InFAMOUS: The Darkness's Daughter (prologue) di edoardo811 (/viewuser.php?uid=779434)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Welcome to Empire City ***
Capitolo 2: *** The Reapers ***
Capitolo 3: *** Sometimes they come back ***
Capitolo 4: *** Pain ***
Capitolo 5: *** Sharing ***
Capitolo 6: *** Good and Evil ***
Capitolo 1 *** Welcome to Empire City ***
ATTENZIONE:
La Rachel
o Corvina o Raven che dir si voglia, che viene presa in considerazione
in
questa storia è una versione leggermente più
ingenua ed immatura di quella che
siete abituati a conoscere, perciò se noterete presenza di
OOC saprete il
motivo.
Buona lettura!
I
Welcome
to Empire City
Camera
sua non era mai stata un
granché. Era piccola, buia e spoglia. Non aveva mobili,
eccezion fatta che per
il letto. Non c’erano armadi, specchi, comodini, nulla che
lasciasse intendere
che quella era la stanza di una ragazza.
Qualche
pigro raggio di luce
filtrava nella stanza passando per le persiane chiuse. Era ancora
pomeriggio.
Rachel
sospirò e si mise a sedere
sul bordo del letto. Un'altra giornata era trascorsa. Un'altra manciata
di ore
e anche quella sarebbe passata. Si era addormentata dopo mezzogiorno,
all’incirca. Aveva riposato fino a quel momento, eppure si
sentiva ancora uno
straccio. La testa le faceva un male lancinante, era esausta e
dolorante.
Probabilmente si era ancora una volta agitata durante il sonno. Questo
avrebbe
anche spiegato le perle di sudore sulla sua fronte. La ragazza dai
capelli
corvini inspirò profondamente, esasperata da quella
situazione. «D’accordo
Rachel... puoi farcela... forza... puoi farcela... manca poco...»
Una
fitta di dolore più forte la
colpì alla testa. Gemette, serrò le palpebre e la
mascella e strinse la presa
sulle lenzuola, fino a farsi male alle mani. Il cuore
accelerò all’improvviso i
suoi battiti, il respiro si fece irregolare, cominciò ad
andare in
iperventilazione.
«No...»
mormorò, tra una breve boccata d’aria
l’altra. «No... non ora...»
Con il fiato sempre più corto e il cuore
che sembrava in procinto di esploderle nel petto, la ragazza si
premette le
mani sulle tempie con estrema forza. «Ti prego, ti prego, non
farlo, non
farlo...»
Riaprì gli occhi, trattenne il respiro
per qualche istante, poi lo rigettò fuori. «Puoi
farcela Rachel, puoi
controllarlo, devi solo calmarti, devi rilassarti Rachel, rilassati...
devi...
devi... agh!»
Allontanò
di scatto le mani dalle
tempie, emettendo un grido strozzato. I palmi avevano cominciato a
bruciare terribilmente.
Abbassò lo sguardo per controllare e vide entrambe le sue
mani cominciare a
tremare. Impallidì. «No,
no, no, no...»
Di nuovo, trattenne il fiato e serrò gli
occhi, contraendo la mascella. «Posso farcela, posso
controllarlo, posso
farcela, posso controllarlo...»
Ci mise tutta la sua forza di volontà.
Sentì venire risucchiato via quel poco di energie che ancora
poteva avere.
Continuò a ripetere a sé stessa di potercela
fare, di essere forte, di non
lasciarsi sopraffare. Il cuore continuava a martellarle nel petto ed
era ancora
in iperventilazione. Dopo attimi interminabili, tuttavia,
percepì il proprio
battito cardiaco stabilizzarsi, e anche la respirazione
tornò regolare, come se
il suo corpo stesse davvero ascoltando le sue parole. Riuscì
a trovare il
coraggio di riaprire gli occhi. Vide i suoi palmi e con suo enorme
sollievo non
notò alcun tremore. Tutto era normale.
Sospirò rumorosamente di sollievo, poi
si accasciò sul materasso. Il rumore del suo respiro
regolare giunse alle sue
orecchie, mentre osservava il soffitto incrostato, rimuginando su
quello che le
era appena accaduto e sul disastro che aveva appena evitato per
miracolo. C’era
riuscita, di nuovo. Per almeno un altro giorno non avrebbe
più dovuto
combattere. Forse.
Non poteva andare avanti in quel modo.
Erano giorni interi ormai che se ne stava segregata in camera sua, a
lottare
con sé stessa. A cercare di reprimere il suo stesso corpo,
per timore di quello
che avrebbe potuto fare. Si sarebbe consumata da sola, continuando di
quel passo.
Doveva fare qualcosa, doveva trovare il modo di tenere la mente
occupata, di
non restare ferma troppo a lungo. Restare in casa non funzionava, aveva
smesso
di farlo già due giorni prima.
D’altronde,
la situazione in
città si era calmata. Non aggiustata, ma quantomeno calmata.
Il che era un gran
passo avanti. Inoltre, l’atmosfera di camera sua aveva
cominciato ad
opprimerla. Quelle pareti scrostate e piene di aloni di muffa in quella
camera
microscopica, la irritavano.
L’odore
stantio della stanza giunse
all’improvviso nel suo naso, sgradevole come un visitatore
indesiderato. Rachel
fece una smorfia. Non aveva appena represso sé stessa per
l’ennesima volta
solamente per tornare a preoccuparsi di quello schifo di posto.
Quello era troppo, perfino
per lei. Doveva
uscire.
Annuì
a sé stessa. Afferrò la
felpa nera con cappuccio che aveva lasciato al bordo del materasso e la
indossò
sulla canotta che aveva usato per dormire, poi si alzò dal
letto e si diresse
alla porta.
Il
pavimento di legno cigolò
sotto i suoi passi, così come la porta quando la
aprì.
Uno
spoglio corridoio la condusse
in salotto. Qui Tara era stravaccata sul divano, intenta a guardare la
televisione. Come facesse a passare il tempo guardando la spazzatura
che veniva
trasmessa, per Rachel era un mistero. Da quando c’era stata
l’esplosione in tv
non avevano trasmesso altro che notiziari, vecchi film prelevati da
chissà
quale discarica e spot contro il terrorismo. Inutile dire che non aveva
mai
guardato nessuna di quelle cose.
Ignorò
la ragazza bionda e si
diresse alla porta. Tara non sembrò fare caso a lei fino a
quando non afferrò
la maniglia. «Che
stai facendo?» domandò
spostando pigramente lo sguardo verso
di lei, apatica. Non sembrava davvero interessata, probabilmente lo
aveva
chiesto solamente per scaramanzia.
«Esco» replicò
Rachel aprendo la porta.
«E i Mietitori? Lo sai che è
pericoloso
uscire.»
Rachel sorrise, cercando di apparire
sicura. Sollevò una mano. Il palmo le si illuminò
di una fioca luce nera. «Loro
non mi fanno paura.»
Tara la soppesò con lo sguardo ancora
per un momento con i suoi occhi azzurri privi di qualsiasi emozione,
poi
scrollò le spalle e riportò la sua attenzione
alla televisione. «Come ti pare.»
Il sorriso svanì dal volto di Rachel
quando udì quella risposta. Abbassò la mano.
Sospirò ed uscì, per poi
richiudersi la porta alle spalle.
***
Fuori
la situazione era anche
peggio di come la ricordava.
Empire
era una città situata
sulla costa East che sorgeva su tre isole diverse, una per distretto.
C’era il
Neon, dove abitava lei, poi il Dedalo e il Centro Storico. Il Neon era
sempre
stato il più bello dei tre. Era più bello del
Dedalo, che in ogni caso avrebbe
fatto sembrare una discarica un resort a cinque stelle, ed era anche
più bello
del Centro Storico, dopo che quest’ultimo era stato mezzo
distrutto
dall’esplosione in particolar modo.
Ma
in quel momento, sotto ai suoi
occhi, anche il Neon sembrava il fantasma del vecchio sé
stesso. Un luogo
oramai costituito da edifici dismessi e mendicanti. Le insegne luminose
che un
tempo rendevano quelle strade uno sfavillante miscuglio di colori
adesso erano
spente. Cinema, bar, discoteche, locali che fornivano ogni genere di
intrattenimento, ora erano chiusi, con le sbarre alle porte e alle
finestre. La
gente rovistava nei bidoni della spazzatura per cercare qualcosa da
mangiare,
cadaveri di automobili, e anche di persone, stavano sul ciglio della
strada,
questi ultimi in attesa che qualcuno andasse a rimuoverli prima che si
decomponessero. Una cosa macabra, effettivamente, ma purtroppo era la
triste
realtà.
Alcune
auto passavano per la
strada, ma erano poche, e tutte quante ammaccate e con la carrozzeria
arrugginita.
Rachel
si strinse nelle spalle ed
incassò la testa sotto al cappuccio della felpa, per celare
il suo volto
pallido da sguardi indiscreti. Si impose con la forza a proseguire
tenendo gli
occhi violetti bassi, ad ignorare quei poveracci che chiedevano
l’elemosina e,
soprattutto, a non guardare nessuno di quelli che camminavano accanto a
lei.
Era
uscita per respirare un po’
di aria nuova, pulita, e per cercare di distrarsi un po’, ma
tutto quello che
aveva respirato fino a quel momento era la desolazione di un luogo
oramai
morente. E le uniche distrazioni che aveva trovato erano stati i morti
di fame
accasciati sul marciapiede zeppo di crepe.
L’esplosione
aveva apportato
profondi cambiamenti a quella città.
La
gente viveva ognuna nel suo
mondo, c’era freddezza nell’aria. Nessuno parlava
con nessuno, tutti quanti si
comportavano esattamente come lei. Tutti avevano paura.
«Aiutatemi...» Una voce
si sollevò in aria all’improvviso. Il tono era
flebile, sembrava stesse per
spegnersi da un momento all’altro. Fu seguita da tutta una
serie di orribili
lamenti, versi di dolore e colpi di tosse.
