An incredible past

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




The eyes of truth
are always watching you (…)
In the distance, the mirage stands out
like horses and cattle. (…)
-Enigma-
 
1.
 
 
 
 
 
A day without rain.

Era il titolo di una canzone di Enya, una cantante irlandese piuttosto nota, ma era anche ciò che stava accadendo quel giorno di giugno inoltrato.

Passeggiando tranquillo per le vie del centro, lo sguardo assorto mentre ascoltavo il vociare della gente attorno a me, sorrisi non appena inquadrai un mio vecchio amico.

Konag mac Leogh, ora conosciuto da tutti come Connor MacLeogh – Ronan era un asso nel falsificare i documenti – si avvicinò a grandi passi, veloce e flessuoso.   

Tutti i fomoriani hanno un’andatura elegante, ma il suo essere un licantropo da un paio di mesi – mutato dalla sua fidanzata Megan – ne aveva aumentato l’effetto.

Per coloro i quali non erano a conoscenza della sua seconda pelle, per così dire, sarebbe apparso solo come un bell’uomo dalla falcata elegante.

Ma io sapevo cosa si nascondeva dietro quell’incedere possente e fiero.

Era la bestia mannara, che reclamava parte dell’esiguo spazio che le era permesso di avere in presenza dei comuni mortali.

Ci stringemmo la mano dinanzi alle vetrine di un bar, in cui alcuni avventori stavano già sorseggiando la scura bevanda schiumosa chiamata Birra Guinness.

Non l’avevo mai provata, ma il suo aspetto mi aveva sempre intrigato.

Ronan, però, me l’aveva sconsigliata.

Noi fomoriani non reggiamo l’alcol, almeno stando alle sue parole.

Non gli avevo mai chiesto in quale occasione l’avesse sperimentato, ma mi fidavo abbastanza di lui da non tentare.

Chissà quali danni avrei combinato, una volta perso il controllo di me stesso?

No, meglio non pensarci.

«Allora, come stai, amico mio?»

Sorrisi, lieto di vedere i suoi occhi scuri illuminarsi alla mia domanda, rispondendo da soli al mio quesito.

Era evidente quanto stesse bene, e quanto la sua nuova vita lo soddisfacesse.

Ugualmente, Konag – no, mi ostinai a pensare a lui come a Connor, visto che era il suo nuovo nome – mi rispose.

«Tutto benissimo, credimi. Non potrebbe andare meglio. Alcune cose mi sono ancora un po’ oscure, e per certe altre devo solo farci l’abitudine ma, nel complesso, mi sento molto bene nella mia nuova pelle.»

Il fatto che Ronan lo avesse assunto nel suo negozio di antiquariato, aveva aiutato.

Primo, Ronan aveva avuto la certezza di aver acquisito un valido e fidato aiuto, secondo, Connor non si era dovuto sorbire le noie di trovarsi un capo umano.

Mi sorrise, battendosi una mano sul torace, ora abbracciato da una maglia in cotone scuro, a cui aveva abbinato una giacca, jeans scuri e mocassini.

Un perfetto cittadino qualunque.

Peccato che lo fosse solo di recente. Per più di settemila anni, era stato un valoroso combattente fomoriano, temuto e stimato da tutti.

E ora, distrutta per sempre la sua pelle di delfino, era divenuto un licantropo come la sua compagna e fidanzata, Megan MacBride.

Di certo, un bel cambiamento.

«Che ne dici se me ne parli mentre ci mangiamo un gelato?» gli proposi, sogghignando.

Connor rispose al mio ghigno con un altro, ben sapendo quanto fossi goloso di quel dolce di creazione terrestre.

La prima volta che lo avevo provato, avevo quasi pianto per la gioia.

Non ricordavo neppure più dov’era avvenuta quella piacevole scoperta, se in Grecia, o in Italia, ma era bastato quell’unico assaggio per rendermi suo schiavo.

Connor mi diede una pacca sulla spalla, sorrise divertito e disse: «Voglio farti provare un genere diverso, oggi. Niente gelati soft all’americana. Hanno rinnovato da poco un localino nei pressi di un bar del centro, e devo dire che non ha eguali, in zona. Vieni.»

«Ma i gelati soft… sono soft. Scivolano in bocca come se fossero carezze vellutate e…»

Non mi lasciò proseguire.

Interruppe le mie deboli proteste con un’occhiataccia degna del miglior generale fomoriano degli ultimi seimila anni.

«Credimi, cancellerai dal tuo vocabolario i gelati soft, dopo aver provato questo

Fui certo che i miei occhi brillassero, in quel momento.

La cosa mi intrigava parecchio, perciò non mi lamentai più e lo seguii come un cucciolo adorante.

Non impiegammo molto a raggiungere il bar di cui mi aveva parlato, che si trovava a poca distanza dal fiume Riffley e il Trinity College.

Il Temple Bar, con le sue pareti metalliche rosso fuoco e le scritte gialle, dava l’impressione di essere l’entrata di una caserma dei pompieri, ma era ben altro.

Circondato dalle vecchie case di mattoni del centro, e raggiungibile attraverso strette vie ricoperte di san pietrini, appariva gradevole e accogliente agli avventori.

File di vasi di fiori delimitavano il primo piano dello stabile, mentre scritte ammiccanti invogliavano a entrare per degustare la pregiata Birra Guinness.

L’interno era esattamente come lo avevo immaginato dai racconti di Ronan – che si era sempre rifiutato di portarmici per paura che mi cacciassi nei guai.

Un bancone in legno curvava sinuoso attorno alla postazione del barman, dove si trovava una fila praticamente interminabile di bottiglie di liquori.

Distributori di birra, di almeno sei tipi diversi, si intravedevano grazie a dei beccucci colorati, che riportavano i nomi delle bevande più o meno ambrate.

Tavolini tondi e rettangolari erano sparsi un po’ qua e un po’ là, per il momento privi degli avventori regolari.

Dopotutto, erano solo le quattro del pomeriggio.

Ma non era quella la nostra meta ultima, per quanto quel luogo mi ispirasse, almeno al primo sguardo.

Ciò che ci interessava, stava proprio dietro l’angolo, dove un’allegra insegna bianca, a forma di nuvola, prometteva sogni soffici e spumosi.

Soft dreams.

Oh, sì, sarebbero stati davvero sogni morbidi e piacevoli, almeno a giudicare dalla fila discreta che si trovava all’interno del locale.

Non appena entrammo, potei captare immediatamente il dolce profumo dei gelati, quello frizzante delle granite e uno più sensuale, gradevole come una carezza.

Non faticai molto a indirizzare il mio sguardo verso la fonte di tale aroma così seducente.

Onde e boccoli ramati cadevano su spalle esili, mentre occhi color del whisky lanciavano occhiate gentili ai ragazzini che stavano acquistando il gelato.

Indossava una camiciola leggera di cotone, bianca come le nuvole dell’insegna, e arricchita da vezzosi polsini color ciliegia, al pari del colletto ricamato a fantasie di fiori.

Una gelataia davvero dolce e appetibile, così come i prodotti che vendeva.

«Che te ne pare?»

«Eh?»

Connor ridacchiò per quella mia non-risposta, ma in tutta onestà non ero molto concentrato, in quel momento.

Per lo meno, non su di lui. O sui gelati esposti nel frigorifero.

Per quanto fossero gustosi e dall’aspetto accattivante, in quel preciso istante ero concentrato su ben altro.

La bella gelataia occupava tutto lo spazio, nel mio cervello.

Avrei voluto farle ciò che, entro breve, avrei fatto con i gustosi gelati che avrei ottenuto dalle sue mani candide ed eleganti.

I miei occhi si concentrarono sulla gelataia, sul modo sinuoso con cui le sue dita si muovevano per riempire le coppette che stava preparando.

Sembrava stesse danzando, muovendo armoniosamente quella mano esile, quel polso delicato, quell’avambraccio dalla pelle color pesca, quel…

Connor mi diede di gomito, facendomi perdere di vista quell’accurata analisi dell’umana.

Lo squadrai accigliato, vagamente irritato per essere stato interrotto ma lui, insensibile al mio cipiglio, mimò di asciugarmi una goccia dalla bocca. 

«Stavi sbavando.»

«Non è vero!» sbottai, arricciando il naso di fronte alla sua accusa.

Non del tutto, insomma.

Lui mi irrise con lo sguardo, non credendo neppure per un attimo alle mie parole.

Cosa potevano fare una pelle nuova, e una nuova vita!

Quelli che, fino al giorno prima, erano stati seguaci fedeli, ora non credevano più alla parola del loro principe.

E neppure gli portavano più il dovuto rispetto.

Scossi il capo, esasperato quanto divertito, e replicai: «Ammettendo per pura ipotesi che io la stessi guardando con interesse, quale sarebbe il problema?»

«Non devo essere io a dirtelo, Kris» ribatté lui, calcando il tono di voce sul mio nome umano. «Sai benissimo che devi stare attento.»

«Non ho intenzione di portarmela a letto, desidero solo farmi fare una coppetta di gelato» sottolineai, cercando di apparire contrito e serio.

Connor, ancora, non mi credette minimamente, e io sapevo bene il perché.

Non era una novità per nessuno, che io prediligessi la compagnia femminile e che, nel corso dei millenni, avessi visitato parecchi letti di sopraddetta categoria.

Nessuna donna si era mai lamentata di me e io, da bravo fomoriano, mi ero avvicinato a loro in modo così discreto da non scatenare nessun pettegolezzo.

Ma la fama si acquista anche così, specialmente quando se ne parla tra uomini, la sera, in foresteria, mentre le armi vengono rimesse al loro posto.

Non avevo mai fatto mistero di amare il genere femminile, e di portare il mio giusto tributo a Freya, nostra dea protettrice.

Vantarmi un po’ con gli uomini di stanza al palazzo, era stato divertente.

A volte anche imbarazzante, quando le domande erano entrate troppo sul personale, ma mai nessun nome era stato fatto.

L’onore di una donna non andava dissacrato con una battuta.

Ma, come per il gelato, come si poteva resistere al solo pensiero di non toccarle?

Le donne sapevano stregarmi, ridurmi al lumicino con la loro esuberanza a letto, diametralmente opposta all’atteggiamento schivo e composto tenuto in pubblico.

Le fomoriane potevano anche apparire sobrie e pacate, all’esterno, ma dentro bruciavano di passioni incontrollate, e io ne ero un mastro conoscitore.

Il fatto che, occasionalmente, avessi assaggiato anche qualche esemplare di femmina umana, non voleva certo dire che sarei caduto tra le braccia della bella gelataia.

Forse.

«Sei un caso senza speranza.»

Il commento di Connor mi scivolò addosso senza che vi facessi caso.

Era il nostro turno, e non volevo perdere tempo a pensare a quanto il mio novello amico licantropo mi aveva appena detto.

Quando infine mi ritrovai di fronte all’ampia scelta di gusti, sorrisi spontaneamente prima salutare la gelataia e dire: «Una cialda con panna montata, cioccolato belga e crema chantilly.»

«Molto bene» mormorò, facendo vibrare ogni fibra del mio corpo con quella semplice risposta.

Quel tono caldo, sonnacchioso, vellutato, mi fece venire in mente una serie di immagini ben poco adatte a un momento ludico come quello.

In fretta, distolsi lo sguardo da quegli occhi ammalianti, certo che, se avessi indugiato un solo attimo di più, lei avrebbe sicuramente capito tutto.

E non è molto carino far capire a una donna cosa si sta pensando di lei, specialmente se la stai pensando in atteggiamenti non proprio consoni.

Mi limitai perciò ad aggirarmi con lo sguardo tutt’attorno, mentre le mani della ragazza componevano ad arte la mia cialda.

Alle pareti, notai degli splendidi disegni ad acquerello, raffiguranti scene campestri, scorci di mare e bellissime protuberanze rocciose sormontate da tempeste.

Chiunque li avesse dipinti, aveva la magia nelle mani.

Istintivamente, sorrisi. Quei quadri erano davvero meravigliosi.

«Le piacciono?»

Non appena attirò la mia attenzione con la sua voce calda, mi volsi verso di lei e afferrai il gelato, sorridendole gentile.

«Davvero molto. Li ha fatti lei, per caso?»

La gelataia si limitò ad annuire con un sorriso e, per un attimo, io fui schiavo di quella visione.

Connor fu lesto a prendere il mio posto, prima che mi cascasse la mandibola di fronte al sorriso educato – e maledettamente sexy – che mi tributò la gelataia.

Cos’aveva, quella donna, per tentarmi tanto?

Era bella, certo, eppure avevo visto – e avevo frequentato – donne altrettanto seducenti.

Perché, questa, mi distraeva così tanto?

 
***

La risata sguaiata di Sheridan non mi aiutò molto.

Dopo averle così gentilmente portato un gelato, le avevo raccontato del mio strano incontro con la gelataia … e lei, per tutta risposta, era scoppiata a ridere.

Se solo Ronan fosse stato presente – era a lavoro, il mio simpatico fratellino – avrebbe sicuramente avuto una buona parola per me.

Invece, parlandone solo con Sheridan, mi ero dovuto confrontare con la sua ironia velata di scherno.

E io che avevo solo cercato parole di conforto e aiuto!

Ecco cosa succedeva ad affidarsi ai parenti!

Le mani premute sul ventre prominente – magra com’era, la gravidanza si vedeva benissimo – Sheridan esalò sconcertata: «Solo tu sei capace di andare a prendere un gelato, e di innamorarti della gelataia!»

Piccato, replicai: «Non ho detto che mi sono innamorato della gelataia. Ho solo detto che mi ha fatto sentire strano. Pensavo che, come donna, avresti potuto illuminarmi in tal senso, ma vedo che non mi prendi sul serio.»

Lei allora levò una mano per afferrarmi, quando mi vide già pronto ad andarmene e, più seria, mi disse: «Scusami, Krilash, ma non immaginavo che una donna potesse farti questo effetto.»

«Sono un eccelso estimatore del genere femminile, cara. Sarebbe più strano il contrario, credimi» ribattei, quasi vantandomene.

Sheridan sorrise in maniera così forzata, che stentai a credere sarebbe riuscita a trattenere un’altra risata, ma fu così brava da contenerla.

Era meravigliosa e adorabile, quando era così di buonumore, e la gravidanza sembrava averla fatta diventare ancora più bella.

Ormai al quinto mese, pareva risplendere, e la sua pelle chiara riluceva perlacea.

Mi abbassai spontaneamente per parlare alla sua pancia e, con un sorriso, mormorai: «Sai, vero, di avere una mamma mezza matta?»

Sheridan ridacchiò e passò una mano tra i miei capelli tagliati a spazzola, replicando: «E tu chi sarai? Lo zio tutto matto?»

«Poco ma sicuro» le assicurai, sorridendo nel raddrizzarmi.

Lei allora tornò seria, mi guardò vagamente in ansia e, nel carezzarsi ancora il ventre, mi domandò: «Con Ronan preferisco non parlarne mai, perché so che la cosa lo angustia ancora molto, ma… devo aspettarmi qualcosa, dal parto?»

Non faticai a comprendere le sue ansie.

Dopotutto, il ricordo di Mairie non era solo nella mente di Ronan, ma in quella di tutti noi, e Sheridan conosceva più che bene tutta la storia.

Avrebbe dovuto essere una donna di pietra, per non esserne neppure minimamente toccata.

Mi grattai pensoso dietro un orecchio, ammettendo con candore: «Non sono un esperto, ovviamente, visto che non ho mai avuto bambini, ma posso dirti quello che so.»

«Mi basterà. Lithar si è fatta mortalmente pallida, quando gliel’ho chiesto la settimana scorsa, perciò ho preferito rinunciare.»

«Come saprai, i nostri genitori sono piuttosto… imponenti, in termini di statura, poiché i fomoriani provenienti da Vanaheimr avevano dimensioni diverse dagli attuali abitanti di Mag Mell, nati qui sulla Terra.»

Lei assentì, e io proseguii nella spiegazione.

«Posso parlarti dei figli di Oisin e di Niamh, che fanno parte, almeno lontanamente, della famiglia. Niamh, per la cronaca, era una lontana cugina di nostro padre.»

Sheridan fece tanto d’occhi, a quella notizia – per lei, Niamh era solo il personaggio di un mito, non certo una creatura reale – ma non mi interruppe.

Sorridendole a mezzo, proseguii nel racconto.

«Li conobbi millenni addietro, e loro erano del tutto normali. Naturalmente, essendo Niamh la fomoriana, e Oisin l’umano, forse le cose sono funzionate diversamente, ma i neonati erano perfettamente proporzionati. Non avevano alcun danno, o dimensioni anomale, se è questo che temi.»

Lei ovviamente non disse nulla, ma potei comprendere quanto la cosa la angustiasse. I suoi occhi di cielo parlarono a chiare lettere per lei.

«Se può aiutarti, vedrò di informarmi un poco senza dare nell’occhio. Se chiedessi direttamente alle nostre levatrici, loro lo direbbero immediatamente a Muath, e allora sì che sarebbero guai. Ma vedrò di trovare il modo. Promesso.»

Le battei una mano sul braccio, in corrispondenza della stella a cinque punte che Sheridan si era voluta far tatuare.

Era identica alle nostre e, pur se la sua era un semplice tatuaggio e non una rihall, ne conoscevo il valore intrinseco.

Voleva dichiarare di far parte, a tutti gli effetti, della nostra famiglia, e questo non poteva che rendermi lieto.

Ero fiero e orgoglioso di avere una sorella del suo calibro, checché ne dicessero i miei genitori.

Sbagliavano. Punto.

Per questo errore, avevano perso un figlio e, ora un nipote che, quasi sicuramente, non avrebbero mai conosciuto.

«Farò di tutto per aiutarti, Sheridan. Promesso» aggiunsi con maggiore veemenza, sperando che le mie parole bastassero a tranquillizzarla.

Lei mi sorrise, recuperando parte della sua verve e, le mani distratte ad accarezzare il ventre tondo, mi domandò: «Puoi dirmelo tu perché Ronan non ama parlarmi di Mag Mell? Cioè, capisco che non voglia parlarmi dei vostri genitori, ma tutto il resto? Si trovava così male? Stheta, o tu, o Lithar, pur avendo dei dissidi con i vostri genitori, non mi sembrate scontenti del vostro luogo di nascita.»

Si volse a scrutare le fotografie del loro matrimonio, che erano state sistemate in una serie di cornici di legno fatte da lei, e sospirò.

«A volte sento la mancanza del suo passato di fomoriano. Non so come spiegartelo, onestamente, ma percepisco il vuoto dietro di lui.»

I suoi occhi si fecero tristi e, ancora una volta, inveii mentalmente contro Tethra e Muath.

Sheridan non meritava simili pensieri, soprattutto in gravidanza!

Sospirai e, nel sollevare il mio bicchiere – dove si trovava un po’ di acqua – lo sospinsi con forza perché il liquido uscisse in una cascata di gocce.

Soffiando leggermente, le gocce divennero fiocchi di neve e Sheridan, scoppiando in una risata trillante, raccolse con la mano parte dei fiocchi.

«Bel gioco di prestigio. Complimenti» mi disse, portandosi alla bocca la neve per mangiarla.

Le sorrisi a mezzo, mormorando: «E’ bello usare il mio dono a questo modo. Ma non è il suo scopo ultimo.»

Lo sguardo di mia cognata si fece subito attento, alle mie parole e, fattomi ombroso, poggiai gli avambracci sulle cosce e mormorai: «Come ben sai, Stheta non ha alcun dono, a parte la lettura del pensiero che, in minima parte, possiedono tutti i fomoriani, pur se è una qualità che viene sempre repressa perché non diventi un punto debole in battaglia. Sentire troppo, potrebbe distrarre, stando almeno agli insegnamenti fomoriani.»

Lei assentii, sistemandosi meglio sul divano.

«Nostro padre non fu felice che il suo primogenito non avesse doni di alcun genere, ma soprassedette quando nacqui io, che possedevo il dono della trasmutazione al suo massimo fulgore. E’ una qualità che viene usata in battaglia con risultati più che ottimali… non farmi dire come, te ne prego. Usa la tua fantasia» la pregai, cercando di sorridere.

Pensare a ciò che avevo fatto in battaglia, standomene di fronte alla mia cognata incinta, mi fece rabbrividire.

Sheridan mi sorrise, allungò una mano a sfiorare la mia, e mormorò: «So che siete tutti guerrieri, e che avete combattuto aspre battaglie. Posso immaginare cosa puoi aver fatto, con un dono simile. Ma non per questo ti amerò di meno, Krilash.»

Ammiccai, e presi il coraggio a due mani per continuare.

«Quando nacquero Rohnyn e Lithar, mio padre andò su tutte le furie. Aveva sperato di bissare il risultato ottenuto con me, invece…»

Sospirai, passandomi una mano sul viso per il disgusto. Rammentare le parole di fiele di mio padre, il loro sapore acre sulla pelle, mi diede il voltastomaco.

«Se Rohnyn non fosse stato un principe, il suo ruolo, all’interno della Corte, sarebbe stato quello di Scriba Reale. Un mestiere più che dignitoso, visto il nostro interesse e rispetto per le arti e la cultura, ma non un ruolo adatto al figlio di un re.»

Sheridan aggrottò la fronte, accigliata, e borbottò: «Fammi capire bene. Il suo … dono, lo sminuì agli occhi di vostro padre?»

«Esatto. Non è la dote di un guerriero, ma di un Saggio. E nostro padre, da sempre, considera con maggiore rispetto i guerrieri,  non i Saggi. Tiene in debito conto questi ultimi, ma a nessuno sfugge il leggero disprezzo che prova nel trovarsi al loro cospetto, e al dover sottostare alle loro decisioni.»

Lo dissi con ironia velata di disgusto, e Sheridan sbottò.

«Con tutto il rispetto, lo odio ancora di più.»

«Ne hai tutte le ragioni. Per questo, fin da quando ho memoria, Rohnyn ha sempre tentato – riuscendovi – di essere il migliore in battaglia. Sapeva già di avere una predisposizione per le arti e la cultura, e lì ha sempre brillato, ma voleva dimostrare a nostro padre di essere anche un capace guerriero. A nulla servì il suo impegno, …neppure gettarsi dinanzi a una lama Tuatha per salvare il suo ingrato sovrano.»

Sheridan rabbrividì alle mie parole, e io sospirai.

«Non rammenta volentieri quell’epoca, Sheridan, per questo non te ne parla. Mag Mell è sempre stata una gabbia, per lui, un luogo in cui tutti lo additavano perché era il figlio meno amato del re. Per questo, iniziò a girovagare sempre più spesso sulla terraferma, imparando qualsiasi tecnica di lotta umanamente concepita. In cuor suo, forse, sperava un giorno di colpire a sufficienza Tethra da recuperare la sua fiducia… o il suo affetto.»

L’imprecazione che uscì dalla bocca di Sheridan fu così sentita, che mi fece sorridere. Come la capivo!

«Ma… se ha odiato così tanto Rohnyn, Lithar, allora…»

«Lithar è sempre stata la preferita di mamma, perciò Tethra non ha mai potuto infierire più di tanto, su di lei. Io ero il pupillo di nostro padre per via delle mie doti uniche, e Stheta il principe ereditario, buono per un’ottima unione tra famiglie ricche e potenti. Insomma, lui aveva ciò che gli serviva, Muath anche, e Rohnyn si ritrovò a essere un… di più.»

«Mi fanno schifo. Tutti e due» mormorò irritata Sheridan.

«Lo so.»

Levatasi in piedi, mia cognata si accoccolò accanto a me, sul bracciolo della poltrona e, abbracciandomi, mi diede un bacio sui capelli.

«Grazie per avermelo raccontato, Krilash. Sento quanto questi ricordi ti facciano star male, perciò meriti ancora di più il mio affetto. Non domanderò più nulla a Ronan. Ora che so, non c’è proprio bisogno che lo stressi con quegli stronzi dei vostri genitori.»

Scoppiai a ridere nonostante tutto e, annuendo, le sorrisi grato. Adoravo quella donna!

Ammiccando, lei allora mi domandò: «Quindi, i vostri Scribi, non scrivono come noi?»

Gesticolò con la mano, passando le sue lunghe dita su una rivista con aria comica.

Risi ancora, e annuii. «Esatto. Hai visto, Rohnyn, come fa, no? Il suo pensiero si traduce in parola scritta. Ogni Scriba lavora allo stesso modo.»

«Fichissimo» dichiarò, tutta giuliva.

«Dirò ai nostri Scribi, in gran segreto, che hanno una fan, allora» chiosai, e stavolta fui io ad abbracciarla.

Solo gli dèi potevano aver creato una simile creatura, e io ero grato a loro perché mio fratello aveva avuto la grazia di trovarla.





Note: E, con questo capitolo, ha inizio la storia di Krilash. La nostra bella gelataia altri non è che Rachel O'Rourke, la donna menzionata nel riassunto che trovate nella scheda di questa storia. Presto comparirà anche sua figlia, a destabilizzare la vita già disordinata di Krilash, e scopriremo come, queste due donne, solo in apparenza normali, nascondano un segreto che neppure il fomoriano si aspetta.
Per ora, vi auguro buona lettura!


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 
2.
 
 
 
 
 
Sangue.

Un’immensa marea dilagante, che lambiva i miei calzari, insozzandoli.

Il mio ansito infiacchito dalla battaglia, le mani levate ad artiglio, … il gelido abbraccio della morte, le cui sembianze erano in tutto simili al ghiaccio più puro.

Non fosse stato per i corpi in esso trattenuti … e mutilati dalla pressione stessa di quella massa informe e trasparente.

Mi destai con un rauco singulto, il corpo madido, il respiro in fiamme, gli occhi sgranati e dolenti.

Ero solo, nel buio della mia stanza.

Non mi trovavo sul campo di battaglia, non più. Erano passati secoli, eppure…

Deglutii a stento, sentendo l’amaro sapore del fiele nella gola.

Scostate le coltri di seta, mi levai in fretta, raggiungendo il bagno nella mia stanza.

Lì, aprii l’acqua per una doccia veloce – non avrei incontrato mia cognata Ciara meno che in forma – e lasciai che lo scroscio gelido sul viso mi destasse.

Sempre quel sogno, quel maledetto sogno ricorrente.

Non avevo mai avuto il coraggio di parlarne con i miei fratelli, o mia sorella. Solo Konag sapeva, solo lui era stato presente a quel massacro.

All’epoca, fresco di nuova nomina e valente condottiero in battaglia, Konag mi aveva accompagnato per tenere testa a un battaglione Tuatha.

Lo scontro si era rivelato impari, le nostre forze insufficienti… e lo sfoggio del mio potere era stato l’unico sistema per tornare a casa vivi.

Ma a quale prezzo? Quanto avevo lasciato, di me, su quel campo di battaglia?

Sospirai tremulo, la pelle irrigidita dal passaggio dell’acqua fredda,… come l’aveva chiamata Sheridan?

Pelle d’oca.

Sì, avevo la pelle d’oca e sembravo pronto per essere cotto in padella, arrossato com’ero dal freddo, ma andava bene così.

Lasciai che i muscoli divenissero roccia per difendersi dalla temperatura inclemente e, alla fine, chiusi il getto d’acqua.

Ne uscii stillante e, con mano lievemente tremante, afferrai un asciugamani.

Mi preparai in fretta, indossando una corta tunica, calzari e una corta daga alla cintura, dopodiché uscii per raggiungere lo studio di Ciara.

Era lì che, ormai, lavorava quasi ogni giorno. Essere diventata una principessa reale, aveva solo mutato i suoi impegni, non li aveva annullati.

A passo lesto, oltrepassai le arcate dell’ala principale di palazzo, dove si trovavano la Sala del Trono e altri saloni deputati alle occasioni mondane.

Da lì, svoltai verso gli appartamenti reali e, dopo aver bussato alla prima porta nel corridoio, sorrisi alla mia adorata cognata.
Ciara se ne stava ritta in piedi di fronte a una finestra, una pergamena in una mano e una penna d’oca nell’altra. Il suo sguardo era pensoso.

Mi sorrise, vedendomi, e appoggiò il tutto sulla sua enorme scrivania, ingombra di documenti.

«Ti ho disturbata? Vedo che hai molto a cui badare» esordii.

«Mi salvi da una disputa assurda quanto dispendiosa» sospirò, scrollando una mano con fare insofferente. Al suo polso, brillava il bracciale che Stheta le aveva regalato per il loro matrimonio.

Il monile, in oro, era composto da una larga fascia decorata a fantasie boschive, su cui erano state applicate due splendide orchidee in filigrana d’argento.

L’orafo umano che lo aveva confezionato era stato davvero un genio.

Sapevo per certo che era l’unico gioiello che Ciara portasse volentieri, soprattutto dopo l’allontanamento silenzioso da parte della sua famiglia.

Non erano stati affatto lieti della sua presa di posizione che, di fatto, gli aveva inimicato gran parte della Corte.

Il fatto che fosse, a tutti gli effetti, la futura regina, al momento contava molto poco, per loro.

Sogghignai, preferendo lasciar perdere quei pensieri odiosi, e asserii: «Immagino che Muath te l’abbia data di proposito, per vedere come te la saresti cavata. Non è nuova a trabocchetti simili.»

«Ne avevo il sospetto» assentì lei, avvicinandosi a me con incedere elegante.

La tunica blu scuro che indossava delineava il suo corpo magnificente, ma non nascondeva la forza insita in lei.

Nessuno avrebbe potuto pensare di prevaricarla, neppure se portava anelli, orecchini e bracciali come qualsiasi dama di corte.

Era un prezzo che aveva dovuto pagare, e sapevo che non le piaceva molto portarli, ma tant’era.

Il corto pugnale che portava legato a una sottile cintura dorata, però, rispecchiava la sua vera natura.

E Stheta aveva insistito perché lo indossasse sempre.

«Che favore volevi chiedermi, Krilash?» mi domandò a quel punto, fermandosi a un passo da me.

«E’ per Sheridan. E’ preoccupata per la gravidanza, e voleva sapere qualcosa in più sul… sul parto e quant’altro» le spiegai, facendo spallucce.

Ciara sospirò contrita, lanciando un’occhiata malevola alla scrivania.

«Con tutti gli impegni che ho, non ho potuto praticamente recarmi da lei, negli ultimi mesi. Capisco quanto sia in ansia, e parlerò io con le ostetriche di palazzo, non temere» asserì, sorridendomi compiaciuta.

«Te ne sono grato» mormorai, reclinando ossequioso il capo.

«E’ mia sorella. Sarà un onore aiutarla» replicò con candore.

 
***

Chiedere a Ciara era stata sicuramente la scelta giusta, vista la decisione presa da mio fratello, e dalla sua adorabile consorte, di avere un figlio.

Chi meglio di una aspirante madre, poteva chiedere lumi alle ostetriche di palazzo?

Attendere paziente fuori dall’ala di palazzo ove si era recata mia cognata, però, non fu affatto facile.

Quando finalmente la vidi comparire, sospirai di sollievo.

Portava un’armatura leggera, quando si aggirava da sola fuori dal palazzo. Anche se ormai non era più formalmente il capitano delle guardie, e aveva ricevuto il titolo di Principessa Reale, le vecchie abitudini rimanevano.

Non l’avevo ancora vista passeggiare per i giardini di palazzo con le sue accolite al fianco, o con uno stuolo di servitori pronto a riverirla.

Le sete preziose e gli orpelli dorati – provenienti da ogni luogo della Terra – , che le erano spettati con il titolo di Altezza Reale, li indossava solo quando costretta.

Ciara non era così frivola e superficiale e, forse, aveva ben d’onde a portare la spada quanto l’armatura.

Gli sguardi di invidia che molte donne le avevano tributato, dall’annuncio a sorpresa del loro fidanzamento al matrimonio in pompa magna, non aiutavano a star tranquilli.

Per ogni evenienza, Stheta aveva affidato alla sua neosposa una scorta personale, di cui entrambi si fidavano ciecamente.

Ma Ciara non era mai stata tipo da affidarsi ad altri, per la difesa personale.

Da qui, le antiche vestigia di soldato.

Mi scostai dal colonnato per farmi vedere per tempo e non metterla in allarme e, quando mi scorse, sorrise e affrettò il passo.

Una concessione al suo nuovo ruolo, erano i capelli.

Non più stretti in una complessa trina di trecce, le sue lunghe chiome d’oro rosso volteggiavano libere da freni.

L’unico fermaglio che portava era una manta in oro, poco sopra l’orecchio destro, simbolo della sua casata.

Da quel che ne sapevo, gliene aveva fatto dono lo stesso Stheta, dimostrando una delicatezza che non gli avrei mai tributato.

Quando mi raggiunse, levai istintivamente il capo – Ciara era alta quasi quanto me e Stheta – e le sorrisi, salutandola.

Non le offrii il braccio, né lei lo cercò.

Non erano previste simili cortesie, a palazzo.

Mi ero recato più di una volta al cinema, sulla terraferma, ed ero scoppiato comicamente a ridere, di fronte a certe pellicole.

Possibile che le donne volessero un certo tipo di trattamento, così stucchevole quanto prevedibile?

Non ne ero del tutto sicuro e, certamente, chiedere a Sheridan non sarebbe servito a nulla. Lei li frullava a colazione, gli uomini-zerbino.

Eithe era tutt’altro affare, bella come il sole e dolce come un pandispagna.

Ma sapeva mozzarti una mano con un morso, se le dicevi qualcosa di traverso, e il suo uomo avrebbe finito l’opera, divorandoti.

No, neppure lei era un esempio calzante.

Megan? Quella avrebbe usato le costole della sua vittima come stuzzicadenti.

Scossi il capo, ridendo tra me di fronte agli esempi ben poco calzanti che conoscevo, in ambito umano, o quasi, del genere femminile.

Le donne fomoriane erano abituate fin dalle senturion a prendersi cura di loro stesse e anche se, nel segreto del talamo, le cose cambiavano, fuori erano dure e massicce.

Delle autentiche guerriere, fin nel midollo.

Perciò, il dubbio sarebbe rimasto ancora per molto.

Quando finalmente raggiungemmo il cortile esterno, ci accomodammo su una delle tante panchine che fiancheggiavano il colonnato del palazzo.

Ciara sistemò distrattamente il suo mantello traslucido, prima di dedicare la sua attenzione a me.

Era regale nella postura, e assolutamente rispettosa nel portamento.

Una regina fatta e finita, checché ne dicessero i suoi detrattori.

E io la adoravo.

«Ebbene? Sei riuscita nell’intento di scoprire qualcosa di utile?» le domandai, ansioso.

Lei annuì, tutta sorridente e fiera, ma mi disse: «Ne parlerò direttamente con Sheridan, se non ti spiace. Alcune cose sono piuttosto tecniche… e intime.»

«Oh… sì, okay» assentii in fretta, piuttosto imbarazzato. «Non è importante chi le fornisca notizie utili, basta che ci sia qualcuno che possa tranquillizzarla.»

Ciara mi sorrise, dandomi un buffetto sulla guancia come avrebbe fatto con un ragazzino – a dirla tutta, lei era più grande di me – e mormorò: «E’ fortunata ad avere un cognato come te.»

«La situazione è pressoché unica, ed è giusto aiutarla. Non ci siamo stati, quando fu Mairie a rimanere incinta e forse, ma ribadisco forse, avremmo potuto fare qualcosa per lei. Per Sheridan, spaccherò il mondo in quattro, pur di rendermi utile. Lo devo a lei e a Rohnyn. E’ il minimo.»

Il mio tono fu così lapidario che Ciara accentuò il suo sorriso, portandola a compiere un gesto che, solitamente, si vedeva ben poco, tra le lande di Mag Mell.

Mi diede un bacio sulla guancia.

Stare in mezzo agli umani aveva abituato noi tutti a una nuova gestualità, e conoscere i licantropi aveva allargato ancor più i confini della nostra conoscenza.

Ma questo non voleva dire che fossi pronto a un simile gesto.

Arrossii mio malgrado e, quando la voce ironica di Stheta si interpose nel nostro interludio, letteralmente avvampai.

Ciara rise, accogliendo il marito accanto a noi e mio fratello, nell’accomodarsi sulla panchina, mi fissò tutto divertito e chiosò: «Ti trastulli con la mia compagna, Krilash?»

«Sai che non è così, e il solo pensarlo è un insulto per entrambi» borbottai, pur sapendo che non lo pensava davvero.

Sapevo che Stheta non era geloso della nostra amicizia, ed era ormai vaccinato di fronte a simili esternazioni.

Il popolo ancora faticava ad accettare – e comprendere – comportamenti del genere, specialmente compiuti dalle loro Altezze Reali.

Ma avrebbero capito. E accettato il cambiamento.

A volte, per certe cose, bisognava pazientare un po’ più del necessario.

 
***

Come potevo non amare mia cognata che, durante la gravidanza, aveva un bisogno fisico di gelato?

Adorarla come una dea era il minimo, anche perché mi dava l’opportunità di rimpinzarmi a mia volta.

E di rivedere la bella gelataia dalle onde castano rossicce.

Peccato che la gelateria fosse… chiusa.

Accigliato, fissai il reticolato metallico che ne sbarrava l’ingresso, le luci spente e l’ambiente totalmente vuoto all’interno.

Avrei voluto piangere, in quel momento.

«E ora come faccio?» brontolai a mezza voce, poggiando le mani sui fianchi con espressione accigliata.

Certo, esistevano decine di gelaterie, in giro per Dublino.

Ma, come aveva predetto Connor, dopo aver assaggiato questo gelato, il resto era scemato nella mia mente.

E per Sheridan, volevo solo il meglio.

Oltre che per me stesso, ovviamente.

«Deve essere proprio disperato, se fissa così accigliato la mia gelateria» mormorò una voce a me famigliare, e proprio alle mie spalle.

Mi volsi a mezzo, fissando costernato la mia bella gelataia, in piedi a pochi metri da me.

Un sorriso spontaneo mi salì al volto e, immediatamente, mi feci da parte, bloccandomi appena in tempo prima di esibirmi in un inchino.

Questi sì che abbondavano, a Mag Mell.

Eravamo degli autentici campioni, nell’inchinarci. Esistevano praticamente cento inchini diversi, a seconda della situazione in cui ci trovavamo.

Di sicuro, a chi era venuto in mente di creare tante e tali differenze, non aveva mai sofferto di lombalgia.

Lei accennò un sorriso e, subito, i miei pensieri si azzerarono.

Quel sorriso avrebbe potuto stendere un’intera coorte fomoriana, ne ero più che certo.

La guardai estrarre una chiave da una bizzarra busta imbottita del colore dell’arcobaleno e, con sollievo, la vidi aprire la serranda, che fece scomparire all’interno del muro.

L’intercapedine venne poi richiusa, e la porta aperta con una seconda chiave.

«Se ha il tempo materiale di aspettare cinque minuti, la servo subito.»

«Aspetterei anche tutto il giorno» ammisi con candore, facendola ridere sommessamente.

Quel giorno, portava le onde ramate legate in una coda di cavallo e, addosso, aveva una camicia a fiori, jeans al ginocchio, infradito colorate e una lunga sacca di pelle frangiata.

Sheridan l’avrebbe chiamata ‘figlia dei fiori’, anche se non sapevo bene cosa volesse dire.

Ne conoscevo però l’aspetto per averlo visto in un film, e ammisi con me stesso che l’esempio calzava bene.

I pesanti orecchini che portava recavano il simbolo della pace, così come il ricamo sul taschino posteriore dei jeans, che ammirai con particolare interesse.

Aveva un…

Mi bloccai prima di pensare al resto della frase, dandomi del cafone.

Quando la vidi scomparire oltre il bancone e, da lì, dietro una porta a vetri satinati, sospirai di sollievo e cercai di darmi un contegno.

Non potevo sempre, ed esclusivamente, pensare alle donne in quel senso.

E poi, non volevo giocarmi l’occasione di mangiare centinaia, migliaia di gelati solo perché non mi ero comportato bene con la proprietaria del locale.

Mi imposi perciò un certo contegno e, mani nelle tasche posteriori dei jeans, attesi paziente che lei tornasse da me.

Immediatamente, come la volta precedente, i miei occhi vennero attirati dai quadri alle pareti.

Un piccolo dipinto a olio, sistemato proprio sopra uno dei tavolini interni del locale, rappresentava quello che, ai miei occhi, non poteva che essere una corrente marina di profondità.

Lo sfiorai con gli occhi, deglutendo a fatica nell’ammirare la maestria con cui il dipinto era stato confezionato.

Le sfumature di colore, i chiari scuri dei fondali marini, la potenza repressa della corrente… il suo potere incontrollabile.

Deglutii a fatica, levando una mano per sfiorarlo, i pensieri trasportati in un altro luogo, in un altro tempo.

Rabbrividii e, solo a stento, riuscii a tornare in me.

Il ritorno della bella gelataia mi salvò da un imbarazzante crollo nervoso.

Con una divisa bianca e rossa, un cappellino a bustina con il nome della gelateria serigrafato sopra e un tesserino appuntato alla camiciola, la mia gelataia si ripresentò per servirmi.

Rachel O’Rourke.

Sorrisi all’idea di aver finalmente scoperto il suo nome e, nell’approssimarmi alla vetrina, studiai attentamente i gusti, prima di scegliere.

Sapevo che Sheridan prediligeva le creme, ai sorbetti, ma che detestava il pistacchio.

Il perché, era un mistero.

«Sembra davvero concentrato.»

Rivolsi un sorriso alla mia gelataia, Rachel, e ammisi: «Devo soddisfare una mamma in attesa, sa com’è.»

Lei sgranò leggermente gli occhi, puntò un secondo lo sguardo verso la mia mano sinistra prima di dire, cordialmente: «Un marito premuroso, allora.»

Feci tanto d’occhi, indietreggiando di un passo di fronte a un’ipotesi simile e, levate le mani come a difendermi da quell’accusa, esalai: «Aaah, no! Non è mia moglie! E’ solo mia cognata e, come voglia primaria, ha il gelato, per mio sommo diletto.»

Quella spiegazione, o forse la mia reazione esagerata, la fecero scoppiare a ridere, e io non potei che unirmi a lei.

Che suono sexy e melodioso! Avrebbe potuto essere la reincarnazione di una sirena, per quel che ne sapevo!

«Allora, un cognato premuroso» replicò, inclinando il capo su un lato, mettendo poi in mostra una singola fossetta, nel bel mezzo della guancia rosea.

Un ricciolo rossiccio le carezzò la guancia, e a me venne voglia di scostarglielo.

Peccato che, uno, avrei dovuto balzare oltre il bancone, due, mi avrebbe preso per matto, tre, avrei perso la possibilità di mangiare il suo gelato.

No, troppi lati negativi, per l’unico piacere di scostare quel ricciolo ribelle.

La vaschetta fu pronta in quattro e quattr’otto e, nel consegnarmela con il suo onnipresente sorriso, mi disse: «Siamo aperti dal lunedì al venerdì dalle tre del pomeriggio fino alle nove di sera. La domenica, apriamo anche al mattino, dalle dieci, e il sabato siamo chiusi. Così non dovrà soffrire inutilmente dinanzi alla porta chiusa.»

Risi di quel commento, e annuii grato. Non avevo fatto esattamente una bella figura, ma lei mi parve divertita, perciò mi andò bene lo stesso.

«Buono a sapersi. Mia cognata Sheridan è ormai al quinto mese, e le sue voglie stanno diventando più… frequenti

Rachel rise sommessamente e, annuendo, replicò: «La capisco. Quando ho avuto la mia Faélán1, volevo patatine fritte e cioccolata a qualsiasi ora del giorno e della notte.»

La notizia di un figlio mi raffreddò un poco.

Se c’era una cosa che non facevo, era flirtare con le donne sposate.

Eppure, non aveva nessuna fede al dito, e…

L’arrivo a spron battuto di una ragazzina alta e flessuosa mi bloccò, portandomi a sorriderle spontaneamente.

Le lunghe chiome rosse erano arricciate e nervose, rilasciate sulle esili spalle in un groviglio senza forma e il viso, ricoperto di efelidi, splendeva di un sorriso perfetto.

Gli occhi, di un chiaro color acqua marina, scintillarono gai non appena ella mise piede in gelateria.

Il suo zaino finì a terra, a fianco della porta e, in uno svolazzare di gonne e profumo di ibisco, si allungò per dare un bacio a Rachel… chiamandola mamma.

Era dunque Faélán? O la misteriosa gelataia aveva altri figli?

A quel punto, la ragazzina – che doveva avere quattordici, quindici anni – si volse verso di me, allargò il suo sorriso perfetto e disse: «Benvenuto nella nostra gelateria!»

«Mille grazie… Faélán?»

La ragazza allora scoppiò in una gaia risata e, annuendo, lanciò una strizzata d’occhio alla madre.

«Centrata in pieno. Spero che mia madre non l’abbia annoiata con la mia triste storia.»

A quel punto, gli input in mio possesso si confusero tra loro e, nel lanciare un’occhiata al gelato per Sheridan, quasi volli non averlo ordinato.

Anche la ragazzina fissò la vaschetta e, birichina, disse: «Si scioglierà, prima che io abbia terminato di spiegarle tutto.»

«Fay, perché non lasci in pace il nostro cliente e non vai di sopra a cambiarti? Dove sei stata? Ancora nel parco? Sembra tu ti sia ruzzolata nell’erba» la rimproverò bonariamente la madre, scusandosi poi con me con un cenno del capo e un sorriso esasperato.

Io sorrisi a entrambe e, nel pagare il gelato, replicai: «Non c’è bisogno di scuse, e trovo che la schiettezza di sua figlia sia corroborante. E no, non ti preoccupare, Faélán… tua madre non mi ha detto nulla.»

Ciò detto, mi incamminai verso l’uscita.

Una volta aperta la porta, però, mi volsi a mezzo e, con un sorrisino, aggiunsi: «Ma, la prossima volta che verrò, chiederò lumi e farò i complimenti all’autore di quel quadro di ambientazione marina. E’ superbo.»

Faélán scoppiò a ridere, coprendosi di un allegro rossore.

Levando un sopracciglio, mormorai: «Sei stata tu?»

«Affondata del tutto. Davvero le piace?» mi domandò, gli occhi brillanti di interesse e piacere.

Annuii, replicando: «Essendo una frana con colori e pennello, ammiro molto chi, invece, è in grado di ideare simili creazioni.»

Rachel, scrutandomi con aria vagamente curiosa, dichiarò: «E’ gentile, da parte sua.»

«Onesto, piuttosto» ribattei, con una scrollatina di spalle. «Spero di rivedere entrambe, allora, per conoscere il resto della storia.»

La ragazzina annuì, ridendo sommessamente mentre Rachel, più schiva, replicò: «Vedremo…»

«Io ci conto. Signora… signorina…»

Mi venne spontaneo, non potei trattenermi.

Mi esibii in uno svolazzante inchino e Faélán, sorprendendomi non poco, mi imitò con grazia, corredando la riverenza da un sorriso smagliante.

Quando fui nuovamente in strada, la sensazione di straniamento che avevo provato nel vedere Faélán, continuò a perseguitarmi.

Un tarlo nella testa avrebbe avuto conseguenze meno fastidiose.

 
***

Il cucchiaio in una mano e la vaschetta nell’altra, Sheridan iniziò a dare fondo al gelato a suon di cucchiaiate e, sorridente, ascoltò la mia storia.

Le parlai di Rachel, della sua strana figlia, dei quadri nel loro negozio e di come mi fossero sembrate delle creature singolari.

Al sentir nominare il nome della mia gelataia numero uno, Sheridan si irrigidì leggermente, come se stesse tentando di rammentare qualcosa.

Alla fine, si aprì in un sogghigno e annuì tra sé.

«Ora ricordo perché, quel nome, non mi era nuovo. Rachel O’Rourke, che ora dovrebbe avere trentadue anni, e la figlia Faélán. Il suo caso di divorzio sorse agli onori della cronaca per più di un motivo.»

«Divorzio?» esalai. Ecco, perché non portava la fede al dito!

Annuendo, Sheridan proseguì nel racconto.

«Da quel che i giornalisti dissero di lei, si sposò ancora sedicenne con un rampollo dell’aristocrazia inglese… non ricordo il nome, ma fu uno scandalo, all’epoca. In pratica, lui la mise incinta, la famiglia del ragazzo pretese che si prendesse le sue brave responsabilità, mentre i genitori della ragazza fecero il tutto e per tutto per dipingere il futuro genero come un approfittatore di fanciulle.»

