciono i mobili con gli spigoli ben
pronuncia…
auch!”
Kanon,
che sembrava essersi ripreso del tutto, interruppe gli sproloqui di
Ayame
afferrandola con poca grazia per il mento e girandole il viso per
studiare
meglio la ferita. L’emorragia sembrava essersi arrestata e il
sangue sul volto
si era in buona parte coagulato, incrostando una sottile ciocca di
capelli.
“Vieni
con me” disse poi, lapidario e monocorde come al solito.
Ayame
trasse un sospiro di sollievo, prima di seguirlo verso la cucina. Era
tornato
il Kanon di sempre.
Da
lontano era sempre sembrato un anfratto come ce n'erano tanti tra le
colline
rocciose intorno al Santuario, probabilmente per questo nessuno vi
aveva mai
fatto caso.
Con
la minaccia degli Angeli incombente e la conseguente intensificazione
dei
controlli lungo i confini, la stranezza di quel recesso roccioso era
stata
subito notata. Quattro scalini perfettamente levigati portavano
all'ingresso di
quella che si intuiva essere una caverna scavata all'interno della
collina. Due
spesse porte metalliche sbarravano l'accesso a quei locali, niente che
qualsiasi colpo di qualsiasi Cavaliere, anche solo lanciato a mezza
potenza,
non avrebbe sbalzato via in meno di un battito di ciglia. Non sapendo,
però,
con certezza, cosa vi fosse al di là di quelle porte, Shion
aveva preferito
essere prudente.
Era
stato avvisato di quella scoperta da una delle guardie responsabili
dello
strano ritrovamento, la quale aveva avuto la fortuna di trovarlo ancora
sveglio, in preda ai pensieri che l'intrusione dell'Angelo aveva
portato con sé.
Sebbene in principio avesse pensato che tale scoperta non valesse il
suo
disturbo, quando si era trovato davanti le due porte metalliche si era
dovuto
ricredere.
Non
rammentando, poi, di aver ordinato lui la costruzione di quella
caverna, era
andato immediatamente a chiedere al suo 'successore' delucidazioni, per
quanto
fosse stato un gesto che gli era costato uno sforzo immane e per cui in
altri
frangenti non avrebbe sprecato un viaggio dall'altra parte del mondo,
seppur
facilitato enormemente dal teletrasporto.
Saga
di Gemini studiò da vicino per qualche minuto il passaggio
chiuso e ricoperto
dai detriti, sorpreso che gli scontri di cui quelle colline erano stati
testimoni l'avessero risparmiato. Ricordava, infatti, di aver
commissionato la
costruzione di quel luogo a qualcuno, ma erano comunque ricordi confusi
e
annebbiati, a causa di quella doppia personalità che tanti
danni aveva arrecato
e non solo alla sua mente.
Nel
tentativo di riesumare più memorie possibili, Saga prese a
percorrere il
portone metallico con la mano, scrostando più sporco che
poteva, finché non
riuscì a riportare alla luce ciò che gli
interessava.
Quello
che di primo acchito poteva sembrare un semplice tastierino metallico a
nove
cifre in realtà era un schermo tattile incorporato nella
porta, il quale pareva
ancora funzionare a distanza di anni. Una barra orizzontale lampeggiava
tenue
sopra i tasti.
"Ricordi
la combinazione?" gli domandò Shion, giunto alle sue spalle.
"Ricordo
solo che qualcuno l'aveva comunicata ad Arles e temo che lui se la sia
portata
via con sè" rispose Saga, sorprendendo il Gran Sacerdote nel
rivolgersi
alla sua metà malvagia come se fosse qualcuno di estraneo.
"Possiamo
però sperare che qualcun altro possa scoprire un modo per
entrare qua
dentro" riprese Gemini, riprendendo a togliere lo sporco poco al di
sopra
dello schermo, finché non comparve un logo inciso sul
metallo.
"Qualcuno
che, fortunatamente, non sarà difficile da scovare"
commentò Shion,
lasciando trapelare un minimo di sorpresa.
Il
logo riportato alla luce da Saga era quello della Kobayashi Software.
