Timegate: una porta verso il passato

di Monique Namie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Flashback ***
Capitolo 2: *** La dinamica di un loop ***
Capitolo 3: *** Timefixers ***



Capitolo 1
*** Flashback ***


Sciossione d'Anima
Racconto scritto per  il contest "Verso l'infinito e oltre" indetto da Najara sul forum di EFP.

PROMPT:
Immagine M: "Time Machine" by Joe-Roberts (la stessa usata per il titolo)
Citazione n.4: "Tutti i miei dominii per un istante di tempo" - Elisabetta I


Note autore
È la prima volta che mi cimento nel femslash.
Il racconto è piuttosto criptico, sicuramente al lettore sorgeranno delle domande: alcune troveranno risposta nei prossimi capitoli, altre probabilmente saranno destinate a rimanere irrisolte. Il bello, secondo me, è che ogni lettore può viaggiare con la fantasia e immaginare le risposte che più gli sembrano adatte.

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Cap.1 - Flashback




Ci sono un’infinità di modi diversi per dire “ti amo”:
Allaccia la cintura
Fai attenzione a dove metti i piedi
Riposati un po’
Non fare affidamento su quell’orologio.


La storia della mia vita può essere riassunta brevemente così: c’era una volta un orologio, poi l’orologio si fermò e io divenni parte integrante della quarta dimensione. Per quanti vogliano eventualmente conoscere i dettagli della vicenda, mi sono presa la libertà di sigillare il mio resoconto in un luogo sicuro tra le pieghe dello spazio-tempo: precisamente in un cassetto della mia nuova specchiera.



All’Ibizu Kilea, pub situato sulla strada di raccordo per il più grande spazioporto terrestre.

Ero seduta a un tavolo laterale e osservavo la pioggia scendere in rivoli oltre la finestra che avevo di fianco. All’esterno, sull’ampia strada principale, c’era traffico e anche il marciapiede era piuttosto affollato; a quell’ora i lavoratori dello spazioporto che avevano finito il turno si riversavano lungo la via per tornare a casa a cenare. Le ultime luci del giorno, che filtravano fra le spesse nubi temporalesche, stavano abbandonando gli imponenti grattacieli di cristallo nelle fauci della notte. Dalla mia posizione si vedeva un fiume di ombrelli colorati scivolare lento sotto il diluvio e si udivano i clacson degli automobilisti impazienti ogni volta che qualcuno tardava a partire quando scattava il verde.
L’Ibizu Kilea era un posto accogliente e dal vago sapore esotico; mi piaceva soprattutto perché, essendo vicino allo spazioporto, aveva un’ampia gamma di scelta fra le pietanze e il costo era accessibile a tutti.
Ero in quel locale perché avevo appuntamento con Linsdy, la mia migliore amica. La aspettavo ormai da mezz’ora e il cameriere era passato già due volte per chiedermi se volevo ordinare. Non era da lei dare buca in quel modo, non rispondeva nemmeno al cellulare: ero abbastanza seccata, quindi decisi che avrei aspettato altri cinque minuti, poi avrei ordinato qualcosa da asporto e me ne se sarei tornata nel mio alloggio per studenti.
Mentre aspettavo mi persi a osservare la famigliola di srehitani seduta al tavolo di fronte al mio. Con i loro capelli verdognoli e il mento lungo a punta erano inconfondibili: madre, padre e i due piccoli scalmanati sembravano tutti molto felici. Avevo studiato srehitano il primo anno dell’università come terza lingua, ma riuscii a comprendere gran poco di ciò che si dicevano perché usavano troppe espressioni dialettali. Qualcun altro al posto mio avrebbe potuto pensare che lo facessero apposta per non farsi capire. Ultimamente, sulla Terra, s’incontravano pochi esseri provenienti da altri sistemi solari; nonostante gli sforzi del governo mondiale per promuovere l’integrazione, sembrava che i pregiudizi fossero profondamente radicati nella razza umana, che non smetteva di trovare ogni giorno un nuovo pretesto per muovere guerra contro i propri fratelli. Non era illogico pensare che si fosse arrivati più volte alla soglia dell’autodistruzione, anzi, forse il pianeta Terra già non esisteva più da un bel pezzo, ma qualcuno era provvidenzialmente tornato indietro nel tempo e aveva modificato la realtà. Perché no? La tecnologia per i viaggi nel tempo esisteva ormai da due decenni; non si poteva di certo escludere la possibilità di vivere in un ramo temporale creato artificialmente.
Il rumore di qualcosa di vetro che va in frantumi mi distolse improvvisamente dai quei pensieri. Uno dei piccoli srehitani al tavolo di fronte aveva urtato un bicchiere che, a contatto con il pavimento, era finito in pezzi; i cocci taglienti si erano sparsi a terra fino ad arrivare sotto al mio tavolo. Un robot addetto alla pulizia del locale si attivò, uscì dalla sua nicchia scavata sulla parete e venne a portare via i resti del bicchiere rotto. In quello stesso momento la porta del locale si aprì ed entrò lei, accompagnata da una raffica di vento e pioggia. Linsdy mi vide subito e mi raggiunse schivando il robot e saltellando in corrispondenza dei cocci per evitare di pestarli. Si sedette al mio tavolo senza salutare e senza nemmeno scusarsi per il ritardo. Non aveva l’ombrello, quindi era fradicia, ma la trovavo bella anche con quell’aspetto un po’ trasandato. Apprezzavo la sua trasparenza: le si poteva leggere nello sguardo la storia della sua vita, una storia a tratti felice e a tratti sofferta.
«È possibile che ogni volta che io e te ci incontriamo debba piovere?!»
Disse proprio così, mentre cercava di scostare i capelli umidi che le si erano appiccicati al viso. Non sembrava infastidita, il suo tono era divertito. Mi fissò con i quei suoi grandi occhi verdi, cercando di carpire qualche informazione dalla mia espressione.
«Stavo per andarmene», dissi atona.
«Perché? L’appuntamento non era per le diciannove?», chiese stupita.
«Esatto. Adesso sono le diciannove e trenta passate.»
Controllò l’orologio da polso, poi se lo sfilò e lo appoggiò sul tavolo: era rimasto fermo a mezz'ora fa. Si trattava un oggetto di fattura chiaramente extraterrestre, con tre quadranti - uno centrale e due laterali più piccoli - e cinque lancette. «Dovrò portarlo a riparare», disse.
«Non sarebbe una cattiva idea. E potresti anche cominciare a rispondere alle chiamate», risposi stizzita.
«Accidenti! Avrei dovuto avvisarti: ho attivato il numero gioviano!»
Assunse un’espressione così dispiaciuta che riuscì a farmi sentire in colpa per la freddezza con cui la stavo trattando, poi continuò: «Non essere arrabbiata, Edra. Quello che conta è che adesso sono qui.» Sorrise, e dopo una breve pausa iniziò a raccontarmi le sue novità. Per il master, l'università le aveva affidato un incarico in collaborazione con la colonia spaziale orbitante attorno a Europa, una delle lune di Giove. Lì, da quello che avevo capito, c’erano le condizioni ottimali per studiare gli effetti delle oscillazioni gravitazionali sui vegetali coltivati in laboratorio.
Ci conoscevamo dalle elementari e, da che io ricordassi, Linsdy aveva sempre dimostrato un grande interesse per il tempo e gli orologi, come me. Durante l’intervallo eravamo solite giocare a “predoni del tempo”; raccoglievamo fiori e sassi nel giardino della scuola per poi nasconderli nello scantinato in cui era espressamente vietato entrare: consideravamo quel posto il nostro rifugio segreto dove portavamo tutti i bottini saccheggiati durante nostre fantasiose scorribande temporali. Quando, raggiunta la maturità, arrivò il momento di scegliere il percorso di studi, lei, per qualche strano motivo, scelse biologia spaziale.
«Hai già deciso che cosa farai dopo?», mi chiese.
«Penso che andrò a dormire.» Alla mia risposta rise come una matta.
«Ma no, intendevo dopo gli studi», disse cercando di ricomporsi.
Mi venne voglia di rispondere con qualche altra assurdità per farla ridere di nuovo, però mi trattenni.
«Non è che abbia molta scelta. Con una laurea in cronoquantistica posso solo sperare di essere assunta all’Agenzia di Viaggi nel Tempo per Benefici Storici.»
«La Titraahibe?! Sarebbe fantastico! Sei sempre stata una grande appassionata di viaggi nel tempo!»
Non sono i viaggi nel tempo in sé, ma il concetto profondo e la struttura del tempo che mi affascinano, ma non glielo dissi. Ero convinta che svelandole le mie emozioni, quelle avrebbero perso valore e sarebbero diventate qualcosa di banale. Per aumentare la mia motivazione avrei dovuto dimenticare io stessa le ragioni che mi spingevano verso quella strada. Consideravo il tempo come una prigione ma, per quanto fosse piacevole starci dentro, io ambivo a trovare una via per evadere e sondare l’ignoto.
Solo ora mi rendo conto che, per colpa delle mie paranoie, non sono mai riuscita a farle capire pienamente ciò che provavo per lei. Nelle relazione sociali sono sempre stata incline a nascondere i miei sentimenti. Insicurezza? Paura di mettersi in gioco e di ricevere delle critiche? Forse un blocco emotivo causato da qualche avvenimento verificatosi durante la mia infanzia... Credo che non lo saprò mai.

