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di Watashiwa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wildest Dream (Sai/Sakura) ***
Capitolo 2: *** Here (Temari/Shikamaru + Gaara & Kankuro) ***
Capitolo 3: *** Sweet sleep (Ino centric) ***
Capitolo 4: *** Too Late (Lee & Choji) ***
Capitolo 5: *** July 7th (Hinata/Neji) ***



Capitolo 1
*** Wildest Dream (Sai/Sakura) ***


Wildest Dream
 
La casa di Sai era una delle più piccole ed accoglienti del villaggio, veramente adatta per custodire tutto quello di cui aveva bisogno per vivere e, come ogni essere umano, soddisfare le sue necessità.
Tra la catasta di tutti quei rotoli che ritraevano paesaggi quasi anormali e schizzi di visi a lui familiari, sedeva a letto con lo sguardo concentrato, aspettando che lei uscisse da quella stanza e facesse ciò che aveva in mente di fare, ancora una volta.
Con la scusa di fargli capire come esternare meglio le emozioni nel mondo esterno, gli aveva detto di fidarsi e lasciare che il suo corpo reagisse spontaneamente alla sua figura esile che stava sopra di lui per quegli attimi, silenziosi ed interminabili.
«Capirai molte più cose, se lascerai che ti guidi un po’…» aveva accennato misteriosa e quasi atona Sakura la sera in cui decise che quel gioco iniziasse, nel quale era convinta che Sai cadesse senza problemi.
Poi uscì, camminando in una maniera che Sai trovò buffa nella sua testa e per la terza volta, come da copione, lasciò che Sakura si avvicinasse, lo buttasse in quel materasso morbido e gli desse quell’amore che il corpo e lo spirito donavano all’unisono, come diceva l’autore di un libro che Sai riponeva diritto sulla libreria, che leggeva una volta finito di lavorare sui suoi schizzi.
Provò a farlo suo facendolo sdraiare a forza sul letto mentre con fare un po’ inesperto – ma mascherato dallo sguardo vitreo che continuava a rivolgere al compagno di team – si sfilò la maglietta ed avvicinò il suo viso verso quello di Sai protraendosi in avanti, cercando di provare a giocare un po’ con la sua bocca e il suo corpo albino ma leggermente scolpito dagli allenamenti.
Vicino, sempre più vicino, con lo sguardo dritto verso Sai, vicinissimo…e un colpo, neanche tanto forte, che la fece cadere sulla piazza destra del letto matrimoniale, quasi all'angolo.
Il ragazzo si risollevò da quella posizione che aveva trovato tremendamente scomoda, con la mano ferma ancora per aria che aveva colpito l’avambraccio della rosa con una pacca non troppo affettuosa, in modo tale che si allontanasse da lui.
«Scusami, Sakura. Non intendevo farti del male» disse scuro in volto Sai, con lo sguardo ancora attento e pieno di quella luce che la combattente non aveva per niente colto, tutta indaffarata per il teatrino.
La giovane non osava proferire parola e meditava flebilmente nel profondo: era così insignificante e priva di attrattiva per Sai? Non era realmente quello che andava cercando per una volta, nella sua vita?
Eppure l’altra sera pensava che…
«Il sesso è carne, l’amore è spirito, il sogno romantico è l’unione di entrambe le cose» recitò espressivo il moro, rimembrando improvvisamente la citazione giusta per far capire alla kunoichi tutto quanto.
Lei non rispose ma ebbe un forte sussulto e il suo viso si contorse in una smorfia che Sai vide solo di sfuggita, in quanto il suo grazioso viso era ancora rivolto verso le coperte bianche e candide come la neve che non cadeva a Konoha da anni, il miracolo che riuscisse a farla svegliare da quell’incubo di colori e suoni troppo nitidi.
Aveva sbagliato tutte le circostanze ed aveva sottovalutato scioccamente Sai, cambiato e maturato rispetto ai primi mesi di collaborazione e di cooperazione che li aveva visti affrontare diversi incarichi insieme.
Sentì che i suoi occhi stavano per bruciare per un ulteriore pianto amaro, che prontamente cercò di controllare per evitare di dare modo a Sai di considerarla doppiamente stupida.
Al contrario suo, l’amico era veramente pronto a provare quello che cercava superbamente di insegnargli, visto il suo modo introverso e incentrato solo sull’arte e sul futuro del villaggio.
Vide il suo cappotto giacente sul pavimento, accanto all’attaccapanni di legno che teneva armoniosamente altri indumenti.
Si alzò e lo prese, senza degnare il ninja di uno sguardo che sapeva non sarebbe riuscita a gestire mai in quel momento…era stata davvero una sciocca egoista, come sempre.
«Ci vediamo domani al campo addestramento, sii puntuale» fece Sakura seriosa ma mesta, coprendosi in modo tale da scacciare quella sensazione di vergogna dal suo corpo, a cominciare da quell’avambraccio lievemente rosso, pieno di sbagli e falsità malamente rivolte.
Percorse il corridoio che l’avrebbe portata fuori e il silenzio enigmatico di Sai, percettibile e forte per tutta l’abitazione, le fece ancora più male, che sapeva di meritare.
Il sogno più selvaggio legato all’amore non l’avrebbe mai trovato cercando un sostituito in tutto e per tutto a quello che era stato il suo primo legame forte per corpo e mente.
Sorrise scioccamente mentre la porta si chiuse alle sue spalle, capendo quanto Sai fosse diverso e un amico migliore delle sue iniziali aspettative.
Si tranquillizzò, pensando che avesse compreso a 360 gradi la situazione e il suo flebile e sciocco errore e di poterlo guardare nuovamente con la giusta luce.
Il suo sogno era ormai lontano fisicamente da lei, ma non si sarebbe mai arresa fino a quando non avrebbe raggiunto il suo scopo: donare e ricevere amore.
In modo che anche gli occhi scuri del suo amato potessero trasmettere qualcosa, oltre alla vacuità.

