Pieces of Shipping.

di KH4
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Neko / Ombrello. ***
Capitolo 2: *** Hand / White Day. ***
Capitolo 3: *** Foto / Demons. ***
Capitolo 4: *** Bite / Responsabilità. ***
Capitolo 5: *** Gift. ***



Capitolo 1
*** Neko / Ombrello. ***




Neko.
 
“Che diavolo hai combinato?”
Doveva essere una giornata normale, la sua. Probabilmente con un concetto della suddetta normalità differente da quella umanamente concepita, ma comunque una giornata all’insegna di una quotidianità che non l’avrebbe sbattuto a terra con la coscienza a chiedersi perché mai, fra tutti gli esseri esistenti nell’Universo, lui fosse sempre fonte di indiscusso interesse per qualsiasi nefasta novità d’origine apocalittica. Pace. A volte sembrava per davvero che chiederla implicasse preghiere ultraterrene, pazienza infinita e complicanze riguardanti catastrofi che, puntualmente, convergevano sulla luce nascosta in fondo allo stesso buco dentro cui si era precipitati, ma Reginald Kastle non si era mai permesso di ambire a tanta perfezione. A lui piaceva la semplicità, cose di giorni tediosi che alla fine te ne facevano apprezzare la tranquillità: sfrecciare a tutta velocità fra le strade di Heartland City alle prime luci dell’alba, godersi un pranzo scandito da voci divenute parti integranti della sua vita o divertirsi con qualche duello per evitare l’impigrirsi delle abilità. Evidentemente chiedeva troppo anche in quel contesto.
“Vuoi spiegarmi?” Il leader dei Bariani si voltò furente verso la gemella, quasi rischiando di infilzarsi il palmo con le unghie e frantumarsi i denti per il troppo serrarli.
“Mi serviva una cavia per il mio esperimento” Rio si scostò un ciuffo oltremare dagli occhi screziati di rosa, sospirando tranquillamente “Avrei preferito continuare a esercitarmi sugli oggetti inanimati, ma mi stava facendo impazzire.”
“E tanto per sapere, che pensavi di ottenere?”
“Niente di quello che ti sta facendo consumare gli occhi per la gelosia”, proseguì l’Imperatrice del Ghiaccio, dopo aver incrociato le braccia dietro la schiena senza dar peso all’aura trucidante che traboccava dal fratello “Non ti capita mai di sbagliare?”
“No, affatto! E non in maniera tanto devastante!” Almeno così le avrebbe detto se la sua coscienza non gli avesse ricordato tutti i precedenti commessi, le sottomissioni a poteri nocivi e i tradimenti che lo qualificavano come la persona meno adatta a rimproverare gli errori altrui. Il cielo solo immaginava cosa fosse passato per la mente della sorella al voler testare i suoi poteri su Vector, personaggio di discutibile salute psicologica che minava qualsiasi concentrazione e serenità emotiva semplicemente esistendo, e se in un primo momento Rio Kastle si era lasciata influenzare dal miscuglio di rabbia e paura che ne aveva fatto muovere le mani in avanti appena un paio di giorni addietro, adesso ne ammirava l’effetto insperato dispiegarsi in tutta la sua atroce spontaneità, con giusto il perverso desiderio di dargli un’ulteriore spintarella per far così capitolare definitivamente la stoica facciata del fratello. Da dietro l’algida compostezza, ne osservava il faticoso tentativo di non esplodere in mezzo alla strada, l’indifferenza sgretolarsi sotto quello spettacolo inguardabile che minacciava di farlo trasformare davanti a ignari passanti e scatenare il panico assoluto. E in tutto ciò, Shark sapeva – oh, se sapeva! – che lei ci stava godendo da matti, ma il problema non era tanto il rimpicciolimento di Vector a un moccioso di sei anni momentaneamente privato della sua memoria, o l’averlo dotarlo di orecchie e coda feline perché, nel mentre Rio procedeva con l’incantesimo, un tenero micio aveva avuto l’ardire di strusciarsi contro la sua gamba; IL PROBLEMA – e fu sua premura scolpirselo nel cervello – era che quella faina travestita da finto cerbiatto abbandonato dalla mamma, tra tutte le persone presenti, fosse andato dritto da Yuna e si stesse facendo coccolare e carezzare come un bambino viziato!
“Come sei carino!” Una frase che scaraventò sulla testa di Shark pentolate di desolazione tutta indirizzata al suo orgoglio.
Le manine paffute di quella subdola miniaturizzazione stringevano la maglia della ragazza cercando di tenere su di sé la sua attenzione, la testolina a strusciare contro il suo seno, staccandosi giusto per compiere qualche piccolo starnuto che subito gli sporcava il nasino.
Guarda come se la gode…” Non desiderare di guardare lo obbligava a protrarre quell’auto tortura masochista che lo colpì immediatamente con un nuovo gancio allo stomaco: un enorme cane era appena passato di fianco alla panchina di Yuna, spaventando Vector con abbaio forte al punto da ingrandirne gli occhi lucidi di lacrime.
“No, sta tranquillo: va tutto bene, ci sono io.” Altra frase dal peso innominabile che aggiunse un consistente surplus di agonia per l’aver colto la ragazza regalare un bacio al bambino, oltre ad accarezzarne la soffice chioma all’insù.
Non era geloso, no! Figurarsi se poteva perdere le staffe per qualcosa che nemmeno aveva una base logica sopra cui costruire la sua impalcatura. Soltanto era ripugnante constatare che la stupidità di Yuna – d’accordo, l’eccessiva bontà d’animo che tutto perdonava a prescindere dalla gravità della colpa –passasse sopra qualunque trama ordita da quel maniaco psicopatico a cui avrebbe tanto volentieri sfondato il fondo schiena a furia di calci, se non si fosse staccato da lei entro dieci secondi. Gelosia e preoccupazione non stavano sullo stesso piano e lui non aveva ragioni di essere invidioso perché non era affatto infatuato della sua migliore amica, ma con tutti i guai che si tirava inconsciamente addosso, qualcuno doveva pur prendersi cura di lei - e un altro paio di millisecondi spesi a sorbirsi il sorriso ebete di quel finto tonto, lo avrebbero seriamente costretto a toccare l’unico reato che ancora mancava alla sua già fiorente fedina penale: l’omicidio. -
“Sai, penso che risolveresti tutti i tuoi problemi se, invece di mangiarti il fegato, provassi a uscire dal tuo guscio”, gli suggerì la sorella “Magari potrei aiutarti rimpicciolendoti. Scommetto che, sotto sotto, muori dalla voglia di essere al posto di Vector: farti cullare da Yuna-chan, imboccare, dormire nel suo stesso letto…Ti ho già detto che stasera faranno il bagnetto insieme?”
“Io non…CHE HAI DETTO?!?!?”




Ombrello.
 