«Che ambientino!» fischiai sconvolto, faticando a credere che cose simili potessero succedere.

Un fomoriano che avesse messo incinta una donna, non avrebbe dovuto attendere gli ordini della famiglia.

Avrebbe preso da solo un simile impegno.

Sheridan mise in bocca un altro po’ di gelato, sospirò deliziata e continuò la narrazione della vicenda.

«Da quel che si sa, lei chiese il divorzio dopo che, per l’ennesima volta, il marito la spedì all’ospedale con un osso rotto. All’epoca, la bambina aveva sei anni.»

Fremetti d’ira al solo pensiero. Era inconcepibile che un uomo picchiasse la propria donna.

E lo dissi apertamente, con veemenza.

Sheridan mi guardò con i suoi profondi occhi di cielo, in quel momento colmi di comprensione.

«Tra gli umani capita anche troppo spesso, per la verità. Forse, perché non insegnano alle donne a difendersi, chissà, o forse perché insegnano agli uomini a credersi superiori all’altro sesso. Nessuno lo sa per certo, ma è un problema vecchio come il mondo.»

«Come andò a finire?»

«Visto che il marito era ricco sfondato, l’avvocato della difesa tentò di addurre come scuse le accuse della moglie, ma Rachel portò tutti i referti medici, e la giuria non poté che convalidarne le ragioni. Ovviamente, si procedette a un patteggiamento per evitare il carcere al borioso ragazzotto di famiglia benestante e, dovendo mantenere se stessa e una figlia piccola, lei accettò.»

Annuii, non sentendomela di giudicare quella scelta.

«Da quel che si sa, il tipo ora è da qualche parte in Afghanistan, o giù di lì, spedito nell’esercito dalla famiglia, perché sfoghi in altro modo le sue… pulsioni. Rachel a quanto pare, invece, è rimasta a Dublino. E fa un gelato divino, direi» mi sorrise, aggiungendo: «Inoltre, sua figlia è adorabile. L’ho vista un paio di volte in negozio, ed è un’autentica bellezza.»

«In negozio?» ripetei sorpreso.

Sorridendo divertita, replicò: «Fatti raccontare da Rachel stessa, cosa successe. Può essere un buon modo per sciogliere il ghiaccio… se vuoi.»

Sorrisi di quest’ultimo commento, ma non riuscii a dimenticare le parole di Sheridan, neppure quando presi forma di delfino per tornamene a casa.

Nuotai veloce per raggiungere Mag Mell sul fare della sera e, quando ripresi sembianze umane, mi incamminai lesto verso il palazzo.

Le acque sopra di noi si erano ormai fatte scure e, a giudicare dall’umidore presente nell’aria, una tempesta stava formandosi nell’oceano, a poca distanza da noi.

In tutto simile al quadro che aveva creato Fay.

La barriera, comunque, ci avrebbe difesi anche dai più imponenti marosi.

Ugualmente, osservai pensieroso le onde suboceaniche scagliarsi con sempre maggiore potenza contro la cupola energetica che ci proteggeva.

«Sei pensieroso, fratello.»

La voce di Lithar mi colse di sorpresa e, sobbalzando, mi volsi a mezzo per scrutarla da sopra la spalla.

Bellissima come sempre, coi suoi grandi occhi viola che scrutavano il mondo con forza e determinazione, Lithar era dissimile da noi fratelli praticamente in tutto.

Scura di capelli come chiara di carnagione, aveva una curiosa stella a punte di freccia, invece della nostra rihall stellata dalle punte arcuate.

La si poteva vedere sul suo collo, sotto l’orecchio sinistro, le rare volte in cui lei la portava scoperta.

Muath, un giorno, ci aveva detto che poteva capitare, a volte.

Quel simbolo apparteneva a consanguinei dei mac Lir, e gli incroci da sempre avvenuti tra le famiglie, potevano far nascere rihall differenti.

Per un motivo che non avevo mai compreso, era solita tenerla perennemente oscurata dal sottotunica dell’armatura, o da eleganti foulard di seta.

Quasi la sua vista la angustiasse, o la facesse sentire inferiore. Diversa.

«Come mai fuori anche tu? Sei stata sulla terraferma?» le domandai, penetrando nel palazzo reale al suo fianco, salutati entrambi dalle guardie di ronda.

Lithar scosse il capo, sbuffò, ma infine disse: «Sono andata dal mastro armaiolo. Ho rotto la mia daga, e volevo farmene fare una nuova.»

«E come diamine hai fatto a romperla?» esalai, confuso.

«Stavo allenandomi con Ciara, quando ho messo un piede in fallo e sono caduta… spuntando la daga.»

Ridacchiai, non potendo farne a meno ma, quando vidi che Lithar non approvava la mia ilarità, smisi subito.

«Ehi, sorellina, può capitare a tutti di sbagliare. E poi, tieni conto che stavi lottando niente meno che contro Ciara, che è la guerriera più forte che si conosca.»

Col mio dire, cercai solo di tirarle su il morale, ma ottenni solo un muso lungo e… sì, il principio di un pianto.

Che stava succedendo a Lithar?

La fissai stranito, domandandomi cosa le stesse succedendo, ma nulla venne in mio soccorso.

Non potevo essermi dimenticato del suo compleanno. Lei e Rohnyn erano nati con il fare di agosto, perciò mancava ancora più di un mese.

Inoltre, dubitavo fortemente che se la sarebbe presa per una mia dimenticanza in tal senso.

Lithar era tante cose, ma di certo non una persona che metteva il broncio.

Quindi, cosa stava succedendo?

Mi avvicinai per darle un goffo bacio sulla guancia – non ero ancora avvezzo a simili carinerie – e, dopo averle sorriso, sperai mi confessasse i suoi timori.

O cosa la arrovellasse tanto da tingere di fosco i suoi bellissimi occhi d’ametista.

Lithar fece per dirmi qualcosa, ma i passi sonori di nostra madre ci fecero allontanare l’un l’altra, niente affatto desiderosi di ricevere il suo disappunto.

Muath poteva far paura, quando era furiosa, ma quel giorno mi parve solo pensierosa e sì, ansiosa.

Ci raggiunse con il suo passo spedito, guardandoci dall’alto della sua poderosa altezza.

«Lithar, vieni con me.»

Non disse altro, e mia sorella non chiese spiegazioni. Si limitò a seguirla come un cagnolino ammaestrato, e io me ne chiesi il motivo.

Cosa nascondevano, quelle due?

Non domandai, ovviamente, né mia madre ritenne doveroso darmi qualche spiegazione.

Mi lasciarono semplicemente solo nel corridoio, illuminato dalle torce bioluminescenti, e a me non restò che andarmene nei miei appartamenti.

Fu solo quando raggiunsi i miei alloggi, che badai a un particolare che, in precedenza, mi era sfuggito.

Ogni mille anni, Lithar si era rinchiusa nelle sue stanze assieme a Muath e, per un giorno intero, non ne erano uscite. E sempre in quel periodo.

Me ne intendevo poco di rituali femminili, e Lithar era adulta da troppo tempo, per pensare che fosse una cosa legata alla sua sessualità.

No, c’era dell’altro ma, poco ma sicuro, nessuna delle due me ne avrebbe parlato.

Piuttosto, mi avrebbero ucciso.

E io potevo benissimo tenermi le mie curiosità. Per lo meno, per quello che riguardava mia sorella.

Tutt’altra storia era per Rachel e Faélán.

Non sapevo bene per quale motivo, ma di loro volevo sapere ogni cosa. Tutto quanto.

 
 
 
 
 
________________________
1 Faélán: (leggasi ‘Faylin’
)

Note: come potete vedere, Krilash non è solo lo spensierato ragazzo che pare spassarsela sulla terraferma, in barba agli insegnamenti fomoriani. C'è qualcosa che lo tormenta così profondamente da tenerlo desto ogni notte, da portargli incubi tali da lasciarlo tramortito. Inoltre, Rachel lo turba sempre di più, così come la dolce Fay, che lo porta a chiedere di entrambe, a indagare su di loro... perché è vitale, per lui, sapere di loro.
Vedrete ben presto perché il suo interesse sia stato destato in maniera così forte.
Per ora, grazie per essere rimaste con me fino a qui!


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
3.
 
 
 
 


Gli internet point erano una gran cosa, soprattutto quando sapevi usare la rete in maniera soddisfacente.

Rohnyn mi aveva insegnato qualche mese prima, ma solo perché lo avevo tempestato di così tante domande sull’origine del gelato che, alla fine, mi aveva condotto nell’era digitale.

Scaricandomi poi nelle mani dell’impiegato di turno di un Apple Center.

Quel giorno, però, non era mia intenzione scoprire i segreti del gelato alla vaniglia, o quant’altro.

Volevo sapere di Rachel.

L’accenno di Faélán alla sua triste storia, mi aveva spinto a chiedere lumi a Sheridan.

Ma ora che conoscevo vagamente lo scenario, desideravo sapere ogni cosa, sviscerare il problema nei suoi dettagli più profondi.

Quella donna, così come sua figlia, mi incuriosivano.

E non solo per la bellezza sensuale di Rachel, o per la sua voce sexy da morire.

Sapevo capire bene la differenza tra il mero interesse fisico, e quello mentale.

E, di sicuro, lì c’entrava in larga parte il secondo.

Forse, i miei fratelli non mi avrebbero ritenuto così profondo, ma sapevo giocare abbastanza bene le mie carte.

Comportarmi da perdigiorno, sollazzarmi nei divertimenti umani, era un buon metodo per non impazzire.

Tethra detestava vedermi ciondolare per il palazzo, ma aveva ormai perso ogni desiderio di riprendermi.

Questo mi aveva garantito, nei secoli, un buon margine di manovra per fare, più o meno, quello che desideravo.

Mio padre sapeva bene perché mi comportavo a quel modo e, finché non avessi combinato guai, non mi avrebbe ripreso.

In fondo, era stato anche a causa sua se, tanti secoli addietro, avevo perso ogni stimolo a dormire la notte.

O a rimanere intrappolato per troppo tempo entro i confini di Mag Mell.

Probabilmente, se avesse saputo che proprio io avevo spinto Rohnyn sulla terra ferma, per la prima volta, mi avrebbe decapitato.

Ero stato così desideroso di fuggire, quel giorno, che l’idea di scappare per qualche ora in compagnia di qualcuno che mi capisse, mi era parsa la cosa migliore.

Il mio fratellino aveva sempre mantenuto il segreto, e ora gli interessava ben poco ciò che nostro padre pensava di lui e delle sue scelte.

Personalmente, trovavo che scegliere Sheridan fosse stata una decisione grandiosa.

Ma, ovviamente, il nome della consorte di Rohnyn non avrebbe mai potuto essere nominato in pubblico, a Mag Mell.

Mi allontanai lesto da quei pensieri quando trovai il primo articolo del giornale online che stavo consultando.

Finalmente avevo trovato notizie sull’affaireO’Rourke contro Wilmington’.

Lo aprii e, avido, iniziai a leggere.

Scoprii subito quanto, agli inizi, la stampa fosse stata crudele con Rachel, tacciandola di essere una cacciatrice di dote o peggio.

Quando, però, i referti medici furono posti all’attenzione della giuria, non vi fu neppure un giornale disposto a dare man forte ai potenti Wilmington.

Si accennò a una richiesta di patria potestà, che venne ben presto cancellata, specialmente quando fu accertato che anche…

Rilessi due volte quel passaggio, per sincerarmi di aver letto bene.

Sì, quel bastardo di Kerwin Wilmington III aveva messo le mani addosso anche alla figlia, spezzandole un braccio poco prima del dibattimento in aula.

Desiderai replicare la stessa cosa con quel sudicio umano, ma mi trattenni dal fare danni a cose o persone nei dintorni.

E, soprattutto, feci molta attenzione a non frantumare la bottiglietta d’acqua che avevo accanto a me, sul tavolino.

La mia ira aveva iniziato a far ghiacciare l’acqua, col rischio di far esplodere il contenitore di vetro.

Respirai, mi trattenni dal fremere oltre per l’onta subita da quella candida ragazzina, e il tremore passò.

L’acqua tornò normale e, dopo aver pagato il servizio, uscii a grandi passi per calmarmi.

Non sapevo bene per quanto tempo camminai ma, alla fine, mi ritrovai a passeggiare lungo un viale alberato, nel bel mezzo di Fairview Park, nei pressi del porto.

Lì mi bloccai, sorpreso e sgomento.

Avevo camminato per più di un miglio senza neppure accorgermene!

L’odore salmastro del mare giunse lieve a carezzarmi le narici, raffreddando di fatto i miei istinti omicidi.

Il mare era la mia casa, e così sarebbe sempre stato, a meno di non compiere una scelta simile a quella di Rohnyn, o Konag.

Assaporarne i profumi e gli odori mi avrebbe sempre fatto sentire benvoluto, completo, per quanto apprezzassi vagabondare indisturbato per la terraferma.

Guardandomi intorno, cercai una panchina ove potermi accomodare, e così rimuginare su quanto avevo scoperto.

Non ne ebbi il tempo, però.

A poca distanza da me, nel bel mezzo di un gruppetto di ragazzini, scorsi una ribelle chioma rossa e un viso che avrei riconosciuto tra mille.

Era chiaro come il sole che le stavano dando fastidio, perciò non persi tempo e mi incamminai verso il gruppo a passo deciso.

Quando fui abbastanza vicino per udire le loro voci, mi inalberai e rischiai di passare alle vie di fatto, mandando così all’aria i miei tentativi di chetarmi.

Cosa che, nel mondo degli umani, avrebbe voluto dire guai.

Perché non potevi prendere un ragazzo e ripassarlo per bene, lì tra gli umani. Specialmente, se non era tuo figlio.

Per quanto mi dolesse ammetterlo, non potevo imporre il mio status di principe, sulla terraferma.

Sarebbe stato controproducente, avrei creato solo guai e, peggio ancora, smascherato tutto il mio popolo.

Avrei dovuto risolvere la cosa alla maniera umana, non sfoderando di certo le mie abilità di guerriero.

Ascoltai perciò il loro discorrere irriverente, tentando nel contempo di capire come meglio approcciare la situazione.

Le parole di scherno che indirizzarono a Faélán, però, non mi piacquero per nulla, perciò decisi di intervenire immediatamente, anche se non con i pugni.

Ben più alto di quegli sbarbatelli, che non raggiungevano il metro e settanta – contro il mio metro e novanta – mi feci largo a forza in mezzo a loro.

La mia entrata in scena azzittì per un istante il gruppo, ma la calma fu di breve durata.

Un nanerottolo dalla maglia nera e rossa mi fissò ironico e, con la sua voce querula, esclamò: «E tu che vuoi? Vattene da qui, se non vuoi che ti facciamo nero!»

Lo fissai scettico – mi sarei ucciso da solo, se avessi permesso a uno soltanto di loro di toccarmi – e replicai atono: «Prima, dovresti riuscire a prendermi. Ma dubito riuscirai anche solo a toccarti la punta del naso, quando avrò finito di insegnarti un po’ di educazione.»

Le risatine che suscitò il mio dire mi convinsero della loro idiozia.

Dovevano essere tardi di mente, per insultare un uomo più grosso di loro, e per giunta con tale insolenza.

Deciso a farmi valere – e mettere loro addosso un po’ di sana paura – sogghignai, mi avvicinai allo sbarbatello che aveva parlato e, fissandolo dall’alto al basso, mormorai roco e gelido: «Nessun guerriero mio pari accetterebbe di essere deriso da una tal risma di insetti, ma sarò cortese. Vi permetterò di andarvene senza colpo ferire, e voi potrete godere dell’uso delle vostre gambe ancora per un giorno.»

Non so se fu il mio tono, di ben altro timbro rispetto a prima, o il mio sguardo privo di pietà – che solevo usare solo in battaglia – ma, a ogni modo, funzionò.

Il ragazzino impallidì, mettendo in mostra una ragnatela di efelidi sul naso e, indietreggiando di un passo, balbettò: «Non… non ci sarai sempre… la troveremo… ancora.»

Cancellai il mio ghigno dal volto, replicando: «E io troverò voi.»

Un attimo dopo, gli zaini vennero raccolti da terra, e i sei ragazzini corsero via, come inseguiti da una muta di cani.

Fu solo a quel punto che mi volsi verso Faélán, sperando in tutta onestà di trovarla sana e salva.

Quel che vidi mi portò a sorridere.

Lei, non solo mi stava guardando con palese divertimento, ma il suo sorriso era così smagliante che avrebbe potuto illuminare a giorno la notte più buia.

«Tutto bene, signorina?» le domandai, ammiccando.

La ragazzina assentì con un gran movimento del capo, che fece dondolare le sue ciocche fulve e ribelli.

«Li hai davvero spaventati, con quella storia del guerriero. E il tono, poi! Sembravi uscito da un film in costume in stile ‘Re Lear’» ridacchiò, recuperando la sua sacca da terra, assieme a una carpetta da disegno. «Sei un militare, per caso?»

«Potresti definirmi così, sì» assentii, sapendo di non mentire.

A tutti gli effetti, ero un guerriero da millenni, perciò non le stavo dicendo una bugia.

«Fico! E hai ucciso qualcuno? Sei mai stato in guerra?» esalò Faélán, stupendomi un poco con le sue domande.

Rabbrividii lievemente a quell’accenno, e preferii scantonare la sua domanda.

«Perché non ne parliamo comodamente seduti?»

Mi guardai intorno e, dopo aver individuato una panchina, la invitai a seguirmi.

Lei assentì lesta e trotterellò letteralmente al mio fianco, una specie di ninfa dei boschi profumata di agrumi ed erbe selvatiche.

Se avessi saputo che, sulla Terra, esistevano ancora le fate, avrei detto che Faélán era una di esse.

Ci accomodammo e, solo in quel momento, notai la gonna strappata all’altezza delle ginocchia e alcune macchie d’erba sul tessuto colorato.

Aggrottai la fronte, chiedendole: «Ti hanno fatto cadere?»

La ragazzina scrollò le spalle, come se non le importasse, o desse la cosa per scontata.

I suoi occhi mi parvero tranquilli, smentendo in parte il tremore delle mani che, nervose, tentarono di coprire gli strappi sulla gonna.

«Sicura che non ti abbiano fatto male?» ritentai, mettendo nella voce tutta la dolcezza di cui fui capace.

Lei allora sollevò appena l’orlo della gonna a balze, guardò le sue ginocchia sbucciate, ma replicò: «Non è nulla di grave. Davvero. Sono solo degli idioti.»

«E tu eri da sola. Come mai non eri in compagnia di qualche tua amica? Vi sareste potute difendere a vicenda. Non è sicuro girare da soli per i parchi, anche di giorno.»

Lo dissi con leggerezza, sorridendo a ogni parola, ma parve comprendere la mia reale preoccupazione.

«Lo dice anche la mamma, ma a è piace venire qui. Prendo sempre il treno, per venirci e, dalla stazione che è laggiù, vengo qui per disegnare. E’ il luogo ideale, e non saprei davvero dove altro andare. Gli altri parchi non mi danno le stesse sensazioni» mi spiegò Faélán, mostrandomi il suo quaderno da disegno formato A3.

Lo aprii e, non potendo trattenermi, socchiusi la bocca per lasciarmi sfuggire un sospiro di pura sorpresa.

Quelli che avevo tra le mani non erano semplici disegni, ma autentiche opere d’arte.

Non solo Faélán aveva riprodotto fedelmente il parco attorno a lei, ma aveva aggiunto mondi fatati e creature mistiche di bellezza squisita.

Scorsi con le mani i vari capolavori ma, quando trovai un disegno ad acquerelli con sfondo marino, mi bloccai.

Solo una mente ricca di immaginazione, avrebbe saputo ricreare quel paradiso sottomarino… che assomigliava tremendamente a casa mia!

Tremai leggermente e, solo a fatica, riuscii a chiudere l’album per restituirglielo.

Che mente intuitiva aveva, quella giovane fanciulla mortale!

«Sono davvero magnifici, ma questo già lo sapevo, visto il quadro che hai messo in gelateria. Hai una mano stupenda, sai? Studi arte, per caso?»

«No. Ho imparato da mia madre. Lei è molto più brava di me» mi rispose, accennando un leggero rossore sulle gote.

Rammentai gli altri dipinti ad acquerello, e non potei che trovarmi d’accordo con lei. Rachel possedeva una classe rara, anche se non la stessa magia che pareva avere Fay.

«Dovrebbe vendere le sue opere al Louvre, o al MoMA, che ne dici?» le proposi tutto sorridente.

Faélán rise deliziata, e io mi unii a lei, lasciandomi andare per qualche momento a quella rilassata serenità.

Era così raro, per me, potermi lasciare andare senza rischiare che gli incubi mi sommergessero!

Come riusciva, quella ragazzina, a liberarmi così facilmente dei miei demoni?

Una leggera brezza si levò, sommovendo le fronde degli alberi e portando con sé il profumo di una tempesta in avvicinamento.

Ero abituato ai cambiamenti repentini dell’isola del trifoglio, e mi stupiva ancora vedere le sue genti restare impassibili di fronte a simili eventi.

Che piovesse, vi fosse la nebbia o il freddo, agli irlandesi poco sarebbe cambiato. Sapevano che la loro era una terra volubile, e l’amavano anche per questo.

Perciò, non si lasciavano condizionare dalle bizze del tempo.

Un po’ come avevamo sempre fatto noi, con gli improvvisi colpi di testa di Muath.

Levai lo sguardo, scrutando le nubi nere in rapido avvicinamento e Faélán mi sorprese, sussurrando: «Thor sta richiamando la tempesta. Presto si potranno udire i colpi di Mijollnir.»

Mi volsi a guardarla e lei avvampò in viso, forse pentita di aver parlato.

Volli rassicurarla immediatamente e, alzatomi, le allungai una mano, dicendo: «Sarà il caso che troviamo un riparo dai suoi fulmini, che ne dici?»

Lei attese un attimo, prima di accettare la mia offerta.

Alla fine, però, strinse quelle dita sottili nelle mie, più ruvide e forti, e si lasciò condurre verso la stazione, che distava da noi poco meno di un quarto di miglio.

Le sorrisi, camminando piano per non costringerla a correre per tenere il mio passo, e aggiunsi: «Non ci siamo presentati, l’altro giorno. Io sono Kris O’Sea.»

«E’ un vero piacere conoscerti, Kris. Ma spero vorrai tenere per te quello che è successo oggi. Mamma si spaventerebbe, se lo sapesse. E mi vieterebbe di venire qui.»

Affrettammo il passo, quando udimmo il primo tuono rombare sopra le nostre teste.

Mijollnir aveva cominciato a colpire le nubi, per mano stessa del dio del tuono.

«Non credi che dovrebbe sapere?» le replicai, scansando abilmente un paio di persone, prima di sollevarla con facilità per farle scavalcare tre gradini.

Lei sorrise, divertita da quella mia buffa galanteria, e mi ringraziò con una altrettanto buffa riverenza.

Non potei che sorriderle di rimando.

«Mi vieterebbe qualsiasi parco da qui all’Inghilterra, come minimo» mi spiegò poi, indicandomi a quale binario fermarmi. «Quelli, beh… sono nella mia scuola, e a volte mi seguono. Si divertono a prendermi in giro. Se anche cambiassi zona, mi seguirebbero lo stesso, perciò…»

Lo disse con rassegnazione, e io desiderai aver fatto molto più che parlare, con quei cafoni dai calzoni troppo larghi.

«Perché ti prendono in giro?»

Faélán non disse nulla, e io non volli insistere.

Non la conoscevo così bene da pretendere assoluta sincerità, da parte sua, così come lei non mi conosceva al punto tale da aprirsi a me.

Pagai perciò il biglietto per entrambi senza più domandarle nulla, e salimmo in carrozza poco prima che si scatenasse un temporale coi fiocchi.

Ci accomodammo su una coppia di poltroncine all’inizio del vagone e lei, le gambe penzoloni e i piedi dondolanti, iniziò a canticchiare un motivetto.

Qualche attimo dopo, però, smise, arrossì e reclinò scoraggiata il capo.

Con un mezzo sorriso, cominciai a capire dove fosse il problema.

«Ti perdi nei tuoi sogni a occhi aperti, eh?»

Lei non rispose, ma il suo rossore fu per me come una conferma.

La sbirciai di sottecchi e, nel poggiare gli avambracci sulle cosce, mormorai pensoso:  «Quando avevo più o meno la tua età, ero uguale a te. Passavo ore seduto sugli scogli a scrutare il mare o il cielo, e spesso dimenticavo anche di rientrare a casa per mangiare.»

Non avrei mai dimenticato la volta in cui, perso nei miei mille pensieri, la guardia di palazzo mi aveva ricondotto a casa perché venissi spedito nelle senturion.

Non un saluto ai genitori, o alla fedele servitù.

L’ultima cosa che avevo visto, abbandonando quegli scogli, era stato il limpido chiarore delle acque di superficie.

Sorrisi tristemente, ripensando a quanto male mi fossi sentito in quel momento, e non feci fatica a comprendere il dolore della fanciulla accanto a me.

Faélán mi lanciò un’occhiata di sottecchi, con i suoi chiari occhi color acquamarina, cercando di capire se stessi mentendo o meno.

Anche in quel caso, sapevo di aver detto la verità.

Fu il suo sorriso timido a darmi il la per continuare la mia storia.

Mi persi perciò nei miei ricordi e, tornando serio, mormorai: «Mi piace ascoltare il suono del mare che si infrange sugli scogli, così come lo stridore dei gabbiani in cielo, o lo svilupparsi delle tempeste all’orizzonte.»

Le diedi un colpetto con la spalla per alleggerire l’atmosfera, e continuai.

«In casa mia, non avrei potuto sviluppare le mie passioni come te. Mio padre non è mai stato così…»

Cercai una parola, ma non ne trovai nessuna che descrivesse appieno il carattere torvo e serioso di Thetra mac Lir.

Fu lei a trovarla per me.

«Aperto di idee?»

«Diciamo di sì. I suoi figli dovevano essere forti, capaci di difendersi al meglio, in ogni situazione, essere superiori agli altri per intelligenza e prontezza. Ma non avrebbero dovuto mai esternare sentimenti deboli come l’amore per le arti. Potevamo apprezzare la cultura nelle sue molteplici forma, ma non esporci in maniera evidente, applicandoci in qualche genere di arte.»

Faélán mise un broncio adorabile, e io volli avvolgerla con il braccio per consolarla.

Mi ricordò tanto Lithar, quando scoprì per la prima volta di non poter imparare a suonare l’arpa di corallo di uno dei musici di Corte.

Il saperlo le aveva spezzato in due il cuore e, per giorni, si era rintanata nella sua stanza senza mai uscirne.

Solo l’intervento di Muath l’aveva smossa dalla sua decisione di morire di inedia.

Thetra, in compenso, non si era mai scusato per quell’incidente e, quando infine tutti noi eravamo entrati nelle senturion, ne aveva forse gioito.

Si era dichiarato speranzoso che le idee malsane della figlia svanissero col tempo, oltre che con un sano e rigoroso allenamento.

Pur se erano passati millenni, odiai profondamente quel ricordo e, feroce, lo scacciai dalla mente.

«Non è una bella cosa, secondo me» replicò la ragazzina, e io non potei che annuire.

«No, non credo neppure io ma, finché vivrò sotto il suo stesso tetto, dovrò sottostare alle sue regole.»

«Ma non sei abbastanza grande per andartene?»

Risi sommessamente, e annuii.

La mia unica salvezza dal giogo di mio padre, sarebbe stato sposarmi e andarmene da palazzo per raggiungere un Protettorato.

A quel modo, avrei ottenuto un poco di libertà in più, ma non avevo ancora trovato nessuna donna in grado di spingermi a tale passo.

Mi passai una mano tra i corti capelli biondo castani e, nell’ammiccare alla mia giovane amica, le domandai: «Vuoi sposarmi, e permettermi di scappare da mio padre?»

Lei rise forte, la paura ormai del tutto scomparsa da quei brillanti occhi chiari, e io mi unii alla sua risata, trovandomi a percepire una gioia nuova, mai provata.

Non avevo mai passato così tanto tempo con un ragazzino – o, nel caso specifico, una ragazzina – poiché, tra i fomoriani, non era ad uso.

Le senturion erano state create per crescere giovani forti e privi di paure e, quando se ne usciva, l’adolescenza era ormai un ricordo antico, forse mai sperimentato.

Vedere il mondo con gli occhi incantati di Faélán era un’esperienza strana, per me, ma davvero corroborante.

Cosa voleva dire immergersi in un mondo di fate e folletti, di creature marine fantastiche e di palazzi millenari ricoperti di pietre preziose?

Le memorie che avevo raccontato a Faélán erano solo un pallido ricordo, lo sapevo bene, di ciò che ero stato in passato.

Ma troppi millenni erano trascorsi da quei tempi lontani, e ormai non rammentavo più la gioia provata prima di entrare nelle senturion.

Sentivo solo l’amaro in bocca lasciatomi dall’addestramento, non più il sentore dolce e gradevole dell’infanzia libera che avevo vissuto per qualche decennio.

 
***

Avrei dovuto dare retta a Sheridan, quando mi aveva consigliato di uscire con l’ombrello.

Una volta scesi dal treno, all’esterno della stazione diluviava.

Neppure un taxi era visibile lungo la via, neanche si fossero accordati per lasciarci a piedi sotto quel temporale infernale.

Rassegnato, perciò, mi tolsi la giacca e la drappeggiai sul capo di Faélán perché non si bagnasse troppo, dopodiché iniziammo a correre.

Dalla stazione, la gelateria di Rachel non distava molto, perciò avremmo limitato i danni al minimo.

Per lo meno, i danni sarebbero stati limitati per la mia piccola compagna di avventure.

Io mi sarei adeguato. Dopotutto, quando mai l’acqua mi aveva spaventato?

Ridemmo spensierati, quando passammo accanto ad alcuni pedoni sul marciapiede.

Frammenti di ricordi, persi nei meandri di un tempo passato, riemersero senza volere. Non cercati.

Il sorriso timido di Lithar, la risata di Stheta, le baruffe con Rohnyn… la stretta di mano di Ciara.

Le senturion erano state un campo di battaglia per tutti noi, ma erano anche state il viatico per una bellissima amicizia.

Perché questo, prima di tutto, v’era tra me e i miei fratelli, oltre che con Ciara.

Amicizia.

Un legame indissolubile come il tempo e che, anche grazie a quella giovane ninfa dai rossi capelli, stava riemergendo con forza.

Quando finalmente raggiungemmo la porta della gelateria, entrammo di corsa, sorprendendo un paio di turiste in attesa della loro focaccia con gelato.

Il tempaccio non le aveva scoraggiate e, la presenza di alcuni tavolini all’interno del locale, le aveva spinte a cedere alla gola, standosene al coperto.

Rachel, nel vederci assieme e, soprattutto, bagnati fradici, esalò un’imprecazione, o almeno così mi parve.

Si affrettò a servire le due ragazze, che ci stavano guardando incuriosite, dopodiché sgattaiolò fuori dal bancone per uscire da una porticina bianca.

Con sé, teneva due teli spugna alti quasi quanto me.

Me ne gettò uno in mano, concentrandosi poi unicamente sulla figlia, che avvolse protettiva nella salvietta, tergendole il viso con gesti teneri e ansiosi.

«Mamma, tranquilla, è acqua. Non è acido» ridacchiò Faélán, strizzandomi l’occhio da sopra la spalla. «Non mi scioglierò per così poco.»

«Sarà anche così, ma si può prendere un raffreddore anche adesso, cara» brontolò la donna, sospingendola verso la porticina da cui, in precedenza, era uscita lei.

Io la osservai ammirato, anzi, deliziato da quelle attenzioni tutte materne, e provai un briciolo di invidia.

Muath non si era mai comportata a quel modo, con noi.

Avvolte le spalle con il telo spugna, me lo passai sul capo bagnato e, con un sorrisino malizioso rivolto alle due turiste, chiosai: «Sto aspettando il mio turno… sapete com’è…»

Le due ragazze ridacchiarono divertite e, proprio in quel momento, Rachel fece la sua ricomparsa, fissandomi a metà tra il dubbio e lo sconcerto.

Notò le occhiate maliziose delle turiste, il mio sogghigno furbo e, accigliandosi leggermente, borbottò: «Posso sapere cosa ci faceva con mia figlia, Mr…»

Allungando una mano, dissi lesto: «Kris O’Sea, Miss O’Rourke. Ci siamo incontrati per puro caso al parco e, quando è cominciato a piovere, ho pensato fosse più sicuro riaccompagnarla a casa.»

Poco convinta dalla mia spiegazione, mi fissò sempre più accigliata.

Forse, dopotutto, non era sicuro farsi riaccompagnare neppure da un estraneo, per quanto questo fosse un fanatico del suo gelato.

Ci pensai troppo tardi, in tutta onestà.

Tra gli umani non ci si concedevano simili lussi, specialmente con le arie che tiravano in certi posti.

Rammentai i casi di stupro, di rapimento e di violenze sui minori, e mi sentii uno stupido ad aver dato per scontato che, la mia semplice spiegazione, potesse bastarle.

Mi tolsi perciò dalla faccia il mio sorrisino e, più seriamente, aggiunsi: «So che non mi conosce, ma posso fornirle tutte le credenziali che vuole. Non volevo adescare sua figlia, solo sincerarmi che tornasse a casa illesa.»

Secondo errore.

Alla parola ‘illesa’, Rachel si irrigidì e, tra me, cominciai a imprecare per la mia idiozia. Ma non ero io, quello abile con le donne?

Feci per aggiungere altro, ma lei mi azzittì.

Indicò la porta da cui era uscita e, a sorpresa, mi disse: «Vada di là, Mr O’Sea, e si asciughi. Io e lei dobbiamo parlare.»

«Ah… va bene.»

Sbattei le palpebre, un po’ confuso da quell’improvviso voltafaccia, e mi limitai a eseguire il suo ordine.

Salutai con un cenno della mano le due turiste, che risposero al saluto, e mi intrufolai nel retrobottega.

Finii così col trovarmi nel laboratorio dove, a rigor di logica, Rachel preparava il gelato e, tra me, gongolai.

Ero arrivato a Disneyland.

Mi guardati attorno, ammirato e deliziato dai profumi che mi circondavano.

Nel frattempo, però, feci come ordinatomi e mi asciugai.

Mi tolsi la camicia per liberare la pelle dall’acqua e, preventivamente, appesi l’indumento a una sedia, drappeggiandomi poi il telo sulle spalle.

Dal piano superiore, avvertii dei passi frettolosi e il suono soffuso di una musica ritmata.

Sorrisi tra me e, come avevo ormai imparato grazie ai buoni uffici di Eithe, espansi la mia mente per capire chi stesse producendo quei suoni.

Percepii subito Faélán, la sua mente multicolore e piena di vivacità. Sorrisi spontaneamente, quando la sfiorai con il mio potere.

Era come essere invasi dalla gioia e dal buonumore.

Quindi, abitavano al piano superiore, e la madre l’aveva subito spedita a cambiarsi, a quanto pareva.

«Che mente brillante ha…» mormorai, scostandomi gentilmente dai suoi pensieri per non inoltrarmi oltre.

Avevamo scoperto, allenandoci con i lupi del branco di Eithe, che le nostre menti di fomoriani potevano collegarsi a qualsiasi altro essere vivente.

Loro, al contrario, erano quasi del tutto ciechi, di fronte a una mente umana e solo Lady Fenrir, la custode dell’anima del precursore della loro razza, era in grado di compiere l’eccezione.

Sorrisi ancora di più, ripensando a Brianna Ann Smithson.

L’avevo incontrata in occasione delle festività Pasquali, a casa dell’attuale compagna di Konag, Megan.

All’apparenza, mi era parsa solo una giovane poco più che ventenne, con lunghi capelli biondo castani e singolari occhi d’ambra.

Ma, parlando con lei della sua unicità di Saggia del Branco e di Prima Lupa, avevo scoperto una profondità e un misticismo più che unici, in lei.

L’essere consapevole di avere, nel proprio animo, colui che avrebbe potuto far esplodere il mondo1, non doveva essere facile, ma lei viveva ogni cosa con equilibrio.

Brianna mi era piaciuta molto, e così pure il suo compagno Duncan, che mi era parso in tutto e per tutto un uomo innamorato perso, e fortunatamente ricambiato.

Lasciai perdere quei bei ricordi per tornare alla mia esplorazione, ben deciso a non lasciare nulla in secondo piano.

Continuai perciò a guardarmi attorno, notando le fotografie di una piccola Faélán in groppa a un pony.

A giudicare dalla sua giovane età, doveva essere avvenuto durante il periodo di vita coniugale di Rachel.

Diciassette anni. Rachel aveva avuto la piccola quando ancora, lei stessa, non era che una ragazza.

Cosa aveva voluto dire crescerla, sapere di essere invisa dai parenti del marito riluttante, e sfruttata per interesse dalla propria famiglia?

Il rumore ovattato di una porta che veniva aperta, mi portò a volgere lo sguardo.

Sull’entrata del laboratorio, una circospetta Rachel stava osservandomi, nello sguardo l’indecisione più netta.

Rimasi seduto per non peggiorare la situazione e, indirizzato un sorriso alle foto del maneggio, mormorai: «La postura sembra buona. Ha continuato?»

Lei parve sorpresa dalla mia domanda, ma questo la portò a rilassarsi appena.

Chiuse la porta dietro di sé e avanzò di un paio di passi, afferrando una seconda sedia per accomodarsi a sua volta.

La scavalcò, poggiando gli avambracci sullo schienale per poi sedersi in una posizione non propriamente femminile.

Pareva una posa studiata, forse col solo intento di farmi comprendere che non era una donna indifesa, a dispetto dell’ansia che lessi nei suoi occhi.

Galleggiavano tra il nocciola chiaro e il dorato. Un colore davvero raro, in tutto simili a quelli di Lady Fenrir.

Mi guardò con attenzione, accigliandosi un poco quando puntò lo sguardo sul mio torace nudo… e sulla profonda cicatrice che solcava il mio addome.

La coprii appena con il telo spugna, perché non indugiasse troppo su quello squarcio ormai vecchio di diversi secoli.

Sorrisi appena, inventandomi sul momento una spiegazione.

E dicendo la verità al tempo stesso.

«Una ferita in battaglia. Sono un soldato in congedo temporaneo.»

Non avrei potuto dire con lei che, quello squarcio profondo, proveniva dalla battaglia che, da quel giorno, aveva invaso i miei incubi notturni. E diurni.

Ma non avevo neppure detto una bugia.

Avevo davvero combattuto con le unghie e con i denti, per difendermi dall’agguato in cui ero caduto.

Ero stato tra la vita e la morte per quasi due settimane ma, alla fine, mi ero ripreso e, più convinto che mai, avevo cercato la mia vendetta.

Ottenendola.

Scossi il capo, lasciando correre quei lugubri pensieri per dedicarmi alla mia ospite accigliata.

«Ricordi inerenti la ferita?» mi domandò a sorpresa Rachel, dimostrando la stessa empatia della figlia.

Annuii, non aggiungendo altro.

Lei allora sospirò, sembrò afflosciarsi sulla sedia e, nel poggiare il mento sugli avambracci, mi domandò: «I suoi compagni di classe le hanno dato ancora fastidio?»

Non mi sorpresi più di quel tanto, scoprendo che lei sapeva ogni cosa.

Rachel O’Rourke non mi sembrava una donna a cui si potesse farla in barba e, meno ancora, che non si occupasse attentamente della figlia.

Assentii e lei, passandosi una mano tra i capelli – li portava stretti in una treccia, quel giorno – asserì: «Ho cercato di farle capire che il Fairview Park è pericoloso, per lei… ma non vuole capire. Perché è lì che l’ha trovata, vero?»

Non risposi, ligio alla promessa fatta e Rachel, accennando il primo sorriso della giornata, per quel che mi riguardava, mi domandò: «Le ha promesso di non parlare, eh?»

«Molto perspicace… e può darmi del tu. Mi sento un po’ a disagio con le forme di cortesia.»

Ne dovevo già sopportare fin troppe a Corte, per doverle cercare necessariamente anche sulla terraferma.

Lei annuì, pratica, e aggiunse: «D’accordo… Kris. Quanto ti devo pagare, perché tu mi dica la verità?»

«Mi trovo in svantaggio, visto che sono famelico di gelato, e mi trovo nel sancta santorum della mia gelateria preferita» ironizzai, facendo sorgere un secondo sorriso sul viso di Rachel, più luminoso del precedente.

«Buono a sapersi. Ma non mi hai risposto.»

«Te lo dirò solo se non le vieterai di tornare al parco.»

Il cipiglio tornò lesto come era sopraggiunto il sorriso e, nel levare una mano a bloccarne la replica, aggiunsi: «La proteggerei io, di nascosto, e interverrei solo se necessario.»

Quella proposta la sorprese e sì, la insospettì.

Il cipiglio divenne dubbio rabbioso, e nuovamente la sua postura si fece rigida.

Ma era mai possibile che gli umani non si fidassero proprio di nessuno?!

Sospirai, mi passai una mano tra i capelli umidicci e ritentai.

«Ho una sorella minore, e vorrei che ci fosse sempre qualcuno con lei, pronto a difenderla. Anche se Lisa sa difendersi da sola, e potrebbe stendermi a pugni se sapesse che vorrei appiopparle una guardia del corpo, e solo per far stare tranquillo il sottoscritto.»

Risi della sola idea.

Lithar scortata? Piuttosto, avrebbe tagliato la gola al suo accompagnatore e ci avrebbe fatto un arrosto.

La mia spiegazione, però, non sortì l’effetto voluto, così tentai con un’altra carta.

«Faélán mi ha mostrato i suoi disegni, anche se già sapevo che era molto brava. Il dipinto appeso in negozio lo dimostra da sé. Sono a dir poco splendidi, e sarebbe un peccato se non potesse più esprimere se stessa e i suoi sogni, perché privata del luogo che la ispira.»

Mi massaggiai le mani, ripensando a quante volte quelle dita si erano piagate nel tenere in mano una spada, e aggiunsi un’ultima cosa.

«Non tutti i figli possono dire di aver avuto genitori così disponibili a lasciare che, la loro progenie, sviluppasse i propri sogni, i propri desideri.»

«Questo è giocare sporco» brontolò allora Rachel, adombrandosi.

Accennai un sorriso di scuse, ma proseguii: «Puoi chiedere di me a Sheridan e Ronan O’Sea, che sono rispettivamente mia cognata e mio fratello. Lei lavora al National Geografic, mentre lui ha un negozio di antiquariato a due isolati da qui, e si chiama ‘The Admiral’s Arms’. Da quel che mi ha detto mia cognata, ha già conosciuto tua figlia.»

Quest’ultima menzione la fece sobbalzare e, sorridendo appena, seppi di aver giocato finalmente la carta giusta.

Accennando un sorrisino, lei mi disse per tutta risposta: «Se Ronan O’Sea è tuo fratello, allora posso anche smettere di preoccuparmi. Per un po’, almeno.»

«E come mai?» ironizzai, volendo conoscere la storia che Sheridan mi aveva solo accennato.

«Poco tempo addietro mi telefonò, dicendomi che mia figlia stava gironzolando per il suo negozio, con il chiaro intento di comprare un sestante del diciassettesimo secolo.»

Rise contrita nel dirlo, e la sorpresa si fece strada sul mio viso, più che mai evidente.

Sollevai un sopracciglio, curioso, e asserii: «Piuttosto caro, come oggetto, immagino.»

«Già. Mi disse di volersi sincerare che avesse il permesso di spendere tanti soldi, così mi catapultai là e lo trovai impegnato in una lunga dissertazione con mia figlia. Stava spiegandole l’uso del sestante e dell’astrolabio.»

Il suo sorriso si fece dolce, a quel ricordo e, tra me, mi riproposi di chiedere lumi a Rohnyn.

«Erano appollaiati su due sgabelli, Ronan tutto serio e gesticolante, Fay del tutto presa dal suo dire e sorridente come poche altre volte l’avevo vista. Per un po’, credetti si fosse presa una cotta per tuo fratello perché, da quel giorno, non ha mai smesso di fare un salto nel suo negozio.»

Risi sommessamente, divertito da quell’immagine e, al tempo stesso, lieto che i demoni di mio fratello fossero ormai del tutto scomparsi.

La vista dei bambini non era più un problema, per lui e, per come aveva trattato Fay, non avevo dubbi sarebbe stato un ottimo padre.

«Se sei di Dublino, immagino tu abbia ormai capito chi sono, giusto?»

La domanda di Rachel giunse a sorpresa, ma non volli mentirle, fingendo di non essermi interessato alla sua storia.

Annuii senza dire altro e lei, reclinando un momento il capo, proseguì con la narrazione.

“I ricordi che Faélán ha della figura paterna, oltre che essere sfocati, non sono esattamente idilliaci. Perciò, quando la vidi accomodata su quell’alto sgabello, intenta ad ascoltare tuo fratello, e sorridente come avrei sempre voluto vederla con suo padre, mi ritrovai a sospirare di sollievo. Inconsciamente, ho sempre temuto che, le esperienze passate, potessero averle lasciato strascichi importanti nell’animo.”

Ripensai alla frattura di cui avevo letto, e fremetti.

«Mio fratello sa incantare, quando vuole. Le altre volte, è solo uno scorbutico ex marinaio» ironizzai, scrollando le spalle.

Rachel, allora, tornò a sorridermi.

«Con mia figlia, è stato perfetto. So che Ronan le permette di giocherellare nel magazzino, qualche volta.»

Annuendo, intrecciai le mani in grembo e dissi con tono mesto: «Mio fratello perse un figlio, oltre alla sua prima moglie, più di sei anni fa, e questo lo segnò profondamente. Solo Sheridan, la sua attuale moglie, riuscì a farlo uscire dal circolo vizioso in cui era caduto. Nessuno di noi era stato capace di tanto.»

«E ora, se non ricordo male, è incinta. Ricordo una donna bruna, in negozio, con una gravidanza appena accennata. Se non rammento male, mi dicesti che ora è di cinque mesi.»

«Ricordi bene» assentii, pregando che Ciara fosse salita sulla terraferma per parlare con Sheridan.

Non mi ero presentato da lei proprio per permettere alle due amiche di discorrere tra donne.

«Sei in ansia per lei?» mi chiese Rachel. Per la prima volta, il suo tono fu suadente, non più rigido e controllato.

Annuii, adombrandomi in viso.

«So che Sheridan è forte come un cavallo, e non la scalfirebbero neppure marines e teste di cuoio in grande spolvero, ma…»

Rabbrividii, tornando coi ricordi al momento in cui avevo saputo della morte di Mairie.

Ero salito in superficie prima ancora di Lithar, ma Rohnyn mi aveva scacciato a male parole, minacciando di uccidermi se mi fossi avvicinato nuovamente.

L’essere stato disconosciuto da nostro padre, all’epoca, aveva portato più danni di quanti, in principio, avessimo pensato.

E l’ostracismo di nostro fratello era stato la naturale conseguenza.

«Pensare positivo è importante, per la puerpera, così come l’avere intorno a sé un ambiente assertivo e calmo» mi disse a quel punto Rachel, sorridendomi.

Non potei che rispondere al sorriso e, annuendo, la ringraziai.

Restammo così per diverso tempo, in silenzio, ad ascoltare il ronzare lieve della musica al piano superiore, senza avere nient’altro da dirci, o da chiedere.

Fu lo scampanellio della porta della gelateria, a muovere i passi di Rachel.

Si levò lesta, corse alla porta per tornare dai suoi clienti ma, a metà di un passo, si volse verso di me e mi domandò: «La proteggerai davvero?»

Annuii e, nell’alzarmi, fissai i suoi occhi insicuri e pieni di domande.

Portai il pugno destro al cuore e, reclinando il capo in avanti, dissi con estrema serietà: «Sul mio onore, il mio sangue e la mia spada, io te lo giuro.»

Non pensai a quanto strano avrebbe potuto apparire, alle sue orecchie, il nostro giuramento di fedeltà, ma niente mi parve più appropriato di questo.

A lei, però, parve andare bene, perché annuì e scomparve dalla mia vista.





 
 
 
__________________________
1 Si parla di Fenrir come di colui che darà il via al Crepuscolo degli dèi, e cioè all’Apocalisse.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4.
 
 
 
 

«… e così, mi sono preso l’impegno di proteggerla.»

Dopo aver raccontato tutto a Rohnyn e Sheridan – scoprendo così che Ciara le aveva parlato – me n’ero tornato a casa.