Un’ora dopo avevamo finito di cenare; fuori continuava a diluviare, s’era fatto buio e in strada si vedevano solo i fanali delle auto schizzare via veloci.
«Domani ho appuntamento con un ragazzo», mi disse, «l’ho conosciuto perché coordina il programma scientifico a cui parteciperò per il master. Partiremo assieme per Giove: è un tipo simpatico, penso ti piacerebbe. Prima di andare a dormire devo anche preparare i bagagli per il viaggio.»
Avvertii una fitta a livello del torace; sapevo benissimo che cosa significava, ma non ci badai.
«Conoscendoti metterai in valigia almeno una decina di orologi», scherzai cercando di occultare dietro un sorriso la mia preoccupazione.
Non le avrei mai detto nulla nemmeno ora che stava per partire: il motivo era sempre lo stesso, temevo che svelandole i miei sentimenti questi sarebbero diventati banali, fragili. Probabilmente c’era anche una nota d’egoismo nel mio pensiero. Se lei non mi avesse ricambiata, il mio stato di grazia sarebbe stato spazzato via come foglie secche da una raffica di vento e avrei dovuto guardare in faccia la cruda realtà. La realtà non m’era mai piaciuta e poi Linsdy sarebbe pure tornata dopo aver conseguito il master, no? Fra cinque anni, ma sarebbe tornata, e io allora avrei potuto riprendere in considerazione l’idea di parlarle. “Puoi rimandare, ma il tempo non lo farà”, mi avrebbe risposto il professore di fisica applicata, che amava tanto certe uscite filosofiche ad effetto.
Linsdy si alzò, mi voleva lasciare la sua quota di denaro sul tavolo, ma insistetti per pagare tutto io, allora si sporse verso di me: profumava di angelica e di quel riattivante elettrico che usava nei suoi orologi. Le piaceva salutare gli amici baciandoli sulla guancia; lo faceva sempre, ma quella sera dovette avvertire in me un certo distacco e quindi, dopo un attimo di esitazione ci rinunciò e allontanò semplicemente sorridendo.
La osservai sistemarsi il bavero del cappotto per ripararsi dal vento e dalla pioggia per poi tuffarsi nell’oscurità della notte. Io rimasi lì seduta ancora un po'. La famigliola di srehitani, che occupava il tavolo di fronte, se n’era andata senza che io me ne fossi accorta. Al suo posto ora era seduta una tipa scompigliata che incuteva un certo timore; una sciarpa arrotolata sul viso lasciva intravedere appena i suoi occhi furtivi. Abbassai lo sguardo sul mio tavolo e notai solo allora che Linsdy aveva dimenticato l’orologio.

Pensai che con quella sua dimenticanza avesse voluto concedermi una seconda possibilità. Uscii di corsa senza nemmeno prendere l’ombrello. Girato l’angolo del pub, la vidi ferma vicino al passaggio pedonale. Provai a chiamarla, ma la voce veniva smembrata e portata via dal vento, così mi misi a correre sperando di raggiungerla prima dell'avanti. Il via libera per i pedoni scattò proprio mentre ero a qualche metro da lei. Un autista distratto si accorse all'ultimo momento del rosso e inchiodò di colpo; le ruote del mezzo scivolarono sull’asfalto reso viscido dalla pioggia torrenziale provocando un suono acuto. Per un attimo sembrò che Linsdy si stesse girando verso di me, poi l’auto ormai fuori controllo la investì in pieno, terminando la corsa contro un vicino lampione della luce.
L'orologio mi cadde dalle mani.
In un primo momento restai come paralizzata, assistetti alla scena come uno spettatore impotente, mentre la pioggia mi entrava negli occhi offuscandomi la vista. Linsdy non si sarebbe mai presentata all'appuntamento con quel ragazzo e non sarebbe mai arrivata sulla colonia di Giove per il master. Il suo destino era questo: cenare per l'ultima volta con me all'Ibizu Kilea, dimenticare il suo orologio fermo alle ore diciannove sul nostro tavolo e uscire di scena con un sorriso. Io non avevo potuto nemmeno disperarmi, perché la pioggia rubava il posto alle lacrime e il forte vento sembrava l'unico artefice dei miei movimenti instabili.
Abbandonato sul marciapiede, zuppo d'acqua fino nel più microscopico degli ingranaggi, l'orologio che un tempo apparteneva a Linsdy fu calciato lontano da un passante.


Revisionato il 30-12-15.
Licenza Creative Commons
"Timegate: una porta verso il passato" di Monique Namie
è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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Capitolo 2
*** La dinamica di un loop ***


Sciossione d'Anima

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Cap.2 - La dinamica di un loop




Cinque anni dopo, alla Titraahibe.

Potevo considerarmi una persona fortunata. Il mio sogno si era in parte realizzato: ero stata assunta dalla Titraahibe poco dopo aver terminato gli studi universitari. Specifico: in parte, e non totalmente, perché tre schiocche regole, di cui parlerò tra un po', mi impedivano di compiere un certo tipo di viaggi nella quarta dimensione.

Dal momento in cui ero entrata a far parte della squadra, venivo sottoposta mensilmente all’analisi di un computer che scansionava e valutava la mia corteccia cerebrale. Ero uscita dall’università con ottimi voti, ma sembrava che qualcosa mi rendesse inadatta all’incarico vacante di viaggiatore nel tempo. Per i primi tre anni e due mesi di impiego sono stata, quindi, una semplice cronoquantista teorica; mi occupavo di coordinare i tecnici e di controllare che prima e durante l’attivazione del macchinario tutti i dati cronoquantistici (ovvero, di particelle quantiche concatenate alla struttura spazio-temporale) fossero nella norma. In confidenza credo di sapere che cosa avesse trovato di sbagliato il computer nella mia corteccia cerebrale, ma a questo punto, prima di proseguire, sarebbe opportuno che spiegassi qualcosa sulla Titraahibe. Innanzitutto, Titraahibe è l’acronimo di Time Travel Agency for Historical Benefits. Il motivo per cui quest’agenzia è stata fondata lo si può intuire dal nome. Nell’anno in cui il genio di Ellhis O’Wise comprese l’equazione che rendeva teoricamente possibile a un corpo dotato di massa di spostarsi a velocità prossime a quella della luce senza disintegrarsi, partì una specie di gara tra ricchi privati (io avevo appena tre anni, tutto quello che so l’ho studiato per la tesi di laurea). Ogni miliardario interessato metteva a disposizione dei migliori scienziati cospicui finanziamenti perché costruissero una macchina del tempo nei garage delle loro lussuose ville. Una sola remota possibilità di avere il controllo totale del tempo giustificava le folli spese per progetti che, il più delle volte, erano destinati a fallire.