Un uomo era sdraiato sul marciapiede a
poca distanza da lei, si stava contorcendo. «Mi... mi fa male
dappertutto...»
Rachel pietrificò. Rimase ad osservarlo
mentre sguazzava nel suo dolore, non sapendo minimamente come
comportarsi.
Quello era ferito su più punti del corpo, come se fosse
appena stato picchiato
crudelmente. Cosa che poteva benissimo essere successa per davvero.
Poteva
essere stato scippato da qualcuno, o anche peggio.
«Aiu... ta... temi...»
rantolò ancora
l’uomo, tendendo una mano verso i passanti, i quali facevano
di tutto per non
guardarlo.
La ragazza rimase immobile, ad
osservarlo. Aveva bisogno di aiuto. Stava soffrendo e nessuno sembrava
disposto
a dargli importanza. Doveva fare qualcosa. Ma cosa? La sua mano
uscì quasi in
maniera autonoma dalla tasca. Abbassò lo sguardo e la
osservò. Deglutì, poi si
concentrò e il palmo si illuminò di nuovo di
quella luce nera. Guardò la mano,
poi l’uomo a terra, poi ancora la mano. Un pensiero le
attraversò la mente.
Forse...
forse posso...
«Resista!» un’altra
voce, questa volta
dal timbro più acuto, la fece trasalire e nascondere di
nuovo la mano nella
tasca.
Una donna si era appena chinata accanto
all’uomo, e gli stava esaminando le ferite. Rachel riconobbe
all’istante la sua
camicia verde acqua e i suoi jeans azzurri. «Stia tranquillo,
sono un medico.»
L’uomo rantolò qualche parola
incomprensibile, poi si lasciò controllare dalla donna.
Rachel rimase ancora immobile, ad
osservare la scena.
I
medici. Probabilmente
gli unici eroi che potessero ancora esistere in quella
città dimenticata da Dio. Gli unici a cui ancora importava
qualcosa delle altre
persone, gli unici che avrebbero continuato a svolgere il loro lavoro,
con il
sole e con la pioggia. Gli unici individui altruisti
rimasti, di cui ci si poteva fidare.
Una folla di persone si radunò attorno
al medico e all’uomo all’improvviso, ognuno dicendo
la propria sottovoce.
Rachel fece una smorfia. Ipocriti.
Persone che prima se ne sarebbero infischiate di quel poveretto, ora
fingevano
interesse semplicemente perché c’era
già qualcun altro ad occuparsi di lui. La
ragazza scosse impercettibilmente la testa, poi proseguì per
la sua strada,
aggirando il gruppo.
Forse era un bene che fosse andata così.
Non era molto sicura di ciò che avrebbe potuto fare con i
suoi poteri in quel
momento. Inoltre non voleva rischiare di farsi vedere da qualcuno
mentre li
usava. Già una volta l’avevano vista
all’opera, e le cose non erano andate
affatto bene. Rabbrividì a quel pensiero.
Affrettò il passo. Voleva solo
allontanarsi da là e al più presto.
Proseguì per la sua strada.
Cominciò a
pensare che forse l’essere uscita in quel modo non era stata
una grande idea.
Alla fine, non aveva fatto nulla di che, né visto, nulla di
che. L’unica cosa
che aveva ottenuto uscendo era stata la conferma
dell’autodistruzione di quella
città.
Incontrò altri feriti per strada. Altri
mendicanti, altra gente che rovistava tra i rifiuti. Altri cadaveri.
Vittime. Vittime su vittime.
Tutte causate, chi direttamente, chi no,
da un solo avvenimento, accaduto in un terribile giorno lontano ormai
un mese.
L’esplosione, così era stato chiamato. Ed era
stata proprio un’ esplosione di
proporzioni gigantesche nel cuore del Centro Storico ad aver sconvolto
la
città.
Migliaia di persone erano morte, quel
giorno, e ancora in quel momento i suoi effetti si ripercuotevano sulle
persone.
Quando la gente si era resa conto che
nessuno di loro avrebbe ottenuto aiuti dal governo dopo la distruzione
di un
intero distretto, erano arrivati i tumulti. Furti, rapine, stupri.
Nessuno
aveva fatto nulla per fermare tutto ciò. I poliziotti, gli
unici che avrebbero
ancora potuto fare qualcosa, non avevano mosso un dito. Erano tutti
morti, o
troppo spaventati per combattere.
Come se non fosse bastato, in giro aveva
cominciato a correre la voce che un’epidemia si fosse
abbattuta sulla città.
Che fosse vero o no, Rachel non lo sapeva, dopotutto era impossibile
capire chi
fosse davvero malato e chi no. In ogni caso, quello era stato il
pretesto che
il governo aveva usato per sigillare la città, ovvero
l’impedire che l’epidemia
si diffondesse in tutto lo stato. Avevano tagliato ogni contatto tra
Empire e
l’esterno, istituendo posti di blocco pattugliati da
centinaia di federali su
ogni strada o ponte che conducesse verso il confine con le altre
metropoli. I
mari invece erano controllati da decine di cacciatorpedinieri e le
contraeree
abbattevano qualsiasi aereo o elicottero non autorizzati. Non
c’era nessun modo
per andarsene. Erano in quarantena.
Gli abitanti del luogo erano stati
letteralmente chiusi in gabbia, assieme a tutti quegli psicopatici che
avevano
approfittato della situazione già disagiata per poter
commettere ogni
qualsivoglia di crimini.
L’unica cosa che veniva fatta per loro,
forse per misera pietà, era lo sganciare delle casse di
provviste, cibi e
medicinali, a periodi discontinui. Potevano arrivare dieci casse a
settimana,
come due casse ogni tre mesi. E quando ciò accadeva, non
sempre si assisteva ad
una spartizione equa di questi beni tra le persone.
E per finire c’era lei. Non voleva
nemmeno pensare a ciò che le era successo.
«Attenzione,
cittadini del Neon District di Empire City.» Quella voce esplose all’improvviso dalle
decine di altoparlanti sparpagliati per la città. Rachel
alzò lo sguardo, verso
il grande schermo retto da un alto traliccio. Questo era acceso, il che
significava solo una cosa. Un annuncio importante stava per essere
trasmesso. E
in genere accadeva per un motivo solo. Un uomo con il volto oscurato
apparve
sullo schermo. Cominciò a parlare, mentre
l’immagine sfarfallava di tanto in
tanto. «Ci hanno appena riferito
che i
federali hanno appena sganciato una scorta di viveri ad Archer Square.
I
bugiardi al potere hanno anche detto che ognuno avrà la sua
parte e che
arriverà altro cibo. Facile parlare, quando non sei tu a
dover vivere in questo
inferno! La verità e che ci hanno abbandonati! Nessuno
verrà a salvarci, quindi
andate ad Archer Square e prendete quelle provviste prima che arrivino
i
Mietitori!»
Rachel osservò ed ascoltò
sbigottita il
tutto. Lo schermo si spense di nuovo. «Wow...»
commentò, meravigliata dalle
parole di quell’uomo. Lo sapeva che erano spacciati, lo
sapeva che erano stati
abbandonati e che nessuno li avrebbe mai salvati, ma non lo aveva mai
detto
apertamente. Né lei, né tutti quelli che proprio
come lei lo sapevano. Quelle
erano cose che non si dicevano, per non gettare nel panico chi ancora
era
abbastanza folle da sperare in qualche aiuto dal cielo. Nemmeno al
governo faceva
piacere sapere che c’era qualcuno che lo diffamava,
giustamente tra l’altro. A
quanto pare, qualcuno che invece non aveva paura di dire le cose come
stavano
c’era ancora.
Non
avrà vita lunga...,
pensò con amarezza guardando quello schermo
ormai nero.
Ma non poté pensare a
quell’agitatore
più di tanto, perché l’argomento viveri
fece il giro per tutta la strada. La
gente che dapprima rovistava nei rifiuti, ora si era messa a correre,
insieme a
tutti gli altri, ognuno con una meta comune: Archer Square.
«Spostati ragazzino!»
esclamò un uomo
che per poco la urtò al proprio passaggio.
«Non sono...» provò
a rispondere lei, ma
quello era già distante anni luce. Rachel grugnì
di rabbia, poi sospirò
rassegnata.
La gente continuava a correre accanto a
lei. Pensò a quei viveri. Un po’ di cibo non le
avrebbe certo fatto schifo, a
dire il vero. Inoltre, se ne avesse portato un po’ anche a
Tara, magari le cose
tra loro si sarebbero aggiustate.
Magari.
Archer Square. Non era molto lontano.
Rachel annuì a sé stessa. Poteva farcela.
Sistemò meglio il cappuccio sui
capelli neri, poi cominciò a correre.
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Capitolo 2 *** The Reapers ***
II
The
Reapers
Prese una deviazione. Conosceva bene il
posto, sapeva che se fosse passata per quella fitta rete di vicoli
avrebbe
battuto sul tempo gran parte delle persone che invece cercavano di
raggiungere
la piazza per strada.
Il
rumore dei suoi passi risuonò
in quell’ambiente desolato e maleodorante, sguazzò
in diverse pozzanghere
mentre correva. Fece una smorfia quando i suoi jeans già
malridotti si
sporcarono ulteriormente a causa dell’acqua.
Non
c’era nessuno in giro. A
quanto pare era stata l’unica ad avere quell’idea.
L’unica abbastanza stupida.
I
vicoli erano praticamente la
casa dei Mietitori. Entrare in un vicolo equivaleva a farsi sparare
addosso, o
a farsi rapinare. La gente se ne teneva alla larga, semplicemente.
In
poche parole, lei non avrebbe
dovuto trovarsi lì. Ma doveva correre il rischio. Morire di
fame sarebbe
sicuramente stato peggio che morire a causa di un proiettile. Era la
prima vera
occasione che aveva per procurarsi un po’ di cibo e non
essere costretta a
mangiare quelle poche schifezze che lei e Tara riuscivano a racimolare,
e
doveva lasciarsela scappare? Quel vicolo era solo una scorciatoia,
né più né
meno.