Non contento, avevo cercato anche Lithar per chiederle consiglio, e così le avevo raccontato di Rachel e della sua figlioletta così speciale.

Poggiata contro la scrivania, una gamba ripiegata per posare il piede sulla vicina cassapanca, Lithar mi guardò con uno strano sorriso dipinto in volto.

Sorriso che si velò di tristezza, quando mi disse: «Stai facendo una cosa molto bella, se si considera che conosci entrambe da pochissimo tempo.»

«Se conoscessi Faélán, capiresti perché mi sono preso questo impegno» replicai, scrollando le spalle. «Ha un’anima candida, pura, e i suoi occhi… mi danno una sensazione strana.»

«E non stai neppure parlando di sua madre! Questa sì che è una novità» scoppiò a ridere, facendomi leggermente indispettire.

E io che cercavo di essere serio!

«Non fraintendermi, fratello… trovo tutto ciò molto nobile… e umano, ma è strano non sentirti decantare le bellezze di una donna. Qui, sento partecipazione e sentimento a livello profondo.»

«Dovrò mostrarti uno dei suoi disegni. Ti ricrederesti.»

«E’ così brava?» si informò Lithar, ora curiosa.

Lei era sempre stata una pena, nel disegno, pur se sapeva fare ricami eccezionali, con in mano una spada.

«La sua fantasia mi commuove. Ma c’è dell’altro… mi riporta a galla antiche memorie, cose a cui non mi era mai capitato prima di ripensare.»

Lithar si accigliò.

«In che senso?»

Mi accomodai sul suo letto, pensieroso, e strinsi le mani per non doverle vedere correre alla ricerca di qualcosa da fare.

«Ricordo quando eravamo nelle senturion, nei rari momenti in cui eravamo felici, in cui la nostra vita non sembrava così brutta e difficile.»

Nati a poche decine di anni di distanza gli uni dagli altri, avevamo avuto la rara possibilità di poter entrare assieme nelle senturion, vista l’età ravvicinata.

Forse, questo ci aveva salvato la vita, oltre a permetterci di rendere più saldi i nostri rapporti.

La guardai di straforo, aggiungendo torvo: «Sai che suo padre la picchiava?»

Il suo cipiglio si fece cupo e, poggiata la mano sull’elsa della spada – che ancora portava al fianco – sibilò: «Spero sia stato convenientemente punito.»

«E’ da qualche parte in mezzo a dei bombardamenti, se ho ben capito. Sai che non mi intendo molto di politica umana» scrollai le spalle, non sapendo che altro dirle.

Lithar sbuffò sprezzante, dichiarando: «Gli umani sono dei codardi. Usano armi che non li portano ad affrontare direttamente il nemico. E’ una cosa disgustosa.»

Da guerriero, non potei che assentire.

Per quanto il nostro modo di relazionarci alle battaglie potesse apparire vetusto, per noi era importante mantenere l’onore in guerra.

Nessuna arma che non ci avesse spinti a rischiare come il nostro avversario, sarebbe stata considerava onorevole.

Anche se…

Reclinai il viso, passandomi distrattamente una mano sull’addome – ora coperto da una tunica in seta blu – e Lithar, immediatamente, imprecò.

Si accomodò al mio fianco, le mani sulle ginocchia e lo sguardo teso, asserendo con veemenza: «Il tuo dono è un’arma nobile, Krilash. Non pensare mai il contrario! Ci sei nato, con questo potere, non lo hai ottenuto con l’inganno o con l’uso della magia oscura. Ti è proprio come le mani, o gli occhi.»

Le sorrisi mesto, grato per il suo tentativo di farmi sentire meno sporco di quanto non mi sentissi di solito, e mormorai: «Ma io posso attaccare a distanza. E l’ho fatto.»

Mi afferrò una mano, stringendola con forza, e sibilò: «Non sei un vile, non lo sei mai stato, né mai lo sarai. Quel che successe a Dún Aonghasa non deve farti credere di essere un assassino spietato. Mai

Neppure lei sapeva tutto, di quel che era avvenuto in quello sperduto angolo d’Irlanda, sulle Isole Aran.

Nessuno, a parte i miei commilitoni e Konag, che avevano assistito al massacro.

Ero stato accolto a Mag Mell come un eroe, ferito e quasi morente, acclamato come un grande condottiero perché, nonostante le ferite, avevo salvato tutti.

Nessuno dei miei uomini era morto in quell’assalto proditorio, nonostante fossimo stati in numero molto inferiore rispetto ai Tuatha.

La ferita che portavo con imbarazzo sul ventre, era il giusto memento per ciò che era successo quel giorno.

Gli incubi, il giusto prezzo da pagare per aver lasciato che, il mio dono, facesse scempio tale di tante vite.

Erano quegli incubi a tenermi sveglio la notte, e divoravano il mio essere di giorno.

Il mio cercare sempre svago, che fosse con le donne, con una coppa di gelato, o con i miei frequenti viaggi, poco contava.

Dovevo scappare da quei ricordi, da quegli orrori.

Ma con Fay… con Fay sparivano magicamente, facendo riemergere solo cose belle, solo momenti sereni.

«Non so spiegarti perché, Lithar, ma sono spinto a proteggerla. E’ come se lei fosse una perla di inestimabile valore, qualcosa che deve essere salvaguardato sempre e comunque.»

Mi strinsi una mano al petto, e seppi di aver detto il vero.

Non stavo ingigantendo quello che avevo provato quando, in quel parco, avevo scorto Faélán in pericolo.

Il bisogno di sguainare la spada – che ovviamente non avevo avuto con me – era stato impellente, bruciante nel mio cuore.

«E che mi dici della madre? Lei è d’accordo?»

Dal suo tono, compresi subito che aveva rinunciato al tentativo di tirarmi su di morale. Sapeva quando mollare l’osso, la sorellina.

«Rachel? Sulle prime, pensava fossi un maniaco» ironizzai, e lei scrollò le spalle, irrispettosa e divertita.

«Non ne dubito. Qual è la madre che ti farebbe avvicinare coscientemente alla propria figlia? Se poi si considera che è così giovane…» ammiccò lei, cercando di mettere quanta più ironia nel suo dire.

«Dovrei sculacciarti, per questo» brontolai, pur sorridendo. «Non penso alla figlia di Rachel in quel modo

«Ammettilo, Krilash. Hai visitato più letti, tu, di Stheta e Rohnyn messi assieme.» Poi, con ironia, aggiunse: «Io, ovviamente, non mi inserisco nella classifica, perché non voglio offrirti il minimo indizio.»

«E io te ne sono grato, o comincerei a girare per il palazzo munito di falcetto, e con l’unico scopo di castrare ogni maschio al di sopra dei mille anni, e al di sotto dei dodicimila» replicai, facendola scoppiare a ridere.

«Pensa alle tue amanti, invece che ai miei. Allora? Cosa ti ha detto?»

«Sheridan mi aveva accennato alle visite di Fay nel negozio di Rohnyn, così gliel’ho accennato e, a quel punto, lei è scoppiata a ridere. Mi ha detto che sua figlia va matta per l’Admiral’s Arms, inoltre mi ha detto che la figlia ammira molto Rohnyn. Così, sapendo che sono suo fratello, si è tranquillizzata un poco.»

Dopo un attimo, aggiunsi: «Le ho fatto il giuramento.»

«Quel giuramento?» esalò sorpresa, raddrizzando la schiena, quasi messa in allerta dal mio dire.

«Mi è venuto spontaneo. Ancora non so dirti perché. Ma sentivo di doverlo fare. Come se, di fronte a me, avessi avuto un membro della mia famiglia da proteggere.»

Fin da quando avevo incontrato Rachel per la prima volta, tutto mi era parso strano. Più forte, più incisivo.

No, non c’era solo la sua bellezza evidente, come la sua voce capace di incantarmi.

Né vi era soltanto l’istintivo senso di protezione che provavo per Faélán, a spingermi avanti in quella strana avventura.

C’era dell’altro, ne ero più che sicuro.

Ma che io fossi maledetto se sapevo cos’era!

 
***

Se Eithe era la dolcezza fatta a persona, Díomán incuteva più timore di una intera coorte di fomoriani in battaglia.

Anche chi non l’avesse conosciuto come sicario di un branco di licantropi, avrebbe percepito in lui una forza insolita, oscura.

Da cui stare alla larga il più possibile.

Eppure, con la sua fidanzata, era un autentico agnellino.

Misteri della chimica. O del cuore.

Seduti su una delle panchine del Fairview Park, all’ombra di un paio di aceri rossi dalla folta chioma, stavamo discorrendo del più e del meno.

Il motivo per cui li avevo invitati lì era semplice e, al tempo stesso, assurdo.

Non era affatto detto che, quello che mi riproponevo di fare, fosse possibile, ma tentare non nuoceva a nessuno.

E io volevo offrire tutta la protezione possibile a Faélán.

Non appena la vidi in lontananza, l’onnipresente album in mano e lo sguardo perso in osservazione del paesaggio, sorrisi.

Sembrava davvero un’apparizione fiabesca.

Non sapevo se dipendesse o meno dagli abiti, sempre molto colorati e vaporosi, o dalla ribelle chioma rossa, portata sparsa sulla schiena.

Ma tant’era. Per me, era come un folletto dei boschi.

«E’ lei?» mi domandò Eithe, lanciando uno sguardo curioso nella sua direzione.

«Sì.»

«E’ una ragazzina davvero molto carina. Alta, per la sua età. E’ così anche la madre?»

«Rachel? Sì, è abbastanza alta. Non come Sheridan. Direi sul metro e settantacinque al massimo.»

«Dee?»

Sentendosi interpellare, Díomán aggrottò impercettibilmente la fronte, annusò l’aria e infine disse: «Non è né una neutra né, tanto meno, una licantropa neonata. Ma il suo profumo è strano.»

Incuriosito dal suo dire, lanciai un’occhiata in direzione di Eithe che, dopo qualche istante di riflessione, assentì, dando ragione al suo uomo.

«Profuma… potrei sbagliarmi, perché tu sei qui vicino, ma profuma di mare, vento e tempeste.»

La cosa mi incuriosì. Era un profumo insolito, per un essere umano, stando almeno a quanto mi avevano sempre detto loro.

Feci per domandare altro, ma la voce trillante di Faélán si incuneò nella mia mente, portandomi a volgere lo sguardo verso quel suono.

Le sorrisi spontaneamente, salutandola, e lei si avvicinò a noi quasi saltellando.

Ci sorrise senza la minima esitazione, senza provare alcuna traccia di paura di fronte alla presenza imponente e cupa di Díomán.

Quasi sapesse, nonostante l’aspetto maestoso, quanto poco sarebbe stato pericoloso per lei.

L’album stretto tra le mani, inclinò il capo per sorridermi tutta contenta e, con una certa dose di ironia, chiosò: «Davo per scontato che ti avrei rivisto, oggi, ma non pensavo ti fossi tirato dietro la cavalleria. Mamma è stata così tremenda?»

Mi stupì sentire la risata del possente licantropo al mio fianco che, a quel commento, esplose in quella gaia esternazione di divertimento.

Faélán accentuò il suo sorriso e, con naturalezza, si accoccolò dinanzi a noi sull’erba fresca, poggiando l’album sulle gambe.

La gonna, stesa attorno a lei come un lago colorato, sembrava un’opera di Dalì.

Storcendo appena la bocca, la ragazzina borbottò: «Quando hai passato così tanto tempo con mamma, ammetto di essermi affacciata alla porta delle scale per origliare. Ma non mi è sembrato di averti sentito dire che avresti portato un esercito.»

Sorrisi istintivamente. Anch’io ero sempre stato famoso per quel genere di sotterfugio.

«Non devi sentirti obbligato a venire qui, solo perché hai visto quegli idioti che mi davano fastidio. Non succede sempre, davvero» si assicurò di dirmi, scrollando le spalle con fare tranquillo.

Lo disse con così tanta serietà che, per un istante, fui tentato di reclinare il capo e omaggiarla come avrei fatto con una nobildonna della Corte.

Ma perché mi veniva spontaneo comportarmi a quel modo, con lei e sua madre?

Le tributai comunque un piccolo cenno del capo, ma replicai: «Non mi sento in obbligo. Come ti dissi, sono in congedo temporaneo, perciò non ho nulla da fare e mi presto volentieri a farti da spalla. Ma vorrei sapere da te una cosa: perché questo parco in particolare? Ce ne sono altri, e molto più vicini a casa tua.»

Lei allora lanciò uno sguardo oltre le nostre spalle, dove si potevano scorgere i carroponti del porto, poco distanti.
Sospirò e, nel poggiare all’indietro le mani, ammise: «E’ il posto più vicino al mare che posso raggiungere, per il momento. Non ho il permesso di andare in spiaggia da sola.»

«Ti piace il mare? Per questo vai tanto spesso al negozio di mio fratello?» mi interessai, vagamente sorpreso dalla sua risposta.

Il sorriso tornò a lambire le sue giovani labbra.

«Mi sono sorpresa molto, quando ho sentito che Ronan è tuo fratello. Pensa che coincidenza! Non vedo l’ora che il bambino di Sheridan nasca, così gli farò il ritratto. Mi ha già detto che lo comprerà.»

Rise, trillante come una campanella, e aggiunse: «E’ una fortuna che mamma abbia potuto collegarti a qualcuno di cui si fida! Altrimenti, ti avrebbe scatenato dietro la polizia, come minimo!»

Nel dirlo, ghignò divertita e io, grattandomi nervosamente dietro la nuca, mi chiesi il motivo di una simile uscita.

Anche Eithe e Díomán parvero sorpresi, così lei si spiegò meglio, mettendo in luce un altro particolare oscuro della sua vita.

Mordendosi appena il labbro inferiore, come indecisa su cosa dire, o da dove cominciare, Faélán alla fine mormorò: «E’ capitato qualche anno addietro. Mio padre mandò un tizio per spiare mamma e, al tempo stesso, metterla in cattiva luce. Da quel che ci disse l’investigatore che assoldammo, il tipo era stato pagato dalla famiglia dei miei nonni paterni perché…»

Si grattò la guancia, come a cercare la parola giusta, ed Eithe le venne incontro.

«Perché potessero parlare male di lei, e pretendere la tua potestà?»

«Già. La sostanza è questa» assentì la ragazzina, rigirandosi un ricciolo attorno a un dito. «Quando mamma lo scoprì, andò su tutte le furie. Telefonò ai nonni per dirgliene quattro, e per intimare loro di starmi lontana. Naturalmente, loro negarono tutto, così mamma spedì a casa loro le fotografie che provavano la loro collusione con quel tipo.»

Sbuffai, infastidito da un simile comportamento, ma Faélán scrollò le spalle, indifferente.

«Possono tentare tutto quello che vogliono. Tanto, la mamma li scoprirà sempre. Ha un talento naturale per scoprire chi le dice delle bugie.»

«Tranne che con te?» ironizzai, allora, strizzandole un occhio.

«Ovvio. Io sono più brava» rise sommessamente, lanciando infine uno sguardo ai miei compagni di panchina. «Io, comunque, sono Faélán O’Rourke. Tanto piacere.»

«Noi siamo Eithe McBride e Díomán McNelly. Piacere nostro» rispose Eithe, sorridendole nell’allungarle una mano.

«Sarete voi i miei guardiani?» ci domandò a questo punto, inclinando il bel visino tutto fossette.

«A turno, sì» assentì la donna, preferendo dire la verità per intero. «Pensi di poterlo sopportare?»

«Penso sia uno spreco di tempo per tutti voi ma, se può fare stare tranquilla mamma, va bene.»

Non appena ebbe terminato di parlare, la vidi arrossire e mordersi nuovamente il labbro.

Curioso, me ne domandai il motivo e, quando seguii il suo sguardo, notai ancora gli sgherri del giorno prima. Ed erano aumentati di numero.

Sogghignando, mi alzai e, lanciandole un’occhiata ironica, celiai: «Non capita quasi mai, eh?»

Mi sorrise contrita, facendo spallucce e ammiccando come per scusarsi per la bugia.

«Díomán?»

Il licantropo non attese altro. Si alzò, mostrando per intero i suoi due metri di altezza e la sua stazza spaventosa.

I suoi glaciali occhi chiari si puntarono sul gruppetto e un lento, agghiacciante sorriso si stampò sul suo viso, attraente quanto ferale.

Compresi al volo cosa volesse dire essere braccato da uno come lui, e rabbrividii al pensiero.

Ringraziai i Vani per non essere una sua preda.

Il gruppetto soppesò velocemente le proprie possibilità e, nel giro di un minuto, si dileguò, allontanandosi in direzione del sottopassaggio automobilistico.

Faélán ridacchiò di fronte a quella resa incondizionata e, sospirando, esalò: «Domani, a scuola, mi faranno secca. Poco ma sicuro.»

«Credo non ci saranno problemi, in tal senso» replicò Eithe, rassicurandola.

A quel punto, lei fece tanto d’occhi, scambiando con noi sguardi increduli, e gracchiò: «Cos’avrò? Una guardia del corpo anche lì?!»

«Meglio. Il preside della scuola. Quando tua madre ha saputo ciò che è successo, ha pensato bene di avvisare chi di dovere così, se cercheranno di darti fastidio, verranno preventivamente fermati. Forse, questo non lo avevi sentito» le spiegai, non accennando al particolare rilevante che, all’interno della scuola, si trovava uno dei licantropi del branco di Eithe e soci.

Se e quando fosse successo qualcosa, la voce sarebbe giunta immediatamente alle orecchie del diretto interessato, cioè io.

Quello che nessuno di noi si aspettò, fu di veder sorgere un lampo di tristezza nel suo sguardo.

Preoccupato, mi inginocchiai accanto a lei e, sfiorandole una spalla, le domandai: «Abbiamo esagerato, Fay? Vogliamo solo proteggerti ma, se ti da fastidio, basta solo che lo dici.»

«Perché lo fai? Mi conosci appena.»

La domanda sorse più che lecita. Il problema sarebbe stato spiegargliene i motivi, visto che io stesso li conoscevo solo in parte.

Mi sedetti anch’io a terra, intrecciando le gambe come lei e, poggiati gli avambracci sulle ginocchia, presi un gran respiro e parlai.

«Forse lo troverai strano, ma mi hai colpita subito. E, prima che tu replichi alla mia affermazione, sì, mi ha colpito anche tua madre. Sarei uno sciocco a negarlo, come a negare la sua bellezza o il fatto che, come uomo, la trovo una donna affascinante quanto interessante.»

Faélán fece un sorrisetto ironico, e io ghignai.

«Ma non è questo ad avermi spinto a chiedere a tua madre di proteggerti. C’è qualcosa, in te, che mi spinge a farlo. Dammi del sentimentale, ma sono uno che segue il proprio istinto, nelle cose e, nel caso specifico, sapevo di doverlo fare.»

Lei non scoppiò a ridere, non mi diede del pazzo, né mi guardò con aria di sufficienza.

Inclinò il viso a scrutarmi con estrema serietà, quegli occhi così simili ai miei che parevano perforarmi l’anima.

“Sta facendo qualcosa. Non so dirti cosa, ma mi pare di avvertire un cambiamento nelle sue onde celebrali. Tu avveri nulla?”

Il messaggio mentale di Eithe mi giunse a sorpresa.

Ristetti perciò in ascolto e, perplesso da ciò che avvertii, esalai dentro di me, rivolto ai due licantropi: “Lo fa del tutto inconsapevolmente, ma … sta provando a leggermi la mente.”

Quella sì che era una scoperta non da poco!

Ma, se non era un licantropo, cos’altro poteva essere, a questo punto?

Forse, dopotutto, non era un folletto solo nella mia mente.

Era mai possibile che fosse imparentata con qualche creatura ancestrale vissuta, in tempi immemori, in quelle lande?

Sapeva di avere questo potenziale? E sua madre?

Dopo quell’attento esame visivo – e mentale –, parve soddisfatta e, sorridendomi compiaciuta, disse: «Ti credo. Lo trovo strano, ma ti credo.»

«Ne sono lieto.»

«Qua la mano, allora!» esclamò a quel punto, allungando verso di me le sue dita da artista.

Io gliela strinsi ma, quando lei tentò di allontanarsi, la bloccai, colpito da un particolare che, in precedenza, non avevo notato.

Sgranai gli occhi di fronte a quella che sembrava essere una semplice voglia color pesca, appena visibile sulla pelle pallida di Faélán.

«Che c’è? Sembra che tu abbia visto un fantasma.»

Scossi il capo, sorridendo impacciato e, con la mano libera, seguii distrattamente il contorno di quelle ombreggiature sulla pelle.

Per un attimo, mi era parso di scorgere la nostra rihall sulla sua pelle ma, a ben guardare, quella strana voglia arcuata, aveva tre punte, non cinque.

Quasi si fosse trattato di una stella menomata.

«Ti piace? E’ una voglia di famiglia. Ce l’ha anche mamma, solo che la sua è sulla caviglia sinistra» mi spiegò, tutta sorridente all’idea di aver compreso cosa mi avesse bloccato.

Finalmente riuscii a scostare la mano e, sorridendole, asserii: «E’ davvero una voglia molto singolare. E bella.»

«Trovi? Io ho sempre voluto immaginarla come una sorta di stemma famigliare. Sai, come un blasone o qualcosa di simile» ridacchiò, tornando a intrecciare le dita sopra l’album.

«Penso sia un bel modo di vederla. E’ per questo che noi fratelli O’Sea abbiamo questo tatuaggio» le spiegai, sollevando la manica della camicia per mostrarle la mia rihall.

Lei la sfiorò senza alcuna esitazione, e la sua reazione mi mise in allarme.

Non avvertì nulla.

Nessun essere umano, o licantropo, avrebbe potuto toccarla senza provare almeno il minimo sentore di calore, o di pizzicore.

Lei, invece, non aveva sentito alcunché.

Il che presupponeva una cosa sola. Anche se, di per sé, assurda.

Impensabile.

«E’ davvero molto bello, sai?»

«Grazie» riuscii a dire, deglutendo a fatica di fronte a quell’inaspettata scoperta.

Ma che spiegava, almeno in parte, le mie reazioni istintive.

Per comprovarlo, però, avrei dovuto mettermi a fare un po’ di ricerca spicciola e, per questo, inoltrarmi in un’ala del palazzo che, solitamente, frequentavo poco.

La biblioteca storica di Mag Mell.

A quel punto, però, sentii la necessità impellente di sapere ogni cosa e, soprattutto, di scoprire la verità su quella strana creatura e su sua madre.

 
***

Appollaiato sul divano di Sheridan, mentre lei era impegnata nel preparare la cena e Ronan sistemava la tavola, terminai di raccontare gli eventi di quella giornata.

Mio fratello mi fissò turbato, l’aria pensosa di quando sta ragionando su mille cose contemporaneamente.

Era sempre stato lui l’erudito, assieme a nostro fratello Stheta.

Io e Lithar, invece, eravamo sempre stati le teste calde.

Certo, ci avevano inculcato a forza tutto quello che dovevamo sapere, ma non eravamo mai stati interessati allo studio fine a se stesso.

Noi due ci eravamo sempre impegnati, anima e corpo, nell’addestramento militare.

Rohnyn e Stheta, avevano invece amato veramente studiare, oltre che essere degli ottimi combattenti.

«E’ un’ipotesi piuttosto pittoresca. Ma fattibile?» mi domandò Sheridan, dalla cucina.

«E’ più che fattibile, ma davvero non mi aspettavo che ve ne fossero ancora. Le ultime persone di cui siamo a conoscenza, sparirono secoli e secoli addietro.»

«Questo non vuol dire che loro discendenti non siano giunti fino ai giorni nostri.»

Il tono di Rohnyn era possibilista, ma dai suoi occhi compresi subito che credeva poco a quella ipotesi.

«Questo, però, spiegherebbe perché la ragazza e sua madre mi sono sembrate speciali al primo sguardo.»

Mio fratello ghignò al mio indirizzo, ma annuì. «Se ci fosse stata di mezzo solo Rachel, avrei potuto dire che era il tuo secondo cervello, a parlare, ma così…»

Gli mostrai il dito medio, mentre Sheridan portava in tavola una fresca insalata di mare e un piatto di capesante.

Mi levai con un balzo per raggiungerli al tavolo e, accomodatomi, dichiarai: «Lo avresti detto solo perché la tua mente è perversa. Io non penso sempre e solo alle donne.»

«Negli ultimi tremilacinquecento anni, sì» precisò Rohnyn, servendosi del vino bianco prima di versarlo a me e Sheridan.

Mia cognata ridacchiò senza ritegno, e a me non restò altro che fare spallucce e servirmi il buon pesce appena cucinato.

«E’ divertente sentirvi battibeccare. Di solito, siamo io e Ronan a farlo.»

Sorrisi a Sheridan, che quel giorno pareva particolarmente solare e, di colpo, mi ricordai del suo appuntamento dal medico.

Ero stato così preso da quella strana situazione, da essermene completamente dimenticato.

Gentilmente, le chiesi: «Com’è andato il controllo, oggi?»

«Tutto bene. Sarai felice di sapere che diventerai zio di un maschietto.»

Mi aprii in un sorrisone tutto denti e, levata la mano, battei il cinque con mio fratello e poi, più delicatamente, con mia cognata.

«Congratulazioni a entrambi, ragazzi. Sono felice per voi.»

«Ciara mi ha anche detto di non preoccuparmi troppo. Il più delle volte, i parti non sono molto dolorosi e, anche se io ho le anche un po’ strette, non dovrei patire molto. Mi ha detto che i neonati fomoriani tendono a essere un po’ piccoli, appena nati, rispetto a quelli umani.»

Rohnyn mi ringraziò con lo sguardo, ma a me sembrò di non aver fatto nulla di importante.

Mi ero solo limitato a chiedere consiglio a Ciara.

Se, però, questo era servito a confortare Sheridan, tanto bastava. Ero soddisfatto così.

Avremmo permesso a lei e al bambino di arrivare al parto nel migliore dei modi, e niente sarebbe stato lasciato al caso.

Eravamo stati superficiali, con Mairie, ma non avremmo commesso lo stesso errore due volte.

Perché, che a nostro padre piacesse ammetterlo o meno, Sheridan faceva parte della famiglia, e della famiglia ci si prendeva cura.







Note: Direi che si è capito il perché di tutte le stranezze legate alle donne O'Rourke. E' mai possibile che siano delle mezzosangue fomoriane? E quella voglia, quanto le legherà strettamente alla famiglia di Krilash? Di sicuro, al nostro valente cavaliere toccherà un'avventura diversa da solito. Invece che sul campo di battaglia, dovrà addentrarsi nei meandri della biblioteca di palazzo per scoprire se quella voglia esiste tra le rihall del suo popolo. 
Con questa incognita, vi lascio per due settimane, augurando buone vacanze a chi mi imiterà o a chi mi ha preceduto. Ci rivediamo ad Agosto!
Grazie a chi mi ha seguita finora! 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 
5.
 
 
 
 
Avvertivo un vago sentore di pergamena consunta dal tempo, misto all’inconfondibile profumo di quello che, un essere umano, avrebbe ricondotto all’oceano.

In effetti, a Mag Mell non esistevano fiori, né piante, che potessero produrre un simile e delicato aroma.

Erano le genti stesse a possederlo.

Eithe lo aveva chiamato profumo di mare e di tempesta.

Io, semplicemente, sapevo che era l’aroma percepito da qualsiasi fomoriano a Mag Mell.

Lì nella biblioteca era più profondo, più concentrato, forse perché le pergamene lo trattenevano nei tessuti, chissà.

Non ero la persona più adatta per fornire una simile spiegazione.

Acciambellato su un cuscino, le spalle poggiate contro uno degli alti colonnati, stavo scandagliando lentamente uno dei tanti tomi riguardanti le antiche casate.

Era stato snervante rivolgersi alla bibliotecaria, e scorgere sul suo viso i segni inequivocabili della sorpresa.

Forse, si era sentita offesa dalla mia totale mancanza di interesse a flirtare con lei, o era stata così sconvolta dal vedermi lì da non saper trattenere lo sconcerto.

A ogni buon conto, mi aveva elencato non meno di venti fonti diverse, tra pergamene e libri, da cui attingere per la mia ricerca.

Erano quattro giorni che mi recavo in biblioteca per studiare quegli antichi scritti, ma ancora nulla era caduto sotto il mio sguardo.

Per quanto io cercassi, pareva che la verità mi sfuggisse di mano come sabbia tra le dita.

O, forse, ero solo io a credere che vi fosse una connessione tra il marchio di Faélán, ciò che avevano detto Eithe e Díomán, e la mia gente.

«Ancora un po’, e vedrò le tue orecchie fumare» ironizzò una voce, sfiorandomi all’improvviso.

Levai il capo dal tomo, avvertendo una fastidiosa tensione crescere alla base del collo.

Quante ore ero rimasto fermo in quella posizione? Mi sentivo tutto anchilosato.

Stheta mi sorrise divertito, avvicinandosi a me con la sua andatura flessuosa ed elegante. Un principe fatto e finito.

Era degno del suo ruolo di erede, dalla punta dei piedi fino ai suoi lunghi capelli castano ramati.

Mi squadrò con incuriositi occhi color acquamarina, in tutto simili ai miei e a quelli di Rohnyn.

«Cosa ti ha portato a rinchiuderti qui, per giorni interi, con la testa ficcata in mezzo a libri vecchi quasi quanto te?»

Storsi il naso, infilando un segnalibro per non perdere di vista dov’ero arrivato, dopodiché poggiai il tomo a terra.

Intrecciate le braccia, fissai mio fratello maggiore senza sapere bene cosa dirgli.

Dovevo esporgli la mia ipotesi, così come avevo fatto con Rohnyn?

Dopotutto, Stheta non era come nostro padre.

Aveva lottato per ottenere il permesso di sposare la sua Ciara, e si era battuto per la causa di Rohnyn, rischiando a sua volta di finire in galera per tradimento.

Insomma, non aveva una mentalità chiusa.

Eppure, volevo correre il rischio di venire deriso proprio da lui?

Alla fine, optai per la sincerità.

Anche perché l’alternativa sarebbe stata, molto probabilmente, un’estenuante quanto tediosa sequela di domande da parte sua.

Meglio parlare subito, perciò.

«A quanto pare, ho trovato – o penso di aver trovato – un mezzosangue.»

Subito, Stheta si accigliò e, nel poggiare un fianco contro un vicino tavolo in corallo levigato, mi guardò dubbioso, gli occhi colmi di domande inespresse.

«Spiegati meglio.»

Sospirai, cercando di fare mente locale e, nel sistemarmi meglio sull’enorme cuscino, lo informai sui miei sospetti.

«Devi sapere che, quando ho visto per la prima volta Rachel, ho avvertito una strana sensazione sottopelle.»

Stheta mi fissò scettico, e io compresi bene cosa stava immaginando. Possibile che tutti pensassero a quello, se parlavo di una donna?

Sbuffai, ma proseguii nel mio racconto.

«In un primo momento, pensai la stessa cosa che, maliziosamente, stai pensando tu adesso. E’ una bella donna, ha una voce sexy da matti. Poteva semplicemente interessarmi, no?»

«Non ci vedrei niente di strano» ironizzò lui, annuendo.

Feci finta di nulla, e andai avanti.

«Quando ho visto sua figlia, però, la cosa ha preso una piega del tutto diversa.»

A questo punto, Stheta parve confuso, e seppi di aver finalmente attecchito nel suo animo dubbioso. Ora, avevo la sua completa attenzione.

Sogghignando appena, proseguii.

«Capisci bene che, di fronte a questo nuovo sviluppo, mi si sono metaforicamente alzate le antenne. La cosa più strana, comunque, è che mi sono ritrovato a fare un giuramento di fedeltà a Rachel, e tutto perché mi è venuta la brillante idea di dirle che volevo difendere sua figlia da chi voleva farle del male.»

«E perché diavolo l’hai fatto?!» sbottò, più confuso che mai.

Levai le spalle, vagamente indispettito, e replicai: «Tu lo sai, forse? Io no. Sapevo solo di sentirmi spinto a proteggerla. A proteggere entrambe, a dir la verità.»

«E mi dici che non c’entra niente l’attrazione che provi per questa Rachel, vero?»

«Se non mi credi, vieni con me in gelateria, la prossima volta, e testa da solo le tue emozioni» sbuffai, levandomi in piedi. «Avrei chiesto a Rohnyn, ma è troppo impegnato, tra Sheridan e il negozio, per aver tempo anche per queste cose. Eithe e Díomán dicono che non è una licantropa, ma possiede un profumo singolare e, cosa più strabiliante di tutte… sa leggere la mente. Entrambe sanno farlo, per la verità.»

Stheta, a quel punto, si irrigidì, ma io lo tranquillizzai subito.

«Non a livello conscio, e non leggono proprio tutto, ma percepiscono delle sensazioni. Sia io che gli altri l’abbiamo avvertito distintamente, quando l’hanno fatto.»

Starsene in piedi come un allocco nel bel mezzo della gelateria, mentre mettevo coscientemente alla prova Rachel, era stato quasi fastidioso.

Ma era stato l’unico modo per testare le sue abilità, e scoprire se solo Fay avesse avuto quel dono particolare, o entrambe.

Sentirlo dalla voce di Eithe mi aveva confortato perché, quando avevo avvertito il suo tocco sottile nella mente, ero quasi svenuto per il panico.

E l’eccitazione.

Passandosi una mano tra la folta chioma ondulata, quel giorno rilasciata sulle spalle, Stheta borbottò: «E’ davvero una cosa assurda.»

«Non mi troverei qui, comunque, se non avessi anche un altro dubbio.»

Avevo lasciato per ultima la faccenda della voglia che avevo scorto sul polso di Fay, per vedere come avrebbe reagito.

«Ha una voglia color carne, sull’avambraccio. Sembra una stella a tre punte ricurve, molto simile alla nostra, ed è troppo particolareggiata perché sia una comune voglia umana.»

A quel punto, mio fratello si raddrizzò, mi guardò come tentando di capire se stessi o meno mentendo ma, non trovando nulla a mio discapito, imprecò.

«Questa sì che è una cosa davvero incredibile! Un nostro discendente di stirpe meticcia?» esalò, gli occhi sgranati e sorpresi.

«Così parrebbe» assentii.

Stheta scosse il capo, sorridendo ironico, e celiò: «Se nostro padre lo sapesse, andrebbe su tutte le furie. Sai cosa succederebbe, se saltasse fuori che tu hai ragione?»

«Non esattamente» ammisi, storcendo il naso.

 Che mai poteva succedere di così tremendo?

Mio fratello ghignò sardonico e chiosò: «Chiunque dimostri una parentela diretta, o indiretta, con una qualsiasi delle stirpi fin qui ritenute estinte, è di diritto l’erede dei possedimenti e del tesoro della stessa stirpe. Cioè, per farla facile, nostro padre sarebbe costretto per legge a restituire ciò che, in questo momento, si trova nel suo forziere ben pasciuto.»

«Oh oh» esalai, lanciando un fischio di sorpresa.

Stheta emise un risolino divertito, aggiungendo: «Da quel che rammento, ci sono diverse decine di famiglie che, fino a qui, si sono estinte, o dei cui eredi si sono perse le tracce. E’ possibile che, tra queste, ci sia anche il simbolo che hai trovato tu?»

«Stheta, ti adoro. Hai semplificato, e di molto, il mio compito» esalai sconcertato. E chi se lo immaginava che esistesse una lista?

«Non è detto, fratello. Non è necessariamente obbligatorio che la famiglia che tu cerchi sia estinta. Uno qualsiasi dei suoi figli può essere emerso per non tornare più, mentre la sua genia ha proseguito la sua vita qui negli abissi. Oppure, cosa più incresciosa ma pur sempre possibile, qualcuno si è baloccato con una mortale prima di tornare qui, e i suoi frutti sono rimasti – ignari – a crescere come semplici umani.»

Bofonchiai un insulto, annuendo mio malgrado.

E io che avevo pensato di scamparla!

«A ogni buon conto, puoi sempre tentare. Alla peggio, ricomincerai a curiosare tra i tuoi libri antichi» si premurò di dirmi Stheta, incoraggiante.

«Tentar non nuoce. Sai dove posso trovare l’elenco di cui mi hai parlato?»

«Non esiste nessun elenco» replicò mio fratello, mandandomi nel pallone. Ma allora, di cosa aveva blaterato, fino a lì?

Lui mi sorrise divertito, spiegandosi meglio.

«Non ne esiste uno, perché nessuno ha mai sentito il bisogno di tenere il conto delle famiglie estinte. Io ricordo, bene o male, quelle che non sono più a Mag Mell, ma non ho pensato ai Protettorati. Chissà quante ve ne sono, lì, che non hanno più eredi viventi! Ma puoi agire al contrario. Puoi chiedere al Tesoriere di Corte di stilare per te un elenco di ciò che appartiene a nostro padre. Tutto ciò che vi è in elenco ha, tra le altre cose, indicazione della sua provenienza. Sarà un lavoro un po’ certosino, ma non meno di questo, credo.»

«Mai una volta che le cose siano semplici, o dirette. Voglio un computer!» sbottai, lasciando andare il capo all’indietro, perché si poggiasse contro la colonna marmorea.

Stheta mi rise in faccia senza ritegno e, nel darmi una pacca sulla spalla, celiò: «Caro il mio Krilash, non farti sentire da nostro padre a dire una cosa simile, o potrebbe tagliarti la lingua. Inoltre, dove penseresti di trovare una linea internet, qua sotto, o l’elettricità per farlo funzionare?»

Preferii non commentare aspramente al suo tono ironico e, nel levarmi in piedi, rimisi al suo posto il tomo.

Assieme a mio fratello, poi, uscii dalla biblioteca dopo aver compitamente salutato la ancora frastornata bibliotecaria.

Il punto non era chiedere al tesoriere di stilarmi una lista, a ben vedere.

Il punto era avere una scusa buona da propinargli. A lui, come a nostro padre.

Perché non dubitato neppure per un attimo che, nel giro di un solo giorno, lui sarebbe venuto a sapere della mia ricerca.

E avrebbe preteso spiegazioni.

Ma dovevo agire. Ormai erano andato troppo avanti per desistere.

 
***

Lithar se ne stava seduta su una panchina del parco interno di palazzo, lo sguardo perso in direzione della fontana, gli occhi stanchi e rossi.

Alcune ancelle di mia madre stavano passeggiando poco lontano, il loro cicaleggio in netto contrasto con il silenzio impresso a fuoco sul viso di mia sorella.

Erano diversi giorni che non le parlavo, impegnato com’ero stato nella mia personale ricerca.

Vederla lì, tutta sola e apparentemente abbattuta, bloccò i miei passi.

Il bisogno insopprimibile di sapere che stava bene, mi pervase, così come mi pervadeva ogni qual volta vedevo Faélán, o Rachel.

Mi avvicinai a lei, cercando di scacciare dalla mente quelle similitudini disturbanti e, accomodatomi al suo fianco, le toccai una spalla con la mano.

Lei sobbalzò – non si era accorta del mio arrivo – e mi lanciò uno stentato sorriso.

Davvero strano.

Lithar non era mai stata una persona mogia, o quanto meno non propensa al pianto.

Dal giorno in cui l’avevo vista sparire assieme a Muath, però, era cambiata.

Eppure, non mi era parso che stesse male, o si fosse ammalata.

«Va tutto bene, Lithar? Come mai hai quest’aria sbattuta?»

«Non ho nulla, davvero. Dormo un po’ male, ultimamente, e questi sono i risultati. Forse, dovrei mettermi in testa di rientrare prima, la sera, invece di passare tutto il tempo in foresteria, giocando a losther con i soldati.»

Sgranai gli occhi, di fronte a quella risposta.

Losther? La mia sorellina si destreggiava con un gioco di carte dove, per chi perdeva, era previsto un passaggio di sferza?!

«Ma sei impazzita?!» ringhiai, accigliandomi subito.

Lei ridacchiò divertita, forse persino soddisfatta di vedermi così alterato, e disse per contro: «Tu e Stheta ci avete sempre giocato e, qualche volta, pure Ciara. Perché non dovrei giocarci anch’io, scusa?»

«Ti è mai balenato nella mente che, forse, una principessa non dovrebbe prestarsi a simili giochi, visto il rischio che si corre? Vorresti davvero ritrovarti una cicatrice sulla schiena?» le feci notare, il rimprovero ben evidente nella mia voce arrochita dalla preoccupazione.

«Non ho mai perso una partita, fratello, ma mi sono goduta la vista di parecchie…»

Le tappai la bocca prima che potesse terminare la frase e, sconcertato, la guardai in viso.

No, non era minimamente preoccupata all’idea di farsi male o, peggio, procurarsi una cicatrice permanente.

Perché?

Assolutamente serio, le sfiorai il viso con il dorso della mano e le domandai: «Lithar, bambina, ma perché vuoi rischiare di piagare la tua pelle così bella?»

Lei si accigliò a quelle parole e, nell’allungare la propria mano, la pose di fianco alla mia, che riposava su una coscia.

La differenza fu evidente a entrambi. Se la mia era bronzea, come scaldata perennemente dal sole, la sua era nivea e pura come la luce della luna.

Pelle di luna su capelli di corvo.

«Non è bella» sibilò, levandosi in piedi e lasciandomi lì inebetito, il suo sguardo furente quanto ferito a raggelare qualsiasi mia replica.

Davvero non la capivo, quando faceva così.

 
***

Convincere nostro padre sarebbe stato quasi impossibile, ma forse potevo fare leva sui sentimenti materni di Muath.

Ammesso e non concesso che li avesse.

Come ogni brava fomoriana, aveva affidato agli educatori delle senturion il compito di crescere i propri figli.

Ma, a differenza delle altre donne, lei aveva imposto che noi fossimo trattenuti all'interno dei recinti per cento anni.

Tendenzialmente, un periodo tre volte superiore al normale.

La risposta che aveva dato alle nostre impetuose, quanto affrante, domande?

In quanto figli del re, dovevamo crescere più forti degli altri e con una cultura inarrivabile dagli altri fomoriani.

Grazie.

A ogni modo, questo aveva davvero rafforzato i nostri spiriti, e ci aveva permesso di legare con alcune persone in maniera più veritiera e sincera di altri.

Ciara, era stata una di loro.

Questo suo accanimento nel volerci tenere lontani da lei, però, non aveva impedito a Muath di intralciare, almeno in parte, la nostra crescita all'interno delle senturion.

Ricordavo ancora quando Ciara era stata portata in infermeria, assieme a Lithar.

Muath si era presa cura della figlia minore, dimostrando un calore che, ben poche altre volte, le avevamo visto in volto.

Forse, se mi fossi appellato a quell'antico sentimento, avrebbe ceduto alle mie lusinghe e mi avrebbe permesso di entrare indisturbato nella sala del tesoro reale.

C'ero stato molte volte, nel corso dei secoli, più per curiosità che per effettivo interesse, e sapevo che vi erano contenuti beni di inestimabile valore.

Sperai soltanto che Muath credesse alla mia fandonia, altrimenti avrei dovuto sgattaiolarvi dentro di nascosto, col rischio di essere scoperto dalle guardie.

Fu perciò con un certo nervosismo, che bussai alla porta delle stanze personali di mia madre e attesi di poter essere ricevuto.

«Vieni pure, Krilash.»

La sua voce mi giunse ovattata, oltre il pannello della porta.

La aprii, infilando dentro il capo per mormorare: «Posso disturbare la vostra augusta persona?»

Lei volse a mezzo il capo bruno dai riflessi biondi e, annuendo, mi permise di accedere nel suo gineceo.

Le sue ancelle, impegnate nel sistemarle i capelli, mi sorrisero docili, e alcune ridacchiarono nell'allontanarsi in uno svolazzare di gonne.

Muath non fece loro caso e, con un cenno della mano, le allontanò, restando infine sola sulla sua dormeuse.

Illuminata dalla luce proveniente dall’esterno – che filtrava attraverso la cupola protettiva che sovrastava Mag Mell – , sembrava una dea di antica stirpe.

Imponente, nei suoi oltre due metri di altezza, bellissima per lineamenti e terrificante a causa del suo sguardo accigliato.

Mi inchinai formalmente, come ero solito fare fin da quando avevo indossato per la prima volta i calzari e, ossequioso, dissi: «Chiedo umile perdono per avervi strappata al vostro interludio, madre, ma necessiterei di porvi una domanda.»

Lei si volse a mezzo, lanciando un'occhiata alla stanza adiacente, dove si erano radunate le sue ancelle e, con un sorriso di scherno, mi domandò per contro: «A quante di loro hai concesso le tue carni, figlio?»

Arrossii leggermente – non era a uso parlare di cose simili, coi genitori, ma Muath faceva come voleva – e mormorai: «Non so dire con esattezza, madre. Ma erano tutte più che consenzienti, dovete credermi. E mi permetto di dire che sono andate via soddisfatte.»

Mia madre esplose in una risata che mi fece rabbrividire, perché non aveva nulla di allegro.

Era... tronfia. Soddisfatta.

«Stai sicuramente approfittando del tuo ruolo più di quanto abbia mai fatto il tuo augusto fratello.»

«Stheta è sempre stato morigerato nelle sue... offerte

Ghignai leggermente, non sapendo bene dove volesse andare a parare.

Muath distolse un attimo lo sguardo da me per fissare le finestre, oltre le quali si trovava un piccolo giardino privato, ricco di statue e fontanelle.

Tutto era ricavato da diversi tipi di corallo e di madreperla e, non di rado, i nostri architetti erano saliti sulla terraferma per appropriarsi di marmi e graniti di pregevole valore.

Il palazzo ne era lo splendente risultato, eppure non era neppure lontanamente paragonabile a ciò che, su Vanaheimr, il nostro popolo aveva posseduto.

Stando, per lo meno, ai racconti che avevo udito, e ai libri che avevo consultato.

Era difficile pensare a una terra d'origine che non si era mai vista né conosciuta.

Io ero nato sulla Terra, e questo era il mio pianeta. Vanaheimr era un ricordo che non mi apparteneva, e a cui non ero legato se non in maniera indiretta.

«E Rohnyn?»

Sobbalzai, sentendo nominare mio fratello minore.

Nostro padre Tethra aveva vietato a chiunque di pronunciare il suo nome ma lì, nel gineceo di Muath, evidentemente questa regola poteva venire meno.

Tornò a guardarmi, il dubbio nello sguardo e un leggero cedimento nella posa austera.

Possibile che stesse soffrendo? Muath?

«Rohnyn ha fatto le sue esperienze, madre. Ma ora è fedele alla sua sposa.»

«Lo visiti spesso?»

Sarebbe stato difficile mentire in sua presenza, pur se Eithe mi aveva insegnato a schermare bene i miei pensieri.

Decisi comunque di ammettere qualcosa, con lei.

«Sì, lo vedo spesso. Sta bene. E' felice.»

Annuì, senza chiedere altro.

Si passò una mano leggermente tremante tra le chiome sparse sulle spalle e, infine, domandò: «La tua richiesta?»

«Desidero regalare un monile a Lithar per il suo compleanno, ma vorrei qualcosa di speciale, per lei. Rammento che, nella sala del tesoro, ce n'è uno particolarmente bello, di cui vorrei far fare una copia, ma non rammento dove sia di preciso. Se avessi il vostro benestare per dare un'occhiata in giro, lo troverei di sicuro.»

Muath mi guardò incuriosita e, per un attimo, avvertii il tocco del suo potere su di me.

Cercai di concentrarmi solo sul mio desiderio di compiacere mia sorella, e questo parve bastarle.

Assentì, e replicò: «Trovo sia un gesto molto carino, Krilash, ma sai bene che Lithar porta di rado gioielli. Ama piuttosto le armi.»

«Questo le piacerà. È molto discreto, e si intona alla perfezione con i suoi occhi.»

Lo stavo inventando di sana pianta, ma davo per scontato che neppure mia madre conoscesse a memoria tutti i gioielli presenti nel tesoro reale.

«E sia. Sarò lieta di vedere questo fantomatico monile, una volta che sarà stato confezionato.»

«Aaah, grazie, madre. Sono sicuro che piacerà anche a voi.»

Mi inchinai, volgendomi per uscire prima di crollare per la tensione accumulata, ma lei mi bloccò quando poggiai la mano sul pomolo dorato.

«E'... è diventato padre?»

Capii immediatamente di chi stesse parlando.

«Sta per diventarlo. Di un maschio, madre.»