“Uffa…Ma che fine ha fatto?”
Yuna stava cominciando a spazientirsi. Gli occhi di vetro rosso cercavano insistentemente qualcosa che le mani aveva tentato di ritrovare invano mentre, lentamente, l’umidità le arricciava le code inchiostrate di nero e scarlatto. Il profumo della pioggia scrosciante bagnava l’erba e le finestre con gocce informi, di liquide dimensioni che, sempre di più, preoccupavano la povera duellante intenta a rovistare nel portaombrelli semivuoto. Un ritorno a casa senza ombrello significava un ritorno sotto la pioggia o, peggio ancora, in treno, ma treno significava caos e caos, a sua volta, significava ubriaconi a cui bastava adocchiare una gonna troppo corta per provarci senza ritegno. Al solo pensarci, affondò le mani nell’enorme cilindro di plastica nera già perquisito tre volte, determinata a riavere indietro il suo ombrello anche qualora fosse finito in una dimensione parallela alla sua, meta di tutti gli oggetti che, di punto in bianco, decidevano di non farsi più trovare dai legittimi padroni. Non lo aveva dimenticato, non quella volta, e per scrupolo era venuta all’intervallo per controllare che ci fosse, ma da una buona mezzora continuava a rovistare col solo risultato di infradiciarsi le mani. Del suo ombrello non c’era nemmeno l’ombra.
Rubato. Non poteva esserci altra spiegazione dopo aver passato in rassegna tutte le aule frequentate quel giorno, la palestra e i corridoi, perché era inconcepibile che con un acquazzone del genere fosse uscita di casa dimenticandoselo.
“E ti pareva che, fra tutti gli ombrelli, dovessero prendere il…YIKES!!!” Un dito le scorrette lungo la schiena e in un attimo schizzò in aria atterrando dritta sul portaombrelli.
“Konnichiwa, Yuni-chan!*” La salutò una testolina a punta arancione dagli occhietti vispi.
“Vector, insomma! Potresti anche avvertire quando arrivi di soppiatto!” Yuna emerse, sepolta per metà dalla montagna di ombrelli asciutti e bagnati finitile addosso, la mano destra ancora artigliata al petto dove il cuore si dibatteva per uscire dalla cassa toracica. “Come mai sei ancora qua?”
“Aspettavo te, che domande!” Squittì il ragazzo “Dov’è il tuo ombrello?”
“E’ quello che vorrei sapere.” Si batté le mani sulla divisa inumidita un paio di volte, dopodiché cominciò a rimettere a posto il disordine creato “L’ho portato, ne sono sicura, ma non riesco più a trovarlo. Mi sa che qualcuno me l’ha rubato.”
“E che problema c’è? Prendi uno di quelli”, buttò lì lui.
“Sarebbe rubare”, gli fece notare contrariata.
“Allora sei fortunata ad avermi al tuo servizio! Et voilà!” La mano di Vector sfilò dalla cartella un ombrellino nero nuovo di zecca.
“Vogliamo andare?” Le domandò infine, porgendole galantemente il braccio.
Ma…Non è troppo piccolo per due persone?” A suo giudizio, era piuttosto improbabile che un così minuscolo ombrello avrebbe potuto offrire riparo a entrambi “Dovremmo stare appiccicati…”
“L’ho preso apposta per quello, che credi?”
Si ritrovarono sotto l’acquazzone ancor prima che Yuna esprimesse un minimo di remissività per come Vector la cinse saldamente a sé. L’asfalto fumava vapore, con la pioggia zampillante in rivoli fattisi fiumicelli e cascate. Il tessuto leggero dell’ombrellino minacciava di cedere da un momento all’altro, ingobbito e pronto a staccarsi dallo scheletro di metallo sottile, ma il contrasto con la sua pelle infreddolita e il palmo bollente che l’avvolgeva appena sotto le spalle non dava spazio ad altro se non al suo stesso silente effetto, di carattere dominante. Il braccio di Vector la costringeva a pigiare le sue al petto, imprigionandogliele in una morsa attua a tenerla lontana da qualsiasi schizzo. Alla fine l’Imperatore Infido ce l’aveva fatta, ma non era qualcosa di cui avesse dubitato la riuscita, dato il soggetto e il grado dell’impresa; perlopiù, dovette impegnarsi principalmente per fare finta di non essersi accorto del piacevole rossore cosparsosi sulle guance della ragazza, nascoste fra i capelli gonfi di boccoli dove perline d’acqua creavano collanine trasparenti fra le ondulatore piene di riflessi. Giocare con la sua ingenuità non dava mai limite alla sua creatività, le sensazioni scaturite dal successo si disperdevano in un crogiolo di piacere incapace di fermarsi alla prima ondata.
“Domani me lo porto in classe, giuro”, la sentì ripromettersi, ma se anche avesse deciso di legarselo alla schiena, a lui sarebbe bastata una delle sue tante piccole distrazioni per far fare all’ombrello di domani la stessa fine di quello di oggi – gettato abilmente in un cassonetto a due isolati dalla scuola -. Tutto per vederne ancora una volta quel tenero musino girare a vuoto e le iridi scarlatte piene di confusione saettare da una parte all’altra.




Note fine capitolo.
1*) Buon pomeriggio.
E di nuovo sono qua. Temo di essermi presa un’intossicazione per questo fandom perché non riesco a smettere (seriamente, qualcuno venga a fermarmi!). Sono qui immersa dallo studio e da impegni che richiedono la massima concentrazione e io finisco per pubblicare una nuova raccolta che non so quando aggiornerò. L’idea era di fare un solo capitolo con un tot di questi frammenti, ma poi ho pensato di riprendere la base strutturale di Bonds giusto per avere l’imput a finire gli altri frammenti già in cantiere (il più è già fatto) e infine rieccomi qui, sempre e rigorosamente Gender e Bender, ma intenta a far patire a questi ragazzi tante pene, ma tante! Per la prima volta ho cercato di essere semplice, perché chi avrà letto i miei lavori precedenti, soprattutto “When the silence falls”, sa che io adoro complicarmi l’esistenza. In cuor mio, spero non ci siano errori di battitura: alcune storie saranno più leggere di altre, ma ciascuna coppia avrà il giusto riconoscimento, dovrete solo leggere, pazientare e farmi sapere cosa ne pensate ^^. Recensite in numerosi, a presto!
 

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Capitolo 2
*** Hand / White Day. ***




Hand.
 
“Molla la presa!”
Non sapeva in che altro modo dirglielo, ordinarglielo, anche se doveva considerare un miracolo il solo fatto che riuscisse a fare altro oltre che a respirare. Metà piattaforma penzolava da un’altezza che riempiva l’aria di grida spaventate e frasi ripetitive, il cemento sfrigolava al singhiozzare dei cavi elettrici, liberi di muovere convulsamente le saettanti teste. Il cigolio dell’acciaio piegatosi d’innanzi a un peso che da solo non poteva più reggere, falciava il tempo d’azione man mano che il sostegno rimasto si frastagliava di reticolati crepati sempre più larghi. Lo scoppio era stato potente, voluto, ma andato oltre le premesse, tuttavia a Shark non sarebbe importato di lasciarsi precipitare insieme ai detriti che sicuramente lo avrebbero infilzato e seppellito. Lo aveva fatto, ancora, superando un confine che si apprestava a punirlo in modo definitivo ed esserne consapevole non gli avrebbe garantito alcun indulto. Il febbricitare della mente e la paralisi d’ogni fascio muscolare – anche quello più insignificante - lo rendevano un pendolo d’acciaio che la gravità sentiva l’obbligo di frantumare prima che i soccorsi ritenessero opportuno aiutarlo; se fosse stato capace di muovere un qualsiasi altro muscolo al di fuori della bocca, avrebbe messo fine a quell’attesa da sé, com’era giusto che fosse. Ma poi quella voce lo aveva risvegliato, con boccheggio smorzato, da quel sonno costellato di luci oscure e fascinanti veli tenebrosi, la nebbia circostante dissipatasi perché riconoscesse gradualmente la figurina sporta verso di lui, il braccio teso in avanti e la mano stretta al suo polso per tenerlo sospeso a mezz’aria. L’ossigeno pompò nei suoi polmoni pizzicandone le pareti trasparenti mentre tutto intorno si degradava un pezzo alla volta, minando quell’ultimo appiglio di artificiale stabilità che poco prima era stato il palcoscenico del loro duello. Era lì, imbrattata della violenza che le aveva scaricato addosso senza tener conto delle sue parole, accecato da un potere covato dal suo rancore assopito. Non poteva tirarlo su, la sua mano stava già facendo l’impossibile soltanto per serrare un polso due volte più grande del suo, le esili dita a impedirgli di precipitare in mezzo a un mare di macerie appuntite. Tenerlo in bilico era tutto ciò che poteva fare per scongiurare il peggio, in attesa di soccorsi che sembravano non aver preso nota della gravità della situazione. Lo Squalo non osò immaginare da quanto tempo resistesse, ma trasalì al percepire una sottile scia liquida solleticargli la pelle: il braccio di Yuna assomigliava a una tela ambrata, dove un numero considerevole di tagli rossastri si era accumulato con aspetto deturpante. Da sotto il gilè che le copriva appena la spalla, intravide un alone scuro da cui colava quella striscia di sangue dalle diramazioni sempre più consistenti.
“Non ce la puoi fare a reggerci entrambi! Tirati su e scendi prima che crolli tutto, va bene così!” A parlare fu l’ansia mascherata da ragione, ma lei non lo ascoltò ne cedette al dolore che ne comprimeva il viso sempre più sofferente.
Sì, era davvero andato oltre, stavolta. Credendo di avere il controllo non si era accorto di essersi lasciato plasmare e trasformare in un pupazzetto riempito d’energia, che subito l’aveva castigato per non l’aver eseguito il compito richiesto. L’illusione di poter restituire il male inferto a sua sorella si era scoperta una recita orchestrata al solo fine di utilizzarlo come pedina in un piano di maligna specificità, un tassello qualunque manovrato dalla sua stessa sete di vendetta. Se ne era lasciato cullare, gradualmente ossessionare sino a non vedere null’altro che le fiamme serpentine colpevoli dell’incoscienza di Rio, il sorriso maligno del Marionettista in fondo al baratro di follia dentro cui si era lanciato senza immaginare di essere già stato consumato per metà, diventato come l’avversario. La sola colpa di Yuna era di aver scorto qualcosa che per gli altri non esisteva, che aveva personalmente cancellato poiché inconciliabile con le macchie che ne infangavano l’orgoglio: una persona in cui credere.
Il cedimento di un pilastro sottostante la piattaforma fece ondeggiare il pezzo pendente con maggiore oscillazione. La corvina tossì al picchiare duramente il busto contro la parete verticale, sporgendosi con metà corpo rivolto al vuoto e l’altra mano artigliata a una stretta fenditura.
“Stupida! Così cadrai anche tu!” Il controllo scemò del tutto, la frustrazione mescolata alla preoccupazione incalzante fecero traboccare quelle parole impregnate quasi più della prima sensazione che della seconda “Ti ho detto che va…!”
“Vuoi davvero discutere se vada bene o no lasciarti andare?!? IDIOTA!!!” Per la prima volta, sentì la sua voce tingersi di rabbia, esplodergli in faccia e lasciarlo attonito “Ti piacerebbe che ti odiassi, che credessi che sei come pensi di essere e che non cambierai mai, sarebbe più facile, ma la verità è che hai paura!”
Cosa centrava lei? Perché aveva permesso che finisse in mezzo a qualcosa che non la riguardava? Se l’era ritrovava a fianco di punto in bianco, vicino, senza aspettare che imboccasse sentieri oscuri per strappargli l’animo dalla grigia apatia. A una volta si era succeduta un’altra e un’altra ancora, finché, dallo stesso pertugio lasciatole involontariamente aperto, si era insinuato un soffuso calore umano, un innaturale affetto che ne aveva risvegliato il desiderio di sentirsi meritato dagli altri. Da lei, più di tutti.
“E’ tutto spaventoso quando non fai altro che camminare nel buio e non sai dove andare, ma sono tua amica, Shark. Lo sarò sempre, ci tengo a te…” Il suo flebile mormorare lo raggiunse, benché, attorno, lo spezzarsi di più rumori si accavallasse ripetutamente per soprassedere a qualunque altro suono. “Puoi anche non considerarmi tale, cacciarmi tutte le volte che ti verrà voglia e anche tentare di tagliarmi la testa, se ti va! Tanto io continuerò a preoccuparmi per te, quindi farai bene ad accettare l’evidenza e metterti l’anima in pace, perché a costo di inculcarti in quella zucca che non sarai mai più solo, verrò lì sotto a picchiarti finché non svieni!!!”
Avrebbe voluto divincolarsi, fare quello che lei si ostinava a respingere; ha sbagliato troppe volte, ceduto al peggio di sé oltre ogni limite consentito per credere di poter ingoiare come se nulla fosse il disgusto per la propria immagine, ma fu l’amaro scesogli in gola per l’assurdo volere che Yuna non lo abbandonasse e il sapere che mai sarebbe successo, a ripugnarlo e a farlo desistere dal rifugiarsi nella piccola bolla calda priva di rimpianti che lei gli aveva generosamente regalato. Forse, più avanti, avrebbe smesso di mentirsi sul perché non riuscisse a liberarsi della sua goffa presenza, ce l’avrebbe fatta a tranciare le inutili barricate di orgogliosa accozzaglia accatastatesi attorno ai sorrisi che voleva rivolgerle. Allora avrebbe stretto quella mano che aveva tanto a cuore la sua incolumità trasmettendole quel che a parole non sarebbe riuscito a dirle.