E
comunque, nessun luogo era
davvero sicuro, oramai, ad Empire. Ogni giorno quando ci si svegliava
al
mattino si ringraziava in silenzio il cielo per non essere stati
accoltellati
nel sonno.
Insomma,
era la prima volta che
entrava in un vicolo, non avrebbe mica davvero avuto così
tanta sfortuna da
incontrare proprio i Mietitori, no?
E
per finire, lei non era una
persona come le altre. Forse avrebbe avuto una piccola
possibilità di sopravvivenza,
in caso di incontri spiacevoli. Forse.
Quel
pensiero le infuse un po’
più di coraggio. Sarebbe arrivata ad Archer Square in tempo
zero. Inoltre, quel
vicolo semi buio le infondeva una strana sensazione. Se ne avesse
parlato con
qualcuno probabilmente avrebbe fatto la figura della psicopatica,
però sentiva
che quel posto le infondeva... tranquillità. Benessere. Non
come le strade
luminose e in bella vista, in quelle si sentiva infastidita, in bella
mostra,
nonché esausta. In quel momento, invece, si sentiva piena
zeppa di energie.
Affrettò
il passo. Entrò in uno
spiazzale in cui diverse automobili erano parcheggiate.
Calcolò mentalmente la
propria posizione, e dedusse di essere quasi a destinazione.
Inspirò
profondamente. C’era quasi, questione di attimi, di pochi
metri, nessuno
l’aveva vista, nessuno l’avrebbe...
Urla.
Rachel sentì il cuore
schizzarle in gola e si fermò di scatto, pietrificata.
Alzò lo sguardo, cercò
in ogni direzione, con il battito cardiaco alle stelle, un
po’ per via della
corsa, un po’ per via dell’ansia che quelle grida
avevano trasmesso in lei. Non
erano umane. Qualunque creatura avesse sbraitato in quel modo, di umano
possedeva solo il ricordo.
Poi
li vide. Si sentì morire
dentro. Due uomini incappucciati al fondo dello spiazzale, vestiti di
rosso
dalla testa ai piedi, entrambi armati di fucili. Agitavano le armi,
gridavano e
saltavano sul posto come delle scimmie impazzite. Riconobbe quelle
grida,
riconobbe quelle giacche rosso sangue, riconobbe i loro mitra.
Mietitori. La gang
di tossici dipendenti che dopo i primi tumulti di Empire City aveva
preso il
controllo del Neon. Fu la prima volta che li incontrò di
persona. Fu un attimo
solo, ma bastò a segnare la sua esistenza. Quelle grida
disumane, quei loro
aspetti minacciosi, quei volti impossibili da scorgere sotto i
cappucci, li
avrebbe rivisti nei suoi incubi peggiori, ne era certa.
Le
gambe le diventarono di burro.
Si sentì impotente di fronte a loro. Avrebbe dovuto
scappare, sparire da lì il
prima possibile, correre fino a quando i polmoni non le sarebbero
esplosi nella
gabbia toracica. Ma non ci riusciva. Forse per la paura, forse per lo
shock.
Finché
quelli non le puntarono
contro le armi. Quando le prime esplosioni si udirono e le prime
fiammate
illuminarono le bocche da fuoco, una voce nella testa di Rachel
impazzì. Una
sola parola disse: corri.
E
Rachel corse. I proiettili
fischiarono accanto a lei, la ragazza gridò di terrore. Vide
un’auto
parcheggiata li vicino. Non esitò un solo istante. Si
gettò a terra, proprio
dietro di lei. I proiettili si schiantarono brutali contro la
carrozzeria
arrugginita del veicolo. Il rumore che si generò
ricordò parecchio quello della
grandine, solo dieci volte più intenso.
La
corvina si rannicchiò a terra
e si tappò le orecchie, gridando a squarciagola per la
paura. Quel rumore le
stava facendo esplodere la testa.
Scorci
di immagini della sua vita
popolarono la sua mente, una dietro l’altra. Rivisse tutti i
momenti più
importanti della sua vita. Sua madre, il collegio, i suoi amici.
La
sua vita non era mai stata un
granché, a conti fatti. E ora sarebbe morta nella maniera
più stupida che si
potesse conoscere. Un’idiota, ecco cos’era. Altro
che poteri, altro che
coraggio, quei Mietitori le avrebbero fatto la pelle, era solo
questione di
tempo. Almeno la sua esistenza fatta di delusioni finalmente sarebbe
finita.
Forse era un bene. Anzi, era senz’altro un bene.
Chiuse
gli occhi e attese. Attese
che i proiettili la raggiungessero, o che uno dei Mietitori aggirasse
la
macchina e la catturasse. Inspirò profondamente e si
preparò. E fu solo in quel
momento che realizzò che... che gli spari erano cessati.
Ci
volle tutta la sua forza di
volontà per permetterle di sollevare di un centimetro la
testa e guardare cosa
fosse accaduto ai due Mietitori.
Sgranò
gli occhi. Una figura
vestita di nero era comparsa praticamente all’improvviso, e
stava combattendo
contro i due criminali rossi. Sferrava calci e pugni con estrema
ferocia, senza
mai sbagliare un colpo. Un Mietitore cercò di colpirlo con
il calcio dell’arma,
ma quello bloccò il colpo e lo disarmò, per poi
colpirlo lui stesso con l’arma
allo stomaco, piegandolo in due. L’altro Mietitore
aprì il fuoco, ma
l’individuo fu più veloce e lo
disarcionò, per poi colpire anche lui con un
calcio.
Gettò
il fucile a terra ed
estrasse un’ asta telescopica dalla cintura, poi
colpì entrambi i criminali, il
primo sotto il mento, ribaltandolo, il secondo in pieno volto,
scaraventando
anche lui a terra. I Mietitori cercarono ancora di rialzarsi, ma
l’individuo li
colpì ancora con estrema violenza, lasciandoli a terra.
Rachel
lo guardò atterrita. Si
era rimessa in piedi senza nemmeno rendersene conto, mentre guardava
quel
tizio. SI allontanò lentamente dalla macchina e lo
osservò con attenzione. Era
girato di spalle, ma non riconobbe comunque la sua uniforme. Di sicuro
non era
un Mietitore, ma non era neanche un poliziotto.
L’uomo
si voltò all’improvviso
verso di lei, facendola trasalire. Quando lo vide meglio, rimase in
parte
meravigliata e in parte intimorita dal suo aspetto.
La
tenuta da combattimento nera
era aderente, rendeva ben visibile il suo fisico ben definito. Aveva
degli
stivali alti fino a metà stinco e guanti, ginocchiere e
copri avambracci grigi
metallizzati. Diverse righe rosse scendevano lungo le placche grigie
sulle
cosce e lungo le spalle fino ai gomiti, una grande X del medesimo
colore era
invece ricamata sul petto.
Ma
il volto era la parte più
sorprendente. Era coperto da pittura facciale, i colori bianco e nero
combinati
sulla sua pelle gli davano le sembianze di un teschio. I capelli erano
scompigliati e neri opachi come il carbone, gli occhi blu emanavano
freddezza a
dismisura.
I
due si guardarono per un
istante. Rachel per un attimo temette che avrebbe attaccato anche lei,
quando
l’espressione di quello mutò radicalmente
all’improvviso, facendosi
preoccupata. Indicò verso la sua direzione e
gridò: «Alle
tue spalle!»
I nervi di Rachel saltarono
all’improvviso
e la ragazza si voltò.
Altre grida provennero dal vicolo
indicato dall’uomo. Un altro individuo incappucciato
girò l’angolo e corse
verso di loro, sbraitando come un pazzo e brandendo due bottiglie
molotov
accese, una per mano.
«Quello è un
kamikaze!» esclamò ancora
l’uomo vestito di nero. «Allontanati!»
Rachel gridò. Cercò di nuovo
di
scappare, ma perse l’equilibrio e ruzzolò a terra.
Il Mietitore era sempre più
vicino, il cappuccio illuminato dalla luce degli stracci infuocati
delle
bottiglie e le sue grida gli davano un’aria quasi indemoniata.
«Alzati, presto!»
gridò l’uomo
truccato cominciando a correre verso di lei.
Le grida la fecero voltare. Il Mietitore
correva ad una velocità sorprendente, non sarebbe mai
riuscita a scappare da
lui in tempo.
Fu a pochi metri da lei. Gridò
più forte
e sollevò entrambe le molotov, pronto a farsi saltare in
aria solo per
ucciderla. Rachel urlò di nuovo e sollevò una
mano. Agì d’istinto. Chiuse gli
occhi. Sentì una forte scossa elettrica percorrerle il
corpo, per poi
raggiungere la mano e disperdersi nel palmo.
Udì un altro grido disumano, seguito da
un’esplosione. Il calore la raggiunse. Pensò di
morire.
Poi riaprì lentamente gli occhi. Rivide
lo spiazzale, le auto parcheggiate, i vicoli. Abbassò lo
sguardo, vide il suo
corpo, realizzò di essere ancora tutta intera. Aveva il
respiro pesante, il
battito cardiaco accelerato. Poi alzò di nuovo lo sguardo e
strabuzzò gli
occhi. Dove poco prima c’era il mietitore, ora
c’era solo più un corpo
carbonizzato, circondato da diverse fiamme.
Rachel rimase interdetta. Spostò ancora
lo sguardo e vide la sua mano ancora sollevata.
«N-No...» mormorò, sempre più
incredula. «Non... non può essere...»
Il suo respiro si fece ancora più
affannato. Abbassò lentamente la mano, senza staccare gli
occhi da quel
cadavere di Mietitore. Non riusciva più a pensare.
«Mio dio...» disse qualcuno
alle sue
spalle. Rachel si girò, vide l’uomo truccato
ancora in piedi dietro di lei, la
guardava ancora più atterrito. «La... la tua
mano...»
I loro sguardi si incrociarono. Rachel
non sapeva cosa dire. Dalla sua bocca non usciva altro che aria.