Preferii non volgere lo sguardo. Sapevo che se ne sarebbe risentita.

Muath non desiderava che le persone la vedessero in un suo momento di cedimento.

«Sarà di tempra forte, anche se in parte umana. Bene, puoi andare.»

«Madre» la salutai, affrettandomi a uscire.

Non appena fui nel corridoio, tirai un sospiro di sollievo e, nel poggiarmi contro il muro, esalai: «Nostra madre... preoccupata? E chi se lo aspettava?»








Note: Eccomi tornata! Direi che, con questo capitolo, ho messo diversa carne al fuoco, oltre alla ricerca di Krilash. Cosa nasconde Lithar, e perché è sempre così pensierosa e triste? Naturalmente, lo scopriremo nel corso della sua storia, non temete ma, per ora, il segreto rimarrà tale ancora per un po'. Inoltre, abbiamo Muath e le sue domande inaspettate. Possibile che, come dice Krilash, lei sia veramente preoccupata? Possibile che, nonostante tutto, ci tenga almeno un po' al suo figlio ormai perso? A voi scoprirlo. Per ora, grazie a tutte coloro che mi hanno letto e/o hanno commentato. Alla prossima!

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


6.
 
 
 
 
Stavo gustandomi un buon gelato in coppetta, le gambe allungate sotto il tavolino dinanzi a me, e la compagnia di Rachel al bancone.

In quel momento, la gelateria era vuota.

Lei approfittò di quel momento pausa per raggiungermi e, dopo essersi accomodata su una sedia, mi fissò curiosa prima di asserire: «Fay mi ha detto che ti ha incontrato un paio di settimane fa, al parco, assieme a due tuoi amici.»

Assentii, lasciando che il piacevole sapore del pistacchio scivolasse soffice sulle mie papille gustative.

«Ti ha anche detto il resto?» mormorai un attimo dopo, sospirando di pura delizia.

Rachel annuì con un sorrisino divertito. Non seppi dire se per via della mia reazione al suo gelato, o altro.

«Mi ha detto che saranno i suoi protettori, quando tu non sei nei paraggi. C'era davvero bisogno di scomodare così tante persone, e solo per accontentare i vizi di una ragazzina di quattordici anni?»

Ero già pronto ad affrontare quella discussione, ma lo sguardo incuriosito di Rachel tendeva a distrarmi.

Era indubbia la sua bellezza, così come il suo amore per la figlia, e io apprezzavo entrambe le cose con piacere inusitato.

Esattamente come, in quel momento, assaporavo e apprezzavo le sue dolci creazioni.

«Quando prendo un impegno, lo faccio sul serio. Inoltre, tua figlia ama molto quel posto, e sarebbe un peccato impedirle di andarci solo per colpa di qualche idiota.»

«Ma i tuoi amici avranno senz'altro di meglio da fare, piuttosto che stare dietro a una ragazzina» replicò lei, irrigidendosi appena.

Non mi parve se ne fosse accorta, perciò non glielo feci notare.

Mi limitai a sorriderle, scrollando le spalle con noncuranza, in attesa che lei tornasse a calmarsi.

Vedermi, quasi giornalmente, accompagnare a casa da scuola sua figlia e vigilare su di lei come un mastino, non era bastato a tranquillizzarla del tutto.

Non era una donna che accettava volentieri dei favori, e queste attenzioni non richieste parevano metterla in ansia.

Forse, si aspettava da parte mia qualche richiesta particolare.

Terminai il mio gelato e, dopo aver posato sul tavolino la coppetta ripulita, le domandai schietto: «Pensi che voglia essere pagato, per il mio interessamento?»

Come previsto, lei si irrigidì tutta, le gote le si tinsero di un bel color rosso acceso, mentre gli occhi color whisky sprizzarono scintille sospettose.

Era infervorata. E sempre più bella.

«Rachel, rallenta. Era solo una battuta, tra l'altro nata dalla tua evidente ritrosia ad accettare un semplice favore da parte di un amico.»

Levai le mani per chetarla e lei, nonostante tutto, si rilassò. E lasciò scaturire uno dei suoi rari sorrisi con la fossetta.

Adorabile, semplicemente adorabile.

«E' così evidente?» sospirò, lasciandosi andare a un leggero tremolio, come se i muscoli le si fossero sciolti di colpo, tesi fino allo spasimo fino a un attimo prima.

«Conoscendo il tuo passato, è anche comprensibile. Hai avuto a che fare con gente gretta e insensibile, e non faccio fatica a capire quanto tu, ora, ti fidi poco delle persone» assentii, parlando con leggerezza per non rendere troppo fosca la nostra discussione.

«Non capisco perché tu ci tenga tanto. Ammettilo, Kris, è strano. Ci conosciamo da quanto? Due settimane? Tre?» borbottò per diretta conseguenza lei, arricciando il nasino a punta.

La adoravo, quando  lo faceva, e questo contribuiva non di poco a distrarmi. Quant’era difficile stare in sua compagnia, senza perdere di vista le poche verità che potevo dirle in tutta sicurezza!

«So che la nostra conoscenza è davvero scarna, Rachel, ma credi a questo. Desidero solo il bene di tua figlia, …e il tuo, naturalmente» sospirai, allargando la mani dinanzi a lei, come a mostrarle che ero disarmato.

E innocuo.

Lei mi guardò come, settimane prima, aveva fatto Fay e, anche in quel caso, avvertii il tocco inesperto e inconsapevole della sua mente.

Non si rendeva conto di farlo, ma era potente, molto più della figlia. Non faceva specie che, in quegli anni, fosse sempre riuscita a cavarsela nonostante le avversità.

Con un dono simile, quanti pericoli aveva evitato?

«Ti credo. Non so bene perché, ma ti credo.»

Rise, quasi che l'idea stessa di fidarsi di un estraneo le sembrasse assurda, e io mi limitai a sorriderle.

«Avrai ovviamente capito che sono interessato a te come donna, oltre che al benessere di tua figlia. E' inutile girarci intorno» ammisi a quel punto, ammiccando comicamente.

«Ne avevo avuto il dubbio» asserì, sorridendo maliziosa.

«Spero non ti dia noia l'idea che io gironzoli qui intorno per conoscerti meglio» aggiunsi a quel punto, gesticolando per indicare il suo locale.

Rise ancora, stavolta imbarazzata come un'adolescente, e seppi di aver fatto centro.

Il pensiero che qualcuno potesse trovarla interessante come donna le piaceva, anche se la metteva un po' in ansia.

«Sono davvero tanti anni che un uomo non mi si avvicina... perché è attratto da me. Di solito, quando sanno che ho una figlia, defilano alla svelta.»

«Come vedi, io adoro tua figlia, perciò il problema non si pone. Non ti libererai della mia presenza, facendo leva su di lei» ironizzai, lanciando un'occhiata alla distesa colorata di gelati presenti nel banco frigo. «Posso averne un altro?»

Rachel scoppiò a ridere di gusto, ma annuì.

«Non ho mai visto una persona mangiare tanto gelato come te. Ma dove lo metti, poi?»

«Brucio molto» ghignai, levandomi in piedi per osservare meglio i gusti in vetrina.

In quel mentre, giunsero un paio di ragazzi, accompagnati dalle rispettive fidanzatine e, nello strizzare un occhio a Rachel, dissi: «Una cialda con una marea di crema chantilly, grazie.»

«Ti farai venire il mal di pancia» brontolò lei, pur accontentandomi.

«Mi cureresti?» le ribattei, affrettandomi a prendere i soldi per pagarla.

Lei non mi rispose, ma un sorrisetto arcuò le sue labbra morbide.

La salutai dopo aver pagato e, di buon passo, mi diressi verso casa di Rohnyn. Desideravo metterlo al corrente del mio dialogo con nostra madre, prima di tornare a Mag Mell per riprendere le mie ricerche.

 
***

Rohnyn mi fissò scettico, le braccia conserte sul torace e l'aria di chi non ne vuol sapere di ascoltare la verità.

Sheridan, d'altra parte, non sembrava più propensa di lui a credere.

E come darle torto, visto che era stata proprio Muath, con l'inganno, a convincere Stheta a rapire nostro fratello?

Le mani le corsero subito al grembo arrotondato e Rohnyn, a sua volta, le coprì con una delle sue, più grande e scura.

«Se vuoi farmi arrabbiare, Krilash, dillo subito e facciamo a botte. Ma non te ne uscire con frasi del genere, sperando che io ci caschi come un allocco, perché non attacca.»

«Che motivo avrei per dirti una bugia, fratello? E poi, non mi va di far vedere a tua moglie quanto sei debole.»

Nel dirlo, strizzai l'occhio a Sheridan, che accennò un sorriso.

«Non mi sembra che Muath fosse molto propensa ad accettare Sheridan come mia sposa, quando le parlai di lei. Le sue parole esatte, se non erro, furono 'non accetterò mai del sangue impuro nella mia casata! Neppure tra mille anni!'. Fai un po' tu, fratellone. Non mi pare ci siano molti modi in cui interpretare una risposta del genere.»

«Sì, lo so, lo so. Nostra madre, quando si esprime, è simile al passaggio di un branco di squali martello in mezzo a un nugolo di sardine» brontolai, passandomi le mani tra i capelli per l’esasperazione.

Difendere nostra madre di fronte a Rohnyn era davvero l’ultima cosa che mi sarei sognato di fare, ma non volevo mentire a mio fratello.

Specialmente dopo tutto l’odio e il dolore provati nel corso dei secoli, e proprio a causa dei nostri genitori.

Una parziale, parzialmente minima riabilitazione della figura di mia madre, ai suoi occhi, avrebbe potuto servire innanzitutto a curare il suo cuore.

Diversamente, non mi sarei mai permesso di sollevare l’argomento con lui.

Sheridan ridacchiò, esalando: «E' un esempio che non ho mai sentito prima ma, visto da dove provenite... mi piace l'idea, comunque. Pare calzante.»

«Se lo sapesse Muath, esploderebbe. Lei si ritiene un delfino stupendo» ironizzò Rohnyn, sarcastico non meno della moglie.

«E dai, ragazzi... un po' di apertura mentale. Lo so che sembra essere la parte cattiva di Terminator, ma mi è parsa davvero interessata a sapere come stavate. Il fatto stesso che abbia nominato il tuo nome, fratello, depone a suo favore, no?»

«Perché la stai difendendo, Krilash?» mi domandò a quel punto, fissandomi in cerca di spiegazioni.

Sospirai, lasciandomi andare contro lo schienale del divano e, passandomi una mano tra i corti capelli castano rossicci, mormorai: «Non è del tutto insensibile, Rohnyn. Stava soffrendo. Alla sua maniera, ma stava soffrendo. Sai che sono in grado di percepirlo bene, ora.»

Lui annuì, ancora rigido in viso, ma non replicò.

A quel punto guardai Sheridan, e aggiunsi: «Mi ha chiesto se eri già diventata madre e, quando ha saputo che eri incinta, ha detto che vostro figlio sarebbe stato forte e sano. Perché ha sangue forte e sano. E parlava di entrambi.»

Mia cognata assentì, lanciando un'occhiata alle mani giunte sul suo grembo.

«Ti crediamo, Krilash. E' solo difficile da accettare.»

«I nostri genitori sono difficili, lehien, perciò non mi dici niente di nuovo, affermando che sono difficili da capire.»

Lei sorrise nel sentirmi usare quel vezzeggiativo.

Ormai, aveva imparato abbastanza bene il fomoriano per sapere che l'avevo appena chiamata 'cucciolina'.

«Stheta ne è al corrente? Di questa… conversione di mamma, intendo» mormorò Rohnyn, torcendo le labbra in un mezzo sorriso di scherno.

Non facevo fatica a comprendere la sua incredulità, ma ero ancora convinto che, sapere di questo particolare, lo avrebbe aiutato a chiudere i conti col passato.

«No, sono venuto direttamente qui. Sto facendo la spola, avanti e indietro, per mantenere la parola data a Rachel e Fay, così non ho mai molto tempo per fermarmi a palazzo.»

A quel punto, Rohnyn sorrise ghignante, e disse: «Ti sei proprio incapricciato di Rachel, a quanto pare.»

«Di entrambe, lo ammetto. Fay è adorabile, un vero folletto dei boschi, tutto magia e mistero, mentre Rachel... wow, Rachel è una vera tigre. Vedessi come difende a spada tratta la sua cucciola! Si illumina tutta.»

Sorrisi nel dirlo.

Non avevo mai avuto a che fare con donne e prole al seguito, perciò non avevo mai pensato di poter trovare la cosa interessante.

Eppure, Rachel era ammaliante, quando si infervorava per difendere la figlia.

Veniva voglia di abbracciarla, di farle capire che il mondo non era contro di lei, e che ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a difenderla.

Rohnyn annuì e Sheridan, sorridendomi divertita, disse: «Fay mi ha promesso un ritratto del mio bambino, quando sarà nato. Ho visto alcuni suoi lavori, e ne sono rimasta davvero colpita.»

«Quella ragazzina ha qualcosa di speciale, è indubbio…» assentì a sua volta mio fratello. «… e sua madre la adora. Non posso dire di conoscere Rachel così bene, però so che è una donna in gamba.»

«Per lo meno, sai che non sono uscito di senno, pensando a lei.»

Rohnyn ghignò, prima di chiedermi: «Sei riuscito a scoprire qualcosa, nella tua cerca, a proposito?»

Sbuffando, scossi il capo.

«No, per ora è stata infruttuosa. Ma Stheta mi ha consigliato di curiosare nel Tesoro Reale. Lì, si trovano tutti gli oggetti delle famiglie che, nei secoli, si sono estinte e, forse, potrei trovare la risposta che cerco. Per ora, ho scandagliato più di duemila simboli. Un autentico inferno.»

Rohnyn sollevò un sopracciglio con evidente sorpresa, e io sospirai.

Sì, mi davo da solo dello strambo. Non era da me lanciarmi in simili ricerche.

Ero più un tipo da azione diretta, non certo propenso alla strategia preventiva.

Forse, se lo fossi stato, non sarei caduto in quella trappola, tanti secoli addietro, e …

Sfiorando l’addome con una mano, dove la cicatrice mi ricordava in ogni momento la mia superficialità, scacciai quei pensieri e tornai all’oggetto del contendere.

Rohnyn mi lanciò un’occhiata significativa, e io gli sorrisi, annuendo distrattamente. Sapevo che, se  mai avessi voluto parlarne con lui, avrei potuto farlo.

Ma non era davvero il momento.

Mio fratello, allora, per stemperare la tensione che stavo accumulando, celiò: «Quella donna ti interessa davvero. Lo dimostra il fatto che non ti sei proposto a lei con il tuo dubbio fascino per portartela a letto.»

Gli mostrai il dito medio, a quel commento, ma lui non smise di parlare.

«Hai fatto amicizia con sua figlia e le hai offerto la tua protezione. E ora cerchi di scoprire chi è, e se ha legami con il nostro mondo. Il tutto senza mai averla baciata, giusto? Mi sorprendi, fratello. Davvero.”

Quello che aveva esposto non era altro che la semplice verità.

In qualsiasi altro caso, non avrei badato ai particolari, mi sarei lanciato in una corte spietata per ottenere quello che desideravo.

Una volta ottenutolo, mi sarei defilato con gran classe, senza lasciar scontenta la mia amante di turno.

Ma con Rachel, non volevo farlo.

Mi interessava davvero conoscerla, sapere ogni cosa di lei, così come volevo prendermi cura di sua figlia, saperla protetta e al sicuro.

Pensare che fossi io a volerlo, era di per sé un paradosso.

Mi alzai, stirandomi i pantaloni con le mani e, con un mezzo sorriso, dichiarai: «Direi che il tuo fratellone è maturato un po'. Che dici?»

«Penso di sì.»

Sorrise, levandosi a sua volta per stringermi la mano e, quando uscii dal loro appartamento, decisi di recarmi in centro per un'ultima passeggiata, prima di rientrare a Mag Mell.

L'aria era salubre, curiosamente priva di umidità, e le strade profumavano di cibo, birra e persone allegre.

Mi infilai in quel cacofonico via vai, camminando lentamente, le mani in tasca e l'aria tranquilla.

Sorrisi a un paio di donne che, gaudenti, mi passarono accanto con i loro corpi sinuosi e i loro profumi dolciastri, ma non ritenni saggio seguirle.

Avrebbero sicuramente riscaldato la mia serata, ma non era questo che volevo.

No, c'era ben altro, nella mia mente.

Fu per questo che, senza neppure accorgermene, mi ritrovai dinanzi alla vetrina chiusa della gelateria di Rachel.

Tutto era spento, pur se potevo intravedere la sagoma dei tavolini all'interno.

Levai il capo, chiedendomi se stessero cenando, o se avessero già iniziato a prepararsi per la notte.

Fu il trambusto improvviso che avvertii nel vicolo vicino, a insospettirmi.

Era lì che Rachel aveva l'entrata di casa, oltre che la porta su retro del negozio, dove sistemava gli ingredienti per i suoi gelati.

Accigliandomi, mi scostai lentamente verso l'angolo del palazzo e, attento, sbirciai oltre il limitare del muro.

Quel che vidi mi fece scattare d'istinto, ponendomi nella condizione di sfoderare il mio lato guerriero senza stare tanto a pensarci.

Senza annunciarmi, scaricai un destro sull'uomo che teneva Fay su una spalla, apparentemente addormentata.

Questo, neppure si accorse dell'arrivo del montante e, non più trattenendo la ragazzina, crollò a terra privo di sensi.

Fui lesto a prendere Fay al volo e, torvo in viso, osservai un altro uomo – che aveva tenuto aperta la porta scassinata – domandando gelido: «Vuoi che conceda anche a te lo stesso trattamento?»

Saggiamente, il tizio scosse il capo e, nel trascinare via il compagno, si allontanò verso il fondo del vicolo.

«Dite a colui che vi manda che queste due donne non sono più sole!» esclamai, rabbioso come poche altre volte ero stato.

Ciò detto, penetrai all'interno dell'abitato e, posta una mano sulla maniglia, ne cambiai la struttura molecolare, così che nessun altro potesse divellere il blocco chiave.

In fretta, risalii le scale che conducevano al piano superiore e lì, frastornato quanto sconvolto, vidi Rachel stesa a terra, una tumefazione al volto e il labbro spaccato e sanguinante.

Lesto, deposi Fay su un divano in stoffa fiorata, dopodiché sollevai lentamente Rachel da terra.

Lei si lagnò, confermandomi che era viva, e io tirai un sospiro di sollievo che mi fece dolere ogni parte del corpo.

Quanto ero stato teso, all’idea che lei fosse stata morta?

Preferii non pensarci.

«Ma cosa...» gracchiò debolmente lei, sgranando gli occhi un attimo dopo.

Avvertendo la pressione delle mie mani sul corpo, si agitò subito e cercò di scacciarmi.

“Rachel! Rachel! Sono Kris! Calmati! Va tutto bene!” le urlai, cercando di frenare il suo convulso tentativo di allontanarmi da sé.

Finalmente mi mise a fuoco, smettendo di scalciare e tirare schiaffi e, sgomenta, esalò: «Fay... loro hanno...»

Le sorrisi comprensivo e, nello scostare lo sguardo dal suo viso, mormorai: «E' lì sul divano, sana e salva.»

Rachel allora seguì il mio sguardo, sgranò gli occhi e tremò tra le mie braccia.

Lente e calde, le lacrime sgorgarono dai suoi occhi e, senza poterle fermare, lasciò che dilavassero il suo viso pallido.

«Rachel... cos'è successo?»

Ma lei non mi ascoltò.

Si allontanò dalla mia stretta leggera e, gatton gattoni, si avvicinò alla figlia, mormorando più e più volte il suo nome.

Le carezzò i capelli scompigliati, si assicurò che non fosse ferita e, quando si rese conto di averla ancora al suo fianco, esplose in un pianto dirotto e sofferente.

Fu allora che mi avvicinai a lei e, gentilmente, la sollevai da terra per stringerla in un abbraccio.

Mi lasciò fare, stringendosi  a me fin quasi a farmi male.

«Non ho potuto trattenerli. Mi hanno colta di sorpresa, e io... io...»

«Ssst, basta. Non potevi fare nulla. Rachel, Fay è qui. Non l'hanno portata via.»

La cullai come meglio mi riuscì di fare, in modo goffo, non avvezzo a simili esternazioni d’affetto, ma cercai di farlo il più sentitamente possibile.

Le chiesi dove fosse il bagno e, dopo averla condotta lì, la feci sedere sul bordo della vasca.

In fretta, bagnai una salvietta profumata di lavanda e la poggiai con delicatezza sul labbro spaccato.

Lei inspirò con forza, ma non si scostò.

Curiosai nel mobile da bagno, trovando acqua ossigenata e antidolorifico.

Con meticolosa attenzione, e fin troppa abitudine nel farlo, le curai il labbro e applicai la crema sul livido in prossimità dello zigomo.

Rachel rimase ferma per tutto il tempo, gli occhi enormi e spauriti, e io desiderai  con tutto me stesso di aver ucciso quegli uomini.

Come avevano potuto farle questo? Far loro questo?

«Li mandava la famiglia di tuo marito?» le domandai dopo un tempo indefinito.

Eravamo tornati in salotto, dopo quell'improvvisato primo soccorso.

Ora mi trovavo ai piedi del divano, lo sguardo a terra e gli avambracci posati sulle ginocchia ripiegate.

Fremevo di rabbia a stento trattenuta. Avrei voluto spaccare volentieri la faccia a qualcuno, se solo avessi potuto.

Non era la stessa cosa, non ero in battaglia, eppure…

Quell’attacco proditorio, quell’agire nell’ombra, con mille sotterfugi…

Come potevo non ripensare a ciò che era successo a me?

«Mi vengono in mente solo loro. Non hanno rubato nulla. Sono entrati dabbasso, mi hanno presa alle spalle e hanno dato del narcotico a lei» mi spiegò a mezza voce, tamponandosi lo zigomo con del ghiaccio.

Era scarmigliata, con i capelli in disordine e gli abiti stazzonati, eppure era ugualmente bellissima. E ferita.

Quasi esplosi in un'imprecazione rabbiosa, ma mi trattenni per non spaventarla.

Non aveva davvero bisogno di vedermi al mio peggio, soprattutto in quel momento.

«Rimarrò qui, stanotte. Tu vai a riposare. Veglierò su di voi.»

Lo dissi con calma, come un dato di fatto, e a ogni modo non sarei riuscito a chiudere occhio, a quel punto.

Tanto valeva che usassi al meglio la mia veglia, visto che i miei pensieri continuavano a tornare a Fay, e alla mia battaglia contro i Tuatha.

Pareva un mulinello senza fine, in cui il viso della ragazzina si inframmezzava a quello dei miei uomini, in un cerchio infinito e doloroso.

Rachel mi guardò turbata, non sapendo bene cosa dirmi.

Alla fine, però, mormorò: «La porta sarà rotta e...»

«Non preoccuparti della porta. Per stanotte, reggerà.»

Mi levai in piedi e, con delicatezza estrema, presi tra le braccia Fay, che sorrise nel sonno, poggiando il capo contro la mia spalla.

Sorrisi spontaneamente, stringendola un po' più a me, riscaldato dalla sua fiducia incondizionata.

Per diretta conseguenza, la sua mano si aggrappò alla mia camicia.

Sua madre mi guardò confusa, dicendomi: «Sembra che si fidi di te anche nel sonno.»

«Sa che non le farei mai del male» mormorai sommessamente, scrutando con un sorriso affettuoso quel visetto acqua e sapone.

«Evidentemente, sì» assentì, indirizzandomi verso le loro stanze. «L'hai salvata... ci hai salvate

«Avrei preferito arrivare prima. Evitarti questo dolore. Questa paura.»

Lo dissi con sincerità, e lei non lo trovò stucchevole o prevedibile.

Mi sorrise e basta, indicandomi di stendere Fay sul suo letto matrimoniale.

Non feci caso alla camera, a nulla in realtà.

Pensai solo a deporla con delicatezza, sistemandole le lenzuola sul corpo addormentato.

Rachel a quel punto oltrepassò il letto, mi prese la mano con cui avevo colpito uno dei rapitori e mi domandò: «Sei sicuro di volerlo fare?»

Assentii, desiderando soltanto farla pagare a chi le aveva fatto del male.

Le carezzai il viso con il dorso della mano, leggero come una piuma, e mi scostai da lei.

Nell’uscire, le sorrisi a mezzo e mormorai: «Chiudi la porta a chiave. Ti sentirai più tranquilla.»

Annuì, e io uscii per tornarmene in salotto.

Un attimo dopo, sentii la chiave girare nella toppa.

«Molto bene. E ora, provate solo ad avvicinarvi, e giuro che non sarò altrettanto gentile» ringhiai a bassa voce per poi sistemarmi, al buio, nei pressi della finestra che dava sul vicolo.

Noi fomoriani non abbiamo problemi con le veglie prolungate.

Il nostro addestramento ci impone di imparare a resistere a qualsiasi tipo di inconveniente, mancanza di sonno compresa.

Resistere un'intera notte senza dormire, sarebbe stata una bazzecola, per me.

A maggior ragione perché, nella stanza accanto, si trovavano due donne a cui tenevo molto.

Inoltre, i miei incubi tenevano ben lontano il sonno, così come i flash di immagini riguardanti il viso addormentato di Fay.

Se le avessero fatto del male… dubitai fortemente che ne avrei lasciato anche solo uno in vita.

Le mani conserte dietro la schiena e le gambe leggermente divaricate, ristetti in quella posizione per diverse ore, senza mai scostarmi.

Gli occhi sondarono attenti tutto il circondario, vagliando qualsiasi tipo di rumore, di ombra, di movimento sospetto.

Le orecchie ritte e i sensi in allerta, non lasciai correre nessun rumore, nessun fruscio, vagliando tutto come se mi fossi trovato sul campo di battaglia.

Nessuno si sarebbe avvicinato a loro. Non quella notte, almeno.

L'alba venne senza particolari disagi e, quando la chiave venne nuovamente girata nella toppa, io continuai a rimanere di guardia.

Rachel uscì dalla stanza - la scorsi nel riflesso della finestra - e sorrisi appena nel vederla con i capelli arruffati e l'aria sonnolenta.

Mi volsi solo in quel momento, e le lanciai un'occhiata rassicurante.

Lei guardò me, il divano intonso e, lentamente, sgranò gli occhi, rendendosi conto della verità.

«Ma cosa... sei stato alzato tutta la notte?!»

Nella sua voce, lo sconcerto era totale.

«Sono un soldato. Ci sono abituato» replicai, volgendomi completamente per poi poggiare le mani sul davanzale della finestra. «Non ci sono stati movimenti anomali, comunque.»

Rachel si passò le mani sul viso, ancora frastornata.

Non poté comunque dire nulla perché Faélán, uscendo quasi di corsa dalla stanza, si gettò verso di me per abbracciarmi.

«Ciao, Kris! Che bello vederti! Allora è vero che sei rimasto!»

Risi sommessamente, sommerso dal suo profumo di ibisco e agrumi e dal suo calore di fanciulla.

La strinsi in un rapido abbraccio, prima di carezzarle il capo di riccioli scomposti.

Vagamente timoroso, le domandai: «La mamma ti ha spiegato cos'è successo?»

Adombrandosi in viso, Fay annuì, volendosi a mezzo per scrutare Rachel.

Il livido sul viso era ancora evidente ma, per lo meno, non era gonfio. Il labbro, invece, era tumefatto, e immaginai dovesse farle piuttosto male.

Ancora fremetti, e Fay se ne rese conto subito.

Mi afferrò le braccia con le mani, dicendomi ansiosa: «Non devi arrabbiarti. Sono andati via, no?»

Tentai di tenere a freno i miei istinti omicidi, limitandomi a sorriderle. Non volevo turbarla ulteriormente.

«Certo, sono andati via. Ma hanno fatto male a tua madre, e cercato di rapire te. Non è una cosa onorevole, e questo genere di comportamenti mi mandano in bestia.»

Fay tornò ad abbracciarmi, e la mia ansia scemò.

Era questo che stava provando Rohnyn, in attesa che suo figlio nascesse? Questo calore, questo desiderio di protezione?

«Grazie per averci difese. Tu ti sei fatto male?» si informò, levando il visino tutto lentiggini per scrutarmi seriosa.

«Li ho colti di sorpresa. Penso non si aspettassero la cavalleria» ironizzai, strizzandole l'occhio.

«Preparo la colazione» intervenne a quel punto Rachel, avviandosi verso il cucinotto con passo strascicato.

Il suo tono mi mise subito in allarme e, scusandomi con Fay, raggiunsi immediatamente sua madre per chiarire un paio di punti.

Lei mi guardò tutta sorridente, annuendo, e mi promise di non entrare in cucina.

Doveva aver capito anche lei, dal tono della madre, che qualcosa non le era piaciuto per nulla, in quello che era successo.

E, di sicuro, non riguardava i due energumeni che avevo scacciato la sera precedente.

Dopo essermi sincerato di aver chiuso la porta alle mie spalle, domandai senza mezzi termini a Rachel quale fosse il problema.

«Perché sei arrabbiata?»

«Non sono...» iniziò col dire lei prima di bloccarsi, guardarmi astiosa e infine ammettere: «Oooh, sì che sono arrabbiata, invece. Tu arrivi qui, e ti ringrazio per averlo fatto, ma ti comporti come l'uomo perfetto nel momento perfetto, ed è chiaro che Fay ti venera. Per lei, sei come il cavaliere dall'armatura scintillante, e dio sa se ieri notte non lo sei stato davvero! Ma non posso pensare che tu, da un momento all'altro, possa abbandonarla perché ti sei stancato della situazione, o di me, e... e...»

La bloccai, poggiando le mani sulle sue spalle tremanti e, scuotendola appena, replicai: «Prendi fiato, Rachel, perché stai diventando verde.»

Attesi che si fosse calmata e, con un mezzo sorriso, aggiunsi: «Mi sembra di averti detto che sono interessato a conoscerti. Ma se anche il mio interesse per te non andasse in porto, o non ci trovassimo vicendevolmente compatibili, questo non vorrebbe dire che io abbandonerei Fay. Lei è mia amica.»

«Ha quattordici anni e tu... tu... diavolo, neanche so chi sei! So solo che sei fratello di Ronan, e basta!»

Ancora quell'atavica paura di fidarsi, di lasciarmi avvicinare.

Con calma, mi accomodai su una sedia e, senza particolare premura, le sistemai sul tavolo i miei documenti.

Sapevo che erano falsi, ma sarebbero serviti a darle fiducia.

«Ho trentatré anni, anche se non si direbbe, sono del Sagittario, attualmente sono in congedo temporaneo, ma sono stato impegnato su più fronti come soldato di fanteria.»

Una mezza verità, ma era effettivamente il mio ruolo, nell'esercito fomoriano.

Rachel si accomodò, più calma, e annuì.

«Come sai, Ronan O'Sea è mio fratello maggiore, e Sheridan mia cognata.»

La cosa, in sé, mi fece sorridere. Non avevamo potuto fare altrimenti, visto il  tempo che Rohnyn aveva passato sulla terraferma.

Il suo invecchiamento era parso palese, perciò avevamo invertito i ruoli e lui, magicamente, era diventato il mio fratellone, per la legge umana.

Proseguii, perciò, con la storia che ci eravamo costruiti ad arte.

«Risiedo da lui, al momento, ma sto pensando di prendermi qualcosa qui a Dublino, finché non verrò riassegnato. Mi piace il tuo gelato, come ben sai, amo il mare e sono un eccellente nuotatore. Me la so cavare con le barche, e non c'è specie marina che io non conosca.»

Le sorrisi appena, continuando il mio monologo.

«Detesto le mele cotte, il cavolo lesso e la barbabietola. Vado matto per i broccoli e per il cibo giapponese. Parlo correntemente italiano, francese, giapponese e russo. Non sono un gran lettore ma, se una cosa mi interessa, mi ci butto a capofitto.»

Nel dirlo, ammiccai al suo indirizzo, e lei ridacchiò. Si era calmata un po'.

«Vuoi sapere altro?»

«Scusami. Sono stata davvero cafona. Tu ci salvi, e questo è il mio ringraziamento» mormorò a quel punto Rachel, sospirando nel passarsi le mani tra i capelli in disordine.

«Sei stressata, spaventata per quello che è successo ieri notte e, giustamente, hai dei dubbi su una persona che conosci da poco. Penso sia del tutto normale. Per questo, voglio prestarmi a un gioco con te. Dieci domande ciascuno, va bene? Così ci conosceremo meglio» le proposi, ammiccando divertito. «E, visto che Fay mi ha detto che hai un istinto particolare a captare la verità, non avrai difficoltà a sapere se ti ho mentito o meno.»

Ci pensò su, sorridendo divertita dal mio appunto in merito alle sue abilità, ma alla fine annuì.

Faélán ci trovò ghignanti e allegri, quando si arrischiò a entrare in cucina.

Si accomodò al tavolo con un gran sorrisone in viso e, curiosa, domandò alla madre: «Perché ridete così?»

«Kris mi ha appena detto di essere terrorizzato dai granchi. Ma ti pare possibile?» esalò Rachel, guardandomi con occhi pieni di gratitudine.

La paura c'era ancora, sedimentata nel profondo, ma sapevo che, quel comportarmi da burlone, l'aveva chetata un poco.
Fay, come prevedibile, scoppiò a ridere e io stetti al gioco.

Misi un falso broncio, guardandole entrambe con espressione risentita, e borbottai: «Non si ride delle disgrazie altrui. Uno mi ha quasi mozzato un dito, tempo fa. Ho le mie ragioni per detestarli.»

Risero ancora più forte, e io mi rasserenai. Era bello vederle così tranquille.

Quanto sarebbe durato, però?

 
***

Strali di ghiaccio si abbatterono sulla parete di roccia contro cui stavo lottando, lei incolpevole vittima della mia ira.

Una dopo l’altra, le mie lance ghiacciate si scontrarono con ferocia contro la solida materia rocciosa, che stava già riportando i primi danni.

Non contento, cambiai tattica e, concentrandomi sulla struttura molecolare della parete, ne spezzai i legami uno alla volta.

Sempre più veloce, sempre più distruttivo.

I primi ciottoli iniziarono a cadere finché, di colpo, in un’esplosione assordante, tutto si sbriciolò dinanzi a me.

Ansante e per nulla pacificato, crollai ginocchia a terra, le mani tremanti sulle cosce e lo sguardo calato, contrito.

Quanto ancora avrei potuto andare avanti, lasciandomi divorare dai sensi di colpa, dall’odio per me stesso?

Quelle morti, quei corpi… quel sangue.

«Vostra Altezza… dovremmo rientrare. Si avvicina il coprifuoco» mormorò a poca distanza il mio accompagnatore.

Mi volsi a mezzo, scrutando il volto antico e saggio di uno dei soldati che erano stati con me, quel giorno, a Dún Aonghasa.

Quando il mio corpo, o il mio spirito, agognavano a lasciarsi andare, a sfogare ciò che tenevo dentro come un segreto inconfessabile, erano loro ad accompagnarmi.

Coloro che avevano visto, che sapevano.

Sorrisi a mezzo, rialzandomi a fatica e, nell’osservare le macerie dinanzi a me, mormorai: «Ridimmelo, Syrath. Il mio dono non è orrendo

«Il vostro dono ci ha salvati tutti, e nessuno potrebbe ritenervi responsabile di atrocità, per ciò che è avvenuto ai nostri nemici» mormorò con convinzione, lo sguardo fiero e sicuro di sé.

Duecentotredici uomini. Avevo ricondotto a casa, alle loro mogli, sorelle e madri, duecentotredici uomini.

Ma non bastava a rendermi fiero, a cancellare il modo in cui ero riuscito in quell’impresa.

Quel ricordo divorava ogni cosa, anche la gioia per averli salvati.

Syrath, allora, fece una cosa che ben pochi fomoriani avrebbero fatto e, sorridendo appena, mi diede una pacca sulla spalla.

«Ripensare a loro non li farà tornare in vita, né servirà a voi per vivere meglio. Lasciateli andare, Altezza. Eravamo in guerra, e il vostro dono ci ha salvati tutti

Guardai quella mano scabra, su cui spiccava il marchio a forma di uncino della famiglia di Syrath, i mac Lainn, e mormorai: «Tua moglie non mi ha odiato a morte, quando ti hanno riportato da lei senza un graffio?»

Syrath si permise un risolino divertito – lì, in quella solitudine volontaria, nessuno l’avrebbe visto e criticato – e replicò: «Deporrebbe corone d’oro a ogni vostro passo, Altezza, anche se a volte ci prendiamo per i capelli come due nemici in lotta.»

Sorrisi appena.

Tornando serio, il soldato aggiunse: «Siete un valente guerriero, Altezza, grazie a voi e al vostro dono, vostro padre il Re ha potuto detenere in gloria il suo regno per diversi millenni. Quel giorno, a Dún Aonghasa, avete agito per il meglio. Non dubitatene mai

Volli credergli con tutte le mie forze e, quando sfiorai la ferita sul mio addome, non vidi sangue o morte.

Scorsi le lacrime di Rachel, lacrime di gioia perché la figlia non le era stata portata via. E il sorriso di Fay, la mattina seguente, quando mi aveva ringraziato.

Forse, se non avessi fatto ciò che avevo fatto a Dún Aonghasa, non avrei mai potuto vederle, conoscerle, sapere che poteva esservi scampo dai miei incubi.

Dai miei rimorsi.







Note: Capitolo piuttosto lungo, questo, ma necessario per spiegare meglio il rapporto sempre più profondo tra i protagonisti, unito agli incubi di Krilash e ai suoi sensi di colpa che, grazie a Rachel e Fay, stanno pian piano scemando.
Parlerò anche più avanti della battaglia che tanto angustia Krilash, perciò non rimarrà argomento inevaso, tranquille. Verrà spiegata ogni cosa. Per ora, grazie per essere giunte fin qui assieme a me.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


7.
 
 
 
 
 
La sala del tesoro reale era qualcosa di immenso, di scandalosamente gigantesco e, quando mi presentai lì, quasi desistetti dal mio intento.
 
Ma quanta roba c'era?

Fissai sconsolato le miriadi di ripiani, tavoli, rastrelliere e cassettoni ricolmi di oggetti, poi scrutai la lista praticamente interminabile consegnatami dal tesoriere.

La mia richiesta di cercare un gioiello in particolare lo aveva sorpreso.

A parte nostro padre, nessuno metteva mai piede lì per controllare cosa vi fosse. Il fatto che vi avessi messo piede io, era un’autentica novità, oltre che una stranezza.

Sapere di aver raccontato una pura idiozia per entrarvi, inoltre, mi faceva rabbrividire.

A conti fatti, sarei dovuto uscire di lì per forza con un gioiello di ametista, altrimenti nostra madre mi avrebbe decapitato.

Subito dopo avermi estorto la verità con la tortura, per poi passarmi a mio padre, che mi avrebbe finito.

Rabbrividii ancor di più, al solo pensiero, e mi immersi in quella sconveniente espressione di potere con la speranza di uscirvi quanto prima con una risposta.

Avrei impiegato giorni per controllare ogni voce – e ogni simbolo – perché, contrariamente a quanto aveva detto Stheta, le famiglie estinte erano ben più  di qualche decina.

Almeno, stando alla lista del tesoriere.

Forse, mi ero andato a intrufolare in un guaio ancora peggiore della biblioteca fomoriana, che avevo appena abbandonato.

«Accidenti a te, fratello…» brontolai, incamminandomi verso il punto più lontano della sala.

Avrei proceduto a ritroso, sperando di non affogare in quel mare di orpelli, sete, ori, gioielli e armi di ogni genere e forma.

 
***

Il pensiero di Rachel e Fay mi perseguitò per tutta la mattina.

Sapevo di averle lasciate in buone mani – mio fratello e Konag erano due ottime guardie del corpo – ma l'idea di non essere con loro, mi angustiava.

Ero io a essermi preso carico della loro condizione di bisogno, invece stavo creando fastidi a tutti.

Ma quella Cerca mi sembrava altrettanto importante, specie in considerazione del loro possibile futuro alternativo.

Se fosse saltato fuori che erano discendenti di una famiglia fomoriana, avrebbero potuto prendere pieno possesso dei propri possedimenti e crearsi una nuova vita.

Forse, non avrebbero voluto, ma desideravo dare a entrambe una via d'uscita, un’altra possibilità.

Il nonno paterno di Fay stava creando loro fin troppi problemi, e la famiglia di Rachel non era di nessun aiuto.

Sarei stato io il viatico per un nuovo inizio.

Con o senza ricompensa a darmi man forte in questa impresa.

Sorrisi di fronte a quella verità incontestabile.

Che Rachel mi volesse al suo fianco o meno, o che io volessi impegnarmi o meno con lei in qualcosa di più di una semplice amicizia, desideravo vederle felici.

Era un imperativo così importante da far passare in secondo piano ogni cosa.

 
***

Stavo osservando una bella spilla d'ametista a di scudo, quando avvertii dei passi alle mie spalle.

Guardingo, cercai di capire chi fosse ma, quando avvertii il familiare tocco mentale di Stheta, mi rilassai immediatamente.

Poggiato a terra il gioiello che avevo scelto per Lithar, ripiegai la pergamena che tenevo sulle ginocchia e attesi l'arrivo di mio fratello.

Quando infine comparve oltre l'angolo di una delle interminabili librerie di quel luogo silenzioso e ombreggiato, gli sorrisi.

«Sei venuto a curiosare cosa stavo combinando?» esordii, appoggiandomi all’indietro, sui palmi delle mani.

«Per la verità, volevo darti una mano» mi informò per contro, scrollando le spalle.

Mi limitai ad accentuare il mio sorriso, assentendo. «Grazie. Sarebbe più semplice proseguire con un paio d'occhi in più.»

Gli consegnai perciò la pergamena che avevo con me, e che ormai conoscevo a menadito, borbottando: «Dovrei far fustigare il tesoriere. La lista non è ordinata per famiglia, ma per anno. Su ogni oggetto è scritto il nome del possessore, oltre al relativo glifo familiare, ma così ci vorrà un secolo. Non ho ancora trovato corrispondenze.»

«Non pensavo fossero tante, le famiglie estinte» esalò Stheta, più che mai sorpreso, scorrendo veloce con lo sguardo l’interminabile lista.

«Ho scoperto che ci sono anche le famiglie dei Protettorati. Ecco perché c'è un numero così spropositato di cose» brontolai, passandomi le mani sui corti capelli biondo castani, guardando poi con aria funesta l’immenso stanzone in cui ci trovavamo.

Stheta mi fissò vagamente sconvolto, e io non potei che essere concorde con lui. Quell’impresa sembrava sempre più improba a ogni minuto che passava.

Ugualmente, si mise di buona lena per darmi una mano e, assieme, proseguimmo nella cernita, un pezzo alla volta, ripiano dopo ripiano.

Calò la sera senza che nessuno di noi se ne rendesse conto e, quando finalmente ci accorgemmo delle ombre lunghe nel salone, ci bloccammo.

Sorridemmo divertiti e, nel sederci a terra, Stheta mi guardò con aria strana.

«Non pensavo ti avrei mai visto così partecipe per una donna, sai?»

«Partecipe un corno. Sto solo cercando di capire se è fomoriana o meno» ironizzai, scrollando le spalle.

«E perché ti interessa tanto, scusa? Se tu volessi, potresti averla senza problemi. Sei un bell'uomo, piaci alle donne e, cosa non da poco, ora lei ti considera un cavaliere dall'armatura scintillante. Sarebbe tua in poche, rapide mosse. Perciò, perché non farlo?»

Il suo tono irriverente mi stupì. Stheta non era mai stato così superficiale.

Semmai, il contrario!

Provai l'impulso irrefrenabile di difendere l'onore di Rachel, oltre all'amicizia appena nata tra me e Fay, e fu a quel punto che compresi.

Sì, in effetti, non era davvero il mio solito comportamento.

Non potevo dare la colpa di questo mio voltafaccia solo al desiderio di conoscere la verità.

C'era dell'altro, ma non sapevo dare una risposta alla domanda insita nel discorso sibillino di mio fratello.

Sospirai, perciò, attirando al petto le ginocchia per avvolgerle con le braccia e, stanco, mormorai: «Non chiedermi cosa provo per lei, perché davvero non saprei risponderti. E' vero quel che sostiene Rachel. Ci conosciamo appena e, anche se ora so che detesta i fumetti americani e i film dell'orrore, non posso basarmi solo su questo, per sapere se mi interessa davvero.»

«Io credo che tu ti sia già risposto da solo, Krilash» replicò lui, sorprendendomi un poco.

«Che intendi dire?» esalai, sgomento.

«Se lei non ti interessasse veramente, non ti staresti impegnando così tanto, e con così tanta passione. La faccenda della verità sulle loro origini, è solo una scusa. O, per lo meno, solo uno dei motivi per cui ti stai muovendo.»

Mi sorrise, dandomi una pacca sulla spalla, e proseguì. «Rachel ti interessa così tanto da voler essere sicuro di avere una chance, con lei. E, se non fosse fomoriana, sapresti già di dover rinunciare a lei e a sua figlia, oppure prendere la stessa decisione di Rohnyn e andartene da qui.»

Sgranai gli occhi, di fronte alle sue parole.

«Per questo, non hai tentato nessun approccio con Rachel e, invece, ti sei soffermato su Faélán. E' più facile voler bene alla ragazza, che non alla madre. L'amicizia, per quanto profonda essa possa diventare, non ti ucciderà mai come un cuore spezzato da un amore impossibile. Tu e lei potreste continuare a essere amici, anche se si scoprisse che loro non sono fomoriane. Ma se tu ti innamorassi completamente e totalmente di Rachel, e non potessi averla?»

Stheta non avrebbe potuto sorprendermi di più, eppure colse al volo il mio problema, sviscerandolo in ogni suo punto.

Gli sorrisi mesto, assentendo al suo dire.

«Sei sempre stato più bravo di me, a discernere le cose» mormorai, poggiando la fronte sugli avambracci.

Lui mi carezzò i capelli, comprensivo.

«So cosa vuol dire rodersi nel dubbio, non sapere come comportarsi. Ho commesso un sacco di errori, con Ciara, prima di ammettere con lei ogni cosa. Devi comprendere cosa sei disposto a sacrificare per lei, e cosa invece non potresti sopportare di perdere.»

«Non è facile» mi lagnai, pur sapendo che aveva ragione.

«Mai detto che lo fosse. Ma dubito che tu pensassi di risolvere tutto, e semplicemente, trovando la verità sulla loro presunta rihall

«Stai cominciando a darmi noia, sai, Stheta?» mugugnai, ghignando al suo indirizzo.

Mio fratello si limitò a fare spallucce. Sapeva già di avermi chiarito le idee, per cui non c'era bisogno che proseguisse nella sua filippica.

Era vero. Trovare la verità sulla loro presunta appartenenza, o meno, alla nostra stirpe, non era l'unico motivo per cui mi muovevo.

Desideravo avere rassicurazioni, perché l'interesse nei confronti di Rachel stava diventando, e più rapidamente di quanto avessi immaginato, forte e profondo.

Vederla assieme a Fay mi faceva fremere.

Non avrei mai immaginato di poter essere attratto a quel modo da una donna.

Eppure, il semplice vederla sistemare le chiome della figlia con la spazzola, mi incantava.

C'era così tanta forza, nel suo sguardo, così tanto amore!

Erano cose che mi avevano toccato nel profondo, fin dal primo sguardo.

Ma avevano scatenato in me anche paure ataviche, perché era sconvolgente essere attratti a quel modo da una persona.

E senza aver mai tentato neppure un ben che minimo approccio con la diretta interessata.

Anzi, l'idea di baciare Rachel stava diventando, giorno dopo giorno, un'impresa titanica.

Ero terrorizzato al pensiero di caderne vittima in maniera irreparabile, perché non sapevo cosa sarebbe successo al mio cuore, se fossi capitolato per una donna che non potevo avere.

Non ero sicuro di avere lo stesso coraggio di Rohnyn, eppure desideravo al tempo stesso avvicinarmi a Rachel, conoscerla veramente.

Inoltre, nostro padre non mi avrebbe mai concesso di abbandonare Mag Mell. Se con Rohnyn aveva più o meno accettato la cosa, con me avrebbe mosso mari e monti.

E, se non mi avesse riavuto con sé, ci avrebbe uccisi tutti. Ero troppo importante, per lui, perché mi concedesse una simile libertà.