White Day.
 
L’orologio incastonato in cima al lampione segnò le sei e un minuto, con il cielo sporco di un grigiore fuligginoso a turbinare verso ovest. Il giorno preferito dalle ragazze, dopo San Valentino, stava per concludersi, l’unica occasione in tutto l’anno dov’erano i ragazzi a dover dimostrare i loro sentimenti con gesti e parole concentrati in regali. Imbacuccata per benino nel suo caldo giaccone, la testolina di Yuna sporgeva appena da dietro un enorme sacchetto pieno di scatoline colorate, peluche infiocchettati e dolciumi tutti rigorosamente a base di cioccolato bianco. Il quattordici di Marzo non era stato denominato White Day per un motivo qualunque, il bianco era d’obbligo quanto il rosso durante il quattordici di Febbraio, ma come per molte altre cose inerenti al mondo femminile, la corvina non era riuscita a immedesimarsi nella frenesia che aveva posseduto le sue compagne all’idea di poter ricevere un regalo da qualche ammiratore o dal ragazzo amato.
“Pesca grossa quest’anno, eh, Tori-chan?” Ridacchiò lei, ammiccando al sacchetto che reggeva fra le mani e che, ovviamente, non era suo.
“Non me ne parlare: in queste buste ci saranno almeno cinque chili di cioccolato”, sospirò l’amica “Sarebbe un peccato buttarlo, ma non ho proprio idea di come smerciarlo…”
“Provare a mangiarlo?” Suggerì la duellante.
“Sei matta?!? Dovrei rinchiudermi a vita in palestra per smaltire tutta questa roba!” Sbottò quella.
“Era solo un’idea…” Yuna roteò gli occhi all’insù, ricordandosi che mettere Tori e Cibo nello stesso discorso fosse più pericoloso che introdurre la mano in una tana di serpenti a sonagli.
Un'altra stranezza di quel mondo a cui apparteneva e che al tempo stesso la vedeva messa al confine: il Peso. Tendeva a dimenticare troppo spesso quanto l’amica la detestasse per l’ingurgitare quintali di cibarie senza che il suo fisico asciutto oltre ogni umana giustizia ne risentisse e come provava a dirle che anche lei avrebbe potuto permettersi di mangiare qualsiasi cosa desiderasse semplicemente muovendosi un po’ di più, ecco che la tempesta si alzava e lei doveva correre ai ripari prima di finire prigioniera in chissà quale filantropica lamentela. Se fossero stati regalati a lei cinque chili di cioccolato bianco li avrebbe mangiati senza tanti crucci, ma tutti quei dolcetti ben stipati in graziose confezioni variopinte appartenevano a Tori e non si sarebbe mai permessa a chiederne un po’: un dono rimaneva pur sempre un dono, fatto col cuore, voleva sperare, e la gran parte di quei pacchetti e peluche era da parte di Arito e nessuno, men che meno lei, avrebbe dubitato del sincero affetto che lo legava all’amica – anche se quelle due buste non si potevano paragonare ai bastioni di doni recapitati a Rio dal 99% degli studenti, che ne elogiavano i passi come fosse stata un regina in terra e quasi avevano scatenato una rissa su chi dovesse essere il primo a darle il suo presente -. Quanto a lei, non aveva mai dovuto preoccuparsi che qualcuno si picchiasse per la sua attenzione o che passasse giorni interi a scegliere il miglior cioccolato per far colpo: nemmeno rientrava nella top twenty delle studentesse più in vista della scuola e per rigore di logica, agli sgorbietti non andavano nemmeno le briciole. Lo sapeva da sé di non essere quel tipo di ragazza a cui i maschi andavano dietro – leggiadra e incantevole - o di essere fonte d’interesse per qualcuno che la considerasse più di un’amica o, ancora, la guardasse di sottecchi anche solo per mezzo secondo, ma tanta invisibilità non l’aveva mai sfiorata con l’intenzione di ferirla indelebilmente. Ogni cosa ha bisogno del suo tempo per sbocciare, Sweetheart. Il tuo arriverà quando meno te lo aspetterai, soleva ripeterle sempre Obaa-chan. E se era lei a dirlo, non c’era motivo per dubitare del contrario.
“Tadaima!*” Accompagnata Tori, Yuna si era diretta a casa, ricordandosi all’ultimo minuto che la nonna era fuori città e che Onee-san sarebbe rientrata tardi.
Si incamminò verso l’attico dopo aver lasciato la cartella sul divano. Stranamente, quel giorno, Vector non si era presentato alle lezioni, né si era premurato di dare sue notizie. La cosa non l’aveva preoccupata, capitava che il ragazzo bigiasse per ragioni personali, ma il fatto che quel suo sorriso furbesco le fosse balenato in testa alle stessa velocità di uno schiocco di dita, la impensierì.
“Uh? Cos’è?” Nell’aria del corridoio si era levato un insolito profumo di fiori. Di Rose, se avesse dovuto azzardare un’ipotesi, e proveniva proprio dall’attico, dove, una volta salita la scaletta, avvampò al punto da perdere quasi i sensi e finire a testa in giù: l’intera stanza era stata svuotata di tutti gli artefatti collezionati da Tou-san e rimpiazzati da un triliardo di foto di Vector, che ne tappezzavano ogni centimetro col corpo immortalato in pose nude al limite dell’indecenza e spedirono il cuore della ragazza fra le braccia di un’aritmia incontrollabile per come quelle le ammiccassero sensualmente. Sulle condizioni dell’amaca avrebbe preferito sorvolare, per pietà dell’altra metà di se stessa che non era morta sul colpo allo scoprire la sorpresa: su di essa – imbottita di cuscini con sopra stampata la faccia del ragazzo, cuori di cioccolato bianco e nastrini di un tenue celeste – era stata appesa un’integrale gigantografia del suddetto che la guardava come se volesse mangiarla viva. Fra i denti della candida chiostra teneva una rosa bianca, lo stesso tipo di rosa che ricopriva il pavimento con un centinaio e passa di gemelle.
“Che...Che…Che…!” Andò in iperventilazione con le corde vocali a ripetere la stessa parola, la pelle a fumare vapore e colorata di un lucido rosso peperone sempre più bollente. Doveva uscire da lì prima di rimetterci i pochi brandelli di sanità mentale rimastile, calmarsi, prendere un sacco – un enorme sacco – e liberarsi di tutta quella roba prima che qualcuno ne scoprisse l’esistenza – almeno delle foto, fiori e cioccolatini li avrebbe sistemati in un’altra maniera -. La confusione regnava senza che riuscisse a pensare con un minimo di razionalità, tutto quel bianco era…Destabilizzante, da shock accecante. E il conoscere l’artefice avrebbe dovuto ragguagliarla su come soltanto lui potesse farle lacrimare gli occhi per la disperazione. Vide la lettera sul suo comodino in un attimo di lucidità e passò un buon quarto d’ora a fissarla, combattuta fra l’aprirla o il lasciarla dov’era per chiedersi se quella sorta di pseudo-umano fosse nei paraggi, magari mimetizzato fra le sue tante foto, perché almeno – forse - le avrebbe impedito di collassare al suolo come successe, per quel paio di paroline apparentemente innocue e il succinto completino di candido pizzo sfilato con tremore incontrollabile dalla scatolina non notata in un primo momento.
 
