Insieme

di r_clarisse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione - ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Origini ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Pezzetti ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Fermento ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Principio ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Promesse ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Presagi ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Speranze ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Consapevolezze ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Correnti ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Stranezze ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Rivelazioni ***



Capitolo 1
*** Introduzione - ***


 Introduzione - Sull’erba

                                                                                                         
 1
Un raggio di luce filtrava tra le foglie e mi arrivava dritto negli occhi ma a dire il vero non mi dava molto fastidio, mi piaceva anzi; era passato davvero tanto tempo da quando avevo sentito quel calore sulla pelle, come a casa.
Questo sole era così caldo, così rassicurante, così vivo.
Non aveva nulla a che vedere con i raggi sintetici a bordo della Cloud 9, ne tanto meno con la pallida stella di New Caprica, tanto debole e fioca, insufficiente per soddisfare i nostri bisogni.
Miei Dei, come avevamo fatto per quattro anni senza il calore del sole sulla pelle?  Senza il fruscio del vento, senza le nuvole, senza i versi degli uccelli? Certo, questi uccelli erano diversi da quelli che cinguettavano nel nostro quartiere, ma sentirli era una gioia, una vera gioia.
Stavamo seduti sotto un albero in cima ad una piccola collina, a meno di cinquecento metri dall’accampamento del nostro gruppo;  avevamo davanti a noi una prateria immensa che si estendeva per diverse centinaia di metri, un chilometro o forse di più; l’erba era bassa, giallognola e puntellata qua e là da ciuffetti e arbusti verdi.
Ogni tanto, qualche albero si ergeva, alto si e no sei metri, con i rami incredibilmente diramati in orizzontale; assomigliavano vagamente a quelle piante che crescevano negli aridi deserti di Gemenon, con le fronde tuttavia più folte e meno rossicce.
Dove l’erba era più verde pascolavano una miriade di animali che non avevo mai visto: colli lunghi, criniere a strisce nere e bianche, macchie marroni.
Assomigliavano a quelle strane bestie di cui avevo sentito parlare negli antichi racconti dei padri di Kobol, e adesso invece li avevo davanti agli occhi!
Non stavo sognando! Quanta vita su questo pianeta.

2
Steven giocava gentilmente con i miei capelli mentre eravamo abbracciati; aveva un mezzo sorriso, la sua solita espressione a metà tra l’introverso e la sfida che gli avevo sempre visto in faccia in cinque anni che lo conoscevo. Io indossavo una sua maglietta bianca, usurata e ormai piena di piccoli buchi; lui aveva addosso una cannottiera con una stella azzurra; la usava durante le lunghe lezioni di danza, anni prima.
Era stato in silenzio per quasi mezz’ora ed era piacevole, in quel momento le parole non erano necessarie: era tutto finito, non potevo crederci, nessuno di noi poteva.
Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta .
“Ti ricordi quando quella sera al cinema facesti il giro della stanza invece che entrare dalla porta davanti a me? “ Disse ridendo mentre strappava un filo d’erba da terra.
“Miei Dei, te lo ricordi ancora? Credevo avessi poca memoria per gli aneddoti!”
“Questo me lo ricordo, D” mi chiamava sempre così, D, era l’iniziale del mio secondo nome che secondo lui, in qualche modo suonava meglio del mio nome completo.
Non credo ci sia molto da spiegare.
“Potrebbe darsi che sia ancora in piedi.. il cinema intendo. Era una piccola città, non credo sia stata bombardata.” Dissi giocherellando con un bastoncino.
Steven sorrise e indicò un gruppo di alberi alla nostra sinistra:
“Guarda come sono disposti, assomigliano al parco davanti a casa nostra. Mancano solo i lampioni e i marciapiedi!”
Era vero, quegli alberi, tanto diversi dagli altri nella prateria, ricordavano tanto il parco davanti al nostro appartamento, su Virgon. La nostra piccola casa, quella che avevamo curato e vissuto con tanto amore. Sospirai.
“Beh, forse è un segno Steve. Dovremmo costruire qui la nostra casa, non credi?”
Sarebbe sicuramente stato bello e romantico.
Oh, che dico, è stato esattamente così.           
                                                                                       