Insomma, era un problema non da poco.

«Cosa devo fare, fratello?» domandai, in preda all'ansia più nera.

«Segui il tuo istinto, Krilash, e non lasciare che false paure t'ingannino. Se è la donna del tuo cuore, lo saprai, così come saprai cosa fare. Se non lo è, avrai risparmiato a entrambi una sofferenza inutile, ti pare? Ma essere onesti è sempre la carta migliore da usare, in casi come questo.»

Mi sorrise comprensivo e, nell’osservare il ninnolo che avevo scelto per Lithar, lo tastò tra le dita, pensieroso.

«Il gioiello per il compleanno di Lithar?» mi domandò, già supponendo la risposta. Sapeva che era stata la scusa con cui mi ero potuto avvicinare senza sospetti a quel luogo.

Assentendo, mormorai: “Ho pensato che, per lei, andasse bene qualcosa che potesse indossare sempre, senza dover necessariamente portare abiti eleganti. Una spilla per il suo mantello è l’ideale.»

«Oreficeria scozzese» mormorò Stheta, curiosando sul retro della spilla, dove era stata incastonata un’unica, ovale ametista levigata.

Sul dorso, disposte a croce maltese, si intervallavano sinuose spirali e triskele tortuosi, dalle forti ombreggiature.

Un gioiello adatto a una guerriera e, soprattutto, un gioiello intriso della magia necessaria per non ferire la nostra preziosa pelle di delfino.

Nessun fomoriano si muoveva senza di essa, e proprio per questo la nostra seconda pelle era intessuta magicamente nei nostri mantelli.

Drappeggiarli sulle nostre spalle significava, però, bloccarli con qualcosa: per questo, nei secoli, erano stati creati gioielli in grado di poter essere abbinati a essi.

Quel fermaglio non faceva eccezione, anche se era stato confezionato da un artigiano terrestre.

Nel levarsi da terra, Stheta mi allungò una mano per aiutarmi ad alzarmi e, nel consegnarmi la spilla, mormorò: «E’ molto bella, e adatta a nostra sorella.»

«Lo spero davvero, o mi taglierà la testa» ironizzai, poggiandomi contro una delle librerie, mimando un colpo mortale al cuore.

Quel mio gesto rozzo fece, però, caracollare per un istante il mobile e, sotto i nostri occhi sorpresi e ridenti, ci cadde in testa un rotolo di stoffa.

Risi nel raccoglierlo per riporlo al suo posto ma, quando la mia mano sfiorò quel tessuto traslucido, si bloccò, nel panico più totale.

I miei occhi fissarono senza parole ciò che compariva sulla targhetta identificativa della preziosa seta e, sgomento, imprecai.

Anche Stheta seguì il mio sguardo e, sgranando leggermente gli occhi, esalò: «E' questo, quello che hai visto?»

«Se non è questo, gli somiglia molto» mormorai ansioso, sollevando il rotolo di stoffa con mani esitanti.

Era una seta antica, come già avevo supposto, di chiara fabbricazione persiana, e doveva avere almeno tremila anni.

Perfettamente conservata grazie alla magia che la ricopriva, era color oro, con ricami in toni del rosso e del blu e, nella trama, era intessuto all’infinito un unico simbolo.

Ne svolsi un buon metro, tenendolo tra le mani con espressione sempre più sconcertata.

Lì dinanzi a me, riprodotto da mani di raffinata bravura, stava il simbolo che avevo scorto sul polso di Fay.

La stella a tre punte ricurve.

«Merda...se è questo...» esalò Stheta, come rammentandosi di un particolare molto importante.

«Tu lo conosci?» esalai, confuso e speranzoso assieme.

«Non ho badato a un particolare. Scusami» mormorò lui, contrito. «Certo che lo conosco, e dovresti anche tu. Questo è il simbolo del casato dei mac Cumhaill. Il casato di Niamh e Oisín. Non ricordi Oscar e Plon? Le loro rihall

Sentii le ginocchia farsi di gelatina e, allungando una mano per afferrare la spalla di Stheta, cercai di tenermi in piedi nonostante la sorpresa.

«Sono... sono le eredi di Oscar o Plon?» esalai, ripensando ai figli avuti dalla coppia.

Come avevo potuto dimenticarmene? Niamh aveva sempre riso di quella strana anomalia nel suo marchio originario.

Lei che, come ogni mac Lir, era nata con una stella a cinque punte ricurve, unendosi con un mortale aveva variato inevitabilmente il sangue della sua stirpe.

Ne era nata così una stella menomata a tre punte che, però, Niamh aveva apprezzato al punto da volere come nuovo simbolo della sua famiglia.

In quanto cugina del re, aveva chiesto – e ottenuto – che il nome di suo marito Oisín venisse annoverato tra le casate fomoriane.

E i mac Cumhaill avevano visto la loro nascita, solo per scomparire poco meno di trecento anni dopo, con la morte del suo capostipite.

Niamh era sopravvissuta solo per poter crescere i figli e, quando anch’essi avevano voluto raggiungere la terra del padre, si era lasciata morire.

Muath l’aveva pianta per secoli, all’ombra del suo gineceo, inconsolabile e inconsolata.

Tethra, invece, aveva iniziato la sua personale guerra contro gli umani, detestandoli perché portatori solo di dolore.

«Non può essere che così, se rammenti correttamente il simbolo che hai visto» mormorò Stheta, riportandomi al presente, lontano da quei tristi ricordi di gioventù.

Ci guardammo entrambi senza sapere bene cos'altro dire, ma conoscendo più che bene le conseguenze di quella scoperta.

Se così era, se Rachel e Fay erano realmente le eredi dei figli di Niamh e Oisín, non solo erano fomoriane, ma la loro nobiltà era seconda solo alla famiglia reale.

Cugine della regina Muath e di re Tethra.

Al solo pensarci, mi venne voglia di ridere e, al tempo stesso, di mettermi a piangere.

Come avrebbero reagito, i nostri genitori, se mi fossi presentato con quella notizia sconvolgente?

Non solo Tethra deplorava il nostro interesse per gli umani e la terraferma ma se avesse saputo che, grazie al mio intervento, era stato trovato un erede di Niamh, sarebbe ammattito.

Lui aveva provato sincero affetto per la cugina, ma avrebbe mostrato altrettanto interesse per le sue eredi?

O si sarebbe infuriato, a causa del loro sangue impuro?

Davvero non sapevo che pensare.

Tornai a guardare quella stola di seta, la rimisi delicatamente al suo posto e borbottai: «Questa è davvero grossa. E ora?»

«Non hai molta scelta, mi pare. O fai finta di niente, o vai fino in fondo, risvegliando la rihall di entrambe.»

Annuii torvo, sapendo bene che Stheta aveva ragione.

Non avevo che due vie da seguire, ed entrambe avrebbero potuto significare un futuro assai complesso quanto incerto, per me.

O niente affatto un futuro, a voler essere del tutto onesti.

Ugualmente, dovevo decidere, tenendo conto soprattutto del bene di Rachel e Fay.

 
***

Nel consegnare la spilla a Lithar, che rimase piuttosto sorpresa dal mio gesto, le chiesi consiglio, spiegandole tutto quello che avevamo scoperto.

La sua sorpresa si mutò in ansia, e l'ansia in agitazione, man mano che il mio racconto si approcciava al termine.

Passeggiando nervosa per la sua stanza, la mano che distratta andava ad accarezzare la sua spilla nuova, mi disse: «Non hai neppure idea di quanto Tethra potrebbe infuriarsi. Solo dal punto di vista economico, sarebbe una perdita enorme, per il tesoro reale. I mac Cumhaill erano una famiglia potente, oltre che imparentata con il re. Erano secondi solo a noi. Inoltre, se uno volesse tener conto solo del retaggio familiare paterno, nostro padre dovrebbe accettare dei mezzosangue come parenti. Potrebbe far esplodere Mag Mell, al solo pensiero.»

Lithar aveva ragione da vendere, ma negare l’evidenza – se si fosse rivelata esatta – mi parve sciocco e crudele.

Dopotutto, si stava parlando dell’eredità di Rachel e Fay.

Era pur vero che nostro padre non era esattamente la persona più aperta che io conoscessi e, di sicuro, non apprezzava che si toccassero a quel modo le sue finanze.

D'altra parte, non potevo permettere che Rachel e Fay non venissero a conoscenza della loro possibile ascendenza.

E se Tethra si fosse ricordato del suo affetto per Niamh? Forse, sarebbe passato sopra a tutto il resto.

«Cosa pensi dovrei fare? Tacere loro tutto? Non sarebbe più giusto che conoscessero ogni cosa?»

Lithar si lappò le labbra, pensierosa e, nel sedersi sul suo letto, apparentemente stanca al pari mio, scosse il capo.

«Non dico che tenerle all'oscuro di tutto sia giusto, Krilash, ma hai pensato a che shock culturale potrebbe essere, per loro? Forse, la ragazza non ci farebbe alcun caso. Si sa che i giovani sono propensi ad accettare praticamente di tutto... ma sua madre? Mi sembra di aver capito che abbia già sofferto abbastanza. Un colpo simile potrebbe minare le sue certezze per sempre.»

Si rigirò le mani, tornando a guardarmi quando fu sicura di poter reggere il mio sguardo.

«Pensaci bene, Krilash. Il nostro mondo non è fatto per persone meno che forti, e lo sai benissimo. Tutti noi siamo stati addestrati a sopravvivere qui. Di loro, che mi dici? Nel migliore dei casi, la cosa peggiore che gli sia mai capitata è l'agguato dell'altra notte, in cui tu le hai salvate.»

Aggrottò, la fronte, e aggiunse: «E voglio sottolineartelo. Tu le hai salvate. Una qualsiasi fomoriana, nata a Mag Mell, avrebbe difeso da sola la sua casa, anche in assenza del marito. Sarebbe morta combattendo, piuttosto che cedere di un solo metro.»

Mi accigliai, replicando al suo dire con tono altrettanto rigido.

«Pensi che Rachel non abbia tentato il tutto e per tutto? L'ho trovata a terra, con la faccia pesta, priva di sensi. Ha lottato!»
Lithar allora sospirò, scosse il capo, e mi parlò con tono più gentile.

«Non intendevo dire che la donna per cui ti stai battendo, non sia degna di lode. O men che coraggiosa. Ha avuto dei trascorsi davvero tristi, e il fatto che si sia battuta con le unghie e con i denti per difendere la figlia, è encomiabile. Ma a Mag Mell è poca cosa. E tu lo sai.»

Certo che lo sapevo! Come se avessi potuto dimenticare, anche solo per un momento, il mondo difficile e privo di gentilezze in cui eravamo cresciuti.

La stessa Ciara, diversi mesi addietro, ci aveva ricordato – e con l'equivalente di uno schiaffo in pieno volto – quanto fosse difficile vivere qui.

Dover minacciare i reali con la propria spada, vedersi schiaffeggiare in viso dalla regina, e tutto per ottenere la mano dell'amato, non erano cose consuete sulla terraferma.

A Mag Mell, quasi la routine.

Eravamo sempre stato un popolo forte, combattivo, che teneva in grande considerazione il coraggio e l’onore.

Ma la tempra e la forza di Rachel non sarebbero bastate, per vivere a Mag Mell, e neppure per rivendicare il proprio lignaggio.

Perciò, perché farle soffrire per nulla?

Sospirai, annuendo, e la ringraziai con un sorriso.

Mi avvicinai a lei per carezzarle il viso, e Lithar mi sorrise triste.

«Stai attento. A te stesso e a loro, fratello. Vedo quanto sei preso dalla donna di cui mi hai parlato, e non so come vederti in queste nuove vesti. Ho paura che tu soffra.»

«Ho la pelle coriacea, non temere. Tu, piuttosto. Sai di poter contare sempre su di me, vero? Ultimamente, ti vedo pensierosa e mogia.»

Lei accentuò il sorriso, forse pensando di poter così scacciare le mie ansie, e replicò: «Cose da donne, Krilash, non temere. Sto bene. Ma grazie per il tuo interessamento. E per il regalo. E’ davvero bello, e neppure troppo appariscente. Lo porterò con onore.»

Mi piegai per deporle un bacio sulla fronte liscia, sussurrando: «Portalo per tuo piacere personale. Lo preferisco.»

«Farò così, allora.»

La lasciai ai suoi pensieri e ai suoi dubbi e, con passo veloce, me ne tornai in camera, ben deciso a passare la notte a meditare.

Cosa ne avrei ricavato, ancora non lo sapevo, ma una cosa era sicura.

Avrei passato una notte insonne.







Note: Si scopre finalmente a quale famiglia appartengano Fay e sua madre, cioè nientemeno che i mac Cumhaill, secondi solo alla famiglia reale. Si torna così a parlare delle figure mitologiche di Niamh e Oisin che, nel mio racconto, sono esistiti davvero. (secondo il mito, Niamh è veramente una mac Lir)
Scopriamo così, anche, i motivi che hanno spinto i reali ad avere rapporti così tesi con i mortali. Il ritorno di Oisin in Irlanda, e la sua conseguente morte, hanno portato nello sconforto Niamh, morta subito dopo aver lasciato che i suoi figli scegliessero una vita mortale per il loro futuro.
Questo li ha portati a incolpare tutto il genere umano, per la perdita dell'amata cugina, ed ecco perché - pur apprezzandone silenziosamente le arti e le scienze - ne deplorano comunque la vita stessa sulla Terra.

Grazie per avermi seguita fino a qui!!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


8.
 
 
 
 
 
Usai un cutter per aprire il cartone che Rohnyn mi aveva dato, pronto a dargli una mano per sdebitarmi con lui.

Dopo tutti i giorni – e le notti – che gli avevo strappato perché si prendesse cura di Rachel e Fay, mi sembrava il minimo.

Il magazzino del suo negozio sembrava uscito da un galeone spagnolo e, pur non intendendomene molto di storia navale umana, apprezzai quei manufatti antichi.

Dallo scatolone dinanzi a me, estrassi un sestante ripulito dall'incuria del tempo e, ammirato, lo soppesai tra le mani prima di riporlo su uno scaffale.

Uno dopo l'altro, sistemai tutto come indicato dal mio scrupoloso fratello dopodiché, con calma, tolsi il nastro dal cartone e ripiegai quest'ultimo per la raccolta differenziata.

Sospirai, osservando le altre venti scatole di diversa grandezza che mi aspettavano.

Non era un lavoro duro, ma volevo sincerarmi che Fay e Rachel stessero bene, perciò dovevo sbrigarmi se volevo andare da loro prima di sera.

Fu perciò una sorpresa quando, dalla porta del magazzino, vidi entrare la donna dei miei sogni.

I capelli stretti in una coda di cavallo, indossava un cappellino con la scritta 'Irish' sul davanti.

Indosso, portava jeans e camiciola, e un mezzo sorriso le illuminava il viso acqua e sapone.

Era raro vedere Rachel con il trucco ma, d'altra parte, non ne aveva bisogno. Era già stupenda così com'era.

Sorrisi forse un po’ stupidamente, preso in contropiede com’ero stato e, nel riporre il cutter su una delle scatole, le chiesi: «Come mai qui? E Ronan dov'è? Fay?»

«Fay è di là che aiuta tuo fratello con i clienti. Io, invece, ho pensato di venire qui a darti una mano.»

«Oh, ma... non ce n'è davvero bisogno» esalai, scuotendo il capo.

Lei tornò seria e, nell'indossare un paio di guanti da lavoro – che estrasse dal marsupio che teneva legato in vita – replicò: «Te lo devo. Mi pare il minimo, visto quello che stai, che state facendo per noi. E non pensare di rispondermi con un ‘no’, perché ti convincerò con la forza, se necessario.»

Mi ritrovai a sorridere come un idiota e, nel passarle un tagliacarte, dissi soltanto: «Sarà un piacere lavorare con una bella donna al fianco.»

Rachel rise, e io mi sentii travolgere da un sentimento tutto speciale.

Fu... compiacimento.

Sì, adoravo sentirla ridere ma, più ancora, adoravo essere io, a farla ridere.

E questo mi metteva in una gran brutta situazione, se già quella in cui mi ero infilato non lo era di per sé.

Come potevo pensare di guastarle questa serenità a stento acquisita?

Certo, la verità era importante, ma non me la sentivo di distruggerle ogni certezza, e solo per avere la coscienza a posto.

Oltre alla possibilità di frequentarla con il cuore al sicuro da tumulti irrealizzabili.

Ero un ben misero codardo!

Se le avessi detto tutto, e mi fossi innamorato di lei, avrei avuto la certezza di poterla portare con me o, quanto meno, di avere una possibilità di vita con lei.

Ma lì non c'ero solo io.

C'erano una donna e sua figlia, che avevano avuto una vita difficile e tribolata, ma si erano costruite un futuro solido, e con le loro sole forze.

Non avevano bisogno di uno come me, che distruggesse il loro mondo per il proprio egoistico bisogno.

Indipendentemente da quello che provavo per loro.

No, dovevo seguire il consiglio di Lithar e tacere su ogni cosa. Per il loro bene.

 
***

Tergendosi il viso con una mano, Rachel si accomodò su uno degli scatoloni ancora chiusi e, sorridendomi, esalò: «Non pensavo che tuo fratello gestisse tutta questa marea di oggetti. Ce n'è un'enormità!»

«Ha più pazienza di me, poco ma sicuro» ironizzai, passandole una bottiglietta d'acqua fresca, recuperata dal piccolo frigobar che Rohnyn teneva nel retrobottega.

Nel curiosarvi dentro, vi avevo trovato anche dei dolcetti alla crema, di sicuro portati da Sheridan durante una delle sue visite.

Ne era ghiotta, in quel periodo.

Lei la bevve, mi sorrise e, dopo essersi morsa pensierosa il labbro inferiore, mi disse: «Sai... ieri ho ricevuto una visita.»

Subito, mi misi sull'attenti, già temendo che il suo ex scuocero avesse mandato qualcun altro a turbarla, ma lei mi rassicurò subito.

Scosse veloce le mani per smentire le mie paure e tornò a sorridermi.

«Non temere, nessuno di tremendo. In realtà, è venuta tua sorella. O, per lo meno, lei si è presentata come tua sorella Lisa. Per la verità, non vi somigliate molto, però...»

«Che?! Lit... Lisa si è presentata da te?! E perché mai?!» gracchiai, sapendo di essere arrossito mio malgrado.

Ma che cavolo le era preso?!

Rachel sorrise ancor di più, forse divertita dal mio imbarazzo.

«Credo sia venuta per difendere il tuo onore.»

«Eh?!»

A quel punto scoppiò a ridere e, nuovamente, il dolce sguardo che le avevo già scorto in precedenza, tornò. Solo per me.

«Si è presentata in gelateria e ha aspettato che fossimo sole, per presentarsi. E' un militare anche lei, per caso? Ne ha l'aria.»

«Eh... già. Lisa potrebbe calpestare sotto i suoi piedi un intero reggimento, se la trovassero con la luna storta.»

Di sicuro, aveva appena calpestato me, e per bene.

Lei annuì, divertita forse dall'idea di una donna in grado di compiere simili imprese.

«Comunque, si è presentata dicendo di essere venuta alla gelateria per conoscermi.»

«Oh, per gli dèi! Scusami!» esalai, passandomi una mano sul viso, esasperato e imbarazzato al tempo stesso.

Avrei dovuto aspettarmi che Lithar ne avrebbe combinata una delle sue, ma avevo sperato non si sarebbe mai spinta a tanto.

Non avevo calcolato, però, la mania di Lithar di ergersi a paladina di noi tutti, sebbene fosse la piccola della nidiata.

Come avevo fatto a dimenticarlo?

«Non ti devi scusare. E' carino che la tua famiglia si preoccupi per te, anche se non ho alcuna intenzione di metterti nei guai» mi rassicurò, tornando a ridacchiare con ironia.

«Mi sembra che le parti si siano invertite» brontolai, scuotendo il capo. «Tu sei il malandrino che vuole deflorare una vergine, e io sono la vergine in questione!»

A quel punto, la risata di Rachel esplose in tutta la sua forza, e calde lacrime di ilarità scivolarono dai suoi occhi color whisky.

Ecco. Ci aveva pensato anche lei, e la risatina che avevo scorto fino a quel momento, trattenuta agli angoli della sua bocca, aveva riguardato proprio quel pensiero assurdo.

Avrei sculacciato Lithar per benino.

Tergendosi le lacrime con i pollici, Rachel asserì: «Dio, avresti dovuto vederla. Lei, tutta seriosa, e ben decisa a scoprire che intenzioni avessi nei tuoi confronti!»

Mi vergognai a morte, ma Rachel fu di tutt'altro avviso.

Smise di ridere e, fattasi seria, allungò una mano per carezzarmi la guancia, mormorando: «Darei chissà che cosa, per avere familiari così attenti e pronti alla mia felicità. Non fosse per mio zio, direi di essere nata senza famiglia.»

«Rachel...»

Lei ritirò la mano, ma proseguì a parlare.

«Non mi ha offesa e anzi, mi ha fatto capire un po' di cose. Prima tra tutte, che non devo prendere alla leggera il tuo interessamento per me. Se tua sorella si è sentita in obbligo di passare, significa che sei più di un semplice bell'uomo che bazzica nel mio negozio per farmi la corte.»

Sorrisi, ringraziandola per il complimento, e lei continuò.

«E' difficile, per me, accettare che qualcuno voglia inserirsi nel mio duetto con Fay, ma tu... tu...»

A quel punto, a sorpresa, arrossì e le mie mani, discole quanto indipendenti, afferrarono le sue per darle coraggio.

Rachel le osservò per qualche istante, prima di riprendere il discorso.

«Non posso negare di essere attratta da te, Kris, e non solo perché, per l'appunto, sei un bell'uomo.»

Nel dirlo, ridacchiò. «E' il modo in cui mi tratti, in cui tratti Fay. Come se fossimo due principesse. Le tue principesse. E' strano. Piacevole, ma strano.»

Carezzai quelle mani esili, dando ragione una volta di più a Lithar.

Non erano mani che avrebbero potuto imbracciare una spada, quanto piuttosto sete eleganti e velluti preziosi.

«E' la prima volta che mi capita, Rachel, perciò ti sembrerò un po' esagerato, ma non so davvero come comportarmi, con te e Fay. Desidero solo che siate felici e, se mi chiedi perché, posso dirti che questo mi fa stare bene.»

Presi un gran respiro, abbozzai un sorriso incerto e proseguii. «Non domandarmi altro, perché non saprei davvero risponderti. Per ora, può bastarti sapere che ho a cuore la vostra salute e la vostra felicità, perché fa felice anche me?»

Annuì, e si sporse verso di me per darmi una bacio sulla guancia.

Sentii subito un formicolio sulla pelle, nel punto in cui le sue labbra si poggiarono.

Turbato, mi chiesi cosa avrebbe voluto dire poggiare la mia bocca sulla sua.

Mi scostai un po', occhi negli occhi con lei, e non mi mossi.

Ero terrorizzato, mio malgrado, e Rachel parve comprenderlo.

Mi sorrise, poggiò la sua mano sulla guancia appena baciata e mi avvicinò a lei.

Fu così che assaporai per la prima volta la sua bocca e, come avevo temuto, fui perduto.

Non c'era solo il suo sapore, a rendermi inebetito.

C'era il suo calore, il profumo della sua pelle, il pizzicore dei suoi pensieri errabondi, il lieve sentore di desiderio sessuale che bussava nella sua mente.

Tutto questo cospirava per farmi andare in tilt.

Ansimai, e approfondii il bacio. Lei non si allontanò, non cercò di frenarmi e, anzi, afferrò i bordi della mia maglietta per avvicinarmi ancor di più.

Continuai a cibarmi di Rachel, assaporandola come un buon vino pregiato, ma feci l'errore grossolano di aprire per un momento gli occhi.

L'alone dorato che vidi attorno alla mia mano destra, immersa nei suoi capelli, mi portò a fissare spaventato la mia pelle.

Ma, più di tutto, mi permise di scorgere gli occhi spalancati di Fay, in piedi sulla porta del magazzino, intenta a guardarci.

guardare me.

In fretta, mi scostai da Rachel, nascondendo dietro la schiena la mano rilucente e, rosso come un peperone, esalai: «Beccati.»

Lei si volse immediatamente, rossa non meno di me in viso, e rise nel vedere l'espressione maliziosa della figlia.

Che non parlò. Che non diede di matto. Che non si espresse in alcun modo, se non prendendo in giro la madre.

Sapevo che Fay aveva visto la mano, la parvhein manifesta ed evidente sulla mia pelle, ma lei non disse alcunché.

Rachel si scusò con me, allontanandosi per sciacquarsi il viso, o forse riprendere un minimo di controllo, e mi salutò con un sorriso di nuova intimità.

Fu a quel punto, rimasto solo con Fay, che capii di essermi cacciato in un guaio enorme. Colossale.

Primo, Rachel era la mia compagna per la vita. Secondo, sua figlia aveva appena scoperto che non ero umano come potevo sembrare.

Per uno che voleva procedere per gradi e non ferire nessuno, avevo appena compiuto un autentico disastro.

 
***

Passatomi le mani sulle cosce, lanciai un'occhiata incuriosita a Faélán, che se ne stava appollaiata sullo scatolone dove, in precedenza, si era trovata sua madre.

Il suo sguardo indagatore mi stava perforando, e la sua mente iperattiva stava tentando di comprendere – logicamente e non – quello che aveva appena visto.

«Chi sei?» mi domandò, senza tanti giri di parole.

Sospirai, mi passai le mani tra i capelli con fare esasperato e, sorridendo sghembo, mormorai: «Tu, chi pensi io sia?»

Inclinò il capo di riccioli ramati, che dondolarono come spuma di mare portata dalle onde e, lappandosi le labbra, replicò: «Vuoi fare del male alla mamma?»

Quell'interessamento altruistico mi fece sfuggire un sospiro strozzato.

Dèi! E io che non volevo turbarla!

Scossi il capo recisamente, dicendo per tutta risposta: «No. Per nessun motivo al mondo! E neppure voglio far soffrire te!»

«Sei un alieno, allora?»

Stava continuando a sondare le mie emozioni quasi senza accorgersene e sapeva, nel suo inconscio, di potersi continuare a fidare.

Ero io a non fidarmi di me stesso, oltre che della mia presunta intelligenza.

Era il caso di ammettere ogni cosa, ivi compreso il loro segreto?

A conti fatti, non mi restavano molte possibilità.

Levai perciò la manica della mia camicia per mostrarle la rihall e lei, curiosa, la sondò con lo sguardo.

«Non è un semplice tatuaggio. Io sono nato con questo simbolo sulla pelle. Come te.»

Faélán mi guardò stranita per un attimo, prima di irrigidirsi e correre con gli occhi alla sua voglia scolorita, color pesca.

Sollevò il polso per mettere a confronto i due simboli, e aggrottò la fronte, turbata e confusa. La somiglianza era innegabile.

«E' una voglia molto strana. Come la mia» mormorò lei, con voce esile, insicura.

«Si chiama rihall e, se me lo permettessi, potrei risvegliare anche la tua. Renderla uguale alla mia, per intenderci.»

A quel punto, Fay coprì il proprio polso con la mano, turbata dal mio dire.

Sospirai, reclinando il viso per un attimo.

Come potevo affrontare un simile argomento, e con una ragazzina di quattordici anni?

Fu lei a indicarmi la strada, però.

Levatasi in piedi, mi poggiò le mani sulle guance, risollevandomi il viso.

Sorridendo cauta, mi disse: «Hai salvato me e la mamma, e sento che non sei cattivo. O pericoloso. E' una cosa brutta da sapere, quella che stai cercando di non dirmi

«Non brutta. Strana» mi limitai a dirle, sorridendo a mezzo.

Lei allora rise sommessamente, tornando a sedersi e, con tono malinconico, mormorò: «A me piacciono le cose strane. Mi sono sempre piaciute. Le ho sempre viste.»

Mi rammaricai del suo tono così afflitto, soprattutto perché una ragazzina di quattordici anni non avrebbe mai dovuto sentirsi così.

Sei pazzo, Krilash, ma ormai è fatta, pensai poi tra me, aprendo il mio scrigno dei segreti per lei.

«Il mio vero nome è Krilash mac Lir e, prima che tu me lo chieda, sono davvero fratello di Ronan. Diciamo soltanto che lui è un po’ meno strano di me, ora.»

Le sue ciglia si mossero frenetiche sugli occhi spaventati, ma non scappò, non urlò, non fece l'atto di ridere di me.

Era attenta. E pronta. La sua mente stava gridandole di ascoltare, di assorbire quanto stavo per dirle.

Come se il suo stesso sangue anelasse a essere risvegliato, ricondotto a casa.

«Conosci le storie dei fomoriani e dei Tuatha de Danann?» mi informai a quel punto, scrutandola con intensità. «La storia di Oisín e Niamh, per esempio?»

A quell'ultimo nome lei si irrigidì e, fatto cenno di non muovermi, scese dallo scatolone per recuperare il suo album da disegno. Non usciva mai senza.

Quando tornò da me era pallida come un cencio, ma più determinata che mai.

Con mani tremanti, aprì l'album fino a raggiungere la pagina designata e lì, mostrandomi la sua opera, disse sommessamente: «L'ho disegnato io, immaginandolo da sola. Non ho guardato i dipinti che hanno fatto su di lui. Davvero. Ma so che è Oisín.»

«Ti credo» gracchiai, sconvolto di fronte a ciò che avevo innanzi.

Se anche non le avessi mai detto la verità, il suo sangue avrebbe parlato al posto mio.

Perché, quello che avevo dinanzi agli occhi, era il guerriero umano che Niamh aveva condotto nelle nostre terre immortali, sposandolo.

Era il guerriero che aveva generato un figlio e una figlia, Oscar e Plon, ed era infine tornato nelle sue terre dopo essersi ricoperto di gloria in battaglia.

Sia Oscar che Plon, una volta perso il padre, avevano scelto l'Irlanda e lì erano morti in vecchiaia, circondati da famiglie numerose e amorevoli.

Queste, poi, avevano portato avanti fino ai giorni nostri la discendenza di Oisín e Niamh, donando a Rachel e Fay il loro retaggio immortale.

«E' … è lui. E' esattamente come lo ricordo» mormorai roco, non rendendomi pienamente conto di ciò che stavo dicendo.

«Come... lo ricordi?» esalò a quel punto Fay, rabbrividendo.

La fissai spiacente, levando una mano per sfiorarle la guancia.

«Perdonami. Non avresti dovuto sapere nulla. Non volevo ribaltare a questo modo la tua vita, così come quella della mamma. Ma...»

Lei si strinse l'album al petto, mi guardò con occhi lucidi di lacrime e sussurrò: «Non trattarmi come una bambina. Mai

«Non voglio farlo. Ma ciò che sto per dirti, potrebbe sconvolgerti veramente la vita.»

A quel punto, Fay rise amaramente, fissandomi con i suoi strani occhi, fanciulleschi e antichi al tempo stesso.

«Ho un padre che mi picchiava, che picchiava la mamma, dei nonni che hanno tentato di rapirmi da lei, e solo perché ho il sangue di loro figlio. I genitori di mia madre se ne infischiano di noi, perché ci siamo rifiutate di sopportare le botte di mio padre, prima, e di spennare i nostri parenti, dopo.  Se non fosse stato per lo zio, non avremmo avuto un solo centesimo come risarcimento al dolore che ci hanno causato. Cosa può esserci peggio di questo?»

Si mosse nervosa attorno agli scatoloni e, fissandomi al limite del pianto, aggiunse: «Vedo cose che gli altri non vedono, sento cose che gli altri non sentono, sono continuamente vessata dai miei compagni di scuola perché sono diversa da loro. Pensi che potrei rimanere sconvolta? Beh, dovresti dirmi che sono la figlia del diavolo, per farlo. Forse.»

Ora so chi mi ricordavano i suoi occhi. Quelli di tutti noi, pensai sconvolto, avvolgendola nel mio abbraccio protettivo per proteggerla.

Da chi, o cosa, stavo tentando di proteggerla, non lo sapevo, ma desiderai far sparire quell'amarezza.

Lei ristette rigida per un istante tra le mie braccia, prima di rilassarsi e poggiare il capo contro la mia spalla.

«Fay, io non abito qui, provengo da un luogo chiamato Mag Mell, che si trova negli abissi del mare, a centinaia di miglia da qui.»

Nel sentirla spingere con le mani sul mio petto, tentando di allontanarsi, la strinsi a me con maggiore forza, mormorando: «Non sto mentendo, Fay. Non ti sto raccontando storielle. E' la verità, e tu puoi  percepirla senza sforzo, vero?»

«Come... come lo sai?»

Mi guardò con occhi spaventati, increduli, e io la baciai sulla fronte, protettivo.

«Perché è insito nel tuo sangue. La tua condizione di necessità ti ha resa più sensibile di altri, così hai potuto sviluppare questo dono, seppur inconsciamente, senza che nessuno ti parlasse di esso. Anche tua madre sa farlo.»

«Condizione di necessità?» ripeté, confusa e speranzosa insieme.

Voleva che le dessi quelle certezze che, fin da quando era nata, non le erano mai state date. E, a quel punto, avrei smosso mari e monti, per farlo.

La scostai da me per poterle carezzare il capo e, annuendo, le spiegai ogni cosa.

«I maltrattamenti di tuo padre, così come le vessazioni dei tuoi compagni, ti hanno fatta diventare più guardinga, più attenta, e così il tuo dono si è attivato per puro istinto di sopravvivenza. Per questo, sapevi che io non sarei mai stato un pericolo per voi. Mi hai riconosciuto subito, anche se non avevi idea di chi fossi in realtà. Ascolta il tuo sangue. Non percepisci una sorta di onda di risonanza?»

A quel punto le lacrime sgorgarono, ma compresi subito che erano di sollievo.

«Ho sempre saputo di essere... diversa. Cercavo di non farci caso, ma c'erano troppe cose, nella mia vita, che succedevano in modo diverso dagli altri. Quando ti vidi per la prima volta, fui felice. Non seppi spiegarmi il perché, ma la sensazione fu quella.»

Sorrise timida, e aggiunse: «Succede tutte le volte, e ogni volta è più forte. Quindi, è normale, per me?»

«Per un fomoriano, sì. Così come per i suoi... eredi.»

Le sollevai il polso dove potevo scorgere i contorni della sua rihall e, senza perdere tempo, ne sfiorai la superficie sericea, mormorando: «Sangue da sangue, io ti richiamo. Reclamo il tuo diritto di nascita, figlio dei mac Cumhaill.»

La guardai incoraggiante, aggiungendo: «Di' il tuo nome, Fay, se vuoi conoscere ogni cosa.»

Lei deglutì a fatica, ma annuì.

Con voce solo leggermente tremante, Fay snocciolò il suo nome completo, Faélán Elianor O'Rourke e, sotto i suoi occhi sgomenti, la rihall si animò.

I suoi contorni presero a colorarsi d'oro per poi imbrunire, divenire color del caramello e, infine, diventare neri e lucenti.

«Ora, sei di diritto l'erede dei mac Cumhaill e, se tu lo vorrai, potrai risiedere presso la tua casa negli abissi, e prendere la livrea del tuo casato.»

Glielo dissi come un dato di fatto, perché la verità era questa, e a Fay non volevo offrire niente di meno.

Troppe persone avevano tradito la sua fiducia, negli anni, e io non volevo essere l'ennesimo nella sua lista.

«Livrea?» esalò, guardandomi con occhi colmi di stelle.

Era affascinata da quella novità, galvanizzata suo malgrado ma, al tempo stesso, sembrava esserselo aspettato.

Come se, da tempo, il suo sangue le avesse detto di essere qualcosa di più di una semplice umana.

Le sorrisi, spiegandole di noi, della nostra possibilità di mutare in delfini, della capacità di respirare sott'acqua, dei palazzi di Mag Mell e dei Protettorati sparsi per il mare.

Presi dalle sue mani il blocco dei disegni e, con un sorriso, le spiegai che, ciò che aveva disegnato, non era altro che lo specchio della verità.

Il retaggio del suo sangue che cercava di parlarle fin da quando era bambina.

Le dissi delle nostre origini, di come giungemmo sulla Terra e delle guerre contro i Tuatha.

Fay mi ascoltò assorta, annuendo ogni tanto o ponendomi domande mirate su quello che più le interessava.

Rise, quando le dissi dei miei genitori piuttosto burberi, e si lasciò sfuggire un sospiro ansioso, venendo a sapere delle senturion.

Quando, poi, le dissi della mia discendenza, sgranò gli occhi ed esalò: «Ma allora... sei un principe! Un vero principe!»

«Non per gli umani. Davvero no» ironizzai, ridendo con lei con fare complice.

Fu lì che mi accorsi della presenza di Rachel e, quando incrociai il suo sguardo furente, seppi che aveva sentito tutto. Ogni cosa.

E non credeva a una sola parola di quel che avevo raccontato a Fay.

La figlia le sorrise allegra per un attimo, prima di accorgersi del suo nero cipiglio.

Io mi volsi a mezzo, contrito, e mormorai: «Rachel, senti...»

«Non prendere in giro mia figlia, raccontandole fandonie senza senso!» sbottò, avvicinandosi per trascinare accanto a sé Fay.

Vedendola così nervosa e agitata, la figlia si coprì prudentemente il polso per non creare ulteriori guai, e io gliene fui grato.

Vedere la rihall l'avrebbe fatta impazzire.

«Tutto quello che ho detto...» tentai di discolparmi, ma lei mi schiaffeggiò.

Se avevo mai pensato che fosse debole, dovetti ricredermi.

Quella sberla mi fece un male cane.

«Non c'è bisogno che sobilli a questo modo la sua fantasia! Passa già anche troppo tempo a fantasticare, senza bisogno che un adulto le dia man forte!»

«Mamma!» esclamò sconcertata Fay, fissandola dolente e irritata.

Lei non vi badò, troppo infervorata per comprendere quanto la stesse ferendo con le sue parole.

«Hai idea di cosa voglia dire sentirsi chiamare dai professori perché tua figlia ha la testa tra le nuvole, o disegna cose che non esistono, sostenendo di vederle?!» sbraitò a quel punto Rachel, gli occhi ridotti a due fessure piene di paura.

«Rachel, calmati. La stai spaventando» dissi atono, lanciando occhiate preoccupate all'indirizzo di Fay, che era ai limiti del pianto.

«Io sono sua madre!» sibilò a quel punto, spingendomi lontano e avvolgendo completamente la figlia con le braccia. «Tu non sei nessuno, per lei! Non venirmi a dire cosa devo, o non devo, fare con mia figlia!»

Faélán scoppiò in lacrime, a quel punto e Rachel, per diretta conseguenza, si chetò, cullandola contro di sé con calore e affetto.

Ma anche tanta paura a coronarle il capo.

«Non era mia intenzione turbarti a questo modo, ma ciò che ho detto – e che tu hai ascoltato solo in parte, credo – corrisponde alla verità. Puoi non credermi, ma il tuo sangue sa che non mento» mormorai con tono fermo, ma anche infinitamente stanco. «Ti lascerò in pace, se vorrai questo, ma ti prego solo di una cosa. Non dire a nessuno ciò che hai udito. Per il bene di tutti.»

«Krilash...» singhiozzò Fay, allungando una mano verso di me.

Scossi il capo, sorridendole mesto.

«Vai con la mamma, Fay. Ha bisogno di stare con te, ora. Di certo, non con me.»

Rachel mi lanciò un'occhiata venefica e, trascinando via con sé la figlia, sparì oltre la porta del magazzino, lasciandomi solo con i miei errori.








Note: Direi che, come dice lui stesso, per uno che voleva andarci coi piedi di piombo, è riuscito a fare l'esatto contrario. Ronan riuscirà a calmare le giuste - e comprensibili - ire di Rachel? E come se la caverà Krilash, se e quando riuscirà a parlare nuovamente con la donna che ha scoperto di volere per sè? Fay avrà un ruolo, nella diatriba tra la madre e Krilash, o pazienterà silente il decorso della tempesta?
A voi queste domande, che avranno giusta risposta la settimana prossima.
Se, però, volete sbizzarrirvi con le ipotesi, io vi dirò quanto ci siete andate vicino. Buon week-end!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9.
 
 
 
 
Lo sguardo di Rohnyn fu inequivocabile.

Mi stava dando del pazzo furioso pur senza dirlo apertamente; era lampante.

Non che io non mi stessi dando dell'imbecille da solo, ma quello era scontato.

D'altra parte, cosa avrei dovuto fare, di fronte alle domande di Fay?

Aveva visto la mia mano brillare come una lampadina, e niente di umano poteva spiegare un simile evento.

Come dirle, senza neppure mezza spiegazione al riguardo, che era un retaggio del nostro progenitore Freyr1, figlio del sole e del mare?

Non mi avrebbe mai creduto e, anche avendo saputo tutto sulla mia identità, sarebbe potuto apparire comunque assurdo.

Mi avrebbe dato del pazzo, e avrebbe messo nei guai sia me che mio fratello.

Osservai Rohnyn passeggiare nervoso avanti e indietro, le mani tra le onde castano-ramate – che ora portava similmente a Stheta – e, per un attimo, volli morire.

Non avevo avuto intenzione di ferire nessuno, invece avevo scioccato Rachel, messo nei guai Fay e fatto infuriare mio fratello.

Come se, con la moglie incinta e in ansia per il nascituro, non avesse già abbastanza grattacapi per la testa.

«Senti, Rohnyn...»

Lui mi fissò malissimo, azzittendomi con una sola occhiata, e riuscendo così a cucirmi la bocca.

«Perché non ti sei trovato semplicemente una donna da sbatterti, invece di andare a incasinare la vita di una madre e di sua figlia, che di certo non ne avevano bisogno?»

Mi accigliai immediatamente.

«Non mi sono avvicinato a Rachel per sbattermela, come hai così graziosamente detto tu! E non sono diventato amico di Fay per arrivare alla madre!»

Mio fratello mi fissò scettico, dandomi sui nervi.

«Insomma, sulle prime, Rachel mi ha colpito per la sua bellezza, ma poi...»

Mi bloccai, interrompendo la mia difesa, e sospirai.

Ma poi, cosa? Cos'era successo?

Semplicemente, mi ero innamorato di lei.

Guardarla mentre lavorava alacremente per mantenersi, e dare una buona istruzione alla figlia, era corroborante.

Osservarla mentre si occupava amorevolmente di Fay, era rilassante.

Sorridere con lei nel vederla in imbarazzo per il mio interessamento, era poesia pura.

Mi ero sempre avvicinato a donne che, come me, cercavano un momento di pace, un istante di puro piacere nel mezzo di una vita fatta di incubi.

Ma nessuna delle due parti aveva mai preteso niente più di questo.

I fomoriani erano molto liberali, dal punto di vista del sesso, altra caratteristica che avevamo mantenuto dai nostri antenati divini.

Purché esso fosse mantenuto al riparo da sguardi indiscreti e, soprattutto, senza violare il sacro vincolo del matrimonio, ci era consentito praticamente tutto.

Amavamo entrambi i doni che Freya e Freyr ci avevano elargito.

Essi avevano scelto i progenitori mortali della nostra razza, per accoppiarsi e popolare Vanaheimr.

Così facendo, ci avevano reso la razza più forte e longeva di quel pianeta, ora ormai morto e freddo, di cui rimanevano solo i ricordi dei più anziani tra noi.

Sesso e guerra. Due pulsioni di uguale violenza e altrettanta bellezza, per i nostri occhi millenari, e in entrambi i casi avevamo sempre eccelso.

Ma tutto questo non contava nulla, ora che avevo conosciuto Rachel.

Né il piacere in battaglia – ormai perso da millenni – né tantomeno quello provato tra le coltri soffici di un letto.

Rachel rifuggiva dal mio solito schema, era l’incognita impazzita che destabilizzava un equilibrio di secoli raggiunto a fatica.

Oltre a essere stata sposata, aveva avuto una figlia, e si era impegnata anima e corpo per crescerla, nonostante le avversità trovate lungo il cammino.

Aveva sviluppato una scorza dura per difendersi dal mondo, eppure possedeva una dolcezza tutta sua, che esprimeva solo con la figlia.

E, per un attimo, avevo potuto assaporarla anch'io.

Quando mi aveva sfiorato il viso, guardandomi con occhi diversi, occhi che sapevano di desiderio timido, quasi dubbioso, mi ero sentito speciale, veramente desiderato.

Quegli occhi mi avevano guardato come, da anni, non avevano più guardato nessuno, e questo aveva scaldato il mio cuore.

Ma io avevo rovinato tutto e, soprattutto, avevo spezzato quella fragile sicurezza che avevo creato attorno a lei con la mia presenza.

Mi passai le mani sul viso, sfregando i polpastrelli sulla pelle punteggiata di barba – succedeva sempre, quando passavo più di qualche giorno sulla terraferma – e sospirai.

«Non volevo ferirle... o metterle l'una contro l'altra...»

Rohnyn si fermò dinanzi a me e, dopo essersi accucciato, mi diede una pacca su un ginocchio, consolatorio.

«Non è solo una sbandata per una bella donna, eh?»

Scossi il capo, e mi lasciai sfuggire una risatina isterica.

«Rohnyn... le conosco da un mese o poco più, eppure... fa sempre così male?»

«Innamorarsi? Eccome!» ironizzò, ammiccando. «La faccenda, però, è un’altra. Sei sicuro?»

«La parvhein si è manifestata. Per questo, ho dovuto raccontare ogni cosa a Fay. L'ha vista» sospirai, sorprendendolo non poco. «Ma non mi sarebbe comunque importato, se anche non si fosse resa nota. Rachel è speciale, non solo perché è fomoriana.»

«Parlamene» mi incoraggiò a quel punto, sorridendomi comprensivo.

Gli spiegai di come l'avessi conosciuta, di cosa avessi provato la prima volta, di come la sua grazia sottile e il suo essere così semplice, mi avessero incuriosito.

Ma era stato vederla assieme alla figlia, ad avermi colpito. E avvicinato a entrambe.

«Se anche non è forte fisicamente come Ciara o Lithar, lo è di carattere. Poche donne avrebbero potuto uscire indenni da ciò che lei ha passato. Ha grande coraggio, e un amore sconfinato per sua figlia.»

«Non ti facevo così profondo, fratello» ironizzò Rohnyn, rialzandosi dallo sgabello dove si era accomodato per ascoltare la mia storia.

Io lo seguii con lo sguardo, ammiccando, e sospirai.

«Consolati, non mi ci facevo neppure io. Sai bene quanto abbia sempre rifuggito la paternità, o il solo pensiero di mettere incinta una donna. Mi sono sempre preso il mio piacere, e penso di averne elargito molto, ma è sempre stato solo questo. Piacere puro e semplice. Mancava il sentimento. Eppure, guardando Rachel e Fay... provo tutt'altro.»

«E ora ti senti da schifo perché hai ferito la donna che ti interessa, e hai messo la figlia in una scomoda situazione di stallo, vero?»

«Già. E non so come fare per risolvere la situazione.»

«Vai alla nostra casa sul mare. Non è ancora finita, ma un paio di camere sono a posto, e potrai passare un po' di tempo per i fatti tuoi, a pensare sul da farsi. Io, nel frattempo, vedrò di parlare con Rachel. Di farla ragionare.»

Mi sorrise, dandomi una pacca sulla spalla.

«Grazie, fratello» mormorai, annuendo.

Lui scrollò le spalle, noncurante, e aggiunse: «Ho idea di doverti ben più di questo.»

Lo guardai dubbioso, non comprendendo le sue parole e Rohnyn, tornando serio, asserì: «Non può essere un caso se, di punto in bianco, Sheridan ha smesso di domandarmi del mio passato.»

Rise divertito alle sue stesse parole, proseguendo nel dirmi: «Dopo una delle tue visite, si è azzittita di colpo e non mi ha più posto domande. E Sheridan non è una che molla l’osso facilmente.»

Rammentai a quel punto le domande di mia cognata, la sua promessa di non domandare più nulla al marito e, sorridendo contrito a Rohnyn, asserii: «Non volevo ficcare il naso nei tuoi affari, fratello, ma Sheridan desiderava davvero conoscere il tuo passato, così ho pensato di accontentarla. Non c’è nulla che non le darei, pur di farla felice.»

«E per te è stato più facile dirle… beh, parlarle di quegli anni» borbottò, passandosi una mano tra le onde castano ramate.