Un meraviglioso White Day alla più dolce delle mie conquiste!
Sto scherzando, è ovvio che tu sia la mia preferita e qualora volesse ringraziarmi adeguatamente per l’omaggio,
accetterò soltanto pagamenti in natura!




 
Note di fine capitolo.
1*): Sono tornata!
Buon lunedì a tutti! In anticipo sui tempi che mi ero prestabilita, eccomi di nuovo qui, sperando di far piacere ai lettori. Le misure qui iniziano a essere più lunghe, ma credetemi, è difficile per una come me comprimere in una paginetta quello che riesco a esprimere solo usando venti pagine. Poi, sto seriamente pensando di rendere più lunga questa raccolta, inserendo una seconda parte con altre due coppie: la Keyshipping e Photonshipping, sempre con quattro capitoli, per rendere la competizione – se così la si può chiamare, più agguerrita. La prima coppia, perché sono di un tenero inimmaginabile, la seconda per sperimentare qualche romantica ideuzza. La cosa è ancora in fase di progetto, non sono sicura se applicare questa estensione o meno, perché dopo questo aggiornamento è probabile – non detto – che possa impiegarci più tempo a pubblicare (per i soliti motivi che non sto a elencare), ma intanto proseguiamo con le due coppie principali, che sto cercando di sviscerare al meglio delle mie possibilità creative (inutile dire che qui, la White Day è stata volutamente resa Negative per tutta una serie di ragioni che vedono Vector l’unico essere al mondo capace di ordire un regalo simile per Yuna-chan. E anche perché confido che tra le file di questo fandom, qualcuno abbia sempre desiderato un suo servizio fotografico con pose integrali capeggiate da quel suo faccino da schiaffi che tanto si ama e odia). Ringrazio la dolcissima DreamAngel24 per aver recensito la mia operetta e per darmi, come sempre un supporto che farebbe resuscitare l’autostima di un morto vivente. Spero moltissimo di ricevere le vostre opinioni, giusto anche per sapere quale coppia vi piace di più in queste mini situazioni. Mi auguro che come al solito non ci siano errori, nel caso, rileggendo più avanti, provvederò a correggere eventuali sbagli. Un bacione a tutte/i quanti!
 

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Capitolo 3
*** Foto / Demons. ***




Foto.
 
“Reginald Kastle! Dimmi subito dove l’hai messa!”
Il bollitore del tè aveva appena smesso di fischiare quando i cardini della porta minacciarono di rompere il vetro della finestra e Rio Kastle fece irruzione nella stanza del fratello, troneggiandogli di fronte in piena modalità da combattimento, agguerrita di tutta l’audacia che metteva da parte la pazienza per un fine superiore a qualsiasi altra priorità, le braccia conserte e la bocca al sapore di fragola pronta a declamare colpevolezza su tutti i fronti.
“Dove ho messo cosa?” Il ragazzo non la degnò d’attenzione, concentrato su un lavoro al computer.
“La foto! Cos’altro, sennò?!?” La gemella gli puntò contro il dito, certa che lui sapesse di cosa stessero discutendo “Quella che era insieme alle altre e che hai distrutto senza spiegarmi il perché!”
“Non è così difficile capirlo”, mormorò Shark, concedendole un’occhiata alquanto infastidita mentre si massaggiava le spalle “Erano ridicole e comunque non ho la minima idea a quale tu ti riferisca.”
Non si era mai preso la briga di curare un’immagine di dignitoso rispetto o di interessarsi alle frivolezze che invece Rio condiva con ingredienti piccanti e zuccherini. Il suo concetto di privacy prediligeva silenzi e una distanza minima di due metri da qualunque persona provasse a interagire con lui, una bolla che la gemella – privilegiata - puntualmente invadeva e faceva scoppiare con un concetto tutto suo di quiete interiore: scoprire che lui, suo fratello, l’incarnazione dell’asocialità per eccellenza, nutrisse dell’affetto riguardoso per un essere umano che non fosse lei, l’aveva quasi indotta a credere che quello non fosse il mondo reale, ma una qualche dimensione onirica dentro cui era finita incastrata senza volerlo, convinzione smentita dal tastare personalmente quella verità con occhi di languido piacere. Non sarebbe stata una buona sorella se non avesse ricorso alla più sottile e affine delle manipolazioni psicologiche per smuoverlo dal suo ridicolo stoicismo, Reginald possedeva un cuore come chiunque altro. Soltanto chiuso in più casseforti a tripla mandata che ne storpiavano la capacità di contraccambiare la gentilezza in manifestazioni filamentose e criptiche.
“Davvero? E’ piuttosto strano.” Fintamente stupita, ritornò alla carica con l’indice impegnato a rigirarsi una ciocca azzurrina “Perché sai, le ho ricontate cinque volte e non c’è dubbio che ne manchi una. Casualmente poi, è una foto che ritrae Yuna-chan.”
“Tu lavori troppo di fantasia”, declamò il ragazzo “Che differenza dovrebbe fare poi?”
“Oh, non molta a dire la verità” Rio roteò gli occhi all’insù e ondeggiò sulle punte avanti e indietro come fosse stata una bambina in attesa “Però Yuna-chan era venuta così bene in quella foto, durante il pigiama party, che ci tenevo tanto a pubblicarla. Per i suoi ammiratori, sai”, specificò maligna “Sta diventando sempre più carina.”
“E sentiamo: perché sei così sicura che manchi proprio quella foto?” Anni e anni di dispute avevano insegnato al maggiore a modulare la voce anche quando l’argomento valicava i confini della diplomazia e si gettava a capofitto nell’esasperazione.
“Te l’ho detto: le ho contate”, gli ripeté la ragazza, tirandogli per dispetto una ciocca violacea “Ho passato tutta la notte a rimontarle ed è l’unica che manca.”
“E’ preoccupante che tu perda ore di sonno per ricomporre delle stupide foto, dovresti trovarti hobby più costruttivi”, le suggerì il fratello.
“Quello che faccio non deve interessarti ed è inutile che tu faccia finta di niente: sappi che la farò saltare fuori, quella foto!” E giurato ciò, Riò girò sui suoi tacchi e uscì dalla stanza marciando con passo calcato.
“Che seccatura…” Lo Squalo dovette aspettare un quarto d’ora abbondante prima di essere sicuro che la sorella si fosse chiusa in camera a mugugnare indispettita per lo smacco ricevuto, ma non era nella natura dei Kastle darla vinta a qualcuno, tanto meno ai parenti stretti. Concessosi una manciata di secondi per stropicciarsi le palpebre, si accoccolò meglio alla sedia, sfilando dalla tasca interna della giacca un piccolo riquadro di carta colorata. Eccola lì, la foto tanto cercata. Un perfetto primo piano di Yuna, adagiata fra una cascata di lenzuola candide mentre dormiva raggomitolata con le labbra puntellate da granelli di zucchero, le guance imporporate e i capelli sbarazzini sparpagliati avanti e indietro alle spalle, con le lunghe ciglia nere a coronarne la serenità e i pugni molli accostati vicino al viso; una leggera vestaglia dalle sottili spalline sottolineava l’esilità del suo fisico e quelle sempre più accentuate rotondità al seno che lo stesso rosa confetto del completo - un’evidente imposizione da parte della gemella -  mettevano in risalto assieme le gambe scoperte che l’orlo del completo arrivava spudoratamente a coprire poco al dì sotto dell’inguine. Poteva succedere l’indicibile se quelle foto fossero state pubblicate – se quella foto, in particolare, fosse finita nelle mani di un pazzo psicopatico di dubbia redenzione - e anche senza immaginarsi quale morbo schizofrenico oliasse gli enigmatici ingranaggi mentali di sua sorella, aveva agito col solo scopo di scongiurare scomode quanto funeste inconvenienze nel caso la vista di quel corpicino inerme che urlava “molestami, molestami!” fosse stato reso noto. Il caso l’aveva spinto in cucina qualche giorno addietro, il buon senso a distruggere le foto adocchiate sul tavolo, i negativi e qualsiasi altra copia messa sotto chiave, ma al momento di terminare l’opera si era lasciato manovrare dalla debolezza che camminava sempre di mezzo passo dietro all’orgoglio e il sangue gli era colato dal naso senza il dolore a fare d’allarme. L’unica maniera per non uscire smembrato dal continuo collidere di evidenza emotiva e pensieri contrapposti, era stato quello di ammettere gradualmente che l’amorevolezza di Yuna lo faceva stare bene, che il suo comprendere senza che vi fossero parole, solo gesti, gli permetteva di accettarsi senza rimorsi irrisolti e che tutte le occasioni avute per farle capire come si sentisse, le aveva sprecate in nome di sotterfugi volti a ridarle sicurezza o di timori interiori alla fine scarnificati dalla suddetta. Ma pur lasciando spazio all’ovvietà, la sua frustrazione non mancava di crogiolarsi per l’ancora incompiuta dichiarazione e la vista di quella pelle caramellata ampiamente scoperta sia sul collo che l’addome – per non parlare della totale vulnerabilità con cui era stata immortalata -, non lo aiutavano a controllare l’eccessiva sensibilità schizzata a livelli divini per colpa di Rio e dei romanzetti rosa da cui traeva puntualmente ispirazione, alimentanti pensieri che di casto avevano solo il pizzo del completo indossato da Yuna e che lo opprimevano con la tacita supplica di liberarsi da qualunque cruccio mentale che gli impediva perfino di abbracciarla.
“Accidenti a lei e alle sue congetture!” Potesse lasciar correre come se ciò non sortisse un preciso effetto, avrebbe ignorato il malefico complottare di sua sorella e sminuzzato la foto soltanto per evitare una figura imbarazzante a un’amica di disastrosa ingenuità, ma ignorando il bollore del flusso ematico salitogli alle guance, prossimo a uscirgli dal naso, Shark si limitò a rimettere l’oggetto rubato in tasca cercando di non farsi condizionare ulteriormente dall’adorabilità trasudante da quel singolo pezzo di carta auto-consacrato a reliquia proibita e dalla ineffabile consapevolezza che Rio non sputava mai sentenze senza una rilevante base veritiera.