Quando
Camus entrò in cucina, trovò Galatea intenta ad
imbandire la tavola per la
colazione. Era già la seconda volta che si prodigava in quel
modo, ma quando
qualche giorno prima gli aveva preparato il pastitsio greco
l’aveva rifiutato
in malo modo. Perciò, per quanto quel suo indaffararsi lo
mettesse a disagio,
decise che non avrebbe fatto storie. Se ne convinse ancora di
più quando la
ragazza lo accolse con un sorriso raggiante, in grado di scaldarlo
più del
solito.
“Buongiorno!
Ho sentito che sei rientrato tardi ieri sera, così ho
pensato di farti trovare
già tutto pronto”
In
cuor suo Galatea sapeva che quello che aveva detto era vero solo in
parte. Le
faceva piacere dare una mano al suo ospite con le faccende, ma quella
mattina
aveva anche un altro obiettivo: scoprire cosa stavano tramando Camus e
Milo.
Non che fosse da lei immischiarsi nelle faccende altrui, specialmente
se questo
comportava dover affrontare lo sguardo glaciale e sfuggente di
Aquarius.
Tuttavia con Ayame avevano convenuto che i traffici dei due Cavalieri
avevano a
che fare con Psiche e, dati gli ultimi avvenimenti che
l’avevano vista
coinvolta, era giusto capire se il ‘progetto’ di
cui avevano sentito parlare
fosse dannoso per la Sacerdotessa.
Come
suggeritole da Ayame, quindi, Galatea aveva sfoggiato il suo miglior
sorriso
non appena Camus era entrato in cucina, nella speranza che questo,
insieme
all’abbondante colazione che aveva preparato, servisse a
scucire qualche
dettaglio in più sulla faccenda all’algido
guerriero.
“Grazie!
Sei… sei stata molto gentile” rispose incerto il
ragazzo, sedendosi a tavola e
cominciando a versarsi del succo d’arancia.
“Non
ho fatto nulla di speciale se non attingere dalla tua ricca
dispensa” ribatté
Galatea, mentre si sedeva accanto a lui “Dopo i bruciori di
stomaco che ho
causato a Shura col pastitsio, ho capito di non essere
granché come cuoca e non
volevo rischiare di avvelenarti”
“Capricorn
non ha mai avuto uno stomaco di ferro” rise Camus, con una
naturalezza che non
ricordava di possedere, ma che per una volta gli aveva permesso di non
rendersi
ridicolo davanti a Galatea. Anch’ella stava ridendo, e la
stanza sembrò d’un
tratto più luminosa.
“Sì,
in effetti è più Milo che mi dà
l’impressione di poter digerire anche le
pentole” azzardò la ragazza, sperando che
l’altro abboccasse.
“Puoi
dirlo forte! Una volta l’ho visto spazzolarsi una teglia
intera di lasagne che
sarebbe dovuta bastare per sei persone”
“A
proposito, come sta? Quando ve ne siete andati, ieri, era parecchio
giù di
morale”
“Sinceramente,
l’ho mai visto così a terra” rispose
Camus dopo qualche istante di riflessione
“Mi ricordo di Milo infuriato, dispiaciuto, triste, ma non
credo abbia mai
avuto il morale così a terra”
Aquarius
prese a scrutare intensamente il fondo del suo bicchiere, mesto come se
la
situazione emotiva dell’amico permeasse anche il suo animo.
“Ho
paura che si stia arrendendo, con Psiche” confessò
poi, non provando nemmeno a
nascondere quanto la cosa lo spaventasse.
“In
che senso?” provò ad indagare la bionda.
“Immagino
che Psiche vi abbia spiegato cosa è successo ieri e in
passato, tra lei e Milo”
Galatea
annuì.
“Milo
ha sempre avuto un debole per le donne, non ha mai neanche provato a
nasconderlo. Ma questa volta con Psiche era diverso! Voleva davvero che
funzionasse, si era persino lanciato in un…”
Il
Cavaliere si interruppe, si era accorto che stava andando oltre il
consentito
con le confessioni.
“…
progetto?” Galatea finì la frase per lui.
“Ve ne ho sentito parlare ieri mentre
tornavate alle Dodici Case”
Camus
annuì “Ci credeva davvero, in quel progetto, e ti
posso assicurare che era
perfetto, geniale”
“Di
che cosa si trattava?” domandò cauta la ragazza.
