Il Ritorno dell'Ombra

di Persephone Grey
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Jake I ***
Capitolo 3: *** 2. Alys I ***
Capitolo 4: *** 3. Jake II ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***


La ruota del Tempo gira e le epoche si susseguono, lasciando ricordi che diventano leggenda. La leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’epoca chiamata da alcuni Epoca Quarta, un’Epoca da gran tempo trascorsa, un’Epoca ancora a venire, il vento si alzò nel luogo che, prima della venuta dell’ultimo Drago Rinato Rand al’Thor, era chiamato Macchia. Il vento non era l’inizio, poiché non c’è inizio né fine al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.
Il vento soffiò sui prati in quel momento coperti di neve, e sollevò un pulviscolo di cristalli ghiacciati che brillarono nella luce del sole. Il vento li depositò ai piedi del cavallo nero, fermo e immobile come il suo cavaliere. Entrambi guardavano nella direzione di Shayol Ghul, la grande montagna dove era imprigionato Shai’tan, il Tenebroso.
Il cavaliere non poteva ricordarsi com’era la Macchia mille anni prima, quando il Tenebroso riusciva ancora a far sentire il suo tocco sul mondo e aveva contaminato quelle terre, creando una zona completamente malsana, putrescente e innaturalmente tiepida. Dopo il trionfo di al’Thor, la Luce aveva preso il sopravvento anche nella Macchia, riportandola lentamente all’aspetto fiorente che aveva prima del tocco del Tenebroso. Ma nessuno aveva voluto popolare nuovamente quei territori, poiché, nonostante i secoli trascorsi, il ricordo di quello che era stata la Macchia e cosa aveva rappresentato non era svanito. Rimasero disabitati e ricoperti di prati, di fiori variopinti e farfalle in primavera, di una coltre di candida neve in inverno.
Il Cavaliere non poteva ricordare, ma sapeva. Sapeva che sotto a quella montagna vi era il Pozzo del Destino, la prigione del Tenebroso, e sapeva che il Foro era ancora ben sigillato. Ma la Ruota gira e Luce ed Ombra si sarebbero scontrate ancora, in una nuova Tarmon Gai’don e il mondo sarebbe stato pronto. Lui avrebbe fatto in modo che sarebbe stato pronto, pronto a sostenere Shai’tan, e ad accoglierlo come sovrano, una volta sconfitto il nuovo Drago.
Ma c’era ancora molto da fare: pochi sovrani e, di conseguenza, poche nazioni si erano piegate all’Ombra; bisognava andare avanti, bisognava conquistarle tutte, creare un mondo governato da Amici delle Tenebre, in attesa del ritorno di Shai’tan.
Con un leggero colpo di redini il cavaliere fece voltare il cavallo, dietro di lui due Myrdraal attendevano istruzioni. Questi esseri, simili ad uomini molto alti, dalla pelle bianchissima e privi di occhi, lo mettevano fortemente a disagio: avevano la stessa grazia e sinuosità dei serpenti, e una voce che pareva il raschiare di una lama contro una pietra. Detti anche Fade, quei due erano i primi generati dopo secoli, dopo il recupero di alcuni scritti che ne spiegavano la genesi. A breve il cavaliere avrebbe ricreato un nuovo esercito di Fade e Trolloc, al completo servizio dell’Ombra.
“Tu” rivolgendosi al Fade alla sua destra “Vai a Tear e assicurati che tutto stia andando come previsto. E tu” rivolgendosi all’altro Fade “vai a Illian, e studia la situazione”.
I due Myrdraal annuirono e si allontanarono velocemente, senza che i loro mantelli mostrassero il minimo movimento; trovarono una zona d’ombra e lì scomparvero.
Il cavaliere si voltò ancora in direzione di Shayol Ghul. Presto il mondo avrebbe visto il ritorno dell’Ombra e lui sarebbe stato l’artefice.
Spronò il cavallo e si allontanò in direzione delle Marche di Confine. Aveva ancora molto da fare.

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Capitolo 2
*** 1. Jake I ***


L’uomo avanzava nella notte lungo la strada che portava verso il Maule, rapido e silenzioso come ben si addiceva al suo soprannome, il Topo.
Aveva da tempo imparato l’arte del passare inosservato, persino in pieno giorno e in una piazza gremita di gente e quella notte, nelle buie strade di Tear, si confondeva nelle macchie di oscurità, tra una pozza di luce e l’altra, cercando nel contempo di ripararsi dalla pioggia che scendeva copiosa.
L’anonimato era parte integrante di quello che era e di ciò che faceva per vivere: il Topo era un assassino su commissione, uccideva per denaro e, in quel preciso momento, stava andando a riscuotere il compenso per un lavoro appena portato a termine. Argento sporco di sangue, ma pur sempre argento. Non si poneva più domande sul denaro che riceveva, sul perché veniva pagato. Bisognava pur vivere, in un modo o in un altro, bisognava inventarsi un lavoro. Alcuni uomini erano portati per il commercio, altri per i lavori manuali. Lui era bravo ad uccidere e poi a sparire senza lasciare alcuna traccia, e aveva fatto di questa sua capacità una fonte di reddito. Non si sentiva in colpa per questo.
Rapido attraversò le strade male lastricate di quella zona della città al confine con il Maule. Fu contento di non doversi inoltrare nel quartiere portuale di Tear: quella notte la pioggia non ne voleva sapere di diminuire e le pur sconnesse pietre del selciato erano decisamente meglio del fango che invadeva il Maule.
Individuò la locanda che stava cercando, con l’insegna a forma di stella, ma non vi entrò, non ancora.
Oltrepassò la locanda e si accostò alla bottega di un fabbro. Bussò tre volte, come concordato, tre colpi secchi a breve distanza l’uno dall’altro; udì un fruscio provenire dall’interno e nella sua mano sinistra comparve un pugnale, più per abitudine che per reale presentimento di pericolo. La porta si aprì e una figura incappucciata gli fece cenno di entrare.
La stanza era a malapena illuminata da una lanterna cieca, non del tutto aperta, posata in una forgia spenta.
La figura richiuse la porta alle sue spalle e il Topo tenne stretto in mano il pugnale, nascosto tra le pieghe del mantello. La corporatura minuta rivelava sicuramente una donna, ma il Topo aveva imparato da tempo a diffidare più delle donne che degli uomini, soprattutto quando si trattava di affari.
La donna aprì un po’ di più la lanterna e si sedette su una grossa incudine lì accanto, sistemandosi con calma le gonne; scostò il cappuccio e lo fissò dritto negli occhi, anche se non poteva di certo vederli, dal momento che l’uomo teneva ancora il volto celato dal cappuccio; aveva la tipica espressione di chi si aspetta di ricevere obbedienza. Era la prima volta che la vedeva in viso e, per un attimo, quello sguardo duro gli fece correre un brivido lungo la schiena, aveva l’aspetto pericoloso di un felino pronto a balzare sulla preda.
La esaminò per alcuni, lunghi attimi: pareva più giovane di quanto si aspettasse, ma l’atteggiamento mostrava una persona più matura, sicuramente avvezza al comando. Era ricca, a quanto dicevano le vesti e il consistente compenso pattuito per il semplice incarico che gli aveva commissionato, ma non avrebbe saputo dire se fosse nobile. Aveva un bel viso, con gli zigomi alti e le gote piene; il naso, piccolo e dritto separava i grandi occhi azzurri, la bocca rosea aveva il labbro inferiore più pronunciato, ma forse era solo l’espressione lievemente imbronciata. La fronte spaziosa era accentuata dai capelli acconciati in una crocchia poco sopra la nuca; intuì dei ricci biondi. La donna era sicuramente andorana.
“Allora? Non pretenderai che ti paghi sulla fiducia?” La voce era quella che ricordava, un timbro calmo, basso e sensuale, e un tono che non ammetteva repliche.
“Ecco” rispose il Topo, ed estrasse dalla tasca un sacchetto in pelle, che le porse. Conteneva alcuni gioielli e una ciocca di capelli scuri, sottratti alla donna che aveva ucciso per lei.
