Guerra del plenilunio

di Ignis_eye
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Guai in una notte di luna piena ***
Capitolo 2: *** Piccoli fiori bianchi e rubini rosso sangue ***
Capitolo 3: *** Tante famiglie, un piccolo esercito ***
Capitolo 4: *** Quando manca il respiro ***
Capitolo 5: *** Ratti impiccioni e libri riservati ***
Capitolo 6: *** Le bugie (e i segreti) hanno le gambe corte ***
Capitolo 7: *** Fare il proprio dovere ***
Capitolo 8: *** I guai non vengono mai da soli ***
Capitolo 9: *** Gli opposti di una calamita ***
Capitolo 10: *** Se qualcosa può andare peggio sicuramente lo farà ***
Capitolo 11: *** Così diverse ma così simili ***
Capitolo 12: *** Certe volte è meglio non sapere ***
Capitolo 13: *** Indizi nascosti ***
Capitolo 14: *** L'elmo maledetto ***
Capitolo 15: *** Occhi dolci e piccole indagini ***
Capitolo 16: *** Non pensare alla zebra ***
Capitolo 17: *** Compromessi ***
Capitolo 18: *** Qualcuno nel buio ***
Capitolo 19: *** Il traditore ***
Capitolo 20: *** Attacco inaspettato ***
Capitolo 21: *** Prigioniera del buio ***
Capitolo 22: *** Baci e argento ***
Capitolo 23: *** Fuga ***
Capitolo 24: *** Identità ***
Capitolo 25: *** Il rosso del rubino contro la trasparenza del diamante ***
Capitolo 26: *** Il Gran Maestro ***
Capitolo 27: *** Nessun segreto ***
Capitolo 28: *** Il dono ***
Capitolo 29: *** Tre mesi dopo - Conclusione ***



Capitolo 1
*** Guai in una notte di luna piena ***


Quella notte di metà giugno, Elsa non ne voleva proprio sapere di dormire. Si rotolava nel letto per trovare la posizione ideale, ma pur avendole provate tutte, non riusciva a prender sonno.
C’era caldo, è vero, ma quelli come lei non fanno troppo caso alla temperatura.
Guardò l’ora sulla sveglia digitale: era l’una di notte.
“È tardi, ormai. Forse, se facessi un giretto, mi verrebbe un po’ di sonno” pensò la ragazza.
Così si alzò dal morbido materasso, s’infilò un paio di pantaloncini, una t-shirt bianca e aprì la finestra di camera sua.
 Anche se il buio era rischiarato solo dalla pallida luce della luna, lei vedeva tutto molto bene: gli uccelli assopiti tra le fronde dell’albero davanti alla finestra, i giornali svolazzanti abbandonati sui marciapiedi, i topi nei bidoni della spazzatura della casa di fronte… tutto, praticamente.
Per carità, certi particolari non li vedeva, ma i suoi poteri non erano ancora completamente sviluppati e lei doveva ancora finire di crescere. Alla completa maturazione mancavano ancora tre o quattro anni, e per raffinare i suoi poteri le ci sarebbero voluti ancora due decenni, ma lei era una diciassettenne promettente e non avrebbe avuto nessuna difficoltà a superare gli standard. Senza contare il fatto che il suo maestro era il migliore della zona.
Saltò sul ramo più vicino e scese silenziosamente. Per strada non c’era nessuno.
Si incamminò lentamente verso il bosco che confinava con la sua città, capendo il perché della sua insonnia: la luna piena.
“Appena ho guardato fuori non ci ho nemmeno fatto caso, mi ero dimenticata che ci sarebbe stato il plenilunio. Meglio per me”.
La sua casa distava mezzo chilometro dal bosco, quindi lo raggiunse in fretta, anche senza usare la sua velocità sovrumana. Per sicurezza, si addentrò ancora un centinaio di metri nella boscaglia prima di mettersi a correre.

 


 Correva velocemente, saltando i tronchi caduti e le rocce che la ostacolavano; i suoi capelli ricci e castani volavano liberi nell’aria per poi ricaderle sparpagliati sul viso quando rallentava o atterrava dopo un lungo salto.
Quanto le piaceva la libertà, la faceva sentire viva, la rendeva sé stessa.
Quando arrivò a una radura, si fermò. I suoi occhi bruni ammiravano la luna piena in tutto il suo magnifico e magico potere.
Pensò a quanto era fortunata: i lupi mannari dovevano aspettare il plenilunio per trasformarsi nella loro forma più brutale, ma lei no. Lei era un licantropo e poteva dare luogo alla metamorfosi ogni volta che voleva. Era una differenza sostanziale tra le loro due razze, una diversità che a volte li metteva in conflitto.
“Adesso basta pensare ai nostri problemi, non questa notte”.
Sentì un calore intenso diffondersi prima dalla testa, dallo stomaco e dal cuore, poi verso tutto il resto del corpo, braccia e gambe.
Le sue ossa si spostarono e deformarono, tutto il suo corpo si ingrandì. Sentiva la muscolatura aumentare, i denti allungarsi, i sensi farsi ancora più acuti, il suo corpo ricoprirsi di calda pelliccia.
In meno di un secondo, si ritrovò trasformata in un lupo grande quasi quanto un cavallo.
Doveva liberare l’energia rimasta dentro di lei, doveva… doveva urlare!
«Auuu! Auuu!». Ululò.
I suoi ringhi squarciarono l’aria e i suoi ruggiti, simili più a quelli di un leone che a quelli di un lupo, fecero scappare tutti gli animali che si trovavano vicino alla radura.
Dopo questo sfogo si calmò e si sdraiò sull’erba. Era ancora giovane, perciò dopo la metamorfosi le riusciva difficile non ululare.
La luna la illuminava in tutta la sua bestiale maestosità: una lupa di grandi dimensioni con la pelliccia marrone scuro, quasi nera, due occhi attenti e profondi, fisico perfetto, artigli taglienti e bianchissimi denti affilati.
Ora che si era trasformata, l’effetto della luce lunare era ancora più forte: sentiva che si depositava lentamente sul suo pelo come se fosse stata di nebbia, entrando nel suo corpo e donandole un’energia nuova, diversa, particolare, che poteva essere usata in tanti modi diversi.
Perché è anche questo che distingue lupi mannari e licantropi: la capacità di guidare e servirsi dell’energia della luna.
I primi vengono trasformati e quasi perdono coscienza di sé, vengono rapiti da un’aggressività incontrollabile; i secondi possono ricorrere a questo particolare mana per diventare più forti, violenti, rabbiosi, oppure per calmarsi, meditare, riposare o per percepire meglio l’aura degli altri.
Insomma, lei, come tutti i suoi simili, poteva gestire quell’enorme potere per gli scopi più svariati.
Si alzò sulle quattro zampe possenti, attraversò la radura e rientrò nel bosco, attraversandolo a una velocità spaventosa. Gli alberi le sfrecciavano accanto: a un umano sarebbero sembrati solo macchie sfocate, ma lei li vedeva perfettamente, come tutto quello che la circondava.
Faceva balzi enormi, atterrando elegantemente sulle zampe e mantenendo l’equilibrio con la coda.
La poca luce che filtrava tra le chiome degli alberi s’insinuava sotto il pelo e la pelle, finendo nel suo sangue e propagandosi in tutto il corpo, donandole quasi una sensazione di onnipotenza.
Corse per qualche chilometro, finché non fu allertata da degli strani versi, versi che non appartengono alle creature non magiche.
Si bloccò di colpo e rizzò le orecchie per ascoltare meglio. Sentì ancora quei rumori. Erano lontani, ma le pareva di riconoscerli…
“Cazzo, è un lupo mannaro! Cosa ci fa qui? Loro non dovrebbero stare in queste zone!” pensò allarmata.
Per limitare i conflitti tra le due razze, i quarantotto anziani della tribù Italicum avevano creato delle zone sicure, luoghi frequentabili solo dai licantropi. Se un mannaro si fosse trasformato in uno di questi siti, avrebbe provocato solo guai, e per chi trasgrediva le regole, c’era la morte.
“Dovrei avvertire gli anziani, ma io non dovrei nemmeno essere qui!” .
Stava per ritornare a casa, quando un grido d’aiuto la allarmò di nuovo. Era chiaramente un urlo femminile.
“Che cosa ci fa una donna a quest’ora in mezzo al bosco?! Cavolo, che situazione… non posso lasciarla nelle grinfie di uno di quei mostri!”.
Ecco un’altra differenza tra le due razze: il senso dell’onore, dell’orgoglio, della morale e di tutti gli altri sentimenti nobili che non di rado ti cacciano nei guai; i licantropi sono campioni in cavalleria, mentre gli altri sono solo dei farabutti.
Invece che procedere a balzi come prima, preferì avanzare di corsa nella foresta buia, ma più silenziosamente. In neanche un minuto le grida la portarono a destinazione, e quello che vide non le piacque neanche un po’: un lupo mannaro aveva braccato una povera ragazza ed era questione di secondi prima che le saltasse addosso per ucciderla.
“Certo che sono proprio brutti” pensò. Tutti quelli come lui,infatti, si trasformano in esseri metà lupo e metà uomo: sono alti quasi tre metri, camminano su due zampe lupesche, hanno il muso peloso e schiacciato, pelle dura come il cuoio e ciuffi di pelo ispido su tutto il resto del corpo, coda spelacchiata, mani grosse con lunghe unghie nere, occhi rossi e una bocca bavosa dai denti aguzzi e storti. Degli esseri repellenti, in poche parole. I mannari possono mutare la propria forma anche quando la luna piena non c’è, ma solo di notte, e sono forti un quarto rispetto alla trasformazione con il plenilunio.
Elsa, quatta quatta, si avvicinò ulteriormente lungo una serie di cespugli e massi, pronta a saltar fuori al momento giusto.
“Deve essere un mannaro giovane o appena trasformato, si vede da come si muove. Posso farcela senza troppi problemi”.
Il  mostro si avventò sulla ragazza con un salto, ma quando era ancora in aria, Elsa gli balzò addosso facendolo cadere rovinosamente per terra qualche metro più in là.
Si mise tra il mannaro e la giovane, dando le spalle a quest’ultima. Ringhiò e abbassò la testa, pronta ad attaccare di nuovo.
«Quella ragazza è mia!» urlò la bestia «Non ti devi intromettere!».
«Lei non ti appartiene! Lasciala stare e vattene, altrimenti dovrai vedertela con me!».
«E allora preparati a morire, nessuno può rubarmi la preda!».
Lui l’attaccò tentando di morderla alla gola, ma lei fu più veloce, spostandosi a destra e saltandogli sulla schiena. Si rialzò velocemente pronto a reagire, ma Elsa lo addentò ad una gamba, sbattendolo contro un albero e spezzandogliela con un sonoro schiocco.
«Maledetta!» urlò rialzandosi sulla gamba sana «Questa me la paghi!». E così i due si azzuffarono per qualche minuto, guaendo ogni tanto per il dolore dei morsi e dei graffi, fino a quando Elsa non gli sfregiò la faccia con una zampata, accecandolo ad un occhio.
Il mostro ululò di dolore e si coprì il viso con entrambe le mani.
«Ahhhh! Che tu sia dannata!».
Elsa abbaiò così forte da zittirlo.
«Taci, bestia schifosa! Vattene dal mio territorio, altrimenti ti ucciderò e porterò la tua testa agli anziani del mio clan!».
Il lupo mannaro, gravemente ferito, scappò nel fitto della foresta, non senza qualche minaccia di vendetta.
Elsa perdeva sangue da alcune ferite superficiali, aveva preso delle belle botte e in bocca sentiva ancora il sapore del sangue del nemico, ma il dolore per lei era facilmente sopportabile, quindi decise di pensare prima alla sfortunata ragazza.
La vide rannicchiata ai piedi di un albero: era spaventata, tremava e respirava affannosamente.
Le si avvicinò lentamente, zoppicando impercettibilmente.
Contrariamente a quanto si aspettasse, le giovane non scappò, anzi, si mise in piedi sulle gambe tremanti e fece un passo verso di lei.
Adesso erano a un metro di distanza e si guardavano dritte negli occhi: la lupa era così grande che la sua testa arrivava alla stessa altezza di quella della ragazza in piedi di fronte a lei.
“Perché non scappa?! Che sia... no, che io sappia non ci sono creature del genere nei dintorni. Tuttavia non ci sono altre spiegazioni”.
«Sei una maga cercatrice, vero?» le chiese. La sua voce era profonda, rauca, completamente diversa da quella che aveva in forma umana.
«S-sì. E tu se un licantropo, giusto?».
«Licantropo femmina» specificò Elsa. Chi non apparteneva alla sua specie difficilmente riconosceva il loro genere.
Si fissarono immobili per qualche istante. La sconosciuta era una ragazza minuta che, una volta ritrasformata, le sarebbe arrivata al naso. Forse non era così bassa, era abbastanza nella norma per quelli come lei, così come il metro e settantacinque di Elsa era nei giusti canoni di una ragazza-lupo.
I capelli erano lunghi fino alle scapole e un ciuffo ribelle le cadeva morbidamente sul viso. Erano castano chiaro e liscissimi, scalati e più corti attorno al viso.
Gli occhi erano due smeraldi incastonati sul suo viso bellissimo e senza l’ombra di imperfezioni.
Elsa non poté fare a meno di restare un attimo imbambolata. Praticamente la ragazza era il suo esatto opposto: alta e androgina, ricci ribelli, pelle un po’ pallida, viso dai tratti affilati con uno sguardo serio e duro.
Stava per perdersi in altri pensieri, quando la giovane ridestò la sua attenzione:
«Grazie per avermi salvata, sono in debito con te» disse in un sussurro.
«Di nulla. Questo è il territorio del mio clan ed è mio dovere difendere le creature magiche minacciate dai lupi mannari e dagli altri demoni» rispose Elsa con onore.
«Posso…posso sapere come ti chiami?» domandò titubante.
«Sono Elsa Desdemoni, della tribù Italicum» rispose gonfiando il petto di orgoglio. Amava la sua famiglia, andava fiera di farne parte.
«Capisco, quindi fai parte di una stirpe guerriera. Prima di trasferirmi qui ne avevo sentito parlare, è abbastanza conosciuta al nord. Io invece mi chiamo Sefora Scida». Parlava piano, forse aveva paura così Elsa decise di riprendere la sua forma umana per non turbarla. Il suo muso ritornò una faccia umana, le sue zampe divennero mani e la coda scomparve completamente.
Adesso l’altra sembrava più tranquilla, non doveva aver visto molti lupi giganti nella sua vita.
«Dove vivi?» chiese Elsa «Ti riaccompagno a casa».
«Non ce n’è bisogno, ti ho disturbata già abbastanza, posso tornare da sola» tentò di spiegare «non abito molto lontano, solo una decina di kilometri».
«Per una cercatrice non sono molti, ma il lupo mannaro potrebbe portare a termine quello che ha cominciato, è meglio che io ti accompagni. Non puoi rifiutare» disse Elsa sporgendosi un po’ verso di lei «perché avrai sicuramente sentito parlare della testardaggine della mia gente e sai che ti scorterei anche se tu non fossi d’accordo» finì di spiegare sorridendo.
«Allora mi toccherà accettare per forza».

 

 
Camminarono di buon passo nel bosco fino a raggiungere un ruscello dove Elsa volle pulirsi le ferite. Erano superficiali e stavano già rimarginandosi, ma la saliva dei mannari è leggermente tossica e rallenta la guarigione.
Si lavò la faccia e tutti i graffi, ma una ferita piuttosto profonda sul braccio sinistro la stava mettendo in difficoltà.
Sefora  le prese dolcemente la mano, la tirò verso di sé per stendere l’arto e con un fazzoletto ripulì delicatamente il taglio sanguinante.
Elsa aveva dapprima irrigidito il braccio e stretto il pugno in una mossa istintiva, ma pian piano, mentre l’altra le tamponava lo squarcio che percorreva tutto l’avambraccio, si era lasciata andare e attendeva pazientemente  che finisse.
«Grazie, Sefora».
La cercatrice non ci aveva fatto caso nel buio del fitto bosco, ma adesso, sulla riva illuminata dalla luna, aveva notato che Elsa aveva dei canini insolitamente lunghi per una persona normale.
«Non c’è di che, è il minimo che potessi  fare. Senti…come mai hai i denti così lunghi?» domandò ingenuamente.
«Ahahah! Perché sono una ragazza-lupo, ovviamente!» disse Elsa. Dischiuse le labbra e sorrise mostrandole tutta la sua dentatura perfetta.
«Noi li abbiamo tutti così. A scuola ho raccontato che è una malattia genetica e boiate simili, così nessuno fa troppe domande o va a indagare dove non dovrebbe. È una scusa credibile perché esiste davvero una malattia del genere e i miei canini, al contrario di quelli dei vampiri, non sono troppo lunghi».
Sefora si sentiva un po’ in imbarazzo, non voleva sembrare un’impicciona.
«Scusa se te l’ho chiesto, ma non avevo mai visto un licantropo. Sai, io vengo da Milano e là non ce ne sono».
«Già, so che in Lombardia ci vivono in pochi. Qui in Veneto, invece, ci sono cinque clan» spiegò Elsa «ma ne parleremo un’altra volta. Adesso vorrei sapere che cosa ci facevi nel bosco».
La maga distolse lo sguardo e disse:
«Beh, ecco sì, insomma io stavo… raccogliendo bacche!».
“Sì, come no. Però è carina quando è in imbarazzo… cosa? Ma cosa vado a pensare? Mah, sarà l’effetto del veleno”.
«Dimmi la verità, Sefora. Stai tranquilla, non giudicherò» la rassicurò sorridendo.
«Va bene. In realtà volevo solo fare un giro perché il trasloco mi ha stressata un po’. Vedi, a noi maghi è proibito andare in giro di notte con la luna piena prima dei diciannove anni. Io l’ho fatto pochissime volte in vita mia e solo in boschetti minuscoli…».
«Così non hai pensato agli eventuali pericoli» la interruppe Elsa «e non ti sei portata né il tuo libro di incantesimi né un’arma».
«Già, niente di niente» rispose Sefora in imbarazzo per la sua ingenuità.
«Anche voi cercatori avete un’età di maturità?» chiese Elsa molto curiosa.
«Sì, diciannove anni. Quanto è per voi licantropi?».
«Vent’anni».
Per le loro specie, raggiungere quest’età significa essere maggiorenni e poter partecipare all’assemblea delle tribù, possedere armi e artefatti magici, e avere piena responsabilità di sé.
«Quindi nessuna di noi due dovrebbe essere qui adesso» concluse Sefora «Forse sarebbe meglio tornare a casa».
«Sì, ma non parlare a nessuno del mannaro e del nostro incontro, semmai lo farò io».
«Va bene, non lo saprà nessuno».

 

 
Elsa e Sefora correvano nel bosco. A dire il vero, più che correre, la licantropa trottava e tentava di non superare l’altra, ma la velocità era comunque considerevole.
Più volte Elsa si era girata verso di lei per guardarla e non poté fare a meno di notare che anche il suo modo di spostarsi era diverso: in ogni passo metteva la giusta potenza, non una goccia di più.
“Che eleganza” pensò “si muove come si conviene a una cercatrice: leggera ma energica”.
Da parte sua, Sefora non riusciva a staccare gli occhi dalla sagoma scura di Elsa: movimenti rapidi, sguardo sempre fiero e attento, schiena un po’ incurvata in avanti come se stesse per trasformarsi in lupo da un momento all’altro; il tutto, nell’insieme, dava un’idea di potenza trattenuta.
 
Dopo un’ora erano già al limitare del bosco e abbandonarono la corsa in favore della camminata, per non attirare l’attenzione di eventuali nottambuli.
«Dove abiti Sefora?».
«In centro, tu?».
«Qui in periferia» rispose Elsa.
«Non c’è bisogno che mi accompagni fino a casa, posso procedere da sola. Ormai, non corro alcun pericolo».
Le due camminarono in compagnia fino a un incrocio dove si separarono prendendo strade diverse, dandosi però appuntamento per il giorno seguente.
Elsa rientrò in camera sua di soppiatto, passando sempre dalla finestra.
“Mamma e papà non devono assolutamente venire a sapere della mia gita notturna. Cavolo… me lo hanno sempre proibito, se lo scoprissero finirei  nei guai”.
Avrebbe voluto dire ai suoi genitori del mannaro, ma non poteva in nessun modo giustificare la sua uscita; tuttavia, un mostro del genere non era una cosa su cui scherzare o tacere e il suo braccio sinistro lo dimostrava: la ferita stava guarendo più velocemente, ma i lembi di pelle superficiali non erano ancora rimarginati e per di più erano piuttosto irregolari.
“Devo ricorrere alle mie pozioni, ma devo stare attenta: se la mamma le scoprisse le sequestrerebbe, perché un licantropo non ancora maturo non può possedere simili intrugli”.
Prese una piccola scatola di legno nascosta nell’ultimo cassetto del comò e lo portò nel suo bagno che era adiacente alla camera da letto.
Non accese nemmeno la luce, quella che entrava dalla finestrella era più che sufficiente per lei.
Aprì il cofanetto, grande poco meno di una scatola da scarpe, e tirò fuori una boccetta di vetro con la scritta “MORSUS LUPINOTUUM”, una in peltro con inciso “Cruentis Vulneribus” e una in rame che riportava la dicitura “contra odorem de sanguine”.
Prese la prima pozione per neutralizzare del tutto l’effetto del veleno, versando poche gocce di liquido violaceo sulla ferita, poi usò la seconda per farla rimarginare più velocemente e infine la terza per neutralizzare l’odore del sangue. Si fasciò il braccio per non sporcare le lenzuola, ripose le piccole boccette nella scatola che nascose al suo posto e poi andò a dormire.
Forse a causa dell’effetto benefico della luna o per la nottata avventurosa e stancante, Elsa si addormentò subito.



Angolo dell'autrice:
Eccoci alla fine del primo capitolo!
Questa sarà una storia abbastanza lunghetta, e lo svolgimento potrebbe risultare un pò lentino, ma a me piace essere precisa u.u .
Aggiornerò una volta ogni sette giorni circa, vedrò di essere sempre puntuale.
Mi farebbero piacere delle recensioni, in modo che possa miglirare :)
Per concludere (anche se forse andava scritto prima), voglio ricordare che questo è un racconto che tratta l'amore omosessuale tra donne, anche se non è il tema principale, perciò se siete omofobi o roba simile, siete gentilmente invitati a non stressare me o chi legge il racconto e a non lasciare recensioni negative solo perchè non condividiamo le stesse idee sul concetto di amore. Se non vi va bene, non leggete.
Ogni altra recensione è ben accetta, bella o brutta che sia, perchè, ribadisco, mi servono per migliorarmi :)
Spero che il primo capitolo sia piaciuto, alla prossima.

Ignis_eye
 
 
 

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Capitolo 2
*** Piccoli fiori bianchi e rubini rosso sangue ***


«Elsa! Svegliati!» urlò Gioia, sua madre.
«Ma mamma! Vabbè che è mattina, ma non c’è scuola, sono in vacanza!» rispose lei ancora mezza addormentata. I passi ciabattanti della madre si avvicinavano dal corridoio.
«Io e tuo padre abbiamo una cosa importante da dire a te e a tuo cugino, quindi sbrigati ad alzarti!» disse la madre senza ammettere repliche.
Elsa forse sapeva già a quale notizia si riferisse sua mamma: i nuovi cercatori.
«Arrivo» mugugnò alzandosi lentamente.
«E comunque» riprese la madre infilando la testa in camera «noi licantropi non andiamo mai in vacanza».
Così dicendo, chiuse la porta e se ne andò al piano di sotto.
Elsa si vestì velocemente e scese in cucina, dove i genitori e il cugino la aspettavano seduti a tavola.
Suo cugino Damiano aveva la sua stessa età e viveva con la sua famiglia da dieci anni, cioè da quando un branco di mannari aveva ucciso i suoi genitori, e per un pelo non ci lasciava le penne pure lui.
«Finalmente ti sei alzata!» disse il padre «Ora che siete tutti e due qui, posso darvi una notizia importantissima».
Damiano si era sporto in avanti dalla curiosità «Zio, non tenermi sulle spine, di cosa si tratta?».
«Ahahahah! Che frettoloso sei!».
La mamma gli lanciò un’occhiataccia.
«Fulvio, dì ai ragazzi quello che devono sapere. Damiano aspetta di sentirlo da almeno un’ora».
«Va bene, va bene» disse il papà alzando le mani in segno di resa «Adesso racconto tutto. Dovete sapere che tre famiglie di cercatori si sono trasferite qui pochi giorni fa. Sapete chi sono e a cosa servono, vero?».
I due ragazzi annuirono: sono dei maghi e fino al 1260 d.C. il loro scopo era cercare il Necronomicon, poi, quando l’hanno trovato, ne sono diventati i custodi; adesso moltissimi collaborano con i licantropi per distruggere,neutralizzare o nascondere  artefatti magici pericolosi e difettosi, come portali, armi, veleni, marchi, libri, pozioni, edifici e così via. Da chi devono nasconderli? Soprattutto dai mannari e dai vampiri, ma anche da demoni e umani, seppur molto raramente.
«Bene» riprese Fulvio «di sicuro sapete anche che qui non ci sono stati cercatori per una quindicina d’anni. Adesso sono tornati e hanno chiesto agli anziani dei clan di formare una squadra e lavorare insieme».
“Che figata! Finalmente si ricomincia la bonifica della zona!” pensò Elsa, che ormai non stava più nella pelle.
«Le nostre leggi permettono a chiunque abbia compiuto i venti anni di età, ossia che abbia raggiunto la maturità, di diventare un mundis, ovvero di fare coppia con un cercatore e di “combattere il male”».
«Gli anziani » continuò la madre «hanno accettato e chiunque lo voglia, può tentare di superare i test e diventare un mundis. Questa notte ci incontreremo tutti per fare conoscenza, perché voi due ne avete visti pochissimi in vita vostra e i loro figli pure».
“Io una l’ho vista, e che cercatrice… Comunque, che vogliano diventare anche loro due dei mundis? È un mestiere pericoloso”.
«Non è che per caso volete andare anche voi a pulire la zona?» chiese Damiano anticipando Elsa di un millisecondo.
I due genitori si guardarono un attimo negli occhi prima di confermare:
«Io sono una Desdemoni: il bosco qui attorno è nostro territorio e il mio clan combatte al fianco dei cercatori da secoli, perciò lo farò» disse la madre guardando Elsa.
Nella loro civiltà, i figli maschi prendono il cognome del padre e fanno parte del suo clan, mentre le figlie femmine prendono quello della madre. Elsa, quindi, apparteneva alla casata dei, o meglio, delle Desdemoni. Suo cugino Damiano, invece, era un Mercanti.
«Io non sono ancora sicuro, preferisco aspettare l’incontro di domani» disse il padre. Lui era un Mercanti, e già da sette generazioni la sua famiglia procurava materia magica a chiunque la volesse, da qui il nome.
Vuoi un papiro antico? Un metallo magico? Una pietra rara? Pelli di drago? Denti di vampiro? Loro possono procurarti tutto ciò che cerchi.
«Sapete…» continuò «Le nostre sentinelle hanno avvistato dei mannari nelle ultime settimane, per questo i quarantotto anziani hanno accettato così di buon grado la proposta dei maghi». La sua voce era triste adesso.
«Pensavamo che la tregua con loro durasse più di dieci anni, che per gli umani sono molti ma per le creature longeve come noi non sono nulla».
“Bene, almeno non dovrò più avvertirli del pericolo con il rischio di mettermi nei guai” pensò Elsa. Il suo pensiero sarebbe potuto sembrare opportunista, e lei sarebbe potuta passare per codarda, ma i motivi del suo sollievo erano sensati: a chi aveva meno di vent’anni è assolutamente proibito andare in giro con la luna piena e nei giorni vicini, perché rischia di non sapersi controllare o di imbattersi in un lupo mannaro. Tuttavia, Elsa era una gran testa dura e lo faceva ogni volta che voleva, perché pensava fosse una regola stupida, come quella di non possedere pozioni e armi magiche. Come già detto, lei aveva una bella, seppur piccola, collezione di intrugli.
Guardò il padre che era diventato piuttosto pensieroso.
“Gli sarà tornato in mente l’omicidio dello zio e della zia. Era stato un branco di lupi mannari a ucciderli, deve fargli ancora male”.

 

 
Finirono la colazione parlando di argomenti più leggeri, poi i genitori andarono a lavorare lasciando in casa i due cugini.
«Elsa, so che sei andata nel bosco ieri notte» disse lui tutto d’un tratto.
“Cazzo”. In una mossa istintiva strinse i pugni e si voltò verso di lui.
«Non lo dirò alla zia, tranquilla» la rassicurò il cugino «Sai che non lo farei mai». Aveva ragione: loro due erano molto legati, complici e affiatati. Da piccoli ne avevano combinate un sacco insieme, dando non poche preoccupazioni ai genitori di lei.
«Bene» disse Elsa rilassandosi «anche perché non è successo nulla di speciale».
«Già, di certo non ti sei imbattuta in un mannaro, di certo non sei stata ferita, di certo non ti sei curata con le pozioni che hai ma che non dovresti avere» buttò lì con noncuranza.
«Hai sentito l’odore del sangue, vero?».
«Sì. Non mi sono accorto di quando sei uscita, ma quando sei tornata ho sentito abbastanza chiaramente dei passi in camera tua. Ho sbirciato dalla porta socchiusa e mi sono accorto che eri in bagno a medicarti qualche ferita che aveva già lasciato il suo odore nella stanza».
«Così hai capito che solo un lupo mannaro poteva avermi fatto quello e che mi stavo curando in fretta per non farmi scoprire dai miei» concluse Elsa.
All’andata era stata molto prudente, ma al ritorno, con la fretta che aveva addosso, aveva prestato meno attenzione al rumore che faceva.
«Esatto. Comunque non dirò nulla agli zii, puoi starne certa!» disse facendole l’occhiolino «Però devi promettermi che starai molto più attenta. E devi anche raccontarmi tutto».
Così Elsa gli parlò accuratamente dello scontro con il lupo mannaro,tralasciando accuratamente l’incontro con Sefora.
Damiano, che aveva assistito alla morte dei genitori, era attentissimo al racconto e da come serrava le mascelle si capiva quanto avesse voluto essere al posto della cugina.

 

 
Una volta finita la storia, lei lasciò che Damiano si preparasse per i suoi allenamenti con il maestro di metamorfosi.
Tutti i licantropi vengono affiancati da un maestro fino alla maggiore età, in modo che siano completamente coscienti dei loro poteri, che possano migliorare la loro capacità di manipolazione del mana e che sappiano combattere bene.
Ogni maestro, inoltre, deve approfondire alcune capacità in base al clan: per Elsa erano soprattutto il combattimento, la medicina e lo scassinamento di sigilli per Damiano la creazione di barriere, stanze inaccessibili, portali, e così via per ogni allievo.
Solitamente, più ragazzi vanno dallo stesso insegnante, ma la famiglia di Elsa era molto ricca in denaro magico e poteva permettere ai due giovani due maestri.
«Io vado, ciao!» disse lui chiudendo la porta.
«Ok, ciao! Fai una buona lezione!».
“Bene, adesso mi preparo e vado”.
Non sapeva perché, non sapeva per come, fatto sta che ci teneva a fare bella impressione su Sefora.
Mise un paio di pantaloncini neri che le arrivavano poco sopra metà coscia, una canotta bianca, le converse rosse e arrivò addirittura a sistemare qualche ciocca ribelle. Tanto era inutile: i suoi capelli seguivano leggi fisiche che anche l’universo ignorava o, più semplicemente, facevano quel cazzo che volevano. Fortunatamente, erano di quel riccio selvaggio e indomabile ma allo stesso tempo definito, che tutte le ricce vorrebbero avere.
Una volta che fu pronta, uscì e si diresse al luogo dell’incontro, che non era altro che un semplice bar.

 

 
«Hey!» urlò Sefora per attirare la sua attenzione «Sono qui!» disse muovendo una mano.
Elsa fece finta di essersi appena accorta di lei e, quando le fu davanti, la salutò amichevolmente. Ovviamente, nonostante una momentanea folla di pendolari, l’aveva già vista ma non voleva farla sentire in imbarazzo per essersi preoccupata inutilmente o farla sentire inferiore per non avere sensi sviluppati come i suoi.
«Che ne dici se entriamo a mangiare qualcosa? Io ho fame» propose. Aveva già fatto colazione ma i licantropi tendono a mangiare molto volentieri.
«Certo» rispose l’altra sorridendo.
Si sedettero ad un tavolino appartato e aspettarono che il cameriere venisse a prendere l’ordinazione.
«Ciao, cosa posso portarvi?».
«Per me» disse Elsa «un caffè shakerato freddo e una brioche alla crema al limone».
«Una brio… ema e ca..è shak..to» mormorò il cameriere scrivendo «Tu invece?».
«Mmm… un tè freddo e tre pasticcini alla marmellata di albicocche».
«Bene, vi porto tutto tra un secondo».
Quando il cameriere se ne andò, ricominciarono a chiacchierare.
«Caffè shakerato e croissant alla crema, eh? » disse Sefora «Ti facevo più tipa da bevande ultra energetiche e dolci troppo zuccherati».
«Ahahaha!» rise di gusto l’altra. Poi, abbassando la voce disse:
 «Solo perché ieri notte mi sono data alla violenza non significa che tutte quelle porcherie mi diano alla testa,  non le mangio nemmeno quelle schifezze. E se devo dire la mia, Sefora, pensavo avresti ordinato cappuccino e brioche al cioccolato». aggiunse mostrando una chiostra di denti bianchissimi in un sorriso.
“Li amano tutti, ma io non ne vado matta:dannatamente ordinari e privi di originalità. Per fortuna ha preso dell’altro, anche se avrei dovuto aspettarmelo dopo ieri sera”.
L’altra stava per rispondere quando il cameriere portò la colazione. Le ragazze ringraziarono e ritornarono sul discorso di prima, fino a quando Elsa le raccontò dell’incontro previsto per quella notte.
«Sì, anche i miei genitori me ne hanno parlato questa mattina».
«E gli anziani della tribù Italicum sanno già della presenza di mannari, perciò non dovrò avvertirli e nessuno saprà di ieri notte. Non rischiamo più di finire nei guai».
Elsa pagò il conto, offrendo la colazione alla cercatrice come benvenuto nella città di Villanova, un piccolo centro urbano a pochi kilometri da Vicenza.
«Dove andiamo?» domandò Sefora.
«Mmm… beh, visto che non sei mai venuta a Villanova, direi che possiamo cominciare dalle vie del centro, e finire con i giardini pubblici quando farà più caldo, che dici?».
«Sei sicura? Intendo dire che passeggiando per le vie più trafficate, dei licantropi o dei cercatori potrebbero vederci e sospettare qualcosa».
«Non preoccuparti» la rassicurò Elsa «Anche gli uomini-lupo e i maghi hanno dei lavori. E comunque, non ho avvertito l’aura di licantropi nei paraggi, perciò puoi essere sicura che nessuno di loro ci ha viste al bar».
“Già, anche perché di solito frequentano un altro bar gestito da una mezza nana. Gli umani non sono male nella ristorazione, ma essere accolti da un essere magico ti fa sentire più a tuo agio”.
«Va bene, andiamo» acconsentì l’altra già più tranquilla.

 

 
Girarono per un’oretta, fino alle 11.00, guardando le vetrine dei negozi e chiacchierando del più e del meno; passarono davanti agli edifici più antichi e Elsa le raccontò la loro storia per filo e per segno.
Finita la passeggiata per il centro, la ragazza-lupo guidò Sefora fino al parco pubblico per godere dell’ombra degli alberi e di un po’ di pace.
«Che bello! Non immaginavo che in una città piccola come questa ci fossero dei giardini pubblici così» disse Sefora.
«Già. Il parco è stato rifatto di recente, per questo è ancora così ben messo, e il sindaco non ha badato a spese per renderlo più bello».
L’erba illuminata dal sole era verde e morbida, gli alberi rigogliosi, le panchine riverniciate da poco e le due fontane zampillavano acqua fresca e pulita; le stradine, che percorrevano il giardino di quasi un kilometro quadrato, portavano i cittadini in cerca di tranquillità ai loro posti preferiti e i bambini alle giostrine.
A quell’ora gli umani preferivano restare in casa al fresco, per uscire verso le quattro del pomeriggio, perciò il giardino era semi-deserto.
Le due ragazze si sedettero sull’erba, alla fresca ombra di un tiglio. Una volta sistemate, Sefora prese la parola:
«Come pensi che dovremo comportarci questa notte? Noi ci conosciamo ma non dovremmo, quindi ci toccherà ignorarci».
«Sì, faremo finta di non esserci mai viste, è più sicuro».
Appoggiarono le schiene al tronco e allungarono le gambe per stare più comode. Qualche raggio di sole filtrava tra le frasche illuminando il viso angelico di Sefora: connotati armoniosi, naso piccolo, labbra rosee,  ciuffo ribelle sulla parte destra del viso.
Restarono ferme per qualche secondo, fino a quando Sefora non sfiorò un piccolo fiore facendolo sbocciare. Elsa restò sorpresa.
«Come hai fatto?». Sapeva che i cercatori potevano fare di meglio, ma tra l’imparare certe cose sui libri o dai maestri e il vederlo con i propri occhi c’è una bella differenza.
«Questo? Oh, io… beh, non ci ho fatto caso».
«So come ci si sente a dover nascondere le proprie virtù e usarle senza nemmeno accorgersene… anche a me succede delle volte» disse Elsa.
«Significa che ti trasformi?» chiese l’altra stupita.
«Ahaha! No, non intendevo questo. Mi spiego meglio: talvolta capita che qualche compagno di classe mi inviti a casa sua, e salto fuori con frasi tipo: “Come sta tua sorella? So che la varicella è parecchio fastidiosa”, “Come mai tuo papà non è ancora al lavoro?”, “Deve essere buona la carbonara di tua mamma” e così via. Niente di strano, se non che le risposte sono più o meno così: “Come fai a saperlo? È malata solo da ieri e non lo sa nessuno”, “Come fai a sapere che è ancora in casa? Non puoi averlo visto”, “Sì dai, soprattutto quella di ieri sera, ma cosa te lo fa pensare?”. Praticamente, i miei sensi sviluppatissimi mi permettono di conoscere cose che un umano non potrebbe sapere».
«Capisco… se per lo stesso motivo è difficile per me, non oso immaginare come sia per te» disse Sefora comprensiva.
«Non sai quanto! È come vivere in un mondo HD e fare finta di essere ciechi come una talpa» si lamentò l’altra.
La cercatrice, decise di tirare su di morale la ragazza-lupo, perciò sussurrò queste parole:
«Florere felix donum gramina».
Dei piccoli fiori bianchi nacquero e sbocciarono, intrecciandosi in una corona. Sefora la prese e la posò sul capo di Elsa, che aveva guardato tutta la scena con attenzione e stupore.
«Grazie, sono molto profumati».
Sefora parve compiaciuta e sfoggiò un sorriso a trentadue denti che rasserenò pure la licantropa.
“Che bel sorriso” pensò Elsa “sincero e contagioso”.
«Che ne dici se camminiamo un po’ per il parco? Voglio vederlo tutto!» propose la cercatrice.
«Certo, andiamo!».
 
Quando fu quasi ora di pranzo, le due ragazze si separarono, con l’intenzione di vedersi all’incontro di quella notte.
Elsa tornò a casa e decise di preparare il pasto per tutta la famiglia, visto che era la prima ad essere tornata.
“Cosa posso fare? Damiano avrà una fame da lupo. Che gioco di parole di merda. Vada per la pasta con il ragù”.
Quando era a metà dell’opera, la madre tornò a casa e si mise a cucinare assieme a lei. Erano molto vicine, ma Elsa aveva eliminato l’odore appena percettibile di Sefora con una doccia veloce, così la mamma non si accorse di nulla.
Presto arrivarono anche Damiano e il papà, affamati come al solito.
Mangiarono con voracità il kilo di pasta cotta per l’occasione e si spostarono in salotto per stare un po’ insieme e discorrere della mattina appena passata.
 
 


La sera, poco prima dell’incontro, verso le 23:15, la mamma chiamò a raccolta tutta la famiglia per gli ultimi avvertimenti:
«Mi raccomando, comportatevi bene».
«Sì mamma, lo hai già detto mil-».
«E cercate di fare un po’ di conoscenza con i figli dei cercatori. Non vi dico di farveli stare simpatici per forza, ma anche solo di scambiarci due parole. E sistemate per bene i simboli della famiglia» conclude avvicinandosi alla figlia per ricontrollare gli orecchini.
«Mamma, dai! Basta! È la miliardesima volta che guardi se ci sono ancora. Stai calma, mica li perdo!».
«Va bene, va bene! Volevo solo essere sicura!».
Le Desdemoni, come gioiello-simbolo, portano degli orecchini di rubino. Sono diversi per ognuna di loro, ma hanno tutti la stessa pietra.
Quelli della madre erano a goccia e le due gemme erano incastonate su oro giallo. Quelli di Elsa, invece, erano molto semplici e poco appariscenti: due piccoli brillanti su oro bianco.
I Mercanti, invece,  indossano un anello con uno o più smeraldi. Il padre ne aveva uno più vistoso, mentre Damiano portava un anello con un solo smeraldo tagliato a rettangolo.
Tutti hanno un gioiello da indossare nelle occasioni importanti per la comunità. L’abbigliamento non è importante, anzi, il più delle volte è molto sobrio e non elegante, ma il simbolo di famiglia è d’obbligo.
«Siete tutti pronti?» chiese Fulvio.
«Sì» dissero tutti.
«Bene, allora si parte».
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Tante famiglie, un piccolo esercito ***


La famiglia al completo uscì di casa e percorse in macchina la strada fino al bosco.
Tutti facevano finta di essere calmi ma la verità era ben altra: Elsa muoveva i piedi, Damiano tamburellava le dita, Gioia si stringeva un ginocchio con la mano e il papà continuava a fare bolle con la gomma da masticare.
Scesi dalla macchina, corsero per un paio di kilometri nel bosco, guidati da Fulvio, che li portò in una piccola radura circondata da macigni grandi come automobili.
Era il luogo dove abitualmente tutti i licantropi si riunivano per discutere delle faccende della loro società: le rocce formavano un cerchio di cinque metri di diametro, con  dentro altri piccoli massi sparsi e un falò al centro, il tutto nascosto in parte dalle fronde delle piante circostanti.
Seduto su un grosso sasso, uno degli anziani della tribù Italicum aspettava pazientemente l’arrivo di tutti, e appena scorse la famigliola, le andò in contro.
«Buona sera! Io sono Gaspare Albini, mandato qui dall’assemblea dei quarantotto anziani, di cui faccio parte, per presidiare all’incontro con i maghi cercatori» disse porgendo la mano a tutti e quattro. Era un uomo sui cent’anni, a giudicare da come si muoveva, ma aveva l’aspetto di un quarantenne.
In Italia c’è una tribù chiamata Italicum, formata da quarantotto clan, ovvero quasi cinquanta famiglie.
Ogni tribù corrisponde a una nazione e a volte i territori dei licantropi combaciano all’estensione dello stato in cui vivono. Gli Italicum, per esempio, occupano tutta la penisola italica, le varie isole e anche Malta, Creta, Canton Ticino e Dalmazia.
Ogni nazione differisce per riti e tradizioni, ma hanno delle leggi comuni, come l’ereditarietà dei cognomi.
«Io sono Fulvio Mercanti, con mio nipote Damiano» si presentò il padre.
«Io sono Gioia Desdemoni, con mia figlia Elsa».
«Bene, è un piacere conoscervi tutti. Per ora siete i primi, ma tra poco saranno tutti qui. Prendete pure posto dove preferite» disse indicando l’area con la mano sinistra; Elsa notò un bracciale d’oro con diamanti.
 
 


Per mezzanotte erano arrivati tutti: le tre famiglie di cercatori e le tre di licantropi che abitavano in città con tutti i membri, come nonni, zii, cugini ecc…
In tutto erano una sessantina di persone e sedevano attorno al fuoco guardandosi curiosi, soprattutto i giovani.
Gaspare si alzò e cominciò il monologo di apertura:
«Siamo qui questa notte per parlare di un problema che affligge questa zona del Veneto: i lupi mannari e i vampiri. Le sentinelle ne hanno visti parecchi nelle ultime settimane, e siamo giunti alla conclusione che dobbiamo combatterli».
Un vocio si sparse tra tutti.
«Per favore, ascoltatemi» disse Gaspare ripristinando il silenzio «Questa era una zona sicura, ma adesso non più. Quei mostri ci stanno minacciando, non possiamo permetterlo!».
«Sì! Facciamogli vedere chi siamo!».
«Ben detto!».
«Appunto, questa è casa nostra!». E così di seguito.
«Ascoltate!» riprese «Per scacciarli dobbiamo creare delle squadre e delle coppie di combattimento. Chi vorrà verrà esaminato, testato, addestrato e anche armato, se necessario. Chiunque abbia almeno venti anni di età può diventare un mundis  e combattere conto i licantropi. Gli altri potranno avere compiti secondari se non vorranno combattere, ma tutti, anche chi non volesse, sono tenuti a dare un aiuto alla collettività».
Grida esultanti si levarono dal pubblico: un licantropo la battaglia ce l’ha nel sangue; c’è chi combatte, chi equipaggia, chi difende, ma assolutamente nessuno si tira mai indietro.
«Bene! Allora cominciamo con la raccolta dei volontari per ogni settore! La formazione si squadre e coppie si farà così: i combattenti scriveranno il proprio nome su un pezzo di pergamena e lo metteranno in quest’orcio di terracotta» disse sollevandolo per farlo vedere a tutti «Quando tutti lo avranno fatto, grazie a un incantesimo, il vaso estrarrà a sorte, in modo che il numero di licantropi e maghi sia equilibrato. Prego, scrivete i vostri nomi».
Un cercatore sussurrò qualche incantesimo e accanto a ogni licantropo e cercatore maggiorenne, apparvero un foglietto e un carboncino. Circa trenta scrissero e consegnarono.
Gaspare scosse l’orcio, sul quale apparvero incisi dei nomi su in lato.
«Ora formiamo i gruppi. Primi: Andrea, Riccardo e Giulia».
Un licantropo scrisse i nomi e i cognomi su una pergamena e l’anziano scosse ancora il vaso cancellando i nomi di prima e facendone apparire di nuovi.
«Secondi: Nicola, Filippo, Eleonora e Colomba. Terzi: Gioia, Mirco, Lara e Guido. Quarti:…  » ed estrasse altri nomi suddivisi in gruppi da tre o da quattro.
«Ora le coppie. Prima: ...» e fece lo stesso di prima.
Poi, quei pochi che non combattevano, all’incirca sette licantropi e due maghi, andarono dallo scrivano a proporsi come guaritori e spie. Il padre di Elsa si fece volontario per spostare i soldati attraverso qualche portale e per procurare le armi, le pozioni e tutto ciò che sarebbe potuto servire.
Restavano fuori solo una quindicina di minorenni.
«Bene» disse Gaspare per concludere «Per rendere ufficiale l’azione di difesa, mi serve la firma di tre Desdemoni, che secondo le nostre leggi, sono proprietarie di questo bosco e di molte terre qui attorno».
La madre di Elsa, sua nonna e sua zia, si alzarono contemporaneamente, e con un carboncino rosso, firmarono su una pergamena che definiva la zona un territorio di guerra.
Questo, non aveva di certo valore legale, era simbolico: le Desdemoni riconoscevano di “prestare” i propri terreni alla comunità fino alla conclusione del conflitto.
Ora che i ruoli erano stati decisi, non restava che conoscersi.

 

 
Elsa e Sefora si erano scambiate occhiate distratte per tutta la sera, e adesso dovevano cominciare a recitare la parte delle sconosciute.
Gioia sussurrò alla figlia e al nipote:
«Io e papà andiamo dai cercatori, che ne dite di andare dai loro figli?».
«Va bene. Speriamo siano simpatici» disse Damiano poco convinto.
“Ti assicuro che almeno una lo è” pensò Elsa.
Si avvicinarono insieme ad altri due giovani licantropi al gruppetto di maghi. Si presentarono e si studiarono tutti attentamente, dicendo qualche frase per rompere il ghiaccio.
“Beh, non sono così male. Però non sono molto alti: nessuno di loro supera i licantropi in altezza. Sono molto più simili agli umani”.
Poi, rivolgendosi a Sefora come per attaccar bottone, disse:
«Mi pare di aver capito che le nostre madri saranno in squadra insieme, dico bene?».
«Sì, esatto».
Un ragazzo di nome Luca si unì alla loro discussione:
«Tu e tua mamma siete due Desdemoni, vero? Ho sentito dire che sono un clan di guerriere».
«Sì, è vero. Da quasi tremilacinquecento anni».
«So che portate il nome del genitore del vostro stesso sesso, come fate con i documenti e tutte quelle seccature da umani?».
«Non hai idea di quante storie di tradimenti e abbandoni dobbiamo inventarci! Ahahahaha!» disse Elsa facendo ridere sommessamente anche Luca «Pensa, la gente di Villanova crede che mia mamma sia stata messa incinta dal primo marito, morto prima della mia nascita!».
Il ragazzo, soddisfatto, se ne andò a conoscere altri licantropi, così le due ragazze restarono da sole.
«Che ne dici se io ti presento un po’ di lupi e tu un po’ di maghi?» propose Elsa «Se restiamo esclusivamente tra di noi, sospetteranno qualcosa».
«Buona idea. Cominciamo».

 

 
Dopo che Sefora ebbe presentato i suoi amici e viceversa, decisero che potevano anche parlare un po’ da sole senza dare nell’occhio.
«Posso farti una domanda?» chiese Sefora.
«Dimmi».
«So che l’argento è dannoso per voi, ma come mai alcuni licantropi hanno collane di questo metallo?».
«Ahahahah! Ma no, non è come pensi» disse Elsa ridendosela di gusto «L’argento non è tossico o roba del genere: noi siamo invulnerabili a tantissime armi, addirittura ai proiettili e alle radiazione, ma l’argento ha su di noi lo stesso effetto che avrebbe l’acciaio o il ferro su un umano. Mi spiego meglio: un coltello normale non ci fa nulla, ma uno d’argento ci può ferire. Non moriamo sul colpo ma le ferite si rimarginano un po’ più lentamente. Pensa che per tagliarci i capelli dobbiamo usare forbici d’argento! ».
«E i mannari?».
«Idem».
Sefora era sorpresa, e si accorse di non sapere molte cose sugli uomini-lupo.
«So che voi licantropi avete dei gioielli diversi per ogni famiglia. Perché la tua ha come gemme i rubini?» domandò ancora Sefora. Quell’argomento le interessava molto.
«Perché sono rossi come il sangue. La mia è una famiglia guerriera, perciò alle tre fondatrici è parso logico avere delle pietre del genere come simbolo».
«Tre fondatrici?».
«Sì. Erano tre cugine che avevano una “passione smodata” per i combattimenti. Decisero di unirsi sotto lo stesso cognome e di formare un clan. Siamo una stirpe giovane, confronto alle altre» spiegò Elsa.
«Perché hanno scelto il nome “Desdemoni”?» chiese Sefora curiosa.
«Perché per acquistare il diritto a formare un nuovo clan hanno dovuto superera delle prove indescrivibilmente pericolose, restando più volte ferite gravemente, venendo schernite e umiliate dalle famiglie più antiche. Desdemoni significa “dal destino avverso”, “nate sotto una cattiva stella”. Hanno scelto il cognome per ricordare le loro fatiche e le loro sofferenze».
Sefora non avrebbe mai pensato ad una storia del genere, ma le parve di riconoscere una punta dell’onore originale delle tre cugine anche in Elsa.

 

 
Verso le due di notte, andarono tutti a casa.
«Allora? Cosa ne pensate?» chiese Gioia «Io e papà siamo rimasti soddisfatti dai cercatori, sono gente seria».
«Anche i ragazzi non sono male» disse Damiano «Io mi sono messo d’accordo con uno di nome Pietro e domani andiamo a fare un giro».
«Io invece vado con Sefora, la figlia di Lara, quella in squadra con te».
«Molto bene» intervenne Fulvio «Spero che abbiate preso appuntamento per il pomeriggio, perché d’ora in poi, la mattina, farete degli allenamenti con i vostri maestri: anche se non combatterete, dovrete essere capaci di difendervi».
«Dovete sapere» disse la madre «che abbiamo chiesto a Gaspare di includervi in alcune piccole operazioni di supporto, e lui ha acconsentito, visto che ormai avete diciassette anni e avete un buon livello di preparazione. Non saranno compiti pericolosissimi, ma è meglio non rischiare».
“Quando fa così sembra una mamma umana: fin troppo apprensiva e protettiva” pensò Elsa “Comunque, piuttosto di niente, è meglio questo”.
 



Angolo dell'autrice:
Questo capitolo è un pò più corto dei precedenti e dei successivi, perciò il prossimo lo aggiornerò con un paio di giorni d'anticipo.

Mundis= pulito, usato come sinonimo di "pulitore" in questa storia.

Nei prossimi capitoli scriverò anche il significato delle altre parole in latino, comunque sappiate che sono solo frasi in italiano tradotte con google traduttore (probabilmente non sono nemmeno giuste) e che le ho scelte più per come suonano che per il loro reale e preciso significato.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto:) le recensioni sono ben accette:)

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Capitolo 4
*** Quando manca il respiro ***


«Svegliaaaaa! Dai che sono già le cinque e mezzo!» urlò la madre «Dovete allenarvi con i maestri!».
I due cugini non se lo fecero ripetere due volte: schizzarono fuori dai letti e si precipitarono di sotto.
«Sedetevi e fate colazione, avete bisogno di energie!».
«Sì mamma! Damiano, mi passi la marmellata? Grazie».
«Prego. Zio, dove sono le fette biscottate? Non le trovo».
«Nel primo scaffale, guarda bene».
«No Damiano, sono già qui in tavola!» disse Gioia.
«Non quelle integrali, quelle normali».
«Gente, calmatevi» disse Fulvio con una tranquillità che stonava con il resto della situazione «Sono solo degli allenamenti, non agitatevi».
Gli altri tre commensali si guardarono. Sì, in effetti erano un po’ troppo presi da questa novità.
Con rinnovata calma, consumarono la colazione e si vestirono con le loro uniformi.
Quella di Elsa comprendeva pantaloncini corti e top da palestra che lasciava scoperta la pancia dagli addominali accennati;  il tutto nero e in tessuto magico: ignifugo, resistente, antistrappo, antigelo, molto elastico e refrattario agli incantesimi di atrofia muscolare. È vero che copriva poco il corpo, e difendeva poco dalle magie, ma quest’ultima qualità era già stata aggiunta quando il padre aveva portato la stoffa dalla Persia, e già che c’era l’aveva lasciata.
Damiano aveva dei pantaloncini dello stesso materiale che arrivano fino al ginocchio, e combatteva a torso nudo: il tessuto magico era resistente, ma le uniformi andavano comunque rifatte dopo una trentina di allenamenti perché non resistevano oltre ai colpi e agli incantesimi, quindi tanto vale sprecare meno stoffa possibile.
Prima di uscire si coprirono con abiti normali per non dare nell’occhio ai corridori più mattinieri, poi si diressero verso il bosco dove li attendevano i maestri.

 

 
«Bene Elsa, io vado di qua: Noah mi aspetta alla radura a Nord».
“Quella dove sono andata io due notti fa… speriamo non trovino i segni della lotta” pensò Elsa.
«Ok, io invece vado al laghetto. Ci vediamo qui alle 11:00. Ciao».
«Ciao».
I due si separarono e si diressero verso le rispettive mete.
Quando Elsa arrivò a destinazione rimase davvero sorpresa: ad aspettarla, oltre al maestro Chan, c’era Sefora.
«Buon giorno!» fece quest’ultima «Non ti aspettavi di trovarmi qui, vero? Lo shifu ha nascosto la mia aura, così ti saresti accorta di me solo al tuo arrivo qui».
«È così» intervenne lui «volevamo farti una sorpresa».
Il mastro Chan era un licantropo cinese di trecentodieci anni e aveva l’aspetto di un uomo di quaranta o quarantacinque anni. Allenava Elsa da quando aveva cinque anni, ma era in Italia da più di mezzo secolo.
«Come mai anche tu sei qui?».
«I miei genitori hanno chiesto all’anziano di ieri sera se potevo allenarmi e lui ha detto di sì, così mi ha indirizzata da Chan e mi ha consigliato di fare lezione assieme a te» spiegò sorridendo.
«Fantastico! Così potremo imparare a combattere come una squadra!» esclamò Elsa tutta contenta.
«Dai ragazze, seguitemi sulla riva del laghetto».
In un attimo Elsa tolse scarpe e abiti restando in uniforme, mentre Sefora indossava una speciale armatura: i guanti, i calzari e l’elmo erano in piombo magico,  mentre il busto era in pelle di drago color verde scuro.
“Caspita, un’armatura così costicchia… ed è anche ben fatta” pensò Elsa.
La pelle di drago aderiva perfettamente alla sua figura magra esaltandone le forme ben proporzionate; le uniche parti scoperte erano il collo, le braccia dal gomito alla spalla e le gambe dal ginocchio a metà coscia, dove erano coperte da pantaloncini sempre in pelle di drago.
 
 


Iniziarono l’allenamento, che consisteva nel collaborare per recuperare un talismano nascosto nel lago.
Lo specchio d’acqua era largo una ventina di metri e lungo una trentina, profondo anche cinque metri, in certi punti.
Era abitato da qualche pesce, alghe e piante acquatiche a non finire e anche un magno capite.
I magno capite sono pesci particolari lunghi poco più di un metro e mezzo che amano le acque pulite e adorano attaccar briga, per questo il maestro Chan ne aveva liberato uno.
Non esistono in natura, perciò bisogna crearli con una trota o una carpa e alcune pozioni; svanito il loro effetto, il pesce torna come prima.
«Il vostro scopo è questo: trovare e riportare in superficie un talismano. È d’oro e ha incastonata al centro un’acquamarina. State attente, ci sono degli ostacoli lì sotto che ho messo apposta per l’occasione. Sefora, togli l’elmo ma tieni tutto il resto; Elsa, tu porta questo dente di vampiro e questa catenina di antimonio. Ah, un’ultima cosa: tu, Elsa, non potrai trasformarti. Pronte?».
«Sì!» urlarono all’unanime.
«Allora partite!».
Le due si tuffarono nell’acqua piacevolmente fredda, spingendosi fino al fondale, dove la luce delle sei del mattino non arrivava ancora. Risalirono un po’ finché qualche timido raggio di sole non penetrò nell’oscurità del lago.
Elsa riusciva a distinguere la sagoma della cercatrice anche in acqua: i licantropi, al contrario degli umani, vedono benissimo anche sott’acqua, proprio come se fosse aria.
Ad un tratto, una sfera luminosa prese forma tra le mani di Sefora, illuminandole il viso e i capelli che fluttuavano lentamente.
“Sembra una sirena” pensò istintivamente Elsa.
La cercatrice sdoppiò la palla di luce, poi la quadruplicò e così via finché più di un centinaio di biglie rischiararono il blu del lago.
Adesso che anche Sefora vedeva bene, potevano iniziare la ricerca. Ritornarono sul fondale, posando i piedi nella fanghiglia grazie a un incantesimo di gravità e sollevando nubi marroni che si mescolavano alle alghe.
Erano sotto da qualche minuto, ma sia i licantropi che i maghi hanno un’ottima resistenza sott’acqua: entrambi possono restare immersi almeno mezzora senza problemi.
“Secondo me il talismano è nel punto più profondo, quindi dobbiamo andare al centro”. Elsa fece gesto alla cercatrice di seguirla e, mentre quest’ultima nuotava, i piccoli globi luminosi la seguivano.
Una volta raggiunto il punto più basso, notarono, in un cerchio perfetto senza nemmeno un’alga, un vaso di terracotta attaccato a un bastone di legno. Sefora lo prese e lesse le scritte che portava incise, poi lo passò all’altra sghignazzando:
‘Sorpresa! Sapevo che saresti venuta subito qui, quindi ho voluto rendere la ricerca più difficile: guarda dentro al vaso, troverai qualcosa di utile’.
L’imboccatura era stata tappata con altra argilla, ma per Elsa fu questione di un decimo di secondo: disintegrò il collo e tirò fuori un… un…
“Ma che cazzo è questo?”.
La sua faccia era così stranita che la maga capì subito che qualcosa non andava. Le prese il bizzarro oggetto dalle mani e lo rimirò: una palla ricoperta di aghi di antimonio, simile in tutto e per tutto al riccio di una castagna, solo di metallo.
Elsa rimuginava sull’oggetto, infatti, le pareva di aver già visto qualcosa di simile, ma non sapeva dove.
Entrambe stavano ancora pensando, quando sentirono la presenza di qualcosa, qualcosa di grosso.
Fu questione di un attimo: da una macchia di erbe acquatiche, schizzò fuori un pesce enorme, con la testa di trota grossa quanto quella di uno squalo ma il corpo orribilmente più piccolo, molto sproporzionato.
Le fauci aperte mostravano denti aguzzi e sporgenti, pronti ad afferrare la sfortunata preda e le ragazze si spostarono appena in tempo per non essere ferite da quei denti affilati come rasoi.
“È un magno capite! Chan l’ha messo apposta per noi!”. Certo, per i licantropi non era un grosso problema, ma forse per i cercatori era diverso. E se avesse ferito Sefora? No, non poteva permetterlo.
“Ricordo di aver letto di questo mostro nel mio bestiario, ma ci avevo prestato poca attenzione… cavolo, pensa!”.
Il magno capite si girò e si scagliò addosso ad Elsa, mancandola. Attaccò di nuovo, ma lei gli diede un pugno in testa, che grazie alla sua forza sovrumana non era rallentato dall’acqua.
Sefora giunse le mani, e allontanandole l’una dall’altra creò una miriade di aghi di ghiaccio che direzionò verso il pesce. Molti lo colpirono, ma senza effetto.
“Ho trovato! Sì, mi ricordo! Il bestiario diceva che per neutralizzare l’effetto dell’incantesimo, bisogna mettergli in bocca dell’ antimonio!”.
Fece cenno a Sefora di avvicinarsi a lei.
“Se siamo entrambe qui verrà per forza in questa direzione”.
Il grosso pesce si avventò su di loro, avvicinandosi con la bocca spalancata. Elsa si preparò già con il braccio teso all’altezza del viso e il riccio in mano. Quando il testa-grossa fu a poca distanza da loro, aprì la mano lasciando sospeso per qualche istante l’oggetto, poi spinse via Sefora.
Il magno capite ingoiò la palla di antimonio senza neanche accorgersene, passando a pochi centimetri dalle ragazze.
Sefora, con un sorriso, dimostrò alla licantropa di aver capito il piano, e le diede una pacca sulla spalla.
Intanto, il pesce aveva rallentato e si comportava in modo strano: girava in tondo, finiva a pancia in su e sputava sangue. Lo fece per due o tre volte, finché non vomitò fuori la palla di aghi.
Come se non l’avesse mai mangiata, ritornò all’attacco feroce come prima: si diresse verso Sefora e la colpì con una testata. Per fortuna, ci vuole ben altro per ferire una cercatrice.
Lei gli diede un pugno sul naso, reso più doloroso grazie ai guanti in piombo. Il pesce stava per morderla quando Elsa gli conficcò il dente di vampiro in un occhio, accecandolo.
Il magno capite si dimenò nell’acqua, ma prima che potesse mordere una delle due, Elsa prese per mano Sefora, allontanandola.
Conosceva bene il lago, e sapeva che vicino a una sponda ripida c’erano degli anfratti nella roccia in cui era facile nascondersi.
Il sole cominciò a illuminare la parete rocciosa sommersa, aiutando la licantropa a trovare rifugio per sé e per la cercatrice.
Sefora spense i globi luminosi di cui non c’era più bisogno e si infilò in una fessura assieme alla ragazza-lupo.
Erano al sicuro, quella fenditura era troppo stretta per far passare il pesce, ma nemmeno per loro era tanto larga: le loro gambe si sfioravano, i loro busti aderivano e i loro visi erano a pochi centimetri di distanza, illuminati da qualche timido raggio di sole.
Elsa si ritrovò ad ammirare gli occhi verdi di Sefora, poi, seguì il profilo del naso perfettamente dritto, giungendo a posare lo sguardo sulle sue labbra leggermente dischiuse, tornando infine agli occhi in cui si perse definitivamente.
“Che occhi, che pelle liscia e delicata, che perfezione…”. Già, ad Elsa non pareva vero che potesse esistere una ragazza così ben proporzionata, così bella e così combattiva.
“E non è nemmeno stupida”.
Da parte sua, Sefora era rimasta incantata dalla licantropa: aveva rischiato grosso prima, poteva perdere una mano. Aveva del coraggio.
E da quando si erano infilate in quell’anfratto non aveva potuto fare a meno di notare il suo fisico asciutto, la pancia piatta con gli addominali definiti, da sportiva, ma non vistosissimi.
Gli occhi erano due pozzi profondi dietro i quali si nascondevano chissà quali pensieri, sempre attenti a tutto, costantemente vigili; i capelli riccioluti non perdevano la loro forma nemmeno sott’acqua, dove fluttuavano sopra la sua testa.
E poi erano così vicine… poteva sentire il calore del suo corpo contro la propria pelle più fredda.
Sarebbero rimaste imbambolate a lungo, se il riflesso della livrea argentata del magno capite non le avesse allarmate.
 Il mostro le aveva seguite e le stava cercando tra le piante acquatiche, si girò e le vide con l’occhio sano. Si lanciò sulla fessura nella roccia, ma era troppo stretta per lui e ci sbatté il muso addosso.
“Cavolo… devo ritrovare la palla di antimonio!”.
Lo sguardo di Elsa diceva tutto: bisognava uscire e ritrovare il riccio metallico.
Prese di nuovo il dente di vampiro e quando il pesciolone diede un’altra testata alla roccia, lei lo accecò all’altro occhio. Lui divenne pazzo dalla rabbia: scuoteva la testa a destra e a sinistra, mordeva a casaccio e dava forti colpi di coda alla cieca.
Con un calcio, Elsa lo allontanò dal passaggio sottile, uscendo assieme alla cercatrice.
Nuotarono veloci nel fondale ormai illuminato, cominciando a sentire un po’ la mancanza d’aria.
“Abbiamo consumato un sacco di ossigeno combattendo e scappando, ma abbiamo altri cinque minuti buoni”.
Il riccio di antimonio era proprio dove l’avevano lasciato, lo presero e tornarono dal magno capite, che trovarono però a metà strada: aveva seguito il loro odore.
Elsa prese dalla piccola tasca dei pantaloncini anche la catenina di antimonio, sottile pochi millimetri, come quelle che usano i gioiellieri, ma lunga poco meno di un metro.
La legò al dente di vampiro ad un’estremità, e attese che il pesce le attaccasse come prima. Quando lui le individuò, si avventò su di loro, mancandole di poco, ma mangiando la palla di antimonio come prima.
“Adesso!”.
Entrambe gli furono addosso: Sefora gli teneva le fauci serrate grazie ai guanti in piombo magico che avevano un’ottima aderenza; Elsa, invece, gli cucì la bocca con il dente e la catenina.
“Se ingoiare l’antimonio lo uccide, deve fare effetto anche un filo dello stesso materiale”.
Si allontanarono, e videro la creatura contorcersi e dimenarsi, il sangue uscirgli dalla bocca e dalle branchie, poi, molto lentamente, il suo corpo si dissolse in una macchia rossa, dando vita a una trota perfettamente sana e a una pietra nera e lucida.
Sefora la prese. Sembrava sapere cosa fosse: la tenne sul palmo della mano e fece cenno alla licantropa di seguirla.
Elsa, fece capire alla maga che forse era meglio prendere una boccata d’aria, ma quella non volle saperne: mancava così poco. Fu così, che la ragazza lupo seguì la cercatrice.
La pietra di forma ellissoidale cambiava colore man mano che si spostavano.
“Ma certo! È una pietra navigatrice!diventa più chiara man mano che ci avviciniamo all’obbiettivo, e quando l’avremo raggiunto, diventerà bianca”.

