Futuro Remoto

di Akyann
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 - Dio! ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Questione di gravità ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0 - Dio! ***


Il cuore di Argo riprese a battere. Nello stesso istante una goccia d'acqua gli scivolò dalla fronte fino alla base del collo. Fu la prima sensazione che avvertì dopo tanto tempo, troppo. Si trovava paralizzato. Anche se urlava nella sua mente che doveva muovere in avanti la gamba, restava immobile, nemmeno la sentiva quella parte del corpo. Fu così per altri dieci minuti circa. Dieci minuti orribili. Moriva dall'ansia di uscire, dalla curiosità di sapere se finalmente erano arrivati, ma esisteva in lui anche il lieve timore che qualcosa fosse andato storto. Finalmente riottenne la sensibilità della mano e poté pulire la visiera ricoperta di brina che gli oscurava la visuale, le dita inesperte e insicure come quelle di un neonato.

Una luce abbagliante inondò Argo. Non ci credo, siamo arrivati. Il loro viaggio era finalmente giunto al termine.

«Dio!» fu la prima parola che pronunciò. Argo urlò il più forte possibile, ma dalle sue labbra uscì solo un suono roco e indistinto.

«Basil, Basil, siamo arrivati!» Argo ci riprovò. «Sì, alla faccia di quei bastardi che non ci credevano. Voglio vedere le loro facce quando torneremo a casa.»

Armeggiava con le braccia intirizzite, cercava una via d'uscita da quella che sembrava una vera e propria cassa da morto. Non arrivava nessuna risposta dall'esterno, doveva essere per forza il primo ad essersi risvegliato.

«Diana!» urlò ancora. «Diana!»

Silenzio.

Rise da solo. Ad Argo non importava se nessuno non rispondeva. Erano arrivati, sì. Sarebbero potuti tornare indietro sulla Terra. Chissà quanti anni-luce erano distanti. Non importava, si sarebbero addormentati ancora.

Non esistevano comandi per uscire. L'anta si sarebbe dovuta aprire da sola una volta che la stanza si fosse riempita di ossigeno. Ma ormai erano passati più di dieci minuti. Argo decise di passare alle maniere forti. Tirò un ginocchiata di fronte a sé, colpendo malamente il freddo metallo. Niente, solo dolore. Ma non si arrese. Ancorò i piedi al pavimento bagnato e spinse con le mani, pregustando il calore della luce sulla faccia. Poi sentì uno scatto e lo sportello si scardinò.

Si lanciò fuori, luce gialla ed accogliente che lo avvolgeva come in un abbraccio. Si inginocchiò, baciò il pavimento e si preparò ad urlare il più forte possibile, come non aveva mai fatto.

L'aria gli si bloccò in gola.

Riprovò ancora, ma sembrava che i polmoni gli fossero rimasti congelati. No, non può essere, rifletté, prima avevo parlato. Si ritrovò disteso a terra, artigliandosi la gola e il petto con le dita, desiderando che i suoi organi di respiro si rimettessero in moto. La testa gli girava, sentiva le vene del cervello che gli scoppiavano. Rotolò su sé stesso, combattendo contro un mostro invisibile. La sua vista annebbiata venne catturata da un abbaglio rosso proveniente da destra. Ossigeno! Dov'è finito l'ossigeno? Non era colpa sua allora. Il mostro invisibile che lo aggrediva incominciò a sussurrargli che doveva arrendersi. Ma Argo non voleva morire. Dio, ti sento vicino, aiutami tu! Perché non fai nulla? Argo ebbe la sensazione di esplodere e di scomparire. Rotolò sul fianco. Intravide la cella criogenica da cui era uscito. Rassicurante e invitante, emanava gas freddi e pesanti che strisciavano verso terra. Ma si stagliava enorme ed irraggiungibile. Poi c'era la lunga finestra, accecante, invitante allo stesso modo, ma anch'essa troppo lontana. E poi una porta, piccola e deformata dalle nebbie della sua testa, costruita in freddo acciaio grigio.

Strisciò. Tremando si avvicinò sempre di più a quella che sembrava l'unica salvezza. Convinto di essere prossimo al trapasso, trovò chissà dove una forza incredibile e riuscì a mettersi in piedi, appoggiandosi alla porta. Sei tu, Dio? Argo non ebbe neanche il tempo e la forza di sperare che quell'altra stanza fosse vivibile. Abbassò la maniglia.

