And I was made for You.

di kissenlove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tu sei stato fatto per me. ***
Capitolo 2: *** La decisione di Honoka. ***
Capitolo 3: *** Tornati in Giappone ***
Capitolo 4: *** Usui e “il terremoto” ***
Capitolo 5: *** Benvenuto alla Verone Accademy ***
Capitolo 6: *** Punizione! ***
Capitolo 7: *** Innamorata? No, sì... può essere. Arienai! ***
Capitolo 8: *** La confessione di Usui, i ricordi di Honoka. ***
Capitolo 9: *** Senza ricordi, il cuore tremante nella notte ***
Capitolo 10: *** Indecisione? Mille dosi di coraggio per Usui! ***
Capitolo 11: *** Delusione: invito a sorpresa? ***



Capitolo 1
*** Tu sei stato fatto per me. ***


Salve popolo meraviglioso di Efp, sono tornata con il sequel della storia che era a un solo capitolo ovvero “Dirci Addio”. Eravamo rimasti alla partenza di Honoka per Parigi e alla sua confessione sconvolgente a Nagisa di essere incinta di Kiriya Irisaya e di voler andarsene per dimenticarlo, bene, questo è il sequel, posso anche anticiparvi che nel corso dei capitoli può succedere di tutto, quindi leggete e godetevi questo primo emozionante capitolo. 
Uhm, vi piace la foto che apre la storia? L’ho fatta io :D 
Che ne dite di darmi la vostra opinione anche per la foto, e per quanto riguarda il prossimo capitolo, mandatemi la vostra foto modificata e la più bella la inserirò come apertura del secondo capitolo, mi raccomando mandatemela nei messaggi privati, oppure attraverso facebook, Jo Terracciano, mi raccomando ragazzi!
Un bacione, ci vediamo nelle storie, come sempre. 
Grazie a Zonami24 e a Rosanera per aver recensito e grazie anche per i consigli che mi hai dato, cercherò di farne buono uso. 



***

                                                                                                    But I baby I broke them all for You..
                                                                                              Oh, because even when I was flat broke..
                                                                                                You made me feel like a million bucks..
                                                                                                     You do.. and I was made..
                                                                                                               For You.


                                                      

And I was made for You


Sequel di “Dirci Addio” - 


Sai Honoka..
Da quando te ne sei andata dall’altra parte del mondo, non ho fatto altro che pensare a ciò che mi hai confessato, a quelle parole che non riuscivano a uscire dalle tue labbra, il tentativo di sfogare quel dolore immenso che ti portavi dentro da troppo tempo, un dolore che hai dovuto combattere con le tue sole forze. Vedendoti prendere quell’aereo mi sono sentita vuota, imperfetta, perché non ti avrei avuto più al mio fianco come compagna di vita e di estenuanti battaglie contro il male per difendere il nostro futuro da chi ce lo voleva portare via con la forza. 
Shogo mi può regalare la protezione di un abbraccio, il figlio che sto portando dentro di me o la dolcezza di un bacio profondo, ma mai sarà in grado di darmi ciò che mi hai sempre dato tu. Tu, amica mia, mi davi la forza di continuare a lottare, tu riuscivi a porre rimedio ad ogni mio sbaglio, avevi sempre consigli preziosi e una spalla su cui piangere. Nonostante i nostri caratteri diversi, tu mi hai accettato come tua patner, hai voluto che entrassi a far parte della tua vita, e io ti ho permesso la stessa cosa, hai digerito i miei difetti peggiori, e li hai migliorati. Mi hai reso una persona migliore, è grazie a te se oggi posso dire di saper cucinare, ed essere una brava moglie e una buona mamma; adesso che sei andata via, sento che una parte piccolissima che nascondo in mezzo a tanta gioia si è staccata e ti ha seguito ovunque sei. 
Ho capito in questi mesi che quando avevi più bisogno di me non facevo altro che vederti trasparente ai miei occhi, ma Dio, mi sento così stupida, egoista, sento di aver fatto un passo indietro nella mia vita e di non essere più capace di avere quella stablità che tu mi davi, e che mi aiutava a non sbagliare nelle situazioni più tragiche. 
Mi sento egoista ... ma sai Honoka ero così felice di essere incinta, arrivata a un certo punto della mia vita non vedevo altro che quello, e sentivo il bisogno di occuparmi delle cose importanti, di occuparmi del bimbo che stava crescendo dentro di me, dopo tutto quello che era accaduto a me, non volevo che capitasse anche a lui.
Sentivo dei sentimenti fortissimi per quel bambino, e più i giorni passavano e più mi rendevo conto che lui c’era.
Percepivo delle sensazioni che se qualcuno prima di allora me li avesse spiegati così minuziosamente, non li avrei capite, ma ora so che dentro di me c’è la risposta a quegli interrogativi. Sto per diventare mamma, mamma capisci, dentro di me, proprio dentro di me, è pazzesco, sta crescendo mio figlio, e non riesco a spiegarti cosa provo, cosa percepisco quando si muove per farmi sentire la sua presenza, è una realtà Honoka, è tutto ciò che la mia vita desiderava per essere completa. La felicità è così sfuggente, effimera che quando ti volti e poi ti rivolti già è sparita. Lo so, tu mi capisci, sai cosa intendo, perché ti è capitato con quell’imbecille di Kiriya, hai perso lui, ma tranquilla lui non ha solo perso la ragazza più dolce che potesse esistere su questo mondo, ha perso molto di più, ha perso la donna che lo poteva rendere felice, che era capace di azzerare le sue preoccupazioni come tu avevi fatto con me, ma adesso lui non hai niente, è la sua punizione, non sapere che adesso lui avrà un figlio, che tu hai un dono inestimabile, uno dei più importanti, e spero che tu lo stia proteggendo come io sto proteggendo la mia piccola.
Sai Honoka sono successe tante cose da quando sei andata via. Hikari si è trasferita, Mepple non vive più con me, e io ho rischiato la vita; non riesco a scrivere tutto su un foglio, ne servirebbero milioni e non basterebbero. 
Dopo tutto ciò che ho passato, ho avuto paura. Mi sono sentita fragile, impotente, ti volevo vicino a me a stringermi la mano e a darmi quella forza che solo tu potevi darmi; la morte mi è comparsa davanti improvvisamente, e io non ho saputo come combatterla, ho accarezzato l’idea di gettare la spugna, giocarmi la vita come in una partita di carte, e mettere a repentaglio la vita della bimba che portavo in grembo, ma poi mi sono fatta forza per lei.
Lei era stata fatta per me, lei doveva nascere, meritava di vedere la luce come io meritavo di vederla negli occhi. 
Sai Honoka senza di te però tutto mi è sembrato più difficile. Il tunnel che mi aveva inghiottito mi stava lentamente trascinando via con sé, solo il tuo ritorno poteva ridarmi quella speranza che avevo perduto, e solo tu potevi sapere come mi sentivo, e in quanti posti ero stata, perché i segni sul mio viso ne erano la dimostrazione. 
Nella mio momento di follia ho espresso quel desiderio, che volevo si avverasse: che tu tornassi da me.
Ma quando ho preso consapevolezza della realtà, che tu non eri lì attraverso i vetri della galleria a sorridermi e a rassicurarmi che sarebbe andato tutto bene, allora ho perso ogni speranza e mi sono lasciata trascinare via senza più resistenze.


                                                                                                                   Parigi, ore 23.59

Una corrispondenza cartacea era arrivata nell’Hotel di Parigi, dove da circa sei mesi soggiornava Honoka Yukishiro. 
La ragazza si era ritrovata a cercarsi un posto dove stare dopo aver detto ai genitori della sua gravidanza, quando non era stata più in grado di nascondere la rotondità del suo ventre, che giorno dopo giorno diventava sempre più visibile.
I genitori di Honoka avevano accettato il bambino che aspettava la corvina, avevano persino dato il loro contributo economico per farla partorire nel migliore ospedale francese, ma Honoka aveva deciso, dopo averci pensato molto bene, di andarsene perché non voleva essere un peso per nessuno, nemmeno per i suoi genitori.
Aveva lasciato un biglietto dove aveva spiegato le ragioni, aggiungendo che loro avrebbero fatto parte della vita del suo bambino, il bambino li avrebbe conosciuti come nonni, ma lei voleva essere indipendente, prendersi cura del suo piccolo senza l’aiuto di nessuno.
Ogni giorno arrivava una corrispondenza di Nagisa dal Giappone. Honoka era contenta di risponderle sempre, di sapere come se la cavava lì in Giappone e di come procedesse la sua gravidanza, si scrivevano sempre, lettere che arrivavano a distanza di giorni l’una dall’altra, solo con le parole si sentivano veramente vicine, non volevano telefonarsi altrimenti sarebbero ricadute nella nostalgia del passato, e in quei ricordi che avevano condizionato la loro vita da adolescenti.
Non erano mai state adolescenti. Loro erano speciali, non era comunissima ragazzina di dodici anni impegnate nella vita scolastica, che uscivano con le amiche, si divertivano, e che iniziavano a provare per i ragazzi sentimenti ben più forti. La loro vita non era per niente normale, la normalità per loro era noia, preferivano combattere sotto false vesti mostri che piovevano ogni giorno dal cielo e che minacciavano la quiete del giardino dell’Arcobaleno o quella della Luce, o come nel suo caso, innamorarsi di un ragazzo che faceva parte proprio di quei loschi personaggi, rimanere incinta di lui, e vederlo andare via per la millionesima volta, per tornare poi chissà tra quanto. Nagisa era stata più fortunata, aveva trovato in Shogo l’amore vero, anche lei però aveva dovuto lottare tanto per superare la sua timidezza e dichiararsi, aveva poi cercato di allontanarlo quando aveva capito che Dotsuku minacciava di ucciderlo, ma alla fine anche la sua amica aveva dovuto arrendersi a quello che provava e se lo era sposato.
Erano felici e stavano per avere un bambino loro. 
Di lei cosa poteva dire? Era letteralmente scappata dal Giappone, si era scoperta incinta di un ragazzo che l’aveva abbandonata per la sua indole malvagia, e adesso era in Francia, lontano da tutte le persone che riteneva importanti. 
Dopo aver dovuto confessare il suo segreto si era trovata a doversi cercare un posto, dove poter soggiornare. Il posto lo aveva trovato dopo un paio di settimane in un hotel nel centro di Parigi. Aveva prenotato per cinque mesi una delle stanze con il balcone, perché lei non amava essere segregata, amava godersi il panorama da cui poteva ammirare la gigantesca costruzione di ferro che si illuminava e di sera era uno spettacolo da mozzare il fiato. 
Il bambino che portava in grembo, figlio suo e di Kiriya, era in ottime condizioni di salute; il parto era previsto per due mesi, e durante questo tempo doveva evitare i viaggi estremamente lunghi, e sopratutto quelli in aereo quindi Honoka aveva dovuto rinunciare al suo viaggio per tornare in Giappone per stare qualche giorno dalla sua migliore amica Nagisa.
Honoka glielo aveva scritto nell’ultima lettera che aveva mandato appena due giorni fa, ma la risposta non gli era mai arrivata. 
Quella notte era troppo nervosa per posare la testa sul cuscino, e stava seduta sulla sedia ad osservare il cielo stellato di Parigi, accarezzandosi dolcemente la pancia, dondolandosi e qualche volta fermandosi per sentire i lievi movimenti del piccolo, che si andava intensificandosi sempre di più.
Nei primi tempi sentiva solamente piccole farfalle che si muovevano nel suo stomaco, li sentiva solo lei, sembrava essere diventata pazza quando ogni cinque minuti se la toccava, poi i movimenti iniziarono a farsi chiari: il bambino si muoveva, faceva le capriole avanti e indietro, qualche volta impostandosi sotto la pancia. Quando andava a dormire non poteva dormire sul fianco, doveva girarsi a pancia in su perché altrimenti il bambino non si calmava, quasi come se lo volesse far capire che quella posizione per lui era scomoda, e Honoka si faceva comandare e acconsentiva perché di quel bambino si era già innamorata, aveva già voglia di vederlo, aveva già l’impressione di stringerlo tra le braccia, di accarezzarne i capelli, possibilmente del colore suo, e gli occhi, gli occhi quelli di Kiriya, quell’intenso verde smeraldo che ti ipnotizza al solo guardarli. Quando non lo sentiva muoversi, pensava subito che qualcosa non andava, che forse il bambino non stava bene, o si stava strozzando con il cordone, ma la dottoressa che la seguiva, più volte le disse che era tutto apposto, e comunque Honoka aveva deciso di non fare nessun viaggio lungo, e a malincuore dovette rinunciarvi. 
Sbuffò mentre si fermava, - Ehi piccolo, anche tu non riesci a dormire? - domandò a suo figlio, come se dentro alla pancia potesse rispondergli. Il bambino comunque si faceva capire con dei colpetti, e Honoka continuava a trasmettergli tutto l’amore. - Anche io non riesco a chiudere occhio. - continuava lei.
La corvina non aveva paura del parto che avrebbe dovuto affrontare, ne come avrebbe potuto provvedere a un neonato tutta da sola, lei era abbastanza forte per intraprendere un lavoro, ciò che la preoccupava immensamente era che suo figlio da grande avrebbe voluto delle spiegazioni, avrebbe voluto sapere perché il padre non era mai stato accanto a lui, e lei come avrebbe potuto rivelargli, senza scoppiare a piangere, quella terribile verità? 
Era meglio non pensarci per il momento, la corvina voleva godersi la vista e voleva coccolare il suo piccolo, che mai come quella sera si muoveva come una trottola impazzita.
- Ma che succede lì dentro, ti stai per caso strozzando con il cordone? - 
Qualcuno bussò alla sua porta, Honoka posò il libro che aveva tra le mani, e tenendosi con una mano la schiena dolorante, andò ad aprire. Si trovò di fronte uno dei facchini dell’hotel. - Salve - 
-Salve - 
-Lei è la signorina Honoka Yukishiro? - 
Honoka alzò un cipiglio. - Sì, sono io. Qualche problema, stavo per andare a letto. -
-No, nessun problema signorina - rispose quello, consegnandogli il telefonino che aveva tra le mani. Una chiamata per lei.-
Honoka guardò il display.
-Chi mi chiama? -
- Ho sentito che è urgente. Il signore ha detto di chiamarsi ‘Shogo’ - 
Honoka non appena sentì quel nome così familiare sgranò gli occhi, congedando velocemente il facchino, che facendo un frettoloso inchino, le augurò una buona notte e tornò di sotto; la corvina camminò un po’ per la stanza, misurando sempre le stesse mattonelle, indecisa se accettare la chiamata e sentire quello che Shogo aveva da dirle, oppure rifiutare per evitarle un nuovo dolore nostalgico. Il piccolo nella sua pancia scalciò, quasi come se avesse capito che la sua mamma era triste e non sapeva cosa dovesse fare.
Gettò un’occhiata alla lettera di Nagisa posata sullo scrittoio, e dopo essersi decisa premette il tasto per accettare e si portò il telefonino all’orecchio. - Pronto? Honoka Yukishiro, -
- Ciao Honoka - 
Honoka fu percorsa da un brivido di freddo che le salì la spina dorsale, la voce di Shogo era così strana, quasi come se fosse innaturale. Il tono di voce era basso, quasi assente, era coperto da altre voci che parlando di accavallavano, e la corvina non sapeva chi ascoltare. Si concentrò solo su quella di Shogo, che si interruppe con un sospiro languido, mentre lui cercava di studiare le parole da proferire dall’altro capo della cornetta. Honoka iniziò a temere il peggio. 
- Che succede Shogo? - gli chiese nervosa mentre i suoi battiti triplicavano. 
Shogo si era chiuso in una corazza di mestizia e silenzio, e la sua voce prima debole ora era improvvisamente a scatti, come se stesse trattenendosi dallo scoppiare a piangere. 
- Ecco... Nagisa ha fatto un incidente. - 
Una doccia congelata precipitò sulla povera Honoka, che si lasciò cadere il telefono dalle mani. Si immobilizzò ripetendosi più volte nella testa quelle parole ‘Nagisa... ha fatto... un incidente’ come non può essere, le aveva scritto due giorni prima raccontandole che andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi se non poteva viaggiare, che il bambino... e il bambino,  come stava il suo bambino, era vivo, stava bene, erano tutte domande che assillavano la coscienza di Honoka.
Shogo si stava trattenendo dal piangere, probabilmente Nagisa stava male, o peggio, il bambino era morto. 
Honoka scosse la testa per cancellare quei brutti pensieri, e riprese in mano la cornetta.
-Il bambino... c-come sta? - 
- I dottori hanno detto che è ancora vivo, che si aggrappa con tutte le sue forze alla vita... -
- Meno male, almeno la vostra piccola sta bene. - 
Shogo tornò silenzioso. 
Honoka fece mente locale, ricordandosi della persona più importante della sua vita, la sua Nagisa, Nagisa come stava? Stava bene, sicuramente era uno dei suoi scherzi, Nagisa era una roccia, la morte era troppo debole per buttare giù un tale colosso di ragazza, voleva sperarci con tutte le sue forze. Nagisa era troppo giovane, non poteva morire in quel modo.
-Nagisa è in brutte condizioni. - 
-Cosa vuoi dire Shogo? Guarda che vengo lì anche a piedi se necessario! -
-No, Honoka - rispose il ragazzo, - Metteresti in pericolo la vita del bambino. -
-C-come lo sai che sono.. -
Lui non la fece continuare. -Nagisa me lo ha detto. - 
- Comunque, tu hai detto che il bambino sta bene no? Quindi anche Nagisa starà bene.. - 
- Sì, la bimba la vogliono far nascere altrimenti la situazione di Nagisa rimarrà sempre critica. - 
- E può sopravvivere? -
-Sì, secondo i medici. Forse è meglio che facciano nascere la bimba - 
Honoka sentì Shogo spostarsi dalla cornetta per rispondere al richiamo di una delle persone accanto a lui. 
-Scusa Honoka, ci sentiamo domani, e scusa se ti ho disturbato so che lì è notte. - 
- Ma per favore! Tu lo sai che per me Nagisa è al primo posto. Comunque, ti prego, tienimi aggiornata! - 
- Devo andare - 
-E dove, ti prego Shogo, dimmi qualcosa! - 
- Devono operare Nagisa, ti faccio sapere -
-Chiamami ogni ora, anche se alle cinque, ti prego! - 
-Va bene, non preoccuparti. Stai calma, e vai a riposarti. Ti prometto che andrà tutto bene.. -
Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Ci voglio sperare..
Con questa preoccupazione Honoka si rifugiò nelle coperte, lì dove tutta la notte avrebbe pregato e pregato, voleva che Nagisa si salvasse, voleva che quel colosso di ragazza non fosse sconfitta dalla morte, non era giusto, né per Shogo, ne per quella bambina che alla sua nascita avrebbe perso la madre. Il destino certe volte è ingiusto, ma lei non avrebbe mai perso la speranza.. non doveva perderla, Nagisa ce l’avrebbe fatta, in qualche modo..



                                                                                          


 

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Capitolo 2
*** La decisione di Honoka. ***


                       


Salve popolo di Efp e scusate se non ho potuto pubblicare prima però come sempre la scuola è un punto a mio svantaggio, ecco il secondo capitolo del sequel, vi ringrazio cari amici per aver letto o/e recensito il primo capitolo e di averlo messo nelle seguite, i miei ringraziamenti soprattutto a Rosanera e alla mia oneee-chan Zonami84, premetto che questo nuovo capitolo non vi deluderà.
Eravamo rimasti all’incidente di Nagisa e al grande punto interrogativo che vi ho lasciato nel primo, ma ovviamente tutti i misteri che vi sono in questa storia non saranno subito svelati, ci vorrà tempo e come avrete capito questo secondo capitolo sarà dedicato alle due ragazze, Nagisa Misumi e Honoka Yukishiro, come vi svela anche l’immagine del capitolo. Che cosa succederà adesso? 
Honoka andrà in Giappone, accorrerà al capezzale della sua migliore amica mettendo anche lei a repentaglio la sua gravidanza, oppure resterà a Parigi, secondo voi? 
In ogni caso, buona lettera. Ci vediamo sotto.


***






                                                     

And I was made for You


Sequel di “Dirci Addio” - 


Lei ce la farà, lei non può morire così, in quel modo assurdo, lasciando da sola la propria famiglia. Non ci sono riusciti tutti quei mostri che eravamo costrette a combattere ogni volta a distruggerla, niente potrà portaci via la persona più forte che io abbia mai conosciuto, la nostra Nagisa, nemmeno la morte potrà, nessuno. 

In un sogno di mezz’inverno così reale nulla era preciso.
Le forme, le dimensioni degli oggetti attorno a lei, i colori, i lineamenti di una persona che insieme a lei stava in quella stanza, l’unica figura che era certa di conoscere era il suo letto enorme, quello della vecchia casa, e proprio lì una persona vi era sdraiata; la corvina cercò di avvicinarsi meglio anche se non c’era bisogno, lei quei lineamenti li aveva imparati a memoria, se li era stampati nel cuore per non dimenticarseli, per mantenere viva la speranza che un giorno avrebbe fatto ritorno in quella casa, quella vecchia costruzione giapponese in cui lei aveva conservato tutti i ricordi di sua nonna e del suo caro Chutaro, le uniche due persone che si erano prese cura di lei quando i genitori non c’erano. Le lacrime iniziarono a scendere sulle sue guance non appena intravide la capigliatura di scarsa lunghezza color oro, le cui ciocche disordinate si appoggiavano sul lenzuolo, quei capelli potevano essere solamente di una persona che lei conosceva benissimo, il cui nome iniziava con “N” e finiva con “A”. Non ricordava di come ci fosse finita lì nella sua vecchia stanza, non riusciva a collegare il momento, non ce la faceva, era così felice di essere tornata a confidarsi con la sua migliore amica che per un secondo rimosse il dettaglio di essere in un sogno, un sogno che velocemente si stava evolvendo sotto ai suoi occhi, che tra poche ore tutto sarebbe finito, e lei si sarebbe ritrovata nella sua camera a Parigi. Ma a lei non interessava, anche se non fosse stata in un sogno avrebbe potuto immaginare Nagisa in mille modi diversi, magari la sua faccia da cucciolo venendo dalla cucina dopo aver litigato con una patata e un coltello, oppure quando dimenticava la merenda perché era sempre di fretta e le chiedeva di condividere la sua. Anche se era un sogno, un suo delirio momentaneo dovuto alla preoccupazione di non poter più intrattenere con lei un rapporto epistolare, lei era convinta che anche Nagisa dall’altra parte del mondo la stesse pensando e cercando tra tutti i visi che le facevano le visite. 
Il viso così fanciullesco di Nagisa Misumi era capace di strapparle un sorriso, di farle dimenticare tutte le sofferenze che doveva subire ogni giorno, era stata lei a spingerla a non stare sempre sui libri, e che in due ci si diverte di più, è bello conversare seduti al tavolo mangiando takoyaki, perché gli amici sono le cose più importanti che la vita ci regala ed è per questo che sono diventate le Pretty Cure, spinte dal desiderio di proteggere i loro cari e di realizzare i loro sogni. Nagisa era una via di fuga, un posticino protetto dove rifugiarsi nei momenti di crisi, una buona amica a cui affidare tutti i suoi segreti e che mai - mai e poi mai - potrà tradirti. 
Il sogno non aveva portato nella mente di Honoka stralci di ricordi passati, ma anche il tempo indietro.
Gli occhi del colore inconfondibile di Nagisa erano lì che si specchiavano nei suoi per osservarla, ma Honoka notò qualcosa di strano per la prima volta da quando si era svegliata improvvisamente lì, Nagisa.. cioè era lei, non c’era alcun dubbio, ma sembrava quasi più “giovane” intendiamoci non era vecchia, ma il suo viso era come quello di una volta, infantile, giocherellone, era quasi come se fossero tornate adolescenti e si fossero trovate lì come ogni pomeriggio per discutere di problemi di Pretty Cure o per fare i compiti insieme, quei tempi che Honoka ricordava benissimo in cui combattevano nei panni di Cure Black e Cure White, per proteggere il futuro dei due giardini.
Il viso della sua amica era rilassato, così tranquillo che quella tranquillità magicamente si trasmetteva a lei, sulle sue labbra spuntava un sorriso, mentre i capelli nel sporgersi vicino a lei si erano spostati leggermente verso le spalle, ma non erano abbastanza lunghi da sfiorarle. Honoka però era sempre più convinta di trovarsi in un’utopia, perché l’aspetto della sua migliore amica era diversa, dall’ultima volta che si erano salutate all’aereoporto prima che lei partisse per Parigi iniziando una nuova vita, allontanandosi da tutta la sua sventura per aver incontrato un uomo di cui si era innamorata e poi era rimasta incinta. Sapeva che Nagisa adesso era più grande, aveva superato la ventina, il suo sguardo era maturo e da donna sposata, ma in quella visione lei era lei, la sua figlia pasticciona e lei una madre protettiva, così le descrivevano tutte le loro amiche quando non riuscivano a trovare un senso alla loro amicizia; i capelli di Nagisa erano leggermente più lunghi, le sfioravano le scapole ma non così tanto, perché lei li aveva tagliati, non si sentiva a suo agio avendoli davanti agli occhi, e poi un’altra cosa che rendeva quella visione inverosimile era la gravidanza, in quel sogno Nagisa non aveva dentro di sé sua figlia, né tanto meno lei era rimasta incinta, erano ancora adolescenti, con la loro vita tutta da vivere. 
-Smettila di pensare a quello stupido che non ti merita affatto, Honoka! - le disse Nagisa, sistemandosi meglio sulla sedia. 
Honoka guardò bene il volto di Nagisa, abbassando lo sguardo e ripensando a ciò che le aveva appena detto; la corvina ci pensò su, poi capì che quel momento lo aveva già vissuto, uno dei momenti più disastrosi della sua storia d’amore con Kiriya, mentre Nagisa era ancora impegnata a far capire a Fuji-P i suoi sentimenti. Nagisa era tornata dagli allenamenti verso le cinque, e aveva deciso che prima di tornare a casa sarebbe andata a casa sua, perché aveva saputo ciò che aveva combinato Kiriya, e voleva starle vicino. Honoka era stata contenta della sua visita, era quello di cui aveva bisogno per superare quel difficile periodo in cui la sua media scolastica era scesa, e tutti i professori si erano preoccupati per lei perché la ritenevano la “signorina so tutto io” ma anche un genio ha i suoi momenti no, non era un computer, una macchina, era una persona e come tale provava sentimenti positivi e sentimenti negativi, non c’era da meravigliarsi, e Nagisa aveva saputo dare il perfetto consiglio, nonostante in amore lei fosse a zero, ne era la prova le sue cinque dichiarazioni fallite, lei non si era di certo arresa, anzi era sempre più determinata a farsi notare da Shogo, e Honoka la stimava per questo, Nagisa non si abbatteva mai, solo una volta l’aveva davvero vista a terra, una volta quando una sua compagna le aveva confessato la sua cotta per Shogo e lei via via era andata crollando.. 
Kiriya le aveva nuovamente mentito, e lei innamorata come non lo era mai stata di nessuno non riusciva a riprendersi. 
- Pe te è facile Nagisa. - 
La bionda sbuffò, incrociando le braccia alla testa. 
- Ma dai, ma hai visto bene in che situazione sto anche io? Insomma non riesco nemmeno a far capire a Shogo che lo amo! - 
- Già, ma comunque a te Shogo non è come Kiriya, insomma Kiriya è... come dire... uno dei guerrieri delle tenebre e Fuji-P è un normalissimo ragazzo che sogna di diventare un calciatore, insomma ci troviamo in due situazioni differenti. -
Nagisa fece segno di no con l’indice.
-Ci troviamo nella stessa identica situazione Honoka, siamo entrambe innamorate di due uomini che ci fanno soffrire. - 
- In effetti. -
- Tu però non devi lasciarti andare, lui è solo un stupido e sta perdendo la ragazza più dolce che io conosca. - 
Honoka le sorrise. 
- Grazie Nagisa. - la ringraziò. 
Le due iniziarono a ridere, mentre la porta della camera di Honoka si apriva lentamente rivelando nella luce la figura anziana e saggia di Sanae, che con un grande sorriso portava con sé un vassoio con tè e biscotti; la corvina la vide e sentì nuovamente le lacrime pizzicarle gli occhi, era da tanto tempo che non vedeva più la figura della sua dolce nonnina con il suo kimono tradizionale celeste, tanto che certe volte faceva davvero fatica a ricordarla. Sanae aveva lasciato un grande vuoto nella vita di Honoka, un’ulteriore dolore a cui la corvina non si era mai preparata, nonostante dopo il primo malore e il successivo ricovero i medici le aveva predetto che sua nonna aveva un tumore incurabile e per la sua età anche se l’avessero operata non sarebbe riuscita a sopravvivere per molti giorni. I dottori avevano preferito dimetterla in modo che Honoka potesse starle vicino fino alla sua ultima ora di vita, e proprio il giorno ultimo di sua nonna Kiriya se ne era andato via, lasciando di lui solamente il figlio che Honoka stava portando in grembo, questo complicò tutto: Honoka rimase sola, con sua nonna in fin di vita, senza nessuno a cui appoggiarsi, senza Hikari, senza Kiriya, e senza la sua migliore amica. 
Nagisa si era appena sposata, non aveva tempo per pensare a lei, Shogo aveva preso servizio come chirurgo nell’ospedale della città, e lei aveva deciso di sistemare le cose in casa da sola, per finire in fretta e furia quel trasloco. 
Sanae era morta e lei si sentiva troppo sola in quella casa, e dopo aver saputo da Hikari che Nagisa aspettava un bambino il mondo le era precipitato addosso, non che non fosse felice per lei e Shogo, ma avrebbe voluto saperlo da lei e non da altri. Questo aveva affrettato la sua decisione del partire per rifarsi una vita lontana dal Giappone, e ciò che l’aveva convinta più di qualsiasi cosa era la cartolina che le era arrivata e la richiesta implicita della madre di restare stabilmente a Parigi, e lei aveva detto sì, perché ormai non c’era più posto per lei nel cuore di Nagisa, nel cuore della ragazza che lei aveva considerato sua sorella. 
-Nonna! - esclamò Honoka, con gli occhi che le luccicavano. 
-Honoka, piccola. Scusate ho portato un po’ di biscotti e tè. - 
- Grazie Signora. - 
Sanae posò il vassoio sulla scrivania. 
-Lo so Nagisa che a te piacciono molto i miei biscotti, serviti pure. - 
Nagisa arrossì. - Mi spiace. - 
-Non dispiacerti, quando qualcuno mangia ben volentieri i miei biscotti, mi sento soddisfatta anche io. Adesso devo andare, vi lascio parlare tra amiche Honoka. - 
Quando la nonna chiuse la porta fu in quel momento che il viso di Nagisa si dissolse sotto ai suoi occhi, il tutto fu riempito da una luce accecante, si sentiva leggerissima, come se stesse navigando in qualcosa di indistinguibile, mi guardai attorno la stanza aveva fatto posto a un’oscurità quasi soffocante che sembrava immergerla. Improvvisamente una nuova luce investì il luogo e i suoi occhi dovettero riabituarvi alla luce. Guardò di fronte a lei, il sogno si era capovolto, portandola in una nuova dimensione dove un’altra figura sfocata le veniva incontro, si stropicciò gli occhi nel tentativo di chiarire i suoi tratti somatici, abbassò lo sguardo e inevitabilmente si trovò a fissare un finissimo abito bianco che sembrava esserle stato modellato addosso. Era merlettato e plissettato, aveva il corpetto con scollo a cuore, privo di spalline, tempestato di diamanti, e la gonna che si apriva a sbuffo molto raffinata, non ci mise molto a capire che il luogo non era più quello di prima, non ci mise molto a capire che era un vestito da sposa quello che indossava e che non le donava particolarmente, ma che a quell’uomo vestito con uno smoking nero a giudicare dal suo sorriso smagliante non era della sua stessa opinione. 
Si fermò e le tese la mano.
-Andiamo? - e intanto una capigliatura verde incorniciata da bellissimi occhi color ghiaccio le tolsero il respiro, azzerando tutto il resto.
-S-sì - rispose lei, stringendo la sua mano nella sua, la sua pelle era di porcellana, fredda rispetto alla sua calda. 
Non appena le loro mani si ricongiunsero iniziarono a camminare verso le scale dell’enorme scalinata di una chiesa, ad ogni scalino che percorrevano Honoka si sentiva sempre più emozionata. Il braccio del ragazzo si stringeva al suo e frenava la sua insicurezza, accanto a quel ragazzo niente poteva andare storto, quel ragazzo era una benedizione, quel ragazzo che la invitava a passare la sua vita con lui era la sua scelta. Il suo unico destino, con lui non esisteva più dolore, né ripensamenti. 
-Honoka, vogliamo andare. - 
La ragazza si fermò alle porte della chiesa, girandosi a guardare il ragazzo. 
-Sei sicuro? -
I suoi occhi color ghiaccio che le toglievano il fiato la fissarono, e lei si sentì avvampare. Le accarezzò il mento, avvicinando le sue labbra a quelle di Honoka, scambiandosi quasi lo stesso respiro, e lo stesso battito. 
- Kiriya io... - 
Avrebbe voluto dirgli che gli mancava come alito di vita, che lo avrebbe aspettato tutta la vita se necessario, si guardò la pancia, e fu tentata di dirgli quello che bruciava nel suo cuore, che era incinta, che il bambino che aspettava era suo, che era talmente innamorata quasi da non riuscire più a respirare, certe volte aveva creduto di morire senza poter rivedere quegli occhi, gli stessi occhi che avrebbe avuto il suo bimbo quando sarebbe nato. Honoka avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo a sé, baciare quelle labbra che le erano mancate troppo, ma non riuscì a fare nulla, perché quegli occhi la ipnotizzarono totalmente, e rimase così a pochi centimetri dal suo viso di porcellana. 
-Tsk. - posò lui il dito sulle sue labbra, e dopo averle lasciato un bacio sulla fronte, scostandole quella ciocca corvina, le porte si aprirono, e riapparirono nuovamente le lenzuola fredde del letto di un albergo. 
Honoka si girò e si rigirò nel letto, aveva avuto una notte travagliata, una delle peggiori, aveva viaggiato si può dire in ogni scena possibile e inimmaginabile, prima il ricordo di sua nonna, che le portava come sempre un vassoio pieno di biscotti e tè, poi il ricordo di Nagisa a casa sua, e infine... il suo Kiriya e il fatto che nonostante tutto i suoi sbagli le facesse ancora un certo effetto.
Si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore gridando. 
- Cielo! Mio Dio! - 
Una figura comparì alla porta, accorso per il suo grido, spalancando la porta. 
-Mamma! Cosa ti è successo? - 
Honoka si rialzò, mettendosi a sedere vicino alla testiera del letto, e sospirò per asciugarsi il sudore che le imperlava la fronte. 
-Niente, Usui.. - rispose Honoka. 
-Sei sicura? Ti ho sentita urlare, credevo ti fosse accaduto qualcosa. - 
Honoka aveva ricevuto un’unica telefonata di Shogo, la mattina aveva aspettato notizie, notizie che non erano mai arrivate, quella notte aveva rotto le acque, ed era entrata in travaglio prematuramente, aveva dovuto partorire con epidurale, e si era dovuto accontentare di vedere il faccino di suo figlio dal vetro della sala intensiva. Era stata ricoverata lì per più di due settimane, e suo figlio aveva dovuto starci molto di più perché non aveva ancora le difese immunitarie necessarie per sopravvivere nel mondo esterno, senza esporsi a rischi. 
Il piccolino lo aveva chiamato Usui Yukishiro, e insieme a lui aveva iniziato a vivere di nuovo. Aveva fatto sapere ai genitori della nascita del loro nipotino, e poi aveva lasciato l’hotel, trasferendosi in una casa assolo, e iniziando a lavorare come sarta. 
Usui era cresciuto bene anche senza un padre, ormai aveva quindici anni, e Honoka era fiera dell’uomo che stava diventando. Presto avrebbe potuto anche dirgli la verità, era un ragazzo intelligente, e aveva il diritto di conoscere la storia prima della sua nascita. 
- No Usui caro, tranquillo. Stavo solamente rivangando il passato. - 
Il ragazzo sospirò, sedendosi sul bordo del letto. 
-Stavi pensando... a zia Nagisa? - 
Honoka sgranò gli occhi, abbassando lo sguardo, stringendo tra le nocche le lenzuola. Amava suo figlio, era tutta la sua vita, fin da quando era piccolo gli aveva insegnato ad essere sempre sincero, perché la verità è la cosa più importante e di bugie ne esistono tante, mentre di verità una sola. Usui dal canto suo riteneva Honoka la persona più importante, e a quattordici anni aveva deciso di aiutare sua madre economicamente, iniziando a lavorare in una fabbrica. 
- Lei è sempre nei miei pensieri. Non riesco a non pensare a tutto ciò che successe quindici anni fa.. - 
- Deve essere importante quella persona per te. - 
Honoka sorrise, dando un buffetto a suo figlio.
-Sì, devi sapere che tua madre e zia Nagisa sono state molto amiche. Ti voglio bene figlio mio, e credo che anche lei ti vorrà bene se ti conoscesse, perché sei un bravo ragazzo, e un ottimo figlio. - 
Usui abbracciò sua madre. Il ragazzo si alzò dal letto per andare allo scrittoio. - Qui hai tutte le foto vero? - e aprendo un cassetto, ne prese alcune, distribuendole sulle lenzuola, accanto alla madre.
- Guarda questa qui. - le indicò una foto che la ritraeva il giorno del diploma. 
Nagisa scattava con in mano il rotolo del diploma, mentre Honoka lo teneva in mano diligentemente, dietro Rina consolava Shiho che stava piangendo, e Shogo che salutava nella foto le due ragazze.
- Eravate molto giovani. - commentò Usui, indicando entrambe.
- Non sono poi così vecchia adesso.. - 
-E questa invece è la notte che abbiamo passato al luna park per Natale. - 
-Guarda zia Nagisa! - esclamò Usui.
La foto ritraeva invece quattro ragazzi: Honoka che veniva abbracciata da Kimata, un suo grande amico, e Shogo che stava dietro a Nagisa, che era rossa come un pomodoro, era l’effetto che si formava sulla faccia di Nagisa quando Shogo era presente nella compagnia, perché era cotta di lui e andava sempre in panico quando doveva dirgli qualcosa di carino.
- A quel tempo zia Nagisa voleva dichiararsi a Shogo, ma non ce la faceva.. - 
- Alla fine cosa è successo? - 
Honoka prese un’altra foto, una foto che aveva conservato, una foto un po’ sbiadita: il matrimonio di Nagisa e Shogo.
- Si sono sposati.. - Honoka guardò nuovamente il figlio, sfiorandogli la mano sinistra. - E pensa che forse adesso avranno una figlia della tua stessa età.. che forse potrai incontrare molto presto.. - azzardò la corvina. 
Il figlio si illuminò in volto, - Questo significa che.. -
Honoka annuì convinta. 
- Sì, ho deciso. Torniamo in Giappone. - 





Angolo della Love. 

Bene ragazzi, la fine del secondo capitolo è ora giunta. 
Honoka ha sognato tutta la sua vita diciamo, prima con Nagisa e Sanae e poi è comparso il nostro meraviglioso Kiriya! 
Adesso Usui, ovvero il figlio di Honoka quindicenne, è diventato grande... e forse sarà vero quello che ci avrà detto Honoka, Usui incontrerà la figlia di Nagisa? Per saperlo, dovete leggere il prossimo.
Grazie mille per chi recensirà, o semplicemente leggerà soltanto.
Vi adoro amici miei, Love vi da un grande smack. 






 

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Capitolo 3
*** Tornati in Giappone ***




Salve popolo meraviglioso sempre buono con me di Efp, oggi è ufficialmente finito il primo quadrimestre della scuola e sono un pochino libera, ma giusto per ora, quindi ho deciso di dedicarmi a questa storia che spero vi appassioni sempre di più. Come ho già spiegato, questa storia riguarderà i nuovi protagonisti, ovvero quelli della foto, ma cerchiamo di conoscerli meglio, e più da vicino. 
Innanzitutto, parliamo di Usui Yukishiro, abbiamo già avuto modo di conoscerlo nel precedente capitolo. Il ragazzo è nato dall’unione di Honoka Yukishiro, ovvero la nostra Cure White e il ragazzo delle tenebre dagli occhi di ghiaccio e i capelli verde scuro, Kiriya Arisaya; è un ragazzo buono, inteliggente come la madre, ed estremamente affascinante. Per quanto riguarda la ragazza, la protagonista indiscussa della storia è Kazumi Fujimura, nata da Nagisa Misumi alias Cure Black, e il chirurgo Shogo Fujimura, la conoscerete meglio in questo capitolo, e avrete modo di sapere in che modo la vita di questa ragazzina di soli quindici anni si intreccerà inevitabilmente con quella di Usui. Vi lascio al capitolo, ma spero anche in qualche recensione in più. 
Love.
N.b - la foto l’ho fatta io, se la copiate, mettetene la fonte o vi segnalo - ma dai scherzo, comunque mettete la fonte. - 


***

                      
                                                                      

And I was made for You

Sequel di “Dirci Addio”



Tutte queste rughe sul mio viso, ti raccontano la storia di chi sono..
Tutte le storie di dove sono stata, i posti che ho visitato in una sola volta e una sola notte, sospesa tra un mare oscuro e la luce eterna.
E di come sono diventata ciò che sono, ma queste storie non significano niente, sono banali ricordi che condividi con te stessa dall’alto di una galleria, intrappolata in un vetro infrangibile, inerme davanti alla mia morte e ai visi sconfitti di coloro che come me assistono come spettatori a un film drammatico.... ma questo non è un film, è semplicemente la mia storia, ma inutile se non ho nessuno a cui raccontarla, perché nessuno è in grado di vedermi, ci sono ma è come se non ci fossi, e in queste ore ho quasi l’impressione di essere già morta, dubito che dopo potrò più tornare indietro. E’ vero, e io sono stata fatta per appartenermi e per appartenerti. 
Vedo il ragazzo accanto a me. Ha il volto stanco, di cui combatte per stare sveglio, e gli occhi talmente rossi e gonfi, che hanno ormai consumato tutte le lacrime; guarda la scena, vicino a me, ma non sente la mia presenza, sono un fantasma mi chiedo..