 

 
Dopo qualche giro a vuoto, la pietra da nera divenne blu, poi azzurra, poi celeste molto chiaro e infine bianca come il latte.
“Ci siamo!”
In mezzo alle piante acquatiche c’era un masso, un masso appena posto lì, perché non era ricoperto né di alghe né di sedimenti.
Solo un sasso vagamente a forma di goccia. Niente di più, niente di meno.
Elsa restò un po’ delusa, ma presto dovette ricredersi: appena sfiorò il macigno, questo si aprì liberando una decina di tentacoli verdi che le si attorcigliarono attorno alle gambe, ai polsi, al busto e al collo, immobilizzandola.
Ad un certo punto, dalla nebbia fangosa si levò un fiore grosso come il cuscino di un divano. Questo, si aprì mostrando dei denti aguzzi e si dimenò sul lungo stelo.
“Possibile che tutti qui sotto vogliano mangiarci?” pensò Elsa “E poi… comincia a mancarmi davvero ossigeno… sto soffocando… non so quanto resisterò!”.
Si dimenava inutilmente, perché la pianta la teneva ben stretta.
Sefora, per puro caso, scorse un oggetto luccicante all’interno della bocca del fiore… il talismano!
Era da sola, ma poteva farcela: anche lei si era sempre allenata, aveva i mezzi per farcela. Aveva un’ottima conoscenza delle pietre e sapeva cosa doveva fare per uccidere la pianta.
Il fiore assassino tentò di morderla più volte, mancandola sempre. Quando fu quasi sul punto di addentarla, Sefora le bloccò la mascella con un bastone trovato sul fondale, lasciandola con la bocca spalancata.
Veloce come la luce, riempì di pugni l’acquamarina che brillava di lice propria, finché questa non si crepò e spezzò, spegnendosi all’istante. Assieme alla gemma, anche la pianta morì, trasformandosi però in pietra.
“Cosa?! No! Adesso sono messa peggio di prima!”.
Elsa sentiva i polmoni bruciarle e non riuscì più a trattenere il fiato, lasciando uscire dalla bocca qualche bolla d’aria. Sefora provò a spaccare i tentacoli, ma erano troppo duri. Non sapendo cosa fare, decise di prendere tempo.
Riemerse in superficie, fece dei respiri profondi e tornò dalla licantropa. Le si avvicinò, facendo sfiorare i loro nasi.
“Cosa vuole fare?” si chiese la ragazza-lupo.
Sefora le alzò il mento con una mano, poi poggiò le proprie labbra su quelle di Elsa.
“Come sono morbide, così delicate, così… dolci”.
Dischiusero appena le bocche e Sefora soffiò aria ossigenata nei polmoni dell’altra. Il cuore di Elsa perse un battito.
Le parve che l’aria si incendiasse, che le labbra bruciassero, che tutto il suo corpo fosse bollente. Non aveva mai provato nulla del genere prima d’ora, ma durò un secondo: l’ossigeno si mescolò al sangue, che risvegliò il corpo e fece uscire il cervello dallo stato di semi-coscienza.
Sefora si staccò e si fissarono negli occhi, senza sapere cosa pensare.
Fu Elsa stessa a interrompere la staticità del momento, facendo cenno con il capo verso il talismano. Sefora sembrò capire, e si mise ad armeggiare per tentare di staccarlo, riuscendoci con non poca fatica.
All’istante, la pianta di roccia si dissolse in sabbia, lasciando libera la licantropa che schizzò in superficie bramosa d’aria.
Fu seguita a ruota dalla cercatrice, che portava in mano il talismano.
«Grazie per avermi salvata» disse Elsa ansimando «Grazie mille».
«Avresti fatto lo stesso per me. E poi, sei stata tu a salvarmi dal lupo mannaro due sere fa. Adesso siamo pari».

 

 
Arrivate a riva, stanche e bagnate fradice, raccontarono tutto allo shifu, che si complimentò con loro per l’ottimo lavoro di squadra.
«L’allenamento di oggi è finito. So che è durato poco rispetto al solito, ma serviva più che altro come test d’ingresso. Potete andare» concluse sorridendo e lisciandosi la barbetta.
«Si maestro» dissero le ragazze inchinandosi rispettosamente.
Non si asciugarono nemmeno, si rivestirono e partirono subito verso il confine del bosco, dove si separarono.
Neanche dieci minuti dopo, arrivò Damiano con un cercatore, un mago che le parve di ricordarsi si chiamasse Pietro.
Tornando a casa, si raccontarono dei rispettivi allenamenti, e tutti e due avevano trovato i cercatori ad attenderli senza che se lo aspettassero.
«Dai, facciamo in fretta» disse Damiano «Che tra mezz’ora fanno la replica di Milan-Inter».
«Possibile che tu riesca a pensare solo al calcio?» domandò lei falsamente stizzita.
«Al calcio e alla carbonara, per essere precisi».
Per tutto il tragitto parlarono di calcio e pastasciutta, nascondendosi ancora dai passanti e spintonandosi amichevolmente, ma anche così impegnata, Elsa non riusciva a non pensare a ciò che era successo nel lago.
A volte sono le piccole cose, come due labbra che si sfiorano, a far pensare di più e a far provare i sentimenti più intensi.



Angolo dell'autrice:
-Magno capite= testa grossa 

Ecco che finalmente le due cominciano a combinare qualcosa e dentro di loro si fa strada il dubbio...

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Capitolo 5
*** Ratti impiccioni e libri riservati ***


Il pomeriggio, verso le quattro, le due ragazze si trovarono nel bosco come avevano programmato la sera precedente.
Già riposate dopo l’intenso allenamento mattutino, si misero a correre a destra e a manca tra gli alberi, rincorrendosi e scappando.
Nonostante tutto questo movimento, Elsa non riusciva a non pensare a quello che era successo nel lago. A pranzo, addirittura, fu l’ultima  a finire di mangiare, perché mentre gli altri parlavano, le vagava tra i suoi pensieri, destando anche un po’ di preoccupazione da parte della madre.
 
«Cosa fai, non mangi? Hai poca fame?» le chiese premurosa.
«Eh? Ah, no no… non è niente, adesso finisco subito» l’aveva rassicurata.
 
“Niente, come no…” pensò mentre saltava da un albero all’altro “Se non fosse successo nulla non starei qua a farmi mille viaggi mentali”.
Si dirigevano verso la radura dove il mannaro stava per uccidere la maga: di notte non era altro che uno spiazzo d’erba, ma  di giorno, si riempiva di piccoli fiorellini profumati e di tutti i colori.
«Hey, Elsa! Sbrigati, altrimenti non mi acciufferai mai! Ahahahah!».
«Questo è tutto da vedere!».
Saltò a terra sollevando qualche foglia, superò un macigno con un balzo e rincorse Sefora, che era una cinquantina di metri davanti a lei.
La cercatrice salì su una pianta arrampicandosi agilmente, come se fosse uno scoiattolo, poi, avanzò saltando di ramo in ramo, con capriole e torsioni.
Elsa procedeva correndo sul terreno ricoperto di aghi di pino e altre foglie, avvicinandosi sempre più. La cercatrice ostacolava la sua corsa creando rami sporgenti, liane attorcigliate o materializzando scudi di energia, che la licantropa schivava o distruggeva man mano che li incontrava, riducendo la distanza tra loro due.
Sefora scese a terra, e quando furono a pochi metri dalla radura, Elsa si trasformò: sentì l’energia diffondersi nel suo corpo partendo dalla testa; in pochi attimi era già diventata un lupo possente e feroce, dalla pelliccia scura e i denti lunghi e aguzzi.
Saltò addosso a Sefora, facendo rotolare entrambe sull’erba e sui fiori, attutendo però la caduta con il proprio corpo, per non far male alla cercatrice.
Non lo fece apposta, ma la situazione che si creò era alquanto strana: Sefora era distesa supina, e guardava la licantropa che le stava sopra, ritta sulle quattro zampe ma con il muso vicino alla sua testa.
Elsa ringraziò di essere in forma lupina, altrimenti Sefora avrebbe potuto vedere quanto era rossa in viso.
“Possibile che più tento di non pensarci e più mi caccio in queste situazioni?”.
Sefora alzò lentamente una mano e la avvicinò al muso di Elsa.
“Cosa vuole fare?” pensò questa “Perché ha alzato la mano?”.
La cercatrice, sfiorò delicatamente la guancia della lupa, trovandola morbida al tatto. La accarezzò senza nemmeno pensarci, senza farci caso, lo fece e basta.
Elsa, da parte sua, era rimasta immobile come una statua di marmo. Non le dispiaceva quel contatto, anche se la faceva sentire strana. Non strana in senso cattivo, chiaramente, solo diversa dal solito. Le piaceva.
Il suo cuore, che batteva già più veloce del solito, si mise a galoppare quando Sefora affondò la mano nel pelo del collo, carezzandola direttamente sulla pelle.
La ragazza-lupo non poteva fare a meno di fissarle le labbra, le stesse che avevano toccato le sue quella mattina. Possibile che non riuscisse a pensare ad altro in quell’istante?
«A quanto pare devo avere qualche problema» sussurrò la maga «perché è già la seconda volta in pochi giorni che vengo braccata da un lupo».
Elsa si ridestò come liberata da un incantesimo e pensò:
“Forse devo avere dei problemi pure io, perché e la terza  volta che ti sto troppo vicina e mi sento strana. Forse sono pazza. Perché quando sono con te mi sento così?”. Animata quasi da un desiderio di vendetta, si ritrasformò in umana e disse sottovoce, all’orecchio della cercatrice:
«Ti è andata bene, almeno io non ti ho catturata per mangiarti». E si rialzò in piedi sghignazzando, notando la faccia paonazza di Sefora.
La maga si alzò ancora rossa in viso e facendo come se nulla fosse successo, propose di tornare in città a fare un giro, e magari un po’ di shopping.

 

 
Tornate in città, si fermarono allo stesso bar in cui avevano fatto colazione la mattina precedente, il bar Sunflower.
Elsa avrebbe voluto portarla a fare un giro al Gattacicova, il bar delle creature magiche, ma pensò fosse meglio aspettare prima di introdurla in un ambiente così… particolare.
Sedettero a un tavolino accanto alla vetrata e ordinarono una coppa gelato per quattro persone, lasciando interdetto il cameriere.
«Siete sicure di volere proprio quello? È una coppa troppo grande per voi due».
«Sì» assicurò Elsa «e le palline devono essere di questi gusti: menta, limone, caffè e… ehm… come le prendiamo le altre due?».
«Facciamo cioccolato fondente e pistacchio» disse Sefora.
«Volete qualcosa sopra? Cioccolato, nocciole...» chiese il giovane cameriere.
Le due si guardarono negli occhi e Sefora parlò di nuovo:
«Sì, se hai dello sciroppo di mirtilli mettici quello, sennò va bene del cioccolato bianco».
«Non c’è problema, ho i mirtilli. Vi porto subito la coppa gelato».
Quando l’ebbe portata, le due ragazze si misero a mangiare di gusto.
I licantropi sono molto spesso pozzi senza fondo, ma neanche i cercatori scherzano, infatti, Sefora era parecchio in vantaggio su Elsa, e minacciava di mangiarle tutta la pallina di cioccolato fondente.
«Hey» si lamentò scherzosamente la licantropa «Non finirmi tutta la cioccolata!».
«Se non ti muovi non ti resterà niente, nemmeno il limone!» e mangiò una grossa cucchiaiata.
Svuotarono completamente la coppa in pochi minuti, lasciando il barista e qualche cliente impiccione non poco perplessi.
Dopo la breve pausa, decisero di passeggiare per le vie commerciali, guardando le vetrine e commentando la merce. Durante uno di questi scambi di opinioni, Elsa chiese a Sefora:
«Ma tu hai un libro degli incantesimi, oppure devi aspettare di avere diciannove anni?».
«Ce l’ho già. Tutti i cercatori ricevono il loro primo manuale a dodici anni, e qualche pozione a quindici. L’armatura a sedici».
«Wow, voi siete più liberi di noi su queste cose, ma è perché dovete fare pratica, giusto?».
«Sì, esatto. Voi potete trasformarvi, noi possiamo usare qualche incantesimo» disse Sefora. Poi, dopo qualche secondo di riflessione disse:
«Un giorno ti farò vedere il mio libro degli incantesimi».
Elsa mostrò tutti i suoi denti bianchissimi in un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
«Davvero? Mi piacerebbe tantissimo!».
«Certo!» confermò l’altra «Magari qualche giorno potresti venire a casa mia, così te lo mostrerei con calma».
Elsa accettò contentissima, perché nutriva una profonda curiosità per tutto ciò che riguardasse il mondo magico, e perché non aveva mai visto un libro degli incantesimi di un cercatore.
Continuando il giro, si accorse che qualcuno, o meglio, qualcosa, le stava seguendo. Percepì un movimento con la coda dell’occhio, e fingendo di dare un’occhiata distratta in giro, si voltò e vide un grosso ratto nero che le fissava da dietro un cassonetto.
«Sefora» disse a bassa voce avvicinandosi al suo orecchio «Non voglio allarmarti, ma c’è un ratto che ci segue da un po’».
Per non dare nell’occhio e non farsi beccare dal roditore, continuarono a camminare e gesticolare con naturalezza.
«Un ratto? E in pieno giorno?».
«Sì. Credo sia un animale-spia».
Un animale-spia, detto anche oculus sequi, è una creatura vivente che con la magia viene trasformata in tutto o in parte, e il cui scopo è cercare e seguire un soggetto.
«Cosa vuoi fare?» chiese Sefora preoccupata.
«Lo dobbiamo catturare per scoprire chi l’ha mandato» disse risoluta la licantropa.
«Bene, allora facciamoci seguire fino in periferia e agguantiamolo quando nessuno può vederci».

 

 
Una volta che si furono allontanate dal centro, proseguirono verso la zona industriale e si fermarono in un quartiere vecchio e mal messo, con la brutta fama di ospitare spacciatori e vagabondi.
Per le strade non si incontrava anima viva, se non qualche cane pulcioso e affamato.
Il ratto le seguiva rasentando i muri e nascondendosi all’ombra degli edifici.
«Cosa facciamo adesso?» chiese Sefora sottovoce.
«Entriamo in quel vicolo buio».
Svoltarono a destra infilandosi tra due edifici dai muri crepati e dall’intonaco cadente. Era un vicolo cieco pieno di spazzatura e bidoni strapieni.
Elsa si domandò come potesse esistere un luogo del genere in una cittadina bella come Villanova.
Camminarono ancora qualche metro, assicurandosi che il ratto le seguisse, poi, Sefora creò una barriera d’energia, bloccando l’unica via di fuga all’ oculus sequi.
Questo, appena se ne accorse, divenne matto: tentava di arrampicarcisi sopra per uscire, scivolando sempre a terra.
Quando la sua mente semplice e primitiva si rese conto di essere in trappola, si trasformò in un ratto lungo un metro, con artigli acuminati, occhi rosso sangue e denti neri.
Soffiava come un gatto per spaventare le ragazze, senza però riuscirci: sia per un licantropo che per un mago, un oculus sequi non è un problema.
«Ci penso io» disse Elsa.
Con una mossa fulminea lo prese per la coda, sbattendolo poi per terra. Lui tentò di divincolarsi e di morderla, ma lei gli distrusse la mascella con un pugno e gli spezzò la spina dorsale con un calcio che lo mandò addosso a una parete, scrostando un po’ di intonaco.
«Ok» fece Sefora assicurandosi che fosse morto «Adesso dobbiamo portarlo a casa mia, lì potrò scomporlo e vedere chi l’ha creato».
“Non sarà facile girare con un ratto gigante per la città, dove abita Sefora, poi!”.
 
 


«Bene, non ci ha viste nessuno»sospirò sollevata la cercatrice «Forza, portiamolo su».
Chiuse la porta di casa alle loro spalle e fece strada ad Elsa su per le scale, accompagnandola in una stanza che i suoi genitori usavano per lo studio della magia e le pratiche varie.
Elsa appoggiò il sacco neo su un tavolo d’acciaio refrattario alla magia, svuotandolo poi del suo contenuto.
«Per fortuna non ti ci vuole niente a occultare un oggetto di queste dimensioni con un incantesimo. Penso che mi sarei vergognata a portarlo in giro per mezza Villanova! Ahahahah!».
«Ahahaha! Sì, la gente ti avrebbe guardata male!».
Se la risero di gusto per qualche attimo, poi si misero ad esaminare il corpo dell’oculus sequi.
«Sai» disse Elsa «Ho letto di questi cosi sul mio bestiario. Ce ne sono di tanti tipi, ma il più comune in assoluto è il ratto. Si possono uccidere normalmente, come ho fatto io, altrimenti si può infilzarli con dell’alluminio: si squagliano come il magno capite di questa mattina».
Il mostriciattolo era fermo immobile in una posa innaturale e del sangue gli usciva dalla bocca dai denti rotti.
Sefora si infilò i suoi guanti di piombo, che isolano la magia e prevengono la contaminazione dagli incantesimi esterni.
Elsa stette a guardare, decisa a toccare di nuovo il ratto a mani nude solo in caso di necessità.
«Allora» cominciò Sefora «direi di cominciare scomponendo l’oculus sequi con l’alluminio».
Prese degli spilloni di questo materiale da uno dei cassetti che ricoprivano tutta la parete alle sue spalle. Ne infilzò una decina nel corpo dell’animale, finché questo non si squagliò in sangue, due pietre e un ratto ferito ma vivo.
Il sangue defluì attraverso delle scanalature apposite sui bordi del tavolo, in un tubo di rame che lo privò di ogni qualità magica, se ne avesse avute ancora, e portandolo fino alle fogne.
Sefora prese in mano la povera bestiola, curandola con qualche incantesimo e mettendola a riposare in una scatola di cartone.
Prese le due pietre e le ripulì con dell’acqua.
Una era una lapidem dux, l’altra un piccolo smeraldo, grande quanto un chicco di riso.
«Quello che l’ha creato è bravo» sussurrò Elsa.
«Sì, ha dotato il roditore di una pietra guida per trovarci sempre e di uno smeraldo per orientarsi meglio».
«Uno smeraldo per orientarsi?» chiese Elsa, che in fatto di pietre non era ferrata come la cercatrice.
«Sì. Questa gemma è detta anche “pietra dei marinai”, perché si dice li guidi nell’oceano. Inglobando anche questa nell’incantesimo, lo si è reso più potente, e  il ratto non ci avrebbe mai perse di vista».
«Chi pensi che l’abbia fatto?».
«O un cercatore, ma credo sia da escludere, oppure qualcuno che vuole tenerci d’occhio».
“Vuoi vedere che…”
«Potrebbe essere stato il lupo mannaro che voleva ucciderti? Intendo, potrebbe aver commissionato il lavoro a un vampiro» propose Elsa.
Vampiri e mannari fanno sempre comunella e combattono assieme contro i licantropi e i cercatori. Negli ultimi venti o trent’anni gli scontri si erano un po’ affievoliti, ma nei secoli passati, le guerre tra loro erano devastanti e sanguinose, arrivando a condizionare anche i conflitti tra umani.
Sefora si tolse i guanti di piombo e li ripulì per bene, chiudendosi nei suoi pensieri. Quando ebbe finito, disse ad Elsa:
«Sì, potrebbe essere stato un vampiro, perché a parte i maghi, solo loro possono fare certe magie».
“Forse il mannaro vuole vendicarsi… cazzo, dobbiamo parlarne con qualcuno perché la faccenda è seria, ma così finiremmo nei casini”.
«Senti» disse la licantropa «A questo punto dobbiamo per forza parlarne con qualcuno. Potremmo dirlo domani al maestro Chan, lui ci può consigliare».
«Sì, buona idea».
La cercatrice prese una grossa bottiglia con scritto “contra odorem de sanguine”, bagnò un panno con il liquido bluastro e lo passò sul tavolo, sui guanti, sulle pietre e su qualunque cosa avesse toccato, annullando l’odore di sangue,che per lei non era forte, ma che Elsa sentiva fin troppo bene. Poi disse all’altra:
«Visto che siamo qui, che ne dici se ti faccio vedere il mio libro degli incantesimi?».
Alla licantropa si illuminò lo sguardo:
«Davvero? Sì, mi piacerebbe tantissimo vederlo!».
Attraversarono il corridoio e raggiunsero la camera da letto di Sefora. Era una stanza abbastanza grande, con un letto a una piazza e mezza, una libreria piena zeppa di volumi magici occultati con false copertine, una scrivania e una finestra luminosa, che dava sul giardino interno. La sua casa, infatti, faceva parte di un gruppo di abitazioni del centro, disposte a quadrato: l’ingresso portava direttamente al marciapiede e alla strada, ma la porta di servizio si apriva su una corte in comune con altra famiglie.
La casa della cercatrice non era molto grande e si espandeva su tre piani: pianterreno con salotto, cucina e un bagno; primo piano con camere da letto, un altro bagno e la stanza della magia; soffitta-mansarda usata come ripostiglio.
Aveva arredi moderni ed eleganti, spazi il più possibile aperti e ariosi ed era molto pulita. Non che i licantropi abbiano case sporche, ma i maghi tendono a tenere le loro abitazioni eccessivamente linde, grazie agli incantesimi che risparmiano loro una gran fatica.
La stanza di Sefora portava già il suo odore nonostante fosse arrivata da pochi giorni, ma solo Elsa lo poteva sentire. Il suo profumo, o meglio, il suo odore, era delicato e leggero, sapeva di primavera.
La cercatrice prese un libro dalla libreria. Portava il titolo “I promessi sposi”. Appena lo toccò, cambiò forma: la copertina si fece rigida e marrone, le pagine più spesse e si materializzò un lucchetto sul davanti, proprio al centro della copertina; una scritta dorata si impresse in alto, sopra la piccola serratura:
 
Mi apro a chi mi possiede, servo fedele della mia padrona.
Non tentare di violarmi, straniero, perché per te non ne vale la pena.
 
Sefora sfiorò il lucchetto in ottone e il libro si aprì da solo, sfogliandosi fino a metà, su due pagine bianche.
Elsa guardava con occhi sbarrati dallo stupore. Sapeva che molti maghi hanno libri così, ma non da ragazzi!
«La tua famiglia è ricca da quanto ho capito».
«I miei genitori lavoravano per una nota azienda, poi hanno venduto le loro azioni e adesso lavorano più che altro per non attirare l’attenzione, ma come lo sai?».
«Beh, non sarò un’esperta di artefatti magici, ma hai una stanza apposita per la magia, una casa in centro, un’armatura in piombo e pelle di drago e un libro semi-cosciente. È chiaro che stai benissimo in fatto di soldi!» spiegò sorridendo.
«Nemmeno tu sei tanto povera, se puoi permetterti una divisa in tessuto magico che deve essere rifatta ogni mese».
«Infatti, ma la ricchezza della mia famiglia sta più che altro in denaro magico, che tra gli umani non ha valore. Comunque quasi tutte le creature magiche sono ricche» disse Elsa «Come hai chiamato il tuo libro? So che molti maghi gli danno un nome proprio».
«Il mio lo chiamo solo libro, perché non so ancora che nome dargli».
«Bello, davvero interessante. Un giorni ti farò vedere il mio bestiario. Non è come il tuo manuale magico, ma non è niente male».
«Certo, mi piacerebbe molto darci un’occhiata» disse rimettendo a posto il volume magico.
«Adesso però abbiamo un problema» disse Elsa serissima «C’è qualcuno che ci sta osservando».




Angolo dell'autrice:

Bene, spero che il capitolo sia piaciuto:)
Vorrei scusarmi per il ritardo nell'aggiornamento della storia ma ho davvero un sacco da studiare in queste settimane e non riesco a pensare alla scrittura quanto vorrei. Il prossimo capitolo vedò di non postarlo in ritardo:)
Per finire, le recensioni e le critiche sono sempre ben accette, quindi sentitevi liberi di dirmi cosa ne pensate.

Oculus sequi= occhio inseguitore;
Contra odorem de sanguine= contro l'odore del sangue;
Lapidem dux= pietra guida, pietra che conduce. La traduzione di tutte e tre non è perfetta ma ci si avvicina:)


Per chi non lo sapesse, un bestiario è un libro (piuttosto comune nel medioevo) in cui sono descritte e rappresentate creature reali e molte bestie mitologiche, quali sirene, draghi, fate, mostri e così via. Nel bestiario di Elsa sono inserite delle creature che non penso esistano veramente, come l'oculus sequi e il magno capite.

 

P.s: ho cambiato il nickname ma sono sempre la stessa ;)

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Capitolo 6
*** Le bugie (e i segreti) hanno le gambe corte ***


Sefora trasalì.
«In che senso qualcuno ci sta osservando?» chiese in un sussurro e immobile come una statua.
«Nel senso che tuo papà e tua mamma sono entrati in casa, hanno sentito che parlavamo e sono venuti a dare un’occhiata, arrivando nel momento in cui hai messo via il libro» spiegò Elsa tranquillissima «Vero?» chiese a voce più alta.
La porta si aprì ed entrarono i genitori della cercatrice.
«Certo che a voi licantropi non sfugge nulla» disse Lara, la madre «Ti sei accorta di noi appena abbiamo messo piede in casa».
«Stupefacente» fece il padre «Noi maghi non abbiamo sensi così sviluppati».
Anche Sefora era stupita. Quando si fu ripresa dall’attimo di smarrimento, la presentò ai genitori:
«Mamma, papa, lei è Elsa, la licantropa con cui mi alleno».
«Felice di conoscervi» disse lei cordialmente, stringendo al mano a entrambi.
«Io sono Matteo» fece l’uomo.
«Io invece Lara, ma credo che tu mi abbia notata all’estrazione dei nomi, visto che faccio squadra con tua mamma».
«Sì, infatti, insieme a suo fratello Guido» disse con naturalezza.
Lara restò interdetta:
«Come fai a sapere che è mio fratello?».
«Oh, beh… eravate seduti vicini, e per quanto siate diversi fisicamente, avete un’aura simile. Non che tutti i parenti abbiano un’aura che si somigli, anzi, ma nel vostro caso è così. In più eravate molto tranquilli quando parlavate e vi comportavate con familiarità» spiegò. Poi, voltandosi verso Sefora:
«Hai capito cosa intendevo quando ti ho detto che so cose che non dovrei sapere?».
La giovane cercatrice ridacchiò, e Matteo disse, rivolgendosi ad Elsa:
«Deve procurarti qualche problema con gli umani l’avere dei sensi così fini».
«Sì, ma posso sempre usare la scusa “conosco gente pettegola e impicciona”» rispose sorridendo «E con gli umani funziona sempre».
 

 
Dopo qualche minuto di chiacchierata, i genitori uscirono dalla stanza, lasciando di nuovo sole le ragazze.
Elsa li sentì scendere al piano di sotto e camminare in salotto.
«Elsa, ci siamo dimenticate il ratto nella stanza della magia! Se lo trovano dovremo spiegare tutta la faccenda!».
“Cazzo, è vero! Ce ne siamo dimenticate!”.
«Stai tranquilla. Dal salotto si vede bene chi si dirige da qui alla stanza magica, visto che il corridoio è aperto e si affaccia sul piano di sotto, ma posso riuscire a non farmi beccare».
Sefora non si chiese nemmeno come facesse a sapere dove erano i suoi genitori, ormai sapeva il “trucco”.
«Come vorresti fare? Il corrimano che fa da parete tra il corridoio e il vuoto non è pieno, ti vedranno di sicuro» obiettò la cercatrice.
«Dovrai aiutarmi con la magia. Cerca qualche incantesimo sul tuo manuale».
Sefora prese il libro che si trasformò e si aprì al suo tocco, sfogliandosi fino a metà sulle due pagine bianche. Con il dito indice scrisse queste parole:
 
incantesimi dell’invisibilità
 
la frase si impresse sul foglio come se fosse stata d’inchiostro, poi il libro andò da solo a pagina 107, dove in bella grafia era riportato un incantesimo:
 
Magia semplice dell’invisibilità attuata tramite copertura
Prendere una coperta o degli indumenti o della polvere o dell’acqua o qualsivoglia oggetto in grado di coprire un corpo e pronunciare le seguenti parole:
 
ater et artus mei caro mea, et lumen, et visu penetrare

 
L’incantesimo dura due minuti e tre quarti se su un tessuto, un minuto e un decimo se su polveri o liquidi.
 

«Beh, è un incantesimo semplice. Ti bastano due minuti e quarantacinque secondi?» chiese Sefora.
«Sì, bastano e avanzano».
«Bene, allora vado avanti».
La cercatrice prese una coperta dall’armadio e pronunciò le parole magiche. Quando la licantropa se la avvolse intorno, scomparve completamente.
«Adesso vai, ma stai attenta!».
«Ok!».
Elsa uscì silenziosamente dalla camera da letto, attraversando il corridoio. Al di là del corrimano in legno, vide i due genitori chiacchierare tranquillamente rivolti l’uno verso l’altra. Se non avesse avuto la coperta, l’avrebbero vista facilmente.
Camminò fino all’ultima porta del corridoio, aprendola senza far rumore. Una volta dentro, i suoi occhi si abituarono immediatamente all’oscurità, mostrandole tutta la disposizione dei mobili. Per terra c’era lo scatolone con dentro il ratto, il quale dormiva placidamente. Lo prese in mano e nascose la scatola.
Il roditore si svegliò ma restò buono.
“Cavolo, mi sembra di essere Harry Potter con questo coso addosso” pensò tra sé e sé.
Uscì e si diresse nuovamente nella stanza di Sefora, entrando dalla porta aperta senza essere vista da lei.
La cercatrice fissava la porta torturandosi le mani e passandosi le dita nei capelli lisci e castano chiaro, sistemando il ciuffo anche se era già a posto.
Elsa avrebbe voluto stare a guardarla un altro po’, anche se non capiva bene il perché, ma preferì mostrarsi.
«Eccomi, sono tornata» sossurrò liberandosi della coperta.
«Bene. Non ti ha sentito nessuno, vero?».
«No, nessuno. È filato tutto liscio. Dove lo mettiamo adesso il ratto?».
«Boh… potresti portarlo via e mollarlo sulla strada di casa» propose Sefora piegando e riponendo la coperta.
«Sì, ma come faccio a portarlo via? Non ho una felpa per nasconderlo, e nelle tasche dei miei shorts non ci sta».
«Già. Allora lo terrò io e questa sera lo libererò in strada».
«Buona idea. Domani mattina, chiederemo consiglio al maestro. Nel frattempo, tieni gli occhi aperti» disse Elsa.
Dopo aver sistemato il ratto, Sefora accompagnò la licantropa giù per le scale e fino alla porta di ingresso.
«Ma come?» chiese la madre «La tua amica va già via?».
Le due ragazze si guardarono negli occhi: erano amiche? Si conoscevano da così poco. Annuirono come per dirsi: sì, siamo amiche, dopo quello che ci è successo in questi giorni poi…
«Sì mamma, ha delle cose da fare» tagliò corto Sefora.
«Peccato» si intromise il padre «Torna pure quando vuoi ».
«Certamente, signore ».
«Ahahahah! Chiamami solo Matteo, e dammi del tu!» disse allegramente l’uomo.
«Idem, non c’è bisogno di essere troppo formali» asserì la madre.
«Ok» disse Elsa sorridendo «Vado, ciao!».
«Ciao!» risposero in coro.
Elsa uscì in strada e si diresse verso casa. Guardò l’orologio: le sei di sera.
“Sì dai, ho tempo per andare da Chan e chiedergli consiglio”.
 
 


La casa del maestro Chan era una piccola costruzione degli anni ’60 piazzata in periferia, una strada dietro a quella di Elsa.
Quando ci arrivò davanti, non ebbe nemmeno bisogno di suonare, perché il maestro le aveva già aperto la porta.
«Ciao Elsa, stavo facendo meditazione e ti ho sentita arrivare» disse lui, facendola accomodare in casa.
«Buona sera, shifu. Non vorrei disturbarti durante la meditazione, ma ho una cosa importante da chiederti».
«Dimmi pure» la esortò.
«Beh, ecco… si insomma… guarda qua» e gli mostrò lo smeraldo e la lapidem dux.
Mentre l’uomo studiava gli oggetti, lei gli raccontava tutto l’accaduto fin nei minimi particolari. Avrebbe preferito mantenere il segreto su quella notte di luna piena, ma…
«Qualche notte fa, durante il plenilunio, sono andata a fare un giro nei boschi e ho salvato Sefora da un mannaro giovane. Pensiamo sia stato lui a commissionare l’oculus sequi».
Chan, allibito, restò a guardarla per qualche attimo.
«E come mai un lupo mannaro ce l’avrebbe tanto con voi due? Cosa gli hai fatto di preciso?»le domandò indagatore.
«Mah, nulla… diciamo che… boh… gli ho spezzato una gamba e l’ho accecato a un occhio. Ci tengo a precisare che ha cominciato lui: non si va a uccidere la gente nei boschi. Soprattutto se appartengono alle Desdemoni».
In tre secoli di vita, ne aveva viste di tutti i colori: guerre, conflitti, tradimenti,epidemie, carestie, invenzioni, cospirazioni, persone per bene e delinquenti, allievi che promettevano bene e allievi che erano delle mezze cartucce, ma solo Elsa gli combinava certi problemi.
Come quella volta che un nano voleva convincerla a scambiare i suoi orecchini d’oro e rubini con delle chincaglierie che non valevano nulla.
Lei, che aveva solo sei anni, incazzata nera per la troppa insistenza, gli aveva dato del fascista senza nemmeno sapere cosa significasse. Certo, la maggior parte dei nani è formata da meschini approfittatori, ma urlare una cosa del genere davanti a una riunione di licantropi e nani, non è proprio una buona idea.
Elsa interruppe lo scorrere dei suoi pensieri:
«Per caso stai pensando a quella litigata col mezzo vampiro? Ti si vede dalla faccia».
«No, a quella col nano».
«Ah» rispose lei sorpresa «Avrei giurato che la discussione col mezzo morto ti fosse rimasta più impressa».
«Sì sì, anche quella, ma non cambiamo discorso. Tu non saresti dovuta andare nel bosco. Tu avresti dovuto rimanere a letto. Anche se avessi visto un mannaro saresti dovuta tornare indietro ad avvertire tutti, lasciando Sefora nelle sue mani!» disse duramente il maestro.
Elsa abbassò lo sguardo: le dispiaceva molto aver deluso Chan, non avrebbe voluto essere rimproverata.
«Ma…» continuò lo shifu con tono più dolce «Se avessi seguito le regole alla lettera, Sefora sarebbe morta. Sarebbe stata uccisa da un mannaro in territorio licantropo. Sarebbe stato un disonore enorme per le Desdemoni».
«Maestro, io…». Elsa non riusciva a credere che la sostenesse.
«Hai fatto la cosa giusta. Hai agito con onore, come una vera licantropa!» disse lui con tono solenne.
Elsa era quasi commossa dalle parole del suo maestro, che ammirava e stimava come poche persone al mondo.
«Adesso vai a casa. Provvederò subito ad avvertire Gaspare Albini, così potrà indire una riunione per domattina. Per ora non c’è nessun pericolo, non attaccherà così presto. I tuoi genitori verranno avvertiti da Gaspare, non ti preoccupare».
Elsa si inchinò rispettosamente e porse i suoi saluti a Chan, dirigendosi verso casa.

 

 
Percorse una stretta viuzza, che attraversava e collegava le due vie parallele in cui abitavano lei e il maestro, arrivando a casa sua in un attimo.
Per ora era sola, visto che Damiano era in giro con un cercatore e i suoi genitori erano al lavoro.
Si abbandonò su una poltrona in salotto, rimuginando ancora una volta sul perché i suoi genitori dovessero lavorare.
“Umani,così insignificanti... per quanto siano minuscoli, condizionano la nostra esistenza da sempre. Noi siamo ricchi in denaro magico, che per nostra sfortuna non vale proprio un cazzo per loro. Beh, almeno i miei hanno un buon lavoro al museo di Villanova” pensò.
Sia la madre che il padre, lavoravano come ricercatori per il museo della città, uno dei fiori all’occhiello di Villanova.
Lo stipendio era buono, avevano l’opportunità di scoprire anche degli artefatti e a loro piaceva. Per di più, andavano in giro per l’Italia almeno una volta al mese, per via delle loro ricerche, e così potevano far visita a molti amici e parenti. Già, perché la densità di licantropi è abbastanza bassa, sono tutti sparpagliati in giro: il Veneto, con i suoi cinque clan, è un caso più unico che raro.
La ragazza-lupo si alzò e si diresse in cucina, attraversando l’ampio salotto.
“Che casino. Quando la mamma lo saprà saranno guai seri per me”.
L’orologio segnava già le sette di sera.
“Magari potrei fare qualcosa di buono per rilassarli e calmarli. Se si arrabbiassero troppo, metterebbero tutto a ferro e fuoco nel tentativo di acciuffarmi”.
Così, si apprestò a cucinare una favolosa spaghettata alla carbonara, abbondando con la pancetta.
Nel frattempo rincasò Damiano, che fu subito messo al corrente della situazione.
«Spero che tu non l’abbia insultato come hai fatto con il mezzo vampiro» disse il cugino «Sennò tua mamma si arrabbierà parecchio. Sai come la pensa sugli insulti volgari».
«No, non gli ho detto quasi niente. E comunque, non mi pare che dire “ti ammazzo anche per l’altra metà” a chi è già mezzo morto, sia un insulto volgare» tentò di discolparsi lei.
Lui sospirò e scosse la testa.
«E poi» riprese lei «era stato lui ad attaccar briga, lo sai anche tu».
«Sì sì, è vero. È solo che a volte il tuo senso dell’onore ti induce a fare qualche piccolo guaio. Comunque, penso che tu abbia fatto bene a salvare Sefora: da quello che abbiamo sentito alla riunione, è già da un po’ che i mannari bazzicano qui in giro, e il tuo gesto rende ancor più legittima un’azione di rappresaglia contro di loro. Finalmente si riprende a cacciare i lupi mannari» disse Damiano digrignando i denti.
La perdita dei genitori gli faceva ancora male, e sebbene la nuova famiglia gli avesse dato tutto l’affetto di cui aveva bisogno, il desiderio di vendetta ribolliva ancora dentro di lui.




Angolo dell'autrice:
Eccomi qua! 
A quanto pare, per le due ragazze cominciano i guai e l'avventura;)
Si sa, prima o poi tutti i segreti vengono scoperti.

Chiarimenti:
-Lo smeraldo: ho inserito questa pietra nel racconto perchè una volta veniva considerata una specie di pietra-guida per i marinai, quindi l'ho "riadattata" per l'occasione. L'oculus sequi può seguire le ragazze con la lapidem dux e si orienta con lo smeraldo;
-Villanova: è una cittadina inesistente nella provincia di Vicenza. Ho scelto questo nome perchè è piuttosto comune;
-mantello dell'invisibilità: mi piace Harry Potter quindi ce l'ho messo.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Alla prossima!

Ignis_eye

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Capitolo 7
*** Fare il proprio dovere ***


 
Alle 20:00, precisi come orologi svizzeri, tornarono i genitori.
«E così, sono riuscito a scoprire chi aveva creato il sigillo» disse il padre, parlottando in salotto con la moglie.
«Ma è fantastico! Era da un bel po’ che causava dei problemi» rispose lei.
Entrarono in cucina, dove la tavola era già apparecchiata.
«Allora com’è andata oggi con i vostri amici?» domandò Gioia «Tutto bene, vero? Mi sembrate un po’ giù…».
«Mamma, ma cosa vai a pensare! Ci siamo divertiti, siamo solo un po’ stanchi» la rassicurò Elsa.
«Oh! Ma hai preparato la pasta alla carbonara!» esclamò contento Fulvio.
«Sì, papà» rispose lei cominciando a impiattare.
Del kilo di pasta buttata a cuocere, non ne restò nemmeno un grammo, tanto erano affamati.
Ad un tratto, squillò il telefono. Elsa sbiancò.
“Cazzo… adesso mamma risponde”.
«Buonasera Gaspare» sentì dire dal salotto «Vorrebbe fare un’altra assemblea? Come mai?».
“Adesso resterà muta per qualche secondo, annuendo ogni tanto”.
«Mmm… sì sì…».
“E adesso cominciano i guai per me”.
«Cos’ha fatto mia figlia?! Come non dovrei essere arrabbiata!? Lei non sarebbe dovuta uscire!».
Fulvio la guardò con fare interrogativo.
«Niente papà, stai tranquillo» sussurrò lei.
«No niente!» esclamò la madre dalla stanza accanto, che aveva appena terminato la chiamata «Dai Elsa, racconta a tuo padre cos’hai combinato!».
La ragazza, un po’ titubante, descrisse tutto l’accaduto al genitore, che aveva un’espressione a tratti stupita, a tratti arrabbiata e altre volte divertita.
«Gioia, questa figliola l’abbiamo allevata bene!» concluse il padre. Prese il giornale e andò a leggerlo tranquillamente sul divano, come se nulla fosse successo.
«E tu sapevi tutto, vero?» domandò lei al nipote.
«Beh, sì. Ovviamente non potevo dirti nulla».
«Già» sospirò Gioia un po’ più calma «Voi due siete sempre stati complici, anche da bambini vi coprivate a vicenda».
«Mamma» disse Elsa alzandosi in piedi e avvicinandosi «Mi spiace di darti tanti pensieri, ma se non avessi trasgredito le regole, Sefora sarebbe morta e chissà a quali conseguenze avrebbe portato!».
«Ascolta» cominciò la mamma «Non pensare che mi dispiaccia che tu le abbia salvato la vita, anzi! Sono orgogliosa di te, perché hai battuto un mannaro da sola, durante il plenilunio per di più! Devi comunque capire che sono tua madre e mi preoccupo per te, per questo mi sono arrabbiata: hai rischiato di farti male, se non di morire».
Parlarono ancora un po’, scusandosi reciprocamente, decidendo di andare a riposare perché la mattina seguente, sarebbero dovuti andare tutti nel bosco.

 

 
Elsa salì le scale e si rintanò in camera sua, chiamando Sefora al cellulare, la quale non rispondeva.
“Ho un brutto presentimento…” pensò “la staranno sgridando perché ha trasgredito le regole”.
Non intenzionata ad andare subito a letto, andò davanti alla libreria che ricopriva tutta la parete davanti al letto e scelse un libro, un libro molto particolare.
La copertina in legno e cuoio era un po’ consunta sui bordi, mentre le placche di ottone che rinforzavano gli angoli avevano perso un po’ di lucentezza.
Chiunque lo avesse visto, non avrebbe creduto ai propri occhi: il cuoio nero e il legno scuro si univano e fondevano in una spirale al centro della copertina dalla superficie rugosa e irregolare, culminando in una sfera di ottone che saltava subito all’occhio.
Sul dorso era incisa, sempre in ottone, la scritta “Bestiario”.
Elsa lo aprì, sfogliando velocemente le pagine vecchie ma per nulla intaccate dal tempo. Arrivò nella sezione degli animali artificiali, verso la fine della quale trovò gli oculus sequi.
Il libro proponeva tre pagine su queste creature, descrivendole alla perfezione; indicava addirittura quali esseri magici senzienti fossero i più propensi a crearli: Vampiri, nani e maghi.
“Allora deve essere stato un vampiro. Certo, forse anche un nano, ma i miei sospetti cadono sui succhia-sangue”.
Si svestì e andò a dormire solo con una canotta e dei pantaloncini morbidi. Fece un po’ fatica a prendere sonno, era preoccupata per l’amica, che non aveva risposto neanche alla seconda chiamata.
Decise di lasciarle solo un breve messaggio in cui le diceva di non preoccuparsi delle sgridate dei suoi e che avrebbero sistemato tutto l’indomani mattina.
Si sdraiò sul letto morbido dalle lenzuola candide, addormentandosi non senza rimuginare ancora sul problema.
 
 


Tok Tok Tok

Qualcuno bussava alla porta della sua camera da letto.
«Elsa, sono papà. Alzati e vestiti. Tra mezzora dobbiamo essere al ritrovo».
«Sì… arrivo…» rispose lei ancora un po’ assonnata.
La luce arancione dell’alba entrava già dalla finestra, illuminando il letto a una piazza e mezza.
Lei si alzò, posando i piedi sul parquet e dirigendosi nel suo bagno. Si fece una doccia veloce, si vestì con una canotta nera e un paio di pantaloncini blu e indossò i suoi orecchini con i rubini.
Quando aprì la porta, si ritrovò faccia a faccia con Damiano che usciva dalla propria stanza, già pronto anche lui.
«Allora?» le disse «Pronta?».
«Sì, anzi, no. Prima devo fare colazione, ho fame».
 Così dicendo, si diressero tutti e due in cucina, dove gli adulti stavano già mangiando.
Si sedettero a tavola e consumarono in silenzio il loro pasto: erano nervosi, questa riunione avrebbe portato dei seri cambiamenti.
 
 


«Bene, siamo arrivati in perfetto orario» constatò la madre, quando raggiunsero il cerchio di pietre e macigni.
«Buongiorno a tutti» li accolse Gaspare «Tra qualche minuto, quando saranno arrivati tutti, cominceremo la riunione. Intanto mettetevi comodi».
“Non è che si stia proprio comodi sui sassi” pensò Elsa guardandosi attorno in cerca di Sefora.
La vide dall’altra parte del cerchio, ma non le si avvicinò perché i suoi genitori avevano uno sguardo arrabbiato e lei sembrava mortificata per l’accaduto.
Cominciò l’assemblea.
«Siamo qui questa mattina, per parlare dell’attacco di un lupo mannaro giovane ai danni di Sefora Scida e Elsa Desdemoni. Vorrei invitarle una alla volta a parlare dell’accaduto».
Sefora venne invitata accanto a Gaspare, dando le spalle al macigno più grande di tutti.
«Quella sera, io sono uscita a fare un breve giretto. So che non sarei dovuta andare, ma questa era ritenuta una zona sicura, non pensavo che il pericolo di incontrare un mannaro fosse così alto, e io volevo sola fare due passi per distendere i nervi, così sono andata comunque. Vicino a una radura non lontano da qui, un mannaro mi ha attaccata, ma non so il perché. Se non fosse stato per Elsa, ora non sarei qui».
«Elsa, ora tocca a te» disse Gaspare.
Lei raccontò dello scontro, di essere uscita e tornata a casa di nascosto.
Quando ebbe finito, una voce si alzò in mezzo al pubblico:
«Non sareste dovute andare nel bosco! Avete attirato l’ira dei mannari!».
Sefora abbassò lo sguardo, si sentiva in colpa. A Elsa girarono i coglioni virtuali.
«Ma si può sapere che cosa stai dicendo?! Noi attiriamo l’ira dei mannari nel nostro territorio?!» urlò «E’ già da un pezzo che i mannari girano indisturbati da queste parti! E sai perché? Eh, lo sai?! Perché noi glielo lasciamo fare! Non è giusto!».
Un borbottio si diffuse tra tutti. Il licantropo che aveva parlato, uno che non conosceva bene, riprese:
«Se non fosse andata nel bosco, cosa che è proibita, avremmo potuto sperare in una continuazione della pace!».
«Ma quale pace!» sbraitò Elsa che ormai ci vedeva rosso dalla rabbia «Lo vuoi capire che è da un pezzo che ce la fanno sotto il naso? E poi, se questo fosse davvero un luogo sicuro, non dovrebbe essere proibito andare in giro di notte! Hai capito?! Non dovremmo avere paura in casa nostra!».
Sefora le si avvicinò e le sussurrò:
«Non devi arrabbiarti tanto, non compromettere la tua posizione per me».
«No, devo farlo. Tu non sei nel torto. Devono capirlo tutti».
Prese un respiro profondo e disse ad alta voce:
«Per anni abbiamo creduto a questa tregua, ma per come la penso io, non è mai esistita! Non esiste pace se siamo costretti a fare attenzione nel nostro territorio! I mannari vogliono impossessarsi della nostra terra!» urlò digrignando i denti.
Tutti erano in silenzio, attenti e allo stesso tempo scioccati. Elsa guardò la madre e continuò:
«Se lasciamo che i mannari ci uccidano, ci spiino, ci condizionino, non possiamo definirci licantropi! Se facciamo così, siamo tali quali agli umani, pigri e codardi! Ora ditemi: siete o non siete licantropi?! Volete svegliarvi e cominciare a combattere?! Noi siamo superiori ai mannari, noi non scendiamo a compromessi con loro! Sono loro che devono portarci rispetto e devono stare attenti a non farci arrabbiare!».
Un boato di applausi si levò all’interno del cerchio.
Ancora accaldata dalla sfuriata, guardò di nuovo la madre, che le sorrideva e aveva uno sguardo che comunicava tutto il suo orgoglio.
Gli uomini-lupo battevano i piedi per terra, facendo tremare il terreno; applaudivano, ululavano e urlavano, tanto che anche Gaspare ci mise qualche minuto a calmarli.
«Penso che siamo tutti d’accordo nel non ritenerle responsabili dell’accaduto» sentenziò l’anziano «Adesso abbiamo tutti i motivi necessari a cominciare la vera guerra!».
«Cosa?!» intervenne sempre lo stesso licantropo, che Elsa parve di ricordare si chiamasse Carlo «Non possiamo fare una guerra! Due ragazzine sciocche per un pelo non si fanno ammazzare e noi combattiamo?! Ma siete pazzi?! Non ce la fremo mai, loro sono molti di più!».
Tutti si voltarono di scatto a guardarlo: non esiste che un licantropo si tiri indietro di fronte a una battaglia.
“Che cazzo vuole questo qui? Perché ce l’ha tanto con noi?” pensò Elsa stringendo i pugni.
Le dava molto fastidio che un codardo come quello mettesse becco in discussioni così importanti.
«Ma si può sapere che cazzo hai di sbagliato in quella testa?!» gli domandò ringhiando «Noi licantropi siamo fatti per combattere! La battaglia ci scorre nelle vene mista al sangue!».
«I mannari devono aver saputo della venuta dei cercatori, per questo si sono fatti più attivi! Dobbiamo cacciarli!».
I maghi si alzarono in piedi protestando: loro erano venuti apposta per aiutare a risolvere il problema, non di certo per causarlo. Quelle di Carlo erano tutte cazzate.
«Che cazzo hai detto?! Ripetilo se hai il coraggio!» lo rimbeccò Elsa.
Gioia le si era messa dietro, assieme a Fulvio e Damiano: certe litigate possono diventare pericolose.
I genitori di Sefora  avevano fatto lo stesso, e Gaspare si era messo in mezzo ai due litiganti, cercando di fare da paciere senza però riuscirci.
«Ho detto che non voglio morire per colpa di una stupida che va in giro nei boschi la notte!».
Elsa gli saltò addosso per picchiarlo, e ci sarebbe riuscita se i suoi genitori non l’avessero atterrata in tempo.
Come si permetteva di parlare così di Sefora? La ragazza-lupo si dimenava e guardandolo con occhi di fuoco urlava:
«Non è colpa sua! I mannari c’erano già da prima, lei non ha fatto nulla di male! Se i mannari possono fare i loro comodi nel nostro territorio, anzi, nel mio territorio, è anche per colpa tua! Perché sei un merdoso codardo! Un bastardo fannullone!». Sentiva la vena pulsarle sul collo e sulla tempia.
«Cosa?! Allora ti sfido a duello!».
Tutti gli uomini-lupo, che parteggiavano per la giovane Desdemoni, adesso inveivano coro Carlo, dicendo che aveva torto e che un duello non avrebbe cambiato nulla.
Un combattimento tra licantropi è una cosa seria, sanguinosa e pericolosa, per questo lo si scoraggia il più possibile. Elsa non era tenuta a partecipare, ma con sorpresa di tutti, tranne che della sua famiglia, accettò senza nemmeno pensarci:
«Accetto! Adesso, qui vicino al cerchio!».
Una volta accettata la sfida, non si può ritirarsi, perciò anche l’anziano non poté nulla per fermarli.

 

 
Si spostarono tutti di un centinaio di metri. Durante la strada, Sefora stette accanto ad Elsa, che procedeva a passo sicuro e stringendo i pugno fino ad avere le nocche bianche.
Si misero l’uno di fronte al’altra, mentre il pubblico si arrampicò sugli alberi. Un mago creò una barriera di energia di forma circolare, con raggio di duecento metri, dalla quale nessuno poteva uscire.
«Vi ricordo le regole!» esclamò Gaspare «Sebbene gli scontri debbano essere liberi il più possibile, il consiglio degli anziani ha stabilito che non si può accecare l’avversario ad entrambi gli occhi e che non si può ucciderlo. Iniziate!».
Carlo si avventò su Elsa che lo schivò facilmente, sferrandogli un pugno allo stomaco. Lui la colpì al viso con uno schiaffo; la ragazza indietreggiò di un paio di passi, saltandogli poi sulla schiena.
Lui cadde a terra, ma la afferrò a una gamba e la sbatté contro un macigno, frantumandolo. Si trasformò in un lupo grigiastro, pronto a morderla ma lei fu più veloce e, trasformandosi a sua volta, rotolò su un fianco e lasciò Carlo a bocca asciutta.
Elsa ringhiò, mostrando i denti bianchi e affilati. Sebbene fosse più piccola di lui, non aveva affatto paura.
“Come può chiamarsi licantropo uno scarto come questo!?”.
Ruggì e lo attaccò, mordendolo al collo. Lui guaì, ma riuscì a liberarsi dalla presa, scaraventando la lupa a una decina di metri di distanza.

 

 
Dall’alto, la famiglia della ragazza osservava nervosamente: i genitori stringevano i rami fino a scortecciarli, mentre il cugino tifava a gran voce per lei.
Sefora non riusciva a pensare ad altri se non ad Elsa. Non avrebbe sopportato che le accadesse qualcosa di male: la ragazza-lupo l’aveva salvata, era sempre stata gentile con lei, e poi… boh, non sapeva spiegarselo nemmeno lei. La faceva sentire felice, tranquilla, al sicuro.
Delle urla di esultanza la ridestarono dai suoi pensieri: Elsa si era subito rialzata ed era già tornata all’attacco.
Con una zampata ferì Carlo alla spalla, facendo uscire del sangue.
Lui la morse al collo con una mossa fulminea, ma Elsa infierì di nuovo sulla stessa ferita, liberandosi in un attimo.
Ringhiavano tutti e due, ma la più incazzata era lei: aveva gli occhi iniettati di sangue e non vedeva l’ora di farla pagare a quel bastardo.




Angolo dell'autrice:
Eccomi con un capitolo un pò movimentato! Spero vi sia piaciuto!
Vi lascio con un avviso: visto che comincerò a lavorare appena finita la scuola, avrò pochissimo tempo da dedicare alla scrittura, perciò aggiornerò la storia ogni dieci giorni anzichè sette.
Mi dispiace di far aspettare di più chi segue la storia o l'ha inserita tra i preferiti o chi semplicemente la legge in silenzio, ma preferisco allungare i tempi di aggiornamento piuttosto che dover scrivere frettolosamente e far scendere di qualità la storia.
Alla prossima, 

Ignis_eye

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Capitolo 8
*** I guai non vengono mai da soli ***


«Fatti sotto, Bastardo!» ringhiò con voce gutturale.
Carlo abbaiò e le balzò addosso, facendoli rotolare entrambi per qualche metro. Elsa era stata atterrata, ma con un colpo di reni si trovò sopra di lui e con un zampata gli graffiò una guancia.
Lui la calciò via, ma la ragazza si trasformò nella forma intermedia, detta bipes.
Aveva la testa e il corpo irsuto e muscoloso come quelli di un lupo ma camminava sulle zampe posteriori; quelle anteriori, avevano la forma di braccia e mani con artigli affilati. Le spalle erano molto più larghe di vita e fianchi e questo la rendeva più lenta nella corsa ma agevolava i combattimenti.
Era alta più di prima,all’incirca come un mannaro, ma solo perché in piedi: se si fosse rimessa a quattro zampe, le dimensioni sarebbero state le stesse.
Ringhiò così forte che tutti i maghi presenti si spaventarono, non essendoci abituati.
“Adesso te la faccio pagare, traditore!”pensò digrignando i denti.
Lo afferrò per la coda, sbattendolo sul terreno un paio di volte e scagliandolo contro la barriera di energia.
Carlo si riprese in fretta dallo stordimento e mutò anche lui in bipes.
Era alto almeno quaranta centimetri più di lei.
«Questi boschi sono delle Desdemoni, ma noi permettiamo a tutti di usarli, anche a te! Dovresti difenderli anche tu, traditore!».
Lui abbaiò e le saltò addosso. Si graffiarono parecchie volte, fino a quando lui morse Elsa ad un braccio; la ragazza sentì i denti penetrarle la carne, ma prima che potesse spezzarglielo, lei lo prese a pugni sul naso, facendolo staccare e continuando a colpirlo sul torace e sulle gambe.
Era ferita, ma non sentiva il dolore da tanto che era arrabbiata. Voleva morderlo,ma lui fu più veloce e con un calcio al fianco la scaraventò addosso a un albero.
A Elsa mancò il fiato per un attimo, si sentiva accaldata e le vene sul collo le pulsavano, ma non si arrese: si rialzò in piedi e con uno scatto fulmineo si abbassò schivando una zampata e lo morse al braccio destro, sentendo le ossa spezzarsi come ramoscelli.
Il sangue le si riversò in bocca, lasciandole un gusto ferroso sulla lingua. Il suo istinto bestiale divenne ancora più forte, quasi sovrastava il suo lato razionale.
Voleva fargli male, sfogare la sua rabbia, bramava vederlo implorare pietà, desiderava affondare ancora di più i denti nella sua carne e strapparla a brandelli.
Carlo ululò di dolore, le graffiò il muso con gli artigli e poi la staccò con un pugno, facendole sanguinare il naso.
“E’ ora di farla finita!” pensò Elsa ricolma di rabbia e odio.
Fece un salto di alcuni metri, ripiombandogli addosso e atterrandolo. Lo riempì di pugni, calci e morsi finché Carlo non si arrese guaendo.
Lei ruggì e ringhiò come tutti gli altri licantropi: era ferita, ma era viva.
Gli si avvicinò all’orecchio e sussurrò, mostrando le zanne affilate:
«Non infierisco oltre perché sei un licantropo ma se fossi stato un mannaro, a quest’ora non respireresti più. D’ora in poi, quando ci saranno le assemblee, non voglio sentirti fiatare, capito?!».
Lui guaì affermativamente e tornò in forma umana, restando però a terra. Era ferito gravemente e dal braccio rotto uscivano pezzi d’osso. I suoi parenti scesero dagli alberi e si scusarono in nome suo, poi lo portarono via.
Anche Elsa si ritrasformò: era piena di graffi, si teneva un fianco per il dolore e aveva una ferita sulla guancia sinistra che perdeva sangue e le macchiava la canotta; zoppicava un po’, le sua braccia erano ricoperte di contusioni e le labbra sanguinavano.
«Elsa!» gridò la madre andandole incontro «Come stai?! Ti fa male?».
«Mamma, stai tranquilla, sto bene. Un giorno di riposo e domani sarò come nuova».
Era stanca e si sedette su un sasso, attorno il quale si accerchiarono la sua famiglia, i nonni e gli zii: tutti le facevano i complimenti per lo scontro, si era battuta con onore e aveva vinto. Era una vera Desdemoni.
Il suo maestro era forse il più orgoglioso di tutti, perché l’aveva allenata per anni e si vedevano i frutti del duro lavoro.
«Elsa?» una voce dolce e timida si fece largo tra le esclamazioni degli uomini-lupo.
«Sefora!». Benché stanca e barcollante, la licantropa si alzò e si diresse verso di lei, attraversando il muro di parenti. Si teneva il fianco sinistro con una mano, forse aveva una costola rotta.
Accanto a Sefora, c’erano i suoi genitori, che la ringraziarono di cuore per aver salvato la loro unica figlia:
«Grazie, grazie davvero. Se tu non ti fossi battuta col mannaro, adesso saremmo in lutto. E grazie anche per averla difesa davanti a Carlo».
«Non c’è nessun problema: questi sono i miei boschi, è mio dovere mantenerli sicuri» rispose Elsa abbozzando un sorriso. Adesso cominciava a sentire davvero male, faceva fatica anche a parlare.
«Ascoltate tutti!» intervenne Gaspare «C’è qualcuno che può curare le ferite della vincitrice?».
Un mago si fece avanti, proponendosi di seguirla a casa sua e risistemarla, ottenendo l’approvazione dei genitori di lei.