 
[851 parole]
 

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Capitolo 2
*** Here (Temari/Shikamaru + Gaara & Kankuro) ***


Here
 
Anche quella mattina arrivò più presto di quanto si potesse immaginare.
Gli occhi verdi e malinconici di Temari si aprirono esattamente due minuti prima che il suono acuto della sveglia potesse farla innervosire di prima mattina e di questo, nonostante tutto, ne fu sollevata.
Tutte le mattine erano diventate meccaniche e prive di ogni colore da quando la sua abitazione non era più visitata da anima viva; specie dai suoi fratelli, linfa di coraggio e d’ispirazione per la sua esistenza, seppur non l’avrebbe mai esplicitamente ammesso al di fuori della sua testa.
Le sette e mezza e lei era già fuori casa, preparata ad affrontare il suo giorno libero esattamente in quel modo da lei prefissato, pur di crollare la sera con l’amaro in bocca e con il nervoso a fior di pelle.
La sua città natale, nella quale compiva i suoi passi silenti e cauti, era cambiata molto rispetto a quando era solo una bambina un po’ riluttante e scontrosa, come spesso diceva la sua maestra di scuola.
Ora si ergevano grattacieli, strutture più ampie e case più imponenti, facendo sentire Temari quasi come una sorta di puntino in un luogo che non le apparteneva più nel cuore, che non riconosceva più come quello placido e tranquillo dove lei e i suoi fratelli giocavano, si divertivano, conoscevano sempre più e respiravano quell’aria pura, innocente e salubre al tempo stesso.
Il suo portamento non era docile ed intimidito, ma da quando era rimasta realmente sola con se stessa aveva imparato a non perdersi troppo nello sguardo di nessuno, neppure quello degli sconosciuti in difficoltà.
Il suo sguardo era fermo e determinato verso le mete quotidiane da portare a compimento, senza che il mondo esterno potesse farle degli screzi o rivolgerle finti moralismi che mai aveva potuto digerire, complice la testardaggine che caratterizzava la sua personalità.
Quello che contava realmente per lei da due anni a quella parte è che i pezzi del suo cuore frantumato non si sperperassero altrove e lontano dalla sua testa in subbuglio, che avrebbe penato la perdita di quel poco di lucidità rimastale di fronte alle difficoltà.
Dopo aver proceduto piuttosto spedita, arrivò verso una struttura immensa che non aveva niente da invidiare ad altri progetti architettonici cittadini per l’ampiezza, ma che si distingueva da qualsiasi altro edificio per quello che custodiva al suo interno.
La bionda esalò un respiro coraggioso e poi varcò silenziosamente la porta d’ingresso, trovando la quasi monotona baraonda di sempre, tra dottori che facevano un andirivieni continuo da un corridoio all’altro, con facce assenti di persone in attesa di una chiamata, di attendere il loro turno, sfiduciate e vuote nell’animo, un po’ quasi quanto lei.
Invece di dirigersi verso alcune sedie libere, Temari preferì dirigersi verso la sala delle macchinette per rilassarsi prima che la dottoressa la cercasse quasi disperatamente per ribadirle che doveva fare presto e le era possibile andare nella stanza per vedere quella persona, eccezionalmente e a grande richiesta dal medico di fiducia.
Mille pensieri del passato riaffiorarono nella mente della giovane donna mentre si dirigeva alla macchinetta del caffè, senza notare affatto due occhi scuri che la scrutavano mentre muoveva le dita alla ricerca di qualcosa di forte capace di destarla completamente.
Una sera qualunque di due anni fa, le due di notte passate e tre fratelli che percorrevano un marciapiede un po’ innevato per tornare a casa dopo i festeggiamenti per il compleanno di Gaara, suo fratello minore che da lì a poco avrebbe svolto un incarico di alto prestigio nel mondo degli affari, in una cittadina vicina.
L’incontro di due tizi incappucciati dopo diverse centinaia di metri che bramavano vendetta nei confronti di Gaara per dei piccoli torti legati al passato, le pistole tirate fuori ed azionate troppo velocemente prima di arrivare ad un dialogo chiarificatore, Kankuro che cadeva a terra facendo da scudo ai suoi amati fratelli e un secondo proiettile che colpiva la fronte di suo fratello all’altezza della fronte macchiandosi di sangue, colando sul tatuaggio che recitava la parola “Ai”, che significava “amore” in giapponese.