Demons.
 
“Vi piacerà, vostra altezza! Vi piacerà sicuramente!”
Il mercante di schiavi sogghignò con le mani sudate a sfregarsi i palmi a vicenda e la gola a deglutire ansimi accelerati. Il Principe Demone non era affatto soddisfatto di quanto gli aveva mostrato, la sua merce era stata soltanto capace di suscitare una sempre più vacua noia nelle atone ametiste regali e, a protezione dell’enorme porta, le Guardie di Ferro esprimevano lo sgocciolare del tempo stringendo le mani meccaniche attorno alle lance, riproducendo un angosciante scricchiolio osseo. Amore e misericordia non muovevano il guanto dorato che premeva contro la guancia lattea: solo timore reverenziale, una striscia di effimera condiscendenza che imponeva obbedienza, prosperità a regole ferree e atroci conseguenze per il minimo cenno di tradimento.
“E’ uno dei miei pezzi più preziosi! Molto particolare! Molto raro!” Insistette l’uomo, avvicinandosi al portone e gesticolando con le maniche della tunica davanti al piccolo pertugio. La presenza di quei bestioni ne faceva sudare la pelle scura, costringendolo a deglutire groppi di saliva su groppi “Un mezzo demone!” Esclamò affannato.
Era la sua ultima opportunità di compiacere i gusti del nobile, di qualunque natura essi fossero, ma il leggero piegarsi dell’ovale niveo del ragazzo ne rallegrò i battiti cardiaci impazziti: il Principe Demone era stato colto da un barlume di interesse e non vi poteva essere bene più grande per una feccia come lui. La sua possibile frequenza a palazzo – e l’integrità del suo collo - dipendevano da quel pezzo di valore pari al comune quarzo, sebbene il sangue misto fosse un’eresia che aveva sempre suscitato grande interesse nei collezionisti originali: commerciare schiavi nelle cui vene scorreva liquido anomalo era oggetto di superstizioni e di condanne severe nelle Terre Unite, fortunatamente separate da quel dominio riluttante ogni forma d’alleanza diplomatica. Nessuno che conoscesse i pericolosi poteri di un Purosangue avrebbe mai osato ingabbiarne uno per piacere personale e anche gli ibridi misti erano da denigrare. Eppure, da qualche remoto anfratto non ancora contaminato dalla paura di finire col ventre aperto, il mercante di schiavi si convinse che al Dominatore delle Terre dell’Est sarebbe piaciuto proprio qualcosa del genere. Ci sperava ardentemente. Frenetiche, le dita tozze afferrarono una lunga catena rugginosa che strattonò in avanti dopo averla avvolta un paio di volte. Vector si raddrizzò, le ossa saldate alla sua spina dorsale reclamarono un cambio di posizione più comodo. Il fuoco del tramonto riempiva la sala reale delle ultime venature arancioni, con l’oro a colare dalle colonne in sottili ramicelli sempre più sbiaditi: un lungo filo luccicante era tutto ciò che rimaneva del soporifero intermezzo fra giorno e sera, frammentatosi all’incalzare del blu miscelatosi alle striature rosate e agli ultimi residui di purpurea vivacità per creare la tinta di tenebra che solo il suo trono di ceramica intarsiato, scuro come la notte ingioiellata di pietre dalle tonalità più ricercate, poteva replicare. Era tardi, la tonicità del suo corpo aveva sopportato il tediare della giornata pensando che l’omuncolo al suo cospetto avrebbe compensato il puntuale senso di vuoto con qualche sfizio esotico raccolto dagli angoli ancora selvaggi del suo dominio, un pensiero di cadente ricorrenza che esauriva l’effetto placebo nel momento in cui lo spirito realizzava l’ennesima incompatibilità. L’ossessione appassiva il bello di quanto reclamava suo non appena la curiosità se ne saziava, inaspriva lo spirito che godeva solo del sangue sulla propria pelle, del suo colore divenuto chiodo d’ogni gioco violento che lo divertiva e teneva al caldo come nessun’altro scorcio di riconoscenza aveva mai espresso.
Una figurina ammantata in una coperta impolverata zampettò nella sala, il tintinnare delle catene strette alle caviglie, ai polsi scoperti e al collo nascosto echeggiò debolmente fra le colonne di marmo. Le dita del mercante si avvinghiarono subito al cappuccio, sfilandolo senza mai smettere di sorridergli. Una zazzera arruffata di ciuffi d’ossidiana che si teneva dritta ai lati, con una lunga coda libera di ricadere sulla schiena e punte rossissime in prossimità della frangia, fu quel che ne corrucciò il viso dallo sguardo immobilizzato sulla totale mancanza di riflessi in mezzo a quella cascata di filamentosità disordinata e soffice inspiegabilmente notagli, di intensità inesistente nei suoi confini. Anche la pelle baciata dal sole gli diede la medesima sensazione di evanescente familiarità, un pulsare intrecciato a ricordi di parziale consistenza che trovarono l’aggancio nelle iridi dalle pupille ad ago.
“Cosa vi avevo detto, vostra altezza? Un pezzo molto particolare!” Colta la sorpresa del giovane sovrano, il mercante afferrò per gli avambracci la ragazza, sospingendola in avanti “E’ una dei pochissimi esemplari rimasti delle antiche Lande Rosse. Creature rare, il loro sangue ribelle è difficile da domare, mi ci è voluto parecchio per…”
“Taci.”
Il clima mite della stanza soccombette a un gelo rancoroso che fece lasciare all’uomo le catene strette fra i palmi, indietreggiando con le flaccide pieghe del corpo a sudare frenetiche. La ragazza si accasciò seduta a terra per il peso del ferro indossato. C’era una furia, negli occhi del Principe Demone, che ne tempestava il ciclamino acceso di sfreccianti saette arcobaleno, una foga simile a quando ci si doveva alzare di notte per le viscere in preda a un incendio inestinguibile. Un’unione nata in un giorno d’infanzia, ecco cosa la ciclica ossessione lo aveva spinto a consacrare una parte di sé alla ricerca di quel vermiglio che neppure un calice ricolmo d’uova rubine poteva replicare, incapace, perché mero oggetto, di scintillare della medesima vitalità che l’aveva fatto tanto ridere quel dì addietro, dolce e palpabile come il pelo di un pulcino e che constatò orribilmente vitrea per l’essere stata svuotata d’ogni minima speranza, deturpata per la sua natura mista e dai lividi che ne segnavano a macchia d’olio gli arti magri.
“Toglietemelo di torno”, sibilò una volta sceso dal rialzato del trono.
“Ma, vostra a-altezza…”
“FUORI!”
Il balbettare del mercante si trasformò in un grido supplicante almeno una spiegazione, ma la mano guantata di una sola delle Guardie di Ferro lo trascinò via con l’altra bestia a chiudere le porte della sala, cosicché il Principe Demone fosse finalmente libero di chinarsi di fronte alla ragazza nel pieno favore del silenzio. La coscienza di lei galleggiava attonita in un mare di confusione che la sontuosità dei drappeggi ornamentali visibili articolava con una luminosità a cui non era più abituata e gli abiti profumavano ancora degli incensi usati per ammansire qualsiasi suo tentativo di ribellione, come se il digiunare non ne avesse lasciato il corpo in preda a uno bollore spento frettolosamente con mezzo bicchiere d’acqua torpida, l’udito sensibile a riempirle la testa di suoni amplificati che ne volevano cullare la pazzia.
“Qual è il tuo nome?” Le sembrava di aver già udito una simile gentilezza in passato, la stessa voce vibrante di una cristallinità frizzante ed energica ora modulata dalla maturità che andava via via completandosi. C’era qualcuno, un’ombra colorata, ma poteva forse avere importanza? Non sarebbe stato diverso: il dolore, un altro pezzo d’anima pronto a perdersi fra pieghe obliose…Era già stato tutto preso, con lei spinta all’opacità e chiusa in un bozzolo che voleva solo lasciarsi cadere definitivamente. Quella persona che la osservava, chiunque fosse, non poteva essere il solo umano incontrato quando ancora piangeva di nascosto poiché non comprendeva la paura che tutti gli altri provavano nel guardarla, l’unico spicchio di tenera infanzia prima della gabbia e delle catene. Non rispose, lasciando che il respiro esulato dalle labbra screpolate e le occhiaie parlassero per lei. Vector, al contrario, piegò le sue in un sorriso di compassionevole morbidezza, inconcepibile per i suoi sudditi, abituati a tutt’altre manifestazioni. Nell’euforia di quell’angolo di floreale paradiso rammentato da anch’egli, i loro nomi erano sfuggiti alle necessità sino alla triste separazione, ma quella bambola inerme e così bella ai suoi occhi, seppur rotta e maneggiata da maniere irrispettose, rimaneva il giocattolo anelato dai capricci infantili e la sola anima – non accettata e incompresa come la sua – che poteva riempirlo con l’amore ricercato da continue approvazioni.
“Ritengo che, di queste, non ci sia più bisogno.” Il Principe Demone ammiccò alle catene strette alle caviglie, ai polsi e al collare che venne sfilato per primo, scoprendo una pelle graffiata che le dita del ragazzo accarezzarono dall’alto al basso. Lo schiocco delle sue iridi furtive riuscì a catturare un debole cenno di vita della sua ospite, un minuscolo guizzo che la fece rabbrividire più delle labbra che sfiorarono il dorso della mano in un delicato bacio.
“Siamo stati divisi troppo a lungo, tu e io, ma la solitudine ha intrecciato le nostre vite per fonderne i destini in un’unica direzione. Sii la benvenuta nella tua nuova casa: da questo momento in poi, sarà mio compito e onore prendermi cura di te.”