3
Ci alzammo e ci incamminammo verso l’accampamento; c’era un sacco di gente, militari in uniforme che correvano avanti e indietro per collina portandosi dietro sacchi e valige piene di chissà quale strumentazione, ufficiali sotto i tendoni intenti a consultare i documenti inviati dalle navi in orbita.
I civili si erano sistemati oltre la collina, all’ombra.
Faceva davvero caldo.
Il cielo era terso, l’aria secca e tiepida; sembrava quasi che ci accarezzasse la pelle e ci cullasse nonostante fossimo tutti svegli.
Sentivo il rombo in lontananza di alcuni Raptor che lasciavano l’atmosfera e altri che vi entravano simultaneamente.
Mentre camminavamo, guardavo le decine di persone che mi circondavano intenti a sistemarsi nell’accampamento come meglio potevano; sembravano tutti così sereni, come se fossero in un sogno.
Vedere i loro sorrisi e sentire le loro risate mi fece riflettere: non credevo che avremmo trovato davvero la Terra; avevo sempre nutrito la speranza che il vecchio Adamo avesse ragione, o che il presidente dicesse la verità quando ci giurava che era certa della volontà degli Dei di condurci su questo mondo,  ma quella speranza era andata sfumando ed era diventata sempre più flebile dopo i primi due anni del viaggio. Dopo che avevamo perso così tanti compagni durante il viaggio, così tante navi erano andate distrutte, così tante vite.
In realtà ci eravamo scoraggiati tutti quanti in alcuni momenti; avevamo vissuto situazioni che qualunque psicologo avrebbe considerato al limite della sopportazione umana senza ombra di dubbio.
E invece eravamo proprio lì, finalmente, dopo tanto sangue, sudore e lacrime.
Stavamo per scrivere un nuovo capitolo nella storia dell’umanità, e io avevo tutto quello che potessi desiderare: avevo Steve, l’uomo della mia vita, ed era lì accanto a me e mi bastava.
Lo avremmo fatto insieme.
“Dovremmo unirci agli altri per sentire cosa dicono gli ufficiali, non si sa mai che possano dire qualcosa di utile, no?” Disse accelerando il passo.
“Ok, arrivo, lascia che vada a salutare Cassie, non l’ho ancora vista da quando siamo atterrati, ti raggiungo là!” Risposi alzando la voce per farmi sentire. Mentre mi dirigevo al tendone, infilai una mano nella tasca sinistra: dentro avevo ancora il mio cellulare, lo presi e lo spensi.
Non immaginavo che sarebbe stata l’ultima volta, non pensavo che non lo avrei acceso mai più.

Continua...

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Origini ***


Capitolo 1 - "Origini"


1.1 “Colline e palazzi”
Non credo che quella del mio passato si possa considerare una storia eccitante o particolarmente interessante, anzi è molto ordinaria ed è probabilmente qualcosa che molti altri hanno vissuto prima di me.
Penso tuttavia che valga la pena raccontarla perché infondo, qualcosa da ricordare c’è sempre.
Sono nato e cresciuto su Canceron, precisamente nella cittadina di Eneris che distava circa un’ora di strada dalla capitale, Hades, nell’emisfero Nord.
Eneris era arroccata ai piedi di una collina verde, l’unica collina rilevante del luogo e una delle poche zone di campagna del pianeta lasciate parzialmente libere dall’urbanizzazione – e dove si potesse respirare aria non troppo inquinata.
La cima della collina offriva la possibilità di osservare una vasta gamma di paesaggi: a pochi chilometri, le vaste distese di campi agricoli – considerati tra i più fertili delle Colonie, secondi solo a quelli di Aerilon- ; in lontananza, gli imponenti grattacieli della capitale che dominava sulla conformazione della pianura, e delle cittadine minori nei suoi pressi, solitamente coperte da una foschia grigiastra emessa dagli scarichi delle miriadi di automobili in circolazione; infine, all’orizzonte, quasi evanescenti, le cime delle montagne perennemente innevate per tutto l’anno, dove lo smog non poteva arrivare e fare danni.
Se quella collina fosse stata più alta di cento metri sarebbe stato possibile vedere le vaste e assolate distese di sabbia di fronte all’oceano a Sud: le spiagge di Canceron, rinomate per la loro bellezza e famose per essere le migliori nel cosmo, tanto da attirare tutti gli anni milioni di turisti da ogni angolo dei sistemi solari, portando enormi guadagni al mercato interno.
C’erano giusto tre palazzi ad Eneris che superassero la collina in altezza, due dei quali quasi completamente in vetro e con il tetto obliquo, similmente agli edifici nelle grandi città.
Ricordo una moltitudine di case e palazzine colorate con toni di giallo e di rosa che contrastavano con il grigio delle strade, degli altri edifici e della maggior parte del pianeta, uno dei più edificati ed inquinati dalla nostra società, e ricordo anche un discreto traffico durante molte ore del giorno nonostante il nostro fosse un piccolo nucleo abitato.
La gente del posto non era particolarmente cordiale, non perché fosse cattiva o portasse astio reciproco, ma più che altro perché incarnava alla perfezione l’anima del cittadino, sempre di fretta e senza un secondo libero; non esisteva per loro il concetto di vicinato, ne di cortesia, ne di supporto morale, nulla se non un sorriso stiracchiato che ti rivolgevano quando li incontravi per caso sul pianerottolo del condominio.
Tutti correvano dalla mattina alla sera portando avanti le loro routine di lavoratori senza preoccuparsi minimamente di chi avevessero affianco.
Credo che pochissime persone su Canceron conoscessero qualcosa del loro vicino di casa oltre al nome e ,quand’anche fosse stato così, non avrebbero avuto nessun interesse ad approfondire un rapporto.
Nonostante il via vai generale, non era una zona movimentata per gli standard di quella roccia edificata; gli eventi che facevano più scalpore erano le elezioni annuali del sindaco e il vandalismo sulle pareti delle scuole medie, bazzecole degne delle chiacchiere delle vecchiette di campagna.
Certo, eravamo spesso soggetti a forti temporali e delle volte abbiamo visto qualche tornado piuttosto potente, ma al di là di ciò era difficile che qualcosa nel nostro piccolo contesto facesse notizia sul Canceron Times .
Io non me ne lamentavo, sono sempre stato un ragazzo tranquillo e abitudinario, senza particolari desideri di grandezza e guardandomi indietro, credo che fosse un ritmo già troppo tirato per i miei gusti.