Altre urla provenienti in lontananza
costrinsero entrambi a spostare lo sguardo. Da altri vicoli giunsero
altri
Mietitori, altri kamikaze, anche in cima a palazzi cominciarono a
sbucarne
fuori come funghi. Probabilmente quella era una zona calda.
Nel giro di pochi attimi ne arrivarono
almeno una dozzina. La ragazza pietrificò di nuovo.
Finalmente riuscì a
sbloccare il proprio cervello e si ricordò come provare
paura.
«Merda...» rantolò
l’uomo truccato, per
poi voltarsi verso di lei e fissarla quanto più severo
possibile in volto.
«Corri.»
Rachel non se lo fece ripetere.
***
Andarono avanti fino allo stremo. Fino a
quando le gambe avrebbero retto, fino a quando i polmoni non sarebbero
più
riusciti a pompare aria.
Per tutto il tempo, Rachel non fece
altro che seguire l’uomo. Non era in grado né
fisicamente né psicologicamente
di rimanere da sola in quel momento, confidava che il suo precedente
salvatore
potesse ancora proteggerla, almeno durante la loro fuga dai Mietitori.
Attraversarono così tanti veicoli che
finì col perdere l’orientamento.
Calcolò, comunque, che oramai Archer Square
fosse lontana anni luce. Quando, alla fine, furono sicuri di averli
seminati,
si fermarono per riprendere fiato.
Rachel non aveva mai corso così tanto,
sentiva i polmoni bruciare, la milza dolerle terribilmente e le gambe
in
procinto di cederle. Ogni boccata d’aria le sembrava quasi
vitale. Si appoggiò
ad un muro con una mano e si piegò, per riprendere fiato.
Quando abbassò lo
sguardo, si rese conto di avere il palmo illuminato da un bagliore
nero.
Sussultò, poi scrollò la mano, pregando in
silenzio che se ne andasse. Quando
la luce opaca svanì, la ragazza tirò un sospiro
di sollievo.
Accanto a lei, l’uomo non sembrava messo
tanto meglio. Anche lui era piegato, anche lui cercava di riprendere
fiato. Il
sudore che gli imperlava la fronte aveva perfino cancellato alcune
tracce di
trucco. Era molto pallido, anche senza la pittura facciale bianca che
gli
copriva la pelle.
Fu in quel momento, guardandolo con più
attenzione e da più vicino, che si rese conto che
quell’uomo... non era affatto
un uomo. Era un ragazzo, come lei, come Tara. Potevano perfino avere la
stessa
età.
Quello sembrò rendersi conto dello
sguardo indiscreto di Rachel posato su di lui, e si voltò di
scatto. La ragazza
trasalì, ma non distolse comunque gli occhi. Nessuno dei due
parlò, rimasero
entrambi ad osservarsi e a studiarsi in silenzio. Il volto di lui era
davvero
inquietante. Chiunque fosse il suo truccatore, aveva fatto un ottimo
lavoro.
«Sei... sei una Conduit» disse
infine
lui, raddrizzandosi.
«Una che?» domandò
lei, con voce acuta
per la sorpresa.
«Hai i poteri...»
spiegò quello, con il
fiatone.
«Beh... e-ecco...» Rachel
esitò.
«Sei sopravvissuta
all’esplosione.»
La ragazza sgranò gli occhi.
Osservò
incredula l’interlocutore. Arretrò, come colpita
da uno schiaffo, in parte
intimorita da quelle parole. «E... e tu come lo sai che sono
sopravvissuta?»
«Da cosa pensi derivino
quelli?» ribatté
lui, accennando con il mento alla mano di Rachel, che nel frattempo si
era di
nuovo illuminata.
La ragazza sobbalzò quando se ne rese
conto e di nuovo scrollò la mano, concentrandosi, tentando
di far sparire
quella stramaledetta luce. Sospirò ancora una volta quando
ci riuscì. Era stata
una stupida patentata ad entrare in quel vicolo, incapace
com’era a controllare
i suoi poteri. Non aveva mai avuto una vera chance contro quei
Mietitori.
«Allora?» la incalzò
ancora il ragazzo,
con tono calmo, come se stessero discutendo sulla cosa più
banale di quel
mondo.
«I-Io... io...» Rachel
ammutolì. Osservò
con attenzione gli occhi glaciali del ragazzo, più il suo
volto
raccapricciante. Non sapeva cosa rispondere. Tutti quelli che avevano
visto i
suoi poteri erano scappati via terrorizzati, additandola come un
mostro, un
demone. Lui no. Lui era rimasto, la osservava con attenzione, per nulla
spaventato e anzi, faceva perfino domande a riguardo. E sapeva anche
che lei
era sopravvissuta all’esplosione. Sapeva da dove derivavano i
suoi poteri. Era
la prima volta in assoluto che incontrava qualcuno che forse sapeva
qualcosa,
che forse poteva perfino aiutarla.
«Sì, sono... sono
sopravvissuta.»
Mentre lo disse, le tornò in mente quel
giorno. Quel terribile, fatidico giorno, di a malapena un mese prima.
Lei e i suoi compagni del collegio in
gita nel Centro Storico, a vedere qualche museo di cui nemmeno
ricordava il
nome. Gar e Victor che come al solito si comportavano da buffoni,
divertendo il
gruppo. Richard e Kori, che ovviamente si
tenevano per mano, Jennifer, Jade, Wally e tutti gli altri. Poi un
enorme
boato, la terra che aveva cominciato a tremare, i lampadari che avevano
cominciato ad oscillare e gli oggetti in mostra che cadevano a terra,
in
frantumi. Poi vi era stata una luce azzurra e tutto era stato spazzato
via.
Un attimo prima era lì, a vivere la sua
vita in tutta tranquillità, in una pallosissima gita, un
attimo dopo era in
mezzo ad un enorme cratere, circondata da edifici in fiamme e macerie,
ricoperta di ustioni e con i vestiti a brandelli. Si era rimessa in
piedi e
prima che fosse riuscita a formulare il più basilare dei
pensieri, un
elicottero l’aveva illuminata con un riflettore e un uomo con
un megafono le
aveva sbraitato di allontanarsi da lì, di raggiungere il
ponte che univa il
Centro Storico con il Neon.
Non ricordava di essersi mossa o altro.
Sapeva che poco dopo il ponte era stato distrutto a seguito di altre
esplosioni. Poi si era svegliata in ospedale, una settimana dopo.
Avevano
controllato le sue condizioni ed era uscito fuori che era perfettamente
in
forma. Un po’ ammaccata, ma sana con un pesce.
In un primo momento non ci aveva capito
molto, ma non erano bastate che poche ore per permetterle di scoprire
la
agghiacciante verità. Lei era viva. Era in forma. Migliaia
di persone, inclusi
i suoi amici, incluso il ragazzo che amava, erano morti, per colpa di
un’enorme
esplosione che aveva distrutto mezzo Centro Storico. Un attacco
terroristico,
avevano detto ai notiziari. E lei era sopravvissuta. Nessun dottore si
era
chiesto il perché. Non ne avevano avuto il tempo, a causa
degli avvenimenti
successivi. Forse era appena avvenuto un miracolo, ma per lei non fu
altro che
l’inizio di una maledizione.
E dopo era successo tutto il resto.
Mentre lei era in coma, la città aveva assistito alla sua
stessa distruzione. I
tumulti, la quarantena, l’ascesa dei Mietitori. Un processo
lento ma progressivo.
Il mondo le era letteralmente crollato
addosso. Non solo era rimasta in coma, non solo i suoi amici erano
morti.
L’intera città era morta. E quando aveva scoperto
che Tara si era salvata
dall’esplosione, beh, non aveva proprio fatto salti di gioia.
Si era sentita
come se al danno fosse stata aggiunta la beffa. E lo stesso doveva aver
valso
per la sua attuale coinquilina.
E per finire si era ritrovata quei
poteri. Usciti praticamente dal nulla, senza motivo, senza spiegazioni.
Erano
apparsi fin dal primo giorno in cui si era svegliata. Ne era rimasta
terrorizzata fin dal primo momento. Non era mai riuscita a controllarli
e,
anzi, a volte erano perfino loro a comportarsi in maniera autonoma. Ma
forse,
finalmente, qualcuno avrebbe potuto aiutarla.
«Tutto bene?» chiese il
ragazzo, dopo
diverso tempo.
Rachel drizzò la testa. Sicuramente era
rimasta imbambolata di fronte a lui, in preda a quei tristi ricordi.
Sospirò,
poi annuì. «Sì, sì, sto
bene...» Prese una piccola pausa, per raccogliere le
idee, poi lo guardò. «Come mi hai chiamata, poco
fa’? Con... Cond...»
«Conduit» rispose lui.
«Si chiamano così
le persone come te. Quelle sopravvissute all’esplosione,
quelle con i poteri.»
«V-Vuoi dire che ce ne sono altre? Ci
sono altre persone come me?!» domandò lei, basita.
«Più di quante tu possa
immaginare.»
La corvina dischiuse le labbra. La
notizia la sconvolse. Era convinta che lei fosse l’unica
così, l’unica che era
stata colpita da quella maledizione che erano i suoi poteri,
l’unica
sopravvissuta dell’esplosione. Si era sempre sbagliata.
Pensò a coloro che
dovevano trovarsi nella sua medesima situazione, intrappolati in una
vita con
addosso un fardello troppo grande per loro. E pensò anche a
quelli che invece
dovevano riuscire a padroneggiare i loro poteri con estrema
facilità. Perché
era ovvio che esistevano, a quel punto. «Q-Quindi i miei
poteri... derivano
dall’esplosione?» domandò, titubante.
Il ragazzo annuì ancora.
«Com’è
possibile?!» strillò lei, sempre
più incredula. «Come può un attacco
terroristico aver...»
«Questo non lo so» la
interruppe lui. «Non
so come quell’esplosione possa averti fatto quello che ha
fatto, tantomeno come
tu abbia fatto a sopravvivere. So solo che le persone che sono
sopravvissute
all’esplosione ora hanno dei poteri come te e si chiamano
Conduit.»