Note di fine capitolo!
E anche il terzo aggiornamento è riuscito. Devo ammettere che comprimere delle idee che mi richiederebbero pagine e pagine si sta rivelando un lavoro edificante per la mia capacità di sintesi, posso ritenermi abbastanza soddisfatta. Passiamo alla scelta dei temi: io ho quest’idea di Shark che in fondo è un ragazzo maturo e intelligente quel quanto basta da avere la testa sulle spalle per non capitolare in ridicole gag che invece vedono protagonisti i personaggi più sfortunati, e sarà mia premura (sempre che astri, saggi, destini e ispirazioni permetteranno), tentare di scrivere un sharkbait in questa raccolta dove lo si dia a vedere, ma intanto lo lascio difendersi da Rio e dalle sue accuse più che fondate su un certa foto proibita che la malefica sorella ha scattato per fini superiori (e che è meglio che Vector  non veda, o metterà l’universo a ferro e fuoco per farla saltare fuori). Sulla negative, desideravo da tempo di scriverne una impostandola in uno scenario antico, fra umani, principi e demoni, quando ancora i grandi regni venivano affidati a degli adolescenti (a cui io alzo sempre l’età per motivi tematici). Una noticina prima di lasciarvi: mi sono accorta che, erroneamente, devo aver schiacciato il tasto di “storia completa”. Non so come, perché ero certa di non averlo fatto, ma ho subito rimediato. Alla prossima e votate!

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Capitolo 4
*** Bite / Responsabilità. ***



Bite.
 
“Yuna, cos’hai sul collo?”
Le volte che Astral poneva una domanda era consuetudine che Yuna finisse vittima di qualche imbarazzante strozzamento col cibo o si ritrovasse a parlare a vuoto mentre, il mondo intero, appurava teorie sconclusionate sulla possibile pazzia che l’aveva colpita. La tempistica del Numero Originale abbatteva tutte le leggi inerenti ai giusti momenti per porre un qualunque quesito, optando per una scelta casuale, guidata dal semplice bisogno di soddisfare una curiosità accesasi come un lumino in una stanza buia, ma tanta ingenuità non poteva celare il fatto che per la corvina, il desiderio di conoscenza dell’amico, fosse e sempre sarebbe rimasto un campanello d’allarme di cui ultimamente temeva il manifestarsi. Seppe di aver abbassato la guardia al percepire lo sguardo penetrante del duellante astrale fisso sulla pelle che aveva incautamente scoperto nel tirarsi indietro i capelli inchiostrati, pigiandolo con le dita incerottate.
P-Perché? Ho qualcosa che non dovrei?” Rapida, tentò di dissimulare l’ansia crescente con un sorriso enormemente forzato.
“Sì, uno strano segno.” Classico nel suo agire, Astral le fluttuò ancor più vicino, puntando le iridi bicromatiche sul punto nascosto “Rosso, circolare e con dei piccolissimi graffi.” Non poté mancare la descrizione accurata, i minuziosi dettagli spiattellati senza immaginare il costo di quel riepilogo dalla prova incriminante ben stampata sul suo corpo.
“Oh, non è niente di che! Sarà un livido o una botta, la puntura di una zanzara, sai com’è…Sono sbadata!” Farfugliò agitata, sudando col cuore a mille mentre si ripeteva che sarebbe stato semplicemente chiedere troppo che Astral perdesse il vizio di osservarla come se, da un momento all’altro, potessero crescerle le ali.
“Ed è un niente che ha a che fare con Shark?”
Le schiaffò in faccia il nome del ragazzo con candida eleganza che la colpì con durezza superiore alla pietra, lasciandola avvampare nel pieno dell’imbarazzo mentre le vie respiratorie si chiudevano una a una. Come? Quando? Impossibile sapere come fosse giunto alla verità tanto velocemente, troppo anche per un abile stratega dalla mente acuta e brillante quale era lui; tuttavia, il timore che potesse averli visti insieme – vicini al punto da ribaltare qualsiasi affermazione sulla loro amicizia – le fece mancare il pavimento sotto i piedi. Un surrogato della sensazione di vuoto che provava quando Shark spingeva la sua confusione al limite delle comprensioni umane con gesti insoliti alla sua personalità, perle di raro privilegio che univa in un unico filo e conservava come prova d’affetto ancora restio nel mostrarsi a occhi amici, come quelli che la osservavano in attesa di una sua risposta – che mai sarebbe arrivata -.
“Sai, quando mi riposo nella Chiave dell’Imperatore, posso comunque sentire cosa succede all’esterno”, le svelò , ignaro della portata apocalittica di quella rivelazione “E ieri ti sentivo respirare male, ansimavi. Inoltre mugugnavi qualcosa, ma non ho capito bene di cosa si trattasse…”
“Ah…” Poteva già dire addio al briciolo di dignità sopravvissuto a tutte le dimostrazioni di goffaggine collezionate in sedici anni di vita, farsi mettere sotto da un camion e maledirsi per non essere stata un po’ più insistente con quell’imbronciato di Shark prima che mettesse a tacere la sua esuberanza con le proprie labbra. Non avrebbe fatto poi tanta differenza; ritrovarsi fra le mani un sentimento evoluto come quello e per una persona d’importanza pari a quella attribuita al Numero Originale, stava ancora smaltendo l’effetto disorientante, quasi la meccanica dei baci scambiati nascondesse un misterioso effetto prolungante. Il senso della realtà riaffiorava in superficie dopo, a fondo della scia inebriante che le tingeva il viso di porpora, insieme a strascichi mnemonici colorati del loro affondare le dita nei rispettivi abiti.
“Yuna…” Le mani cristalline di Astral si appoggiarono delicatamente sopra le sue spalle “Ti ha fatto del male?”
“C-Cosa?”
“Quello che fai con Shark…Io l’ho notato”, riprese il duellante “ Ti osserva molto più di frequente e sei l’unica a cui sorride. Vi siete sempre capiti senza che ci fosse bisogno della parole, ma basta che lui sia vicino perché tu esiti, come se non fosse la stessa persona che hai conosciuto. Non ho ancora imparato bene come funzionano i rapporti umani, ma…Il tuo volergli bene è diverso da quello che provi per me, giusto?”
L’ultima frase si guadagnò lo stupore di lei. La mano scivolò via dal collo mentre una nuova velatura rossastra ne accaldava le gote e il viso si spostava verso il basso. Un tempo Astral non avrebbe dato importanza a simili vicende, la mente dilaniata dalle memorie perdute ne aveva inibito l’originale personalità – se mai prima del loro incontro ne avesse avuto una -; a distanza di quel giorno, le parve di avere a che fare con una persona cresciuta grazie al suo aiuto, di cui aveva sottovalutato la capacità di giudizio e che si stava preoccupando per lei. Provò vergogna per l’essere stata tanto sciocca a volergli tenere segreto qualcosa di così importante, abituata com’era a raccontargli tutto, dalle meraviglie alle paure più innaturali, e finì per annuire con il corpo accucciato sopra la sedia, la testa infagottata nelle spalle e le ginocchia attaccate al petto.
“E’ diverso, sì, più intenso e…Profondo, direi. Succede quando due persone non riescono più a vedersi come semplici amici o solo una di esse si rende conto che la persona a lui cara è quella di cui non può fare a meno. Noi lo chiamiamo amore.”
“Come quello che lega i tuoi genitori?”
Yuna annuì ancora, riuscendo ad abbozzare un sorriso “Loro si guardavano come se non esistesse nessun’altro al dì fuori di loro.”
“Quindi, in amore si è maggiormente legati che in amicizia, perché uno o entrambi provano dei sentimenti più forti …” Il duellante incrociò le braccia, alzando il sinistro per afferrare il mento con il pollice e l’indice “Perciò…Si fanno cose diverse da quelle che si sono sempre fatte e non si può fare a meno della persona che ci sta accanto…”
 
“Ho l’impressione che ti abbia dichiarato guerra, fratello.”
Rio Kastle masticò il suo panino cercando di analizzare il quadro a cui assisteva da tutta la mattina. La supposizione appena annunciata era frutto di una lunga osservazione godutasi da lontano, chiara soltanto a chi era a conoscenza dell’esistenza del Numero Originale, la cui presenza e vicinanza a Yuna era stati di pari costanza al suo fissare il fratello con sguardo che non ammetteva un distanza inferiore ai venti metri. Una vigilanza tutta diretta a Shark, che, però, era già impegnato ad arrovellarsi i neuroni per il messaggio scrittogli diverse ore prima e che fissava senza battere ciglio con le prime borse a fare capolino sotto gli occhi.
 