In una notte ho fatto il giro del mondo. Mi sono ritrovata in più posti, e ho guardato ogni scorcio del mio passato.
Mi sono ritrovata a scalare le montagne più alte, o a camminare in una bufera di neve.
Attraversato a nuoto l’oceano, e può essere ridicolo, anche senza nuotare sono arrivata.
Ho superato tutti i limiti consentiti, e ho lottato ogni giorno contro mostri di ogni genere, con la paura costante di essere sconfitta, di non guardare più al futuro in un mondo di sole tenebre, ho infranto ogni regola, eppure a cosa è servito? 
Ma quando stavo per abbandonarmi ho pensato “è servito a qualcosa. Se non ci fosse stato questo domani, non avrei provato l’emozione intensa di vedere attraverso un foglio bianco e nero il bambino che stavo crescendo con le mie sole forze, non avrei mai potuto sentirlo crescere, muoversi dentro di me, e nascere sotto ai miei occhi emozionati. Però, diventata Cure Black, io sono arrivata al mio obiettivo: diventare una mamma, proteggere mia figlia, proteggerla dalla morte, da tutto ciò che può ferirla. Ma visto come è andata, ho fallito.”
Non riesco ancora a capire perché sono ancora qui, in questa galleria, di fronte alla scena della mia morte, e non sono ancora morta; se fossi stata sola, se non avessi avuto una personcina dentro di me, mi sarei già arresa? Probabilmente sì. 
Mia figlia... la gioia della mia vita mi ha dato la forza di continuare a essere sospesa, solo perché anche quando non avevo la felicità a portata di mano, tu piccola mia mi facevi sentire la donna più felice del mondo e io sono stata fatta per te, e io sono tua madre. 
Vedi il mio sorriso sulle labbra? 
Sta nascondendo le parole che vorrei dire a questa persona vicino a me, con il viso sbarrato di amarezza, con le braccia incrociate, in atteggiamento contrariato, mentre osserva il lavoro confusionario dei medici, che stanno perdendo di vista la cosa più importante: salvarmi la vita, o meglio, salvare prima la bambina. Che cosa sarei senza quella bambina? 
Se mi salvassi, uscissi definitivamente da questa situazione, a cosa sarebbe servito vivere senza la mia vita? 
Rina e Shiho, quando ho annunciato di essere incinta, mi credevano molto fortunata... dicevano che finalmente la mia vita girava nel modo giusto, ero sposata, avevo un marito fantastico e che mi amava alla follia, oltretutto un trasloco andato per il meglio, e un bambino in arrivo, poteva essere la perfetta immagine di una donna già realizzata... ma adesso, tutti mi credono fortunata, non sanno che la mia testa è un pasticcio, dopo l’incidente non sto capendo più niente, so solo che voglio vivere, ma voglio che anche la mia bimba stia bene, senza credo che morirei senza aspettare altro tempo. Loro non sanno che non sono addormentata, la mia mente soffre, ragione e naviga nel mio passato, un passato che mostra chi sono veramente, da dove vengo, e perché sono in questo mondo. Lo so solo io, e io voglio vedere mia figlia crescere, aiutarla nei disagi della vita, e soprattutto vederla realizzata come ho fatto io, non può finire così no!
Tutte le abrasioni che ho ricevuto nell’impatto, raccontano una storia, una storia terribile fatta dei miei errori..
Tutte le storie hanno un lieto fine, la principessa alla fine si sveglierà e il principe romperà con un bacio il sogno che la tiene prigioniera, ma in questo non so se succederà, non so se finirà bene, ho paura di non farcela, vedo il casino nella sala operatoria e mi chiedo che fine faremo entrambe: almeno la mia vita posso dirla di averla vissuta, ma non posso permettere alla mia bimba di volare in un paradiso, quando non ha potuto nemmeno vedere la bellezza dei fiori, il tepore della luce o la limpidità del mare. Io non posso, non posso vedere la sua fine, quando non ha potuto nemmeno abbracciarla per dare inizio alla sua vita. 
Ma ciò che sto dicendo non vale nulla, perché io non valgo niente, sono aria, e aria resterò fino alla fine..
La speranza è l’ultima a dormire, ah sì è vero sono meno drastica, ma adesso la speranza non serve a nulla. 
Il luogo che prima è silenzio si riempie di un rumore assordante, il mio cuore sta cedendo, la mia mente si svuota, il mio corpo perde consistenza, e la mia vita scivola via come l’acqua dal palmo delle mani...


La decisione era presa non si torna indietro
, si disse una ormai matura Honoka Yukishiro.
Parigi era stata per lei una delle città più belle esistenti al mondo, tutti i turisti ne parlavano bene una volta tornati dai propri cari, definendola la città degli spettacoli notturni con le luci gialli e brillanti che illuminavano la Tour Effeil, che si stagliavano nel cielo e creavano un piacevole contrasto con il blu notte della sera parigina; proprio qui è nato il primo cabaret, dove gli uomini aristocratici potevano bere e divertirsi con la piacevole compagnia delle soubrette che si improvvisavano spogliarelliste, ma Parigi era anche la città degli amori perduti, delle storie impossibile, dei piacevoli incontri romantici sulle panchine che costeggiavano la Senna, dove potevi vedere giovani coppiette, innamorate, scambiarsi timidi baci oppure lasciarsi andare alla passione amoreggiando, forse per questo che ai primi tempi Honoka preferiva starsene nella sua camera, con la scusa di non sentirsi bene o di dover ripassare un argomento per l’università, anche se l’università l’aveva finita già da parecchio. Ciò la confuse ulteriormente, facendole ogni giorno rimpiangere la decisione che aveva preso di allontanarsi per un periodo indeterminato dalla sua amata terra mai dimenticata. 
Il soggiorno a Parigi era stato difficile per certi aspetti. Quando l’aereo stava per decollare, Honoka si era sentita male, che stava quasi per abbandonare l’iniziativa se non fosse stato per sua madre che, stando con lei nel bagno e alzandole i capelli mentre lei vomitava, l’aveva convinta ad andare con loro. Il volo era stato piacevole per Aya e Taro, ma non per la scienziata, lo stomaco era ancora sottosopra, era come se l’aereo si fosse capovolto, anche se questo stava perfettamente volando oltreoceano in posizione corretta. 
Ciò non meravigliò la corvina, quelle nausee che le costavano il dover precipitarsi in bagno ad ogni scalo non erano per il viaggio, ma per la gravidanza che gravava sulle sue spalle come un macigno, che lei nascose alla madre finché poté, e finché la sua pancia rimané piatta.
Nascondere un pancino a malapena visibile alla madre fu abbastanza semplice, con l’ausilio di cappotti pesanti che ingrassavano la persona, dato che quando arrivò lei nella capitale dell’amore era novembre, e lei era al quarto mese. Quando doveva andare a sottoporsi alle solite visite ginecologiche del mese creava un diversivo con i suoi, inventandosi la scusa di voler andare a far shopping avendo visto degli abitini carini in vetrina, che per il momento le andavano ancora. Così i suoi la facevano uscire. 
La dottoressa che la seguiva si trovava appena fuori da Parigi.
Era una donna in gamba, che conosceva bene il suo lavoro e che aveva ben in mente che la prima cosa da fare in una gravidanza era “controllare la crescita del bambino e la salute della madre, in modo che la gestazione vada a buon fine” poi a Honoka serviva una persona di cui si potesse fidare ciecamente, aveva bisogno di qualcuno che le desse un po’ di incoraggiamento per i mesi seguenti. 
Aveva affrontato già quattro visite, e la dottoressa le aveva assicurato che tutto stava andando bene, ma che doveva non abusare troppo della panciera, altrimenti questo avrebbe causato delle conseguenze per il bambino; Honoka aveva deciso di adottare la copertura della panciera ogni giorno per nascondere la grandezza della pancia, ma tutte le strategie furono sventate dalla madre Aya. 
Aya Yukishiro aveva capito dal primo momento che la figlia nascondesse qualcosa, prima le nausee, poi quei giri mensili, e infine la panciera, così aveva messo alle strette la figlia per farla parlare, e dopo tanti giri di parole, un po’ di lacrime, la questione della gravidanza era scivolata fuori dalle labbra della corvina, che infine era precipitata in un baratro di tristezza. 
Aya consolò Honoka dicendole che non doveva più pensare al padre del bambino che l’aveva abbandonata, non doveva guardarsi indietro, doveva andare avanti perché la sua priorità per il momento era la vita che cresceva dentro di sé, doveva pensare esclusivamente a lui.
Così fece la corvina, pensò esclusivamente a godersi serena il momento della gravidanza, e a prepararsi psicologicamente al parto. 
Dopo due o tre mesi Honoka prese la decisione definitiva di lasciarsi tutto il dolore alle spalle: salutò i suoi genitori, informandoli che il bambino, - aveva scoperto che era maschio, - li avrebbe conosciuti e voluti bene come “nonni materni” e inoltre aggiunse che non sarebbe andata a vivere lontana da loro, si sarebbe trovata una camera in un hotel e così se le sarebbe successo qualcosa non sarebbe stato poi così difficile per loro raggiungerla e soccorrerla. Intanto che le ricerche per l’albergo continuavano, Honoka teneva un rapporto epistolare con la sua migliore amica Nagisa, si scrivevano molto, anche due volte al giorno per raccontarsi ciò che succedeva, non potevano telefonarsi, non avevano alcuna intenzione di sentirsi in un modo diverso da quello già accreditato da entrambe, altrimenti sarebbero ricadute nella nostalgia dei bei vecchi tempi e in quei mesi nessuna delle due poteva viaggiare, soprattutto Nagisa prossima al parto, anche se mancava ancora un mese scarso. 
La ricerca disperata si concluse, lei trovò una camera non molto costosa, e lì si sistemò per attendere anche lei il parto. Lì ricevette la telefonata dal marito di Nagisa, il suo amico dall’infanzia, che la informava che Nagisa aveva fatto un incidente, e a giudicare dalla voce, le cose non stavano andando proprio bene, visto che lei era in coma, la bambina a rischio, e l’unica scelta era operarla. 
Chiuse la telefonata, e si stese a dormire, precipitando in un sonno profondo..

La finestra rimasta aperta lasciava entrare un piacevole venticello, mentre la ragazza dormiva, di lato, con i capelli corvini sparsi sul cuscino, e le coperte che le si modellavano addosso. Il suo viso era disteso e rilassato, immerso nei sogni più fanciulleschi, la sua pelle era profumata come la rosa, delicata come una piuma, e bianca come la luna che maestosa si innalzava in quella notte di per sé tempestosa, per le persone in Giappone, che su un filo di tensione, attendevano qualche notizia. 
Erano l’una e qualcosa quando il telefonino, rimasto sullo scrittoio, squillò una chiamata. Honoka si ridestò dal suo sonno improvvisamente, saltando ma ovviamente goffamente a causa del pancione, e andò a rispondere credendo fosse Shogo, con delle notizie positive, sperando. Ma non appena si portò la cornetta all’orecchio, rispose la dolce voce di sua madre e la ragazza sospirò, un po’ delusa.
-Ah, ciao mamma. - 
- Honoka, tutto apposto tesoro. Mi sembri delusa dalla mia chiamata, forse stavi dormendo ancora? - chiese la signora Yukishiro dall’altra parte della cornetta, alla figlia che si era appena seduta alla scrivania. 
- Sì stavo dormendo. - rispose lei, - Aspettavo che mi chiamasse un’altra persona. - 
- Chi, cara? - 
Honoka ci pensò un po’ prima di darle una risposta. - Shogo. - 
Aya rimase in silenzio, come se stesse pensando a ciò che le aveva appena detto la figlia. 
-Cosa è successo a Shogo? - 
Honoka notò uno strano interessamento nella voce di Aya, era come se alla mamma importasse molto del suo amico. Non l’aveva notato, ma adesso che ci faceva un certo caso, loro erano cresciuti insieme, fianco a fianco, non lasciandosi mai; sempre insieme, sempre uniti come fratello e sorella in un certo senso, ma poi diventando grandi Shogo si era trasferito e lei era rimasta nella sua vecchia casa. 
- A quanto pare sua moglie ha avuto un incidente, è in gravi condizioni, e rischia di perdere il bambino. - 
- Oh santo cielo! Hai il suo numero? -
- Perché lo vuoi? - 
- Per fargli una telefonata. - rispose sbrigativa, mentre la figlia recuperava un foglietto dove aveva scritto il numero che era comparso sul display dopo l’ultima chiamata effettuata a mezzanotte. Si sentì un tonfo e delle voci lontane, poi Aya ritornò alla cornetta con in mano un foglietto e una penna, pronta ad annotare il numero che le stava per dettare la corvina. 
- Lo posso chiamare? - 
- Non lo so... - 
- Allora, lo chiamo, ti faccio sapere. Torna a dormire tesoro, buona notte. - e riattaccò. 
Honoka rimase con la cornetta, sospesa come in trance mentre faceva un veloce ragionamento sul comportamento ambiguo della madre, quando gli squilli a vuoto la facero tornare nel mondo reale, lei chiuse e si alzò.
Un dolore però che si arradiò nella parte bassa, la piegò per terra e le impedì ogni movimento verso il letto; i tratti del volto tirati in un espressione di pura sofferenza, mentre si abbracciava la pancia come per proteggere il bambino dentro di lei. Provò a rialzarsi, non erano le solite contrazioni uterine che sentiva di tanto in tanto, erano dei dolori peggiori, che non le lasciavano tregua e le tagliavano il fiato ogni cinque minuti, possibile che il travaglio si fosse così velocizzato, in fondo era soltanto al settimo mese. 
Si sdraiò a terra, raggomitolandosi, non poteva nemmeno prendere il telefono, perché non riusciva a muoversi. 
Che cosa stava succedendo al bambino? Stava male, doveva fare qualcosa, doveva impedire che succedesse qualcosa al suo piccolo, il pensiero che lui potesse soffrire, strozzato dal cordone ombelicale le faceva venire le lacrime agli occhi. Fece di tutto per prendere il suo telefonino, rimasto sullo scrittoio, e facendo appello a tutte le forze che le erano rimaste, digitò il 911. 
Quando arrivò al pronto soccorso non riuscì a capire più nulla, tra il dolore, il chiacchierio dei medici, e la corsa d’urgenza in sala parto.
Non fu addormentata, scelse di rimanere sveglia e di fare l’epidurale, voleva vedere il suo bambino venire alla luce del mondo, così successe, mentre lei percepiva i medici fare del suo corpo tutto ciò che volevano, con la paura che fosse troppo tardi, consolata dalle poche infermiere che le stavano vicino, lei sentì la musica più bella, il canto angelico, il pianto della vita che voleva significare che il suo piccolo stava bene; lei riuscì a tenerlo in braccio per una manciata di secondi, in cui fu contenta che il bimbo avesse gli occhi blu come i suoi, e fosse di una leggerezza e di una delicatezza quando quello di una piccola nuvola spuntata in cielo, ma poi i dottori glielo strapparono di mano, e lei si sentì così vuota non avendolo accanto a sé. 
Si separò da lui solo per alcuni mesi in cui dovette stare nell’incubatrice, poi insieme tornarono a casa dei suoi genitori, dove fu accolta con una grande festa familiare, e da quel giorno non ebbe più notizia di Nagisa. Cercò sul computer qualcosa che riguardasse la sua migliore amica, sperando di non trovare un elogio funebre, perché l’attesa era atroce, le scrisse due lettere in cui le raccontò della nascita del suo piccolo, che aveva deciso di chiamare Usui, perché significava pozzo, perché quel bambino di natura era sempre stato il primo della classe, e aveva sempre costituito un vanto per i maestri. Usui aveva imparato a essere gentile, a essere un bambino prodigio già a quattro anni, quando cadde giù dalle scale e non si fece neanche un graffio, ma al tempo stesso suo figlio era dolce, romantico e molto legato a lei, non era mammone, ma sapeva di dover molto a sua madre, che lo aveva messo al mondo e cresciuto senza un padre.
Non faceva molte domande Usui sul conto del padre, di lui aveva soltanto ereditato i capelli, e la pelle di porcellana, a quindici anni Usui chiese alla madre per quale motivo l’aveva lasciata, e Honoka rispose che suo padre non era un essere come tutti gli altri. 
Honoka non volle mai discutere con Usui della sua vita passata da Pretty Cure, quindi Usui non conosceva nemmeno l’esistenza di Dotzuku, nè di Mipple, né del Giardino della Luce e di tutte le battaglie della madre, perché la corvina preferì che vivesse la sua vita da ragazzo normale, e così fu per almeno tutto il tempo trascorso a Parigi..
Adesso stavano tornando, Usui era molto felice della decisione, aveva sentito e respirato dai racconti della madre fin da quando era nato del meraviglioso fiume che scorreva nei pressi della casa di Honoka, aveva immaginato di viverci e di conoscere la zia Nagisa, lo zio Shogo, e tutte le persone che sua madre gli descriveva, era così emozionato di tornare in Giappone, ma era un pochino confuso del fatto che sua madre lo volesse a studiare proprio alla Verone Accademy, la scuola che aveva frequentato lei da giovane. 
-Usui hai preso tutto, vero? - chiese Honoka, mentre scendeva dal taxi, al figlio che portava in mano le due borse capienti.
- Sì, mamma. Tutto - le rispose, pagando ciò che doveva al taxista, che se ne andò molto soddisfatto della mancia.
- Allora, tesoro sei contento che torniamo in Giappone? - 
- Sì, mamma. Sinceramente le ragazze francesine non sono poi un granché.. - Honoka diede un buffetto al figlio, mentre oltrepassavano le porte scorrevoli dell’aereoporto internazionale, da dove poi sarebbe partito il loro volo di dodici ore. 
-Mamma, dai non trattarmi da bambino! - 
- Ma tu sei il mio bambino. - rise la corvina, fermandosi all’accettazione per chiedere spiegazioni alla signorina dietro al bancone, sulla direzione da prendere dopo aver prenotato il volo di solo andata. La signorina gentilmente diede le opportuni informazioni, mentre faceva gli occhi dolci al figlio di Honoka, venendo fulminato dal blu notte dei suoi occhi, a contrasto con i suoi capelli verdi, e la sua pelle bianca come la porcellana che lasciava distese le francesine del suo corso. 
- Ahm, andiamo figlio mio o faremo tardi. - disse Honoka, trascinando via il figlio recandosi a fare la fila per salire sull’aereo.
- Mamma, cosa ti prende, sei per caso gelosa? - 
- No, tesoro. Cosa vai a pensare, solo che la tua bellezza è talmente inestimabile che non voglio che la sprechi.. - 
- Certo, mamma - 
Si fermarono per fare la coda, davanti a loro almeno una ventina di persone tutte sul loro volo. Honoka si trovò nuovamente a pensare al passato, a quando prima di partire Nagisa era corsa a cercarla per salutarla e per chiederle scusa, e lei le aveva rivelato che era incinta di Kiriya, ora stavo tornando da lei, implicitamente, nella sua vecchia casa sperando che fosse ancora in piedi. 
- Mamma, non salutiamo nessuno? - le chiese il figlio, lasciando le borse per riposare le mani, che si erano fatte rosse per il peso.
- I nonni ci hanno salutato ieri, i tuoi compagni ti hanno fatto una festa ieri, e poi qui non abbiamo nessuno. - 
- Credevo che nonno e nonna venissero di nuovo! - 
- Sai benissimo che a loro non piacciono gli addii. - 
Usui si sistemò meglio il ciuffo di capelli, mentre la fila iniziava a diminuire, man mano le persone mostravano il loro passaporto e entravano nella galleria diretti all’aereo. Riprese in mano le borse capienti, e fecero un altro passo, davanti a loro solo due persone che attendevano la fila, e altre venti dieci di loro. Ma tutti andavano in Giappone? 
Gli altri voli erano quasi deserti, aveva visto addirittura file inesistenti, la loro era la fila che aveva battuto il record mondiale.
Quando anche le due persone sparirono nella galleria, era arrivato il loro turno, ma Honoka era come ghiacciata sul pavimento.
- Mamma, dobbiamo andare - le ricordò il figlio, picchiettandole la scapola. 
Honoka scosse la testa, e riprese a camminare nella direzione del controllore, che visto il loro passaporto e controllato i bagagli, li fece salire sull’aereo. 
Dodidi interminabili ore di aereo prima di atterrare sul suolo giapponese.
Per tutto il tempo passato su quel mostro meccanico, Usui non faceva altro che ammirare il paesaggio innaturale oltre le nuvole, dove c’era il cielo, sereno, e le nuvole sembravano zucchero filato con cui poter giocare. Il ragazzo spostò lo sguardo dall’oblò alla madre, che indossati gli occhiali per leggere, analizzava il volantino della compagnia con aria critica, con gli occhi che viaggiavano da una riga all’altra, e si stupì di quanto sua madre fosse coraggiosa, quando lei aveva detto che non lo era per niente, ritenendo che Nagisa fosse la sua forza, e che solo per lei e per il desiderio di rincontrarla stava tornando, mantenendo ancora la speranza che fosse ancora viva. 
Usui sapeva che Nagisa stava lottando tra la vita e la morte, quando era nato lui. Fin da piccolo aveva voluto bene a quella donna che non conosceva nemmeno di persona, e spinto dalla curiosità non vedeva l’ora di incontrarla dal vivo. 
Atterrarono dopo dodici ore di puro strazio, e quando Usui scese dal mostro, capì subito di aver cambiato aria e si sentì veramente a casa..

 

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Capitolo 4
*** Usui e “il terremoto” ***


                            


Salve, buonasera amici, torno con il quarto capitolo di questo sequel, allora... ci eravamo lasciati con l’arrivo di Honoka e Usui in Giappone, dopo molti anni trascorsi a Parigi, vi avevo anche anticipato che il nostro ragazzo, già amato dai recensori, presto farà la piacevole conoscenza di Kazumi Fujimura, la prima figlia di Nagisa e di Shogo. Parlando proprio di lei, abbiamo avuto modo di accennarla, quindici anni prima, quando stava nascendo prematuramente dopo l’incidente che aveva coinvolto Nagisa, di cui non abbiamo ancora notizie, ma arriveranno non preoccupatevi come vi suggerisce anche la foto che apre il capitolo, fatta sempre da me.
Su Kazumi non accenno nulla, vi dico solamente che lei è la protagonista femminile della storia, e che avrà rapporti presto con Usui..
Cosa succederà? Andate a scoprirlo, e lasciate qualche recensione, please. :D


***

 

And I was made for You

Sequel di “Dirci Addio”


                                                                                 Giappone, Ospedale ore 01.00 - quindici anni prima. 

“Sai che potrebbe anche non superare la notte? In ogni caso, dovresti essere preparato psicologicamente al peggio” gli aveva detto uno dei suoi colleghi, avvicinandosi a lui che stava riposando su una scomoda sedia della sala d’aspetto, ormai vuota. L’intervento era durato molto, Nagisa dopo il durissimo scontro frontale che l’aveva mandata fuori strada e azionato gli airbag della macchina non si era più svegliata, aveva completamente perso i sensi, sbattendo la testa violentemente contro il volante, che gli aveva prodotto un taglio lungo quasi quanto una spanna. In ospedale ci era arrivata meno di un quarto d’ora fa, riportando vari abrasioni sulla pelle, un’emoraggia interna, una commozione cerebrale, varie costole rotte e la milza in un pessimo stato, e la bambina non migliorava le sue condizioni interne; la bambina stava bene, non aveva riportato molti danni, era lei che aggravava la situazione di Nagisa, e i medici avevano deciso di intervenire pesantemente su di lei, facendola nascere a forza, anche se non era ancora pronta, anche se le acque di Nagisa ancora non si erano rotte del tutto. Si era deciso di operarla stesso quella sera, Shogo provava una certa pena per sua figlia, la sua nascita non era stata poi tanto tranquilla come lui e sua moglie se l’erano immaginata. 
La bimba era forte, ma non era pronta. Shogo aveva chiesto di aspettare un po’, che i mesi ancora non erano finiti, e che il taglio cesareo avrebbe potuto aggravare anche le condizioni della nascitura, di esperienza ne aveva assai per essere convinto di ciò che stava affermando, ma il primario non ne aveva voluto sapere, e sua figlia fu strappata al caldo calore del ventre materno prima del previsto. Un batuffolino di lana morbida che veniva fuori, tutta sporca, piena di sangue, ma almeno era viva, e questo tolse un macigno pesante dal cuore del medico. 
I medici avevano comunque deciso di intubarla per ventiquattro ore in incubatrice, per vedere se tutte le sue funzioni principali rispondessero bene, dato che Nagisa era all’ottavo mese, e di norma i polmoni si stavano appena formando.
Il problema non era la bambina, Kazumi, il suo nome lo scelse lui, era nella lista dei possibili nomi se fosse stata una femmina, e lui decise che quel nome era perfetto per lei, non solo perché lo aveva scelto Nagisa, ma anche perché significava bellezza vittoriosa, una piccola perfezione, i cui capelli erano castani come i suoi, e gli occhietti che apriva per vedere il mondo che le stava attorno, ma che ancora non comprendeva erano il delizioso color caramello che lui aveva visto così in una sola persona, sua moglie, la donna che gli aveva regalato quel dono prezioso. 
Se fosse morta, cosa ne sarebbe stato di quella creaturina? 
Era talmente innocente, indifesa e fragile che se tu l’avessi presa di peso magari ti si sarebbe spezzata in mano. E poi, che cosa aveva fatto di male quel piccolo angelo per essere privata della sua mamma così presto? 
Shogo non aveva tutte le risposte, lui era un comune dottore, non era Dio, se mai una persona così esistesse.. e se veramente quella persona esisteva, lui gli avrebbe soltanto posto una domanda, che richiedeva una risposta chiara. 
Perché a me? 
Magari Dio gli avrebbe risposto che ogni uomo ha il suo destino, ma Shogo non credeva e non avrebbe mai creduto che il suo destino fosse quello di perdere la sua felicità senza neanche aversela goduta abbastanza. 
Cercò di riposarsi, reduce da delle ore di inferno, passate nella galleria a osservare critico un lavoro confusionario, ma non appena chiuse gli occhi per annullare il mondo e tutto ciò che in un minuto gli era capitato, il mondo annullò lui. 
I suoi occhi si spostarono in alto, sul muro reso bigiognolo dall’oscurità più penetrante, dove troneggiava una piccola e sacra statuina, di pochi metri, quella Madonna, che con il visetto rivolto al soffitto, con le mani unite dolcemente a mo di preghiera, intercedeva per lui presso il suo Signore. Lui si fermò ad osservarla, si alzò dalla sedia e le ossa delle gambe gli scricchiolarono tutte assieme, come se qualcosa si fosse messo apposto, e si avvicinò piano, mettendosi le mani nelle tasche, e inscenando improvvisamente un colloquio con quella statuetta, che gli faceva compagnia. 
-Me lo sarai aspettato se fossi stato un cattivo marito... - iniziò, chiedendosi il perché di quella atroce punizione, manco fosse stato un traditore, o uno di quei tipi che picchiano le proprie mogli. Perché a loro tutto era concesso, e lui che era un povero uomo, innamorato del suo angelo, le veniva sottratto in modo assurdo la felicità che stava coltivando? 
La Madonna stava lì, immobile, con le labbra chiuse ermeticamente, nel suo solito gesto di pura pietà.
- Io amo Nagisa, ti prego non portarmela via. - e si inginocchiò a terra, implorando come un pazzo una figura che nemmeno lui aveva la certezza di poter vedere. - Ti prego, non mia moglie. Prendi me, al suo posto. - aggiunse. 
Nessuna risposta, il solito gesto, un gesto di pietà verso gli uomini che sulla Terra combattevano per la vita o si lasciavano andare alla morte; era talmente disperato, che l’unica via in cui si poteva rifugiare era quella divina, non gli importava se i colleghi lo avrebbero preso per malato mentale da rinchiudere, lui voleva un miracolo, non importava se non subito, ma desiderava con tutto il cuore che Nagisa potesse uscire dal coma il prima possibile per conoscere la coraggiosa Kazumi, la bimba che anche in quel tragico incidente, aveva mantenuto intatto il suo desiderio di nascere. 
Qualcosa gli appannò la vista, sentì le lacrime bruciargli negli occhi e spingere per uscire forzatamente, ciò che era successo era stata tutta colpa sua. Nagisa era appena tornata dal campo di lacrosse, lei non giocava più da un pezzo, ma molte volte andava lì per vedere le sue compagne giocare e per distrarsi, e anche quel giorno lei ci andò. 
Lui la telefonò, era preoccupato che sua moglie se ne andasse in giro con un pancione di otto mesi, chiedendole di attendere fino alle nove, fino alla fine del suo turno in ospedale, quando lui sarebbe venuto a prenderla, ma Nagisa non volle sentire ragioni, era cocciuta, testarda, era una vera impresa farle cambiare idea, e lui a malincuore le aveva raccomandato di guidare con cautela, perché era incinta. Quelle le uniche parole, quelle poche parole di disperazione totale e di preoccupazione nel saperla sola, in una macchina, tornare a casa solo per preparargli la cena. Shogo avrebbe voluto dirle che le voleva bene, che la amava tantissimo, che se le fosse successo qualcosa, probabilmente sarebbe morto prima lui, ma lui non ebbe il tempo di aggiungere altro, che lei dicendogli “ci vediamo a casa” riattaccò.
Nessuna notizia fino alle undici, lui doveva tornare a casa verso le nove, ma fu trattenuto da una serie di operazioni urgenti, che non potette smontare, ma quando stava per tornare a casa da sua moglie, fu attirato da un codice rosso che stava arrivando in barella proprio in quel momento, e quando vide passargli vicino, si accorse che era Nagisa e allora non capì più nulla, correndo appresso ai colleghi per sapere cosa le fosse successo. 
Ora era lì, a implorare a Dio di non punire il suo errore, di lasciare che Nagisa uscisse dal coma, che lui fosse punito al suo posto per averla lasciata andare via da sola, in auto, nelle sue condizioni. Non credeva tanto ai miracoli umani, non credeva che un taglio cesareo avrebbero ridotto i danni, poteva solamente sperare che qualcuno lassù facesse un miracolo, di quelli divini, e che stesse affianco a Nagisa per proteggerla al posto suo, che non era stato in grado di farlo. 
Il suo collega comparì poco dopo nel corridoio, si fermò vedendolo così, inginocchiato a terra, con le lacrime che gli solcavano il viso, e gli chiese un po’ confuso. - Shogo, cosa diavolo fai? - 
Nakamura era dello stesso corso di Shogo, ma rispetto a lui che era un chirurgo, lui era ancora specializzando. 
- Pregavo. - rispose il castano, alzandosi da terra, e tenendo ancora lo sguardo ancorato al delicato sguardo della statua.
- Non ti ho mai visto pregare in tutti questi anni che ci conosciamo, è un autentico miracolo! - 
- Non scherzare ti prego, ma hai visto che condizioni sta mia moglie!? - gli indicò la sala intensiva, dove avevano sistemato Nagisa dopo il taglio cesareo. 
- Sì, le sue condizioni sono a codice rosso. - 
- Ho sbagliato... - iniziò il castano, lasciandosi andare di nuovo sulla sedia.
- Non hai fatto niente! - 
- Sì, invece... se io le avessi tassativamente proibito di usare quella maledetta macchina, ora lei non sarebbe lì! - 
- Questo è vero, ma tu non sei uno che legge il futuro, non potevi prevederlo.. - 
- Ma almeno se non avesse usato la macchina! - e si batté la mano in fronte, - Senti non so se Nagisa avesse comunque fatto un incidente stasera, ma almeno non così grave. - 
- Hai ragione, ma smettila, colpevolizzandoti non si risolve nulla, amico. - 
- Oddio, parliamo di mia moglie e della mia bambina, Nakemura! - 
- Dottor Fujimura, stasera lei è padre, e io credo che sua moglie presto uscirà dal coma, è una donna forte, non si farà battere, e poi a qualcosa di importante che le impedisce di morire. - il castano lo guardò, mentre si asciugava una lacrima che stava spuntando; Nakemura aveva imparato presto a non farsi abbattere nelle situazioni peggiori, per questo dopo il liceo si era iscritto a Medicina, ed era diventato specializzando, con mentore Shogo. Ma la sua non era una vera e propria passione, lui perse la sua fidanzata, che morì sul colpo in un incidente con la moto, e da quel momento la sua vita cambiò totalmente, e smise di essere un ragazzino ribelle, crebbe, e diventò qualcuno. 
-Cosa? -
-L’essere diventata madre, per esempio, ciò rende le donne lottatrici. - 
Shogo sorrise, la sua Nagisa era lottatrice di natura, non c’era alcun bisogno di diventare madre perché lei lo diventi. 
Quando lui e Nagisa si erano fidanzati, con la benedizione dei genitori di quest’ultima, perché i suoi erano morti, Nagisa gli aveva rivelato di essere stata in passato Cure Black, e che purtroppo se voleva sposarla e formare una famiglia con lei, doveva convivere con questa sua doppia identità, magari finendo anche ucciso da quei mostri di Dotzuku, ma lui non si era spaventato e le aveva risposto che non aveva paura, e che per lei era pronto a fare qualsiasi cosa, perfino mettere a rischio la propria vita se fosse stato necessario. 
- Ma mia moglie è già lottatrice, Nakemura - 
Nakemura gli sorrise, accerchiandogli amichevolmente le spalle. 
- Adesso puoi farle visita, però non devi stancarla. Ha subito un operazione, ed è meglio che si riposi. - 
- Grazie. - gli disse Shogo, ricambiando quella stretta. Nakemura era sì il suo “alunno” ma si era dimostrato nel tempo un ottimo amico, e un grande confidente. Di lui si fidava, conosceva la sua tragica storia e del fatto che quando morì la donna con cui aveva pensato di passare la sua vita, si era dato poi all’alcol e alla droga, scoprendo una parte di lui che non conosceva: era gay, era un ragazzino che vedeva la vita in modo diverso, e a cui piacevano i ragazzi, Shogo lo aveva vissuto in prima persona. Era appena arrivato specializzando, scoprendo pochi mesi prima di essere predisposto ad amare il suo stesso sesso, e lui cercò di provarci con lui, ma ovviamente Shogo era innamorato e felicemente fidanzato con Nagisa, e quando Nakemura scoprì che Shogo sarebbe diventato il suo mentore, voleva morire, da quel momento non ci provò più, e diventarono ottimi amici e colleghi. Shogo gli imparò tutto del suo lavoro, come destreggiarsi nelle situazioni paranormali, come non perdere la calma durante un operazione difficile, come rimanere in sé se il paziente non ce la faceva, le cose che un medico doveva sapere, ma la cosa più importante che gli insegnò fu forse quello di provare a salvare una vita ad ogni costo, perché perdere una vita significava perdere se stessi, ma cosa più grave, significava fallire nel proprio lavoro. Un medico era per principio uno specialista nelle vite umane, e Nakemura aveva imparato presto il suo mestiere, al fianco del chirurgo Fujimura, e proprio in quel mese si era deciso di farlo entrare in modo definitivo nella equipe medica. 
- Allora viene capo? - gli tese la mano, ma mentre stava per rispondere, il telefonino gli vibrò nella tasca dei pantaloni, dato che per educazione verso la sua veste, non teneva mai il cellulare spento, ma in vibrazione, e di solito quello che squillava di più non era il telefono, ma il suo cerca persone. 
- No, vai tu. Io ti raggiungo, non sarebbe educato entrare nella sala intensiva con il telefonino all’orecchio. -
Nakemura annuì, e alzatosi sparì nella stessa direzione da cui era venuto. Shogo si alzò, e mise le mani nelle tasche del pantalone, avvicinandosi ai vetri della finestra che propinavano una veduta notturna, con solo le luci della guardiola a illuminarla. Accese il display, e vedendo numero sconosciuto si chiese chi fosse il tipo che a quell’ora avesse la briga di disturbarlo, accettò la chiamata e si portò il telefono all’orecchio. 
- Pronto? Dottor Fujimura, chi parla? - 
La persona dall’altro lato della cornetta rimase silenziosa, e Shogo ripetè. - Pronto! Chi è che parla, ho detto! - 
- Ciao - fu la prima parola dell’interlocutore. 
Shogo si fermò un istante, sgranando gli occhi, come se la chiamata di quella persona non se la sarebbe mai aspettata. 
- Aya... - proferì a denti stretti, mentre si appoggiava con la scapola al vetro della finestra, rimasta sempre chiusa. 
- Come ti senti? - 
- Io... come vuoi che stia, mia moglie sta male... - non lo fece parlare. 
- Sì, lo so. Me l’ha detto Honoka... - 
- Se te lo ha detto perché mi chiami..- 
- Sono preoccupata, tutto qui. - 
- Sto bene, non preoccuparti, grazie per l’interessamento comunque. - 
- E la bimba è nata? - 
- Sì. - rispose drastico il ragazzo, come se avesse fretta di concluderla lì. 
- Sono contenta. - 
- Aya, perché mi chiami. Sai benissimo.. - 
- Sì, ma avevo bisogno di sentire come stavi. Adesso ti lascio, ciao Shogo - la donna riattaccò, prima che il ragazzo a sua volte le attaccasse il telefono in faccia. 
- Diamine! Questa donna è esagerata! - si lamentò il castano, sospirando pesantemente mentre un alone si creava nel vetro, e si andava via via diradandosi; Shogo si rifilò noncurante il telefono in tasca, mentre Nakemura tornava nuovamente in corridoio. 
- Chi era? - chiese. 
- Nessuno di importante. Andiamo? - 
- Sì, certo. Sala intensiva, stanza numero tre Fujimura-sempai..
Shogo abbracciò l’amico e si diressero verso la sala intensiva. 


                                                                                             Giapppone, ore 17.00 - presente.