Una corrente d'aria investì Argo come un'onda. Aria! Spalancò la bocca, di nuovo al sicuro, mentre quella folata lo trascinava indietro. Spingeva con le gambe, ma anni d'immobilità non gli furono d'aiuto. Centimetro per centimetro avanzava, combattendo con quella preziosa fonte d'ossigeno, che allo stesso si perdeva alle sue spalle, ululando.

Manca poco, manca poco... Argo mise un piede dall'altra parte, poi un braccio, e strisciando nello spazio strettissimo s'infilò come un ladro. Chiuse la porta con un tonfo. La corrente terminò. Argo si appoggiò stremato con la schiena e si lasciò scivolare per terra, mentre realizzava di essere finito in un altro inferno.

Buio quasi totale. Argo sospirò, una nuvoletta di vapore si librò nell'aria. Faceva freddo, parecchio. Era una stanza stretta. Il battito del cuore di Argo cominciò a rallentare. Guardò le pareti, una scrittura fitta e minuta ne ricopriva ogni centimetro. Un tempo dovevano essere argentate, chiare, colore dell'acciaio di cui erano costituite. Ora erano nere, ricoperte dall'inchiostro. Pure per terra era così, una distesa infinita di lettere minuscole. Ma quel posto era un inferno anche per un altro motivo.

Una tuta era adagiata terra. Era sgonfia, non sembrava esserci nessuno al suo interno. Mangiato dal tempo? Quanto ne era passato? Argo si alzò in piedi e si avvicinò a quello che era stato un corpo e poi un cadavere. Osservò da vicino. Una manciata di pennarelli erano sparsi accanto alla tuta, uno spuntava dalla manica vuota. Essa era allungata verso le spalle di Argo, come per indicare qualcosa. Si domandò chi fosse stato a scrivere tutte quelle parole e per quale motivo lo avesse fatto. Argo avrebbe voluto leggerle, avrebbe voluto sapere.

Si guardò attorno. Negli angoli oscuri della stanza s'intravedevano macerie e rottami spigolosi. Alzò lo sguardo in alto. Il soffitto era basso e nero. Non si sarebbe mai immaginato così la fine del suo viaggio. Solo, circondato da parole, nella stanza dove era morto un suo compagno. Chi?

Argo seguì la direzione che indicava il pennarello. Puntava esattamente ad un gruppo di parole sul pavimento. Sì, sembrava l'inizio di tutto. Argo si mise a sedere incrociando le gambe e iniziò a leggere.

Missione alla ricerca di Dio. A scrivere è Diana. Sulla nave spaziale l'Angelo sono solo tre i sopravvissuti. Io, Argo, che ho messo in salvo io stessa, e Icaro, la cui cella ho nascosto nel settore ß-12. È l'unico a poter porre rimedio a tutto. Io ormai sto morendo. Il computer di bordo mostra che sono passati più di 37 milioni di anni dalla partenza. Siamo nel cosiddetto Futuro Remoto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Questione di gravità ***


Mi sono trascinata in questa stanza con una profonda ferita alla coscia, lasciando una serpeggiante striscia rossa per terra. Sangue rosso, scuro, denso, non come quello quasi chiaro, quasi luccicante degli Jhaem. Morti, sì, entrambi intrappolati tra le grinfie del tempo. Artigli invisibili, ovviamente, ma tenaci e crudeli.

Permettetemi di raccontare dall'inizio, con la speranza che siate entrambi a leggere. Non chiedetevi del perché lo stia facendo, semplicemente ho una sfrenata voglia di scrivere ciò che mi è successo. Sto morendo e ho sempre sognato di raccontare la mia vita. Mi serviranno parecchi pennarelli e parecchio spazio. Sono disposta a coprire tutta la stanza di scritte, perfino con il mio stesso sangue se necessario.

In principio mi trovavo sotto l'Albero del Tempo, sotto lo Jan-Hoo, che mai avevo visto prima d'ora, se non fosse stato per quelle bestie che ci avevano attaccato. Ma preferisco non raccontare ciò che accadde in quei momenti di orrore e confusione. Se devo essere sincera, in quelle ore infernali non ho fatto altro che scappare e nascondermi. Voglio evitare, passerei per una codarda. Se state leggendo queste parole scarabocchiate, allora avete notato che l'Angelo è stata distrutta. Ciò vi basta. Erano solo pirati spaziali.