Il primo prototipo funzionante fu realizzato da una troupe di scienziati ingaggiati dal direttore di un museo privato, il che fu un bene, perché il direttore era un uomo saggio e coscienzioso. Da quel primo prototipo se n’è fatta molta di strada, il direttore ha creato la Titraahibe e ha assunto del personale specializzato. Chi lavora qui deve tenere a mente tre semplici regole:
1. il viaggio nel tempo s’intraprende solo a beneficio della storia;
2. i contatti con le persone che non appartengono alla linea temporale presente vanno ridotti al minimo;
3. gli eventi non devono essere alterati.
Tre semplici regole che tolgono gran parte del divertimento: niente viaggi nel futuro, niente storie d’amore impossibili con nobildonne dell’Ottocento o cavalieri del Medioevo, ma soprattutto niente manipolazioni del normale corso della storia, per nessuno motivo. Si viaggia nel passato esclusivamente per recuperare preziosi reperti storici da chiudere dentro una teca del museo. Tutto ciò escludeva a prescindere certe teorie sulle linee temporali artificiali a cui avevo dedicato mesi di ricerche... A meno che non esistesse un’altra macchina del tempo o che qualcuno avesse modificato la storia in segreto, tutte cose altamente improbabili.
Durante una delle mie prime scansioni cerebrali contestai in modo indiretto l’ultima delle tre regole ponendo al computer una domanda: “come ci si dovrebbe comportare nel caso in cui fosse in palio la salvezza del pianeta Terra?” Il computer non rispose al quesito e disse semplicemente che non ero il candidato ideale da mandare a spasso nel passato. Il punto è che, in caso di situazioni estreme, la terza regola crea un paradosso. Ciò che il computer valutava negativamente in me era l’imprevedibilità: aveva capito che l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stata seguire quella stupida regola!
Tre anni e due mesi dopo la mia assunzione, ero ancora convinta che la terza regola andasse in qualche modo modificata. Eppure, quella stessa settimana, dopo la consueta scansione celebrale il computer mi aveva giudicata idonea, dandomi la possibilità di partire per la mia prima missione.
Mi trovavo nella Sala del Tempo quando, ad un certo punto, mi si avvicinò un operaio. Con il casco e la tuta addosso, lo riconobbi solo dalla voce nel momento in cui mi parlò.
«Come ci si sente a essere DJ del tempo? Hai letto il fascicolo sulla missione, spero?» Era Inck. Mi sostituiva nel compito di cronoquastista teorico. Mi venne da ridere perché il fascicolo non l’avevo letto. Un comportamento, questo, piuttosto incosciente da parte mia. Nessuno avrebbe sospettato che ragazza prudente e razionale come me potesse nascondere un'indole vendicativa. Non leggendo le istruzioni mi stavo prendendo la rivincita dal computer che in passato non mi aveva giudicata subito idonea.
«Va alla grande, anche se stanotte ho avuto un incubo» risposi.
«Non sarà mica stato uno di quei tuoi sogni premonitori!?», scherzò lui.
«In realtà, ho sognato la statua dell’angelo incappucciato. Le stavo vicino, quando all’improvviso ha alzato la testa e mi ha fissato con due agghiaccianti occhi verdi. Perché teniamo un oggetto del genere vicino alla macchina del tempo?»
L’altro alzò le spalle. «Sarà per ricordarci che, anche se controlliamo il tempo, non siamo immortali...»
Ogni tanto anche uno come Inck se ne usciva con qualche saggia considerazione. Negli occhi verdi dell’angelo, tuttavia, c’era l’intero universo, io l’avevo percepito e la cosa mi aveva preoccupata. Le parole di Inck non bastarono a rassicurarmi.

“Sessanta secondi alla partenza.”
La voce metallica dello speaker che scandisce il tempo rimanente alla partenza, fece eco nell’immensa Sala del Tempo riportandomi al presente.
Quando il Timegate è in fase di accensione, le pareti della stanza e l’intera superficie circolare dell’enorme meccanismo centrale perdono il loro grigiore metallico per coprirsi di sfumature che vanno dall’azzurro al blu. Per tre anni e due mesi avevo assistito a distanza ravvicinata a ogni singola partenza, eppure non mi ero ancora abituata alla luce azzurra accecante che veniva irradiata quando il macchinario entrava in funzione. Era una luce bellissima: il colore era simile a quello della fiammella del gas da cucina, ma molto più brillante. Successivamente, dal grande cerchio verticale che crea la distorsione dello spazio-tempo iniziavano a diramarsi i primi fulmini al plasma, rivelando ad ogni flash gli ingranaggi di lucido metallo parte integrante della struttura.
Nell’Agenzia il grande cerchio era chiamato Timegate in onore dello Stargate del vecchio film, mentre colui che viaggiava nel tempo era soprannominato DJ, dalle iniziali del nome del protagonista, Daniel Jackson.
Per tutta la durata della missione, il DJ del tempo diventava una specie di divinità in grado di creare sublimi melodie quantiche con i suoi spericolati viaggi nella quarta dimensione; un po’ come avviene quando la materia vicino ad un buco nero entra in risonanza e produce una nota riconosciuta come si bemolle.1 Atomi, artisti e scienziati non differiscono più di tanto tra loro.
Salii nella navicella e allacciai la cintura di sicurezza prima che la gravità venisse annullata. Ancora non avevo realizzato pienamente l’importanza di ciò che stavo per intraprendere.
Inck mi fece cenno attraverso il monitor centrale che i valori erano ok e io in risposta sollevai il pollice.
Tutti i tecnici indossavano una speciale tuta completa di casco che li proteggeva dalle fluttuazioni quantistiche del tessuto spazio-temporale, tutti eccetto me. A me piaceva sentire il tempo scorrere sulla pelle, amavo quel senso di vertigine nel momento in cui il Timegate toccava la massima potenza e i quanti iniziavano a scomporre la realtà.
È certificato che l’esposizione alle fluttuazioni cronoquantistiche non crea danni irreversibili al corpo umano, ma può provocare dei momentanei effetti collaterali diversi da persona a persona. A me capitava di avere dei sogni premonitori. Il più delle volte non erano sogni chiari e dettagliati, ma sequenze immerse nella nebbia, mezze sensazioni che riuscivo a comprende pienamente solo quando le vivevo in prima persona. La sera prima della missione, per esempio, mi era apparso in sogno l’angelo incappucciato. Il suo sollevare il capo per fissarmi mi aveva messo addosso un pressante senso d’angoscia.
“Dieci secondi alla partenza”.
La voce metallica dello speaker interruppe nuovamente i miei pensieri. Non avevo letto il fascicolo sulla missione ma, dopo aver presenziato a un certo numero di riunioni, sapevo quanto bastava per avere successo: dovevo recuperare un vecchio orologio costruito con rari materiali estratti su un pianeta extrasolare. Per il museo era importante perché era l’unico modello giunto sulla Terra dopo il blocco galattico delle importazioni di materiale ferroso. Osservai la data impostata sul timer interno: non dovevo nemmeno tornare troppo indietro, perché le tracce dell’oggetto erano state perse appena cinque anni prima.
“Meno tre.”
Cominciai ad avvertire la sensazione di vuoto provocata dall'assenza gravitazionale indotta.
“Meno due.”
Per la prima volta rimpiansi di non aver voluto indossare la tuta protettiva e il casco.
“Meno uno. E… attivazione!”
Nel momento in cui la distorsione temporale toccò l’apice massimo, non percepii più i confini del mio corpo, ebbi come l’impressione che le mie braccia potessero raggiungere qualche chilometro di distanza, iniziò a mancarmi l’aria e i contorni delle cose persero improvvisamente consistenza fino a svanire.
A risvegliarmi fu il forte rombo di un tuono. Ancora prima che gli occhi s'abituassero alla poca luce, colsi il piacevole scrosciare di un acquazzone sul tetto della navicella che mi ospitava. Aprii lo sportello facendo uso di tutte le mie forze e subito raffiche di vento e pioggia mi arrivarono addosso. Il luogo non mi era nuovo e il clima mi provocò un inaspettato senso di malinconia. La navetta si era materializzata in un vicolo cieco deserto ma, in lontananza, sul marciapiede che costeggiava la strada principale, un fiume di ombrelli scivolava inesorabile verso il proprio destino e il rumore dei clacson degli automobilisti impazienti infrangeva il silenzio della sera. Quando riconobbi il luogo, compresi che avrei fatto meglio a leggerlo quel maledetto fascicolo sulla missione.

Dentro all’Ibizu Kilea era un continuo déjà-vu.
Senza chiedere al legittimo proprietario, presi in prestito una sciarpa dall’appendiabiti e me la avvolsi attorno al viso: non potevo correre il rischio che la me stessa del passato mi riconoscesse. Come aveva potuto il computer giudicarmi idonea proprio a svolgere questa missione?! Anche la persona più inesperta sa che, durante un viaggio nel tempo, tornare sui propri passi è rischiosissimo. D'altra parte era anche vero che nessuno mi aveva obbligata a entrare in quel pub. Ero lì percché avevo avuto un'intuizione: l'orologio da recuperare non poteva che essere quello di Linsdy. Tutte le variabili del caso portavano a quella conclusione.
Scelsi di sedermi in un angolo appartato. Il cameriere invece di chiedermi l'ordinazione, mi chiese se stavo bene. Come avrei potuto sentirmi bene? Per la seconda volta avrei dovuto dire addio a Linsdy senza poter far nulla per cambiare la storia. Era già una gran cosa che fossi riuscita a mettere piede nel locale; dalla maledetta sera di cinque anni fa non ero più entrata in quel posto. Evitavo, per quanto possibile, persino di passarci davanti. Dubitavo di essere in grado di portare a termine la missione con le mani tremanti e con la sensazione che la testa mi stesse per esplodere. Sussultai sentendo il rumore di qualcosa di vetro che andava in frantumi: avevo dimenticato che quella volta uno dei piccoli srehitani aveva fatto cadere un bicchiere. Quello era il segnale che separava l’attesa dall’arrivo di lei. La porta del locale, infatti, si spalancò e Linsdy entrò accompagnata dal vento e dalla pioggia come il fantasma dei miei rimpianti. Il suo sorriso era così luminoso da ferirmi gli occhi e il suo volto appariva evanescente. Illusioni, tutte illusioni che preannunciavano la mia prossima perdita di coscienza. Quando mi risvegliai ero su un lettino dell’infermeria della Titraahibe.