Erano appena scesi dal mostro meccanico, Usui vide un paesaggio differente rispetto a quello parigino, per esempio non c’era sullo sfondo il ponte della Senna con le panchine che lo costeggiavano, né in cielo quella costruzione di ferro, chiamata Tour Effeil; loro andarono immediatamente a recuperare le loro due valigie che si erano portati, e poi uscirono dalla stessa porta scorrevole da cui dodici ore prima erano entrati, chiamando immediatamente un taxi. 
Disposero le valigie nel portabagagli, e poi sua madre diede l’indirizzo della sua vecchia casa al tipo alla guida, che annuendo, accese il motore e loro partirono. 
Usui seduto al lato sinistro, faceva caso solamente al paesaggio che gli propinava il finestrino: distese verdi, alberi ancora spogli ma già pronti ad accogliere i fiori della primavera, e il sole che si stava appena andando a riposare tra le fessure delle montagne in lontananza. Il taxi passò veloce fra le vie strette della città, che per Usui era ignoto, ma che per Honoka nascondeva un pezzo dalla sua infanzia, un pezzo della sua vita passata lì con sua nonna e il suo cane Chutaro, che ora lei ritrovava tutto cambiato rispetto a quando se ne era andata, per cominciare la sua nuova vita metabolizzando il nuovo abbandono del ragazzo che lei continuava ad amare, nonostante poi da lei lui non fosse più tornato. 
Usui vide l’avvicinarsi del posto che Honoka gli aveva sempre descritto nei suoi racconti, facendogli immaginare per la molteplicità dei dettagli, tutta la scena; quel fiume non troppo profondo, che scorreva sotto un ponte, come la Senna, da cui sopra di rado passavano i treni. Era stato due volte un campo di battaglia per le Pretty Cure, ma per Honoka quel posto era molto più che campo di battaglia per Zakenna, in quel posto tanti anni prima lei dovette affrontare il ragazzo di cui si era perdutamente innamorata, e in un secondo momento, con rabbia aveva dovuto dirgli addio, e di lui era rimasto solamente una pietruzza prismatica, che per Mipple significava un altro piccolo passo fino al completamento dell’obiettivo, ma che per lei significava solamente aver perso per sempre lui. Già iniziò a soffrire, quando lo oltrepassarono, Honoka mostrò a Usui il posto dove lei e Nagisa erano solite consumare la loro quotidiana porzione di polpette di polpo, mentre adesso di quella strada non rimaneva niente, se non palazzi, grattacieli, e un parco comunale. 
Un colpo al cuore nel vedere che il chioschetto non c’era più.
- Mamma, siamo arrivati? - chiese il figlio a Honoka, che appoggiata al finestrino, faceva danzare i suoi capelli trasportati dal vento un po’ freddo. 
- No, tesoro. - 
Usui tornò calmo, ad osservare ancora il paesaggio. Ci vollero ancora due isolati, prima di arrivare alla vecchia casa, ancora in piedi, di costruzione prettamente giapponese, che era talmente grande che lì dentro ci si poteva perdere, o addirittura per comunicare ci voleva un telefono in ogni stanza. Niente a che vedere con la camera di Parigi, talmente piccola che per due sembrava un ambiente troppo piccolo, in cui non si poteva nemmeno prendere aria se non per quel minuto balconcino che si apriva su tutto il centro di Parigi, dove ci erano stati per pochi mesi, fino alla decisione di Honoka di ritornare finalmente in Giappone.
Honoka scese dal taxi, dette la mancia al tipo che li aveva accompagnati, e con profonda emozione cercò nella borsa le chiavi che portava sempre con sé, era così ansiosa di entrare in un nuovo capitolo della storia, che a stento riusciva a scavare nella borsa, le mani erano talmente sudate che tutto le scivolava dalle mani, le chiavi, il portafoglio, e sul suo viso stava iniziando a scenderle una gocciolina, che le percorreva il tratto mascellare. Dopo aver lucidamente controllato le mani per prendere le chiavi, le portò vicino alla toppa, che con un rumore preciso, fecero aprire la porta, rivelando agli occhi dei due nuovi coinquilini la bellezza del giardino, la purezza dei fiori e la maestosità antica di una casa che non era mai cambiata, era come se quella casa non fosse appartenuta a nessuno, se non a lei e a sua nonna, la sua adorabile nonnina. Quando si chiusero la porta alle spalle, e iniziarono a camminare, Honoka immaginò come in un film lontano il suo cagnolino Chutaro venirle incontro, per darle il benvenuto con la sua adorabile leccata, quel maschietto coraggioso golden retriever che si era spento un anno prima, dopo una lunga malattia, era stato il suo compagno di viaggio; quando Chutaro se ne era andato lei si era sentita così sola, immaginando che non c’era dolore peggiore che perdere un amico, le sarebbe mancato sdraiarsi per consolarsi sulla morbida peluria del suo cagnolino, ma la pugnalata più dolorosa, e quella che non aveva mai smesso di versare sangue era stata la perdita della nonna, avvenuta poco dopo quella di Chutaro. 
In un anno aveva perso tutte le persone importanti: sua nonna, il suo cane, Nagisa che non vedeva già più, a causa del suo lavoro come allenatrice e del matrimonio, Hikari, e cosa che la distrusse di più, fu perdere il ragazzo di cui si era innamorata, saperlo andare via era stato insopportabile, sapere di non aver nessuno a cui sfogare le sue pene, sapere di essere sola al mondo, o meglio, quasi sola dato che aspettava Usui, la ragione della sua vita, la ragione della sua esistenza, la ragione per cui anche se ricadeva mille volte si sarebbe sempre rialzata. 
Mostrò al figlio l’ingresso della casa, gli parlò di quanto fosse difficile comunicare per la grandezza dell’abitazione, e di quanto fosse faticoso pulire tutte le camere; Usui seguiva il racconto interessato, fino a quando non arrivarono esattamente alla fine del corridoio, che si concludeva con un grande finestrone. Honoka lo spostò. - Questo camera è appartenuta a me, e ora io la do a te. - lo sguardo del figlio iniziò a spostarsi, mentre entravano nella stanza. 
Un letto grande, forse un po’ inutile per una sola persona, e freddo sopratutto da condividerlo solamente con se stesso, attaccato a questo vi era una piccola scrivania in legno, su cui Honoka passava i pomeriggi a studiare, non era una che usciva molto, così gli aveva raccontato Honoka, quando conobbe Nagisa Misumi iniziò ad assaporare il vero motivo per cui era viva, respirava e aveva senso che fosse destinata ad essere nel mondo, altrimenti senza di lei, sarebbe invecchiata sui libri, non avrebbe vissuto esperienze incredibili, non si sarebbe travestita da Cure White, e peggio ancora, non avrebbe incontrato il padre di Usui, nulla rimpiangeva, perché il figlio era la cosa a cui lei non avrebbe mai rinunciato. 
Usui vide il grande specchio e il grande armadio, e si chiese se sua madre in quella stanza si fosse mai sentita troppo sola.
- Una volta sì, ma poi ti ci abitui, tesoro - gli rispose la madre, come se gli avesse letto nel pensiero. - Conosco quello sguardo, dopotutto sono tua madre e una madre deve conoscere a fondo il proprio figlio. - 
Usui prese posto sul letto. 
- Mamma, non ti dispiace? - 
- Ma no figliolo, prendila tu. Io invece starò nella camera della tua bisnonna. - detto questo, aprì le ante del suo armadio, e iniziò a disporre gli abiti maschili che si erano portati da Parigi, tutti abiti delle migliori boutique, più che altro era regali dei nonni di Usui che ci tenevano a viziare il loro nipotino, così come avevano in passato fatto con Honoka il giorno del suo compleanno, era un tradizione che si era velocemente trasmessa a lui. 
- Non avranno esagerato i nonni? - 
Honoka guardò la pila di abiti, portandosi la mano destra sotto il mento, accarezzandosela. - Diciamo di sì. Per loro è una cosa normale, sai anche con me lo facevano. - 
- Facevano cosa? “Viziarti e farti sentire come il loro protetto, come il loro bambino”? - 
-Una specie... a volte facevano anche di peggio, ma dato che non mi vedevano mai, volevano sdebitarsi. - 
- E tu? -
- Io cosa? -
- Soffrivi della loro lontananza? - 
Honoka chiuse le ante, e guardò il figlio, era la prima volta che discutevano così profondamente di un argomento, la sua vita passata Usui non aveva mai voluto conoscerla, non voleva conoscere il nome del padre, non voleva averci nulla a che fare, non lo odiava ma riteneva che il suo comportamento non fosse idoneo a quel tipo di ruolo, un uomo che abbandona la propria donna, che la mette incinta, e non si fa più vivo è un vigliacco che non si prende le proprie responsabilità. Honoka, dal canto suo, non aveva accennato niente a Usui della natura malvagia di Kiriya, nè che lui faceva parte delle tenebre che lei e Nagisa ogni giorno combattevano come Pretty Cure, aveva preferito che il figlio conducesse una vita da adolescente, che frequentasse la scuola, studiasse, e magari si innamorasse.
Forse non così presto, anche perché non si sentiva di essere già quasi nonna, ma almeno una ragazza che gli piacesse e che fosse normale, che non avesse nulla a che fare con il mondo delle tenebre.
- Ho finito. - disse Honoka, evitando il discorso. - Devo fare ancora molte cose, ma per il resto lo lascio a te. -
Usui si alzò dal letto. 
-Mamma? - 
- Sì? - 
- Posso uscire? - la corvina guardò l’orologio al suo polso, erano le cinque e trenta.
- Se mi prometti che torni per cena, Usui. - 
Il giovane sorrise, andando ad abbracciare a e baciarle la guancia, mentre correva a mettersi il giubbino, per andare a visitare un po’ la città che aveva avuto modo di vedere di sfuggita in macchina. Usui era un tipo curioso, amava conoscere tutto, la curiosità era la sua sete di vita e fin da quando era bambino l’aveva seguito nel suo percorso scolastico, sapeva che dietro una cosa materiale c’era tutto un mondo sconfinato e nascosto, da scoprire, trovare e comprendere; da grande avrebbe voluto intraprendere una carriera adatta a lui, ma per ora si limitava a comportarsi da alunno modello, un ruolo che gli calzava a pennello e che faceva impazzire le ragazze del suo corso, ma non i ragazzi. 
Era un tipo introverso, non amava fare amicizie, amava starsene per conto suo, lui era più avanti anni luce rispetto a quei ragazzi con le code o le creste che definiva idioti, lui voleva essere amato e voluto come era, con i suoi pregi e difetti. 
Iniziò a camminare distratto su per il vialetto, voleva passeggiare per schiarirsi le idee, voleva distrarsi prima di cena.
Camminò finché non arrivo al nulla, finché non perse l’orientamento, finché non decise di percorrere la strada a ritroso; stava calando la sera, il cielo iniziò ad imbrunire molto velocemente, le luci si accesero, erano già le sette, e sua madre se non fosse tornato si sarebbe preoccupata, quindi era meglio rincasare. Tornò indietro, con ancora in testa idee confuse, se erano in Giappone perché la madre non accennava a discutere sulla questione specifica “passato?” e perché continuava ad evitare i suoi occhi, perché non li guardava, non sapeva cosa nascondeva sua madre, non sapeva quella casa quanti ricordi racchiudeva, non sapeva cosa aveva passato sua madre prima che lui venisse al mondo, non sapeva quali erano le sue origini, né perché il padre, di cui non conosceva niente a parte la chioma verde che aveva ereditato, aveva abbandonato sua madre incinta, forse non sapeva nemmeno che lei era incinta, o forse era un codardo che aveva semplicemente deciso di non accollarsi questa famiglia. Troppe cose da scoprire, ma non da solo. 
Quando tornò a casa, si sedette a quella tavola grande, insieme al silenzio che gli fece compagnia tutta la cena, dove si sentivano solamente i loro respiri, il tintinnare del campanellino fuori o delle forchette contro la bocca, niente di più, tra Honoka e Usui si alzò un muro di mestizia, che nessuno dei due aveva intenzione di smantellare. Usui assorto nei suoi pensieri e nel difficile gesto della masticazione, Honoka anche lei con la testa tra le nuvole, e con il vago desiderio domani di sfogarsi su una delle tombe del cimitero, magari su quella di Nagisa, che da quel giorno terribile non gli aveva più scritto. Era morta? Perché nessuna telefonata, niente di niente, cosa era successo? 
Quando finirono anche il secondo piatto, Usui si ritirò in camera con la scusa di dover ripassare italiano, e Honoka rimase seduta a contemplare la scena dei piatti vuoti davanti a sé. 
Molte erano le cose che Honoka non riusciva a capire di ciò che era accaduto quindici anni prima, la telefonata di Shogo all’una di notte per avvisarla, la preoccupazione del suo amico di infanzia, i pensieri che le avevano sconvolto il cervello e che non era mai riuscita a mettere insieme, poi il silenzio, il buio totale che fa più paura di una stanza deserta. Nessuna notizia, nessun cambiamento, nessuna novità, e poi in un giorno in cui nulla era destinato a mutare, ecco che il mondo gli aveva preparato quella sorpresa: Usui, suo figlio, che era nato non aspettando altro mese, quasi come uno scherzo del destino. La corvina si mise a ripulire la tavola degli avanzi del riso al curry lasciato dal figlio, che si era ritirato nella sua stanza, mise i piatti nel lavabo, iniziò ad insaponarli e a sciacquarli, e mentre l’acqua limpida del rubinetto scivolava via dalle sue mani come la schiuma del detersivo dalla superficie del piatto, così i suoi pensieri iniziarono velocemente ad addentrarsi nella profonda teoria del passato: il passato che continuava a tormentarla, era come un fantasma che di notte si insinuava nel lembo della coperta, il fantasma che si trovava davanti non era una persona qualunque, la stessa persona che le si presentava accanto, l’ultima volta in abito nuziale, con il suo smoking nero che metteva in risalto la sua pelle di porcellana, il più delle volte le compariva alle spalle, in abiti più comodi, e la abbracciava, avviluppando quelle braccia che lei adorava, che amava più di qualsiasi altra cosa, eppure non bastava, qualche volta le chiedeva di spostarsi i capelli perché lui le potesse baciare il collo e assaporare il profumo di vaniglia che amava da quando l’aveva conosciuta. Lei si girava, lo guardava, guardava la casa che non conosceva e in tutto quel quadretto familiare Usui non c’era, ma lui sì.
La visione spariva, e passava su un altro contesto, un contesto ampio di persone che lei non avrebbe più rivisto: Nagisa, la sua nonnina, le leccate di Chutaro, Shogo e la bambina che non avrebbe mai conosciuto sua madre, probabilmente avrebbe avuto la stessa età del figlio, e lei sarebbe stata contenta di vedere almeno lei, ora che la madre non era più in questo mondo, ora che la persona più forte se ne era andata accompagnata dal suo incrollabile coraggio. 
Honoka si asciugò le mani, e dopo aver ultimato la pulizia, spense le luci e andò a dormire. 
Erano le sette, quando Usui si svegliò. Scostò le coperte e andò da aprire la porta scorrevole che lo immetteva direttamente nel giardino, e si accorse di non essere di fronte alla vista panoramica di Parigi con sullo sfondo la tour Effeil, ma in Giappone dove la natura incontrastata del suo giardino con le rose tutte in fiori, illuminava la sua vista e rendeva piacevole e profumato alzarsi. Usui si stiracchiò per bene, portando le sue braccia verso il soffitto, mentre sbadigliava e accennava un veloce stretching per allenare un po’ i muscoli, e fatto questo attraversò il corridoio per recarsi in cucina a fare colazione, prima di andare a scuola. Da quel giorno sarebbe iniziato il nuovo percorso della sua vita, una nuova scuola, sempre meno amici o forse nessuno, in una città sconosciuta; sua madre gli aveva anticipato che avrebbe frequentato il liceo della Verone Accademy, la scuola dove lei da giovane aveva incontrato Nagisa, il preside era carino e gentile con i suoi studenti, a differenza del vicepreside che sapeva solamente fare il cagnolino e predicare morali a destra e a manca dedicando le sue lodi alla giovane statua del domani, una fanciulla che era il simbolo di quella scuola. 
Le regole erano cambiate: classi miste, ragazzi e ragazze, e per l’uniforme colore rosso scuro e pantalone sul blu chiaro. 
Aprì l’anta dell’armadio, e tra tutte le pile di panni che gli aveva disposto la madre, recuperò il pantalone e la maglietta; il gusto non era originale, le divise erano uguali a quando sua madre frequentava la Verone, per la ragazze la gonnelina a quadretti blu e azzurri, con maglietta e giacca, e per i maschi a differenza della gonna, il pantalone pieghettato azzurro, e la giacca con la cravattina tinta su tinta, per il ragazze il fiocco. Indossò il vestito, si stirò le pieghe del pantalone, e recuperato la borsa con tutto ciò che serviva per quel primo giorno, si recò dalla mamma che lo stava già aspettando, e gli aveva preparato il pranzo e la colazione. Lo aspettava seduta al posto di ieri, non appena Usui entrò le fece un cenno con la mano. - Ciao mamma, - 
-Ben svegliato, Usui - gli rispose Honoka, piazzandogli il piatto condito davanti. 
Usui si sedette, posando la borsa a tracolla sulla sedia accanto a lui.
- Non vuoi che ti accompagni? - 
- No, mamma. - rispose lui, mentre provava le uova. 
- Ti ho già spiegato la strada, vero? - 
- Un centinaio di volte. - 
-Sì lo so, ma ho paura che ti perda, tu ancora non conosci la città ed è bene che qualcuno ti faccia da guida. - 
- Non preoccuparti, so badare a me stesso. Ho già quindici anni ti ricordo. - mise in chiaro Usui, mentre Honoka sospirava, il tempo era passato anche per lei come una folata di vento impazzita, ricorda ancora Usui quando giocava con le pentole e la pasta della dispensa o quando dai nonni ebbe in regalo il primo motorino, e adesso si stupiva a vederlo già indipendente, sapendo che ben presto non avrebbe più avuto bisogno di lei, e lei sarebbe rimasta sola di nuovo. 
- Sì, - biascicò la corvina, con il volto rivolto al piatto. - Dimenticavo che il mio bambino è già un ometto. - 
- Mamma.. - 
- Sì, lo so che tu sei grande ma per una mamma un figlio è sempre una cosa preziosa da proteggere e accudire. - 
Usui finì l’ultimo boccone, e presa la borsa, si alzò andando verso la porta che dava sul corridoio. 
- Devo andare. - si girò, dando le spalle alla corvina. - Mamma.. - 
- Dovresti comprare un cane.. - 
Honoka sorrise. 
- Ci penserò.. bene, vuoi dare un bacio alla tua cara vecchia mamma? - 
Usui andò verso la corvina, e scendendo ai suoi piedi, le diede un bacio al centro della fronte, portando la mano sotto al suo mento, alzandogliela per far in modo che i loro occhi si perdessero gli uni negli altri, il medesimo colore che si specchiava e ritraeva la loro immagine chiara. 
- Buona giornata, mamma. - la salutò Usui, alzandosi.
Honoka scattò dalla sedia, prendendogli la mano delicatamente. - Usui.. - 
-Sì? -
-No, niente. Volevo dirti che oggi andrò al cimitero, non spaventarti se non mi trovi. - 
- Ti comprerò la cena, mamma. Ciao - 
La loro discussione si concluse, Usui chiuse la porta e si recò verso il porticato di ingresso, che si chiuse alle spalle pronto per arrivare nella sua nuova scuola, dai compagni con cui non avrebbe mai fatto amicizia, e in una città che ancora non conosceva a fondo per giudicare o meno, inoltre la sua lingua era ancora da correggere, c‘erano delle parole che suonavano ancora francesi, che non erano adatte a quel posto, sperava solamente di riuscire a parlare con i coetanei. 
Iniziò a camminare su per il vialetto, che usciva su una strada dove Usui notò tanti ragazzi, che come lui avevano la sua stessa divisa e che andavano nella stessa direzione, ragazzi e ragazze, in coppia, che parlavano e chiacchieravano dalla mattina, scherzando con i propri compagni, a volte Usui cercava di comprendere per quale motivo quei ragazzi erano felici quando parlavano con altre persone, lui non ci trovava niente di speciale, poteva benissimo ridere e scherzare anche lui con sua madre, ma a quanto pare il fatto di essere troppo introverso e timido gli impediva di cercarsi amicizie, di stringere rapporti duraturi o di parlare dei suoi problemi con persone che nemmeno conosceva, parlava solo con sua madre quando poteva, si sfogava del fatto che non sapesse condurre una vita senza estraniarsi, si odiava per questo, ma l’unica persona con cui veramente si sentiva libero era o sua madre, oppure un telefonino chiuso ermeticamente e che si portava sempre dietro, come una specie di portafortuna. Un telefonino strano, non uno di quelli che vedendo nei centri commerciali, era bianco e azzurro, il cuore era azzurro, ma possedeva una strana energia che gli faceva pensare che tutto sarebbe andato per il meglio. Un giorno se lo era ritrovato nella sua stanza a Parigi, e da quel momento era diventato il suo diario segreto.
Si fermò insieme allo stuolo di studenti per aspettare che il semaforo passasse a verde, e intanto vedeva le macchine della metropolitana giapponese passare sulle strisce a tutta velocità, a Parigi non era tutto quello spettacolo, non era tutto fumo, non erano grattacieli, palazzi, non era niente e quella cosa già lo interessava particolarmente, essendo un tipo timido ma attento ad ogni minima peculiarità. Stava fermo al marciapiede, e le macchine gli passavano sulla retina come dei punti su una tabellone di notte, quando una voce squillante che penetrò il suo campo visivo gli arrivò al timpano, si girò e nel farlo notò un terremoto farsi spazio, spingendo a destra e a manca per passare. Quando arrivò come un fulmine sotto ai suoi occhi, corse per attraversare, ma proprio in quel medesimo istante una spider rossa stava passando a tutta velocità, il terremoto rischiava di finire schiacciata dalla vettura, sbandata chissà dove, se non era per i riflessi attenti e felini di Usui, che le tirò il braccio, riportandola nuovamente sul marciapiede, evitandole una morta certa. 
Il “terremoto” come lo definì Usui cadde indietro, a contatto con l’asfalto caldo del marciapiede. Usui la osservò, mentre si rialzava, urlandogli contro. - Come ti sei permesso di fermarmi! Stavo battendo un record! - 
Usui rimase immobilizzato, mentre il semaforo scatto a verde, e improvvisamente la folla di ragazzi attraverso, tranne loro due ancora fermi, come congelati, sul marciapiede. 
- Non mi dice neanche grazie? - 
- No! Ogni mattina faccio questa strada, e attraverso il semaforo rosso, e voglio essere la prima ragazza giapponese ad averlo attraversato... - spiegò lei, scostandosi i capelli finitegli davanti agli occhi. 
- Certo, schiacciata da una macchina, santo cielo, non ho mai conosciuto una parigina che vuole finire morta al semaforo..- 
- Parigi? - chiese lei, rimettendosi a posto la borsa. 
- Sì, Parigi. - ripeté lui, avvicinandosi alla tipa, - Uhm.. - 
- Stai alla larga, non faccio arti marziali per niente. - lo minacciò, indietreggiando e mostrando gli arti come un felino ingabbiato. 
- Oh e io non voglio di certo abbordare una pazza che attraverso un semaforo in rosso! - 
Usui si mise ad osservare la figura gracile e longilinea della ragazza, notando una bellezza misteriosa che prima durante il salvataggio non aveva visto, i suoi capelli erano corti, le arrivavano più o meno alle scapole, marrone scuro, e i suoi occhi erano color caramello, ma che al sole davano l’idea di essere stati forgiati con l’oro. La determinazione di quella giovane era stata una vera sorpresa per uno che era sempre stato a contatto con ragazze “disciplinate” per questo aveva subito affibbiato un nomignolo a quella gazzella petulante, che non solo sarebbe finita a tappeto se non avesse fatto qualcosa per evitarlo, ma non sapeva nemmeno ringraziarlo, o perlomeno essere gentile nei suoi confronti. 
- Le ragazzine francesi non sono di certo camioniste come te.. - 
- E io non ho mai incontrato un ragazzo stupido come te, ma c’è sempre una prima volta no? - 
- Almeno ringraziami, a quest’ora saresti già in paradiso.. - fece lui, girandosi a guardare la strada.
Lei gli fece una linguaccia. - Grazie, va bene! - 
- Va bene, prego. - rispose lui. - Eh, comment t’appelles tu terremoto? - chiese lui, mettendosi le mani nelle tasche del pantalone.
La ragazza lo guardò negli occhi, confusa, come se quello che avesse detto fosse arabo per lei.
- Eh? -
-Hai capito cosa ti ho detto? - 
- Sì! Hai chiesto come mi uccido, e io ti rispondo con la corda. - rispose lei.
Usui si battè una mano in fronte, quel terremoto non era anche una totale squilibrata, era anche negata per il francese. 
- No, non come ti uccidi, ma come ti chiami ... terremoto. - 
- Eh? Terremoto, come ti permetti, non mi chiamo terremoto ma Kazumi, chiaro! - 
- Va bene, non ti arrabbiare. - 
- Non sono una francesina, quindi dimenticati delle francesine qui siamo tutte così.. - 
- Si salvi chi può! - rise lui. 
Lei gli fece la smorfia. - E tu, commet tu ta appien? - 
- Guarda che hai sbagliato.. - la interruppe lei, - Si dice in modo diverso, comunque sono Usui, Usui Yukishiro - le mostrò le mano, che lei guardò attentamente. - Non mordo terremoto, - 
- Lo so! - e gli strinse la mano mollamente. - Fujimura Kazumi - 
Si lasciarono, e il samaforo passo a verde, e questa volta fu Kazumi a ripartire bofonchiando tra sé l’antipatia che aveva per quel tipo, Usui sorrise tra sé nel vederla andare via, ma prima che potesse scappare via, la raggiunse. - Terremoto! - 
La diretta interessata si girò.
- Per te, Fujimura. -
- Scusa, terremoto... senti visto che sono nuovo, potresti accompagnarmi alla Verone Accademy? - 
Kazumi ci pensò su prima di rispondere, - Ti ci accompagno... -
- Ti ringrazio. - 
- Ma... - fece lei, portando l’indice in su. - Devi pagharmi 50 yen.. - 
- Cosa! -
- Guarda che scherzavo.. - fece lei di nuovo, girandosi a guardarlo mentre la faccia di Usui diventa ancora più pallida di come lo era, - Ritieniti fortunato, hai la fortuna di arrivare con me - 
- Certo, il terremoto! - 
- Smettila di chiamarmi così, altrimenti non ti ci accompagno. - lo minacciò lei, mentre oltrepassavano le strisce e passavano dall’altra parte, diretti verso la scuola, che secondo il terremoto, ovvero Kazumi non era molto lontano. 



 
 

                    

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Capitolo 5
*** Benvenuto alla Verone Accademy ***


                                                                      

Salve amici affezionati di Efp e di questo meraviglioso sequel di cui abbiamo tantissimo sorprese, prima che mi dimentichi devo augurare una Felicissima Festa Delle Donne posticipata, auguri anche a Nagisa, Honoka e Kazumi ovviamente, viva le donne! 
Allora passiamo a raccontare le vicende successe nello scorso capitolo di “And I Was Made For You” che ha interessato soprattutto il leggendario incontro fra Usui Yukishiro e Kazumi Fujimura. Il primo già avete avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo nei precedenti capitoli a questo, un ragazzo degno figlio di Honoka, studioso, appassionato ma un tantino timido, adesso conosceremo più bene la nostra Kazumi, un nome scelto perché significa bellezza vittoriosa, scelto appunto dal padre - ringraziamo quindi Shogo, il cui mistero ci accompagnerà ancora molto nel corso delle vicende, - cosa possiamo dire della piccola e carismatica Kazumi?
Un esplosione di freschezza, di grinta, di impulsività, ma anche di romanticismo e di pazzia, degna figlia anche lei della conosciuta ormai Cure Black... come vedremo la storia ha ancora molti nodi da sciogliere, ma forse tra questi due ragazzi ci sarà amicizia? Oppure, potremmo sperare in qualcosa di più serio.. - chissà, nel frattempo, leggete sotto. - 

***

 

And I was made for You

Sequel di “Dirci Addio”

Era ancora troppo presto per dire di essersi già ambientato in un nuovo contesto tutto da scoprire, Usui non conosceva nessuno, si fidava della sua impulsiva accompagnatrice, che gli indicava come un bussola la via da percorrere, e lui la seguiva attento per imprimere nella mente il percorso che avrebbe dovuto portarlo alle porte della sua nuova scuola. 
Usui seguiva la chioma castana della ragazzina che si spostava da una parte all’altra, lei non gli camminava più accanto, aveva deciso di allungare il passo superandolo di poco, mentre la stazione compariva all’orizzonte davanti a loro. Mentre velocizzava il passo per stare dietro al petulante scoiattolo, - un nomignolo che gli era venuto in mento poco dopo, - notò di nuovo tutti quei ragazzi con la loro stessa uniforme recarsi alle sbarre per aver accesso ai treni, si strinse la leggera borsa sulle spalle, e sospirò pregando che nella nuova scuola ci fosse qualcuno disposto ad accettarlo come amico e non come ripiego, gli amici a Parigi lo utilizzavano solamente per i loro interessi, vedevano in lui una macchina universale da cui potevano usufruire servigi di ogni genere, e lui stava male al pensiero che non sarebbe mai stato visto come un essere umano con i suoi sentimenti e il suo cuore che reclamava affetto. La ragazzina frenò bruscamente il passo, come se un incantesimo l’avesse incatenata al pavimento, e lui fu costretto a fare lo stesso, impegnandosi ad osservarla. 
La prima cosa che notò di lei fu la spiccata bellezza dei suoi capelli, il fatto che fossero così lisci, così morbidi, tanto che gli venne il desiderio di toccarli per scoprire se erano come lui se li stava immaginando, delle ciocche di scarsa lunghezza le solleticavano il mento, e le contornavano il volto scolpendolo, mentre il ciuffo lungo che era legato da una mollettina dietro le orecchie bruscamente cadde in avanti, sull’occhio destro a quel movimento convulso. La seconda cosa che risaltava, già di prima apparenza, era il fatto che fosse una persona impulsiva, che non badava minimamente alle conseguenze, dopotutto una persona “normale” o con almeno un poco di sale in zucca non avrebbe mai attraversato a tutta velocità le strisce con le macchine che potevano stenderla a terra no? No, lei non se ne importata, e solo il suo intervento fortuito era riuscito a risparmiarle la morte, senza neanche un grazie, ma in fondo ci era abituato, sapeva che tutto ciò che faceva a discapito suo e a favore degli altri non era mai ripagato, aveva imparato a conviverci solamente. 
Era dolce, non tanto però, allo stesso tempo era anche acida come il succo del limone. Carina, adorabile, ma una vera combinaguai. A dispetto delle francesine viziate della sua scuola lei era completamente diversa, e questa diversità riusciva a renderla speciale. 
Lei aveva più grinta, più coraggio, era esplosiva, se fosse stata in una città dove il grigio era padrone di tutto, lei avrebbe cambiato le regole e la luce sarebbe tornata a regnare, perché lei non era un pianeta insignificante nello spazio, lei era il sole, come il sole sa illuminare le giornate, così lei sapeva illuminare e scaldare il cuore delle persone, anche il cuore di un timido come lui. 
Le francesine non erano tutta quell’imprevidibilità, avevano solo una cosa: una bellezza troppo ossessiva, capelli tenuti sempre legati, pettinati, puliti, e racchiusi in fiocchetti blu o rosa a lische di pesce o portate davanti sul petto, rigorosamente biondo miele o rosso scuro, e un’altezza sul metro e settanta, invece Kazumi era l’energia che scorre nelle vene, con i capelli castano scuro, a caschetto, tenuti spettinati, che gli sfioravano il mento, mentre i suoi occhi non erano blu cobalto o verde speranza, ma un colore che si avvicinava al caramello fuso, ed era bassina, se gli camminava accanto gli arrivava perlomeno vicino al petto; non era niente male, non era una bellezza ossessiva, non aveva sentito nessun profumo provenire dal suo corpo, era semplicemente se stessa, una cosa che lui non era e che avrebbe voluto tanto essere. Era il suo opposto in tutto, era la metà nascosta della sua personalità, se lei era egocentrica e molto introversa, lui era loquace e introverso, se lei era sportiva, lui era un vero mago dello studio, se lei sapeva tirargli su il morale, lui faceva andare in depressione le persone, se lei era il sole, caldo e protettivo, lui era la luna ambiguo e pallido. E lui non trovava l’essere diverso un difetto, si stava incuriosendo sempre di più per il mondo di quello scoiattolino petulante, era emozionato di entrare a farne parte, aguzzando la vista cercava di immaginare il percorso del suo indice che tracciava la figura alquanto magra e longilinea della giovane, ancora ferma a pochi passi da lui, che lo guardava fisso negli occhi, come se lo stesse spogliando delle sue debolezze. Quei occhi dalla trama caramello lo stavano mettendo parecchio a disagio, in quei occhi la sua figura prendeva lentamente forma, e le sue guance pian piano iniziarono a colorarsi di un delizioso rosso pomodoro, che cercò di nascondere - senza riuscirci - spingendo con forza il volto al pavimento sotto di loro, ma Kazumi davanti a lui era in procinto di dire qualcosa: - Ma voi ragazzi francesi siete tutti così? - 
Usui alzò il viso, rielaborando per un istante quella domanda e per far diminuire il rossore che gli attanagliava le guance: sarebbe stato troppo imbarazzante se quella ragazza avesse capito che la persona a cui aveva diretto il suo sguardo era proprio lei, che magari oltre ad essere la pazzia fatta persona fosse anche in grado di leggere il pensiero, magari poteva anche essere dotata di poteri nascosti, dopotutto aveva sentito molte storie giapponesi che partivano proprio dalla magia fin da quando era bambino, e ne era sempre rimasto affascinato, convincendosi che un giorno lui avrebbe scoperto la verità. Sua madre gli aveva trasmesso l’amore per la conoscenza, per tutto ciò che è mistero, e lui voleva tanto smantellare tutti i misteri della sua vita: suo padre sparito anni fa, sua zia Nagisa che era morta secondo sua madre, e poi lui, lui Usui chi era? 
Ancora non lo sapeva, ma presto la soluzione sarebbe arrivata da sé.
-Che intendi, scoiattolino? - 
- Non fare il santo, guarda che ti ho visto pervertito! Mi stai osservando come... be’ non saprei,  ma fatto sta che mi stai osservando! -
-Ti stai sbagliando, non penso mica che tu sia carina, scoiattolino... adesso sei tu quella che ti fai strane idee. - 
-Finiscila con questi nomignoli, anche io comincerò a nomignolarti! -
- Dai, io mi diverto, dopotutto potremmo essere compagni di classe, e capitare nella stessa classe, non credi? - domandò lui, sorridendo.
- Oh no, dovresti capitare nella mia classe, proprio nella mia classe! Sarebbe una sfortuna.. - 
- Davvero? - cercò di dire lui, avvicinandosi e muovendo qualche passo nella sua direzione.
- Stai lì, non muoverti, non sono di certo una preda di facile conquista! - rispose lei, scattando di pochi passi indietro, come un gattino spaventato da una bestiolina più grande di lui.
- Peccato, in Francia sono molto ammirato dalle ragazzine, sono un ottimo latin lover sai. - spiegò lui, - Non mi faccio spaventare da una belva come te, scoiattolino. - 
- Come mi hai chiamata!? - 
- Non ti piace nemmeno questo? - 
- Affatto.. - Kazumi abbassò velocemente lo sguardo pavimento, contando mentalmente le mattonelle, dicendo sbrigativa: - Dobbiamo andare o faremo tardi, e non ho intenzione di collezionare delle nuove note di demerito, ne ho già avute quindici, non è affatto carino arrivare tardi ogni santo giorno, e ho promesso al vicepreside che non sarebbe capitato più. - 
- Il vicepreside? - 
-Ah sì giusto, tu non lo conosci, infondo sei appena arrivato ed è giusto che ti spieghi che il vicepreside è un tipo noioso, insopportabile.. - e la ragazzina si alzò sulle punte e sussurrò nell’orecchio di Usui. - inoltre legge manga di nascosto, ma lo ha sempre tenuto nascosto, fino a quando non l’hanno scoperto, è stata zia Akane a dire a tutti che lui leggeva manga e fumetti che sequestrava agli alunni con la scusa per non farsi scoprire. Purtroppo ogni volta che qualcuno arriva in ritardo gli fa il monologo sulla preziosa statua del domani e bla... bla... quindi in futuro evita di fare tardi, altrimenti ti dovrai sorbire lui e ti assicuro è logorroico! - 
Usui nascose un sorriso. Era la prima volta che trovava piacere nel conversare, lui non era un tipo loquace, non lo era mai stato, si era sempre ritenuto un tipo tutto segreti, non sapeva intavolare nemmeno un discorso davanti ai professori, quando doveva essere interrogato, non sapeva bene come comportarsi e l’ansia gli faceva bloccare le parole in gola tanto che per tirargliele fuori ci volevano le pinzette, così lui per dieci minuti non parlava, una volta per questo motivo prese un voto brutto a scuola in economia, perché non riuscendo ad articolare bene il discorso dell’economia nella società francese finì per essere classificato come “impreparato” una parola che per un genio era amara come il fiele e difficile da digerire in un giorno, anche se la sua serata di prima l’aveva passata sui libri. 
Le ragazzine che gli facevano la corte non le aveva mai prese seriamente, cadevano ai suoi piedi come le api che si tuffavano nel nettare dei fiori in primavera, erano solo assetate di un ragazzo carino da ammirare, a lui piaceva quella situazione non poteva non confessarlo, ma a volte era stressante, perché davanti a loro non era sé stesso, non poteva parlare liberamente, si sentiva completamente in trappola, rinchiuso in una teca di cristallo, adesso era la prima volta che si sentiva libero dalle catene dell’oppressione, era la prima volta in quindici anni che non balbettava, non cercava un equilibrio che non c’era, non abbassava la testa, non si rendeva ridicolo, e che guardava negli occhi una ragazza, anche se poi quell’unica ragazza che aveva incontrato lì in Giappone era una camionista, una recordista impossibile, e una che la morte sotto una macchina la trova eccitante.
-Come ho capito scoiattolino tu non sei molto portata per lo studio, vero? -
-Piantala con quel nomignolo! Però, in effetti, devo confessarti che hai proprio ragione. Mio padre mi sgrida molte volte al giorno per questo, ma che ci posso fare... non sono brava, non mi applico e non mi voglio applicare, preferisco di meglio lo sport. - 
- Ma lo studio è importante, soprattutto per il futuro. Se studi e ti impegni magari diventi qualcuno di importante, non pensi scoiattolino? - 
- Mio padre sì, fa il chirurgo nella clinica più importante della città, e da un anno è direttore del reparto di chirurgia, però ha non solo doti intellettuali oltre che sportive, infatti da grande vorrei diventare come lui! - 
- E cosa vorresti diventare? - chiese Usui.
Kazumi andò verso di lui alzando la punta dei piedi, raggiungendolo con gli occhi a stellina: - Non ho dubbio su cosa diventerò da grande, sarò una calciatrice a livelli professionistici, e magari parteciperò anche alle Olimpiadi! - 
- Non capisco... non sei una ragazza? -
-Questo cosa centra!? Le tue francesine sono tutto trucco e parrucco, io no e voglio diventare atleta, come il mio papà. Fin da piccola ho respirato la sportività, è come se il mio DNA lo contenga, si può dire che sia nata con un pallone in mano, infatti alla Verone Academy ho fondato la prima squadra calcistica femminile, di cui sono capitano, e mi diverto moltissimo! - 
-Ma guarda, oltre che pazza scatenata sei anche una calciatrice, scoiattolino? - 
- Sì, non c’è nessuna legge che lo impedisca! - strillò, alzando il pugno in cielo, e poi balzando in avanti verso le scale. - E tu? - 
- Io cosa? - 
- Mi racconti qualcosa del tuo papà, io ti ho detto il lavoro del mio infondo.. - 
Usui sospirò. Prima aveva avuto l’impressione di passare un primo difficile ostacolo, ma adesso era ricaduto nuovamente a contatto con il terreno, quando Kazumi aveva intensificato la conversazione con l’argomento “padri”, non amava parlare di suo padre, o doveva dire dell’uomo che lo aveva generato, probabilmente quella ragazza era stata l’unica con cui si era sentito libero di esprimersi, ma più di questo che poteva fare? Lui non poteva dirle niente, non sapeva che lavoro aveva, non sapeva che forma aveva il suo viso, il suo collo, le sue sopracciglia, la sua bocca, la consistenza dei suoi capelli, il colore della sua carnagione, non sapeva che profumo conservavano i suoi capelli, il bagnoschiuma o il dopobarba dopo la doccia o la barba, perché lui non stava a casa con loro, era sempre stato lui a portare i pantaloni in famiglia, per affrontare i pericoli finanziari, o per difendere sua madre dai dolori della vita, in una città che non era stata scelta da lui, con gente che non conosceva, adattandosi come un animale alle caratteristiche dei francesi. 
Usui non sapeva chi era suo padre, l’unica cosa che sua madre gli aveva detto era che loro avevano fatto l’amore il giorno prima che lui la abbandonasse, e che una settimana dopo la laurea lei si rese conto che era incinta, e questo bastò per metterlo al primo posto nella lista delle persone che più odiava; lui era cresciuto senza un padre, ma non se ne pentiva, ma ovviamente Usui non rivelò niente a Kazumi, cercò solo di nascondere il problema dietro una coltre di bugie. 
Kazumi non udendo risposta si rese conto di aver parlato troppo, e si piegò per chiedere scusa. 
- Yukishiro-san scusami davvero! - 
- Per cosa, scoiattolino? - 
- Per il fatto di tuo padre, non sapevo fossi orfano.. - 
-Non sono orfano scoiattolino, mio padre non sta a casa perché lavora lontano, ho comunque una madre fantastica che mi vuole bene e a me basta per essere completo. - rispose Usui, mentre Kazumi lo inondava di luce con il suo meraviglioso sorriso. 
- Sono completamente d’accordo. - 
Kazumi saltellò sulle scale, mentre i suoi capelli venivano trascinati dalla leggera brezza del vento di prima mattina, mentre il treno strideva duramente contro le rotaie, e una voce automatica annunciava le partenze e gli arrivi dei treni. 
-Eccoci arrivati! Fiu, sono le otto, abbiamo tempo comunque. Ovviamente la Verone si trova poco distante di qui, prenderemo il treno, faremo prima e non ci beccheremo la sgridata del vicepreside. - e gli sorrise di nuovo. - Andiamo! -
Usui seguì Kazumi verso il vagone del treno in partenza, e prima che le porte automatiche si chiudessero con un balzo ci saltarono su. Molte persone vi erano in treno, Usui si andò ad appostare vicino al finestrino, e Kazumi lo seguì a ruota, per assistere alla veduta panoramica che propinava il finestrino. Usui guardava estasiato le vallate che sembravano muoversi insieme al treno, e le montagne che spuntavano da dietro, poi spostava di tanto in tanto lo sguardo sulla ragazzina appoggiata con la scapola che osservava il cielo turchino, e quando i loro sguardi si incontravano di sfuggita, lo distoglievano guardando altrove, anche se tra loro l’attrazione sembrava intensificarsi sempre di più, man mano le ore che passavano e che il treno stava arrivando a destinazione: la Verone Accademy. 


                                                                                                Cimitero - ore 8.20

Honoka aveva deciso che quella mattina, prima di sistemare le cose del trasloco in casa, sarebbe andata a far visita a qualcuno di importante per lei, che quella sera di quindici anni fa era sempre stata nei suoi pensieri, anche quando era riversa a terra nei dolori più atroci, con la paura di perdere il suo bambino, il suo pensiero si sdoppiava, una parte era affannata a salvare la vita del suo bambino, e l’altra voleva lasciarsi morire come Nagisa. Alla fine scelse suo figlio, dopo un’attesa enorme in un letto di ospedale con il suono dell’ecografo a trapanarle le orecchie, la mano di sua madre nella sua per darle un supporto materno, e il desiderio di avere Kiriya in quel momento importante, questa cosa probabilmente non sarebbe successa, lo capì quando alle tre vide la testolina del suo bambino, quei pochi capelli che gli suggerivano che avrebbe avuto la capigliatura del padre, un tratto ereditario che le avrebbe sempre ricordato il suo ex fidanzato, che l’aveva lasciata sola nel difficile momento della gravidanza. Usui era nato, e lei doveva andare avanti per la sua strada, anche senza la sua Nagisa, che proprio quel mattino fresco aveva deciso di andare a trovare. 
Parcheggiò la macchina in mezzo ad autovetture invisibili, chiusa la sicura, scese dalla macchina stringendosi nel suo cappotto color crema, per combattere quel venticello un po’ freddo, mentre si recava nella fioreria, che stava aprendo le serrande al suo primo cliente: lei. La proprietaria del negozio la accolse: - Desidera? - 
Honoka entrò, avvicinandosi al bancone, si sistemò gli occhiali che le stavano cascando dal naso. 
- I fiori più belli che avete, sono per una mia amica. - disse sbrigativa, mentre la signora dopo aver accennato un sì con il capo, rientrò nella serra costruita dietro il negozio, per prendere a Honoka i fiori da lei prescelti. 
Honoka non ricordava quali fossero i gusti di Nagisa in fatto di fiori, anzi non sapeva nemmeno se le piacevano o li detestava come le cipolle, voleva solamente dare un senso alla sua tomba, fredda e marmorea che la conteneva, sapeva che quella era una visita di cortesia che si apprestava a fare, che non era ragionevole trovarsi lì, quando poi lei non aveva nemmeno assistito alla morte, e non aveva neanche potuto fare niente per evitarla. Era in crisi, si sentiva male dentro, non aveva potuto salutare la sua migliore amica, non le era stata vicino nel momento del bisogno, e adesso si presentava lì per fare cosa? Per disporre degli stupidi fiori, per onorare una morte a cui lei non è mai andata? O per discolparsi di non essere stata coraggiosa a prendere un aereo, ad arrivare a quell’ospedale e a stringerle la mano per darle il suo appoggio. Lei dopo tanti anni che tornava in Giappone, per rifarsi una vita, veniva lì in quel lugubre e triste posto per sbattere in faccia a una tomba immobile la sua felicità, a dimostrare alla sua povera amica che la sua vita era ancora lunga, e che lei era già affogata nella terra, lontana dalla famiglia, lontana da suo marito, e lontano dalla bimba che non avrebbe mai potuto stringere a sé? Era solo egoista. 
Quando tornò la signora, recava con sé un mazzo di rose bianche, accuratamente disposte in un bouquet; Honoka cacciò il borsellino dalla borsa, pagò la decorazione e uscì dal negozio, diretta verso la cancellata nera. 
La giovane oltrepassò i cancelli, e alzò lo sguardo al cielo, dove troneggiava una madonna grande, con il viso da cui non traspariva alcuna emozione, con le mani congiunte a mo di preghiera, e i mille lumini che accerchiavano i piedi, e la moltitudine di fiori disposti nei vasi; Honoka accennò una veloce preghiera, e posò una rosa bianca in uno dei vasi, mentre dai suoi occhi scendevano lente e implacabili una lacrima di dolore, che si mischiava alla cera consumata dei lumini. 
Il signore della guardiola notò la donna, chiamandola: - Signorina, chi cerca? - 
Honoka voltò lo sguardo verso la voce, e accennò un saluto, staccando lo sguardo dal volto mesto della madonnina. 
-Buongiorno. Mi può dare un’informazione? - 
- Di che tipo, signora? - 
- Sto cercando una persona. - iniziò la corvina, mentre il signore la invitava nella guardiola, dove in un quaderno aveva trascritto i nomi dei defunti che occupavano il cimitero. 
- Allora.. chi sta cercando? - 
Honoka si sedette sulla sedia che le offrì il signore, e pronunciò quel nome col cuore gonfio di angoscia. - Nagisa Misumi, vi prego. - 
Il signore iniziò a sfogliare il quaderno. Aveva i nomi numerati secondo le iniziali del cognome secondo l’alfabeto, scorse immediatamente la rubrica fino alla lettera emme, ma in quei venti nomi non c’era nessuno che si chiamasse Nagisa, tutti nomi che le si avvicinavano, ma non era lei. 
- Mi dispiace, ma non c’è signora.. - 
- Come può essere? - esclamò Honoka un po’ stupita. - Controlli bene.- 
- Scusi, ma in questo cimitero non c’è questa Nagisa, controlli gli altri cimiteri.. - 
- Ma qui l’avrebbero atterrata se fosse morta, signore. - fece Honoka, alzandosi dalla sedia.
Honoka sospirò, lasciò il mazzo di rose bianche al signore, e sconfitta si recò alla macchina, la accese e mettendo la prima si allontanò con troppe domande ancora nella testa, e con un dolore che le rodeva il cuore e che era per lei era difficile da dimenticare. Se Nagisa non era lì, allora dove era? E se non era morta, perché non l’ha chiamata più? 
Queste tutte le domande che le ronzavano in testa, e a cui non sapeva dare una risposta. 