Brividi percorsero la schiena di Temari mentre arrivava al finale di quella sequenza oscena e quasi surreale; pigiava attentamente l’ultimo tasto dell’apparecchio di fronte a lei, proprio come aveva fatto in quella dannata fredda notte invernale con il telefonino che aveva con sé.
Era il 20 Gennaio e Gaara aveva appena compiuto 20 anni.
«Cosa provi?» fece il giovane uomo che la stava scrutando da un paio di minuti mentre Temari era immobile dandogli le spalle.
Lei, d’altro canto, non si girò nemmeno per verificare l’identità di quella voce così impastata unita ad un forte senso di pigrizia che aveva imparato a riconoscere fin troppo bene.
Avrebbe voluto rispondergli che ricordava ancora chiaramente come l’ambulanza da lei chiamata quella notte maledetta arrivò dieci minuti dopo le promesse da parte del centralino, non permettendo a Kankuro di salvarsi dalla ferita al petto.
Avrebbe voluto rimbeccargli il fatto che la sua testa era così pesante e dolorante che non sapeva fare come andare avanti, con una morte ingiusta ed una situazione statica come il coma di suo fratello, che non sembrava per niente reagire ai trattamenti.
Si limitò a dire seria ma risoluta che era…speranzosa.
Il dottore aveva espresso la volontà di volerla vedere quella mattina per discutere di cose importanti, sperando che capisse tutte le eventualità necessaria.
Si girò, contenta nel profondo che lui fosse – contro ogni sua previsione – venuto a trovarla e a infonderle coraggio da una città assai lontana dalla sua, inaspettatamente.
Non era abituata a vederlo così spesso di persona dopo il torneo di scacchi nazionale al quale avevano partecipato e nel quale si erano affrontati quando Temari aveva 15 anni, scoprendo le menti geniali - ma incomprese – dell’uno e dell’altra.
Dopo quell’occasione, la nascita di un rapporto che entrambi non pretendevano più di tanto definire anche per il loro essere seri e un po’ diffidenti con tutto e tutti.
«Mi aspetti?» fece leggermente più serena incontrando i suoi occhi neri con coraggio e desiderio, sapendo di potersi permettere di non essere giudicata o considerata miserevole «Ci vorrà un attimo, Shikamaru».
Invece che dire qualcosa di concreto, di tutta risposta si grattò la testa un po’ imbarazzato e mugugnò qualcosa di indecifrabile, come per darle risposta affermativa.
Temari bevette il suo caffè lungo tutto d’un sorso e si avviò verso le scale, un minuto prima che l’assistente potesse venirla a cercare e darle il permesso di andare liberamente dal suo superiore.
Sorrise, più libera e meno oppressa da quel senso di solitudine che spesso la imprigionava e non le permetteva di vedere la luce e confidare in qualcuno che in realtà c’era sempre stato, in un modo o nell’altro.
Quella giornata, pensò la donna con un po’ di lucidità, sarebbe stata unica nel suo genere, a distanza di tempo, qualunque cosa fosse successe dopo essere uscita da quello studio.
D’altro canto, anche Shikamaru voleva che questo accadesse.
Seduto in disparte in una sedia al di fuori dell’ospedale, pensò a tutti i luoghi preferiti di Temari e rifletté sul quanto avrebbe voluto starle più accanto, piuttosto che mandarle messaggi e chiacchierare con lei al telefono.
Le sarebbe stato più accanto, a partire da quel momento.
L’avrebbe portata a mangiare la zuppa al ristorante ogni qual volta ne avrebbe avuto bisogno, l’avrebbe portata al giardino botanico per fare in modo che tutti i suoi interessi personali non si assopissero per colpa di alcune tragedie di cui non aveva colpa.
Dopotutto era lì per quello, per ricordarle che la felicità poteva essere raggiunta, se avesse provato ad ascoltarsi di più e non essere troppo severa con il suo cuore.
E mentre estraeva dalla tasca una sorpresa che preannunciava una confessione a cuore libero, Shikamaru pensò a come, per una volta, tutto quello che stava facendo non era un’evidente seccatura…o almeno quasi.