«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
«Ho fallito…», bisbigliai.
Lui mi guardò stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata prima di salire sulla navetta e così la missione è stata posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Per niente.»
Dire che mi sentivo confusa era un eufemismo. «Forse qualcuno mi ha lanciato una maledizione.»
Lui sospirò. «Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi ultimi giorni di vita piena di rimpianti.»
«Al diavolo!», cercai di urlare, ma ero ancora priva di forze e mi resi conto che la frase risultò poco più che sussurro. Karf forse non mi aveva nemmeno udita.
«Dov’è il fascicolo sulla missione?», chiesi, ora più che mai intenzionata a leggerlo.
«A che ti servirebbe adesso?»
Cercai di sollevarmi dal lettino decisa a cercarlo da sola, ma il medico mi obbligò a stare stesa. Lo osservai per qualche istante mentre controllava da un tablet i miei valori vitali con espressione seria. Lui era stato uno dei primi a diventare mio amico quando ero stata assunta. Gli lessi nello sguardo che la sua preoccupazione era sincera.
«Hai ragione», ammisi, «finirò col vendermi l’anima per ottenere un istante di tempo in più.»
Sopraffatta dall’inquietudine trasmessa da quel pensiero, chiusi gli occhi cercando di riposare, ma sentivo ancora il rumore del bicchiere che andava in pezzi sul pavimento dell’Ibizu Kilea percuotermi i timpani.

Qualche ora dopo mi sentivo un po’ meglio ed ero di nuovo nella Sala del Tempo davanti al Timegate. Karf aveva classificato il mio malore come cronometroverctofobia: in pratica, secondo lui avevo perso i sensi per paura del cambiamento temporale. Sembrava che il modo migliore per superare il problema fosse ritentare la missione il prima possibile.
Karf diceva che i miei valori vitali erano tornati nella norma, eppure se mi toccavo la fronte la sentivo divampare. Probabilmente anche quello era uno degli effetti collaterali dell’esposizione diretta alle fluttuazioni cronoquantistiche. Stavo male, ma non mi lamentavo perché il dolore mi faceva sentire viva.
Anche se per gli altri non mi ero mai mossa da lì, io ero certa che quello di prima non fosse stato un sogno e non riuscivo a nascondere la preoccupazione. Per un attimo pensai persino di rinunciare, ma scacciai subito l’idea. Dopo tutti gli anni di studio passati a sognare di essere DJ del tempo, non potevo mandare tutto all’aria così, per una sensazione.
«La Titraahibe è l’agenzia temporale migliore del pianeta, si possono fare miracoli aggiustando un po’ le fluttuazioni cronoquantistiche», intervenne Inck, che sembrava aver letto la preoccupazione nei miei occhi.
«La Tritraahibe è l’unica agenzia temporale del pianeta», puntualizzai.
Inck fece finta di non aver sentito e continuò con le sue considerazioni. «Questo per dirti che puoi sbagliare anche mille volte, ma per com’è organizzata la struttura del tessuto spazio-temporale tu non ti accorgeresti mai di nulla. Dovresti saperlo meglio di me, visto che sei una secchiona.»
Gli tirai una pacca sulla spalla e mi preparai nuovamente per la partenza. Prima di salire sulla navicella, lo sguardo si posò distrattamente sulla statua dell’angelo: le sue ali mi sembrarono leggermente più dispiegate rispetto all’ultima volta l’avevo osservata.
La procedura di attivazione si ripeté da capo: sensazioni distorte e sfumature d’azzurro iridescente mi avvolsero come un oceano in tempesta, poi finalmente mi ritrovai sotto quel noto cielo serale in burrasca. Incamminandomi verso l’Ibizu Kilea la pioggia fredda mi inzuppò gli abiti; era una sensazione piacevole, gli atomi del mio corpo rallentarono impercettibilmente dandomi modo di respirare.
Girato l’angolo della strada, mi trovai davanti al passaggio pedonale in cui sapevo si sarebbe fermata Linsdy. Pensai che avrei potuto stare lì ad aspettarla per tutto il tempo necessario e al momento giusto spingerla lontano per cambiare la storia. Ma avrei potuto veramente?
Ripercorsi mentalmente gli ultimi istanti con lei, gli ultimi passi su quel marciapiede affollato e impregnato di pioggia. Pensando, il tempo passò invisibile e silenzioso, più veloce del normale, così arrivai davanti al pub in ritardo. Entrai nel momento in cui la famigliola di srehitani stava uscendo e quasi ci scontrammo. Linsdy era seduta al solito tavolo con la me stessa del passato. Rubai per la seconda volta la sciarpa al solito ignaro cliente e presi posto nel tavolo di fronte al mio obbiettivo.
Per portare a termine la missione mi sarebbe bastato trovare il coraggio di alzarmi, prendere l’orologio e tornare nel mio tempo, ma non riuscivo a muovermi, ero come paralizzata, mi sentivo parte integrante di quel tavolo: se avessi mosso un solo dito, qualcosa di certo sarebbe andato in pezzi.
Per il tempo in cui rimasi seduta in quel posto, nessuno sembrò accorgersi della mia presenza, solo la me stessa del passato mi lanciò una breve occhiata dopo che Lindsy se ne fu andata. L’orologio era lì, sopra al tavolo, la mia amica invece era uscita, impaziente di assecondare la crudele volontà del destino. La Edra di quel tempo si accorse dell’orologio dimenticato, si alzò e mi passò di fianco di corsa. Nel rivivere la fretta di quell’azione, provai una forte vertigine ed ebbi l’impressione di precipitare in un baratro sempre più profondo, sempre più buio. Come la prima volta, gli eventi mi sfuggirono di mano e mi risvegliai nuovamente nell’infermeria della Titraahibe.

«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
«Ho fallito…», bisbigliai.
Lui mi guardò stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata prima di salire sulla navetta e così la missione è stata posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Per niente.» Una strana sensazione di déjà-vu mi assalì. Stavo per aggiungere un pensiero poco scientifico su una possibile maledizione lanciatami contro da qualcuno, invece mi uscì un sospiro. Anche il medico sospirò. «Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi ultimi giorni di vita piena di rimpianti.»
«Dov’è il fascicolo sulla missione?», chiesi, ignorando le sue considerazioni.
«A che ti servirebbe adesso?»
Altro tremendo déjà-vu. «Ho bisogno del fascicolo sulla missione!», cercai di urlare, ma la mia voce sembrava lontana. Mi alzai in preda all’agitazione e finii a terra, Karf mi risistemò sul lettino e mi somministrò un tranquillante. Mi riaddormentai, ma questa volta iniziai a sognare, ed era un sogno così vivido che sembrava reale. Avevo la sensazione di osservare un luogo fuori dal tempo, un luogo che esisteva, esiste ed esisterà sempre.

«Non so per quanto ancora potremo reggere, mia signora!» I bellissimi gli occhi verdi di un essere alato scintillano alla luce della lanterna di sale posizionata al centro di un tavolo. Le mani, protese in avanti verso uno specchio vuoto immerso nell’oscurità più cupa, sono coperte da morbidi guanti ricamati.
La donna, che sta nascosta dietro a una tenda di tessuto blu in fondo alla stanza, ha una voce familiare: «Dobbiamo resistere o fallirà l’intero progetto, cosa che non possiamo assolutamente permettere.» Il suo tono è calmo, ma io ho la certezza che dentro di lei si stia scatenando un uragano.
«Come propone di agire, mia signora?»
«Prima di tutto, lasciate perdere il loop difensivo.»
«Con tutto il rispetto, devo forse ricordarle ciò che è successo l’ultima volta che abbiamo interrotto il loop?», insiste la creatura angelica, senza spostare l’attenzione dallo specchio nero che ha davanti. Indossa un mantello scuro con il cappuccio calato fino sulla fronte; le ali sul dorso fremono impercettibilmente per la tensione che si è venuta a creare nell’attesa di una risposta.
«Ricordo ogni singolo avvenimento, da quando il primo elettrone ha preso forma e ha iniziato a muoversi nello spazio-tempo. Sì, ricordo anche l’ultima volta che abbiamo interrotto il loop: la struttura dell’universo è collassata in una singolarità.»
«E non le sembra una tragedia?!» L’essere alato non tenta nemmeno di nascondere un moto di sdegno nella sua voce pura e suadente.
La donna sorride e prosegue con tono quasi materno: «Le tragedie non esistono. Le singolarità non distruggono l’universo, cambiano solo la disposizione delle cose.»
L’altro resta in silenzio per qualche istante, poi avvicina maggiormente le mani guantate all’oscurità contenuta nello specchio: cerca, in quel modo, di fare maggiore attrito sulla rete del tempo per rallentare gli avvenimenti e potersi concedere qualche attimo di riposo. Con quegli occhi verdi, seminascosti dal cappuccio, può vedere ogni singolo essere vivente presente nel cosmo, ma uno in particolare ha catturato la sua attenzione: sono io, mi sta fissando.
Lui ha visto la nascita, la morte e la resurrezione di ognuno senza commuoversi, senza provare né gioia né dolore. Assiste allo scorrere del tempo da quella sua posizione privilegiata, frenando saltuariamente il normale ticchettio della lancetta dell’orologio per concedersi un po’ di riposo. Nulla lo fa vacillare. Per sua natura non prova emozioni, se non quando si tratta della salvezza dell’Universo e le sue ali si dispiegano quando qualcuno gioca d’azzardo con il tempo.
Finalmente allenta le mani e si decide a parlare: «Devo confessarle una cosa, mia signora.»
«Ti ascolto.»
«L’interferenza ha ottenuto un contatto con me.»
«No!» La misteriosa donna nascosta dietro la tenda blu nega. La negazione: una reazione fin troppo umana, la prima reazione in risposta a un avvenimento tanto spiacevole da non poter essere giudicato razionalmente.
«Se interrompiamo il loop adesso, dovrà per forza tornare indietro, mia signora. L’interferenza ha capito dov’è stata inserita la giunzione temporale.»
La donna scosta violentemente la tenda blu e il suo volto appare in tutta la sua bellezza: è Linsdy.