                                                                                                                     Verone Accademy, ore 8.45

Usui finalmente aveva avuto accesso ai cancelli della sua nuova scuola insieme a Kazumi, poco dopo vicino alla Statua del Domani avevano incontrato il vicepreside, che aveva iniziato a parlare del simbolo della Verone, e il ragazzo incuriosito levò lo sguardo al cielo: vi era la statua di una ragazzina come loro, che era come se danzasse nel cielo, con una mano sembrava accarezzare l’aria, e i capelli dondolati dal vento, il vicepreside si mise a spiegare al nuovo alunno le caratteristiche di quella statua, il programma scolastico come era articolato, gli esami quando avvenivano alla fine dei semestri, l’ora di pranzo, e i club dove i ragazzi potevano accedervi. Il vicepreside smise di parlare, quando comparì all’orizzonte la figura bassina e un po’ goffa del preside, della signorina Hioshimi, di Rina Takeshimizu, e di altri professori che attendevano impazienti il nuovo arrivo: Usui Yukishiro. 
Usui si sentì importante, quando i presenti gli dissero: - Benvenuto alla Verone Accademy! - 





 



 

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Capitolo 6
*** Punizione! ***


And I was made for You


Amici sono davvero contenta di essere tornata a raccontarvi delle avventure di Usui Yukishiro, il nostro bellissimo protagonista maschile, figlio come ormai saprete di Kiriya e Honoka, e della nostra new entry Kazumi Fujimura, figlia di Nagisa alias Cure Black e di Shogo. 
I nostri due ragazzi si sono conosciuti in circostanze strane, forse ci sarà una forma di antipatia o forse no, forse non si troveranno per niente come lo fu inizialmente per le loro mamme, o probabilmente tra loro scoccherà la famosa scintilla, non si sa.. 
Ciò che si sa con certezza è che il mistero sulla morte inspiegabile di Nagisa verrà prestissimo svelato, ma per sapere come Honoka verrà a sapere la verità dovrete seguire i prossimi capitoli! 
Io vi lascio al capitolo numero 6! 
Sequel di “Dirci Addio” - 



A volte, la suprema felicità della vita è sapere di essere amati per quelli che si è, e più precisamente, di essere amati nonostante quello che si è. Questa è una frase un po’ idilliaca di un famose autore, un certo Victor Hugo, ma insegna molto, bisogna credere in se stessi anche quando gli altri ti trattano male, ti dicono che non riesci a dare il meglio di te stesso, ma sopratutto insegna ad accettarsi e ad accettare la persona che è destino che ti ami. C’è una sorta di destino scritto, che ci porta ad essere quelli che siamo e ad amare determinate persone, perché a volte succederà che la persona che tu incontrerai in circostanze alquanto rare, magari quella persona riuscirà a farti sentire quello che tua madre ti ha ripetuto molte volte e che tu non hai mai compreso a fondo. 
Usui chiese molte volte ad Honoka “perché ti sei innamorata proprio di una persona che ti faceva soffrire?” potevi semplicemente rimuovere i sentimenti che provavi e gettarli chissà dove per impedire al tuo cuore di andarli a cercare, ma Honoka rispose che era impossibile che il suo cuore smettesse di provare quello che sentiva, quel fuoco che brucia dentro, che ti consuma poco a poco, quell’unica persona che ti rubava l’anima e non ti chiedeva nemmeno il permesso, poi continuava, quando sentirai il cuore vorticare su se stesso, quando ti accorgerai che le farfalle prendono il volo, quando ti specchierai negli occhi della tua lei, quando proverai imbarazzo, quando penserai a lei e la vedrai riflessa in ogni tua azione, quando vorrai immaginarla nella tua vita e non avrai fiato per respirare, quando cadrai e non saprai rialzarti senza la sua mano a guidarti, allora sarai completamente perso. Come mai prima di ora. 
Usui aveva risposto che tutto ciò non gli sarebbe mai accaduto, che non avrebbe mai visto una ragazza al centro della sua esistenza, ma da quando era giunto ai cancelli della Verone Accademy in compagnia di Kazumi si era accorto di essere cambiato totalmente. 
Il preside lo aveva presentato come alla giornata dell’Oscar quasi come un nobile in visita in Giappone, inchinandosi addirittura. 
-Benvenuto alla nostra prestigiosa Verone - aveva affermato il vicepreside, mentre Kazumi roteava gli occhi. 
- Vi ringrazio. - rispose il diretto interessato. - E mi piacerebbe visitare la scuola, se non vi dispiace. - 
-Certamente! - esclamò il signor preside, guardando nella direzione dell’unica studente presente. - Alunna Fujimura. - 
Kazumi non aveva certamente intenzione di accompagnare quel signorino da una parte all’altra dell’istituto, aveva già dovuto sorbirsi abbastanza quel ragazzo, i cui capelli ricordavano un campo verde appena fiorito in primavera, mancavano solamente qualche fiore selvatico, mentre i suoi occhi si confondevano in un azzurro talmente chiaro, da sembrare cielo; non aveva solamente uno sguardo magnetico e profondo, o dei capelli lisci come la seta, ma anche un’altezza da invidiare e una moscolatura perfetta, che lei aveva intravisto dalla sua divisa scolastica. Era un bel tipo, alquanto fastidioso, Kazumi però continuava a sentire una strana sensazione, una sensazione che le aveva attraversato tutto il corpo dal momento in cui le loro mani, i loro polpastrelli, si erano sfiorati per un attimo, una sorta di scarica elettrica, due fulmini che prendevano a mescolarsi fra di loro, e quella sensazione continuava ad avere possesso su di lei. 
Kazumi non era per niente spaventata, ma si sentiva completamente cambiata anche lei.
Portò il suo sguardo un po’ annoiato su Usui, che le stava ancora accanto, cercando di scoprire che cosa celasse in quella sua corazza da duro, magari il suo comportamento così strafottente nascondeva invece qualcosa di più tenero, un cuore più buono e dolce, ma da quando lo aveva incontrato fino a quando loro erano arrivati a scuola, Kazumi non aveva dato risposte alle dovute domande che ancora le risuonavano nella testa, domande del tipo “perché quella sensazione? Per quale motivo quel ragazzo le provoca tutto quello?” domande che ahimé sarebbero rimaste in sospeso. Usui, dal canto suo, la osservava in silenzio, sguardi fugaci, sguardi fulmineii, le loro iridi si incontravano, e in ognuno di esse la loro immagine si rifletteva, in quella di lui la fragile essenza di quel corpicino gracile, in quella di lei la durezza di un uomo che ancora non ha scoperto la sua strada maestra. Anche se tra di loro c’era a dividerli molto di più i loro differenti caratteri, e anche una certa antipatia e diffidenza, in realtà la loro mente vagava per strade sconosciute alla ricerca del loro io, ma il cuore sapeva già, e li aveva già riconosciuti. Nonostante quella apparente diversità palpabile, essi avevano molto in comune.
Usui aveva bisogno di amore, di conforto, di sentirsi bambino anche se non lo era più, Kazumi sotto tutta quella coltre di coraggio nascondeva debolezza e viltà, sotto quella faccia da dura, un cuore ancora immaturo. Usui cercava risposte alle sue domande, Kazumi sapeva di averle trovate ma cercava di sminuirle; se Usui era convinto che il destino fosse scritto per tutti, Kazumi si affidava all’imprevisibilità della vita, una lunga strada piena di insidie, accidentata, come le vie del mistero. 
Se questi tratti potrebbero separarli, a prima apparenza, allo stesso modo essi hanno il potere di unirli e legarli. 
Anche se Usui e Kazumi sono così diversi, ricordiamoci che questa diversità li rende immuni dalle cose comuni, li rende speciali e forti, li distingue da tutti gli altri studenti, li rende partecipi di una leggenda, una leggenda che ha unito anche Nagisa e Honoka, ma in modo diverso, anche Nagisa e Honoka erano diverse, ma questo non ha di certo escluso una loro amicizia, e perché un sentimento simile all’amore... ma Usui e Kazumi non solo non si conoscevano affatto, ben presto tra di loro guerra aperta ci sarebbe stata...
La scarica elettrica provocato dallo sfioramento delle loro mani aveva fatto intendere che loro sarebbero stati protagonisti di una storia. 
Una grande storia.. 
Kazumi smise di chiedersi il perché di quell’incontro, il perché durante tutti quegli anni lei non avesse mai provato quella sensazione, e si concentrò solamente sulla faccia del preside, che la supplicava di mostrare al nuovo allievo l’intera scuola, richiesta che lei dovette accettare per forza, ma a malincuore. I tre se ne andarono, ognuno doveva tornare ai propri doveri, e presto sarebbero iniziate le lezioni. 
Usui era rimasto fermo, lo sguardo fugace dalla strada alla sua accompagnatrice non si era mai fermato, nonostante le parole tanto stimate sulla sua persona da parte del vicepreside lui continuava ad osservare e approfondire la ragazza accanto a sé. 
Adesso riusciva a scrutare meglio Kazumi, i suoi capelli vivacemente lasciati andare, trascinati dal vento, gli arrivavano sotto al naso, così che lui aveva l’opportunità di scoprirne l’odore, senza chiederle il permesso. Quando Kazumi si spostò di fronte a lui e piantò gli occhi nei suoi, il colore oro delle sue pupille risultò più splendente di mille tesori nascosti in una grotta, e la sua corporatura gracilina e incosistente da somigliare a un fuscello ancora più evidente. Un lieve strato di pelle a ricoprire le sue ossa, e quasi poteva avvertire il sussulto del suo cuore dalla camicetta fine e leggera, e il richiamo leggero della sua voce che lo costrinsero a guardarla dritto in quei pozzi chiari, - Andiamo, scalmanato! Ti devo mostrare la scuola, no? - fece la ragazza, come se fosse seriamente scocciata dalla presenza ossessiva di quel giovane, che continuava ad osservarla come un idiota patentato; lei li aveva visti, i suoi occhi blu cobalto frenetici non li aveva mai persi da quando avevano varcato il cancello, ed era convinta che fremesse dalla voglia di toccarle i capelli, o di osservare la rotondità del viso, oppure di sfiorare nuovamente quelle sue mani di un vivace colorito, rispetto alle sue, che sembravano essere talmente bianche e pallide da farlo somogiliare a un vampiro, un vampiro elegante e posato, pronto a succhiarti il sangue. La sua pelle di porcellana, fredda al tatto, ricordava il colore lunare, la luce della luna piena nelle notti di sereno. 
-Ti dispiace? - le domandò lui, rimasto deluso, adesso capiva perché non riusciva ad essere amico di nessuno, era troppo serio. 
A un certo punto vide lo sguardo del giovane oscurarsi, si sentì colpevole di quel suo cambiamento, in fondo lei non aveva ereditato solamente i capelli dal padre, la sua inteliggenza, la sua profonda bellezza, ma anche la pazzia di sua madre e una buona dose di stupidità, di certo non si poteva lamentare, visto che il coraggio era l’unica cosa buona che aveva in comune con sua madre. 
Kazumi si morse il labbro inferiore, e si avvicinò esitante. - Forse, ho esagerato. - e detto questo, con la mano tremante gli toccò il braccio destro, scuotendolo, ma il giovane rimaneva immobile, Usui si era rimproverato, per la sua serietà, per la sua timidezza, per la sua enorme idiozia, e per il fatto di non riuscire ad esternare ciò che provava, ciò che il suo cuore sentiva. Improvvisamente il suo corpo tremò come una foglia, si sentì nello stomaco un turbine di emozioni travolgerlo completamente, e si ritrovò ad osservare Kazumi più da vicino, visto che la ragazza lo stava osservando con sguardo colpevole. - Scusa - e questa semplice parola gli risuonò nelle orecchie. 
Nessuno gli aveva mai chiesto scusa. Nessuno, era la prima volta, e lui sentì il cuore perdere un peso da dosso; l’istante di improvvisa complicità scattata tra i due giovani fu portata via dal vento, Kazumi preferì lasciare il braccio, e proseguire lontano da lui, con le gote completamente in fiamme. - Guarda, non farci l’abitudine chiaro! - esclamò, riprendendo quell’atteggiamento di prima. 
-Sì, Kazumi - 
- Fujimura, ragazzo. Per te Fujimura, non siamo nulla di che, anzi meno di conoscenti. - 
Usui sentì il mondo precipitargli addosso, come una doccia fredda, credeva di essersi riuscito a conquistare la sua fiducia, ma a quanto pare sarebbe stata un’impresa dimostrare a quella ragazzina che lui poteva essere come lei. La ragazza si girò a guardarlo, e sospirando, gli si avvicinò nuovamente, permettendo un nuovo incontro più ravvicinato del primo, ma questa volta il cuore di Usui subì un forte scossone, nel vedere che la mano della ragazza incontrava la sua. - Andiamo scalmanato! - però il contatto durò poco, una forte scarica di due fulmini costrinse i due a slegare le mani, mentre Kazumi si toccò la mano spaventata. 
- Oh santo cielo! Togli la mano dalla corrente ragazzo, non voglio finire arrosto! - urlò. 
Usui si guardò la mano anche lui, un fulmine bianco accerchiava ancora le sue dita. 
- E tu? - 
- Io cosa? Mamma mia, credevo di finire abbrustolita, andiamo! - esclamò, ma questa volta si tenne a distanza di sicurezza, per evitare nuove scariche. I due iniziarono a camminare in avanscoperta della scuola, Kazumi conosceva bene la struttura, e durante il tragitto raccontava a Usui la storia della strana statua del Domani, una storia che si era tramandata, e che lei aveva appreso da sua madre, che aveva frequentato la Verone Accademy anni addietro. Usui ascoltava ben volentieri la magica storia, era abituato, e mentre chiacchieravano come due amici di vecchie data, Kazumi mostrò al nuovo arrivato il teatro, dove ogni anno si svolgeva il Festival. 
- Questo è il teatro, è stato rimodernato.. altrimenti sarebbe andato perduto con gli anni. - 
- Anche la mia vecchia scuola aveva un teatro... un tantino più vecchiotto, e ci facevamo gli spettacoli. - 
- Qui dentro vanno in scena sceneggiature scritte dall’amica di mia mamma, Shiho Kubota, è una regista, lavora a HollyWood insieme a suo marito, che è regista come lei, sono davvero una bellissima coppia, come i miei genitori d’altronde. - precisò Kazumi, fiera di essere il frutto di un amore tanto grande. Usui salì sul palco. 
- Mia madre frequentava questa scuola. - iniziò.
-Che coincidenza! - 
- Perché? - 
- Anche la mia frequentava questa scuola... - ma mentre stavano affrontando il discorso, la campanella suonò. -Bisogna andarcene Usui, vieni ti mostro le classi, sono al terzo piano. - 
Usui aveva seguito Kazumi in ogni dove, in palestra, tra i corridoi della Verone, nel campo della lacrosse e del calcio, negli spogliatoi dei ragazzi e delle ragazze, e infine sulla terazza della scuola, dove il loro giro era finito. Purtroppo a breve le lezioni sarebbero incominciate, Usui era molto triste di dover lasciare la sua nuova “amica” se la poteva definire così, ma da quel momento avrebbe dovuto provare a cavarsela da solo e ad essere un pochino più coraggioso ed estroverso, il destino volle che il vicepreside, preside e commissione, lo smistassero nella seconda A, classe ciliegio, e che si trovasse guarda caso a presentarsi proprio nella medesima classe di Kazumi. 
Quando entrò per presentarsi come nuovo compagno di classe, Kazumi riconobbe immediatamente lo sguardo magnetico del suo vecchio conoscente, e sotto gli occhi delle sue compagne divenne rossa come un pomodoro maturo, il fatto di arrossire era un tratto che aveva sempre ereditato da sua madre, che la prima volta che aveva visto il suo futuro marito, e padre di sua figlia, si era bloccata ed era arrossita, a un certo punto sembrò che quell’aula fosse troppo piccola per lei, e che aveva bisogno di aria. 
La professoressa Rina invitò il nuovo alunno, e Usui si presentò nel modo più introverso possibile, mentre alcune ragazze già commentavano il suo aspetto con gli occhi a cuoricini, aizzando la rabbia di Kazumi contro di loro che non sopportava gli strillini che le davano solo il mal di testa, visto che le sue compagne sbavavano come cagnolini proprio per tutti. 
Ran, la migliore amica di Kazumi, stava sospirando, e teneva la testa ciondoloni sul banco, mentre Usui accennava la sua presentazione. 
- Salve, ehm... vengo dalla Francia, sono il vostro nuovo compagno, Usui Yukishiro, piacere. - e fece un inchino, mentre le ragazze lanciavano urletti. Appena il ragazzo rialzò il suo volto, gli occhi dei due ragazzi si incontrarono, e i loro cuori sussultarono di nuovo. 
Rina Takashimizu, la migliore amica della mamma di Kazumi, ora diventata maestra disse vicino al nuovo arrivato. 
- Benvenuto Usui. - e alla classe aggiunse. - Ragazzi, trattatelo bene. Allora dove vuoi sederti, caro? - 
Usui gettò uno sguardo sulla classe intera, non c’era nemmeno un posto libero. 
- Non saprei, professoressa. - 
Rina indicò un posto vuoto. 
- Guarda caso c’è un posto vuoto lì caro, prendi posto e segui la lezione. - 
Usui vagò fino al posto libero, e si accorse che il posto di cui parlava la professoressa era proprio vicino a Kazumi, c’era il posto proprio vicino a Kazumi Fujimura, e lui non ci pensò nemmeno una volta, e con passo elegante e ben posato, andò verso il banco e ci piazzò la cartella sopra. Kazumi faceva finta di non vederlo, continuando a sbirciare nel suo libro, rimasto aperto sul banco, mentre Usui si sedeva proprio affianco a lei e le sussurrava nell’orecchio. - Ciao, di nuovo. - ma lei non rispose, e continuò a leggere attentamente la sua lettura, anche se tutto ciò le risultava faticoso, visto che adesso non solo non riusciva a respirare, ma la sua vista iniziava persino a perdere consistenza delle cose. Ran, dietro di lei, le urlava che fortuna, il tipo più bello vicino a te amica, fortunata sei, ma Kazumi non la pensava così, averlo vicino le faceva salire la pressione a mille, e il cuore sembrava volerle uscire dal petto da quanto tamburellava. 
Non era una bella cosa sentirlo così vicino. 
Rina si mise a spiegare la storia cinese, ma lei da perfetta studente no grazie faceva finta di ascoltare la lezione, e si metteva a leggere manga di nascosto; Usui che non aveva smesso un attimo di fissarla da quando si era seduto, si aggiustò meglio sulla sedia, e si avvicinò, portandosi più su di lei. - Mi fai vedere dal tuo libro? - le sussurrò ancora nell’orecchio. 
Kazumi cercò di spostarsi, sentiva un peso sul cuore, voleva il suo spazio, ma se si fosse spostata ancora di più sarebbe caduta dalla sedia, così rigirandosi le sue scarse ciocche fra indice e pollice, passò il libro più verso a Usui, dicendogli. - Contento? - 
- Certo, però tu come segui la lezione? - 
- Tranquillo, ho i miei modi. Mi faccio passare da Ran tutto ciò che ha detto la professoressa Rina. - 
- Male Fujimura. - disse lui, spostando la mano sulla sedia della ragazza. - Avvicinati così segui anche tu. - 
- Non ci penso proprio, Yukishiro! - esclamò, sperando che la professoressa non avrebbe distolto l’attenzione dalla sua lezione. 
- Come vuoi, ma poi non dare la colpa a me se poi ti va male il compito! - 
Kazumi ricordava i suoi precedenti compiti, tutti le erano andati male, aveva sempre preso negatività, e di certo non poteva non ricordare le sgridate di sua madre, sua madre che poi era stata la prima a fare una pessima carriera scolastica, una volta suo padre, che non era mai stato severo con lei, le rifiutò un’uscita con gli amici obbligandola a studiare tutta la notte, e sua madre per punizione le aveva sequestrato i suoi manga preferiti sulle Pretty Cure. Kazumi fin da bambina aveva adorato le avventure delle leggendarie guerriere, e l’aspetto di Cure Black le ricordava un po’ quello di sua madre, ma lei non ci aveva mai fatto troppo caso, perché probabilmente Cure Black era stata inventata e quindi era soltanto una coincidenza no? Comunque quel giorno fu il più brutto della sua vita, tutto male, scuola, casa e sopratutto famiglia. I suoi stavano vivendo una profonda crisi coniugale, che non dipendeva da suo padre, bensì da sua madre, che stava diventando leggermente isterica per colpa della gravidanza. Sì, sua madre era incinta, e suo padre doveva acconsentire a tutto, anche ai più piccoli sifizi altrimenti il suo fratellino sarebbe nato con una voglia di un qualsivoglia frutto. 
Lei era passata in secondo piano, ma era normale, tra poco sarebbe stata una sorella maggiore. 
In ogni caso, lei ingoiò il suo nervosismo e prese ad avanzare verso Usui; il cuore iniziò a battere nel suo petto, lo avvertiva chiaramente, mentre giocherellava con il suo manga, stropicciandone la pagina. Cambiando le pagine, Usui sfiorò la sua spalla, e lei prese ad arrossire tutta, non era una che si perdeva nel romanticismo, ma stava seriamente male; Usui spostò lo sguardo dalle righe del libro, e prese un foglietto tutto stropicciato scrisse. - Lo sai che sei così bella quando sei nervosa? - e glielò passò. 
Lei appallottolò il messaggio dopo averlo letto e gridò. - Piantala Yukishiro, io e te non abbiamo niente da dirci. Zitto e segui! - 
Usui sorrise, continuando a guardarla, mentre lei appuntava velocemente ciò che diceva la professoressa, e anche se nascondeva tutto con quelle parole da dura, lui sapeva che in realtà lei era capace di sciogliersi come un gelato in piena estate. 
Riusciva a percepire il suo cuore, che batteva a mille, solo avvicinandosi un pochino di più a lei, al suo corpo gracile, sentiva la sua agitazione vibrare nell’aria delle dieci, che lei tentava inutilmente di sopprimere, ma che lui sapeva che esisteva, come se da sempre la conoscesse. La lezione era quasi a metà, e Usui era attaccato completamente a Kazumi, tanto che per Ran era difficile visualizzare la cattedra da dietro, Usui si rese conto improvvisamente di quanto la sua aria da strafottente e latin lover avesse ceduto il posto a un’inspiegabile timidezza, si sentiva andare a fuoco, era difficile seguire la storia dei cinesi con lei di fianco; Kazumi si toccava quei suoi capelli, se li spostava da una parte a un’altra delle spalle, li rigirava vicino alla penna, e poi ricadevano vicino al viso e alla bocca. 
Una bocca così teneramente intagliata, che stava a tratti chiusa a tratti aperta. 
Kazumi stanca di essere fissata come un monumento si girò e incontrò i suoi occhi cobalto, illuminati mai come prima. 
- Allora, vedo che te lo devo di nuovo ripetere: non fissarmi come un baccalà! - 
- Che ci posso fare? Sei bella da guardare. - fece lui, coraggioso come non lo era mai stato. 
- Ma fammi il piacere! Se io sono bella tu sei un principe. - 
Lui la guardò negli occhi, e lei sentì il bisogno di rimpicciolirsi, però qualcuno aveva smesso di parlare e li stava fissando. 
- Fujimura, Yukishiro cosa state facendo? - 
- Niente, professoressa! - si affrettò a reclamare la ragazza. - E visto che non stavo seguendo la lezione, vado in punizione col suo permesso! - detto questo e sotto lo sguardo perplesso di Rina, la ragazza uscì fuori, chiudendosi la porta alle spalle. 
- Professoressa! - la chiamò Usui. 
- Yukishiro... - 
- Posso andare anche io in punizione? - 
- Se è una scusa per sfuggire alla lezione... - continuò Rina, ma Usui fu pronto a controbbattere. - No, puliremo i vetri della scuola. - 
- Va bene! - concluse la professoressa, esortando a recuperare secchio e spazzola per dare una ripulita ai vetri, su cui vi era un leggero strato di polvere. Quando Usui si presentò fuori, Kazumi cercò di andarsene, - No, anche qui no eh! - 
- Aspetta, Fujimura. - e le corse incontro con il secchio. 
- Cosa vuoi! Sei un ossessione, Yukishiro-san! - 
Il ragazzo le mostrò il secchio. - Dobbiamo scontare la nostra punizione, no? - 
- Eh! - esclamò la ragazza, seriamente perplessa; adorava stare in punizione perché non faceva nulla, ma adesso. 
- Dobbiamo pulire i vetri, ho promesso alla professoressa che non ce ne saremmo stati con le mani in mano! - 
- Bene, lo fai tu! - 
- Cosa? Dobbiamo farlo insieme, Kazumi. - 
- Chi lo dice? - 
- Io! -
- Perfavore, io voglio stare in pausa non lavorare. - 
- Volevi per caso che le dicessi che stavamo perdendo tempo ad osservarci e che quando ci interrogherà non sapremo niente? - 
Kazumi fece segno di sì con la testa. 
- Spiacente! - esclamò il ragazzo. - Prendi il secchio e puliamo i vetri! - le ordinò, e la ragazza senza dire una sola parola iniziò.
I vetri della Verone erano grandi e molto sporchi, Kazumi stava pulendo i vetri da circa due ore, e non immaginava altro che schiuma e vetri da pulire, se fosse andata a casa e sua madre le avesse ordinato di dare una rassettata ai vetri giurava che le avrebbe detto di no, anche se con quel pancione le era difficile fare qualsiasi movimento. La colpa era di lei che si era fidata di Usui, visto che era stata sua l’idea di dare una ripulita ai vetri della scuola, ma almeno il vicepreside sarebbe stato contento di loro, visto che diceva che gli alunni di quella scuola erano sempre impegnati a sporcare e a non ripulire, quando dimenticavano di cambiare le scarpe al loro ingresso, ed era lui che puliva tutto il fango dai corridoi. Kazumi era immersa nella schiuma, e mentre puliva la decima anta, si fermò per riposarsi, e in quel breve minuto di pausa il suo sguardo vagò fino al suo compagno di sventure, che come lei era intento a rimuovere la schiuma. 
Usui era bello anche se sudato. I suoi capelli gli si attaccavano in fronte, ma lui con un veloce gesto li rimetteva al proprio posto, e con infinita eleganza, sciacquava tutta la schiuma, mantenendo sempre quella sua bellezza frencese e quel suo atteggiamento da mistero. 
Quando smise di lucidare il vetro, la guardò, e lei sentendosi in completo imbarazzo, colpì il secchio e tutta l’acqua si rovesciò per terra. 
- Oh Dio, che disastro! - 
- S-scusa è colpa mia! - urlò lei, mentre entrambi si inginocchiavano. - Pulisco io! - 
- No, io - e le loro mani si sfiorarono di nuovo. - Se vuoi. - 
I loro occhi si scontrarono, blu nel caramello, e le loro figure rimasero inchiodate sul pavimento, era come se nessuno di tutte e due volesse abbandonare quella posizione per non perdere quel loro unico momento di complicità, il caldo abbraccio della lontananza e gli gesti incompresi che valevano più di mille parole. Kazumi spostò la mano, e se la portò al petto. 
-Mi dispiace! - e gli consegnò lo straccio. - Pulisci tu, poi andiamo a casa che si è fatto tardi. - 
- Come vuoi, Fujimura-san - 
-Bene. - 
La ragazza prese il secchio, e finì di ultimare il lavoro, mentre Usui asciugava il pavimento pieno di acqua. Quando i due giovani conclusero la punizione erano ormai le cinque, il sole stava lentamente calando fra gli anfratti delle montagne, e sicuramente i genitori si sarebbero preoccupati non vedendoli tornare. Kazumi ricevette un messaggio da suo padre che le chiedeva di passare prima in ospedale e poi a casa, visto che lui stava per smontare, e sarebbe quindi tornati insieme. Quindi Kazumi fu costretta a salutare il suo compagno. 
- Mio padre è in clinica e devo andarlo a prendere, ho fatto promettere a mamma che non avrebbe più preso una macchina, durante il suo stato interessante. - spiegò Kazumi, - Ti dispiace se torni a casa da solo? - 
- No, assolutamente. Ti prego, stai attenta tu Fujimura-san. - 
- Non preoccuparti, so badare a me stessa. - la ragazza ciondolò su un piede, voleva salutarlo, ma era troppo imbarazzata, così avvicinandosi a lui, e alzandosi con le punte fino al suo viso, gli lasciò un bacio sulla guancia destra, e gli sorrise. - Notte Yukishiro-san - 
Poi Usui la vide sparire su per la scarpata, mentre lui prendeva la strada opposta. 
Era così che era passato velocemente il suo primo giorno alla Verone... 



Angolino della Love! 

Punizioni... punizioni... per i nostri due protagonisti! 
Sembra che ci sia un pochino di imbarazzo, voi che dite è amicizia o qualcosa di più? 
Ringrazio la mia oneee-chan e Rosanera per l’affetto, e tutti quelli che seguono, recensiscono e tengono nei preferiti la mia storia, e perché no, anche chi la apre soltanto! bacioni <3

La vostra #Lovechan


 

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Capitolo 7
*** Innamorata? No, sì... può essere. Arienai! ***


And I was made for You



Ma salve! Eccomi nuovamente tornata, con un nuovo bellissimo capitolo di “And I was made for you” grazie mille per le due recensioni che ho ricevuto per questa storia, ringrazio tantissimo Rosanera e la mia onee-chan Zonami84, spero che vi piacerà anche il nuovo capitolo. In questo capitolo vedremo qualcosa di più, ma non troppo, ricordate che in una storia è importante sempre la suspance, e i misteri non finiranno mai di stancarvi. Bene, vedremo Kazumi riflettere un pochino sui suoi sentimenti per Usui. 
Nagisa: sì, love però non è giusto! 
Ma dai Nagisa, perché non è giusto? In fondo sono io l’autrice. 
Kazumi: mamma si può sapere perché ti sei arrabbiata con la nostra Love?
Be’ ma ci sono abituata, lei è così insomma.. 
Nagisa: Mi sembra ovvio, la mia stessa figlia ha rubato il mio “arienai”
Kazumi: Esagerata! Dai, in fondo siamo madre e figlia, e mi sembra normale.
Nagisa: Normale un corno! Quella battuta è mia, ed è protetta da copyright.
Vabbene allora la prossima volta che la utilizzo ti chiederò il permesso, perdonami. 
Nagisa: Vabbene, ti perdono, ma solo perché non mi hai fatto morire un’altra volta.
Bene, adesso vi lascio al capitolo :D 
Kazumi: Ok! Vamos!