 
[1303 parole]
 
 
 

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Capitolo 3
*** Sweet sleep (Ino centric) ***


Sweet sleep
 
Una ragazza bionda stava sdraiata sul materasso scomodo e spoglio, così come il suo corpo maturo, magrissimo ma comunque prosperoso.
I suoi occhi azzurri osservavano con fare spento ed arrendevole i muri di quella catapecchia dove era stata portata con la forza ormai da diverso tempo, forse settimane: la verità è che Ino aveva quasi perso il conto di quei giorni infernali e così privi di luce.
Nel suo cuore sapeva che gli uomini della sua vita si sarebbero messi alla sua ricerca fin dalla prima ora di smarrimento ma la sua mente, ormai debole e non più elastica, non vedeva altro che disperazione e distruzione nel suo futuro.
Aveva dato così importanza alla bellezza perché era un modo per sentirsi a proprio agio con la sua personalità femminile ed estroversa, con malizia e a volte esagerando, volendo quasi spontaneamente primeggiare sulle altre per questo.
C’erano uomini e donne che la guardavano con ammirazione e come un modello da seguire ma essenzialmente come una persona, anche grazie al suo carattere che la rendeva una personalità grintosa.
Ma non tutti quanti erano disposti a vederla in quel modo.
C’era anche chi vedeva le donne come un oggetto, un trofeo da consumare e da esibire tramite stupide e vuote chiacchierate e vantarsi ossessivamente con chiunque condividesse quella visione.
Erano proprio così gli uomini che l’avevano rapita durante un’escursione in solitaria, approfittando di un suo piccolo momento di distrazione.
L’avevano portata in un luogo veramente oscuro e in mezzo al niente, in una foresta dove si sentivano continuamente solo gridi di animali vari e che stavano alla larga da quella casetta di legno così priva di modernità e fascino, un ambiente che Ino non avrebbe mai potuto sopportare.
Veniva nutrita ogni tanto con pane ed acqua che i suoi aguzzini le donavano per farla tacere e per tre quarti del tempo era semplicemente la molla del dolore, del piacere e dello spasmo più assurdo e violento, senza alcun tipo di interruzione, in tre, quattro, sempre di più.
Il suo corpo, una volta fonte d’orgoglio e perfetto agli occhi altrui, era ora denutrito, stanco, pieno di sangue e lividi, senza alcun tipo di slancio e forza per alzarsi da quella superficie così distrutta e da gettare e da rinvigorire al più presto, come il suo animo.
Ino voleva credere fino all’ultimo che qualcuno sarebbe venuto a salvarla e a fare in modo che il suo cuore si riprendesse lentamente da tutta quella violenza procellosa, conservava una piccola scintilla che richiamava forte al suo insegnante, ai suoi due migliori amici e alla sua rivale più leale e sincera, un tempo la sua amica più vicina.
Credeva che almeno loro, che avevano ricercato a lungo e pazientemente l’essenza del suo animo, si adoperassero per cercare attentamente e scoprire il luogo maledetto, anche meglio della polizia.
Aveva così tanto pensato a loro, mentre quei mostri chiudevano la porta a chiave e la lasciavano sola, legata e imbavagliata in quel materasso.
Si maledisse per aver parlato sempre di cose tanto sciocche e non essersi goduta tutti quei momenti passati insieme a loro e si morse il labbro inferiore, spaccato dai grandi ceffoni che riceveva durante quegli atti carnali continui.
Stava trattenendo le ultime lacrime che poteva versare senza sentire parole offensive e fuori luogo, oscene per il suo modo di essere.
Sentì la porta sbattere ed un tonfo secco, poi nient’altro.
La piccola fiamma che proteggeva la sua fede, dato che la sua forza e la furbizia non potevano salvarla più, era stata riposta bene fino all’ultimo.
Vide una luce diversa, quando la porta di quell’inferno senza finestre cadde inesorabilmente nel pavimento polveroso.
Poi cadde in un sonno diverso, inedito, quasi dolce.
Nonostante la forza e la volontà del Fuoco l’avevano resa una donna poderosa con il tempo, non ce l'aveva fatta.
Era l’ultimo, quello del sollievo.
Un sollievo che la vita, beffarda come poche, le aveva concesso troppo tardi.