Io da te non mi faccio più baciare da nessuna parte!
Pervertito!!! >o< 
 
“A quanto pare ti si prospetta un periodo d’astinenza.” L’imperatrice del Ghiaccio mandò giù un altro boccone della sua merenda “Te l’avevo detto di non spaventarla.”




Responsabilità.
 
“D’accordo: spiegamelo ancora una volta.”
Yuna doveva capire, comprendere, fosse stato anche solo un millesimo di quel discorso che, posto ancor prima che il sole fosse sorto, suonava più assurdo di quanto lo sarebbe stato a giornata inoltrata. In quel caso, non avrebbe avuto l’impiccio del sonno a farla sbadigliare con gli ingranaggi del cervello a carburare, ma se anche ci avesse riflettuto e ponderato sopra gradualmente, niente avrebbe smorzato la sua vergogna nello stare lì, seduta sulle gambe di un ragazzo che la reclamava di sua proprietà tre volte al giorno e non senza qualche perversa diavoleria finalizzata a sbriciolarne la dignità che ancora non si era del tutto giocata con cadute e voli di stile.
“R-e-s-p-o-n-s-a-b-i-l-i-t-à.” Vector sillabò placidamente la parola rigirando il cucchiaino nella tazza del caffè “Ti è familiare?”
“So cosa significa, ma mi sfugge il collegamento fra il suo termine e questo!” E si indicò come se il suo svolazzante quanto pizzoso vestiario potesse riassumere la dinamica partita la notte precedente e ancora in atto in una casa che, non soltanto non era la sua, ma si trattava addirittura dell’ex palazzo di cristalli lastricati di Barian, lontano anni luce da qualsiasi forma di vita sana di mente. L’esistenza della meteora intercorsa da reticolati anfratti e spire di caos fossilizzato aveva perso il suo grido di vendetta, trovando un equilibrio autonomo da ogni forma di potere esterno a cui avesse inconsciamente ambito. Un simile labirinto di stanze, corridoi e anticamere le era apparso fin da subito sproporzionato al numero di persone che l’avevano occupata, così come per il pianeta, vuoto di qualunque scopo che non fosse il riposare nel più assoluto dei silenzi. Almeno non doveva preoccuparsi che qualcun altro potesse riderle dietro per la sua spaventosa somiglianza con una delle preziose marionette di Four, addobbate da capo a collo per compensare l’inquietudine esercitata dai vuoti occhi di vetro. Probabilmente era l’unica cosa accettabile di quell’allucinante situazione che il ragazzo bacchettava a petto scoperto e senza alcun briciolo di rimorso a brillare nei grandi occhi ametista per quel suo stringerla come una bambola calda. Non c’era modo che avvertisse su di sé rimpianti o colpevolezze quando si dilettava a giocare “Al gran signore” in un castello adeguatamente sfarzoso per il suo ego o che giovasse al suo umore per il non doverlo condividere con sgradite compagnie.
“Se preferivi qualcos’altro eri liberissima di chiedere, Yuni-chan.” Vector sorrise smaliziato con lo sguardo rivolto verso il basso “Ho un armadio pieno di costumi molto più belli di questo.”
“Un maglietta e un paio di pantaloni sarebbero andati benissimo!” Scattò lei inviperita, animata dal desiderio di tirargli le guance rosee  fino a staccargliele “Tu mi hai sequestrata e conciata in questa maniera contro la mia volontà!”
“Sono parole un po’ troppo accusatrici da rivolgere a chi ti ha salvato la vita.” L’ex Imperatore appoggiò il cucchiaino sul piattino, prendendosi tutto il tempo per sorseggiare la bevanda calda “E poi, tecnicamente, tutto quello che è ho fatto è stato mantenere la parola data: ti avevo detto che sarei passato a trovarti e così ho fatto.”
“Trasformato in Bariano e appeso sopra la porta della mia stanza. Al buio”, specificò lei, incrociando le braccia.
“Adesso è colpa mia se preferisci camminare alla cieca invece di accendere la luce?” Stavolta la guardò, con quel cipiglio così disgustosamente finto pronto a farle saltare gli ultimi nervi rimasti.
“Mi sei comparso davanti con una torcia sul viso!”
“Volevo farti una sorpresa.”
“Intrufolandoti in casa mia è facendomi finire giù dalle scale?!?”
Se mai fosse riuscita a tornare sulla Terra avrebbe dovuto appellarsi a tutto il suo sangue freddo per imbastire una scusa più che plausibile per evitare la punizione divina a cui la sua Onee-san l’avrebbe sicuramente condannata e pur fosse cosciente che urlare non sarebbe servito a trasformare l’attuale realtà in un qualunque sogno, il panico che animava la sua voce divampava troppo alto perché si acquietasse di punto in bianco. Quel genere di vicinanza le aveva sempre permesso di constatare quanto Vector fosse diverso dal Rei Shingetsu creato per conquistarsi la sua fiducia. Sotto i capelli soffici e dalle punte rivolte verso il cielo si nascondevano lineamenti malleabili che saltellavano dall’infantilità alla maturità estendendosi a tutto il corpo. Le spalle larghe e il suo approcciarsi arrogante al mondo non avevano nulla in comune con la bontà di quell’illusione che ogni tanto turbinava per attirarne l’attenzione; c’era solo quel suo essere così’ indefinibile agli occhi altrui, quasi temesse giudizi che già conosceva perché non così enigmatico come avrebbe voluto apparire. Ma con lei bastava che fosse semplicemente se stesso, in una forma più ridimensionata dell’Imperatore ottenebrato dalla follia di essere un Dio, sebbene ciò la obbligasse più di chiunque altro a essere succube dei suoi discorsi dalla logica insensata e di quei ghigni che le scoccava furtivamente come a sottintendere una qualche intenzione non propriamente casta.
“D’accordo, posso ammettere di avere una certa colpa”, le concesse con un sospiro “Ma non scordiamoci che, se siamo qui a discutere, è perché tu ti ostini a non prendere seriamente in considerazione la mia proposta.”
“E come potrei, se nemmeno so di cosa tu stia parlando?” Il rossore lasciatole dal primo confronto si afflosciò insieme alla sua voce, esasperata “Parli di responsabilità e a parte il fatto che mi sembra che tutta questa pantomina sia solo una scusa per fare i tuoi comodi, non ho idea a cosa alludi.”
“Oh, Yuni-chan, ma è così semplice!” Quel dolce e candido squittio che accompagnò la radiosità del suo volto le strinse la trachea, bloccandole un consistente groppo di saliva. Quando una cosa era ovvia per Vector, per altri era solo sinonimo di pazzia “Tu mi hai perdonato, l’hai già dimenticato? Anche dopo che ti sono diventato amico, tradita, ferita e ferita ancora e quasi fatta morire, non hai mai dato segno di odiarmi. L’aprirmi il tuo cuore è la sola ragione che mi abbia spinto ad accettare la resurrezione, senza contare che non mi sarei perdonato il lasciarti sola a piangere la mia scomparsa. In fondo dall’altra parte non si stava poi così male, mentre la vita umana è così…” Levò verso il soffitto le pupille alla ricerca del termine giusto “Noiosa.”
“Insomma, mi stai dicendo che sei resuscitato per farmi un favore?”
Non sarebbe stato da Vector imbastire un discorso senza che la sua arrogante smania di protagonismo lo auto eleggesse perno indiscusso.
“E, in virtù di ciò, mi aspetto, anzi, pretendo che tu contraccambi il mio sacrificio”, proseguì il ragazzo “Come prode paladina della Speranza, è tuo dovere assicurarti che la mia condotta non infierisca sulla pace universale e sicché io sono qui per permetterti di amarmi come si deve, assumiti le tue responsabilità e sposami.”
“MA TU TI SENTI QUANDO PARLI?!?!?”
 
 
 
 
Note di fine capitolo.
Ehilà…Come andiamo? Si, so che è tanto, tanto, MA tanto che non aggiorno, mi spiace di averci messo tanto e mi scuso se forse qui c sarà qualche errore (spero di no), ma dopo tanto correre oggi è l’unica giornata in cui mi sia sentita in grado di perfezionare il capitolo e postarlo direttamente. Godetevelo e scusate ancora il ritardo, oggi sono piuttosto spiccia anche per il caldo. Mando un bacione a tutti quanti e, se volete farmi felice, sapere come fare ^^.
 

 
 
 

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Capitolo 5
*** Gift. ***




Regalo.
 