 
 

Per tutto il tragitto nel bosco fino al suo confine, Elsa, testarda com’era, non volle saperne di essere trasportata da qualcuno, voleva camminare con le sue gambe. Accettò solo che Sefora le tamponasse le ferite e che la aiutasse a salire in macchina.
Una volta a casa, il cercatore medico, un certo Valerio, le curò le ferite con delle pozioni e delle fasciature particolari.
Due costole sinistre erano rotte, ma sarebbero guarite senza lasciare traccia, mentre un graffio profondo sul viso, mise in difficoltà il mago:
«Questa ferita è così profonda che ti si vede l’osso dello zigomo. Guarirà certamente, ma resterà una cicatrice perché ti ha ferita con gli artigli e ti ha infettato con la saliva tentando di morderti».
«Si vedrà molto?» chiese Elsa un po’ preoccupata.
«No, sono riuscito a disinfettarla abbastanza con le mie pozioni: sarà lunga uno o due centimetri e spessa qualche millimetro. Considerando che hai la pelle chiara, direi che non si noterà molto. Per di più, i lembi di pelle sono regolari, sembrerà quasi un graffio».
«Grazie» disse lei sollevata.
Lui l’accompagnò giù in salotto dove attendevano tutti. Spiegò che doveva riposare un giorno o due, poi si congedò.
Suonarono alla porta, la madre andò ad aprire: era Sefora.
«Salve» salutò timidamente «E’ possibile parlare con Elsa?».
«Certo. È sul divano, vai pure da lei».
Gioia fece entrare la cercatrice e dall’ingresso  la portò in salotto, che era adiacente.
Il divano in pelle bianca dava le spalle alla porta d’entrata, dalla quale distava un paio di metri, ed era rivolto verso il mobile che sorreggeva il televisore. Ai lati del divano, due poltrone dello stesso colore e al centro un tavolino basso.
Elsa tentò di girarsi, ma le costole doloranti non le permisero di farlo.
«Non sforzarti» l’ammonì il padre «Devi stare ferma il più possibile».
«Valerio ha detto che non sono messa così male» protestò lei.
«Ad ogni modo» si intromise Sefora sedendosi accanto a lei «Se stai buona guarirai prima».
«Già. Almeno ascolta lei!» esordì la madre dirigendosi in cucina «Sei una testona, fai sempre a modo tuo».
«Chissà da chi ho preso…» sussurrò ghignando.
«Guarda che ti sento!».
Tutti i presenti risero sommessamente: quando madre e figlia litigavano era quasi sempre uno spasso, perché in realtà si punzecchiavano e basta, senza alcuna cattiveria.
«Comunque, sono passata a vedere come stavi perché ero un po’ preoccupata. Valerio fa il medico di professione ed è uno dei migliori, ma per sicurezza sono venuta lo stesso a vedere come te la passavi».
«Grazie, sei stata molto gentile».
Il telefono fisso squillò e Fulvio rispose.
«Cosa?! Come è possibile?! Quello doveva essere un nascondiglio sicuro!» aveva urlato tutto a un tratto «I cercatori sono già stati avvisati, vero? Si, te la passo». Si staccò dalla cornetta e la porse a Gioia:
«Pronto. Come diavolo è potuto accadere?! Sì, arriviamo subito!».
I tre giovani si guardavano straniti: come mai tanta agitazine e preoccupazione?
I due genitori si voltarono verso di loro. Erano ansiosi e angosciati, si capiva da come il padre stringeva i pugni e da come la madre si passava le mani nei lunghi capelli castano chiaro.
«Ragazzi» prese parola Gioia «dobbiamo dirvi una cosa importante».
Guardò il marito e deglutendo disse:
«Il Necronomicon…. è stato rubato».







Angolo dell'autrice:
Buongiorno!
Sono riuscita ad aggiornare con un giorno di anticipo rispetto ai dieci che avevo annunciato:)
Questo capitolo è un pò più corto rispetto agli altri già scritti, ma il prossimo sarà più lungo, promesso XD
Concludendo, vi lascio con la notizia bomba del furto del Necronomicon: chi l'ha rubato? Perchè? Boh, se volete scoprirlo, dovrete aspettare i prossimi capitoli!
Saludos amigos!

Ignis_eye

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Capitolo 9
*** Gli opposti di una calamita ***


Sefora non poteva credere alle sue orecchie.
«Il Necronomicon è stato rubato?! Non è possibile!».
Sperava fosse solo un brutto sogno o uno scherzo di pessimo gusto, tutto ma non la verità. I suoi occhi verdi non avevano mai mostrato tanto smarrimento in tutta la sua vita.
I cercatori esistevano per proteggerlo, come avevano potuto permettere che venisse rubato?!
«Ci dispiace, ma è la verità. Ce l’ha appena comunicato tuo padre» disse Fulvio.
I due genitori si guardarono, poi presero le chiavi della macchina e spiegarono ai ragazzi che era stata indetta un’assemblea a casa di un licantropo e che solo i maggiorenni potevano assistervi.
Ai reclami di tutti e tre, dissero che le leggi stabiliscono così ma che avrebbero riferito tutto al loro ritorno.
Una volta che la macchina si avviò e si allontanò, i ragazzi si misero a tramare qualcosa.
«Non possono escluderci così!» sbottò Elsa «Queste leggi di merda mi fanno proprio incazzare!».
«Non sei l’unica, cugina».
«Ci sarà qualcosa che possiamo fare, non siamo mica dei semplici umani!» disse Sefora, preoccupata e ansiosa come non mai.
«Beh, in effetti qualcosa si potrebbe tentare…» propose Damiano.
«Cosa?» domandò Elsa sporgendosi verso di lui e facendosi male alle costole.
«Te lo spiego, ma stai ferma! Non capisci niente, continui a girati di qui e girarti di là. Resta immobile» le ordinò il cugino, esasperato dalla sua testardaggine.
«Chi pensi di essere, la controparte maschile di mia mamma? Per mia fortuna, Gioia è unica e inimitabile. Sai che palle averne due che girano per casa?».
Lui stava per ribattere, ma Sefora lo fermò e lo convinse a parlare del piano.
«Ecco, la faccenda non è poi così complessa. Lo zio mi ha regalato un parva aurem per il mio scorso compleanno. È un oggetto che consente di spiare le conversazioni degli altri. Potrà sembrare poco onesto ma nel commercio è utile, soprattutto se i concorrenti sono i nani».
“Nani fascisti” pensò Elsa sorridendo. Ripensare a quell’episodio la metteva sempre di buonumore.
«Dovete sapere» riprese lui «Che io, beh… diciamo che lo so usare bene».
«Guarda che a noi puoi dirlo che lo usi a scuola per ascoltare le lezioni nelle altre classi quando hai verifica. Non facciamo mica le spie, giusto?» chiese rivolgendosi a Sefora.
«Esatto» asserì lei «Se abbiamo mantenuto segreta la rissa con il mannaro, non parleremo nemmeno di questo».
«Mi conosci troppo bene. Durante le prove di algebra ascolto le lezioni delle classi in cui la stanno spiegando così riesco a prendere la sufficienza» confessò «Ma voi state zitte, intesi? Già la zia ha sgridato un sacco lo zio, non voglio che gli urli dietro di nuovo. Io non potrei nemmeno averlo un parva aurem».
Le due ragazze ripromisero di mantenere il segreto.
“Anche a me il papà ha fatto dei regali speciali senza dirlo alla mamma. Nemmeno a lui piacciono certe leggi riguardo al possesso degli artefatti”.
Le pozioni erano regali suoi, così come qualche altro piccolo oggetto custodito gelosamente.
«Non è molto semplice usarlo ma io ho fatto molta pratica, quindi non sarà un problema. Bisogna solo posizionare uno dei grani mobili dove stanno parlando gli altri e ascoltare comodamente seduti qui».
Sefora aveva letto di questo piccolo oggetto nel suo libro magico: era un auricolare di metallo, simile a quelli attuali. Ogni parva aurem è dotato di un centinaio di sfere rotonde grandi quanto chicchi di grano, le quali si nascondono vicino alle persone da spiare; tali grani mobili catturano il suono e lo trasmettono all’auricolare. Il libro magico riportava che la qualità audio è altissima e si possono origliare anche discussioni attraverso vetri e tendaggi.
In un attimo, Damiano era andato e tornato da camera sua, portando con se una scatola di legno piena di graffi.
L’aprì lasciando vedere alle due ragazze quattro auricolari senza filo (due normali e due con il supporto per l’orecchio) e una serie di sferette ben sistemati all’interno.
«Il problema arriva ora. Il giorno prima dell’inizio delle lezioni dell’anno scorso, ho nascosto una sfera in ogni aula della scuola, così da poter ascoltare quando voglio. Chiaramente, non ne ho messe a casa del licantropo che ospita la riunione».
«Si dovrebbe sentire anche se lo appoggi accanto a una finestra» disse Sefora.
«Certo, ma devo andare da solo. Elsa è messa male e tu devi stare qui a tenerla d’occhio».
«Guarda che non sono in punto di morte» obiettò la ragazza «ho solo qualche botta».
«Non ho detto questo. Sefora deve restare qui e impedirti di seguirmi o di muoverti dal divano, perché sei così cocciuta che se ti lasciassimo sola, ti metteresti a girare per casa».
«Stai tranquillo, ci penso io» assicurò la maga, facendo il segno “ok” con il pollice.
Elsa sospirò e incrociò le braccia: era inutile discutere adesso.
Damiano prese un auricolare normale, quello sinistro, e due grani scuri. Uscì in fretta lasciando sole le due amiche, rassicurandole che ci avrebbe messo poco meno di venti minuti a piedi perché la casa del licantropo in questione non era particolarmente lontana.

 

 
Approfittando dell’assenza del cugino, Elsa si alzò dal divano bianco. Fece per dirigersi verso la cucina, quando Sefora le si piazzò davanti.
«Se continui a muoverti, le bende si sposteranno».
«Voglio solo andare in cucina a prendere da bere» disse la licantropa avanzando di un altro passo.
Si sarebbe aspettata che Sefora indietreggiasse ma non fu così: la cercatrice non accennava a mollare e, per di più, si trovarono a pochi centimetri di distanza.
Sefora aveva gli occhi all’altezza del naso di Elsa, di cui poteva sentire il profumo o meglio, l’odore.
«Vado io. Cosa vorresti bere?» chiese senza staccare gli occhi dalle sue labbra.
«Solo dell’acqua. Se hai sete anche tu, prendi pure quello che vuoi» rispose l’altra deglutendo.
Sefora si girò e andò a prendere ciò che le era stato richiesto, lasciando Elsa in piedi e rigida come uno stoccafisso.
La cercatrice tornò portando una bottiglia d’acqua e due bicchieri, posandoli poi sul tavolino basso davanti al divano.
«Ancora in piedi sei?» le domandò la cercatrice ridendo sommessamente.
Elsa arrossì violentemente e si sedette in un nanosecondo. Guardò Sefora versarle l’acqua con grazia e porgerle il bicchiere.
Bevve a lunghi sorsi, contrariamente all’altra che si dissetava con calma. Si sporse per poggiare il bicchiere sul tavolino ma il movimento le fece male al fianco.
«Aio» sussurrò tenendosi le costole.
«Te l’avevo detto di stare ferma. Aspetta, ti sistemo il cuscino dietro la schiena».
 Così dicendo lo posizionò per bene e, toccando appena le spalle di Elsa, l’appoggiò contro lo schienale.
Questa si teneva ancora il fianco sinistro ma presto le fitte passarono, perché i licantropi guariscono davvero in fretta e sopportano bene il dolore.
«Per fortuna passerà in un paio di giorni. Queste ossa rotte non le sopporto già più» si lamentò.
«Per fortuna non sei umana, altrimenti non guarirebbero mai. Continueresti a spostarle a forza di muoverti» rispose Sefora scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo, sedendosi alla sua destra.
«Sei preoccupata per il Necronomicon, vero? Ti si vede dalla faccia».
«Sì» confermò la cercatrice sospirando «Insomma… ecco… quelli come me dedicano gran parte della loro vita alla protezione del Necronomicon, è il nostro scopo. Abbiamo fallito nella nostra missione» disse sull’orlo delle lacrime.
Elsa le prese una mano, stringendola piano e carezzandone il dorso con il pollice. Voleva consolarla ma non sapeva come fare: non era brava con quelle cose e per via di sentimenti era un po’ impedita, ma capì di aver fatto la cosa giusta quando sentì che Sefora ricambiava la stretta.
«Non preoccuparti: voi cercatori siete in tanti, riuscirete a trovarlo e a riportarlo al suo posto».
«Spero di si… ma come fai a essere sempre così fiduciosa?» domandò guardandola fissa negli occhi.
«Sempre?» chiese Elsa rispecchiandosi nei suoi smeraldi verdi, lucidi per l’emozione.
«Sì, sempre. Quando mi hai salvata sapevi che avresti anche potuto morire ma l’hai fatto. Quando mi hai difeso davanti a tutti e hai accettato la sfida di Carlo, eri cosciente che sarebbe potuta andare male ma l’hai fatto lo stesso. Come mai fai questo per me?».
“E che cazzo ne so?” avrebbe voluto risponderle. Non lo sapeva proprio, non riusciva a spiegarselo nemmeno lei, figurarsi dirlo a qualcun altro. Non poteva nemmeno fare scena muta, perciò le rispose come meglio poté:
«È il mio dovere difendere chi è nel mio territorio, così come proteggere chi ha ragione e punire chi ha torto».
“E in più tu sei diversa, tu mi fai un strano effetto che fatico a collegare all’amicizia. Sei intelligente, determinata e… bella”. Ovviamente, questo non lo disse: per quanto non le mancasse il coraggio di picchiare un mannaro, non riusciva a esternate quelle parole.
Ripensandoci, Sefora avrebbe potuto pensare che non le importasse nulla di lei, che lo avesse fatto solo per seguire le regole dell’onore; se ne pentì e per togliere ogni dubbio, sciolse la presa dalla sua mano, circondandole le spalle con il braccio destro e avvicinando la sua testa alla propria spalla.
Anche se il pensiero che la provocò fu del tutto razionale, quel gesto uscì da solo, completamente istintivo.
Sefora si rannicchiò contro il suo corpo, più caldo di qualche grado di quello di un umano, poggiando la testa nell’incavo del collo di Elsa.
Si beò di quel tepore e della vicinanza della licantropa, che le trasmetteva un senso di sicurezza. Non erano mai state così vicine anzi, era successo, ma Sefora si era domandata più volte cosa fosse realmente accaduto dentro di lei.
Mentre Elsa le carezzava i capelli castani, chiuse gli occhi e inspirò il suo profumo della sua pelle, sperando che l’altra non se ne accorgesse. Le sembrava di essere in un sogno, si era tranquillizzata al solo contatto con l’amica.
Amica? Boh, non lo sapeva nemmeno lei. Di amiche ne aveva avute tante e ne aveva anche adesso ma nessuna di loro era minimamente paragonabile ad Elsa: coraggiosa, forte, risoluta, sicura. Testarda e anche volgare a volte, ma premurosa con le persone giuste.
Elsa intanto, come ipnotizzata, era intenta a coccolare la cercatrice: non riusciva a fare altro che toccarle delicatamente i capelli. Di certo non poteva restare impassibile davanti al dolore di Sefora e poi… era così bella che non poteva fare a meno di sfiorarla per capire se fosse reale.
I capelli erano lisci e morbidi, senza l’ombra di nodi o doppie punte; la pelle perfetta, i connotati ben proporzionati e armoniosi e gli occhi… ogni volta che li guardava restava incantata dal loro verde così intenso e puro.
E per di più, per quanto fosse delicata nel corpo, non lo era certamente nello spirito: aveva un senso dell’onore forte quasi come quello della licantropa. Sempre posata, gentile, femminile e intelligente: un tesoro di ragazza insomma.
Quel momento, nella sua semplicità, era di un’intensità straordinaria: una delle due era la difesa, l’altra la protettrice; una dal carattere tempestoso come l’oceano in burrasca e forte come la roccia, l’altra dolce e serafica come una brezza estiva e calda come un fuoco crepitante. Due opposti praticamente, ma come accade per le calamite, i due opposti si attraggono sempre.
Sefora aprì gli occhi e diresse il suo sguardo verso Elsa, che accortasi del lieve movimento, la liberò dall’abbraccio, consentendole di guardarla dritto negli occhi.
Deglutì: quell’angelo era di fianco a lei, a pochi centimetri dal suo corpo e la fissava con due occhi smeraldini che avrebbero fatto arrossire di vergogna anche le gemme più pure, tanto erano belli.
Sefora si avvicinò al suo viso, lentamente, controllando le reazioni dell’altra che con gli occhi scuri le penetrava lo sguardo e le arrivava fino nell’anima.
Anche Elsa si sporse verso di lei, arrivando a sentire il suo respiro mischiarsi con il proprio e sfiorarle le labbra; le sembrava di fuoco, le ustionava i polmoni e la inebriava come una droga. Il cuore le batteva all’impazzata, le stava per esplodere nel petto. Mancava così poco…
Si voltò bruscamente verso la porta che due secondi dopo si aprì lasciando entrare Damiano.
«Mamma mia! Non sapete che fatica ho fatto!».
Sefora, di scatto, tornò a sedersi composta. Non riusciva a credere nemmeno lei a quello che stava per fare! Era stata sul punto di baciarla! Si toccò le guance e le sentì calde, probabilmente rosse come quelle della licantropa che adesso tentava di riportarle al solito colore. Nel mentre che Damiano si accomodava, bevve un sorso d’acqua per calmarsi.
Pure Elsa era confusa e il suo cervello pensava a tutto meno che al Necronomicon.
“Cazzo, stavamo per baciarci!”.
Non sapeva se era una cosa buona o cattiva, fatto sta che avrebbe voluto che il cugino restasse fuori dai coglioni ancora per un po’, almeno per provare ancora per un po’ quell’emozione dannatamente intensa.
 Si rese conto che Damiano le stava parlando e si ricompose in un istante. Ringraziò il cielo che i ragazzi, umani e non, fossero dei mezzi babbei in certi casi, così non le avrebbe fatto domande.
«… Perciò ho fatto fatica e ci ho messo tanto! Ma adesso veniamo a noi, l’assemblea è già a buon punto. Mettete un auricolare e ascoltate, ho già regolato le frequenze giuste».
Le ragazze fecero come detto e si misero in ascolto:
 
«E così i capi dei cercatori hanno chiesto la collaborazione dei licantropi» disse Matteo, il padre di Sefora.
«E’ rischioso» rispose Gaspare «Ma ho telefonato a tutti gli altri anziani e abbiamo deciso di darvi appoggio, visto che l’incremento dei mannari potrebbe peggiorare con il furto del Necronomicon».
«Grazie Gaspare, ma non serviranno molti licantropi, si spera».
«Chiunque voglia unirsi a voi sarà libero di farlo e riceverete comunque aiuto da tutti noi: siamo sulla stessa barca, è giusto aiutarsi a vicenda».
«Grazie, grazie ancora» concluse Matteo.
 
La discussione durò ancora un quarto d’ora, durante il quale molti (compresi i genitori di Elsa) si offrirono volontari per il recupero del Necronomicon.
«Fine» disse Damiano.
«Ci siamo persi molto, immagino» fece notare Sefora.
«Voi vi siete perse molto, io no. Per trovare le frequenze giuste, mi sono portato dietro un auricolare e per strada ho ascoltato tutto».
«Sai come è stato rubato?!» domandò lei, che ormai non stava più nella pelle.
«Sicuro! Adesso vi spiego: il Necronomicon era custodito a Roma, come ben saprete. Era tenuto nei sotterranei di una chiesa molto famosa, la Basilica di San Pietro; era lì da un sacco di tempo, custodito da cercatori e barriere magiche ma qualcuno è riuscito a rubarlo, non si sa come. I cercatori sospettano di una coalizione tra vampiri e mannari, visto che hanno trovato dei residui di magia tipica delle loro specie. Chi l’ha rubato doveva essere particolarmente potente».
«Come mai dovrebbero volere il Necronomicon?» chiese ingenuamente Elsa «E’ un libro di magia nera, è vero, ma ce ne sono altri simili».
La cercatrice le chiarì le idee:
«Nel Necronomicon, oltre a potenti incantesimi di magia nera, ce ne sono alcuni che oserei definire devastanti».
«In che senso?» domandò Damiano.
«Sapete cosa vuol dire Necronomicon? Se ne conoscete il significato, non avrete problemi ad arrivarci da soli».
I cugini si guardarono con occhi sbarrati:
Necronomicon vuol dire“libro delle leggi dei morti”.





Angolo dell'autrice:
Eccomi qui puntuale come un'orologio svizzero!
Le due ragazze stanno per combinare qualcosa ma il cugino le interrompe sul più bello XD. Povero ragazzo, non lo fa apposta ma scassa un pò:)
Adesso andiamo alla parte inerente gli oggetti magici:
- Parva aurem= piccolo orecchio. Visto che serve a spiare le conversazioni ed è di piccole dimensioni, mi pareva un nome adatto.
-Necronomicon= libro delle leggi dei morti. Il titolo completo dovrebbe essere più o meno così: "Descrizione delle leggi dei morti" oppure "Libro dei nomi dei morti". Io l'ho accorciato per farlo suonare meglio.
Al prossimo capitolo:)

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Capitolo 10
*** Se qualcosa può andare peggio sicuramente lo farà ***


“Libro delle leggi dei morti… Non ci avevo nemmeno pensato. I vampiri e i mannari potrebbero trarre enormi vantaggi da questo libro: resurrezioni, zombie, evocazioni di demoni. Dobbiamo assolutamente ritrovarlo o per tutti gli esseri magici e gli umani potrebbero essere guai” pensò Elsa. Tutte queste informazioni le vorticavano in testa contemporaneamente e ognuna di loro dava vita a ipotesi diverse e conseguenze drammatiche, trascinandola in un caleidoscopio senza fine.
«Dobbiamo ritrovare il Necronomicon il prima possibile» disse Sefora, riportandola alla realtà.
«E’ un bel casino. Damiano, prova a sentire con le cuffie se stanno già tornando a casa».
«Sì, si stanno salutando. I tuoi genitori mi sa che sono già per strada» le rispose il cugino «Quelli di Sefora si stanno intrattenendo, ma c’è troppo brusio e non riesco a sentire bene. Non sono nemmeno sicuro che siano loro».
La cercatrice si tormentava le mani, ansiosa di tornare a casa e sapere anche i particolari dai genitori. Anche i due cugini erano piuttosto agitati: lui camminava avanti e indietro e lei si mordicchiava l’interno della guancia.
“Cazzolina, i vampiri rubano il Necronomicon e io sono ridotta così. Che palle” pensò Elsa. Si sentiva inutile, non era nemmeno potuta andare a spiare le conversazioni degli adulti e si era dovuta accontentare di ascoltarle a distanza.
Ad un tratto, tutti e tre sentirono una macchina rallentare fino a fermarsi sul marciapiede davanti a casa.
«Devono essere i tuoi genitori» disse Sefora all’amica.
Nel momento in cui i primi passi risuonarono sul vialetto che portava alla porta di casa, Elsa trasalì.
«Non sono i miei genitori!».
 Accadde tutto in pochi minuti. Damiano non fece nemmeno in tempo a guardare dallo spioncino che la porta venne spalancata con un incantesimo, e quattro uomini entrarono.
Avevano tutti il volto coperto, ma dal loro odore parevano vampiri.
«Hey! Chi sie-».
Damino non riuscì nemmeno a finire la frase che un pugno lo fece quasi cadere all’indietro. Gli sconosciuti lottarono con il giovane licantropo che venne violentemente sbattuto dall’altra parte della stanza, lasciando delle crepe sul muro.
Un vampiro molto alto agguantò Sefora, la quale si dimenava per liberarsi. Elsa si trovò davanti gli altri due che la gettarono addosso al cugino, facendolo cadere nuovamente.
La licantropa sbatté la testa e il naso ricominciò a sanguinarle, sporcandole le labbra e la maglia.
Il dolore alle costole era lancinante ma si rialzò subito e trasformandosi senza nemmeno accorgersene ringhiò a pieni polmoni.
Mostrò le zanne e domandò:
«Chi cazzo siete?!».
Loro indietreggiarono di un paio di passi ma non risposero, e Sefora approfittò dell’attimo di smarrimento per liberarsi e tirare un calcio allo stomaco a quello che la tratteneva, correndo verso Elsa e rifugiandosi dietro di lei.
«Dobbiamo resistere almeno fino al ritorno dei tuoi! Non manca molto, ma tu sei ferita…».
«Sto bene, ce la posso fare!».
Mentiva. La trasformazione le era costata tantissima energia ed era troppo debole per rimarginare le sue ferite con la metamorfosi. Sentiva già le gambe indebolirsi e la vista annebbiarsi.
La situazione era critica e anche Damiano si trasformò in lupo, attaccando alla gola il vampiro più vicino.
Si rotolarono sul pavimento travolgendo mobili e ogni cosa fosse sulla loro traiettoria.
Lo spilungone che aveva afferrato Sefora pronunciò alcune parole in latino, scagliando una nube di frecce contro le due ragazze.
«Energia scutum!» urlò Sefora, materializzando uno scudo di energia che vibrava ad ogni impatto.
I dardi vi si infransero sopra, esplodendo in una polvere grigiastra.
Nel frattempo, gli altri due avevano dato man forte al vampiro che combatteva con Damiano, atterrandolo e riempiendolo di pugni.
Elsa ringhiò e si avventò su di loro per aiutare il cugino. Il fianco le faceva troppo male, alcune ferite si erano riaperte e sentiva le forze venirle meno, ma non rinunciò a combattere.
Affondava i denti nella carne dei vampiri, ma questi sgusciavano via come se fossero ricoperti d’olio e riportavano danni minimi.
Il suo respiro era affannoso e i ringhi del cugino e dei vampiri le rimbombavano nelle orecchie. Dall’altra parte della stanza vide Sefora che lanciava incantesimi contro il suo avversario, che stanco di continuare la battaglia, le scagliò contro una potente scarica elettrica.
«Ossibus ardet fulgur».
“No!”.
Elsa fece un balzo di alcuni metri, graffiando il pavimento liscissimo e frapponendosi tra la cercatrice e il fulmine.
Cadde a terra a peso morto. Sentiva caldissimo e le pareva che fosse tutto troppo silenzioso, troppo poco caotico.
Faceva fatica a respirare, una pozza di sangue si allargava accanto a lei.
«Elsa?! Mi senti?!».
Sefora era accanto a lei e la scuoteva per farla riprendere, ma le sue urla le sembravano lontane kilometri e kilometri.
«Elsa! Riprenditi!».
Le voce di Sefora era come attutita, non sentiva nemmeno che la stava scuotendo con più forza, non provava più nemmeno dolore alla costola sinistra.
Chiuse le palpebre e l’ultima cosa che vide fu la porta che si apriva di nuovo.

 
 
 
Elsa sbatté le palpebre, ritrovandosi a fissare il soffitto della sua camera da letto. Cos’è che l’aveva fatta svegliare? Boh.
Scivolò fuori dalle leggere lenzuola bianche, poggiò i piedi per terra e sentì una fitta al fianco sinistro che le fece ricordare tutto quello che era successo.
«Attenta, non ti sforzare».
Elsa trasalì: non aveva sentito la presenza di sua madre sulla poltrona accanto al letto.
«Mamma! Cosa è successo? Damiano sta bene? E Sefora? Dov’è il papà? E chi -».
«Calmati» disse tranquillamente Gioia «Ti racconto tutto solo se torni a sdraiarti a letto».
Compromessi. Tra madre e figlia ce n’erano a migliaia: con una ragazza così era difficile vivere senza.
Elsa appoggiò un cuscino tra la schiena e la testiera del letto.
«Intanto dimmi come ti senti. Vanno meglio le costole?».
«Mi pare di sì. Mi fanno meno male di prima».
«Bene» rispose la madre visibilmente sollevata. Si alzò e avvicinò ancora la poltrona, fino a toccare il bordo del letto con le ginocchia.
«Mi sono preoccupata un sacco, sai? Quando siamo tornati, tu eri distesa sul pavimento immobile e sporca di sangue. Ci hai quasi fatto prendere un colpo».
«Mi dispiace».
 «Damiano mi ha raccontato che hai combattuto anche se ferita e che hai difeso Sefora. Hai fatto il tuo dovere, ma sei stata molto incosciente a parare quel colpo e…».
“Eccola… se comincia con la ramanzina non la smette più…”.
«Come stanno gli altri?» cambiò discorso Elsa «Cosa è successo?».
«Papà sta alla grande, Damiano adesso ha solo qualche graffio, è quasi del tutto guarito. Questa mattina ho chiamato a casa Scida per sapere come sta Sefora e mi hanno detto che sta guarendo in fretta».
«Vuol dire che è stata ferita? Come?» chiese protendendosi verso  la madre.
«Te lo dico, ma stai con la schiena dritta. Prima che io e il papà sistemassimo i quattro vampiri, uno le ha lanciato addosso qualche incantesimo, tutto qui. Tranquilla, non era niente di grave».
«Bene. Aspetta… come questa mattina hai chiamato?».
«Ti sei fatta un bel pisolino!» esclamò Gioia, scompigliandole i capelli «Sono le dieci di mattina, ormai!».
«Così tardi?!».
«Sì. Eri completamente senza forze. Con tutte quelle trasfor-».

SBAM!

La porta spalancata con forza interruppe il suo discorso, e Damiano entrò nella stanza:
«Buongiorno cugina! Guarda cosa ti ho portato! Nutella, fette biscottate e caffè».
Posò il vassoio sulle gambe della ragazza e si sedette sul bordo del letto.
«Beh, la lascio a te, tienila d’occhio» disse Gioia «Obbligala a stare a letto».
«Sì zia!».
«Bene. Ti lascio un po’ in pace con tuo cugino, ok?».
«Va bene ma’».
La madre le diede un affettuoso bacio sulla testa e uscì chiudendo la porta.
Elsa si avventò sulla nutella, spalmandone parecchia sulle fette biscottate. Mentre si ingozzava, Damiano le raccontò che i genitori avevano sbaragliato i quattro vampiri, che li avevano imprigionati e che per il momento erano tutti nella cantina di Nicola.
«Non fapevo che Nifola aveffe una canfina con catene magiche o roba fimile» farfugliò Elsa tra un boccone e l’altro.
«Neanche io. Lo zio mi ha detto che se l’è costruita due anni fa e che non è riportata sulle mappe del catasto. È un tipo previdente, ha fatto bene a costruirsela».
Rubò mezza fetta biscottata dal vassoio e continuò:
«Hanno chiamato qualcuno a portarli via e poi hanno sistemato il salotto. Era un macello, c’erano vetri e pezzi di mobili ovunque. Per non parlare delle pareti scrostate e del televisore fracassato».
Ripensando al televisore si fece immediatamente malinconico e sospirò.
«E pensare che stasera c’è Milan-Roma…».
Elsa gli tirò un pugno amichevole sul braccio:
«Pensi sempre al calcio! Non riesci a pensare nient’altro?».
«Alla carbonara. Comunque, penso che la zia ti abbia già detto che stiamo tutti bene e… non sai cosa ti sei persa! Non ho mai visto nessuno combattere come gli zii, è stato pazzesco!».
«Hey! Smettila di dirmi quanto sono stata sfigata a non poterli vedere!» protestò scherzosamente Elsa.
«Va bene, va bene. Mmm… vediamo, altri particolari… ah sì, giusto. I vicini non si sono accorti di nulla grazie alle barriere anti-rumore che abbiamo in casa».
«Che culo».
«Puoi dirlo forte».
I genitori di Elsa, come tutti i licantropi con figli, avevano creato delle barriere anti-rumore per non far sentire ululati e ringhi ai vicini. Per quanto i due bambini fossero bravi sotto questo punto di vista, qualche trasformazione involontaria (e conseguenti ruggiti)avveniva comunque, perciò era meglio non correre rischi. Anche se adesso erano cresciuti, la barriera restava al suo posto.
Elsa finì la colazione in pochi bocconi e si alzò, ma il cugino la redarguì:
«La zia ha detto che devi stare a letto».
«Ma io voglio alzarmi» protestò la licantropa «Voglio andare giù a vedere come è messo il salotto e a dire alla mamma che voglio mangiare bistecche per pranzo».
«No, tu resti qui: il salotto è quasi a posto e tua mamma dorme» disse lui incrociando le braccia.
«Dorme?».
«Sì, è rimasta tutta la notte con te e ti ha lasciata solo qualche minuto fa. Se ti alzi e vai in giro, potrebbe svegliarsi e sgridarti».
“Possibile che si sia spaventata così tanto? Neanche fossi una fragile umana” rifletté Elsa.
«E’ permesso?» chiese qualcuno fuori dalla porta.
«Certo, entra pure papà».
Fulvio, un licantropo piuttosto alto e dai capelli nerissimi, entrò nella camera. Assomigliava un sacco a Damiano.
«Stai bene, vedo» disse con flemma.
«Sì, io sto benissimo, ma la mamma non vuole che io mi alzi».
«Ahahah! Tua madre si preoccupa troppo! Vestiti e vieni pure giù, ti annoierai a stare sempre in camera».
Chiuse la porta alle sue spalle e scese fino al piano terra.
«Visto? Adesso posso andare in giro per casa» palesò tutta contenta a Damiano.
Lui scosse la testa: a ogni impedimento di Gioia, Fulvio trovava una via d’uscita.
«Sì sì, vado anche io. Ci vediamo giù più tardi».
Una volta che anche lui uscì di scena, Elsa si diede una sistemata, si guardò per bene le ferite quasi completamente rimarginate e risistemò le bende sul busto.
Mise un paio di pantaloncini comodi e una t-shirt extralarge, poi scese in cucina.
Il salotto era stato messo a posto, ma mancava la tv e l’intonaco era scrostato in più punti. Per non parlare del divano mancante, dei mobili rovinati e dei quadri staccati.
Camminò a piedi nudi sul pavimento in marmo graffiato in più punti e si sedette sul divano in cucina.
«Non ricordavo che dal muro spuntassero due pezzi di legno».
«Sono due gambe del tavolino basso che avevamo in salotto» rispose distrattamente il padre, intento a sistemare qualcosa nelle mensole.
«Ah. In effetti mi stavo giusto chiedendo dove fosse finito».
Fulvio finì quello che stava facendo e si accomodò accanto alla figlia.
Non le chiese ancora come andava e non fu assillante, ma questo non vuol dire che non si preoccupasse per lei: anche lui era stato in ansia tutta la notte solo che conosceva la riservatezza della figlia su certi argomenti e si fidava della sua autonomia. In più sapeva che la moglie le aveva già chiesto tutto quel che c’era da chiedere, perciò non gli andava di infastidirla con le stesse domande.
«Tu e la mamma non andate a lavorare oggi?».
«No, abbiamo chiesto un giorno di permesso: ci siamo inventati che i ladri ci hanno svaligiato casa, così il direttore del museo ha acconsentito senza problemi. Non è proprio così lontano dalla realtà, visto come è ridotto il salotto».
«Bene. Un giorno di pausa vi farà bene, lavorate così tanto».
Il padre le sorrise: la figlia, talvolta, era un po’ brusca nei rapporti interpersonali, ma sapeva che si preoccupava costantemente per la famiglia, anche se non lo dava a vedere.
«Così» disse Fulvio «potremmo passare tutti quanti del tempo insieme».
«Certo, è da un po’ che non facciamo qualcosa» disse Elsa, ma ciò che pensava in realtà era:
“Lo so che state a casa solo per tenere d’occhio me e per paura di un nuovo attacco. Anche se non me lo volete dire, io lo so”.
Chiaramente non poteva dirlo, e poi non le dispiaceva affatto di poter passare una giornata in famiglia.
«E cosa vorresti fare? La mamma ti obbligherà a fare qualcosa di tranquillo, visto come sono messa» gli ricordò Elsa.
Lui rise sommessamente, come faceva tutte le volte che stava per infrangere una decisione della moglie, la stessa espressione che faceva Elsa quando combinava qualche marachella o faceva arrabbiare la madre.
«Quando mamma si sarà svegliata, andremo a casa della nonna con la scusa di fare un saluto e dopo un po’… ce la svignamo!».
«E dove andiamo?» chiese Elsa curiosa come non mai.
Il padre concluse con un sorriso furbetto:
«Porto voi ragazzi al Gattacicova».





Angolo dell'autrice:
Ed eccoci alla fine del decimo capitolo!
Questi poveri ragazzi non hanno mai un secondo di pace, sono sempre lì a dare e prendere botte! XD
Comunque, passiamo alla parte incantesimica (?) latino-italiano:
-Energia scutum= scudo di energia;
-Ossibus ardet fulgur= fulmine brucia ossa.
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto:) 

Ignis_eye

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Capitolo 11
*** Così diverse ma così simili ***


Erano passate alcune settimane dall’attacco dei vampiri, nessun altro incidente aveva disturbato le vite dei Villanoviani ed Elsa era perfettamente guarita, come se non fosse mai successo nulla.
L’uscita al Gattacicova era andata a buon fine: la nonna aveva intrattenuto Gioia, così padre e figli si erano potuti svagare un po’ nel loro bar preferito.
Il Gattacicova era un locale normalissimo all’apparenza, ma in realtà era il ritrovo preferito degli esseri magici di Villanova. Era gestito da una mezza nana molto simpatica, amica d’infanzia di Fulvio.
Elsa pensava che sarebbe stato un pomeriggio tranquillo, passato a sbocconcellare dolci seduti al loro solito tavolino, ma il padre aveva fatto organizzare una specie di festicciola per i figli, così da tirar su il morale ad entrambi.
Erano stati sistemati in una stanza apposita, cosicché gli umani non potessero disturbare gli esseri magici, gli unici a poter entrare lì.
Il padre, da buon mercante qual era, aveva raccontato a tutti del combattimento della figlia contro Carlo e della lotta di entrambi i pargoli contro i vampiri, sbandierando i particolari più cruenti della battaglia tutto pomposo e contento.
Inutile dire che Elsa non era abituata a tanta pubblicità e a tante attenzioni. Tutti gli amici di suo padre (gente di cui nemmeno conosceva il nome) si complimentavano con lei, mettendola in imbarazzo. Suo cugino, invece, si destreggiava bene: era arrivato addirittura a salire su un tavolo e raccontare della battaglia ad alta voce.
Praticamente Damiano era stato uno spasso: dopo il racconto, si era messo a fare cabaret e aveva ricevuto un sacco di applausi da tutti. Come lo zio, anche lui era fatto per il commercio, ci sapeva fare con le persone.
Tornati a casa, tutti e tre allegri e sazi di dolci e bevande, si erano sorbiti la ramanzina della mamma.
Elsa non sapeva come mai, ma assistere alle lavate di capo che sua madre dava a papà la metteva di buonumore come nient’altro, erano  uno spasso: lui, muscoloso e alto poco meno di un metro e novanta che abbassava la testa e si mostrava dispiaciuto;lei, alta circa uno e sessantacinque (un tappo confronto a lui), che gli faceva il terzo grado come una madre fa con un figlio combina guai.
Ogni volta restava sorpresa da tanta somiglianza caratteriale con suo papà,  a tutti e due piaceva far dannare quella povera donna.
Dopo due giorni era completamente guarita e nei giorni successivi, Elsa e Sefora continuarono i loro allenamenti, provando nuove tattiche e incantesimi, e finendo per diventare molto legate.
Intanto, il Necronomicon non si trovava e gli avvistamenti di mannari e vampiri restavano alti.
Talvolta, le spie venivano a conoscenza di informazioni riguardanti possibili spostamenti del libro magico, ma si trattava solo di informazioni frammentarie e poco esatte.
In poche parole, licantropi e cercatori brancolavano nel buio quasi totale.

 


 

«Hey, dove scappi?» urlò allegramente Sefora.
«Lontano da te! Ahahaha!» le rispose Elsa.
L’allenamento di quella mattina di luglio consisteva nel cercare una sfera di giada nel bosco e di riportarla a Chan. Se non si riusciva a trovarla, si poteva rubarla con qualsiasi mezzo.
«Tanto riuscirò a riprendermela, licantropa!».
«Seeeee, contaci, cercatrice!».
Elsa stringeva la sfera tra le mani, stando attenta a non farla cadere. L’aveva appena rubata a Sefora e non era intenzionata a ridargliela tanto facilmente.
Correvano entrambe a velocità sovrumana tra gli alberi, sollevando foglie e rametti al loro passaggio. Elsa era in vantaggio, ma ostacoli magici evocati da Sefora apparivano in continuazione sul suo percorso.
Stalagmiti enormi, reti di energia, fosse, trappole: la cercatrice stava dando libero sfogo al suo repertorio.
Elsa era ormai certa di potercela fare, ma si sa, quando si è troppo sicuri si finisce per sbagliare e proprio mentre stava saltando via un norme masso, una liana di energia la trascinò a terra. Subito una decina di liane e corde simili la intrappolarono e le strapparono di mano la preziosa sfera verde, mentre una Sefora raggiante la superava e continuava la corsa verso il maestro.
«Marameo, licantropa!».
“Merda!” pensò mentre si dimenava tra i lacci “Devo sbrigarmi!”.
Elsa si trasformò in lupo con un potente ruggito, e le corde che la opprimevano furono spazzate via dalla violenza della metamorfosi.
Prese a correre anche più veloce di prima sulle zampe possenti; faceva enormi salti tra gli alberi, scortecciava i tronchi quando li sfiorava e in breve tempo fu alle calcagna delle maga, la quale continuava ad ostacolarla.
Quando fu solo a pochi passi dalla preda, Elsa spalancò le fauci come per azzannarla, scoprendo le lunghe zanne bianchissime, ma Sefora si girò di scatto e le sferrò un potente pugno proprio sul muso.
Ormai mancavano poche centinaia di metri al maestro, quindi Elsa tentò il tutto per tutto gettandosi addosso alla maga, fallendo per la seconda volta.
«Shifu, ecco la sfera di giada» disse Sefora trafelata per la corsa.
«Brava!» si complimentò Chan.
Di lì a un secondo arrivò anche Elsa, con la pelliccia sporca di terra e foglie a causa della caduta rovinosa.
Si ritrasformò in forma umana e prese a togliersi le foglie dai capelli riccioluti.
«Ho vinto io stavolta!» esultò la maga «Per la quarta volta da quando ci alleniamo insieme! Stai attenta licantropa, comincio a migliorare velocemente. Se continuo così, tra un po’ ti darò parecchio filo da torcere!».
«Ma smettila!» la riprese bonariamente l’amica «Io ho vinto tutte le altre volte, la tua è solo fortuna! Ahaha!».
«Si si, come no» rispose Sefora facendo la finta offesa.
«Dai ragazze, calmatevi» le chetò Chan «L’allenamento di oggi è finito, tornate pure a casa».
Le due ragazze si congedarono con un inchino rispettoso e se ne andarono verso casa attraverso il bosco.
Le foglie cadute a terra scricchiolavano e facevano affondare i loro piedi, attutendo i loro passi e dando l’impressione di camminare su una coperta.
Parlarono del più e del meno, finché Sefora non introdusse un argomento del quale ormai si parlava spessissimo:
«La squadra delle nostre madri è stata scelta per andare a fare una ricognizione, ricordi?».
«Certo, non posso fare a meno di pensarci ogni giorno».
L’operazione consisteva nell’andare nelle foreste piemontesi e seguire delle tracce segnalate da una piccola comunità di mezzi nani. La data di partenza sarebbe stata il giorno dopo, quella della fine invece era ignota. Inutile dire che tutti erano un po’ in ansia, soprattutto i figli dei guerrieri scelti.
Avrebbero potuto trovare molti mannari e vampiri, trappole, mostri e chissà cos’altro, ma era necessario per ritrovare il Necronomicon.
Da quando era stata messa in pericolo la vita dei ragazzi, i genitori di tutti erano diventati più nervosi e malvolentieri li lasciavano soli per giorni interi.
«Beh» continuò Sefora «sono parecchio preoccupata per mia madre».
«Pure io, ma sono due donne in gamba. Per di più, ci sono altri due con loro, non saranno sole. E come supporto hanno messo mio papà e due cercatori» la rassicurò Elsa. Le dispiaceva vederla così in pensiero, non le sembrava più la Sefora sempre sorridente che aveva conosciuto il mese prima.
«Già, non ci avevo pensato. Grazie» disse abbracciandola per un secondo.
Elsa ricambiò il breve abbraccio e la riaccompagnò fino a casa per farla sentire sola il meno possibile.

 

 
Una volta che la ragazza-lupo fu a casa sua, la prima cosa che sentì fu l’odore di piombo che aleggiava in salotto.
«Cos’è questa puzza?» chiese storcendo il naso.
«Oh, niente » rispose la madre «ho solo aperto la cassa della mia armatura. Sai, visto che domani parto…».
«Sì sì, fai bene a volerla mettere a posto. Se vuoi dopo ti do una mano a pulirla per bene e a testare gli incantesimi e le benedizioni ».
«Grazie ma ho già fatto tutto io. Semmai, apri un po’ le finestre: quest’odore è troppo forte» suggerì Gioia «Sarà perché è rimasta al chiuso troppo tempo».
La ragazza spalancò tutte le finestre del primo piano e poi si accomodò a tavola con la madre per pranzare.
Quel giorno, Damiano e suo padre non c’erano perché già dal giorno prima erano andati entrambi a Roma a fare rifornimento di materia magica e roba utile per la missione.
«Questa mattina ha chiamato Lara, la mamma di Sefora» buttò lì Gioia.
«Ah sì? Come mai?».
«Beh, voi ragazzi non lo sapete, ma sia io che papà saremo molto occupati in questi giorni».
«In realtà lo sapp-».
«Non è questo che intendevo dire» l’interruppe la madre «Piuttosto, intendevo che sarebbe pericoloso per voi due restare a casa da soli, dopo quello che è successo…».
“Cosa vorrebbe insinuare? Che non siamo capaci di difenderci?” pensò stringendo i pugni. Si sentiva offesa e la madre lo intuì.
«Ormai siete grandicelli e potreste arrangiarvi senza problemi ma credo che sarebbe pericoloso, perciò, sia io che papà pensiamo sia meglio che almeno di notte dormiate da qualche altra parte».
«E dove?» domandò Elsa spaesata.
«Damiano starà dal suo amico cercatore Pietro, quello con cui si allena, mentre tu sarai da Sefora. Spero non ti dispiaccia» continuò Gioia sorridendo «Sai, Lara sarà via, mentre suo papà resterà a Villanova. Hanno pensato che fosse una buona idea, visto che andate tanto d’accordo».
Elsa era raggiante: Matteo, il padre di Sefora, le stava simpatico e se avesse dormito da lei, avrebbero riso e scherzato tutta la notte. Di sicuro si sarebbe divertita.
«Sì, così ci faremo compagnia. Ma… sarà solo per qualche giorno, vero?».
«Cero, non preoccuparti! Probabilmente non accadrà nulla come nelle altre missioni» la rassicurò.
Parlottarono ancora un po’ e poi si sedettero in salotto sul nuovo divano a guardare un film sul nuovo televisore, appoggiando due bicchieri di tè sul nuovo tavolino basso davanti a loro; dal giorno dell’incidente avevano sostituito tutti i mobili danneggiati e questo non faceva altro che riportarle alla mente che probabilmente era in costante pericolo.
La donna che presentava il telegiornale parlò di quattro uomini scomparsi:
«Non si hanno ancora notizie dei quattro vicentini scomparsi il mese scorso, sembrano spariti senza lasciare traccia. La polizia crede che si tratti di un omicidio da parte di una banda criminale…».
«I vampiri non hanno ancora detto niente?» domandò la ragazza.
«No, ma possiamo trattenerli quanto vogliamo: la polizia crede ancora nell’ipotesi della malavita, possiamo stare tranquilli».
«Già, tanto non possono risalire a noi».
Dopo qualche minuto, Elsa era già stufa di guardare la tv e andò in camera sua.
Sul cellulare c’era una chiamata persa e due messaggi da parte di Sefora:
 
19:30
“Non so se tua mamma te l’ha già detto, ma per qualche giorno resterai da me! Contenta? Ci divertiremo un sacco!”.
19:35
“Ah già, papà mi ha chiesto di ricordarti di portare anche il talismano col sangue di vampiro di tuo padre, così saremo ancora più al sicuro”.
 
Il talismano in questione era una croce latina presa da una chiesetta sconsacrata. Il legno di frassino era impregnato di sangue di vampiro e ciò permetteva di avvertire la presenza di vampiri nel raggio di un kilometro; inoltre, se appeso in casa, scoraggiava gli stessi dall’entrare.
 
19:43
“Mia mamma me lo ha appena detto, credo che schiamazzeremo così tanto che tuo papà ci manderà a dormire in cortile! Per quanto riguarda il crocefisso, lo porterò sicuramente”.
 
Una volta inviato il messaggio, decise di farsi una doccia.
Mentre era sotto l’acqua fresca, finì per pensare al rapporto che aveva con Sefora. Da settimane ormai si chiedeva quale sentimento strano provasse per lei senza mai trovare una risposta.
Amicizia? No, di più. Ma cosa, allora? Che fosse…
“Amore? Ma no, figurati! Amore! Lei è… è una ragazza! A me piacciono i ragazzi, mi sono sempre piaciuti, no?”.
Beh, ecco il problema: no. Lei pensava ai ragazzi perché lo facevano anche le altre, perché pensava di doverlo fare anche lei, non perché provasse davvero qualcosa.
Mentre l’acqua scorreva sulla sua pelle, capì che forse si conosceva poco. Era inutile negare che a lei piacessero le ragazze, o meglio, una ragazza in particolare.
Si passò la spugna insaponata su tutto il corpo tentando di lavare via anche le sue preoccupazioni e le sue  angosce, ma non ci riuscì.
La partenza dei genitori, il furto del Necronomicon, i sentimenti per Sefora…  era troppo per lei, non ci capiva più niente.
Mentre si lavava i capelli, i suoi pensieri scivolarono sulle notti che avrebbe dovuto passare a casa di lei.
“Sarà bello, credo… Ma come faccio adesso? E se lei non provasse altro che amicizia? Forse sarebbe disonesto da parte mia frequentarla senza che lei lo sappia… dovrei dirglielo?”.
Non sapeva che fare: e se Sefora ne fosse rimasta inorridita? Non l’avrebbe più voluta vedere.
“Maledizione alle docce! Stai sotto l’acqua due minuti e ti fai un sacco di seghe mentali! Come se io non avessi già abbastanza problemi di mio!”.
Chiuse l’acqua, uscì dalla doccia e si avvolse un asciugamano attorno al corpo.
Studiò il suo viso allo specchio: pelle chiara, lineamenti definiti, occhi castani e un po’ di occhiaie. Tutto come al solito, se non fosse per la cicatrice sullo zigomo sinistro, proprio sotto l’occhio. Era sottile, ma con la leggera abbronzatura si vedeva un po’ di più.
Si asciugò il fisico magro e atletico, poi si vestì e chiamò Damiano.
Non era sicura al 100% di quello che stava per fare, ma ormai il telefono squillava.
«Pronto?» gracchiò il cugino.
«Damiano, sono io, Elsa».
«Ahaha! Lo so, c’è il tuo nome sul display» la prese in giro lui.
«C’è mio papà lì con te?».
«No, è andato a fare un giro al mercato, io sono in hotel. Vuoi che gli dica di richiamarti?».
Elsa tirò un sospiro di sollievo.
«No, volevo parlare in santa pace con te».
«Perché? È successo qualcosa ?»chiese lui preoccupato ma anche un po’ speranzoso; le volte in cui sua cugina si lasciava andare ai sentimenti erano più rare di un neurone nella testa di un partecipante al grande fratello, o di un politico onesto in parlamento.
Elsa era sul punto di sputare il rospo, ma rinsavita tutto d’un tratto, si mise solo a chiacchierare come se nessun pensiero l’assillasse.
Salutato il cugino, schiacciò il tasto rosso del cellulare e lo buttò sulla scrivania. Si sentiva meglio, adesso.
No, col cazzo. Stava esattamente come prima, semplicemente l’allegra discussione con Damiano aveva anestetizzato il dolore alle sue meningi pulsanti e al suo cuore inquieto.
Non stava bene, semplicemente non soffriva; non era priva di preoccupazione, solo la sentiva di meno.
Si sistemò una ciocca bagnata e riccioluta dietro l’orecchio e si abbandonò sul letto.
Con lo sguardo perso sulle invisibili crepe della pittura sul soffitto, si perse per l’ennesima volta nella ragnatela informe, disordinata e caotica che era la sua mente.
Ogni pensiero era un filo: partiva da uno a caso e dopo poco si trovava ad un incrocio dove cominciavano altre sottili corde setose; ognuna di queste si attorcigliava a un’altra, si annodava a quella sopra e  si fondeva con quella sotto in una cornucopia di eventi, possibilità, sensazioni e presagi che le tolsero completamente il sonno. Era lì da tre quarti d'ora buoni quando le si accese una lampadina.
“Cazzo, la luna piena!”.
Si alzò in un nanosecondo e si affacciò alla finestra: lo scudo argentato che le dava tanta energia e tanto potere, adesso l’aiutava solo ad amplificare le sue sensazioni negative e le faceva solo del male.
Provò e riprovò ad usare l’energia lunare per calmarsi, ma non ci riuscì. Svilita dall’insuccesso, chiuse violentemente la finestra facendola sbattere e quasi frantumandola.
“Ecco, neanche fossi tornata poppante! Non riesco nemmeno a guidare il mana della luna! Ce la farebbe pure un mannaro!”.
Solo allora capì, e per un pelo non le mancò la terra sotto i piedi.
Si fiondò giù dalle scale e scardinò la porta della cucina.
«Mamma! Non puoi partire domani!».
«Come mai non dovrei? È solo-».
«E’ solo un’idea di merda, ecco cos’è! Questa notte c’è la luna piena! La missione di domani è troppo vicina al plenilunio!».
«Elsa, cerca di capire…».
«No, tu cerca di capire, per una buona volta!».
Sbraitarono almeno mezz’ora: Elsa agitava le braccia e calciava le sedie, Gioia si difendeva dicendo che una missione va sempre accettata, la figlia rispondeva che un incarico del genere era un suicidio.
Avevano opinioni diverse su molte cose, e finché si trattava di cazzate ci potevano convivere tranquillamente, ma se c’era una cosa che ad Elsa non andava proprio giù, quel qualcosa era l’eccessiva accondiscendenza che le Desdemoni mostravano verso gli ordini impartiti dal consiglio degli anziani.
«Ma non capisci cosa stai rischiando mamma?! Vi farete ammazzare!».
Era sorpresa delle sue stesse parole: di solito era Gioia a parlarle così, non il contrario.
La madre rovesciò la tavola che la separava dalla ragazza, mandandola in pezzi.
«E’ necessario adattarsi ad ogni cosa, Elsa!».
«A cosa è necessario adattarsi? Alle scelte sbagliate degli anziani? Ogni missione è stata un fallimento!».
«Ormai ho deciso! E anche se volessi tirarmi indietro non lo farei! Sarebbe un’umiliazione troppo grande per tutta la famiglia!».
Solo allora la giovane licantropa capì cosa provava sua madre, quali pensieri affollassero la sua mente.
Da quando Carlo si era opposto a tutti ed era stato battuto, veniva evitato, non contava più nulla e per un soffio anche i suoi parenti erano stati sul punto di perdere la fiducia degli altri clan.
Nel mondo degli uomini-lupo, l’onore, il rispetto, la famiglia e la fiducia sono tutto.
Gioia voleva salvare la sua famiglia dallo stesso destino di Carlo.
Probabilmente si era accorta troppo tardi di quel piccolo ma per nulla insignificante particolare che è la luna piena, e non aveva potuto fare altro che mantenere la parola data e accettare l’incarico.
Tutto per amore della figlia e del nipote.
Sì, Elsa aveva compreso.
Aveva sempre pensato di condividere testardaggine, alterigia e boriosa ostentazione d’orgoglio con suo padre, credeva di essere più come lui in fatto di morale.
Quante volte si erano divertiti a dar fastidio a Gioia? E tutte le volte che avevano disubbidito ai suoi ordini o che se ne erano fregati delle sue raccomandazioni?
Tante, tantissime, così tante da aver perso il conto, anzi, da non averlo potuto nemmeno cominciare.
Per non parlare di quegli episodi in cui il papà l’aveva spronata ad affrontare il pericolo con coraggio per il piacere del brivido più che per reale necessità.
Però… lei non aveva salvato Sefora unicamente per l’emozione della battaglia, non aveva combattuto contro Carlo solo per vendicare un torto subìto, non aveva protetto la cercatrice e il cugino dai vampiri per mettersi alla prova.
Capì una volta per tutte di assomigliare molto di più a quell’umile donna che nonostante la sua fierezza si piega con dignità per l’amore della famiglia perchè, in cuor suo, si rese conto che avrebbe fatto la stessa identica cosa.
Sarebbe stata disposta a tutto per le persone che amava.
 
 

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Capitolo 12
*** Certe volte è meglio non sapere ***


Elsa rimescolò il riso freddo per la milionesima volta.
Giocava con i dadini di prosciutto e le olive, riempiva un bel cucchiaio e quando era sul punto di imboccarsi posava il cucchiaio ancora pieno nel piatto.
Teneva la testa appoggiata alla mano, massaggiandosi le tempie con i polpastrelli.
La madre era partita quella mattina. L’aveva accompagnata assieme al padre, il quale era partito come supporto alla squadra.
Li aveva salutati nel cerchio di rocce dove si facevano le assemblee. C’erano tutti i parenti di chi partiva e l’atmosfera era tutt’altro che felice.
Lei e la madre avevano litigato la sera precedente, e anche se avevano fatto pace, Elsa era disgustata da ciò che aveva fatto e detto.
L’aveva trattata come se fosse una stupida, invece stava rischiando la vita per la famiglia.
Un minuto prima che partissero da casa, l’abbracciò forte come forse aveva fatto solo un paio di volte da bambina. Non voleva lasciarla andare, eppure, capendo i suoi motivi, sciolse l’abbraccio e l’aiutò di nuovo a controllare l’equipaggiamento.
Poi era successo il resto: aveva salutato i genitori come mai aveva fatto in vita sua, temendo per la loro incolumità per la prima volta in diciassette anni. Vedendoli andare via aveva sentito un groppo allo stomaco, le si era seccata la bocca e le pareva quasi di aver sentito gli occhi pizzicare.
In più, non si era mai sentita così inutile, insufficiente e inadeguata; praticamente non si era mai sentita così di merda.
I suoi genitori stavano per fare un’incursione durante il periodo della luna piena! Era pericolosissimo, potenzialmente mortale!
E in più, possibile che non potesse combattere con loro? Ormai era grande, sapeva battersi bene, li avrebbe aiutati! Invece no, doveva restare a Villanova a non fare un cazzo!
Era arrabbiata e frustrata, neanche le chiacchiere con Damiano erano riuscite a tirarla su di morale.
Avrebbe voluto andare da Sefora, ma non pareva dell’umore giusto, era triste anche lei.
Adesso era seduta a tavola con il cugino ma non aveva affatto fame.
Non riuscì a mangiare nemmeno un boccone di quello che aveva preparato, dovette buttare via tutto e così fece anche Damiano.
Erano veramente a terra.
Non fecero nemmeno la lotta per il telecomando o il posto più comodo perché non avevano voglia nemmeno di guardare la tv. Ogni tanto sospiravano, niente di più.
Passarono il pomeriggio a bighellonare per casa senza fare nulla tutto il giorno.
Saltarono anche la cena, e alle otto e mezza partirono per andare a passare la notte dai rispettivi amici.
 