 
[652 parole]
 
 
Note autore
Ascoltare "My heart is broken" degli Evanescence, unito a qualche concetto di speranza e di anima, mi ha permesso di scrivere questa storia su Ino.
Purtroppo lo stupro è una realtà vicina e molto legata alle ragazze belle, quelle che vengono viste da alcune menti malate, come oggetti sessuali e da collezioni per le loro idiozie.
Non è una storia contro Ino, non voglio che passi questo: semplicemente, leggendo e capendo un po' come si sentono le donne oppresse e impossibilitate a salvarsi (perché le donne indipendenti sono quelle di questo presente) e considerando la casa dove è prigioniera senza luci e finestre, ho provato a capire come una mente sia soggetta a sentire perdere la speranza e ad essere parte dell'ambiente.
A volte la vita non è così solare e bella come viene dipinta, a volte non ce la si fa.
Un'ultima cosa: dato che nella prima storia ho parlato di "sesso" dato alle persone sbagliate e per le quali non si prova amore e nella seconda ho parlato di uccisione, voglio sapere (tramite recensione) se sia il caso o di cambiare rating alla raccolta o di inserire solo l'avvertimento di contenuti delicati.
Se vi va, scrivetemi cosa vi ha suscitato la storia in sè, mi farebbe molto piacere.
Grazie, un abbraccio!

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Capitolo 4
*** Too Late (Lee & Choji) ***