Ma una cosa gliela devo riconoscere: sono originali. Per ibernarsi non usano le nostre complicate celle criogeniche - per carità, fiore all'occhiello tra le nostre invenzioni. Possiedono queste bizzarre piante, che per qualche strambo principio che ancora mi sfugge, bloccano - o rallentano - il tempo che fluisce sotto la loro chioma. Quando le piccole piante di Jan-Hoo crescono abbastanza da potervici riparare all'ombra, fungono da vere e proprie stanze del tempo. Tutto si ferma, tutto cessa di muoversi lì sotto, sotto le loro vorticanti foglie rosse.

Mentre come una lucertola strisciavo per la nave, cercando di evitare l'incontro con qualsiasi Edhenn che si fosse infiltrato, mi ritrovai nel corridoio panoramico D. E lo Jan-Hoo era lì, maestoso, che affondava le radici in cumulo di terra improvvisato. I rami pendevano deboli, come quelli di un salice, e le foglie cremisi, strette e allungate, ammantavano il tronco fino alla base. Non esitai ad entrarvi, per mettermi in salvo e anche mossa da un'incredibile curiosità.

Scostai con le mani i rami e improvvisamente ogni rumore cessò, un piacevole tepore mi avvolse in un abbraccio. E niente fu più dolce: mi sentivo leggera, sospesa davvero. Mi appoggiai al tronco, scuro e nodoso, e attesi. Provai a guardare all'esterno, ma tra le foglie in leggero movimento scorgevo solamente una nebbiolina azzurra. Il colore del Tempo? Non lo so, ma tutto ciò che era fuori era scomparso. Ero dentro l'Angelo, la nave spaziale fuggita dalla Terra, ma allo stesso tempo ne ero estranea. Altro che tecnologia terrestre: mi piaceva molto di più la scienza degli Edhenn.

Quando ero entrata nello Jan-Hoo erano passati circa 32 mila anni dall'inizio della missione, due giorni dall'attacco dei pirati spaziali. Mi sforzai di pensare a quanti minuti erano trascorsi, quanti secondi - anche se ero cosciente che fuori sarebbero potuti essere secoli -, ma in realtà era impossibile quantificare il tempo. Più mi sforzavo a pensarci, più mi doleva la testa. Ma era comprensibile. Lì sotto non esisteva età.

Invece, a pochi passi da me, i secondi sfrecciavano, i minuti si rincorrevano feroci. Volevo uscire, ma avevo paura che gli Edhenn potessero essere ancora là, o che tutto in realtà fosse stato già distrutto. Così restavo appoggiata al tronco, provando emozioni che mi riesce difficile descrivervi ora, che sono immersa nuovamente nel fiume del Tempo.

All'improvviso qualcuno arrivò per me. Una figura rotolò sotto la chioma del salice, con un'aggraziata capriola mi braccò e mi gettò all'esterno di quel paradiso. Lei seguitò immediatamente e mi trovai di nuovo sull'Angelo, che era identica a prima, ma priva dei cadaveri ammassati alle pareti, priva del sangue e dei vestiti del povero equipaggio. Le macerie erano ancora lì però, nella medesima posizione. Improvvisamente l'aria si fece più fredda, più aggressiva. Cercai un display.

Trentasette milioni di anni.

Erano passati trentasette milioni di anni, e non me ne ero accorta minimamente.

Erano in due. Due figure femminili, presupponevo. Non erano umane, no. Alte, slanciate, capelli lunghissimi, scuri e lisci. Indossavano delle strane tute attillate color verde pastello e avevano un viso a forma di cuore con grossi occhi rotondi, le iridi grigie che mi studiavano. Mi guardavano dall'alto verso il basso, io rannicchiata per terra, pensando a come dovevo reagire. Feci scivolare la mano sul pavimento, temendo la loro reazione. Le due donne - permettetemi questo termine per adesso - si accigliarono, ma restarono perlopiù immobili come prima. Io attesi, aspettando che fossero loro a fare la prima mossa. Ero calma, il mio cuore cominciò a rallentare il suo battito, non sembravano essere poi così minacciose. Erano solamente incappate in un esemplare di razza aliena ed è sempre consigliabile agire con cautela in questi casi.

Si sedettero per terra. Incominciarono a discutere, le gambe incrociate. No, non parlavano il Terran, peccato. Ma era intuibile. Era passato così tanto tempo, chissà a quanti biliardi di chilometri eravamo dal Sistema Sole. E parlarono per forse un'ora, sembrava che si stessero consultando. La loro lingua era un miscuglio di bisbigli e sussurri, non aveva suoni duri come la nostra "c" o la "t". Ero scomoda nella mia posizione, praticamente invariata da quando ero stata gettata fuori dallo Jan-Hoo. Mi faceva male il collo, la schiena urlava pietà. Così, piano piano, spostai i miei arti, cercando di non farmi notare. La manica destra sfregò contro la mia gamba, e in quella quiete il rumore parve quello di una frana.