“Mi
spiace, Galatea, gli ho promesso che non l’avrei detto a
nessuno…”
“Manterrò
il segreto” disse la ragazza con una sicurezza che non
credeva di avere, e nel
farlo strinse istintivamente la mano a Camus. Questi non si accorse
nemmeno di
ricambiare il gesto altrettanto inconsciamente, dal momento che era
perso nello
sguardo limpido e determinato di Galatea.
Le
raccontò tutto, con sempre maggior enfasi, senza
risparmiarsi sui dettagli.
Poteva fidarsi.
“È
meraviglioso” commentò alla fine la ragazza, quasi
con le lacrime agli occhi.
“Sì,
lo è”
“Non
può abbandonarlo!” scattò poi lei,
alzandosi dallo sgabello che cadde dietro di
lei. La cosa tuttavia le importò meno di niente, aveva lo
sguardo infuocato e
stringeva la mano di Camus con tutta la forza che aveva.
“Dobbiamo convincerlo
a non farlo”
Si
avviò verso l’uscio della cucina che dava sulla
sala dei combattimenti dell’Undicesima
Casa, trascinandosi dietro il suo proprietario, il quale era
completamente
rapito dalla determinazione che la Sacerdotessa stava dimostrando e che
la
rendeva ai suoi occhi ancora più bella e desiderabile. Solo
gli dei sapevano
quanto avrebbe voluto baciarla, ma non era quello il momento giusto.
Tra
loro due era sempre stato Milo il trascinatore. Col suo entusiasmo
aveva sempre
cercato di far uscire Camus dall’involucro ghiacciato che si
era costruito
attorno, specialmente dopo che era tornati in vita. Era solo merito di
Milo se
stava iniziando a lasciarsi andare con Galatea e vederlo arrendersi
sull’unico
fronte su cui Camus non aveva mai neanche provato a batterlo era per
lui
inconcepibile. Non era quello il Milo che conosceva e che
l’aveva spronato solo
qualche giorno prima a cogliere la seconda occasione che era stata loro
concessa.
Si
lasciò guidare da lei fino all’Ottava Casa, senza
mai lasciare la sua mano. Una
volta arrivati, fu lui a condurla all’interno fino alla
stanza di Milo.
Bussarono
alla porta e attesero. Scorpio venne ad aprire dopo attimi infiniti.
Aveva il
volto scavato di chi non aveva chiuso occhio a causa dei troppi
pensieri.
Squadrò i due ragazzi con apparente sufficienza, quindi
parlò.
“Siete
venuti a dirmi che avete deciso di sposarvi?”
domandò con il tono monocorde che
aveva assunto dalla sera prima e che avrebbe fatto invidia a Kanon.
Camus
e Galatea subito non capirono, poi si accorsero di essere ancora mano
nella
mano. Sciolsero la stretta con notevole imbarazzo, cercando
però di nascondere
all’altro quanto avrebbero desiderato mantenere quel contatto.
“No,
volevamo parlare con te a dire il vero” disse poi Camus.
“So
già di cosa volete parlarmi e non ho niente da
dirvi” sentenziò Milo. Fece
quindi per richiudere la porta, ma una resistenza più
strenua del previsto si
oppose. Si sorprese quando vide che era stata Galatea a bloccarla.
“Non
puoi abbandonare il progetto della bottega” gli disse
risoluta la Sacerdotessa.
Milo
volse lo sguardo alle spalle della ragazza dove stava Camus.
“Meno
male che doveva essere un segreto” sbottò, quindi
uscì dalla stanza diretto in
soggiorno.
“Ha
promesso che non lo rivelerà a nessuno” disse
Camus, mentre lo seguiva.
“Sì,
certo, come no! Quelle tre sono un’associazione a delinquere,
si diranno
persino quando hanno il ciclo”
“Milo!”
lo rimproverò Aquarius, per voi voltarsi verso Galatea, la
quale non sembrava
però troppo turbata.
“È
vero, in linea del tutto teorica l’idea di indagare su questa
cosa è stata di
Ayame e poi dovrei riferirle tutto” ammise la Sacerdotessa
mentre, sulla soglia
della cucina, osservava Milo prendere qualcosa dal frigo.