Too late
 
Lee fu l'unico a decidere di seguirlo dopo che la lezione estenuante al dojo finì, notando il suo sguardo triste e diverso dal solito.
Si era allontanato senza dire niente ai suoi compagni ed aveva pedinato con passo regolare il suo amico, sentendo nell'aria un'atmosfera più grigia e metallica, intensiva.
Nonostante non avesse avuto opportunità per conoscerlo meglio in tutti quei mesi che erano iniziati gli allenamenti, sapeva bene che abitudine di Choji era tornare a casa per riposarsi, per poi trovarlo sereno e con quell'aria da pacioccone che lo contraddistingueva da ogni ragazzo della città.
Quest'idea si confermò mentre percorreva vie su vie e si avvicinava nel condominio malfamato nel quale viveva, dove si percepiva qualcosa di marcio e lontano dai gesti che rendevano Choji un ragazzo invidiabile per qualunque genitore per compostezza ed educazione.
Lee sentì una porta d'ingresso chiudersi violentemente mentre mancavano poche decine di metri al grosso edificio; doveva trovare un modo per affrontare Choji e usare quasi una scusa per conoscerlo meglio, per sapere cosa ronzava nella sua testa e proteggeva con i suoi silenzi.
Proprio lui veniva osservato severamente da tutti i sensei durante le lezioni di Ju-Jitsu e capitava che Choji facesse sempre più riscaldamento degli altri oppure che venisse spronato dal maestro Asuma o dal perfido Hiashi, il gestore dell'intera struttura che, piuttosto che incoraggiarlo, spesso si prendeva la libertà di apostrofarlo con termini poco carini come "ciccione", "peso morto", "grassone".
L'omertà degli altri adulti e degli allievi era sconcertante ed opprimente in quanto vigeva la regola del rispetto verso l'autorità, ma qualche volta anche Lee sentiva il bisogno di dire qualcosa di pacato a riguardo, anche perché il tema della diversità e del bullismo psicologico gli erano molto cari, data la sua infanzia e la sua propensione a fare cose che agli altri bambini non interessavano parecchio.
La fortuna  nel trovare una guida così attenta ed euforica come il maestro Gai era stata fondamentale per la sua formazione, così come trovare stimoli e possibilità di rivalsa nei suoi compagni di corso, che gli erano tutti vicini, tutti tranne Choji.
Lui era l'emarginato, l'incompreso, quello dai chili di troppo, l'ultima ruota del carro in qualsiasi cosa facesse: ma Lee era determinato e curioso di porre fine a quella storia così strana e sospesa a mezz'aria.
Quando il giovane arrivò sulla soglia della porta dai vetri trasparenti ma comunque sporchi da varie ditate, rimase sorpreso nel vedere il grande borsone d'allenamento del ragazzo con accanto una garza piena di sangue, ancora fresco data la tinta che copriva il biancastro della reticella.
Come d'istinto si avventò sulla porta preso da una crescente e costante angoscia e si accorse che fortunatamente, nonostante il violento impatto, l'imponente porta d'ingresso non si era chiusa del tutto.
Di Choji non c'era traccia, così come di anima viva nel lungo corridoio, illuminato da luci artificiali che man mano perdevano la loro potenza luminosa.
Il giovane allievo compì dei passi lunghi e si ricordò che ore prima Choji portava una benda all'altezza del polso sul braccio destro ma nonostante lo avesse visto di sfuggita, non rammentava che si fosse imporporata di quel rosso così acceso.
Tutte le preoccupazioni e gli interrogativi del ragazzo moro vennero bruscamente interrotti da un ascensore che nella scala accanto si chiudeva e come d'istinto, Lee pensò subito all'amico.
Si precipitò correndo verso quel rumore così fastidioso che produceva l'ascensore e vide di soppiatto il numero quattro, ma Lee era già partito alla riscossa, contando ogni piano e salendo in alto, sempre più in alto.
Quando arrivò al quarto piano si rese conto che l'ascensore stava ancora continuando ininterrottamente il suo lavoro e per questo motivo continuò la sua marcia impazzita verso il confronto, mentre le luci che illuminavano quell'ambiente così grigio, decadente e ristretto, iniziavano a spegnersi e a lampeggiare, probabilmente per la poca manutenzione o poca energia.
L'ascensore aprì le sue porte quando Lee era al settimo piano e con uno sforzo disumano si dirigeva all'ultimo, notando che non c'erano più porte di legno di abitazioni ma si era giunti al tetto del condominio, piatto e con una ringhiera bassa in ferro a circondare l'intera area.
Con ancora il fiato in gola, urlò il nome di Choji con tutta la grinta che aveva dentro di sé: quest'ultimo non si girò subito ma alla fine non poté farne a meno, quasi stupito del fatto che una persona non così amica fosse lì in quel momento.
L'entusiasmo di Lee si spense quando vide gli occhi castani dell'adolescente inumiditi dal pianto, mentre si trovava al limite della ringhiera, così come la paura che aveva provato fin dall'uscita alla palestra si tramutò in terrore quando per terra notò che i metri che lo distanziavano da lui erano cosparsi da chiazze irregolari e rosse, sempre di quella tonalità che aveva visto poc'anzi.
Fu un attimo: un urlo implorante e soffocato dalla stanchezza, un movimento fulmineo verso una direzione che Lee mai avrebbe accettato e condiviso e un volo silenzioso quanto irritante verso l'asfalto demolente, centro d'accoglienza per delle anime che non erano mai state abbastanza per il mondo, mai per loro stessi.
Lee rimase a guardare impietrito, non ancora conscio e consapevole che tutta quella drammaticità e di come avesse deciso troppo tardi di penetrare un mondo difficile che chiedeva solamente un po' più di comprensione e di bontà, piuttosto che indifferenza e screditamenti continui.
La pioggia iniziò a cadere proprio mentre la prima lacrima invase i suoi piccoli occhi scuri: era solo l'inizio di un dolore che non avrebbe mai potuto liberare per nessuna ragione al mondo, nemmeno facendo lo stesso gesto in futuro.
La sua innocenza finì definitivamente quel giorno, con un peso ad attanagliargli il cuore e una determinazione rabbiosa e nera, che gli sussurrava, da quel momento in avanti, di non concentrarsi più velocemente sulla sua serenità ma anche di quella di persone che, come lui, avevano assaporato il bullismo ma con una forza e luce diverse.