Il dolore gli pesava ancora, ed era come ghiaccio sulla pelle, per me.

«Tethra ha sempre sbagliato, Rohnyn. E io, Stheta e Lithar ti amiamo. Questo lo sai, vero?»

Annuì con vigore, sicuro di quel gesto, e io mi sentii meglio.

Gli diedi una pacca sulla spalla, e aggiunsi: «Non lasciarti condizionare dalle idee di un folle. Cormac ti vuole bene come se fossi suo figlio, e tu ne vuoi a lui. Questa è la tua vera famiglia. Nonna Niamh, Nonno Killian, tua suocera Eileen, Cormac, Fynn e Donna, i loro bambini, Todd e Lynn, coi loro splendidi gemelli, Eithe e Díomán, il branco… i tuoi fratelli. Non hai bisogno dell’approvazione di Tethra e Muath.»

«Hai ragione, fratellone.»

Lo scampanellio leggero della porta del negozio interruppe il nostro dialogo e, scusandosi con me, Ronan si allontanò per uscire dal magazzino.

A quel punto, non mi rimase altro che andarmene e, con calma, pensare a un modo per sistemare tutto.

Mio fratello sarebbe stato bene e, prima o poi, il peso del disprezzo di Tethra sarebbe scemato fino a scomparire.

Non aveva bisogno di lui, non più.

 
***
 
La brezza soffiava leggera mentre, nel cielo, gonfie nuvole di pioggia si intervallavano a sprazzi di cielo limpido.

Era stato così per tutto il pomeriggio, e il mattino seguente l'incidente con Rachel.

Me n'ero stato lì, sdraiato sul pavimento della camera che sarebbe stata di mio nipote, a osservare l'evolversi del tempo attraverso la finestra.

Era piovuto, si era rasserenato e, durante la notte, era tornato a piovere.

Avevo scrutato le stelle fare capolino tra le nubi scure, dato il buongiorno al nuovo sole e, ancora, non mi ero mosso.

Perché la mia mente non era riuscita a partorire niente di importante, o di fattibile, per ricucire lo strappo con Rachel.

Si era limitata a girovagare tra i ricordi, soffermandosi su alcuni particolari del suo volto, o delle sue mani.

Non avevo idea di che ore fossero, ma né la fame né il sonno mi avrebbero smosso da lì.

Potevo resistere per giorni, vegetare senza problemi privandomi di cibo e acqua.

Fu lo scalpiccio di un paio di piedi sulle scale d'ingresso, a smuovermi.

E un dolce profumo di ibisco che conoscevo molto bene.

In fretta, balzai in piedi e, affacciatomi sul corridoio, vidi spuntare Rachel.

Sobbalzò, nel vedermi, e rise imbarazzata.

Io abbozzai un sorriso, ma rimasi fermo dov'ero. Non volevo spaventarla.

Quel giorno, indossava jeans schiariti, dei sandali blu allacciati alla caviglia e una camiciola di lino ricamata con fantasie indiane.

I capelli erano sciolti sulle spalle, morbide onde ramate che le sfioravano la schiena diritta.

«Ronan mi ha detto che ti avrei trovato qui. Mi ha dato le chiavi.»

Lo disse con aria disinvolta, facendo dondolare un mazzo di chiavi tintinnanti, ma notai subito le sue mani tremanti.

La sua mente era un groviglio di pensieri, e mi spiacque ancora una volta di averla messa in una situazione simile.

«Hai parlato con lui? Di tutto

Annuì, torva in volto, e si avvicinò di qualche passo.

Si guardò intorno, sfiorando con una mano le pareti in stucco veneziano color pesca.

«Verranno qui non appena sarà finita. L'appartamento di Sheridan è troppo piccolo per potervi far crescere un figlio. E a entrambi piace vedere il mare» le spiegai, appoggiandomi allo stipite della porta accanto a me.

Lei si volse a scrutarmi, lanciò un'occhiata dubbiosa alla mia rihall, evidente sull'avambraccio libero dalla manica della camicia, e sospirò.

«E' tutto vero?»

Non mi chiese altro, ma bastò il suo tono di voce a farmi crollare.

Mi lasciai scivolare lungo lo stipite e, ginocchia contro il petto, mi coprii il viso con le mani.

Scossi il capo, turbato alla sola idea di averla spaventata, e mormorai: «Non avrei voluto, davvero. Ero deciso a non dirvi nulla, ma...»

I suoi passi veloci mi raggiunsero e le sue mani, inaspettatamente forti, afferrarono le mie.

Mi sollevò il viso per guardarmi e, notando la mia sincera contrizione, sorrise appena.

«E' la prima volta che vedo un uomo crollare a questo modo, e solo perché mi ha turbata. In qualche modo, è gratificante. Ma mi spaventa anche un po'.»

Lo disse con onestà, e io le sorrisi sghembo.

«Non volevo metterti in questa situazione assurda, ma Fay aveva visto una cosa che non avrei potuto spiegare in nessun altro modo, se non con la verità. E già troppi uomini vi hanno mentito, in questi anni, perché io mi mettessi in coda a loro.»

Quell'appunto la fece adombrare e, sedendosi di fronte a me a gambe incrociate, annuì.

«La verità è sempre la cosa migliore. Anche se, stavolta, accettarla è stato tremendo.»

«Hai litigato con Fay?» chiesi, timoroso.

Rachel allora scosse il capo, imbarazzata, e negò l'evento.

«Mi ha fatto una lavata di testa, piuttosto. Quando siamo arrivate a casa, me ne ha dette di tutti i colori. Mi ha mostrato la voglia...» e, nel dirlo, indicò la mia. «... e, quando ho visto che era completamente nera, sono quasi impazzita. Assurdamente, pensavo che gliel'avessi tatuata tu!»

Abbozzai una risatina.

«Mi ha parlato del vostro,… del nostro... dono. Della capacità di comprendere subito la buona volontà, o meno, delle persone, e questo mi ha meravigliata. Non avevo mai neppure sospettato che anche Fay ne fosse in grado. Non me ne aveva mai parlato.»

«Ma tu sapevi di esserne capace» le feci notare, vedendola annuire contrita.

«L'ho sempre saputo. Ma, per paura, non l'ho mai accennato a nessuno. Pensavo di essere un fenomeno da baraccone... e ho accusato mia figlia di esserlo...»

Sospirò, scuotendo il capo, e io rammentai il momento in cui, nel magazzino dell'Admiral's Arms, ci eravamo scontrati verbalmente.

Era stato un momento orribile.

«Sono sicuro che non se l'è presa» cercai di consolarla, dandole una pacca sul ginocchio. «Eri solo spaventata. Per te, e per lei.»

«Per la verità, lei era infuriata con me perché avevo ferito te» sottolineò, uscendosene con un sorrisetto sgangherato.

Feci tanto d'occhi, confuso, e il sorriso dolce di Rachel tornò a comparire. Con la sua immancabile fossetta.

«Sapeva, come sapevo io, che non avevi mentito, eppure mi sono rivoltata contro di te, come contro di lei, neanche fossi stata un puma in gabbia.»

Lo disse con estrema contrizione, e mi venne un groppo in gola.

«Non volevo credere a ciò che la mia mente mi diceva, così ti ho aggredito. Inoltre, vedere mia figlia tra le tue braccia, così fiduciosa e tranquilla, mi ha...»

Rise, passandosi una mano tra la folta chioma e ammise: «Ero gelosa.»

«Gelosa? Di me?» gracchiai, trovandolo assurdo.

«Per tantissimo tempo, ci siamo sempre state solo io e lei. E poi, di punto in bianco, arrivi tu, con la tua bella faccia e i tuoi modi eleganti, e scompagini tutto.»

Il suo tono ironico mi permise di non morire d'infarto per lo sgomento.

«Eri carino con Fay e galante con me, senza mai per questo essere assillante o esasperante. E quando sei intervenuto per salvarci, io...»

«Non pensare a questo. Non farlo. Se sei qui per ringraziarmi, l'hai già fatto. E la gratitudine non mi interessa» intervenni, prevenendo qualsiasi sua parola.

Non avrei mai accettato che lei si avvicinasse a me per quel motivo.

«Non intendevo dire questo, Kris... Krilash» si corresse, fissandomi con aria accigliata. «Volevo solo dire che, quando sei stato lì con noi, senza neanche tentare minimamente un approccio, limitandoti a proteggerci, ho capito che quello che avvertivo per te non era semplice... attrazione. E che potevo arrischiarmi a… ad aprirmi a te. A farti avvicinare a me, a lei.»

Fui io, a quel punto, ad aggrottare la fronte.

Gesticolò con le mani, dandomi l'idea di quanto fosse nervosa, ma la lasciai dire. Era vitale che mi dicesse perché si trovava lì, quel giorno.

«Sia Fay che Ronan mi hanno detto che... che i fomoriani vivono migliaia di anni, quindi do per scontato che tu abbia conosciuto un sacco di donne...» iniziò col dire lei, ridendo nervosamente. «... ma, stando a quello che mi ha detto tuo fratello, non ti sei mai comportato così.»

«Quel chiacchierone» brontolai, ghignando.

Rachel arrossì e, timida, allungò una mano per sfiorare la mia rihall.

Come per Fay, anche lei non avvertì nulla, al tocco.

«Sembra un semplice tatuaggio. E' così strano pensare che non lo sia. Lo avete tutti?»

«Ogni fomoriano ne ha uno. In caso di morte in guerra, è più facile sapere a chi mandare i cadaveri» mormorai senza pensarci, e lei trasalì.

Mi diedi dell'idiota per aver detto proprio quello e, sbuffando, aggiunsi: «Non so quanto sai delle leggende sui fomoíre, i fomoriani, ma alcune cose si discostano molto dalla realtà. Altre, molto meno.»

Lei annuì, fissandomi con occhi enormi e timorosi.

«I fomoriani sono da sempre un popolo guerriero, da ben prima di giungere qui da... beh...»

Storsi il naso, bloccandomi a metà della frase, e le domandai: «Quanto ti ha detto Fay?»

«Ogni cosa. Mi sono pure andata a rileggere le sue favole della buonanotte, per vedere se avevo compreso bene quello che mi aveva detto» sospirò, scuotendo il capo incredula. «Ma, naturalmente, alcune cose proprio non c’erano!»

In che diavolo di situazione l'avevo messa!

«Scusami, Rachel. Il mio primo intento era proprio quello di evitarti una simile confusione in testa.»

«Allora, Krilash, sei stato una frana» mi fece notare, accennando un sorrisino.

«Verissimo. Mi sono comportato da autentico imbranato. Quindi, dando per scontato che sai da dove veniamo, ti dirò soltanto che fummo noi a insegnare agli spartani le regole dell'agōgē. Questo, per farti capire come siamo cresciuti a Mag Mell, il luogo da cui provengo.»

«Le tue ferite, allora...» esalò, spiacente.

«In parte, retaggio di quel lungo addestramento. In parte, gentile dono delle guerre contro i Tuatha, che perdurarono per quasi duemila anni. Resistemmo anni senza dichiararci guerra, ma alla fine successe. Noi fomoriani siamo un po'...»

«Guerrafondai?» ipotizzò lei, scrollando le spalle.

«Siamo addestrati per questo.»

«Parli sempre di addestramento... ma non vivete che per questo?» si informò, dubbiosa.

Parlarle delle senturion sarebbe stato giusto? O l'avrebbe fatta preoccupare inutilmente?

«La verità, Krilash» mi ricordò lei, forse percependo la mia indecisione.

Ora che sapeva di poterlo fare, stava utilizzando al meglio il suo potere.

Annuii, e dissi: «I bambini vengono cresciuti lontano dalla famiglia, perché i genitori non vengano mossi a pietà nei confronti dei propri pargoli. Questi campi in cui veniamo istruiti si chiamano senturion, e si rimane lì per circa una ventina d'anni. Ma se consideri che, la  vita media di un fomoriano, si aggira intorno ai quindicimila anni, non è molto.»

La cosa non la rassicurò per nulla. I suoi occhi continuarono a rimanere sbarrati, increduli e sconcertati.

«E voi? Quanto siete rimasti, voi? Tu, tuo fratello, tua sorella?»

«Siamo in quattro. Non hai ancora conosciuto il maggiore tra noi. Stheta. Comunque, restammo cento anni. Pur essendo nati in momenti diversi, i nostri genitori attesero che l’ultimo di noi fosse pronto per entrarvi, e ci inviarono assieme nei campi di addestramento. Tra me e i miei fratelli, ci sono poco più di cento anni di differenza, più o meno, tenendo conto di tutti noi messi assieme. Bazzecole, in termini di tempo relativo.»

«Oddio!» esalò, coprendosi il viso con le mani, sconvolta.

Un attimo dopo, le scostò per fissarmi e, rabbiosa, esclamò: «Ma come hanno potuto farvi questo?!»

Le sorrisi, grato per il suo interessamento, e ammirato dalla sua tenacia e dal suo spirito di adattamento.

Poche persone, avrebbero affrontato quelle sconcertanti verità con così tanto coraggio.

Ma, come nel caso di Fay, era il suo stesso sangue a dirle di credere, di ascoltare con avidità le mie parole.

«E' la nostra cultura, Rachel. Ma Stheta è intenzionato a cambiare un po' le cose, quando assurgerà al trono.»

Quel particolare la fece sobbalzare e, con un lungo sospiro, borbottò: «Oh, già... la faccenda del principe. E' vero anche questo, eh?»

Risi sommessamente, di fronte alla sua aria scocciata.

«Di tutto quello che ti ho detto, ti angoscia solo l'idea che io sia un principe?»

«No, beh... insomma...» brontolò lei, prima di sbuffare e ammettere: «Sì, mi da un po' noia.»

A quel punto, non ce la feci più.

Scoppiai a ridere di gusto e, afferrate le sue mani, me le portai alle labbra per baciarne i dorsi.

«Oh, dio, Rachel! Sei davvero unica!»

Lei mi fissò malissimo ma, alla fine, si unì alla risata.

Passò parecchio tempo prima di riuscire a tornare alla normalità ma, alla fine, entrambi smettemmo di ridere.

Fuori, il tempo si era finalmente messo al bello, e un fresco profumo di fiori di campo penetrava dalla finestra lasciata aperta.

«Facciamo una passeggiata sulla spiaggia?» le proposi a quel punto, e lei annuì.

Mi levai in piedi e, dopo un attimo, le allungai una mano per aiutarla.

Rachel la accettò e, assieme, discendemmo le scale per uscire.

Forse, non avevo bruciato tutto con la mia idiozia.

 
***

La brezza si era rafforzata, schiaffeggiando i capelli di Rachel, che svolazzavano liberi e fieri nell'aria salmastra.

Una fomoriana non li avrebbe mai portati così, in pubblico, ma era anche questo a piacermi, della terraferma.

Meno restrizioni assurde, meno costrizioni sul modo di comportarsi, di vivere la vita, di rapportarsi agli altri.

I piedi nudi infilati nella sabbia fredda e umida, camminavamo tranquilli, tenendo le scarpe in una mano e l'altra allacciata tra noi.

Era stata Rachel a volere così, e io mi ero ben guardato dal rifiutare.

Il contatto umano, puro e semplice, era sempre stato relegato nelle camere da letto, e mal visto in pubblico.

Ma, grazie a Stheta e al suo cambio di visione, anche i fomoriani avrebbero appreso l'arte dello stare bene con se stessi.

Perché, in fondo, il problema era solo questo.

Tutti noi reprimevamo noi stessi, per conformarci a uno stile di vita severo e marziale.

La dolcezza, la gentilezza e l'affetto espresso in modo evidente, erano visti come limiti, come debolezze.

Potevano essere espressi solo con la propria moglie – o compagna di una notte – nell’oscurità di un’alcova, dove era lecito e gradito.

Potevano essere messi in luce all’ombra delle mura delle proprie abitazioni, lontani da sguardi pronti a giudicare.

Potevano essere mostrati solo in rare occasioni con i figli e le figlie, e sempre e solo ben lontani da sguardi curiosi.

E tutto perché l’amore e l’affetto, così come ogni altra emozione troppo veemente, veniva vista come una pecca nel mondo marziale in cui vivevamo.

Qualcosa si era perso, nei millenni; la gaia beltà del sorriso di Freya era stata divorata dal suo lato più oscuro, dalla sua sete di guerra e sangue.

Sia Stheta che Rohnyn avevano ampiamente dimostrato quanto, invece, rendesse forti e quanto, quel sorriso, potesse tornare a brillare senza danneggiare la nostra forza.

Anch'io cominciavo a comprendere quanto potesse rendere coraggiosi l'amore, e quanto forti rendesse, ammetterlo ad alta voce.

Sorrisi, quando Rachel iniziò a giocherellare con le mie dita ruvide.

Sollevai entrambe le nostre mani per vedere meglio e lei, con un risolino, mi chiese: «Cosa c'è? Ti da fastidio?»

«No, è piacevole. Ma non ho mai tenuto per mano una donna, perciò comprenderai la mia curiosità.»

Lei si bloccò a metà di un passo, alle mie parole, e scoppiò a ridere di gusto.

Io mi limitai a guardarla, ammirando la sua bellezza e il suono celestiale della sua voce.

Tergendosi una lacrima di ilarità, mi domandò: «Ma davvero non hai mai tenuto per mano una donna? E come fate per... beh, per frequentarvi? Per uscire assieme?»

Mi lappai le labbra, pensieroso e, insieme, riprendemmo a camminare.

«Volendo essere del tutto onesti, non 'usciamo insieme' come lo intendete voi. Ci si incontra nei circoli, si parla, ci si allena assieme. Non esistono bar, o gelaterie, o cose simili, a Mag Mell.»

Rachel storse il naso, replicando: «E' una noia mortale.»

Risi, annuendo.

«E ti chiedi perché sia un divoratore seriale di gelato? Pensa di passare più di quattromila anni della tua vita in un posto simile!» risi nel dirlo, ma non potei fare a meno di rabbrividire per un istante.

Erano ben altri i motivi che mi avevano spinto sulla terraferma.

Rachel parve intendere qualcosa, ma si limitò a sorridermi, lasciando che il dubbio rimanesse insoluto.

Per contro, mi domandò confusa: «Come fai, allora, ad approcciare una donna? Con una spada in mano?»

Mi sentii profondamente stupido, in quel momento.

Ma era chiaro quanto, il mondo dei fomoriani e quello degli umani, fossero diversi.

Per noi, era normale parlare di guerra anche con una donna, o del modo migliore per affilare una lama.

Ci si poteva perdere anche per giorni interi in discorsi simili e, molte volte, si finiva anche a letto insieme, se l'alchimia era buona.

Altri, parlavano di filosofia e storia, altri ancora di magia e letteratura, ma la faccenda rimaneva. Eravamo un popolo maledettamente serioso.

E glielo dissi.

Lei rimase basita e, dubbiosa, mi chiese: «Quindi... se ti chiedessi di declamarmi la Divina Commedia in lingua originale, tu lo faresti?»

Scrollai le spalle, annuendo.

«Quasi ogni fomoriano conosce praticamente tutta la letteratura umana, oltre che quella fomoriana. Abbiamo migliaia di anni per studiare, e ci piace tenerci aggiornati. Io, personalmente, vengo additato come una persona svogliata, da questo punto di vista. Ronan è molto più erudito di me, posso assicurartelo.»

Risi, nel dirlo, ma Rachel non credé alle mie parole neppure per un istante.

«Perciò... siete un popolo che investe molto sulla cultura e l’addestramento fisico e mentale, tenendo in minore considerazione l'aspetto ludico ed emozionale delle cose» ipotizzò a quel punto, guardandomi con occhi indagatori.

«Se la vuoi vedere così, sì. Non scegliamo compagni necessariamente belli, per esempio. Anzi, per la verità, la bellezza viene quasi vista come un difetto, perché tende a distrarre dal reale valore di una persona. Ecco perché le donne portano i capelli sempre legati. Non solo perché, in battaglia, sono un impedimento. Non vogliono essere avvicinate solo per la loro avvenenza.»

Rachel si portò immediatamente le mani alle chiome ribelli, e io risi.

«Non è vietato, Rachel, e le donne sposate non vi badano minimamente. Loro hanno già un uomo, perciò non devono più pensare a cose simili.»

«Già... come se fosse garanzia di...» iniziò col dire lei, sprezzante, prima di notare il  mio sguardo adamantino.

Sbatté le palpebre, confusa, prima di esalare: «Conta così tanto

«Per un fomoriano, il matrimonio è sacro» asserii, lapidario.

«Wow...» esalò, ancora sconcertata.

Le sorrisi, preferendo non dire altro per non causare ulteriore confusione.

«Quindi, se ho capito bene, non esprimete liberamente ciò che pensate, ma ponderate sempre le parole, le azioni e i gesti» mormorò a quel punto lei, vedendomi annuire. «La passione, la lasciate per l’alcova.»

«E per la guerra. Non dimenticare la duplice natura di Freya e Freyr. Oltre a essere amanti appassionati, erano anche dediti alla guerra» le feci rammentare, accennando un sorrisino.

Lei rise sommessamente, annuendo. «Faccio ancora fatica a venire a patti con quella parte della storia. E dire che non è neppure la più strana! Ma… dèi di altri pianeti? Sembra tutto così folle! E dici che io… io e Fay abbiamo a nostra volta il loro sangue?»

Assentii, ben comprendendo quanto si sentisse spaesata e confusa. Le mie prime volte sulla terraferma, mi avevano lasciato pieno di dubbi e confusione.

«Solo perché sei abituata a pensare a un dio puramente spirituale. Noi, invece, abbiamo avuto modo di testare sulla pelle la loro fisicità. Se non io personalmente, ma i miei antenati poterono.»

Non ritenni necessario dirle di Fenrir, poiché mi sembrava ancora troppo presto parlare delle altre creature mistiche presenti sulla Terra.

Per ora, bastavamo noi.

Lei si fermò per scrutare l’orizzonte, le nubi che danzavano arricciandosi, ripiegandosi su loro stesse, assumendo sempre forme nuove.

Anche lei era così. Stava assumendo una nuova identità, una nuova realtà, una forma più completa.

Si volse a fissarmi e, a quel punto, le domandai: «Vuoi... vuoi che richiami anche la tua rihall

Lei seguì il mio sguardo, che era scivolato verso il basso, osservò la caviglia – aveva sollevato l'orlo dei jeans per camminare vicino all'acqua – e, alla fine, annuì.

«E' ciò che sono, dopotutto. Non devo averne paura.»

«Il risveglio non ti porterà alcun cambiamento. Saprai solo di essere anche qualcos'altro, oltre che una donna bellissima e intelligente» le sorrisi, piegandomi su un ginocchio.

Rachel fece lo stesso e, ammirata, seguì il percorso delle mie dita, lappandosi le labbra distrattamente.

Quel gesto mi fece desiderare di baciarla ancora, ma era troppo presto. Troppe cose dovevano ancora essere dette.

Ripetei ciò che avevo già detto a Fay e, quando le chiesi di dire il suo nome, Rachel assentì.

«Sono Rachel Bryoni O'Rourke, fomoriana di Mag Mell.»
 






Note:

1. Freyr: dio della fertilità dei Vani. Amante della sorella Freya, dea della fertilità, della guerra e della magia.
Possiede una collana di nome Brisingamen, forgiata dai nani di Svartalfheimr, che le dona il potere di governare sulle menti. E’ a questo che si deve il potere mentale dei miei fomoriani.
Freyr è figlio del dio del mare, da qui il legame con l’acqua e con i ‘miei’ fomoriani. E’ inoltre dio legato al sole, e questo legame con la luce viene messo in evidenza con la parvhein. Essendo anche dio della fertilità, la parvhein è simbolo di questo suo retaggio.

Direi che, a questo punto, ho spiegato più o meno tutto, sui misteri mistici legati ai fomoriani. Se, comunque, vi fosse rimasto qualche dubbio, sarò ben lieta di rispondere alle vostre domande.
Per ora, vi ringrazio di avermi seguita fino a qui e mi auguro vorrete proseguire con me in quest'avventura! A presto!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 
10.
 
 
 
 
 
Non sapevo esattamente perché, ma mi sentivo tremendamente a disagio.

Erano millenni che indossavo i miei abiti, eppure, quel giorno ero nervosissimo all'idea che qualcuno potesse vedermi in quelle vesti.

Il punto, alla fine dell'opera, era uno e uno solo.

Ero agitato perché, a vedermi, sarebbero state Rachel e Fay.

Dopo l'iniziale shock, Rachel si era dimostrata molto aperta di idee e sì, curiosa non meno della figlia di conoscere le nostre comuni origini.

La richiesta di vedermi nei miei abiti consueti, era giunta alla fine di un lungo mese di incessanti domande, passeggiate per i parchi, lungo la spiaggia o a cena, dinanzi a piatti sempre diversi.

Era stato il mese più strano, e incredibile, di tutta la mia lunga vita.

Mi aveva permesso di vivere esperienze sempre diverse e piacevoli, e tutte assieme alla donna che amavo.

Lei aveva potuto conoscermi meglio e, anche se non le avevo più chiesto nulla in merito, mi era parso che anche lei si fosse affezionata a me.

Questo, per lo meno, era quello che speravo.

Non avevo mai voluto sbirciare per sincerarmene.

Il risultato di tale cortesia era che me ne stavo lì in piedi, in quello che sarebbe diventato il salone della casa di Rohnyn e Sheridan, e non sapevo che fare.

Passai nervosamente le mani sul gonnello, fregiato a fantasie geometriche sull'orlo, e mi guardai gli alti calzari di pelle, chiedendomi se li avrebbero trovati ridicoli.

Le cinghie che si incrociavano sul petto – e sorreggevano la mia spada ricurva – erano di un bel cuoio lucido e morbido, su cui erano stati impressi a fuoco lo stemma di famiglia e della Corona di Mag Mell.

Mi volsi a mezzo, controllando il mio mantello, la mia seconda pelle, e la trovai bella e traslucida come sempre.

Ma sarebbe piaciuta a entrambe?

L'arrivo di un'auto nel cortile antistante l'abitazione, mi fece sobbalzare.

Sempre più nervoso, rimasi impettito nel mezzo del salone, osservando a momenti alterni il camino in sasso e la porta della stanza in cui mi trovavo.

Lo scalpiccio di alcuni piedi mi fece tremare.

Calmati, e cerca di non svenire, mi dissi con convinzione.

E tremando ugualmente per l'ansia.

La prima a entrare fu Faélán che, bloccandosi a metà di un passo, lanciò uno strillo eccitato prima di gettarsi addosso a me per abbracciarmi.

Io la sorressi senza problemi e, sorridendo, mi lasciai avvolgere dal suo dolce profumo di ibisco e agrumi che, avevo scoperto, proveniva dallo shampoo che usava per i capelli.

Quando, però, levai lo sguardo per incrociare gli occhi della seconda donna presente in casa, il mio cuore perse un battito.

Rachel sembrava a dir poco stregata, e mi stava osservando come se mi vedesse per la prima volta.

E approvasse pienamente ciò che vedeva.

Mi sentii subito meglio e, nel tornare a guardare Fay, la scostai da me e dissi: “Pare che i miei abiti piacciano a entrambe voi.»

Fay, allora, si volse verso la madre, sghignazzò spudoratamente e, maliziosa, sentenziò: «Dovrebbe essere cieca, per non notare che sei bellissimo, così.»

«Fay!» esclamò allora Rachel, avvampando in viso.

Io risi, rilassandomi completamente e, lanciando un sorriso a Rachel, ammisi: «Ero piuttosto nervoso, in effetti, ma ora mi sento meglio.»

Finalmente avvicinandosi a me e Fay, Rachel mi guardò dubbiosa, domandandomi: «Perché eri nervoso?»

«Non sapevo quale sarebbe stata la vostra reazione. Dopotutto, non sono abiti che si vedono spesso, sulla terraferma.»

«Sembri tanto Brad Pitt in Troy» sostenne Fay, con occhi sognanti.

Ridacchiai, nel sentire quel titolo. Sapevo che era il primo film che Rohnyn aveva visto con Sheridan.

Mi inchinai cerimoniosamente, ammiccando all'indirizzo di Fay.

«Lo reputo un bellissimo complimento, visto quanto quell'attore è apprezzato dal gentil sesso.»

Ora, Rachel mi stava guardando con attenzione analitica, la sorpresa soppiantata dal puro interesse, tipico di lei.

Lasciai che mi squadrasse, pur domandandomi cosa le stesse passando per la testa.

Non volevo curiosare, ma la tentazione era forte.

Mi sfiorò le cinghie sul petto e scese con la mano fino alla spada, dove indugiò per alcuni attimi prima di sfilarla lentamente dal fodero.

Istintivamente, feci scostare Fay perché fosse a distanza di sicurezza da quell'arma mortale e, quando Rachel tenne saldamente in mano la spada, mi sentii fremere.

Dubitavo avesse mai usato un simile oggetto per difendersi, eppure la sua postura era perfetta, così come il modo in cui la stava usando per fendere l'aria.

Buon sangue non mente.

«E' leggera. Pensavo fosse più pesante» mormorò, sorpresa.

«E' un materiale composito che viene creato con la...» mi interruppi per un attimo, non sapendo bene come toccare l'argomento, ma l'occhiata di entrambe mi consigliò di parlare.

Scrollai le spalle, perciò, e mi limitai a mormorare: «Con la magia.»

Rachel deglutì a fatica, mentre Fay si espresse con il suo solito entusiasmo, gesticolando in modo molto enfatico.

Dopo aver rimesso a posto la spada, Rachel tornò a puntare lo sguardo sulle cicatrici visibili sul mio torace e, sfiorandone una, mormorò: «Queste, però, non hanno nulla di magico.»

Anche Fay tornò seria, a quel commento e io, non volendo mentire loro, annuii.

«Le più vecchie, provengono dal periodo passato nelle senturion, le più recenti, dalle guerre contro i Tuatha.»

«Ma... ma tu sei un principe, e i principi dovrebbero... sì, insomma... non dovreste essere rispettati dagli altri sudditi?» domandò Fay, sconcertata.

Le avevo spiegato solo sommariamente cosa succedeva nelle senturion, ma forse era giunto il momento di essere più specifici.

«Il rango non conta nulla, nelle senturion e anzi, può portare più nemici che amici. E' l'unico luogo in cui tutti sono paritari. E dove vige la legge della sopravvivenza e del rigore.»

Mi mossi per raggiungere una delle finestre, che davano direttamente sul mare poco distante, e proseguii nel mio racconto.

«Le senturion insegnano a essere indipendenti, forti, veloci. Plasmano i guerrieri più in gamba e, al tempo stesso, ci educano nelle arti e nelle scienze per avere una mente pronta, sempre attiva. E, anche in quel caso, gli istitutori non sono degli agnellini.»

Mi volsi a mezzo per sorridere loro, per stemperare un poco la gravità della situazione, ma non vi riuscii.

Entrambe loro erano ammutolite.

Sospirai, sapendo bene di non poter omettere nulla. Se dovevano decidere in che  mondo vivere, dovevano conoscere pregi e difetti del sistema.

Poggiai le mani sui fianchi, pronto a scoccare l'ennesima freccia.

«Subito dopo le senturion, chi sopravvive torna nelle rispettive famiglie per proseguire studi e addestramento, stavolta sotto la supervisione del capoclan. All'incirca, l'intero iter dura più o meno quattrocento anni; venti per le senturion e il restante di apprendimento presso il clan. E' il momento in cui raggiungiamo la maggiore età, in cui possiamo combattere in guerra.»

«Il vostro unico scopo nella vita, quindi, è combattere?» mormorò Rachel, sgomenta.

«No. Eccelliamo nelle arti e nella cultura in generale, e apprezziamo la fantasia e l'ecletticità delle creazioni umane. Non tutti, voglio essere onesto, ma direi molti di noi.»

Pensare ai miei genitori mi venne spontaneo.

Sapevo che Muath adorava le statue marmoree del XVII secolo italiano, e molte erano collezionate nelle sue stanze.

Sentirle ammettere che apprezzava anche gli autori, era tutt’altra cosa.

Così come per Tethra. Non avrebbe mai ammesso di apprezzare la letteratura giapponese, ma sapevo bene che collezionava centinaia di scritti sui samurai.

Con un mezzo sorriso, aggiunsi: «Migliaia, decine di migliaia di fomoriani sono collezionisti, da millenni, di oggettistica umana.»

Mi bloccai un secondo, riorganizzando le idee, prima di proseguire.

«Nei fomoriani convivono paritariamente due entità. Cultura e arte guerriera camminano di pari passo, e apprezziamo entrambe le cose in egual misura. Anche se, come nel vostro popolo, esistono persone più o meno sensibili su entrambi gli argomenti.»

«Siete un po' come gli spartani, allora» convenne Fay, che era rimasta in assorto ascolto fino a quel momento.

«Molto di ciò che gli spartani hanno compiuto, dipende da noi. Era una società molto affine alla nostra, e a loro accordammo il nostro appoggio per diversi secoli» assentii, atono.

«Tu, però, non sei rigido e marziale» mi fece notare Faélán.

Le sorrisi, ammiccando.

«No, vero? In effetti, mio padre mal mi sopporta, ma è una cosa che posso accettare senza fallo. Inoltre, per lui sono un’arma di immenso valore, perciò non può contraddirmi quanto in effetti vorrebbe.»

Lo dissi con tono divertito, ma dentro fremetti.

Non mi piaceva essere visto solo come uno strumento nelle sue mani ma, almeno finché non mi fosse servito il suo appoggio, lo avrei lasciato fare.

Rachel sorrise a quelle parole e, rasserenandosi un poco, mi disse: «Quando parli di Mag Mell, cambi leggermente intonazione, e anche il tuo modo di esprimerti si fa più aulico.»

«Rispettosamente, annuisco. Per buona parte, ci esprimiamo tutti così. Tendo a non usare determinati vocaboli, quando salgo sulla terraferma, giustappunto per non farmi notare.»

Tornando serio, però, aggiunsi: «Stheta sta tentando di cambiare le cose, poiché desidera una maggiore comprensione e umanità, tra le genti che compongono i suoi sudditi. Sarà difficile, ma siamo un popolo che sa adattarsi. Ai nostri genitori non piace ciò che sta tentando di fare, ma il processo è già iniziato.»

Risi, e raccontai loro della decisione di Stheta e Ciara di affrontare i reali per dichiarare il loro amore.

Questo racconto in particolare incuriosì Rachel che, dubbiosa, mi domandò: «Quindi, anche tu hai una promessa? O, comunque, una famiglia entro cui scegliere la tua futura sposa?»

Scoppiai a ridere di gusto, scuotendo il capo. «No, dèi del cielo! No davvero! O meglio, diciamo che non potrò scegliere una popolana qualunque, ma un membro della Corte, ma non importa se sarà di alto o basso rango. Solo Stheta aveva questa imposizione, perché un re deve – o doveva – sempre avere consorti di alto rango, ma io sono contento che sposi Ciara. E' la donna per lui, ed è un'amica come poche.»

Sorrisi affettuosamente nel dirlo, e Rachel assentì.

«Si capisce dal tuo tono di voce, che le sei affezionato.»

Annuii, scrutando per un istante il palmo della mia mano destra.

Il segno era pallido, poco più che una striscia sottile e biancastra, ma il suo ricordo era ancora vivido in me.

Mostrai la cicatrice vecchia di millenni a entrambe, dicendo: «Il mio patto di sangue con Ciara. Ci promettemmo sostegno reciproco, durante la prima guerra contro i Tuatha. Fu la prima volta che scendemmo sul campo per combattere veramente

Mi volsi nuovamente a scrutare il mare, e sorrisi.

«Se non fosse stata innamorata di Stheta, forse, prima o poi, l'avrei chiesta in moglie io. E' una donna di cui andare fieri, che renderebbe orgoglioso e felice qualsiasi uomo.»

«Se mamma accettasse di diventare pienamente fomoriana, potrebbe sposarti. Non hai detto che la nostra famiglia è molto importante?»

Quella domanda, solo in apparenza innocente, venne snocciolata da Fay con tono vagamente ironico.

Un attimo dopo, rise e si allontanò per uscire di casa, adducendo come scusa il desiderio di fare una passeggiata sulla spiaggia.

Brava monella, non c'era che dire.

Non sapendo bene come comportarmi, mi volsi a mezzo per guardare Rachel e, nel notare il suo rossore profuso, le sorrisi comprensivo.

«E' dispettosa, vero?» ironizzai.

«Scusala. Non dovrebbe neppure dirle, certe cose» borbottò, massaggiandosi le braccia con fare nervoso.

«Non mi ha offeso. Tutt'altro. E ha ragione. La tua famiglia è seconda solo alla mia, perciò... beh, sarebbe la prima volta in vita mia che combinerei una cosa giusta al di fuori del campo di battaglia, almeno agli occhi di mio padre.»

Risi, imbarazzato a mia volta.

«O forse no. Se vi riportassi a Mag Mell, mio padre sarebbe costretto a riconsegnarvi sia i possedimenti che gli averi, e questo gli farebbe venire un infarto. Oddio! Mi taglierebbe la testa!»

Rachel accennò solo un debole sorriso, ma il nervosismo rimase.

Più seriamente, allora, le sfiorai le braccia con le mani e mormorai: «Rachel, non devi avere paura di nulla. Qualsiasi cosa tu deciderai di fare, andrà bene comunque. Sia che tu scelga la terraferma, sia che tu scelga il mare.»

«Ma, se decidessi di scendere a Mag Mell, tu...»

Risi sprezzante, e anche vagamente piccato.

«Pensi davvero che mi rivarrei su di te perché ti ho restituito l'eredità di famiglia? O che mi sentirei in dovere di farti pesare questo fatto? Davvero non mi conosci, allora, Rachel.»

Mi scostai, e fu lei a trattenermi, stavolta.

Con occhi spauriti, scosse il capo e fece per parlare.

La voce, però, le mancò e, non potendo fare altrimenti, la strinsi a me per consolarla.

«Rachel, voglio essere prima di tutto tuo amico. So già che andiamo d'accordo, perciò riterrei un onore conoscerti meglio, ma non farei mai nulla per obbligarti a fare – o pensare – cose che non vuoi.»

Lei si strinse più forte a me, affondando il viso nel mio torace, e il mio cuore quasi esplose.

Desideravo pazzamente sollevarle il viso e divorarle la bocca, ma sapevo che sarei venuto meno alla promessa appena fatta.

«Non hai capito...» mormorò all'improvviso.

«Cosa vuoi dire, Rachel?»

«Io non so nulla di armi e di guerra, né so difendermi come la tua amica Ciara. E Fay? Sarebbe costretta a entrare nelle senturion, anche se già grande, per gli standard umani? Non so se riuscirei a sopportarlo. Però...»

La scostai da me, sistemandole i capelli dietro le orecchie e, ansioso, le domandai: «Però, cosa?»

«Però, non voglio che tu lasci la nostra vita. E so che, prima o poi, dovrai farlo. A meno che tu non decida di fare come tuo fratello Ronan.»

Sospirai, poggiando la fronte contro quella di Rachel e, lentamente come il sorgere del sole, la parvhein fece la sua ricomparsa.

L'intero mio corpo si fece luminescente e lei, stretta tra le mie braccia, sobbalzò.

«Krilash, che succede?»

«Nulla. Ai maschi succede, a volte» sorrisi, assaporando mentalmente le sue ultime parole.

Mi voleva nella sua vita.

Di per sé, era una cosa bellissima, ma conteneva in essa i germi di un disastro.

«Cosa significa, Krilash?»

«Se te lo dico, decidere sarà più difficile, per te.»

«La verità, ricordi?» mi impose, accigliandosi.

Sospirai, e annuii rassegnato.

«Il bagliore che vedi è la parvhein. Significa che ho trovato la donna biologicamente adatta a me.»

«Biologicamente... adatta?» gracchiò, sbattendo le palpebre con aria sconvolta.

«Te l'ho detto che non avresti apprezzato la spiegazione, o che sarebbe stato facile capire» ironizzai, scostandomi da lei per raggiungere la finestra.

Le volsi le spalle, poggiando le mani sul davanzale in granito e mi trattenni dal dire altro.

Non volevo toccare quell'argomento con lei, perché sapevo quanto ancora fosse fragile il suo equilibrio.

Non desideravo che si avvicinasse a me per compassione. O peggio, come ringraziamento per il mio aiuto.

Fui perciò sorpreso quando lei mi avvolse la vita da dietro, poggiando le mani sul mio stomaco.

Ma non fu tanto quel tocco a farmi tremare, quando piuttosto la sensazione del suo corpo premuto sulla mia seconda pelle.

Inspirai con forza, irrigidendomi e, con voce roca, quasi strozzata, ansai: «Rachel, ti prego... se mi tocchi così...»

«Come?»

«Il... il mantello. Non è ... non è semplice tessuto.»

Faticai non poco a parlare, ma cercai di contenere il desiderio scaturito dal tocco del suo corpo. «E' la mia seconda pelle. Quella... di delfino.»

Lei non si scostò, a quella notizia e, anzi, si strinse ancor più a me, facendomi quasi perdere il controllo.

«Rachel... non so se...»

«Non è solo desiderio fisico, vero?»

Risi, piegando il capo all'indietro, ormai sopraffatto da un mare di sensazioni piacevolissime.

«Vuoi sapere cosa provo per te?»

«Sì» sussurrò, poggiando le labbra sulla pelle di delfino.

Ansimai, e le ginocchia cedettero di schianto.

Mi ritrovai a terra, senza fiato, ed esalai: «Non sapevo della parvhein, quando ti conobbi, né quando decisi di diventare il protettore di Fay. Neppure quando piombai da voi, e ti curai le tumefazioni.»

Attesi un attimo, e infine aggiunsi: «E neppure quando mi resi conto che, per te, avrei fatto qualsiasi cosa, anche lasciarti qui... senza di me al tuo fianco, e solo per non sconvolgere la tua vita.»

«Krilash...»

Mi volsi a fatica, deciso a dire ogni cosa.

«Capisci perché non volevo parlartene? Non volevo che tu ti sentissi in dovere di rispondere ai miei sentimenti. Non voglio niente che non venga dal tuo cuore, e non sopporterei mai la tua gratitudine. Non desidero questo, da...»

Non mi lasciò terminare la frase.

Afferrò il mio viso con le mani, premendo le sue labbra sulle mie.

Mi ritrovai con la schiena contro il muro, letteralmente divorato da lei, incapace di fare alcunché, in completa balia del suo bacio.

Non era mai successo, in tanti millenni.

Mai, una donna era stata in grado di farmi capitolare a quel modo.

Solo Rachel.

Le sfiorai il corpo con le mani, lasciando che lei continuasse a baciarmi le labbra, il viso, il collo.

«Potrebbe... tornare... Fay...» riuscii a dire, tra un bacio e l'altro.

Lei rise e, con un sorriso così malizioso che quasi mi sciolse, mormorò: «Non ti salverai da me così facilmente.»

«Perché, Rachel? Perché?» volli sapere, tenendola bloccata con le mani perché non riprendesse a farmi perdere la testa.

Tornò seria, sotto il mio sguardo preoccupato e ansioso, e si lappò le labbra tumide.

«Non avrò la parvhein come te ma, quando hai riportato a casa Fay, proteggendola dal temporale, ho capito che saresti stato quello giusto. Solo, faticavo ad ammetterlo. Tu sei così tenero e gentile, con me, ...e ti piace Fay!»

«Le voglio bene, sì» assentii.

«Avevo paura di aprirmi, Krilash, cerca di capire. Dopo quello che ho passato...» si interruppe, e io scostai una mano per carezzarle il viso.

«Lo ucciderei mille volte, se sapessi che servirebbe a cancellare i tuoi timori.»

Lei scosse il capo, ma sorrise.

«Dopo quello che ci dicesti, era difficile dirti quello che pensavo, quello che provavo. Ti immaginavo sempre bellissimo e perfetto, mentre io invecchiavo e morivo... e non potevo sopportare di darti questo, in cambio del tuo affetto. Del tuo amore.»

«Ti amerei da umana, come da fomoriana, ma è tua la decisione. E devi pensare anche a Fay. Se diventasse fomoriana, dovrebbe entrare nelle senturion, perché rientrerebbe nell'età giusta per essere addestrata. E, per un'umana, sarebbe un'esperienza durissima. Forse, impossibile da sopportare. Noi cresciamo in un ambiente del genere. Lei dovrebbe entrarvi già adolescente. Sarebbe traumatico.»

Annuì, lasciandosi sfuggire un singhiozzo.

Si accoccolò a terra, attirando le ginocchia al petto e, poggiatavi la fronte, sospirò tremula.

Non ebbi necessità di accertarmi del suo dolore.

Lo sentivo sulla pelle come una pioggia di spilli, che mi penetravano la carne fino a raggiungere il cuore.

E il mio, di dolore, non era dissimile dal suo.

Al solo pensiero di immaginare Fay nelle senturion, mi sentivo tremare.

Non avrei voluto quel destino per lei neppure sotto tortura. Mi sarei fatto uccidere, piuttosto che obbligarla a un simile supplizio.

«Non c'è dunque speranza, per noi? Devo lasciarti andare?» mi domandò, apparentemente terrorizzata all'idea di perdermi.

Cosa poteva chiedere di più, un uomo, dalla donna che amava? Ma potevo, in tutta franchezza, sopportare di aver generato un simile struggimento?

«Potrei seguire le orme di Rohnyn, e divenire umano. Brucerei la mia pelle di delfino, e sarei come voi.»

Ma sapevo già che questo avrebbe voluto dire perdere un mondo che, contrariamente a mio fratello, io amavo molto.

Per Rachel e Fay lo avrei accettato, ma…

«No!»

Sobbalzammo entrambi, al suono della voce di Fay.

In fretta, Rachel si levò in piedi, rossa in viso e turbata da ciò che la figlia potesse aver visto… o sentito.

Ma Faélán non disse nulla in merito e, quando anch'io mi fui rimesso in piedi, ci disse: «Non devi bruciare la tua pelle, Krilash. Se tu lo facessi, non potresti più tornare a Mag Mell, vero?»

Assentii, preferendo non dire nulla.

«No, non è giusto. Non voglio che tu lo faccia.» Fay scosse il capo con frenesia, facendo danzare la sua chioma fulva.

I suoi occhi color acquamarina si fecero duri, quasi feroci di fronte all’idea che io potessi rinunciare a qualcosa per loro.

Volli abbracciarla ma sapevo che, in quel momento, non avrebbe apprezzato il gesto.

Stavamo parlando con la parte più matura di Faélán, con il suo sangue antico, ed esso meritava tutto il nostro rispetto e attenzione.

«Ma, così facendo, non potrà rimanere con noi» le fece notare Rachel, conciliante.

Fay allora la guardò con intenzione, si avvicinò a sua madre con passo deciso e le disse: «Tu puoi decidere come vuoi, ma io desidero abbracciare la mia eredità. Qualunque essa sia.»

Rachel mi guardò per un attimo, mordendosi il labbro inferiore in preda all’ansia.

Rivolta alla figlia, però, asserì atona: «Anche se questo volesse dire affrontare le senturion

Fay allora si fece gelida in viso, e mormorò: «Sai già che non mi troverò mai bene, qui. L'hai detto tu stessa. Vedo e sento cose che gli altri non percepiscono, e non riesco a tacere come fai tu, a sopportare di mentire sempre e comunque come fai tu

Rachel accusò il colpo, allontanandosi di un passo dalla figlia che, pentendosi subito del suo tono di voce, sospirò contrita.

«Niente potrà essere peggio dell'ostracismo in cui ho vissuto in questi anni, e lo sai, mamma. Se dovrò lottare, lotterò, ma sarò nel luogo giusto, tra le persone giuste, dove forse mi sentirò finalmente nel posto che mi compete.»

Non seppi dire se sentirmi agitato, felice, atterrito. Seppi soltanto di volerla abbracciare, di voler abbracciare entrambe.

«Desideravo solo proteggerti, Fay, non ferirti, o mentirti» mormorò in risposta Rachel, levando una mano per carezzarle il viso.

La figlia annuì, accennando un lieve sorriso.

«E’ sempre stato difficile sopportare quello che sentivo, o vedevo. E i nonni non mi sono mai stati di grande aiuto, come ben sai.»

Sorrise mestamente e, senza poterla controllare, la mia mano strinse l’elsa della spada. Avrei tanto voluto vendicare entrambe!

«So perché l’hai fatto… ma non è più tempo di fingere» replicò Fay, poggiando una mano su quella della madre, trattenendola sul suo viso.