La più alta delle due mi folgorò coi suoi occhi. L'altra, che continuava a bisbigliare visibilmente preoccupata, quando si accorse che non le fu prestata più la minima attenzione si zittì. Ora ero comoda, anche io a gambe incrociate, ma quello sguardo mi metteva a disagio. Tutte e tre restammo così per un altro quarto d'ora, e poi non so per quale motivo mi passò in mente quella stupidaggine.

«Ciao.»

La donna accigliata scattò in piedi, i fluenti capelli che le vorticarono attorno al volto. Notai i suoi lineamenti contratti, quelli di un ringhio, come se fosse stata pronta a sbranarmi. Sfilò dalla gamba un pugnale che prima non avevo notato. E lì mi cagai addosso.

Alzai le braccia in segno di resa pacifica. Lei si spostò all'indietro, piegandosi, pronta per un assalto. L'altra era ancora per terra e cercava di alzarsi, visibilmente a fatica, gocce di sudore che le rigavano la guancia. Feci la faccia più arrendevole che mi riuscì, quasi esagerai e mi sforzai di lacrimare. In quelle condizioni mi convinsi che fare la dura era la cosa peggiore.

Il pugnale sfilò lentamente dalla mano della donna e rimbalzò tintinnando, producendo il suono più dolce che mi potessi aspettare.

Convinta che le acque si fossero acquietate, mi misi in piedi. Io la fissavo e lei ricambiava, incuriosita ma comunque all'erta. Lanciai un'occhiata anche all'altra ospite, ancorata a terra per qualche strano motivo. Mi sembrò la cosa più adatta e gentile porgerle la mano per aiutarla.

A lei no, a quanto parve.

Si ritrasse e si mise a frignare. Alla mia destra percepii la donna tendersi, la sua tensione era palpabile. Ma non c'era nulla da temere e così aiutai la poverella che stava per terra e le strinsi la mano.

Avvertii uno spostamento d'aria sulla guancia. Quando ormai avevo afferrato la delicata mano della donna, mi accorsi che l'altra si era lanciata su di me. Mi sembrò di essere tornata sotto lo Jan-Hoo, il tempo immobile. Percepii l'urlo guerriero alla mia destra e quello di terrore sotto di me. La donna mi impattò sul fianco e rotolai a sinistra, le pareti della nave che mi vorticarono intorno. Appena mi fui rimessa seduta assistetti ad un orrore.

La donna che mi aveva colpito teneva il pugnale in mano, ma non lo puntava verso di me. No. Incideva le carni della sua compagna. Lei strillava, come in preda alle convulsioni. Il pugnale concluse il suo lavoro e la mano della poverella piombò spasimante a terra.

Cazzo, ora avevo paura. Il panico oscurò la mia mente e d'un tratto non m'importò più di capire. La donna che aveva amputato la compagna si rialzò gocciolante di sangue e fu in procinto di saltarmi addosso. Ma si trattenne e si guardò attorno in cerca di qualcosa. L'altra, con la mano rimasta, faceva forza per terra, sforzandosi a più non posso per alzarsi in piedi. Sbuffava e soffiava, come una donna al momento del parto.

Poi capii. Alzai di gettò il braccio, verso una leva sulla parete di fronte a me. L'intrusa aveva ancora il coltello in mano, fu tentata di assaltarmi una seconda volta, ma sembrò fidarsi e si avviò dove avevo indicato.

Abbassò la leva.

La mia presa per terra venne meno e iniziai a fluttuare. La gravità si affievolì e la femmina riuscì ad alzarsi. Corse via per il corridoio panoramico, passando accanto all'Albero del Tempo: fiotti di lucido sangue dietro i suoi passi. Non scuro, come il nostro. Quel sangue era orribile: il sangue degli Jhaem.

La Jhaem che aveva ridotto la forza di gravità della stanza si avvicinò a me e mi porse la mano, coperta da un guanto in tinta con la sua tuta. Io levitavo in aria e cercavo di afferrare il pavimento, protendendomi inutilmente verso il basso. Ma la donna mi afferrò per il braccio e mi portò via, stringendomi come un palloncino e stritolandomi con la sua presa.

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