«E come fai a sapere queste cose,
allora?»
Al ragazzo scappò un sorriso tirato, poi
spostò lo sguardo e lo indirizzò verso il tetto
di un palazzo. «Non hai la
minima idea di quanti messaggi via radio si scambiano gli agenti
federali
infiltrati in Empire e il governo. A me è bastato solo
tenere le orecchie
aperte. Piuttosto...» Il suo sguardo tornò su di
lei e si fece serio. «Perché
non ti sei difesa da sola, da quei Mietitori?»
Rachel abbassò gli occhi, affranta. Si
guardò le mani e sospirò. «Non... non
sono brava, con i miei poteri. Non riesco
ancora a controllarli bene. Inoltre quella era la prima volta che
incontravo
dei Mietitori, sono rimasta... sconvolta...»
«Mh, capisco. Beh, allora che ci facevi
qui? Lo sai che i vicoli sono pericolosi.»
La ragazza sospirò. «Quella
era una
scorciatoia... volevo andare ad Archer Square per prendere qualche
provvista.
Peccato che ormai saranno finite...»
«Ah, già, le provviste. Mi
spiace che tu
non ce l’abbia fatta.»
Non
sembrava molto sincero, ma Rachel apprezzò
comunque. Sorrise timidamente, poi tornò a guardarlo.
«Beh, poteva andare
peggio. Avrei potuto restare uccisa. Grazie per avermi salvata. Ti sono
debitrice.»
Il
moro ricambiò il sorriso. «È
sempre un piacere per me malmenare i Mietitori.»
«Anche...
anche tu sei un... un Conduit?»
«No, io no»
rispose lui scuotendo la testa. «Sono solo bravo a menare le
mani. E odio i
Mietitori da morire.»
Rachel
annuì, ancora profondamente grata.
Tra i due
calò il silenzio. La ragazza si massaggiò un
braccio, spostando il peso da una
gamba all’altra, imbarazzata. Il ragazzo continuava a
fissarla, non sembrava
per nulla intenzionato a lasciarsi sfuggire dal suo campo visivo la
corvina.
«Beh...»
ricominciò lei, non riuscendo più a sopportare la
situazione. «... se c’è
qualcosa che posso fare per sdebitarmi...»
«A dire il vero
sì...» disse lui, per poi accennare con la testa
alla rete di vicoli accanto a
loro. «Non molto lontano da qui i Mietitori hanno allestito
una specie di base.
Tu hai dei poteri, e non sembrano niente male da come hai steso quel
kamikaze,
poco fa. Potresti aiutarmi a distruggergliela.»
«Cosa?!» La
ragazza rimase ancora una volta senza parole. Aveva chiesto se poteva
sdebitarsi solo per scaramanzia, per dimostrargli che gli era davvero
riconoscente. Di certo non lo fece aspettandosi una risposta
affermativa. Di
certo non aspettandosi una proposta del genere. «Per poco non
ci uccidevano e
adesso tu...»
«Hanno
delle provviste» la interruppe lui, sorridendole complice.
«Non è quello che ti
interessa? Provviste? Beh, loro ce l’hanno. E hai anche detto
di essere in
debito con me. La questione è semplice, tu mi aiuti e ti
sdebiti, in cambio ti puoi
tenere le loro provviste, tanto a me non servono. A me sembra piuttosto
ragionevole.»
Rachel
rimase in silenzio. Una parte di lei era davvero interessata a quelle
provviste, l’altra invece avrebbe voluto scappare via,
tornare a casa e
rintanarsi in camera a piangere. L’idea di quel tizio
rasentava i limiti della
follia. Una come lei non sarebbe mai sopravvissuta se si fosse
imbarcata in
quell’impresa impossibile. «E come potrei aiutarti?
A malapena so usare i miei
poteri, per poco quelli di prima non mi uccidevano, non posso
farcela...»
«Hai detto
che eri sconvolta, per quello non sei riuscita. Ma a me è
sembrato che dopo tu
sia riuscita a controllarli bene.»
Rachel fece
una smorfia. Non riusciva proprio a capire perché quel tipo
fosse così
insistente. Si erano appena incontrati! Cercò di mantenere
la calma, e rispose
in maniera tranquilla: «Ho solo avuto fortuna. Secondo te se
ci riprovassi ci
riuscirei di nuovo?»
«C’è solo
un modo per scoprirlo» insistette ancora lui, per poi
prendersi il mento e
rimuginare. «Mh... vediamo... ecco, colpisci quel
cassonetto» disse, accennando
con il capo ad un cassonetto poco distante da loro.
La ragazza
si mordicchiò l’interno della guancia, osservando
il bersaglio datole. Abbassò
lo sguardo e lo indirizzò verso la propria mano.
Guardò di nuovo il ragazzo e
lui le sorrise, rivolgendole un cenno del capo. «Provaci,
forza.»
Rachel
sospirò.
Al diavolo.
Se proprio
quello non voleva mettersi in testa che lei era un’incapace,
che non sarebbe
mai riuscita ad aiutarlo in quel modo, glielo avrebbe fatto capire.
Puntò il
palmo verso il cassonetto e si concentrò. Inspirò
profondamente, così da
azzerare qualunque tipo di tremolio della mano. Non seppe cosa fare con
esattezza, perciò immaginò semplicemente un
raggio di luce nera partire da quel
palmo e dirigersi esattamente verso il bersaglio. Nulla accadde.
La corvina
sbuffò, irritata. «Ecco, visto?! Niente di
nient...»
Si
interruppe all’improvviso, quando una strana sensazione, ma
neanche troppo
estranea, la colpì. Avvertì di nuovo la scossa
elettrica dentro di lei, la
sentì percorrere tutto il corpo e disperdersi proprio nel
palmo. Un raggio di
luce nero partì da quel punto, sfrecciò come una
saetta in mezzo al vicolo e si
abbatté con precisione millimetrica sul cassonetto,
facendolo saltare di
diversi centimetri da terra.
Rachel
rimase a bocca aperta, incredula. Abbassò lentamente il
braccio.
«Visto? Sei
in gamba» disse il ragazzo, sorridendo compiaciuto.
«Sai fare altro?»
«C-Cosa?»
Rachel esitò. A malapena sapeva come aveva fatto a sparare
quel raggio e lui le
chiedeva se sapeva fare altro?!
Stava per
rispondere con una secca negazione, ma poi si bloccò. Le
tornò in mente un
vecchio aneddoto riguardante lei e le splendide quattro settimane che
aveva
trascorso con i poteri. In effetti, c’era un’altra
cosa che forse sapeva fare, ma le
sembrava una
follia talmente grossa che non era davvero sicura di potergliela dire.
Ma dato
che lui era lì ad osservarla, dato che lei detestava essere
sotto i riflettori
in quel modo e dato anche il fatto che quel tipo era tremendamente
inquietante,
decise di rispondere. Sentendosi quasi stupida, mormorò:
«So... so volare...»
«Cosa?!»
esclamò lui interdetto, sorriso e calma spariti nel nulla
all’improvviso.
Rachel
incassò la testa nelle spalle. Quella era proprio la
reazione che temeva da
lui. «N-Non è così semplice»
si affrettò ad aggiungere. «È successo
solo una
volta, una ventina di giorni fa’, quando... stavo... beh,
litigando con una
persona, e ad un certo punto il mio corpo è stato investito
da una luce nera,
le mie braccia si sono... ecco... trasformate in ali, e mi sono
ritrovata a
levitare da terra. Non è durato molto, non appena me ne sono
resa conto sono
stata assalita dal panico, la luce è scomparsa e sono caduta
a terra. Non mi è
mai più successo dopo, e di sicuro io non ci ho
più riprovato di mia spontanea
volontà...»
«Mh...»
mugugnò lui, ritornando serio. Rachel percepì gli
ingranaggi del suo cervello
mettersi in moto per elaborare qualche diavoleria. Pensò che
l’avrebbe mandata
al diavolo. Sinceramente, lei lo avrebbe fatto. Nessuno sapeva volare,
era
impossibile. Probabilmente quelle ali di cui aveva parlato se le era
sognate.
Quello
invece la sorprese ancora una volta. «Beh... cosa stiamo
aspettando allora?»
disse, dopo quell’attimo di riflessione.
Rachel
dischiuse le labbra. «Che... che intendi dire?»
Lui per
tutta risposta sorrise diabolico. Assomigliò per davvero ad
un teschio, in quel
momento. Fu ancora più inquietante.
«Oh sì,
sarà uno spasso. Forza, seguimi!»
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Capitolo 3 *** Sometimes they come back ***
III
Sometimes
they come back
Ormai
doveva essere pomeriggio
inoltrato. Il cielo era grigio, ricoperto da nuvole. Faceva anche
piuttosto
freddo, a causa della brezza che si era sollevata quasi
all’improvviso.
Soprattutto
sul tetto di quel
palazzo, l’aria era gelata e scompigliava i capelli di Rachel.
Mentre
si stringeva nelle spalle
per scaldarsi, la ragazza sbuffò. Ma chi
gliel’aveva fatto fare di salire la
sopra insieme ad un ragazzo inquietante di cui tra l’altro
nemmeno sapeva il
nome?
Lo
stomaco le brontolò
all’improvviso. Fece una smorfia. «Ecco
perché...»
mugugnò infastidita.
«Hai detto qualcosa?» chiese il
ragazzo,
poco lontano da lei. Era girato di spalle ed osservava con attenzione
il
panorama di fronte a loro, un miscuglio di tetti grigi, finestre,
antenne,
parabole e ventole d’areazione.
«No, no, niente...»
borbottò lei, con i
denti che battevano per il freddo. «P-Piuttosto... non mi hai
ancora detto il
tuo nome...»
«X» ribatté lui,
senza voltarsi.
«Cosa?» Rachel pensò
di aver capito male,
ma il ragazzo ripeté pazientemente: «Puoi
chiamarmi X. O Red X, come
preferisci.»
«Red X?» domandò
ancora lei, con una
lieve venatura di divertimento nella voce. «Ma che razza di
nome...»