1.2 “Casa in campagna”
Non ho mai avuto una vera famiglia prima di conoscere Steven.
Sono stato cresciuto da Jennifer Binsky, una singolare casalinga di provincia, amica di mia madre fin dai tempi dell’asilo, tempi in cui le loro madri le vestivano allo stesso modo per andare a scuola.
Aveva dei lunghi capelli castano chiaro che teneva in perfetto ordine piastrandoli quasi ogni giorno, un viso scarno e pallido e due occhi marroni che non truccava praticamente mai.
Lavorava in banca e questo la teneva occupata fuori casa per la maggior parte della giornata, che io passavo da solo o con Mary, la figlia della vicina che mi curava tre giorni a settimana in cambio di cinque cubiti all’ora. Una paga fin troppo alta per il poco che faceva, e decisamente troppo disonesta perché la richiedessi io stesso più avanti.
La cosa più strana del vivere insieme a Jennifer era l’avere a che fare con le sue abitudini assolutamente inusuali: era la persona più ipocondriaca che conoscessi e faceva analisi su analisi ogni mese, continuamente alla ricerca di un male che forse esisteva solo nella sua mente.
Lavava le verdure almeno tre volte consecutive prima di servirle o cuocerle per il timore che qualcuno le avvelenasse per ucciderla –ci feci l’abitudine, ma ripensandoci mi pare ancora agghiacciante-.
Vestiva ogni giorno di un colore diverso e tutti i capi che indossava dovevano essere rigorosamente dello stesso, e ciò faceva si che agli occhi di un bambino di dieci anni sembrasse un gigantesco pastello ambulante; non osava uscire di casa con un maglione blu e le scarpe nere, per intenderci.
Ad ogni modo, sono felice di aver passato quegli anni con lei; era una brava persona e mi voleva bene anche se faticava un poco a dimostrarlo, mentre era troppo presa dai suoi piccoli drammi immaginari.
Non voleva che la chiamassi mamma perché sapeva di non esserlo, anche se faceva di tutto per non farmi mancare nulla.
Fu lei a raccontarmi dei miei genitori, di come andarono le loro vite, di come finirono.
Venivano entrambi da Virgon, come lei stessa, figli di famiglie modeste ed incredibilmente conservatrici che avevano lasciato loro un’inestimabile amore per la vita e per le tradizioni.
Mio padre, Robert Jenkins,  era nato ad Hadrian dove aveva lavorato per otto anni nell’alta moda virgana, disegnando capi di lusso che venivano esposti nelle vetrine dei negozi più importanti di tutti i mondi; scarpe, jeans, giacche, abbigliamento di ogni tipo. Era un uomo di media statura, capelli e barba brizzolati, con una grande passione per la natura; forse fu proprio questo – a detta di Jennifer- a pesargli di più del trasferimento su Canceron, ormai quasi privo di zone incontaminate a cui lui era abituato.
Mia madre, Patricia Mckullister - donna molto bella dalla chioma mossa e tinta di rosso - era una parrucchiera e aveva acconciato e colorato i capelli di molti personaggi della televisione; iniziò a praticare il mestiere appena a tredici anni facendo esperienza in uno dei saloni di bellezza della sua città; con il passare degli anni diventò una vera maestra nel campo facendole guadagnare una certa fama nel settore.
Si conobbero per puro caso in una discoteca famosa, la Aayork, mentre erano insieme ai rispettivi amici; Jennifer era con mia madre e vide nascere la loro storia