“Non
avevo dubbi”
“Ma
ora che so tutto e che ho il quadro completo della situazione, ti giuro
sulla
mia stessa dea che non le dirò nulla”
Il
Cavaliere dell’Ottava passò oltre la ragazza non
risparmiandole un’occhiata
scettica e, una volta giunto in soggiorno, si stappò una
birra e si lasciò
cadere sulla poltrona.
“Ebbene,
parlate”
“Lo
so che sono sempre stato scettico riguardo il recupero di quella
bottega”
iniziò Camus, prendendo una sedia dal tavolo lì
vicino per sedersi di fronte
all’amico “Ma l’idea è davvero
buona, geniale oserei dire! È qualcosa che
Psiche non si aspetterebbe mai, specie dopo tutto quello che le
è successo”
“Tu
non l’hai vista oggi, alla spiaggia” lo interruppe
Milo, in quel momento di
gran lunga più scettico di quando l’amico fosse
mai stato “Non hai visto con
quanta rabbia e delusione mi ha guardato. E ha ragione a farlo, ha
ragione ad
avercela con questo maledetto posto! Qui non c’è
spazio per i sentimenti né per
i sentimentalismi, è quello che ci hanno insegnato”
“Vada
a farsi fottere quello che ci hanno insegnato, Milo!”
scattò Camus. Con una
zampata fulminea tolse dalle mani dell’amico la bottiglia di
birra, che cadde a
terra poco distante, frantumandosi e macchiando il pavimento. Scorpio
però
neanche ci fece caso, gli occhi azzurri e fiammeggianti di Camus lo
tenevano
inchiodato al suo posto e gli impedivano di volgere lo sguardo altrove.
“Tu
stesso mi hai detto che questa è una seconda occasione che
non avevi intenzione
di lasciarti sfuggire, e adesso alla prima difficoltà molli
tutto così? Sei un
vigliacco, un bugiardo o cosa, Milo? Dimmelo!”
Nell’inveire
contro Scorpio, Camus l’aveva preso per il bavero portando il
viso dell’amico
ad un centimetro dal suo. In quel momento erano occhi negli occhi,
oceano e
ghiaccio che si fronteggiavano, e il ghiaccio non aveva intenzione di
arrendersi.
Milo
riuscì per un attimo a distogliere lo sguardo per puntarlo
oltre Aquarius, dove
Galatea osservava la scena. Sembrava un po’ scossa dalla
piega che aveva preso
la situazione, ma sul suo viso rifulgeva la stessa determinazione che
Camus gli
stava dimostrando in quel momento.
Tornò
a guardare l’amico e gli sorrise, quindi si liberò
gentilmente dalla sua presa.
“Non
sono un vigliacco… e nemmeno un bugiardo. Sono solo un
coglione” ammise
alzandosi in piedi.
L’atmosfera,
fino a poco prima tesa come una corda di violino, si
alleggerì e anche Camus e
Galatea si sciolsero in un sorriso.
“Avete
ragione. Stavo mollando nel momento in cui non avrei mai dovuto
mollare”
“Ha
bisogno di tutto questo, ora più che mai”
confermò Galatea.
“E
noi ti daremo tutto l’aiuto che possiamo” aggiunse
Camus.
Milo
li guardò entrambi, scorgendo nel loro timido e strano
rapporto uno sprone in
più per andare avanti. Come gli aveva detto Camus, quella
era la loro seconda
chance. Se quel frigido del suo amico era in grado di approfittarne,
seppur coi
suoi tempi biblici, allora anche lui doveva farlo, esattamente come si
era
prefissato.
“Grazie,
ragazzi” disse lo Scorpione, stringendo la spalla
dell’amico. Perché quel
ringraziamento era più che altro rivolto a Camus, che per la
prima volta nella
sua vita aveva sentito divampare il fuoco dentro di sé ed
era riuscito a
riaccendere quello di Milo.
Sentendosi
di troppo, Galatea sfruttò la scusa dell’andare a
cercare qualcosa per pulire
la birra dal pavimento e uscì dal soggiorno, non prima di
averci lanciato
un’ultima sbirciata per vedere i due amici scambiarsi un
abbraccio fraterno.