Lei prese il sacchetto e ne esaminò il contenuto. Si soffermò in particolare su un anello di poco valore, un oggetto all’apparenza insignificante che lui stesso aveva quasi lasciato al dito della vittima, un cerchietto di metallo scadente, smaltato in verde. Eppure quell’oggetto pareva avere un particolare significato per la donna che lo rigirò tra le dita tremati.
“Era l’amante di mio marito” disse infine con voce a mala pena meno ferma. “Gaebril aveva iniziato a commerciare con Tear solo per poter stare con lei. Stava lontano da Caemlyn sempre più spesso e sempre più a lungo. Non potevo sopportarlo”.
Dalla scollatura dell’abito fece comparire un laccio di cuoio che slegò e vi infilò l’anello, il quale andò a fare compagnia ad altri due. Uno in particolare attirò l’attenzione dell’uomo, un cerchietto d’oro dalla forma di serpente che si morde la coda. Il Gran Serpente, l’anello che solo le Aes Sedai hanno il diritto di indossare. L’uomo rabbrividì di nuovo. Una Sorella.
La donna lo fissò con un sorriso ironico, quasi riuscisse ad intuire il suo sconcerto.
“So a cosa stai pensando. Sì, sono stata addestrata alla Torre Bianca, ma no, non sono una Sorella”. Non diede altre spiegazioni, e del resto lui non le pretese.
Ritirò gli anelli da dove erano comparsi e si alzò in piedi. L’uomo notò che era bassa ma ben proporzionata nel fisico. Il mantello, leggermente aperto, lasciava intravedere un seno generoso. Avrebbe anche potuto piacergli, se si fossero incontrati in un’altra occasione. Scacciò immediatamente quel pensiero.
“Comunque non credo che andrai a raccontare in giro che hai incontrato, di notte, nella bottega di un fabbro, una donna con l’anello delle Aes Sedai.” Gli porse un sacchetto in pelle. “Il tuo compenso”.
L’uomo esaminò il contenuto, tutti marchi d’argento di Andor.
“È più del pattuito”
“Voglio assicurarmi che se un giorno dovessi avere ancora bisogno di te, tu sia disponibile”.
Strinse il mantello e celò di nuovo il volto sotto il cappuccio, dirigendosi verso la porta. Prima di aprirla si fermò e senza voltarsi aggiunse: “Se dovessi trovarti a Caemlyn, e ti trovassi nei guai, chiedi di Lady Alys Gray”.
Uscì nella notte lasciando l’uomo da solo con la lanterna.
Il Topo attese qualche minuto, poi prese la lanterna e uscì dalla fucina. Pioveva ancora a dirotto, ma doveva fare un breve tragitto per raggiungere la locanda. Aveva fatto appena un paio di passi quando scorse, con la coda dell’occhio, un rapido movimento in un vicolo alla sua destra. In modo altrettanto rapido si appiattì contro il muro, appena in tempo per schivare una freccia che, se avesse tardato un solo istante a scansarsi, lo avrebbe centrato dritto in mezzo agli occhi. Lasciò cadere la lanterna, che si frantumò con un rumore secco, l’olio fuoriuscì dalla base e si incendiò, creando una pozza ardente al centro della strada.
Il Topo estrasse rapido i due pugnali che teneva nascosti nelle maniche. Udì un movimento sopra la sua testa, alzò lo sguardo e una figura scura lo travolse. Rotolarono avvinghiati nella strada, l’aggressore lo afferrò al collo e iniziò a stringere per strangolarlo. Il Topo sentì la stretta e in breve iniziò a vedere dei puntini luminosi davanti agli occhi. L’uomo si fermò a cavalcioni sopra di lui e gli strinse sempre più forte le mani attorno al collo. Iniziò a divincolarsi, ma l’altro manteneva salda la stretta; gli sferrò un pugno, poi un secondo, ma l’uomo non mollava la presa. Il Topo lottava disperatamente, ma l’aggressore era forte e determinato. Voleva ucciderlo. Quando ormai non vedeva più nulla e i polmoni iniziavano a bruciargli per la mancanza d’aria gli conficcò entrambi i pugnali nello stomaco e li spinse con forza verso l’esterno. L’uomo rantolò morendo, e abbandonò la presa attorno al collo. Il Topo, tossendo, si scosse di dosso il corpo del morto, e si girò carponi, ancora tossendo e sputando. La gola gli doleva tremendamente e i polmoni bruciavano nell’espandersi. All’ennesimo colpo di tosse sentì in bocca il sapore del sangue. Strisciò a bordo strada e si appoggiò al muro di una casa. Avrebbe voluto abbandonarsi lì, ma un secondo uomo gli si avventò contro. Lo scansò agilmente rimettendosi in piedi e in un attimo aveva in mano un nuovo pugnale che lanciò contro la figura, colpendola alla gola. Anche questo rantolò nell’accasciarsi al suolo. Il Topo si appiattì nuovamente contro il muro, nel buio. Non vi era altro movimento nella strada, né rumore a parte la pioggia che cadeva. Solo in quel momento si accorse di non essere più protetto dal cappuccio; immediatamente celò il suo volto, ma a quanto pareva gli unici due che potevano riconoscerlo non avrebbero parlato mai più. Si chinò sul secondo uomo che aveva ucciso per recuperare il pugnale. Vide che aveva un panno che gli copriva tutta la faccia tranne gli occhi, alla maniera degli Aiel. Dubitò che si trattasse di un Aiel e infatti, quando gli strappò via il pezzo di stoffa, vide che si trattava di un tarenese, e non di un tarenese qualunque, bensì uno degli uomini dei Difensori della Pietra. Andò all’altro cadavere e tolse il velo anche a quello; un Difensore.
Adesso era davvero scosso. Sapeva di essere ricercato dai Difensori della Pietra, li sentiva alle spalle, il loro fiato sul collo. Più volte negli ultimi mesi aveva rischiato di essere catturato, nel mondo reale e, ancor peggio, nel Tel’Aran’Rhiod. Ma non gli erano mai arrivati tanto vicini da attaccarlo direttamente, da ingaggiare duello. Se lo avevano trovato quella sera, sapevano chi era e come si muoveva. Avrebbero potuto tentare di ucciderlo in ogni momento. Sulla sua testa, del resto, pendeva una condanna di cattura “Vivo o morto”. Ed era indubbiamente più facile trascinare un cadavere davanti ai Sommi Signori.
Guardò di nuovo i due corpi sul selciato. Doveva andarsene prima che fosse passato qualcuno. Si strinse nel mantello e si avviò verso la locanda.

L’uomo entrò ne “La Stella” e venne investito da un’ondata di odori di cucina, tabacco e sudore, vociare di persone e musica.
Si guardò attorno. La sala comune era piena di avventori e una ragazza, in un angolo, suonava un dulcimero e cantava una triste storia d’amore. Nessuno avrebbe dato peso ad un nuovo arrivato, neppure ai suoi vestiti fradici, visto quanto pioveva fuori. Abbassò il cappuccio per non destare sospetti e sorrise al locandiere che in quel momento gli si avvicinava.
“Una pessima serata per andarsene in giro, mio signore” era un uomo grasso, come ogni locandiere che si rispetti, calvo, la pelle scura tipica delle popolazioni del sud, gli occhi scuri che ne rivelavano la scaltrezza a dispetto dell’atteggiamento bonario.
“Nessun signore, mastro, sono solo un viandante sorpreso dalla pioggia”
“Certo, certo, mio … ehm … come posso aiutarti?”
“Una stanza e un boccale di birra” e allungò al locandiere un marco d’argento, il che lo rese particolarmente gentile e servizievole.
“Certamente, certamente. Se vuoi seguirmi, mio sig … ehm …”
Il locandiere si voltò e iniziò lentamente a salire le scale che portavano ai piani superiori, facendogli cenno di seguirlo. Le scale scricchiolarono al loro passaggio; la “Stella” non era una locanda giovane, come non lo era il locandiere. Arrivarono alla fine di un lungo corridoio, ai cui lati si susseguivano una serie ordinata di porte chiuse.
“Mi spiace” disse il locandiere aprendo la porta “la stanza è un po’ piccola ma … ehm … lo vedi anche tu, ci sono tanti avventori questa sera e …”
“Andrà bene” lo interruppe l’uomo.
“Posso fare qualcos’altro?”