“Cosa dovrebbe essere?”
“Un regalo?”
“No. Quello che intendevo, è cosa ci dovrei fare esattamente.”
Ryoga Kamishiro fissava l’oggetto con la speranza che questo potesse in qualche modo rispondergli, ma rigirarlo più e più volte fra le mani metteva in evidenza soltanto la disarmante quanto proverbiale infantilità di Yuna Tsukumo nello scegliere sempre la prima cosa che le passava per quella testolina arruffata. Tutto del suo “regalo” rievocava quella lastra di complessata cristallinità che era la sua anima, in realtà così semplice da comprendere che, proprio per tale ragione, non si riusciva mai a prevedere completamente. La consistenza soffice nascosta sotto la carta colorata gli aveva strappato un flebile sospiro, un primo giudizio che, con la linea della bocca storta verso l’alto, fu completato una volta che gli occhi diedero conferma ai suoi sospetti. Un paio di bottoncini neri inespressivi lo sfidavano con un muso tozzo quanto il corpo, dall’imbottitura pressata e tenuta chiusa da grossolane cuciture che tiravano la stoffa in alcune parti, per poi lasciarla molle in altre. Non c’era un senso da seguire, in quel sorriso dai denti aguzzi e nei colori marini del tessuto, solo la certezza che tutto fosse nato da un banalissimo gesto d’affetto pensato per strappargli uno scampolo di felicità – o una qualunque reazione che non liquidasse la fatica fatta con uno sbuffo -, perché era evidente che Yuna avesse attinto a ogni suo sforzo mentale per non presentarsi con qualcosa che avrebbe potuto urtarne i sensi, ma per quanto il “l’ho visto e mi sei subito venuto in mente” potesse passare per un complimento , un peluche a forma di squalo non rientrava fra le sue prime preferenze. Ne fra le terze. O le ultime.
“Ho solo pensato che sarebbe stato carino fare un regalo a Ryoga-kun in vista del suo compleanno. E per ringraziarlo delle volte che mi ha accompagnato a casa in moto”, si giustificò la corvina, chiudendosi fra le spalle. L’evidenza sulla difficoltà nello scegliere qualcosa che fosse adatto alla sua personalità fiorì nella coscienza del ragazzo con la consapevolezza di dover dare voce a quel granello di minuta riconoscenza ingigantitosi contro le razionali aspettative. Yuna Tsukumo era una matricola dotata dell’inconscio potere di non passare inosservata, una creaturina variopinta e caotica da cui avrebbe ben mantenuto le distanze se soltanto le circostanze fossero state a suo favore. Ma a una casualità se ne era aggiunta un’altra, a un invito si era succeduta una manifestazione di gentilezza, sino al sopraggiungere di una catena di modesti momenti tutti contenenti quella stessa premura che ora voleva contraccambiare a parole, seppur i fatti – precedenti e attuali – testimoniassero il suo essere una persona poco propensa alla comune carineria umana. E sfortunatamente per lui, c’era chi provava sempre a trarne vantaggio…
“Mi sa tanto che non gli piace, Yuni-chan.” Cinguettò il suo male primario, onnipresente con la sua maschera di angelica infamità “Ma non fartene una colpa: è risaputo che i ragazzi scorbutici come il caro Shark siano troppo seri per accettare con condiscendenza regali opposti al loro carattere.”
Se alla meschinità fosse stato offerto un volto umano, una gigantografia non sarebbe stata sufficiente a ritrarre Vector in tutta la sua detestabilità. Non c’era gioco che gli aggradasse più del manipolare le emozioni della gente, le loro menti e il loro cuori così volubili da essere ridimensionati a semplici scatole piene di colori. Una volta esaurita la curiosità o l’intento che fosse, finivano per ammassarsi senza avere più niente a rivitalizzarli. Difficile trovare qualcosa che lo impegnasse più del suo dissanguante bisogno di curare e viziare la propria persona; il suo realizzarsi ruotava attorno a interessi a breve termine, ricollegati dal solo piacere di sentirsi librare al di sopra di qualunque testa umana ed era uno stile di vita che si agghindava del disprezzo altrui soltanto per lucidare l’ego smisurato. Tutto ciò aveva sempre suscitato in Ryoga un quantitativo di indifferenza tale dal proibirgli una qualsiasi forma di contatto, ma la malleabilità dei gusti di Vector, pari alla sua mimica facciale nel rasentare l’innocenza e la follia allo stesso tempo, non era qualcosa che si potesse sottovalutare una volta che decideva di focalizzarsi su un obiettivo.
Yuna donava, troppo, incondizionatamente, ed era probabile che un giorno il suo altruismo ne avrebbe lasciato l’animo ingenuo cicatrizzato di scottature indelebili. Alle sue iridi colorate degli abissi più gelidi, Vector si presentava come possibile artefice di quella realtà realizzabile con un semplice schiocco di dita, e forse il maggiore avrebbe preferito così anziché constatare l’esistenza di una versione più pericolosa per lui che per la ragazza.
“Intendi che avrei dovuto dargli qualcosa che piace ai ragazzi come Ryoga-kun?”
Riuscì a liberarsi dal suo rimuginare giusto in tempo per farsi animare dal disgusto e stringere in una sola mano il pupazzetto nel constatare quanto insopportabile fosse il contatto visivo che univa i due al momento, la sconcertante sincerità che intrecciava quell’amicizia scaturita a cui Vector sembrava tenere molto più di quanto avesse mai fatto per sé stesso. Il suo giocare celava colpi sibillini, frecciate al suo carattere difettoso che non poteva nulla contro la sua naturale spontaneità nel reclamare Yuna con una possessività sempre pronta a rimarcare su quell’intesa invidiata per lo stare alla luce del sole senza veli o fraintendimenti. Gli bastò osservare il concentrarsi della corvina sulle parole dette, l’adorabile gonfiarsi delle guance assieme alle braccia incrociate e agli occhi corrucciati, perché l’amaro gli colasse giù in gola e una vocina maligna prendesse in giro la sua ridicola convinzione che quel pupazzetto potesse essere qualcosa di più.
“Ho trovato!” Sopraggiunse infine la sua vocina, elettrizzata e dal volto sorridente rizzato in aria “So cosa potrebbe farlo felice!”
Bastò un attimo e l’intero castello di dubbi dentro cui era solito soggiornare perennemente  si sgretolò di colpo dalle sue stesse fondamenta. Niente gradualità, solo un dissolversi silente e dall’dirompenza inaspettata quanto il bacio che andò a posarsi sulla sua guancia, leggero più dell’elegante oscillare di un petalo cullato dal vento. Tempo di muovere la testa e il sorriso sbarazzino di Yuna era già lì pronto per lui.
“Un dono speciale per una ricorrenza speciale! Buon compleanno, Ryoga-kun!”
E se ne andò via, tranquilla nella sua felicità infantile troppo acerba per comprendere il reale significato di quel gesto donato col cuore, ma forse non tanto quanto si poteva pensare, se aveva indotto Ryoga a sperare nell’esatto contrario mentre Vector, al suo fianco, rodeva dal desiderio di vendicarsi. Perché a ben ricordare, Yuna non aveva mai regalato lo splendore dei suoi sorrisi più radiosi a Vector, ne gli aveva mai dato un bacio nel giorno del suo compleanno. Con lui, invece, non si era mai risparmiata.




Note di fine capitolo.
E ritorna, sì, al limite delle possibilità umane e delle aspettative di chiunque! E’ probabile che qualcuno avesse anche smesso di sperarci e lo comprendo, ma ero veramente bloccata su questo capitoletto. Iniziavo a scrivere e appena vicina a raggiungere la metà smettevo, perché colta da un’altra trama che puntualmente finiva come la prima. Ad aggiungersi, ci sono stati impegni, pigrizia e un corollario che risparmio alle povere anime che mi seguono. Passando al capitoletto, ho scelto di concludere con una Sharkbait sicchè nello scorso contest l’ultimo capitolo se lo era aggiudicato la negative. Vi dirò, non mi soddisfa pienamente come gli altri, non saprei bene descrivere la sensazione, ma il fatto che sia riuscito a finirlo a differenza di molti altri deve pur significare qualcosa e quindi, piuttosto che far aspettare altri secoli, ho deciso di pubblicarlo. La dolce Yuna qui oscilla fra ingenuità e atteggiamenti inconsapevoli – chi può saperlo – dei propri sentimenti, ma alla fine predilige Shark a dispetto di un povero imperatore psicopatico che osserva la scena da una distanza ravvicinata quanto basta per fargli desiderare che Shark esploda sul colpo e che Yuni-chan dia un bacino anche a lui (insomma, un po’ per uno non fa male a nessuno). A differenza dei capitolo precedenti, qui ho usato il nome originale di Shark, Ryoga anziché Reginald, per il fatto che la scena è stata pensata per farlo apparire come uno studente di grado maggiore rispetto a Yuna, classica matricola che si rivolge ai grandi con i rispettivi appellativi (c’è mancato poco che nominassi Kaito Sempai…Ok, basta, sto divagando). Prima di lasciarvi, e sempre sperando che non ci siano errori, voglio ringraziarvi tutti quanti, recensori e lettori, per l’avermi seguito, il vostro sostegno è stato preziosissimo. Tornerò, quando non lo so, ma giusto per non lasciarvi il vuoto, per chi fosse amante di Yu-gi-oh GX, è già online una nuova raccolta: The Meanings of the Raimbow (cos’è e come è strutturata ve lo lascio scoprire). Dovrei anche proseguire Hell’s Road, abbandonata da secoli e che nel frattempo ha sviluppato una sua coscienza che mi rimprovera per i maltrattamenti subiti…Pian pianino arriverò da tutte le parti, ma intanto grazie ancora e  presto! UN MEGA BACIONE!!!

 
 

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