Tenere
gli occhi aperti cominciava a diventare un’impresa titanica.
La notte era
passata praticamente insonne sia per Ayame che per Kanon, nessuno dei
due era
voluto tornare ad affrontare gli incubi che aspettavano nella
profondità del
loro subconscio. Tuttavia, nonostante i tentativi di Ayame, il Generale
non
aveva voluto parlare dell’accaduto e, dopo aver medicato
scrupolosamente la
ferita che la ragazza si era inferta cadendo dal letto, si era diretto
all’arena
per allenarsi in solitaria, lasciando Ayame con la sola compagnia degli
echi
della Terza Casa. Giunta l’alba, la bionda si era allora
diretta al villaggio,
accompagnata dalla prima guardia capitatale sotto mano e armata di uno
dei
boccioli di Aphrodite e di tutta la determinazione che possedeva per
scoprire
qualcosa di più sull’enigmatico guerriero e sul
suo legame col piccolo Proteo.
Era
ormai mattina inoltrata e la mancanza di riposo iniziava a dare segno
di sé. Il
fiorellino come al solito non voleva saperne di sbocciare né
Ayame si stava
prodigando perché la cosa cambiasse. Praticamente sdraiata
sul bordo della
fontana che adornava la piazza principale del villaggio, cullata dal
vociare
degli abitanti, stava lentamente scivolando nel mondo dei sogni quando
uno
spruzzo d’acqua fredda la riportò bruscamente nel
mondo degli svegli.
Rimessasi
subito a sedere, si asciugò il viso e prese a cercare il
responsabile del suo
risveglio, quando sentì una risata sommessa alle sue spalle.
“Ihihih!
Stavi cominciando a russare” rise Proteo, mentre si dondolava
sul bordo della
fontana.
Ayame
rise a sua volta e si mise a sedere. “Come mai da queste
parti, Proteo? Non sarai
di nuovo scappato” gli chiese.
Il
ragazzino alzò le spalle “C’era lezione
di matematica, ho chiesto di andare in
bagno”
“E
vieni sempre in bagno
qui?”
“Dipende…”
rispose lui vago.
“Ti
dovrei riportare in classe per le orecchie, lo sai?”
provò a minacciare Ayame,
ma Proteo non si lasciò intimorire.
“Anche
tu stavi dormendo invece di fare quello che devi fare con
questo” rispose lui
risoluto, facendo sventolare il bocciolo davanti al viso della ragazza.
“Ehi!
Dove l’hai preso?” domandò lei,
riprendendoselo, imbarazzata per essere stata
colta in flagrante.
“Ti
era caduto mentre dormivi. Che ci devi fare? Ce l’avevi in
mano anche ieri”
“Sei
troppo sveglio e curioso per avere otto anni”
ribatté lei dopo qualche istante.
“Me
lo dicono sempre anche le educatrici” Proteo
gonfiò il petto, orgoglioso “Allora,
cosa devi farci con quel fiore?”
Ayame
sospirò, avendo inteso che il ragazzino non aveva intenzione
di demordere. “Beh,
che tu ci creda o no, devo farlo sbocciare”
“E
come fai? Non hai mica un potere come il Cavaliere dei Pesci”
constatò il
bambino, andando involontariamente a toccare il nervo scoperto di
Ayame, che ci
mise qualche istante a formulare una risposta sensata.
“Teoricamente
dovrei averne uno simile”
“Sei
un Sacro Guerriero di Atena?” domandò il bambino,
con la voce bassa da
cospiratore ma il volto illuminato dall’ammirazione.
“No,
non proprio, sempre a livello del tutto teorico io sarei…
una dea”
A
quella rivelazione Proteo rimase qualche istante a fissarla a bocca
aperta,
quindi scosse la testa “Nah, mi prendi in giro”
Fantastico,
nemmeno
un bambino di Rodorio mi crede
pensò cupamente Ayame.
“Se
sei davvero una dea, perché non riesci a far sbocciare il
fiore?” domandò il
bambino, convinto di averla colta in flagrante.