*** 


La strada per andare fino alla clinica in cui lavorava suo padre era molto lunga, e Kazumi aveva molto su cui riflettere, prima fra tutto lui, Usui YuKishiro, il suo aspetto ricordava un principe, un cavaliere pronto a salvarla, ma il suo carattere era completamente diverso, invece di un principe si trasformava in un perfetto mostro mutante, che si nascondeva dietro la sua ombra o che addirittura si arrampicava sugli specchi. Il suo mondo sembrava un carnevale impazzito, aveva dei pozzi talmente chiari che le avevano fatto completamente perdere la testa, che le faceva mozzare il fiato nella gola come se stesse assistendo a un tramonto, ma il tramonto era lui; il contatto fra le loro mani che scatenavano quei due fulmini, bianco e nero, come se essi stessi fossero l’essenza stessa, creava una specie di attrazione che lei non riusciva ancora a decifrare, si sentiva attratta da quel ragazzo anche se non lo conosceva affatto, anche se si erano incontrati solo due giorni prima, e si erano immediatamente odiati fin dal primo momento, lei non riusciva a capire quella strana sensazione che percepiva e si proiettiva dentro di lei, era una cosa strana e che non aveva mai sentito prima di allora. Qualcosa di surreale
Stava camminando su per la scarpata, con la testa fra le nuvole, immischiata nel tumulto dei suoi pensieri, quando sentì dietro di lei una voce familiare, smise di tenere lo sguardo in basso alle sue scarpe e lo girò: -Ran?- 
La sottoscritta stava correndo come una matta per raggiungerla, Kazumi intanto si era fermata per aspettarla. 
-Ran! - ripeté, quando la sua migliore amica si fermò, piegandosi sulle ginocchia per respirare con molta calma. -Cosa succede? - 
-Anf...panf... S-scusa Kazumi. - finalmente dopo aver preso abbastanza fiato, si rialzò e la fulgida chioma rossa le si spostò sulle spalle. 
-Ran, perché corri in questo modo assurdo? - 
-E me lo chiedi pure! - esclamò come se fosse arrabbiata. - Senti, non te l’ho detto perché prima tu te ne eri andata col belloccio. - 
Kazumi guardò Ran negli occhi, specchiandosi nei suoi profondi occhi scuri color marrone. 
- Con belloccio, intendi quel ragazzo vero? - la ragazza dissimulò, anche se il solo pronunciare quel nome nella sua mente le faceva andare in tilt il cervello, e il cuore iniziò ad accelerare, come se perdesse il suo controllo, nonostante non si fosse spostata dalla sua posizione. 
-Kazumi, ehi? - fece Ran passandogli una mano vicino agli occhi, - Ci sei? ... Ok, terra Ran chiama terra Kazumi. Rispondete! - 
La ragazza si risvegliò dalla sua trans facendogli uscire dalla bocca solo un “ah..”
- Tu non mi stavi ascoltando! -
-Certo, ti stavo ascoltando eccome... - 
-E che diamine dicevo, Kazumi? - domandò, mentre le due iniziavano nuovamente a camminare su per la scarpata. 
-Boh... senti.. che cosa mi dovevi dire? - cambiò completamente discorso, facendo spallucce. 
-Parlavo di Usui. - 
- E io ti prego di non toccare nuovamente l’argomento “Usui” - 
-Si può sapere perché? - domandò di nuovo Ran, avendo intuito che la compagna non era indifferente a quel francesino. - In fondo, Usui è un bravissimo ragazzo e viene sopratutto dalla Francia. -
- Questo cosa centra? Io non mi innamoro... nemmeno se è un principe inglese, nipote della regina in persona. - 
- Hai detto la parola “innamorata”...? - 
- Sì... no.. volevo dire no... assolutamente! Io odio quello stupido! - esclamò Kazumi, mettendosi la borsa in spalla. 
- Se lo odi significa che lo ami. - lei cercò di controbattere, ma non le fu permesso. -Tu lo sai... che l’odio può evolvere in amore.. - 
Kazumi si fermò su due piedi. 
-Ma che diamine dici! Manco se stessimo nelle favole, e io fossi la principessa, come quella del bosco, dai.. - 
-E lui il tuo principe? - fece eco lei. 
- Mai e poi mai, e adesso smettila di infastidirmi. - tagliò corto Kazumi Fujimura, sapendo però che evitava l’argomento di cui non voleva discutere solamente perché alla fine si sarebbe confusa troppo, e non ci avrebbe capito più niente. -Parliamo di altro? - 
- Con piacere, ma lo sai che il tuo problema resta. - 
- Quale problema! - 
-Niente... allora, parlando di altro. - e Kazumi roteò gli occhi. - Guarda che ti ho portato. - e detto questo si fermò per cercare qualcosa nella borsa, e quando lo trovò glielo sventolò sotto gli occhi. 
-Cos’è? - fece Kazumi, guardando con attenzione le scritte sul volantino, che parlava in bella vista di un bar appena aperto. 
-Un bar che si è appena aperto, e indovina... resta aperto fino alle dieci! - esclamò tutta euforica. - e inoltre potremo andare persino ora, e ha anche il cioccolato dietetico così non rischierò di morire per overdose di calorie, che dici Kazumi, ci vieni? - 
-Arienaiiii! Vorrei... - iniziò Kazumi, rattristandosi improvvisamente, visto che doveva andare a prendere suo padre per andare a casa. - Però mamma, tu lo sai, è incinta, e non può guidare, così io devo andare a prendere mio padre che sta quasi per smontare.- Scusa Ran - 
-Non fa niente Kazumi. - e detto questo la salutò con una vigorosa pacca sulla spalla. - Adesso devo andare, amica. - e prese un vicolo diverso, scomparendo dietro l’angolo; Kazumi osservava il vicoletto in cui era sparita la sua migliore amica, e dopo un paio di minuti, ricominciò a camminare nella direzione in cui vedeva già comparire all’orizzonte la clinica ospedaliera in cui lavorava suo padre Shogo. 
Entrò nel parcheggio, salutando la guardia, ed entrò dentro l’ambulatorio; suo padre si trovava sempre lì quando doveva smontare, egli lavorava come medico primario, ed era il direttore del reparto medicina interna, lo era diventato quando lei aveva solamente tre anni, e lei lo amava tantissimo, era il suo eroe, come quello che compare nelle favole, il suo supereroe, il suo grande papà. 
Si inoltrò nei corridoi dell’ospedale, tra quelle luci troppo forti e asettiche, che le facevano male la vista. 
Salutò affettuosamente Haruka, una donna che lavorava come infermiera, e assisteva suo padre da molto tempo, ma ovviamente la donna che da quando era bambina le preparava caffè e cioccolatini non era mai stata un punto di discussione per i suoi genitori, dato che aveva già passato la quarantina, era una donna buona, gentile, e lei la considerava sua nonna.
Quando andava a prendere suo padre di ritorno dal suo turno, si appostava sempre lì, insieme a lei, come fece anche quel giorno, visto che non le era permesso avventurarsi nei reparti senza l’apposito camice e senza mascherina. 
-Haruka! Ciao! - la salutò non appena entrò nel reparto, ma senza inoltrarsi tra le stanze dei pazienti. 
La donna non appena la vide, le fece un grande sorriso, ed uscì dalla guardiola, andandola ad abbracciare. 
- Tesoro, cosa ci fai qui? - le chiese, facendola sedere nella guardiola. 
- Haruka, sono venuta a prendere mio padre, il suo turno è finito? - 
Haruka si alzò, osservando il tabellone dei turni dei medici, che era appeso dietro di loro. La donna si portò una mano vicino alla bocca, e se la strofinò, poi si girò verso la sua “nipotina” - Uhm, sì il suo turno è finito da molto tempo, ma ancora non è sceso. - 
-É strano... mio padre è sempre molto puntuale. - disse Kazumi, sistemandosi meglio sulla sedia, mentre osservava la piccola stanzetta, tutta bianca, vi era una scrivania, dietro di loro, appiccicata al muro, il cartellone dei turni, e i campanelli di emergenza del reparto. 
Quell’ospedale era il migliore in tutta la regione, e suo padre Shogo era uno dei chirurghi più richiesti, infatti il suo turno si sarebbe dovuto concludere alle sei e mezza, ma l’orologio appeso al di sopra del crocifisso, segnava le sette, e lui non era ancora arrivato. 
Sicuramente sua madre a casa si stava preoccupando, con la cena già in tavola e il muso lungo. Sua madre non era solita aspettare, non le piaceva affatto, anzi lo odiava, se sapeva che lei o suo marito tardavano più del previsto andava in escandescenza, in paranoia, e iniziava a ripetere quella strana parola, gridandola in tutti gli angoli della loro casa, ovvero “Arienai!” era da quando era nata, e probabilmente la sua prima parola che ha detto, probabilmente secondo i racconti di sua madre non fu mamma, papà, o nonna, ma Arienai, visto che la sentiva pronunciare da sua mamma in ogni dove, anche se sua madre l’aveva accusata diventata più grande di avergliela rubata. 
Dopo un dieci minuti si sentì una forte voce maschile che conversava con alcuni colleghi sulle condizioni dei pazienti, e Kazumi uscì dalla guardiola e si affacciò, vedendo un uomo vestito di un camice verde acqua, che stava discutendo con altre due infermiere. Poi, dopo averle congedate si dirigette verso la guardiola per finire la sua lunga giornata lavorativa. 
-Papà, ciao! - lo salutò Kazumi, abbracciandolo, e uscendo fuori allo scoperto. 
-Principessa, finalmente ti stavo aspettando. - i due entrarono nella guardiola, perché Shogo doveva riporre il camice, prima di tornare a casa da sua moglie, in trepidante attesa oltre che dolce, mentre la figlia lo seguiva come un cagnolino, mettendogli il broncio. 
-Papà, non ho cinque anni! - 
-Sì lo so, ma sarai sempre la mia dolce principessina. - 
-Papà, ho quattordici anni... - 
- E ciò ti da il diritto di sentirti già adulta? - le domandò lui, mentre si toglieva il camice e guardava dritto negli occhi sua figlia, quegli occhi, di quell’inconfondibile color caramello, che aveva visto soltanto in un’unica donna, la sua bellissima moglie Nagisa; amava il modo in cui sua figlia Kazumi somigliasse in modo perfetto a sua moglie, come se quattordici anni fosse nata Nagisa in una nuova forma, e lui adorava sua figlia dal preciso momento in cui l’aveva vista piangere in sala operatoria, dopo l’incidente di sua moglie. Ne era passata di acqua sotto i ponti da quel brutto momento che avevano passato, da quando sua figlia era venuta al mondo, da quando sua moglie era rimasta vittima di quel brutale incidente con la loro auto, adesso invece tutto tra Shogo e la moglie era tornato a posto magnificamente, erano una vera famiglia, e presto avrebbero avuto un nuovo componente, visto che Nagisa era di nuovo incinta. 
- No, papino... sono perfettamente in grado di scegliere da sola, senza il tuo aiuto. - 
- La mia autodidatta - fece il medico, facendole da dietro il solletico, sotto lo sguardo divertito dalla signora Haruka. 
-Papà! Ti prego - brontolò Kazumi, mostrando un po’ quel suo carattere così ribelle, che tanto ricordava a Shogo la madre, anche Nagisa da giovane era così, ma ciò che la rendeva speciale era l’essere diversa da tutti gli altri, l’essere una persona esplosiva, e vivace, che prendeva la vita con allegria, e che aveva coraggio per affrontare qualsiasi mostro che le sarebbe capitato a tiro, magari con calci e pugni lo avrebbe steso. Shogo conosceva la parte nascosta della moglie, una cosa che i due di tacito accordo non avevano mai rivelato alla loro bimba. 
-Sai... mi ricordi un po’ tua madre da giovane. - le disse Shogo, facendola arrossire. 
-Ah sì,... pazza... esuberante, e una mangiona, eh? - 
- Mi hai letto nel pensiero, principessa. - le accarezzò con fare paterno quei suoi capelli, quel visetto un po’ simile al suo, così pasticcione ma guardandola negli occhi si rendeva conto di quanto fosse stato cieco, di quanto fosse ottuso nel pensare che sua figlia fosse ancora una bambina piccola desiderosa del suo affetto e delle sue attenzioni, ma adesso nel suo viso vedeva una maturità che non aveva mai notato, una maturità che aveva anche lui, che aveva acquisito nel tempo, e che alla sua età non aveva mai avuto. 
-Basta, papà. Piuttosto vogliamo andare, mamma starà veramente andando fuori dai gangheri.. - gli ricordò, e Shogo si mise a pensare a tutte le volte in cui aveva fatto arrabbiare la moglie, tutte le volte che era arrivato in ritardo ai loro appuntamenti per colpa degli allenamenti di calcio, tutte le volte che avevano fatto il tiro e molla con la storia delle Pretty Cure, tutte le volte in cui lei lo aveva lasciato, tutte le volte in cui si erano ripresi come un boomerang, tutte le volte in cui lei gli aveva mollato uno schiaffo, giusto in testa, oppure sulla nuca, oppure le tante volte in cui l’aveva spinto per farlo cadere a terra e fargli provare la sensazione di vuoto, eh sì il suo amore era una vera manesca. Shogo ingoiò la saliva che gli era rimasta nella gola, terrorizzato. 
-G-già... ci conviene andare eh, altrimenti... tua madre invece di arrostire il pollo, arrostirà qualcun altro stasera. - 
- Ovvero, papà? - 
-Eh... t-te lo spiegherò poi. - disse Shogo, prendendo le chiavi della sua macchina e salutando Haruka con un “buonanotte” e un “ci vediamo domani” e poi lasciò il reparto insieme a Kazumi. I due fecero la strada a ritroso, verso il parcheggio, dove il dottore aveva lasciato la sua Renault, una nuova macchina che aveva acquistato dopo l’incidente di Nagisa, e che la moglie fin da quando aveva scoperto di aspettare il suo secondo figlio non aveva nemmeno toccato, neanche per fare rifornimento di benzina o per andare a fare un giro o una passeggiata. Shogo prese il telecomando, e sbloccò le portiere. Lui prese posto alla guida, mentre la figlia le si sedette accanto, e si appuntò la cintura di sicurezza mentre il padre iniziava ad accendere il motore e lo faceva lentamente surriscaldare. 
Il campanellino all’accensione iniziò a trillare, per avvisare Shogo che non aveva messo la cintura, ma lui non ci fece caso, e iniziò a fare la retromarcia per uscire. Intanto la sua bambina si appoggiava al finestrino con l’avambraccio, e teneva la testa sopra di quello, immersa nuovamente nei suoi mille pensieri, Usui aveva deciso di farla veramente impazzire, quel ragazzo da quando era entrato nella sua vita non aveva smesso neanche una volta di occupare i suoi pensieri, lo vedeva in tutti i posti in cui vagava con lo sguardo, lo vedeva nella strada, passeggiare con quel suo passo elegante, lo vedeva in quel cielo che si stava iniziando a colorare di un blu profondo, lo sentiva accanto a sé, in ogni suo momento, lo sentiva percorrere il suo dito sul suo corpo, e stava veramente diventando una pervertita, sentiva persino la sua voce calda e melodiosa, le sue mani sui suoi fianchi, forse avrebbe dovuto chiedere a suo padre una consulenza immediata dallo psicanalista della famiglia, oppure avrebbe dovuto chiudere il suo cuore con i lucchetti in modo che non si muovesse più, magari gettarlo in un pozzo, sarebbe stato meglio che rendersi conto di essersi invaghita di quel tipo francese da quattro soldi, non voleva ammetterlo, perché non lo era. Suo padre stava guidando a circa 80 chilometri orari, aveva lo sguardo dritto verso la strada, non poteva guardare l’indecisione della figlia stampata sul suo volto, ma quando si fermò a uno dei semafori che Kazumi conosceva a memoria, allora sì che iniziò seriamente ad osservare l’atteggiamento della sua bimba, della sua dolce principessa, e la sua mente si scolorò nel passato. 
La macchina prese invece posto della sala operatoria della clinica, a quei quattordici anni prima, quando sua moglie entrò in coma per quel brutto incidente, che avrebbe anche potuto compromettere la loro vita, la loro famiglia. Le condizioni di Nagisa erano davvero disperate, fortunatamente sua moglie aveva la cinta, e ciò aveva evitato un volo di oltre dieci metri, e la gravidanza sicuramente si sarebbe interrotta, sua figlia sarebbe morta, e lei pure, lui non se lo sarebbe mai perdonato. Il chirurgo che la stava operando permise a lui di entrare, per dare sostegno a sua moglie, che purtroppo non era cosciente, a seguito della forte emorragia e del trauma cerebrale, ma comunque lo avrebbe sentito lo stesso, perché tutti sanno che durante il coma, anche quello più profondo, si riescono a sentire le emozioni, ovviamente in maniera differente. Shogo si dispose vicino a lei, e iniziò a stringerle coraggiosamente la mano, baciandole la fronte, e rassicurandola dicendo: - Dai, tesoro, resisti. Presto sarà tutto finito e avremo la nostra bambina. - intanto le stringeva ancora più forte la mano, voleva che lei, nonostante quel sonno profondo, riuscisse a percepire il suo amore, la sua preoccupazione per non averla lì a fianco, per non vederla sorridergli con una delle sue facce buffe, per non riuscire a sentirla pronunciare quell’unica parola “arienai” ogni volta che succedeva qualcosa di davvero incredibile, ora quel suo sorriso si era assopito, e i suoi occhi erano serrati ermeticamente, e non mostravano quel colore inconfondibile di cui lui si era perdutamente innamorato fin dalla prima volta in cui lui l’aveva incontrata, perché quel colore lo aveva solo lei, ma un po’ ci sperava che anche sua figlia lo ereditasse per rendersi ancora più convinto di ciò che provava, e perché non credeva di poter amare Nagisa più di quanto la amava già, il suo cuore era sul punto di scoppiare, e non sapeva più dove aggiungerne altro, non ci sarebbe entrata una nuova dose di amore, nemmeno se lo avesse liberato con la pala. Erano pazzo, sì, ma non voleva perderla. 
Nella sala operatoria, anche i dottori sentono di essere giunti a un bivio in cui scegliere, la scelta da compiere è facile, difficile è impostare la direzione, sarà nella morte, nel rimpianto di ciò che non si è vissuto o nella luce, la luce di una vita tutta da scoprire. E mentre le ore scorrevano impotenti, Shogo aumentava la sua angoscia, e il sangue gli saliva al cervello fino ad oscurargli la vista. Nagisa, lì, stesa sul lettino, bianca a pallida come un lenzuolo, come non lo era mai stata, sembrava una bambolina, e la cosa peggiore, sembrava già morta, una morte che la rendeva ancora più bella. Come avrebbe voluto portare allo scasso quella macchina del demonio, come avrebbe voluto fermare il tempo, tenerla ancora di più al telefono fino alla fine del turno, come avrebbe preferito esserci lui a quel posto, in fondo si trattava di un semplice scambio, una vita per due vite, ma che per lui erano importanti, quasi quanto l’aria che respirava.
Se veramente Dio esisteva, allora perché non gli permetteva di morire d’amore? Forse questo non è possibile, si chiese il medico. 
A un certo punto il tempo sembrò scorrere così velocemente, il chirurgo che la stava operando esultò, e Shogo dallo spavento per quella trans improvvisa, sussultò. - Dottor Fujimura, vedo la bambina! Infermiera, il dilatatore - 
Shogo aveva già gli occhi lucidi, al pensare che tra un po’ di tempo avrebbe conosciuto la bambina che aveva solamente immaginato in tutti quegli anni, e anche in quei nove mesi; l’aveva già vista nelle ecografie, ma così era tutt’altra cosa, adesso sarebbe stata in carne e ossa, tra le sue braccia, e lui emozionato le avrebbe dato il suo benvenuto nel mondo, e l’avrebbe stretta a sè. 
Shogo si alzò, ma non perdendo mai il contatto con la mano di sua moglie. 
-Nagisa, la nostra bambina! - esclamò. - Nagisa! - quasi come se fosse convinto che la moglie riuscisse a vedere e a sentire la sua stessa emozione, la loro bambina che fuoriusciva da lì, tutta sporca di sangue, della dimensione di una ranocchietta. 
Il chirurgo la prese in braccio, era talmente minuscola, madida di sangue, le manine morbide e strette a pugno, i piedini scalpitanti, la voce più strillante di tutte, mentre piangeva in braccio all’ostetrica, che la stava pulendo, con una asciugamano. La pesò, era di quasi tre chili, nonostante fosse nata prematura aveva tutto il coraggio necessario per affrontare le difficoltà che la vita le avrebbe posto dinanzi. 
L’ostetrica tornò nella sala con in braccio la sua neonata, e gliela diede in braccio; Shogo osservò la sua rannochietta grinzosa, mentre la teneva in braccio, stando attento alla testa, e sentì un amore indescrivibile, un amore che Nagisa gli aveva spiegato in tutti quei mesi, ma che lui non aveva mai compreso a fondo, adesso, adesso.. lui lo aveva capito, adesso aveva capito perché sua moglie accarezzava sempre la pancia, e sorrideva, parlando con una vocina deliziosa a quella sporgenza, magari aspettando che la bimba le rispondesse, delle volte lui le parlava della sua giornata, e Nagisa stava a pensare alla sua pancia, mangiando e abbuffandosi di patatine con ketchup, la odiava quando faceva così. 
Lui si arrabbiava, così tanto che avrebbe voluto ammazzarla, ma non appena provava in qualche modo a ribattere le sue decisioni, lei le si avventava contro come un cane, dicendogli che se non avrebbe fatto tutto ciò che lui gli diceva, lei lo avrebbe lasciato a dormire fuori al terrazzo, poi gli avrebbe dato un bel calcio nel sedere, e poi lo avrebbe mandato a stare da Kimata, in modo che imparasse la lezione e che non la offendesse più, succedeva sempre così. Il castano sorrise come uno scemo, e uscendo dalla sala operatoria, perché glielo avevano detto i medici perché Nagisa avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento per ricucirla. Il ragazzo si era appostato fuori, e si era seduto sulla sedia, tenendo in braccio la sua bellissima bambina, per sceglierle un bel nome, visto che la madre non c’era per aiutarlo. 
-Ciao, piccola. - disse, mentre il suo piccolo palmo stringeva il suo indice molto più enorme. - Sono il tuo papà. - 
Si stupiva di quanto quella bambina lo facesse sciogliere come un gelato al sole. La dolce bambina, con i pugni stretti alla tutina, cominciò a svegliarsi fra le braccia del suo papà, e gli mostrò la bellezza dei suoi occhi, gli occhi che aveva ereditato da sua moglie, e Shogo ricordando che un mese prima Nagisa e Shogo avevano pensato a che nome darle, e che nella discussione era stato nominato anche “Kazumi” che significava bellezza vittoriosa, e così lui si decise il suo più prezioso tesoro, la sua dolce bambina, la sua primogenita, il solo e unico motivo per cui lui era venuto al mondo, si sarebbe chiamata Kazumi... Kazumi Fujimura
La sua bellezza vittoriosa. 
Quel rapido flashback le era passato davanti agli occhi a Shogo, osservando il volto un po’ perplesso della sua meravigliosa bellezza, la adorava tantissimo, era forse il gioiello più prezioso che lui avesse mai ricevuto in vita, ed era stata proprio Nagisa la fautrice. 
Fin da quando era bambina aveva cercato di darle quanto più amore possibile, di trattarla come una principessa, di farle avere tutta la felicità del mondo, e di regalarle persino la luna o il sole, se lei lo avesse chiesto, pur di vederla sorridere come la prima volta in cui l’aveva vista nascere; Shogo si era sempre prodigato per Kazumi, come anche per Nagisa, la sua famiglia risultava essere fra le cose più importanti, che lui metteva al primo posto, lavorava come un matto, di giorno, di sera, di notte, di pomeriggio, sempre, pur di accontentare i vizi di sua moglie, i capricci della sua bambina, e far in modo di avere un’esistenza dignitosa. 
Non parlava spesso con sua figlia. Kazumi era sempre impegnata con la scuola, con la cura della casa visto che sua madre, essendo agli ultimi mesi di gestazione ha bisogno di più riposo, dopotutto ha un grande pancione, non sarebbe giusto se Kazumi non la aiutasse con i servizi, lui, Shogo, purtroppo non aveva tempo nemmeno per sé stesso, quindi non riusciva mai ad essere presente nella vita della sua bambina da quando aveva compiuto i suoi quattordici anni e cominciava a frequentare le superiori, piena di problemi adolescenziali, che aveva passato anche lui, alla sua età, quando si era innamorato di Nagisa. 
Quando il semaforo passò a verde, lui accelerò di nuovo, e smise di essere silenzioso. 
-Tesoro.... - 
La ragazza che guardava con attenzione la strada si girò verso il padre. 
- Sì, papà? - 
- Senti.. ho notato che da quando siamo partiti, non hai detto una sola parola. Che succede, hai qualche problema? - 
La ragazza per il nervosismo si rialzò e si piantò sul sedile, dritta come una tavola. 
- N-no, cosa vai a pensare papà! - 
- Guarda che non mi inganni, ricordati che ti conosco benissimo... fin da quando eri neonata. - fece Shogo, facendo una veloce sterzata. 
La ragazza sospirò. 
- Non è un po’ esagerato? - 
-Cosa, tesoro?- 
- Che mi conosci così bene, papà! - 
-Sì, ti conosco talmente bene, che ti ho stampato dentro di me. - rise l’uomo. - E conosco bene il tuo sguardo, e so che hai un problema. - 
A Kazumi non piaceva stare nella macchina di suo padre, odiava andarlo a prendere alla fine del turno, non che non volesse incontrarlo, ma alle volte credeva che suo padre fosse uscito da uno di quei fumetti che leggeva lei, e che fosse uno dei nemici più potenti, con un rader rosso negli occhi capace di leggerti la mente, e immaginarlo in quel modo le fece fare un sorrisetto divertito. 
-Oh, bene, vedo che stai ridendo! - esclamò il signor Fujimura, girando il volante. 
-Chi? - domandò, puntandosi il dito al petto. - Io? No, no non oserei mai... visto che sei chi mi ha messo al mondo. - 
-Non proprio visto che il merito è di tua madre. - 
-Ok! - fece la ragazza. 
Shogo la guardò di nuovo in volto. 
-Bene.. adesso mi dici che cos’hai? - continuò l’interrogatorio il padre di Kazumi, visto che adesso aveva l’opportunità di scoprire i sentimenti di sua figlia, dato che a causa del suo cerca persone non aveva mai tempo di parlarle un po’ a quattr’occhi. 
-Sì hai ragione papà... posso chiederti una cosa? - 
Shogo annuì. 
-Uhm, questa però è una cosa molto importante, e ti chiedo di essere completamente sincero. - 
-Certo, tesoro. Chiedi pure. - 
-Allora, e-ehm... tu cosa p-provavi... - poi si fermò, mentre il padre la ascoltava in silenzio. - Per la mamma? - 
-Non ti capisco, tesoro. Sii più chiara. - le chiese Shogo. 
-Bene, - la ragazza iniziò a sentirsi accaldata, è come se fosse non ci fosse aria in quella vettura, o come se l’argomento fosse troppo da persona matura, e lei non lo era affatto, per niente. -Tu, quando hai c-conosciuto mia madre... - 
-Sì, continua. - 
- Tu cosa hai sentito per l-lei? - finì, mentre Shogo per guardarla, stava per sbattere contro un palo della luce. -Papà! Diamine, che ti è accaduto? Stavi per andare a sbattere contro un palo, stavamo per ammazzarci! - 
-Ti prego, tesoro! - esclamò lui, furioso, spegnendo improvvisamente il motore, - Non dirmi che ti sei ... - e tolse le mani dal volante per metterselo in faccia. -Dimmi ti prego chi ti ha messo le mani addosso! - continuò, aprendo la portiera nel bel mezzo della strada. 
- Papà ma a cosa stai pensando? - domandò lei. 
- Io lo uccido, tu sei la mia bambina, non ti permetterò che ti tocchi! - 
-Ma cosa... c-cosa hai capito, papà! - gridò Kazumi, - Ho soltanto chiesto... - 
-Sì, tu mi hai chiesto cosa sentivo per tua madre quando la incontrai, per il semplice motivo che la mia piccolina si è invaghita di qualcuno! - urlò nuovamente.  - e io se trovo quello stupido che ti ha messo le mani addosso, stasera non sarà solo il pollo di tua madre a friggere, ma anche lui. - 
-Papà, mi vuoi ascoltare! - 
-No... non voglio, io non accetto che la mia piccolina si innamori a questa età! - 
-Non sono innamorata - precisò Kazumi, mentre il padre prendeva a calmarsi. - É solo curiosità, papà. - 
Shogo sospirò, liberato di un grande peso, e richiuse la portiera. 
-Fiu! Tesoro, precisa le cose o mi farai venire un infarto. - 
-Non mi hai nemmeno dato il tempo di parlare, che ti sei messo a urlare come un pazzo, e quando accadrà veramente? - 
- Cosa! Kazumi, piccola mia, non dire ciò che stai per dire. - 
- E invece lo dico, perché è una cosa normale, succede a tutti, è capitato anche a te, e non essere iperprotettivo! - 
-Sì, va bene. - si scusò il padre, riaccendendo i motori, - Ciò che sentivo per tua madre è.. amore tesoro, lo capisci, una sensazione che ti parte da dentro, una sorta di .. farfalle che prendono a volare nello stomaco, ti senti strano, non hai respiro, e lo vedi in ogni tua azione, lo vedi e senti che è la persona più giusta. - 
Kazumi si lasciò scivolare sul sedile della macchina, perché quella sensazione che le aveva descritto suo padre, sembrava la stessa che provava lei quando parlava di quel tale ragazzo, quando sapeva che il giorno dopo avrebbe potuto incontrarlo a scuola, e la peggior cosa era che stava seduto accanto a lei, e che ogni volta che perdeva il libro voleva il suo, avvicinandosi ancora di più, e lei andava in pallone completamente; mentre stava per scivolare gettò uno sguardo al sedile posteriore, e vide la sua incudine che lo salutava. Usui era seduto, sul sedile posteriore, e la salutava con lo stesso sorriso strafottente. 
- No! Anche in macchina... lasciami in pace! - urlò lei, mettendosi una mano sul viso. 
-Ti devo lasciare in pace? - chiese Shogo, molto perplesso, quando vide sua figlia svincolarsi dalla cinta. 
-No! No! - continuò lei, mentre il padre parcheggiava la macchina sotto il garage, che Nagisa aveva rimasto aperto. 
I due scesero giù dalla macchina, Shogo scese dalla macchina e la chiuse, per dirigersi verso la porta di casa.
-Sicuro che la mamma non si arrabbierà? -chiese Kazumi, conoscendo la reazione di sua madre, quando arrivavano alle otto di sera. 
-Uhm, e noi diremo che abbiamo avuto dei problemucci... - rispose Shogo, mettendo la chiave nella toppa. 
- Certo, dirai pure che per colpa tua stavamo per fare un incidente? - 
-No! No, già ho speso assai per la prima macchina, tua madre ci bombarderà con i suoi arienai, meglio di no! - 
- Perfetto- fece Kazumi, quando entrarono dalla porta inoltrandosi nel corridoio. Suo padre posò il giubbino sull’attaccapanni, e lei dispose la sua cartella sul pavimento, mentre stavano per entrare in cucina, si trovarono di fronte a loro la figura di Nagisa, con un grembiule che le si stringeva sulla pancia, entrambe le mani sui fianchi, e le faccia di una che è molto arrabbiata. 
Shogo fece un sorrissetto alla moglie, e andandole vicino la salutò. -Ciao amore! - le diede un bacio a stampo sulle labbra. 
-Amore, cosa credi di fare con quel bacio? - domandò Nagisa, minacciando il marito con il suo mestolo tinto nella salsa. 
-N-niente, solo calmarti. Nel tuo stato, insomma... devi essere molto calma. - 
Nagisa aggrottò le sopracciglia. 
-Uhm, tesoro.. stai per caso dicendo che sono una pazza appena uscita dal manicomio? - chiese. 
Shogo fece segno di no con la testa. 
- Tesoro, ti prego non ti arrabbiare, non sei una pazza, ma a furia di urlare farai agitare nostro figlio. - precisò, toccandole la pancia, per sentire i calci di suo figlio, -e dopo nasce come te.. - 
Nagisa le tolse la mano dalla sua pancia, puntandogli il mestolo contro il mento. 
-Stai dicendo che sono una che urla sempre a vanvera, Shogo Fujimura. - 
-No, ma se stessi zitta farebbe piacere ad entrambi. - e anche Kazumi appoggiò suo padre. 
La madre sembrava quasi un sergente, mentre a piedi nudi, girava tre ore sullo stesso posto, per decidere cosa fare con suo marito e sua figlia che non solo arrivavano a un orario così sballato, ma che si permettevano di darle della pazza appena uscita da una casa di cura, di una che urla sempre a venvera, e di prenderla per i fondelli come faceva il marito cercando di baciarla, e di una che sarebbe meglio che in alcune occasioni stesse zitta, per non dire schiocchezze. 
- Bene, allora è così. - puntò il mestolo contro il marito. -Tu! - 
Shogo indietreggiò. 
- ... tesoro, tu vai in cucina, io mi siedo sul divano, e ti vedo lavorare per farmi una crepes, altrimenti non ti perdono. Ah, e inoltre vai un attimo giù, mi compri una bella cioccolata, in fretta, non farmi attendere, mai far attendere una donna in dolce attesa, altrimenti ti ammazzo col mestolo e divento vedova prima del tempo, capito tesoro? - 
Shogo fece segno di sì con la testa, recuperando il giubbino, e uscendo in fretta dalla porta. 
Poi Nagisa puntò il mestolo contro sua figlia. 
-Kazumi, tu per farti perdonare, vai immediatamente a pulire la tua cameretta. Io non sono una schiava, e sono anche incinta, quindi.. ti do cinque secondi, poi vieni a mangiare, a studiare e poi a dormire, chiaro tesoruccio? - 
Kazumi fece segno di sì con la testa, anche lei e andò dritta in camera. 
Nagisa sorrise vittoriosa, - ah... come è bella la vita quando hai tutto sotto controllo, vero piccolo mio? Il tuo papà è cotto a puntino, e la tua sorella maggiore anche. Che mamma ingegnosa che hai! - esclamò, e con in mano il mestolo tornò in cucina. 






**Angolo della Love** 

Salve amici! Questo capitolo è stato dedicato a Kazumi, e non è comparso Usui, ma non vi preoccupate nel prossimo potrete scoprire anche i sentimenti di quel ragazzo bellissimo che questa storia ha come protagonista. Hahhaha avete visto come è stato diretta la nostra Nagisa? Io la amo proprio perché ha questi suoi scatti pazzeschi di ira, tesorini, io adesso vi lascio alla lettura! 
Bye Bye... e come sempre ringrazio Rosanera e Zonami84. 
Vi adoro tantissimo. 
#Love












 

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Capitolo 8
*** La confessione di Usui, i ricordi di Honoka. ***


And I was made for You



***
Ma salve, carissimi fan della storia, lo sapete che vi adoro? Dico a voi Zonami84 grazie sorellina cara perché sei sempre presente nelle mie storie, e ovviamente, la carissima Rosanera che adora questa storia. Be’ mettetevi comodi allora, per seguire i retroscena della mia storia che ha come protagonisti Usui e Kazumi, i nostri due beniamini. Ma cosa succederà, nel capitolo precedente, avete letto ciò che la nostra cara Kazumi pensava di Usui, secondo voi è innamorata di lui? Lui prova lo stesso, risponderò alle vostre domande solo se leggerete e recensirete il chappy~ bye Love


Quella ragazza mi fa seriamente impazzire.
Forse è una conseguenza del trasloco, forse magari è anche il cambiamento di aria, o probabilmente è l’overdose di immaginazione.
Non era un tipo che si metteva a pensare a una donna così facilmente, le sue precedenti “relazioni” erano state un totale fallimento, considerando che lui riteneva quelle ragazzette che gli correvano dietro, solo per i suoi occhioni dolci o quei suoi capelli di seta, cotte di nessuna importanza, non quel sentimento travolgente che può veramente incastrarsi nel tuo cuore come un diamante, non il sentimento che sua madre aveva provato per suo padre, nonostante quell’uomo l’avesse ferita molto volte, senza alcun riguardo, senza importarsi di nulla, non quello che da un po’ di tempo a questa parte provava per quella scimmietta, un’attrazione inspiegabile, come se il mondo fosse talmente piccolo, che tutte le viuzze, tutte le strade, tutti gli incroci portassero a una sola persona, e che il nome di quella persona gli fosse stato scritto con l’indelebile, che non sarebbe venuto via nemmeno per tutto l’oro del mondo. 
Quella ragazza mi uccideva con i suoi sguardi
Usui si stese sul letto, nella sua camera, con le braccia incrociate alla nuca, e lo sguardo fisso al soffitto. Era appena rincasato dopo una dura giornata di scuola, le braccia gli facevano male, le sentiva tanto indolenzite, ed era la prima volta che uno studente perfetto come lui, che basava la sua intera vita nelle scienze, si interessava a qualcosa di così diverso, come un sentimento che non proveniva assolutamente dalla testa ma dal suo cuore, in procinto di scoppiare, se non si fosse immerso nel caldo tepore di una doccia. 
Quella era talmente vivace, da farlo sentire così idiota.
A quanto pare la doccia non era servita a un bel niente, lui continuava a sentire il cuore superare il limite d’emergenza, la sua testa essere in un frullatore, e il suo intero corpo bruciare per l’assenza della sua orma, la sua orma. 
Quella ragazza non era diversa da tutte le altre, era differente su tutti i fronti
Kazumi. Kazumi... il suo nome gli usciva dalle labbra come se niente fosse, come se non avesse più leva sui suoi sentimenti, come succedeva quando, per annegare i suoi dispiaceri, esagerava un po’ troppo con l’alcol, e iniziava a sciogliere la lingua. Non riusciva più a controllarsi, si girava da un lato e la trovava, stesa, accanto a sé, con una mano che le massaggiava la guancia, poi evitando completamente i suoi profondi occhi, in cui brillava la scintilla dell’amore, si girava dall’altro lato del letto, e come un ologramma la ritrovò seduta comodamente sulla scrivania, per salutarlo con un mano, e nervoso si girò, questa volta, per dirigere il suo sguardo al soffitto sperando solo che non sarebbe comparsa pure lì, perché altrimenti avrebbe capito seriamente di essere un pazzo malato. 
Forse provavo ciò solo perché volevo assomigliarle, ma non ci riuscivo.
Usui si allungò verso la scrivania, dove aveva lasciato la sua cartella, e prese dalla tasca davanti un cellulare. Se lo rigirò tra le mani, esso era tutto bianco e con un cuore azzurro, e lo possedeva da quando aveva solo cinque anni, lo trattava come il suo prezioso portafortuna, nei momenti di confusione e difficoltà, quando era giù di corda, bastava che lo stringesse tra le mani per venire inondato da una strana energia positiva. -Oh, che devo fare cellulare? - chiese, sperando che lui gli porgesse la soluzione. - Sono così confuso. Non mi è mai successo di interessarmi ad altro che non fosse la mia carriera scolastica. - 
Usui era sempre stato un alunno modello, impegnato nella scuola, tanto che in Francia i professori volevano che saltasse addirittura il liceo chiamandolo “ragazzo prodigio” e inoltre “vero pozzo di intelligenza umana” per passare immediatamente alla fase finale del collage, ma lui non aveva accettato tutto questo, mantenendo come sempre la sua indole di ragazzo generoso e maturo. Era la prima volta che Usui Yukishiro si trovava di fronte a quell’indifferenza totale verso la professoressa Rina che stava spiegando la lezione, ed era invece tutto attento ad osservare i movimenti della compagna di banco, di cui non se ne era perso nemmeno uno. 
Quella ragazza gli faceva fare cose delle quali non si pentiva.
Certo il suo comportamento era strano, ma quello che era ancora più strano, era il modo con cui lui le parlava, quando alle volte non riusciva a rifilare due parole in croce, il modo in cui la punzecchiava, il modo in cui la sua mano aveva incontrato inesorabilmente la sua, la sensazione di essere attratto, la sensazione di scarica che aveva oltrepassato il suo corpo, e un fulmine bianco che gli accerchiava ancora la mano, che non era allucinazione o effetto, era come se lui ne fosse stato l’essenza, come se il suo corpo avesse reagito, creando una specie di corto circuito, che né lui e né Kazumi avevano riuscito a decifrare. 
Non solo aveva dovuto lasciare il suo paese di origine, cambiare casa e finire in un luogo in cui si sentiva a disagio, ma doveva pure incontrare qualcuno che era spericolato, vivace, testardo, che era tutto ciò che lui non era mai potuto essere, non almeno in quella vita. 
Lei forse racchiudeva tutte le sue qualità che lui non possedeva, o che non riusciva ad esternare. 
Lei era bella, i suoi occhi somigliavano a due soli splendenti, i suoi capelli al caldo abbraccio della seta. 
Lei era vivace, aveva voglia di vivere, di fare ciò che le era proibito, di rompere ogni regalo con un pizzico di quella follia. 
Lei era talmente spericolata, oltrepassare con semaforo a rosso era uno degli esempi che Usui ricordava di più.
Lei era diversa, e non era come quelle ragazzette parigine, aveva coraggio, aveva tanti difetti, che non distruggevano ciò che era la sua vera personalità; se in tutti questi tratti erano così diversi, una cosa potevano avere in comune loro due: il nascondersi continuamente, lo sfuggire dagli altri, costruirsi tutto intorno un muro di cemento, la durezza un tratto comune, la durezza di non mostrare ciò che si celava dentro di loro, il non voler mostrare la debolezza agli occhi degli altri, il farsi forti anche se in realtà non lo si è. 
Questo gli piaceva di Kazumi, che era dura, che era rompiscatole, che era forte e possessiva, anche se dentro di lei tutto crollava. 
Usui sospirò, mentre ad un tratto la porta della sua camera si spalancò, mostrando la figura elegante della madre, che aveva visto il figlio di sfuggita, poco prima che lui si rinchiudesse nella sua solita corazza di mestizia e silenzio, una cosa che non aveva di certo ereditato da lei ma piuttosto dal padre. Avevano cenato con solo i rumori assordanti delle forchette contro il piatto, Honoka in balia dei suoi pensieri, con la forchetta tra indice e pollice a mezz’aria e lui, invece, dal capo opposto della tavola, impegnato a masticare i ravioli. 
Nessuna parola era fuoriuscita, né Honoka aveva chiesto al figlio come era andato il primo giorno alla Verone, tutto la cena si era svolta nel più completo e assoluto silenzio, nessuno dei due voleva rompere il ghiaccio, Honoka era troppo impegnata a crucciarsi sulla sua precedente visita al cimitero in cui non aveva trovato nessuna tomba dedicata alla sua migliore amica, e Usui aveva legato i suoi pensieri a colei che adesso aveva etichettato come “incudine vivente” dopodiché lui si era ritirato in camera con la scusa dei compiti, e la corvina come tutte le sere aveva messo a posto le stoviglie, le aveva lavate, sciacquate e messe in ordine in uno dei mobili della sua vecchia casa. 
Messo da parte il suo risentimento improvviso per ciò che era accaduto stamattina, andò a riporre i panni ben puliti e stirati nella camera del figlio, e lo trovò steso sul letto, senza nemmeno un libro aperto sulle ginocchia. 
-Usui, tesoro. - 
Il ragazzo sentendo la voce della madre, si mise a sedere vicino alla testiera del letto. 
- M-mamma... - bofonchiò lui, scendendo con un balzo dal letto, per recuperare i libri rimasti nella borsa. - Adesso mi metto a studiare. -
Honoka aprì il cassetto, e ci ripose dentro alcune magliette che quel pomeriggio aveva stirato, e senza farle sgualcire di nuovo richiuse il cassetto, e si rimise in piedi, tenendo sui fianchi un cestello. 
- Non fingere, tesoro. - fece Honoka. 
Essendo sua madre Honoka aveva ben imparato e conosciuto le “strategie” su come scappare quando non aveva voglia di farla preoccupare, di certo prima non le diceva di dover andare a studiare, anzi le accennava di voler andare a dormire, ma in realtà se ne stava da solo, seduto sul letto, rimboccato di coperte, a guardare il soffitto dell’appartamento, e lei senza farsi sentire lo osservava. 
Nonostante ormai fosse quasi un ragazzo adulto, e capace di prendersi le sue responsabilità, certe volte conservava quella sua indole di bambino piccolo, che la faceva tornare indietro nel tempo, a quando lei ogni sera andava a lavorare come sarta in una fabbrica e Usui restava a casa da solo. Era un bambino talmente bravo e intelligente, che Honoka non aveva dubbi a lasciarlo solo a casa, così che se i ladri ci avessero pensato ad entrare in casa per rubare, lui li avesse messi in fuga con quel poco di ingegno e con rompicapo dei suoi. 
Usui era il suo gioiello più prezioso, tanto che qualche volta, seduta alla finestra ad osservare il cielo stellato della capitale francese pensava a quando sarebbe stata anziana, abbandonata, e suo figlio avrebbe preso la sua strada, sarebbe andato incontro al suo destino e a lei sarebbe toccato l’arduo compito di salutarlo, di lasciarlo andare via, di vederlo felice e sistemato con sua moglie, per mettere su una famiglia che lei non aveva mai avuto, e che probabilmente non avrebbe mai vissuto. 
Era la vita che ci metteva di fronte queste scelte, a noi sarebbe toccato solamente adempirla. 
Honoka posò il cesto su uno dei mobiletti, e andò vicino al figlio, che si era seduto vicino alla scrivania, con il libro di storia fra le mani. 
-Figliolo, a me non mentire. Ho visto troppe menzogne nella mia vita, credimi. - lo supplicò Honoka, prendendo posto sul letto. 
Usui si girò a guardarla, specchiandosi nel colore identico dei suoi occhi. 
- Mamma.. perché mi dici tutto questo? - 
-La risposta è semplice caro. Io non ti ho mai raccontato di tua padre e me, solo perché credevo fossi ancora piccolo.. - 
- Sì, e allora? - chiese il ragazzo, lasciando il libro aperto davanti a sé. 
- Diciamo che.. non volevo che tu soffrissi come feci io tempo prima. - 
-Dovevi ascoltare il mio consiglio, mamma - iniziò Usui, ricordandole che lei avrebbe dovuto impedire al suo cuore di amare quel razzo di stupido, quel degenerato che prima le aveva promesso il suo amore eterno, e poi l’aveva abbandonata, come si fa con un cane. -Tu dovevi dire “no, non mi devo innamorare.. no non posso innamorarmi di lui, oppure soffrirò in eterno.” -recitò. 
Honoka sorrideva debolmente, avvicinando la mano a quella di suo figlio. 
-Alle volte non basta fare proibizioni e basta. Se ti innamori, è come prendere una malattia, esso non ti lascia più. - 
Non ti lascia libero di immaginarti altro che chi ami, e io so chi mi immagino.
-Scusa, mamma. Perché ti sei innamorata di un uomo tanto stupido, avresti dovuto pensarci, in fondo è scienza che tu puoi controllare il tuo corpo attraverso la mente. - continuò Usui, non riuscendo a capire come sua madre, una donna tanto forte e risoluta, dedita solo alla scienza e a ciò di ragionevole, si facesse vincere da un sentimento tanto raro come l’amore. - semplicemente non lo capisco. - 
Honoka rise di nuovo. 
- Sì, Usui. Ma credimi, nonostante tuo padre fosse un uomo tanto idiota, e che mi abbandonasse per ogni piccolezza, io lo amavo.. - 
- Tu non eri anche infatuata di zio Kimata, perché non hai scelto lui? - domandò. - Magari sarebbe stato più semplice essere figlio suo e non di quel degenerato che nemmeno conosco. - 
-Sei tu che non hai voluto conoscere tuo padre, figliolo. - rispose la corvina, mentre si alzava dal letto. - Io volevo mostrartelo. - 
Usui incrociò le braccia al petto, forse sarebbe stato meglio che nascere da un’amore non corrisposto e forzato come lo era stato tra Honoka e Kimata, che essere il frutto di un’amore raro ma ovviamente non troppo forte per sopravvivere al turbine del dovere. Usui vide sua madre sparire nel corridoio, inginocchiarsi per terra, verso il mobilone che avevano riposto in modo provvisorio, e prese un grande librone, richiuse con un tonfo il cassettone, che fece svolazzare in aria un olezzo di polvere e acaro, e tornò nella stanza. 
Honoka se lo mise sulle gambe, aprì la prima pagina, e tirò fuori una foto dal suo scomparto. 
-Questo è quando ero alle medie. - Honoka si indicò nella foto, aveva i capelli lunghi, lasciati sciolti, e una molletta a forma di cuore per evitarle che il ciuffo le andasse negli occhi, tra le sue mani un rotolo di pergamena, e l’aria di una che è molto felice. - Deve essere stata scattata quando mi sono diplomata. - continuò, mentre più avanti indicava una ragazza alta quasi quanto lei, con i capelli un tantino più corti, biondo-arancioni, anche lei con rotolo di pergamena, -Questa è Nagisa, tesoro. La conosci già.. -
Usui scosse il capo, mentre accarezzava il volto della sua “zia” notando una certa somiglianza con una persona di sua conoscenza, non avevano lo stesso taglio di capelli, anzi nemmeno lo stesso colore, visto e considerato che quelli di Kazumi era capelli marroni e non troppo chiari, ma gli occhi, quegli occhi illuminati dal sole, erano gli stessi e lui arrossì quando al posto di Nagisa gli comparì davanti agli occhi Kazumi. Era quasi un’ossessione. Mentre osservava la foto in tutti i suoi particolari, vide un ragazzo, che le salutava da lontano, un ragazzo molto carino, con i capelli castani, e scherzo del destino, il colore era identico a quello di Kazumi, solo che lui aveva un viso un po’ maschile, ma giurava che quel colore non gli era indifferente, era tale e quale a quello di Kazumi, possibile che tutte le foto conducessero inesorabilmente a lei, come un crudele scherzo del destino? 
Honoka gli scosse il braccio, facendolo uscire dalla trans. 
-Questo è Shogo.. te ne ho parlato di lui, qui era più giovane, ma ti assicuro che visto da vicino è molto meglio. - 
- Mamma, se non sbaglio era il tuo amico di infanzia. - 
- Giusto, Usui. Ma non solo questo, è anche il marito di tua zia Nagisa. - precisò. -Bene, adesso ti mostro tuo padre. - 
Honoka confiscò l’album dal pavimento, e iniziò a sfogliare le pagine, mentre i ricordi ingombravano il suo cervello, e brandelli di passato le passavano vicino agli occhi, come la pellicola di un film, o come quando stai per perdere tutto, e vedi la tua esistenza, come se tra poco potresti essere giudicato innocente o colpevole. Poi, Usui vide sua madre fermarsi, e avere gli occhi lucidi, perché incontrare nuovamente gli occhi magnetici del suo amato, era come essere colpita a tradimento da un’arma invisibile, senza alcuna pietà. 
Honoka faticò per riportare a galla il suo nome, un nome che le mancava nominare, ma che se nominato la faceva ricadere nella disperazione; il figlio, quando il librone fu appoggiato nuovamente sul pavimento, fermò il fiato. 
-Questo è tuo padre. - disse Honoka, mentre il silenzio dopo un po’ prese possesso della stanza. 
Usui vide davanti il mostro, nelle vesti di un principe, che aveva sedotto, abbandonato, e messo incinta sua madre. Un tipo, carino, ben posato, dritto come una tavola, mentre quella da dietro l’occhiello della macchina fotografica le scattava la foto al suo primo esordio alle medie,  di un anno più piccolo a giudicare dalla sua altezza. Una bellezza magnetica, munita di un alone di mistero che accerchiava la sua figura durante la posa, con le mani nelle tasche del pantalone, gli occhi fissi verso l’obbiettivo, color ghiaccio, che faceva scogliere chiunque lo guardasse, e i capelli verdi, come i suoi, identici, quasi come se la natura lo avesse forgiato a sua immagine e somiglianza. 
-Come si c-chiamava? - ebbe il coraggio di chiedere Usui, distogliendo lo sguardo dal padre. 
Honoka si fece forza per nominare ancora una volta quel nome e cognome, asciugandosi nell’angolo degli occhi, un rivolo di lacrima pronto a scenderle giù, per la guancia. 
-Kiriya... Irisaya.. - balbettò, ma dietro quel suo nome c’era forse una storia ancora più orribile dell’abbandono, che Usui non conosceva. 
Lotte, battaglia sotto false vesti, alter ego che prendevano vita dai loro corpi, Cure Black, e sopratutto Cure White, mostri, distruzione, futuro non propriamente assicurato, vittorie, sconfitte, abbandono, ritrovamenti, di nuovo abbandoni, scomparse, forse per secondi, ore, minuti o per eternità. Honoka non aveva mai avuto il coraggio di confessare a Usui che suo padre non era come lei. 
Lei era una Pretty Cure, una leggendaria guerriera che proteggeva il suo stesso destino, ma pur sempre umana, lui, invece, era stato forgiato dal male, e quella sua pelle bianco latte era il frutto di una reincarnazione, perché Kiriya, viveva, operava e lottava per andare incontro al suo destino, un destino che secondo lui non si poteva cambiare, ma solo accettare e subire. Nemmeno quella che gli umani chiamavano volontà, avrebbe potuto salvarlo dal buio, dal vuoto, dalle tenebre. Quello stesso uomo che Usui aveva chiamato mostro, padre degenerato e senza scrupoli, aveva tante ragioni per scappare, forse una delle quali era scappare dal suo stesso io. 
-Avrei preferito non vederlo, è peggio di un... principe travestito da bestia. - 
- Non dire così, Usui. - lo rimbeccò Honoka, che era a conoscenza del destino che avrebbe aspettato il suo amato.
-Mamma, tu lo difendi pure! - urlò, ora si stava seriamente arrabbiando. 
Come poteva sua madre proteggere quell’uomo, poteva anche essere un principe, godere di una bellezza a dir poco affascinante, ma restava in fondo una bestia, amare una donna, amare qualcuno da non poter farne a meno non significava abbandonarla da sola, porre fine ai suoi sogni d’amore, e addirittura metterla incinta, e sparire nel nulla, lui odiava di somigliargli almeno un po’ nell’aspetto a suo padre, di avere quella carnagione pallida e bianca, di avere i suoi capelli, di avere un mix di Honoka e di quel bastardo in sé, ma molto più di dover andare incontro al suo destino, di fare ciò che aveva fatto lui con la sua donna, se ami non lasci, se sai che lei ha bisogno di te, ti assumi tutte le tue responsabilità, un figlio ti fa crescere, maturare e pensare al futuro, non solamente a fuggire e a lasciarsi indietro problemi che torneranno sempre. 
-Non lo difendo, Usui. - si scusò la madre, - Ma ci sono cose di tuo padre che non sai.. - 
- Dammi una sola ragione per cui non dovrei trattarlo al pari di una bestia senza cuore, mamma. - 
- Tesoro, in amore non basta la ragione. In amore o ti innamori oppure ti metti in gioco, e lotti contro te stessa. Non puoi scegliere. - 
-Avresti almeno potuto tenerti alla larga da quel verme! - urlò nuovamente Usui, alzandosi in piedi. 
Honoka sospirò. Sarebbe stato andare contro i suoi stessi sentimenti. 
- Prima o poi tutti dobbiamo scegliere. - anche Honoka questa volta si alzò. - E che tu lo voglia o no Usui, tutti, ma proprio tutti. - 
- Se potessi non farlo, non sceglierei affatto. Perché dovrei amare una donna, renderla felice e abbandonarla, davvero non capisco. - 
- Usui, tu non devi essere uguale a tuo padre. - disse, mentre lentamente gli massaggiava una guancia. - Tu devi essere Usui e basta. - 
-E se mi scopro uguale a lui? - 
Honoka non vagliava dentro di sé tutte le volte in cui l’aveva abbandonata, ma tutte le volte in cui lui le aveva promesso che sarebbe tornato, che loro finalmente senza alcun timore sarebbero stati felici, a tutte le volte che toccava il cielo con un dito, a tutte le volte che si sentiva completa e che pensava che valeva la pena ascoltare il cuore, a tutte le volte che si erano lasciati e poi ripresi. 
Pensava alle cose belle di Kiriya. Pensava a tutto ciò che lui era stato per lei, e a cosa non era stato.
Usui non aveva tutti i torti, il suo cuore aveva già patito troppa sofferenza, l’unica cosa era incatenarlo e gettarlo in mezzo al mare per impedirgli di risalire, magari congelandolo sul fondo, ma nonostante questo lei non poteva impedire, che il suo cuore seppur congelato, provasse sentimenti forti per quel ragazzo. Aveva dimenticato i suoi occhi, i suoi capelli, la sensazione di averlo accanto in tutti quegli anni, ma adesso, vedendolo ritratto in quella foto che lei si era fatta dare e che aveva custodita gelosamente, sentiva rivivere in lei quell’amore che credeva perduto per sempre, e che si era assopito, sotterrato dalla coltre di dolore e dall’odio.
-Tu non sei uguale a lui. Tu sei Usui, il mio bambino, troverai la tua strada, andrai oltre a me e tuo padre, e sarai felice. - 
- E se non lo sarò? - chiese di rimando Usui, che aveva paura di trasformarsi con quel degenerato che aveva per padre.
- Lo so che sarà per te difficile perdonare Kiriya, ma pensa come sarebbe stato se io e lui non ci fossimo mai incontrati, tesoro. - 
Usui ci pensò. Probabilmente sua madre ora sarebbe stata moglie di un altro, e non starebbero in quella casa, probabilmente il futuro sarebbe stato più roseo e pieno di iniziative, e lui avrebbe avuto magari una capigliatura diversa, un carattere più estroverso, una vita più serena al fianco di una vera famiglia, che a lui da sempre era mancata, nonostante quel vuoto che sua madre aveva riempito con la sua presenza. Usui smise di stare in silenzio, e diede una risposta a sua madre, che non era quella che propriamente lei si aspettava. 
- Usui.. sei molto intelligente. Oltre alla nostra vita, pensaci tu saresti nato? - 
Usui la guardò in volto. La risposta era più che chiara: no, non sarebbe nato, ma almeno sua madre sarebbe stata felice. 
-Forse tra tutte le cose brutte di Kiriya, oltre che alla sua scomparsa, c’è anche quella di aver generato te. Credimi, quella cosa ha reso felice sia me, che ti ho portato dentro di me, che lui nonostante non sappia nulla di te. - 
-Mamma, tu non saresti stata più contenta? Non avresti guardato più in là, magari diventando una grande scienziata. - 
Honoka gli baciò maternamente la fronte. 
- Cosa significa una carriera che va bene? Fama, denaro... un’esistenza agiata, no.. questo non è niente in confronto alla gioia di vedere crescere dentro la tua pancia, una vita che è la mia vita, e una speranza che è la mia speranza, vederti nascere è stato il momento più felice, che nessun denaro avrebbe mai potuto comprare. - spiegò Honoka, mentre abbracciava suo figlio. - Tu sei la mia carriera. - 
- Mamma, quindi, .. tu sei contenta della tua vita? - chiese di nuovo Usui, mentre sfogliava l’album. - Niente ripensamenti? - 
-No.. sai l’unica cosa che avrei voluto cambiare... - Usui la guardò di nuovo, seduto a terra, con una pagina rimasta a mezz’aria. - Il destino di tua zia Nagisa.. il destino di quella bambina che non potrà mai conoscere sua madre, purtroppo.  Sai, queste sono le vere sfortune. - 
Usui girò la pagina e si trovò davanti un’altra foto: Nagisa, con un kimono rosso e sua madre con uno giallo, alla festa dell’estate. 
-Qua eravate davvero carine. - commentò Usui, indicandole in primo piano; Honoka aveva il ventaglio vicino al naso, e Nagisa al posto del ventaglio, uno spiedino di carne che stava divorando. - Oh, santo cielo! Zia Nagisa era una vera mangiona. - 
-Già... aveva un vero e proprio stomaco di ferro. - 
-Non rimpiangi la tua gioventù? -domandò Usui alla madre, in un momento di complicità con la camera immersa nel più assoluto buio, a differenza della scrivania, da cui proveniva la luce soffusa della lampada, che rischiarava i volti nitidi delle due ragazze. A quanto pare qualcuno le aveva riprese di nascosto, e aveva consegnato a Honoka la foto, visto e considerato che Nagisa non era in posa, ma nella sua posizione più naturale possibile. -Insomma... quando non mi avevi ancora. - 
-Ancora, ti dico di no, Usui. - rispose nuovamente la madre. - Vuoi vedere ancora le foto? - 
Usui fece segno di sì con la testa, portandosi al petto il volume, in modo che sua madre non glielo confiscasse, come quando ero piccolo e lei rincasava tardi, trovandolo ancora a leggere disteso nel letto, senza aver preso sonno. Quando aveva troppi pensieri difficilmente prendeva sonno, e sua madre sapendo che l’indomani avrebbe dovuto andare a scuola, lo rimproverava assai duramente, costringendolo a riporre il libro. Anche quella notte la sua testa stava lavorando troppo, così chiese il permesso alla madre di parlare ancora un po’ anche se domani era scuola e lui si sarebbe presentato da Kazumi come un morto vivente. 
-Tesoro, non dare la colpa a me, se domani arrivi in situazione pietosa a scuola. - 
-No, darò la colpa alla mia testa. - fece Usui, sfogliando le duecentomila pagine. 
-Perché, cosa sente la tua testolina? - 
-Cose così, mamma. - dissimulò il ragazzo, evitando il discorso “incudine Kazumi o più propriamente maledizione di Kazumi”
-Sai che non me la racconti, giusta? - 
- Ah no... - 
- Tesoro, ti conosco bene perché sì... - ma lui la interruppe, canzonandola. - Sì perché mi hai tenuto nella tua pancia per ben nove lunghi mesi e mi conosci come le tue tasche, questo lo so benissimo, non c’è bisogno che me lo ripeti ogniqualvolta. - 
Honoka sospirò lungamente, incrociando le braccia sul suo vestito, aspettando quasi una confessione da parte del figlio, che non osava dirigere il suo sguardo nel suo, perché sua madre lo faceva parlare, come dotata di strani poteri ultraterreni. 
-Usui... mi metto ad indovinare? - propose Honoka, ricordando con molta nostalgia, quando per far parlare Nagisa sui sentimenti per Shogo ci volevano addirittura le tenaglie come il dentista in procinto di asportarti una mola. -Uhm, non penso sia difficile, voi uomini vi zittite esclusivamente se il vostro unico pensiero è una ragazza, dico bene, figliolo? - 
Usui smise di concentrarsi sulle pagine, e deglutì, come se fosse stato preso nelle mani dentro al sacco.
Nella sua mente si materializzò la domanda “ma come ha fatto ad indovinare?” senza sapere che scritto con l’invisibile sulla fronte c’era in bella mostra il nome “Kazumi” e che lui non riusciva a cancellare fin da quando erano stati in punizione a pulire i vetri della scuola, ma questo di certo non aveva osato raccontarlo a sua madre, anche se aveva promesso di non nasconderle niente. 
-No... mamma... cosa vai a pensare, tuo figlio non si mette a pensare a una ragazza. - 
-Certo, tesoro. Ma si da il caso che noi uomini non nasciamo per morire vecchi, brontoloni e soli. - gli disse Honoka, dando sfogo a tutta quella sua intelligenza repressa. - Avanti Usui, sono tutta orecchie... come si chiama? - 
Usui sentì di star per andare al fuoco, la pelle delle sue guance, pallide come la luna di quella notte, iniziarono a ricoprirsi di un rosso scarlatto, come se di lì a poco il termometro della febbre avrebbe misurato 42 gradi. Si sventolò con la mano non impegnata a girare le pagine, e iniziò a grattarsi la nuca a sangue. 
- No... mamma... nessuna, non ho nessuna in testa, non potrei mai. - 
- Usui... tesoro, non hai commesso un peccato mortale se ti piace una ragazza. - 
- Sì, invece! - 
- Non è un peccato pensare a una ragazza... - ma il figlio la fermò. - Sì, lo è sopratutto se penso costantemente a lei come un pervertito idiota.. insomma, la conosco, da quando? Un giorno solo... e già la vedo nel letto, insieme a me, non può capitare a me. - 
- Non essere sciocco, figliolo. Tutti prima o poi iniziano ad amare il loro sesso opposto, a meno che non sei... hai capito no. - 
- Più o meno... ma io non la conosco! Insomma... non conosco la sua famiglia, lei non conosce la mia.. sono diventato pazzo. - 
- Non sei pazzo, Usui. - gli disse la corvina, accarezzandogli la spalla. - Hai solo iniziato ad interessarti al mondo che ti circonda. -
- Mamma, lei è diversa da me, quasi quanto te e zia Nagisa, mi spiego? - 
- A grandi linee. Dimmi, come si chiama? - 
- Kazumi.. - 
-Bel nome, Usui. - 
- Sì, una totale uscita fuori di testa, mamma. Capisci, che lei stava attraversando a rosso! - 
- Sì, però... - 
- Però... niente, mamma. Io non posso interessarmi a tipi come lei, insomma siamo completamente diversi, di carattere e di aspetto, se io sono il signore delle nullità, lei è un’esplosione di colore, vivacità, armonia. Se io sono il principe dei senza amici, lei invece.. insomma... siamo diversi, non ci somigliamo per niente, siamo come la luna e il sole, come il giorno e la notte. - 
- Non è un male, Usui. Se tutti fossimo fatti a stampini, il mondo sarebbe noioso. - 
- Se il mondo fosse come lei, dovremmo tutti ricoverarci. - 
Honoka sorrise divertita. 
-.. Non importa se siete diversi... dopotutto anche io e Kiriya, così come tua zia Nagisa e tuo zio Shogo eravano diversi, ma non è cascato il mondo, la cosa importante è che vi amate, e che lei provi lo stesso per te. - 
Usui la guardò, perplesso quasi come a dire “ma ti stai sentendo?”
- Mamma, scusami.. ti stai sentendo, ti sto dicendo che la conosco da poco, che anzi non la conosco affatto, e tu vieni a dirmi che è necessario solo che ci amiamo! - 
- Oh, tesoro. Non fare il difficile... - 
- Mamma, io non ti capisco. Kazumi e io ci conosciamo da troppo poco tempo, non possiamo già provare un sentimento reciproco, - poi Usui si rabbui improvvisamente, e il pallore risultò ancora più vivido alla luce della lampada. - Inoltre.. penso di non fare per lei. - 
- Solo perché sei così diverso, Usui? Tesoro, se vuoi un consiglio allora ascoltami bene, segui il tuo cuore, per la prima volta, inizia a conoscerla meglio.. perché sono sicuro che non è amore ma solo attrazione, devi innanzitutto scoprire se può esserci qualcosa, sono sicura che tu e lei avete molto da condividere, solo che ancora non avete scoperto cosa. Fai come ti ho detto tesoro. - 
- Se non le piaccio.. - 
- Se non rischi, non lo saprai mai... credi che tua zia Nagisa si sarebbe sposata con Shogo se non gli avesse detto che lo amava? - 
- In effetti.. - 
- Anche tu devi fare lo stesso, tesoro. Comunque, anche se siete diversi, ognuno è attratto dal diversissimo mondo dell’altro, e sono sicura che non vi annoierete mai a scoprirvi a vicenda, nemmeno se passassero cento anni... be, a mio modestissimo parere... - 
Usui fece un risatina sotto i baffi, nascondendola con una mano posta sul viso. 
-Sono molto curiosa di conoscere questa Kazumi. Mi sembra una brava ragazza. - 
- A te sembrano tutte brave, mamma. - le disse Usui, ricordando quando in Francia era tornato a casa assieme a una sua compagna, e Honoka vedendola gli aveva chiesto se fosse la sua fidanzata, lui si era imbarazzato tantissimo che non era riuscita più a guardarla in faccia. Non le piaceva poi, era un manico di scopa, capelli orrendi color biondo cenere, la solita bellezza ossessiva che si nascondeva sotto quel suo sguardo da gattina dagli occhi blu cobalto. -... Ti accorgerai che questa ragazza è diversa da tutte le altre.. - 
- Uhm, interessante. - bofonchiò la ex cure bianca, mentre guardava l’orologio che segnava mezzanotte e alzandosi dal letto, si riprese il volumone per riportarlo in corridoio nel suo cassetto. - Bene, Usui, non vedo davvero l’ora. Invitala una volta a casa... adesso però è meglio che vai a letto altrimenti domani altro che morto somiglierai a uno zombie con la scoliosi. - concluse Honoka, mentre si abbassava solo per salutare il figlio, come quando era bambino, vedendolo imbronciato, visto che sua madre gli aveva confiscato il suo gioco. 
Usui smise di essere rosso in volto, e togliendo il piumone dal letto, si infilò nelle lenzuola, sperando di riuscire a trovare pace, anche se all’ultima frase di sua madre avrebbe voluto sparire dalla faccia della Terra, pensando “per te è facile dirle, ehi Kazumi, scusa, ti va di venire a casa mia a mangiare, mia madre ti vorrebbe conoscere.” sicuramente l’imbarazzo gli avrebbe tolto la voce e il poco coraggio. 
Sua madre era uscita dalla sua stanza, ora c’era solo lui, il sonno che non voleva arrivare, e .... la sua incudine che lo salutava dall’alto del soffitto.. 