“Fammi portare qui quel boccale di birra”
“Ah, sì sì, certamente … e anche una buona zuppa di pesce, sarai certamente affamato, mio … ehm … e infreddolito, con tutta questa pioggia, e la nostra cuoca prepara una zuppa di pesce che …”
“La birra” lo interruppe bruscamente il Topo e richiuse la porta in faccia al locandiere prima che questi potesse riprendere a parlare.
Su una mensola accanto alla porta trovò un acciarino e una candela, fece luce nella stanza e si guardò attorno. Era davvero piccola: un letto, un lavabo con brocca e specchio, qualche piolo nel muro su cui appendere gli abiti fradici. Una piccola finestra. Si tolse il mantello e lo appese ad uno dei pioli, e si sfilò gli stivali. La giubba era ancora sporca di sangue, così come la camicia. Le sfilò entrambe e le appese ad asciugare, pensando che avrebbe dovuto procurarsene di nuove, o per lo meno lavarle.
Trovò già dell’acqua nella brocca, ne versò un po’ nel lavabo e si sciacquò il viso, alzò lo sguardo e lo incontrò riflesso nello specchio. Osservò quel volto che lo fissava dalla lastra rotonda quasi con stupore, l’uomo che si celava sotto il cappuccio dell’assassino, il volto che doveva tenere anonimo, il volto di Jake, il suo.
Osservò quel viso, pallido e scavato, gli occhi scuri erano opachi, circondati da un alone bluastro, la barba di tre giorni gli circondava la bocca e ombreggiava le guance. I capelli scuri e arruffati iniziavano ad arretrare sulle tempie. Aveva un volto comune ed ordinario, che nessuno avrebbe notato, ed era quella la sua forza. Ma adesso era stanco e tirato. Osservò il suo corpo senza camicia, era sempre più magro al punto che gli si potevano quasi contare le costole. Si stava consumando.
Sentì bussare alla porta.
Afferrò il pugnale dalla cintura e aprì puntando la lama verso la cameriera, che per poco non rovesciò il vassoio per lo spavento.
“La … la tua cena … ehm … signore …”
La ragazza era giovane, poco più di una bambina, e aveva gli occhi grandi e castani, sgranati dallo spavento.
“Non c’è nessun signore qui” rispose Jake brusco, ritraendo il pugnale, “avevo detto niente cena, solo birra”
“Mastro … Mastro Clifford, signore, mi ha detto …”
“Lascia il vassoio da qualche parte e vattene”.
La ragazza non disse altro, ma appoggiò il vassoio in terra e si allontanò svelta, ancora tremando.
Jake fissò di nuovo il suo volto nello specchio. Cosa stava facendo? Cosa gli accadeva? Era nervoso, si sentiva braccato. Era braccato.
Si passò le mani sul viso. Non poteva continuare così, non poteva restare a Tear. Doveva andarsene, ma dove? Ripensò a Lady Gray e alla sua offerta. No, non poteva permettersi di fidarsi di nuovo di un’altra persona, di un’altra donna. Non poteva fidarsi di nessuno, a questo punto, figuriamoci di una Aes Sedai, o presunta tale.
Sedette sul pavimento. Le assi scricchiolarono sotto il suo peso, e non erano nemmeno ben livellate, tanto che avvertiva sotto di sé gli stacchi tra l’una e l’altra. Non vi badò. Mangiò svogliatamente la zuppa di pesce, solo perché doveva mettere qualcosa nello stomaco, accompagnata da un pane scuro e fragrante e da un boccale di birra fresca; doveva mangiare, doveva rimanere lucido mentre pensava a cosa gli rimanesse da fare.
Non voleva affidare le sue sorti ad una donna. Proprio una donna l’aveva messo in quell’enorme casino, ed era quasi paradossale che una donna, ora, gli mostrasse la via d’uscita. Sembrava uno scherzo del destino. La Ruota gira e ordisce come vuole, pensò.
Si trascinò contro il letto e appoggiò la testa al materasso, fissando il soffitto. Rivide il volto di Isabella, i lunghi boccoli neri, gli occhi scuri, la figura alta e slanciata.
Ripensò a come era riuscita a raggirarlo, lei, una spia dei Sommi Signori. L’avevano incaricata di cercare il Topo, di trovare quell’assassino a pagamento. E lei l’aveva trovato. L’aveva seguito per settimane, senza che lui se ne accorgesse. Una ragazza in gamba. Ma non era una sognatrice, nemmeno con un Ter’angreal, e non aveva ottenuto le prove definitive. Così l’aveva circuito e aveva ottenuto la sua fiducia. E molto di più. Aveva fatto in modo che lui si innamorasse di lei, così da indurlo a confidarsi.
Che stupido! Cosa non possono fare un bel paio d’occhi.
Non avrebbe mai voluto farlo, ma fu costretto ad ucciderla. Quando sentì il suo corpo abbandonarsi, dopo che le ebbe tagliato la gola, una parte di lui morì con lei.
Si alzò di scatto. Non voleva pensarci, non voleva pensarci mai più. Aveva bisogno di distrarsi. E magari anche di riempirsi le tasche di monete, così da non aver bisogno di lavorare per un po’. Sentiva il bisogno di smettere di uccidere, per qualche tempo, doveva far sparire il Topo, ma per farlo aveva bisogno di soldi. E per svuotare la testa e riempire le tasche non c’era niente di meglio di un tavolo, dei giocatori e un mazzo di carte. Sentiva, quella sera, di avere dalla sua una buona dose di fortuna, nonostante tutto quello che era successo; era un pensiero strano, ma si sentiva fortunato. Osservò la camicia, la macchia di sangue non era troppo evidente, avrebbe potuto spacciarla per una macchia di vino. La indossò, anche se era ancora umida. Guardò la giubba ma quella no, non poteva utilizzarla. Pazienza, ne avrebbe fatto a meno.
Scese nella sala comune dove trovò un solo tavolo di giocatori, in un angolo. Erano già in quattro, ma si avvicinò ugualmente, con finta noncuranza, non prima di aver preso un boccale di birra dal vassoio della cameriera che gli passò accanto. La ragazza gli rivolse un’occhiataccia: la birra non era per lui. Jake le rivolse uno dei suoi sorrisi sornioni e la ragazza arrossì, ma non fu una cosa che Jake notò: era già concentrato sul tavolo dove i quattro stavano giocando al Gatto Nero.
Osservò la partita, leggermente in disparte. Uno dei quattro era stato spennato per bene: era evidente dallo sguardo fisso sulle poche monete ancora davanti a lui; un paio di mani e avrebbe lasciato il tavolo. Il tipo alla sua destra era, certamente, quello che aveva avuto la maggiore fortuna. Gongolava e ridacchiava in continuazione, anche un idiota avrebbe capito che aveva in mano delle ottime carte. Si avvicinò alla finestra posta accanto al tavolo, fingendo di osservare la strada sorseggiando la birra, ma con la coda dell’occhio scrutò l’uomo: aveva due borse in pelle discretamente gonfie di monete. Aveva trovato il suo pollo.
Gli piaceva il Gatto Nero, un gioco di pura fortuna. E bluff. E Jake era bravo in entrambe le cose. Continuò a sorseggiare la birra fingendo di osservare la pioggia scendere in strada, ma attendeva il momento in cui il tizio messo male avrebbe abbandonato il tavolo.
Non dovette attendere molto: un paio di mani e l’uomo rimase senza monete. Si alzò tra le proteste degli altri tre giocatori, che non potevano proseguire senza un quarto. Ovviamente chi protestò maggiormente fu il tizio che aveva vinto quasi tutto. Jake sogghignò, era arrivato il suo momento.
“Dai, Carl, non te ne andare! Vedrai che la fortuna gira e la prossima mano sarà quella buona!” stava dicendo il tizio sogghignante a quello che aveva appena spennato. “Senza il quarto dovremo smettere anche noi”
“Se non ci sono problemi, il quarto posso farlo io” Jake intervenne come se fosse una decisione presa all’improvviso, ma impercettibilmente mosse la borsa contenente il suo denaro, una quantitativo abbastanza consistente.
L’uomo di nome Carl si allontanò alla svelta, visibilmente sollevato, mentre gli altri facevano segno a Jake di sedersi.