 

 
Elsa suonò il campanello di casa Scida e Matteo le aprì. Lei abbozzò un sorriso ma quello che venne fuori sembrava si più una smorfia nervosa.
«Ciao Matteo».
«Ciao Elsa, vieni dentro. Sefora è in camera sua, sali pure».
«Grazie. Spero di non disturbare…».
«Figurati! E poi è stata nostra l’idea, no? Entra e accomodati pure» la tranquillizzò l’uomo.
Fece due passi dentro casa e la cercatrice si affacciò sulla balaustra delle scale salutandola. Sembrava più felice di quella mattina.
«Vieni su, dai!» disse sorridendo.
«Arrivo, arrivo».
La seguì fino in camera sua dove posò il borsone con l’occorrente per la notte.
Sefora aveva intuito subito che l’amica aveva il morale sotto i piedi: entrambi i genitori erano partiti per una missione pericolosa e potenzialmente mortale, non doveva essere facile distrarsi da tali pensieri.
«Ehm… casa mia non è molto grande… noi non abbiamo una camera degli ospiti, quindi… sai, ehm… questa notte dormirai con me, sempre se non ti dà fastidio…» disse Sefora leggermente in imbarazzo.
A queste parole Elsa riprese un po’ di vita.
Anzi, non fu proprio così, semplicemente il suo cervello andò in tilt e la scarica elettrica provocata dal cortocircuito la mise sull’attenti.
«Ah, sì certo! Cioè no! Nel senso… non mi dispiace, ecco, nessun problema! Se non dispiace a te, chiaramente, ehm… sennò io ecco, posso dormire sul divano intendo».
Non aveva pensato all’eventualità di dormire nello stesso letto!  E aveva risposto in maniera impacciata, si sentiva le guance un po’ accaldate.
“Posso dormire sul divano intendo?! Ma che cazzo vuol dire? E quante volte ho ripetuto la parola ‘ecco’? Le sarò sembrata stupida”.
«Beh, adesso è presto per dormire. Che ne dici se prima guardiamo un po’ di tv?».
Elsa non ebbe nulla da obiettare e si diressero in salotto.
Il padre leggeva il giornale sulla poltrona e loro due si accomodarono sul divano. Guardarono distrattamente qualche programma spazzatura e verso le dieci andarono in camera da letto.
Il letto di Sefora era grande quasi quanto uno matrimoniale, non stavano affatto strette per fortuna: l’afa di luglio si faceva sentire,  e anche se Elsa poteva ignorare il caldo senza troppi problemi, a Sefora sembrava parecchio fastidioso, tanto che tolse completamente le lenzuola.
Scherzarono un po’ sulla temperatura più alta del corpo della licantropa, paragonandolo a una stufetta o a una borsa dell’acqua calda, ma dopo ogni risata, Elsa ritornava seria troppo in fretta e non replicava più in alcun modo.
«Elsa, ti vedo silenziosa».
«Sono solo un po’ stanca» rispose la licantropa. Non voleva farla preoccupare.
La cercatrice non parve affatto convinta.
«Se c’è qualcosa che non va puoi dirmelo» l’incoraggiò.
«Davvero, dev’essere la stanchezza. E poi, io non sono una gran chiacchierona già di mio» si difese  Elsa abbozzando un sorriso.
Sefora la prese alla sprovvista posandole un polpastrello sulla cicatrice.
Elsa si irrigidì al contatto con quelle dita delicate. I loro visi erano vicini, sentiva il suo profumo e anche nella penombra della stanza, riusciva a vedere i suoi occhi verdi bloccati in un’espressione di apprensione.
Deglutì: non sapeva mai che fare in quelle occasioni. Sefora ogni tanto le donava certe attenzioni che reputava ambigue e non ci aveva ancora fatto l’abitudine.
La maga passò delicatamente l’indice sullo sfregio, poi, con la punta delle dita passò sulla guancia e infine sul profilo della mascella e del mento.
Elsa le pareva così misteriosa… non voleva mai che si preoccupasse per lei, era molto riservata e autonoma. Per lei quella ragazza era un mistero, un mistero da svelare, ma sapeva che non le avrebbe mai parlato di ciò che la turbava, perciò non insistette.
«Se è solo stanchezza, allora sarà meglio che ti lasci dormire. Buona notte» sussurrò a pochi centimetri dal suo viso.
«Buona notte anche a te».
Elsa ringraziò il cielo che la maga avesse rinunciato a insistere, perché non aveva proprio voglia di parlarne.
Anche se passata in silenzio, quella notte fu tutt’altro che sconfortante: sdraiata accanto alla ragazza che le piaceva potendone sentire il respiro lento e regolare era così piacevole che riuscì a mettere da parte i pensieri che la affliggevano fino alla completa perdita di coscienza.
 
 

 
Sefora si svegliò appena un raggio di sole penetrò dalle imposte illuminandole il viso. Sbatté le palpebre finché la vista non divenne nitida, poi si voltò verso Elsa aspettandosi di vederla già sveglia, ma non fu così.
La licantropa era così esausta che stava ancora dormendo nonostante fosse un tipa mattiniera.
 A Sefora non pareva nemmeno vero di avere l’occasione di poterla ammirare completamente indifesa e spontanea: riposava su un fianco, i capelli sparsi sul cuscino, una mano stretta a pugno e la fronte leggermente aggrottata a dimostrazione di un sonno non del tutto privo di preoccupazioni.
Perché quella ragazza la interessava così?
Non così nel senso di amica, così… in quell’altro senso.
Si sentiva la sicuro con lei, le piaceva starle accanto, la faceva ridere e stare bene. Lei era più espansiva della licantropa, ogni tanto l’abbracciava e le dava un bacio su una guancia con la scusa dell’amicizia, ma quei gesti innocenti per lei non significavano questo.
Una volta aveva fatto finta di inciampare per caderle tra le braccia, ed era stato bello: lei l’aveva stretta in vita e sorretta.
Quel contatto durò più del necessario, Sefora sperava significasse qualcosa, ma non ricevette nulla di più dalle sue labbra se non qualche scherzosa presa in giro.
Elsa era sempre gentile e cortese con lei, accettava le sue piccole smancerie, però… sembrava non apprezzarle.
Già, ogni volta si irrigidiva impercettibilmente e serrava le mascelle. Talvolta diventava addirittura rossa!
Rossa di rabbia? Di imbarazzo? Probabilmente era  infastidita da tutti quei contatti, sennò avrebbe ricambiato con un po’ più di entusiasmo.
E come aveva reagito quando le aveva detto che avrebbero dormito insieme? L’idea era sembrata non piacerle, e per tutto il resto della notte le aveva cavato di bocca sì e no due parole.
Forse Elsa non provava le stesse cose, forse non voleva nemmeno un’amicizia troppo profonda. Ogni tanto le parlava dei suoi amici, e i nomi erano sempre gli stessi: era chiaro che non aveva bisogno di una cercatrice quando aveva già la sua compagnia di licantropi.
Scosse la testa come per mandar via quei tristi pensieri. Quello doveva essere un nuovo giorno, e bisognava cominciarlo bene, senza musi lunghi.
La guardò: Elsa non le aveva detto esplicitamente cosa pensasse di lei, giusto? Non era il caso di disperarsi.
Allungò una mano per spostarle delle ciocche di capelli castani dalla fronte e a quel minuscolo contatto, Elsa si svegliò.
Per un attimo, Sefora si maledisse: se si fosse trattenuta avrebbe potuto restare a guardarla ancora un po’, invece aveva ceduto alla tentazione di sfiorare i ricci perfetti di quella ragazza che adesso la scrutava con occhi scuri e profondi.
«’Giorno. Passata bene la notte?».
«Ciao» rispose Elsa sorridendo e stropicciandosi gli occhi «Ho dormito come un sasso. Tu?».
«Mi pareva di essere in letargo! Ahahah!».
«Sono già le otto e mezza». Elsa fu sorpresa di aver dormito fino a quell’ora, di solito si svegliava molto presto.
«Avevo tenuto le imposte socchiuse perciò il sole non ci ha svegliate prima. Ti va di fare colazione?».
«Sì, ho fame».
Dormire accanto a Sefora aveva avuto un influsso benefico sulla licantropa, le aveva fatto dimenticare l’angoscia del giorno prima e adesso doveva recuperare i pasti saltati.
Scesero in cucina, ancora scalze e in pigiama, dove trovarono Matteo già vestito .
«Buongiorno! Dormito bene?».
«Yes, papi».
«Benissimo, Matteo».
«Bene, mi fa piacere. Adesso vado con un amico allo stadio: questa mattina giocano Villanova e San  Paolo».
Solo allora le due si ricordarono che era domenica. Si guardarono complici: avevano tutto il giorno libero!
«Fate le brave, mi raccomando. Per qualunque evenienza, chiamatemi».
«Sì papà, stai tranquillo e goditi la partita!».
«E se uscite, chiudete bene l-».
«Sì sì, lo faremo, adesso vai sennò fai tardi!».E così la figlia lo accompagnò alla porta e lo fece uscire.
Tornò a tavola dove dopo un secondo di assoluto silenzio, le due ragazze scoppiarono a ridere e si misero ad esultare felici: per via degli allenamenti extra non avevano mai tempo per divertirsi e un’occasione del genere era troppo allettante per farsela scappare.
«Elsa, dove andiamo oggi? In piscina? Al centro commerciale?» chiese sprizzando gioia da tutti i pori.
«Oppure al parco divertimenti? O al parco acquatico con gli scivoli nuovi?» propose l’altra.
«Cavolo, c’è così tanta roba da fare che non so da dove cominciare!».
«E se andassimo a fare colazione al bar? Oggi facciamo solo i nostri comodi, facciamoci servire!».
«Sì dai! E poi dove andiamo?».
«Tra un po’ farà caldo, quindi perché non andare al parco acquatico? Hanno inaugurato anche lo scivolo kamikaze!».
«Mi hai convinta!» esclamò Sefora che ormai non conteneva più la felicità.
«Allora è aggiudicato!».
Corsero in camera a cambiarsi, si diedero una rinfrescata e si precipitarono al Gattacicova dove furono accolte dal sorrisone di Irma, la mezza nana.
«Buongiorno ragazze! Che cosa vi porto di buono?».
«Per me Caffè shakerato freddo, un bombolone alla crema e un frappé alla menta!».
«Accidenti Elsa, oggi hai proprio fame, eh? Ahahah! E tu Sefora?».
«Caffè al ginseng, pasticcini alla marmellata e anche una fetta di torta al cioccolato».
«Perfetto! Vi porto tutto tra un attimo». E così si allontanò dal tavolino all’aperto dove le due amiche si erano sedute.
Il Gattacicova era un bar accogliente che si trovava tra la periferia e il centro,i cui clienti abituali erano le creature magiche dei dintorni.
Irma, la padrona, aveva preso le capacità imprenditoriali dai nani e la statura e il carattere dagli umani: un mix micidiale che la rendeva solare e allegra ma allo stesso tempo sicura di sé. Praticamente, tra gli esseri magici era un’autorità, nel senso che la conoscevano tutti.
Un po’ come le vecchiette che presenziano sempre ai rosari o ai funerali di chiunque, come gli anziani seduti sempre alla stessa panchina alla stessa ora a leggere sempre lo stesso giornale sportivo,  come i festaioli  presenti a ogni party o come l’amico che conosce tutti e che ha gli agganci giusti per qualunque cosa.
Ecco, più o meno era così. Sempre al suo bar pronta a farti un caffè o a stillare birra accompagnando il tutto con un sorriso.
La colazione arrivò in un baleno e sparì altrettanto velocemente. Pagarono e tornarono ognuna alla propria casa con l’intenzione di mettersi il costume e di incontrarsi pochi minuti dopo alla fermata del bus.
Elsa entrò di corsa in casa e andò in camera sua salendo i gradini a due a due. Stava per entrare quando si accorse che la porta della camera dei genitori era socchiusa.
“Mi pareva fosse ben chiusa quando sono andata via ieri sera”.
Sospettosa e guardinga entrò nella stanza. Non c’era nessuno adesso, ma sentiva che qualcuno c’era stato un po’ di tempo prima, e quel qualcuno non erano i genitori.
Percepiva il tenue odore di suo cugino.
“Che diavolo è venuto a fare qui?”.
Controllò sotto il letto, dietro la porta e dietro l’armadio ma non vide nulla. Poi, l’occhio le cadde su un pezzo di stoffa che usciva dall’armadio. L’aprì e una maglia di sua mamma cadde a terra: qualcuno l’aveva spostata e non l’aveva risistemata per bene.
Adesso l’odore di Damiano era più forte.
“Deve aver sostato qui per parecchi minuti, tanto da impregnare i vestiti più esposti e… non dev’essere andato via da molto”.
Curiosa come una capra, come avrebbe detto sua nonna, rovistò tra gli abiti di Gioia in cerca di chissà cosa, finché non vide una busta con dentro un grosso plico di fogli.
L’annusò.
“Sì sì, Damiano ha tenuto in mano questa roba. Perché l’ha cercata? Come sapeva che erano qui? Cosa c’è scritto sopra?”.
Aprì la busta giallastra e ne estrasse i documenti. Erano scritti a mano in bella grafia.
Li lesse alla velocità della luce, incredula. Non ci poteva credere, non era possibile! Insomma, era ridicolo!
Rilesse più e più volte, ma la verità era quella: si erano presi gioco di lei, le avevano mentito.
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:
Eccomi con il nuovo capitolo, più tagliavene che mai!
I genitori partono, i figli sono in pensiero, la luna piena rende i mannari più forti, Sefora crede che Elsa la odi... tranquilla cara, è solo che Elsa è un pò babbea, tutto qui;)
E cosa avrà trovato di così terribile la licantropa nell'armadio?
Lo scoprirete nella prossima "puntata"  :)

Ignis_eye

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Capitolo 13
*** Indizi nascosti ***


“No… me lo avrebbero detto, deve esserci per forza un errore”.
Controllò la data: erano recenti, risalivano a cinque giorni prima.
“Perché Damiano non me l’ha detto? Lui lo sapeva!”.
Controllò il cellulare, ma non trovò né messaggi né chiamate perse.
Sentiva la rabbia montarle dentro, le vene sul collo le pulsavano.
Qui documenti riportavano alcune confessioni dei vampiri imprigionati e la vera destinazione della missione.
I suoi genitori non erano andati in Piemonte da una comunità di mezzi nani! Erano tutte bugie, bugie create per tenere all’oscuro lei, Damino e Sefora di quello a cui andavano incontro!
Era arrabbiatissima, frustrata… si sentiva umiliata!
Sentì un’energia potentissima inondarla partendo dalla testa e dal cuore; si propagò in tutto il suo corpo attraverso il suo sangue, potenziò il suo fisico e i suoi sensi fino a trasformarla in bipes. Ruggì e ululò fino a sentirsi la gola bruciare, scaraventò un comodino addosso al muro, rovesciò il letto, infranse lo specchio e graffiò l’armadio.
“Come hanno potuto!”.
Ansimava per lo sforzo della metamorfosi e per la rabbia e quando fu calma, benedisse le barriere anti-rumore.  Si appoggiò al muro e si lasciò scivolare a terra tornando umana.
I suoi genitori erano andati in Valle d’Aosta, in un castello in rovina. I vampiri avevano confessato che là c’erano alcuni loro capi.
Era quasi una missione suicida e nessuno l’aveva informata, neanche fosse stata una bimbetta di tre anni. Le avevano mentito!
“Devo avvertire Sefora e devo parlare con Damiano”.
Uscì di casa correndo, attirando gli sguardi curiosi dei passanti e qualche occhiataccia da parte dei vecchietti. Mentre correva chiamò più volte Sefora al cellulare, ma lei non rispose.
Arrivò a casa della maga e si stupì di trovare la porta aperta. Entrò e per un pelo non le venne un colpo: la casa era a soqquadro, niente era al suo posto. I mobili distrutti, i gradini delle scale rotti, il frigorifero squarciato…
E un odore orrendo, come di pelo bruciato e melma.
«Sefora! Sefora, rispondi!».
Silenzio.
“Sono stati i vampiri! Sono stati loro! Quei bastardi infami!”.
Agguantò il cellulare e chiamò il cugino.
«Pron-».
«Brutto stronzo! Lo sapevi e non mi hai detto niente!»lo aggredì.
«Ma di cosa st-»
«Non fare il finto tonto con me, sai?! Parlo della missione di mamma e papà! Tu lo sapevi!».
Dall’altra parte sentì solo un sospiro di rassegnazione.
«Sì, l’ho scoperto qualche ora fa. Tu come…».
«Non ha importanza adesso».
Gli raccontò della casa ridotta a un macello e della scomparsa di Sefora.
«Io chiamo suo papà, tu sei sicuro che nessuno ti stia spiando?».
«Sicuro».
«Comunque stai sempre assieme ai genitori del tuo amico Pietro, non si sa mai» lo liquidò chiudendo bruscamente la telefonata.
Chiamò Matteo che all’inizio pensava fosse uno scherzo, ma che una volta a casa dovette ricredersi. Elsa lo vide apparentemente tranquillo, ma sapeva benissimo che doveva fare uno sforzo immane per restare padrone delle proprie azioni.
«Elsa, dobbiamo riunire il consiglio. Cominciamo a chiamare».
Telefonarono a tutti e li fecero venire in casa Scida, dove venne deciso di iniziare subito le ricerche.
Chan e la sua allieva si appartarono per parlare.
«Elsa, credo che tu sia in pericolo» sussurrò lui.
«Sì maestro, lo credo anche io. Sono sicura che siano stati i vampiri o meglio, qualcuno mandato da loro perché in casa c’è il crocefisso di mio papà».
«So che hai scoperto la vera missione».
«Sì» rispose Elsa quasi ringhiando «ma avrei preferito saperlo in un altro modo. Magari dai miei genitori, magari dal mio maestro…» lo provocò.
«Elsa, lo abbiamo fatto per il vostro bene, era più sicuro per voi restarne all’oscuro» intervenne Gaspare.
«Già, infatti sono certa che Sefora si stia divertendo un mondo coi suoi amichetti vampiri. È un peccato che non abbiano dato un passaggio anche a me fino a Sicurolandia, perché mi sarei divertita un sacco».
Gaspare si mostrò seccato dal suo sarcasmo e avrebbe ribattuto se Chan non lo avesse fermato e invitato a parlare con gli altri di una missione di recupero.
Quando si fu allontanato, il maestro riprese a parlare sottovoce con Elsa.
«Ascolta, adesso creeranno una squadra per recuperare Sefora, stai tranquilla. Ricordati però di stare sempre attenta, guardati alle spalle».
Negli occhi di Chan vide preoccupazione e quell’avvertimento le dava da pensare.
«Lo so che devo fare attenzione».
«Ma non sai a che cosa, anzi, a chi fare attenzione».
«Ma ai mannar-».
«No. Adesso non posso dirti molto, ci sono troppe orecchie che ascoltano, sappi però che il nemico è sempre in agguato. Non fidarti di nessuno, intesi? ».
«Sì ma io no-».
«Ti dirò tutto quando ne sarò più sicuro» le disse mentre le prendeva un braccio e la fissava con i suoi occhi neri «Ricordati di fare attenzione».
Elsa annuì. Non aveva mai visto il suo maestro così spaventato e misterioso.
 
 

 
Venne accompagnata a casa dell’amico di Damiano, un certo Pietro. Avrebbe dovuto restare a casa loro per sicurezza.
La casa di Pietro era grande, perciò venne sistemata nella camera degli ospiti che si trovava al primo piano. Con una scusa, Damiano riuscì ad allontanarsi dalla famiglia di cercatori e a raggiungerla nella sua camera.
«Dobbiamo parlare».
Quando Elsa era così fredda aveva sempre un po’ di soggezione, quindi andò dritto al sodo.
«Sapevo che ti saresti arrabbiata. Per questo non te l’ho detto. Eri già preoccupata e non volevo che ti impensierissi oltre».
«Mossa geniale, peccato che adesso che l’ho scoperto così sia incazzata e preoccupata il doppio. Ben fatto Sherlock ».
Damiano era mortificato, ma lo aveva fatto perché le voleva bene. Stava ancora male per la morte dei suoi genitori, aveva anche degli incubi, non voleva che l’ansia tenesse sveglia pure lei.
«Mi dispiace».
«Mmpf».
Se la cugina sbuffava e incrociava le braccia, voleva dire che aveva bisogno di pensarci su. Ne approfittò per raccontarle di come aveva scoperto i fogli.
Era tornato a casa per prendere dei vestiti nuovi e, non trovando una delle sue maglie preferite, pensò che fosse finita per sbaglio tra quelle dello zio. Sbagliò l’anta dell’armadio finendo tra gli abiti della zia e una maglietta cadde per terra mostrando la busta.
Preso dalla curiosità lesse tutto quanto e poi decise di nasconderlo ancora.
«Se tu l’avessi letto ti saresti arrabbiata un sacco. So che non ti piace restare all’oscuro di certe cose».
«Già, allora hai intuito che avrei fatto i salti di gioia restandone inconsapevole ancora per un pò».
Accidenti, ce l’aveva ancora con lui. Meglio continuare a parlare.
«Di sicuro avrai visto anche che non ci è stato detto nulla per la nostra incolumità. Non sapendone nulla, non avremmo cercato di seguirli o di spifferare qualcosa per sbaglio e farci sentire da qualche nemico».
Nessuna risposta, Elsa guardava fuori dalla finestra dandogli le spalle.
«Ma non è andata proprio così… qualcuno ha rapito Sefora» continuò «Adesso staranno interrogando i quattro vampiri. Forse ne sanno qualcosa».
Finalmente Elsa si voltò mostrando la fronte corrugata e lo sguardo torvo.
«E’ ovvio che sanno qualcosa, e gli adulti li hanno già obbligati a confessarlo!».
«Eh?».
«Pensaci bene, le coincidenze in questa  storia sono fin troppe: la notte in cui conobbi Sefora, ci impiegai alcuni minuti a raggiungerla, eppure il mannaro non le aveva ancora torto un capello. Quando combattemmo mi disse che era la sua preda ma non le aveva fatto neanche un graffio, nemmeno uno. Se avesse voluto ucciderla non ci avrebbe messo molto, non me ne sarei nemmeno accorta».
«Sì, questo è strano. Magari, essendo giovane, voleva giocarci un po’, torturarla fino allo sfinimento e poi mangiarla. Non sarebbe la prima volta che un mannaro giovane ne fa una del genere».
«La seconda coincidenza è questa: un oculus sequi ci ha pedinate entrambe, ma quando l’ho guardato, il suo sguardo era fisso solo su di lei».
«Mmm… non me ne intendo di animali inseguitori, ma può darsi che possano inseguire solo una per-».
Elsa non lo lasciò nemmeno finire:
«No, il numero per loro non è un problema. Terza coincidenza: l’attacco a casa nostra. Adesso pensaci bene, visto che c’eri anche tu. Siamo stati attaccati tutti, ma uno di noi in particolare e quel qualcuno, guarda caso, è proprio Sefora».
«Sì, in effetti un vampiro si è fiondato subito su di lei, ma non vuol dire niente…».
«E invece sì: cos’hanno fatto a te e a me?».
«Ci hanno massacrati di brutto» ricordò con dolore Damiano, massaggiandosi il collo.
«Esatto, ma lei no. Uno l’ha agguantata ma non le ha fatto niente. Non ti pare un po’ strano? Ogni volta che lei si dimenava e scappava, la riacciuffavano senza farle male».
«Adesso cominci a farmi venire dei dubbi, ma dobbiamo valutare tutte le ipotesi… e poi, un vampiro le aveva comunque lanciato una scarica elettrica potentissima».
«Sì, ma lei avrebbe retto bene il colpo perché era in forze. Poi, quando sono arrivati i miei genitori, devono essersi fatti prendere dal panico e le hanno lanciato qualche incantesimo».
«Sì sì, ricordo bene, ma in effetti, non era nulla di pericoloso».
«Per concludere, l’hanno rapita quando io non c’ero. Per tutta la casa i segni della lotta sono evidenti, ma non c’è neanche una goccia di sangue, né di Sefora né dei rapitori. Stano, no? Sefora è migliorata tantissimo nel combattimento da quando ci alleniamo insieme, possibile che non sia riuscita a ferirli?» insinuò.
«Dici che forse erano così tanti da averla sopraffatta?».
«Non proprio. Ho guardato per bene i mobili, ma sono stati distrutti senza… come dire… senza senso!».
Adesso il cugino la guardava con una faccia come per dire: “da quando in qua i mobili si rompono con una logica?”. Elsa si affrettò a spiegare:
«Intendo dire che sembrano stati distrutti per dare l’idea di un combattimento in realtà mai avvenuto».
«Cosa?!».
«Secondo me, erano così tanti che Sefora ha capito di non potercela fare, quindi si è lasciata catturare».
«Che codarda!». Damiano non riuscì a trattenersi e se ne dovette pentire subito, perché gli arrivò uno schiaffone così forte che lo assordò a un orecchio.
«Stai zitto! Prima di sparare cazzate, lasciami finire!».
Elsa non era proprio riuscita a controllarsi: quel commento l’aveva veramente infastidita.
« Sefora è scappata abbastanza a lungo per lasciare dei messaggi! Prima che arrivassero tutti, io li ho trovati e li ho presi! Nessuno a parte me e te sa che esistono».
Il cugino si massaggiava la guancia e mentre l’orecchio smetteva di fischiargli, si scusò con Elsa.
«Scusami tu, piuttosto. Non avrei dovuto».
Giocare alla lotta con Damiano era un conto, ma picchiarlo per davvero era tutta un’altra cosa, non le era piaciuto per niente.
«Quindi Elsa, mi stai dicendo che consapevole di non poterli battere, Sefora abbia lasciato degli indizi per ritrovarla? Furba la ragazza».
«Sì. Dopo te li faccio vedere. Adesso finisco di dirti la mia idea sui quattro vampiri catturati».
Spiegò che era impossibile che non avessero detto nulla, perché Nicola era un, come dire… beh, diciamo che sapeva come convincere la gente a vuotare il sacco.
Nella sua cantina aveva catene e attrezzi da tortura di ogni genere, di sicuro i quattro avevano già spifferato tutto.
«Nei documenti non è riportato, ma sono certa che abbiano detto qualcosa riguardo Sefora».
«E di cosa se ne fanno di una maga cercatrice così giovane?» chiese perplesso Damiano.
«Non lo so» gli rispose sospirando, ma quello che avrebbe voluto dire era : “non ci voglio neanche pensare, ma di sicuro qualcosa di terribile”.
«Raccontami degli indizi» la esortò lui.
«Beh, prima che suo papà arrivasse, ho notato che il tappeto che portava in camera sua era un po’ spostato ma non troppo, come se qualcuno ci avesse corso sopra inciampando un po’. La maniglia della sua stanza (e il legno attorno ad essa) era graffiata come se qualcuno con degli artigli avesse tentato di aprirla, e per finire, uno dei suoi libri era sulla scrivania e una penna era caduta accanto alla sedia. Tu non lo sai, ma lei è una patita dell’ordine, quella roba era in disordine perché non ha potuto rimetterla a posto».
«Capisco… che tipo di indizio ha lasciato? Un biglietto, immagino».
«Più o meno sì» disse lei estraendo un piccolo libro da sotto la maglietta.
Sembrava una copia tascabile di “Cime Tempestose”, con copertina in brossura di colore blu.
«L’ha scritto qui dentro, sulla prima pagina bianca».
L’aprì e mostrò a Damiano il messaggio scritto con grafia frettolosa:
 
Mannari, gal luni
 
Il messaggio finiva lì, senza nessuna chiara spiegazione.
Elsa, che in quelle settimane aveva avuto modo di vedere spesso la libreria dell’amica, sapeva che quel libro all’apparenza normale celava un volume magico.
«Damiano, penso che l’indizio più importante sia il libro stesso».
«Nel senso che c’entra qualcosa con la trama? Sefora è una ragazza dolce, lo si capisce al primo sguardo, ma non pensavo leggesse certa roba».
Elsa non poteva dargli torto: lo aveva letto anche lei e lo aveva trovato decisamente troppo distante dal suo genere di libri.
«Può darsi che le sia piaciuto, ma quello che intendevo dire, è che teneva questo libro nella parte della libreria più lontana dalla porta».
«Allora deve averlo scelto per un motivo, sennò avrebbe preso il primo che le capitava in mano. Che sia un libro magico? Uno di quelli che sembrano normali e in realtà occultano qualcos’altro?».
«Hai fatto centro. Adesso il problema è scoprire quello che c’è sotto. Credo che si mostrino solo con Sefora…».
«Non c’è problema cugina! Anche se non posso convincere anche questo libro a farsi vedere per quello che è, conosco chi può farlo» affermò Damiano con sicurezza «direi di far provare il mio amico Pietro…».
Elsa ebbe un sussulto e scuotendo la testa disse:
«Non mi va che qualcuno sappia di questo indizio… non posso fidarmi».
«Tranquilla cugina! Il mio cercatore non sarà sveglio come la tua, ma ti assicuro che non è completamente stupido» sussurrò con un sorriso smagliante e una strana luce negli occhi.
Elsa non sapeva se fosse una cosa buona o cattiva: quando Damiano aveva quello sguardo, significava che stava per combinarne una delle sue.




Angolo dell'autrice:
Ecco che si arriva ad una svolta decisiva: Sefora viene rapita, e sembra che dietro questo rapimento ci sia qualcosa di strano...
Cos'ha di così importante Sefora per i mannari e i vampiri?
Boh 0:)  lo saprete andando avanti;)



Ignis_eye

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Capitolo 14
*** L'elmo maledetto ***


“Non credo sia una buona idea ma se non c’è altra scelta…”.
«Va bene, ma hai convinta» sospirò «spero solo di non sbagliarmi».
«Stai tranquilla, fidati di me!».
Elsa aveva un problema: quando qualcuno le diceva di fidarsi, lei non ci riusciva proprio. Faceva lo stesso quello che le veniva consigliato, ma restava in ansia, non si fidava.
«Dai, chiamiamolo».
Damiano sbraitò il suo nome, e Pietro entrò nella stanza. Era un ragazzo alto e magro, quasi scheletrico, non aveva affatto il fisico di un guerriero o di uno sportivo. Aveva un accenno di barba sul mento e i capelli castano chiaro erano scompigliati. Non era proprio brutto, ma non era neanche un Adone.
«Cosa c’è?» domandò a voce bassa.
«Pietro, amico mio! Ho un favorone da chiederti!» gli disse allegramente girandogli un braccio attorno al collo.
«Che genere di favore?» domandò preoccupato.
«Vedi, dovresti fare in modo di convincere questo libro a mostrarsi nella sua vera forma. Vero che lo puoi fare?».
Damiano sorrideva a trentadue denti, ma al povero Pietro pareva inquietante perché più andava avanti a spiegare, più stringeva la presa attorno al suo collo.
«Q-uesto libro? S-sì, va bene».
I cugini glielo mostrarono per bene e Damiano lo mandò in camera sua a prendere l’occorrente.
Elsa incrociò le braccia e lo guardò storto.
«Dì un po’, non lo starai mica bullizzando, vero?».
«Certo che no!» si difese lui con malcelata ironia. Poi riprese più serio: «Solo lo voglio rendere un po’ più forte e sicuro di sé. Hai visto com’è? Pensa che all’inizio dell’estate era ancora più magro e impacciato! A scuola lo prenderanno di mira se non migliora!».
Elsa sospirò e rivolse lo sguardo al cielo: non era il momento di parlare di un cercatore sfigato e di come renderlo più forte. Era sicura che il cugino non lo trattasse con vera cattiveria, perciò poteva posticipare la ramanzina.
«Vedi solo di non trattarlo troppo male».
«Tranquilla cugina!» la assicurò facendole l’occhiolino «lo sto solo mettendo un po’ sotto torchio».
«Mhpf, va bene».
«Eccomi, sono tornato».
Pietro aveva in mano un libro di magia dall’aspetto consunto e portava un paio di occhiali dalla sottile montatura nera.
Ad Elsa parve molto strano che un cercatore potesse avere problemi di vista, era una cosa più unica che rara, perciò non riuscì a trattenere la sua curiosità:
«Ci vedi male?».
«N-no, io ci vedo benissimo, questi occhiali mi servono per vedere cosa c’è oltre quel libro» rispose indicando la copia di Cime Tempestose.
«In che senso cosa c’è oltre?».
«I-intendo dire, cosa c’è oltre l’apparenza, la magia, e-ecco».
La timidezza e l’insicurezza di Pietro le davano non poco fastidio e capì perché Damiano ci tenesse tanto a farlo diventare un po’ più sciolto.
“Che stress fare squadra con uno così. Almeno io sono con Sefora, è mille volte meglio”.
Cazzo, Sefora. Stavano perdendo fin troppo tempo!
«Prova a fare qualcosa» lo esortò Damino «te la cavi bene con queste cose, no?».
«Sì, ma-».
«’Sì ma’ niente, sei il migliore tra noi ragazzi, svelerai il segreto di questo libro in un batter d’occhio».
Nonostante il complimento di Damiano, l’innato pessimismo di Pietro lo portò a pensare ad ogni tipo di problema che potesse venir fuori durante l’operazione, tuttavia non ne fece parola col licantropo, non aveva certo intenzione di sentirsi dir su come ogni volta che obiettava: stando in compagnia di Damiano aveva imparato a lamentarsi di meno.
«Va bene, allora comincio…».
Prese in mano il libro, lo aprì a metà e versò sulle pagine dell’acqua.
Sfogliò il suo manuale di magia e pronunciò un incantesimo:
«Mundaret haec pages.Omnes qui vident . Purificatio».
Le pagine assorbirono l’acqua come una spugna senza riportare il minimo danno. Ad un certo punto, l’inchiostro si sciolse e scivolò fuori dalle pagine, lasciandole completamente bianche, e così anche la copertina. Restava solo un libro perfettamente candido.
«Vetere textum».
Molte pagine del libro si fusero insieme, restando solo un centinaio. Per il resto, il tomo non mutò, ma Pietro lo prese in mano e cominciò a leggerlo come se ci fosse stato davvero scritto qualcosa.
«Ragazzi, ho trovato il testo originale. È un vecchio libro che raccoglie informazioni frammentarie sul Necronomicon».
I due cugini lo guardavano come si guarda qualcuno che dice di essere Napoleone.
«Ma se non c’è scritto niente!» gli fece notare Damiano «Ho sempre sospettato che fossi un po’ strano, ma arrivare a leggere delle pagine bianche… se lo scoprisse tua madre, ti manderebbe in manicomio».
«Ah ah, divertente!» rispose Pietro un po’ infastidito «Voi non potete vedere nulla perché non portate questi occhiali. Le lenti servono a vedere oltre gli incantesimi occultatori che non riesco a eliminare».
«Cosa dice di preciso?» domandò Elsa. Non c’era tempo per parlare del perché e del percome, bisognava agire, non c’era un secondo da perdere.
«E’ un libro vecchio che riporta informazioni confuse. Parla di alcuni incantesimi del Necronomicon e delle leggende su di esso. Credo sia stato scritto circa duecento anni fa».
Pietro sembrava aver dimenticato la sua timidezza e parlava con scioltezza.
«Non penso ne circolino molte copie, ma non parla di nulla di eccezionale» continuò scorrendo lo sguardo sulle pagine.
«Sono tutte cose già lette e già sentite, nulla di nuovo. Come mai vi interessa tanto?».
«Fammi leggere» disse Elsa ignorando la sua domanda «magari io troverò qualcosa».
Pietro era un po’ riluttante a prestare i suoi preziosi occhiali alla licantropa, ma lo fece senza lagnarsi perché sentiva addosso lo sguardo di Damiano.
Elsa inforcò gli occhiali goffamente, non aveva dimestichezza con certi affari.
Grazie alla sua velocità sovrumana lesse le poche pagine in alcuni minuti e ritornando su alcuni stralci che l’avevano attirata alla prima lettura.
«Damiano, prendi gli occhiali e guarda qui. Leggi di questo incantesimo. Non ti pare di aver già visto queste cose?» gli domandò.
«Beh, in effetti sì. Quando i vampiri ci hanno attaccati a casa nostra, mi sembravano…  come dire… sguscianti?».
«Esatto, ogni volta che li azzannavamo, loro si liberavano con una facilità impressionante, e qui c’è proprio un riferimento a un incantesimo con gli stessi effetti».
Pietro seguiva i loro discorsi in silenzio, capendo poco o niente. si domandava solo perché fossero così immersi nella lettura di quel libro.
«Ma la parte più importante arriva adesso. A casa di Sefora, ci sono tracce del passaggio di mannari, giusto?».
«Giusto».
«Bene. Come hanno fatto a lasciare segni di artigli se di giorno per loro è quasi impossibile trasformarsi? E come hanno fatto a distruggere tutto se di giorno e nelle notti senza luna sono molto più deboli? Avrebbero dovuto fare meno danni».
I due ragazzi erano pensierosi: i ragionamenti di Elsa non facevano una piega, ma allora era impossibile che fossero stati dei mannari.
«Bisogna pensare a tutte le possibili eccezioni» disse Pietro «Sappiamo che i mannari più vecchi, quelli con almeno trecento anni, possono trasformarsi di giorno, seppur con uno sforzo enorme e per pochissimo tempo. Potrebbero essere stati dei mannari del genere a rapire Sefora. Ma si può sapere cosa c’entra questo con il libro?».
Quel Pietro era davvero curioso, così i cugini gli raccontarono la verità per farlo star zitto. Era un po’ imbranato, ma con gli incantesimi era un mostro, sarebbe stato utile.
«Adesso capisco!» esclamò «Sono sicuro che Sefora abbia scelto questo libro perché contiene la risposta a queste domande! Di certo era molto sorpresa quando l’hanno attaccata, perciò ha fatto in modo di far trovare questo libro».
«Esattamente. Ora vi spiego. Ho trovato una pagina che spiega la possibile esistenza di  un incantesimo o roba simile che consente ai lupi mannari di trasformarsi anche di giorno».
Rindossò gli occhiali e lesse ad alta voce quello stralcio dall’inchiostro sbavato e rovinato:
«… I lupi mannari, per grazia degli dèi, possono importunare le brave genti solo quando il sole non illumina più la terra, e per malagrazia dei demoni, possono scatenare la loro furia in modo impressionante solo con la luna piena.
Talvolta, per sfortuna delle anime buone, qualcuno di loro riesce a diventare bestia anche con il sole alto nel cielo.
Il Necronomicon, libro magico custodito dai cercatori (sempre siano protetti dagli dèi), nasconde nelle sue pagine il segreto per fermare gli impedimenti alla loro maledetta trasformazione. Essa è una armatura che si dice provenga dalla mente del demone della discordia, Belphegor, che la creò apposta per loro.
Egli avrebbe creato un’armatura intera, forgiata con il calore delle viscere del vulcano Harrat Khaybar  e col mercurio solido delle sue ossa, gettandone poi i vari pezzi agli otto angoli della terra. Tutti vennero trovati, usati, persi, rubati e nuovamente ritrovati per secoli, finché non vennero quasi tutti distrutti.
Belphegor, che seguiva con gioioso interesse le discordie della terra, restò amareggiato nel vedere che la sua armatura andava distrutta, così mandò i suoi tagaririm a recuperare l’elmo, l’ultimo pezzo rimasto. Con il suo sangue nero e marcio scrisse la formula nel Necronomicon, in modo che qualcuno lo trovi  per crearne altri e donargli altri secoli di discordia sulla terra.
Il nome di questo elmo è Gal—luni. Che gli dèi lo maledicano».
Chiuse il libro e si tolse gli occhiali.
«Purtroppo, tutto il testo si legge poco, e per una sfortuna ancora più grande, il nome di questa fantomatica armatura è quasi completamente illeggibile».
“Possibile che mi vadano tutte storte? Con tutte le parole che potevano anche essere cancellate, proprio quelle due dovevano rovinarsi?”.
«Bel problema» disse Pietro «ma almeno ci dà un’idea di come abbiano fatto i mannari. E poi, anche Sefora aveva scritto queste parole all’inizio del libro, giusto?».
I cugini annuirono. Almeno avevano trovato il collegamento.
«Può darsi» buttò lì Damiano «che Sefora abbia riconosciuto qualcosa nei mannari che le ricordasse questo incantesimo. Questo vuol dire, che vampiri e mannari hanno già studiato per bene il Necronomicon in questi mesi».
«Questo testo è stato scritto da un nano se fa così tanti riferimenti agli dèi e ai demoni» pensò la licantropa a voce alta.
«Potrebbe anche essere stato un licantropo o un mago. Anche noi siamo politeisti, in un certo senso» fece notare Damiano.
«Sì, ma c’è una certa differenza» intervenne Pietro «La maggior parte di noi e di voi prega gli spiriti della natura come i cristiani pregano i santi. Ogni spirito è una parte, un frammento di Dio, e per i cristiani, i santi sono come intermediari tra umanità e divinità.
 Se fosse stato uno di noi a scriverlo, ci sarebbero riferimenti agli spiriti più che agli dèi. Gli unici che pregano divinità ben distinte le une dalle altre sono i nani».
I cugini capirono una volta per tutte che il mestiere adatto a Pietro non era quello del guerriero ma quello dello studioso e del professore. Era bravo con gli incantesimi e la teoria ma pessimo nel combattimento.
«Bene, questo vuol dire solo una cosa».
«Cosa, Elsa?».
«Se un nano ha scritto questa roba, forse un nano potrà darci una mano a capirne di più».





Angolo dell'autrice:

Traduzione e spiegazione di alcuni termini:

-Mundaret haec pages.Omnes qui vident . Purificatio= Purifico queste pagine. Che possano vederle tutti. Purificazione.
-Vetere textum=Vecchio testo.
-Belphegor=E' un'antica divinità che veniva venerata dalle popolazioni del medio oriente. Con l'arrivo degli ebrei e dei cristiani, venne "tramutato" in demonio.
-Tagaririm=Sono spiriti della discordia comandati da Belphegor.
-Harrat Khaybar=E' un vulcano situato in Arabia Saudita, a nord di Medina.
Come sempre, per quanto riguarda le frasi in latino, non sono precisissime, le ho adattate un pò per renderle più orecchiabili.
Per quanto riguarda la religione dei licantropi e dei maghi, ho pensato di non farli cristiani, ma panteisti/animisti perchè mi pareva più coerente con la loro natura.
Per concludere (come se non ci fossero già abbastanza problemi) i tre baldanzosi giovanotti scoprono che i mannari adesso possono andare in giro di giorno.
E a cosa starà pensando Elsa? a chi vuole chiedere spiegazioni?



Già che ci sono, faccio pubblicità a un'altra mia storia, "Attenti a quei due", che racconta le vicende dei due cugini quando erano ancora bambini. E visto che sono in vena di farmi pubblicità, vi informo che sto scrivendo una storia intitolata "La maledizione è nel segno", ambientata sempre in un mondo in cui gli umani sono ignari dell'esistenza delle creature magiche, e sempre yuri! Solo che... l'atmosfera è tesa e il rapporto tra le due protagoniste è tutt'altro che pacifico.


Spero che questo capitolo vi sia piaciuto:)
Le recensioni sono sempre bene accette, che siano belle o brutte:)


Alla prossima,

Ignis_eye
 

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Capitolo 15
*** Occhi dolci e piccole indagini ***


«Ok, dimmi di nuovo perché siamo qui».
«Ufficialmente per prendere un caffè e per distrarci dal rapimento di Sefora» spiegò Elsa al cugino.
«Ma in verità?...».
«In verità siamo qui per avere delle informazioni sulla religione dei nani e sulle loro leggende».
Damiano non pareva tanto convinto, ma aveva accompagnato comunque la cugina al Gattacicova.
«E come pensi di introdurre l’argomento? Di solito non si va in giro a fare domande del genere» le ricordò.
«Dì un po’, non ti sarai fatto contagiare da Pietro? C’è un motivo se gli abbiamo chiesto di restare a casa».
Damiano sospirò: non poteva averla vinta, Elsa riusciva sempre ad avere l’ultima parola su tutto, perciò lasciò perdere.
E poi aveva ragione: da dove veniva tutto quel pessimismo?
«Non mi sono fatto contagiare da Pietro, è solo che non so come tu possa introdurre l’argomento».
«Un modo lo troverò. Ah, ecco che arriva Irma».
La mezza nana si avvicinò a prendere le ordinazioni.
«Oh ragazzi!» esclamò abbracciandoli entrambi e quasi strangolandoli «mi dispiace un sacco per quello che è successo!».
Era davvero triste per i giovani cugini: capitavano tutte a loro, in particolar modo ad Elsa.
Combattimenti, scontri, attacchi a sorpresa, rapimenti… e adesso il rischio di morte per soffocamento:
Irma era una donna un po’ corpulenta e tracagnotta, qualità ereditate della madre nana, e questo rendeva i suoi abbracci delle potenziali strette mortali.
«Ma dovete stare tranquilli ragazzi, gli adulti stanno già preparando tutto» disse staccandosi.
I due giovani, che per via dello stritolamento avevano la faccia rubiconda come quella di un nano, erano meno agitati di lei ma dovettero fingere di essere disperati.
«Ascoltate, adesso vi porto qualcosa di buono per tirarvi su, va bene?».
«Grazie, sei molto gentile» sussurrò Elsa con gli occhi bassi.
Per un pelo Irma non si commosse vedendo tanta tristezza in una ragazza come Elsa e dovette allontanarsi in fretta per non piangere.
Quando se ne fu andata, Damiano disse:
«Sei sicura che non abbiamo esagerato con le finzioni? Irma sembra davvero tristissima».
«Beh, Sefora è stata rapita da dei mannari che possono trasformarsi di giorno grazie ad un elmo demoniaco. Direi che fa bene a preoccuparsi».
«Ma questo lei non lo sa».
«Chissà come reagirebbe se lo sapesse».
La licantropa sbirciò oltre la parete di cartongesso che li nascondeva e vide che la mezza nana stava tornando.
Benedisse quel piccolo angolo appartato: potevano parlare tranquillamente senza che qualcuno li sentisse, perché la loro posizione era tale che neanche un licantropo dall’udito finissimo avrebbe potuto ascoltare i loro discorsi.
«Ecco qui: tè e pasticcini alla marmellata di albicocche. Se avete bisogna di qualcos’altro, chiamate pure, sapete?».
«Sì Irma, grazie» disse Damiano.
La padrone del locale si allontanò e i ragazzi poterono abbandonare le loro facce da funerale.
«Ascolta, intanto che pensiamo a come buttare giù le domande, pensiamo all’indizio. Cosa dovremmo fare? Dirlo agli adulti?».
Elsa ripensò alle parole del suo maestro:
 
«Ascolta, adesso creeranno una squadra per recuperare Sefora, stai tranquilla. Ricordati però di stare sempre attenta, guardati alle spalle».
«Lo so che devo fare attenzione».
«Ma non sai a che cosa, anzi, a chi fare attenzione».
«Ma ai mannar-».
«No. Adesso non posso dirti molto, ci sono troppe orecchie che ascoltano, sappi però che il nemico è sempre in agguato. Non fidarti di nessuno, intesi? ».
«Sì ma io no-».
«Ti dirò tutto quando ne sarò più sicuro. Ricordati di fare attenzione».
 
“Ma perché cazzo non mi parla mai chiaramente?! Perché dice tutto per enigmi o lascia i discorsi a metà?!”
«No, Chan mi ha detto di non fidarmi di nessuno».
«Però a me l’hai detto».
«Però tu sei mio cugino, non uno qualunque» buttò lì con naturalezza.
Per un pelo Damiano non esplose di gioia: sentirsi dire una cosa del genere da Elsa era un evento più unico che raro, lei non dava mai a vedere quanto gli volesse bene. Si era fidata di lui.
Eppure Elsa non aveva nemmeno la minima idea di quello che aveva appena detto, non ne capiva l’importanza.
«Va bene, non diciamolo agli adulti».
« Intanto mangiamo, abbiamo saltato il pranzo».
Fece per prendersi un biscotto che un ricordo affiorò immediatamente. Sefora, la prima volta che fecero colazione assieme, ordinò esattamente le stesse cose.
«Beh? Non mangi?» domandò Damiano mandando giù il primo pasticcino.
«Non abbiamo tempo da perdere con il cibo, dobbiamo pensare a un piano!».
«Ma non avevi detto di-».
«Mangerò quando tutto sarà finito, prima devo ritrovare Sefora!».
Scrutò il bar da dietro la parete in cartongesso: erano le due del pomeriggio e a parte loro due non era rimasto più nessuno.
Si alzò e si diresse al bancone dove Irma asciugava distrattamente dei bicchieri.
«Irma…» attaccò con voce tremolante.
«Dimmi cara, cosa c’è?».
«Non riesco a fare a meno di pensare che le sia capitato il peggio».
«Oh, povera stella!».
Il suo volto mostrava tutta la sua apprensione.
«Ho paura che l’abbiano già uccisa!».
«No, abbi fede negli dèi, vedrai che la proteggeranno».
“Bingo”.
«Gli dèi?» domandò la licantropa con occhi lucidi.
«Sì. Da quando ho saputo della notizia, non ho fatto altro che pregare Syn che la proteggesse!».
«Ma Irma, né io né lei veneriamo Syn, la dea della giustizia! Non serve a nulla!».
«Se continui a pensare negativamente, Belphagor ne trarrà vantaggio!».
«Chi è Belphagor?» domandò Elsa con falsa ingenuità. Non aspettava altro che quello.
«E’ il demone della discordia, è lui che causa gran parte del male nel mondo. Ci sono una sacco di leggende su di lui…».
Damiano si era avvicinato mogio mogio al bancone per ascoltare i loro discorsi e facendo finta di aver bisogno di consolazione. Non riusciva a credere che la cugina fosse davvero arrivata al dunque solo facendo gli occhi tristi.
«Ragazzi, io non vorrei rattristarvi ancora di più…».
«Irma, raccontaci queste storie» insistette Damiano «se le lasci alla nostra immaginazione, finiremo per immaginarcele più brutte di quel che sono».
La mezza nana appoggiò il bicchiere asciutto e ne prese un altro bagnato.
«Va bene…».
Passò almeno venti minuti a parlare di leggende e miti senza avvicinarsi nemmeno un po’ a quello dell’armatura.
Elsa capì che se non fosse intervenuta, non avrebbero scoperto nulla.
Aveva ascoltato tutto con interesse, e adesso si poneva il problema: come introdurre l’argomento?
Damiano la guardò come per dire:
“Brava, fin qui ce l’hai fatta. Vai avanti, adesso”.
Alla licantropa si accese la lampadina in testa.
«E pensare che non avrà nemmeno potuto mettersi l’armatura per proteggersi! L’avranno picchiata  e magari la stanno seviziando pure ora!».
Per un pelo Irma non lasciò cadere a terra il bicchiere che stava asciugando.
«Irma? Cosa c’è?» chiese Damiano preoccupato.
«N-nulla, era bagnato e mi stava scivolando…».
Ai due cugini non passò inosservato il leggero balbettio e capirono di essere giunti al dunque.
«Sicura? Hai fatto una faccia» continuò Elsa «non è che magari ti è venuta in mente un’altra leggenda di cui non vuoi parlarci?».
La mezza nana capì di non poter sfuggire allo sguardo indagatore della ragazza, così cedette e svuotò il sacco, confermando le loro teorie e aggiungendo qualche particolare non indifferente.
 
 

 
«Visto? Ce l’ho fatta a scoprire tutto sulla leggenda! Dovresti avere più fiducia in me, cugino».
«Va bene, questa volta hai avuto ragione tu. Comunque, sei sicura che non sospetti nulla?» domandò calciando una lattina sul marciapiede «talvolta le tue domande erano un po’ insistenti».
«Non credo ci sia arrivata. E poi, non ho mai smesso di fare il mio musetto triste».
«Già, direi che possiamo stare tranquilli».
Camminavano l’uno accanto all’altra su uno stretto marciapiede pieno di buche, dirigendosi a casa di Pietro.
Il tempo era soleggiato, ma la preoccupazione non permetteva loro di vedere quanto fossero belli i giardini fioriti di luglio, nonostante i loro sensi acutissimi.
«Senti» ricominciò Damiano «quand’è che hai imparato a fare gli occhioni da cane bastonato?».
«Ho imparato da mia cugina. Quando eravamo bambine continuava a frignare».
Davide si grattò la testa.
«Quella bionda e smorfiosa, giusto? La figlia del fratello di tua mamma».
«Yes, proprio quella. Per fortuna che si sono trasferiti a Latina, lei era proprio una scassa balle».
«Ahahaha! sì, mi ricordo quando faceva la comandina senza che tu le dessi retta! Era pure tre anni più grande di te, ma tu niente, non ne volevi sapere di essere la sua bambolina».
Elsa ghignò ripensando a tutti gli scherzi che quella stronzetta le faceva e che misteriosamente le ritornavano indietro più cattivi di prima.
«Già, e ad ogni brutto tiro che mi faceva mi vendicavo. Ma adesso basta pensarci. Dopo il rapimento di Sefora, sono sicura che chiameranno a raccolta molti licantropi sparsi per la nostra nazione, spero non facciano venire anche lei».
«Mmm… speriamo. Piuttosto, sai nulla degli zii?».
Chan aveva avvertito tutti e due che in caso di interruzione della missione sarebbero stati chiamati, ma nessuno dei due aveva più saputo niente.
«Macché» rispose Elsa facendosi scura in viso «nessuna chiamata persa sul cellulare, né messaggi, né altro».
Sbuffò.
Possibile che anche dopo questo i suoi genitori dovessero continuare? E cosa stavano facendo? Sui documenti che aveva trovato nell’armadio non c’era scritto nulla di preciso. Potevano essere là a combattere oppure per cercare un accordo, una specie di tregua.
“Ma no, stanno combattendo di sicuro! Si sono portati dietro un sacco di armi!”.
Cacciò le mani nelle tasche e aggrottò la fronte.
“E gli adulti fanno pure finta di niente! Non dicono una parola sulla missione, nemmeno una!”.
Calciò in sassolino che sbatté contro il tronco di un albero scalfendolo in profondità, e andando poi a disintegrarsi contro un muretto.
«Elsa, non devi fare queste cosa in città!qualcuno potrebbe vederti!» le ricordò Damiano.
Si guardava intorno cercando di scorgere qualcuno dietro le finestre o al di là delle siepi, ma occhi, orecchie e naso non avvertirono nulla.
«Scusa ero sovrappensiero» si giustificò.
«Va bene, ma adesso sbrighiamoci ad andare a casa».
“Casa… mi sembra quasi di non averla più una casa, sono sempre in giro a pesare sulla groppa di qualcuno”.
 
 

 
«Siamo tornati!».
Avanzarono nella stretta entrata, e prima che potessero entrare in salotto, un saluto stizzito li fece trasalire:
«Bentornati. Non lo sapete che far aspettare gli ospiti è maleducazione?».
Quella non era la voce di Pietro o dei suoi genitori. No, quella voce poteva appartenere solo ad una persona, ed Elsa sapeva anche come accoglierla.
«Buongiorno anche a te, ma non lo sai che è maleducazione starnazzare in casa d’altri?».






Angolo dell'autrice:
Tanto per cominciare, chiedo scusa per il ritardo: scoccia a voi dover aspettare e dà fastidio a me non avere un secondo di tempo per scrivere e pubblicare.
Vi avviso già adesso che i prossimi capitoli non avranno lo stesso ritmo di aggiornamento, tuttavia l'attesa credo (spero) non supererà mai le due settimane/venti giorni.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Alla prossima,

Ignis_eye
 

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Capitolo 16
*** Non pensare alla zebra ***


«Cos’hai detto?!» gracchiò la misteriosa ospite con un tono da smorfiosetta.
«Se non ci sei ancora arrivata, ti ho detto di chiudere il becco, gallina» ribatté Elsa con ostilità.
Poche parole erano bastate a riaccendere in lei l’antipatia per sua cugina Michela: quella biondina con la puzza sotto il naso le faceva venire l’orticaria.
«Tsk, sei sempre stata maleducata».
«E tu hai sempre meritato la mia maleducazione».
La famiglia di Pietro sembrava non gradire la situazione, così Elsa tagliò corto e andò subito al sodo:
«Come mai sei qui? Perché sei venuta a disturbare queste persone?».
«Quasi quasi non te lo dico, mi hai fatto passare la voglia».
Prima che ad Elsa venisse un attacco di furia omicida, Damiano si mise in mezzo al loro discorso.
«Che ne dite se andiamo a discuterne a casa nostra?» propose con tranquillità «potremo parlarne con calma».
Le due annuirono mentre si guardavano ancora in cagnesco, pronte a scambiarsi una valanga di “complimenti”.
«Signori, mi dispiace di avervi disturbato. Siete stati molto gentili ad ospitarmi fino all’arrivo di mia cugina Elsa».
Disse questa frase con un sorriso affabile dipinto in volto, chiunque avrebbe creduto alla sua maschera di bontà. Con quei lunghi capelli biondi e il viso da angelo, avrebbe potuto ingannare anche il demonio.
«Ma figurati» rispose il padre di Pietro «non c’è di che».
La moglie pareva visibilmente sollevata di vederle andare via, era una donna che mal sopportava i bisticci, e dopo aver visto quanto fosse stata scortese Elsa, non era più tanto contenta di doverla ospitare anche la notte.
I tre ragazzi se ne andarono apparentemente pacifici, pronti in realtà a cavarsi gli occhi non appena nascosti tra le mura di casa.
 
 

  
«Che cazzo ci fai qui?» urlò sbattendo la porta.
«Calma Elsa, non ti ho fatto niente».
«La tua presenza è irritante, basta quella».
Detestava sua cugina Michela, non poteva vederla neanche in foto.
E chi voleva prendere in giro con i suoi modi raffinati e la falsa innocenza?
Chiunque, ecco chi. E tutti ci cascavano sempre.
Tutti tranne lei.
«Michela, dicci che cosa ci fai qui! Abbiamo perso la pazienza!».
Ah già, anche Damiano non si faceva prendere per il naso da quella specie di top-model con le tette giganti.
«Damiano, anche tu? Ma cosa avrò mai fatto di male?» si lamentò lasciandosi cadere sul sofà di pelle bianca «è così che si tratta la famiglia?».
Accavallò le gambe, lasciando scoperta una buona dose di cosce abbronzate.
«Megera, smettila di usare la mossa “accavallamento gambe” per portare Damiano dalla tua parte».
«Hey!» si lamentò lui «non sono così scemo da cascarci!».
«Non si sa mai».
Sapeva che persona fosse Michela, non voleva perdere l’unico alleato che aveva nella battaglia contro di lei.
Sua cugina era quel tipo di ragazza sempre curatissima, con le unghie in gel troppo lunghe, con i capelli sempre perfetti, modi provocanti e una capacità innata di sembrare onesta agli occhi di tutto il genere umano e licantropo.
In poche parole, era quel tipo di ragazza che ti fa fare la conoscenza di ogni malattia venerea presente sulla faccia della terra.
«Cara cuginetta, così mi ferisci!» esordì portandosi una mano al viso con teatralità «non potrei mai! Soprattutto in un momento difficile come questo».
«Ecco, comincia a parlare».
 
 

 
Dopo mezzora buona di insulti vari, i due cugini erano riusciti a capire il perché dell’indesiderato arrivo di Michela.
Avendo ormai venti anni ed essendo maggiorenne anche per la legge dei licantropi, era stata chiamata per aiutare le famiglie del nord.
Alla notizia del furto del Necronomicon, tutti i cercatori del mondo e tutti i licantropi europei si erano già messi in funzione per risolvere il problema, chiamando a raccolta i soggetti migliori.
Lei era rimasta a Latina da sola, i suoi erano partiti la settimana prima, e quando seppe del rapimento di una maga in Veneto, si offrì come aiuto.
Non sapeva si trattasse di un’amica di Elsa, lo scoprì solo una volta arrivata.
«E così resterai per un po’» concluse Elsa con le braccia incrociate «e cosa farai di preciso?».
«Sarò nella squadra di soccorso. Parto domani, abbiamo una pista».
Elsa non ci era mai rimasta così di merda.
«Cosa?! Come mai ci vai tu?».
«Non vedo perché non potrei, sono maggiorenne».
Tale precisazione scocciò parecchio la giovane licantropa, la quale non aspettava altro che raggiungere la maturità per poter andare a combattere contro tutto e tutti.
E per dirla tutta, considerava un’ingiustizia che quella stronza di sua cugina fosse già maggiorenne, mentre lei fosse ancora…
“Inutile. Cazzo. Merda. Lei può andare ovunque e io no! Sono inutile!”.
«Come mai così imbronciata, cuginetta?» domandò con falsa premura «Sei triste di rimanere a casa da sola?».
«Stai zitta!» urlò «Chiudi il becco, oca!».
Michela scattò in piedi.
«Hey, portami rispetto, sono più grande di te!».
«Di più grande di me hai solo le tette, nana malefica!» sbraitò alzandosi e sovrastandola di almeno due spanne «ricordati che io sono una Desdemoni, ti faccio a pezzetti prima che tu possa dire “coccodè”!».
Damiano si godeva la scena a distanza di sicurezza sgranocchiando dei cereali direttamente dal cartone.
Da bambino faceva la stessa identica cosa, solo che tifava per Elsa urlando e incitando.
Capì che non era il momento buono per mettersi in mezzo, così le lasciò fare, approfittando della sua temporanea “invisibilità” per aiutare la cugina a modo suo.
Si allontanò dal salotto, fece finta di sistemare alcuni soprammobili sulla scrivania antica vicino all’entrata e ritornò a mangiucchiare.
«… e smettila di fare la cugina premurosa e caritatevole con me, hai capito? Non ci casco!».
Un’Elsa infuriata prese per il collo Michela, la sollevò da terra con una mano sola.
«Mettimi giù!» gracchiò dimenandosi.
«Certo, ai tuoi ordini!».
La scaraventò addosso alla parete, ma non abbastanza forte da farle male.
Damiano, in perfetta sincronia, aprì la porta giusto in tempo: Elsa prese la biondina per i capelli e la buttò fuori di casa, seguita dalla borsa e un sacco di parolacce.
«E non farti più vedere!».
La voce di Michela arrivava attutita dal giardino.
«Oggi stesso lo dirò a Gaspare, non la passi liscia!».
E se ne andò sbuffando sonoramente, lasciando Elsa dietro la porta, pronta ad esplodere e distruggere i mobili di casa per l’ennesima volta.
«Cazzo, non è possibile!» sbraitò digrignando i denti «Non andava già abbastanza male?!».
«Elsa, calmati dai…».
«No che non mi calmo! Vorrei aprirle la testa in due come se fosse un melone!».
«E non sei l’unica, però…».
«Però niente! Quella stupida può andare a salvare Sefora e io no!».
«Elsa, smettila! Devo dirti una cosa!».
Lei si voltò verso di lui stringendo i denti per resistere e non litigare anche con lui.
«Elsa, ho nascosto una sfera del parva aurem nella sua borsa. Finchè se la porterà dietro, potremo ascoltare ciò che le diranno riguardi gli indizi».
La licantropa sembrò ritrovare nuova energia.
“Forse possiamo salvare Sefora, però…”
«Secondo me mentiva» disse rabbuiandosi ancora «lo ha detto solo per darmi fastidio, per farmi sentire inutile».
«No, ha detto la verità. Ho girato i mercati magici con tuo papà molte volte, so riconoscere le bugie, e quella squinzia di tua cugina ha detto il vero».
«Speriamo che sia così. Se domani parte, è probabile che la squadra di soccorso prenda ordini e istruzioni questa sera. Staremo ad ascoltare e vedremo».
 
 

 
Avvisarono la famiglia di Pietro che sarebbero rimasti a casa anche la notte, e dopo il battibecco avuto con Michela, la madre non fu per nulla contraria: meno Elsa stava in casa sua, meglio era.
Verso le otto, subito dopo una cena appena sbocconcellata, Damiano sentì qualcosa all’auricolare.
Era stato trovato davvero un indizio, una frase scritta sul soffitto della cucina di casa Scida con dell’inchiostro magico invisibile.
Era una specie di invito o di sfida: diceva che Sefora era prigioniera dei vampiri in un castello in rovina in Valle d’Aosta, nei pressi di Graines.
Era la stessa meta dei suoi genitori, il covo dei vampiri e dei mannari.
«Elsa, da quello che abbiamo sentito vogliono attaccare di giorno, ma se non sanno che i mannari possono trasformarsi anche con il sole in cielo, sarà una carneficina!».
«Dobbiamo avvertirli, ma prima voglio parlarne con il maestro Chan».
«Come vuoi, basta che lo facciamo prima della loro partenza».
 