Si interruppe di colpo, quando il
ragazzo si voltò per fissarla truce.
«Prego?»
«Ehm... niente... bel nome!»
Rachel
cercò di sorridere per sembrare convinta delle proprie
parole, ma il risultato
che ottenne fu una mezza smorfia beffarda.
Lui la soppesò con lo sguardo,
socchiudendo le palpebre, poi grugnì e si voltò.
La ragazza smise di trattenere
il respiro.
E
Red X sia...,
pensò. Era ovvio che quello fosse solo un nome fittizio. Si
domandò
quale potesse essere, dunque, la sua vera identità.
«Il tuo?» chiese X.
«Rachel» rispose la corvina,
continuando
a cercare di scaldarsi.
«Bene Rachel, è ora di far
spuntare
quelle ali di cui mi hai parlato» disse lui, voltandosi,
rivolgendole un mezzo
sorriso complice.
«C-Cosa? Ma ti ho detto che...»
«Che ti è successo solo una
volta, sì. E
ricordi cosa facevi quella volta?»
«Beh... stavo... litigando...»
Red X annuì, con un’
espressione
soddisfatta un volto. «Esattamente. Stavi litigando. E quando
ti sei accorta di
cosa ti stava succedendo, ti sei spaventata e sei tornata
normale.»
«Quindi??» Rachel lo
soppesò con lo
sguardo, corrucciando la fronte. Non riusciva proprio a capire dove
volesse
andare a parare.
«Ma non è chiaro?»
chiese lui. «Durante
il litigio eri arrabbiata e quindi ti sei trasformata, ma quando ti sei
spaventata poco dopo, la rabbia è sparita e così
le ali. Devi arrabbiarti,
Rachel. Provaci, forza!»
La ragazza dischiuse le labbra. «Vuoi
dire che i miei poteri funzionano in base alle mie emozioni?!»
X scrollò le spalle. «Tu hai
altre
spiegazioni?»
«Ma
com’è...»
«E io lo so secondo te?» la
zittì lui. «Il
corpo è tuo, i poteri sono i tuoi, non i miei! Sei tu che in
primis devi capire
come funzionano, come usarli e, soprattutto, come sfruttarli al meglio.
Io
posso aiutarti, certo, ma la maggioranza del lavoro spetta a te. Non
posso
capire cosa stai pensando in questo momento, né cosa stia
accadendo dentro di
te. Sei tu che devi saperlo.»
Rachel rimase in silenzio, a riflettere
sul significato di quelle parole. Spesso si era sentita una bomba
pronta ad esplodere,
a causa dei suoi poteri. I primi giorni, soprattutto. Aveva poi
imparato a
tenerli un minimo a bada, ma spesso aveva avuto paura di implodere
dall’interno, a furia di tenerli segregati dentro di
sé. Aveva paura di ciò che
poteva fare, di
come le persone potevano
reagire vedendola, aveva paura del mostro che rischiava di diventare.
Aveva bisogno di imparare ad usare quei
poteri. Non tanto per lei, quanto più per le persone che la
circondavano. Ma
soprattutto, aveva bisogno di imparare a conoscere sé
stessa, come X aveva
detto. Inspirò profondamente, poi guardò il
ragazzo, seria in volto. «Perché
fai tutto questo? Perché sei così intenzionato ad
aiutare una ragazza che hai
appena conosciuto, una... Conduit, per giunta?» Le fece uno
strano effetto
autodefinirsi con quella parola.
«Perché potresti darmi un
grande aiuto
con i Mietitori» rispose lui, scrollando le spalle.
«Perché li odi così
tanto?» chiese
allora lei.
«Non sono affari tuoi»
ribatté il
ragazzo, freddamente.«Sappi solo che vorrei vederli bruciare
dal primo
all’ultimo. E comunque, se non ti do una mano io con i tuoi
poteri, allora non lo
farà nessun altro. La gente ha il terrore di quelli come
te.»
La corvina si morse un labbro. Sapeva
che la gente si teneva alla larga da lei, ma sentirselo dire le fece
comunque
male. Si fece coraggio e cercò di allontanare quel pensiero,
poi sollevò lo
sguardo. «Mi aiuterai, quindi?»
«Ci proverò»
ribatté lui, accennando un
sorriso.
Udendo quelle parole, anche alla ragazza
venne da sorridere. Quel tipo misterioso era davvero il primo che
sembrava
intenzionato a darle una mano, proprio come lui stesso aveva detto. A
nessuno
sarebbe mai venuto in mente di aiutare una bomba ad orologeria come
lei.
Bisognava essere davvero coraggiosi, oppure stupidi, dipendeva dai
punti di
vista. Gli rivolse un cenno del capo, riconoscente. «In tal
caso... sono
doppiamente in debito con te.»
Red X grugnì di nuovo, voltandosi ancora
verso i palazzi. «Allora vedi di sbrigarti, che non abbiamo
più molto tempo.
Forza, fai come ti ho detto, arrabbiati.»
Quell’ordine lasciò un
po’ perplessa la
ragazza. «E come dovrei fare?»
«Non capisco se ci sei o ci
fai.» X
sospirò esausto. «Davvero devo essere io a
spiegarti cosa fare? Pensa a
qualcosa che odi, santo cielo, pensa... all’esplosione e a
come la tua vita è
stata sconvolta! Ci sarà pur qualcosa che ti faccia
incazzare come una belva!»
Rachel fece una smorfia. «La mia vita...
già...»
Una montagna di delusioni, le cui
fondamenta erano state gettate da praticamente il giorno della sua
nascita fino
a quel momento. Fin da quando era bambina la sua esistenza era stata un
continuo susseguirsi di alti e bassi. Più ci pensava,
più si sentiva triste,
anziché arrabbiata.
I suoi genitori non c’erano
più. I suoi
amici non c’erano più. Le uniche persone che come
lei avevano avuto dei
problemi e l’avevano compatita, l’avevano capita e
accettata tra loro,
nonostante la sua enorme riservatezza e apatia, non c’erano
più. Così come non
c’era più l’unico ragazzo che era stato
in grado di far smuovere qualcosa
dentro di lei. Quel ragazzo che era sempre riuscito a farla sorridere
con un
niente, a cui bastava solo la sua presenza per farla stare meglio. Uno
che al
tempo era riuscito a capirla molto più degli altri, con il
quale si era sempre
sentita davvero bene, che le aveva fatto battere il cuore.
Lo aveva conosciuto quando era poco più
che una bambina, ed erano rimasti insieme per tutti gli anni seguenti.
E quando
aveva capito che la loro non era più semplice amicizia e che
avrebbe potuto
sfociare in qualcosa di più, al collegio era arrivata lei. E glielo aveva portato via, sotto i
suoi occhi.
Quella ragazza era gentile, solare,
apprezzava gli scherzi e le battute, era l’esatto opposto di
Rachel. E lui se
n’era innamorato fin dal primo sguardo. E Rachel era caduta
nel dimenticatoio.
Aveva sofferto, e molto anche. Il suo cuore era andato in frantumi, ma
non lo
aveva mai dato a vedere. Aveva sofferto in silenzio, nascondendosi
sotto la sua
maschera apatica. L’unica cosa che era cambiata nella sua
vita fu che da quel
giorno non aveva più sorriso in compagnia di quel ragazzo.
Mai più.
E poi l’esplosione lo aveva portato via.
Rachel avrebbe voluto essere felice, infischiarsene alla grande di lui,
di quel
traditore, ma la verità era stata ben diversa. Aveva
sofferto. Di nuovo. Per la
morte di colui che le aveva spezzato il cuore e che non
l’aveva considerata
altro che un’amica.
Rachel sentì un labbro tremolare. Lei
non aveva mai fatto nulla di male, a nessuno. Era sempre stata una
persona
riservata, tranquilla, che si faceva gli affari suoi e non amava gli
impiccioni. Anche quando era bambina si era sempre comportata in
maniera
educata e gentile. Aveva collaborato con tutti gli adulti che avevano
avuto a
che fare con lei, era sempre stata obbediente, non euforica come tutti
gli
altri. Non si era mai lamentata di nulla, aveva sempre ringraziato per
quel
poco che aveva avuto, ed ecco cosa aveva ottenuto.
Niente. Niente di niente, solo dolore,
tristezza e sofferenza.
E quei poteri. Quei maledetti poteri di
cui non sapeva che farsene, che ogni giorno la costringevano a lottare
con sé
stessa, per avere la supremazia su di loro. Perché anche
quando aveva pensato
che forse il peggio aveva raggiunto il suo apice, aveva dovuto
ricredersi.
Anche quando aveva creduto che con l’esplosione tutto fosse
finalmente finito,
che la sua vita non potesse peggiorare ulteriormente dopo quel
così alto picco
di dolore, era stata costretta a ricredersi e a convivere ogni giorno
con
quella maledizione che non sembrava voler collaborare con lei in alcun
modo.
Strinse i pugni senza rendersene conto.
Una lacrima solcò la sua guancia. Serrò la
mascella e fissò il pavimento
grigio. Una sola domanda le sorgeva spontanea: perché?
Perché tutto quello,
perché a lei? Lei che non aveva mai fatto del male nemmeno
ad una mosca? Il
karma si era sbagliato e stava punendo lei al posto di qualcun altro?
Non lo sapeva, non lo avrebbe mai
saputo.
Sapeva solo che era stanca. Stanca di
quella vita. Non ne poteva più. Anche prima, quando aveva
cercato di combinare
qualcosa di utile tentando di andare a prendere quelle provviste, per
poco non
era stata uccisa da degli squilibrati. La vita aveva di nuovo cercato
di
punirla anche quando aveva agito pensando al bene non solo di lei, ma
anche a
quello di un’altra persona, che oltretutto da lei non
meritava proprio un bel
niente.
Era così, dunque, che avrebbe proseguito
la sua esistenza? L’avrebbe passata vivendo nella paura di
ciò che la vita le
avrebbe ancora riservato? Avrebbe dovuto vivere temendo tutte le
possibili
angherie che quel karma maledetto le rifilava?