“Allora, amico, a cosa preferisci giocare?” gli chiese il tizio ghignante
“Scegliete voi, a me basta solo distrarmi un po’. Sapete, le donne! Farebbero ammattire anche un santo!”
“Oh sì sì, le donne, sono nate solo per creare problemi agli uomini!”
Jake voleva metterli a loro agio, fare in modo che fossero tranquilli. Così li avrebbe spennati meglio.
Osservò la sua vittima prescelta. Era tarenese, dalla pelle non troppo scura. Probabilmente un mercante, poiché non aveva inserti colorati nelle maniche a sbuffo. Ed era grasso, i bottoni della giubba sembravano sul punto di esplodere da un momento all’altro. Disse di chiamarsi Juilin. Un nome buffo, pensò Jake, per un omone di quella stazza.
Juilin prese il mazzo di carte e iniziò a mescolarle, osservando Jake. Probabilmente il mazzo era il suo e si aspettava che il nuovo arrivato pretendesse di utilizzare un mazzo di sua proprietà. Jake attese serafico che Juilin distribuisse le carte. L’uomo sembrò contrariato del fatto che Jake non protestasse, ma si limitò a distribuire 13 carte a testa. Le prime due mani Jake giocò in modo conservativo, non voleva vincere, ma nemmeno perdere tutto. Poi iniziò a sentire la fortuna che gli sorrideva; era una sensazione fisica, come un brivido sotto pelle. Iniziò a vincere, una partita dopo l’altra. Per non dare troppo nell’occhio dovette forzatamente perderne qualcuna, ma non fu affatto facile.
“Per la Luce, amico mio! Hai la fortuna del Tenebroso!” esclamò ad un tratto Juilin
A questa affermazione gli altri due si mossero leggermente a disagio sulla sedia. Portava male nominare Shai’tan, lo sapevano tutti, persino i bambini.
“Non diciamo sciocchezze! È solo che questa sera gira bene!”
Un altro paio di partite e perfino Juilin aveva perso il sorriso, nonché più di metà delle monete.
Jake, osservando la borsa di pelle, ormai piena, decise che per quella sera era il caso di smettere. Aveva già in tasca il denaro necessario a sopravvivere svariate settimane.
Decise di perdere un paio di partite prima di lasciare il tavolo, ma senza puntare troppo.
Quando ebbe lasciato agli altri un paio di marchi d’argento, finì la birra e si alzò.
“Signori, mi piacerebbe continuare, ma i miei occhi cominciano a confondere le carte”
SI alzò dal tavolo, prese la borsa con le monete e si diresse verso la stanza.
Adesso che aveva denaro a sufficienza, doveva capire cosa fare di sé, del Topo e della sua vita.

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Capitolo 3
*** 2. Alys I ***


Alys si chiuse alle spalle la porta della bottega del fabbro, per non bagnarsi abbassò ancora di più il cappuccio dell’ampio mantello e si allontanò, rapida e silenziosa sotto la pioggia battente. Oltrepassò la locanda e svoltò nel vicolo successivo. Lì ad attenderla c’era una carrozza scura e anonima, raggiuntala aprì lo sportello ed entrò.
“È andato tutto come previsto?” le domandò una voce maschile.
Alys rivolse all’uomo che la osservava un sorriso sollevato e si sedette di fronte a lui:
“Tutto come avevamo sperato, anzi” mostrò all’uomo il laccio di cuoio con i tre anelli “abbiamo recuperato anche l’anello”
L’uomo le sorrise “non potevamo sperare in niente di meglio, hai fatto davvero un ottimo lavoro”
“Grazie, Gaebril”
L’uomo di nome Gaebril diede un ordine al cocchiere e la carrozza partì.
“Sospetta qualcosa?”
“Non penso. Ha creduto a tutto ciò che gli ho detto e non ha fatto domande, nemmeno alla vista del Gran Serpente”
“Per quanto tempo ancora dovrò fingere di essere tuo marito?” la voce di Gaebril tradiva una certa insofferenza.
Alys si sporse verso di lui e, posandogli una mano sulla gamba, lo guardò intensamente. “Ti dispiace così tanto?”
Gaebril scosse la testa, “Non è questo, e lo sai …” il suo tono era allo stesso tempo dolce e fermo. Alys ritrasse la mano e si appoggiò nuovamente al sedile.
“Lo so, Gaebril, lo so …”, nella voce una nota di amarezza.
Proseguirono il viaggio in silenzio.

Viaggiarono tutta la notte e tutto il giorno successivo, fermandosi solamente in tarda mattinata in un villaggio per mangiare qualcosa e sostituire i cavalli, ormai sfiniti.
Al tramonto avevano raggiunto il ponte che portava all’ingresso dell’antica città di Far Madding. Lì Alys ritenne di essere abbastanza al sicuro da potersi fermare per la notte.
La città sorgeva sulle colline di Kintara, ed occupava un’isola in mezzo ad un lago, collegata alla terraferma tramite tre ponti dai quali partivano le strade per Tear, Caemlyn e Illian. Le porte di accesso venivano chiuse durante la notte e la città diventava praticamente inaccessibile. A nessuno era consentito girare armato entro le mura della città. Inoltre era completamente schermata dall’Unico Potere grazie ad un potente ter’angreal, il Guardiano, che impediva di incanalare sia Saidar che Saidin in un raggio di un miglio attorno alla città.
“Far Madding …” sussurrò Gaebril sbirciando fuori dal finestrino della carrozza “Non mi piace questa città”
“Non c’è posto più sicuro di Far Madding, Gaebril, e lo sai”
“Un luogo dove non è permesso portare armi è un luogo sicuro solo per chi le introduce di nascosto”
“Devo parlare con una persona, Gaebril, anche se Far Madding pululasse di Amici delle Tenebre. E sai anche tu che non è così. Perciò rilassati, domattina saremo di nuovo in viaggio verso Caemlyn”.
Gaebril non sembrava convinto, ma non aggiunse altro; il tono di Alys, del resto non ammetteva repliche.
Raggiunsero il ponte poco prima che le porte si chiudessero e si registrarono con nomi falsi. Anche se l’impossibilità di utilizzare l’Unico Potere, e quindi anche di accedere al Tel’Aran’Rhiod, abbassava notevolmente le probabilità di venire rintracciati dagli Amici delle Tenebre, era meglio non correre rischi.
Trovarono la locanda di cui Alys conosceva la proprietaria, una donna nata e cresciuta a Caemlyn.
Lydia, questo il nome della locandiera, era una donna minuta, con i capelli ormai color dell’argento tagliati corti e vivaci occhi azzurri, ma, nonostante l’età avanzata, manteneva ancora una freschezza nel viso che ne rivelavano i trascorsi di giovane che aveva fatto perdere la testa a più di un uomo, e l’abitudine all’uso del Potere.
Li accolse con tutti i riguardi, e diede ad Alys e Gaebril le migliori stanze e una sala da pranzo privata, di quelle riservate alle donne. A Far Madding erano le donne a governare, e le donne erano ricevute e trattate con maggiore rispetto degli uomini.
Quando Alys si fu sistemata e lavata, la mandò a chiamare, ricevendola nella sala da pranzo.
“Mia signora” iniziò Lydia chiudendo la porta
“Lydia, per favore, qui non ci sente nessuno”
“Alys … immagino vorrai sapere le novità” Lydia perse ogni finta reverenza “Le notizie non sono buone, amica mia. Tear è nelle mani degli Amici delle Tenebre, completamente. Tutti i Sommi Signori sono stati uccisi o costretti ad allontanarsi. I nuovi, mi ci giocherei la locanda, sono tutti servi del Tenebroso. E pare ci siano infiltrazioni anche a Illian”
“Non posso occuparmi anche di Illian” rispose Alys in un sospiro
“Lo so, per questo ho mandato Marym”
“Una azzurra … ottima decisione”
“Ex azzurra … nemmeno lei fa più parte della Torre”
Alys sgranò gli occhi “Un’altra Sorella che abbandona la Torre, Luce santa, che fine faranno le Aes Sedai?”