 
 
 
«Maestro, è permesso?».
«Sì, avanti».
Elsa pulì le suole delle scarpe sullo zerbino ed entrò in casa.
Trovò il maestro Chan seduto a fiore di loto in mezzo al salotto, sopra un tappeto.
«Oh, non sapevo stessi meditando, non volevo distur-».
«Sapevo che saresti venuta,ti stavo aspettando» disse aprendo gli occhi «e credo di sapere di cosa vuoi parlarmi».
«Ho trovato un indizio. Sono stati i mannari a rapirla».
Chan si alzò in piedi e prese un vecchio libro da una mensola. Sembrava un libro sulla meditazione, ma quando lo toccò si illuminò, e quando l’iridescenza svanì, teneva in mano un tomo molto grande dalla copertina di giada verde.
Lo sfogliò fino a metà, lesse qualche riga e concluse:
«E’ proprio come credevo».
«Cosa? Maestro, non tenermi sulle spine».
«Anche tu hai scoperto l’esistenza dell’elmo magico, vero?».
«Sì».
Chan portò Elsa in cucina e la fece accomodare su una sedia, porgendole del tè verde.
«Maestro, ho letto il libro di Sefora, quello sulle leggende dei mannari. Lì parla del Gal-luni e della sua storia. Irma la nana mi ha raccontato storie simili oggi».
Chan impallidì.
«Le hai parlato dell’elmo?!».
«No, le ho solo fatto raccontare qualche vecchia storia. Non sa nulla del libro».
«Bene» sospirò più tranquillo.
«Chan, dimmi cosa sai. E non limitarti a risposte vaghe».
Quello della ragazza sembrava proprio un ordine, non un favore o una richiesta, ma un obbligo.
Guardò il maestro cinese così intensamente che avrebbe potuto leggergli nel pensiero anche non essendo uno spirito o un fantasma.
«Elsa, io credo ci sia una… cospirazione».
«Cosa?!».
«Non sono sicuro chi sia la mente che ha ideato tutto questo, tuttavia so che ci sono dei licantropi che hanno tradito tutti noi».
La tazza che Elsa teneva in mano si frantumò in mille pezzi appena udì la notizia.
«Ma cosa stai dicendo?! È impossibile!» urlò stringendo i cocci fino a sbriciolarli «non può essere vero!».
Era come se le mancasse la terra sotto i piedi: da sempre i licantropi crescevano con l’assoluta sicurezza di essere solidali tra loro.
Certo, c’erano le inimicizie, talvolta ci si sopportava a malapena, ma non si passava dalla parte del nemico. Mai.
«Ascolta, qualcuno ha aiutato i licantropi a rapire Sefora, e quel qualcuno è sicuramente un licantropo. I  cercatori sono qui da troppo poco tempo per aver tramato un piano così ben congegnato».
Elsa sentì che stava per perdere il controllo: la rabbia era così tanta che la trasformazione stava per avvenire spontaneamente.
La testa pulsava, il cuore batteva più veloce, lo stomaco diventava bollente… avrebbe certamente ceduto se Chan non l’avesse calmata con dell’altro tè.
«Cosa c’è in questa bevanda?» domandò storcendo il naso dopo il primo sorso.
«Erbe tranquillanti, niente di particolare».
“Ho pure bisogno di erbe strambe per non mutare forma? Questa roba è quella che si dà ai bambini troppo agitati per evitare che diventino lupi. Bleah”.
«Grazie ma non ne avevo bisogno» mentì.
«Comunque» continuò lei «come mai hanno preso Sefora? Perché lei?».
«Beh, lei sa delle cose…».
«Sei troppo vago. Cosa sa? È per via del libro, vero?».
«Diciamo di sì. Me lo mostrò alcuni giorni dopo essere arrivata a Villanova, e io le consigliai di tenerlo nascosto, tuttavia credo lo abbia fatto vedere ad altri prima di me».
«E quel qualcuno è il traditore».
«Esatto, l’unico a sapere dell’esistenza del volume magico oltre me».
«Maestro, se non avvertiamo la squadra di soccorso, potrebbe morire qualcuno, se qualcuno non è già morto…».
«Se ti riferisci ai tuoi genitori, ti assicuro che stanno bene».
Il consueto pallore di Elsa lasciò spazio ad un po’ di colore.
«Coma lo sai?».
«Perché ho ricevuto un loro messaggio, stanno tornando».
La ragazza fece i salti di gioia e urlò di felicità: non poteva credere che i suoi vecchi stessero veramente tornando a casa!
Ma un pensiero le si intrufolò in testa come fa un bruco che penetra in una mela: prima scalfisce appena la buccia, poi entra fino al centro, guastando il pomo prima succoso e perfetto.
«Loro non potrebbero mandare messaggi. Avevano il consenso di inviare qualche riga agli strateghi solo una volta arrivati sul posto e confermata la posizione del bersaglio, oppure…».
«In caso di emergenza» concluse sospirando.
«Cazzo. Chan, una volta per tutte dimmi cosa sta succedendo senza che io debba tirati fuori le parole di bocca!».
Se il maestro non si fosse messo a raccontare tutta la faccenda, neanche la più potente delle droghe avrebbe fatto calmare la ragazza, ormai al limite della sopportazione.
Spiegò che erano stati attaccati da alcuni mannari con strani elmi. Erano fortissimi e veramente tanti, più di dieci.
Si erano difesi, ma erano stati feriti e adesso stavano tornando indietro ad avvertire tutti del pericolo.
«Elsa, questo non è tutto. Loro dicono di aver scritto anche agli strateghi, ma quando ho chiesto informazioni, mi è stato detto che la squadra non ha mandato nessun messaggio!».
«Significa che il loro dispositivo per i messaggi occulti è stato manomesso per evitare che comunicassero con gli strateghi».
«Esatto. Per fortuna, la madre di Sefora ne aveva portato unno senza dire niente a nessuno, così ha mandato un resoconto a me».
«Allora significa che il traditore si nasconde sicuramente tra noi licantropi…».
«Purtroppo sì. E quando la squadra sarà tornata succederà un finimondo».
Elsa alzò un sopracciglio, non capiva cosa intendesse.
«Il traditore sa che sono vivi, i mannari lo avranno già avvertito. Quando i nostri torneranno e diranno a tutti delle capacità anormali dei mannari, la missione di recupero di Sefora verrà annullata».
«No! Non possiamo lasciarla là!».
Le si strinse il cuore al solo pensiero delle torture che subiva ogni ora, alla violenza con cui la trattavano… le ribolliva il sangue.
Avrebbe voluto ammazzarli tutti, dilaniarli, distruggerli tutti con le sue mani per quel che le facevano ogni secondo della sua prigionia.
«Lo so, per questo sto mettendo insieme una squadra per andare a riprenderla».
«Verrò anche io!».
«No, è pericoloso. Saremo solo in cinque, tutti combattenti esperti e fedeli alla tribù Italicum».
«Ma anche io poss-».
«No, starai a casa. Devi restare al sicuro».
La ragazza mostrò i canini aguzzi, pronta a litigare fino a non avere più voce pur di andare a salvare Sefora, ma Chan la liquidò con fermezza: non sarebbe andata con loro. Stop.
«Per favore, non avercela con me, ma sei troppo giovane, non sei abbastanza… come dire…».
«Non sono all’altezza, è così? Ho sconfitto un mannaro con la luna piena, ho battuto Carlo in combattimento, ho tenuto testa ai vampiri quando ci hanno assaliti, eppure sembra non importi a nessuno».
Si alzò e andò verso la porta. Ne aveva abbastanza di non essere minimamente considerata.
«Non è così, sei solo troppo giovane, è pericoloso…» tentò di ammansirla «se fossi maggiorenne ti lascerei venire».
«Sì, come no».
E sbatté la porta senza aggiungere altro, quelle scuse penose bastavano già a farla rodere di rabbia.
 
 

  
Una volta a casa, non spiegò a Damiano il motivo del suo malumore, ma lo avvisò che Chan avrebbe avvertito le squadre e gli strateghi, e che avrebbero comunque tenuto il segreto sul libro, così, per sicurezza.
Lui parve convito e non fece domande, lasciandola andare a letto per sbollire la rabbia con una bella dormita.
Solo che quella sera Elsa non dormì affatto bene: si rigirava nel letto, scalciava via le lenzuola, stropicciava il cuscino, ma era tutto inutile, non riusciva a prender sonno.
E pensare che la notte prima aveva dormito come un angioletto nel letto di Sefora.
“No, basta pensare a lei, devo smetterla! Di questo passo mi addormenterò tra mille anni…”
Eppure, più si imponeva di non pensarla, più la sua mente si concentrava su di lei.
È come quando ti dicono di pensare tutto tranne alla zebra, e finisci per pensare solo alla zebra.
“Maledette zebre”.
Immaginava di correre con lei nei boschi, come avevano fatto fino a pochi giorni prima, oppure di fare colazione al bar, o di girare per il centro, o di nuotare nell’acqua fresca del laghetto, lo stesso in cui le loro labbra si erano toccate per la prima volta.
Quanta emozione era condensata in quell’unico ricordo?
Il suo corpo dalla pelle perfetta e dalle forme delicate…
Gli occhi, due pozzi verdi in cui affogare…
E al bocca, con due labbra rosse e morbide…
“Basta, cazzo, basta! Sefora, come mai solo tu mi fai quest’effetto? Come mai solo tu fra tutti?”
Ma non smetteva di pensare, anzi, andava sempre più in là, spingendosi in acque inquiete popolate solo dalla sua immagine.
Sognava ad occhi aperti il momento in cui l’avrebbe rivista: l’avrebbe abbracciata, stretta contro il suo corpo e l’avrebbe baciata fino a consumarle le labbra.
E Sefora l’avrebbe ricambiata, avrebbe voluto di più, e di sicuro sarebbe stata accontentata: che fossero baci di fuoco o carezze impudenti ne avrebbe avute a bizzeffe.
Avrebbe ubbidito ad ogni sua richiesta, a qualunque desiderio, e Sefora sarebbe stata felice.
“Sì, sarebbe così se lei non mi desiderasse come amica ma come qualcosa di più… qualcosa che da me non vorrà mai”.
E questa certezza sconfortante fu abbastanza per raffreddare i bollenti spiriti.
 
 

 
Correva, correva a perdifiato, correva e non sapeva nemmeno dove.
I rami degli alberi si protendevano verso di lei uscendo dall’oscurità della foresta, sembravano mani pronte a ghermirla e a portarla nel buio più totale.
Ad un certo punto le sue gambe affondarono nelle sabbie mobili, risucchiandola in basso.
Decine di occhi gialli apparvero tra le piante, scrutandola.
Ben presto quegli occhi presero posto su un viso e su un corpo, circondandola di umani dai tratti indistinti, ma più questi si avvicinavano, più prendevano la forma di gente che conosceva: mamma, papà, Damiano, Chan, gli altri licantropi.
La sua forza sovrumana sembrava scomparsa tutta d’un colpo.
«Aiutatemi!» urlava «Aiuto!».
Loro la fissavano con macabri sorrisi, finché i loro tratti stravolti da ghigni malvagi si trasformarono in musi spelacchiati, con zanne storte, nasi troppo corti, orecchie a punta e pelle rugosa.
Era in mezzo a un branco di mannari, e più si dimenava, più le sabbia mobili la portavano in basso, sempre più in basso…
Ormai aveva la testa sotto la fanghiglia, non respirava, non riusciva a muoversi.
Aprì gli occhi e si trovò a penzolare con le gambe attorcigliate a delle liane. Era in una grotta buia, ma ci vedeva lo stesso come fosse giorno.
Sentì un clangore metallico dal fondo della caverna e subito dopo rumore di catene trascinate pesantemente e con fatica.
Aveva paura, le liane la stringevano sempre di più, non poteva muoversi, ma quando la misteriosa figura apparve, le corde che la trattenevano si trasformarono in schegge di vetro, lasciandola cadere a terra.
«Aiutami».
Il volto pallido, la pelle graffiata, gli occhi stralunati…
«Elsa, ti prego… Aiutami!».
 
 





Angolo dell'autrice:
Ok, ok, avevo detto che avrei aggiornato meno spesso, ma non pensavo di metterci così tanto, perciò ho deciso di farmi perdonare con un capitolo un po' più lungo del solito.
Per quanto riguarda il castello diroccato dei vampiri, esiste davvero: si tratta del Castello di Graines, nei pressi dell'omonima città.


Spero che questo capitolo vi sia piaciuto,

Alla prossima!

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Capitolo 17
*** Compromessi ***


Elsa si svegliò urlando, sudata e con il respiro affannato. Suo cugino la stava scuotendo, era stato lui a riportarla alla realtà.
«Elsa, come stai?».
Sembrava preoccupato e l’oscurità della camera non bastava a nascondere la fronte corrugata e gli occhi spalancati.
«E’ stato solo un brutto sogno» lo tranquillizzò «sarà stato qualcosa che ho mangiato».
«Oppure qualcosa che non hai mangiato, visto che hai a malapena sbocconcellato qualcosa».
“Ok, è stanco ma non lo si può fregare”.
«Raccontami cosa hai sognato» l’incoraggiò lui «riguarda Sefora, vero?».
«Sì».
Si sedette sul bordo del letto accanto al cugino, appoggiando i piedi sul parquet e prendendosi la testa tra le mani, insinuando le lunghe dita tra i ricci castani.
Raccontò tutto il sogno dall’inizio alla fine, senza tralasciare il minimo particolare.
«Certo che ci tieni proprio a Sefora se arrivi a fare certi incubi» buttò lì Damiano. Lo disse senza alcuna malizia, era un dato di fatto, ma quest’affermazione mise in guardia la licantropa.
“Cazzo… nessuno deve scoprire cosa provo per lei ne verrebbe fuori un casino. Non dovrà saperlo nessuno”.
«Hey, mi stai ascoltando?» chiese Damiano passandole una mano davanti alla faccia «Terra chiama sognatrice, ripeto, Terra chiama sognatrice».
«Eh? Ah sì, sì, ci sono. Stavo solo pensando. Comunque, cosa mi stavi dicendo?».
«Niente, solo che, appunto, dovresti smetterla di pensare così tanto. Visto cosa succede dopo? Ti preoccupi troppo».
«Non puoi chiedermi di non preoccuparmi e soprattutto, non posso smettere di pensare».
«Allora cerca solo di trovare un modo per svagarti, ok? Tra un giorno al massimo gli zii saranno a casa e poi si penserà a salvare Sefora».
«Più tempo passa peggio è».
«Sì, ma tu non ci puoi fare niente».
Al solo pensiero di essere inutile e di non avere alcuna considerazione all’interno del suo clan e della tribù, si sentì ancora più sconsolata e arrabbiata, incazzata nera con chi si era inventato quelle leggi stupide.
Pronunciando quella frase, Damiano non aveva fatto altro che riaccendere quel fuoco d’odio che si era sopito nel sonno, e non gli bastò un’intera notte per capire perché sua cugina lo avesse mandato fuori in malo modo.
 
 



 
Era ormai trascorsa una settimana da quella notte di luglio, e si passò definitivamente dall’afa di luglio all’afa di agosto, che non portava nulla di nuovo se non una marea di brutte notizie.
I genitori di Elsa erano tornati e stavano bene, ma l’operazione di soccorso a Sefora non era cominciata: se i mannari si potevano spostare anche di giorno, bisognava ripensare tutti i piani d’attacco e di difesa.
I genitori della cercatrice diventavano ogni giorno più irritabili, avevano i nervi a fior di pelle e questo li accomunava alla giovane licantropa Elsa, che da sette giorni non faceva altro che pensare alla sua amica con conseguenti incubi.
Sognava sempre la stessa cosa e finiva sempre per svegliarsi quando Sefora (ogni volta più emaciata) si palesava davanti a lei perché si agitava così tanto che qualcuno arrivava a svegliarla.
L’atmosfera era tesa in ogni casa si creature magiche, tutti stavano all’erta, non si poteva sapere quando e come avrebbero attaccato i mannari e i vampiri, e come se non bastasse, i quattro succhiasangue catturati e imprigionati, erano riusciti a uccidersi.
Non si era capito bene come, ma Nicola, il loro carceriere, li aveva trovati stecchiti ma ancora legati alle catene.
Pur di non parlare (e di non essere torturati oltre) erano arrivati a tanto, e questo spaventava molti licantropi e cercatori, nonostante cercassero di non mostrarlo.
 
 




Elsa camminava in cerchio nella sua camera, nervosa come non mai. Era ora di andare a letto, ma la certezza di fare ancora quel sogno la angosciava parecchio.
Tutte le notti lo stesso sogno: circondata da decine  e decine di mannari dagli occhi gialli pronti a dilaniarla.
“E poi i mannari non hanno gli occhi gialli! Ce li hanno rossi cazzo, rossi!”.
Già. Quel sogno aveva questa strana particolarità che l’inconscio di Elsa non aveva voglia di correggere.
«Elsa, posso entrare?» la distrasse una voce gentile.
«Sì mamma».
Gioia entrò nella stanza chiudendo la porta alle sue spalle e si avvicinò alla figlia.
Le si strinse il cuore a vederla così ansiosa e stanca: da giorni mangiava poco e dormiva ancora meno. Era distratta, irritabile e incazzata con l’universo.
Come mai la scomparsa dell’amica l’aveva ridotta così? In fondo si conoscevano da poco.
La voglia di sapere era tanta, ma farle la stessa domanda per la miliardesima volta non avrebbe portato a nulla se non a incattivire ancor di più la figlia, che da qualche giorno scattava come una molla allo sbattere di una porta e litigava con tutti per la minima cosa.
«Elsa, come va stasera?».
«Non vedi? Come tutte le sere va! Non riesco ad andare a dormire e quando riuscirò a farlo, sognerò ancora quella merda!».
Ecco, di nuovo. Sentiva che andare a far domande avrebbe portato solo ad un litigio.
Ma era sua madre, no? È questo che fanno le mamme: danno fastidio ai figli perché si interessano di loro e perché li amano. Chi era Gioia per non sottostare all’ordine universale delle cose?
«Scusa, hai ragione. Volevo sapere se ti va una tazza ti tè» disse premurosa.
«No, per carità! L’ultima volta che l’ho bevuto prima di dormire, i mannari avevano la testa a forma di cavalletta! E tu sai quanto io le detesti, vero?!».
Altra piccola fissa di Elsa: odiava a morte le cavallette. Da quando una le si infilò nella maglia da bambina, le studiava tutte per sterminare quelle che vivevano in giardino.
Gioia si rese conto di camminare su un campo minato: lei e sua figlia litigavano spesso, ma questi giorni di tensione la stavano mettendo a dura prova.
Sapeva che Elsa non era messa così male perché aveva paura dei mannari: era in quello stato perché aveva il terrore che nessuno andasse a salvare Sefora.
«Elsa, cerca di calmarti» cercò di tranquillizzarla «gli strateghi stanno già pensando a un piano per andare a riprendere la tua amica».
Non l’avesse mai detto. Elsa si girò di scatto con occhi stralunati diventando rossa dalla rabbia.
«Stanno già pensando?! Pensando, dici?! Dopo una settimana finalmente si degnano di pensare, eh? Intanto lei è loro prigioniera! Chissà a quali torture la stanno sottoponendo!».
«Elsa, loro stanno solo facendo quello che gli anziani hanno ordinato!».
«Esatto, loro stanno solo obbedendo all’ordine di cagarsi addosso e battere la fiacca!».
«Elsa, vedi di finirla!» la sgridò minacciandola con l’indice.
«Di fare cosa, di dire la verità? Ormai siamo diventati dei rammolliti. Tu e papà mi raccontavate sempre delle imprese dei licantropi contro i mannari, ma da quando qualcuno ha avuto la brillante idea di tentare con una pace, siamo diventati dei codardi».
«Elsa Desdemoni, piantala con queste sciocchez-».
«Non sono io che devo smettere» l’interruppe «siete tutti voi che dovete finirla di essere così impauriti. Anche la nonna che è l’anziana delle Desdemoni ha votato per non attaccare, vero? Che vigliacca, pure lei ha paur-».
Non fece in tempo a dirlo che un sonoro schiaffo le arrivò in pieno viso.
Atterrita guardava sua madre con un misto d’incredulità e di rancore. Non la picchiava più da quando era diventata adolescente, era da un pezzo che cercava di risolvere i litigi solo a parole.
«Elsa, tu devi capire che certe cose-».
«Fuori».
«Come? Ascolta, mi dispiace, non avrei voluto…» cercò di scusarsi.
«Fuori ho detto».
«Elsa, mi disp-».
«Fuori! Ti ho detto di uscire!» urlò digrignando i denti «Vai via!».
«Elsa!» urlò cercando di attirare l’attenzione, ma non riuscì a impedire alla figlia di chiuderla fuori dalla camera.
Bussò alla porta, cercò di farsi aprire, ma ottenne solo imprecazioni, offese e infine il totale silenzio.
Elsa restò appoggiata alla porta finché non sentì i passi di sua mamma allontanarsi nel corridoio.
Come aveva osato tirarle una sberla? E per cosa poi? Per aver detto quello che pensava?
Sua mamma stava diventando come tutti gli altri, e il fatto che avesse visto coi propri occhi ciò che i mannari riuscivano a fare di giorno, peggiorava solo le cose.
Si sedette sul letto, raggomitolata con le gambe strette al corpo.
Elsa aveva parlato più volte con Gaspare e lui l’aveva assicurata che faceva fatto di tutto per mandare in porto la missione di salvataggio, ma che ogni volta c’era qualcuno che votava contro, e quel qualcuno era proprio Gioia.
Non era stato Gaspare, l’anziano degli Albini, a dirle questo ma era stata lei a origliare alcune conversazioni con il parva aurem di suo cugino.
Ogni volta che sentiva sua madre opporsi a tale missione, le si rivoltava lo stomaco. Come mai una Desdemoni si tirava indietro davanti alla battaglia? Da quando era bambina, non faceva altro che ripeterle che non si scappa dai propri doveri e che bisogna mantenere alta la propria reputazione.
Perché ora le stava facendo questo?
Si sorprese a piangere silenziosamente.
Le lacrime uscivano da sole, senza sosta e non accennavano a volersi fermare. Si sentiva delusa da sua mamma, dalla donna che ammirava di più sulla faccia della terra.
“Fantastico, adesso mi metto pure a piangere. Proprio io che non piango mai!”.
Quella tristezza era opprimente, le pesava sullo stomaco come un macigno e la faceva sentire in colpa. Non che avesse davvero qualcosa di cui essere colpevole, se non i modi bruschi dell’ultima settimana, ma aveva il sospetto di essere lei il motivo dell’assurda prudenza di Gioia.
Cosa non farebbe una madre per i figli?
“Non andrebbe a uccidere i mannari, ecco cosa non farebbe. Ma la prima missione l’ha accettata. Decidersi no, eh?”.
La faceva incazzare, sua madre. E anche non sapere mai niente dagli adulti, e pure non poter partecipare alle missioni.
Tutta questa storia la faceva andare in bestia e non la faceva diventare bestia per puro miracolo.
“Adesso però mi sono rotta il cazzo. Vedranno cosa posso fare”.
Si alzò e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Con il volto contratto e una valanga di parolacce sulla punta della lingua, spalancò la porta.
«Damiano, vedi di smetterla di origliare perché la prossima volta ti spacco la faccia».
Lui balzò indietro: sua cugina era stata troppo silenziosa e non l’aveva sentita alzarsi.
«E questa notte non venire a svegliarmi se faccio ancora l’incubo, vedi di starmi alla larga!».
Gli sbatté la porta in faccia così forte che un quadro in corridoi cadde per terra.
«Tranquilla, che rompicoglioni come sei in questi giorni a te non mi avvicino proprio!».
«Bene, chissà che una volta tanto non riesca a dormire senza che qualche imbecille venga a svegliarmi!».
“Brutto stronzo bugiardo! Prima origlia e poi dice che non gli importa! Mister coerenza, come sua zia!”.
E Michela, poi! Da quando era arrivata non faceva altro che recitare la parte della cugina carina e premurosa.
“Quella cagna!”.
Strinse i pugni: quanto la detestasse non lo sapeva neppure il demonio.
“E dove vuole andare con quelle unghie in gel?! A salvare Sefora al posto mio?”.
Prese a rovistare nel baule ai piedi del suo letto, gettando malamente la roba sul parquet.
“Che poi, che cazzo se ne fa delle unghie finte quando ha degli artigli veri? Si vede che ai suoi clienti piace di più così”.
Gettò per aria una coperta in pile e lenzuola varie, cercando freneticamente qualcosa che proprio non voleva farsi trovare.
“Però bisogna dire che o è una volpe lei a prendere per il culo tutti o sono tutti dei pecoroni a farsi prendere in giro da lei. Ma che diavolo, l’avevo messo qui quel coso…”.
Dopo aver messo soqquadro il baule che sua madre, con tanto amore,  riempiva con lenzuola e coperte pulite e ben stirate, finalmente trovò l’oggetto di suo interesse: una piccola matassa di filo d’argento.
Era da due giorni che ci pensava e finalmente poteva mettere in pratica il suo piano.
Durante il sogno, veniva sempre svegliata quando incontrava Sefora, e sospettava che arrivare alla fine dell’incubo potesse darle qualche risposta, perciò doveva fare in modo di tirare dritto fino al mattino.
Qual è l’unico materiale che i licantropi non possono distruggere con la loro forza sovrumana? L’argento.
Con quel filo e una pozione avrebbe sigillato la porta della sua camera cosicché nessuno potesse interrompere la visione onirica.
Da un cassetto del comò prese la sua scatola con le pozioni e ne tirò fuori una boccetta piena solo a metà che riportava scritto con del pennarello indelebile il suo nome: ARGENTO LUCIFERINO.
“Non è tanto, ma basterà”.
Era un intruglio di argento liquido, piombo e zolfo. Se l’era procurato da un mezzo-nano che viveva in centro e che di mestiere smerciava (ma forse è meglio dire spacciava) pozioni considerate pericolose.
L’argento luciferino, infatti, blocca la forza dei licantropi ed è anche uno dei pochi veleni a poterli uccidere, se usato nel modo giusto.
Le era costato parecchio, aveva quasi dimezzato i suoi risparmi in denaro magico, ma era certa che funzionasse.
“Sennò, perché proibirlo? Deve funzionare per forza”.
Si bagnò indice e pollice con qualche goccia e poi li passò sul sottile filo argenteo, srotolandolo poco a poco.
Quello, per sua fortuna, l’aveva trovato in soffitta tra gli oggetti magici dei suoi genitori, altrimenti avrebbe dovuto dire addio agli ultimi risparmi che le rimanevano.
In religioso silenzio e con le orecchie tese, fissò il filo ai bordi della porta, ma solo esternamente: non voleva rischiare di non poter più uscire.
Incastrò qualche centimetro dello spago metallico nella serratura, lo girò più volte attorno alla maniglia e poi ne appiccicò alcune strisce orizzontali sulla porta.
Bagnò ancora l’indice con quel liquido magico e disegnò alcuni simboli per creare una barriera impenetrabile ai licantropi, coprendo poi il tutto con del sine odore, una pozione  per eliminare l’odore terribile di quella robaccia e per renderla invisibile.
Entrò e chiuse la porta, poi bagnò con qualche goccia di  argento luciferino anche le finestre.
 “Si va in scena. Spero solo di poter finire”.
Coricata sul morbido materasso, chiuse gli occhi. Era sigillata dentro camera sua, ed era determinata a portare a termine il suo piano: pervasa da quel senso di sicurezza che l’aveva abbandonata per una settimana, si addormentò.
 
 

 
Correva, correva nel buio.
Non sapeva né dove né perché, semplicemente andava avanti.
La foresta era spaventosa: buia, fredda e troppo silenziosa. I rami degli alberi rinsecchiti le si paravano davanti spezzandosi con sinistri scricchiolii al suo passaggio, riecheggiando nel totale silenzio.
Ad un tratto, decine di occhi gialli si aprirono, costellando il buio della notte.
La famiglia, gli amici, i conoscenti. C’erano tutti, e tutti ringhiavano contro di lei. Cadde nelle sabbie mobili, venendo immobilizzata all’istante.
Loro la circondarono, trasformandosi in lupi mannari dall’aspetto ancora più ripugnante di quelli originali, se possibile.
Schioccavano le mascelle e mostravano i denti, pronti ad affondarli nella sua carne.
Elsa veniva trascinata verso il basso dalle sabbie mobili che la schiacciavano e la comprimevano, dandole l’idea di soffocare.
Sapeva di essere in un sogno, ma non aveva la minima coscienza del proprio corpo, non poteva controllarlo.
Si dimenava, ma più si muoveva più finiva in basso, finché la fanghiglia si richiuse sopra di lei, mentre un solo, unico paio di occhi rossi e brillanti la guardava affondare completamente.

 

 
Aprì gli occhi dopo chissà quanto, penzolando a testa in giù da lunghe liane attaccate così in alto da rendere impossibile capire dove iniziassero.
Era completamente bloccata e poteva guardare solo in una direzione, verso una grotta lunga e profonda dalla quale usciva il macabro suono di catene trascinate.
Una figura esile avanzava lentamente dall’oscurità di quella caverna, incespicando di tanto in tanto.
Le liane si polverizzarono in schegge di vetro, facendola cadere a terra. La figura avanzò e quando le fu davanti, recitò la solita formula che le riservava già da sette notti:
«Aiuto. Elsa, ti prego… aiutami!».
Sefora la fissava con gli occhi lucidi.
«Sefora!» urlò finalmente capace di  muoversi secondo la sua volontà «Sefora, che ti è successo?».
Senza risponderle le si appese al collo, abbracciandola con quanta forza il suo corpo deperito le permettesse.
Era dimagrita, piena di lividi e si tratteneva a stento dal piangere.
Elsa finalmente assaporò quella tranquillità che aveva distinto le prime volte che era stata con Sefora. Era come se il groppo che le attanagliava lo stomaco da giorni si sciogliesse pian piano, rendendola più serena.
«Oh, Sefora…» sussurrò ancora stringendola tra le sue braccia «se solo tu fossi reale…».
La maga sciolse l’abbraccio e le accarezzò il viso con una mano bianca e fredda.
«Elsa, io sono reale».
«No, tu, questo… è solo un sogno».
Quell’eterea presenza si rattristò molto di quelle parole, tanto che una lacrima le rigò il volto pallido.
«Elsa, ti sembra forse un sogno qualunque? Non c’è proprio nulla di strano?».
«Io, ecco…».
Non sapeva come dirlo. Dalla prima parte era cambiato tutto: adesso era libera di muoversi e parlare, poteva toccare Sefora e poteva sentirne pure l’odore. Era tutto troppo vero, troppo vero per crederci.
«Elsa, purtroppo abbiamo poco tempo. Ti prego, ascoltami». Le prese le mani, calde e forti, e le strinse. Quelle mani che l’avevano salvata più di una volta e che raramente aveva potuto tenere tra le sue. Era dovuta capitare una disgrazia simile perché Elsa le concedesse quel contatto?
Scosse la testa, non doveva farsi distrarre, c’era poco tempo.
«Elsa, questo sogno è frutto di un mio incantesimo. I nostri corpi stanno dormendo ma i nostri spiriti sono vigili».
«Un tuo incantesimo? Ma com-».
«Prima o poi te lo spiegherò, ma adesso ho altro da dirti. Per favore, ascoltami».
I suoi occhi verdi, stanchi e senza la loro tipica vivacità portavano i segni dello sforzo che richiedeva tale magia, ed Elsa non poté fare altro che obbedire docilmente ad una richiesta tanto gentile.
«I mannari e i vampiri mi tengono prigioniera in un castello in rovina. Non so dove sia, ero incosciente quando arrivai qui, so solo che è in montagna, sperduto tra i boschi e altamente vigilato. I mannari possono trasformarsi di giorno. Prendi il mio libro-».
«Questo lo so, ho già letto tutto».
«Bene, per fortuna hai già trovato l’indizio che ti ho lasciato» rispose sollevata. Mantenere aperto il varco nel mondo onirico richiedeva un grande sforzo, parlare diventava stancante.
«C’è un traditore tra i licantropi, è lui che li ha mandati a prendermi. Non dovete venire a salvarmi, perché lui farà la spia!».
«E cosa dovremmo fare, allora? lasciarti nelle loro mani?» domandò visibilmente contrariata.
«Elsa, calmati. Non fate mosse avventate. Prima dovrete scoprire chi è, poi potrete agire, ma ti prego» la supplicò con le lacrime agli occhi «non venire a salvarmi!».
Sefora non voleva che rischiasse la vita per andare a salvarla, era stufa di obbligarla a proteggerla, non voleva che Elsa si mettesse in pericolo per lei solo perché sua compagna di squadra.
Non poteva permettere che quella ragazza testarda, che le faceva battere il cuore solo standole vicina, morisse per assecondare il suo senso del dovere fin troppo marcato.
Per la licantropa, invece, fu una pugnalata al cuore. Neanche Sefora si fidava di lei? Pure la cercatrice non credeva che ce la potesse fare? Era adirata, frustrata, offesa dalle sue parole!
«Come?! Sefora, io devo venire a salvarti!» urlò prendendola per le spalle.
Quel contatto era stato come una scossa elettrica che le fece aprire gli occhi: il modo in cui aveva evidenziato quelle due parole, “io devo”, come l’aveva stretta, come l’aveva guardata quasi supplicandola di proteggerla… che Elsa volesse andare a prenderla per qualche motivo più profondo della sua lealtà e responsabilità?
«Elsa, potresti morire».
Lei rispose senza nemmeno pensarci, tanto la risposta era semplice.
«Se è per te posso anche correre il rischio».
«Lo faresti per me?» sussurrò sempre più debole «Saresti disposta a correre un rischio tanto grande pur di farmi riavere la libertà?».
«Sì, lo farei».
Le forze della giovane cercatrice andavano via via scemando, e le sue gambe cedettero, ma non cadde a terra perché le braccia di Elsa la presero delicatamente, stringendola al suo caldo corpo immateriale.
Si sedette a gambe incrociate sul pavimento freddo e duro, tenendola stretta a sé come si fa con un bambino da cullare.
«Sefora, che ti succede?».
«Tranquilla, è normale» la rassicurò celando la fatica dietro un sorriso «Mi sto indebolendo e tra un po’ non riuscirò più a tenere aperto il varco onirico, ma non ti preoccupare: una volta sveglia starò bene di nuovo».
Elsa le accarezzò i capelli, districandone i nodi che fino a una settimana prima non si sarebbero mai formati sui suoi capelli liscissimi e morbidi.
«Mi hai appena detto che per me daresti la vita, ma se venissi da me adesso la perderesti senza ottenere nulla».
Il suo corpo all’improvviso si fece leggero, perdendo colore partendo dalle estremità: ormai aveva perso le forze, stava svanendo per ritornare nel mondo reale. Elsa strinse ancor di più quel corpo ogni secondo più freddo e vuoto.
«Se tutti i licantropi venissero con me vinceremmo di sicuro» rispose orgogliosa.
«E invece sarebbe una carneficina. Elsa, giurami che prima di combattere i vampiri e i mannari scoprirai il traditore. Giuralo».
La licantropa stava per replicare, ma quegli occhi verdi che l’avevano catturata dalla prima volta che si erano viste, la intrappolarono di nuovo, impedendole di mentire.
«Lo giuro» acconsentì «ma tu promettimi una cosa».
«Cosa?» domandò guardandola con occhi vacui, come di chi sta per addormentarsi dopo un’enorme fatica.
«Che ci rivedremo domani notte».
Sefora alzò una mano quasi completamente trasparente fino a sfiorarle il viso. Spostò qualche ciocca riccia dalla fronte, mostrandone le rughe d’espressione; seguì il profilo del viso lungo le tempie fino al mento, risalendo poi ad accarezzare la cicatrice sullo zigomo. Inconsciamente cercò lo sguardo della ragazza, in cerca di conforto.
Quanto le piacevano quegli occhi profondi e irraggiungibili?
Troppo per non rivederli, ecco quanto.
«Promesso».
 



Angolo dell'autrice:
Finalmente riappare Sefora! Caspita, cominciavo a stufarmi di scrivere senza di lei.
Cooomunque, visto che sono in ritado un'altra volta (sembra diventare un'insana abitudine, purtroppo), ho deciso di scrivere un capitolo più lungo, per "consolazione", diciamo.

Qui vengono citate due nuove pozioni, L'argento luciferino e il sine odore, che in latino vuol dire qualcosa come "senza odore".

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Alla prossima,


Ignis_eye 

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Capitolo 18
*** Qualcuno nel buio ***



 
«Promesso».
 
Quella parola aveva accompagnato Elsa per tutto il viaggio di ritorno al mondo reale: era stato come smaterializzarsi in una polvere sottilissima e finire in un vortice impetuoso che dal mondo onirico l’aveva riportata nel suo corpo attraverso una sorta di replay.
Un tossico l’avrebbe definito “uno sballo”.
Peccato che quello che trovò una volta cosciente non fosse altrettanto stupefacente.
«Elsa! Elsa!» urlava sua madre sbattendo i pugni sulla porta «Elsa!».
«Mamma, basta urlare» biascicò con la voce ancora impastata dal sonno «sono sveglia, sono sveglia».
«Apri subito la porta!» ordinò suo padre «Vieni fuori di lì!».
“Ma che avranno da far baccano? Ho solo chiuso la porta a chiave. Oh cazzo, l’argento Luciferino”.
Diventò bianca come un lenzuolo: si era completamente dimenticata di quella pozione! I suoi l’avrebbero uccisa, ne era certa.
Si alzò subito, dinamica e coi riflessi pronti come se fosse sveglia da ore: non voleva aprire la porta e beccarsi un altro ceffone da sua madre.
«Arrivo».
Sudava freddo, non ne aveva mai combinata una così grossa. Come le era venuta l’idea di comprare quella pozione velenosa?
«Prima che io apra la porta, vorrei dire in mia discolpa che questo era l’unico modo per riposare in pace».
«Elsa Desdemoni!» gridò sua mamma «esci subito di lì, che ti do così tante bastonate che ti raddrizzo io!».
«Non ti pare di esagerare? Sono solo le sei del mattino, alla tua età è sconsigliabile stancarsi così di prima mattina».
La sua sfacciataggine era solo una maschera: era già successo un’altra volta che Gioia la inseguisse con un mattarello, e nonostante la semi-invulnerabilità, non era stato affatto piacevole farsi rincorrere da una guerriera esperta e  incazzata nera alla quale aveva appena rovinato importanti documenti di lavoro.
«Non permetterti di parlare così a tua madre, hai capito?».
Quando ci si metteva, suo papà diventava proprio un rompiballe, e lei non aveva alcuna intenzione di ascoltare le sue prediche dopo una nottata così bella.
Non aveva mai riposato così bene negli ultimi giorni, e la certezza di poter rivedere Sefora l’aveva riempita di entusiasmo.
Lei era prigioniera, ma non era ferita e stava abbastanza bene, segno che i mannari volevano tenerla in vita per qualcosa, e intanto poteva vederla tutte le notti, stringerla tra le sue braccia, baciare i suoi capelli e accarezzare la sua pelle.
Poteva essere solo sua, per poco tempo certo, ma almeno per un po’ poteva stare solo con lei.
Le pareva di sentirla ancora abbracciata a lei, di sentire i suoi capelli tra le dita e le sue carezze sul viso. Non avrebbe lasciato che una litigata rovinasse la sua beatitudine.
«Damiano, scommetto che sei lì anche tu, ti ho sentito ridacchiare. Certo che sei un cugino straccio, sai? Potresti cercare di aiutarmi!».
«Hey, non tirarmi dentro questa storia!».
«Damiano» disse sua zia «Dì a tua cugina di venir fuori».
«Ma veramente zia, io adesso dovrei prepararmi per uscire con… con… Pietro! Sì, devo andare  da Pietro».
Elsa intanto se la rideva immaginando la faccia di Damiano che cercava in tutti i modi di andarsene, tentando di resistere allo sguardo inquisitore della zia.
«Non centrerai qualcosa con questa storia, spero!».
«Cosa? Ti giuro che io non ne sapevo nulla!».
«Sì, come no! Tu e tua cugina combinate sempre qualcosa insieme!».
E continuava a metterlo sotto pressione.
Elsa si sentiva in colpa per averlo gettato nella gabbia dei leoni, ma era l’unico modo che aveva per svignarsela.
Mentre sua madre interrogava Damiano e suo padre andava a prendere gli attrezzi per sfondare la porta, lei si vestì e scappò dalla finestra, scendendo inosservata dalla pianta vicino ad essa.
Complice il torpore del mattino presto, nessuno la vide per strada, così poté andare tranquillamente a casa dell’unica persona che poteva aiutarla.

 


 
«Chan, sono io!» disse bussando alla porta.
«Avanti, è aperto».
Poteva anche smettere di bussare alla sua porta, tanto lui era sempre lì a meditare e ogni volta sapeva quando sarebbe andata da lui.
“Magari neanche mangia o dorme. Forse medita e basta”.
«Come mai sei qui a quest’ora?».
“Beccato! Allora anche lui può essere preso alla sprovvista” rise sotto i baffi.
La sua voce era lontana, doveva essere ancora al piano di sopra, così attese che scendesse prima di spiegargli tutta la faccenda. Tralasciò tutta la parte riguardante il sogno, raccontandogli il perché di quell’idea sciagurata dell’argento luciferino e della litigata coi suoi genitori.
Lui l’aveva ascoltata mentre preparava del tè per entrambi, incrociando le dita che Fulvio e Gioia non irrompessero in quel momento, portando scompiglio in casa sua, sempre silenziosa come un tempio buddista.
«Elsa, come fai a combinare così tanti guai?» la riprese scherzosamente «io non ci riuscirei in una vita intera».
«Li combino perché ci sono costretta» gli spiegò «se loro non mi avessero mai svegliata nell’ultima settimana  forse sarei riuscita a dormire, non sarei stata di così cattivo umore e non mi sarei mai azzardata a comprare quella robaccia. L’ho fatto per disperazione».
Lui rise di gusto, riducendo a due fessure gli occhi a mandorla più di quel che fossero già.
«Il tuo discorso non fa una piega. Anche da bambina spiegavi tutto per filo e per segno quando volevi per forza aver ragione».
«Perché io ho ragione».
«Forse, ma l’argento luciferino è pericolosissimo, ne basta poco per far del male».
«Lo so» rispose lei colpevole «ma sai anche  tu quanto ero diventata irascibile, no? Era necessario».
«E cosa dovrei fare io adesso? Convincere di questo i tuoi genitori?».
«Sì».
Chan sospirò: ormai aveva fatto da tramite in queste litigate chissà quante volte, cosa sarebbe stata mai una volta in più?
«Va bene, ma andremo a casa tua a discuterne, non voglio che il mio tempio di pace diventi un campo di battaglia. È un miracolo che Gioia non sia già qui, avrebbe messo tutto soqquadro».
La ragazza fece spallucce.
«Che vuoi farci? Da chi credi che abbia preso io?».
 
 

 
«Ok Elsa» disse il maestro Chan «poteva andare peggio, no?».
La licantropa sbuffò, incrociando le braccia.
«Poteva anche andare meglio».
Era stata un litigata coi fiocchi, e nemmeno il maestro era riuscito a calmare i genitori, che infuriati come lupi affamati si erano avventati sulla figlia.
Alla fine, lei era stata messa in punizione, e questo l’aveva umiliata profondamente.
«Ma ti rendi conto? Mi hanno messa in castigo!» sbottò «Mi hanno proibito di uscire con gli amici o di svagarmi in qualunque modo, proprio come si fa con i bambini!».
Era questo a infastidirla: non l’avevano obbligata a qualche lavoro pesante o faticoso, l’avevano solo rilegata in camera a guardare il soffitto.
«Spiegami adesso come faccio a non ammattire!».
Le veniva da strapparsi i capelli: le avevano portato via tutte le pozioni, i libri di magia, il cellulare, il computer portatile e qualunque cosa potesse farle passare dolcemente il tempo.
«Mi hanno rubato pure le carte da briscola, non posso nemmeno farmi un solitario!».
«Te le hanno sequestrate, non rubate» precisò lui.
«E’ la stessa cosa. Tanto io non posso usarle» si lamentò lasciandosi cadere sulla poltrona in camera sua.
«Cerca di capire: si sono spaventati, temevano per la tua incolumità».
«Sì sì, all’inizio pensavano che qualcuno mi avesse chiuso dentro, bla bla bla. Sempre la solita storia: prima si preoccupano e poi ti puniscono».
«Elsa, tutti i genitori fanno così».
«Anche quelli cinesi?».
«Soprattutto quelli cinesi. Mio padre una volta mi legò con una catena d’argento sospeso su decine di macigni aguzzi».
«Almeno potevi stare all’aria aperta» rispose lei, fissando le lucenti sbarre argentee appena installate alla sua finestra.

 


L’orologio segnava le 21:45, ed Elsa se ne stava sdraiata, fissando distrattamente una  crepa quasi invisibile nella vernice del soffitto, che partendo dallo stipite della porta, arrivava fin sopra il suo letto. Non riusciva a prendere sonno: Sefora le aveva promesso che si sarebbero riviste, ma se per qualche motivo non avesse potuto entrare nel sogno?
 “Certo che finché non mi addormento sarà difficile incontrarsi”.
Si rilassò, stendendosi completamente e rallentando il respiro. Pensò a Sefora, intensamente, finché non si addormentò con la sua immagine ancora vivida nella mente.
Come tutte le volte, seguì passivamente la corsa nel bosco, i mannari che la circondavano e la caduta nelle sabbie mobili, senza opporre resistenza né sforzandosi di muoversi in alcun modo: lasciò solo che gli eventi si svolgessero fino al momento tanto atteso.
«Sefora!» urlò abbracciandola stretta.
«Elsa! Quanto ho aspettato l’arrivo di questa sera!» rispose l’altra appoggiando la testa sul petto della licantropa «Non hai idea di quanto sia contenta di vederti».
Ad Elsa quasi scoppiò il cuore dalla gioia: le era mancata, adesso era aggrappata al suo corpo, la stringeva! Non avrebbe mai sperato in un piacere così grande, pensava che essendo solo sua amica non potesse mancarle così tanto.
Vittima dell’incantesimo più dolce del mondo, le accarezzava i capelli e ripeteva il suo nome all’infinito, come una ninnananna, che a malincuore dovette interrompere.
«Sefora» sussurrò dolcemente «vorrei stare a coccolarti tutta la notte, ma abbiamo delle cose importanti di cui parlare».
Lei annuì, staccandosi dall’abbraccio rassicurante della licantropa, prendendole le mani calde con le sue, gelide e pallide, e invitandola a sedersi su di una roccia.
«Non mi uccideranno» disse precedendo la domanda di Elsa «vogliono tenermi in vita per un qualche scopo».
La più forte strinse le piccole mani della maga, accarezzandone il dorso con i pollici.
«Come fai ad esserne certa?».
«Lo so. Non mi hanno uccisa, non mi lasciano senza cibo, mi fanno dormire in una stanza pulita e non mi picchiano quasi mai».
«Quasi mai!? Che vuol dire “quasi mai”?!» ringhiò furiosa scattando in piedi «Come osano farti male?!».
Quello scoppio di collera improvvisa aveva spaventato Sefora, che aveva ritratto velocemente le braccia portandosele al petto.
«Sono stati quei bastardi a lasciarti i segni sul volto, vero?! Quei cani rognosi!».
«Elsa, calmati!» la implorò «tutto sommato sto bene!».
«No che non mi calmo! Quelle merde ambulanti non devono permettersi di picchiarti!».
Agitava i pugni, prendeva a calci le stalagmiti che spuntavano dal terreno e lanciava lontano rocce e massi, frantumandoli in grossi pezzi.
Sapeva che per forza di cose quella ragazza sarebbe stata picchiata, se non peggio, ma vederlo coi propri occhi e sentirselo confermare con tono tanto pacato  era stato devastante, non riusciva a sopportarlo, tanto che si trasformò in lupo, ringhiando contro il vuoto di quella caverna buia.
«Elsa, calmati!».
Le si gettò al collo, affondando il viso nella pelliccia morbida del collo.
«Per favore, calmati» singhiozzò «almeno quando siamo qui, non ti agitare così».
Elsa ci provava a tranquillizzarsi, ci provava davvero, ma la rabbia era troppa, e non era solo odio verso i mannari, era rancore che provava per i licantropi come lei.
«Se tu sei ancora lì è perché non siamo venuti a prenderti» ringhiò.
«Ne abbiamo già discusso, è meglio così per tutti».
Elsa trattenne a stento ululati di rabbia, soffocandoli in una serie di rantolii profondi che le facevano tremare il possente petto lupesco, mentre con le zampe artigliate raspava nel terreno duro, cercando di sfogare in qualche modo la collera.
«Elsa, per favore, torna umana» chiese passando i palmi sul pelo morbido «per favore, di belve ce ne sono già abbastanza al castello».
Nonostante Sefora lo nascondesse, i sensi sviluppati della licantropa percepivano la paura; la fiutava come fosse un odore, poteva sentire l’adrenalina scorrere nelle vene sotto la pelle della mezzana.
Era stata lei a spaventarla, si sentì terribilmente in colpa.
«Sefora, mi dispiace» disse con voce roca e gutturale «io non volevo».
«Lo so, lo so. Non avrei dovuto dirtelo, anche se lo immaginavi già».
“Perché si incolpa per qualcosa che non ha fatto? Esiste al mondo una ragazza più dolce di lei?”.
Mutò in umana, allontanando dà sé il furore e lasciando spazio alla tranquillità che solo Sefora era in grado di darle.
Aveva ancora le sue braccia sottili aggrappate alle spalle, e percepiva il respiro uscire dalle sue labbra dischiuse solleticarle il collo. Voleva guardarla in faccia, lenire la propria sofferenza con i suoi occhi verdi, ma quando li vide, erano l’espressione stessa del terrore.
«Elsa, non so perché ma l’incantesimo si sta spezzando».
«Cosa?».
«Forse qualcuno sta cercando di svegliarti o di entrare nel sogno!».
«Cosa possiamo fare? Se è un vampiro o un mannaro, potrebbero essere guai grossi per te!».
Ricordava fin troppo bene le botte e i graffi delle notti precedenti, non l’avrebbe fatta malmenare ancora.
«Ascolta, Elsa» disse mentre la dimensione onirica si distorceva attorno a loro «Ci rivedremo domani, te lo prometto».
Senza altre spiegazioni, le lasciò un veloce bacio sulla guancia, e la rimandò nel suo corpo senza permetterle di replicare in alcun modo.
Elsa, spaesata, perse completamente coscienza delle sue azioni, potendo solo seguire passivamente il riavvolgersi della prima parte del sogno: una pioggia di schegge di vetro si condensò in liane, che la tiravano verso il soffitto altissimo; questo si aprì sopra di lei e una fanghiglia l’inghiottì per sputarla in una foresta brulicante di mannari dagli occhi gialli che retrocedevano nella selva, abbandonando le loro fattezze ripugnanti.
Tutti meno uno, l’unico che dal buio la fissava con occhi rossi colmi d’odio.





Angolo dell'autrice:

A: Ma... che cos'è questo? Una storia con un capitolo aggiornato?
B: Sembra di sì. Che storia è?
A: Vediamo... Guerra del plenilunio.
B: No, impossibile.
A: Già, è quel che dico anch'io.
B: Da quanto non aggiornava in orario? Secondo me è un fake.
A: Guarda! Ha aggiornato sul serio!


Esatto, finalmente, dopo millanta millenni, sono riuscita a pubblicare dopo 10 giorni, come da consuetudine! Pensavo non sarebbe più successo, ma questa settimana è stata piuttosto "stagnante" e ho trovato facilmente il tempo per scrivere :)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto:)


Ignis_eye

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Capitolo 19
*** Il traditore ***


Sentiva bruciare la pelle dove quegli occhi rossi posavano lo sguardo: erano cattivi, malvagi e nascondevano il marcio che risiedeva nel profondo del loro portatore dai connotati bestiali.
Era stato lui a intrufolarsi nel sogno, perché in quell’attimo il replay si era quasi stoppato, distorcendo la dimensione onirica dove tutto adesso andava a rallentatore, tutto meno lui, che si muoveva liberamente.
Fu questione di pochi secondi, ma ad Elsa bastarono per leggere il labiale di quel mostro ripugnante:
“Io ti ucciderò”.
 
 

 
Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere.
Respirava affannosamente e aveva le mani sudate.
Quando era rientrata nel suo corpo, aveva avuto come l’impressione di essere stata attirata da una forza di gravità potentissima che l’aveva risucchiata come se fosse stata di fumo.
Si prese la testa riccioluta tra le mani: pulsava e faceva male, come se qualcuno martellasse su un chiodo immaginario piantato nella sua testa.
Nella penombra della sua stanza, Elsa distinse chiaramente i numeri luminosi della sua sveglia digitale, che la informava silenziosamente che erano le 4:30 del mattino.
Una macchina solitaria passò accanto alla sua casa, proiettando l’ombra delle sbarre d’argento sul muro alla sua destra, dove c’era anche la porta.
Si sedette sul bordo del letto, appoggiando i piedi nudi sul parquet e massaggiando le tempie.
“Come mai fa così male? Le altre volte non è successo” pensava premendo più forte i polpastrelli sulla pelle.
Involontariamente alzò lo sguardo verso la scrivania e vide due punti rossi brillare nel buio.
Pensando si trattasse del mannaro del sogno, si alzò in piedi di scatto, leggermente incurvata in avanti, pronta ad attaccare, ma il sollievo fu tanto quando si rese conto che erano solamente i led del cellulare sotto carica.
Sentiva la lingua asciutta come se avesse mangiato sabbia per cena, così andò nel suo bagno per bere un sorso, ma venne bloccata da improvvise vertigini che la costrinsero ad appoggiarsi alla parete con una mano.
Barcollò fino in bagno, si accovacciò in doccia e aprì l’acqua fredda al massimo. Il getto l’investì in pieno viso, svegliandola completamente e dando sollievo alla sua testa dolorante, appiattendo i ricci castani.
“Chi cazzo era quello? Quel bastardo dagli occhi rossi? Mi vuole ammazzare perché posso comunicare con Sefora. Sai che novità” pensò strofinandosi il viso “me lo aspettavo da un po’ a dire il vero. Era questione di tempo prima che la scoprissero”.
Appoggiandosi alle piastrelle umide si alzò in piedi, avvicinandosi al getto gelido.
Non riusciva a capire la reticenza di Sefora. Non voleva farsi aiutare per non mettere in pericolo nessuno, diceva, ma Elsa sospettava che ci fosse sotto qualcosa. Qualcosa che la maga voleva risolvere da sola.
“Non mi ha detto quasi nulla del posto, dei vampiri, dei lupi mannari, del Necronomicon e di qualunque altra cosa. Nasconde qualcosa, ma finché nessuno andrà a salvarla non saprò mai di che si tratta”.
Ma il pensiero che l’opprimeva di più era quel mannaro che si era intromesso nell’incubo, causando la rottura del varco nella dimensione dei sogni.
Tutte le volte che era stata catapultata in quel mondo strano e mostruoso lui era sempre lì a fissarla, e questa volta era riuscito a interrompere il contatto con Sefora.
Ma cosa ci faceva lì?
Era l’unico tra tutti a muoversi come gli pareva, e questo dimostrava che non faceva parte del sogno, ma era un ospite di quella dimensione come lei e Sefora.
Quindi, tutte le notti, in qualche modo, riusciva ad intrufolarsi nell’incubo e ogni volta godeva di maggior libertà, finché non lo ha interrotto completamente.
L’acqua scorreva sul suo corpo per nulla intirizzito dal freddo, scivolando anche sulla maglietta e sui pantaloncini già zuppi.
Lei che sotto la doccia si faceva mille seghe mentali, sperava che l’aiutasse anche in questo caso, e così fu anche quella volta.
Come fulminata dal lampo della genialità, tirò un pugno alla parete, spaccando alcune mattonelle azzurrine.
“È il traditore!”.
Come aveva fatto a non capirlo prima?
Per insinuarsi nel sogno, doveva essere o un mago o un vampiro, perché licantropi e mannari non hanno abbastanza dimestichezza con gli incantesimi magici.
Con Chan aveva già chiarito che un mago non poteva essere, ma che si trattava per forza di uno di loro.
“Un licantropo che viene aiutato dai vampiri. Sefora è loro prigioniera, possono anche bloccare i suoi poteri con incantesimi o catene in piombo, ma se vogliono bloccare completamente il contatto, devono fermare anche me, e chi può farlo meglio del traditore? Chi può riuscirci meglio di un licantropo che magari mi conosce?”.
Questa nuova consapevolezza quasi la spaventò: quello che voleva ammazzarla era a Villanova, era vicino a lei e nessuno a parte il suo maestro e forse pochi altri era a conoscenza dell’esistenza del doppiogiochista.
Lavò via i granuli di cemento appiccicati sulle sue nocche illese e chiuse il getto; l’acqua venne risucchiata giù per il tubo e i frammenti di piastrelle vennero bloccati dallo scarico della doccia.
Uscì gocciolante bagnando il pavimento, rendendosi conto solo allora che nessuno si era svegliato a causa dello scroscio dell’acqua o del pugno al muro.
I suoi genitori avevano depurato tutta la sua stanza da ogni incantesimo, ma a quanto pareva non avevano pensato al bagno, dove Elsa, grazie alle sue pozioni raccattate un po’ qua e un po’ là, aveva creato una barriera per il rumore, in modo da potersi fare i cazzi suoi in santa pace.
Questo voleva dire due cose: poteva fare la cacca in totale tranquillità e aveva una zona sicura della quale i suoi nemmeno sospettavano l’esistenza.
“Perfetto! Il bagno è piccolo ma è meglio di nulla”.
Si guardò distrattamente allo specchio: la poca luce che filtrava dalla finestra sbarrata bastava a illuminare il suo volto. Benché la sua pelle fosse sempre stata così, la tensione degli ultimi tempi rendeva evidente il pallore sotto la leggera abbronzatura, come quando un pittore passa una sola mano di vernice su un muro spoglio, lasciando che sotto la pittura si intraveda ancora il colore naturale della parete.
La cicatrice invece saltava subito all’occhio, perfettamente evidente sullo zigomo sinistro.
“Quel coglione di Carlo… non mi stupirei se ci fosse il suo zampino! Anzi, è così imbecille che un compito del genere non potrebbe mai portarlo a termine! È il primo che posso cancellare dalla lista dei sospettati”.
Nonostante il mal di testa aveva riacquistato lucidità e controllo di sé stessa. Decise che sarebbe andata a dormire come se non fosse successo nulla, doveva essere riposata per quello che voleva fare il mattino.
Uscì dal bagno e tolse i vestiti incollati al suo corpo, mettendo a nudo il fisico asciutto che molte ragazze della sua scuola le invidiavano: gambe lunghe e magre, un accenno di addominali sulla pancia e un piccolo seno che ammorbidiva e ingentiliva quel corpo un po’ androgino e temprato dagli allenamenti.
Mise addosso qualcosa e si sdraiò sul letto, pronta a recitare la sua parte.
 
 

 
Quella mattina si alzò con tutta tranquillità, come se fosse in vacanza anche dalla guerra tra mannari e licantropi.
Scambiò due parole con tutta la famiglia, fece colazione e si ritirò in camera sua a fare i compiti delle vacanze, mansueta come una pecorella.
I suoi non si insospettirono per nulla: le avevano proibito di seguire le lezioni di Chan per un po’, e sapendo che non le piaceva starsene con le mani in mano, non si stupirono più di tanto quando si chiuse nella sua stanza come una studentessa modello.
Elsa sparse sulla scrivania qualche libro e dei quaderni, aprendoli a pagine casuali. Prese un foglio e scrisse uno sotto l’altro tutti i nomi dei licantropi che abitavano a Villanova, occupandolo completamente, poi cominciò la parte più difficile del lavoro: giudicare.
“Allora… prima la mia famiglia. Damiano no, è stato attaccato violentemente dai vampiri ed è sinceramente preoccupato da tutta la faccenda. Mamma e papà neanche, hanno rischiato la vita portando a casa molte ferite. E poi è la mia famiglia, di loro mi fido”.
Cancellò i loro nomi con un segno nero.
“Chan: no, lui no. È stato il primo a pensare ad un complotto e a mettermi in guardia, lo escludo. Gaspare: nemmeno, lui è uno dei quarantotto anziani e si occupa di organizzare tempestivamente ogni riunione”.
Cancellò pure loro e andò avanti così per tutti quanti. Restavano poche persone incerte, ma alla fine cancellò anche quelli:
“Michela la troiona è arrivata poco tempo fa, non poteva organizzare tutto e il suo cervello da gallina non ci arriva, così come Carlo: troppo stupido e cacasotto”.
Del foglio pieno di indiziati restò solo una pallina accartocciata gettata nel cestino. Ogni licantropo aveva validi motivi per non essere il traditore, ma lei era certa che il marcio si trovasse a Villanova ed era determinata a scovarlo.
Avrebbe dovuto chiedere aiuto a Damiano? Lui l’aveva aiutata più volte, era suo complice da una vita, ma se si fosse affidata a lui avrebbe dovuto parlargli di Sefora e dei sogni… oppure no?
Un involontario sorriso sardonico si allargò sul suo viso, riflesso delle macchinazioni che avvenivano nella sua testa. Non era necessario raccontargli tutto nei minimi particolari, si poteva anche omettere qualcosina…
«Damianoooo!» urlò «Vieni qui! Aiutami con tedesco!».
Sentì uno sbuffo dalla stanza di fronte alla sua, seguito da passi svogliati.
«Cosa c’è che non capisci stavolta?» domandò rassegnato sedendosi sul letto «Mi chiedi sempre le stesse cose».
«Tranquillo» sussurrò «voglio solo parlarti di un certo argomento».
«E perchè lo stai facendo a  voce così bassa?».
«Perché mamma ha eliminato tutti gli incantesimi per attutire il suono».
Lui sbarrò gli occhi: aveva capito dove voleva andare a parare la cugina, e non pensava che fosse così fissata da voler andare ancora avanti con quella storia. E invece no, se lo aspettava eccome da quella testona. Sperare in una sua resa era un’utopia.
«E come farai a spiegarmi tutto sussurrando?».
Lei scosse la testa e a velocità inumana scrisse su un foglio quadrettato, glielo porse e Damiano si accinse a leggere il testo scritto con grafia un po’ spigolosa.
 
È da parecchie notti che faccio sempre lo stesso sogno: sono in una foresta dalla quale spuntano tutti i licantropi che conosco, compreso tu. Vi trasformate in mannari dagli occhi gialli, tranne uno che li ha rossi.
Ogni volta, tutti vi muovete nello stesso modo, invece il mannaro “anomalo” non ha movimenti schematizzati, e ogni volta sembra sempre più reale.
Poi vengo risucchiata dalle sabbie mobili, finisco a testa in giù attaccate alle liane e mi sveglio, ripercorrendo tutto al contrario, come in un re-play.
Cosa pensi che significhi?
 