“Credo che ci siano persone che sono semplicemente destinate a stare insieme” mi disse una volta “i tuoi genitori lo erano. Credo lo avessero capito quella sera stessa.”
Si sposarono dopo un anno emmezzo e vissero per qualche tempo in una piccola fiaba fatta di viaggi, vacanze e felicità.
“Avevano paura di non poter avere bambini.”
“Perché Jennifer?”
“Perché dopo due anni ancora non riuscivano ad averne” mi raccontava una sera prima mentre mi rimboccava le coperte “eppure, quando non se l’aspettavano sei arrivato tu!”
Mia madre rimase incinta di me alla fine dell’estate e questo fu una gioia per entrambi, ma tuttavia le cose belle non sempre vengono accompagnate da altre cose belle; mio padre perse il lavoro senza preavviso ritrovandosi con niente in mano, mentre mia madre era già disoccupata da mesi prima per via del fallimento del negozio in cui esercitava.
“Dissi al tuo papà che mio zio era titolare di un’impresa bancaria qui, su Canceron” Diceva mentre la ascoltavo disteso sotto le coperte
“Gli consigliai di trasferirsi qui, almeno avrebbe avuto un buon lavoro e avrebbe potuto mantenere te e la mamma.” Sentivo del rammarico nella sua voce, in qualche modo si vedeva responsabile di quello che era accaduto.
Così, i miei genitori lasciarono tutto quello che avevano per ricominciare da capo sul pianeta più sovraffollato delle Dodici Colonie, sperando che la fortuna potesse stare dalla loro parte.
Comprarono una piccola villetta nella periferia di Eneris: il giardino era circondato da una staccionata bianca che con il tempo e lo smog sarebbe diventata grigiastra ed era pieno di piccoli alberi che in primavera fiorivano, donando colore all’abitazione.
Ne ricordo le finestre ampie e luminose, la luce gialla arancione che entrava nei pomeriggi di autunno e si proiettava sul pavimento della sala, di fianco al televisore.
Naqui sei mesi dopo il trasferimento.
“Loro ti amavano moltissimo, eri ciò di più prezioso avessero..” Jennifer sospirò “Per il poco tempo che avete avuto insieme sono stati due buoni genitori.”
Avevo un anno quando morirono, una sera, all’improvviso: i freni si guastarono e la loro auto andò a finire contro un albero. Quanto è ironica la vita, quanto è fragile.
Quanto è ingiusta.
“Pensai che siccome ero la migliore amica della tua mamma dovessi prendermi cura di te, piccolino.”
Jennifer si trasferì su Canceron dopo poche settimane, aiutata dallo zio ed iniziò le immediatamente le pratiche per l’affidamento
“Non avrei mai lasciato che crescessi in un orfanotrofio”
Così iniziò la nostra vita insieme e così la donna sicura di se che era Jennifer si trasformò nella maniaca delle medicine e dei complotti che è stata poi, fino alla fine.
In parte me ne sento colpevole, so che parte delle manie che le frullavano in testa sono state causate dall’impegno che si prese con me; lei non era pronta, forse non era nemmeno portata per crescere un bambino, e di certo da ragazza non avrebbe mai pensato che avrebbe dovuto farlo per la sua migliore amica morta. Ma infondo, l’amore può tante cose, se non addirittura tutto.
Credo non ci sia limite alle sue possibilità, credo la sua forza pervada l’universo e lo tenga integro nel suo ineieme, qualunque sia il modo in cui lo chiamiamo.
Ad ogni modo, Jennifer è stata quanto di più vicino ad una madre abbia avuto, sebbene non lo fosse realmente ne la considerassi tale.
 