“La fine che abbiamo fatto noi, amica mia, continueranno a combattere l’Ombra. Non possiamo permettere che conquistino ogni nazione. Alys, fai quel che devi per salvare Caemlyn e l’Andor. Ricorda, la Torre non ci aiuterà”.
“È già tanto che non ci mette i bastoni tra le ruote” commentò Alys sarcastica.
“L’Amyrlin pensa soltanto a proteggere Tar Valon e niente altro. Le interessa solo la Torre, il resto del mondo non conta. Non avevamo un’Amyrlin così ottusa da … probabilmente da prima dell’ultimo Drago al’Thor, vale a dire da più di mille anni”.
Un improvviso silenzio cadde fra le due donne, al pensiero della Torre Bianca ridotta al fantasma di se stessa; la potente Torre Bianca che per secoli si era opposta all’Ombra con ogni mezzo, ora giaceva ripiegata su se stessa, come uno struzzo con la testa infilata nella sabbia.
“Cosa mi dici, Alys …”.
Alys alzò lo sguardo verso la donna, quella donna che era stata molto importante nella gerarchia delle Sorelle, quando ancora era Aes Sedai, che era stata sua insegnante e mentore quando studiava alla Torre, e l’aveva convinta a scegliere l’Ajah Verde, l’Ajah da battaglia, le Sorelle sempre pronte a scendere in campo contro l’Ombra, anche a fianco degli eserciti quando necessario. Quella donna che ora, seppur nascosta in un posto dove non poteva incanalare, comandava la resistenza in tutto il mondo.
Avrebbe voluto avere metà della tempra di Lydia.
“Ho recuperato il ter’angreal rubato, ho eliminato una minaccia per Caemlyn e forse ho trovato un’arma”
Lydia la guardò con approvazione “Raccontami”
Alys le raccontò di come aveva scoperto che quella donna, che si faceva chiamare Pauline tra i servitori del palazzo reale di Caemlyn, era in realtà un’Amica delle Tenebre inviata da Tear. L’aveva osservata e pedinata a lungo, soprattutto nel Mondo dei Sogni, aveva capito i suoi legami con Tear ma non era riuscita a stabilire chi l’avesse mandata né perché. Avrebbe voluto rimanere in osservazione ancora un po’, ma la donna era entrata in possesso, non sapeva bene come, del potente ter’angreal a forma di anello smaltato in verde, ter’angreal che permetteva a chiunque lo usasse di creare una tessitura di spirito in grado di imprigionare per sempre un’altra persona nel Tel’Aran’Rhiod, fino alla morte del suo corpo nel mondo reale. Questo l’aveva resa troppo pericolosa. Raccontò a Lydia di come aveva tentato di sottrarre l’anello alla donna, ma aveva rischiato di farsi scoprire; Pauline aveva sospettato qualcosa ed era scappata verso Tear. Alys l’aveva immediatamente inseguita e l’aveva fatta uccidere, prima che potesse consegnare il ter’angreal a qualcuno.
Quando tacque, Lydia rimase in silenzio, pensierosa, per un po’.
“Hai fatto quello che andava fatto” disse dopo qualche minuto “è troppo importante che Caemlyn non cada nelle mani dell’Ombra”
Alys annuì, sollevata. Non che avesse mai pensato di avere alternative, ma l’approvazione di Lydia le tolse il peso di quanto aveva fatto.
“Mi parlavi di un’arma …”
“Si tratta di un uomo. Si fa chiamare il Topo e uccide dietro compenso”
“Un assassino …”
“Sì”
“Appartiene a qualche setta, a qualche gilda?”
“No, agisce da solo, in completa autonomia. È molto bravo in quello che fa, ma soprattutto è un Sognatore potente, più abile di me”
Lydia si fece improvvisamente molto interessata, “E come intendi servirtene?”
“Cercherò di portarlo a Caemlyn. Un assassino che può manipolare il Tel’Aran’Rhiod è un’arma troppo potente per lasciarlo andare”
“Concordo” annuì Lydia “Ma come intendi fare?”
“Farò in modo di portarlo a Caemlyn, ancora come non lo so. Seguirò il girare della Ruota e quando si presenterà l’occasione giusta sfrutterò il momento”
“E se l’occasione non si presentasse?”
“Farò in modo che si presenti”
Lydia scoppiò in una improvvisa risata “A volte penso che, viste le trame che intessi, saresti stata un’ Azzurra perfetta! Ma adesso dimmi, tu come stai?”
Alys abbassò il viso “Sono stanca Lydia. Ogni volta che credo di fare un passo avanti, poi ne faccio due indietro”.
“Ti riferisci alla guerra contro l’Ombra … o a Gaebril?” lo sguardo di Lydia era acuto come sempre.
Alys non rispose, ma si alzò e si avvicinò alla finestra, guardò fuori e vide la sagoma di un uomo che avrebbe potuto essere Gaebril.
“È sempre più insofferente. Non capisco perché stia ancora con me. Non sono più una Sorella, non ho più necessità di avere un Custode. L’ho sciolto dal legame molti mesi fa”
“Forse non se ne vuole andare. Forse non ha un altro posto dove andare”
“Temo il momento in cui lo troverà”
Lydia si avvicinò ad Alys e le cinse le spalle con un braccio “Non puoi trattenere chi non vuol restare, e non puoi costringere nessuno a ricambiare un sentimento”.
Alys non disse nulla, ma continuò a fissare la figura fuori dalla finestra.

Alys camminava lungo il corridoio che portava alla sala del Trono di Rose, nel palazzo reale di Caemlyn. Il corridoio era deserto e non udiva altro che i suoi passi. Le torce erano spente, ma una permanete e innaturale luminosità si diffondeva ovunque. Questa luce perenne, sia di giorno che di notte, che non aveva una fonte ma permeava tutta l’atmosfera, era una delle principali caratteristiche del Mondo dei Sogni. Ad un tratto vide comparire una figura alla sua destra, che camminava verso di lei. Alys non fece in tempo a capire chi fosse che già era sparita. Si rilassò, si trattava di una persona normale che durante il sonno aveva varcato il confine del Tel’Aran’Rhiod, inconsapevolmente. Succedeva spesso che le persone, durante i sogni, attraversassero per qualche attimo il confine, ma solo i Camminatori erano in grado di rimanervi stabilmente e consapevolmente. O chi possedeva un ter’angreal adatto allo scopo. Tutti gli altri come comparivano, altrettanto velocemente scomparivano.
Alys raggiunse la grande porta istoriata che si apriva sulla sala del Trono. Era chiusa. La donna mutò il suo semplice abito scuro in un abito in seta colore della notte, impreziosito da ricami d’argento attorno allo scollo e sull’orlo. Il mantello sparì e i capelli, sciolti sulle spalle, vennero trattenuti da un cerchietto d’argento incrostato di piccoli zaffiri. Stava per incontrare la Regina di Andor, doveva darsi un contegno.
Non le servì nemmeno aprire la porta: le bastò pensare di essere dall’altra parte e nel tempo di un battito di ciglia fu ai piedi del trono. Questo era posto su un rialzo di cinque alti scalini fatti di marmo rosa.
Sorrise e si inchinò alla donna seduta sul trono.
“Maestà …”
“Alzati, Lady Gray, e avvicinati”
Alys alzò lo sguardo verso la sua regina, nonché cugina per parte di madre. Si somigliavano infatti: stessi capelli biondi ricci, stessi occhi color del cielo. Ma Maeve Trakand aveva almeno vent’anni più di Alys, e possedeva una fierezza nel portamento che incuteva timore e rispetto anche senza che proferisse parola. Era la sedicesima sovrana di casa Trakand, cresciuta ed educata per essere regina. E regina era.
Alys salì fino al penultimo scalino e lì rispettosamente si fermò.
Maeve Trakand si portò le mani giunte davanti alla bocca e chiuse gli occhi, quasi non sapesse da dove cominciare.
“Lady Alys Gray, mi sono giunte voci che intrattieni rapporti con una ex Aes Sedai in esilio” il tono della regina era piuttosto seccato.