«C’entra qualcosa con un possibile traditore?».
Lei annuì.
Damiano prese un’altra penna e rispose per iscritto.
 
Secondo me è un messaggio del tuo inconscio.
I mannari, nessuno escluso, hanno gli occhi rossi, tuttavia nel tuo sogno solo uno li ha di quel colore mentre gli altri li hanno gialli.
Chan ti ha detto che  il traditore è un licantropo, quindi nel sogno ci vedi tutti come possibili doppiogiochisti, ma sai che solo uno di noi lo è, e quel qualcuno viene evidenziato dal tuo subconscio con gli occhi rossi, come un vero mannaro. Il resto non so cosa voglia dire.
 
«Quindi cosa dovrei fare?».
«La prossima volta che ti addormenti, fai attenzione nel momento della trasformazione in mannari e cerca di capire chi è ha gli occhi rossi. Anzi, fallo nel re-play, sarà più facile».
Elsa scrisse ancora, era troppo pericoloso parlare, anche se a bassa voce.
 
Ma come fa il mio inconscio a sapere chi è il traditore? Prima ho fatto una lista e tutti mi sono sembrati innocenti!
 
«Mistero» si limitò a dire Damiano «a volte non riusciamo a vedere anche le cose più ovvie perché sono oscurate dai nostri pregiudizi».
«Che saggio che sei. Non è che tu e Chan vi siete scambiati i corpi?».
«No, sennò starei seduto a fiore di loto tutto il giorno bevendo tè verde».
Ridacchiarono tutti e due allo stereotipo perfetto del maestro cinese.
«Adesso però aiutami davvero in tedesco».
«Che palle. Vai  a pagina 178 e ripassiamo i verbi irregolari…».
 
 
 
 
Dopo cena, Elsa andò a letto presto. Non stava più nella pelle: avrebbe visto il volto del traditore!
Certo, il risultato non era assicurato, ma il discorso di Damiano aveva senso, così decise di provare.
Se avesse scoperto l’identità della spia, i licantropi avrebbero avuto un enorme vantaggio sui mannari, magari avrebbero deciso di andare a salvare Sefora!
Si sdraiò, si rilassò e chiuse gli occhi. Respirava regolarmente, con lentezza; il suo petto si alzava e si abbassava ritmicamente perdendo velocità man mano che perdeva conoscenza.
Aspettò e aspettò ancora finché il sonno non la rapì completamente.
Dormì, ma non accadde nulla di più: Sefora non riusciva a mettersi in contatto con lei.
 





 

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Capitolo 20
*** Attacco inaspettato ***


Quella notte non sognò.
Niente mannari, niente sabbie mobili, niente foresta buia, ma soprattutto, niente Sefora.
Inutile dire che appena sveglia restò molto delusa, anzi, si spaventò.
Se la maga non aveva potuto mettersi in contatto con lei poteva significare solo una cosa: i mannari le avevano bloccato tutti i poteri con catene di piombo e chissà cos’altro.
Si alzò e da subito sentì una strana sensazione allo stomaco, che classificò come tensione.
“Qui va di male in peggio” si disse “non posso più restare a guardare”.
Aprì la finestra per far entrare un po’ d’aria nuova in camera da letto, poi scese in cucina per fare colazione.
Mangiò assieme a Damiano, perché per tutta quella domenica i suoi genitori sarebbero stati al museo di Villanova a mostrare qualche loro scoperta a dei nuovi finanziatori.
«Dormito bene, Elsa?».
«Insomma».
«Ancora incubi?».
«Esattamente il contrario: nessun incubo» rispose sospirando «e nessun traditore».
«Capisco».
Elsa si versò del latte in una tazza, bevendolo svogliatamente e storcendo il naso.
«Questo latte fa schifo, non sa da niente».
«Lo ha comprato la zia al supermercato. Roba da umani».
Lei studiò schifata il cartone azzurrognolo.
«Poveri idioti».
«Dobbiamo accontentarci di questo perché le mucche di Enrico, quello che ci porta sempre il latte, sono morte».
Elsa si bloccò con il cucchiaio a mezz’aria.
«Tutte?».
«Molte, da quel che mi ha detto lo zio».
«Strano».
«Decisamente. Sarà stata una malattia che si è sviluppata in pochi giorni».
La ragazza annuì.
«Sarà».

 

 
 
Quella storia delle vacche non l’aveva convinta da subito. Il suo sesto senso si era messo a fare i salti mortali nella sua testa e non la lasciava in pace.
Possibile che decine di mucche sane muoiano da un giorno all’altro? Se fosse stata una malattia, Enrico il fattore se ne sarebbe accorto.
Anche se ancora in punizione, uscì di casa alle 9:00, rassicurando Damiano che non sarebbe scappata chissà dove.
Lui non avrebbe certamente fatto la spia con i suoi genitori, ma la prudenza non è mai troppa.
Andò in bicicletta fino ai confini della cittadina, poi l’abbandonò dietro un cespuglio e si mise a correre nella campagna, nascondendosi tra i piccoli gruppi di alberi che delimitavano le varie proprietà.
Non c’era anima viva, e questo rendeva tutto più facile.
Arrivò in pochi minuti alla fattoria di Enrico, e la prima cosa che vide fu uno spettacolo disgustoso: decine di vacche giacevano immobili seminascoste da una palizzata alta un metro, che le nascondeva dalla vista di chi passava in macchina sulla strada sterrata.
Storse il naso: l’odore dello sterco mischiato a quello dei corpi in putrefazione era micidiale. Le bestie sembravano morte da al massimo due giorni, a giudicare dai ventri esageratamente gonfi e dai liquidi che uscivano dalle loro bocche.
Si avvicinò guardinga, trattenendo il respiro. Quelle mucche avevano un aspetto un po’ strano, poco naturale.
Andando a caccia nei boschi, aveva scoperto che aspetto hanno normalmente le carcasse, ma non ricordava di aver mai visto nulla del genere.
Certo, si stavano decomponendo e ovviamente non potevano avere una bella cera, tuttavia le trovò un po’… pallide.
“Queste vacche non hanno neanche una goccia di sangue in corpo, altrimenti se ne vedrebbe davanti ai loro musi”.
Per accertarsene bucò con un legnetto appuntito la pelle di una delle bestie, nella parte più vicina al terreno, dove per effetto della gravità ristagna il sangue.
“Niente. Non esce niente”.
Erano totalmente prosciugate.
“Cazzo, cazzo, cazzo. Siamo nella merda”.
Solo dei vampiri potevano aver fatto una cosa del genere, nessun altro beve il sangue a parte loro.
Ma perché uccidere degli animali e non degli umani?
Il suo sesto senso le lanciò una scossa lungo la spina dorsale. Lei la risposta la sapeva ma non voleva crederci.
“Perché sono tantissimi, ecco perché. Venti bovini morti possono anche attirare l’attenzione, ma mai quanto venti o più umani dissanguati”.
Doveva dirlo a Damiano, doveva parlarne anche con Chan, con gli anziani, con tutti, era importantissimo! Se nei dintorni c’erano dei vampiri, poteva significare solo un imminente attacco.
“Mannaggia, devo fare in fretta”.
Corse veloce come il vento, acquattandosi di tanto in tanto dietro qualche macchia d’alberi, attenta a non farsi vedere da nessuno.
Ormai mancavano meno di tre chilometri alla bicicletta, quando avvertì un rumore, lo scricchiolio di rametti calpestati.
Si voltò e scorse due figure scure che si muovevano veloci tra l’ombra delle piante. Li scambiò per vampiri, ma dovette ricredersi quando uscirono alla luce del sole.
“Che siano mannari?”.
I due loschi soggetti presero a rincorrerla più velocemente, senza badare minimamente al chiasso che facevano i loro piedi sul terreno duro.
Ghignavano sinistramente, urlavano come matti, sembravano mostri.
“Sono davvero mostri, e a peggiorare le cose, pare che non abbiano paura di farsi vedere dagli umani” pensò. Per fortuna non c’erano contadini nei paraggi, altrimenti avrebbero pensato che il demonio stesso corresse nei campi.
Era certa che fossero lupi mannari: il vento alle sue spalle portava il loro odore e il sole si rifletteva su strani caschi che portavano in testa, i gal-luni.
Erano simili a normali elmi romani o medievali, ma il viso era completamente scoperto: riparavano i portatori dalla nuca alla fronte, proteggendo anche le orecchie; erano di un metallo scuro e lucente, coperto di strani simboli in rilievo.
Cercò il cellulare nelle tasche dei pantaloncini, ma ricordò solo allora di averlo lasciato sulla scrivania in camera sua.
“Porca puttana! Quel merdoso apparecchio non mi serve mai a un cazzo e l’unica volta che sarebbe davvero utile non ce l’ho!”.
Elsa aumentò ancora la velocità, doveva arrivare prima di loro ai confini della città, perché era sicura che in prossimità delle prime case si sarebbero fermati. Oppure no? Avrebbero avuto il coraggio di farsi vedere in città?
“Non posso farli avvicinare alle abitazioni... temo non si fermerebbero”.
Saltò con agilità un canale di irrigazione, atterrando nell’erba alta sull’altra sponda. I due mannari erano ancora a 600m di distanza, poteva fare qualcosa.
Si acquattò tra l’erba fitta e verdeggiante, aspettando i suoi inseguitori. Li avrebbe fermati a qualunque costo.
“Bastardi, vi aspetto… pagherete per quello che avete fatto alla mia gente e a Sefora!”.
Il vento frusciava leggero tra le fronde degli alberi, portando con sé il respiro pesante degli inseguitori e il loro lezzo inconfondibile.
Si stavano avvicinando alla canaletta, e appena la superarono con un balzo, Elsa uscì all’improvviso saltando sul petto del primo.
Il mannaro cadde all’indietro e sbatté la testa su un sasso, ma l’elmo lo protesse. Il complice la colpì con una spallata facendola volare in avanti per qualche metro, ma Elsa aveva intuito la mossa e atterrò su entrambi i piedi.
Quei due tizi erano forti, doveva stare attenta: un conto è un neo-mannaro, un conto sono due lupi adulti.
Elsa ringhiò e mostrò le zanne con aggressività. Il suo latrato gutturale e animalesco fece arretrare i due uomini di qualche passo, stupiti di vedere tanta ferocia in una ragazza così giovane.
Il più basso e magro dei due attaccò per primo mirando alle gambe con un calcio che avrebbe potuto spezzarle un osso, ma lei fu più veloce e saltò di una quarantina di centimetri, approfittando dello slancio per colpirgli il naso con la punta del piede.
Il setto nasale si spezzò con uno schiocco secco che fece accapponare la pelle a lei stessa. Fiotti di sangue sporcarono il viso e gli abiti del mannaro, che mugugnava stringendo con entrambe le mani quel pezzo di carne cadente.
«Piccola bastardella, questa te la faccio pagare!» grugnì sputacchiando sangue.
«Fatti sotto, cane rognoso!».
Inaspettatamente, fu l’altro ad accettare la sfida, frapponendosi tra lei e il compagno.
Ringhiò per spaventarla, ma lei gli rispose a tono, per nulla intimorita. Non sarebbe stato l’abbaiare di un cane pulcioso a impressionarla, anzi, non sarebbe bastato un esercito di mannari: i suoi ringhi erano tra i più decisi e spaventosi tra quelli dei giovani licantropi, ne bastava uno per mettere fine a una discussione tra coetanei.
«Fatti sotto, verme schifoso!» lo istigò «Cosa aspetti?».
Lui non se lo fece ripetere e presa la sua forma bestiale, la colpì con una zampata che evitò per un soffio, accucciandosi a terra.
Sentì una rabbia incontrollabile crescere dentro di lei; l’energia magica si mescolava al suo sangue che la portava in tutto il corpo, fino all’ultima cellula che lo componeva.
Sentì lo stomaco e il cuore bruciarle, prendere fuoco come lava incandescente mentre il suo viso diventava un muso lupesco e i suoi arti si allungavano in robuste zampe.
Potendo contare sulla forza dei suoi artigli, graffiò il collo dello sfidante con una zampata che veniva dal basso, cogliendolo impreparato, ma questi ripose con un calcio al fianco che la sbalzò di fianco per una decina di metri.
Lei atterrò sull’erba soffice che venne estirpata dalla violenza della caduta, ma si rialzò subito, illesa.
Da lupa si trasformò in bipes, pronta ad attaccare ancora, ma anche l’altro mannaro era mutato in bestia e le era già accanto. La colpì con una zampata al muso, mancando l’occhio di pochi centimetri. Elsa sentì un lieve bruciore alla pelle ma lo ignorò.
Era alta come il suo avversario e ne approfittò per agguantargli una spalla e affondargli gli artigli nella carne. Percepì il calore di quel corpo e la viscosità del sangue sulla punta delle dita, che la spinsero a conficcare ancora più a fondo le grinfie nella spalla.
Lui guaì di dolore e provò a tirarle un pugno, ma lei lo bloccò con la bocca e lo frantumò con un morso.
«Ahh! Maledetta bastarda!» gridava «Mollami, puttana!».
Ma Elsa era sorda alle sue suppliche: stringeva la massa di carne tra le fauci procurandogli il massimo del dolore, fissandolo con occhi colmi d’odio.
Il sangue proveniente dalla zampa si riversava copioso nella sua bocca, sporcandole la pelliccia, incoraggiandola a mordere sempre più forte.
Distratta dal dimenarsi della vittima, non si accorse dell’altro mannaro che l’attaccò alle spalle con un calcio alla testa che però fece più male al suo complice che alla ragazza, la quale adesso attanagliava tra le zanne una mano inerte, staccata di netto dal polso del lupo mannaro più basso.
Il più massiccio dei due la spinse via a calci mentre il compagno si rotolava per terra guaendo e schizzando sangue caldo dal moncherino.
«Piccola puttanella, ti ammazzo!» grugniva rotolandosi per terra «ti ammazzo!».
L’altro mostrava le zanne storte e gonfiava il petto per apparire ancora più grosso di quel che già era, e per risposta, Elsa masticò davanti ad entrambi la disgustosa mano del più basso, riducendola ad una poltiglia informe che sputò per terra.
Quei cani l’avevano fatta incazzare, avevano tirato fuori la parte più animalesca di lei, l’avevano spinta oltre il suo limite di sopportazione. Dovevano pagare per quello che avevano fatto, dovevano soffrire.
«Fatevi sotto, bastardi!».
Il più corpulento le saltò addosso e le morse il braccio sinistro che però dovette lasciare subito perché la licantropa lo colpì alla testa.
Lui, di rimando, le sferrò una serie di pugni violentissimi sul muso, mandandoli tutti a segno. Elsa, stordita, provò ad addentarlo ma lui la bloccò con un calcio allo stomaco e una zampata sulla schiena che asportò una buona dose di pelo.
La ferita bruciava e perdeva molto sangue che bagnava la pelliccia marrone di Elsa tingendola con scie umide e nerastre.
“Come mai fa così male? Le ferite del mannaro che  voleva uccidere Sefora erano diverse!”.
Intenzionata a  non arrendersi, riuscì ad affondare le zanne nella pelle coriacea del costato, strappandone via un pezzo; lui ululò di dolore e la guardò con odio con quegli occhi rossi che la perseguitavano ogni notte.
Con i lunghi artigli ricurvi la ferì ad un fianco a alla spalla destra, affondando in profondità le unghie nere.
La ragazza cercava di soffocare il dolore e di non urlare, ma le lacerazioni bruciavano e le forze pian piano l’abbandonavano.
Sanguinava molto sulla schiena e il naso gocciolava dall’inizio della battaglia per colpa di un pugno; il braccio sinistro pulsava e ormai faticava a riconoscere il proprio sangue da quello dei nemici.
“Devo finirla in fretta, qui si mette male”.
Respirava affannosamente ma almeno i due mannari non erano messi tanto meglio di lei.
Improvvisamente avvertì delle leggere vertigini, poi cominciò a vedere doppio.
“Cosa… cosa mi sta succedendo? Perché non riesco a muovermi?”.
Il mannaro più grosso si avvicinò di qualche passo, con un ghigno stampato sul muso orrendo e schiacciato.
«Allora, cagna? Non attacchi più?» la schernì «Cosa ti prede, sei stanca piccolina?».
«T-taci!» ruggì lei con il poco fiato che le restava «Chiudi il becco!».
Tutto le sembrava irreale, addirittura la propria voce pareva venire da lontano, distante chilometri.
Lui avanzò ancora con fare trionfante e sfruttando lo stordimento della licantropa, la riempì di calci e pugni finché lei non stramazzò al suolo priva di sensi.
 



Angolo dell'autrice:
Eccomi ancora una volta in perfetto orario! Ma cosa mi succede? Strano che riesca a trovare tutto questo tempo libero!
Beh, meglio se ne approfitto, perchè non sono sicura che la pace duri a lungo XD
Comunque, tornando al capitolo, posso dire che finalmente succede qualcosa. Finalmente per voi che leggete, ovviamente, perchè Elsa avrebbe fatto volentieri a meno delle botte (prese).
Cosa accadrà adesso alla giovane licantropa? Leggete e scoprirete:)

Ignis_eye
 

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Capitolo 21
*** Prigioniera del buio ***


Plic, plic, plic.
“Ma che cazzo…”.
Plic, plic, plic.
“Acqua? Ma dove sono?”.
Plic, plic, plic.
“Che mal di testa… e qui è tutto buio. Posso muovermi? Sì”.
Plic, plic, plic.
Elsa si tastò la faccia con le mani, sussultando per il dolore. Era gonfia e il viso pulsava dopo il breve contatto con le dita.
«Elsa?».
Quella voce… Sefora! Mugugnò qualcosa di incomprensibile, agitandosi: il cuore accelerò e il respiro si fece affannoso.
«Elsa, per l’amor del cielo, stai ferma».
La ragazza venne presa dal panico: non riusciva a parlare, faceva fatica a coordinare ogni movimento, e come se non bastasse i suoi muscoli prendevano fuoco ad ogni minimo spostamento.
«Non ti muovere» sussurrò la maga con voce commossa «stai calma».
Elsa inspirò più volte per calmarsi, ma riusciva a fare solo brevi respiri intervallati da tremiti involontari.
«Shh, tranquilla» ripeteva Sefora «non è niente, tranquilla».
«S-se…ora» balbettò «Do..e ..ono?».
Il suo corpo era scosso da brevi tremori e da fitte lancinanti, ma Elsa non accennava a quietarsi, anzi, si agitava sempre di più nel tentativo di riuscire a parlare.
«Elsa, ti prego, calmati. Se continui così ti farai male» sussurrò implorante «fermati per favore».
“Sefora, io sento la tua voce ma non so dove sei… dimmi dove ti trovi, io qui non vedo niente”.
Era sicura di avere gli occhi aperti, sbatteva pure le palpebre, tuttavia non vedeva altro che nero.
Ad un tratto percepì qualcosa che le accarezzava la fronte con delicatezza, pettinandole il ciuffo ribelle all’indietro.
«Elsa, sono qui» bisbigliò accanto a lei «sono qui».
Finalmente la licantropa si chetò. Sefora era vicina, adesso la sentiva chiaramente. Qualche attimo prima la sua voce le era parsa lontana chilometri.
Una mano amorevole le accarezzò una guancia, posando poi i polpastrelli gelidi sul naso alleviando il dolore di una botta o di una ferita.
«Sefora» biascicò con voce roca «Sefora».
«Sei debole, non parlare o sprecherai energie».
Qualcosa le cadde sulla fronte, qualcosa di bagnato.
“Stai piangendo? Cosa ti hanno fatto quei bastardi? Oppure… oppure sono io a farti stare così male?”.
La mano riprese a vagare lentamente spostandosi tra i capelli, districandone i nodi.
“Sono qui, eppure ti giuro che non sono venuta io, mi ci hanno portata loro. Io ho mantenuto la promessa”.
«Elsa, non sai quanto sia felice di vedere che sei viva. Quando ti hanno buttata qui dentro io… io». Non riuscì più a continuare il discorso perché i singhiozzi le tolsero la voce. Non scoppiò in lacrime, ma il groppo che aveva in gola si stringeva ad ogni tentativo di ricominciare il discorso, alimentato dalla gioia di avere vicino la licantropa e dall’angoscia di trovarla in quello stato.
La mano, che prima era tra i capelli castani di Elsa, abbandonò la chioma riccioluta per coprire la bocca della maga.
Si ripeteva di essere forte, di resistere per non allarmare Elsa, ma i singulti non facevano che aumentare.
“Sefora, se riuscissi a parlare ti direi io di non piangere. Perdonami per essere così debole”.
 
 


 
Forse passarono minuti, forse ore, magari solo secondi, ma ad Elsa parvero millenni.
Anche Sefora si era calmata e adesso le accarezzava la testa.
Era sveglia da un po’ (giorni? Anni?) riusciva a pensare con più lucidità e sentiva di aver riacquisito fiato.
«Sefora» gracchiò «Sefora».
Il movimento dei vestiti le fece capire che si era voltata verso di lei.
«Dove siamo?».
«Alla base dei vampiri e dei mannari».
La sua voce non rimbombava, dovevano essere in una cella piccola. Tastò per terra con le mano, riconoscendo un pavimento in pietra.
«Perché non vedo nulla?».
«E per via del veleno. Credo sia argento luciferino».
Vedendo che Elsa non chiedeva più nulla, decise di parlarne.
«Hanno impregnato i loro artigli di veleno. Ferendoti, questo si è mescolato al tuo sangue».
“Adesso ho capito perché è illegale e perché costa così tanto. È veramente potente”.
Venne colta da una paura improvvisa.
«Passerà?».
«Non resterai cieca per sempre, pian piano ricomincerai a vedere, me lo hanno detto loro».
«Loro?» domandò scettica. I mannari e i vampiri non dicono la verità tanto per fare, tuttavia non volle ricordarle quanto quei mostri fossero infidi. Cambiò discorso.
«Sefora, tu... tu sta bene?».
Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un timido sì.
“Ti prego, non mentirmi. Sono cieca, non posso accorgermene da sola… però… le tue mani sono fredde”.
Elsa faceva fatica anche a respirare, attraversata da fitte di dolore in tutto il corpo. Si sentiva pesante, stanca e lenta, intontita dal veleno.
Come tutti i licantropi, si domandò come un metallo tanto bello e prezioso come l’argento potesse ridurla in quello stato pietoso, ma non trovò risposta, era un mistero che sarebbe durato per l’eternità.
“È così che si sentono gli umani? Deboli e inutili?”.
Almeno lei non era come loro, pensò. Lei era diversa, lei era più forte. Lei avrebbe salvato Sefora.
Raccogliendo tutte le sue forze, si mise a sedere.
Subito sentì delle fitte al busto, seguite da un fortissimo bruciore alla schiena, dove era stata ferita dagli artigli di un mannaro.
«Elsa! Non devi muoverti!» urlò cercando di farla sdraiare nuovamente.
«Lasciami! Voglio stare così!» ringhiò.
Sefora allora ritrasse le mani, permettendole di sistemarsi da sola.
Elsa non aveva mai reagito così, con lei non era mai stata così brusca. Non capì subito il perché di tanta severità, poi si rese conto che l’amica non era come lei: era una licantropa, non una maga.
Era per metà bestia e questo si ripercuoteva sul suo carattere.
Senza volerlo, l’aveva umiliata. L’aveva fatta sentire un’incapace, un peso.
La guardava appoggiarsi alla parete massiccia della cella, digrignando i denti per trattenere le imprecazioni di dolore.
Dove trovava la volontà di mostrarsi forte anche adesso che era cieca e viola per le percosse?
Doveva essere anche per questo, anzi, soprattutto per questo che le piaceva: forte come la roccia e tumultuosa come il mare in tempesta. Feroce e orgogliosa come un lupo.
Era sicura che se non fosse stato per il veleno, avrebbe stravinto contro i mannari, che fossero due, dieci o cento, lei li avrebbe fatti a pezzi dando sfogo alla sua natura bestiale che le aveva salvato la vita due mesi prima.
Un gemito di dolore seguito da un ringhio gutturale la distrasse: Elsa aveva appoggiato la schiena contro un mattone sporgente, riaprendo la ferita che si mise a sanguinare.
Il liquido rosso bagnava la maglietta azzurra incollandola alla sua schiena e tingendola di rosso scuro. La chiazza si allargava ed Elsa non era abbastanza coordinata per arrivare a tamponarla con qualcosa.
Sefora strappò un pezzo di stoffa dal rozzo lenzuolo che copriva il pagliericcio su cui dormiva, e prima che la ragazza-lupo potesse protestare, infilò una mano sotto la maglia e appoggiò lo straccio sopra la ferita irregolare, assorbendo il sangue.
Sentì che l’amica si irrigidiva al suo contatto, forse infastidita, ma non si arrese e continuò a medicare delicatamente la lacerazione.
Elsa, da parte sua, se prima si era immobilizzata perché seccata dalla troppa apprensione, adesso restava immobile per ben altro motivo.
Le dita della maga toccavano con dolcezza la pelle febbricitante per lenire il bruciore delle percosse, accendendo un fuoco assai più caldo.
Mentre con una mano teneva il panno insanguinato, con l’altra seguiva le curve di una botta nerastra percorrendole lentamente con i polpastrelli freddi.
Quando l’emorragia si fu arrestata, prese un’altra striscia di stoffa e la passò attorno al busto, sfiorando con le mani la pancia della sofferente, suscitandone i brividi.
Forse per effetto del veleno, Elsa non riusciva ad arrestare i suoi pensieri: sentiva il tocco di quelle dita sul ventre e avrebbe voluto che si spostassero più in basso, dove un languido calore cresceva inesorabilmente.
Avrebbe poi voluto toccarla a sua volta, stringerla in un abbraccio bollente per colpa di una febbre diversa da quella causata dall’argento, sdraiarsi su di lei e baciarle il collo, il mento, le labbra.
Quanto le desiderava, quelle labbra!
Sperava solo che fossero ancora lì, rosee e morbide, pronte a sorriderle, e magari anche a chiederle qualcosa di più di un casto bacio sulla guancia, limite massimo al quale era arrivata finora.
Deglutì.
«Elsa, ti senti bene?».
«Eh? S-sì, sto bene. Grazie».
“Basta, così non faccio altro che autodistruggermi”.
Si sentì avvampare, non solo la febbre la scaldava, e per quanto tentasse di mentire a sé stessa, sapeva che tutto ciò era reale e non frutto di allucinazioni.
Quanto avrebbe resistito?
Avrebbe commesso qualche avventatezza o sarebbe diventata matta prima di azzardarsi a cedere alle sue tentazioni?
La sua mente tornò a Villanova, a casa sua. Cosa stava accadendo? La stavano cercando?
“Sì, come no. Staranno aspettando chissà cosa. Se vogliamo andarcene dobbiamo pensarci da sole”.
Era cosciente che se nessuno era andato da Sefora, non avrebbero cercato nemmeno lei.
«Da quanto tempo sono qui?».
«Qualche ora».
«E adesso che ore sono?».
«Prima ho sentito parlare le guardie, dai loro discorsi ho capito che forse è pomeriggio, ma non ne sono sicura: qui non ci sono finestre».
“Fantastico. Siamo in un buco nero fuori dallo spazio e dal tempo. Non sappiamo nemmeno dove siamo di preciso”.
Elsa chiese alla maga di raccontarle qualcosa sulla base dei mannari, per scoprire un eventuale punto debole e poter evadere.
Sefora rispose che ogni volta che la spostavano le mettevano un cappuccio sulla testa e non poteva vedere nulla, non sapeva nemmeno quanti mannari e vampiri ci fossero in giro di preciso.
«Dove ti portano quando esci da qui?».
La ragazza si morse la lingua: era opportuno parlare ad Elsa di quello che le facevano? Stava abbastanza male di per sé, non c’era bisogno di peggiorare le cose.
«Sefora, dimmi cosa ti fanno. Non mentirmi» ordinò «voglio sapere che cazzo ti fanno quelle merde. Prima potevi anche scappare dai sogni o usare delle scuse, ma adesso siamo tutte e due sulla stessa barca».
«Elsa, semmai quando starai meglio ti dirò tut-».
«No. Voglio saperlo ora».
Sospirò: avrebbe vuotato il sacco, le avrebbe detto tutto, dall’inizio alla fine.
«Loro mi portano in una stanza per tentare di leggermi nel pensiero. Di solito non mi picchiano, mi fanno solo degli incantesimi. Questo è quanto» disse tutto d’un fiato.
«Come mai lo fanno?».
«Loro credono che io sappia qualcosa sul Necronomicon, qualcosa che se cadesse nelle mani sbagliate causerebbe solo guai».
Elsa non replicò: la faccenda si faceva seria e dannatamente pericolosa. Certo, le risparmiavano le torture fisiche, ma quelle mentali non erano da meno. Capì perché il traditore si fosse intrufolato così facilmente nei loro sogni e perché questi duravano poco: dopo le sessioni di incantesimi doveva essere stanchissima e debole, capace a malapena di creare la struttura del sogno stesso. Ma allora perché lo faceva? Perché arrivava a tanto pur di vederla?
Come per buttar fuori i cattivi pensieri, respirò una profonda boccata d’aria, accorgendosi per la prima volta quanto fosse fastidioso l’odore di umidità che aleggiava nella cella piccola e fredda.
“Bene, i miei sensi stanno tornando”.
Si era accorta di aver riacquisito perfettamente l’udito da pochi minuti, adesso stava migliorando l’olfatto, il tatto era a posto già da un pezzo; all’appello mancava però la vista.
Del senso del gusto non si preoccupava: non era curiosa di sentire il sapore della sbobba che forse le avrebbero fatto ingurgitare ai pasti.
All’improvviso, percepì un luccichio lontano, fioco e tremolante. Non poteva crederci: i mannari avevano detto la verità, ricominciava a vedere.
Lentamente, la lucina si estese e prese colore, diventando giallastra. Dovevano essere delle lampade che illuminavano il corridoio fuori dalla cella. Il debole fascio luminoso entrava da una finestrella rettangolare nella porta, rischiarando leggermente la sudicia stanzetta dalle pareti in pietra.
Sbatté le palpebre più volte finché l’immagine divenne nitida, permettendole di riconoscere una striscia di umidità sul soffitto che gocciolava per terra e del pagliericcio in fondo alla cella.
Si sentì stranamente elettrizzata: stava per rivedere Sefora! Dopo tanti giorni, poteva ammirare il suo viso dal vivo e non in sogno!
“E se portasse addosso i segni delle botte? Se il suo volto fosse irrimediabilmente rovinato?” pensò angosciata. Avrebbe anche potuto voltarsi e non riconoscerla nemmeno più. Il suo cuore batteva all’impazzata, spronato dall’ansia che rendeva più macabra ogni paura di scoprire Sefora sfigurata. Le aveva detto che di solito non la malmenavano, ma questo non voleva dire che quelle poche volte non ci andassero giù pesanti.
“Al diavolo. Voglio vederla!”.
Il cuore perse un battito.
Lei era lì.
Rannicchiata contro il muro, con i vestiti impolverati e strappati, stanca e provata dalla prigionia.
Lei era lì, bellissima come sempre, nonostante tutto il male che le era capitato.
Si sentì incredibilmente sollevata, leggera come una piuma.
Era la ragazza più bella che avesse mai visto e nemmeno quel covo di mostri era riuscito a imbruttirla, anzi, l’avevano resa angelica, se possibile, le avevano dato la possibilità di dimostrare che nemmeno gli incantesimi più forti potevano scalfire la sua bontà e la sua dolcezza.
Con il fragile cristallo condivideva la purezza, ma dentro era forte come l’acciaio; nemmeno le torture mentali erano riuscite a piegarla.
Certo, non era al massimo della forma, ma in quel momento, dopo la distanza, le disavventure, il dolore, Elsa era pronta a giurare di non averla mai vista così bella.
«Per fortuna» sussurrò senza nemmeno accorgersene.
«Che cosa?» domandò distrattamente Sefora, intenta a giocherellare con un filo di paglia.
«Per fortuna posso vederti ancora».
E cedette alle sue tentazioni.
                                   
 
 
 



Angolo dell'autrice:
Bene bene, le due ragazze sono di nuovo assieme, seppur in condizioni pietose.
Sefora è stata rapita perchè forse sa qualcosa che farebbe comodo ai mannari, ma non ha raccontato tutta la storia, c'è dell'altro da scoprire.
E la licantropa... beh, ha ceduto.

Al prossimo capitolo!

Ignis_eye

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Capitolo 22
*** Baci e argento ***


Elsa con uno scatto in avanti poggiò le sue labbra su quelle di Sefora e le rubò un casto bacio, prendendola di sorpresa.
Fu delicato e dolce, ma anche solo così le aveva fatto esplodere il cuore in petto, le sembrò di morire. E se avesse potuto scegliere, non avrebbe chiesto modo migliore per lasciare questo mondo.
Staccò le sua labbra da quelle dell’altra dopo averne assaporato il tepore, allontanandosi solo di qualche centimetro, lasciando che i loro respiri si mischiassero in un fiato solo.
Non le sembrava nemmeno vero di averlo fatto, era tutto così surreale… eppure Sefora non era un’illusione causata dal veleno. Era lì in carne e ossa.
Incrociò il suo sguardo stupito ed esitante. Sentì lo stomaco contorcersi, pensò di aver fatto la cosa sbagliata ed era già sul punto di chiederle scusa, quando due labbra calde collimarono con le sue, dissipando ogni timore.
Portò una mano dietro la schiena della maga tenendola stretta a sé, mentre il bacio diventava più passionale.
Leccò il labbro inferiore con la lingua, chiedendo il permesso a quella bocca bellissima di poter approfondire l’effusione, permesso che non venne negato.
All’inizio fu timido, quasi titubante, ma ben presto si fece più ardente: le lingue danzavano nelle loro bocche intrecciandosi ripetutamente, lasciandosi e rincorrendosi, finché le due non si staccarono ansimanti.
«Elsa» sussurrò la cercatrice «Elsa…».
Le sorrise con occhi lucidi, mostrando dopo tanto tempo una schiera di denti perfetti in un sorriso genuino e sentito davvero.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la licantropa la fermò con un bacio leggero sulle labbra; sapeva già quel che avrebbe detto, perché era quello che pensava anche lei: finalmente.
«Elsa, dimmi che non è un sogno».
«Ti giuro che è tutto vero».
La licantropa si sentì leggera come se fosse stata d’aria, tranquilla, libera. E dannatamente felice.
“Sì, sì, sì! Ricambia, ricambia!”.
Strano come un semplice bacio possa rendere migliore anche la prigionia. Erano ancora in quella cella sporca e umida, sedute sul pavimento duro e freddo, eppure tutte e due stavano meglio.
«Sefora, da quanto tempo ti piaccio? Tu da quando mi appoggiasti sulla testa quella corona di piccoli fiori bianchi. Da allora sono preda della più bella maledizione che esista».
L’altra sorrise e le guance le si tinsero di rosso; non credeva che la licantropa si ricordasse ancora di quel gesto, tanto era insignificante.
«Io ti penso da quando ti sei battuta con Carlo per difendermi» rispose sussurrando con dolcezza «ma non credere di non avermi colpita già da prima».
Elsa ridacchiò.
«C’entra qualcosa un certo salvataggio in una notte di luna piena?».
«Colpita e affondata».
Risero sommessamente, appoggiando la fronte l’una su quella dell’altra. Elsa sospirò.
«Sefora, io non vorrei rovinare il momento, ma… devi finire di raccontarmi la storia. Dimmi cosa cercano precisamente i mannari».
«Non ti preoccupare. Adesso che siamo qui dobbiamo rimandare le tenerezze e pensare a cavarcela» la rassicurò. Poi, abbassando la voce per non farsi sentire da eventuali guardie nel corridoio, continuò.
«Come ti ho già detto una volta, nel Necronomicon c’è un incantesimo che permette di riportare in vita i morti, tuttavia non basta conoscere la formula per ridestare i dormienti».
«Che cosa serve? Hai davvero quello che cercano?».
La cercatrice fece una lunga pausa, torturandosi le mani.
«Sefora. Non mentirmi» l’incalzò Elsa con sguardo cupo «siamo sulla stessa barca, non mi proteggerai tenendomi all’oscuro di tutto».
«Ecco, io…» era titubante, avrebbe preferito non parlare oltre, ma la mano di Elsa prese la sua e le diede il coraggio per raccontarle tutta la verità.
«Non so precisamente cosa serva, tuttavia so dove possono trovarla».
La licantropa alzò un sopracciglio, scettica, ma Sefora si affrettò a dissipare i suoi dubbi.
«Per sbaglio, quando vivevo ancora a Milano, mi capitò sotto mano un libro del quale non avrei mai dovuto nemmeno conoscere l’esistenza».
« Dove successe di preciso?».
«Nella biblioteca di una chiesetta dove facevo la chierichetta. No, non sono cristiana» precisò vedendo Elsa molto stupita «ma bisognava mantenere le apparenze, far finta di essere umani, e così… beh, hai capito».
La ragazza annuì: ricordava fin troppo bene la reticenza nell’accettare i sacramenti cristiani, anche lei come tutti i coetanei aveva dovuto sopportare quei riti.
«Beh, tornando al libro… era scritto a mano ed emanava una strana energia; appena lo presi, venni invasa dall’angoscia, ma mi intestardii di leggerlo e così feci. Dopo poche pagine, il prete mi scoprì e diventò prima pallido come la neve e poi rosso come un pomodoro. Si mise a urlare qualcosa e me lo strappò di mano».
«Come mai?».
«Quel prete faceva l’esorcista, e quel libro era di un indemoniato. Ci mise dieci anni ad esorcizzarlo, e ci riuscì solo perché aveva scoperto qualcosa di orribile contenuto in quel libro».
«Allora come mai l’ha tenuto?» domandò «Perché non l’ha distrutto?».
«Penso per non attirare su di sé o su altri l’ira del demone che l’aveva scritto».
Per un pelo ad Elsa non cadde il mento per terra: un libro scritto interamente da un demone?
«Sefora, se davvero l’aveva scritto un demone, quel prete ti ha salvata da un grave pericolo!» esclamò alzando un po’ la voce.
«Shhhh! Parla sottovoce».
«Scusa. È solo che il Necronomicon è stato scritto solo in minima parta da demoni ed è il volume più pericoloso del mondo».
«Lo so, per questo l’energia negativa di quel libro era così intensa».
«Comunque, cosa sei riuscita a leggere?».
«Non ricordo, nulla di importante, almeno nelle prime pagine. Tuttavia ricordo che il Necronomicon veniva nominato spesso».
Le spiegò che forse c’entrava qualcosa con il rito per rievocare i morti o indicava qualche particolare essenziale, ma che non sapeva dove fosse ora.
«I mannari non hanno scoperto ancora nulla, perché anche se sono riusciti ad estrapolarmi questi ricordi, io non so davvero niente».
«Se non conosci il segreto che cercano, per loro sei inutile, e se non servi più…».
«Lo so, ci avevo già pensato» rispose sospirando. Si morse l’interno della guancia per non piangere, ma non riuscì a impedire alla propria bocca di assumere una smorfia di tristezza.
«Però non ho ancora capita una cosa» disse Elsa per distrarla, avendo intuito il suo stato d’animo «come mai sanno di te?».
«Perché rubarono i ricordi del sacerdote».
Elsa capì che la faccenda era molto più contorta di quel che sembrava quando arrivò il mal di testa. All’inizio era solo un leggero fastidio, facilmente trascurabile, ma con il passare dei minuti e dello sforzo mentale per restare lucida, si era fatto più intenso.
«Rubarono i ricordi del prete?».
«Sì».
Sefora non si era accorta del malessere della licantropa e andò avanti a raccontare.
Pochi giorni dopo aver trovato il libro, il prete era stato trovato morto nel suo letto. Il medico diede la colpa ad un ictus, ma un cercatore che lavorava all’obitorio dell’ospedale di Milano capì subito che c’entravano i vampiri. Il cervello del poveretto presentava segni di stress prolungato e conservava ancora la scia energetica dei non morti.
All’epoca Sefora aveva circa undici anni, e misteriosamente l’attività vampira si era intensificata nella città di Milano. Lei non ci aveva fatto molto caso, anche perché i cercatori adulti non immischiavano i bambini in queste faccende.
Quando vennero chiamati a vivere dalle parti di Vicenza, aveva sentito parlare dell’aumento dei mannari e dei vampiri, ma volle fare lo stesso un giro notturno nel bosco, senza badare troppo alla luna piena.
«Ma come ha fatto il mannaro a riconoscerti?» obiettò Elsa «Sembrava giovane e inesperto».
«Lo era. I vampiri hanno passato a tutte le new entry una parte dei ricordi del prete».
«E ti ha riconosciuta».
«Già».
Elsa si portò una mano alla tempia. Sefora lo notò e le spiegò da cosa fossero causate:
«Argento luciferino».
«Eh? Che vuol dire?».
«Ti hanno cucito un minuscolo pezzo d’argento sottopelle, così come a me ne hanno messo uno di piombo magico».
La licantropa subito non volle crederle, ma toccandosi la testa con più attenzione, si accorse di una protuberanza calda e dolorante. Pulsava come se fosse infetta, e non riusciva a percepire le cuciture della ferita.
«Non le senti perché non ci sono» disse la maga «Hanno rimarginato la ferita con la magia».
Elsa sbuffò sonoramente: per fuggire da lì doveva essere nel pieno delle sue forze, e quella scheggia d’argento le toglieva le energie.
Avrebbe dovuto toglierla, e se non c’erano cuciture da aprire, significava solo che avrebbe dovuto ferirsi ed estrarla.
«Sefora, dobbiamo trovare un modo per andarcene».
«Sì ma-».
«Ma niente» l’interruppe «tra i licantropi c’è un bastardo traditore che vuole uccidermi. Più restiamo qua, prima ci fanno la pelle».
La maga sospirò.
«Sai almeno chi è?».
«No, però so che mi vuole morta».
Una mano delicata le si posò sul viso caldo e ancora un po’ dolorante.
«Elsa, a causa del metallo che ci hanno impiantato, i nostri poteri sono ridotti» sussurrò con occhi lucidi «io non riesco a fare molto».
La licantropa le prese la mano piccola e fredda tra le sue, scaldandola. Intrecciò le dita minute tra le sue, notando con dispiacere dei graffi sul dorso. Baciò una ad una le nocche, venerandole in silenzio.
Era da troppo tempo che aspettava di dichiararsi alla cercatrice, e adesso che l’aveva fatto, non poteva permettere che dei pulciosi mannari rovinassero tutto: sarebbero scappate, e con tutti i licantropi e i cercatori li avrebbero polverizzati.
In quel momento il suo corpo le inviava mille segnali di dolore e di stanchezza, ma li ignorò; guardò Sefora negli occhi, verdi e cristallini, trasferendole una determinazione mai provata prima.
«Ce la faremo» sussurrò stringendole le mani «ti porterò fuori di qui».
 
 
 




Angolo dell'autrice:
Ehm... allora... tanto per cominciare, mi scuso per tutto il tempo trascorso senza aggiornare questa storia: mi è venuto il blocco dello scrittore e pur sapendo come mandare avanti il racconto, non riuscivo a metterlo per iscritto.
Lasciando un attimo da parte questo piccolo dettaglio, passiamo alle cose importanti: Elsa e Sefora, finalmente, scoprono cosa provano l'una per l'altra. peccato però che il tutto non avvenga romanticamente accanto ad un ciliegio in fiore o sotto il vischio, ma dentro una cella :/
Beh, non si può avere tutto dalla vita.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che possiate perdonare questo ritardo.
Alla prossima,

Ignis_eye
 

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Capitolo 23
*** Fuga ***


 
«Come facciamo a scappare? Prima leviamo le tende e meglio è».
«Non lo so, Sefora, ma se fuggissimo ora che ci credono deboli forse potremmo farcela».
«Elsa, io posso usare poco i miei poteri. Tu riesci a trasformarti?».
Quella domanda la colse impreparata: non aveva ancora provato a tramutarsi in lupo.
Prese un profondo respiro, si concentrò, ma non riuscì a guidare la sua energia. Era la capsula di argento che aveva sottopelle che faceva impazzire il suo mana, un po’ come un pezzo di ferro destabilizza l’ago di una bussola se messo troppo vicino.
«Non ci riesco» disse sconfitta «non ce la faccio».
Un’espressione di preoccupazione fece corrugare la fronte di Sefora: se tutte e due erano messe così male, le possibilità di successo erano prossime allo zero.
Notando lo sconforto della licantropa, le accarezzò il viso contuso e la costrinse a guardarla negli occhi.
«Elsa, non mi importa se restiamo qui. Se con me ci sei tu, potrò sopportare la prigionia».
«No invece!» sbraitò Elsa «Basterà a te, ma non a me!».
Si alzò barcollando e puntandole contro il dito, sentendo delle fitte in tutto il corpo.
«Non voglio marcire qui dentro proprio ora che ti ho ritrovata! Non lo accetto! Lo faremo, che tu lo voglia o no!».
«Elsa, calmati» le disse preoccupata dal suo sguardo stralunato «Siediti, sei ferita».
Lei scosse la testa come per scacciare dei brutti pensieri o per fare chiarezza nella sua mente, ma le botte e la capsula d’argento l’avevano intontita.
Sefora si alzò dal pagliericcio su cui sedeva e l’abbracciò per calmarla, notando solo ora come fosse più calda del solito. Troppo calda.
Le prese il viso tra le mani: era bollente, molto più di prima.
«Elsa, sdraiati» insistette allarmata «Ti è salita la febbre, scotti».
«Sto bene» protestò l’altra.
«Bugiarda».
La costrinse a sdraiarsi sulla paglia e le spostò delle ciocche ribelli dal viso pallido sul quale risaltavano le macchie violacee delle percosse.
Strappò un lembo di stoffa dal lenzuolo che ricopriva la paglia, lo bagnò con dell’acqua contenuta in una brocca (unica caritatevole concessione dei mannari) e le tamponò il viso accaldato.
«E’ uno degli effetti dell’ argento luciferino: finché il tuo corpo non lo avrà completamente eliminato avrai la febbre».
«Tu come lo sai?».
«Il piombo liquido che mi hanno iniettato tempo fa mi fece lo stesso effetto».
«Questo vuol dire che non possiamo andarcene».
«Già».
All’ultimo commento di Sefora seguì il silenzio perché nessuna delle due sapeva cosa dire per migliorare la situazione.
Quanto ci sarebbe voluto prima che Elsa stesse di nuovo bene? Sefora non lo sapeva, potevano volerci alcune ore o molti giorni, non sapeva nulla di certo se non che quelle capsule di argento e piombo andavano rimosse il prima possibile.
Il pezzetto di metallo che aveva sotto lo scalpo non era lo stesso della sua armatura, forgiato secondo una tecnica precisa e con formule magiche, ma era comunissimo piombo.
Era come l’argento per i licantropi, ma per fortuna su di loro non aveva lo stesso effetto che il metallo prezioso aveva sugli uomini-lupo: poteva ancora usare i suoi poteri ma a costo di molta energia e in quel momento le sue riserve erano a secco. Doveva riposare, ne aveva assoluto bisogno, ma aveva paura che i mannari andassero a prenderla per entrare ancora nella sua mente.
Lei avrebbe fatto resistenza come tutte le volte, e come tutte le volte loro l’avrebbero sfinita bombardandola di incantesimi.
«Sefora» la distrasse la licantropa.
«Dimmi».
«Devi togliermi l’argento che ho sottopelle».
La cercatrice le tamponò la fronte con delicatezza cercando di non fare pressione sugli ematomi.
«Sì, appena starai meglio ci proverò».
«No, intendo che devi farlo adesso, subito».
«Cosa?» rispose sconvolta «Non posso farlo! Stai malissimo!».
Con uno scatto, Elsa la prese per un braccio e l’attirò verso di sé, sdraiandosela sopra e abbracciandola per impedirle di rialzarsi.
«Elsa, ma cosa fa-».
«Sefora» la interruppe con tono perentorio «io qui non ci resto un secondo di più, chiaro?».
«Ma Elsa…».
«Niente ma» soffiò con voce arrochita dalla febbre, sfidando il suo sguardo con occhi stralunati e rossi come dopo un lungo pianto.
«E come potrei toglierlo? Mi servirebbe una lama d’argento per ferirti, ricordi?».
A quell’affermazione la licantropa mollò la presa, stupita. L’aveva dimenticato.
«Elsa» sussurrò appoggiandole la testa sul petto «la capsula sotto la tua cute ti indebolisce ma non sei abbastanza vulnerabile. Mi dispiace, non posso fare niente. Al massimo solo tu puoi ferirti da sola per asportare la capsula».
Sefora sentì rilassarsi il corpo sotto di lei e una mano cominciò a passare lentamente tra i suoi capelli, mentre ascoltava il battito del cuore di Elsa che rallentava.
Quante volte la ragazza-lupo aveva benedetto la sua invulnerabilità?
“E adesso mi sta ostacolando”.
Non poteva nemmeno fare affidamento sull’intelligenza perché la mente le giocava brutti scherzi a causa della febbre come capogiri e piccoli vuoti di memoria.
“Come facciamo a scappare da qui? Potrei anche riuscire a togliere il pezzetto d’argento però dopo… che farei?”.
«Elsa, stai tranquilla per qualche ora».
«Ma a che servirebbe?» soffiò rabbiosa «Per colpa dell’argento il mio corpo non guarisce abbastanza velocemente. Anche un insignificante umano si rimetterebbe prima di me».
A quel punto, Sefora capì.
«Non sei inutile» le sussurrò a fior di labbra.
«Sì, invece».
La bocca della cercatrice si posò su quella della licantropa, sfiorandola appena. Sefora lambì le labbra sottili dell’altra con la lingua, percependone le piccole ferite dal sapore ferroso. Elsa approfondì il bacio e insinuò una mano tra i capelli castani della maga.
A differenza del primo, questo bacio fu lento e delicato, privo anche della più piccola punta di lussuria.
Quando le bocche si separarono, Sefora sussurrò qualcosa all’orecchio della licantropa:
«C’è qualcosa che puoi fare».
«Cosa?» domandò speranzosa.
«Puoi scoprire chi è il traditore». Si appoggiò sui gomiti per non schiacciare troppo il corpo ferito di Elsa e la guardò negli occhi.
«Ho ancora abbastanza energie per trasportarti nella dimensione onirica».
«E a cosa servirebbe? Non è detto che il traditore sia lì».
«Non è lo stesso sogno. Dovrai solo fare attenzione a tutte le cose che vedrai, sono segni che interpretati potranno darci una risposta».
Elsa sospirò: ogni volta che sognava la sua angoscia cresceva a dismisura, non era ansiosa di chiudere di nuovo gli occhi.
«Se riuscirai al primo colpo non dovrai farlo mai più» le ricordò la cercatrice «concentriamoci e possiamo farcela».
«Adesso?».
«Adesso».
Sefora scivolò via dal suo corpo dolorante e ferito; la fece sistemare come più preferiva e le chiuse delicatamente gli occhi con i  polpastrelli freddi.
«Rilassati e dormi, al resto ci penso io».
 
 

 
Elsa si trovò improvvisamente nel deserto, ma in un deserto tutt’altro che comune.
La sabbia che lo formava era fatta di granelli trasparenti come il vetro che, ammassati, davano l’idea di camminare su un’immensa distesa di neve asciutta.
Dalle dune biancastre svettavano verso il cielo imponenti montagne di cristallo che riflettevano la luce solare accecando la licantropa.
«C’è nessuno qui?».
La sua voce si disperse nell’immensità del deserto ma allo stesso tempo rimbombò come se lei si trovasse in un’enorme stanza.
“A quanto pare sono sola. Ma dove diavolo sono finita?”.
Quel paesaggio irreale la metteva a disagio, le faceva venire la pelle d’oca.
“E poi perché tutto questo vetro? La mia situazione è tutt’altro che trasparente” pensò con ironia.
Mosse alcuni passi senza sforzo, fortunatamente affrancata dal dolore delle percosse. La sabbia scricchiolò sotto le sue scarpe e vi entrò dentro fastidiosamente.
“Non scoprirò nulla. Qui non c’è niente”.
Scoraggiata, si sedette su un masso trasparente e freddo ma questo si ritirò sotto la sabbia scomparendo all’improvviso, così come molte altre piccole rocce.
“Hey ma… che sta succedendo?!”.
La sabbia cristallina si muoveva di sua spontanea volontà, attirata da chissà cosa alle sue spalle; i granelli rotolavano l’uno sull’altro sempre più velocemente ritirandosi sottoforma di grosse onde verso l’orizzonte.
Elsa faticava a tenersi in equilibrio sul manto biancastro e cadde nelle sabbie che sembravano volerla inghiottire. Si sentiva soffocare sotto il peso della massa  candida e quando credette di rimanere schiacciata, toccò qualcosa con i piedi e la sua discesa si bloccò. In pochi secondi, tutto il vetro polverizzato scomparve, lasciandola su una perfetta e uniforme distesa di cristallo.
Guardò in basso e restò non poco stupita: poggiava su una lastra spessa chissà quanti metri che, a giudicare dalla trasparenza, galleggiava nel vuoto. Da questo pavimento terso spuntavano le montagne che aveva visto prima, creando un angolo retto con il terreno.
Era tutto stranamente troppo spigoloso e geometrico.
«Chi è stato?» disse voltandosi di scatto «Chi va là?».
Aveva sentito qualcosa, come un sibilo, provenire dalla parte in cui si era ritirata la sabbia.
Che fosse un mostro?
Improvvisamente il cristallo si illuminò di rosso: il pavimento, le montagne, i massi: tutto emanava una misteriosa luce rossastra e una risata gutturale risuonò nell’aria.
«Chi sei?! Fatti vedere!» ringhiò sfidando l’essere «Vieni fuori!».
La risata si fece sempre più rumorosa e cattiva, così assordante che Elsa fu costretta a tapparsi le orecchie.
«Ti ho detto di mostrarti!» gridò furibonda, ma come risposta ottenne solo altre risa.
La luce crebbe d’intensità fino a far sembrare incandescente il cristallo, poi, lentamente, si affievolì e si concentrò in un’enorme montagna rendendola simile a una torcia.
Si avvicinò correndo e sferrò un pugno potentissimo con l’intenzione di distruggerla ma il suo attacco non ottenne effetti.
Colpì con calci e pugni la vetta rossastra ma questa resisteva e sembrava non sentire proprio la potenza dei colpi della licantropa.
«Vieni fuori, traditore! Fatti vedere!».
Quello era solo un sogno, qualunque cosa si nascondesse lì non aveva una volontà propria, era solo un’immagine creata dalla mente di Elsa, ma non ne voleva sapere di mostrarsi.
«Accidenti, è durissimo, non riesco a romperlo!».
Colpì il cristallo gigante con un ultimo calcio e improvvisamente la risata cessò.
«Allora, hai deciso di farti vedere in faccia sì o no?».
«Non ce n’è bisogno» sussurrò una voce profonda che rimbombò tra le montagne cristalline.
«Perché no?» domandò stizzita.
«Perché tu sai già che faccia ho».
«Mi prendi in giro?».
«Tutto questo lo ha creato la tua mente e se ciò è possibile, significa che tu già sai chi sono io».
«Esci di lì!» e vibrò un altro pugno al cristallo «Cazzo, di cos’è fatto, diamante?».
«Sì».
«Eh?».
La luce si affievolì alle estremità e si concentrò al centro dell’enorme blocco sottoforma di un nocciolo rosso e luminosissimo. Questo nucleo incandescente si rimpicciolì sempre di più fino a raggiungere dimensioni e fattezze umane; sotto gli occhi stupefatti di Elsa si crearono le braccia, le gambe, la testa… in pochi secondi un intero corpo vermiglio viveva dentro il diamante.
La figura venne ricoperta di pelle e l’unico rimasuglio della potente luce cremisi erano gli occhi, splendenti come gemme; privo di volto e connotati, l’umanoide riprese la sua macabra risata aumentando sempre di più il tono di voce, poi bruscamente si arrestò.
La guardò fisso, con un’espressione folle sul viso pallido.
«Elsa… sto venendo a ucciderti».
 
 

 
«Ahhh!».
«Elsa, che succede?!».
«Sono nei guai, anzi, sono nella merda!» urlò alzandosi in piedi.
«Elsa, stai ferma!».
La licantropa aveva dimenticato di essere ferita e credeva di poter avere ancora tutta la libertà di movimento della dimensione onirica e si era dovuta appoggiare alla parete per tenersi in piedi.
«Sefora, dobbiamo andarcene».
«Calmati» le disse incatenandola con lo sguardo «Prima devi dirmi cosa hai visto».
La licantropa si asciugò un rivolo di sudore che le colava dalla fronte a prese a raccontare di ciò che aveva visto in sogno.
«Ma non sei proprio riuscita a vederlo in volto?» domandò con ansia la cercatrice.
«Macché! Però so che sta venendo qui e so che mi vuole morta».
Non c’era più tempo ormai, dovevano scappare subito. Prima che la maga cercatrice potesse fermarla, Elsa si conficcò le unghie nello scalpo e con uno strattone recise la pelle sopra il frammento d’argento. Trattenne un ringhio gutturale e con le dita sporche di sangue afferrò il piccolo pezzo di metallo e lo gettò a terra con rabbia.
Dalla ferita irregolare gocciolava sangue nerastro, scurito dall’argento luciferino di cui era ricoperta la capsula.
Sefora le versò dell’acqua sullo squarcio accorgendosi con disgusto di poter vedere la calotta cranica messa a nudo dalle unghie di Elsa.
«Ma cosa hai fatto?!» la sgridò con le lacrime agli occhi «Guarda come ti sei ridotta!».
«Prima o poi avrei dovuto farlo comunque» boccheggiò.
Bruciava tantissimo a causa dei rimasugli di veleno e perdeva molto sangue, tuttavia dopo pochi minuti l’emorragia si fermò: l’argento e la tossina erano stati completamente asportati e il suo corpo riprese a guarire alla solita velocità.
La ragazza-lupo strappò un lembo di stoffa da un lenzuolo e si fasciò la testa aiutata da Sefora, stando attente a far combaciare per bene i lembi di pelle.
Una volta finito di sistemare la ferita, Sefora la abbracciò.
«Sefora, va tutto bene, non preoccuparti. Tra poco il dolore sarà passato».
«Lo so, ma mi sono un po’ spaventata: il tuo sangue era insolitamente nero e denso».
«Tutta colpa dell’argento, ma adesso sto già meglio, credimi».
In risposta ottenne un bacio sulle labbra, gradito mille volte più di qualunque parola. Infilò una mano tra i capelli della cercatrice per tenerla più vicina, come se questo fosse stato possibile.
La sua lingua sfiorò le labbra della maga, poi esplorò quella bocca sensuale con desiderio mentre la stringeva in un abbraccio bollente. Le loro lingue danzavano maliarde mentre i loro corpi anelavano a fondersi in uno solo; la temperatura della cella parve salire improvvisamente fino a scottare la loro pelle ma le ragazze la ignoravano, coscienti che l’unica cosa bollente in quella stanzetta fosse il loro sangue.
Tra le pareti risuonò un sospiro: Elsa aveva baciato il collo della cercatrice che aveva liberato un gemito di piacere e si era avvinghiata alle spalle della licantropa.
I loro cuori battevano all’unisono, i battiti sembravano rimbombare nella cella e nessuna delle due si sarebbe fermata se un abbraccio troppo zelante della cercatrice non avesse fatto male ad Elsa, ancora dolorante per le botte dei mannari.
«Aio» sussurrò la ragazza-lupo.
«Scusa! Non volevo!».
Sefora si sentì in colpa e i suoi occhi da cucciolo lo dimostravano: grandi e lucidi, quegli occhi verdi fecero dimenticare ad Elsa qualunque dolore.
«Tranquilla, non è niente» la rassicurò «tempo un giorno o due e sarò come nuova».
Le accarezzò la guancia pallida passando il pollice sulle labbra che si schiusero appena al suo tocco gentile.
«Sefora» soffiò a pochi centimetri dalle sue labbra «starei qui a baciarti in eterno ma dobbiamo andarcene prima che vengano a controllarci».
«Lo so. Sei ancora debole, però…».
«Quando apriranno di nuovo quella porta sarà per ammazzarci. Non abbiamo altra scelta».
«Va bene. Ti seguirò».
Detto questo le lasciò un bacio sulla mano.
«Andiamo».
 