Un attimo dopo, si volse verso di me e, prima ancora che io potessi dire loro qualcosa, lei parlò, atterrendomi.

Con sguardo volitivo, mi fissò intensamente e disse: «Mi addestrerai per entrare nelle senturion, così che io non arrivi del tutto impreparata a Mag Mell.»

«Che cosa?!» esalammo entrambi, sconvolti dal suo dire.

«Tesoro, ma cosa vuoi fare? Non è necessario che tu...» iniziò col dire Rachel, terrorizzata a morte da ciò che avrebbe potuto succedere alla figlia.

«Mamma, non c'è altro sistema. E poi, io voglio diventare come Krilash. Sai benissimo anche tu che, nessuna delle due, si è mai sentita completamente a proprio agio, qui, e ora sappiamo perché. Il nostro corpo sapeva che non appartenevamo completamente alla terraferma.»

Rachel fu costretta ad annuire e, rivoltasi a me, ammise: «Abbiamo passato anni e anni interi, da mille dottori diversi, per capire da dove venisse il senso di disagio che provavamo tutte le volte che ci allontanavamo dal mare. Nessuno seppe mai darci una risposta.»

«Era il richiamo del vostro sangue» assentii, sorridendole comprensivo.

«Ciò non toglie che non ti permetterò di mettere a rischio la tua vita, e solo perché...» riprese a dire Rachel, fissando malamente la figlia.

Fay interruppe ancora la madre, facendola accigliare per diretta conseguenza, e sbottò dicendo: «Oh, smettila, mamma! Sono abbastanza grande per capire le cose, e abbastanza grande per saper prendere delle decisioni che mi riguardano. Hai camminato sulle uova per tutto il tempo, con Krilash, continuando a scrutarlo di soppiatto mentre pensavi che non ti stavo guardando. Credevi non me ne sarei accorta?!»

Rachel sospirò imbarazzata, e io ridacchiai mio malgrado.

E chi l'avrebbe mai detto che Fay avrebbe fatto una filippica a sua madre? Per la seconda volta?

Per diretta conseguenza, ricevetti un'occhiataccia dalla donna al mio fianco, che borbottò: «E tu non ridere. Cercavo solo di difendere mia figlia da cambiamenti estremi. E un uomo, è un cambiamento estremo.»

«Pensi che ti vorrei da sola per sempre, e solo per non dover sopportare un uomo nella tua vita?» ironizzò a quel punto la figlia, con occhi lucidi di lacrime. «Papà non voleva bene a nessuna delle due, e i nonni paterni mi hanno sempre e solo voluta perché tu non potessi accampare pretese su di loro, un domani. Ma Krilash è diverso. Lui mi vuole bene, e ama te. Pensi non sappia cogliere la differenza?»

«Oh, tesoro!» ansò Rachel, stringendola in un abbraccio.

Io allora avvolsi entrambe e, con la bocca sui capelli di Fay, mormorai: «Se lo desideri, ti addestrerò. Te lo prometto. Non giungerai là disarmata. O indifesa. Provvederò io a tutto.»

Lei mi sorrise, e fu in quel momento che notò la luminescenza sulla mia pelle.

«L’avrò mai?» mi domandò curiosa, accarezzandomi la rihall con un dito, mentre io mi scostavo da loro.

«No, mi spiace. Solo i discendenti maschi di Freyr possono averla. E’ il suo legame con il sole e la luce, e si risveglia solo in determinati momenti.»

Fay sbuffò, chiaramente contrariata da quella che, ai suoi occhi, le parve un’ingiustizia e io, scoppiando a ridere, le baciai la fronte, replicando: «Ma potresti avere un dono molto più bello. La tua progenitrice Niamh possedeva un potere singolare, un po’ come il mio.»

Le avevo mostrato più di una volta cosa fossi in grado di fare con la materia, e quell’accenno la incuriosì parecchio, così come incuriosì la madre.

«Niamh poteva mutare se stessa. Plasmare la sua materia in qualunque altra. E’ possibile che, una volta ottenuta la tua pelle di delfino, tu possa sviluppare questo dono.»

Lo strillo che lanciò mi perforò quasi i timpani e, mentre lei saltellava allegra e galvanizzata per la stanza, Rachel mi domandò: «E’ davvero possibile?»

«Quante probabilità avevo di trovare ben due eredi di Oisín?» replicai, dandole un bacio sulla guancia. «Tutto è possibile, Rachel, e io renderò il vostro arrivo a Mag Mell il più indolore possibile. Non sarò da solo ad addestrare Fay. Avrà al suo fianco i migliori combattenti della terra e del mare, ad assisterla, posso giurartelo.»

Fay bloccò la sua giga, a quel commento e, sollevato il viso a sorridermi, mi domandò: «E che guerriero potrebbe esserci, qui sulla terraferma, più forte di te?»

Risi, deliziato da tanta fiducia incondizionata, ma le dissi: «Esistono guerrieri più forti di me, te lo posso giurare, e presto li conoscerai anche tu. Li conoscerete entrambe.»

Più sicuro di me, e di una soluzione accettabile per tutti, aggiunsi: «Scoprirete quanto  misterioso, e diverso da quel che pensate, è il mondo in cui avete sempre vissuto.»









Note: Se su Fay non c'erano dubbi, ora anche Rachel ha dimostrato di avere carattere, e di poter mostrare le unghie, se vuole. Non desidera soltanto Krilash nella sua vita, ma è disposta ad accettare il pacchetto completo, ora che sa che sua figlia desidera la stessa cosa, indipendentemente dalle senturion. Di certo non sarà facile, ma stanno dimostrando di avere la stessa tempra della loro antenata Niamh, e questo sarà loro d'aiuto, quando raggiungeranno il Regno dei Mari.
Ma, prima anche solo di pensarci, bisogna addestrare entrambe a 'sopravvivere' a Mag Mell. E direi che Krilash conosce le persone giuste per prepararle!
Grazie per avermi seguita fino a qui! Fatemi sapere cosa ne pensate, se volete!


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


 
11.
 
 
 
 
 
Nel corso dell’estate, Sheridan si fece più irritabile e stanca ma, anche grazie all'aiuto di Rachel, riuscì a raggiungere il nono mese di gravidanza senza crisi di panico.

Foglie gialle, e venti freddi provenienti dall’artico, furono quindi accolti con soddisfazione e aspettativa.

Ormai il tempo era giunto, per lei.

Nel frattempo, io, Rohnyn e alcuni licantropi del clan locale, introducemmo Fay al mondo della guerra e della lotta armata.

Naturalmente, con il previo benestare di Felicity, Fenrir del branco di Dublino.

La donna, venuta a conoscenza dell’illustre avo di Rachel e Fay, ci offrì subito i suoi guerrieri migliori e il suo appoggio incondizionato.

Di fronte a una simile generosità, non potemmo che chiederle lumi, e fu così che scoprimmo una parte della storia a noi sconosciuta.

Oisín non era divenuto famoso solo per i poemi a lui dedicati, o per i racconti scritti da noi fomoriani.

Anche la cultura mannara narrava le sue gesta, e per un unico motivo.

L’uomo che - stando al mito - il guerriero aiutò scendendo da cavallo e perdendo, di fatto, il dono della longevità concessogli da Niamh, era un mannaro.1

Quel gesto non fu mai dimenticato, e il lupo mannaro che Oisín salvò, volle tributargli gli onori dovuti, una volta scoperta la sua tragica fine.

Quando Oscar, figlio di Oisín, giunse sulla terraferma in cerca del padre, furono i lupi a metterlo al corrente della sua scomparsa, così come del suo incrollabile altruismo.

Scoperta la prematura morte del padre, Oscar informò sia la madre che la sorella della triste notizia, dopodiché decise di onorare il padre portando avanti il suo sogno.

Tornare nelle amate terre natie per poter vivere come un mortale.

Niamh lo lasciò fare, come noi fomoriani sapevamo, e Plon – la sorella –  decise di seguirlo, lasciando così per sempre i mari profondi e Mag Mell.

La tribù, allora, accolse sia Oscar che Plon e promise loro, e alla loro discendenza, imperituro appoggio, così da ripagare degnamente il sacrificio del padre.

Con loro, i mannari strinsero una salda alleanza e, fino alla loro morte, Oscar  e Plon protessero il segreto dei licantropi, divenendo i primi Guardiani della storia mannara.

I fratelli concessero un luogo sicuro agli amici mannari, istituendo così il primo Santuario in cui, ognuno di loro, avrebbe potuto trovare riparo.

La stirpe dei mac Cumhaill, da quel momento, fu sempre onorata con rispetto dai clan di ogni luogo.

Tutto perché una fomoriana si era innamorata di un mortale, portandolo con sé nel suo regno per amore.

Il destino aveva presto chiamato a sé Oisín ma non prima, però, di permettergli un ultimo gesto di nobile altruismo.

Questo, aveva così legato due stirpi apparentemente lontanissime e, con l’avvento di Rachel e Fay, l’antico pegno poteva essere infine ripagato.

 
***

Il primo incontro con i licantropi fu, per Fay e Rachel, fonte di immensa sorpresa.

Sulle prime, risero di me e del mio dire ma, dopo aver testato con mano la forza di Eithe, dovettero ricredersi lestamente.

Persino Díomán decise di partecipare a quel training improvvisato e, invero, si  dimostrò essere l'insegnante più capace, e il preferito da Fay.

Nel frattempo, io mi occupai di Rachel, approfondendo con lei la sua conoscenza sul mondo fomoriano e sull'arte della spada.

Il sangue di Niamh e Oisín si dimostrò subito forte, in loro, così come profondo il legame con la loro terra d'origine.

Se, sulle prime, nessuna delle due mostrò molta dimestichezza con le armi, con il passare delle settimane, le loro rispettive abilità sorsero spontanee.

Anche Stheta, Ciara e Lithar vollero partecipare e, assieme a loro, le osservai sbocciare, crescere e abbracciare con sempre maggiore forza il loro retaggio.

Felicity, di fronte all’impegno genuino di Fay e Rachel, non poté che dichiararsi orgogliosa di simili allieve, ed estese anche a loro la protezione del branco.

Questo non poté che rendermi felice anche se, in parte, fece sorgere in me il tarlo della gelosia.

Avrei sempre pensato io alla loro protezione, ma mi fece piacere sapere che, almeno finché fossero rimaste sulla terraferma, non sarebbero mai state sole.

Fino a quel momento, ci eravamo affidati solo agli amici di Eithe e Diómán, per controllare Fay e Rachel, ma avere il branco era tutt’altra cosa.

Fu in uno splendido giorno di sole, e una conseguente notte fresca e limpida, che giunse infine la festività di Halloween.

Come tutti i ragazzi del posto, anche Fay decise di partecipare alla consueta caccia ai dolcetti casa per casa.

Non che vi trovassi nulla di strano, ma fui restio ad accettare che Fay uscisse  la sera, e senza di me.

Il fatto che il gruppo di amici di Fay fosse composto da licantropi, mi aiutò a non rovinarle la serata, però.

Sapendola al sicuro, anche Rachel non poté che lasciarla uscire e, nel guardarla correre lungo la via assieme ai suoi nuovi amici, la sentii sospirare.

Io mi trattenni solo a stento, ma la compresi benissimo.

Il rimescolio che provai nello stomaco, mi fece venire voglia di correre fuori per abbracciarla, ma sapevo bene che le avrei solo fatto fare una figura pessima.

Quel lato di essere quasi come un padre, per lei, mi faceva star male.

Sarebbe sempre stato così? Un dolore continuo, sordo e sedimentato nelle viscere del mio animo, tenuto a bada solo dai suoi sorrisi e dal suo amore?

Avevo idea di sì, e la cosa mi terrorizzò a morte.

Le braccia mollemente strette attorno alla vita di Rachel, che teneva la schiena poggiata contro il mio torace, baciai i suoi capelli cercando di cancellare quelle paure dal mio cuore.

Roco, le dissi: «Non la stai perdendo. Ha solo acquisito nuova sicurezza.»

«E' bello vederla ridere e scherzare coi suoi nuovi amici, e sapere che non la feriranno, o derideranno, per quello che potrebbe dire. Ma mi fa anche capire quanto, in questi anni, debba aver sofferto.»

«Questo l'ha resa forte, sia mentalmente che fisicamente. Le sarà d'aiuto, credimi» mormorai, allontanandomi con lei dalla finestra per raggiungere la cucina.

Lì, Rachel aveva imbandito un'autentica cena in stile 'notte delle streghe' e, di quello che lei aveva servito a me e Fay, era rimasto ben poco.

Le versai comunque del vino bianco e, offrendoglielo, aggiunsi: «Saremo insieme a lei. Io sarò al fianco di entrambe, non dimenticarlo. Non affronterete il cambiamento da sole. Avrete un nuovo mondo in cui vivere, un mondo che vi riconoscerà per quello che siete, senza finzioni.»

«Non avranno nulla da ridire?» mi domandò, sorseggiano nervosa il vino.

Scossi il capo, convinto.

«I figli sono importanti, per noi, anche se potrebbe sembrare diversamente, avendoti parlato delle senturion. Voi siete figlie di Mag Mell, e il vostro ritorno sarà visto come una benedizione.»

«Tranne che da tuo padre» ironizzò lei, ammiccando.

Risi di quell'appunto, rammentando cosa le avevo detto a proposito del tesoro reale, e feci spallucce.

«La faccenda del vostro patrimonio personale passerà in secondo piano in un attimo. Si adatterà con facilità, non temere. E poi, quando vi avrà conosciute, si innamorerà di voi come è successo a me. »

Lo dissi con sincerità e, come ogni volta, Rachel arrossì.

Non era la prima volta che le confessavo il mio amore.

Anche se ormai vivevo più spesso da lei che a Mag Mell, non se l'era mai sentita di replicare alle mie parole.

Mi era sempre stato bene, perché non era mai stato mio desiderio forzarla in nessun modo a dire alcunché.

La prima volta che avevamo fatto l'amore era stato splendido, e la parvhein si era manifestata in tutto il suo splendore, sorprendendo non poco Rachel.

Da quella volta, altre ne erano seguite e, ogni volta, mi ero ritrovato a stringerla tra le braccia, desiderando di avere momenti simili per il resto della vita.

Ma non le avrei mai chiesto nulla di tutto ciò, se lei per prima non lo avesse chiesto.

Rachel, a quel punto, poggiò il bicchiere sul tavolo, si avvicinò a me e, posate le mani sulla mia camicia, all'altezza del cuore, mormorò: «Quanto ancora andrai avanti con questa farsa, Krilash?»

La fissai confuso, replicando: «Quale farsa, scusa?»

Lei abbozzò un sorrisino e, sollevandosi in punta di piedi, mi baciò.

«Questo tuo delizioso gesto cavalleresco di non chiedermi in moglie, intendo.»

Storsi il naso, borbottando: «Ti ho già detto che non è corretto curiosare.»

Rachel rise, avvolse le braccia attorno al mio collo e mi tirò giù, in modo che lei potesse poggiare pienamente i piedi a terra.

Io sbuffai, ma la lasciai fare. A volte, le piaceva comportarsi come una bambina.

«Hai paura che potrei dire di sì perché sei irresistibile?» ironizzò, guardandomi occhi negli occhi da quella distanza ravvicinata.

Ghignai, annuendo. «In effetti, è un rischio effettivo, ammettilo.»

Rise e, nel lasciarmi andare, mise mano ai bottoni della mia camicia.

Ancora, la lasciai fare.

«Sì, in effetti, offri una mercanzia di tutto rispetto» mormorò, accarezzando la mia pelle con dita lievi, poggiando poi le labbra sopra un capezzolo, che si inturgidì all'istante.

Sospirai, reclinando all'indietro il capo.

«Lo sostengono in molte» mormorai roco, ricevendo per diretta conseguenza uno schiaffetto sul fianco. «Ahia.»

«Non ricordarmi con quante donne sei stato, grazie» ringhiò, possessiva.

Adoravo quando lo faceva.

In quei mesi, avevo scoperto molti lati nascosti di Rachel, tra cui un'indubbia gelosia, che si era estesa a me – oltre che alla figlia – non appena avevo iniziato a bazzicare piuttosto spesso a casa sua.

Più di una volta, l'avevo aiutata in negozio – con mia somma gioia – e, in quelle occasioni, mi ero reso conto di quanto Rachel tenesse d'occhio le donne che mi guardavano.

L'avevo trovato in un certo qual modo divertente.

Una volta, però, ero stato costretto a trattenerla dal prendere per i capelli una ragazza particolarmente diretta. E interessata.

Quella sera, avevamo fatto l'amore con particolare foga, e lei mi aveva reso partecipe di un altro suo segreto molto intimo.

Avevo scoperto quanto le piacesse prendere l'iniziativa.

L'avevo lasciata fare allora, come molte altre volte in seguito.

E così feci in quel momento.

Lei scese con la bocca, lasciando deboli scie di baci sul mio torace, l'addome e l'ombelico.

Quando raggiunse il bordo dei pantaloni a vita bassa, slacciò i bottoni e abbassò l'indumento, mormorando: «Adoro vederti sempre pronto per me.»

«Ne dubitavi?» ansai, afferrando le sue mani per portarle sopra la sua testa.

Senza darle possibilità di sfuggirmi, la feci poggiare contro la porta della cucina e lei, ridendo maliziosa, mormorò: «Non vorrai farlo qui, spero. Il legno è deplorevolmente duro.»

«Anche qualcos'altro» ghignai, affondando il viso nell'incavo del suo collo, lasciando sulla sua pelle bollente una scia di baci.

«L'avevo notato» ansò lei, scivolando via dalla mia stretta per abbassare ulteriormente l'orlo dei miei jeans.

Imprecai, quando la sua mano affondò le unghie in una natica e, mordendole leggermente il collo, ringhiai: «Sei particolarmente rude, stasera. Come mai?»

«Chiedimi di sposarti» mi ordinò, accentuano la sua stretta sulla carne.

«No» replicai, ridendo.

Con un gesto improvviso, la sollevai tra le braccia per portarla in camera sua e Rachel, mettendo il broncio, borbottò: «Perché non dovresti farlo, scusa?»

«Lo sai bene» ribattei, aprendo il battente con un colpo di spalla.

Non appena la misi a terra, lei mi strattonò a un braccio e mi fece cadere sul letto, mettendosi poi a cavalcioni su di me.

Risi nel vederla così determinata, ma lei non si diede per vinta.

Finì di spogliarmi – e spogliarsi – e, ricominciando la sua lenta tortura, fatta di baci, carezze e leggeri graffi sulla pelle, sussurrò ancora: «Chiedimelo.»

«No.»

Lei sorrise ancora di più, avvicinò le mani sul centro della mia virilità e, senza darmi il minimo preavviso, lo strinse.

Ansai, reclinando indietro la testa, ma riuscii ugualmente a dire: «No... anche se mi costerà la vita. Vuoi farmi morire, stanotte?»

Non mi ascoltò, massaggiandolo, lasciando che il suo corpo lo avvolgesse delicatamente e, nel piegarsi verso la mia bocca, mormorò: «Ti prego, chiedimelo.»

Scossi il capo e Rachel, allora, muovendosi lenta su di me, mi portò a seguirne le movenze sinuose.

Non potevo resisterle, e lei lo sapeva.

Ma, finché non mi avesse detto quello che volevo, non avrei mai ceduto a quella richiesta.

Il nostro ritmo accelerò, così come le carezze di lei sul mio corpo accaldato.

Le strinsi le natiche per accordarmi meglio al suo movimento ritmico e, quando finalmente raggiungemmo l'acme, gridai il suo nome.

E lei mi confessò il suo amore.

Mi bloccai, guardandola stranito e lei, sorridendomi tenera e sì, imbarazzata, scivolò via da me, si accucciò al mio fianco e, ripetendo quelle dolci parole, mi baciò.

«Ti amo.»

Lo mormorò ancora un paio di volte e, a sorpresa, pianse.

La strinsi a me, non sapendo bene come interpretare quel pianto, ma la sua mente mi parve tranquilla, perciò non mi preoccupai troppo.

Rachel mi avvolse con tutto il corpo, cercando quasi di fondersi con me, ma non per ridestare la passione, solo per avermi più vicino, accanto al suo cuore.

«Parlami, Rachel... ti prego...»

«Non … non sapevo di poterlo dire di nuovo. Scusami» ansò, tergendosi il viso con dita nervose. «Ogni volta che ti sentivo dirlo, mi sembrava che il cuore si spezzasse in due. Sapevo del tuo desiderio, ma non riuscivo. L'ultima volta che lo dissi, fu un disastro, così...»

«Ti capisco, tranquilla» mormorai, baciandole la fronte.

Mi volsi completamente verso di lei, avvolgendola nel mio caldo abbraccio e, insieme, ci addormentammo.

Le avrei chiesto di sposarmi più tardi, quando si fosse calmata un po'.

Quello che volevo, in fondo, lo avevo ottenuto.

 
***

Il ghiaccio, onde di marea tramutatesi in ghiaccio, in stalattiti possenti, completamente dilavate da fiumi di sangue, di carne, ossa, organi e…

Gridai, levandomi all’improvviso nel letto, ansante e con le mani premute sullo stomaco, all’altezza del tessuto cicatriziale che portavo su di me da quel giorno.

Dún Aonghasa. Ancora quel luogo.

Quando mai avrei smesso di ricordarlo?

Rachel, al mio fianco, mi stava osservando preoccupata e, poggiando una mano sulle mie, che ancora ricoprivano la ferita, mormorò: «Me ne vuoi parlare, ora

La fissai spaventato, i residui dell’incubo che si confondevano con i tratti nobili del suo viso.

Potevo affrontarlo assieme a lei? Potevo davvero?

La sua mano strinse le mie, mentre il suo sorriso tornava a illuminarle il viso.

«Sfiori spesso quella cicatrice, e i tuoi occhi si fanno cupi, ombreggiati dal rimorso, quando succede. Perché?»

Sospirai tremulo, lasciandomi andare contro i cuscini del letto e, nell’osservare il suo viso pensieroso, mormorai: «Avvenne tutto tremila anni addietro, nei pressi delle Isole Aran. Fui mandato in avanscoperta con un contingente di uomini. Avevamo il compito di scoprire dove si trovasse un traditore del regno, ma finimmo in una trappola. Qualcuno parlò

Rachel annuì, seria in viso, e a me non restò altro che proseguire nel racconto.

«Fui ferito in un agguato a sorpresa. La lama affondò  profonda, evitando lo stomaco di un nonnulla. Il dolore, però, non mi piegò… fece sì che il mio dono si scatenasse.»

Sfiorai di nuovo la ferita, e Rachel intercettò le mie dita, intrecciandole alle sue.

«Circa duemila Tuatha ci attendevano al varco, contro poco più di duecento dei nostri. Niente avrebbe potuto salvarci, tranne… tranne questo.»

Levai la mano libera e sfiorai la bottiglietta d’acqua che si trovava sul vicino comodino, ghiacciandola all’istante.

Rachel la osservò muta.

«Bloccai i miei nemici nel ghiaccio, e colpii quelli sulla terraferma con lance create con acqua surraffreddata. Fu una strage. La pressione del ghiaccio li…»

Deglutii a fatica e Rachel, baciandomi la fronte, asserì: «Immagino cosa possa essere successo. Per questo non hai mai voluto dormire qui, la notte? Ti succede sempre, vero?»

Annuii, mormorando roco: «Gli incubi non sono mai cessati, da quel giorno. Non mi importò nulla di essere visto come un eroe, dalle famiglie di coloro che salvai. Né mi importò di sapere quanto, mio padre, fosse orgoglioso dello scempio che avevo fatto. Li avevo uccisi tutti, in modo barbaro, e solo perché avevo usato il mio dono.»

«Un dono che è nato con te, Krilash» mi sorrise Rachel, tornando a baciarmi. «Lo hai usato spinto dal desiderio di vivere, di tornare dai tuoi cari, di riportare i tuoi uomini a casa. Non hai mai agito per il desiderio di uccidere, questo lo so. Ormai ti conosco.»

La fissai a occhi sgranati, turbato da ciò che sentivo dentro e da ciò che stava cercando di dirmi.

Il suo sorriso si accentuò e, nel poggiare il capo sul mio torace, mi strinse a sé e mormorò: «Non penserò mai, neppure tra diecimila anni, che tu sia una persona cattiva, Krilash. Vedi di convincertene anche tu.»

«Ma ho…»

Mi azzittì con un bacio. «Ti sei difeso. Punto. E ora riposa. Baderò io al tuo sonno, così come ai tuoi sogni.»

Le sorrisi e, lasciando che la stanchezza mi riportasse nel mondo dei sogni, mi assopii nel calore del suo amore.

Per una volta in vita mia, non sognai.

 
***

Il trambusto in camera mi svegliò di soprassalto, portandomi ad afferrare il coltello che tenevo sotto il letto.

Nessun fomoriano dorme disarmato.

Accesi la luce un secondo dopo, già pronto a dar battaglia, ma il viso di Fay balenò nel mio campo visivo, chetandomi subito.

Il suo strillo,  però, e il relativo balzo all’indietro - corredato di copertura del viso con le mani - mi lasciò un po’ perplesso.

Per un istante.

L’attimo dopo, mi accorsi della mia totale nudità e, in fretta, coprii me stesso e Rachel, esalando: «Scusa, tesoro… tutto bene?»

«Siete presentabili, ora?» mi domandò per diretta conseguenza, sbirciandomi da sopra una spalla, attraverso le dita di una mano.

Annuii, e lei si volse con un sorrisino divertito e malizioso.

«Ora, so di poter buttare via il poster di David Gandy dalla camera» ironizzò Fay, strizzando l’occhio nella mia direzione, mentre io avvampavo d’imbarazzo.

Rachel, nel frattempo, nel dormiveglia, guardò confusa la figlia prima di biascicare: «Ma che succede?»

Tornando alla sua missione, Fay si fece seria e, messasi sull’attenti, disse: «Notizie da Ronan. Sheridan è entrata in travaglio e, circa dodici minuti fa, l’ha portata in ospedale.»

Quella notizia svegliò entrambi e, senza neanche starci a pensare, gettai via le coltri, scatenando le risate di Fay e la sua conseguente fuga dalla stanza.

In piedi e in tenuta adamitica, guardai perciò Rachel, che mi stava scrutando con desiderio misto a esasperazione.

Scrollando le spalle, chiosai: «Si è fatta una cultura, che vuoi che sia?»

«Ha già una cultura anatomica, tesoro, e non ha bisogno di guardare il suo futuro papà, credimi.»

La sola parola mi rallegrò, facendomi sorgere un sorrisone tronfio in viso. Rachel, scendendo a sua volta, mi lanciò pantaloni e camicia, esalando: «Ma sei davvero un caso senza speranza! Guarda come ti pavoneggi!»

«Potrò pure esaltarmi all’idea di diventare suo padre, no?» mi lagnai, vestendomi in fretta. Non volevo attendere un minuto di più, a casa.

Lei sorrise, mi raggiunse con ancora il maglione tra le mani e, dandomi un bacio sulle labbra, mormorò: «Sono io a essere felice che tu sia contento di diventare il suo papà. Oltre che mio marito.»

«Non ti ho ancora detto sì» sottolineai, ironico.

«Se prendi lei, prendi anche me, caro. Non scenderò mai a patti, su questo» replicò con affettazione, infilandosi le scarpe.

«Vedrò di farmela andare bene, allora» sospirai, scuotendo il capo con rassegnazione.

Un attimo dopo, Rachel mi abbracciò con forza e io, nel darle un bacio pieno di desiderio sulle labbra, asserii: «Sbrighiamoci. Non vorrei arrivare tardi.»

«Se è fortunata, avrà un travaglio breve. Ma è così magra che dubito sarà semplice.»

Rabbrividii, al pensiero di Sheridan sconvolta dai dolori del travaglio ma, quando salii in auto con Rachel e Fay, mi sentii un po’ meno spaventato.

Rachel era sopravvissuta, e sua figlia era un’autentica bellezza, perciò tutto sarebbe andato per il meglio anche per Sheridan.

Non impiegammo molto a raggiungere l’ospedale, vista l’ora tarda – erano le due del mattino – e, quando fummo nel reparto maternità, chiedemmo lumi.

Ci dissero che Sheridan e Ronan erano in sala parto e, nel pregarci di attendere in sala d’aspetto, l’infermiera con cui avevamo parlato se ne andò.

Io mi lasciai crollare su una delle poltroncine color confetto e, battendo ritmicamente il piede a terra, cominciai a tormentarmi le unghie.

Fay, accanto a me, fu lesta ad afferrarmi una mano, mentre Rachel fece lo stesso con l’altra.

«Non arriverai a domani, se continui così. Respira, Krilash» mormorò Fay, sorridendomi incoraggiante.

«Cercate di capire, ragazze. Da noi,  le cose non funzionano così. Nessun padre entra in sala parto. E la famiglia se ne va non appena il bambino nasce. Solo i genitori possono stare col bambino, il primo giorno. Non so letteralmente come comportarmi» esalai, nel panico più totale.

«Ci siamo noi, qui con te. Ti aiuteremo» mi promise Rachel, allungandosi per darmi un bacio sulla guancia.

I passi frettolosi di diverse persone si avvicinarono alla sala d'aspetto e, volgendo lo sguardo verso il corridoio, illuminato da tenui luci color crema, sorrisi.

Stheta, Lithar, Konag, Ciara e Megan giunsero per darci man forte e, sospettai, ben presto sarebbero giunti anche Eithe e Díomán.

Abbracciai tutti velocemente, prima di ragguagliarli sulle ultime novità.

In breve, occupammo quasi tutte le poltroncine disponibili e Fay, accomodata accanto a Ciara, cominciò a parlare fitto fitto con lei, le teste vicine e gli occhi complici.

Sorridendo a Rachel, mormorai: «Pare abbia già trovato una nuova amica.»

«Fay la venera. Penso che Ciara sia diventata la sua eroina» ironizzò, stringendomi la mano con calore. «Non l'ho mai vista così a suo agio, in tutta la sua breve vita. Ora che ha voi e il branco di licantropi, penso si senta completa, non più... isolata.»

«E tu?»

Lei annuì, sollevò la mia mano per baciarne il dorso, e mormorò: «Anch'io non mi sento più sola.»

Feci per parlare, per rassicurarla, ma l'arrivo di Eithe e Díomán mi bloccò.

Fu una nottata lunga, che si protrasse per più di quattro ore ma, quando infine un'infermiera uscì per rassicurarci, potemmo tutti tirare un sospiro di sollievo.

Rohnyn uscì alcuni minuti dopo, il viso stanco ma sereno.

Nel vederci tutti lì ad attendere trepidanti, scoppiò in una risata sommessa e lasciò che le lacrime scivolassero sul suo viso.

Stheta fu il primo ad abbracciarlo, a cercare di consolarlo in quella crisi temporanea, in quel crollo nervoso più che comprensibile.

Io e Lithar ci guardammo per un attimo, prima di seguire l'esempio del nostro fratello maggiore e, vagamente goffi, ci unimmo all'abbraccio.

Uno dopo l'altro, tutti i presenti si congratularono con lui, chi dando baci, chi dispensando abbracci.

Fay, dal canto suo, si strinse con forza a Ronan e, sollevando il viso per sorridergli, disse: «Scommetto che è un bambino bellissimo.»

«Non saprei dirti, Fay. Era piuttosto grinzoso, quando l'ho visto» ironizzò, pur lasciando trasparire il suo orgoglio.

«Ha già la rhiall?» gli domandò, tornando a sedersi accanto a Ciara, mentre Rohnyn prendeva posto vicino a me.

«E' color pesca, sulla spalla. Non la attiverò finché non sarà lui a volerlo, se mai lo vorrà» le spiegò, sorridendole.

Fay allora si aprì in un sorriso gaio e, sfregando le mani tra loro, commentò: «Il mio primo cugino. Non vedo l'ora di vederlo.»

Quella frase apparentemente innocua portò con sé, però, occhiate curiose e maliziose, cui io non diedi alcun peso.

Quello non era il mio momento, ma quello di Rohnyn e Sheridan.

Avrei spiegato tutto alla mia famiglia più tardi, quando ci fossimo sincerati della buona salute di bebè e mamma.

 
***

I neri capelli sparsi sul cuscino, Sheridan appariva stanca e provata, ma maledettamente orgogliosa.

Teneva il pargolo stretto al petto, mentre suggeva il latte con bramosia.

Rohnyn, poggiato contro il muro, li osservava con amore e ansia assieme.

Il ricordo di Mairie, in quei momenti, doveva essere tremendo, dentro di lui, ma ero convinto che Sheridan non avrebbe avuto problemi.

Neppure una tempesta avrebbe potuto abbatterla.

«Ronan mi ha detto che il vento pare essere cambiato, eh?» mormorò Sheridan, carezzando distrattamente la testolina scura del figlio.

«Dipende da cosa intendeva. Fuori c'è un vento infernale, un freddo pari solo al Polo Nord e sembra che, per domani... no, per oggi, in effetti, sia previsto un temporale» ironizzai, scrollando le spalle.

Lei mi guardò con una smorfia dipinta in faccia e, burbera, replicò: «Non fare lo gnorri con me, Krilash mac Lir, perché posso stenderti con un pugno anche da questo letto.»

Risi sommessamente, annuendo. Non ne avevo il minimo dubbio, e il suo commento mi rassicurò sulla sua salute.

Sheridan stava bene, e non avrebbe avuto complicazioni di alcun genere.

«Ebbene?» insisté, sbuffando.

«Io e Rachel ci sposiamo... a Mag Mell e qui. Niente di sfarzoso, perché voglio prima di tutto farla conoscere ai nostri genitori.»

«Sei quindi deciso a portarle entrambe in fondo al mare» asserì pensierosa, rimuginando sulle mie parole.

«La cerimonia che faremo sulla terraferma servirà solo a sistemare le cose a livello burocratico, nel caso in cui decidessimo, ogni tanto, di ricomparire qui» le spiegai, pragmatico. «Ma Rachel e Fay diventeranno fomoriane, e il primo atto pubblico a cui parteciperanno sarà proprio il matrimonio.»

«Un vero e proprio battesimo del fuoco.»

Lo disse con ironia, ma lessi nei suoi occhi il timore.

«Sanno a cosa vanno incontro, non temere. Specialmente Fay. E, in tutta onestà, credo che diversi fomoriani troveranno difficile stare al passo con lei. Non solo ha imparato la nostra lingua in pochi mesi, e riesce a destreggiarsi bene con i vari tempi verbali, ma ha una capacità innata nel maneggiare la spada e la lancia.»

Percepii senza sforzo l'orgoglio nella mia voce, e Rohnyn mi sorrise complice.

Era difficile vedermi nelle vesti di padre, eppure io mi ci trovavo già benissimo.

Perché, checché ne dicesse la genetica, Fay era mia figlia nel cuore.

«Rachel è pronta a perdere la figlia per almeno vent'anni?» mi domandò ancora Sheridan, stringendo impercettibilmente il figlioletto.

Era chiaro quanto, quell'argomento in particolare, la angustiasse.

Era diventata buona amica di Rachel, e l'idea che potesse soffrire la metteva in agitazione.

«Ci spalleggeremo a vicenda, perché so già che mancherà tremendamente anche a me, ma Fay è sicura di sé, e Rachel si fida di lei. Io mi fido di lei.»

Sheridan parve soddisfatta dalle mie risposte, perché sospirò più serena e lasciò che il capo tornasse a posarsi sul cuscino.

«Lascio entrare gli altri, ora. Vogliono tutti vedere Kevin Michael O’Sea.»

Mi allontanai per raggiungere la porta ma, una volta poggiata la mano sulla maniglia, Sheridan mi bloccò, chiamandomi per nome.

Mi volsi a mezzo, scrutandola, e lei disse: «Non lasciare che tuo padre e tua madre mettano loro i piedi in testa.»

«Non succederà. Te lo prometto.»








1: Giusto per rinfrescarvi la memoria, Oisin chiede a Niamh di poter rivedere le sue terre tanto amate, così lei glielo permette, ma lo mette in guardia. Se scenderà dal destriero che gli ha dato - che è intriso della sua magia - morirà sul colpo. Questo perché, mentre a Mag Mell sono passati solo pochi anni dal suo arrivo, in Irlanda sono passati 300 anni, e lui morirebbe subito, se toccasse il suolo, perché perderebbe la magia che lo lega a Niamh.
Oisin, però, cede all'altruismo quando vede un viandante bisognoso di soccorso e, dimentico degli ammonimenti dell'amata, scende dal cavallo, morendo per diretta conseguenza poco dopo, perché i 300 anni trascorsi sulla terraferma si riversano su di lui in un colpo solo.

Note: E' infine arrivato il figlioletto di Ronan e Sherry, il piccolo Kevin, che avevate intravisto nell'epilogo della prima storia, The Dream of the Dolphin. Finalmente Krilash può parlare a cuore aperto a Rachel di ciò che successe sulle isole Aran, e di quanto quell'evento lo abbia sconvolto. Ho tralasciato scene cruente, lasciando che intuiste da sole ciò che è effettivamente successo ai Tuatha, perché non mi sembrava necessario sottolineare l'ovvio.
Grazie per essere giunte fin qui con me. Resta ancora altro da vedere e da scoprire, ma siamo a buon punto. A presto!

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 
12.
 
 
 
 
 
Il momento tanto atteso, infine giunse.

Seppure a malincuore, Rachel mise in vendita la gelateria, delegando allo studio legale dello zio tutto quello che riguardò l'aspetto burocratico degli atti.

L'appartamento subì la stessa sorte, così come ciò che in esso era contenuto.

Fay fu ritirata da scuola, adducendo come scusa un trasferimento improvviso e, da ultimo, io e Rachel ci recammo in Comune per il matrimonio.

Dovemmo aspettare dicembre, perché tutto fosse rispettato a livello burocratico e, nel frattempo, tagliammo i ponti con il passato.

Rachel provò a parlare con i suoi genitori, mettendoli al corrente che, entro breve tempo, sarebbe stata pressoché irreperibile.

Fu come parlare al vento e questo mi spiacque molto, ma lei non disse nulla e Fay, con noncuranza, non diede adito di essersela presa.

I suoceri non solo si disinteressarono alla sua chiamata ma, più semplicemente, le dissero di non farsi più sentire.

Era evidente quanto, l’ultima batosta subita, li avesse irritati e allontanati dai loro propositi.

A quel punto, non rimaneva che salutare l’unica persona, nella famiglia O’Rourke, che contasse qualcosa per le mie due donne.

A tal fine, ci dirigemmo verso la casa dello zio di Fay e Rachel, l’unico che si era prodigato per loro nel momento di massimo bisogno.

Donovan O’Rourke abitava in una villetta fuori dai confini di Dublino, abbarbicata sulla scogliera a est della città, nella contea di Howth.

Il cottage a due piani, circondato dalla bassa vegetazione della zona e da un muricciolo di sassi a secco, era rivolto fieramente verso l’oceano.

Isolato e riparato dalla cacofonia della città, pareva in ascolto delle voci del mare, dei suoi lamenti, delle sue risa.

Quando lo vidi, sorrisi spontaneamente. Era un bellissimo luogo, dove vivere.

«E’ sempre bello venire a trovare zio Donovan» mormorò Fay, quando Rachel fermò l’auto e scese.

Io la imitai, al pari di sua madre.

E in egual modo mi stiracchiai, inspirando l’aria salmastra, i suoi profumi, le parole portate dal vento, le voci delle sentinelle di pattuglia, gli umori delle creature del mare.

Fay mi sorrise, e in quel sorriso vidi tutta la sua gioia, tutta la soddisfazione provata all’idea di non apparire pazza, o anche solo vanesia.

Ora sapeva con certezza che, quello che avvertiva, non era frutto della sua fantasia, ma del suo sangue ancestrale.

Rachel ci sorrise con eguale amore e, presi per mano entrambi, ci disse: «Andiamo. E’ ora.»

Assentii e, mano nella mano, scendemmo gli scalini in pietra che conducevano verso Whitewater, il cottage degli O’Rourke.

Lì, suonammo il campanello e, quando un uomo robusto e dal fisico imponente venne ad aprirci, la sorpresa si dipinse sul suo volto.

Un attimo dopo, l’uomo abbracciò Rachel, diede un buffetto sulla guancia a Fay e, con curiosità, allungò una mano verso di me, asserendo stentoreo: «Io sono Donovan O’Rourke, lo zio di queste due bellezze. Entrate, coraggio. Il tè si fredda, ed Eilis è ansiosa di vedervi.»

Lo seguimmo all’interno e, come potei notare subito, la mano sapiente di una donna aveva saputo ammorbidire le rigide mura in pietra grigia dell’antico cottage.

Pizzi e merletti rivestivano mobili di mirabile fattura, mentre quadri di scuola fiamminga si intervallavano a dipinti di Fay, che riconobbi all’istante.

Nel farci accomodare nel salotto di fronte all’oceano, non potei che apprezzarne la vista magnificente. Era come essere immersi nelle acque tempestose e purulente dell’Atlantico.

Sorrisi spontaneamente, quando la donna che stava servendo il tè si volse verso di noi… e, per poco, quel gesto la fece svenire.

I suoi grandi occhi color delle perle si spalancarono, sorpresi e sgomenti e, nel passare lesta lo sguardo da Rachel a Fay, esalò: «Non… non è possibile…»

Confuso, guardai dubbioso Mr O’Rourke che, premuroso, mormorò: «Eilis, tesoro, stai bene?»

Lei tornò a guardarmi e, con mano tremante, scostò il foulard di seta che portava al collo.

Fu il mio turno di apparire sconvolto e Fay, facendo tanto d’occhi, esclamò: «E’ la rihall dei mac Leogh! E’ come quella di Konag!»

L’uscita di Fay fece sobbalzare sia me che Eilis che, affrettandosi a poggiare la teiera sul tavolino da salotto, si produsse in una riverenza fomoriana, mormorando ossequiosa: «Mai avrei immaginato di incontrarvi una seconda volta, mio principe. E in compagnia delle mie nipoti, per di più!»

Rachel mi fissò a bocca aperta, e così pure Donovan che, sbattendo le palpebre, esalò confuso: «Principe? Eilis, che vuoi dire? Quale dei principi?»

Io scrollai le mani, affrettandomi a risollevare Eilis perché non restasse prostrata oltre e, ponendo il mio sguardo sul padrone di casa, chiosai: «Oserei dire che lei sia al corrente di ogni cosa, visto che non mi pare poi così sconvolto dall’uscita di sua nipote. Né da quella di sua moglie.»

Lui ci guardò tutti, pregandoci di accomodarci e, dopo aver preso un bel respiro, ci spiegò di Eilis, del suo incontro con lei, della scoperta della sua identità.

Ci mostrò poi la sua rihall sbiadita, poco sopra il polso, la voglia a forma di stella a tre punte dei mac Cumhaill e, sorridendo alle nipoti, asserì: «Non ve ne ho mai parlato perché, in tutta onestà, non avrei saputo da che parte cominciare. E dubitavo mi avreste creduto.»

«Hai rinunciato alla tua pelle, Eilis?» domandai a quel punto, vedendola annuire con foga.

Le sorrisi compiaciuto, prima di rivolgermi a Donovan. «Non ha considerato l’idea di abbandonare la terraferma per Mag Mell. Perché?»

«Se Fay conosce Konag mac Leogh, credo saprà anche cosa è capitato alla sua famiglia.»

Annuii, aggrottando la fronte. Eilis, allora, prese la parola.

«Non solo Konag rimase sconvolto da quello che successe al fratello. Pur essendo solo una sua cugina, il fatto mi colpì nel profondo. Compresi senza fatica alcuna le ragioni che spinsero Konag a portare via i suoi famigliari dal Protettorato, per dirigersi a Mag Mell. Per molto tempo, volli farlo anch’io.»

Sospirò e, lanciando un sorriso carico d’amore a Donovan, proseguì. «Litigai ferocemente con la mia famiglia, quando espressi il mio desiderio di raggiungere Konag e i suoi, così fuggii da casa e raggiunsi la terraferma. Conoscevo piuttosto bene la lingua, ma mi ritrovai spaesata di fronte a una cultura che conoscevo a malapena. Fu Donovan a darmi una mano.»

Lui le strinse le dita in una leggera stretta e, sorridendole, aggiunse: «Non faticai a capire che si trattava di una creatura unica… visto che la vidi mutare in un delfino dinanzi a me.»

Fay si coprì la bocca, ridacchiando e Rachel, sorridendo agli zii, esalò: «Un battesimo del fuoco ben peggiore del mio.»

«Direi di sì. E questo ci porta a voi. Che ci fai qui con voi il principe Krilash mac Lir di Mag Mell, tesoro?» le domandò a quel punto Eilis, lanciando a me un’occhiata curiosa quanto maliziosa.

Non riuscii a impedirmi di arrossire, nonostante tutto.

Rachel guardò la figlia e, sommessamente, le disse: «Mostra loro il polso, Fay.»

Annuendo, lei fece come richiestole e, nel mettere in mostra la rihall completamente destata, dichiarò: «Andremo a Mag Mell, per questo siamo qui.»

Se Eilis sospirò di sorpresa, Donovan aggrottò la fronte e mormorò contrariato: «Quindi, è questo il vero motivo della vostra partenza. Mi era parsa strana la tua reticenza, quando me ne parlasti al telefono ma, visto che mi avevi promesso una tua visita, ho preferito soprassedere.»

Lanciando poi un’occhiata a me, dichiarò irritato: «Vuoi davvero metterla in quei diavolo di recinti per…»

Fay interruppe l’arringa dello zio, replicando torva: «Non cominciare anche tu, zio. Ho già litigato con la mamma, per questo. Sono pronta… e addestrata. Nessuno mi metterà i piedi in testa, nelle senturion

«E tu sei d’accordo, figliola?» mormorò allora l’uomo, rivolgendosi a Rachel.

Lei annuì, pur se avvertii senza problemi la sua ansia e, nello stringerle la mano con forza, asserii: «Fay è pronta. Molto più pronta di tanti fomoriani che entrano per la prima volta nelle senturion.»

Eilis sospirò, annuendo grave e, nel sorridere alla nipote, disse: «So che sei sempre stata molto percettiva, perciò usa questa tua capacità per comprendere subito di chi ti puoi fidare. I fomoriani non usano come dovrebbero questo dono, ma tu sai usarlo. Sfruttalo, Fay cara.»

«Lo farò, zia» assentì lei, con convinzione.

«Sarei lieta se poteste darmi notizie su mio cugino, principe. Sta bene? E come mai si trova anch’egli sulla terraferma?» mi domandò poi Eilis, curiosa.

«Ti lascerò il numero di telefono, Eilis e, per favore, dammi del tu. Non siamo alla Corte. E ora, o tra poco, saremo parenti.»

La notizia non li sorprese più di tanto, ma ugualmente Eilis volle tributarmi il bacio delle madri che accolgono i mariti delle figlie, e io gliene fui grato.

Era bello sapere che, anche in quelle lande, qualcuno aveva voluto veramente bene alla mia Rachel e alla mia Fay.

Spiegai loro i nostri piani, e Donovan ci mise al corrente di una recente notifica della famiglia del padre di Fay.

A quanto pareva, i nonni avevano diseredato la nipote, imponendo alla nuora di non farsi mai più vedere, né di pretendere da loro alcunché.

Ed ecco spiegato il motivo di tanta ritrosia, da parte loro, al telefono. Beh, per lo meno, non ci avrebbero più disturbato.

Nel firmare i documenti che lo zio le diede da firmare, Rachel addirittura sogghignò e, nel sorridermi, dichiarò lapidaria: «Mai notizia mi ha reso più felice… a parte sapere che ti sposerò.»

«E’ già qualcosa» chiosai, scatenando l’ilarità generale.

Quando, ore dopo, ci avviammo per tornare a Dublino, Donovan baciò le nipoti prima di dirci: «La nostra casa sarà sempre aperta se, un domani, vorrete venire a trovarci. Come vedete, c’è posto in abbondanza.»

«Lo faremo senz’altro» promisi loro, prima di sorridere a Eilis, aggiungendo: «Chiama Konag. Sono sicuro che sarà felicissimo di sapere che una sua parente è qui.»

«Lo farò, e ancora grazie. Per loro, e per Konag» mormorò, ringraziandomi con un cenno del capo.

Assentii e, nell’allontanarmi assieme a Rachel e Fay, dissi: «Ora sono più tranquillo. Per tutto.»

«E io sono pronta.»