“Altezza, io …”
“Non interrompermi, Alys” La voce della sovrana si fece ancora più dura “tu sai quanto sono importanti i rapporti tra Caemlyn e Tar Valon, tu sai che non posso permettermi di inimicarmi la Torre e l’Amyrlin”
“Lo so, Altezza, ma l’Ombra ci assedia, e la Torre Bianca non fa nulla a riguardo” Alys cercò di non avere un tono duro, ma non le riuscì particolarmente bene “Maestà, siamo in guerra, dopo mille anni l’Ombra si muove. Hanno già Tear, si estendono a Illian e …” si fermò e alzò lo sguardo, fissando negli occhi di Maeve “… sono arrivati anche a Caemlyn”
La regina la guardò pensierosa, si riportò le mani alla bocca.
“Perché non me ne hai parlato?”
“Non avevo prove certe. Ora le ho, Altezza”
“Parla ora, dunque”
“Si trattava di una donna, Pauline, una dei domestici, l’ho scoperta una sera parlare con un nobile Tarenese giunto in visita, ho udito qualcosa, parlavano di prendere Caemlyn. L’ho pedinata a lungo e ho fatto ricerche. Aveva dei legami a Tear. Una notte l’ho seguita qui, nel Tel’Aran’Rhiod, l’ho vista parlare con un uomo incappucciato. Parlavano di prendere il controllo del Trono di Rose”.
“E che fine ha fatto questa donna?”
“È morta, maestà”. La regina alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. Alys si aspettò domande, che però Maeve non fece, così si sentì autorizzata a proseguire. “Sono convinta che il pericolo non sia cessato. Voi, Altezza, siete in pericolo. A Tear la maggior parte dei Sommi Signori sono stati uccisi … o peggio. Gli Amici delle Tenebre controllano la città, e voglia la Luce che siano solo Amici delle Tenebre. Maestà, sto cercando di proteggere voi e la nostra nazione”
Alys pronunciò quest’ultima frase con voce accorata, ma evitò di raccontare come e per mano di chi era morta Pauline, e non accennò all’anello ter’angreal.
Maeve Trakand sembrò scossa. Rimase in silenzio alcuni lunghi attimi, poi parlò.
“Va bene, Lady Gray. Ti credo. Ma non posso permettere che una delle persone a me vicine, una mia parente, una delle nobili più potenti di Caemlyn, nonché ex Aes Sedai, possa destare sospetti a Tar Valon”
“Ma … Maestà …”
“Silenzio!” tuonò Maeve, Alys abbassò il capo, ma dovette trattenersi a stento.
“Non so quali siano i tuoi rapporti con questa Lydia, ma so che lei è stata tua mentore quando studiavi alla Torre Bianca”
Alys la guardò stupita
“Credi che non abbia anche io i miei informatori? Comunque, ti lascerò lavorare, ma ti chiedo di farlo con maggiore discrezione. E soprattutto mi terrai periodicamente informata di ogni tua mossa. Se lavori per proteggere Caemlyn, lavori per me. Io devo sapere, soprattutto se devo coprirti con l’Amyrlin, non voglio sorprese. Hai capito, Lady Gray?”
“Sì, maestà, ho capito”
“Molto bene, ora vai. Cerca di tornare a Caemlyn in fretta e sana e salva”
Alys aprì gli occhi nella stanza della locanda a Far Madding. Era quasi l’alba. Ripensò al dialogo appena avuto con la Regina e si sentì fremere di rabbia. Con tutti i rischi che stava correndo per proteggere Maeve e il trono, doveva prendersi anche una lavata di capo per questioni politiche. Ebbe una voglia irrefrenabile di aprirsi alla Vera Fonte e incanalare. Ma avrebbe solo attirato su di sé l’attenzione, ed era proprio quello che voleva evitare. Se non altro era riuscita a tenerle segreto il ter’angreal recuperato e soprattutto il Topo.
Decise che doveva farlo arrivare a lei al più presto.

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Capitolo 4
*** 3. Jake II ***


Jake si rigirò nel letto e il dolore diffuso in tutto corpo lo svegliò di nuovo. Era già mattino inoltrato ma aveva trascorso una notte da incubo, nonostante il letto della locanda fosse molto comodo: l’aggressione subita la sera prima gli aveva lasciato più strascichi di quelli che si era aspettato. Si era coricato con un senso di baldanzosa euforia, dovuta un po’ al denaro vinto, un po’ alle birre e anche se ancora non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, con la borsa piena di monete si sentiva decisamente più ottimista. Ma dopo un paio d’ore di sonno si era svegliato con il collo che gli doleva terribilmente mentre la schiena non gli permetteva più di stare sdraiato. Si era alzato e aveva provato a camminare un po’ nel buio dell’angusta stanzetta e quando la schiena sembrava dargli un po’ di tregua si era rimesso nel letto.
Si era svegliato di nuovo dopo un paio d’ore, e poi ancora e così via per tutta la notte, ed ogni volta le gambe gli parevano meno salde di prima.
Si alzò, almeno per vedere se riusciva a stare in piedi: ci riuscì, anche se le gambe erano leggermente malferme. Si avvicinò al lavabo, si vide riflesso nello specchio e trasalì: due grossi lividi scuri gli cingevano il collo dove l’aggressore lo aveva stretto.
“Sangue e ceneri” imprecò “dovrò cercare qualcosa per coprire il collo”.
Guardò la giubba e la camicia ancora sporche di sangue “E anche qualcosa da mettermi”. Decise che si sarebbe recato nel Maule, dove c’era sempre una sorta di mercato e avrebbe potuto trovare qualcosa che faceva al caso suo, spuntandoci anche un buon prezzo con un po’ di contrattazione.
“Prima però dovrei mettere qualcosa sotto i denti” si disse, sentendo lo stomaco che brontolava.
Si vestì con l’unica camicia che aveva, quella ancora macchiata di sangue, e scese nella sala comune, per consumare una colazione a base di pane all’uvetta e latte caldo; quindi chiese a mastro Clifford un paio di tavolette di legno che avrebbe legato sotto gli stivali, una volta raggiunto il porto, per muoversi nelle strade fangose di quella zona della città senza affondare nella melma.
Indossò il mantello ed uscì senza celarsi nel cappuccio. Aveva smesso di piovere, il cielo si era fatto sereno e un bel sole rendeva l’aria tiepida, come sovente accadeva negli inverni degli stati del sud; girare incappucciato per le strade non sarebbe stata una buona idea se non voleva farsi notare.
Non appena ebbe chiuso alle sue spalle la porta della locanda, vide in strada un gran trambusto: erano stati trovati i corpi dei due Difensori che aveva ucciso la sera prima, ed era intervenuta la Guardia Cittadina. Ben cinque soldati erano lì presenti e stavano interrogando tutti coloro che ritenevano potessero avere informazioni. La gente passava veloce e cercava di scansare gli sguardi inquisitori dei soldati, perché non si sapeva mai bene come potessero concludersi quegli interrogatori, ma quasi nessuno riusciva, in realtà, a sfuggire alle domande.
Jake fu colto dal panico: cercavano lui, anche se non lo sapevano, ma la sua camicia imbrattata di sangue e i lividi sul collo sarebbero stati indizi sufficienti per trascinarlo alla Pietra, e chissà là cosa sarebbe successo. Senza considerare che Jake non era sicuro di riuscire a inventarsi delle giustificazioni convincenti; doveva fuggire senza farsi notare, ma con i dolori diffusi nel corpo e le gambe malferme non riusciva a muoversi troppo rapidamente; diede le spalle alla scena e cercò di dileguarsi più alla svelta che potè, ma si mosse troppo tardi: una delle Guardie lo notò e lo chiamò a gran voce “Ehi tu! Tu con il mantello nero, fermati immediatamente!”
“Sangue e ceneri!” imprecò Jake tra sé “Sono un cretino! Sarei dovuto rimanere a letto!”
In ogni caso si voltò con dipinta in faccia l’espressione più stupita che riuscì a fare, ma si strinse di più nel mantello cercando di coprire le macchie di sangue sulla camicia: “Buongiorno, amico, dici a me?”
“Sì sì, dico a te, da dove arrivi?” Il tono del soldato era tutt’altro che amichevole.
“Da questa locanda” rispose Jake, innocente.