Mi risvegliai frastornata: il tranquillante non aveva svolto bene il suo compito.
«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
Avevo la mente ancora in disordine per ciò che avevo appena vissuto. L’angelo dagli occhi verdi e le mani guantate assomigliava in modo impressionante a quello della statua presente nella Sala del Tempo.
«Sono nell’aldilà?», chiesi.
Il medico mi scrutò per qualche istante stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata prima di salire sulla navetta e così la missione è stata posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Karf, smettila di ripetere sempre le stesse cose, ok? Mi farai impazzire!»
L'uomo restò per qualche secondo a fissarmi con gli occhi sbarrati cercando di capire se lo stessi prendendo in giro, poi ci rinunciò e scosse la testa rassegnato.
«Ho fatto un sogno», proseguii, «o almeno credo fosse un sogno, e c’era quell’angelo, quello della statua vicino al Timegate! Non può essere una coincidenza!»
Karf sospirò. «Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi ultimi giorni...»
«Non costringermi a chiuderti la bocca con del nastro adesivo!» lo interruppi bruscamente. «Morirò nel momento scelto da me. Non prima!2»
«C’è chi potrebbe decidere per te3», mi rispose apprensivo.
Il fatto che avesse inserito una nuova frase nel suo copione mi rassicurò. «Hai ragione», ammisi dopo un breve attimo di silenzio, lo sguardo perso nel soffitto candido di quella stanzetta asettica, «ma ho come l’impressione che questa missione mi stia consumando. D'altronde il tempo sa fare solo questo: consumare le cose. Consuma perfino le stelle che a noi appaiono eterne. Ma è così affascinante, non trovi? Il tempo… che cos’è il tempo, Karf? E perché teniamo quell’inquietante statua nella sala delle partenze?»
Quando spostai nuovamente lo sguardo verso il medico, notai che aveva assunto un’espressione allarmata. Mi guardava come se stessi tentando di scalare a mani nude una parete verticale di cristallo, come se stessi delirando.
«Vado ad avvertire i tecnici che riprenderai la missione domani. Per il momento niente accertamento psichiatrico, ma se domani non sei tornata in te…» Non terminò la frase lasciando sottintendere il resto, e concluse con un sbrigativo «Riposati.»

Stesa sulla branda del mio alloggio non riuscivo proprio di addormentarmi. Guardavo l’ora proiettata sul soffitto dalla sveglia led: ormai era notte fonda, erano le 2:33. All’esterno tutto era avvolto nel più completo silenzio, ma nella mia mente c’era il caos. Il pensiero di tutte quelle persone che se n’erano andate lasciando le cose a metà non mi voleva lasciare in pace. Iniziai a riflettere su quello che avrebbe potuto fare Linsdy nella colonia spaziale orbitante attorno al sistema gioviano, se solo fosse riuscita ad arrivarci. Mi sembrò di vederla con addosso un camice bianco da laboratorio e degli occhiali protettivi, intenta a controllare nei computer i dati di crescita di minuscoli germogli. Mentre svolgeva il suo lavoro sopraggiungeva un collega, lei sorrideva e, scostando una ciocca di capelli ribelle dal viso, riferiva che tutto stava andando per il meglio.
Pensavo a lei perché l’avevo vista spegnersi davanti ai miei occhi a un’età in cui non esistono ancora sogni irrealizzabili, a un’età in cui ci si crede immortali. Fino ad allora ero riuscita a convivere con il vuoto della sua assenza, ma la missione mi aveva ridestata, mi aveva fatto capire che in realtà non l’avevo mai dimenticata, lei era sempre stata lì in un angolo del mio cuore pronta a scuotermi dal torpore dell'indolenza.
Ricordavo ancora il profumo che indossava quella sera e il sorriso cristallino prima di uscire dal locale. Per tutto il tempo le avevo sempre nascosto i miei sentimenti. La tentazione di tornare indietro e raccontarle tutto era fortissima. Se avessi potuto rivivere in prima persona quella serata, ora avrei agito diversamente, senza paura di ricevere una pugnalata al cuore, senza il timore di un rifiuto. E se ci fossi stata io al posto Linsdy, sotto la pioggia, ad attendere l’arrivo di quell’auto impazzita, chi avrebbe scelto il computer per svolgere questa missione? Se... se… Troppi “se”.
Ricordai le parole del mio relatore riferite alla bozza della tesi di laurea che gli avevo presentato: “L’argomentazione è più che buona, ma ti poni troppe domande irrisolvibili. L’uomo non potrà mai capire la struttura profonda del tempo nella sua completezza, altrimenti diventerebbe un dio.”
Ad un tratto nella mia mente balenò un’idea folle.
Decisi che era arrivato il momento di prendere in mano le redini della situazione. Non potevo continuare a far finta di niente. Mi alzai di scatto dal letto, indossai le prime cose che avevo a portata di mano e, a larghe falcate, raggiunsi la Sala del Tempo.
Dopo tutte le partenze a cui avevo assistito, attivare il Timegate in solitaria non era di certo un problema e regolare le coordinate spazio-temporali nel luogo e nell’epoca desiderata era un giochetto. L’allarme che segnalava un’intrusione non prevista scattò con un po’ di ritardo. Io ero già dentro la navetta che fluttuava in assenza di gravità e nessuno poteva più fermarmi.




Note:
1- Il fatto che la materia che entra in risonanza vicino ad un buco nero produca una melodia riconosciuta come si bemolle, non è una mia invenzione, ma una considerazione scientifica reale.
2- Frase pronunciata dalla regina Elisabetta I nel film Elisabetta I dopo aver accusato un malore.
3- Frase pronunciata nello stesso film dal medico di corte in risposta alla precedente efferazione della regina. Egli credeva che il malore fosse stato causato da un avvelenamento.

Nota sull'uso dei tempi verbali:
Avrete sicuramente notato un cambio di tempo verbale: passato -> presente -> passato.
Nella parte in corsivo, che parla del sogno in cui comprare l'angelo dagli occhi verdi, ho usato il tempo presente per rendere l'idea di "luogo fuori dal tempo" che esisteva, esiste ed esisterà. Ci si può vedere anche un significato esoterico piuttosto complesso e profondo sulla natura del tempo e dello spazio legato all'essere umano, ma non voglio spaventarvi con complicate elucubrazioni filosofiche. Se proprio non resistete dalla curiosità, potete sbirciare la risposta che ho dato alla valutazione di Najara, giudice del contest a cui ha partecipato la storia.



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"Timegate: una porta verso il passato" di Monique Namie
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Capitolo 3
*** Timefixers ***


Sciossione d'Anima

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Cap.3 - Timefixers




In una linea temporale artificialmente modificata.