***Angolino della Love** 

Ma Buondìì! Oggi è un giorno festivo, ma davvero non sono riuscita a resistere, e così ho voluto pubblicare un nuovo capitolo. 
Per i fan di Usui, il nostro protagonista, sarà una vera sorpresa, sopratutto perché potremo scoprire cosa pensa la sua mente misteriosa, visto la sua timidezza oltremisura. Per scoprire se il nostro Usui inviterà Kazumi a cena da lui, allora non vi resta che leggere il prossimo capitolo, io come al solito ringrazio chi mi segue, Zonami84 e Rosanera, le cinque persone che hanno messo la storia nelle seguite, nelle ricordate o nelle preferite, e vi do appuntamento al prossimo sperando che ci sarete. 
Se you later~ Love 




 
 

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Capitolo 9
*** Senza ricordi, il cuore tremante nella notte ***


And I was made for You



***

Tadaaa, - Love esce fuori da un piccolo palcoscenico improvvisato, e saluta tutti, armandosi di un ombrello per evitare i pomodori, nel caso ci fossero... - cari lettori e lettrici, ringrazio chi segue la storia, tra cui Zonami84RosaneraLovestory124noemicriayuValePassion95, e per chi la preferisce comeQuennSerperior. So che mi sparerete, e non ne dubito affatto, anche perché è da un po’ di capitoli che continuo a girare sul rapporto tra Usui e Honoka, oppure tra Kazumi e Shogo, non mostrandovi mai i veri sentimenti e quello che tutti voi aspettate da quando avete conosciuto i due, ovviamente la scena ci sarà.. ma non ora. XD 
Non sono cattiva, ma non mi piace scrivere di già questa scena, tengo fede a ciò che sono, e vi faccio penare giusto un poco; se nei precedenti capitoli avete letto del rapporto tra Kazumi e suo padre, be’ questa volta vi mostrerò la controparte femminile... ovvero Nagisa e sua figlia, e magari .. potrete anche scoprire perché Nagisa non ha più contatti con Honoka. 
Tutto qui dentro, sì, sì - Love sta per sparire.. - vi lascio al chappy ~Love 
Mi raccomando recensite.. 
*** 

Nagisa non era stupida, lo era stata da giovane, ma non ora, non con tutte queste responsabilità che si era accollata.
Quando suo marito e sua figlia rincasavano tardi, a volte anche per colpo del turno di lavoro di Shogo, che essendo uno dei primati più richiesti, era sempre impegnato in qualche operazione d’urgenza, sapeva che fare il medico era importante, sopratutto se in gioco vi era la vita di un paziente, ma odiava aspettare, non le era mai piaciuto stare da sola, infatti... non era mai stata sola. 
Vicino a lei tante persone, Mepple... Mipple, Pollun e Lulun che si rincorrevano, Hikari, e anche.. be’ l’unica persona che da sempre l’aveva capita, che l’aveva sostenuta, nonostante quegli attimi di smarrimento, in cui i loro caratteri completamente diversi le divideva, per qualche strana ragione alla fine tornavano unite, più di prima, quel nome che il suo cervello aveva sbiadito in un angolo remoto, come se quel periodo che era rimasta ferma nello stesso punto ad attendere il suo ritorno alla vita, non abbia fatto altro che camminare, affondare i piedi nella sabbia leggera, più avanzava di qualche metro, e più quella poltiglia sembrava inghiottirla, e nel mentre in cui era in procinto di farla scivolare lentamente nel baratro, il brandello dei suoi ricordi si perdeva per sempre. Serrando gli occhi per un momento cercò di imprimere nella mente quel poco che restava... Nagisa, avanti sforzati.. non lasciarti sopraffare... aguzzò la vista, davanti a sé, un’immensa distesa di vallate e piccoli cocuzzoli, come dei ponti sorgevano da sotto, non sapeva come ci era finita lì, non ricordava granché, lei era al campo di lacrosse, il suo cellulare aveva squillato, lei aveva parlato con qualcuno e aveva velocemente attaccato, poi era scappata via di lì come inseguita dal tempo, era salita in macchina, dove stava andando... la cosa che più le era rimasta impressa furono i fari di un grosso camion che le aveva appena tagliato la strada, mandandola fuori pista, mentre la macchina come impazzita si rivoltava su se stessa. Aveva sbattuto la testa sullo sterzo per il forte impatto, si era azionato un grosso pallone bianco, doveva essere gli iceberg di protezione, la vettura si era maciullata al lato davanti, fortunatamente stava bene.. 
Aprì piano le fessure, ma se ne pentì subito dopo, un dolore, un terribile dolore le incatenò la testa, mentre un rivolo di sangue le scendeva vicino all’occhio destro, percorrendo la mandibola. Si toccò lievemente la testa, aver sbattuto contro lo sterzo le aveva prodotto un taglio lungo quasi quanto una spanna, le sarebbero serviti certamente dei punti. Dopo l’attimo di stordimento, la sua vista cominciò a riabituarsi ai colori e alle dimensioni, e lei liberatasi dalla cinta, aprì la portiera, - in realtà quello che ne restava, - visto che i vetrini erano stati completamente sventrati. Si alzò, anche se si sentiva debole come il sole in inverno, e si appoggiò al piccolo finestrino della vettura, poi intravedendo l’ombra di un uomo, alto, controluce, provò a fare leva alle sue ginocchia perché si alzassero. 
Il tipo le corse incontro, pareva seriamente preoccupato, probabilmente era il guidatore del camion che l’aveva investita; sembrava dispiaciuto, bofonchiò nervoso le sue ragioni, “mi scusi, signora. Non l’ho vista la vostra auto, oh santo cielo! Santo cielo!” imprecava, dirigendo le mani al cielo, poi dopo questo sfogo, le diede la mano, in modo che Nagisa potesse appoggiarsi vicino al suo braccio. 
-C-chiamo un ambulanza! - urlò l’uomo, anche se la donna colta da un improvviso colpo di sonno, stava per cadere a terra. Il guidatore del camion digitò sul suo telefonino il numero del pronto soccorso, continuando a sorreggere Nagisa, ora accortosi che non solo era ferita gravemente ma anche incinta. Uno dei paramedici rispose dopo poco. - Pronto? - 
-Sì, salve. Per favore, mandate immediatamente un ambulanza... c’è stato un incidente... sulla strada provinciale, per favore fate più presto possibile. - il paramedico gli chiese, con assoluta tranquillità di spiegargli lo stato fisico della donna, il tipo si mise ad osservarla. - Ha una ferita sulla testa, probabilmente le serviranno dei punti. Una costola rotta, forse due, ... e aspetta un bambino. - 
Il paramedico annuì. 
-Non stia lì ad annuire, mi mandi subito questa maledetta ambulanza! - gridò, e con fare nervoso, chiuse la telefonata. 
Il tipo stese a terra Nagisa, in modo che le due costole incrinate non si infilzassero in nessun organo importante, i polmoni o in questo caso il cuore, seguì le istruzioni del primo soccorso, cercò di fasciarle la ferita in modo che non si dissanguasse ulteriormente, controllò il polso, era debole, ma c’era. Nagisa si stava riprendendo dal suo svenimento, ma era ancora un po’ confusa. Cercò di girarsi, ma era troppo debole per farlo, le bruciava la gola e sembrava che il suo costato si stesse per piegare in due metà da quando le faceva male, la cosa di cui la bionda era convinta era che stava ancora sul posto dell’incidente, a pochi passi dalla sua autovettura, in bilico su un burrone, e stesa a terra, a contatto con l’asfalto reso bollente dal sole di quel pomeriggio. Aveva ancora un fortissimo dolore alla tempia, ma a questo se ne aggiunse uno ancora più pungente, proveniva dal suo addome, non bastava le costole, la ferita alla tempia, stava per perdere anche il suo bambino, non era agli inizi diamine, certamente non se ne sarebbe data una colpa.. non era una personcina, era solo un piccolo fagiolo, ma ora suo figlio era vera carne, una parte di lei, non poteva essere colpevole della sua morte.. non poteva. 
Non riusciva nemmeno a singhiozzare, le faceva male tutto il corpo, come se fosse stata messa in un frullatore. 
-N-no.. - riuscì a proferire, ignorando completamente il dolore, mentre una lacrima si univa al sangue per scivolare verso la mandibola. 
Silenziosa, si portò con quelle poche forze che le restavano, le mani sul ventre, e guardò il cielo terso sopra di lei. 
Il tipo notò il suo movimento, era inginocchiato accanto a lei, e le teneva il polso. Lei incrociò il suo sguardo. 
-Signora, stanno arrivando i soccorsi.. - le disse, cercando di tranquillizzarla. 
Nagisa cercò di parlare, ma aveva due dolori che le toglievano il respiro: il primo fisico, l’altro mentale. Tolse la mano dal suo addome, e la appoggiò sul braccio di colei che l’aveva investita, su cui poteva leggere tutto il suo pentimento. 
-S-sa.. - biascicò, chiudendo gli occhi, per trovare un po’ di pace. 
- Cosa? - domandò il tipo. - Cosa volete? Non vi affaticate. - continuò. 
Nagisa strizzò gli occhi per il dolore. 
-Stanno per giungere i soccorsi, diamine... - guardò la strada provinciale, dei passanti si era accorti dei due e si erano prontamente avvicinati per osservare scettici come la vita di due persone si consumava su quell’asfalto. Il tipo con una manata violenta le allontanò e tornò al capezzale della donna, che stava sospirando, - D-devi.. sa-salv.. - ma le costole non le permettevano di continuare. 
Il tipo si dispose con l’orecchio attento, e dopo Nagisa poté confessargli il suo ultimo desiderio. 
- Salvate il b-bambino, voglio che s-salvate... il mio bambin- non riuscì a finire la frase, e cadde preda di un nuovo svenimento. 
Quando giunsero sul posto le due ambulanze richieste, il tipo aveva il braccio che sanguinava, e una caviglia infortunata, Nagisa invece risultava un codice rosso, molto più complicato, aveva varie escoriazioni sul braccio, quello che aveva urtato contro la portiera, una milza in pessimo stato, due costole rotte e incrinate verso i polmoni, un’emoraggia interna, un taglio non troppo espose sulla fronte, un coma appena iniziato e la vita del bambino appesa ad un filo, praticamente un caso rovinato. 
I dottori disposero Nagisa su una barella, e fecero accomodare il signore nell’altra. Un paramedico, vicino a Nagisa, le inseriva un drenaggio, visto che il polmone risultava quasi collassato, e le attaccava un lavaggio per mantenerla in vita, fino all’arrivo in clinica, che non era molto distante dal luogo in cui le due vetture si era scontrate; il tipo nella seconda ambulanza chiese, seriamente preoccupato, a uno dei paramedici che gli stava fasciando il braccio. - Come sta la donna? Se la caverà.. - 
Il paramedico si piantò gli occhiali sul volto, e ripose via il cotone sporco di sangue. 
-Uhm, a giudicare dalla sua situazione.. credo che ci vorrebbe un miracolo, l’avete ridotta proprio male quella povera donna. - 
Il tipo si imbronciò, non voleva giustificarsi, ma lui la vettura che transitava in quel momento non l’aveva proprio vista. 
- Piuttosto, siete ubriaco? - 
- Perché lo dite? - domandò il tipo, tenendosi il braccio sinistro, che era quello ferito. 
- Probabilmente.. sarà stato a causa dell’alcol.. - 
- Sta insinuando che io bevo mentre guido! - lo accusò, e il paramedico ribatté. - No, no... figuriamoci. Ma le faremo comunque dei controlli per testare se nel suo sangue vi è traccia di qualche sostanza stupefacente, giusto per farci un’idea. - 
Il tipo abbassò la testa, le ultime frasi di Nagisa erano ancora chiare nella sua testa, e continuava a ripetersi. 
Salvate il mio bambino, aveva detto. 
Nel frattempo, nell’altra ambulanza, Nagisa era stata appena intubata. Una dei paramedici che le pompava il respiro, la osservò durante tutto il tragitto, essa era stesa sul lettino, gli occhi chiusi, il sangue secco che aveva lasciato una scia dietro sé, la pelle bianca e pallida, sembrava quasi una bambolina di ceramica. La donna che risultava essere bassa, con lunghi capelli ricci, le accarezzò il volto. 
- Tranquilla, tesoro. Sei una donna forte, devi solo resistere finché non giungiamo in clinica.. e lì, tu dovrai lottare.. solo tu. - 
Nagisa sembrò muoversi, movimenti convulsi che scuotevano il suo corpo, mentre il macchinario che avevano disposto, iniziava a riempire il piccolo abitacolo con sempre più deboli battiti, finché la pressione non scese a 50. 
La donna si rese conto da subito che Nagisa stava andando in arresto cardiaco.
Chiamò l’altro paramedico, le tolsero la maschera, e con due defibrillatori carichi, che le posero sul petto, le diedero ben tre scariche. Il suo corpo vibrò per due secondi, poi tornò a contatto con il lettino, i due medici si scambiarono un’occhiata di intesa, mentre attendevano pazientemente il velocizzarsi dei battiti, ma questi più che farsi più forti, risultavano sempre più impercettibili, tanto che in un paio di secondi la linea si stabilizzò diventando improvvisamente retta, e il numero dei battiti arrivò a zero. 
I due medici le diedero altre scariche per farla reagire, niente, Nagisa era in condizioni disperate, i medici si aspettavano un decesso da un momento a un altro, era debole, la sua vita si appendeva a un filo, ma quel filo si stava per spezzare, il suo corpo urlava di dolore, le costole incrinate non le stavano dando pace anche se lei dormiva immobile, e il dolore per la perdita del figlio la stava costringendo a quel gesto disperato: lasciarsi morire. I medici riposero i defibrillatori, il medico giovane si sedette, e si mise la mano sul viso.
-Ora del decesso.. - 
La sua collega lo fermò. - No, dottore, no! Maledizione, no! Se la madre muore, muore anche il bambino! - 
Il dottore alzò lo sguardo per dirigerlo contro gli occhi castani di Kanzaki, poi lo spostò sulla macchina, e sul corpo di Nagisa. 
- Dobbiamo tenerla in vita! - gli ricordò. 
Il bambino non era morto, era in pericolo, ma non era morto... anche lui stava lottando per vivere, e loro dovevano far sì che Nagisa si stabilizzasse in modo da poterlo far nascere il prima possibile, per evitare ulteriori danni. 
Kanzaki si trascinò verso il corpo di Nagisa, e si avvicinò al suo orecchio. 
- Nagisa, il tuo bambino è vivo e forte. Sta lottando, non lasciarti sconfiggere... non lasciarti sconfiggere, Cure Black. - 
Quella parola risvegliò qualcosa nella ex leggendaria guerriera, la sabbia che la stava lentamente tirando giù si dissolse, e il deserto davanti a sé iniziò ad essere invaso da un mare oscuro, su cui lei si teneva in equilibrio galleggiando. Sapere che il bambino continuava a vivere in lei, era stato un sollievo, ma se lei fosse morta, come avrebbe potuto nascere? 
Nagisa si fece coraggio da sola, e intimò il suo cuore dal posto oscuro in cui si trovava, di continuare ad accompagnare quello del figlio. 
Il paramedico che si era seduto disperato, scattò in piedi come una molla, il macchinario contava nuovamente i battiti, aveva ripreso il suo numero perfetto 80 battiti, ma la situazione rimaneva ancora irrisolvibile. Dovevano fermare quell’emoraggia, asportare il feto, metterlo in incubatrice, e occuparsi delle altre piccole ferite meno gravi, ma sopratutto dovevano svegliarla. 
L’ambulanza arrivò nella clinica, l’altra subito dopo. 
Scesero Nagisa, e la portarono immediatamente dentro al reparto medicina interna, lì sarebbe stata visitata, sarebbe stato vagliato il quadro clinico, e si sarebbe preparato tutto per l’operazione; i paramedici si strinsero attorno alla barella, mentre la conducevano vicino all’ascensore, erano le undici, Shogo stava appena smontando dal suo turno e stava lasciando l’ospedale, quando notò una cosa che attirò la sua attenzione. Essendo le undici, non c’erano visite, solo turni di post-operazioni e qualche codice da visitare, ma due ambulanze avevano condotto lì due persone, una in codice bianco, con qualche sbucciatura al braccio, il dottore Shogo lo incontrò in corridoio, che si trascinava la caviglia verso l’ambulatorio del suo collega Nakemura, dell’altro non sapeva molto, solo che era codice rosso. 
Shogo lasciò la borsa in una delle sedie della sala d’aspetto vuota, e andò incontro alla barella accerchiata da tanti medici. Kanzaki che teneva in mano la provetta di lavaggio, la consegnò a uno dei paramedici, e gli andò incontro per salutarlo. 
-Dottor Shogo! - lo salutò con il palmo della mano, fermandolo. -Cosa ci fate ancora qui? - 
Kanzaki ciondolava su un piede, era in lotta con se stessa, sapeva che la paziente a codice rosso di quella notte non era una semplice paziente estranea a loro, ma Nagisa Misumi, la moglie del futuro direttore del reparto. Non voleva far preoccupare Shogo, ma nessuno avrebbe agito meglio di lui essendo il dottor di maggior fama in quell’ospedale, si fidavano tutti di lui, compresa lei, ma non sapeva che faccia indossare per comunicargli quella spiacevole notizia. Cercò di essere seria, in modo che non suonasse come uno scherzo. 
-Dottore, c’è una cosa che devo dirvi.. - l’ascensore scesa velocemente si aprì, essa era grande per contenere una barella di quelle dimensioni. Shogo perplesso dal comportamento serio della sua collega, la invitò a parlargli con estrema sincerità.
-Non so.. come dirvelo, è per vostra moglie. - 
Shogo si lasciò cadere la borsa a terra, e la borsa che aveva nell’altra mano, conteneva una usta di cioccolatini, li avrebbe portati alla moglie non appena sarebbe rincasato, per farsi perdonare per quell’orario così sconveniente. Deglutì, e si portò tremando la mano al petto. - C-che cosa è successo a mia moglie? - domandò con la paura che iniziava a rodergli l’anima, e un pensiero nella sua testa si faceva strada, un presentimento che presto sarebbe divenuto reale e tangibile. 
-Hanno chiamato per un incidente sulla strada provinciale dottore... Nagisa ha fatto un incidente mentre andava a casa.. - 
-Cosa!? - 
- Sì, è in codice rosso. - continuò Kanzaki, appoggiando le sue mani sulle spalle del medico per dargli conforto. 
Shogo non sapeva se arrabbiarsi, distruggere tutto, uccidere Nagisa per quella paura che gli stava prendendo, o prendere in mano la situazione e cercare di salvare la sua vita. Poi, la vita del suo bambino gli passò velocemente tra le membrane del cervello. 
-Il bambino? - 
- Vivo, ma non per molto. - spiegò Kanzaki. - Vedete... sua moglie prima di svenire accusava forti dolori al ventre, quindi dobbiamo portarla immediatamente dal chirurgo, stilare un percorso di operazione, asportare la milza.. il feto... e chiudergli la testa che si è spaccata, dottore. - 
- Vengo con te, Kanzaki! - esclamò Shogo. 
-Ma signore... - Kanzaki non oppose altra resistenza, e insieme sparirono nell’altra ascensore. 
Kanzaki spiegò approfonditamente la situazione malconcia della cure nera, gli spiegò che aveva avuto bisogno di un drenaggio per il polmone collassato, che si erano incrinate due costole, probabilmente per il colpo che aveva ricevuto dopo essere finita fuori strada, aveva una ferita sulla testa, e il bambino... sta bene... ma se non nasceva rischiava seriamente di morire. Shogo sapeva che se non avesse provato a salvare il bambino, anche Nagisa sarebbe morta conseguentemente. 
-E che mi dici di quell’idiota? - chiese ancora Shogo, intento a rimettersi il camice, che gli preso la collega. 
-Intendete il signore del camion? - 
Shogo fece segno di sì con il capo, appuntandosi il riconoscimento da medico sul camice. 
-Sì, lui sta bene. Adesso dobbiamo concentrarci su vostra moglie. - 
Shogo annuì nuovamente. - Non abbiamo tempo da perdere, avvisiamo il chirurgo, ah.. e facciamo un ecografia per sapere esattamente come sta il bambino e se è necessario asportarlo all’ottavo mese di gestazione. - spiegò il dottore, mentre le porte dell’ascensore si aprivano. Shogo e Kanzaki uscirono fuori, iniziando a camminare verso il reparto, in cui era appena entrata la barella. 
-Kanzaki... avvisa immediatamente l’anestesista e il ginecologo.. forniamoci di sacche di sangue di gruppo 0 ci serviranno. - 
-Sì, dottore. - 
- Io adesso vado dal chirurgo, tu vai giù e fai quello che ti ho detto. - 
La donna annuì, e fece dietrofront per tornare nell’ascensore, con il corpo che tremava di terrore si dirigeva verso la porta del reparto di medicina interna. Andò verso l’ambulatorio, scostò il telone verde, e vide che il chirurgo stava esaminando il caso di Nagisa. 
Si avvicinò, e guardò un altro due suoi colleghi: un tipo stempiato, con un neo a forma di nocciola sulla tempia, e degli occhiali molto spessi sul naso, in procinto di cascargli; il dottore muoveva il braccio della paziente, ed esaminava le ferite a seguito dell’urto. 
-Uhm... poverina sembra essere stata maciullata, Shogo. - 
Il chirurgo e Shogo si davano del “tu” perché Shogo lo assisteva durante le operazioni, ed era anche diventati buoni amici. 
- Baiko, cosa facciamo... la dobbiamo operare? - 
- Sì, tua moglie va assolutamente operata. A parte le piccole ferite da codice bianco, ti ricordo che dobbiamo asportare la milza, risolvere questa sua emorragia interna, e asportare anche tuo figlio, facendolo nascere. - 
-Ho richiesto a Kanzaki che facessimo un’ecografia, solo per sapere se sta bene. - 
Il dottore iniziò a tastarle l’addome per vedere se la posizione del bambino era cambiata. Le spinse un po’ sotto la pancia, ma ovviamente leggermente, in modo che il feto non si facesse male, poi passò a scrutare la lunga ferita sulla testa. 
-Servono dodici o quindici punti... dobbiamo chiuderla. - poi guardò il suo collega. - Tuo figlio però mi preoccupa, sembra che non si muova. - Shogo andò in ipersudorazione, questo voleva dire che il bambino non era più in vita? No.. il loro bambino no.. 
-Facciamo dovuti accertamenti, e poi la operiamo. Sperando che resista, debole come è adesso... - e detto questo uscì dalla stanzetta. 
Shogo si sedette al capezzale della moglie, e iniziò ad accarezzarle i capelli, morbidi, che erano tinteggiati sulle punte dal rosso del sangue, mentre le posava un bacio sulla fronte, un nuovo movimento convulso lo distolse, perché la sua mano, come se avesse volontà propria, si era spostata dal ventre a stringergli con forza il suo braccio, che stava appoggiato sulla lettiga. 
-Nagisa... amore.. sono qui con te, non ti lascerò. - le disse, e amorevolmente le posò un bacio a stampo sulle labbra violacee. 
Il chirurgo tornò in stanza accompagnata da Kanzaki, e dal ginecologo, fortunatamente di turno. 
Il ginecologo dispose il macchinario dell’ecografia, e nel frattempo intratteneva un discorso con Baiko. 
-Di solito un bambino muore sul colpo dopo un’incidente... - iniziò, e Shogo spalancò le iridi. 
Suo figlio non era un umano qualsiasi, nato tra di loro, suo figlio era molto più che questo, era la speranza che lui aveva riposto nel mondo. Il ginecologo si sedette sulla sedia, proprio accanto al corpo inanimato della fanciulla, mentre Shogo intenzionato a starle vicino e nonostante il consiglio di Baiko, volle stringerle la mano, mentre il dottore critico osservava l’immagine comparsa sullo schermo. 
-Ah... eccolo, a quanto pare questo bambino è un dono del cielo, Fujimura-san. - 
Shogo sospirò con le lacrime agli occhi, vedendo in primo piano, la faccia gigantesca del suo bambino che si metteva il dito in bocca, forse non si era accorto minimamente di ciò che gli stava succedendo fuori da quella corazza protettiva. 
-Però.. - Shogo sussultò. - ho una brutta notizia Fujimura-san, la membrana protettiva dell’utero si è rotta, è come se le acque di Nagisa si fossero rotte a seguito dello schianto, dobbiamo inetrvenire, il bambino inizierà a soffocare... e rischieremo seriamente di perderlo. - 
-Quindi... cosa dobbiamo fare? - chiese Baiko. 
- Operiamola d’urgenza... - rispose. -Ma senza alcuna anestesia. - 
Shogo lasciò cadere la mano di Nagisa dalla sua, senza anestesia voleva dire dolore, anche se lei era in coma lo avrebbe sentito. 
-Non capisco, come senza anestesia.. - 
Kanzaki tolse i residui del gel dalla pancia di Nagisa. 
- Shogo è meglio che la operiamo senza anestesia. - fece ancora il ginecologo. - Facciamo uscire il bambino.. di più per lei non possiamo farla, se usassimo l’anestetico, debole come è ora, potremmo perderla anche sotto i ferri, e tu non vuoi perdere tua moglie, vero? - 
Shogo lo guardò, no non voleva perderla.. 
-Bene, preparate tutto, rimandate indietro l’anestesista... e urgementemente chiamate la equipé di turno. Dobbiamo assolutamente far nascere questo bambino.! - urlò il ginecologo ai presenti. 
Kanzaki accarezzò la spalla di Shogo. 
- Shogo, è meglio che sia così... - 
- Ma non soffrirà? - 
- Shogo, prima non te l’ho detto... - iniziò Kanzaki, non appena i due furono lasciati soli, Baiko era andato a munirsi del camicie e degli opportuni guanti, e Nagisa era stata condotta via per prepararla. Kanzaki aveva tralasciato ciò che prima era accaduto mentre arrivavano lì, che Nagisa stava morendo, e adesso era convinta che fare tutto senza anestetico fosse il modo più semplice per tenere la sua situazione sotto controllo, ed evitare ulteriori crisi respiratorie o cardiache. 
-Ma tua moglie... stava per andare in arresto cardiaco. Siamo riusciti a stabilizzarla, grazie al fatto che il suo bambino è ancora vivo, forse lei si sente in colpa... - 
Shogo batté un sonoro pugno sulla lettiga vuota. 
- Credi che non lo sappia! Mi ha chiamato per avvisarmi che andava a casa con la macchina, ma.. perché non è andata a piedi, o non si è fatta accompagnare da Shiho o da Rina perchè! - 
-La vita ci pone davanti grandi interrogativi. - rispose sbrigativa Kanzaki, mentre esortava Shogo a raggiungere la sala operatoria. 
In due minuti tutti i medici erano scesi, Shogo aveva indossato il suo coraggio magnificamente per riuscire a riportare sua moglie in vita, e per dare una possibilità a quel bambino che voleva vedere la luce sopra ogni cosa. Kanzaki assisteva Nagisa, mentre Baiko si appuntava la mascherina; appena Shogo si dispose affianco a Baiko, con alla destra tutti gli strumenti che servivano. Il dottore fece accendere il grande lampadario sopra di loro che inondò di una luce molto forte tutto il posto. Kanzaki asciugava la fronte di Nagisa, mentre i due dottori iniziavano ad operarla, con tutto il coraggio che la notte avrebbe portato loro. 