“Te
l’hanno mai raccontata la fiaba della Bella
Addormentata?” chiese a sua volta
la ragazza, la quale stranamente ci teneva che Proteo le credesse.
“L’ho
sentita qualche volta. La raccontano ogni tanto le educatrici alle
bambine”
“Bene,
allora, è come se io fossi la Bella Addormentata. Invece che
pungermi con un
fuso sono stata punta da uno spillo ed è stato una specie di
stregone alato a
farmi questo, non una strega. Come risultato, la dea che è
in me si è
addormentata e io non ho più il potere neanche di far
sbocciare questo dannato
fiore. Ti ho convinto adesso?”
“Neanche
un po’”
“Grandioso.
E comunque direi che sei stato in bagno
a sufficienza”
Ayame
si alzò dal bordo della fontana e invitò Proteo a
fare altrettanto, ma il
ragazzino non voleva saperne.
“Non
ci torno là dentro”
“Proteo,
neanche ventiquattr’ore fa stavi per finire sotto una
macchina. Hai fatto
preoccupare tutti quanti a sufficienza, non ti sembra sia il momento di
rigare
dritto, almeno per un po’?”
“Che
succede qui?” domandò una voce alle loro spalle.
Entrambi si ammutolirono
quando videro Kanon procedere nella loro direzione. Ad un primo sguardo
sembrava non fosse nemmeno passato a darsi una ripulita dopo
l’allenamento,
aveva ancora la fronte imperlata di sudore e la tenuta era sporca di
terra.
Il
Generale squadrò severo prima Ayame, poi il piccolo Proteo,
e di nuovo quella
sensazione pervase la ragazza, la quale diede una rapida sbirciata al
bocciolo
che aveva in mano: la corolla si stava lentamente aprendo.
Era
un’occasione d’oro per provare a svelare una parte
del mistero che aleggiava
attorno a quell’uomo e non poteva lasciarsela scappare.
Provò ad inventarsi
qualcosa.
“Ero
qui che provavo a fare quello che devo, se capisci cosa intendo, quando
Proteo
è venuto a trovarmi. Ha approfittato di una pausa dalla
lezione di matematica
per fare un giro al villaggio. Gli stavo giusto dicendo che
però si era fatto
tardi ed era meglio se rientrava. Sei d’accordo con
me?”
“L’unica
cosa su cui sono d’accordo è sul fatto che siete
entrambi dove non dovreste
essere” rispose duramente, rivolgendosi poi direttamente ad
Ayame “Ti era stato
detto che non potevi girare da sola”
“C’era
una guardia con me, infatti” ribatté lei con un
tocco di supponenza.
“Eccola,
la tua guardia” Kanon indicò il limitare della
piazza, dove il soldato da cui
Ayame si era fatta accompagnare giaceva svenuto contro il muro di una
casa. “Non
è il loro compito vegliare su di te, ma il nostro. Con tutto
il rispetto per il
loro ruolo, girare insieme ad una delle guardie per te equivale ad
essere sola,
divinità da strapazzo”
“Quindi
sei davvero una dea?” domandò Proteo, con un
principio di meraviglia dipinto
sul volto.
“Mettiamo
in chiaro le cose” continuò il Generale,
frappostosi tra lei e il bambino “Mi
sono esposto a sufficienza con il Gran Sacerdote per te, cerca di non
rendermi
le cose difficili altrimenti ci metto un attimo a riportarti da lui in
cima
alla scalinata. Quanto a te, ragazzino” si rivolse poi a
Proteo, con uno
sguardo non meno severo “Vedi di alzare i tacchi e tornare
all’orfanotrofio, perché
non ho intenzione di rincorrerti di nuovo per tutta Atene”
“A-ah…
io… s-signorsì” balbettò
Proteo, il quale, invece che rifuggire lo sguardo
fiammeggiante di Kanon, ne sembrava talmente calamitato da non riuscire
nemmeno
a voltarsi per correre via. Si avviò verso
l’orfanotrofio camminando all’indietro,
incurante del fatto che potesse scontrarsi con qualcuno, cosa che
accadde
inevitabilmente. Ayame e il Generale non ebbero il tempo di avvertirlo
che il
bambino andò a tagliare la strada ad un mercante che
trasportava diverse
cassette di pomodori. Caddero entrambi a terra insieme al carico che
l’uomo
trasportava. Il mercante cominciò ad inveire contro Proteo,
completamente
ricoperto di poltiglia rossa, ma quando l’uomo
minacciò di rincorrerlo per
tutto il villaggio puntandogli contro un pezzo di una delle cassette di
legno,
vide subito il suo braccio bloccato dalla presa ferma di Kanon.