1.3 “Per sempre a scuola”
Frequentai la Persephone’s Sacred Heart dalla prima elementare all’ultimo anno di liceo; era una delle scuole pubbliche più famose su Canceron, in nome della dea Persefone alla quale erano dedicati innumerevoli monumenti nel globo , oltre ad Efesto, Dio patrono del pianeta.
La sede principale dell’istituto stava nel centro di Hades, mentre la succursale in cui mi trovavo io era nella cittadina di Leudan, a mezz’ora di strada da casa mia.
Ho ricordi molto vividi dei miei anni nella scuola primaria, tanto da poterli descrivere nei dettagli: la mia maestra, Elizabeth Rott, era una donna molto interessante; mentre attraversavo la porta della classe, il primo giorno di scuola, mi si presentò  poggiando una mano sulla mia spalla e dicendo con un tono dolce ma deciso “Ciao! Io sono la tua maestra!”. Quell’immagine è rimasta impressa a fuoco nella mente: stava in piedi accanto allo stipite della porta e mi sembrava altissima –avevo sei anni-;  aveva i capelli mechati a caschetto medio-corti; indossava un golf panna con delle fantasie triangolari alla vita e con le maniche rimboccate; portava un paio di pantaloni neri e fini che terminavano con un piccolo spacco angolare a livello delle caviglie, dove esibiva della scarpe in finta pelle a tacco largo.
Era una figura molto materna che sapeva sia rassicurare che incutere un profondo senso di rispetto e di ammirazione;  non esitava ad alzare la voce e rimproverarci se necessario, ma tutti noi bambini ne eravamo innamorati. Era sicuramente una delle maestre più capaci dell’istituto.
Figlia di una importante famiglia aristocratica di Caprica, si trasferì sul nostro pianeta dopo la laurea, a ventisette anni, fresca di matrimonio e piena di timore per l’avvenire.
Ne parlava molto spesso durante le sue lezioni, facendo trasparire senza troppi veli la sua nostalgia per quel mondo così ricco e florido che l’aveva vista crescere nei suoi anni d’oro:  a volte indicava con una penna in mano fuori dalla finestra, in alto nel cielo, la posizione del suo sistema solare, e gli occhi le si riempivano di tristezza per un momento.
Non so per quale ragione lasciò la sua patria per venire su Canceron, ancora oggi mi chiedo quali potessero essere i motivi che non ci ha mai voluto spiegare. Doveva esserle successo qualcosa per indurla a lasciare Caprica.
Ah, la bella Caprica.
Non ero sicuramente il bambino più intelligente o più veloce o più brillante della classe, ma ricordo molto bene quanto mi piacesse andare a scuola; scienze, geografia, linguistica, grammatica, musica; guardavo i miei quaderni con gli occhi luccicanti quando tornavo a casa nel pomeriggio.
Al terzo anno ci fecero scegliere uno strumento musicale da approfondire ed io scelsi il pianoforte; una decisione forse molto comune ma unica ed importantissima per me.
Credo che suonare fosse una delle cose che più in assoluto mi facessero sentire vivo, allora come oggi.
O almeno come fino a quattro anni fa…
Jennifer non poteva permettersi un vero pianoforte, così comprammo una tastiera che divenne per me la migliore amica, per lei il peggiore incubo domestico; molto spesso si svegliava nel cuore della notte sentendomi suonare di nascosto –per quanto appunto sia possibile suonare di nascosto in una casa nel cuore della notte- e mi ricacciava a letto stizzita.
Le feci invocare mezzo Pantheon in quegli anni, poverina, ma la resi altrettanto orgogliosa: ho ben in mente quanto le mie insegnanti fossero felici di parlarle ai colloqui generali; a volte mi sembrava quasi che mi lodassero in modo esagerato, che mi facessero complimenti che non meritavo, forse per pietà nei confronti della mia situazione. Ma ad ogni modo, qualche piccola soddisfazione ogni tanto non fa male.
Fu alle medie che iniziai ad avere problemi: ero un ragazzino fin troppo pacifico e in un mondo caotico come quello in cui vivevo i ragazzini crescono in fretta. Fin troppo.
Sono stato fortunato infondo, il bullismo che subì in quegli anni non era poi così pesante e di certo non ho molto di cui lamentarmi, visto che alcuni miei coetanei hanno visto e vissuto di peggio.
Al liceo presi la scelta decisiva che avrebbe determinato l’andamento della mia vita: scelsi di frequentare il lato delle Scienze Umane e della persona nella Persephone; una parte di me era indecisa su cosa avrei fatto dopo, ma nel profondo sapevo fin da quando ero un ragazzino che avrei voluto insegnare.
Non so cosa effettivamente mi colpisse di più in quella professione, cosa me la facesse amare così tanto, ma ero stato così ammaliato dal modo in cui parlava la mia maestra e dal rapporto che aveva con noi che avevo capito fin da allora che era ciò che desideravo nel mio futuro.
Terminato il liceo mi presi un anno di pausa per riflettere su cosa volevo fare della mia vita; sapevo di voler continuare gli studi ma sentivo come se mi mancasse qualcosa.
Come se quel qualcosa sarebbe arrivato da lì a breve.
E fu così.