C’è una tipologia di persone che il computer per la scansione cerebrale identifica come potenzialmente pericolose: a queste persone viene dato il nome di “Tif”, abbreviazione di timefixers, che io preferisco tradurre con aggiustatempo. Ad una conoscenza superficiale, queste possono sembrare persone normalissime, dai solidi princìpi morali e con un alto senso della giustizia, eppure dopo un po’ iniziano ad apparire inaffidabili. Gli aggiustatempo si riconoscono nel momento in cui iniziano a mettere in dubbio l’adeguatezza delle tre regole dell’Agenzia. All’inizio ci ero passata anch’io, avevo posto il computer di fronte a un problema e lui, invece di rispondermi, aveva chiuso la seduta dichiarandomi non idonea. Tempo dopo venni a sapere che la mia scheda personale era stata collocata sotto la dicitura “timefixers”. Mi sentii piuttosto abbattuta. È raro che un Tif venga giudicato idoneo in una delle successive scansioni cerebrali, quindi davo per scontato che mi sarei occupata del tempo sempre e solo a livello teorico e non pratico, come invece ambivo ardentemente. Il giorno in cui il computer mi valutò come idonea, mi presi qualche ora di permesso per festeggiare in un locale della città. Nonostante la musica e la piacevole atmosfera del posto, percepivo in me un velo d’inspiegabile malinconia. Forse già allora il mio sesto senso voleva mettermi in guarda da possibili sciocchezze che avrei potuto compiere in futuro.

Mentre cercavo di contattare Linsdy, intrappolata nella linea temporale passata, rivedevo il mio nome inserito nella lista degli aggiustatempo: se il computer mi aveva rivaluta in modo errato, l’universo intero stava correndo un grave rischio.
Finalmente vidi Linsdy girare l’angolo di un edificio. Camminava guardando sovrappensiero l’orologio che aveva al polso: tre quadranti e cinque lancette per segnare un unico tempo. Per qualcuno poteva sembrare un’esagerazione, ma a lei le cose complicate piacevano. L’indomani a quell’ora si sarebbe trovata in viaggio verso la colonia spaziale orbitante attorno a Europa, nel sistema gioviano. Aveva l’aria felice mentre alzava lo sguardo verso i profili degli imponenti grattacieli a finestre specchiate. Il temporale della sera era ancora lontano: il sole del primo pomeriggio rifletteva nelle sue iridi facendole sembrare due preziosi smeraldi. Indossava lo stesso soprabito che avrebbe indossato al nostro appuntamento. I suoi passi leggeri sul marciapiede lastricato segnavano un ritmo perfettamente in armonia con l’ambiente circostante. La vita di Linsdy apparteneva a quel tempo, ma il tempo continuava a scorrere senza mai fermarsi a guardarla. Se fossi stata io, il tempo, avrei ovviato a quell’inconveniente, mi sarei fermata e le avrei detto: “Ehi! Stai benissimo oggi, sembri in armonia con il tutto.”

Stava venendo verso di me, ma non si era ancora accorta della mia presenza. Ne approfittai per coglierla di sorpresa.
«Ciao Linsdy! Stai benissimo oggi, sembri...»
«Edra!? Che ci fai qui? Non dovresti essere all’università?»
Mi strinsi nelle spalle. «Un amico mi registra la lezione.»
Linsdy iniziò a scrutarmi con un’espressione stranita in cerca di un indizio che non riusciva a trovare. «Sei diversa, ma non capisco in cosa. Sei stata dal parrucchiere?»
«No.»
«Ci sono! Hai cambiato il colore dell’ombretto!»
«No.»
«Sicura? Hai gli occhi più luminosi.»
Non le risposi. Mi morsi il labbro inferiore per frenare le lacrime che cercavano con prepotenza un varco, e quando capii che non avrei resistito un secondo in più, la abbracciai per nascondere il mio volto. La strinsi a me e affondai la testa sulla sua spalla respirando tra i suoi capelli quel familiare profumo di angelica e riattivante elettrico. Nel giro di qualche secondo, quel contatto ebbe l’effetto di darmi un coraggio inaspettato. Mi sciolsi dall’abbraccio e iniziai a parlare a raffica. «Stasera l’appuntamento è alle sette. Ti prego, non fare affidamento su quell’orologio!», le dissi con tono fin troppo supplichevole, indicando con lo sguardo l’oggetto che portava al polso. «Anzi, è meglio se me lo dai e te lo riporto quando ci rivediamo.»
«Che cosa c’entra l’orologio?»
«Niente. Solo che potrebbe fermarsi, e quando gli orologi si fermano, non sai mai quello che potrebbe accadere.»
Cercai di metterla in guardia lanciandole quel messaggio indiretto. Non potevo dirle: “Linsdy, mi dispiace ma stasera morirai, cerca di arrivare puntale, magari la storia cambierà”. Ci speravo davvero con tutto il cuore che la storia cambiasse, eppure, conoscendo la struttura del tempo, sapevo che gli eventi si sarebbero svolti in modo da riportare l’equilibrio. Invariabilità variabile: il tempo è capace di creare ossimori meravigliosi e tragici insieme.
«Comunque continui a sembrarmi strana», disse Linsdy girandomi attorno con uno sguardo indagatore. «Mi sembri… lontana.»
La fermai posandole le mani sulle spalle e, senza dire una parola, le sganciai l’orologio dal polso e me lo misi in tasca. Quel mio gesto la sorprese abbastanza da lasciarla a bocca aperta.
«Allora a stasera!», mi affrettai a dirle, prima di ritrovarmi di nuovo con le lacrime agli occhi in cerca delle parole adatte a un quarto addio. Indietreggiai di qualche passo continuando a guardarla. Ero combattuta. Se avevo qualcosa da confessarle quella era la mia ultima occasione. Dopo il modo in cui ero sparita senza avvisare, al mio rientro, dubitavo fortemente che mi avrebbero affidato altre missioni. Tornai verso Linsdy e la baciai: le sue labbra erano leggermente umide e sapevano di miele. Non oppose resistenza, ma quando mi scostai lessi nel suo sguardo che qualcosa la turbava. Il mio improvviso moto di coraggio si spense così com'era arrivato. Mi voltai e iniziai a correre.

Al ritorno mi trovai ad affrontare l’effetto della mia decisione impulsiva. Non avevo mai visto così tante persone riunite nella Sala del Tempo prima. C’erano tutti i tecnici, anche quelli che dovevano essere in vacanza e persino il direttore del museo. Davanti all’entrata blindata c’era una squadra di soldati addestrati e prestati al giuramento di segretezza, completi di armatura e armi spianate contro di me.
Scesi dalla navicella con lentamente e con le mani alzate.

«Se controllate nella tasca destra troverete l’orologio… voglio dire il nuovo reperto per il museo. Missione compiuta!»
Il direttore fece cenno ai soldati di abbassare le armi poi mi si avvicinò, frugò nella tasca che avevo indicato e ne tirò fuori l’orologio.
«Cosa diavolo pensavi di fare azionando da sola il Timegate?!»
Abbandonai le braccia lungo i fianchi, sconsolata.
«Ti consideravo una persona abbastanza responsabile da comprendere la pericolosità di certi gesti! Giocare con il tempo può provocare effetti devastanti sull’intera struttura dell’universo! E non mi guardare con quegli occhi dispiaciuti, lo sai che a ogni causa corrisponde un effetto!»
Si passò una mano sul volto e sospirò: aveva quasi settant’anni, ma ancora tanta energia da vendere.
«Mi vuole licenziare?», chiesi con un filo di voce, temendo la risposta.
«Licenziare?», ripeté. «Farò smantellare il computer che ti ha valutato come idonea! È chiaro che si è guastato e dev’essere sostituito!»
Fu un piacere constatare che il valore delle mie capacità impediva al direttore di prendersela seriamente con me. La sua predica ad un certo punto mi apparve quasi la ramanzina di un padre preoccupato per la figlia. Mi sentii in dovere di ringraziarlo.
«Non mi ringraziare, questa è stata la tua prima ed ultima missione da DJ», mi rispose. Avrei dovuto immaginarlo che non sarebbe andato tutto liscio.
Mi ritirai nel mio alloggio e, nonostante la stanchezza e il tardo orario, non riuscii ad addormentarmi: troppi pensieri e troppe emozioni mi vorticavano nella mente. Ad un certo punto abbandonai il letto e mi sedetti alla scrivania rivolta verso l’unica finestra della camera. Il cielo era limpido e si vedeva la Luna. Rovesciai la sveglia a led che proiettava l’ora sul soffitto in modo da rendere la stanza completamente buia. La prima volta che avevo guardato fuori da quella finestra avevo pensato che il paesaggio non fosse male. Si vedevano le luci della città e, verso l’orizzonte, persino la torretta più alta dello spazioporto che si trovava a qualche chilometro da lì; di notte s’accendeva come un faro, lampeggiava con un ritmo preciso, matematico, e per il colore brillante ricordava una strobosfera.
«Perdonami Linsdy», dissi con lo sguardo puntato nel cielo stellato oltre il vetro. «Anzi, non mi perdonare, non me lo merito. Avrei dovuto fregarmene della terza legge!»
Improvvisamente la volta celeste fu attraversata da una scia luminosa che terminò proprio in corrispondenza dello spazioporto: una navicella proveniente da chissà dove, aveva fatto ritorno sulla Terra. Considerando la data, poteva benissimo essere la navicella che avrebbe riportato a casa Linsdy, se lei fosse stata ancora viva.
Mancavano meno di due ore all’alba e quell’assenza di sonno mi ricordò il primo periodo all’Agenzia. La notte non riuscivo a dormire: il letto era comodo, ma era un letto estraneo, l’ambiente era accogliente, ma non era quello di casa. Così mi alzavo, percorrevo con passo felpato il corridoio che portava nella Sala del Tempo e, una volta entrata, mi sedevo a gambe incrociate sul pavimento e restavo lì, in ammirazione a guardare il grande cerchio immerso nella penombra. Ricordai la prima volta in cui ero entrata Sala del Tempo di notte: avevo avvertito una strana energia attraversarmi e avevo avuto la certezza di essere destinata a stare lì in quel preciso momento, e che quel luogo fosse il tassello centrale del mosaico della mia vita. Il Timegate sembrava un enorme orologio, che spogliatosi della guarnizione di fondo, ostentava con un certo orgoglio tutti i suoi complicati meccanismi interni. Sul pavimento freddo, a contemplare quel maestoso cerchio intriso di perfezione divina, iniziavo a sentirmi finalmente a casa. Qualche volta mi scoprivo a sorridere pensando che la navicella per lo spostamento temporale, allora poggiata al suolo, somigliasse moltissimo a un vecchio ferro da stiro con le ali, ma poi tornavo subito seria. Nel vuoto di quella stanza avevo l’impressione di sentire la voce di Linsdy: “È possibile che ogni volta che io e te ci incontriamo debba piovere?!” Non mi sarei sorpresa più di tanto se fosse apparsa come un fantasma all’interno del perimetro del Timegate. C’era, e c’è tuttora, qualcosa di misterioso in quella struttura, qualcosa che non può essere spiegato nemmeno dalle stesse formule matematiche che ne hanno reso possibile la costruzione.
È come se il tempo fosse qualcosa di vivo, un’entità senziente.