Fay annuì all’indirizzo della madre, annuendo a sua volta.

Era tempo. Nulla ostacolava più la nostra partenza.

 
***

La mia seconda pelle era stesa su un ripiano da lavoro, che Rohnyn aveva sistemato nel garage della sua casa sul mare.

Nella mia mano, un pugnale cerimoniale.

Rachel e Fay, accanto a me, scrutarono ansiose il tessuto luminescente, così simile ai colori di una madreperla, e deglutirono preoccupate.

Sapevano ormai più che bene che, quel mantello dalla trama sottile, era in realtà molto di più.

Ed erano al corrente che, praticare delle incisioni su quel tessuto, avrebbe voluto dire infliggermi un dolore immane.

Ma era l'unico modo per portarle a Mag Mell da donne libere e, per loro, avrei sacrificato ben di più di qualche lembo di pelle.

Quando avvicinai la lama, Rachel mi afferrò il polso, bloccandomi, e domandò: «Sei sicuro che non ci sia altro modo?»

«Più che sì, Rachel. L’alternativa, sarebbe farvi bere parte del mio sangue, ma questo vi confinerebbe per sempre entro le pareti della barriera che protegge Mag Mell, e questo non lo farò mai. Perciò, state pronte, per favore. Sanguinerò un poco.»

Lo dissi con un mezzo sorriso, ma non convinsi nessuna delle due.

Fay strinse al petto le pezzuole pulite che avrebbero usato per curarmi mentre Rachel, con un sospiro, lasciò la presa dal mio polso.

Senza attendere oltre, affondai la lama nel tessuto e, istantaneo, un dolore cocente riverberò sulla mia schiena, portandomi a digrignare i denti.

Sia Rachel che Fay ansarono spaventate e, a giudicare dal bruciore alla spalla, ipotizzai fosse comparsa la prima ferita.

Intaccare la pelle di delfino, non era un processo che si potesse attuare senza aspettarsi dei danni collaterali.

Essa era legata a doppio filo con il nostro sistema nervoso centrale e, ciò che veniva fatto a lei, si ripercuoteva su di noi.

Era un'ottima difesa in battaglia ma, se lacerata, lasciava strascichi sul nostro corpo.

Resistente sì, ma non indistruttibile.

«Tampona la ferita, per favore» mormorai a denti stretti, lanciando un'occhiata a Rachel.

Lei assentì, afferrando dalla mano di Fay una delle pezzuole.

Quando avvertii il suo tocco, soffiai tra i denti per il bruciore, ma proseguii nell'incisione.

Avrei dovuto ottenere due lembi di tessuto da stringere attorno alle loro rihall, così da sopperire alla mancanza della loro pelle di delfino.

Sapere se sarei riuscito a portare a termine quell’impresa, però, fu difficile a dirsi.

Ogni millimetro in più era fuoco che mi divorava le carni e, pur avendone avuto piena coscienza prima di iniziare, sentirlo su di me fu ugualmente sconvolgente.

Erano davvero troppi secoli che non combattevo seriamente, e non rammentavo più cosa volesse dire ferirsi a quel modo.

Avanzai comunque con decisione, per ridurre al minimo il tempo di incisione e, palmo dopo palmo, la ferita sulla spalla di allargò.

Rachel però non disse niente e, a giudicare dallo sguardo volitivo di Fay, neppure lei sarebbe crollata.

Immaginai quanto costasse loro guardarmi mentre mi infliggevo quelle ferite, ma erano anche consapevoli che, questo gesto, avrebbe dato loro la libertà.

E un nuovo futuro.

Quando infine ottenni una striscia abbastanza lunga per entrambe loro, tolsi il coltello dal tessuto e tagliai in due il lembo ottenuto.

Rachel continuò a tamponarmi la ferita sanguinante e, competente, iniziò a fasciarla stretta perché non perdessi troppo sangue.

A quel punto, mi volsi verso Fay e, con un mezzo sorriso, le dissi roco: «Allunga il braccio, lehen, tesoro, per favore.»

Assentendo tremula, mi mostrò la rihall e, quando avvolsi la mia pelle al suo polso, questa si ancorò al suo simbolo dinastico come una ventosa.

Sorrisi, soddisfatto del risultato.

Sapevo solo in teoria che, una cosa del genere, avrebbe dovuto accadere, ma vederlo dal vivo fu tutt'altro affare.

Quando Rachel ebbe terminato di curarmi, mi volsi infine verso di lei, notando le sue lacrime trattenute a stento.

Le carezzai una guancia, baciandola teneramente, e sussurrai: «Guariranno. E le cicatrici le porterò con onore.»

Ciò detto, mi inginocchiai e avvolsi la sua caviglia.

Come era successo per Fay, anche in quel caso la pelle aderì perfettamente.

Rialzandomi a fatica – il dolore alla spalla quasi mi accecava – asserii perentorio: «Ora, arriva la parte più difficile. Dovrete compiere un autentico atto di fede, perché vi chiederò di entrare in acqua... e di respirare a pieni polmoni.»

Nessuna delle due parve, all'apparenza, spaventata, ma i loro pensieri errabondi mi giunsero con violenza, smentendo ciò che stavo vedendo.

Erano terrorizzate, e non diedi loro torto.

Al loro posto, se fossi nato come umano, sarei corso via urlando.

Ugualmente, le presi entrambe per mano e, insieme, ci dirigemmo verso la spiaggia.

Faceva freddo, quel giorno, e i miei abiti da fomoriano non mi proteggevano per nulla dall'aria gelida proveniente dall'oceano.

Non vi badai e, rafforzando la stretta sulle loro mani, mormorai: «Andiamo.»

Quasi all'unisono, sia Rachel che Fay si volsero indietro per lanciare un'ultima occhiata alla casa di Rohnyn.

Non era un addio definitivo, ma entrambe sapevano che, da quel momento in poi, la loro vita sarebbe cambiata per sempre.

Nulla di strano che la paura stesse facendo capolino proprio in quel momento.

Lasciai perciò loro il tempo necessario per abituarsi, per lasciare agli ultimi residui di panico di abbandonare i loro corpi, dopodiché mi avviai.

Immergemmo i piedi nell'acqua gelida e Fay, sbuffando, si lagnò per la temperatura bassissima.

Le sorrisi comprensivo, baciandole la chioma fulva.

Per l'occasione, li aveva legati in una lunga treccia.

Avanzammo lentamente, sperando che si abituassero alla temperatura e, pur tremando, entrambe proseguirono verso il largo.

Quando divenne impossibile camminare, mi immersi per primo e, per diretta conseguenza, loro dovettero seguirmi.

E fu lì che ebbi paura per loro.

Avevo dovuto chiedere lumi ai Tre Saggi, per conoscere correttamente il modo giusto per portarle a Mag Mell, ma non sapevo di nessuno che aveva compiuto gli stessi gesti.

Se fossero morte per colpa mia, come avrei fatto a sopravvivere?

Non impiegarono molto a farsi prendere dal panico.

L'atavica paura di affogare prese presto il sopravvento e, tappandosi la bocca, entrambe cercarono di non prendere fiato.

Tutto fu vano.

A un certo punto, i polmoni agirono per riflesso, obbligandole a prendere una boccata d'aria. Che, in quel caso, era acqua.

Le guardai terrorizzato, più che cosciente del loro terrore puro ma, quando entrambe ebbero deglutito la prima boccata di acqua salata, si chetarono.

I loro movimenti frenetici si ridussero e, sorprese e sgomente assieme, mi guardarono al colmo dello stupore.

«Potete anche parlare, ora» dissi loro, ascoltando il suono della mia voce, distorto dalle correnti marine.

Fay rise e, a occhi sgranati, provò a dire qualche parola.

Io, allora, guardai Rachel e le chiesi: «Tutto bene?»

«E' … è strano. E l'acqua è amarissima!» esalò, scoppiando a ridere un attimo dopo per poi abbracciarmi.

La strinsi a me, lieto che tutto avesse funzionato alla perfezione e, nell'osservare Fay alle prese con l'acqua, fui felice di aver rischiato.

Loro erano la mia nuova famiglia, e niente avrebbe potuto spezzare questo legame.

Le ripresi per mano e, con un sorriso che avrebbe illuminato anche l'antro più oscuro, dissi loro: «Ci aspetta una nuotata di almeno un'ora. Siete pronte?»

Entrambe annuirono e, insieme, ci dirigemmo verso Mag Mell, verso il nostro futuro assieme.

 
***

Non seppi dire chi, delle due, fu più sorpresa, quando oltrepassammo la barriera difensiva di Mag Mell.

Quello di cui fui sicuro fu che, entrambe, si guardarono intorno stranite, sorprese di trovare un'autentica metropoli sul fondo dell'oceano.

Fino a qualche istante prima, i loro occhi avevano scorto solo fondali sabbiosi, rocce e pesci di ogni genere e forma.

Alcuni banchi di sardine si erano intervallati a radi cacciatori notturni, ma nulla le aveva preparate a quello spettacolo.

Perché immaginavo che, agli occhi di uno spettatore occasionale, Mag Mell apparisse grandiosa come i dipinti su Atlantide.

I suoi alti palazzi si inerpicavano verso l'alto, arrampicandosi sui fondali marini sconnessi.

Alcuni, quasi lambivano la cupola protettiva creata con la magia.

Le sue piazze, ampie ed ellittiche, si intervallavano a lunghe vie interminabili, abbellite da statue, fontane e creazioni naturali in roccia o corallo.

La reggia, poi, risplendeva per bellezza e grandiosità, sulla parte più alta della città.

Il più imponente tra i palazzi di Mag Mell, si estendeva per centinaia di iarde in tutte le direzioni, e le sue alte torri svettavano longilinee e fiere.

Variopinto come una conchiglia di madreperla, il palazzo reale era composto da più ali, ma il corpo principale svettava nel mezzo con la sua cupola a campana.

Lì, risiedeva il potere centrale, la Sala del Trono, il luogo in cui i Reali incontravano il loro popolo.

Lo stendardo del re sventolava sulla più alta delle torri a coda di rondine e Rachel, nel mettere finalmente piede a terra, esalò esterrefatta: «Ma... come diavolo fa a sventolare?»

«Sfrutta il movimento delle correnti marine all'esterno. Ma se vuoi la spiegazione tecnica, ti farò parlare con uno dei nostri Saggi. Ne sa di sicuro più di me» le spiegai succintamente, sorridendole comprensivo.

Immaginavo senza fatica quanto, tutto questo, potesse confonderle.

A quell’ora, le uniche persone presenti erano i militari di ronda presso il palazzo, perciò non avremmo trovato, lungo la strada, curiosi e ficcanaso.

Non che la curiosità dei militari non avrebbe destato qualche ansia nelle mie compagne di viaggio, ma era sempre meglio dell’occhio acuto della Corte.

Prese per mano entrambe, mi diressi perciò verso il palazzo reale, sperando di potervi entrare prima che i servizi segreti del re comunicassero il nostro arrivo.

Non persi tempo a spiegare ciò che incrociammo lungo il cammino – avremmo avuto tempo per questo – e, nel raggiungere il cortile esterno, mormorai: «Lasciate parlare me, per ora.»

Entrambe annuirono e, quando uno dei soldati si avvicinò a noi, rizzai le spalle e persi qualsiasi desiderio di sorridere.

Salutai il soldato, riconoscendolo subito e, quando lui notò la presenza di Rachel e Fay, si fece immediatamente guardingo.

«Principe Krilash, sono davvero spiacente, ma sapete bene che non posso far entrare nessuno, a quest’ora tarda. Ordini di vostro padre.»

«Conosco benissimo le regole, Thiar, ma converrai con me che non stai parlando con l’ultimo arrivato, bensì con uno dei figli del Re.»

Mi espressi con tono vagamente ampolloso, lo ammetto, ma l’occasione richiedeva un po’ di sfacciataggine.

Il fomoriano arrossì di rabbia, indispettito dal mio dire, ma si mantenne calmo nonostante tutto.

«Vorrei poter fare un’eccezione, ma non ho scritto io le regole. Nessuno può entrare a palazzo, dopo il doppio rintocco della campana.»

Maledette, stupide regole. Come se potessi fare qualche danno, giungendo a casa mia a notte inoltrata.

Passandomi una mano tra i corti capelli, borbottai disgustato: «Non mi lasci altra scelta, allora. Chiama Sua Altezza il principe Stheta, e fallo venire qui.»

«Che cosa?!» esalò allora il soldato, impallidendo per diretta conseguenza.

«Se io non posso entrare, qualcuno all’interno può dirmi di farlo. Perfettamente entro le regole di mio padre il Re» replicai, lasciando che un sogghigno beffardo si dipingesse sul mio viso.

«Ma Altezza…» tentennò Thiar, non sapendo bene che fare.

Disturbare un principe a quell’ora tarda, non era esattamente quello che uno qualsiasi dei soldati di guardia avrebbe voluto ricevere come ordine.

Ma visto che mi ci aveva costretto…

«Già, Sua Altezza starà sicuramente dormendo assieme alla sua compagna, nella migliore delle ipotesi, e troverà assurdo essere svegliato per una cosa simile. E con chi se la prenderà? Con te, è ovvio.»

Sbuffai, volendo calcare la mano, e aggiunsi: «Andiamo, Thiar, lascia perdere e fammi entrare. Le due signore, con me, hanno bisogno di un cambio d’abito perché, al più presto, dovranno conferire con il Re mio padre, e non possono certo farlo con abiti umani, ti pare?»

La confusione del soldato divenne sempre più evidente, così come la sua indecisione su quale fosse la cosa migliore da fare.

L’arrivo di Stheta, in peplum bianco e rosso e con la lunga e fluente chioma sparsa sulle spalle, raggelò però Thiar, impedendogli così qualsiasi decisione.

In compenso, sul mio viso, apparve per diretta conseguenza un sorriso soddisfatto.

Mi ci era voluto un po’ per raggiungere la mente di mio fratello, nel guazzabuglio di pensieri presenti a palazzo, ma alla fine c’ero riuscito.

E lui aveva risposto al mio appello con la sua solita solerzia, condita con un bel po’ di imprecazioni.

Avrei pensato in seguito a scusarmi con lui e Ciara ma, in quel momento, dovevo pensare a Rachel e Fay.

Thiar fu lesto a inchinarsi e, mentre Stheta lo fissava con espressione irritata, borbottò: «E’ mai possibile che, in tanti secoli, ancora tu non abbia capito come si comporta quello scellerato di mio fratello?»

«Grazie, eh?» brontolai, accigliandomi leggermente a quelle parole.

Rachel fece di tutto per non ridere. A Fay risultò più difficile.

«Le mie più sentite scuse, Altezza, ma le regole parlano per me» mormorò ossequioso il soldato, continuando a profondersi in inchini.

Scuotendo nervoso una mano, Stheta lo lasciò perdere e, con un cenno a me e il mio gruppo, disse: «Prego, seguitemi. L’ora è tarda e il tempo è tiranno.»

Oltrepassando la prima griglia di sicurezza del palazzo, mi affiancai a Stheta, mormorandogli: «Perdona l’intoppo, ma non ho guardato l’orario. Contavo di arrivare prima, a Mag Mell.»

«Non fa nulla. Tanto, ero sveglio a controllare alcuni documenti, e Ciara era impegnata con Lithar» borbottò Stheta, sbadigliando suo malgrado.

«In che senso?» esalai, sorpreso.

Sbuffando esasperato, Stheta sorrise alle nostre ospiti e disse: «Quelle due si sono messe in testa di rimanere sveglie fino al vostro arrivo, così avrebbero potuto aiutarvi con gli abiti.»

«Oh… ma non era necessario!» esalò Rachel, avvampando d’imbarazzo.

«Quando scoprirai come far loro cambiare idea, dimmelo, Rachel. In migliaia di anni, io non l’ho ancora scoperto» replicò ironico mio fratello, dando una pacca sulla spalla alla mia donna.

Fay, prendendomi per mano, mi domandò: «Pensi che i tuoi genitori avranno dei problemi, ad accoglierci?»

«Posso essere certo che il sole sorge a est e che, sulle nostre teste, ci sono centinaia di milioni di metri cubi d’acqua, … ma dare una risposta alla tua domanda mi è impossibile» ammisi, ammiccandole benevolo.

Lei allora sospirò, annuì e chiosò: «Beh, se sono riuscita a fare lo sgambetto a un licantropo, posso affrontare anche il re dei mari.»

Stheta rise sommessamente a quel nomignolo e, guardandomi, domandò: «Perché lo chiama così?»

«Di fatto, il nostro regno si trova nei mari. E chi è il Re?»

«Verissimo. Penso addirittura che potrebbe piacergli, come epiteto» ammiccò divertito Stheta, dando un buffetto sulla guancia a Fay. «Io me lo terrei come jolly, quel nomignolo.»

«Buono a sapersi» assentì lei, sorridendo poi speranzosa alla madre.

Non impiegammo molto a raggiungere l’ala di palazzo dove si trovava Lithar.

Lì, dopo aver bussato alle sue stanze, trovammo ad attenderci uno stuolo di cameriere, già pronte a mettere le mani sulle due nuove arrivate.

Non solo Lithar e Ciara si trovavano lì, ma anche diverse delle loro cameriere che, vedendo Fay, letteralmente si aprirono in sorrisi estasiati.

All’orecchio di Rachel, quindi, le dissi: «Ti avevo detto che ai fomoriani piacciono i capelli rossi?»

«No, ma mi pare evidente» esalò, notando come le cameriere stessero tastando riverenti la treccia di Fay.

Sorridendo, la sospinsi all’interno. «Vi lascio nelle loro buone mani. Noi ci rivedremo più tardi. Prima, ho un paio di cose da sistemare.»

«A dopo» mormorò lei, avvicinandosi solo per darmi un bacio.

Quel gesto, che sulla terraferma sarebbe stato innocuo e normale, scatenò le risatine e i commenti maliziosi delle cameriere.

Mentre Rachel spariva oltre la porta, un po’ sorpresa dalla reazione delle donne, sperai che non fossero troppo insistenti con le domande.

Tante femmine messe assieme, potevano essere pericolose. E inverosimilmente ficcanaso, anche se avevano sangue fomoriano.

Rimasto con mio fratello, ci guardammo vicendevolmente per alcuni istanti, dopodiché dissi: «Possiamo andare. Ho una ferita da far sistemare, e la mia divisa da indossare.»

Stheta assentì, seguendomi lungo il corridoio per raggiungere l’infermeria di palazzo, che si trovava nel seminterrato dell’immensa costruzione.

Se avessi tardato ancora un po’, sarei sicuramente svenuto.

E dubitavo che Stheta avrebbe gradito dovermi trasportare per due rampe di scale, sulle spalle.

 
***

Seduto sul mio letto, terminai di allacciare lo schiniere destro, prima di alzarmi e ammirare allo specchio l’opera completa.

La mia pelle di delfino, ormai completamente rigeneratasi, brillava lucente alle mie spalle.

I bracciali in cuoio e lamine d’oro erano perfetti, lucidati con oli ammorbidenti e borchiati di recente.

Controllando che la corazza fosse sistemata correttamente, passai una mano sulle incisioni, ricavate sull’acciaio con un bagno d’acido e ottime mani di artigiano.

Il simbolo della mia famiglia capeggiava nel mezzo mentre, ai lati, erano state riprodotte le figure sinuose di due delfini.

Le parti in cuoio erano scure, morbide e sagomate alla perfezione sul mio corpo, così come il gonnello a frange borchiate.

La spada pendeva ricurva al mio fianco, mentre un pugnale con l’elsa in avorio era sistemato alla cintura, dietro la schiena.

«Più ufficiale di così, non potrei essere.»

«Manca l’elmo, ma penso potrai farne a meno» replicò Stheta, approvando la mia scelta di presentarmi al meglio.

Sarebbe stato in ogni caso un incontro difficile, ma dimostrare a nostro padre la mia buona volontà, e la mia serietà, avrebbe giovato.

«E’ giunto il tempo. Avete un’ora, prima che inizino i riti del mattino» mi rammentò mio fratello, dandomi una pacca sulla spalla, incoraggiante.

Assentii e, in quel momento, qualcuno bussò alla porta.

Entrambi ci voltammo e Lithar, infilando dentro la testa, disse: «Noi siamo pronte.»

Per l’occasione, aveva indossato a sua volta un peplum come Stheta, con ricami fiorati sull’orlo.

Un lungo mantello le copriva le spalle, ed era fissato tra i suoi seni con la spilla che le avevo regalato.

Sorrisi nel vederla e lei, carezzandola con affetto, mormorò: «Pensavi che non l’avrei portata? Allora, sei più sciocco di quanto pensassi.»

«Mi fa piacere vederla» asserii, uscendo assieme a Stheta.

Nel corridoio, trovammo Ciara, abbigliata similmente a Lithar, solo sui toni del verde, contrariamente a mia sorella, che indossava il bianco e il viola.

Accanto a loro, con la sorpresa negli occhi, vidi per la prima volta Rachel con gli abiti di una fomoriana.

Rimasi a bocca aperta, e lei sorrise nel vedermi così strabiliato, così ammaliato da ciò che vidi.

Le lunghe chiome ramate erano state raccolte in una crocchia sopra la testa, attraverso una rete intricata di fili di seta, a cui erano intervallate miriadi di perle.

Alcune ciocche le scivolavano attorno al viso sottile, mettendone in evidenza le linee aggraziate.

Il peplum era sontuoso, nei toni del verde, dell’oro e del caramello.

Raffinati ricami richiamavano lo stemma del sole a otto punte, simbolo della sua famiglia.

Ai piedi, indossava calzari dorati mentre, ai polsi, tintinnavano sottili bracciali a forma di serpente.

Fay non era meno bella.

La treccia era stata sciolta per formare una trina, fissata con precisione millimetrica dietro la nuca.

Il suo peplum era più semplice, pur se recava a sua volta lo stemma dei mac Cumhaill.

Nei toni del blu e dell’argento, aveva sottili ricami sull’orlo argentato, e la spilla che lo fissava alla spalla era in raffinata filigrana dorata.

I suoi calzari erano in tutto simili a quelli di Rachel e, al polso sinistro, portava un singolo bracciale in cuoio.

Guardai Lithar, che assentì.

Quel bracciale aveva un significato specifico. Stava a indicare che, il giovane che lo indossava, era pronto per le senturion.

Un chiaro segnale, per chi lo avesse voluto cogliere.

«Ora o mai più» assentii, incamminandomi accanto a Rachel.

Fay ci lasciò sfilare e si mise al fianco di Lithar, mentre Stheta e Ciara chiudevano la fila.

Le prime luci del giorno illuminarono i vetri iridescenti dell’alta vetrata del salone delle feste, passaggio obbligato per raggiungere la Sala del Popolo.

Creata per ricevere i postulanti in visita, la Sala del Popolo era, per grandezza e splendore, molto inferiore alla più titolata Sala del Trono.

Era però stata ricavata nel mezzo del palazzo reale, nel luogo più sicuro e inaccessibile, poiché il Re fosse al sicuro nonostante una così alta presenza estranea.

Questo, naturalmente, lo sapevamo solo noi e pochi altri.

Ufficialmente, la sala si trovava lì per dare maggiore spolvero ai postulanti.

Il popolo non poteva – non doveva – sapere quanto poco, il loro Re, si fidasse di coloro che giungevano per parlare con lui.

Le convocazioni settimanali erano un buon modo per tenere pacificato il popolino e, nei casi più fortunati, qualcuno poteva anche ottenere ciò per cui era giunto lì.

Sperai fosse il mio caso, soprattutto per Rachel e Faélán.

Dovevo abituarmi a chiamarla con il suo nome completo, perché sarebbe suonato davvero scortese usare un nomignolo in presenza dei miei genitori.

Al sicuro da orecchie indiscrete, comunque, per me sarebbe sempre stata Fay.

Giunti finalmente dinanzi alle porte della Sala del Popolo, in quel momento ancora chiuse, lanciai un’occhiata a una delle guardie e dichiarai: «Desidero conferire con le loro maestà. So che sono già all’interno, perciò avverti il cerimoniere che vorrei essere annunciato.»

La guardia assentì prima di lanciare un’occhiata incuriosita a Rachel,… e all’abito che portava.

Erano millenni che lo stemma dei mac Cumhaill non si vedeva, a palazzo, ed era quasi scontato che lui non l’avesse riconosciuto.

«Chi devo annunciare, assieme alle loro Altezze, Mio Signore Krilash?» si informò il soldato.

«Puoi dire che fhiora Rachel mac Cumhaill e fhiora Faélán mac Cumhaill sono giunte per porgere i loro omaggi al re e alla regina.”

A quel punto, la guardia fece tanto d’occhi, si inchinò e si affrettò ad aprire la porticina che collegava l’esterno con l’alcova dove si trovava il cerimoniere.

Il secondo soldato, nel frattempo, aprì le porte per noi e, fattosi da parte, ci permise di avanzare.

Levai perciò la mano, perché Rachel potesse poggiarvi la propria e, al suono musicale della voce del cerimoniere, avanzammo lungo la navata centrale della sala.

Sui loro scranni, la coppia reale si levò in piedi nel sentir nominare il nome dei mac Cumhaill e, per un istante, temetti il peggio.

«Ce la possiamo fare» mormorò Rachel, stringendo leggermente la mia mano mentre avanzavamo a testa alta.

Le lanciai un’occhiata orgogliosa, non potendo esimermi dal provare un immenso amore per lei, che stava affrontando impavida un futuro incerto.

Fidandosi unicamente della mia presenza, della mia parola.

Come avrei potuto non amarla?

Era degna del suo nome ma, se anche non fosse stata una mac Cumhaill, l’avrei amata ugualmente.

In qualsiasi modo, in qualsiasi tempo e luogo.

Tornando a scrutare i miei genitori, che attendevano impazienti il nostro arrivo, bloccai i miei passi ai piedi della scalinata che portava ai troni gemelli.

Lì, mi inchinai al pari di tutti i presenti e, con voce chiara e sicura, esclamai: “Giungo a voi, padre e madre, con liete novelle! Dopo millenni di lontananza, i mac Cumhaill sono nuovamente tornati nella loro terra natia, e io qui oggi porto alla vostra attenzione due loro discendenti.”

Muath fu la prima a parlare, gli occhi che, fin dall’inizio, non si erano allontanati da Faélán, come incatenati a un ricordo lontano.

Scese i gradini fino a giungere a noi e, oltrepassandoci, si pose innanzi alla mia adorata figlia, imponendosi in tutta la sua altezza.

“Potrei riconoscere questi tratti anche tra mille persone, e a mille anni da ora…” mormorò come ipnotizzata, levando una mano a sfiorare con un dito il contorno del viso di Faélán. “… ma vorrei vedere la tua rihall, fanciulla.”

Senza minimamente scomporsi, lei mostrò il polso, dove la stella a tre punte spiccava sulla pelle chiara.

Muath ebbe un tremito e, in fretta, si volse verso di noi, lanciando un’occhiata a Rachel.

La studiò con attenzione, sondandone i pensieri con il suo tocco possente, e infine domandò: “La tua rihall, donna?”

Rachel si piegò, scostando le balze del peplum per mostrare la rihall, visibile attraverso i lacci del calzare.

A quel punto, mia madre annuì a Tethra.

Sceso che fu dalla scalinata, ricoperta di tappeti rosso e oro, si fermò a poca distanza da noi e asserì: “E’ evidente sulle loro carni la presenza della tua pelle, figlio. Hai sacrificato una pinta del tuo sangue e la tua stessa carne, per loro?”

“Come scritto, padre. Era l’unico modo equo per condurle a voi, e alla loro eredità.”

Notai un leggero cipiglio, al mio dire, e un velo di irritata ironia che non compresi.

Il suo sguardo era tutto per Muath che, come in trance, stava osservando sia Rachel che Faélán, forse non credendo ai propri occhi.

Volgendosi finalmente verso di me, mia madre domandò perentoria: “Che legame hai con lei? Con entrambe.”

“Siamo sposati secondo le leggi umane” dichiarai con determinazione, e una sicurezza nella voce che, raramente, avevo avuto. “Abbiamo dovuto agire in un determinato modo, per non destare sospetti, o allertare le forze dell’ordine umane. Nessuno sparisce da un giorno all’altro, lassù.”

Tethra sbuffò sprezzante, ma io non vi feci caso.

“La di lei figlia, quindi, è divenuta anche tua figlia” asserì Muath, sempre continuando a guardarmi con attenzione.

Io sorrisi, lanciando a Faélán un sorriso complice, e annuii. “Sì, madre, così sulla terraferma come, spero, qui a Mag Mell.”

“E loro sono al corrente che, vista la sua età, dovrà entrare nelle senturion?” mi domandò ancora, tornando a guardare in alternanza sia Rachel che la figlia.

“Ne siamo consapevoli entrambe” asserirono in coro sia Rachel che Fay, parimenti determinate.

Tethra rise, si avvicinò a Faélán in tutti i suoi tre metri di altezza e, afferratale una mano, iniziò col dire: “Una giovane umana non potrà resistere neppure un…”

Non appena si rese conto della presenza di calli sul palmo della sua esile mano, mio padre la fissò sbalordito, e Faélán resse lo sguardo con coraggio.

“Non sarò capace di difendermi da voi, nonno, ma sono in grado di tirar di spada e di proteggermi con i pugni, se necessario.”

Tutti noi sgranammo gli occhi, a quell’aperta infrazione dell’etichetta, ma Tethra non vi fece alcun caso e, scoppiando nuovamente a ridere, esclamò: “La mia prima nipote, ed è mezzosangue! Questo è davvero il colmo!”

Tutti noi avremmo voluto parlare del piccolo Kevin, e Muath parve intuire la nostra reticenza, ma nessuno si espresse in merito al nipote umano del re.

Perché tutto finisse bene, non avremmo dovuto menzionarlo, pur se questo mi fece sentire meschino come poche altre volte.

Adoravo già quel bambino, e pensare di bandirlo dalla mia vita anche solo per un attimo, mi parve un’eresia.

Ma, quando si aveva a che fare con i reali di Mag Mell, tutto poteva succedere, e molte cose sgradevoli dovevano essere digerite a forza.

“Non avrei dovuto usare la parola ‘nonno’, vero?” borbottò a quel punto Faélán, lanciando un’occhiata di scuse al re. “Vi chiedo perdono, sire, ma non sono abituata a parlare con persone così importanti.”

“Sei davvero sicura di voler entrare nelle senturion, ragazza?” le chiese mio padre, indirizzando uno sguardo interrogativo al suo bracciale.

Annuendo, lei replicò con forza: “Sono una fomoriana, e mi spetta di diritto, oltre a essere un mio dovere. E papà lo fece millenni addietro, perciò…”

Tethra allora si volse verso di me, uno strano luccichio nello sguardo, e dichiarò con una certa ironia: “La bambina sembra esserti affezionata. A quanto pare, anche tu sei caduto nella trappola delle debolezze umane… ma tant’è, sono entrambe di stirpe nobile, e molto altolocate, per giunta, perciò non v’è nulla che osti il vostro legame.”

“Grazie, padre” mormorai ossequioso, reclinando il capo anche – e soprattutto – per mascherare il mio ghigno irrispettoso.

Sarebbe servito a ben poco mostrare quanto, le sue parole, mi avessero indispettito.

“Resterà da vedere se sopravvivrà o meno alle senturion e, di questo, sarai il solo responsabile” aggiunse, tornando verso il suo scranno dopo aver lasciato la mano di Fay.

“Ne sono consapevole, padre” assentii, tornando a scrutarlo con aria seriosa.

Tethra colse un istante per fermarsi accanto alla moglie, fissarla con un livore raro – se collegato a Muath – e, sibilando tra i denti, mormorò: «Ora siamo pari. Tu compisti la tua scelta, ora io ho compiuto la mia. E lei sarà la mia pupilla.»

Non compresi quella frase piena di rabbia, ma il reclinare colpevole di mia madre mi mise in allarme.

Cosa non sapevo? Cosa non sapevamo?

Mio padre proseguì, raggiungendo il trono per poi accomodarsi con la sua consueta regalità e, squadrata infine Rachel, dichiarò: «Siano rese terre e averi alle figlie dei mac Cumhaill, e venga iscritto a registro che, entro le prossime sei lune, mio figlio Krilash mac Lir prenderà in moglie l’erede della ritrovata famiglia di Niamh mac Lir, vedova mac Cumhaill.»

Il segretario personale del re scrisse tutto sulla sua pergamena e, nel lanciare uno sguardo al suo sovrano, domandò: «E per la fanciulla?»

Ghignando al mio indirizzo, Tethra dichiarò: «Che venga condotta immediatamente nei campi. Ha già passato troppo tempo al di fuori di essi, insozzata dalla feccia umana. Che riprenda contatto fin da ora con la sua vera stirpe. Mi ha già dimostrato di esserne degna.»

«Che cosa?!» esclamai, costernato di fronte alla sua scelta. «Non puoi darle almeno il tempo di…»

Mio padre mi bloccò con un gesto secco della mano e, torvo in viso, asserì: «Ha dichiarato lei stessa di essere una fomoriana e, quando riceverà la livrea, lo sarà di diritto. Perciò, non è più il tempo che stia al fianco tuo e di sua madre. Lei andrà con i soldati.»

Dalle alcove poste ai lati delle colonne, quattro soldati fecero la loro comparsa e Faélán, in un attimo, venne circondata e nascosta alla nostra vista.

Rachel non si mosse, pur se percepii senza fatica il tremore che la scosse dall’interno.

Fui io a muovermi verso di lei, ma Faélán mi bloccò con un’occhiata degna di un guerriero.

«Le regole sono queste, e le ho accettate ben prima di venire qui. Va tutto bene, papà. Davvero.» Levò poi lo sguardo per fissare Tethra e, scaltra, aggiunse: «Dopotutto, è il Re dei Mari ad averlo imposto, e io sono sua nipote. E’ giusto che sia così.»

Tethra rise stentoreo, annuendo e – per il mio sommo sconcerto – sorridendo a Faélán che, ritta e fiera, si allontanò da noi senza più guardarci.

Percepii il tremito della sua paura, e compresi il perché di quella decisione: se ci avesse guardati, la sua forza si sarebbe annullata.

E quello non era il momento di cedere, ma di dimostrare a tutti di che pasta era fatta, primo tra tutti al re.

Mentalmente, poi, aggiunse solo per me e Rachel: «Starò bene, perché so che ci sarete voi a vegliare su di me. E poi, avete visto anche voi con chi mi sono allenata. Nessun fomoriano sa come difendersi da un lupo… e io ho imparato come attaccano. Questo non se lo aspettano, da me, perciò saprò come usarlo a mio vantaggio. Ce la farò. Per me e per voi.»

Annuii a fatica, guardandola andare via assieme ai guerrieri di mio padre, uno scricciolo di fanciulla circondata da alti e possenti guerrieri.

Fremetti, ma rimasi fermo accanto a Rachel, sapendo bene che qualsiasi cosa avessi fatto, avrebbe solo peggiorato la situazione.

«Hai altro di cui discutere con me, figlio?» mi domandò a quel punto Tethra, e io fui tentato di spiattellare ogni cosa su Rohnyn e suo figlio.

L’occhiata disperata di Muath, però, mi fece desistere e, con un inchino, mi congedai assieme al mio gruppo, tenendo saldamente Rachel per mano.

Quando finalmente fummo all’esterno della sala, la abbracciai, sapendola ormai prossima a un crollo e, con voce resa roca dalla rabbia, ringhiai: «Me la pagherà cara… poco ma sicuro.»

Ciara, ben più pratica di me, si volse verso uno dei soldati di guardia alla sala - che per secoli aveva guidato di propria mano - e gli ordinò: «Assicurati che la figlia del principe non abbia problemi. Nel caso, avvisami.»

«Sarà fatto,… nei limiti del possibile» assentì il soldato, allontanandosi alla svelta per passare l’ordine ai suoi commilitoni.

Io la ringraziai con lo sguardo ma Ciara, con una spallucciata, replicò: «Sai benissimo che non sarebbe la prima, né l’ultima volta, in cui un soldato aiuta uno dei ragazzi della senturion. Tu e io ne beneficiammo più di una volta, ricordi?»

«Lo rammento benissimo, per questo ti ringrazio» assentii, sorridendo mesto.

Ciara ricambiò con maggiore convincimento e, nell’abbracciare Rachel, mormorò: «Sono tua sorella, Krilash, e ci si prende cura gli uni degli altri, in famiglia. Lascia che pensi io a tua moglie. Le mostrerò le senturion da un punto di osservazione sicuro, così saprà dove recarsi per vedere la figlia.»

Annuii, lasciando che Ciara portasse via con sé Rachel.

Stare al suo fianco sarebbe servito a rendere più tranquilla Rachel e, al tempo stesso, avrebbe impedito a me di impazzire.

Lithar, ferma al mio fianco e più determinata che mai, mi disse: «Proverò a parlare con i nostri genitori. Chissà che a me non diano un po’ retta.»

«Va bene così, Lithar. Non voglio che tu finisca nei guai per causa mia» scossi il capo, pur ringraziandola. «Inoltre, vorrei parlarti di una cosa molto importante.»

Sorpresa, lei annuì e mormorò: «Il tempo di parlare con loro,  e sarò da te.»

Mi sorrise, dandomi un bacetto veloce sulla gota, e poi scappò via.

Stheta, a quel punto, mi poggiò una mano sulla spalla, domandandomi: «Te la senti di affrontare a tua volta le senturion

«E vederla lì, in mezzo a ragazzi e ragazze che tenteranno di farle più male che ad altri, solo perché è mia figlia?» ironizzai, sentendomi tremare dentro.

Era così facile capire Rohnyn, ora!

Cosa aveva dovuto patire la prima volta, perdendo suo figlio, e cosa aveva dovuto pensare, nel vedere crescere il secondo nel ventre della moglie!?

Avrei preferito di gran lunga combattere di mia mano per mille anni, piuttosto che sopportare di vedere per un solo giorno la mia bambina nelle senturion.

Ma Faélán si era dimostrata abbastanza coraggiosa da accettare la sfida, e io e Rachel avremmo dovuto combattere allo stesso modo.

Mi avviai perciò con Stheta per raggiungere i recinti ma, nel passare sul retro della Sala del Popolo, nostra madre ci bloccò il passaggio.

Entrambi ci irrigidimmo, ma lei ci sorprese con il suo sguardo spiacente, una cosa davvero rara, per Muath.

«Se tu mi avessi avvertito che avresti portato qui le nipoti di Niamh, forse…» mi accusò debolmente, senza la sua consueta forza.

«Ricordo ancora bene cosa successe con Ciara» replicai venefico, lanciando un’occhiata veloce a Stheta, che annuì torvo.

Muath accusò il colpo e si accigliò, ma non demorse.

«Solo la parvhein l’ha salvata dal cappio, e tu lo sai bene. Quanto ai Saggi, non fatico a credere che ci sia stato lo zampino di Stheta, visto quanto li ha sempre visitati con assiduità.»

Nel dirlo, fulminò con lo sguardo il figlio maggiore, che però non mosse ciglio.

«Cos’avreste dunque fatto, ditemi? Se non rammento male, inveiste contro Niamh per anni e anni, per aver scelto un mortale come marito.»

«Avrebbe dovuto parlarmene… l’avrei consigliata in merito, invece fece tutto di testa propria» si lagnò nostra madre, mostrando un dolore vecchio di secoli.

Possibile che il legame tra cugine fosse stato così saldo, e quell’episodio le avesse divise solo in apparenza?

«Sapevo bene che Oisín agognava a tornare nella sua terra natia, e niente di quello che gli offrì Niamh, sarebbe servito a convincerlo a rimanere» proseguì Muath, torva in viso. «Questo avrebbe voluto dire perderlo per sempre, nel momento stesso in cui lui avesse messo piede in Irlanda. E così fu. Oscar e Plon rimasero senza padre, e Niamh si lasciò andare, secolo dopo secolo, morendo di tristezza. Persi sia lei che i suoi figli, che decisero di vivere da mortali, come lo era stato il padre. E tu ora mi chiedi perché avresti dovuto dirmelo? Le avrei protette entrambe, ecco perché!»

«Scusatemi, madre, se non vi credo neppure un poco» replicai, gelido.

Non mi interessava di ferirla. Io ero già stato piagato a sufficienza dai loro modi insensibili.

Muath si accigliò non poco, adombrandosi in viso, ma non rispose.

Io e Stheta, allora, ci allontanammo un poco ma lei, richiamandoci, domandò: «Stanno bene?»

Ci bloccammo, avendo capito perfettamente a chi si stesse riferendo.

Reclinando il capo, mormorai: «Sia Sheridan che Kevin stanno bene. E Rohnyn pensa che potranno avere altri figli.»

Non ci domandò altro, limitandosi a tornare nella Sala del Popolo, e noi proseguimmo lungo la nostra strada.

Quando raggiungemmo una delle balconate più alte del palazzo, guardammo dabbasso, dove si potevano scorgere i confini esterni delle senturion.

Laggiù, scorsi non meno di una quarantina di ragazzi dalle chiome brune, bionde e ramate.

Ma non faticai a capire chi, fra essi, fosse Faélán.

E risi quando, in risposta a uno spintone, lei assestò un degno pugno in faccia al suo assalitore.

Stheta, al mio fianco, dichiarò lieto: «Con pugni simili, si farà strada senza problemi.»

«Lo credo anch’io.»

Mi guardò, sorrise, e infine aggiunse con orgoglio: «E, come ha detto lei, è tua figlia. Basterà questo a tenerla in piedi.»








Note: Oserei dire che, in qualche modo, il comportamento dei reali di Mag Mell può aver sconcertato. Le parole di Tethra alla moglie, poi, sono state sibiliine, foriere di ciò che avverrà nel racconto di Lithar. A quale scelta si riferisce? E perché Tetrha lo ricorda alla moglie con tanto astio?
Fay sembra aver colpito positivamente sul nonno e sulla nonna, e forse questo la aiuterà nelle senturion, ma non credo ne avrà molto bisogno, vista la sua tempra.
Grazie per essere arrivate fin qui, e alla prossima!

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Capitolo 13
*** Epilogo. ***


Epilogo.
 
 
 
 
«Com’è possibile che Lithar non si trovi da nessuna parte?» esalai, scrutando il viso trafelato di Ciara e quello preoccupato di Stheta.

Rachel, raggiuntici proprio in quel momento, poggiò le mani sul torace in affanno e, dopo aver ripreso fiato, asserì preoccupata: «Non si trova neppure negli appartamenti della regina. Ho chiesto a Muath ma lei, non solo non la vede da due giorni, ma non ha la minima idea di dove possa essere finita.»

Mi guardai attorno senza capire, chiedendomi cosa stesse succedendo, e Stheta domandò a Rachel: «Nostra madre non ti ha detto nulla?»

«No, ma mi è parsa preoccupata. Non l’ha detto a parole, ma l’ho percepito senza sforzo» dichiarò, tastandosi la tempia. «E questa è una novità su tutta la linea.»

Annuimmo tutti e Ciara, prendendo l’iniziativa, disse: «Dobbiamo salire in superficie. Forse, si è recata da Rohnyn per vedere il nipote, e non ha avvisato nessuno del suo viaggio. Tutta questa faccenda delle senturion l’ha irritata, e forse non desiderava che la seguissimo dal suo gemello.»

«Tentar non nuoce» mormorai, pur avendo tutt’altra impressione in merito.

L’ultimo ricordo che avevo di Lithar, risaliva al giorno in cui avevo chiesto ai nostri genitori di sposare Rachel.

Al giorno in cui avevo finalmente deciso di aprirmi, di lasciare che gli incubi che mi trascinavo dietro da secoli, trovassero sfogo.

Rachel mi aveva spinto a farlo, grazie a lei avevo trovato la forza di accettare quel che era successo… e ammetterlo con i miei fratelli.

Avevo desiderato parlarne in primis con lei, con la mia dolce sorellina, per saggiare le sue reazioni.

Se lei mi avesse accettato, compreso, Stheta e Rohnyn non avrebbero avuto alcuna difficoltà.

Ma lei era scappata per raggiungere le stanze dei nostri genitori, e attenderli in quel luogo privato per perorare la nostra causa.

Da quel momento in poi, non avevo più avuto sue notizie.

In principio, non mi ero preoccupato – era abbastanza grande da badare a se stessa – ma non averla vista al nostro solito incontro di scherma, mi aveva turbato.

Avevo perciò deciso di cercarla nelle sue stanze ma, nulla trovando, avevo chiesto aiuto a Stheta e gli altri.

«Sbrighiamoci, forza» insisté Ciara, muovendosi per prima.

Noi la seguimmo e, praticamente correndo fuori da palazzo, raggiungemmo la barriera e mutammo in delfini.

Mi sincerai per un attimo che Rachel non avesse problemi con la sua nuova livrea ma, nel vederla nuotare abilmente al mio fianco, ogni turbamento passò.

Era fomoriana fin nel midollo. Io le avevo solo restituito la sua eredità.

In quel momento, perciò, potevamo pensare solo a Lithar.

Quando raggiungemmo la riva, la pioggia ci accolse con il suo gelido bacio e, nel raggiungere la casa di Rohnyn sull’oceano, aprimmo la porta con le chiavi di scorta ed entrammo.

Per prima cosa, controllammo il guardaroba che, per comodità, avevamo sistemato a casa di nostro fratello ma, nulla trovando, ci preoccupammo non poco.

Molti degli abiti di Lithar erano spariti.

Se si fosse limitata a una semplice visita di cortesia a  Rohnyn, avrebbe indossato un solo cambio d’abito. Non avrebbe fatto sparire le cose a cui teneva di più.

«Questo non è un buon segno.»

Annuii all’indirizzo di Stheta e, dopo esserci cambiati d’abito, lanciai a Rachel le chiavi dell’auto che Rohnyn aveva acquistato per i nostri spostamenti.

Dopotutto, lei era l’unica, tra noi, ad avere la patente.

In fretta, ci immettemmo sulla stradina di campagna che, in breve, ci avrebbe portati fino a Dublino ma, in cuor mio, sapevo già che non avremmo trovato nessuno.

Lithar era scomparsa, e nessuno di noi aveva la più pallida idea del perché.

***


Quando anche l’ultima sentinella fu interpellata, Eithe depose il cellulare sulle cosce e, sospirando, scosse il capo.

«Nessuno dei lupi l’ha vista, e tutti conoscono Lithar più che bene. Non sarebbe stato difficile rintracciare la sua traccia odorosa. La pioggia, però, complica ogni cosa.»

Diómán le diede una pacca sulla spalla, consolatorio e, rivolgendosi a noi, ci domandò: «Non avete neppure il minimo indizio su dove possa essere andata?»

«Neanche uno. A quanto pare, sono due giorni che è scomparsa e, a quest’ora, potrebbe essere in capo al mondo» sospirai, passandomi nervosamente una mano tra i capelli.

Rachel mi carezzò il capo, pensierosa, e domandò: «Non avete nessuno, qui sull’isola, che lei possa conoscere?»

Rohnyn assentì, ma disse dubbioso: «Avevo pensato anch’io a questa opportunità, perciò ho chiamato il mio amico Cormac, a Portmagee, ma lui mi ha detto di non averla vista. Così pure mia suocera, o i nonni di Sheridan. Nessuno l’ha vista, in paese.»

Ci guardammo vicendevolmente, pieni di dubbi e ansie e, guardando la pioggia scrosciante che picchiettava contro i vetri, mormorai: «Ma dove sei finita, Lithar?»

 






Note: E con questo abbiamo concluso - si fa per dire - le avventure di Krilash e Rachel, che comunque troveremo anche nella prossima storia, così come Fay e tutti gli altri membri del clan mac Lir (e non).
Ho preferito il finale aperto, in questo caso, e non uno sprazzo sul futuro, come nei precedenti, perché fosse ben chiaro che è successo qualcosa di strano e imprevisto alla nostra Lithar, qualcosa che l'ha spinta ad allontanarsi da tutto e da tutti, persino dagli amati fratelli.
Cosa le sarà successo? Perché si sarà sentita spinta a non confidarsi neppure con loro?
Per saperlo, dovrete aspettare il prossimo aggiornamento, che avverrà come sempre venerdì prossimo. A presto, e grazie infinite per avermi seguita in quest'avventura per mare e per terra.
Spero che anche la storia di Lithar potrà incuriosirvi abbastanza per proseguire il nostro viaggio insieme.
Ancora grazie, e buon week end!
 
 
 
 
 
 
 

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