Sollevò lo sguardo, osservando
l’orizzonte. Quel luogo dove qualcuno gongolava per essere
riuscito nel suo
intento di colpire Empire con chissà quale bomba, e dove gli
agenti del governo
se ne stavano seduti a poltrire, mentre quella città cadeva
a pezzi.
E lei, stupida, se ne sarebbe rimasta
lì, sotto quella pioggia di tormenti e delusioni che cadeva
torrenziale su di
lei?
«No...» sussurrò a
denti stretti. «Ora
basta...»
«Mh? Hai detto qualco...»
X cercò di parlare, ma questa volta fu
Rachel ad interromperlo, gridando a pieni polmoni. Rovesciò
la testa all’indietro,
serrò gli occhi e allargò le braccia, rigettando
tutta la sua frustrazione
fuori dal proprio corpo. Ne aveva abbastanza, di tutto e tutti. Ora era
tempo
di rispondere per le rime alla vita stessa.
Sentì un’ondata di energia
travolgerla. La
stanchezza accumulata poco prima svanì, rimpiazzata da una
scarica di
adrenalina. Il cuore accelerò i propri battiti, il suo corpo
fu percosso da
decine di brividi e convulsioni. Avvertì ancora quella
scarica elettrica dentro
di lei, solo che questa volta anziché disperdersi nei soli
palmi sfociò in ogni
centimetro di pelle.
Riaprì gli occhi. Gli edifici e il cielo
riapparvero davanti a lei, ma questa volta erano diversi. Erano rossi.
Tutto
quanto era rosso. Gridò ancora più forte,
inarcò ulteriormente la schiena e
sentì il suo intero corpo venire avvolto
dall’energia nera. Una sensazione che
le infuse un gradevole tepore, si sentiva come avvolta da una calda
coperta. Ma
soprattutto, sì sentì incredibilmente forte. Si
sentì potente.
Il suo corpo si sollevò lentamente da
terra, oramai stava assumendo sempre di più le sembianze di
un rapace nero come
l’oscurità più profonda. Le braccia
erano diventate ali, le gambe erano
svanite, lasciando posto alla coda da volatile, anche il suo volto
stava
venendo nascosto dalla luce nera, da cui, tuttavia, spiccava il rosso
sangue
dei suoi occhi.
Si era trovava a diversi metri di
altezza, oramai. Da lì vedeva meglio le strade, la gente che
camminava e chi si
era accorto di lei e la additava, urlando spaventato. Sembravano tutte
formiche
ai suoi occhi. Avrebbe potuto schiacciarli con estrema
facilità, avrebbe potuto
essere lei quella a dettare legge, ma soprattutto avrebbe potuto dare a
tutte
quelle persone che l’avevano additata come un mostro, un
ottimo motivo per
temerla. Era forte, era potente, nulla e nessuno avrebbe potuto
toccarla in
quel momento.
Un sorriso maligno apparve sul suo
volto. Da tempo immemore non si sentiva così... bene. Le sembrava di essere appena
rinata.
Era
intoccabile, una dea, poteva radere al suolo quel quartiere schifoso,
era...
Degli schiamazzi attirarono la sua
attenzione. Si voltò, irritata, pronta a distruggere
chiunque fosse stato così
folle da infastidirla. Abbassò lo sguardo e vide un ragazzo
con il volto
truccato sbracciarsi e gridare, con un sorriso di trionfo stampato in
faccia. «Hai
visto Rachel? Ci sei riuscita!»
Rachel lo guardò, perplessa. Quel tipo
lo aveva già visto da qualche parte. Aveva un nome strano,
con un colore ed una
lettera...
Mentre si concentrava si di lui, sentì
qualcosa di anomalo accadere dentro di lei, una specie di scossa
sismica che la
percorse lungo tutto il corpo. Poi avvertì un forte dolore
alle tempie. Gridò
di nuovo, sbatté le palpebre con forza e chinò la
testa in avanti. Avvertì la
coperta attorno a lei dissolversi lentamente, fino a che non
percepì di nuovo
l’aria fredda che tempestava sulla cima di quel palazzo.
Riaprì le palpebre e
gemette sorpresa quando si rese conto di non vedere più
tutto quanto tinto di rosso,
ma con i colori di sempre.
Poi vide il mondo alzarsi di fronte a
lei all’improvviso. Rachel sgranò gli occhi,
sorpresa, e fu solo allora che si
rese conto che non era il mondo ad alzarsi, ma lei ad abbassarsi. Stava
precipitando.
Nessuna luce nera l’avvolgeva più, niente ali,
niente coda. Gridò e si sbracciò
disperatamente, cercando di aggrapparsi ad un appiglio che naturalmente
non
avrebbe mai trovato. Sotto di lei vide X sgranare gli occhi, poi
correre verso
la sua direzione.
Quando fu in procinto di trasformarsi in
una frittata sul tetto, il ragazzo riuscì ad arrivare in
tempo per afferrarla
al volo, ma non aveva fatto i conti con il peso e la
velocità nella caduta di
Rachel. Entrambi grugnirono di dolore e si ritrovarono sdraiati a
terra, una
sopra l’altro.
Era tutto finito. Quel momento così...
tanto irreale quanto meraviglioso era finito.
«Ahia...» mugugnò
Rachel, strisciando
via dal corpo del ragazzo per poi ritrovarsi sdraiata accanto a lui,
ancora
mezza dolorante.
Da X, invece, giunse una goffa risata
strozzata, che sorprese parecchio Rachel. «Beh, ti devi
allenare ancora un
po’...»
La corvina si drizzò a sedere, poi lo
guardò ancora mezza spaesata. «Ahm...»
Anche lui si sedette, per poi guardarla.
«Comunque, è stato pazzesco. Sono invidioso di te,
sappilo.»
«I-Io...» Rachel
abbassò la testa, per
poi sorreggerla con una mano sulla fronte. «Ci... ci sono
riuscita davvero?»
«Oh sì. Puoi dirlo
forte.»
La ragazza dischiuse le labbra e fissò
il suolo. X stava dicendo di sì, eppure lei stentava a
crederci. Anzi, faticava
proprio a ricordare cosa avesse appena fatto. Si massaggiò
una tempia,
rimuginando. In effetti, sì, si era sollevata da terra.
Anzi, il suo corpo
aveva subito una vera e propria metamorfosi. Eppure, sentiva i ricordi
annebbiati. Dopo che il mondo era diventato rosso
all’improvviso aveva... no,
un momento. Il mondo era diventato rosso?
... No... no, non era diventato rosso. Forse
aveva usato troppe energie e adesso aveva la mente un po’
affaticata e che le
giocava brutti scherzi. Sì, era sicuramente così.
Dei colpi di tosse la fecero girare di
scatto. X si era rialzato, massaggiandosi le spalle, poi si
voltò verso di lei.
«Bene, direi che qui abbiamo finito. Pronta per prendere a
calci qualche
Mietitore?»
«Ecco...» Rachel
esitò. Si sentiva
strana, stordita, la testa le ciondolava ancora. Sollevò
entrambe le mani e le
guardò. Deglutì, poi espirò e si
concentrò profondamente su di esse. Entrambe
si illuminarono quasi istantaneamente, obbedienti.
Alla ragazza tornò un barlume di
tranquillità. Allargò le braccia e questa volta
inspirò, poi si concentrò di
nuovo profondamente. Molto lentamente, la luce nera avvolse entrambi
gli arti,
prendendo le conformità di un paio di ali. La corvina
sorrise tenuamente. Li
controllava. Aveva appena controllato i suoi poteri. Riprovò
diverse volte. Li
attivò e li disattivò. La luce nera appariva e
scompariva ad intermittenza,
obbedendo ad ogni suo comando. Rachel si sentì sicura.
Sicura come non mai. Forse
averli scatenati come aveva fatto poco prima aveva funto da
interruttore. Ora
erano accesi, pronti, disponibili, prima invece no.
Un sospiro di sollievo uscì dalla sua
bocca, poi guardò Red X, determinata. «Io ti aiuto
e tu mi lasci le provviste?»
«Come da accordo»
annuì lui.
La ragazza allargò il suo sorriso. Stava
per andare a suicidarsi, ne era certa. «E allora cosa stiamo
aspettando?»
***
La loro fu un’accoglienza piuttosto
calorosa. Nel senso che non appena arrivarono i Mietitori li
investirono con
una scarica di proiettili, razzi e granate.
Rachel volava libera nell’aria, racchiusa
nella sua forma da rapace oscuro.
I Mietitori cercavano di colpirla con
ogni mezzo, ma lei era troppo veloce anche per le loro armi. Red X, a
terra,
attaccava chiunque gli capitasse a tiro. Anche Rachel di tanto in tanto
rispondeva al fuoco con qualche raggio di luce nera, ma il suo ruolo
era
perlopiù quello da esca. Lei distraeva i nemici, X li
stendeva.
La base dei Mietitori alla fine non era
nemmeno una vera e propria base, ma una specie di casupola di cemento
dismessa
e situata in mezzo ad un altro spiazzale tra i vicoli. Era circondata
da reti di
ferro e sacchi di sabbia ammassati gli uni sugli altri, a mo’
di trincee. Non
c’erano nemmeno poi tanti nemici alla fin fine. Una decina,
all’incirca.
Un Mietitore aprì il fuoco su di Red X,
che fu costretto a nascondersi dietro una delle trincee improvvisate.
Rachel
vide il compagno in difficoltà e scagliò un
raggio di luce contro il nemico,
spedendolo dritto al tappeto.
Altri provarono a colpire lei, a quel
punto, ma la ragazza fu ancora una volta più veloce e si
spostò in tempo per
evitare la scarica di proiettili. Fu Red X questa volta a salvarla dai
Mietitori, approfittando della distrazione. La tattica continuava a
funzionare
egregiamente. Forse era anche dovuto al fatto che i criminali che
stavano
affrontando non brillavano certo di arguzia.