«L’unica domanda che avresti dovuto porti fin dall’inizio, non ti ha nemmeno mai sfiorato la mente.»
È l’angelo dai begli occhi verdi a parlare. È comparso dal nulla, assieme alla sensazione di essere stata sbalzata fuori dalla mia linea temporale originaria. Devo essermi addormenta sulla scrivania: sì, è la spiegazione più plausibile.
Ci troviamo in una stanza poco illuminata, molto simile a quella del primo sogno. Su un tavolo c’è una lampada di sale che spande luce fioca tutto intorno. C’è anche lo specchio vuoto, manca solo la tenda blu dietro la quale, l’altra volta, si nascondeva Linsdy.
Immagino sia un sogno, ma non escludo possa trattarsi di un’allucinazione, un effetto collaterale dell’esposizione alle fluttuazioni quantistiche. Non riesco a scartare nessuna ipotesi.
«Che cos’è il tempo?», azzardo.
«Questo te lo sei chiesto fin troppe volte», mi rimprovera lui.
«Quale altra domanda avrei dovuto pormi?»
«Dove sono finiti i DJ del tempo che lavoravano alla Titraahibe prima di te, per esempio.»
«Giusto! Dove sono finiti?»
«Sono diventati parte integrante della struttura del tempo.»
«Come?»
«Semplicemente, un giorno, prima di partire per una nuova missione, hanno capito che non sarebbero più tornati», mi risponde lui.
«Sono morti?»
«No. Sono diventati parte integrante della struttura del tempo. E tu, è proprio il caso di dirlo, hai combinato un bel caos!»
La rivelazione mi lascia senza parole. Ho sempre agito in buona fede, per cui non capisco in che modo posso aver combinato un casino.
La voce dell’angelo riprende suadente: «Tutti coloro che osano rimescolare gli avvenimenti della storia a loro piacimento, finiscono per ritrovarsi a supplicare. Ad un certo punto anche tu sentirai dentro di te il peso di tutto ciò che avresti potuto fare se solo ne avessi avuto il tempo. La colpa è tua che hai voluto scendere a compromessi con qualcosa di inconcepibile.»
«Ho violato la terza regola, è questo il problema, vero? Quella regola andrebbe modificata. Il passato certe volte è troppo crudele: non si può stare fermi a guardare che tutto si ripeta quando c’è la possibilità di rendere le cose migliori!»
«È questo il tuo problema: ti preoccupi troppo per ciò che è stato. Ma il passato non esiste.»
«Ho sempre cercato un modo per evadere dal tempo», replico, «ho trascorso tre anni di studio all’università chiedendomi ogni giorno “perché tempo e spazio sembrano fusi? perché uno non può esistere senza l’altro? perché succedono certe cose invece di altre?” Le persone continuano a chiamarlo destino…»
«E tu hai trovato una risposta migliore?»
«No, ma credo di esserci vicina.»
L’angelo sorride e s’incammina lentamente verso la parete su cui è appeso il suo specchio vuoto. «Hai tutti gli elementi per comprendere», dice allungando le mani guantate verso il nulla oscuro contenuto nella cornice, poi continua: «Serve molta pazienza per svolgere questo lavoro, sai? Se stringo troppo la presa, il tempo si ribella e l’universo implode.»
Si gira a guardami, mi basta un instante per leggergli negli occhi le sue intenzioni, ma è troppo veloce e non riesco a far nulla per fermarlo. Stringe le dita sui palmi formando due pugni e in quel preciso istante inizio a sentire un fastidioso formicolio su tutto il corpo e un fischio acuto. Poi l’universo implode. I concetti di passato, presente e futuro perdono senso, le distanze si annullano, non esistono più confini tra le cose.


«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
«Ti prego, non dirmi che sono crollata prima di salire sulla navetta e che la missione è stata posticipata!», supplicai.
«Va bene, non lo farò.»
Valutai per qualche istante la situazione: chiaramente non era più notte il che lasciava presumere che io mi fossi svegliata e avessi compiuto delle azioni che mi avevano fatta finire sul lettino dell’infermeria. Mi sforzai di ricordare, ma fu inutile: avevo un vuoto di memoria.
Io e Karf restammo a fissarci per qualche lunghissimo istante senza proferire parola. Avevo il timore di chiedere, ma la curiosità infine ebbe la meglio. «Che cosa è successo?»
«Linsdy ti è venuta a trovare e, quando vi siete incontrate in corridoio, tu hai urlato e poi hai perso i sensi.»
Un senso di stordimento si appropriò della mia mente impedendomi di formulare qualsiasi pensiero coerente.
«Che???»

«La tua amica è venuta a trovarti e poi…»
«La mia amica chi?!», lo interruppi quasi urlando, temendo di avere le allucinazioni uditive.
«L I N S D Y», scandì lui. «Vi siete incrociate in corridoio e tu hai avuto quella spaventosa reazione. Ti ho prescritto un accertamento psichiatrico. Non fraintendermi, non credo che tu sia pazza, ma forse avresti bisogno di una vacanza. Dove vai?! Aspetta!»
Karf non fece in tempo a fermarmi, ero già in corridoio che correvo senza una meta precisa girando la testa a destra e sinistra a ogni bivio. A metà strada tra la Sala del Tempo e il laboratorio di analisi chimiche, inciampai sul camice che indossavo, scivolai e mi ritrovai stesa a terra. Cercai di rialzarmi, ma con un ginocchio dolorante non era un’impresa tanto semplice. Qualcuno mi offrì gentilmente una mano, la afferrai e una volta in piedi mi ritrovai davanti al viso di lei. Nel giro di qualche secondo nella mia mente si affacciarono le possibilità più disparate: pensai di essere nell’aldilà, ipotizzai che l’implosione dell’universo fosse veramente avvenuta, supposi persino lo slittamento dello spazio in una linea temporale alternativa, ma non pensai nemmeno per un istante che la spiegazione risiedesse nell’orologio che avevo le rubato.
«Bel modo di salutarmi dopo cinque anni e due mesi di assenza!» La sua voce mi scosse. Aveva usato lo stesso tono scherzoso di quella sera al pub e mi guardava con quei suoi grandi occhi verdi cercando di carpire qualcosa dalla mia espressione.
«Ti senti meglio?», mi chiese.
Le mie labbra restarono sigillate.
Mi prese le mani e al contatto sentii una scossa. «Hai le mani gelate!» Constatazione eccellente. «E il mio orologio che fine a fatto? Me lo dovevi dare quella sera prima che partissi! Dì qualcosa, sto iniziando a preoccuparmi!»
«L’orologio?», riuscii finalmente ad articolare.
«Sia ringraziato il cielo!», disse con fare teatrale. «Dopo cinque anni ti ostini ancora a fingere di non ricordare? Se proprio ti piaceva tanto, bastava dirlo e te l’avrei regalato.»
La naturalezza con la quale Linsdy mi rivolgeva la parola era incredibile. Sembrava che fosse passato appena qualche giorno dal nostro ultimo incontro. Forse ci eravamo tenute in contatto in qualche modo che ora, per colpa del vuoto di memoria, non ricordavo.
«S-stai parlando di quell’orologio? Quello con tre quadranti?»