Continua…

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Pezzetti ***


Capitolo 2 - Pezzetti

2.1 – “Un destino speciale”
Quando avevo otto anni, Jennifer mi disse che per ognuno di noi ci fosse un disegno, un progetto, un piano;
ogni essere umano nasce per un motivo ed ha di fronte a se un destino  da compiere, non inteso come una linea retta, come una serie di inevitabili eventi impossibili da variare, ma come meta.
“Penso che tu vedrai grandi cose, David.” Esordì quel pomeriggio mentre mi riaccompagnava a casa da scuola in auto
“Grandi cose? Cosa sono?” Le chiesi con tutta la curiosità che un bambino possa avere dopo aver udito una frase simile
“Non lo so tesoro, non so cosa, ma so che è così” sterzò velocemente all’incrocio per non beccare il semaforo rosso “ L’ho capito nel momento in cui ti ho tenuto in braccio la prima volta.”
Io- a bocca aperta- guardai fuori dal finestrino appannato e bagnato dalla pioggia e con tono solenne esordì con uno sbigottito “Oh..”
“Ho come avuto un flash di te da grande, davanti ad una prateria.” Disse a voce molto bassa mentre attendevamo fermi in mezzo alla coda
“Una prateria?” Chiesi
“Si, e sentivo che eri felice. “ mi guardò un momento ed aggrottò le sopracciglia “Oh Dei.. sto straparlando, forse non mi capisci nemmeno –infatti era così- ma nulla…. Vedendoti la prima volta l’ho capito, ho capito che un giorno tu farai parte di qualcosa di stupefacente.”
Il mio Oh era adesso ancora più solenne
“E ci sarai anche tu nella cosa stupefacente?”
“Non credo David. Riguardava te, non me. “ Disse mentre parcheggiava l’auto
“Ma io non voglio essere stupefacente da solo!”
“Non sarai solo, fidati.” E mi sorrise prima di slacciarmi la cintura “E ora andiamo a prenderci un gelato, non importa se piove, ti va?”
Lascio immaginare la mia risposta.


Qualcosa nelle sue parole mi risuonò nella mente per anni, senza che io vi dessi particolare importanza ne ci pensassi se non ogni tanto; parlai di questa cosa soltanto due volte in tutta la mia vita e con due persone totalmente diverse: la prima volta, all’inizio delle scuole medie.
Evelyn Tunner, al tempo mia compagna di scuola, era una ragazzina molto chiusa e schiva, la classica bambina con gli occhiali che prende il massimo dei voti ma che non parla con nessuno, un po’ per timidezza propria e un po’ perché viene emarginata dagli altri.
Nemmeno lei era originaria di Canceron, come gran parte delle persone che conoscevo: i  suoi genitori erano due avvocati dello staff del tribunale intercoloniale di Libran che dopo una serie di cause legate al nostro pianeta avevano deciso di stabilirvisi a tempo indeterminato, per lavorare con più calma e non dover continuare a viaggiare nello spazio, lasciandosi alle spalle il loro mondo paludoso.
Me la ricordo molto bene: aveva dei lunghi capelli biondi che divideva in due trecce, gli occhi castani e l’apparecchio ai denti, leggermente storti.
Portava un paio di occhiali quadrati, a fondo di bottiglia, come andavano di moda anni fa, e per questo molti degli altri bambini la prendevano in giro chiamandola quattrocchi o dottoressa, con tono dispregiativo.
Io ero forse l’unico che le parlava, non per pena o compassione, perché a mio avviso non aveva nulla da invidiare a tutti gli altri compagni; io volevo essere suo amico e basta, per davvero.
Durante il laboratorio di educazione artistica, un giorno, lei mi chiese a cosa stessi pensavo mentre con un’espressione persa modellavo una massa informe di creta.
“A cosa pensi David?”
“A quello che mi ha detto una volta Jennifer” “E cosa?”
“Che ho un destino speciale”
Mi guardò sbalordita
“Wow! E come fa a saperlo?” “Non lo so – risposi – ma dice che ho un destino speciale e che vedrò una prateria.” “Oh… wow!”
Sarebbero dovuti  trascorrere tredici anni prima che ne parlassi nuovamente con qualcun altro…
 