 

 
«Dici che si accorgeranno della porta?».
«No, Sefora. Ho spaccato la serratura ma ho rimodellato il metallo per non farlo notare».
«Secondo me si vede».
«Beh, diciamo che lo noteranno solo una volta che ci saranno davanti».
Soddisfatta della risposta, la cercatrice fece strada all’altra lungo il corridoio sporco tanto quanto la cella.
Non c’era nessuno di guardia.
«Sefora, come mai non ci sono mannari?».
«Non lo so, ma anche quando venivano a prendermi il corridoio era vuoto».
«Forse non sono abbastanza».
«Probabile. Magari credevano ci fosse impossibile scappare».
Salirono lungo una scala in pietra dai gradini sbeccati e polverosi. Erano al buio più completo, ma la vista sovrumana di Elsa le aiutava a non inciampare.
Si muovevano silenziosamente per non allertare eventuali mannari nascosti ma in assenza di ogni altro rumore lo scricchiolio della terra che sporcava i pavimenti sembrava assordante.
Sefora, guidata da un fioco fascio di luce che penetrava da una fessura nel muro, portò Elsa in una stanza al pianterreno dove si accorsero che due mannari stavano parlando.
Si guardarono: e adesso?
La maga stupì l’altra tirando fuori dalla tasca la capsula d’argento che Elsa si era asportata. Con indice e pollice la modellò sino a farla diventare lunga, sottile e affilata.
La licantropa capì al volo: avrebbe potuto usare quella minuscola arma in argento, lunga poco più di cinque centimetri, per combattere i mannari che come lei erano vulnerabili a quel metallo prezioso.
“Ma come faccio? Se attacco loro gli altri mi sentiranno” pensò “Dobbiamo trovare il modo di scappare senza farci vedere”.
Sefora intuì a cosa stesse pensando e le indicò una porta davanti a loro. Distava solo tre metri, ma era pericoloso. Dovevano trovare un modo per distrarre le guardie per qualche secondo.
Mentre aspettavano, poterono ascoltare la conversazione tra i due mannari.
«Macché, il libro della ragazzina non l’hanno ancora preso… sembra non sia a casa sua».
«Allora avranno scoperto cosa contiene e lo hanno nascosto. Il Gran Maestro si sbagliava».
«Hey, parla piano» lo sgridò l’altro «se qualcuno ti sente, ti farà uccidere!».
L’uomo sbuffò sonoramente.
«Va a finire sempre così: non dire questo, non dire quello… sembra che per voi il Gran Maestro sia infallibile».
«Perché lo è» replicò l’altro mannaro «lui ha parlato con Belphegor».
«Figurati».
«Con te non si può proprio parlare!» si stizzì il più credente «spera solo che nessuno venga a sapere quello che hai detto riguardo il Gran Maestro».
L’altro scosse la testa e se ne andarono insieme, non accorgendosi che le due ragazze sgattaiolavano dentro la porta.
Si ritrovarono nella sala principale della rocca in cui le avevano imprigionate: cinque gradini separavano il pavimento dal piano rialzato dove un tempo qualche nobile riceveva i sudditi; una scala di pietra portava a delle stanze nell’ala da cui erano venute, ma nessuna andava sopra il salone in cui si trovavano, infatti, quella stanza era così grande e il soffitto così alto che da sola occupava due piani.
Il tetto era caduto in alcuni punti e quello che rimaneva era tutt’altro che solido; pietre e calcinacci riempivano il pavimento rendendo difficili spostamenti silenziosi. Sulle pareti si vedevano i segni delle infiltrazioni d’acqua, alcune erbacce crescevano tra le mattonelle in pietra grigia e il sole del tardo pomeriggio si insinuava in ogni fessura illuminando la sala.
Pure quella stanza sembrava deserta, ma l’udito finissimo della licantropa captò dei passi al primo piano: qualcuno si stava avvicinando alle scale e se non si fossero nascoste sarebbero state scoperte.
Vide un grosso pezzo di tetto o di muro e ci trascinò dietro anche Sefora, facendole gesto di non parlare.
«Quando arriverà il Gran Maestro?» chiese un uomo.
«Stanotte» rispose una donna.
Dal ritmo dei passi sembravano vampiri, non mannari. Si muovevano con troppa eleganza.
«Bene. Ti ha detto se ha trovato il libro della cercatrice?».
«No, non ha detto nulla. È stato molto… sintetico».
«Non ci mette mai a conoscenza dei suoi piani».
«E’ il Gran Maestro, se lo fa c’è un motivo».
«Certo, ma noi gli siamo fedeli» si lamentò l’uomo «Abbiamo fede in lui e in Belphegor».
«Appunto: la fede è credere in qualcosa anche se non puoi vederla».
«Sarà».
Dopo qualche secondi di silenzio il vampiro riprese:
«Se non ha trovato il libro dovremo interrogare ancora la cercatrice».
«Certo».
«Io direi di farlo subito, così il Gran Maestro non perderà tempo».
«Cominciamo quando il sole sarà completamente calato, sarà più facile per noi».
E se ne andarono passando per la porta da cui erano venute le due ragazze. Elsa guardò Sefora: i mannari e i vampiri stavano cercando il suo libro, ma perché? Lei stessa l’aveva letto e non c’erano informazioni particolari sul Gal-luni o su Belphegor.
Quando furono certe che non potessero più sentirle, sgusciarono fuori dal loro nascondiglio e si diressero verso la porta principale, crollata in gran parte.
In quello che una volta doveva essere un giardino non c’era nessuno, ma davanti a una breccia nel muro che circondava il castello c’era un mannaro.
Uno grosso.
“Cazzo. E ha pure l’elmo magico”.
Sefora la guardò e alzò le spalle come per dire: “Questo qui dobbiamo proprio affrontarlo”.
Elsa si grattò il mento, pensosa. Dovevano arrivare fino a lui senza farsi sentire e dovevano metterlo K.O. abbastanza velocemente da non fargli lanciare l’allarme.
Notò che Sefora stringeva ancora in mano quella specie di chiodo che aveva ricavato dalla capsula d’argento.
Se lo fece dare e, indicandole di restare nascosta dietro un muretto, uscì allo scoperto. Con velocità sorprendente anche per un mannaro, lanciò il chiodo verso l’uomo che non si accorse nemmeno che il dardo d’argento gli si era conficcato in fronte uccidendolo all’istante.
Il suo cadavere si accasciò silenziosamente contro il muro e non si mosse più.
Elsa si girò verso Sefora, aspettandosi uno sguardo di paura e rimprovero per aver ucciso una persona, seppur fosse un mannaro, ma sul suo volto delicato non vide altro che una smorfia di odio e compiacimento per aver visto morire uno dei suoi rapitori e aguzzini.
Era diversa da tutte le altre ragazze, Sefora. Si aspettava che l’avrebbe giudicata per questo, che l’avrebbe odiata, disprezzata, invece la cercatrice non aveva mosso un dito.
Elsa si sentì sollevata per questo, non avrebbe sopportato di perderla per la morte di uno schifosissimo lupo mannaro.
Scosse la testa per allontanare quei pensieri: dovevano scappare.
La prese per mano e corsero verso quello che una volta doveva essere il cancello; l’erba attutiva i loro passi svelti e nessuno dentro il castello si accorse della loro scomparsa.
Una volta davanti alla guardia, la tirarono su e la impostarono al muro, così se qualcuno avesse guardato fuori, avrebbe visto solo un mannaro molto annoiato che riposava appoggiandosi alla parte.
Gli occhi erano ancor aperti e l’elmo gli era scivolato sulla fronte nascondendo l’arma d’argento.
“Da morti non sembrano così cattivi, ma la puzza è sempre la stessa” pensò Elsa con cattiveria. Detestava i mannari, li odiava con tutta sé stessa, ma non lasciò spazio alla rabbia, prese Sefora per un braccio e corsero via senza mai guardarsi indietro.
 
 

 
Il sole stava per tramontare completamente, avevano poco tempo prima che i vampiri si accorgessero della loro fuga, sempre che non l’avessero già scoperto, ovviamente.
Correvano senza sosta da almeno due ore e non ce la facevano più: Elsa per le ferite non perfettamente rimarginate e Sefora per il frammento di piombo che aveva ancora sotto la pelle.
Il bosco le avrebbe nascoste per un po’, ma non sapevano dove fossero e questo rendeva tutto più difficile. Per quel che ne sapevano, potevano anche essere fuggite dalla parte opposta di Villanova.
«Elsa… p-per favore… fermiamoci» boccheggiò la cercatrice «non… non ce la faccio più».
«Va bene, facciamo… una pausa».
Stremate si accasciarono a terra. Respiravano affannosamente e avevano molta sete ma non sentivano scorrere ruscelli nelle vicinanze.
«Elsa» attirò l’attenzione la cercatrice «Tu per caso sai dove stiamo andando?».
L’altra si mise a sedere con il busto contro un albero.
«No, a dire il vero pensavo di farti la stessa domanda».
Sefora annuì: si erano perse.
«Credi che dovremmo procedere dritto?» domandò.
«No, magari dovremmo andare verso valle e trovare dei paesi. Poi prenderemo i mezzi pubblici e torneremo a Villanova».
«Ok».
Lentamente i loro cuori rallentarono e il respiro si fece più regolare.
«Sefora, perché non si sono accorti di noi? Intendo, come hanno fatto i vampiri a non sentire il nostro odore?».
«Beh, i nostri nasi si sono abituati e quindi non lo sentiamo, ma puzziamo da mannaro».
«Cosa?» domandò allarmata la licantropa.
«Beh, io sono rimasta lì per giorni in mezzo alla polvere, all’umidità e alla muffa, e ogni volta i mannari dovevano trascinarmi via per leggermi nel pensiero, quindi… mi hanno attaccato addosso il loro odore rivoltante».
Fece una pausa per prendere fiato, poi ricominciò.
«Per te il discorso è lo stesso: tu sei stata legata e imbavagliata con corde che  avevano preso dal castello e ti hanno portata di peso nella cella».
La licantropa si mostrò disgustata: non sopportava di portarsi dietro il fetore dei lupi mannari che l’avevano rapita e imprigionata.
«Che schifo» sussurrò digrignando i denti.
Quei cani rognosi puzzavano di carne rancida anche in forma umana, erano disgustosi.
“Meglio se non ci penso”.
«Sefora, a quest’ora ci staranno cercando, dobbiamo continuare a correre».
La ragazza acconsentì, seppur non molto contenta: era deperita a causa della prigionia e non poteva resistere ancora per molto.
«Prometto che tra qualche chilometro ci fermiamo e passiamo la notte in qualche caverna o sotto un albero, ma dobbiamo camminare il più possibile».
«Lo so, Elsa. Dai, andiamo».
Ripresero con la loro corsa ma dopo pochissimo Sefora non riusciva neanche più a camminare: il frammento di piombo le succhiava via l’energia, non poteva più andare avanti.
“Cazzo, non possiamo fermarci” pensò Elsa con agitazione “se lo facciamo siamo fottute”.
Concentrandosi sulla propria energia interiore, si trasformò in lupo: sentì bruciarle le ferite, un calore intenso le attraversò lo stomaco e il cuore e la testa cominciò a pulsare; trattenne un ululato che avrebbe attraversato tutto il bosco e avrebbe guidato i vampiri fino a loro.
“Forse non è stata un’idea magnifica, ma quel che è fatto è fatto”.
«Elsa, che stai facendo?».
«Sali in groppa» disse con voce roca, mostrando i denti aguzzi «così faremo prima».
Stando attenta a non toccare la ferita sulla schiena della lupa, Sefora si aggrappò alla sua pelliccia castana mentre correva a tutta velocità attraverso il bosco ormai completamente buio.
Saltava con grande agilità tra le rocce e le piante, correva senza perdere il ritmo e ad ogni passo mostrava tutta la sua forza.
Fece un balzo più alto degli altri ma invece di atterrare con eleganza come le altre volte, cadde rovinosamente a terra sbalzando Sefora a qualche metro di distanza.
«Elsa, stai bene?».
«State indietro!» ringhiò la ragazza lupo.
«Ma cosa…».
Con orrore, Sefora vide che le zampe della lupa erano legate con dei lacci metallici.
«Non vi avvicinate o vi ammazzo!» urlò Elsa con rabbia.
Mostrò i denti bianchi e affilati, letali, da cacciatrice. Ruggiva e ringhiava senza sosta, ma alle persone dal volto coperto che avanzavano verso di loro sembrava non  importare.





Angolo dell'autrice:
Innanzitutto, scusatemi per l'immenso ritardo nell'aggiornare questa storia. Mi dispiace di farvi aspettare sempre di più, spero non accada ancora.
Comunque, parlando della storia, è stato aggiunto un personaggio: il Gran Maestro. Chi è quest'uomo misterioso?
Segreto ;)




Ignis_eye
 

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Capitolo 24
*** Identità ***


«State indietro!» ringhiò con ancor più ferocia «Non vi dovete avvicinare!».
Mentre Elsa ruggiva contro gli sconosciuti, Sefora capì che quel cavo metallico era per forza d’argento. Camminando a carponi, lo strappò con tutta la forza che le era rimasta, liberando così la lupa che si alzò all’istante e le si mise davanti per difenderla.
«Il primo che la tocca muore!».
«Ferme, non vogliamo farvi del male!» urlò uno degli uomini misteriosi «Siamo dalla vostra parte».
Avanzò di qualche passo ma un ruggito di Elsa lo fece fermare.
«Diteci chi siete!».
«Tu sei Elsa, vero? Noi siamo di Villanova» disse togliendosi il passamontagna per farsi riconoscere «Siamo licantropi».
In quel momento il vento spinse il loro odore verso la ragazza che finalmente non ebbe più dubbi sulla loro natura e si calmò: riconosceva alcuni di loro ma non sentì l’odore né di sua madre né di suo padre.
Esausta com’era si ritrasformò in umana senza neanche volerlo e sarebbe certamente caduta a terra se Sefora non l’avesse sostenuta.
«Perché l’avete catturata con quel laccio?» chiese astiosa «Vi sarebbe bastato attirare la nostra attenzione».
«Perdonateci» disse uno di loro «ma l’odore è quello dei mannari».
Si guadagnò un’occhiataccia dalla maga, un avvertimento a stare più attento in futuro.
«Sefora» disse Elsa affaticata «fatti estrarre il piombo».
«Prima devi farti curare da un medico».
«Ma…».
«Ma niente» disse perentoria «Sei ferita, hai bisogno di cure».
Un uomo si fece spazio tra gli altri.
«Cosa vi è successo?».
Le ragazze lo fissarono per un secondo.
«Ma tu sei Valerio!».
«Sì, e a quanto pare il caso vuole che sia sempre io a occuparmi delle ferite di questa giovane guerriera» spiegò sorridendo.
«Stanno già chiamando al quartier generale, tra poco sarete a casa. Prima però dovreste raccontarci cosa vi è successo».
Le due si guardarono: ci sarebbe voluto parecchio tempo.

 

 
«Ok» disse uno dei licantropi «Mi hanno ordinato di riportarvi a casa all’istante. Non possiamo fermare l’operazione quindi verrete accompagnate da uno solo di noi».
«Voi non avete idea di cosa ci sia là dentro!» esclamò Elsa con voce roca per la stanchezza «Dobbiamo tornare indietro tutti!».
«Gaspare ha ordinato di andare là».
«Si accorgeranno subito di voi, ci sono pure dei vampiri» obiettò Sefora «Vi farete ammazzare!».
«Gli ordini sono ordini, ragazzina!» si spazientì l’uomo.
«Hey, vedi di non urlarle addosso mai più, intesi?» intervene Elsa alzandosi in piedi «Se ubbidite ciecamente agli ordini di chi non ha visto un cazzo, siete proprio dei coglioni».
«Ma come ti permetti?!» ringhiò offeso «Non dirlo mai-».
«Smettetela!».
Tutti si girarono verso Valerio.
«Sembrate dei bambini».
Li separò e li fece allontanare di alcuni passi gli uni dagli altri.
«Gli ordini sono ordini» disse un po’ sconsolato «Vedremo di stare attenti e di non morire, ma dobbiamo farlo per forza, Elsa».
La ragazza-lupo si sentiva impotente, incapace di dare una mano. Non riusciva nemmeno a farsi ascoltare, come poteva pretendere di avere un ruolo in quella guerra?
“Tutta fatica sprecata!” pensò amareggiata “Vorrei che non mi importasse nulla di loro ma di ignorarli non mi riesce proprio! Branco di idioti!”.
«Adesso mangiate un po’, tra qualche minuto uno dei nostri vi scorterà fino ad un altro gruppo poco distante da qui».
Le due ragazze annuirono per nulla contente, ma il loro malumore diminuì un po’ quando si trovarono sotto il naso del pane.
«E’ quello che abbiamo avanzato, mangiatelo tutto» disse Valerio «Siete deboli».
Non c’era bisogno che le invitasse a saziarsi, non fece nemmeno in tempo a finire la frase che loro avevano già finito di ingozzarsi e si stavano ripulendo dalle briciole.
“Sembro una selvaggia” pensò Elsa guardando i propri vestiti, sudici come non mai “Oppure una mummia, con tutte queste bende… Non che Sefora sia messa meglio”.
La maga si era fatta estrarre il piombo e stava già riprendendo colore ma la sua magrezza mostrava tutte le sofferenze passate.
«Forza ragazze, andiamo».
A pronunciare la frase era stato un licantropo piuttosto giovane con capelli corti e biondissimi. Se mandavano lui significava che era poco esperto di combattimenti, un novellino.
«Sì, andiamo» rispose Elsa.
Quando si alzò sentì delle fitte alle gambe ma non ci fece caso, anche perché stava meglio di prima. Si sentiva solo tremendamente stanca e affamata; magari avrebbe potuto catturare un coniglio selvatico lungo la strada.
“Loro stanno per essere fatti fuori e io penso al cibo… dovrei vergognarmi. L’ho detto che ormai si saranno accorti della nostra fuga, ma nessuno mi ascolta!”.
Scuotendo la testa per scacciare questi brutti pensieri, seguì il giovane licantropo nel fitto del bosco.
 
 


 
«Mamma! Papà!» urlò correndo in contro ai genitori.
«Elsa!».
Non fu mai così felice di rivederli. La gioia era così tanta che non sentì nemmeno il dolore delle ferite quando loro la strinsero in un forte abbraccio.
Per lei il mondo smise di esistere nell’esatto istante in cui, toccando i suoi genitori, fu certa di averli davvero davanti. Non ci poteva credere.
Il biondo le aveva lasciate entrambe lì dove le aspettavano i genitori: appartenevano a due gruppi diversi, ma quando si era sparsa la voce che le ragazze erano scappate si erano incontrati per accoglierle.
«Elsa, siamo stati tanto in pensiero!» esclamò la madre tra le lacrime «Temevamo il peggio!».
«Mamma, sto abbastanza bene. Il problema adesso è un altro» tentò di spiegare, ma i genitori soffocarono le sue parole con abbracci e discorsi.
Avevano paura di trovare il suo cadavere e invece l’avevano riavuta tutta intera, era una gioia immensa per loro.
«Papà, i mannari-».
«Lo so, lo so» disse lui senza nemmeno ascoltarla «Adesso ti riportiamo a casa, non preoccuparti».
«Riposerai qualche giorno, poi starai meglio».
«Valerio ci ha avvertiti delle tue condizioni di salute, ha detto che-».
«Smettetela!» sbottò allontanandosi da loro «State zitti e ascoltatemi!».
Sentiva pulsare la vena sul collo e aveva caldo. Aveva decisamente perso la pazienza che notoriamente era già poca.
«Io sto benissimo! Adesso aprite le orecchie e statemi a sentire!».
Salì su una roccia sotto lo sguardo allibito di tutti e parlò:
«I mannari sono tantissimi e con loro ci sono pure dei vampiri. Ormai sanno che siamo fuggite e si saranno preparati a un attacco o a cercarci. Hanno elmi che permettono loro di trasformarsi durante il giorno e il castello in cui si nascondono è sorvegliato! Se andate là sarà un massacro!».
Tutti la guardarono in silenzio e dai loro sguardi Elsa capì molto di più che con mille parole: sarebbero andati anche se questo significava rischiare la vita.
Non che i loro occhi mostrassero la fierezza tipica dei licantropi, ma avevano una scintilla di determinazione che difficilmente si sarebbe spenta.
«Anche voi due andrete?» chiese atona ai genitori «Anche voi due andrete a farvi ammazzare?».
«Elsa, cerca di capire-».
«No» li interruppe «Ho già capito».
Scese dalla roccia usata come pulpito e guardò i genitori negli occhi: la sua era tutt’altro che comprensione, la sua era accusa.
Sapeva che c’erano di mezzo l’onore, il territorio e la fedeltà al clan, ma andare significava gettarsi nelle mani dei macellai.
Sentiva dentro di sé una frustrazione mai provata prima, una rabbia ribollente che le fece odiare quella massa di aspiranti suicidi e un’impotenza che le fece odiare sé stessa.
«Madre, padre, voi siete senza dubbio abbastanza grandi da decidere da soli se vivere o morire. Spero che potremo rivederci un giorno».
Spaventati dal tono solenne e dalla parole della figlia, i genitori vollero calmarla ma lei aveva già voltato loro le spalle e andava verso un licantropo che fino ad allora era rimasto in disparte.
«Maestro Chan, vorrei tornare a casa».
«Sì» rispose lui avvicinandosi «E accompagnerò anche Sefora, se lei lo vorrà».
«Sì, per me va bene».
Sefora, come tutti gli altri aveva ascoltato il discorso di Elsa e ne era rimasta turbata. Anche se non avesse desiderato tornare a casa l’avrebbe fatto lo stesso, solo per accompagnarla.
I suoi genitori erano sollevati dalla sua scelta perché mandarla a Villanova significava mandarla al sicuro, o almeno così credevano. Se la città non era stata una fortezza inviolabile una volta, poteva non esserlo ancora ma portarsela dietro voleva dire riconsegnarla nelle mani dei suoi aguzzini.



 
Elsa, Sefora e il maestro Chan camminavano nella foresta completamente buia. Le due ragazze facevano un po’ fatica a mantenere un passo spedito, ancora deboli dopo la fuga.
E poi, c’era un pensiero fisso che tormentava Elsa.
Non erano i suoi genitori che andavano incontro alla morte, era qualcosa di peggiore, qualcosa che in realtà non capiva perfettamente. Qualcosa che aveva a che fare con il traditore.
«Ragazze, salite» disse Chan togliendo un telo mimetico da una jeep nascosta «Con questa vi porterò fino a Villanova».
Le due non furono mai così felici di vedere un’automobile.
«Maestro» domandò Elsa «Neanche a te va molto a genio questa operazione, vero?».
«Vero».
«Allora perché eri con loro?».
«Perché…».
L’uomo non sapeva se parlare o stare zitto, sentiva di trovarsi in una situazione difficile. Forse avrebbe dovuto solo accendere la macchina e partire ignorando le domande della ragazza, ma sapeva che l’avrebbe solo innervosita.
Sospirò.
«Perché dovevo nascondere il libro di Sefora, quello che parla del Gal-luni».
«Perché?» domandò la cercatrice «A parte una breve citazione non se ne parla affatto».
«Certo, ma Gal-luni non è il nome dell’elmo» spiegò.
Le ragazze non capivano.
«Il nome purtroppo è rovinato, non si legge bene» ricordò il maestro «E come si fa a creare un oggetto così potente se non se ne conosce il nome?».
«Non si può» rispose prontamente Sefora, ferrata sull’argomento.
«Esatto».
«Ma noi li abbiamo visto con gli elmi addosso» assicurò la maga.
«Certo! I mannari che mi hanno rapita si sono trasformati sotto la luce del sole!» esclamò l’altra.
«E non avete notato nulla di strano? Sicure?» le costrinse a ragionare «Pensateci bene».
“Ma certo!”.
«Non si sono mai trasformati senza motivo! Se io potessi diventare lupo solo con la luna piena, sfrutterei al massimo il potere degli elmi per trasformarmi sempre».
«E non possono farlo perché quegli elmi sono solo dei prototipi» esclamò la cercatrice «Così hanno bisogno del vero nome del Gal-luni».
«E’ così, ragazze. Loro hanno già un libro rubato ad un sacerdote di Milano dove si spiega cosa serve per creare l’elmo magico originale ma dove non è riportato il suo nome».
«Deve essere il prete da cui facevo la chierichetta».
«Sì, proprio lui. I tuoi genitori mi hanno raccontato la storia. Sono andato a prendere il libro di Sefora e l’ho portato con me».
«Perché te lo sei portato dietro?».
«Per evitare che cadesse nelle mani sbagliate» rispose.
Chan si prese qualche secondo per cercare di metterla giù nel modo più indolore possibile.
«Elsa, Sefora… non è possibile vivere solo tra persone oneste, a volte… capita di scoprire che chi ritenevamo degno di fiducia, non lo è».
«Maestro, cosa significa?» chiese allarmata.
«Tu sai che c’è un traditore tra noi e sai anche chi è».
«Cosa?».
Lei e Sefora si guardarono: avevano passato un sacco di tempo a cercare di capire chi fosse ma non era venuto fuori nulla.
«Sei tormentata dai sogni, Elsa. Sogni in cui un mannaro dagli occhi rossi ti minaccia».
«Sì, è vero. Tutte le persone che conosco si trasformano in mannari ma l’unico che non riesco a identificare è proprio lui. E l’ultima volta, beh… è stato diverso».
«Parlamene» disse voltandosi di scatto «non tralasciare i particolari».
La ragazza-lupo raccontò della figura umanoide intrappolata nel blocco trasparente e indistruttibile mentre Chan ascoltava con occhi sbarrati.
«Maestro, che fine ha fatto la tua solita aria zen?» domandò per buttarla sul ridere «Sembri un po’, come dire, spaventato?».
«Elsa, la sabbia, le rocce, la montagna… erano fatte di diamante, giusto?».
«Sì, e allora?».
Fu come un fulmine a ciel sereno: sentì il cuore batterle all’impazzata e le si chiuse lo stomaco.
Se fosse stata in piedi, probabilmente sarebbe caduta per terra.
“No, non può essere”.
 
 


 
«Elsa, rientra in macchina!» urlava Chan mentre la rincorreva «Torna qui!».
«Non posso!».
Sefora faceva sempre più fatica a stare al passo dei due licantropi ma non poteva permettersi di rimanere indietro.
Elsa era diventata pallida come un lenzuolo, aveva chiesto a Chan il cellulare e aveva mandato un messaggio, poi aveva chiamato un numero.
Era rimasta in attesa quasi senza respirare e quando nessuno rispose, corse fuori dall’auto.
«Chan, i miei genitori sono in pericolo, dobbiamo salvarli!».
«Elsa, fermati, sei troppo debole!» gridò la cercatrice con il fiatone «Torna qui!».
La licantropa non voleva saperne e se Chan non l’avesse fermata saltandole addosso, sarebbe certamente arrivata al campo dove sostavano i suoi genitori e gli altri.
«Lasciami!» ordinò divincolandosi «Devo avvertire tutti!».
«Smettila, non puoi farcela».
Si rotolarono per un po’ nel fogliame e nel terriccio finché Chan si trasformò in lupo e la bloccò a terra impedendole ogni movimento.
«Elsa, rifletti!» ringhiò «Non sei riuscita a fare nulla prima, non puoi riuscirci nemmeno adesso! Non ti crederà nessuno!».
Sembrava non sentire  e tentava di dimenarsi invano sporcandosi i vestiti di terriccio.
«Sei testarda come un mulo» la rimproverò Chan «Vuoi sempre fare di testa tua».
«Perché il mio modo di fare le cose è quello giusto» protestò sfinita.
«Sei troppo impulsiva! La stanchezza ti impedisce di ragionare lucidamente!».
«Ci ho pensato fin troppo, Chan» ringhiò «e sono quasi diventata pazza».
«Smettila!» urlò Sefora.
«Cos-».
«Finiscila, Elsa! Chan ha ragione… non ti crederà nessuno, neanche se lui garantisse per te».
Improvvisamente smise di muoversi. Non poteva credere che anche lei la scoraggiasse dall’agire.
«E cosa dovrei fare allora? Tornare a casa e aspettare che qualcuno mi riporti i loro cadaveri?!» sbraitò.
«No, ma se proprio vuoi fare qualcosa, fallo con la testa».
Vedendo che non si muoveva più, Chan si spostò lasciandola libera di rialzarsi. Non aveva mai visto nessuno domare con tanta facilità quella ragazza.
Elsa si ripulì alla meglio dallo sporco, imbronciata ma finalmente più tranquilla.
«Se andassimo là non concluderemmo niente, perciò dobbiamo fare in modo diverso».
Chan non capiva cosa intendesse la cercatrice ma dal suo sguardo sapeva che era tremendamente seria. «Cosa proponi?» domandò Elsa stranamente docile per i suoi canoni.
«Intanto dimmi chi sospetti che sia il traditore, agiremo di conseguenza».
 
 


 
«Ragazze, sappiate che io sono contro tutto questo ma lo faccio solo per proteggervi».
«Ok».
«No problem».
L’avevano freddato con noncuranza, avevano altro da fare in quel momento.
Per rimettersi in forze avevano mangiato dei frutti di bosco e masticato delle strane radici secche che Chan aveva portato con sé. Elsa non era tanto sicura che fossero normali, probabilmente erano state modificate con qualche magia, perché dopo pochi minuti che l’aveva in bocca non sentiva più stanchezza alle gambe e le pareva di aver riacquistato energie.
Adesso camminavano svelti nel bosco, immersi nell’oscurità e guidati solo da qualche raggio lunare che passava dai pochi spiragli tra le folte chiome degli alberi.
Non c’era la luna piena, ma Elsa e Chan potevano percepirne comunque l’energia benefica.
Il maestro aveva detto che a causa del loro ritrovamento, i guerrieri si sarebbero mossi con qualche ora di ritardo perciò forse avevano abbastanza tempo,sempre che i mannari non decidessero di avventurarsi fuori dalle mura del castello in rovina.
«Chan, sei sicuro che questa sia la strada più breve per raggiungere la loro base?».
«Sì, andiamo avanti».
“A questo punto si tratta solo di essere puntuali. Speriamo che Damiano ci abbia visto giusto” di disse ripensando al messaggio ricevuto da poco dal cugino.
Quasi non ci credeva, non le pareva vero di aver scoperto il piano che stava dietro a quella maledetta guerra.
“Maledetta guerra e soprattutto maledetti mannari”.
«Ferme, siamo arrivati».
Una strada battuta larga appena un metro attraversava il bosco costeggiando la parete rocciosa di una collina ricoperta dalla vegetazione.
Non doveva esserci traffico da quelle parti: nonostante la stradina fosse riconoscibile, era invasa dalle erbacce in più punti e non c’era traccia di un passaggio recente.
«Da qui al castello sono forse cinque chilometri. Voi due siete uscite da questa parte ma avete deviato ad arco verso nord senza accorgervene».
«Che si fa? Aspettiamo?» domandò la cercatrice.
«Sì, lo prenderemo dall’alto» rispose Elsa indicando la boscaglia della collinetta «Quando sarà abbastanza vicino correremo giù dal pendio e gli salteremo addosso».
«Va bene, saliamo allora».
Prima di attraversare la stradina si rotolarono nell’erba per mascherare il proprio odore: se il traditore l’avesse sentito, si sarebbe allarmato.
“Certo che io e Sefora avremmo potuto evitare” pensò divertita “Puzziamo così tanto da mannaro che se il traditore ci sentisse si sentirebbe tranquillo”.
Si nascosero dietro un cespuglio in religioso silenzio attendendo il passaggio di qualcuno.
Passarono i minuti e cominciavano a perdere la speranza quando dopo quasi un’ora, sentirono lo spezzarsi di un ramoscello sotto una scarpa. C’era qualcuno che correva a velocità sovrumana nella loro direzione e che alzava un leggero pulviscolo che, illuminato dalla lattea luce lunare,  si vedeva in lontananza.
Trattennero il respiro, eccitati dalla caccia che stava per avere inizio. Elsa non si era mai sentita così adrenalinica e desiderosa di combattere, sentiva il mana vibrare in tutto il suo corpo risvegliando i suoi sensi e la sua aggressività.
“Ecco, si avvicina… ci siamo quasi…”.
Non stava più nella pelle, sprezzante del pericolo, non vedeva l’ora di saltargli addosso.
“Eccolo!”.
Tutti e tre scattarono verso il bersaglio: come dardi assassini gli furono addosso in pochi secondi prendendolo alla sprovvista.
Chan gli saltò sulla schiena atterrandolo, poi tutti e tre lo circondarono: i licantropi ringhiavano come impazziti tanto che Sefora stessa per un pelo non si spaventò.
Il traditore si rialzò e ringhiò verso Elsa.
Sapeva di essere in trappola.
«Alla fine mi hai scoperto» disse «Ma non credere che tu e questi due riusciate a vivere abbastanza da raccontarlo a qualcuno!».
Elsa sentì il mana bruciare nello stomaco e nel cuore divampando nel resto del corpo come un incendio: i denti divennero zanne, la sua stazza aumentò a dismisura e una folta pelliccia ricoprì il suo corpo possente.
Non ci vedeva più dalla rabbia: aveva davanti il licantropo che le aveva fatto passare giorni d’inferno, il responsabile del rapimento e delle torture di Sefora, colui che stava mandando a morire i suoi genitori.
Un ringhio gutturale uscì dalla sua gola:
«Fatti sotto… Gaspare!».
 
 
 





Angolo dell'autrice:
Eccomi qui dopo un millennio di asenza da questa storia. 
La causa di questa pausa quasi eterna non è stata la mancanza di tempo e nemmeno quella di ispirazione. Sapevo cosa scrivere ma non come scrivere.
Questo è un capitolo essenziale per lo svolgimento della storia e volevo essere sicura di averlo scritto come si deve, infatti, quella che avete letto è la quarta versione.

Già che ci sono, volevo ringraziare LamaCremisi per avermi spronata a ultimare questo benedettissimo capitolo una volta per tutte. 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto:)
Alla prossima, 


Ignis_eye

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Capitolo 25
*** Il rosso del rubino contro la trasparenza del diamante ***


Gaspare si trasformò a sua volta in bipes ringhiandole contro.
Se fossero stati solo in due avrebbe potuto ucciderla ma così non era; alla rabbia per essere stato scoperto si aggiunse quella per essere in ritardo con il suo piano e l’odio verso quei tre che l’avevano attaccato.
Non poteva batterli, ne era certo. Doveva far passare il tempo e sperare che i mannari andassero in suo soccorso non vedendolo arrivare.
«Arrenditi, Gaspare!» urlò Chan «Non hai via di scampo!».
In risposta il traditore ruggì contro di lui.
«Taci, cane cinese!».
Il maestro si sentì offeso ma non reagì: non dovevano spezzare il triangolo con cui lo circondavano.
«Come avete fatto a scoprirmi?» domandò adirato. Poi, rivolto ad Elsa: «Nel mondo onirico tu non avevi capito chi fossi!».
«Te la sei cercata, Gaspare» disse «Non avresti dovuto farti vedere nei miei sogni».
«Spiegati».
Non poteva credere di aver sbagliato qualcosa, non era possibile. Aveva preso tutte le precauzioni necessarie.
«Quando ero prigioniera dei mannari ho fatto un sogno: ero dispersa in una landa desolata fatta solo di vetro, o almeno io lo credevo tale. In realtà era diamante, come la pietra simbolo della tua famiglia».
Poi gli disse che aveva chiamato a casa sua dove c’era il quartier generale ma nessuno aveva risposto, così aveva chiesto a Damiano di andare a controllare e lui le aveva mandato un messaggio dicendo che l’abitazione era vuota e la macchina non c’era.
«Tu sei uno degli anziani e non combatti, hai solo ruoli strategici. Allora come mai non eri al quartier generale? Quella è stata la totale conferma dei miei sospetti».
Gaspare capì come avesse fatto a scoprire la sua identità ma non riusciva a comprendere come mai il diamante fosse apparso nei sogni della ragazzina: lui aveva sempre fatto attenzione a non mostrarsi o a non far apparire nel mondo onirico simboli che lo rappresentassero. E poi… lui non era entrato nei suoi sogni mentre era prigioniera.
«Non hai nulla da dire, Gaspare?».
«Solo che io non sono entrato nel tuo ultimo sogno e che non so come tu abbia fatto a vedere quella distesa di diamante».
«Non ha importanza» disse Elsa «ora sei qui e sei in mano nostra. Pagherai per quello che hai fatto!».
«Non ci scommettere!».
Con uno scatto fulmineo le balzò addosso atterrandola, ma prima che potesse morderle il collo lei gli tirò un pugno in un occhio.
Approfittando del secondo di vantaggio, gli morse il braccio destro fino a sentire sulla lingua il sapore del sangue, poi qualcuno glielo tirò via di dosso.
«Maledetto!» ringhiò Chan accanendosi contro di lui «Traditore!».
I due si rotolavano sulla stradina sassosa mordendosi a vicenda mentre Sefora, conscia di non essere utile, si era ritirata sul ramo di un albero aspettando che smettessero.
Elsa attese che Gaspare buttasse a terra Chan per balzargli sulla schiena e addentarlo dietro la testa e quando sentì la pelliccia tra i denti serrò le mascelle fino a farlo ululare di dolore.
«Staccati, maledetta!» guaiva tentando di afferrarla «Togliti di mezzo!».
Elsa era sorda ai suoi lamenti e affondò ancor di più i denti nel suo collo mentre Chan si rialzava in piedi, pronto ad attaccare ancora.
“Speriamo che tutti questi anni di allenamenti non siano stati inutili!” pensò la licantropa “E’ ora di mettere in pratica qualche trucco”.
Quando Gaspare tentò di afferrarla con le mani, lei lo anticipò e gli bloccò i polsi con una presa ferrea: grazie all’adrenalina aveva perso ogni sensazione di stanchezza e si sentiva forte come non mai.
Il maestro, approfittando dell’occasione, sferrò una serie di pugni micidiali che lo fecero cadere a terra.
Elsa mollò la presa dal collo grondante di sangue e con un ringhio intimidatorio dissuase il traditore dal rialzarsi.
«Ben fatto, Elsa».
«Grazie, maestro, ma prima di cantar vittoria voglio fare due domande a questo traditore».
«Io non dirò nul-».
«Silenzio!» ruggì fino a sentir male alla gola «Tu aprirai bocca solo per rispondere alle mie domande!».
Provava un insopportabile calore e sentiva pulsare le tempie, cose che non la rendevano certo più gentile.
«Che ruolo hai in tutto questo?! Rispondi!».
Gaspare non emise nemmeno un sussurro e fece infuriare ancor di più la ragazza-lupo che aveva già perso tutta la sua pazienza: gli afferrò una mano frantumandola tra i propri denti acuminati.
«Aaarg!» urlò disperato.
«Parla se non vuoi che ti divori pezzo dopo pezzo, cane rognoso!».
Sefora scese dall’albero e si avvicinò ma uno sguardo di Chan la dissuase dall’andar loro accanto: “Non ora” sembrava le dicesse “Non guardare”.
Sentì chiudersi la bocca dello stomaco: cosa stava per succedere? Perché il maestro cinese non voleva farla avvicinare? Eppure lei ne aveva viste di tutti i colori negli ultimi giorni…
Poi capì.
Elsa era stanca, affamata, arrabbiata.
Elsa era certamente una licantropa dotata di grandi capacità.
Elsa, però, non era matura.
Aveva sentito parlare dei giovani licantropi sottoposti a stress troppo alto, aveva letto in decine di libri quello che potevano fare: mancanza di autocontrollo, perdita della coscienza di sé, cannibalismo.
Chan ora non era più lì per catturare il traditore, era lì per proteggere Elsa da sé stessa.
Facendoci caso, la maga poteva percepire nell’aria una strana energia, densa e soffocante, che le faceva venire la pelle d’oca e che si espandeva sempre più.
Era Elsa.
Si sarebbe trasformata in un mostro, non in uno di quelli delle fiabe o delle leggende, bensì in un mostro vero e assetato di sangue.
Spaventata, si nascose dietro una pianta dal tronco largo e robusto e si portò una mano al cuore: davvero Elsa, la sua Elsa, stava per diventare così?
Sentì pizzicarle gli occhi ma non si arrese alle lacrime. Strinse i pugni e si voltò verso i licantropi: se la ragazza-lupo stava soffrendo così sarebbe stato troppo facile chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie; se Elsa stava sopportando questa battaglia fuori e dentro sé stessa, Sefora avrebbe sopportato con lei.
Sentì i lamenti di dolore di Gaspare: stava cominciando il macabro spettacolo.
«Avanti, maledetto! Parla!».
«I-io non ti… dirò nulla…».
All’opposizione seguì un morso al gomito così forte da spezzarlo con un sonoro schiocco, ma la licantropa non si accontentò di romperlo, lo tenne in bocca come per masticarlo prolungando il dolore di Gaspare.
Chan restò spiazzato da tutto quel sadismo, non era da lei accanirsi così tanto, ma sapeva di non poterci fare nulla, ormai era chiaro: stava per perdere il controllo e in quei casi c’era poco da fare, se avesse tentato di fermarla l’avrebbe solo fatta diventare più violenta.
«Parla!» ruggì grondando sangue dalle fauci «Che ruolo hai in tutto ciò?!».
«Io… sono solo… un informatore…» sussurrò stringendo i  denti dal dolore «Io non so nulla del piano…».
«Bugiardo!» lo accusò «Dicci tutto quello che sai!».
«Io non so nulla, lo giuro!».
Accecata dalla rabbia gli staccò l’avambraccio con un solo morso scoprendo le ossa bianche sotto i muscoli; dal dolore, Gaspare si ritrasformò in umano senza volerlo.
«Adesso sai qualcosa di più, scommetto!».
«Io… io dovevo riferire le mosse dei licantropi al Gran Maestro» disse «Sono solo un informatore!».
«Schifoso bastardo! Spia! Ci hai traditi!».
Sentiva pulsare le vene del collo e ormai trovava insopportabile il calore che provava da un po’;  non aveva più controllo sul proprio tono di voce e sulla propria aggressività, sentiva che qualcosa non andava ma non poteva fermarsi.
«Ci hai venduti a quegli stronzi! Cosa ti hanno dato in cambio?!».
Gaspare non voleva rispondere, l’umiliazione sarebbe stata troppa, ma visto che le parole non bastavano, la licantropa lo colpì con una zampata in pieno viso scaraventandolo alcuni metri più in là.
Chan tentò di calmarla ma ottenne solo un’occhiata astiosa dalla sua allieva.
«Maestro, lasciami fare. Io devo sapere, ne ho tutto il diritto dopo quello che mi ha fatto».
«Elsa…».
«No. Questa volta si fa a modo mio» sussurrò con una voce che non sembrava nemmeno sua.
Quando fui a pochi passi dal traditore lo afferrò per la gola e lo sollevò da terra senza sforzo mentre lui gemeva tenendosi il braccio monco.
«Allora?!».
«Dopo… dopo che vi avrebbero dominati, io sarei diventato il vostro re… e avreste dovuto obbedirmi incondizionatamente».
«Ma in cambio saresti stato fedele ai mannari, vero verme schifoso?!» urlò scrollandolo con violenza «Però a te bastava giocare a fare il re, non è vero?!».
Senza accorgersene strinse la presa sul suo collo e Gaspare tentò di liberarsi, ma le sue dita non potevano nulla contro quelle lunghe e artigliate di Elsa.
«E dimmi, pezzo di merda, perché volevi ammazzarmi, perché nei miei sogni dicevi di volermi uccidere?!».
«E’ un ordine del Gran Maestro» sussurrò a fatica.
«Chi è? E’ un mannaro?».
Un ghigno sul viso di Gaspare la fece ricredere.
«No, è un vampiro. I mannari sono troppo stupidi per certe cose, sono tutto muscoli e niente cervello».
«Come i licantropi che stanno combattendo ora» si azzardò a rispondere «Se fossero intelligenti non andrebbero verso morte certa come stanno facendo ora!».
«Ripetilo, bastardo!» ringhiò offesa «A differenza tua, loro hanno il senso dell’onore e sono leali fino alla morte! Con i tuoi ordini li stai mandando in una trappola, li mandi a morire!».
Una macabra risatina uscì dalle labbra sporche di sangue di Gaspare.
«E allora?» chiese «Cosa saranno mai pochi licantropi per avere il totale controllo su tutti gli altri?».
«Cosa hai detto?!».
Quelle parole la spiazzarono completamente e anche se non poté vederlo, anche Chan rimase impietrito da quell’affermazione.
«Uno vale l’altro… non c’è differenza».
Con un involontario scatto di rabbia, gli sbatté la testa su un masso frantumandolo in centinaia di minuscoli pezzi.
«Elsa, fermati!» urlò Chan senza esito «Basta!».
La ragazza non sentiva le sue parole e picchiò la testa del traditore sul terreno con tanta violenza da farlo tremare.
Non riusciva a fermarsi, voleva schiacciargli la testa e ridurla in pezzettini minuscoli.
Chan, capendo la gravità della situazione, le balzò addosso e le morse il braccio per farle perdere la presa sul collo di Gaspare. Ci riuscì, ma la ragazza, fuori di sé, lo colpì in pieno viso con una forza straordinaria che non aveva mai dimostrato di avere e gli ruppe il muso schizzando sangue sull’erba.
Non contenta, lo afferrò per una zampa e lo lanciò in mezzo alla foresta a qualche decina di metri abbattendo un grosso pino.
Chan si rimise subito in piedi ma Elsa era già tornata all’attacco verso Gaspare che urlava disperato e piangeva dalla paura.
«Basta, ti prego!» implorò «Ti scongiuro, basta!».
Elsa però non sentiva, anzi, era disgustata da quel bastardo che strisciando come un verme tentava la fuga.
Gli afferrò una gamba e gliela strappò dal resto del corpo.
Ad ogni urlo attaccava ancora e ancora: prima un piede, poi gli occhi, poi la mano. Come una belva senz’anima sbrana la sua preda, lei dilaniava a poco a poco le carni della spia che aveva tradito il suo popolo.
Sentiva in bocca il sapore ferreo del sangue e le piaceva, udiva le suppliche e ne voleva sentire altre.
Le orecchie le fischiavano e nei timpani sentiva il battito cardiaco prevaricare su qualsiasi altro rumore. Poi, quando il calore divenne insopportabile e la testa le pulsava senza sosta, lo azzannò al collo e strinse fino a sentire le ossa della spina dorsale frantumarsi come legna secca e il sangue scenderle in gola e colarle fuori dalla bocca.
«Elsa, adesso basta!» ordinò Chan.
Doveva impedire che la sua rabbia incontrollabile la spingesse a far del male a lui o a Sefora. Doveva a tutti i costi farla rinsavire, aveva sbagliato a lasciarla fare senza metterle freni.
«Elsa, calmati!».
In risposta ricevette un ringhio così profondo che si spaventò. Non sembrava lei, si comportava quasi come… un mannaro.
Poteva sentir vibrare il suo mana attraverso la calda aria estiva e avvertiva quest’energia come estranea. Stava assistendo per la seconda volta in vita sua alla perdita di controllo di un giovane licantropo e non poteva permettere che finisse come la prima.
Gli ululati di Elsa attraversavano la foresta per chilometri e decine di uccelli si alzavano in volo illuminati solo dalla debole luce lunare.
La ragazza afferrò un tronco d’albero sradicando la pianta e picchiando con forza sul cadavere di Gaspare finché il legno non le si sfasciò in mano.
Arrabbiata oltre ogni limite affondò i denti nelle carni del corpo esanime e strappò lembi di pelle e muscoli raggiungendo gli organi interni, caldi e viscidi. Affondò il muso nel suo ventre e lo svuotò completamente sporcandosi di sangue.
Provava un forte mal di testa e ogni volta che infieriva su quel cadavere desiderava accanirsi ancor di più, sempre di più, fino a non lasciarne nemmeno un pezzo intatto.
Quanto avrebbe voluto che fosse ancora vivo! Lo avrebbe fatto soffrire come un cane, l’avrebbe fatto piangere!
Ringhiando  morse la colonna vertebrale e la spezzò strappandone via una parte con i denti.
«Elsa!» urlava Chan, ritornato umano «Smettila, ormai è morto!».
Lui ce la metteva tutta ma lei era inavvicinabile e totalmente sorda alle sue suppliche. Perché la sua giovane allieva non lo stava a sentire?
Nel buio della notte non poteva accorgersene ma se avesse potuto, nei suoi occhi non avrebbe visto nulla. Solo il vuoto, un vuoto che si nutriva di morte, vendetta e rabbia.
Non poteva sopportare che la ragazza che aveva visto crescere, che aveva aiutato, istruito, allenato e consigliato si stesse consumando in quell’essere dalla forza spropositata e dalla volontà appannata dalla furia.
Cosa poteva fare però? Ormai aveva perso la testa e nel giro di poco si sarebbe consumata fino alla morte. Perché non c’è futuro per un licantropo che non controlla il proprio mana: questo potenzia all’estremo il suo corpo in così poco tempo che l’effetto è quello di un fiammifero che si accende e si spegne dopo poco.
Era tutto perduto.
Le aveva insegnato a proteggersi dagli altri ma non contro sé stessa e adesso era troppo tardi per tornare indietro.
«Elsa, ti prego, calmati!» la implorò Sefora uscita dal suo nascondiglio.
La ragazza si bloccò di colpo e alzò la testa sporca di sangue dal cadavere di Gaspare, squadrandola con occhi sbarrati.
La maga si avvicinò di qualche passo ma un ringhio gutturale dell’altra la terrorizzò costringendola a fermarsi.
«M-mi riconosci?» sussurrò timidamente «Sono io…».
Azzardò un altro passo e la licantropa lasciò cadere a terra la carcassa martoriata che stava dilaniando.
«Sono Sefora» disse tentando di mantenere un tono di voce fermo e tranquillo «Siamo appena scappate dai mannari, grazie a te».
Qualcosa in quella frase la fece innervosire: tirò indietro le orecchie e mostrò le zanne. La cercatrice si morse la lingua, non avrebbe più dovuto nominare i mannari.
«Ora siamo salve, siamo al sicuro».
Chan era sbalordito: con poche parole era riuscita a domare quella belva e si stava pure avvicinando! Come mai aveva tanta influenza su Elsa?
Intanto, Sefora era arrivata a pochi passi dalla licantropa che, irrequieta, si era acquattata e digrignava i denti senza però attaccare.
Sembrava combattuta: una parte di lei le ordinava di uccidere, l’altra di ascoltare; era come una bomba sul punto di esplodere.
«Elsa» sussurrò,sentendosi piccolissima dinanzi a quell’essere alto più di due metri «Ti prego, torna come prima».
La licantropa rantolava trattenendo a fatica la sua rabbia, ma qualcosa stava già cambiando dentro di lei. Si abbassò appoggiandosi al terreno anche con gli arti anteriori ritrovandosi faccia a faccia con la maga.
«So che mi puoi capire, percepisco che il tuo mana sta cambiando…».
Alzò lentamente una mano ma il gesto in qualche modo spaventò l’altra e con uno scatto fulmineo la atterrò ringhiandole in viso.
Chan fece come per intervenire ma una serie di latrati nella sua direzione lo costrinsero a fermarsi.
«Elsa, ti prego» singhiozzò stesa a terra «Ti prego, torna in te».
La figura scura della ragazza-lupo le stava sopra e le bloccava ogni via di fuga bloccandole le braccia con le zampe. Poteva sentire il fiato caldo che le accarezzava il viso e l’odore del sangue era così forte da darle la nausea.
Gli occhi scuri la guardavano con odio e sembravano attraversarla da parte a parte come lame di ghiaccio.
Questa volta non poté controllare le lacrime che uscirono involontariamente; singhiozzò mentre il muso della licantropa si avvicinava al suo e quando fu certa che l’avrebbe uccisa, chiuse gli occhi.
Non successe nulla.
«Se… fo… ra» articolò «Se… fo… ra…».
Riaprì gli occhi.
«Elsa, tu… tu mi riconosci» sussurrò.
Si accorse che l’altra respirava a fatica, come dopo una lunga corsa.
«Che ti succe-».
«M-mi dispa…ce» rantolò «N-non volevo far..ti male…».
Si ritrasformò in umana: la pelliccia scomparve, gli artigli si ritirarono, il corpo ritornò alle sue normali dimensioni e il muso divenne viso.
Ora una ragazza debole e sfinita la sovrastava. Fece per dire qualcosa ma le si sdraiò sopra a peso morto.
«Mio dio, Elsa!».
Preoccupata, si liberò spostando il suo corpo e la distese accanto a sé prendendole il busto tra le braccia e sostenendole le testa.
«Elsa, parlami!» disse scuotendola «Apri gli occhi!».
Le sfiorò la fronte per spostarle un ciuffo di capelli e la trovò bollente dalla febbre. Respirava lentamente e con fatica. Anche gli occhi, prima pieni di vita, adesso sembravano coperti di un velo di sofferenza.
La luce lunare si rifletteva debolmente sulla sua pelle pallida facendola sembrare un’immobile statua di marmo.
«Sefora» sussurrò «Io non… volevo».
«Shhh, va tutto bene, va tutto bene» si sforzò di dire «Adesso chiamiamo aiuto e ti portiamo a casa».
La rassicurava ma ormai era inutile: sia lei sia Chan, distante alcuni metri e totalmente impietrito, sapevano che non c’era più nulla da fare; la sua energia si affievoliva sempre di più e si faceva via via più fredda.
«Tra poco starai meglio» singhiozzò «Ora andrà tutto bene».
Un groppo alla gola quasi le impediva di parlare e le lacrime le rigavano il viso gocciolandole lungo il mento senza sosta.
«No, io sto… morendo» le disse.
«Non dirlo neanche per scherzo! Tu ce la farai!».
«N-no… purtroppo no».
Fece un respiro profondo e le prese una mano pregando di avere abbastanza tempo per dire le sue ultime parole. Sentiva il proprio mana spegnersi come la tremolante fiammella di una candela.
«F-ferma i nostri… non lasciare che attacchino il castello o moriranno tutti».
Non aveva più tempo, lo sapeva.
Guardò quegli occhi verdi e benedisse la sua natura sovrumana che le permetteva di vedere il loro meraviglioso colore anche nella semi oscurità.
Non li avrebbe più rivisti, e nemmeno Sefora.
L’aveva appena trovata e subito doveva lasciarla, non era giusto. Cosa aveva fatto di male per meritarsi una fine così precoce?
«Sefora» soffiò senza più fiato «Tu sei… sei bellissima anche quando piangi».
«Elsa…».
«E… i tuoi occhi mi sono piaciuti dalla prima volta che li ho visti. Sefora, ti prego… sopravvivi a questa guerra, fallo… fallo per me. Io…».
Non fece in tempo a finire. Il suo cuore smise di battere.

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Capitolo 26
*** Il Gran Maestro ***


Faceva freddo. O almeno era quello che credeva lei, perché non percepiva nulla sulla pelle. Qualcosa, però, le faceva sentire quel luogo come ostile, immobile come fosse congelato.
Non era brutto, tutto il contrario, ma dentro di lei una strana angoscia avviluppava le sue spire come un serpente in agguato pronto a mordere la preda.
“Il mondo dei morti me l’ero sempre immaginato in modo diverso” pensò “Decisamente più… affollato”.
Si trovava a fluttuare in un cielo sterminato senza nuvole né uccelli; la terra sotto di lei non esisteva e lo spazio nemmeno.
Non c’era il sole, ma una luce diffusa illuminava quel luogo etereo.
“C’è troppo silenzio”.
Per caso si guardò le gambe e si accorse che come il resto del corpo erano fatte di luce bianca. Le sue membra erano addirittura semi trasparenti ed era completamente nuda.
“Non che ci sia tanto da vedere… ormai la mia figura si distingue a malapena”.
Provò a spostarsi nell’immenso cielo senza gravità ma non riusciva a controllare la direzione, rotolava sul fianco per qualche metro e poi si fermava.
“Fantastico, dovrò stare qui per l’eternità e sono già stufa. Se potessi almeno sapere come sta Sefora…”.
Cosa stava facendo? Era andata ad avvertire gli altri?
“Mamma, papà, Damiano… non ho nemmeno potuto dir loro addio”.
Voleva piangere ma non ci riusciva, in quel mondo anormale non esistevano le lacrime; si sarebbe accontentata di un muro da riempire di pugni ma non c’era nemmeno quello.
“Cazzo, cazzo, cazzo! Cosa devo fare? Dove devo andare?”.
Si stava facendo prendere dal panico.
“Se almeno sapessi dove sono e cosa devo fare!”.
Improvvisamente venne attirata verso il basso da una forza potentissima alla quale non poté opporsi in alcun modo; veniva calamitata ad una velocità impressionante che le impediva addirittura di muoversi, un po’ come lanciarsi con il paracadute ma non poter muovere un dito.
“Cosa sta succedendo?!” pensò terrorizzata “Cosa diavolo sta succedendo?”.
Andava sempre più in basso, sempre più velocemente, verso un terreno che non esisteva. Poi, tutto d’un colpo, si bloccò come se fosse andata a sbattere contro un muro.
Prima che potesse capire cosa stava succedendo, dal nulla si materializzò una nube nerastra che si allargava a macchia d’olio nel cielo limpido; si espandeva e regrediva  senza sosta ma dopo ogni ritirata aumentava ancor di più il suo volume. Ad un certo punto, la nebbia prese a vorticare su sé stessa sempre più velocemente fino ad addensarsi con un aspetto umanoide sotto gli occhi stupefatti di Elsa.
Questo fumo nero la guardò e mosse qualche passo verso di lei che, immobilizzata da chissà quale forza, non poteva che assistere impotente all’avanzata di quell’essere dall’aspetto poco amichevole.
Camminava lentamente come se sotto i suoi piedi ci fosse una lastra di vetro, ma Elsa non vedeva nulla, solo il cielo infinito.
Provò a muovere gambe e braccia ma non ne era capace, non poteva nemmeno parlare, poteva solo guardare quel coso che man mano che si avvicinava prendeva una forma più definita.
Si fermò a pochi passi da lei e la fissò con un paio di occhi piccoli, neri e duri, lucidi come due biglie di vetro.
“Benvenuta”.
Elsa era terrorizzata: era nella sua testa! Non aveva mosso le labbra ma le parole risuonarono perfettamente nella sua testa come se le avesse dette!
“No, non sono dentro di te” disse rispondendo ai pensieri che lei aveva fatto “Si chiama telepatia, qui non esiste la parola”.
“Non è più rassicurante” replicò mentalmente.
“Non devi essere rassicurata”.
Lo guardò con diffidenza, studiandolo. Era un uomo, molto magro e stempiato; dalle rughe sul volto gli dava forse sessant’anni.
“Chi sei?”.
“Io sono il Gran Maestro”.
Un sorriso inquietante si allargò sul viso scarno e allungato mostrando dei canini neri.
“Allora i licantropi e i cercatori ti hanno già ucciso se sei qui”.
Si sentì sollevata, ma non durò a lungo.
“Ti sbagli, e tra poco sarò più vivo che mai”.
“Cosa vuoi dire? Parla”.
“Tu pensi che questo sia il regno dei morti, ma così non è”.
La sua voce era pacata, tranquilla, ma nascondeva un’ostilità della quale nemmeno Elsa si rendeva conto; parlava senza lasciar trasparire emozioni, quasi fosse un essere senz’anima, ma il suo ghigno cattivo incuteva timore.
“Dove siamo, allora? E perché non posso muovermi?”.
“Qui siamo a metà strada”.
“A metà tra cosa?” domandò sempre più confusa.
“Tra i vivi e i morti”.
Elsa venne improvvisamente stretta in una morsa invisibile che la teneva così saldamente da stritolarla: oltre a non potersi più muovere, ora sentiva che il proprio corpo, quella sagoma di energia bianca, veniva letteralmente schiacciato nel pugno di un gigante inesistente.
“Cosa… cosa m-mi succede?!” pensò “Parla, mostro!”.
“Sai, io sono qui da tantissimo tempo, così tanto che quasi ho perso il conto degli anni” prese a raccontare con tutta la calma del mondo “E adesso sto per andarmene”.
La guardò, immobile e impotente, e non poté fare a meno di sorridere scoprendo i canini aguzzi.
“Sei stata una degna avversaria, perciò ti spiegherò in breve perché stai per spegnerti completamente. Secoli fa, il mio spirito uscì dal mio corpo; mentre vagavo senza meta e senza limiti fisici, il mio corpo morì e io non potei più farvi ritorno. All’inizio ero spaesato, come te, ma poi scoprii che questo mondo era fatto su misura per quelli come me così come la terra è fatta per chi ha ancora un corpo”.
Prese una breve pausa per avvicinarsi ancora di qualche passo. Non stava più nella pelle e non riusciva proprio a restare in platea quando sul palco stava per compiersi il suo destino.
“Qui c’è tutto e niente, basta la volontà per esaudire i propri desideri. Tuttavia, non è un luogo felice e questo lo senti anche tu. E sì, è freddo. D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Qui ogni anima è destinata a consumarsi nel nulla totale”.
“C-come mai… tu… non sei morto?” chiese cercando di resistere alla presa granitica “P-perché sei ancora q-qui?”.
“Perché i miei seguaci mi tengono in vita: sacrifici, preghiere e… doni molto utili”.
“Spiegati”.
Doveva sapere, voleva sapere. Ormai faticava a esprimere perfettamente i propri pensieri, quel mostro la stava uccidendo.
“Mi mandano delle vite. Umani, nani, satiri, elfi, licantropi…”.
“Maledetto!” esplose “Schifoso bastardo!”.
“Oh, la rabbia ti dona nuova energia” disse per nulla intimorito “Bene, meglio per me”.
“Va’ all’inferno!”.
“Ci sono già. Ma tra poco, grazie a te, potrò finalmente andarmene da qui”.
“C-come?”.
“Assorbirò la tua energia come ho fatto con le altre vite e poi… mi prenderò il tuo corpo!”.
“No! Non puoi farlo!”.
“Questo è da vedere”.
La morsa ferrea la strinse ancora di più.
Terrorizzata, non riusciva nemmeno a pensare a come liberarsi, nella sua mente vedeva solo sé stessa smembrasi in mille pezzi come un chicco d’uva schiacciato sotto i piedi distratti di un bambino.
Tutto divenne bianco, all’istante, e si sentì finalmente libera.
Aveva mollato la presa?
Lo vide e le parve arrabbiato.
Poi si rese conto del perché.
Il suo corpo, sempre che fosse davvero il suo, fluttuava nell’aria diviso in centinaia, se non migliaia, di sfere di luce bianca. Queste si muovevano liberamente nello spazio un po’ come il polline viene trascinato dal vento da fiore a fiore.
Eppure, le sentiva come se fossero tutte unite tra loro. Non come se formassero ancora un corpo ben definito, piuttosto percepiva dei legami di energia tra una sfera e le altre, fili invisibili che le tenevano unite seppur divise.
Così non vedeva più con gli occhi, ma con ognuna di queste biglie lucenti; non aveva né orecchie per sentire né naso per annusare, ognuna di esse racchiudeva in sé i cinque sensi.
“Mi hai… distrutta” pensò senza aver ancora capito cosa fosse successo “Mi hai disintegrata!”.
“Stai zitta, ragazzina!” urlò furioso.
Provò ad afferrare una delle sfere per assorbirne l’energia ma questa si spezzò in centinaia di altre minuscole palline grandi come capocchie di spillo.
Lui restò alquanto sorpreso ma invece di adirarsi ancora di più, accennò un sorriso.
“Avevo fatto bene ad ordinare ai miei seguaci di ucciderti”.
“Perché mi volevi morta?!”.
“Ma come, non lo vedi?” chiese visibilmente seccato “Non vedi cosa puoi fare? È proprio vero che i doni migliori vengono dati a chi non li può apprezzare”.
Quella frase la incuriosì e quegli occhi, neri e cattivi, la spaventarono. Non era esattamente una bella cosa poterli vedere da migliaia di angolazioni diverse.
“Cos’ho di tanto speciale?”.
“Sciocca ragazzina… ancora non hai capito? Tu puoi scindere il tuo spirito!”.
Elsa non comprendeva, era sempre più spaesata. Cosa andava farneticando quel pazzo?
“Da alcuni anni i miei seguaci mi hanno confermato l’esistenza di qualcuno in grado di proiettare il proprio spirito fuori dal corpo. All’inizio credevo che fosse qualcuno capace di usare coscientemente il dono ma poi scoprii che il fortunato, o meglio, la fortunata, era solo una bambina… una certa Elsa Desdemoni”.
Non udendo risposta, continuò il suo racconto.
“Per portare a termine il mio piano senza intoppi era necessario che tu morissi, perciò quando avevi sette anni ordinai un attacco da parte dei mannari per rapirti e ucciderti, ma i licantropi ti difesero bene… compresi i tuoi zii paterni”.
Le sfere di luce ebbero un fremito, smisero per un attimo di fluttuare liberamente e si bloccarono.
“I genitori di Damiano sono morti… per me?”.
“Sì”.
“Tu menti! Se nemmeno io sapevo di avere queste capacità non poteva saperlo nessun altro!”.
“E invece lo sapevano tutti. Per quale motivo credi che ti abbiano sempre proibito di lottare contro i mannari e i vampiri? Non è strano che la figlia di una Desdemoni, allenata dall’infanzia a combattere, non possa farlo?”.
“Non ti credo!”.
“Bugiarda”.
“Taci!” gli ordinò.
Lui, che percepiva quali sentimenti la tormentassero, non la ascoltò.
“I miei uomini fallirono nell’impresa, ma continuarono ad aggirarsi nei dintorni di Villanova per tenerti d’occhio. Non potevo rischiare sorprese quando finalmente i vampiri avrebbero messo le mani sul Necronomicon”.
“Cosa c’entra quello? I mannari lo vogliono solo per il loro elmo magico”.
Il vampiro nero ghignò spaventosamente.
“Sicura?”.
Se Elsa avesse avuto gli occhi, in quel momento li avrebbe spalancati.
“Necronomicon… Il libro delle leggi dei morti”.
“Esatto. L’elmo è solo la loro paga, la caramella che si dà ai bimbi bravi che hanno fatto il loro dovere. Peccato che loro in realtà non abbiano la minima idea del piano originale”.
Elsa a quel punto aveva capito tutto.
“Ti serviva qualcuno di stupido che facesse il lavoro al posto tuo e dei tuoi seguaci; quando hai trovato loro non ti sarà parso vero di poterli comprare così facilmente”.
Lo spirito nero rise di gusto.
“Fu un vero colpo di fortuna!”.
“E mentre loro si scannavano con i licantropi per uno stupido elmo, i vampiri hanno cercato la formula magica che ti avrebbe permesso di tornare in vita”.
“Già, ma ora non ce n’è più bisogno… mi basterà assorbire la tua energia. Per prenderti aspetterò che tu ti dissolva lentamente e quando sarai troppo debole, finalmente sarò libero. Sai, non avrei mai pensato che proprio tu saresti stata la mia salvezza”.
“Non ci contare!”.
“E perché mai? Tu non sai usare il dono! La tua famiglia ha sbagliato a non metterti a conoscenza di questo segreto!” esclamò trionfante.
Le piccole palle di luce cominciarono a vibrare producendo un ronzio assai fastidioso.
“Sta’ zitto!”.
“Ma tu guarda, la lupetta si sta innervosendo” commentò con tono di scherno “Speriamo non morda”.
“Smettila di sfottermi!”.
Non lo sopportava più, non riusciva davvero a farsi piacere quel ghigno arrogante e quegli occhi totalmente neri che sembravano attraversarla da parte a parte… avrebbe voluto cavarglieli con un uncino quegli occhi maledetti. Avrebbe voluto vederlo soffrire come se un ferro rovente gli si fosse conficcato nelle orbite.
“Aaarg!” si lamentò improvvisamente “I miei occhi!”.
Elsa perse per un attimo la concentrazione sui suoi pensieri e il vampiro subito smise di gemere dal dolore; un liquido scuro gli colava sul viso e gocciolava nel nulla sotto i suoi piedi sospesi a  mezz’aria.
“Cos’hai fatto?!” urlò fuori di sé “Cosa diavolo mi hai fatto?!”.
Elsa si accorse che lo sguardo spaesato di lui era rivolto verso il vuoto, non fissava nessuna delle sfere.
Era cieco.
“Cagna maledetta! Allora sai usare il dono!”.
Elsa non ci capiva niente. Lei non aveva fatto nulla, aveva solo desiderato di fargli male ed era successo.
“Quell’idiota di Gaspare avrebbe dovuto ammazzarti” sibilò respirando affannosamente per il dolore “E io avrei dovuto attaccarti appena ho avvertito la tua presenza in questo mondo”.
Il suo viso si trasformò in fumo denso e in pochi secondi ritornò come prima, senza alcun difetto. Gli occhi ci vedevano di nuovo e la guardavano con rancore.
La licantropa capì che non avendo limiti fisici poteva creare qualunque cosa solo con la forza di volontà: quando venne stritolata si immaginò un chicco d’uva che esplodeva e così era successo, dividendosi in migliaia di pezzi; poi aveva desiderato non solo di accecare il Gran Maestro ma di fargli addirittura provare dolore, e anche questo era accaduto.
Sentì nascere in lei la speranza di potercela davvero fare, e se lui poteva trasformare il proprio corpo, poteva farlo anche lei.
Si concentrò e immaginò che i fili eterei che collegavano ogni parte di sé si accorciassero sempre di più e che i globi di luce si unissero come fanno le gocce d’acqua quando sono vicine; ripensò al proprio corpo e ne modellò la forma come fosse di creta. Quando aprì gli occhi, era tornata come prima, tutta d’un pezzo.
Sì, poteva batterlo.
Lo avrebbe ucciso e sarebbe tornata indietro.
Avrebbe distrutto il Gran Maestro e sarebbe tornata dalla sua famiglia, da Chan e soprattutto da Sefora.
La voglia di rivedere le persone che amava le diede la spinta di cui aveva bisogno per contrattaccare e vincere contro quel mostro che adesso la guardava con sgomento.
“Pensavi di poter vincere facilmente, vero? Credevi che io mi arrendessi? Non dovevi cantar vittoria così presto!”.
Lui digrignò i denti e arretrò ma ormai era tutto inutile: lui non aveva abbastanza energia mentre Elsa ne aveva troppa; lui si stava estinguendo e la sua energia non era altro che vapore scuro e sporco, lei invece brillava di una luce pura e calda.
“Troppe vite sono state sacrificate per te, mostro! La mia non si aggiungerà all’elenco! Vendicherò tutti quelli di cui ti sei nutrito!”.
“Cosa pensi di fare? Sei troppo inesperta, perderesti!” bleffò.
In risposta lei pensò al suo braccio come ad un palloncino e lo gonfiò a tal punto da farlo esplodere.
Finalmente aveva l’occasione di combattere senza che qualcuno la fermasse, senza che le venissero imposti dei limiti; per la prima volta, poteva decidere da sé.
Lui provò a ricreare l’arto amputato ma la ferita si cicatrizzò e non riuscì più a far nulla. Riprovò ancora ma il controllo mentale di Elsa era così saldo che non poteva contrastarlo.
“Anche se mi uccidi non salverai la tua famiglia!”.
Il moncherino cominciò a bruciare e a consumarsi come un ceppi di legno.
“Ora stanno combattendo contro i mannari e tu non tornerai in tempo per fermare il loro massacro!” disse tentando di distrarla.
“Allora sarà meglio che mi sbrighi” rispose lei senza raccogliere la provocazione.
Le gambe del vampiro si torsero all’indietro con un sonoro schiocco di ossa rotte, ossa che lei aveva immaginato apposta per l’occasione, strappandogli un grido di dolore.
“Questo è per tutti i licantropi morti per salvarmi!”.
La pelle del braccio rimasto si scuoiò da sola fino alla spalla, poi i muscoli fecero la stessa cosa staccandosi dall’osso.
“Questo è per la mia famiglia!”.
Si sentì ribollire di rabbia, ne era accecata; voleva fargli privare il dolore più intenso di  tutta la sua vita da parassita.
Centinaia di aghi si materializzarono e gli si conficcarono nel torace da parte  a parte procurandogli attacchi di convulsioni e urla.
“Basta! Basta!” implorò.
“Quante persone hai ucciso? Quante persone hai fatto soffrire? Perché dovrei avere pietà di te?”.
“I licantropi sono comunque spacciati, con la mia morte non ci guadagni nulla!”.
“Niente di più sbagliato” sibilò “Non immagini da quanto tempo io desideri di eliminare il responsabile di tutto questo… e il momento è giunto!”.
Fece un respiro profondo e liberò la mente per l’ultimo attacco.
Affiorarono ricordi di lei e di Sefora: il primo incontro, le passeggiate, gli allenamenti, il rapimento, la prigione, il primo bacio, le ferite…
Per colpa sua, Sefora aveva dovuto soffrire oltre ogni limite: aveva dovuto prendere le botte, subire incantesimi, sopportare la fame e la sete, la solitudine, lo sconforto.
Lo odiava. Qualunque fosse il suo vero nome e la sua vera identità.
Doveva farlo sparire per sempre, non poteva rimanere nemmeno un brandello del suo spirito malvagio.
Non le pareva neanche vero che il suo nemico, colui che l’aveva fatta patire così tanto, adesso implorasse pietà e non provasse nemmeno a reagire. Quel bastardo era così avvezzo a farsi servire che aveva perso la tempra originaria, sempre che ne avesse avuta una.
“Questo è per Sefora… e per me!”
Il vampiro venne scosso dalle convulsioni e dal suo ventre si espanse una luce abbagliante che ardeva le sue membra come fosse stato un foglio di carta.
“Aaaah! Maledettaaa!”.
Una fiamma divampò dal suo corpo bruciandolo tra grida atroci e sibili disumani:
“Che tu sia dannata!”.
Le sue carni nere emanavano un puzzo terribile e in pochi secondi di urla terrificanti, scomparvero senza lasciare nemmeno un mucchietto di cenere.
Sembrava tutto calmo. Elsa si rese conto che la sensazione di angoscia che aveva provato dal primo istante era scomparsa nel nulla.
Credeva che tutto fosse finito, ma qualcosa prese improvvisamente il controllo del suo corpo e la trascinò lontano, come un uragano trasporta un foglio di giornale in un vortice turbolento.
La sua figura venne distorta e si trasformò in un fulmine di luce purissima che si schiantò contro il suolo con un violentissimo impatto e un fragore assordante.
Ci fu un secondo di totale silenzio e immobilità, poi sentì una fitta al petto che la lasciò senza fiato, come una scossa.
Il suo cuore riprese a battere.





