 
[992 parole]

 
 

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Capitolo 5
*** July 7th (Hinata/Neji) ***


July 7th
 
Hinata era l’unica persona sveglia, quella notte.
Senza dire niente ai servitori, alla sorella e al padre – uomo austero e becero come pochi – era andata dopo l’allenamento nei campi di riso vicini alla sua dimora per ricordare qualcosa di estremamente importante, visto che molti sembravano farlo in silenzio o non farlo direttamente da un paio d’anni.
Non voleva fare niente di particolarmente insolito o incomprensibile per chi l’avesse per caso scoperta, solamente ricordare una festa molto tipica della sua terra che con il trasferimento in terra cinese sembrava essere stata abolita dalle abitudini familiari.
Tanabata, una delle principali feste del Sol Levante, permetteva di lasciare dei pensieri affettuosi per qualche caro, dedicargli qualche poesia oppure chiedere agli dei una grazia per se stessi oppure per la sua famiglia.
Non potevano essere letti dai diretti interessanti pena il rischio di una valenza nulla, ma Hinata aveva sempre pensato agli altri per questo genere di festività.
Si era sempre dilettata nella scrittura e nel dare spazio ai sentimenti, mai aveva mancato alla parola di creare e comporre una parola gentile per chiunque, anche per chi la faceva soffrire con il solo respiro rivolto verso altri orizzonti, quelli lontani e che non c’è rimedio per avvicinarli a sé.
Non eccelleva nell’arte marziale ma faceva in modo di essere una ragazza rispettata quel poco dalla sua intera famiglia, ci provava e si impegnava per portare onore alla sua casata, anche in territorio straniero.
Ma lui non sarebbe mai stato rimpiazzato o eguagliato, tra i giovani talenti asiatici della nobile arte del Ba Gua Zhang.
Suo cugino maggiore Neji era veramente un enfant prodige di quella disciplina, non c’era storia ogni volta che venivano organizzati incontri interni o tra famiglie vicine per tastare le capacità dei pupilli.
Il giorno che Hiashi sentì parlare di un grande torneo mondiale di Ba Gua Zhang in Cina non ci aveva proprio pensato due volte: aveva preso le figlie, il nipote e un paio di servitori e si erano precipitati in una nuova avventura.
Neji era un tipo inflessibile, uno stacanovista assoluto, uno che cercava sempre di connettere anima e corpo con una tale energia che Hinata rimaneva senza fiato; così diverso da lei, irraggiungibile, quasi un miraggio, un esempio che si osservava da lontano e si capiva solo tramite supposizioni confuse e annebbiate, a tratti piuttosto contorte.
Aveva assistito con molta ammirazione ed interesse sugli spalti ad ogni incontro del suo gruppo ed era una delle poche donne del pubblico che osservava con gli occhi luccicanti di passione e affetto, quelli che testimoniano una cura e un interessamento profondo per quello che si parava davanti.
In men di quattro ore, si erano svolti tutti gli incontri ed erano rimasti solo due contendenti, un energumeno americano, possente e iracondo e Neji, che nonostante piccole imperfezioni di fondo nelle semifinali, era riuscito a tenere il controllo e a sovrastare l’avversario.
Hinata ne approfittò per andare verso i suoi spogliatoi e provare a parlargli, assicurarsi che tutto andasse per il meglio e fargli sapere che lo sosteneva ed ammirava davvero tanto.
Percorse la strada con il cuore in gola, sapendo che forse avrebbe impastato le parole e non sarebbe riuscita perfettamente a fare un discorso sensato ma in quel momento era veramente decisa a scambiare due chiacchere alla pari, in modo che Neji capisse.
La ragazza quasi inciampò una volta superato il lungo corridoio, quando ormai mancavano poche centinaia di metri alla porta dove Neji si riposava mezz’ora prima della finalissima.
Fu quello uno dei momenti dove Hinata sentì realmente il cuore fermarsi per la preoccupazione e lo sgomento, scoprendo una piccola confezione trasparente con delle pillole bianche al proprio interno, qualcosa che non le suggeriva nient’altro che illegalità e sporcizia.
Quando sentì aprirsi la porta bianca dello spogliatoio e incrociò lo sguardo del cugino, Hinata capì tutto incondizionatamente e si perse dolorosamente negli occhi chiari del ragazzo, dapprima stressati ed infelici, poi spazientiti e confusi, poi tesi, per la prima volta.
Hinata scappò in preda allo sconforto e alla delusione più totale e nonostante le grida disperate del suo più grande punto di riferimento, lontano da quella palestra di spettatori assonnati, di vicini bugiardi e di sogni frantumati totalmente sul terreno umido e secco delle lacrime che versava con dolore e disperata necessità di uscire da quel nefasto incubo in technicolor.
In realtà la figlia maggiore di Hiashi non seppe mai perfettamente come le cose andarono in seguito, sapeva solo che dopo quel mancato incontro non rivide più Neji condividere la stessa luce del cielo, respirare la sua stessa aria e camminare sulla terra ma semplicemente sotto, dove le radici degli alberi prendevano vita propria e donavano perfezione alla natura.
Il corpo di Neji non era sopravvissuto.