2.2 “Pallida e sensibile”
Fu iscrivendomi ad un sito in rete che conobbie Cassie: avevo diciotto anni e cercavo qualcuno che come me fosse appassionato di musica e cantanti, tanto da cercare dal computer diverse fan page dedicate ai miei artisti preferiti; parlammo la prima volta dopo un mese, alla fine dell’estate.
Il nostro rapporto naque a distanza, a grande distanza in realtà: lei viveva in un piccolo sobborgo nella periferia della capitale di Sagittarian, uno dei mondi più poveri colonizzati dall’uomo.
Il padre e la madre, come gran parte della gente del pianeta, erano due fondamentalisti religiosi, incalliti nell’interpretare letteralmente ogni singola parola delle Sacre Pergamene; erano così attenti a rispettare ogni singolo precetto che non si rendevano conto di soffocare la figlia, che – al tempo sedicenne- voleva soltanto vivere la sua vita come qualunque ragazza ai mondi.
Occhi azzurri – i più azzurri che abbia mai visto-, sempre truccati pesantemente; capelli castano chiaro, lunghi e lisci e una pelle incredibilmente pallida, come la mia.
Era una patita del rock e molto spesso ci inviavamo messaggi vocali in cui canticchiavamo i pezzi più famosi, sognando un giorno di incontrarci, in qualche modo, su uno dei nostri mondi.
Più volte lo programmammo e più volte dovemmo disdire: i suoi genitori, all’antica com’erano, non l’avrebbero mai lasciata partire per un weekend fuori pianeta, ed io non avevo abbastanza soldi per attraversare due sistemi solari con un volo di linea –visto quanto erano alti i costi per un viaggio anche solo in economica!-.
Riuscì a trovare dopo due anni –neo ventenne- una promozione per un volo Canceron-Sagittarian a centocinquanta cubiti, già al massimo del mio badget, ma dovetti disdire poiché ero nel pieno dell’esame per il mio diploma, e non potevo assentarmi in quel momento.
Fu una delusione per entrambi, ma soprattutto per lei; mi sentì di averla illusa, messa da parte e data per scontata, anche se non era nelle mie intenzioni.


 “Non pensare di avermi tradito, non è stata colpa tua” –Cassie Talbot; 9:31 PM
 “Mi dispiace davvero tanto, avrei voluto vederti davvero” –R.David Jenkins ; 9:32 PM
 “Ci rifaremo, vedrai. Un giorno ci ubriacheremo insieme, te lo prometto!” –Cassie Talbot; 9:32 PM

Fu lei a consolare me e rincuorarmi per qualcosa che in fondo era una mia responsabilità: io lo avevo proposto e io lo avevo disdetto, avevo lanciato il sasso nel laghetto e poi avevo ritratto la mano.
Continuammo a sentirci ininterrottamente ogni giorno, più volte al giorno, nonostante la notevole differenza del fuso orario tra di noi. Iniziammo ad intuire che forse il nostro rapporto sarebbe rimasto relegato nel limbo della distanza, del non-contatto reale.
Al tempo, non potevamo immaginare minimamente come sarebbero andate le cose da lì a pochi anni…
Fu una delle mia amiche più care.
Anzi, è.