«Sì, parlo di quel prezioso orologio con tre quadranti e cinque lancette di fattura estruviana che mi hai sottratto cinque anni fa.»
Mi appoggiai frastornata a una parete, lei mi imitò continuando a osservarmi con una certa preoccupazione. La nebbia si stava pian piano diradando dalla mente. Durante il mio ultimo viaggio nel passato avevo incontrato Linsdy nel pomeriggio, qualche ora prima del nostro appuntamento all’Ibizu Kilea, avevo trafugato il suo orologio e me n’ero tornata al presente. Quella mia azione doveva essere stata la causa principale della deviazione degli eventi. Avevo creato un ramo temporale alternativo!
In cinque anni il colore degli occhi di Linsdy non era cambiato, inoltre profuma ancora di angelica e riattivante elettrico. «Inizio a dare ragione al medico, forse dovresti riposare un po’», disse apprensiva, poi sorrise e continuò: «Non me ne frega nulla dell’orologio, stai tranquilla, prima scherzavo.»
La spiegazione più probabile era questa: senza il fatidico orologio, Linsdy aveva cercato altrove l’orario riuscendo ad arrivare puntuale al nostro appuntamento, la cena era terminata prima e lei aveva mancato l’incontro con l’auto impazzita.
«Ho combinato un casino! Ma è il più bel casino che avessi mai potuto combinare!», conclusi avvicinandomi in cerca di un abbraccio. Sentii le sue mani accarezzarmi la schiena; restammo qualche minuto così, in silenzio, a nutrirci ciascuno dell’anima dell’altra.
Nella mia testa sarebbe sempre rimasto quel vuoto temporale che si estendeva dal momento in cui ammiravo il paesaggio notturno dalla finestra della mia stanza fino al risveglio in infermeria. Nell’intermezzo, mascherato da quell’enigmatico sogno in cui parlavo con l’angelo, ci poteva essere l’infinito. Rabbrividii al pensiero che l’universo potesse essere veramente imploso sotto la pressione delle mani guantate di una creatura in grado di controllare il tempo da un luogo fuori dalle dimensioni a noi conosciute.

Immaginavo che dopo la mia bravata mi sarebbe stato tolto il ruolo di DJ e riaffidato quello di cronoquantista teorica. Se il mio destino era quello di abbandonare per sempre la possibilità di viaggiare nel tempo, volevo salutare per bene il Timegate: certo, lo avrei rivisto ancora, ma sotto le spoglie di una cronoquantista sarebbe stato diverso, come se un muro invisibile si fosse posto tra noi.
Linsdy non aveva il permesso di entrare nella Sala del Tempo, quindi mi aspettò fuori. Non appena varcai la soglia, la prima cosa che notai, oltre l’imponenza del Timegate, fu l’assenza della statua dell’angelo. Raggiunsi Inck che in quel momento era impegnato ad armeggiare con un robusto cavo d’alimentazione che connetteva la macchina del tempo a un serbatoio atomico. Gli chiesi se sapeva che fine aveva fatto la statua dell’angelo. Lui interruppe momentaneamente il suo lavoro, si passò mano sulla fronte imperlata di sudore e mi guardò. «Di quale statua stai parlando? Le uniche statue che io abbia mai visto in questo edificio sono custodite al museo.»
«Non ti ricordi della statua?!»
Inck sembrò rifletterci su per qualche secondo. «No, non mi ricordo. Come potrei ricordarmi di una cosa che non ho mai visto?»
Possibile? Mi avvicinai per osservare meglio la porzione di pavimento su cui ricordavo fosse poggiato l’angelo e notai una traccia: il segno inequivocabile di un oggetto che era rimasto in quel posto per parecchi anni prima di essere rimosso. In quel preciso momento, si risvegliò in me una certezza: Linsdy era tornata e l’angelo era sparito. Si sa che il tempo è un abile affarista, se salvi la vita a qualcuno lui ne vuole un’altra in cambio, la tua possibilmente. Non importa quanto dovrà aspettare per prenderla, alla fine troverà sempre un modo. Ero convinta che prima o poi avrei sognato di nuovo la stanza illuminata dalla lampada di sale e, quando sarebbe successo, non mi sarei più risvegliata. Ogni istante di tempo sarebbe scorso tra le mie mani guantate e non avrei potuto far altro che contemplare innumerevoli vite contrastate da altrettanti innumerevoli eventi.
Uscii dalla sala e trovai Linsdy che mi aspettava in corridoio giocherellando con un nuovo tipo di orologio. Quando mi vide mi venne incontro e si fermò davanti di me aspettando che io parlassi. Avevo un mucchio di cose da dirle, ma nessuna in quel momento sembrava quella giusta, così sorrisi e lasciai che tre singole parole descrivessero tutto ciò che avevo vissuto in quegli ultimi cinque anni: «Mi sei mancata!»


Questa in definitiva è la mia storia. Scoprii che Linsdy non era arrabbiata per quel bacio che le avevo rubato cinque anni prima; mi confidò che dopo essere partita si era posta delle domande, e la lontananza dalla Terra le aveva fornito le risposte. La sera in cui l’angelo sarebbe venuto a prendermi per portarmi nella stanza illuminata dalla lampada di sale, Linsdy entrò nel mio alloggio e ricambiò il bacio. Mi lasciò di fianco al cuscino un vecchio orologio da tasca con dei numeri romani incisi sulla ghiera e mi disse che la mia carriera di DJ non era del tutto rovinata: la colonia orbitante attorno a Giove stava iniziando a interessarsi ai viaggi nel tempo.
«Come sai, gravità e tempo sono strettamente collegati», disse. «Ecco, prima che io tornassi sulla Terra si parlava di assumere qualcuno di esperto in grado analizzare con precisione i dati cronoquantistici e che fosse disposto a viaggiare nel futuro.» Inutile nascondere che quell’ultima parte del discorso mi aveva esageratamente entusiasmato, tanto che avevo subito accettato di partire con lei alla volta di Giove.
Il futuro?! Chi non sogna di vedere il futuro? Peccato che il destino aveva già scelto per me un’altra strada; non avrei mai più assistito al sorge di una nuova alba da quella prospettiva mortale. Quando riaprii gli occhi credendo d’iniziare un nuovo giorno, davanti di me c’era già lo specchio vuoto, questa volta sorretto da un mobile in legno dall’aria antichissima.
Registrai la mia storia nell’attimo che intercorse tra il sollevare le mani, rendermi conto che erano coperte da preziosi guanti di velluto ricamato, e il protenderle verso l’oscurità dello specchio. Queste memorie, ho voluto chiuderle in un cassetto della mia nuova specchiera, tra le pieghe dello spazio-tempo, in modo che le parole rimanessero indelebili. A tutti i futuri DJ del tempo, voglio lasciare qualche spunto di riflessione: se aveste la possibilità di controllare il tempo, che fareste? Tornereste indietro per cambiare qualcosa del vostro passato o lascereste tutto com’è? Sbircereste nel futuro per agevolare la vostra fortuna? Pensereste a voi stessi o agli altri? Chiedetevelo e cercate di darvi una risposta sincera, e fregatevene delle tre regole.
Io non sono mai riuscita a trovare una soluzione, nemmeno ora che tutto è compiuto, che il cerchio si è chiuso, che la clessidra ha smarrito la sua sabbia nella spiaggia del tempo. Io, che avevo sempre visto il tempo come una prigione, io che cercavo un modo per fuggire dal destino, volevo essere libera, e ora, in un certo senso, lo sono.
Tutto dipende da me, dal modo in cui inclino le mani, avvolte da questi preziosi guanti ricamati, verso l’atarassica oscurità di questo specchio vuoto. E non provo più niente, le emozioni non hanno più senso. Non c’è tristezza, né gioia, solo una scintilla color verde smeraldo che, ogni tanto, illuminando la sconfinatezza del tempo, sembra implorarmi di tornare e allora io le rispondo “sono già lì con te”. Perché il tempo è sempre e ovunque.




Note autore:
Se siete arrivati fino a qui, senza imbrogliare saltando pezzi, vi voglio ringraziare sinceramente per aver letto. Ci terrei davvero che mi lasciaste anche solo una riga di recensione con il vostro parere. Sono beneaccette critiche costruttive.
Grazie anche a Najara per aver indetto il contest e avermi dato, quindi, la possibilità di creare questo racconto. E se come lei vi siete posti alcune domande sulla trama, vi consiglio di leggere la mia risposta sul suo giudizio QUI.
Alla prossima! ^^




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"Timegate: una porta verso il passato" di Monique Namie
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