La nascita della bambina riuscì a stabilizzare la situazione pietosa di Nagisa. Baiko chiese a Shogo di portar fuori la bambina appena nata, e di darla in braccio a Kanzaki in modo che la conducesse in incubatrice, lui invece si occupò dell’emoraggia. 
Ci vollero sette sacche di sangue perché Nagisa riprendesse il suo colorito naturale, e che le labbra da violacee diventassero rosse. Il polmone fu drenato, e per le costole il dottore richiese che dopo il risveglio la paziente stesse stesa sul letto, senza muoversi, in modo che le costole si calcificassero da sole, prese a cucire l’addome e il taglio lungo la testa, per fortuna Nagisa era rimasta stabile fino alla fine dell’operazione, e purtroppo anche dopo la post-operazione, la donna non aveva più aperto gli occhi. 
Prima che uscisse dal tunnel nero che la stava restringendo nella morsa della morte, ci vollero tre mesi; Kazumi tornò a casa, avendo ormai superato pienamente il test, stava benissimo, era allegra e vivace, ed era dolcemente accudita da Rye e Takeshi. Shogo, invece era rimasto al capezzale della moglie, da quando era stata ricoverata per quell’incidente. L’uomo che l’aveva investita si era sottoposto ai dovuti controlli, ma non era stato trovato nulla, la colpa era stata soltanto la sua vista decisamente abbassata. Gli era stata semplicemente ritirata la patente, e adesso insieme alla moglie, durante tutti quei mesi aveva fatto spesso visita a Nagisa, portandole tanti fiori. 
Kazumi veniva portata in ospedale con lo scopo di risvegliare la mamma, che stava passando da un coma da cui poteva uscirne, a uno invece irreversibile, che l’avrebbe poi condannato a un coma vegetativo. Questo però non successe, a distanza di tre mesi dal brutto incidente, Nagisa Misumi riaprì finalmente gli occhi al mondo, e nel momento in cui lo fece i brandelli del suo passato e del presente furono cancellati dalla sua mente. Tre mesi dopo, Nagisa si ritrovò ad aprire gli occhi, e ad osservare con stupore di essere in una stanza d’ospedale, non appena riuscì a distinguere meglio i volti si rese conto, che due persone vi erano lì vicino, la prima, dormiente, appoggiata al lenzuolo, la seconda anche lei che dormiva, su una sedia scomoda. 
La sua testa, ancora confusa, si chiese cosa ci facesse lì, ma non riusciva a ricordare. 
A causa dei suoi movimenti, il tipo che stava vicino a lei si svegliò, e un barlume di felicità gli attraversò i magnifici occhi castani. 
-Nagisa! Ti sei svegliata. - esclamò, compiaciuto; lei ancora non capiva, si era addormentata? 
Il ragazzo corse a svegliare la seconda persona. 
-Rye! Rye... tua figlia è sveglia. - la donna si catapultò su di lei, strozzandola di baci, mentre il ragazzo cercava di staccargliela da dosso per evitare che le facesse del male con tutto quell’amore represso. 
-Figlia mia, sono così contenta che tu ti sia svegliata! - disse Rye, inonando la stanza con le sue lacrime. 
- Non capisco perché piangente, signora... cosa ci faccio qui, me lo spiegate? - domandò la donna. 
-Tesoro, hai fatto un brutto incidente... ma adesso stai bene e sei di nuovo qui, con noi. - poi anche il ragazzo la abbracciò, e le regalò un bacio a stampo sulle labbra. - Finalmente potrai conoscere Kazumi! - 
Nagisa lo guardò stralunata, chi era Kazumi? Nessuno glielo spiegava, chi era quella donna che piangeva come una fontana, e perché quel ragazzo le riservava quel gesto più adatto a un marito che a un semplice conoscente, non ci capiva praticamente niente. Aveva un vuoto nella testa, un vuoto che non riempiva più i suoi precedenti anni. 
-Sentite, chi è Kazumi? -
-Tesoro, dai, non scherzare! - fece Rye, asciugandosi le lacrime, anche se continuava a piangere. - É tua figlia! - 
Mia figlia... aspetta, ma come, ho avuto una figlia... ma non è possibile, se non sono manco sposata. Un momento.. 
Shogo notò il barlume di confusione nel suo sguardo, e senza accennare niente, la abbracciò soltanto. 
-Non importa, Nagisa. Non importa, presto ricorderai tutto. - 
Non sentiva il perché, ma quell’uomo le provocava uno strano senso di pace, e senza chiedersi il motivo, anche lei ricambiò. 
Shogo a seguito del risveglio della moglie chiamò il chirurgo che l’aveva operata, che accorse subito nella camera, vedendo con soddisfazione che una delle pazienti più gravi in stato comatoso si era appena risvegliata. 
-Oh, signora Fujimura, sono molto contenta che vi siete risvegliata. - 
- Anche io, ma mi spiegate che ci faccio qua? Ah, ho capito, volete farmi una puntura? - 
Il dottore fece no con la testa, mentre Nagisa si girava nella parte sinistra del letto. 
- Ah... vabbene... forza... venite a bucarmi il sedere, tanto solo questo adesso c’ho integro.. - 
-Nagisa, lui è il chirurgo Baiko. Ti ha operato lui. - 
- Quindi? - domandò Nagisa, alzando un cipiglio. - Ah, giusto. Grazie ma non era necessario operarmi, sto benissimo! - 
-Sì, perché siete stata molto tempo in coma.. - soggiunse Baiko, tirando Shogo per la manica della camicia. 
-Ciao... ciao.. ragazzo strano. - fece Nagisa vicino a Shogo, sistemandosi meglio sul letto. Si sentiva stranamente indolenzita, sopratutto sulla testa e la pancia, come se fosse stata tagliata in due come un panino. 
- Sono preoccupato, Baiko. - gli riferì Shogo, visto che la moglie non ricordava la sua vita presente, e ne tanto meno che era sposata con lui e che avevano avuto Kazumi tre mesi fa. - Non ricorda più niente... sembra aver dimenticato tutto! - 
Baiko si portò una mano sotto al mento. 
- Lo so.. chiederò un elettroncenfalogramma... così vedremo se il coma ha prodotto qualche danno mentale. In ogni caso.. è palese che sia una perdita di memoria, Nagisa non vuole ricordare l’incidente, è una forma di difesa. - 
Shogo era preoccupato. Sua moglie avrebbe mai ripreso a ricordare chi era, sopratutto chi era lui? 
Sperava che sarebbe stato così. Detto questo salutò Baiko, che stava andando a provvedere per l’esame prima di dimetterla, e tornò in camera, dove Nagisa stupefatta si osservava la cicatrice sul suo addome, che le arrivava fin sopra l’ombelico. 
- Oh, diamine, mi hanno tagliato in due?  - 
Shogo le andò vicino, sistemandole nuovamente le lenzuola. 
- Tu forse non te lo ricordi molto bene, ma tre mesi fa è nata Kazumi, la nostra bambina.. - spiegò il dottore alla moglie, che lo ascoltava come una bambina buona. -Io e te siamo sposati, inoltre... e-e tu sei stata in coma fino a questo momento. - 
- Ah, no aspetta.. troppe informazioni! Vuoi dire... che sono stata incinta? - 
- Sì! - 
- Che sono sposata, e che sono stata addormentata fino ad ora. Non può essere, e quella donna che piangeva? - la bionda indicò Rye, appostata alla finestra, per osservare il passeggio nei giardinetti. 
Shogo rise. 
- Tua madre Rye, è stata molto preoccupata quando sei entrata in coma... e si è presa cura della bambina, di sua nipote ecco. - 
-Capisco, adesso! - Nagisa si grattò la nuca. - Uhm, mi ricordi come ti chiami? - 
Shogo sospirò, Non si ricordava nemmeno il suo nome, andavamo proprio bene. 
- Shogo.. - 
Nagisa si ripeté nella testa il nome di quel giovane, ma non ricordava niente. Cercava di sforzare il suo cervello, ma nessuna informazione, come se a causa di un blackout, tutto quanto fosse andato perso, come se si fosse cancellato tutto con un tasto. Per lei quei due erano come estranei, e l’esame a cui Nagisa si sottopose prima di uscire rivelò che aveva avuto un trauma molto violento, e che avrebbe dovuto assumere un poco alle volta le informazioni della sua vita precedente. Il rapporto con Shogo era andato magnificamente dopo essere stata dimessa, aveva fatto una grande festa a cui erano giunte persone che lei non ricordava, che dicevano di essere suoi amici, Shogo gli aveva fatto conoscere la bambina, che lui subito aveva amato dal primo istante, nonostante non ricordasse i mesi passati nella gravidanza ad attenderla, i seguenti che susseguirono con lei fuori furono ancora più divertenti. In pochi anni, la bionda ex cure aveva riacquistato quasi tutti i suoi ricordi, sapeva di essere una lacrossista, di essersi sposata con Shogo Fujimura, di avere una figlia con lui, di avere un fratello di nome Ryota, una famiglia che la amava tanto.. amici sempre presenti, le sue passioni per il cioccolato e i takoyaki, ma una cosa che non riusciva proprio a riportare alla memoria era il suo passato, un passato dove lei intravedeva una persona, dai lunghi capelli blu, gli occhi del medesimo colore, e un vestito bianco e blu da combattimento, un pensiero tanto sfocato che lei adesso aveva rimosso completamente dalla sua testa, e che aveva descritto come delirio momentaneo della sua testa. 
Nagisa aveva dimenticato che nel mondo era esistita Honoka Yukishiro

Dopo il brutto incidente Shogo aveva proibito alla moglie di uscire di casa con la macchina, se doveva fare la spesa, poteva farsi accompagnare da Shiho, Rina o altre persone, oppure per fare prima poteva fare quattro passi, che avrebbe sicuramente fatto bene al suo stato interessante. Era talmente iperprotettivo nei suoi confronti, con questo nuovo componente che sarebbe nato a breve, da non riuscire a farla respirare, senza chiedere permesso; Odiava che anche quella sera il marito avrebbe fatto tardi, e che lei avrebbe dovuto mangiare la cena freddata, fredda era immangiabile, e lei da come le avevano raccontato sua madre e suo fratello non brillava per le sue doti culinarie, e di certo più di qualche volte aveva mandato a fuoco la cucina. Fortunatamente ciò era stato rimosso dalla sua mente. 
Quella sera aveva preparato tofu, ma a furia di aspettare aveva finito per riscaldarlo, quando la sua bambina e suo marito era tornati lei gli aveva la giusta punizione, nella sua mente non balenava ricordi inerenti alla sua testa calda, ma a seguito del modo in cui li aveva trattati si era accorta che delle volte poteva anche succedere che diventasse in quel modo. Kazumi dopo aver adempiuto i suoi doveri di figlia, si era prodigata per aiutarla con la tavola, disponendo i piatti, mentre il padre con un capello da cuoco era tutto intento a fare una crepe alla moglie, sotto suo ordine, piena di cioccolato, come piaceva a lei. In realtà tutto ciò gli era stato raccontato. 
Shogo spense il fornello, e portò la crepe al tavola, poi si sedette vicino alla moglie per provare l’immangiabile tofu. 
-Uhm, - bofonchiò Shogo, rigirando nelle forchette un pezzettino che vi aveva tagliato da vicino. -Sembra buono. - 
Kazumi aveva il volto nel piatto, e anche lei si stava chiedendo se mangiarlo o ordinare una pizza. Nagisa invece aveva abbandonato l’idea di mangiarlo, aveva riposto il piatto, e scartato il tofu, e si era goduta la meritata crepes, di certo in famiglia il più bravo in cucina era Shogo, lo aveva capito da come manovrava le padelle, quasi come uno chef stellato. 
-Tesoro, ti sei superato! - esclamò, divorandola; il marito annuì silenzioso, mentre si portava la mano alla guancia, combattuto. 
- Qualcosa non va, caro? - domandò la bionda, osservando il marito accanto a lei; Shogo stava pensando che se avrebbe detto fa schifo, e non lo si può dare neanche al nostro cane, avrebbe ricevuto una coltellata e sarebbe finito lui in ospedale, ma.. se lo avrebbe mangiato sarebbe stato anche peggio, avrebbe avuto un’indigestione, e mentre lei dormiva di sasso, lui avrebbe fatto la notte in bianco in bagno. 
Shogo sussultò, quando trovò il viso della moglie vicino al suo. - Caro? Hai provato il tofu, deve essere squisito, mi sono impegnata così tanto per fartelo con amore, tu mi tieni chiusa in casa... così io mi scoccio, e faccio capolavori.. - 
Shogo deglutì, cercando di trovare un complice in sua figlia, che invece di mangiare guardava il volantino che le aveva dato Ran. 
- Certo, tesoro... solo che domani ho il turno notturno, e non mi sembra il caso di appesantirmi.. - 
Nagisa dilatò le pupille, in un orrenda espressione da mostro. - Come dici, caro! Io ti cucino una cenetta con i fiocchi... e tu... che marito che sei, già solo perché sto rinunciando alla mia linea perfetta per tuo figlio, non lo vuoi provare! - detto questo, prese la forchetta con quel pezzettino infilato e gliela avvicinò alla bocca. - Apri la bocca.. Shogo Fujimura, che arriva l’aereoplanino! - 
Shogo scosse il capo. 
- Amore, so mangiare... non c’è bisogno che mi imbocchi. - 
Nagisa lasciò la forchetta, posandola nel piatto, e togliendo la sedia dalla tavola si alzò, trattenendosi la schiena. Quella pancia pesava, e lei in quell’ultimo periodo doveva restare sempre stesa a letto, per colpa di quel mal di schiena, forse lo aveva sofferto anche quando aspettava Kazumi ma per colpa della sua testa a distanza di anni, non riusciva ancora a ricordare come fu quel periodo. La donna di casa andò verso il lavandino per ripulire il piatto sporco di cioccolato. 
- Tesoro hai finito? - chiese al marito, richiedendo il piatto, dato che voleva stendersi; suo figlio era molto attivo e continuava a muoversi, e lei non ce le faceva a stare in piedi, sopratutto per quel dolore alla schiena che non le lasciava tregua. Le prendeva dietro la schiena, e poi si irradiava sotto la pancia, quasi come una contrazione, il dottore le aveva spiegato che era normale che il corpo dovesse provare, e quindi iniziava dal mese ottavo fino al nono a darle quelle prove, che si chiamavano contrazioni preparatorie. 
Ma le aveva avuto anche Kazumi? Non ricordava niente. 
Shogo mentre Nagisa stava girata, nascose il pezzettino di tofu e tutto il resto nel tovagliolo, e mettendosi la forchetta in bocca, andò vicino alla moglie per farle vedere che la sua cena era stata deliziosa, dandole un bacio sul collo, e accarezzandole la pancia. 
-Tesoro... hai visto che non sono ingrato? - 
Nagisa sorrise. 
- Sì.. sei davvero un romanticone, eri così già a prima? - domandò Nagisa, all’oscuro che qualunque piatto preparato da lei finiva nel tovagliolo e poi nelle tasche del pantalone di suo marito, tanto che una volta mentre faceva la lavatrice ci aveva trovato la salsa del ragù della sera precedente, e qualche volta anche un pezzo di carne mezza cruda. Non era colpa sua se non le piaceva cucinare, ma almeno ci provava. Kazumi seduta alle loro spalle, ridacchiava come una matta, perché lei aveva visto benissimo l’astuta manovra del padre, la faceva tutte le volte che cucinava sua madre, e non lui, visto che quando non aveva turni da fare in clinica si sbizzarriva con cenoni. 
Nagisa mangiava per due tutto, mentre lei non ce le faceva mai, erano buoni, ma erano così calorici, non che lei preferisse essere un bastoncino, ma nemmeno una mucca da latte come sua madre, anche se quella panciona era da gravidanza e non perché era in sovrappeso. Prese il piatto, e lo consegnò a sua madre. 
-Mamma, tutto buonissimo. - 
In realtà niente era buono, il tofu era risultato più salato dell’acqua, come se sua madre avesse sbadatamente fatto cadere tutto il recipiente del sale in pentola, in una parola era immangiabile, adesso sarebbe certamente servita una lavanda gastrica per togliere tutto quel sale, aveva fatto bene suo padre a non provarlo, era davvero disgustoso. 
-Ragazze, io mi ritiro... ho bisogno di un letto urgentemente - dichiarò il castano, toccandosi la scapola. - Oggi in ospedale non mi sono fermato nemmeno per consumare un pranzo. - fece lui, provando pena per il suo povero stomaco ancora a digiuno. Shogo salutò sua moglie con un frettoloso bacio sulla bocca, accarezzò la pancia per salutare il suo futuro figlio che pensava sarebbe stato maschio, e raccomandò Kazumi di aiutare la madre, e poi sparì nel corridoio per andarsi a sciacquare il volto e mettersi subito a letto. 
Kazumi si trattenne per aiutare sua madre a ripulire la cucina, visto il disastro del tofu. Dopo aver rimosso il resto della tavola, si dispose affianco a lei per asciugarle le stoviglie e riporle al loro posto, e intanto ingannavano il tempo del lavoro, con una sana chiacchierata. 
-Tesoro, come è andata oggi a scuola? - 
La domanda di sua madre era sempre quella, quando si ritrovavano ogni sera in mezzo a quella pila di piatti. 
Kazumi era intenta ad asciugare con un panno la pentola utilizzata per il tofu. 
- Come sempre, mamma. - fu la sua risposta, mentre si alzava sulle punte per riporla al suo posto. 
Nagisa ultimò i piatti, e li posò sul lavabo in modo che sua figlia gliela asciugasse, visto che lei si sentiva troppo stanca per via degli ultimi mesi di gestazione, che le gravavano come un macigno sulle spalle. Amare il tuo uomo, come amava colui che col tempo aveva imparato a chiamare “marito” era importante, non ricordava più dall’incidente come amare alla follia una persona che nemmeno ricordi, ma adesso.. con la gravidanza, un’altra.. tutto per Nagisa era cambiato, i suoi sentimenti si erano fortificati, e lei aveva capito che quello era il suo posto.
Le due dopo aver finito si sedettero sul divano, Kazumi in un tonfo e Nagisa con molta calma visto la sua enorme pancia. 
-Oh, mi stanca questa pancia. - si lamentò la bionda, -Tesoro, ricordati che da grande non fare mai ciò che ho fatto con tuo padre, eh? - 
Kazumi alzò un cipiglio. 
-Perché cosa hai fatto? - domandò lei molto curiosa. 
Quando era bambina suo padre alla sua domanda “come nascono i bambini?” aveva risposto che gliela avrebbe detto quando sarebbe stata più grande e capace di capire il meccanismo della vita, lei adesso aveva raggiunto quell’età e non le piaceva che i suoi le nascondessero qualcosa. Prima era lei l’unica principessa in famiglia, e adesso doveva scendere dal gradino e diventare sorella maggiore... da dove poi era uscita quella novità, prima sua madre aveva il fisico più magro di uno stuzzicadenti, e improvvisamente l’aveva vista stare male continuamente, e ingozzarsi come un maiale anche nel cuore della notte, poi era uscito il pancione. 
Da lì aveva capito, la colpa era di suo padre. 
Sua madre iniziò ad arrossire. - Ma niente, piccola. Torniamo a noi... cosa è successo a scuola? - 
Kazumi osservò sua madre molto attentamente, possibile che quando toccavano quell’argomento, lei doveva sempre dissimulare. 
-N-niente! -fece eco lei. - Vuoi bere qualcosa? - 
Nagisa fece segno di sì con la testa, ma la cosa non la convinceva affatto. Quando sua figlia le diceva con tutta tranquillità che le cose andavano bene, che a scuola non aveva preso nessuna nota di demerito, e che i professori, incluso il vicepreside, non erano arrabbiate con lei. Aveva imparato Nagisa dopo che era uscita dalla morsa dell’incidente che sua figlia aveva preso il suo stesso carattere, per quanto riguardava la carriera scolastica, non le piaceva particolarmente studiare, quando stava nella sua cameretta con la scusa di studiare, Nagisa sapeva benissimo che si metteva a leggere quelle stupide vignette sulle Pretty Cure. Lei non capiva perché le piacessero quelle sciocchezze che alcuni si inventavano solo per far divertire i bambini, e sua figlia si distraeva a pensare a Cure... come si chiamava... ah giusto Cure Black, anche se questo nome pareva gettare qualche spiraglio di luce nei suoi ricordi, ma nella sua testa tornava buio più di prima. Sua figlia andò verso il frigorifero, e ne tirò fuori una caraffa di limonata, preparata quel pomeriggio, e riempi due bicchieri fino all’orlo, e tornò sul divano, consegnando a sua madre il bicchiere. 
Nagisa iniziò a berne un sorso, poi guardò sua figlia. - Kazumi... avanti cosa c’è? - insisté, riponendo con molto sforzo il bicchiere sul tavolino. -Uhm, è per quella chiamata che ho ricevuto? - 
Kazumi si dispose meglio sul divano, avvicinandosi a sua madre, che intanto si era ristesa nuovamente, con entrambe le mani sulla pancia. 
-Quale chiamata, mamma? - domandò la ragazza. 
Dopo i precedenti, e la confessione di Rina, quel giorno il vicepreside col permesso del preside ha telefonato a casa sua, per avvisare che Kazumi stava nuovamente distraendosi per colpa dei manga, e anche per il nuovo studente che era appena arrivato alla Verone. Non avevano fatto altro che ridere di gusto, mentre Rina spiegava la storia cinese, e se nuovamente l’avesse fatto lui l’avrebbe espulsa con quel tono da cagnolino impiccione. 
-Quella del vicepreside... quel tale... insomma. Non ricordo chi è tuo padre, figuriamoci lui, che fa parte del passato. - 
- Meglio che non te lo ricordi. - 
Nagisa si massaggiò la pancia, fermandosi quando sentiva movimenti impercettibili provenire dal bambino.
- Oh, santo cielo, questo bimbo è peggio di un elefante in un negozio di gioielleria! - esclamò Nagisa, evitando il discorso del vicepreside. 
Non c’era bisogno di chiamare a casa, sapeva che sua figlia si distraeva, anche guardando il cielo dalla finestra. 
-Quasi come te, mamma. - rise Kazumi, mentre la madre la invitava a mettere la mano sulla pancia per ascoltare i movimenti del fratellino, a Kazumi non piaceva molto la situazione attuale, non sopportava che sua madre desse amore solamente a quel bambino e non più a lei, e che lei fosse trascurata solo perché aveva quattordici anni ed era adulta; sua madre però l’aveva convinta, la gravidanza può anche essere stata un po’ turbolenta, insieme all’incidente, quasi tragica, ma di certo il suo amore non era per chi arrivava per ultimo, lei amava Kazumi così come avrebbe amato questo nuovo bambino in arrivo, lei sarebbe stata presente sempre per i problemi di sua figlia, l’avrebbe consolata nei suoi momenti no, e stretta al suo petto come il suo dono più prezioso, ma avrebbe anche voluto bene al bambino che stava crescendo dentro di lei, perché era una sua parte importante, perché avrebbe provato la gioia di darlo alla luce, e tenerlo fra le braccia, non che non fosse stata contenta di aver preso e tenuto in braccia Kazumi, ma lei aveva già tre mesi, e non era appena nata, questo bambino invece sarebbe passato prima fra le sue braccia, le braccia della sua mamma. 
Li amava, erano i suoi figli. Una parte importante, o forse, tutto il suo corpo lo poteva essere. 
-Kazumi, non è una cosa insolita se tu ti distrai... ma... per chi ti sei distratta? - 
Kazumi tossì portandosi la mano alla bocca, stava quasi per soffocare con il suo succo. 
-...Per nessuno, mamma. - 
- Sono senza memoria... ma non sono stupida. - 
Kazumi roteò forzatamente gli occhi, come a dire “ma che tu e papà vi siete messi d’accordo?” 
-Oh, no mamma... non dare di matto, ti dirò chi mi ha distratto, ma ti prego non reagire come papà. - 
-Perché come ha reagito tuo padre? - domandò. 
Kazumi ricordò gli istanti di prima. 
-Male, malissimo, talmente male che stavamo per sbattere contro un palo! - esclamò. 
- Oh dio.. povera macchina... - bofonchiò Nagisa. 
-Mamma... ma come povera macchina! Poveri noi in macchina. - 
-Giusto... ma non voglio che si distrugga un’altra macchina per un incidente... - tagliò corto Nagisa, - Bene, dicevamo? - 
-Te lo dico se prometti che non ti agiti, o potresti avere un parto prematuro... quindi sta calma. - 
Nagisa fece sì con la testa, e si mise ad ascoltare sua figlia, non sapendo che cosa sarebbe accaduto quando gli avrebbe detto quella cosa. 
Sicuramente sarebbe caduta la muraglia cinese o avremmo avuto una terza guerra mondiale, suo padre le disse una volta che Nagisa, prima di perdere la memoria, poteva avere qualsiasi reazione, compresa quella assassina. 
-Ok.. ok... mamma.. mi sono distratta per.. - si interruppe. Non sapeva se dirlo o meno. 
-Dai, a, e, i, o, u, avanti parla piccola! - le schioccò una mano vicino al volto. -Non voglio aspettare tutta la notte. - 
-Sì, mamma! - gridò. - Mi sono distratta per un ragazzo, ecco! - 
Nagisa rimase per un momento immobilizzata al divano. 
-U-un ragazzo! - 
-Sì, sì, sì... un ragazzo. - ripeté Kazumi, nel cuore della notte. 
Nagisa si avvicinò, mettendo su uno sguardo investigativo. -Chi è, tesoro? - 
Kazumi si allontanò da lei, spaventata. Aveva quasi paura che sua madre avesse una reazione peggio del padre, e che addirittura intenzionata ad ucciderla, ma Nagisa era così calma, e seduta sul divano, da farle ancora più terrore. 
-.. Te lo dico? - 
-Certo, carissimaaaaaaaa! - 
- Usui... - 
- Usui, che? - domandò la madre. - Voglio sapere il cognome, voglio fargli saltare i denti, e metterli nel frigorifero per mangiarli domani a colazione. - 
Kazumi iniziò a sudare, incastrandosi verso la testiera del divano. 
-Mamma... ti prego.. non dire sciocchezze! - 
Nagisa scoppiò in una fragorosa risata, che penetrò nei muri di tutto l’appartamento. -Stavo scherzando hahahah... be’.. dopo lo taglio con la sega elettrica e poi lo metto in congelatore assieme al gelato.. - 
Kazumi stava quasi per svenire. 
- Ok.. ok... frena la tua forza assassina, lo sai che tuo figlio non vuole che finisci in carcere? - 
-Lo so.. avanti, dimmi il suo cognome.. - 
- Non gli farai niente? - chiese Kazumi. -Ti prego, non sto dicendo che siamo fidanzati.. - 
- No, tranquilla, al massimo lo metto nel tritura carne, tranquilla... non gli farò niente. - 
-Questo mi tranquillizza proprio, alleluia! - 
-Su, basta con questi scherzi... dimmi il nome del tuo fidanzato.. - 
-Oh, lasciamo stare. Usui Yukishiro. - il cognome gli vibrò in testa, quel Yukishiro gli suonò così familiare, come se ci fosse anche una persona in quel mondo che lo possedesse ma non ricordo chi, e soprattutto cosa era stata per lui. 
Perché Yukishiro mi suona così familiare... chi ho conosciuto.. e chi ho scordato con questo cognome
Nagisa rimase paralizzata a quel nome, come se qualcosa in lei si stesse risvegliando e che era ancora assopito. 
Quel nome aveva una storia che lei non poteva ricordare. Quel nome le portava in testa vari brandelli, nella sua mente barcollante nel buio si avvicinò una luce intensa, e lì, proprio davanti a lei, due figure, due ragazze.. ma chi erano? 
Non le ricordava. Lei non ricordava più niente, il velo del trauma aveva ricoperto ciò che ne restava. 



***Angolino della Love** 

Uhm, sì lo so, mi odierete! Perché non hai mostrato qualcosa su Kazumi e Usui, qualche scena, come ho già detto prima dopo questi capitoli, ne farete scorpacciate... ma alle volte è buono anche mostrare il passato, il passato di Nagisa, i suoi rimorsi... la sua perdita di memoria per renderci conto di cosa accadde.. Ancora non si se riuscirà a ricordare chi era. 
Intanto io vi saluto, ci vediamo nel prossimo chappy, andrà avanti la storia fra Kazumi e Usui? 
Be’ scopritelo ~Love



 




 

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Capitolo 10
*** Indecisione? Mille dosi di coraggio per Usui! ***


And I was made for You



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Carissimi lettori e lettrici! Vi faccio i miei più sinceri complimenti dal più profondo del mio cuore precuriano per essere sbarcati sul sito di Efp, essere andati dritti dritti con i paraocchi sul fandom delle ragazze graziose, di aver pescato questa storia e di esservela letti con tutto il vostro coraggio a mille. Diciamoci la verità - per una volta - ci vuole davvero... fegato per mettersi a leggere una storia, piena di miele, di sentimenti, di zuffe con Dotzuku e di una dose spiccata di stupidità per le battute quanto meno diverti di Nagisa - XD. 
Tornando seri... se nei precedenti capitoli, più o meno gli ultimi due, avete potuto approfondire il rapporto confidenziale tra madre e figlio, come nel caso di Usui/Honoka, inserendoci anche il rapporto/scontro che il nostro protagonista ha con Kiriya, il padre che non ha mai conosciuto, oppure il rapporto quanto meno confusionario e divertente che hanno Kazumi/Shogo - Kazumi/Nagisa
Nei prossimi capitoli seguenti della storia potremo approfondire meglio il rapporto tra i due giovani, e chissà... se questa volta uno dei due avrà il coraggio di fare il primo passo verso una grande storia. Come dice il titolo: sarà Usui? 
Andiamo a scoprirlo nel chappy, e nel frattempo qualche recensione, please! 
~Love



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Sono stanchissimo, sembra che un carrarmato militare mi sia passato sopra. 

Usui Yukishiro stava camminando con passo spedito verso il semaforo, su una delle strade provinciali della città, ed essendo ormai da una settimana e mezzo che seguiva quella prassi quotidiana, ormai si era abituato a percorrerla tutte le mattine per raggiungere il liceo Verone Accademy; quella sera era stata l’ennesima nottata, da quando si erano trasferiti nella vecchia costruzione di famiglia, che lui insonne per colpa delle sue visioni che vedevano sempre il solito soggetto passargli di fronte come su un rullino fotografico. Si era seduto prima vicino alle testiera del letto, con gli occhi ben spalancati, come se ci avessero messo degli stuzzicadenti, e poi avendo intuito che nemmeno quell’espediente era in grado di conciliarli il sonno, decise di liberarsi del peso opprimente delle coperte, e trascinarsi molto cautamente nella cucina, senza svegliare in alcun modo sua madre, che dormiva beatamente, nella stanza di fronte al finestrone principale, nella stanza più grande della casa, che prima era appartenuta alla sua bisnonna. 
Dopo essere slittato nel corridoio, con in una mano una torcia, era andato verso la cucina. Si era diretto vicino al frigo, e più silenzioso di un ladro, aveva recuperato una bottiglia di latte fresco, e si era riempito un bicchiere per sé, sedendosi comodamente su una delle sedie. 
Quando non riusciva a prendere sonno il latte, così fresco e rilassante, era una mano dal cielo.
Mentre il suo bicchiere era quasi mezzo vuoto, posato sul tavolo, un’altra luce lo distolse e lo accecò. 
Non si poteva sbagliare, si mise una mano a mo di visiera, e riconobbe i fluttuanti capelli blu scompigliati di sua madre Honoka. 
-Mamma. - riuscì a dire il ragazzo, mentre Honoka posava la torcia sul mobiletto, e la restava accesa in modo che rischiarasse l’ambiente, avvolto nel silenzio più cupo, e il sonoro verso di un uccello notturno in lontananza. 
Era raro quell’unica volta che si incontrassero di notte fonda. A Parigi, essendo molto piccolo, non capitava mai che lui si svegliasse alle tre di notte per prendersi una boccata d’aria fuori dalla finestra, né tanto meno si era accorto della presenza costante di sua madre, che misurava ogni centimetro del corridoio. Lui era sempre stanco, studiava fino a tardi, poi quando riteneva giusto dare una pausa alla sua mente se ne andava a letto, e nel tepore dell’afoso clima parigino di quel periodo si appisolava, ma non si era mai reso conto che la madre non dormisse di notte. La vedeva sempre molto mattiniera, anche a Parigi, molto sveglia, non riusciva mai a captare un sintomo di stanchezza nei suoi occhi, non riusciva mai ad analizzare la sua situazione, da buono figlio che era non l’aveva mai vista da quella prospettiva. Sua madre si sedette di fronte a lui, di spalle alla fioca luce, il bicchiere del latte che si portava alle labbra, con un gesto nevrotico del polso, Usui notò una differenza quasi abissale tra sua madre di mattina e sua madre nella piena notte. 
I suoi capelli blu notte, che si confondevano col parato della cucina erano scompigliati e spettinati, con quel ciuffo ribelle che le finiva nell’occhio, gli occhi erano scavati da profonde occhiaie, e il loro colore relativamente spento. Era uscita dalla stanza, infilandosi malamente la vestaglia panna, che lei si stringeva con la mano libera al petto, facendogli notare quanto il suo fisico si stesse lentamente deperendo, iniziando a notare la lieve magrezza del bacino, le scapole ben visibili, o le ossa ben evidenti che si intravedevano dallo scollo a cuore della sua camicia da notte. Honoka si rigirava il bicchiere tra le mani, e con l’unghia dell’indice graffiava la sua superficie.
-Così anche tu, figlio mio non riesci a dormire? - gli chiese, ancora con il volto incassato nelle spalle. -Non è bene stare svegli alla tua età, domani devi andare a scuola, e devi essere più fresco di una rosa. - il suo tono divenne leggermente intimidatorio, quasi come se lo stesse rimproverando. Usui accettò quel richiamo, facendo sì con la testa, mentre finiva l’ultima goccia lattiginosa infossata nel bicchiere. 
- Non è colpa mia. - si scusò lui, portandosi una mano ai capelli per aggiustarseli. -Sai... stavo pensando a una cosa. - 
Honoka ciondolò leggermente il capo nella sua direzione. Un bagliore vivido le attraversò lo sguardo. 
- Ti ricordi la discussione di una settimana fa?
Honoka fece cenno di sì con la testa. 
-... ho riflettuto... e ho preso una decisione. - fece lui, con un sorriso serio in volto, mentre si alzava dalla sedia. 
Andò verso il lavabo, e ci mise dentro il bicchiere, dando le spalle alla madre che stava ancora ultimando il suo. 
-Su chi tesoro? - gli chiese lei, con una voce tra l’emozionato e il perplesso, anche se un mix di emozioni la stava sconvolgendo. Poi inspirò con il naso, alzando le spalle e soggiunse. - Questa decisione è su tuo padre? - 
Usui aprì la manopola dell’acqua, goccia dopo goccia, il bicchiere si riempì, talmente tanto, che arrivò sull’orlo, per poi fuoriuscire. 
Lui osservò attento la cascata che scendeva dal bicchiere, colava giù nello scarico, e una volta che il bicchiere fu pulito, la chiuse, e si girò. 
-No, non nominarmi quella bestia. - 
Honoka abbassò ancora di più la testa, e la massa di capelli di grande lunghezza, le si spostò dalle spalle al volto, tanto da ricoprirlo. La cure bianca non voleva che il figlio pensasse che lei pendeva ancora dalle labbra di quel maniaco che l’aveva abbandonata, ma talmente che il suo cuore desiderava un suo ritorno, che non dormiva la notte, a furia di aspettarlo alla finestra, e che lui sarebbe giunto puntuale, a travolgerla con i suoi baci, con le sue carezze, facendola impazzire con quella sua aria da malvagio, da misterioso... stava ogni notte alla finestra, perché lui potesse affacciarsi da una stella, e venirla a rasserenarla con la sua presenza, ma aveva atteso ben sedici anni.. 
Era stufa che ogni persona che lei amasse se ne andasse via, così era stato con il suo amato, così era accaduto anche con Nagisa. 
Il suo cuore era stanco di soffrire, voleva essere imprigionato, e non essere più liberato. Voleva essere libero di provare amore per qualcun’altro, ma quello non sarebbe mai potuto accadere, per quanto si sforzasse, la visione di Kiriya nel suo letto era peggio di un incantesimo, era peggio che essere in una prigione blindata e non poter scappare, era peggio morire ma senza alcun tipo di anestesia. 
Usui le andò vicino, silenzioso, tanto che quando le si inginocchiò, Honoka credette di svenire: alla luce lunare i suoi occhi apparivano quelli di Kiriya, il modo in cui sapeva farla stare meglio con quel suo sorriso da principe azzurro. Ma poi si accorse che non era lui, e la teca di cristallo si ruppe. - Mamma, non è per papà. - 
-So Usui che ti piace quella ragazza, quella Kazumi, ma non potresti sperare nel ritorno di tuo padre, non ti chiedo di fargli una festa, ti chiedo di accettarlo, perché che ti piaccia o meno, io e lui ti abbiamo creato. - 
Usui si rialzò da terra come una molla a pressione. Come poteva chiedergli una cosa del genere, sì suo padre non era un assassino, né aveva causato la guerra, né gli aveva fatto niente perché lui lo prendesse così in odio.. ma aveva fatto molto di peggio, aveva abbandonato sua madre in stato interessante, e gli aveva privato del suo amore paterno per così tanti anni, che accoglierlo, con un sorriso falso in volto, sarebbe stato come dare uno schiaffo alla sua moralità, diamine! 
Il ragazzo non volle prestare la sua faccia a quella simile iniziativa, e senza accennare un gesto, prese la sua torcia, e se ne andò via. 
Honoka rimase ferma sulla sedia, con ancora i capelli a coprirle il volto, mentre il suo corpo, nel cuore della notte, veniva leggermente scosso da tremolii. Con una mano si allontanò dalla guancia una lacrima che le stava scendendo giù dalla mandibola. 
Rimase lì, sola, malata di solitudine per un uomo che forse l’aveva lasciata per sempre, e con le lacrime che scendevano copiose dalle sue guance, si appoggiò al tavolo, e lì si addormentò. Quando Usui si svegliò di soprassalto erano le sette e mezza, tutta colpa della sua insonnia, si lavò infilandosi nella cabina doccia per una veloce doccia rigenerativa, si vestì con la solita divisa, e uscì dal corridoio, con in mano già la sua borsa. Non appena fece capolino in cucina si accorse che sua madre era ancora lì, seduta dove l’aveva lasciata, il viso rivolto sul tavolo, coperto dalla massa di capelli lunghi, le braccia incrociate a farle da cuscino, e le lacrime secche che gli fecero capire che doveva aver passato non solo la notte in cucina, ma anche che aveva pianto in silenzio, come faceva da quando lui era venuto al mondo. Non voleva svegliarla, era così ingenua e dolce quando dormiva, non la chiamò nemmeno per preparargli dei toast, si prese una merendina dal frigo e se la piazzò nella borsa come pranzo, mentre stava per andare verso l’ingresso, le diede un ultimo sguardo, e uscì fuori verso il giardino, trascinandosi la porta alle spalle. 
Aveva esagerato, ma il fatto che sua madre desiderasse quell’uomo che la faceva soffrire lo mandava in bestia.
Così non solo aveva esagerato troppo e ora sua madre era arrabbiata con lui, ma era anche in ritardo per l’appello, la giornata non poteva prospettarsi peggiore di quello che poteva già essere, come minimo la professoressa Rina gli avrebbe dato una punizione. 
Slittò verso il semaforo, fermandosi al marciapiede come da consuetudine, come da prassi. Vide le macchine sfrecciare sulle strisce e uscire immediatamente dal suo campo visivo, mentre altre persone con la sua stessa divisa attendevano il verde. 
Usui bofonchiò a sé stesso “odio essere in ritardo” stringendosi nelle spalle, e portandosi la borsa sulla clavicola destra. 
Ci vollero più di dieci minuti affinché il semaforo a comando si decidesse a passare a verde; tutte le persone al fermarsi delle macchine iniziarono a transitare velocemente dalla parte opposta, anche Usui stava per farlo, ma fu trattenuto da un richiamo. 
-Ehiiiiiii! - esclamò una persona dietro di lui. 
-Ma questa non è... - si interruppe il ragazzo, girandosi dietro, notando una trafelata ragazzina venirgli incontro. 
Usui sentì le guance andargli completamente a fuoco, chi lo aveva esortato ad aspettarla era stata una ragazzina della sua stessa età, con la capigliatura castano scuro, e gli occhi color oro, e la vaga sensazione di una che è completamente uscita di senno. 
Kazumi Fujimura fece una rapida frenata d’istinto, e finì per cadere addosso ad Usui, che per vergogna, non si lasciò scappare neanche un sibilo; i due ragazzi in mezzo alla via provinciale stavano l’uno nelle braccia dell’altra, Kazumi sopra Usui, che teneva le mani vicino ai suoi capelli sull’asfalto, con il ginocchio piegato contro la sua gamba sinistra, mentre Usui a contatto con la strada, che la guardava stupefatto. Kazumi guardandolo da così vicino, sentì il cuore andare a mille all’ora e le guance assumere un colorito simile a quello del semaforo, che intanto era passato a rosso, di nuovo. Rimasero stretti stretti, quasi come se non si fossero accorti di star dando spettacolo pubblico, ma a loro quasi non interessava erano troppo presi ad osservarsi, lei nelle sue pupille ghiaccio, lui in quelle oro. 
Kazumi non sapeva come articolare il movimento per togliersi da sopra lui, si sentiva troppo imbarazzata. 
-K-kazumi... - cercò di proferire Usui, mentre la mano della ragazza per sbagliò slittò, e lei finì con il volto vicino alle sue labbra. 
A quel punto Usui dichiarò lo stato di vacanza alla sua mente, mentre Kazumi apriva la bocca. -M...mi dispiace. - 
Usui accennò un “ah.. capisco” con la bocca, e senza che niente glielo avesse imposto, finì per accerchiare la sua mano sulla sua schiena. 
Per portarla ancora più verso di sé, sì sentì un tizzone ardente, ma vederla così da vicino gli piaceva, gli dava l’impressione di star sognando. Kazumi guardò perplessa le mani di lui che si stringevano alla sua schiena, e cercò di replicare, ma il tentativo fallì. 
Usui si alzò con il capo, e si avvicinò ancora di più alle sue labbra schiuse, stavano per darsi il loro primo bacio. 
Kazumi perse del tutto la ragione. 
Usui le accarezzò il volto, si diede la libertà di prendersi in custodia una delle sue ciocche castane, stringendole nell’indice e nel pollice, mentre prendeva nuovamente a portare la mano sotto al suo mento, e con forza si spingeva più verso di lei. 
Kazumi rimase immobile, mentre con paura, vedeva il naso di Usui combaciare con il suo, e le loro fronti infrangersi come il mare sugli scogli, le loro bocche stavano iniziando ad avvicinarsi, quei dieci centimetri lei li poteva contare sulle dita. 
Usui intensificò il movimento, diminuendo la distanza. 
Che faccio se mi bacia?
Kazumi si chiedeva fermamente se doveva ucciderlo dopo o ricambiare. 
Aveva letto in una rivista che se un ragazzo ti appresta a baciare per la primissima volta, c’erano tre diverse opzioni. 
-A se gli piace, e se lui ti piace, devi fare la strafottente. 
- b- se non ti piace, dagli uno schiaffo, così almeno imparerà a prendere certe iniziative. 
-c- denuncialo. 
Denunciarlo? Non era nelle sue corde quel gesto estremo, magari senza troppi giri di parole, avrebbe affermato che la scuola e la faccia del vicepreside li stavano aspettando e così lui si sarebbe alzato, e sarebbero andati via di lì, visto le persone che li stavano osservando. 
No! No! doveva assolutamente impedire tutto quello
Kazumi sospirò. - Ehm, Usui. Faremo tardi! - gli esclamò da sopra le labbra sue, mentre lui gliele stava incatenendo alle sue. 
-Che ti importa. - le sussurrò, provocandole un certo terrore che le sbarrò gli occhi. -Pensa... a me.. e a te, Kazumi. - 
No! Non posso baciare per la prima volta un tale idiota, no! Devo assolutamente fermarlo.
Kazumi lo guardò ancora una volta. Sarebbe stato bello sapere come erano le sue labbra tra le sue, ma non era così che lo voleva quel momento, così preparò la sua mano, e quando lui stava per baciarla, gliela impiantò su una guancia. 
Il gesto schioccò molto velocemente nell’aria, e il ragazzo si separò velocemente da lei, rialzandosi. 
Adesso sarà arrabbiato? Mi dispiace, non volevo dargli uno schiaffo, volevo solo fermarlo, dannata me!
Kazumi si rialzò, facendo appello alle sue poche forze, visto che le aveva consumate tutte e recuperando la cartella, finita in strada, si girò verso Usui, che si stava massaggiando ancora la guancia, con le cinque mani sue stampate. La ragazza gli andò vicino. 
- S-scusami Usui, non volevo. - 
Il ragazzo si portò la mano alla guancia un po’ gonfia. 
- Ma che ti credi ragazzina? - 
Kazumi mise su una faccia perplessa. 
- Cosa? Che mi credo, che intendi? - 
Usui indicò il suo volto, e più precisamente le sue labbra. 
-Credevi che queste mie labbra baciassero le tue? Illusa! - 
In un attimo il rimpianto per quello schiaffo svanì dalla mente di Kazumi, gliene avrebbe voluto tanto dargliene un altro, ma per mettergli a posto l’ultimo neurone rimastogli nel cervello, ancora non funzionante. 
-Sai che non ti capisco? - fece lei, imbronciata. - Prima ti comporti da innamorato patentato... e poi ti trasformi in un mostro. - 
Usui si portò la borsa alla spalla, e una volta che il semaforo passò a verde, transitò sulle strisce, con a seguito Kazumi. 
-Io non sono un mostro. - rispose lui, con voce dura. 
Kazumi aumentò il passo, camminando accanto a lui. - Ah sì? Non mi sembra Usui Yukishiro. - 
-Perché ti interessi della mia vita? - chiese lui, con tono ancora più duro. - Non sono cose che ti riguardano, Kazumi. - 
La ragazza abbassò il volto alla strada, ripensando al momento prima, al momento in cui tra di loro c’era stata una forte affinità, un forte collegamento, in quel momento lei era stata rapita completamente da lui, e lui stava per baciarla, se solo non lo avesse fermato così duramente, ma era necessario, sì Usui era carino, non era come altri ragazzi che aveva conosciuto, non era brutto,  lo confessava che non gli era indifferente, ma da lì a baciarlo, ci voleva tanta acqua sotto i ponti. Probabilmente si era arrabbiato per quello. 
Kazumi iniziò a farsi il lavaggio del cervello, vedendo il viso del suo compagno cambiare totalmente, con i segni somatici più aperti alla rissa, e gli occhi di ghiaccio più freddi di un iceberg. Forse la colpa era sua, forse la colpa era del momento, lei non era una tipa che dava dimostrazioni romantici in pubblico, e non era certamente la ragazza che si faceva un ragazzo ogni mese... a lei interessava una relazione seria, non troppo complicata, travolgente, molto travolgente, con un ragazzo che provasse lo stesso. 
- Senti, ho fatto qualcosa di male per caso? - si fece coraggio la ragazza, mentre lentamente salivano la scarpata. 
Usui, vicino a lei, non rispondeva. Stava in silenzio, composto, sempre con quella sua eleganza da nobiluomo. 
Kazumi riprovò. 
- Rispondimi, ti prego! Ho fatto qualcosa di male? - 
Di nuovo il silenzio. Usui aveva lo sguardo fisso in avanti e non la degnava dei suoi occhi blu. 
Kazumi non godeva di una pazienza di ferro, e stancata da questo suo comportamento, si parò dinanzi a lui. 
-Ora mi rispondi! - esclamò, furiosa. Usui incatenò il suo sguardo gelido nel suo. 
- Cosa vuoi, Kazumi. - 
La ragazza sulle prime fece un balzo in avanti. 
Sto diventando come quel mostro. Il pensiero di star diventando come Kiriya terrorizzò Usui in modo particolare, il fatto di trattare le persone con freddezza non risolveva il suo problema esistenziale, era arrabbiato perché Kazumi lo aveva respinto nel suo bacio, ma lo era molto da trattarla così male... il fatto era che il discorso con sua madre lo aveva a dir poco scombussolato. 
Sapere che un giorno avrebbe aperto la porta, e si sarebbe ritrovato dinanzi la figura strafottente di Kiriya, il padre che non voleva nemmeno conoscere e che sua madre accoglieva serena, come se non se fosse mai andato, lo mandava su di giri. Lo colpiva, lo faceva soffrire, lui che da piccolo aveva conosciuto il dovere di non dare dispiaceri a sua madre, lui che aveva dovuto accollarsi le responsabilità di uomo di casa, e aveva deciso di crescere in fretta per rimediare ai problemi economici. Lui, che a Natale, stava a casa da solo e sua madre a lavorare come una schiava in fabbrica, lui che non credeva nemmeno esistesse Babbo Natale, come non credeva che al mondo potesse esserci una bestia come suo padre. Lui che era sempre solo, senza amici, lui che non li aveva mai cercati quegli amici. 
Come aveva sofferto, e come avrebbe ancora dovuto patire la sua situazione. 
Kazumi si avvicinò nuovamente a lui, e gli prese una mano tra le sue, costringendolo a guardarla negli occhi.
Quegli occhi che da una settimana gli facevano perdere il sonno. 
Quella bocca che voleva ad ogni costo. 
Quel visetto un po’ vivace che ritrovava nel soffitto di casa sua, puntualmente. 
Quel suo fisico, quel suo corpo dolce, che voleva stringere a sé. 
Voleva Lei. 
- Guarda che di me ti puoi fidare, Usui. - gli disse, con un sorriso sincero in volto. 
Usui aprì il suo cuore, sentiva che veniva inondato di felicità, sentiva che tra poco sarebbe esploso come una pignatta. Si spostò, e avvicinandosi molto lentamente, e sciogliendo il contatto con la sua mano in modo che fosse libera, le mise una mano sui fianchi, per poi chiuderle, e spingerla verso il suo petto. Usui si ritrovò ad esaudire tre delle sue pazzie, forse quattro, quel contatto col suo corpo. 
Adesso mi darà un altro dei suoi schiaffi
Kazumi però, stette al suo gioco. Non appena avvertì il suo petto toccare il suo orecchio, si liberò delle braccia, e le portò su per la clavicola, ma dato che era molto alto, le fece scivolare su per la schiena. Il vento di prima mattina si librò nell’aria, Usui portò una mano sopra i capelli di Kazumi, accarezzandoglieli, e sentendone il profumo, mentre Kazumi alzandosi un poco sulle punte, infilò il collo nella piegatura della spalla. Nessuno dei due sembrava sciogliere l’abbraccio, ne avevano bisogno, entrambi. Ne avevano un assoluto bisogno. 
Quando Usui si rese conto di ciò che aveva appena fatto, il suo viso subì un totale cambiamento, e quei tratti tirati, divennero più solari e sereni, a quel punto Kazumi si staccò dal suo petto, anche se non voleva. - Stai sorridendo! - esclamò compiaciuta. 
- Tutto per merito dalla mia compagna di banco, no? - la canzonò lui, toccandole il viso; si avvicinò, e le loro fronti rimasero attaccati.
- Scusami Kazumi, non era mia intenzione... - 
-Figurati, Usui! Scusami tu... - e la ragazza indicò la guancia sgonfiata. - Per lo schiaffo. - 
Usui si grattò la nuca. - Me lo meritavo, no? - 
Kazumi fece segno di no con la testa. Aveva esagerato, non doveva, infondo le piaceva la loro chimica perfetta. 
I due ripresero a camminare verso i cancelli della Verone