“Mi
dispiace. È stata colpa mia. Ho spaventato il
ragazzo” disse il Generale con
fermezza, mentre lasciava la presa sull’uomo.
“N-no,
voglio dire… signor Kanon, la mia
merce…” ribatté l’uomo a
fatica, indicando il
disastro ai suoi piedi e addosso al bambino.
“A
quello penserò io” intervenne Ayame, che era
accorsa per dare una ripulita a
Proteo.
Il
mercante la ringraziò con un leggero imbarazzo e
proseguì per la sua strada.
La
ragazza riprese a togliere quanto più pomodoro possibile dal
volto del bambino,
quando questi si divincolò dalla sua presa per recuperare il
bocciolo che lei
aveva lasciato momentaneamente a terra.
“Guarda!
È completamente sbocciato!” commentò
entusiasta “Come hai fatto? Allora sei
davvero una dea!”
Ayame
non riuscì a rispondere, talmente era presa dai suoi
pensieri. Ci pensò Kanon a
rispedire Proteo, ancora sporco, all’orfanotrofio.
La
corolla di petali si era completamente schiusa e sembrava assumere un
colore
sempre più acceso. Lo strano formicolio aveva completamente
pervaso la ragazza,
che riusciva a percepirlo soprattutto sulla mano che teneva il fiore,
come se
la forza vitale che l’aveva fatto sbocciare provenisse
proprio da lì.
Alzato
lo sguardo, Ayame capì da dove invece la stava captando lei.
Accanto a lei, in
piedi, Kanon stava guardando Proteo correre verso
l’orfanotrofio. Non lo perse
d’occhio finché non ebbe svoltato
l’angolo.
Non
c’erano più dubbi.
“A
quanto pare, sei uno dei pochi a cui dà ascolto, se non
l’unico probabilmente”
commentò Ayame, dopo essersi rimessa in piedi.
Sentendo
la sua voce, il Generale parve ritornare alla realtà. Senza
quasi degnare la
ragazza di uno sguardo, prese la strada verso il Santuario.
“Gli
faccio paura, tutto qui. Come alla maggior parte della gente al
Santuario del
resto” rispose cupo Kanon. Non ebbe bisogno di intimarle di
seguirlo, sentiva
la sua presenza alle calcagna, troppo vicina.
Sapeva
di aver commesso un passo falso con Proteo e proprio davanti ad Ayame,
che già
aveva visto troppi dei suoi fantasmi senza che lui lo volesse. Tuttavia
non ne
sembrava turbata, anzi, pareva che questo l’avesse invogliata
ad andare più a
fondo. Era Kanon che non era disposto ad andare oltre, a lasciarsi
travolgere
dall’uragano che Ayame si stava dimostrando essere.
“Non
gli fai paura, ti ammira” ribatté sicura lei, che
cercava di stare al suo passo
“E non fare finta che quel bambino ti sia indifferente,
perché questo dice
esattamente il contrario”
Gli
sventolò davanti il fiore, ma Kanon fece finta di non
vederlo, anche se sapeva
che quella dannata rosa era la prova evidente di quanto Ayame
probabilmente già
sospettava. Ma non doveva sapere, non doveva scoprire che razza di
persona era
stata, e in fondo forse era ancora.
Per
un attimo Atena l’aveva convinto che poteva essere un uomo
migliore, ma il
ritorno alla vita, lo scontro con la realtà del Grande
Tempio, l’incontro con
Ayame, un’altra divinità, avevano riportato
bruscamente in superficie incubi
che pensava di aver ormai sepolto nelle profondità del suo
cuore e della sua
mente e che in quel momento gli stavano annebbiando la ragione, come
era
successo in passato.
Cercò
comunque di mantenere la calma.