Angolo dell'autrice:
Davvero pensavate che l'avrei lasciata morire? ;)

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Capitolo 27
*** Nessun segreto ***


Le fitte al petto le fecero inarcare la schiena e aprire gli occhi.
Tutto si muoveva attorno a lei, ma i suoni  le arrivavano attutiti e le immagini distorte. A occhio e croce, però, c’era un gran bel daffare lì vicino.
«Si è svegliata! Si è svegliata!» urlò qualcuno.
«Ha aperto gli occhi!».
«E’ viva!».
Tutte quelle esclamazioni fatte da voci sconosciute la intontivano  e la innervosivano terribilmente ma non trovava le forze per farle smettere.
Con le mani toccò il suolo sentendo sotto le dita un soffice manto erboso.
Voltò la testa a destra e a sinistra e man mano che la vista tornava nitida, si accorgeva di non essere accanto alla stradina dove aveva teso l’agguato al traditore.
Al ricordo della lotta con Gaspare una fitta alla testa la costrinse a portarsi le mani alle tempie e a stringere i denti dal dolore; tutti i ricordi, prima molto vaghi, le tornarono in mente come se stesse vedendo un film: l’imboscata, tutto lo scontro, il sangue, la dimensione spiritica, il Gran Maestro, la rabbia.
Qualcuno le toccò il braccio ma lei si scansò e gli ruggì contro.
«Sembra non stare bene» commentò qualcuno.
«Dopo quello che ha passato» rispose un altro.
«Lasciamola stare per un po’».
«Buona idea».
Chi diavolo era tutta quella gente? Dal loro odore sembravano licantropi ma non riusciva ancora a vedere bene perciò non era in grado di riconoscerli.
La luce del sole la costrinse a chiudere gli occhi e a girare il volto. Quanto tempo era passato?
Si distese su un fianco e poi si mise a sedere barcollando un po’. Si massaggiò la faccia e le tempie, poi si decise a guardarli in faccia uno per uno: erano tutti licantropi e cercatori di Villanova, gente che conosceva.
Subito l’ansia si impadronì di lei.
“Dov’è mia mamma? E mio papà? Sefora? Chan?”.
Non c’era nessuno di loro attorno a lei.
Si alzò a fatica e anche se sentiva le gambe molli, decise che doveva andare a cercarli. Avanzò qualche passo ma subito venne bloccata da alcuni uomini.
«Sei debole, non ti sforzare».
Lo guardò senza proferire parola.
Ma che cazzo voleva da lei?
«Resta seduta, ti porteremo noi quello che vuoi».
Non lo ascoltò e proseguì verso una discesa che collegava la radura nella quale si era svegliata a una molto simile e si accorse, non senza stupore, che distante meno di un chilometro c’erano le rovine di un castello a lei fin troppo familiare.
“E’ quello dei mannari… Abbiamo vinto? Cosa è successo?”.
La tranquillità di tutti i licantropi le suggeriva che sì, avevano vinto la battaglia.
Guardò giù e vide che c’erano delle persone, compresi  i suoi genitori. Loro la videro arrivare e in un secondo furono da lei.
«Elsa!» esclamò sua madre gettandole le braccia al collo «Oddio, Elsa! Avevamo paura che non ti risvegliassi più!».
«Gioia, non essere catastrofica…» disse il marito «Si è appena svegliata, accogliamola con un sorriso».
Lui le strinse entrambe in un abbraccio, ma ben presto i due genitori si accorsero che la figlia non ricambiava in alcun modo.
«Credo che mi dobbiate delle spiegazioni» disse con voce roca «Partendo dall’inizio. Non tralasciate nulla».
«Elsa, di cosa stai parlando?» domandò Fulvio.
«Perché non lo chiedi a tuo fratello? Oh già, che sbadata, è morto con sua moglie per proteggere me».
«Allora lo sai» sussurrò con un fil di voce.
«Già, lo so, ma avrei preferito venirne a conoscenza da te invece che dal Gran Maestro, il vampiro che ha organizzato questo gran casino».
Gioia strinse la mano del marito.
«Elsa, ci dispiace…».
«Già, anche a me» disse interrompendola «Me lo avete sempre nascosto, mi avete mentito!».
«Era per il tuo bene!».
«Bugiarda!» l’accusò «Avete preferito omettere perché sarebbe stato più facile per voi tenermi a bada! L’avete fatto per voi stessi!».
«Elsa, stai farneticando!».
«No invece!» urlò fuori di sé «Non sono mai stata più lucida di così! Non ho mai visto le cose con tanta chiarezza: tutte quelle restrizione, quegli impedimenti, quelle regole, la sorveglianza pressoché costante… tutto per evitare che io prendessi coscienza della mia natura».
Sua madre mosse un passo verso di lei.
«Credici se ti diciamo che l’abbiamo fatto per il tuo bene e non per nostra comodità» la supplicò «Se tu avessi scoperto le tue capacità avresti rischiato di cacciarti nei guai».
Sentendoli urlare, gli altri licantropi erano accorsi e li osservavano da lontano, facendo finta di non badare al loro battibecco.
Purtroppo per la privacy della famiglia, non sarebbero serviti chilometri di foresta per impedire all’udito finissimo degli uomini-lupo di ascoltare le loro parole.
«Se mi aveste educata a usare coscienziosamente il dono non avrei corso rischi, invece avete preferito tacere e per colpa vostra sono quasi morta!».
Quest’ultimo sfogo, più rabbioso dei precedenti, ferì profondamente i due genitori.
«Quando sono finita nel mondo spiritico, non sapevo  dov’ero, cosa stesse accadendo e soprattutto non sapevo come difendermi da quel mostro che voleva assorbire la mia energia e rubare il mio corpo!».
Senza che i litiganti se ne accorgessero, agli spettatori si unirono anche Chan, Sefora e i suoi genitori.
La ragazza avrebbe voluto intervenire per placare gli animi ma il buon senso la trattenne: dovevano vedersela tra loro.
«Siete dei bugiardi!» li accusò ancora Elsa.
«Nemmeno tu sei stata tanto sincera!» esplose il padre, rosso in viso per la rabbia di vedersi trattato tanto male «Non ci hai detto che stai assieme alla cercatrice!».
Elsa sbiancò di colpo.
Gioia spalancò gli occhi, incredula.
Tutta la piccola folla si voltò verso Sefora che era impietrita dalla paura.
La ragazza-lupo si girò per la prima volta a guardare le persone che ascoltavano i loro discorsi e vide che Sefora si mordeva un labbro per non piangere.
Sentì improvvisamente caldo.
«Cos’ hai fatto?!» ruggì contro suo padre.
Lui, pentitosi di quello che aveva appena detto, tentò in tutti i modi di scusarsi ma fu inutile.
«Elsa, davvero, mi dispiace» le disse «Io… io non volevo dire questo».
«A no? E cosa avresti voluto dire, allora?».
Gioia intervenne.
«Elsa, calmati…».
«No che non mi calmo! Erano affari nostri e lui l’ha urlato ai quattro venti!».
Lei la prese per il braccio nel tentativo di avvicinarla e farla tranquillizzare ma la ragazza  si liberò con uno strattone e le ringhiò contro.
Senza più degnarli di uno sguardo, andò fino da Sefora e la prese per mano allontanandola dalla folla curiosa e dai suoi genitori che la guardavano con un misto di rabbia e preoccupazione.
Le fece strada senza sapere nemmeno lei dove portarla e si decise a fermarsi solo una volta raggiunta una macchia d’alberi più rada del resto del bosco.
Sì, lì sembrava abbastanza lontano e tranquillo.
Voleva parlarne con Sefora ma lei le si gettò al collo piangendo. La strinse tra le sue braccia e la cullò dolcemente finché i singhiozzi non diminuirono.
«Hey, basta piangere» sussurrò «le tue calde lacrime faranno restringere la mia maglietta. Hai idea di quanto faccia fatica a trovare vestiti che mi piacciano?».
Si accorse che la battuta aveva ottenuto l’effetto sperato perché Sefora aveva accennato una piccola risata mischiata al pianto.
Le accarezzò la testa passando le dita tra i capelli, meravigliandosi di quanto fossero tornati belli dopo un solo giorno di libertà.
Ma cosa era successo mentre lei non c’era? Avrebbe voluto chiederlo, ma parlare dell’accaduto con Sefora era assai più urgente.
Le lasciò un piccolo bacio sulla testa e la sentì rilassarsi un po’.
La maga appoggiò la testa al suo petto asciugandosi le lacrime e si lasciò cingere dalle braccia protettive della licantropa.
«Elsa» sussurrò con voce ancora insicura per via del pianto.
«Dimmi».
«Elsa, io non so come abbia fatto a scoprirlo. Quando hai fatto quella cosa e sembravi morta, io e Chan ti abbiamo portata dagli altri. Io mi sono presa cura di te secondo le istruzioni del maestro ma ti assicuro che le mie premure non erano eccessive».
La ragazza la strinse ancor di più, le faceva una tenerezza indescrivibile.
«Sefora, non è colpa tua» la rassicurò «Deve averlo capito in qualche altro modo».
«Come faremo?».
«Come fanno tutti» rispose con naturalezza.
«Non credo sia possibile, tuo papà non sembrava affatto contento di averlo scoperto».
Elsa sospirò: aveva ragione.
«Ti chiedo scusa per quello che ha detto, non spettava a lui parlare».
Sefora alzò il viso e le baciò le labbra, sentendo di averne bisogno ora più che mai. Portò le mani tra i capelli ricci della ragazza-lupo e vi affondò le dita per attirarla a sé il più possibile.
Le mani dell’altra scesero sui suoi fianchi mentre la sua lingua si insinuava tra le labbra rosee delle cercatrice.
Il bacio si faceva sempre più passionale e le due si staccavano di tanto in tanto solo per prendere un breve respiro e tornare poi a nutrirsi l’una delle labbra dell’altra.
Le mani di entrambe scorrevano sui loro corpi ma non c’era alcuna intenzione di andare oltre: il sesso non era nelle loro intenzioni, desideravano solo essere sicure che l’altra ci fosse, volevano essere certe di averla accanto, di non farla scappare.
Sefora staccò le labbra da quelle della licantropa e sussurrando a pochi centimetri dal viso dell’altra fece una domanda che da un po’ la tormentava.
«Elsa… quando sei quasi morta non hai finito una frase. Cosa volevi dirmi?».
La ragazza avvampò e d’un colpo sentì la gola secca.
«Io… io volevo dirti che credo di amarti» disse tutto d’un fiato , ma resasi conto di quanto suonasse strana una confessione d’amore basata su un “credo”, si affrettò a spiegare.
«Non so se l’amore possa nascere in così poco tempo, ma non ho mai provato nulla del genere per nessuno. Senti» disse prendendole la mano e poggiandosela sul petto, sopra il cuore «Ti giuro che non ha mai battuto così per nessuna persona al mondo».
Gli occhi verdi di Sefora tornarono umidi per l’emozione.
Aprì le labbra in un sorriso meraviglioso senza sapere bene cosa dire. E poi, cosa c’era in fondo da dire? Nemmeno lei, come la licantropa, sapeva con esattezza cosa fossero quei sentimenti che provava.
Una cotta? Una semplice infatuazione? Un amore appena sbocciato?
Non ne aveva la minima idea.
«Anche il mio cuore batte così da quando ti conosco, Elsa».
Le prese una mano e ne baciò il palmo.
Era caldo, bollente come tutto il resto del suo corpo.
«Allora… noi stiamo insieme?» chiese imbarazzata la ragazza-lupo.
Sefora rise per l’espressione di Elsa.
«Sì, direi di sì» rispose strappandole un sorriso a trentadue denti.
L’altra la prese in braccio dalla felicità, ma essendo ancora stanca per gli sforzi fatti, perse l’equilibrio e cadde indietro con conseguente risata di entrambe.
«Elsa, non devi sforzarti» la riprese bonariamente «Hai già fatto abbastanza».
«Abbastanza?» chiese confusa.
«Tu non lo sai, ma è grazie a te se abbiamo vinto».
«Cosa?!» esclamò mettendosi a sedere.
Una mano dalle dita affusolate le si posò sul petto e la invitò a sdraiarsi di nuovo sull’erba.
«Quando sei finita nel mondo spiritico, io e Chan ti abbiamo portata dagli altri e per strada lui mi ha spiegato a grani linee cosa stesse accadendo».
Elsa le prese la mano e ne intrecciò le dita con le sue mentre ascoltava il racconto di Sefora.
«Quando siamo arrivati là, i licantropi avevano appena attaccato: Chan non aveva fatto in tempo ad avvertirli. Pensavamo fosse troppo tardi, ma dopo qualche minuto, da una stanza del castello si è sprigionata una luce accecante e i nostri sono riusciti a sopraffare i nemici».
«Chan ti ha parlato del Gran Maestro?».
«Un po’. Nessuno era veramente certo della sua esistenza finché non ne abbiamo ritrovato la mummia nella stessa stanza da cui si era sprigionata la luce».
«Quindi pensa che io abbia fatto qualcosa».
«Lui sa che hai combinato qualcosa».
Elsa rimase qualche secondo a pensare. Avendo ucciso il Gran Maestro, aveva eliminato la mente e forse distrutto dei vincoli magici essenziali per la vittoria dei vampiri.
«E’ tutto finito? Non c’è più nessuna guerra?».
«No» rispose Sefora accarezzandole un livido sul viso che stava già guarendo «dobbiamo prendere il Necronomicon».
Se ne era quasi scordata.
Maledetto libro, era cominciato tutto a causa di esso.
«Non lo hanno trovato?».
«In realtà sanno dov’è ma non riescono a prenderlo».
Elsa non capiva.
«Spiegati».
La cercatrice si mise a sedere per evitare un raggio di sole che da un po’ la tormentava.
«Il Necronomicon è nei sotterranei, precisamente tra le mani della mummia del Gran Maestro».
Pure Elsa si alzò, incredula.
«Sefora, io ci capisco sempre di meno» disse massaggiandosi le tempie «Cos’è questa storia?».
«Da quello che mi ha raccontato Chan, il Gran Maestro è morto mentre si trovava nel mondo spiritico; il suo corpo è stato mummificato da qualche suo seguace e, nonostante lui sia definitivamente morto, conserva un’energia strana».
Elsa trovò corrispondenza tra la teoria di Chan e la storia raccontatale dal vampiro ed esortò Sefora ad andare avanti.
«Pare che il suo cadavere, non decomponendosi completamente, funga da batteria e alimenti un incantesimo che impedisce di prendere il Necronomicon e riportarlo a Roma».
«E cosa si può fare? Se esistono altri vampiri che lavoravano per il Gran Maestro, certamente vorranno impadronirsi di nuovo del libro maledetto e di sicuro sanno come disattivare l’incantesimo!».
«E’ quello a cui abbiamo pensato tutti» rispose l’altra «e c’è una cosa alla quale abbiamo pensato io e Chan ma che non abbiamo detto a nessuno».
«Non tenermi sulle spine».
Sefora si asciugò la fronte realizzando solo in quel momento che nonostante fosse piena estate, l’ansia la faceva sudare più del caldo soffocante.
 
 
 


 
 
«Quindi sarebbe questo il posto» rifletté Elsa a voce alta.
«Sì. Fa uno strano effetto, vero?».
«Decisamente».
La ragazza-lupo avanzò di qualche passo nella stanza circolare illuminata da una luce violacea. Diversamente dal resto del castello si era conservata bene: le pareti non mostravano né crepe né muffa e il pavimento non era disseminato di calcinacci.
Su un trono addossato alla parete, stava accomodata la mummia del Gran maestro, sorridente come la prima volta che l’aveva visto.
La pelle raggrinzita ne copriva il volto sfigurato da un ghigno inquietante, nelle orbite brillavano due pietre nere che assieme alle folte sopracciglia rendevano angosciante il suo sguardo vuoto.
Elsa, tuttavia, non fu attirata particolarmente dal suo viso ma dal suo petto: dove avrebbero dovuto esserci cuore e polmoni, c’era una strana sostanza viola che irradiava luce propria e illuminava tutta la stanza proiettando sui muri le ombre delle visitatrici.
«Ecco» disse Sefora indicandole la mummia «il Necronomicon è quello che tiene tra le mani».
Le dita ossute ghermivano un libro non molto grande e chiaramente antico e le unghie nere erano quasi conficcate nella copertina di cuoio.
«Me lo immaginavo… diverso».
«Più grande? Più bello? Più strano? Sì, pure io».
In effetti, il Necronomicon appariva insignificante. Un semplice libro che, a parte un pentagono disegnato sulla copertina, non aveva nulla di particolare.
«Ma sei sicura che sia quello?».
«Sì, un cercatore che aveva lavorato a Roma e che lo aveva custodito se ne è accertato».
Elsa storse il naso. Possibile che quel mucchio di polvere e muffa avesse causato così tanti problemi?
«Sefora, ti ricordi quel libro che il prete di Milano aveva nascosto?».
«Sì».
«Non era forse più pericoloso? Insomma… era stato scritto da un demone, mentre il Necronomicon è stato scritto da diverse persone».
«Credo che la sua pericolosità risieda in quello che contiene, non in chi l’ha scritto. Con questo libro è possibile riportare in vita i morti».
Elsa annuì.
In quel momento però non c’era tempo per pensare, si doveva portare via il libro.
«Non mi hai ancora spiegato in cosa consiste esattamente il tuo piano».
«Io e Chan abbiamo pensato che se sei riuscita ad ucciderlo, puoi anche rubargli il Necronomicon».
«Sì, ma come? Mi hai detto che gli altri che ci hanno provato sono rimasti ustionati appena hanno avvicinato le mani!».
«E’ vero, ma gli altri non sono te!».
L’altra si portò le mani alla faccia. Cosa poteva fare? Si sentiva spaesata come non mai e Sefora, intuendo il suo turbamento, l’abbracciò.
«Nessuno ti ha mai insegnato a usare il dono e nonostante ciò hai ucciso il Gran Maestro. Chan dice che devi liberare il tuo spirito per farcela».
«E come si fa? Cosa vuol dire?» domandò stizzita «Perché Chan non è mai esplicito?».
«Bella domanda, nemmeno io so cosa intendesse di preciso».
“Liberare lo spirito… liberare lo spirito… dovrei uscire di nuovo dal mio corpo? E se non tornassi più indietro? Non posso farlo” pensò.
Avvertiva una certa tensione dentro e attorno a sé, una tensione angosciante: quando erano tornate, avevano attirato sguardi stupiti e curiosi, qualcuno disgustato, qualcun altro confuso. Le avevano lasciate andare al castello senza proferire nemmeno una parola, quasi non parlassero la stessa lingua e dovessero comunicare solo a gesti.
“La smetterebbero di fare così se recuperassi il Necronomicon?” si domandò “Tornerebbe tutto come prima? Mi direbbero in faccia quello che pensano di me?”.
Quella fase di stallo la faceva sentire lontana dagli altri licantropi, non poteva sopportarlo; per farsi accettare doveva camminare a testa alta e non mostrare debolezza, doveva compiere un atto di grande coraggio e il recupero del libro era l’occasione perfetta.
Doveva farlo per sé stessa e per Sefora, si sentiva in obbligo di tirarla fuori dal guaio in cui suo padre l’aveva cacciata.
Sciolse l’abbraccio e prese il viso di Sefora tra le mani.
«Se mi succedesse qualcosa, promettimi che non ti farai schiacciare da loro».
«Lo prometto. E tu giura che farai di tutto per tornare da me».
«Lo giuro» sussurrò sulle sue labbra «Farò qualunque cosa».
La baciò, lentamente, venerandone la bocca il più a lungo possibile, sperando che quell’istante non finisse mai.
«Adesso vado».
«Sì» rispose Sefora accarezzandole il volto «Vai e torna da me».
Elsa le prese le mani e le baciò, poi si voltò verso la luce viola che illuminava con la sua aura di morte la mummia del Gran Maestro.
I piedi le sembravano pesanti tonnellate e all’improvviso le si seccò la gola.
Allungò una mano verso la luce percependo un calore bruciante ma non si fermò; lentamente la spingeva avanti per raggiungere il libro maledetto mentre il dolore sempre più intenso le dava l’impressione di consumarle la carne. Strinse i denti ma il calore era troppo, insopportabile, sembrava di affondare la mano nella lava.
“Libera lo spirito, libera lo spirito, libera lo spirito” si ripeteva come un mantra “Libera lo spirito, libera lo spirito…”.
Pensava quelle parole senza sortire alcun effetto, anzi, provava sempre più dolore. Stava per mettersi a piangere, ne era certa: sulla pelle arrossata erano apparse vesciche purulente sul punto di scoppiare e si stavano espandendo sul braccio.
“No, no, no!”.
Era disperata ma non riusciva ad allontanarsi, era bloccata.
Come nel mondo spiritico.
Copiose lacrime le scorrevano sul viso senza che potesse controllarle e una vescica era scoppiata mettendo a nudo la carne viva che sanguinava colando per terra e seccandosi immediatamente.
In quel momento provava soltanto terrore, sudava freddo dalla paura, sentiva di essere sul punto di svenire.
Il respiro si fece affannoso, la vista sfocata, i rumori ovattati e all’improvviso l’insopportabile calore scomparve. Una fioca luce biancastra avvolse tutto il suo corpo dandole un’anormale sensazione di calma: le dita sanguinanti non sentivano più dolore e poterono raggiungere con facilità il libro; ne tastarono la copertina, dura e ruvida, e poterono strappare il Necronomicon dalle mani ossute e artigliate del cadavere.
Appena strattonò il libro verso di sé, la luce viola perse intensità e si ridusse al solo torace della mummia, così come l’aura lattiginosa che si dissolse nell’aria come vapore.
Tremante e incredula, Elsa si guardò la mano destra: i bubboni si stavano riassorbendo e la pelle ricresceva dove era stata bruciata, ricoprendo i muscoli.
In pochi secondi guarì ad una velocità strabiliante anche per un licantropo.
«Elsa, Elsa!».
Si voltò spaventata.
A causa del ronzio nelle orecchie non si era accorta che Sefora la stava chiamando e che per attirare la sua attenzione aveva dovuto scuoterle le spalle.
Deglutì e prese un bel respiro.
«Ce l’hai fatta! L’hai preso!».
Annuì guardandola ancora un po’ smarrita.
«Cosa è successo?» domandò con voce roca.
«Ma come, non hai visto?».
«Sì, intendevo: come è successo? Perché ce l’ho fatta?».
Sefora alzò le spalle.
«Non lo so, ma è incredibile».
La ragazza-lupo alzò la mano destra e le mostrò il Necronomicon.
Da quando l’aveva toccato, avvertiva l’insana voglia di aprirlo e leggerlo dalla prima all’ultima pagina. Sarebbe stato pericoloso anche solo sfogliarlo?
Si guardarono.
«Elsa, non credo sia una buona idea…».
«Lo so, ma con tutto quello che abbiamo passato a causa sua, non credi sia un nostro diritto leggerlo? Non abbiamo il diritto di sapere per cosa abbiamo rischiato di morire?».
Aveva un strana luce negli occhi che mostrava una curiosità morbosa e pericolosa, una curiosità che la contagiò all’istante.
«Aprilo» disse affiancandosi a lei «Aprilo e leggiamolo».
 








Angolo dell'autrice:
Il momento dell'outing delle due ragazze è arrivato e ha creato grandi tensioni. 
Il Necronomicon è stato preso e addirittura letto... porterà a grossi guai? Per scoprirlo, leggete il prossimo capitolo!


Ignis_eye


P.s: al contrario delle altre volte, non vi toccherà aspettare a causa di ritardi: ho finito di scrivere tutti i capitoli di questa storia, perciò gli aggiornamenti saranno regolari :)

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Capitolo 28
*** Il dono ***


Appena uscirono dal castello, mano nella mano, con il Necronomicon in bella vista, tutti si voltarono a guardarle lasciando perdere quello che stavano facendo.
Nessuno si mosse, anche la brezza che fino ad allora aveva mosso le fronde degli alberi si fermò.
«Beh?» domandò Elsa «Il mannaro vi ha mangiato la lingua?».
Un brusio ruppe il silenzio. Tutti parlavano tra loro indicandole e guardandole con incredulità.
«Mi aspettavo un’accoglienza diversa» confessò Elsa a Sefora, sussurrandole all’orecchio.
«Abbi pazienza, dai loro un po’ di tempo» rispose tranquillizzandola.
Chan si fece strada verso le due e senza dire una parola abbracciò Elsa fino a stritolarla.
«Maestro, anche io sono felice di essere viva, ma se non mi lasci finirò nel mondo spiritico per l’ultima volta» gli disse ridendo.
«Quanto ho avuto paura! Quando vi ho viste entrare nel castello ho temuto di non rivedere più nessuna di voi!».
La ragazza si divincolò e si allontanò di un passo.
«Maestro, cosa è successo?» domandò senza mostrare più l’allegria di prima «E sii chiaro».
Lui sospirò.
«Forse è il caso che andiamo in un posto più… tranquillo» disse alludendo agli sguardi inquisitori dei licantropi.
«Va bene, andiamo là dietro» propose indicando una parete crollata del castello «dovremmo poter discutere in pace».
Chan annuì; guardò i licantropi e poi si rivolse a Sefora:
«Vieni anche tu».
Non gli andava di lasciarla sola tra le grinfie degli altri e, sebbene Elsa non avesse detto nulla, sapeva che gli era grata per averlo fatto.
Camminarono fin dietro la parete e si sedettero all’ombra di essa. Elsa notò con un certo disgusto che a pochi metri da loro c’era una mano tra l’erba. Allungò il collo per vedere se fosse di un mannaro o di un vampiro ma si accorse che il resto del corpo mancava.
«Maestro, voglio sapere tutto riguardo il dono. Dall’inizio alla fine, senza tralasciare nessun dettaglio».
Lui annuì, si grattò il mento e cominciò.
«Quello che viene comunemente definito “il dono”, non è altro che la capacità di scindere corpo e spirito. Mi spiego meglio: normalmente lo spirito delle persone è nel loro corpo e lì resta fino alla morte; è vero che attraverso i sogni l’anima trova il modo di espandersi verso il mondo immateriale ma è una situazione temporanea e incontrollabile. Tu, contrariamente a tutti, o quasi tutti, non hai questo limite. Quando sei stata messa sotto pressione da Gaspare e non ce l’hai più fatta a resistere allo stress mentale, il tuo spirito è “evaso” dal tuo corpo. Hai incontrato il Gran Maestro e, sfruttando il tuo potere, hai plasmato a piacimento il mondo in cui ti trovavi, vero?».
«Sì».
«Bene. Questo significa che il tuo potere è molto forte».
«Ma io non sapevo come fare, accadeva tutto senza che io potessi controllarlo».
«E’ normale: non hai mai fatto pratica, per te era tutto nuovo. Nonostante ciò, sei riuscita a vincere contro il Gran Maestro per ben due volte».
«Sì, ma come ho fatto?».
«La prima volta, nel mondo degli spiriti, hai modellato l’energia che lo compone per distruggerlo; non chiedermi altri dettagli perché non li conosco, nessuno li conosce».
«Prima» intervenne Sefora «Elsa stava per essere bruciata viva, invece si è illuminata di bianco e oltre ad aver preso il Necronomicon è guarita in un secondo da tutte le ustioni».
«Questo è successo perché il suo spirito si è espanso per penetrate la corazza energetica della mummia e curare le sue ferite».
«Maestro, come è possibile?».
«Non so nemmeno questo: il dono è assai raro e non abbiamo molte informazioni a riguardo, mi dispiace».
La guardò negli occhi e tutta la sua curiosità insoddisfatta gli pesò parecchio, sebbene non fosse colpa sua.
Strappò un ciuffo d’erba e si mise a giocherellarci, deciso a raccontarle qualcos’altro che potesse interessarle.
«Ricordi quando da bambina mi parlavi di sogni particolarmente vividi? O quando Sefora si metteva in contatto con te mentre era prigioniera dei lupi mannari?».
Lei annuì.
«Nemmeno il mago cercatore più bravo avrebbe potuto collegarsi così facilmente a te se tu non fossi predisposta a ciò. Tutti i tuoi sogni ti sembrano così reali perché per te lo sono: quando dormi il tuo spirito esce quasi completamente dal tuo corpo ed entra in contatto così profondamente con il mondo onirico e spirituale che ti pare di essere lì fisicamente».
«Questo però non spiega come mai anche Sefora fosse così reale nei miei sogni. Intendo dire che lei non dovrebbe ricordare nulla di quello che accadeva in sogno perché lei non ha il dono».
«E’ qui che ti sbagli».
Elsa si voltò di scatto per guardare l’altra e non poté non vedere quanto quell’affermazione la spaventasse.
«Chan, sputa il rospo».
«Anche lei ha il dono. Non è sviluppato come in te, certo, ma lo ha comunque. Ci ho messo parecchio a capirlo, a differenza di tuo padre che l’ha scoperto subito».
«Cosa?!» esclamò allarmata «Maestro, spiegati! E come fai ad essere così calmo?!».
Tutta la tranquillità di Chan la innervosiva. Involontariamente affondò le unghie nella copertina del Necronomicon e improvvisamente si ricordò di averlo ancora in mano.
Insospettita, lo appoggiò a terra e subito si sentì meglio.
Maledetto libro, era quello a renderla così aggressiva.
Stava per scusarsi ma Chan, che aveva già capito, le sorrise comprensivo.
«Adesso vi spiego tutto. Quando hai cominciato a fare gli incubi, tuo padre è venuto da me per parlarne. Mi ha descritto cosa sognavi ogni notte e mi ha chiesto in prestito un libro sull’argomento. Quando l’ha riportato era evidentemente scosso ma non mi ha voluto dire niente, ha fatto finta che andasse tutto bene. Curioso e preoccupato, l’ho letto anche io e quello che ho trovato… non me lo sarei mai potuto immaginare».
Non sapeva come andare avanti, in un certo senso si sentiva quasi in imbarazzo.
«Vai avanti» lo esortarono in coro le due ragazze.
«Ecco… c’era un capitolo in cui si parlava di “anime complici” o “anime complementari”. Il testo sostiene la possibilità che due persone con il dono, incontrandosi in determinate situazioni di stress emotivo e psicologico, possano instaurare un legame che le unisce per l’eternità».
«Ah» disse Elsa avvampando «Tipo…».
«Sì, tipo l’amore. Pensando a come hai conosciuto Sefora, alla vostra improvvisa amicizia, ai sogni che vi univano, a tutto quanto… lui l’ha capito, forse anche prima che lo capiste voi due».
Ci fu un minuto di silenzio nel quale Elsa provò a immaginare suo padre che, leggendo quelle righe, ne rimaneva sconvolto e incredulo. Nella sua mente, Fulvio si asciugava la fronte e scuoteva la testa cercando di eliminare quello che aveva scoperto senza però riuscirci.
Si sentì improvvisamente triste.
Una mano delicata si posò sulla sua spalla e quel contatto la fece sentire subito meglio.
«Chan, hai altro da dirmi riguardo il dono?».
«Nulla che io sappia».
«E hai qualcosa da dire a Sefora?».
«Solo che il suo potere è latente e non potrà mai usarlo al massimo, come te».
«Bene, se è tutto qui, direi che abbiamo un’altra faccenda da sistemare».
Si alzò: in una mano stringeva il Necronomicon, nell’altra la mano di Sefora. Con passo sicuro si diresse verso lo spiazzo aperto dove gli altri confabulavano aspettando il loro ritorno, forse per schernirle e offenderle, forse per discutere.
Elsa li guardò uno ad uno e sfidò i loro sguardi senza timore.
«Oggi io ho sconfitto il Gran Maestro e recuperato il Necronomicon! Io sono riuscita dove altri hanno fallito!» urlò con enfasi «Tuttavia, non sembrate contenti di me. Chiedo di essere giudicata pubblicamente!».
Tutti si guardarono tra loro, increduli.
«Elsa, cosa stai facendo?» sussurrò allarmata la cercatrice «Cos’è questa storia?».
Le strinse la mano e la guardò cercando di nascondere l’angoscia sempre crescente.
«Lascia fare a me».
Sefora non lo sapeva, ma in quel momento Elsa aveva fatto una scelta dalla quale non si poteva più tornare indietro.
Chiedendo di essere giudicata pubblicamente, sarebbe stata sottoposta alle domande degli anziani presenti che l’avrebbero considerata degna o indegna di vivere tra gli i licantropi.
Sperava che questo permettesse sia a lei sia a Sefora di poter vivere di nuovo in tranquillità con gli altri, sempre che tutto andasse per il meglio, in caso contrario… non voleva nemmeno pensarci.
Cinque licantropi si fecero avanti e si presentarono come gli anziani di un clan o come loro rappresentanti.
Tra loro mancavano però le Desdemoni e i Mercanti che sarebbero potuti essere di parte.
Uno dei cinque, il più esperto di certe faccende, fece un passo verso di lei e le pose le domande di rito.
«Come ti chiami?».
«Elsa Desdemoni».
«Perché hai chiesto un pubblico giudizio?».
«Per essere giudicata meritevole o meno di vivere assieme agli altri licantropi».
Sentiva crescere la tensione, più si andava avanti e più la storia si faceva seria; poi, come se non bastasse, il sole cocente picchiava sulle loro teste facendo sembrare l’aria già afosa ancor più soffocante.
«Di cosa sei accusata?».
Non sapeva che rispondere, perché nessuno le aveva esplicitamente puntato il dito contro.
«Ancora di nulla, ma pare che certi miei comportamenti non piacciano alla comunità».
I cinque i giudici annuirono, non c’era bisogno di altre parole.
«Spiega perché saresti degna di vivere ancora con noi».
Adesso era il momento di sfoderare tutti gli assi nella manica.
«Ho sempre tenuto nascosta la mia natura agli umani, non ho mai messo in pericolo la segretezza della nostra esistenza; ho imparato a controllare la metamorfosi e ora posso usare anche il dono. Ho scoperto l’identità del traditore, l’ho sconfitto; ho lottato contro il Gran Maestro per ben due volte sebbene non sapessi usare il dono ma ce l’ho fatta comunque. Ho recuperato il Necronomicon e grazie a me la battaglia contro i vampiri e i mannari è stata vinta».
Prese un secondo di pausa per studiare le facce dei giudici e di tutti gli altri ma sui loro visi pensierosi si leggeva solo indecisione.
Sentì che Sefora le stringeva la mano per infonderle coraggio.
Deglutì e disse le sue ultime parole.
«Nel corso della mia vita ho sempre aiutato le persone a cui voglio bene e ho sempre rispettato la mia famiglia e la comunità. Se amare qualcuno può cancellare tutto ciò che di buono c’è in me, allora mi allontanerò dal gruppo, purché mi condanniate senza mezzi termini e mi diciate in faccia tutto quello che pensate di me».
La sua voce aveva tremato dicendo quell’ultima frase, sentiva le lacrime bagnarle gli occhi ma si morse la lingua per non piangere.
Guardò sua madre e suo padre, abbracciati l’uno all’altra, sul punto di scoppiare a piangere, e tutti gli altri che avevano allungato il collo e spalancato gli occhi per vedere meglio.
Il groppo allo stomaco era ormai insopportabile, credeva che avrebbe vomitato.
I cinque confabularono tra loro, combattuti: parlottavano e poi guardavano il pubblico, bisbigliavano e lanciavano qualche occhiata all’imputata. Spesso si grattavano la testa e alzavano le spalle, quasi fossero confusi e non riuscivano assolutamente a decidersi.
Dopo qualche minuto di agonia, passato a cuocere sotto il sole rovente, gli anziani parvero decisi.
Sempre lo stesso uomo che aveva posto le domande espresse il verdetto.
«Elsa Desdemoni» disse a voce alta «Questo consiglio ha esaminato il tuo caso».
Si voltò per l’ultima volta verso il pubblico prima di annunciare il verdetto, poi fece due passi avanti.
«Nella tua vita hai mostrato rispetto per tutta la comunità, sebbene tu sia stata una bambina e poi una ragazza un po’ turbolenta. Hai mostrato di avere grande forza e coraggio, ma…».
Elsa serrò le mascelle in preda alla nausea. Sentiva la bocca secca e le mani le sudavano tremendamente. Perché si era fermato? Cosa non li aveva convinti?
“Sono condannata… siamo condannate. Ed è tutta colpa mia”.
«Ma ci hai chiesto di giudicarti quando nessuno ti ha accusata di alcunché».
“Cosa?”.
Era confusa. Si voltò verso Sefora e si rese conto che la ragazza era spaesata almeno quanto lei.
L’uomo fece un paio di passi verso il pubblico.
«Qualcuno dei presenti vuole puntare il dito contro Elsa Desdemoni?» domandò.
La licantropa trattenne il fiato e una goccia di sudore le scivolò lungo la tempia.
Nessuno fiatò.
Attese ancora qualche secondo ma il silenzio non lasciò spazio alle parole.
«Allora noi non ti giudichiamo. Elsa Desdemoni, sei libera di vivere nel tuo clan e nella tribù Italicum come hai sempre fatto».
Riprese a respirare ma non si accorse di essere imbambolata come una stupida fino a quando una mano dalle dita affusolate la strattonò per il braccio.
«Elsa, che cazzo è successo?».
«E’ la prima volta che ti sento dire una parolaccia, credo» disse ridacchiando dal nervosismo.
Chan le raggiunse.
«Ragazze, meglio di così non poteva andare!» disse sorridendo, quasi con le lacrime agli occhi «Non avete sentito? Nessuno vi accusa!».
«Vuoi dire che non hanno nulla contro di noi?» domandò Sefora con un sussurro.
«Perché dovremmo?».
Le due si voltarono: era il padre di Sefora.
«Papà!» urlò abbracciandolo al collo senza riuscire a trattenere lacrime di gioia «Oh papà, i vostri sguardi arrabbiati, le vostre occhiatacce… pensavo che tu e mamma mi odiaste!».
«No, non potremmo mai odiarti. È solo che ci hai preso alla sprovvista… non lo immaginavamo e… scusami, perdona me e la mamma se ti abbiamo fatto credere una cosa simile!».
Elsa distolse lo sguardo, sentendosi quasi di troppo in un momento così intimo.
Pensò ai suoi genitori e soprattutto a suo padre che la guardava da qualche decina di metri di distanza.
“Perché non viene da me come Matteo ha fatto con sua figlia?”.
La tristezza la invase mentre gli occhi castani scorrevano su tutti i presenti.
“E mamma? Nemmeno lei è qui con me”.
Guardò Chan che le stava qualche passo dietro, serio in viso. Sapeva cosa le passava per la testa.
“E Damiano? Come la prenderà Damiano?”.
Le lacrime le annebbiarono la vista e fu costretta a passarsi le dita sugli occhi per asciugarli maldestramente.
Sentì la mano di Chan posarsi sulla sua spalla per darle conforto. Gli allungò il Necronomicon: quel trofeo non le sarebbe servito con i suoi genitori.
«Prima o poi dovremo parlarne» disse con voce tremolante «meglio battere il ferro finché è caldo, no?».
Le parve quasi che quella mano grande e forte le desse un spinta verso i suoi genitori.
Camminò lentamente ma senza esitazioni mentre Sefora e i suoi genitori erano stretti in un abbraccio, in un mondo tutto loro. Anche lei avrebbe voluto un lieto fine, ma adesso andava a prendersi il suo finale, decisamente meno roseo.
Perché tutti dovevano guardarla? Non stava già abbastanza male?
“Smettetela di fissarmi” pensò “lasciate che almeno per un momento il mio dolore sia mio e mio soltanto”.
Ma i presenti la seguivano con falsa disattenzione mentre camminava verso suo padre, scuro in volto.
Si fermò davanti a lui e le parve che la terra, prima così solida, le mancasse sotto i piedi.
«Papà…».
Non fece in tempo a dire altro che lui, con uno scatto fulmineo, le fu addosso prima che potesse anche solo pensare di schivarlo.
Provò un attimo di terrore così intenso da pietrificarla.
La stringeva così forte da farle male.
«Bambina mia…».
Erano lacrime quelle che sentiva sulla pelle? Sue o di suo padre? Non riusciva a distinguerle in quell’abbraccio tanto sgraziato quanto desiderato.
«Papà… ti voglio bene…» singhiozzò nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
«Anch’io, non sai neanche quanto».
Le infilò le dita nei capelli riccioluti e la strinse a sé ancora di più, se possibile.
Elsa non seppe dire quanto tempo rimasero così, sapeva solo che non si era mai sentita così bene dopo uno screzio con suo papà.
Sciolsero l’abbraccio e si asciugarono le lacrime che avevano arrossato i loro visi.
Non lo aveva mai visto piangere, mai in tutta la sua vita. Non pensava nemmeno che ne fosse capace ma tutta quella storia doveva aver messo a dura prova i suoi nervi.
«Elsa, perdonami per quello che ho fatto. Io… io… sono stato preso dalla paura» ammise «Sarei dovuto stare zitto, non erano affari miei, ma ero arrabbiato e le parole mi sono uscite di bocca da sole».
La ragazza annuì: non aveva la forza di parlare senza piangere ancora.
«Sappi che io non ho nulla contro la tua relazione con Sefora, non volevo alzare questo polverone. Scusa».
Lo abbracciò ancora.
Ma dove era sua madre?
Gioia la strinse all’improvviso da dietro, cingendola delicatamente tra le sua braccia.
«Mamma» sussurrò voltandosi.
«Elsa, mi dispiace per quello che hai passato. Io e il papà non volevamo farti tanto male».
Cercava di parlare scandendo bene le parole ma l’emozione le faceva tremare la voce.
«Non fa niente» bisbigliò «l’importante è che stiamo tutti bene, giusto?».
Gioia guardò gli occhi lucidi della figlia, ripensando a tutto quello che aveva dovuto patire e sopportare. Era troppo giovane ma ce l’aveva fatta, aveva resistito fino in fondo, non si era fatta spezzare da niente e nessuno.
Una vera Desdemoni.
«Giusto, l’importante è che stiamo tutti bene».
Quell’esperienza li aveva portati al limite, li aveva provati, ma il loro rapporto ne era uscito rafforzato.
Elsa guardò Sefora e per un secondo ne incrociò lo sguardo.
Adesso, anche lei aveva il suo lieto fine.

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Capitolo 29
*** Tre mesi dopo - Conclusione ***


Elsa rincasò da scuola assieme a Damiano. Buttarono a terra gli zaini e appesero le giacche all’attaccapanni per poi fiondarsi in cucina, affamatissimi.
«Mamma, cosa hai fatto di buono?» domandò sedendosi a tavola.
«Ma come, il naso non ti dice niente?».
I due ragazzi avevano capito cosa bollisse in pentola già da un pezzo, ma le domande stupide facevano parte del gioco.
Elsa annusò l’aria come per cercare una traccia impercettibile.
«Mmm… Damiano, senti anche tu questa fragranza?».
«Sì cugina, la sento. Credo che abbia qualcosa di familiare» disse massaggiandosi il mento «pare che sia proprio…».
«Pasta alla carbonara!» esclamò l’altra.
Gioia rise mentre scolava la pasta e li richiamò all’ordine.
«Basta fare chiasso, voi due! Andate piuttosto a chiamare Fulvio».
«Ricevuto».
Andarono in salotto e dalle scale chiamarono il padre di Elsa che accorse subito.
«C’è pronto?».
«Sì papà, andiamo a tavola».
Mangiarono tutto quanto e con gran gusto, parlarono del lavoro al museo che teneva parecchio impegnati i genitori e della scuola che annoiava i due ragazzi.
«Allora, Damiano» domandò suo zio «Come è andata la verifica di matematica?».
«Benone, credo. Ho fatto tutti gli esercizi».
«Da solo?» inquisì guardandolo sottecchi.
«Certo!».
“Sì, come no!” pensò Elsa ridendo sotto i baffi “Avrà messo una sfera del parva aurem nella classe di Pietro, il suo amico cercatore. Gli avrà suggerito tutto lui”.
Pensò che sarebbe stata una buona idea farselo prestare qualche volta, magari per le verifiche di tedesco.
«E tu, Elsa? Com’è andata?».
«Bene, mamma».
«Quando avrai la prossima verifica di tedesco?».
«Tra due giorni» rispose.
Damiano si infilò in bocca una forchettata di spaghetti e disse:
«Perché non ti fai aiutare dalla tua morosa? Lei è brava nelle lingue».
Quasi le andò di traverso il boccone.
«Non parlare con la bocca piena» lo rimproverò arrossendo.
«E tu non cambiare discorso» la punzecchiò facendo l’occhiolino.
Elsa era piuttosto riservata sulla sua relazione e parlarne la metteva un po’ in imbarazzo, così lui si divertiva tremendamente a tirar fuori il discorso ad ogni occasione.
E i genitori di Elsa non lo fermavano di certo.
«Ci penserò» tagliò corto «adesso finiamo di mangiare, che manca ancora il dolce!».
 
 
 
 
 
Salita in camera, aprì lo zaino e tirò fuori qualche libro.
Aprì quello di tedesco e dopo aver letto appena due righe lo richiuse.
Prese il cellulare e mandò un messaggio a Sefora:
 
Oggi pomeriggio ho casa libera, ti va di fare un salto?
 
La risposta arrivò dopo un minuto.
 
Ti serve aiuto con i compiti, eh?
 
Sospirò. Non poteva mentirle.
 
Colpita e affondata. Passi per le 15:00?
Magari dopo facciamo un giretto in centro e ci beviamo una cioccolata calda.
 
Sefora acconsentì, ed Elsa, visto che non aveva altri compiti, si stravaccò sul letto. Pensò a quanto era cambiata la sua quotidianità: Sefora frequentava la sua stessa scuola, anche se in un’altra classe; molti cercatori avevano deciso di restare a vivere a Villanova nonostante il Necronomicon fosse già al suo posto; quella troia di sua cugina era tornata a Latina.
Tra tutti, era quella che aveva dato più problemi. Ogni volta che vedeva insieme la licantropa e la cercatrice sputava veleno come una vipera, perciò Elsa era decisamente felice che avesse tolto il disturbo.
E Damiano… beh, lui aveva preso bene la notizia di quell’amore bizzarro ma ammise anche che se lo aspettava; non aveva dato di matto quando scoprì che i suoi genitori erano morti per proteggere Elsa. Passò delle brutte settimane durante le quali tenne il muso a tutti in casa ma poi si rese conto che nessuno, a parte i vampiri e i mannari, era responsabile della loro morte, né gli zii che l’avevano cresciuto con amore, né la cugina che gli aveva sempre voluto bene.
In un certo senso, disse di sentirsi sollevato: per tutta la vita la morte dei suoi genitori gli era parsa misteriosa, insensata e finalmente poteva darle un senso.
Ora stava meglio, anche se a tratti diventava nervoso e irascibile. Nulla di strano, quella scoperta era come un secondo lutto.
Elsa guardò fuori dalla finestra i rami spogli dell’albero che vi cresceva davanti. Ormai era quasi novembre e i colori estivi avevano lasciato spazio al grigiore del tardo autunno.
Era bello, nonostante tutto. Il freddo non la infastidiva per nulla, anzi.
“Magari potessi andare in giro in maniche corte senza destare sospetti!”.
Sbuffò.
Erano solo le 14:45.
Si rigirò pigramente su un fianco restando in attesa, sperando che le lancette dell’orologio scorressero più in fretta.
“Magari potessi andare in giro mano nella mano con Sefora senza destare sospetti” pensò amaramente.
A tutti era concesso amarsi alla luce del sole ma a loro due no. Era ingiusto.
I licantropi e i cercatori, così come i pochi esseri magici di Villanova, avevano preso abbastanza bene la loro relazione, senza farne un argomento di pettegolezzi maligni e senza giudicare le due ragazze. Almeno con la sua gente andava tutto bene.
Sentì chiudersi la porta d’ingresso e le ruote della macchina schiacciare le foglie secche sul vialetto, poi più nulla, solo il silenzio della casa vuota.
Tutta allegra e pimpante scese dal letto e si sistemò il maglioncino leggero pulendolo da qualche pelucco.
“Se sono partiti tutti significa che ormai sono le 15:00. Tra poco Sefora dovrebbe essere qui”.
Si sistemò la chioma riccia come meglio poté e restò in attesa che arrivasse Sefora, attesa che non durò molto.
Appena sentì suonare il campanello, si fiondò giù per le scale e spalancò la porta.
«Ciao!» la salutò.
«Ciao, Elsa» rispose allargando un sorriso.
«Vieni, entra».
La fece accomodare e la spogliò della giacca che appese all’attaccapanni. Le offrì qualcosa da bere ma la cercatrice prese solo dell’acqua.
«Allora, in cosa devo aiutarti?» domandò sorseggiando.
«Tedesco».
Sefora rise e disse che se lo immaginava. Posò il bicchiere sul tavolo e si lasciò accompagnare di sopra.
Si sedettero alla scrivania e iniziarono diligentemente a studiare, fin quando Elsa pese la mano dell’altra e la guidò sul foglio vergando maldestramente uno strano simbolo.
«Elsa» sussurrò quasi spaventata «non dovresti disegnare certe cose. E poi, perché ti è venuto in mente?».
La ragazza-lupo la prese e la spostò di peso dalla sedia alle proprie gambe, stringendosi a lei per sentirne il profumo.
Chiuse gli occhi e posò il viso nell’incavo del suo collo, baciandolo.
«Prima che tu venissi qui» soffiò sulla sua pelle «ho pensato a noi e a tutto il casino che è venuto fuori per colpa di questo stupido simbolo».
Sentì fremere la maga e le accarezzò una mano con studiata lentezza.
«Tutti ci dicono di restare nascoste, di non esporci, come se noi stesse fossimo un segreto. Ti immagini che faccia farebbero se sapessero che abbiamo noi il vero segreto?».
Sefora sorrise: non avevano detto a nessuno di aver letto il Necronomicon.
Lanciò un’occhiata a quel simbolo sinistro, un cerchio sormontato da un paio di corna caprine, e strinse le gambe attorno ad Elsa.
«Diventerebbero matti. Meglio che non lo sappiano mai, vero?».
In risposta la ragazza fece congiungere le loro labbra.
«Credi che i custodi del Necronomicon sappiano della sua esistenza?» domandò con voce improvvisamente roca «Magari ogni tanto sbirciano tra le sue pagine» insinuò.
Sefora rise di gusto.
«Scema! Non lo farebbero mai, sono troppo spaventati da quel libro».
«E pensare che basterebbe aprirlo per scoprire il segreto della resurrezione dei morti».
Da quando lo avevano letto, non potevano fare a meno di pensare a quell’oscuro disegno del quale erano custodi.
Nonostante Elsa ci scherzasse sopra, sapeva benissimo che il giuramento dei cercatori impediva loro anche solo di aprire il Necronomicon.
«Meglio così, no?» chiese la maga infilando una mano sotto il maglione della compagna «Non è bello essere le uniche a conoscere il sigillo di Belphegor?».
«Bello? Oserei dire eccitante» sussurrò maliziosa.
La mano a contatto con la sua pelle le accarezzava il fianco salendo centimetro dopo centimetro.
«E non sarebbe ancor più eccitante discutere sul suo possibile funzionamento?» replicò Sefora prendendo in mano il foglio.
«Decisamente più interessante di tedesco».
Si alzò di scatto reggendola in braccio e la fece sdraiare sul letto. Si rotolarono giocando finendo col gettare a terra il copriletto.
Si fermarono e ancora allegre e sorridenti, si sdraiarono composte l’una accanto all’altra; Sefora alzò il foglio per farlo vedere bene anche alla ragazza-lupo.
«Secondo te, come si usa?» chiese con occhi che brillavano di curiosità.
«Ma come, non hai letto anche tu le istruzioni del Necronomicon?».
«Sì, ma intendo: se noi lo disegnassimo seguendo la procedura, cosa accadrebbe?».
«I morti tornerebbero a vivere» rispose Elsa.
«Sì,ma quali morti? Tutti? Solo quelli che vogliamo noi? È questo che mi chiedo da settimane. Le nostre civiltà hanno paura di qualcosa che non conoscono a fondo».
«Si ha sempre paura di quello che non si conosce».
Sefora strappò il foglio, pronunciò alcune parole magiche e ogni pezzetto di carta si dissolse nel nulla.
«Meglio non lasciare tracce di questa roba».
Si rannicchiò contro il corpo snello dell’altra posando la fronte al suo petto caldo. Poteva percepire i battiti del cuore, regolari e rassicuranti.
«Secondo te riusciremo a mantenere il segreto?».
«Sicuro!» esclamò l’altra avvolgendola in un abbraccio «Morirà con noi».
La mano riprese ad accarezzare il suo ventre caldo, desiderosa di maggior contatto. La riccia guardò la più piccola negli occhi, quegli occhi verdissimi che la soggiogavano senza difficoltà, e pensò che quel sentimento così intenso e profondo che provava per lei non poteva essere altro che amore, altrimenti un tale scombussolamento ad ogni suo tocco non si sarebbe spiegato.
Con una mossa repentina si levò il maglione mettendo a nudo il fisico atletico, catturò la mano della maga e se la posò sopra il cuore.
Sefora era arrossita e dopo un secondo di smarrimento baciò la pelle dalla sua mano salendo fino al collo e poi alle labbra che non aspettavano altro di potersi fondere con le sue.
«Pensi che correremo ancora pericoli in futuro?» sussurrò «Battaglie, rapimenti… io ho paura che succeda ancora».
«Può darsi, ma non ti preoccupare».
«Cosa? Perché?» domandò confusa.
Elsa la bloccò contro il materasso e avvicinò pericolosamente il viso a quello di Sefora; i suoi riccioli solleticavano la pelle della cercatrice e i loro respiri si mescolavano in uno solo.
Sorrise maliziosamente mostrando i canini bianchissimi.
«Perché adesso sei la mia ragazza e nessuno potrà più portarti via da me».




 
FINE






 
Angolo dell'autrice:
Siamo giunti all'ultimo capitolo!
Tutto finisce bene, le due birbanti ritornano a scuola, si amano, nessuno rimpe le palle. Un lieto fine, insomma.
Devo dire che sono piuttosto soddisfatta del risultato, perchè quando cominciai a scrivere questa storia, non avrei mai pensato di farla finire così, avevo in mente qualcosa di più corto e più semplice; nonostante ciò, le recensioni che hi ricevuto mi hanno spinta a complicare la storia per renderla più interessante.
In queste righe vorrei ringraziare chi ha seguito la mia storia fino in fondo, e specialmente chi l'ha recensita.
Spero che questo mio racconto sia piaciuto e non vi abbia annoiato.
Alla prossima storia,

Ignis_eye

 

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