Mentre volava, schivava e attaccava,
Rachel sentiva la paura provata poco prima farsi sempre più
lontana. Ed era una
sensazione divina. Riuscire a controllare i suoi poteri in quel modo
era un
sollievo tale che si sentiva come privata dal peso del mondo sulle sue
spalle.
Finalmente era lei quella che infieriva e soprattutto, finalmente non
era
costretta a scappare o a subire i colpi degli altri.
A quel pensiero, si sentì travolgere da
un’altra ondata di energia e proseguì il
combattimento con molta più intensità.
Non andarono avanti per ancora molto.
Dopo una decina di minuti, lei ed X erano gli unici rimasti in grado di
reggersi in piedi.
Rachel atterrò, ritornando in forma
umana. Quando ritoccò terra con i piedi, si sentì
pervadere da un brivido di
eccitazione. Guardò X, non riuscendo a non sorridere come
una bambina in un
negozio di giocattoli. «Ce l’abbiamo
fatta!»
Il ragazzo abbozzò un mezzo sorriso,
riponendo nella cintura l’asta telescopica. «Beh,
che ti aspettavi? Che
fallissimo? Te l’avevo detto Rachel, con i tuoi poteri sei
forte. Ed io... beh,
sono io. Era ovvio che avremmo vinto.»
«Tiratela di meno, spaccone»
ribatté
Rachel senza smettere di sorridere. Il suo sguardo si spostò
poi sulla casupola
dei Mietitori. Vide alcuni dispenser con stampati sopra i simboli della
città e
del governo. Li riconobbe all’istante. Allargò
ulteriormente il sorriso. Se si
fosse vista ad uno specchio con quell’espressione non si
sarebbe mai
riconosciuta. Non credeva di essere mai stata così felice
per una cosa banale
come del cibo. Ma d’altronde, la felicità si trova
sempre nelle piccole cose. Cominciò
a correre verso le casse, entusiasta come non mai.
«Io uno spaccone?»
domandò Red X, mentre
lei si allontanava. «Tsk... dovresti solo
ringraziarmi...»
Rachel nemmeno lo sentì. Raggiunse le
casse e le guardò da vicino. Erano quelle, non
c’erano dubbi. Vide un piede di
porco per terra lì vicino e lo raccolse. Probabilmente i
Mietitori stavano per
banchettare prima di essere interrotti da loro due.
Mangerò
anche alla loro salute, si
disse Rachel, piantando il piede di porco
sotto al coperchio del dispenser. Stava per aprirlo, immaginandosi
già la
sensazione divina che avrebbe provato rimettendo sotto i denti qualcosa
di
commestibile, quando una voce di sollevò in aria,
paralizzandola: «Ora basta,
Rachel.»
La ragazza sentì il respiro mozzarsi
all’improvviso. Il cuore smise di battere. La
felicità svanì nel nulla, come
una bolla che scoppiava. Qualcuno l’aveva appena chiamata per
nome. E non era
stato X. Quel tono di voce non apparteneva al ragazzo in nero. Ma
l’avrebbe
comunque riconosciuto fra mille. Calmo, serio, posato e talvolta
autoritario.
Si voltò lentamente, pallida come un lenzuolo, ripetendosi
mentalmente fino
allo sfinimento che tutto ciò non poteva essere vero, che
quella voce non
apparteneva davvero a chi credeva.
Sussultò.
Un Mietitore era
apparso dal nulla ad una ventina di metri da loro, ma questo era
diverso da
tutti gli altri. Aveva indosso dei pantaloncini neri, un lungo cappotto
bianco
gli arrivava all’altezza delle ginocchia, le quali erano
coperte fino ai sandali
da delle fasce del medesimo colore. Lungo i bordi del cappotto erano
disegnate
delle linee nere, che nella regione toracica di diramavano in
più direzioni. Il
cappuccio alzato impediva di scorgere il suo volto, e su una specie di
visiera
aveva disegnato un cranio con dei denti sporgenti e affilati. Sembrava
avere
indosso un costume da scheletro. «Ti
sei divertita abbastanza» disse
ancora, con quella voce.
Rachel rimase immobile. Il suo cervello
si resettò e rifiutò categoricamente di aiutarla
in quel momento. Non sapeva né
cosa dire, né cosa fare. Quella voce... non poteva essere
vero. Non poteva
essere.
Red X accanto a lei si irrigidì.
«Merda...»
I due ragazzi rimasero immobili, ad
osservare il nuovo arrivato, a studiarlo in silenzio in ogni suo minimo
particolare. Eccezion fatta per i vestiti, era identico a tutti gli
altri
Mietitori. Aveva perfino il loro classico fucile in mano. Tuttavia
emanava un
alone di forza e mistero ben più grande di quello dei suoi
colleghi.
«Non ho nulla contro di te, Rachel.
Lascia stare quelle casse di cibo e vattene da qui. E ti prometto che
farò finta
di non averti mai più rivista.»
«Come fa quel tipo a
conoscerti?!»
sussurrò X a Rachel, mentre estraeva di nuovo la sua asta
telescopica e si
preparava.
Rachel non rispose. Le parole non le
morirono in gola, non le arrivarono proprio. Il compagno si accorse del
suo
silenzio e si accigliò. «Ehi! Ci sei?»
Ancora silenzio. La corvina non
proferiva parola, in alcun modo.
«Direi che oggi vi siete divertiti
abbastanza» disse ancora il Mietitore, camminando verso di
loro con estrema
calma. Il rumore dello scalpiccio dei suoi sandali di legno sul cemento
si
sollevò. «Ma ora basta. Andatevene. O
dovrò passare alle maniere forti.»
«Rachel? Rachel!» X la
chiamò ancora
sottovoce, ma lei rimase in silenzio. Non riusciva a staccare gli occhi
da quel
Mietitore e non riusciva non a pensare ad altro che alla sua voce.
Voleva
disperatamente sapere chi fosse. Avrebbe voluto chiederglielo lei
stessa, per
vedere se si era sbagliata oppure no, ma non ci riusciva. Era
paralizzata.
Un verso frustrato di Red X la fece
riscuotere. Il ragazzo aveva cominciato a roteare l’asta,
ringhiando furibondo.
«Allora faccio da solo!»
Partì alla carica. Fu quello il segnale
che permise alla corvina di sbloccarsi dalla trance in cui era entrata.
Tese
una mano verso di lui e cercò di fermarlo, di dirgli che
quello era un
avversario ben oltre la sua portata, ma ormai era tardi.
Red X corse verso il Mietitore,
puntandogli contro l’arma e gridando in segno di sfida.
«Ti sistemo io!»
Il criminale vestito di bianco smise di
camminare e rimase immobile mentre il ragazzo si fiondava su di lui.
Non alzò
l’arma, non mosse un solo dito, niente di niente, attese e
basta.
X lo raggiunse e gridò ancora
più forte,
poi abbatté il bastone su di lui. Rachel trattenne il fiato.
Il tempo sembrò
rallentare. L’asta arrivò a pochi centimetri dal
volto incappucciato del
Mietitore... e li si fermò. Red X fece un verso incredulo.
Anche Rachel rimase
a bocca aperta. Il Mietitore aveva bloccato l’attacco con
l’ausilio di una sola
mano, quella non occupata dal manico del fucile. Il ragazzo faceva
forza con
entrambe le braccia sull’asta, grugnendo per lo sforzo,
tentando di vincere la
contesa, ma l’arma non si muoveva di un millimetro.
«Vi avevo avvertiti» disse il
Mietitore,
facendo rabbrividire Rachel. Poi quello si mosse con una
velocità allarmante.
Lasciò cadere il fucile a terra e colpì X con un
pugno in pieno volto,
scaraventandolo a decine di metri di distanza da lui. Il ragazzo
truccato urlò
di dolore, poi stramazzò al suolo, e li vi rimase. La
corvina osservò la scena
impotente, inorridita dalla forza mostruosa di quel criminale in
bianco. Una
parte di lei avrebbe voluto andare ad aiutare Red X, ma
un’altra le impediva
categoricamente di muoversi.
Il Mietitore poi si voltò verso di lei,
facendola trasalire. Afferrò con entrambe le mani le
estremità dell’asta di X,
poi strinse la presa con forza e la spezzo in due, come se fosse stata
un
ramoscello di legno sottile. Gettò entrambi i monconi a
terra, senza schiodare
il suo volto celato da quello della ragazza. «Te lo ripeto
ancora una volta
Rachel. Vattene. Non essere sciocca come il tuo amico.»
La ragazza fece vagare lo sguardo tra il
Mietitore ed X. Voleva chiedere al primo chi fosse, avere la conferma
delle sue
teorie, e voleva anche aiutare il suo amico. Ma non riusciva a fare
nessuna
delle due cose. Il Mietitore mosse altri passi verso di lei. La ragazza
lo
osservò in silenzio, poi deglutì. Capì
che se non si fosse decisa, avrebbe solo
finito con il peggiorare la situazione. Inspirò
profondamente, raccolse le
forze, poi riuscì finalmente a domandare: «C-Chi
sei tu? Chi diavolo sei?! Come
fai a conoscermi?!»
Il Mietitore si fermò di nuovo. La
scrutò in silenzio. Rachel pensò di avere appena
firmato la sua condanna,
invece quello la sorprese. «Mh. Immagino sia giusto
rivelartelo.»
Afferrò i bordi del cappuccio con
entrambe le mani e lo abbassò con un lento e straziante
movimento. Più
centimetri del suo volto entravano in contatto con la luce naturale del
sole
calante, più Rachel spalancava le palpebre. Quando, infine,
il volto pallido e
cadaverico del Mietitore apparve ai suoi occhi, la ragazza si
sentì morire
dentro.
Indietreggiò, incredula, incapace di
accettare ciò che stava vedendo. Non poteva essere vero, non
poteva essere
davvero lui, non riusciva a capacitarsene. Lui era morto. Morto insieme
a tutti
gli altri suoi amici. Quando finalmente parlò, a malapena
udì le sue stesse
parole:
«R... Richard!»
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