Erano appena passate le nove, la classe di Kazumi e Usui era impegnata con la lezione di chimica. 
Rina, con una scusa che Kazumi aveva afferrato al volo, li aveva messi vicini anche per fare gli esperimenti. Era stato un colpo basso da parte di un insegnante, ma dopotutto è un’amica di sua madre, doveva aspettarselo comunque, però doveva ammettere che essere in squadra con Usui era un bel punto a suo vantaggio, e non solo, la professoressa Rina osannava la loro chimica perfetta. 
Kazumi osservava con aria critica il lavoro professionale di Usui, ma più precisamente e per essere più sincera, osservava lui; non aveva fatto altro da quando la professoressa Rina si era messa a spiegare i composti chimici, stava prendendo un vizio, ma Usui non solo aveva l’aspetto da principe uscito dalle fiabe, era anche affascinante di suo, gli occhialini che si era messo gli stavano benissimo, lo facevano assomigliare a un dottore, il camice bianco si confondeva con la sua pelle bianca. Era semplicemente un chimico perfetto. 
Lei invece somigliava a un secchione rachitico, perso in una marea di formule. 
Kazumi si era appoggiata al tavolo, con una mano disposto su quello, e uno a sollevare con prepotenza il suo viso, quando lanciava sospiri languidi a destra e a manca, tanto che Ran, che era di fronte a lei e la stava fissando, sghignazzava ferocemente, facendola diventare paonazza in volto, quando Usui si fermava ad osservarla con la provetta di composto a mezz’aria. 
- Tutto bene, Kazumi? - 
La ragazza presa sul fatto si rialzò dalla posizione, e con fare imbarazzato, si inchinò in segno di perdono. 
- Ti va di aiutarmi con questo esperimento? - chiese Usui, inarcando il sopracciglio. 
Era ancora più carino
-S-sì! Ovvio, certo... dimmi cosa devo fare e lo farò! Signor-sì! - portandosi la mano destra sulla fronte. 
Usui sospirò, poggiando la provetta nell’apposito contenitore, visto che il contenuto era ritenuto addirittura esplosivo. 
-Non ho bisogno di tutta questa durezza di spirito. Su, Kazumi. Sciogliti. - 
Kazumi cercò di rilassarsi, ma in realtà le risultava complicato, visto che era alla presenza di un ragazzo che le faceva perdere di vista la bussola, che le faceva provare sentimenti assurdi e che le faceva andare in corto circuito il cervello. Sì, lui era un tipo molto più... sciolto, lei invece no, si sentiva peggio di stare incatenata con mille lucchetti alla merce di animali famelici. 
Provò a contrarre le spalle, muovendole, per vedere se riusciva a prendere con molta calma quella dannata lezione.
- Cosa devo fare, caro Usui, futuro biologo internazionale? - 
La ragazza si mise mascherina e guanti di protezione e si avvicinò a Usui per avere qualche indicazione. 
- Dovresti mischiare questo contenuto con l’azoto, mi spiego.  - fece Usui, mostrando una provetta, un liquido giallo, e un gas incolore. 
-Non è che se lo mischio mi scoppia in mano? - chiese, spaventata, portandosi la provetta a distanza di sicurezza. 
- Non penso... - Usui si portò una mano sotto al mento. - A meno che tu... non sbagli le dosi, non succederà niente. - 
-E se... per un caso ... dovessi sbagliarle? - 
Usui guardò la sua compagna. -Allora potremmo veder saltare la scuola che dici? - 
Kazumi sospirò sollevata. - Fiu, vabbé io voglio che scoppi, ma così è troppo. - 
Usui sorrise divertito. 
-Su avanti, mischia, e non aver paura. - 
Kazumi si portò più vicino le due provette, e con grande attenzione, tergiversò il liquido giallo in quello incolore. Questo assunse un aspetto aranciato, e si stabilizzò nella provetta. Kazumi si permise un secondo sospiro di sollevazione. 
-Bene... adesso dobbiamo riscaldarlo. - continuò Usui, confiscando dalle mani della sua collega la provetta. - Kazumi, mi porti il bollitore?  - 
-A che ti serve il bollitore, tu che sei l’esperto me lo spieghi? - 
-Non di certo a bollire la pasta, ma.. faremo giungere il contenuto alla temperatura di 200° in modo da avere una sorta di reazione chimica, capito Kazumi? -
La ragazza si massaggiò la tempia, nel duro ragionamento dell’aver compreso, e abbassandosi sotto al mobiletto, recuperò ciò che Usui le aveva richiesto. Chiuse l’anta, e diede il macchinario nelle mani del ragazzo, che lo appoggiò sul tavolo. 
Kazumi con attenzione osservò ogni movimento chiaro e tangibile del suo amico. Rovesciò il contenuto nella provetta in una teca più grande e leggermente più tonda, poi con l’aiuto di fiammifero accese una fiammella sotto, mentre il liquido al suo interno bolliva. 
Kazumi fu tentata di indietreggiare, visto il pericoloso sbuffare della teca. 
- Ehm... io dovrei andare. - 
Usui la tirò per una spalla. 
-Dove vai? Non abbiamo ancora finito, non si lascia un lavoro a metà. - 
-Assì.. no non intendo il lavoro, ma alla mia vita ci tengo. - precisò la ragazzina, indicando la teca. 
- Ma dai, mica scoppia? - 
-Ne sei sicuro! Faccio prima a mettermi al riparo no? - 
Usui fece segno di no con la testa, colpendola lievemente con il pugno della sua mano. - Certo che delle volte sei tanto intelligente.. - 
- Questo è un complimento, Usui... - fece lei, contenta. 
- Ma alle volte sei talmente stupida, che mi fai paura. - 
La ragazza sbuffò. 
-Non è colpa mia... è difesa personale, non voglio finire arrosto! - 
- Non finiremo arrosto, smettila di dire certe cose.. - la rimproverò Usui, i due nella loro discussione dimenticarono molto ingenuamente la teca che stava bollendo, dimenticarono il loro esperimento, e il tempo necessario per spegnerla, tanto che alla fine quando se ne accorsero era troppo tardi, e il contenuto stava quasi per esplodere. Usui accortosi della pressione molto alta, fece in tempo a tirare verso di sé Kazumi, e a spingerla contro il mobiletto. La teca iniziò a frantumarsi piano piano, e quando Rina si avvicinò ai due per sapere se avevano fatto, la teca esplose con tutta la sua forza, e il contenuto si riversò sulle pareti della piccola stanza, e invase a fiume il tavolo, finendo anche e sopratutto sulla faccia di Rina, che cadde a piedi alzati, per terra. 
Quando Usui si rese conto del disastro, si portò una mano in fronte. - No, non può andare tutto storto. - 
Anche Kazumi fece capolino dal mobile, sussurrando. - Invece sì... - e sbattendo di proposito la testa sul tavolo. 
- Colpa tua Kazumi, avresti dovuto spegnerlo a 200° gradi! - 
- Ah no... scienziato perfettino... io non avevo questo compito, tu dovevi spegnerlo.. ma poi abbiamo litigato e.. - ma lui la interruppe. - Ecco appunto! Tu mi hai fatto perdere la bussola, per colpa tua! - 
-Hai sempre ragione tu, Usui eh? - domandò, sarcastica lei, mentre d’un tratto alle loro spalle comparì la faccia oblunga del vicepreside. 
Usui e Kazumi scattarono in piedi come due molle, mentre il signore davanti a loro osservava il pasticcio che avevano creato; si appuntò più gli occhiali sul naso, e con una faccia a dir poco pietosa, li indicò urlando. - Ahhhhhhh! Sempre voi, non vi stancherete mai di combinare casini e farmi perdere sempre più capelli! - 
-Veramente non siamo noi... - cercò di replicare la ragazzina, ma Usui le mise una mano in faccia. - Tsk. Ma sei matta, come minimo adesso ci danno il carcere, non ci crederanno mai Kazumi! - gli sussurrò. 
- Non era per quello... ma per i suoi capelli, capisci li sta perdendo perché sta diventando vecchio. - rispose lei. 
- Guarda che vi sento! - esclamò il vicepreside, pugnalandoli con il suo sguardo. - E ora in giardino, a togliere le erbacce, muoveteviiiii! - 
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata di intesa, e con facce un po’ dispiaciute, sgusciarono via verso l’uscita. 


Erano da sei ore sotto al sole per cercare di rimediare al disastro che avevano combinato durante la lezione. 
Usui stava inginocchiato comodamente, come se fosse da tutti i giorni togliere le erbacce dal giardino, una punizione che un giorno il vicepreside dette anche a sua madre Honoka e a zia Nagisa per aver rovinato un quadro sul preside, ma in realtà non era stata di loro la colpa, non gli importava che gli facessero male le mani a furia di tirare, né che gli facesse male la testa per il sole, stare con lei lo ripagava. 
Invece Kazumi con quelle occhiaie che si era ritrovata sembrava una zombie, il sudore che gli gocciolava dalla fronte, le mani rosse dalla fatica, le smanie di una che non ce la fa più. Usui osservandola, mentre si apprestava a eliminare un nuovo filo di erba, ripensava nuovamente a sua madre, quando in uno dei loro incontri notturni, di tanto in tanto, le aveva raccontato, con il sorriso ben visibile sulle labbra di quando zia Nagisa e lei, al ritorno dalle vacanze, furono duramente punite dal vicepreside, e andarono a raccogliere le erbacce in giardino. Nagisa, reduce da una notte di studio, era stanca e aveva la schiena a pezzi, ma non per questo barava sulla punizione, così sua madre le disse che avrebbero fatto del loro meglio per adempire al meglio quel compito. Kazumi gli ricordava molto Nagisa. 
Nelle foto avevano gli stessi occhi, e la stessa corporatura gracilina. 
Era come guardare uno specchio, peccato per i capelli, visto che non erano dello stesso colore
Quando Kazumi si accorse della risatina del suo amico, di fronte a lei, strappò con ferocia un filo di erba, esclamando:
- Perché diamine ridi, Usui Yukishiro! - 
Il ragazzo tirò un altro filo di erbaccia. 
- Niente... ridevo di te. Sai mi ricordi qualcuno che ho visto solo in foto. - 
Kazumi ciondolò con la testa. 
- Chi? - 
- Non te lo dico. Comunque, riposati se vuoi. Sei stanca vedo.. - 
- Ma no! Cosa te lo fa pensare.. ho solamente sonno... e un po’ di caldo. - 
- Bene, vai a riposarti qui posso continuare io che ho energia a sufficienza per entrambi. - gli disse lui. 
- E lasciarti qui a sbrigare la nostra punizione?  - fece lei, dilatando le pupille. - Niente affatto! Non baro sulle punizioni! - 
Usui rise al vederla nuovamente energica. 
-Facciamo del nostro meglio per accontentare quel pesce lesso. - 
Kazumi si lasciò scappare una risatina. 
- Sì! - 
I due si impegnarono molto duramente per adempire la loro punizione. Lasciarono il piccolo giardinetto davanti all’istituzione, quando finirono di togliere tutte le erbacce, e le riposero nel cesto. Erano le tre quando la figura rachitica del vicepreside tornò a disturbarli, e loro avevano finalmente finito, il vicepreside li lasciò liberi, così Kazumi e Usui, che aveva in braccio l’enorme cesto, tornarono in classe. 
La trovarono vuota, visto e considerato che gli studenti erano andati tutti via. 
-Non immaginavo fosse così tardi... - iniziò Usui, recuperando i libri sotto al suo banco. 
-Sono solo le tre, e siamo rimasti solo noi. - 
-Uhm, già è vero. - fece Usui, guardandosi attorno; l’aula era completamente vuota. 
Kazumi strisciò la sedia sul pavimento, e vi si sedette con tonfo esausta, con le braccia portate indietro insieme alla testa. 
-Uhm... ho la schiena a pezzi. - biascicò. 
- Mi sembra normale, dalle nove fino alle tre. Siamo stati per la bellezza di sei ore lì fuori. - disse lui, facendo un veloce stretching con i muscoli dell’avambraccio e polso, che non avevano fatto altro che strappare fili. - Adesso ho bisogno di una bella doccia e di un letto.. - 
- Perché? - domandò lei, seduta accanto a lui. - Ti vedo molto esausto. Dimmi, stai dormendo? - 
-Adesso ti preoccupi per me, scoiattolino? - 
Kazumi si imbronciò. Era da un pezzo che non lo sentiva più chiamarla in quel modo. 
- No.. no.. io non preoccupo per te, figuriamoci. - fece lei, incrociando le braccia, con un vaga sensazione di superamento. 
- In effetti... non posso dire di star riposando come si deve. - 
- Hai qualcosa che non va? - 
Usui scosse il capo. 
- Solo che... sono molto combattuto su una cosa. - 
Kazumi lo stava ancora osservando con la coda dell’occhio, lasciandosi dondolare pericolosamente dalla sedia, con due piedi impuntati contro il banco, in attesa di scoprire quel momento non di complicità ma di conversazione pacifica, destinata a diventare profonda tra pochi secondi. Usui si stava letteralmente lasciando andare, tra poco avrebbe dato sfogo ai suoi pensieri ad alta voce, tra poco le avrebbe confessato che mentre lei aveva un padre, lui non lo aveva mai conosciuto, mentre lei viveva in una vera famiglia, la sua invece non somigliava minimamente a quel genere, tra poco le avrebbe confessato il motivo per cui non dormiva tutte le notti... 
- In realtà... era un pensiero che non mi aspettavo. - continuò, gettando un’ombra di mistero nei suoi ragionamenti. 
Kazumi alzò un cipiglio. 
-Va bene, puoi continuare. Non ci sto capendo niente! - 
- In poche parole... non dormo la notte perché penso sempre alla stessa cosa. - fece lui, guardando intensamente colei che le stava vicino. 
- Bene. Puoi dirmi chi è “quella cosa”? - chiese lei, in trepidante attesa, e in bilico sulla sedia. 
Usui serrò gli occhi,  assaporando le sue visioni in tutti i loro dettagli, e lei era sempre tra queste, in tutte le posizioni, persino le più stupide, lei era presente... magari nell’acqua durante la doccia che scivolava dalla sua pelle, o nelle strade che percorreva, negli occhi di sua madre quando egli si specchiava, nei pranzi solitari, nelle lenzuola della notte... dappertutto lei era lì. 
Si portò una mano al petto, sospirando. Guardando il lato destro la vide, non era una delle sue immaginazioni perverse, i suoi capelli venivano leggermente trasportarti al vento, il colore castano scuro risultava evidente e più chiaro alla luce del sole. 
Sei bella da guardare.
I suoi occhi guardavano imprimendosi ogni singolo dettaglio nella testa. 
I dettagli della bocca, un po’ piccola, i dettagli del suo nasino, i dettagli della sua pelle leggermente più scura rispetto alla sua, i dettagli del suo corpo, che col dito lui pareva percorrere, i dettagli della sfumatura oro dei suoi occhi, un po’ peperini, i dettagli di quella sua corporatura tanto gracilina che aveva per un momento deciso di abbracciare, la convinzione che quel momento fosse il più perfetto. 
Le prese delicatamente la mano con un gesto affrettato, tanto che lei al vederle tra le sue mani, lasciò che i suoi piedi scivolassero via dal banco, e che la sedia tornasse in un tonfo sonoro a contatto col pavimento, mentre i loro occhi piano si confondevano, si toccavano, si scrutavano ma non si evitavano come prima. Usui gli strinse ancora di più la mano nella sua. 
- La cosa a cui penso da un po’ sei... - 
Kazumi lo osservò. Si masticava il labbro, chiudeva di nuovo gli occhi e faceva lunghi sospiri, come se gli costasse quello sforzo. 
- Sei tu. - 
Il tempo si fermò. 










Angolino della Love!

Contenti? O rimborsati... be’ in ogni caso un piccolo screzio c’è stato, ma non è un vero e proprio flirt... 
Ovviamente questa scena è solo un piccolo assaggio per quello che succederà invece tra di loro, se volete scoprirlo basta che leggete il prossimo e recensite. Io come al mio solito ringrazio tantissimissimo Rosanera ricordandole che adoro le sue recensione, e perché no?
Anche la mia oneee-chan Zonami84! 
Spero vi piaccia il capitolo, detto questo - non ho niente da dire più, grazie - mi ritiro. 
~Love









 

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Capitolo 11
*** Delusione: invito a sorpresa? ***


And I was made for You



*** 

E a distanza di quasi quattro giorni dall’inizio della scuola torno con questa storia, spero che io vi sia mancata almeno un po’ e so anche che siete rimasti delusi dal “quasi bacio” lo definirei... be’ è chiaro che l’autrice della storia non ama particolarmente le relazioni facili in cui la ragazza e il ragazzo stanno già insieme, non è nella mia teoria favorire l’amore senza una prima dose di problemi. Ma per costra fortuna, almeno in parte - accontentatevi, okkei - finalmente vedremo il nostro Usui rendersi conto di una cosa molto importante su Kazumi, mentre non assicuro che la ragazza ricambi molto facilmente, quindi gradirete in parte. Oltre a questo che altro dirvi? 
Ringrazio moltissimo i nuovi recensori fra cui la mia carissima Rosanera, la mia onee-chan Zonami84 e i nuovi seguaci di questa storia tutto miele, GreenWind e Lohel, grazie grazie! 
Vi lascio alla lettura. 



*** 

Non è possibile che al mondo esisti una tale perfezione.
Devo tenere a freno il mio cuore affinché non esca fuori e ti grida ciò che sento, la mia timidezza mi ha impedito ogni misero contatto con i compagni della mia vecchia scuola, ciò che più temevo di me stesso era che in parte tutta quella insicurezza derivasse da me, in realtà quella timidezza non è che il frutto dell’unione maledetta tra i miei genitori. Ogni mattina mi guardo allo specchio, nella quale si riflette la mia figura, i miei occhi sono quelli di mia madre, la donna che ho amato ancor prima di conoscere, ma non siamo fatti di sola carne materna, anche nostro padre nel suo piccolo ha mischiato qualcosa di sé, perché i miei capelli sono i suoi, un po’ assomiglio a Kiriya. 
Non si può odiare così tanto una persona, -lo diresti tu nella tua immensa ingenuità da bambina - non puoi odiare, l’odio ti rende cieco, e tu non puoi non guardare il tuo passato, non puoi sapere cosa è venuto prima di te, e non puoi giudicare - così mi diresti. 
Non posso farci nulla.
Ieri sera tu eri qui, a farmi compagnia al di sopra del soffitto e io nella mia profonda pazzia non sono riuscito a chiudere occhio. 
Eri talmente reale e tangibile, eri nella medesima posizione in cui sei ora, i tuoi occhi profondi color caramello che mi scrutavano, cercavano di comprendere cosa era nascosto dietro quella mia corazza da finto gentlmen francese, anche ora, nel silenzio di un’aula vuota. Ho appena espresso un mio pensiero, poi mi sono girato e ti ho osservato, per tutto il tempo, in cui dalle mie fredde labbra usciva il tuo nome che bruciava dentro di me da un po’ di tempo come fuoco vivo; tu non ti sei mossa di un centimetro, eri come nelle mie tante visioni, le tue sopracciglie che denotavano un carattere decisamente determinato erano inarcate verso l’alto, dalla finestra semiaperta un tenero venticello di fine giornata conduce le tue punte in una timida danza e il tramonto le tinteggiava di arancione. 
Mi chiedo cosa adesso tu stia pensando. I tuoi occhi illuminati da quella luce rossastra appaiono ancora più vividi nei pensieri. 
Non riesco a decifrare niente. Il tuo gracile corpo non si è mosso, sembri quasi congelata, dentro te ti stai chiedendo “perché?”
É da una settimana che posso dire di aver perso la mia razionalità
.
Non so spiegarti. So solo che vederti qui, accanto a me, nel posto in cui ci sediamo sempre, è come stare in paradiso. 
Tu sei bella, ho capito. Non una bellezza esteriore, di facciata. Sei un’altra bellezza.
Kazumi, quante volte desidero pronunciare il tuo nome dalle mie labbra. Sei come una grande ossessione per me, forse perché sei ciò che io non sono, ciò che non sono destinato ad essere, ciò che non sarò mai. Sei bella, ma sei anche normale, una normalità che mi convinceva che al mondo non esistono solo idioti patentati come mio padre, che ti abbandonano senza neanche una spiegazione. 
Forse sono solo uscito completamente di senno.
Mi sono ritrovato solo in qualunque circostanza pur avendo vicino mia madre, a scuola venivo osannato per la mia alta media e per la mia bellezza, e da una parte anche odiato e trattato da ripiego. Vivevo una vita che mi aveva obbligato mia madre con la sua decisione, in una città che non mi era mai appartenuta, poi dopo un lungo tempo, siamo tornati, ci siamo stabiliti nella nostra vecchia casa, e la mia vita è cambiata totalmente, non solo perché sento che questa terra mi appartiene, ma anche perché una settimana fa una recordista è piombata nella mia vita, una che vaneggiava di voler passare con il rosso, che voleva essere la prima, che io ho salvato, e che lei non ha ringraziato.
Non avrei mai lontanamente sperato che avrei incontrato qualcuno come te
Questo trasferimento mi ha portato a scontrarmi anche con una parte della mia vita che aveva cercato di rimuovere, ma che essa è tornata nella mia vita per vendicarsi, insieme a quell’album che mi ha mostrato il volto del malcapitato che ho per padre.
Tra le cose più positive c’eri tu. Ma eri anche tra quelle più negative.
Se è stato incontrarti difficile per me, figuriamoci conoscerti, conoscerti è stato forse l’errore più grande della mia vita. 
Perché proprio tu mi capiti, tra le tante che mi stanno intorno? 
Sulle prime ti ho odiato, non sai quanto, in realtà mi attraevi.
Quando stiamo insieme sento di stare bene ma anche male, in un controsenso continuo. 
Di sera, vorrei dimenticarti... chiedo insistenemente alla mia testa di rimuoverti, ma esso non vuole saperne niente.. 
Sento che si fa beffe di me, pensa che più che avere sollievo, io debba distruggermi poco a poco e mi disegna la tua immagine sui muri.
Dimenticarmi di chi sei è struggente, è il mio cuore a non volerlo.
Ti odio. Ti odio, non sai quanto, quando per sbaglio ti disegni in cielo come una stella. 
Il sorriso che ti si increspa su quella bocca che ho provato a toccare, i tuoi occhi a cui io devo mostrare assolutamente obbedienza, il tuo modo frizzante di rivolgermi la parola, o di rimproverarmi quando certe cose non ti vanno giù.
Odio persino le tue labbra, quelle che mi hai impedito di assaggiare, il modo in cui muovono, il modo in cui mi fanno uscire fuori di testa. 
Odio la sensazione nelle mie mani, quella scarica elettrica, quando mi tocchi. Odio il modo in cui mi guardi, anche se mi eviti. 
Sai che ho veramente cercato di odiarti? 
Sai che ho mentito persino a me stesso? 
Non perché lo volessi, ma perché lo vuoi tu. Tu mi piace, mi fai letterlamente diventare pazzo da legare, ma mi piaci. 
Non posso starti lontano, Kazumi. Ti voglio bene in un modo particolare, che neanche immagini. 
Non ti odio. Ho cercato, ma disperato la mia mente mi ha urlato la ragione, una ragione che ho regalato a te
Ora che sei qui, accanto a me, non voglio lasciarti scappare via. 
Ti terrò qui se necessario, dovesse costarmi un altro dei tuoi schiaffi
Nella nostra aula regna un silenzio opprimente che mi fa balzare il cuore da una parte a un’altra. Da quando ho abbassato lo sguardo tu non hai fatto altro che osservarmi, con le pupille completamente dilatata, con un’espressione perplessa stampata in volto. In realtà quelle tue sopracciglie un po’ curvate e le tue labbra che si stanno piegando, non fanno altro che farmi pensare che non sei affatto felice, che anzi vorresti schizzare via da me. Alzo un poco lo sguardo, posandolo sempre su te, ora la tua espressione è cambiata. 
Sei nervosa, non fai altro che morderti il labbro fin quasi a masticartelo, sembri quasi spaventata, forse da me. 
Non te lo aspettavi? Neanche io mi aspettavo questo. Sembra quasi che la paura ti accechi e ti avvolga lo stomaco fino a stritolartelo, picchietti il tuo indice sulla gamba in una sorta di tick mentale, ora che non sai che rispondermi il tuo coraggio da prepotente sembra essere svanita nel nulla, come la neve in primavera. Sospiro, ho capito, per te non è lo stesso. Mando a benedire ciò che ho detto, scatto via dalla sedia, non ho più niente da fare che stare a guardare un silenzio che non mi porterà consolazione, sto per andarmene.
Sono in piedi, e sto per muovere qualche passo verso la porta, quando ti vedo reagire con la stessa vivacità di quando siamo entrati. Agguanti la mia mano, con gli occhi fissi al pavimento, e io mi girò improvvisamente. 
-Usui.. - pronunci, stringendo un po’ di più, sento i tuoi polpastrelli, sono come me li immaginavo. - Aspetta, ti prego. - 
-Non c’è niente da aspettare, Kazumi. - le dico con voce dura. La sua mano è avvolta alla mia. 
Il silenzio. 
-Non è vero, Usui. Non è vero che non puoi aspettare, lo hai fatto per tutta la tua vita, no? - 
Aspettare è stata la mia prerogativa, aspettare un padre, aspettare un amico, aspettare un futuro migliore. Aspettare di essere finiti. 
- Sì, e me ne pento come un dannato. - 
Ti vedo spalancare l’iride. La leva sulla mia mano si fa meno forte. 
-Ti penti anche di avermi incontrato? - mi chiede, tornando a stringermi la mano. 
-Questo no. - 
Kazumi alzò finalmente lo sguardo. I suoi occhi sembrano così opachi, sembrano aver assunto un ulteriore colorito più ammattito. 
-Se ti dicessi quante persone ho dovuto aspettare.. quanti dolori ho dovuto sopportare. Questo è uno di quelli. - 
-Ma Usui? - 
-Il tuo rifiuto, Kazumi. Non ti conosco così bene come dovrei, ma posso dire di essermi già affezzionato a te. - confesso. 
Lei sospira sommessamente, serrando gli occhi. Anche vedere il suo petto abbassarsi e alzarsi come una fisarmonica mi provoca una stretta giusto in mezzo al petto, come una pressione; la mia vita prima comandata esclusivamente dalla sete di conoscenza, dal voler essere il migliore in tutte le materie, ora veniva comandata dalla sua immagine indelebile, dal suo sorriso, dalla sua solarità. 
Kazumi non era soltanto ciò che non posso essere. Era molto di più. 
La sua grinta e energia riuscivano a smuovermi dalla mia sensazione di intorpedimento, la sua sincerità, il suo buon cuore riuscivano a catturarmi come una farfalla, e il mio mondo inesorabilmente girava intorno a lei. Così come quel giorno non mi fece nemmeno un ringraziamento, nemmeno per averle salvato la vita, così come non aveva nemmeno chiesto il permesso per catapultarsi nella mia vita, in questo stesso modo mi aveva infranto il cuore, potevo vederne i pezzi sparsi per quella stanza, contarli uno a uno. 
Non mi sarebbe bastata quella vita per raccoglierli tutti e ricostruirli. 
Forse era vero quello che diceva mia madre. Puoi anche sperare di odiare chi ti ha fatto soffrire, ma non puoi mai smettere di amarlo. 
Volevo solo andarmene via da lei, da quel suo viso, da quella sensazione di sconfitta che gravava sulle spalle. Però non ci riuscivo. 
Kazumi aveva ancora la sua mano intrecciata alla mia. Difficilmente avrei potuto muovere il passo, sapendo di perderla. 
-Anche io mi sono affezzionata a te, Usui. Non avrei mai immaginato che uno come te potesse diventare in poco tempo così importante - 
Dilatai improvvisamente le pupille. Aveva appena detto importante, allora potevo sperare, potevo sperare che lei tenesse a me. 
-Però io non ti conosco, e a malincuore, devo dirti che non penso a te nel modo in cui vorresti. - rispose. 
Il mio volto tornò piantato a terra. La mia ultima speranza era sfumata via. Lasciai con una manata piuttosto violenta la sua mano, e mi scrollai dalla posizione, andando verso la porta, non la guardai più, sapevo che incontrare quegli occhi mi avrebbe fatto male. 
Il silenzio tornò ad essere padrone, leggermente disturbato dalla sua presenza ossessiva dietro di me.
Il suo corpo era rannicchiato sulla sedia, in posizione racchiusa, con il volto nascosto nelle ginocchia, e il fioco pallore lunare ad illuminarla. Era sera, dovevano essere le sei, dovevo andare via se non voleva che mia madre si preoccupasse. 
Apri la porta, deciso a cancellarla dalla mia vita, ma nonostante il passo da quella stanza al di fuori di essa fosse talmente breve, che bastava che allungassi la gamba il più del dovuto, qualcosa dava un freno al mio gesto, qualcosa che era ancora dietro di me.
Ora la figura al buio mandava flebili segnali, venendo scosso da leggeri tremiti, e piccole tirate su di naso. 
Simghiozzi dopo singhiozzi, il mio cuore finì di andare in frantumi. 
Che razza di persona, di uomo sono.. se me ne vado, mentre lei sta piangendo.
Richiusi la porta, producendo un lieve rumore, e molto lentamente tornai vicino a lei, ma senza risedermi. 
-Ora perché piangi? - le chiesi, ma lei non mi diede risposta, al contrario continuava a singhiozzare flebilmente. 
-M-mi.. dispiace, Usui. Non volevo f-ferirti.. scusa. - 
-Uhm, sei davvero infantile come pensavo. - la presi in giro. 
Credevo si sarebbe calmata, anzi che mi avrebbe aggredito addirittura, ma la reazione non fu questa. 
Continuò a chiudersi a riccio, e lasciare che le lacrime la travolgessero. 
- Mi dispiace! - esclamò, questa volta più forte, senza tremare.
-Uhm, .. chiariamoci non sono deluso, questo mi ha fatto rendere conto che non sei propriamente il mio tipo. - 
Ancora scossa dai singhiozzi alzò il suo volto, mi lasciò sospeso come una trans. Mi accorsi di essermi chiaramente sbagliato, Kazumi non era bella di mattina, con quei suoi capelli castani lo era anche di notte, quando il fioco pallore lunare creava righe parallele sul suo volto. 
Una mezza parte del suo volto, e il suo occhio di destro, erano nella luce. Gli occhi caramello andava schiarendosi quasi nel blu, pallidamente resi più lucidi dalle lacrime, mentre la sua altra parte, quella di sinistra, nella luce più oscura.
Mi sedetti di nuovo. 
-Sono contenta che non sei rimasto deluso dal rifiuto, Usui. Questo ti rende diverso dagli altri ragazzi. - 
Spalancai le labbra. Mi aveva fatto appena un complimento, lo notai perché il suo pallido volto diventò rosso. 
- Sì, ma non pensare quello che stai pensando eh?! - esclamò, muovendo convulsamente le man davanti a sé. 
-Guarda che lo capisco, non sono stupido. - 
- Ah sì? - 
-Certo. - una lacrima rigò la sua guancia destra. Odiavo vederla piangere, odiavo vederla stare male. Buttai la mano nella tasca sinistra della mia giacca per cercare di trovare qualcosa con cui poterle asciugare il volto, in modo che quando andasse a casa i suoi non pensassero che le fosse accaduto qualcosa di spiacevole. Dopo tanto rovistare trovai un fazzoletto di lino. 
-Sarò meglio asciugarti il viso o i tuoi penseranno male.. - 
Kazumi fece segno di sì con la testa. Improvvisamente si era fermata a guardare a un punto fisso della stanza, come se fosse stata rapita dalla sua coscienza e stesse pensando a qualcosa, qualcosa che la faceva rabbrividire visto il modo in cui tremava. 
Le stavo consegnando il fazzoletto, ma vedendola così preda dei suoi pensieri, preferii avvicinarmi meglio, accostandomi più a lei e posandola, con molta attenzione l’angolo del fazzoletto sulle guance, e vicino ai bordi dell’occhio. Questo riuscì a strapparla dai suoi pensieri, facendola trasalire dallo spavento. -Sta ferma o non posso asciugarti queste lacrime - la rimproverai. 
Il suo viso era vicino al mio, di nuovo, come quella mattina. 
Nella mia mano destra avevo il fazzoletto, proprio vicino alle sue guance, così morbida, così infantile, così dolci. Improvvisamente mi accorsi di star trascinando troppo la mia mano al bordo delle labbra, l’unica parte che era asciutta. In un attimo il fazzoletto scivolò via dal mio palmo, cadendo sul pavimento, e mi trovai con solo le dita. Mi avvicinai con l’indice in un punto non preciso delle sue labbra, perfettamente intagliate, e rosse come una rosa iniziando a massaggiarle, andando da un lato a un altro. Non mi importava nemmeno della presenza di Kazumi, che non mi aveva accennato a un gesto omicida dei suoi, ma mi lasciava fare, stando immobile. 
-Le tue labbra sono morbide. - dichiarai, fermandomi. - E se le toccassi sono sicuro che sarebbero calde. - continuai. 
Lei alzo la sua mano, e prese la mia - quella a contatto con le labbra - spostandomela un po’ più verso sinistra. 
-La tua guancia è bagnata. - presi a massaggiare anche quella. - Ma è dolcemente morbida. - 
Kazumi mi portò la mano al centro del suo viso, dove c’era il suo naso. 
-Hai un naso perfetto. - 
-Merito dei miei genitori. - scherzò lei. 
Io passai a spostare la mia mano fra le ciocche dei suoi capelli, i suoi capelli fini e lisci, quasi come la seta. 
-I tuoi capelli sono più lisci della seta. - le dissi. Poi diminuendo la distanza, avanzai verso il suo collo, girandomi leggermente la testa; le mie braccia iniziarono lentamente a stringere il suo corpo, mentre il mio volto si fermava proprio vicino alla sua pelle, alla pelle del suo collo, scostandole una ciocca di capelli ribelli, mi avvicinai ancora di più, fino a posare le mie labbra per assaporare quella pelle. Lei, però, stava ancora ferma, quasi come vittima di un incatensimo, e mi lasciava fare, nonostante il rifiuto di prima, sembrava volessi farmi giocare con il suo corpo, con le sue labbra, con il suo collo, con tutta se stessa. 
-Se io fossi vampiro... morderei questo tuo bel collo, lo sai Kazumi? - 
Vidi la sua vena allargarsi, sicuramente stava contraendo i suoi zigomi nel ridere, una cosa che di lei mi faceva impazzire. 
- Non voglio giocare con te. Però se io adesso fossi un vampiro, tu saresti la mia vittima, e non potresti fuggire da me. - 
Kazumi sospirò. Vidi le sue labbra soffiare sul mio orecchio. 
-Se io volessi scappare da te, lo avrei già fatto. - 
Sembrò che il mio cuore riprendesse a battere, volevo guardarla in volto, volevo vederla in tutta la sua bellezza notturna. 
Ritrassi le labbra del suo collo, non lasciai neppure un sogno, e racchiusi il suo viso nelle mie mani a coppa. 
-Usui.. stavamo giocando no? Non è che sei un vero vampiro, giusto? - mi chiese lei. 
Per un momento avevo creduto nelle sue parole, invece si stava riferendo a ciò che mi aveva detto. Alle volte era talmente esplosiva quanto stupida, potevo essere anche un vampiro con quella mia pelle pallida, ma anche se lo fossi stato, non avrai mai abusato di lei. 
Chiusi per un momento gli occhi, lasciando che le mie mani scivolassero giù per le sue braccia. Poi le riaprì, trovandomi lei. 
- No - 
Richiusi il mio sguardo, anche se non c’era che luce lunare intorno a noi. 
-Be’ non mi sarebbe dispaciuto farmi mordere da un bel vampirone... ovviamente non rammollito come te, è chiaro no? - 
Le diedi un pugnetto molto debole sulla testa, al che lei reclamò. - Ehi! Stavo scherzando! - 
Iniziai a ridere, mentre lei gonfiava le guance. Era così bello scherzare con lei, senza dar conto a ciò che sentivo. 
Era sera inoltrata, a giudicare dalla presenza della luna, e io mi trovai ad osservare la luna, coperta a strati da nuvoloni neri. Kazumi tornò silenziosa e seria come prima, e guardò anche lei la finestra, pensando che quando sarebbe tornata a casa sua madre le avrebbe fatto una ramanzina di quelle chilometriche, che non si scordano più. 
-Ci conviene andare - le dissi, quando lei teletrasportò lo sguardo su me. 
Un lampo squarciò il cielo, e diffuse una fulminea luce nel grigiore dell’aula, e il forte rumore fece vibrare le finestre così tanto che mi ritrovai Kazumi stretta al petto, che mi abbracciava, tremolante. Era così rassicurante averla tra le braccia, ma al tempo stesso, era rivivere come una seconda volta il fatto che questa sua prima dichiarazione di pensare a lei fosse andata a vuoto. 
-Oh, diamine! - esclamai. - Come ci torno a casa? - 
Kazumi, stretta ancora a me, tolse il viso dal mio petto, guardandomi. 
-Volando? Mi sembra ovvio, a piedi! - 
-Intendevo che dovremo tornarci senza ombrello e ci faremo una bella doccia, sapientona. - 
Lei si portò una mano alla nuca. 
-Già, è vero! Mia madre mi ucciderà! - 
La visione di sua madre che la attendeva con la cena freddata, e con una faccia assassina, la fece tremare ancora di più dei lampi di fuori.
-Quindi... se tua madre vede che arrivi in ritardo ti sbrana? - 
-Al massimo, mi mette nel purè... ma è soltanto il minimo. - 
-E il massimo? - 
-Cuocermi insieme alla carne, e poi mettermi in frigorifero.. - rispose, rabbrividendo. 
Non mi andava l’idea di non trovarmela più tra i piedi, insomma il prospetto che sua madre la uccidesse e la facesse a fettine mi convinse una cosa, che dovevo salvarla, a qualunque costo, e con salvarla, intendevo portarla a casa mia di sana pianta
-Senti, Kazumi, che mi dai se ti salvo da tua madre? - le proposi. 
-Potrei darti qualsiasi cosa! - esclamò lei, giungendo le mani. - Persino quello che mi volevi dare oggi! - 
-Davvero? - feci speranzoso, avvicinandomi fulmineo, ma lei si portò una mano al petto e mi diede un altro schiaffo, al che mi ritrassi infastidito. - Bastava un no, Kazumi Fujimura. - 
Lei fece le sue solite faccette da angelo, e io sospirai. -Vabbene. - le porsi una mano vicino. - Mi dai il tuo telefono? - 
- Perché cosa devi fare? - 
-Scrivere un articolo di giornale: “Kazumi Fujimura morta per mano di sua madre” ti va bene? - 
-Non oserai vero! - 
-Ma dai! Scherzavo! Secondo te il telefono per cosa serve, no? - 
-Uhm, per chiamare. - 
-Sì. Avanti, dammelo. - 
Lei cercò nella tasca della sua giacchetta, e ne cacciò uno strano, di colore bianco, con un cuore rosa. 
-Uhm, scusa! Ho sbagliato! - e lo ricacciò dentro; tornò a cercare, e dopo dieci minuti mi diede finalmente ciò che le avevo richiesto.
Scorsi nella rubrica, e trovai il numero di casa sua fra i tanti. Pregai di non star facendo una sciochezza, e misi in chiamata. 
Due bussi a vuoto poi qualcuno sollevò la cornetta. Doveva essere la voce della madre di Kazumi, visto il timbro così femminile. 
-Buonasera, salve. - salutai, molto educatamente. 
- Buonasera. - rispose la donna dalla parte opposta della cornetta. 
-Sono un compagno di Kazumi, parlo con la famiglia Fujimura? - 
- Sì. Come mai chiamate dal telefono di mia figlia? - 
-Oh, perché.... vostra figlia mi ha chiesto di dirvi che sta bene, e che abbiamo fatto un po’ tardi per via dell’esperimento, ma non si preoccupi... mia madre mi ha avvertito che possiamo dormire a casa mia, va bene? Quindi non stia in ansia. - 
-Va bene, però posso sapere il tuo nome? - 
-Usui, signora. - 
-Ah, bene, il fidan.. cioè amico di mia figlia. Molto bene, mi raccomando abbi molta pazienza con Kazumi. - e agganciò. 
Shogo, che stava visionando delle carte, seduto al tavolo, si tolse gli occhiali da vista e chiese alla moglie. 
-Nagisa, chi era al telefono? - 
La moglie gli si sedette vicino. 
-Il fidanzato di nostra figlia, caro! - esclamò, con un grande sorriso.
-Cosaaaaaaaaaaaaa! - e fummo fortunati se non svenne per il colpo inflittogli dalla sua bambina. 
Kazumi si avvicinò a me, chiedendomi con voce tremante. - Che ha detto? - 
-Di sì. Che puoi stare da me. - 
Kazumi lanciò un forte urlo, catapultandosi su di me. Entrambi cademmo a terra, mentre fuori iniziò a piovere molto forte. 
Talmente forte che credevamo di restare bloccati a scuola. 
Chissà come sarebbe stato dormire con Kazumi.








*** Angolo della Love*** 


Salveeee! Allora... possiamo concludere finalmente il chappy, finalmente la nostra Kazumi incontrerà Honoka.
Come sarà l’incontro fra le due, Honoka riconoscerà la figlia di Nagisa? 
Tutto nel prossimo. Io adesso mi ritiro, bye ~Love






 

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