La risposta non piacque al soldato, che lo incalzò “Cosa ci facevi in quella locanda? Cosa ci fai a Tear? Non sei Tarenese”
In effetti, benché vivesse a Tear da diversi anni ormai, vagando di locanda in locanda per non dare troppo nell’occhio, Jake era nato nel regno di Cahirien, in un villaggio non troppo lontano dalla capitale.
“Vengo dal Nord e sono qui per affari” mentì Jake
“Che tipo di affari?”
“Commercio” Jake rimase vago, poiché  non sapeva chi i soldati stessero cercando ed ogni informazione poteva ritorcersi contro di lui, ma il soldato nuovamente non sembrò apprezzare e divenne ancora più aggressivo.
“Rispondi alla domanda, quali affari ti portano a Tear?”
“Ehi, amico, niente di losco. Commercio in pepe dei ghiacci e sono arrivato giusto ieri da Maradon. Un viaggio lungo.”
Cercò di mantenere un tono calmo e il sorriso un po’ furfante che più di una volta lo aveva tolto dai guai ma il soldato non rimase impressionato.
“Io non sono tuo amico e tu non mi sembri saldeano”
Jake cercò di mantenere il controllo, ma si rese conto che stava iniziando ad annaspare, il tipo era un osso duro, e probabilmente aveva fiutato la pista giusta.
“No, cioè sì … vengo dalla Saldea, ma non sono saldeano … cioè, sono nato a Cahirien, ma …”.
Il soldato non parve soddisfatto della risposta farfugliata, tanto che si avvicinò con fare inquisitore. Jake si chiese da quando non era più capace di passare inosservato.
“Non ti credo, stai mentendo … ”
Jake finse una risata di scherno, “E perché mai dovrei mentire? Io …” in quell’istante una folata di vento gli scostò il mantello, mettendo in mostra la camicia chiazzata di sangue.
“Ehi, cos’hai lì, sulla camicia?” e si avventò su Jake a strappargli il mantello, mettendo in mostra non solo le chiazze di sangue, ma anche i lividi sul collo. Con un grido richiamò l’attenzione delle altre Guardie.
“Eccolo, è lui! l’abbiamo preso!”
Jake cercò di divincolarsi e fuggire, ma il soldato gli afferrò il braccio con più forza e glielo torse dietro la schiena, costringendolo poi a terra.
“Ehi! Non ho fatto nulla! Lasciami, lasciami subito!” Jake cercò di protestare e divincolarsi, ma tutto quello che ottenne fu una ginocchiata nella schiena che lo costrinse a stendersi ancora più sul selciato. Gemette per il dolore, ma si convinse a non opporre altra resistenza, per lo meno fisica, soprattutto perché attorno a lui si erano radunati anche gli altri quattro soldati. Quattro armati contro uno disarmato, non aveva possibilità di fuggire. Non rinunciò però alle proteste verbali.
“Lasciatemi! Lasciatemi! Non capisco cosa volete, non ho fatto nulla!” ed effettivamente non capiva come fossero arrivati a lui così facilmente. Non erano passati che dieci minuti da quando era uscito dalla locanda, ma già si ritrovava a terra in stato di arresto. Eppure non aveva visto nessuno nella strada, la notte precedente, nessuno in grado di riconoscerlo, ne era sicuro. O forse no …
“Se non hai fatto nulla, perché hai macchie di sangue sulla camicia e lividi sul collo?”
“Sangue? Non è sangue! È … è … vino! Ieri sera, sapete com’è … si beve un po’ troppo …”
“Stai zitto! Mantieni il fiato per parlare davanti al Sommo Signore Caled!”
Un’altra ginocchiata, questa volta nel costato, gli tolse il respiro che gli rimaneva per protestare e si accasciò al suolo accovacciato su se stesso, gemendo.
Gli piegarono anche l’altro braccio dietro la schiena e gli legarono i polsi. Quindi due soldati lo afferrarono saldamente per le braccia e lo trascinarono via. Non poteva ribellarsi, non poteva tentare di fuggire; anche se fosse riuscito a divincolarsi l’aggressione della sera prima e i colpi subiti poco prima non gli avrebbero permesso di correre veloce. E con i polsi legati non sarebbe andato comunque troppo lontano.
Tra la folla di curiosi che si era riunita nella strada, Jake vide Juilin, l’uomo al quale aveva sottratto la maggior parte del denaro vinta la sera prima; aveva dipinto sul volto un ghigno soddisfatto e Jake capì che era stato Juilin a denunciarlo, probabilmente per risentimento, avendo notato il sangue sulla camicia e le ecchimosi sul suo collo.
Nel vedere il ghigno sul volto del giocatore, Jake fu colto da una furia cieca, digrignò i denti e promise che si sarebbe vendicato.
Ma intanto lo stavano portando di peso nella Pietra di Tear e Jake doveva, per prima cosa, capire come uscire da quella situazione e solo dopo avrebbe potuto pensare a cosa fare con il cadavere di Juilin.

Alys si trovava di nuovo immersa nella permanente luminosità del Tel’Aran’Rihod. Non c’era né giorno né notte nel Mondo dei Sogni, non c’erano il sole, la pioggia, nuvole o vento. Era tutto sempre uguale, anche se nulla era davvero immobile. Nel Mondo dei Sogni solamente quello che si trovava di fronte a lei sembrava avere una consistenza solida, e comunque solo quello che nel mondo reale era fermo e immutabile. Tutto quello che era in movimento o che poteva essere spostato da un luogo ad un altro perdeva di consistenza. Una casa, ad esempio, sembrava abbastanza solida, ma le porte e le finestre continuavano ad apparire e sparire. Inoltre tutto ciò che rimaneva a lato del campo visivo, sembrava invece tremolare e diventare evanescente.
Queste caratteristiche del Tel’Aran’Rhiod rendevano faticoso per Alys muoversi in quel mondo, che le provocava un senso di nausea costante, nonostante la donna non fosse in grado di entrare nel Mondo dei Sogni con tutto il corpo, stomaco compreso, ma solo con lo spirito. In quel momento, infatti, il suo corpo si trovava in una locanda in un villaggio sulla strada per Caemlyn, mentre il suo spirito si trovava in una immagine del salotto della sua casa a Caemlyn, seduta su una poltrona con lo schienale alto, mentre attendeva la persona che doveva incontrare.
L’aria di fronte a lei tremolò e comparve una giovane donna alta, con i capelli lunghi e biondi e gli occhi verdi. La ragazza aveva sangue Aiel, anche se nata e vissuta nelle terre bagnate.
“Sahra!”
“Alys Sedai” salutò protendendosi in una riverenza perfetta.
“Saresti una novizia perfetta, Sahra!” commentò Alys
“Alys Sedai, perdonami, ma ho pessime notizie da darti”
Parlava con un marcato rotacismo, normalmente reso irresistibile da un sorriso contagioso. Questa volta però il suo volto era serio, quasi spaventato. Sahra era una delle spie di Alys a Tear, e faceva parte della rete di spie dell’Ajah Verde, una ragazza molto affidabile.
“Siedi e raccontami”, accanto alla ragazza Alys fece comparire una poltrona. Uno dei vantaggi del Tel’Aran’Rhiod era che, se si era sufficientemente forti nell’uso del potere, si poteva manipolare quella realtà a proprio piacimento.
“Il tuo uomo, il Topo, è stato arrestato dai Difensori della Petra”
Alys sgranò gli occhi “Sangue e ceneri!” imprecò “Come è possibile?”
“Ha ucciso due Difensori della Pietra”
“Cosa? Luce santa, cosa ha combinato?”
“Te la farò breve, Alys Sedai: c’è stata una colluttazione, il Topo li ha uccisi e poi si è recato nella locanda, la Stella. Lì ha passato la serata a giocare a carte. Pare abbia la fortuna del Tenebroso e ha vinto parecchio. Uno dei suoi compagni di gioco, evidentemente non particolarmente contento di essere stato ripulito, la mattina dopo lo ha denunciato alla Guardia Cittadina, intervenuta dopo che erano stati scoperti i cadaveri. Non credo abbiano prove concrete se non la denuncia di quell’uomo, anche se, a quanto sono riuscita a sapere, pare che avesse macchie di sangue sulla camicia e lividi sul corpo”.
Alys sospirò stizzita e si prese il volto tra le mani.