“Quello
dimostra solo che forse stai riuscendo a fare il tuo dovere e che a
breve non
dovrò più farti da balia”
La
superò e accelerò il passo, ma Ayame sembrava non
demordere.
“Perché
ti ostini a negare l’evidenza? È per caso un
crimine voler bene a qualcuno, sia
esso un bambino come Proteo o qualsiasi altra persona?”
Ayame
stava praticamente correndo per tenergli dietro. Per quanto fosse
consapevole
di aver quasi oltrepassato il limite con Kanon, nel profondo non era
disposta
ad accettare questo suo cinismo, forse perché implicava
accettare il fatto che
il Generale non provasse nemmeno un minimo di affetto nei suoi
confronti e
avesse accettato di prendersi cura di lei per mero senso del dovere.
“Ma
certo” continuò la ragazza, sulla scia di
quest’ultimo pensiero “È sicuramente
più facile odiare tutto e tutti, incutere timore e trattare
il prossimo a male
parole. È sicuramente più facile stare da soli,
ma ti dico una cosa: stare da
soli è da vigliacchi. Quindi ti chiedo: lo sei, Kanon di
Gemini? Sei un
vigliacco?”
Non
fece quasi in tempo a gridargli contro l’ultima domanda che
si ritrovò contro
la parete di roccia che delimitava la strada verso la Casa
dell’Ariete Bianco, lo
sguardo rabbioso di Kanon ad un palmo di naso dal suo, la mano del
Generale
stretta attorno al suo collo.
“Io
non sono un vigliacco” le ringhiò contro
“E tu non sai niente di me”
“So
quello che ti rifiuti di ammettere a te stesso” rispose Ayame
con la poca voce
che riuscì ad usare e tutta la determinazione che
quell’espressione iraconda le
permise di esternare.
Bastarono
quelle poche parole a far tornare al Generale quel poco di
lucidità che gli
permise di notare che Ayame non sembrava essere minimamente spaventata.
Non aveva
paura di guardarlo negli occhi né di ribattere con
caparbietà nonostante il suo
esile collo fosse completamente in balia della stretta di Kanon.
Fu
lui il primo a distogliere lo sguardo per abbassarlo su quella mano che
stava
nuovamente minacciando un’altra vita. Ayame vide la sua
espressione
trasformarsi da furibonda a sgomenta.
Kanon
lasciò la presa su di lei quasi la sua pelle bruciasse,
anticipando l’ordine
che giunse un istante dopo da Aldebaran, accorso sul posto insieme a
Mu. La ragazza
prese un respiro profondo e si portò istintivamente la mano
alla gola, ma non
smise mai di guardare il Generale, il quale fissava inorridito la sua
mano,
esattamente come era successo quella notte nell’incubo.
“Kanon!”
lo richiamò all’attenzione Mu, risvegliandolo
dallo stato di trance in cui
pareva essere caduto il guerriero.
Questi
si voltò prima verso i due Cavalieri, quindi verso Ayame,
che nonostante tutto
lo stava guardando con apprensione.
Corse
via, senza badare
alla direzione presa, sordo ai richiami di chi si era lasciato dietro,
inorridito da se stesso ancora una volta.
Buonasera a
tutti!
Aggiornamento un po' più rapido rispetto all'ultimo e
capitolo un po' più succoso, come giustamente suggeritomi da
marig :) andando a scavare nel profondo per quanto riguarda un
personaggio in particolare, spero di non averlo snaturato, cosa che mi
dispiacerebbe perchè è uno dei miei preferiti
della saga. Sto parlando ovviamente di Kanon, questo capitolo
è abbastanza importante per quanto riguarda soprattutto il
suo rapporto con Ayame (e volendo anche con Proteo, ma secondariamente
in questo caso). Va anche avanti il timido approccio tra Camus e
Galatea, che, in quanto tale, procederà in modo un po'
diverso rispetto, per esempio, a quello tra Psiche e Milo. Ho
introdotto inoltre il punto di vista dei 'cattivi' e un nuovo dettaglio
che svilupperò nei prossimi capitoli.
Non anticipo altro, ringrazio chi, nonostante le ere trascorse, ha
continuato a seguire la storia e spero che questo capitolo sia di
vostro gradimento.
Martyx
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