Hinata giunse mentre le stelle illuminavano placidamente i campi di riso ridenti e già pronti per la raccolta.
Quel luogo non era così speciale come i posti che aveva imparato a conoscere in Giappone ma era quello più vicino per ammirare una notte di tutta pace e vivere più con la natura a lei cara.
Rimase incantata e pensò che forse la mezzanotte non era ancora passata ed era ancora in tempo per celebrare il suo pensiero, in modo che gli dei la potessero osservare e miracolare per una volta.
Tra le mani stringeva un cartoncino perfettamente ritagliato, rettangolare e con un piccolo componimento celebrativo.
Vide una canna di bambù solitaria e pensò che quello fosse il luogo più adatto per lasciare lì il suo biglietto: quell’arbusto le ricordava la flessibilità e l’irrequietezza sportiva di Neji, una di quelle piante che difficilmente si spezzava al soffiar del vento e che perseverava in attesa che la vita le donasse un destino utile per il mondo.
Percepì una folata di vento e sorridendo di cuore, appoggiò candidamente il bigliettino in quel luogo apparentemente sperduto e dimenticato da tutti, specie la notte.
In realtà non sapeva se il padre sapesse che il suo pupillo prediletto si faceva di anfetamina per eliminare lo stress e il dolore accumulato da allenamenti extra, prove e gare effettive.
Dopo quel 7 Luglio Hinata aveva ragionato in silenzio e aveva cercato di elaborare un’idea tramite ricerche di conoscenza e iniziò a credere all’idea che forse quelle pastiglie non erano le uniche che Neji prendeva affinché fosse una macchina efficiente per essere l’orgoglio di famiglia.
Ma si era maledetta abbastanza per troppi rimpianti e non sapeva più realmente che pensare a riguardo, c’era solamente un mondo di spiegazioni che mai sarebbero state chiarite e comprese, forse.
La scelta del bianco non era stata casuale.
Rappresentava la sua innocenza macchiata poi dall’ignoto e della conoscenza di una vita tremenda e piena di stranezze, il colore dei loro occhi cresciute in esistenze parallele e mai incidente, il colore di quelle pillole maledette, era l’assenza di ogni cosa, la sua.
Fece un inchino di riverenza per collegare il suo spirito a quello del mondo divino, inspirò un po’ d’aria pungente e rivolgendo un sorriso dolceamaro al cartoncino, percorse la strada al contrario per tornare a casa nella sua camera, probabilmente a piangere già quattro anni di mancanze e risposte mai sentite, domande mai formulate per impulsività e paura.
Quel 7 Luglio però l’aveva portata a prendere una coscienza diversa rispetto agli altri anni, era tornata a celebrare la speranza e la voglia di credere nella vita nonostante tutto.
Quel bambù era Neji ed era Hinata allo stesso tempo: due entità con una forza e sogni differenti ma parte dello stesso sangue, pronto a scorrere nei loro obiettivi e nella loro crescita, che sarebbe diventata realmente incidente dopo la morte e una bella chiacchierata in paradiso.


«Pensieri sfuggenti
nello scorrere dei giorni
mi spaventano»
 
«Il bianco tuo dolore
esplodente come il mare
sempre ormai mi rinvigorisce»

 
«Piccola e sempre tua
gemma nascente e silenziosa
Hinata Hyuuga»

 
 

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