“Luce santa, è mai possibile che gli uomini debbano sempre ragionare con i peli del petto e mai con il cervello?”
“Cosa intendi fare?”
“Dove si trova?”
“Nella Pietra, nelle prigioni”
Alys sospirò di nuovo “Di bene in meglio! Non ho alternative, lo tirerò fuori di lì”
Sahra sgranò gli occhi “E come intendi fare? La Pietra è inattaccabile!”
“Ancora non lo so. Ma devo trovare un modo. Quell’uomo mi serve. A Caemlyn. Vivo.”
Quando Alys aprì gli occhi nella stanza della locanda non era nemmeno l’alba. Si sentiva stanca perché il sonno trascorso nel Tel’Aran’Rhiod non era riposante, ma nonostante ciò si alzò dal letto, e accese la candela. Si lavò il viso, e spazzolò i capelli, quindi indossò uno degli abiti adatti a cavalcare, con le gonne divise, un abito di seta verde scuro con ricami geometrici verde più chiaro sul corpetto. Voleva essere rapida e per questo essere comoda, ma era pur sempre una donna, e una nobile; doveva darsi un contegno.
Sistemò tutti i suoi averi in un fagotto, quindi uscì dalla stanza e bussò alla porta della stanza accanto alla sua.
Dopo pochi istanti Gaebril comparve sulla soglia, già vestito e pronto come se nemmeno si fosse coricato.
“Preparati, torniamo a Tear”.

La donna, avvolta in un aderente vestito di velluto color sangue, sedeva a gambe accavallate con lo stesso contegno di una regina, anche se il suo interlocutore era di gran lunga più importante di lei; sorseggiava con finta non curanza una coppa di vino.
La donna era talmente bella che avrebbe catalizzato l’attenzione di qualunque persona presente in quella stanza, se ci fosse stato qualcun altro oltre a lei e all’uomo che le stava di fronte. E lui già letteralmente pendeva dalle sue labbra perfette, anche se fingeva di avere il controllo della situazione.
“Versati una coppa di vino, Caled. Abbiamo ottenuto un grande risultato, dobbiamo brindare” la donna bevve un altro sorso dalla coppa, mantenendo lo sguardo puntato sul suo interlocutore, uno sguardo che sembrava lasciare a intendere molte cose.
Il Sommo Signore Caled si versò una coppa di vino, e la alzò in direzione di lei:
“A te che ci hai portato dal Topo. Senza il tuo contributo probabilmente non l’avremmo mai scovato”
“Sì, è vero …” annuì “Dove si trova adesso?”
“Qui nella Pietra, nelle prigioni. Non lo vorrai mica incontrare?”
“No certo, non deve sapere nulla di me, non prima di averlo portato dalla nostra parte. E magari nemmeno dopo”
“Cosa intendi farne di lui?”
“Te l’ho appena detto, voglio portarlo dalla nostra parte. È troppo prezioso, troppo abile per lasciarlo in mano alle ex Sorelle, o qualunque cosa siano. Deve lavorare per noi”
Caled si fece pensieroso, mosse le labbra come per dire qualcosa, ma ci ripensò, sorseggiò il vino con espressione assorta. Rimasero in silenzio alcuni minuti, come se lui stesse cercando di capire fino in fondo quello che la donna gli voleva dire.
“Ma come intendi convincerlo a passare all’Ombra?” chiese infine “è un assassino, sì, ma non mi sembra votato alla nostra causa, anzi. Non mi pare votato ad alcuna causa che non sia il denaro”
“Oh, ma non ho nessuna intenzione di convincerlo. Non intendo nemmeno domandarglielo, se è per questo”
Improvvisamente il Sommo Signore Caled capì le implicazioni di quanto stava dicendo la donna e sgranò gli occhi, terrorizzato “Non vorrai dire che … una conversione forzata! Isabella, tu non …”
La donna posò la coppa e si alzò, avvicinandosi al Sommo Signore, con un movimento seducente e pericoloso, un cobra che si avvicina alla sua preda; gli arrivò ad un palmo dal viso, fissandolo negli occhi, e sorridendo gli posò una mano sulla guancia, carezzandolo dolcemente.
“Caled … Caled … non devi preoccuparti. Non sono cose di cui tu ti dovrai occupare. Hai fatto tutto quello che andava fatto. Sono sicura che i nostri Padroni sono già molto soddisfatti di te e dei tuoi uomini”
Così dicendo gli posò un lieve bacio all’angolo della bocca e si allontanò da lui, lasciandolo inebetito.
“A proposito, la ragazza e l’uomo grasso, li hai convocati?” domandò;
“Sì … sì certo, sono qua fuori”
“Falli entrare, per favore …”
Caled si allontanò e la donna sorrise soddisfatta. Il Sommo Signore Caled era completamente nelle sue mani, avrebbe potuto ordinargli di fare qualunque cosa e lui avrebbe fatto tutto, senza battere ciglio. Prese di nuovo la coppa d’argento, riccamente cesellata, e bevve un sorso. Caled … un uomo detestabile, senza spina dorsale; non capiva come potesse essere diventato il più influente dei Sommi Signori, ma non importava. La cosa davvero importante era che lei lo avesse in pugno.
Il Sommo Signore ritornò, seguito da un uomo, un tarenese grasso dalla pelle non troppo scura, e da una ragazza alta e bionda, una mezza Aiel probabilmente.
Entrambi si inchinarono a lei, l’uomo con un po’ più di difficoltà mentre la ragazza allargò la gonna in una riverenza perfetta.
“Siete stati molto bravi, miei cari, molto” esordì la donna con voce suadente.
La ragazza si mantenne immobile, le mani strette al grembo e la fronte bassa, mentre l’uomo era evidentemente a disagio, e sudava molto nonostante non facesse così caldo.
“Meritate una ricompensa per quanto avete fatto” e così dicendo prese due sacchetti pieni di monete “Ecco, prendete”.
L’uomo e la ragazza parvero un attimo confusi, ma poi presero il denaro con avidità.
La donna li guardò, come si guardano dei cuccioli bene addestrati, e pensò con una punta di amarezza che presto avrebbe dovuto liberarsi di loro: sapevano ormai troppe cose.
Sarebbe stato più difficile liberarsi di Caled: un Sommo Signore non può scomparire da un giorno all’altro, ma avrebbe ovviato al problema in qualche modo, quando non avrebbe più avuto bisogno di lui.
Di quei due, invece, avrebbe potuto tranquillamente sbarazzarsi senza problemi.
Li guardò e si dipinse sul viso un sorriso rassicurante.
“Potete andare ora. Vi cercherò quando avrò bisogno ancora di voi”
L’uomo grasso e la ragazza si inchinarono di nuovo e uscirono svelti, senza aver detto una sola parola.
Il Sommo Signore Caled sembrava aver recuperato una parte del contegno che lo caratterizzava.
“E adesso che intendi fare?”
“Tornerò a Caemlyn per qualche tempo. Tu terrai qui il prigioniero e farai in modo che resti vivo. Hai capito?”
“Certo, cosa credi? Che non sia in grado di tenere in vita un prigioniero?” il Sommo Signore stava mostrando gli artigli, probabilmente non voleva perdere la sua apparente posizione di superiorità.
“È un prigioniero importante, lo sai. Voglio essere sicura che non gli capiti nulla” la donna cercò di avere un tono rassicurante.
“Ancora non ti fidi di me, Isabella …”
La donna non capì se quella di Caled fosse una domanda o un’affermazione; in ogni caso no, non si fidava, ma ovviamente lui questo non doveva nemmeno sospettarlo. Lo guardò con un misto di tenerezza e compassione “Ma certo che mi fido di te, Caled. Non ti avrei affidato il Topo se così non fosse …”
Si avvicinò nuovamente al Sommo Signore, gli carezzò il viso e lo baciò sulla guancia.
“La Luce ti illumini, Caled” aggiunse con una risata divertita, ben sapendo cosa poteva significare tale augurio per un Amico delle Tenebre. Quindi lasciò la stanza e si incamminò verso quelli che erano i suoi appartamenti nella Pietra di Tear, ospite di molta importanza dei Sommi Signori.
Si augurò che il momento in cui si sarebbe sbarazzata di Caled arrivasse in fretta.

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