2.3 “Piacere di conoscerti”
Quella stessa estate fu quella che cambiò radicalmente la mia vita, quella in cui vidi nascere ciò che di più caro posso dire di aver mai avuto.
Iniziò in un pomeriggio di metà Luglio, nel più inaspettato dei modi.
Uscì di casa in automobile, fresco di patente, per raggiungere i miei amici nella cittadina vicina e passare un tranquillo pomeriggio insieme.
Il cielo era nuvoloso e bianco, tuttavia faceva quasi caldo e non accennava per niente a piovere, come aveva fatto per quasi tutta la settimana; la luce del sole filtrava tra le nubi e andava a riflettersi sulla carrozzeria azzurra della mia piccola auto a gas; in realtà non era mia, ma di Jennifer che me la prestava spesso e volentieri poichè che lavorava poco lontano da casa.
Il vento entrava dal finestrino abbassato e mi spettinava i capelli –al tempo tinti di un biondo chiarissimo- tant’è che continuavo a passarmi una mano nel ciuffo per sistemarli, inutilmente.
Alla radio passavano una canzone di Ashley Reynolds, una famosa cantautrice country di Aerilon che andava veramente a mille in quegli anni; ricordo i frizzanti accordi di chitarra acustica accostati ai vocalizzi con la sua stessa voce in sottofondo, ma soprattutto le parole del ritornello che mi sono rimaste impresse in modo indelebile


“I won’t forget, I won’t forget these days,
I will remember the shining lights of his eyes,
I won’t forget the warmth of what he says,
I’ll keep forever in my skyes”


Chi avrebbe detto che sarebbero state tanto azzeccate per quel giorno?

Parcheggiai nello spiazzo accanto alla stazione dei treni, ai piedi della nuova statua di Icaro, commissionata dal sindaco cinque anni prima; personalmente non l’ho mai apprezzata, la trovavo ridondante e superflua nella posizione in cui stava, in un angolo accanto ad un parcheggio anziché in un parco, difficilmente qualcuno si sarebbe fermato ad ammirarla.
La stazione aveva cinque binari sui quali transitavano a tutte le ore decine di treni a levitazione magnetica ad altissima velocità, provenienti dalla capitale e diretti nelle zone di campagna come la nostra o viceversa; l’edificio era tinteggiato di rosa e aveva delle ampie vetrate elettroniche accanto alla porta principale sulle quali venivano spesso proiettati spot pubblicitari o notiziari.
Il treno arrivò giusto mentre attraversavo la porta di vetro sul binario uno e si fermò silenziosamente di fronte a me; il suo muso stondato e massiccio conferiva al veicolo un aspetto maestoso ed importante e mi faceva quasi sentire schiacciato.
Alex e Julie scesero dal secondo vagone e mi vennero incontro tra gli altri passeggeri; Julie, tenera e volitiva ragazza di bassa statura, era stata una delle mie migliori amiche ai tempi del liceo. Avevamo condiviso moltissimi momenti ed esperienze nel corso degli anni e dentro di me ero molto felice che facesse ancora parte della mia vita. Venendomi incontro, mi sorrise e mi abbracciò.
“Stavo per dimenticarmi di portarti questa!” Estrasse una piccola spilla verde e tonda dalla tasca e me la diede
“Oh… te la sei ricordata!”
Quel piccolo oggetto aveva una storia, una lunga e contorta storia, ma non ne parlerò adesso.
Alex mi abbracciò ed esordì ridendo
“Dobbiamo aspettare Cammy davanti alla stazione, mi ha chiamato poco fa ed indovina un po’… è in ritardo!”
Credo di non aver mai conosciuto davvero Alex.
Era un mio caro amico, ma forse il nostro rapporto si fermava in superficie; ci confidavamo, parlavamo, ma credo non abbiamo mai superato un certo limite. Mi manca adesso e mi pento di non averlo conosciuto quando ancora potevo.
Ci sedemmo sulla panchina in marmo di fronte alla fontana nel piazzale della stazione aspettando che Cammy arrivasse in bicicletta ed iniziammo a chiacchierare a proposito delle nostre settimane.
Alex era stato per tre giorni ad Helia, una piccola città di mare dove ogni anno si teneva un festival cinematografico noto in tutte le Dodici Colonie ed al quale partecipavano moltissime star
“Eravamo in prima fila dietro la transenna –raccontava Alex- ed è passata Kayla Fox, ad un metro da noi! E’ stato fantastico!” era davvero emozionato nonostante fossero passate due settimane.
“Sono riuscito a farmi autografare un piccolo poster con il suo viso! Si è avvicinata perché ha visto che glielo sventolavo davanti..
“Cos’è che le sventolavi davanti?” Disse a gran voce Julie singhiozzando dalle risate
“…Il poster, il poster ho detto! Che ho detto?”
Mi coprì gli occhi con la mano ridendo.
Quando alzai lo sguardo vidi che un gruppo di ragazzi appena uscito dall’edificio della stazione si stava dirigendo verso di noi guardando Alex che tuttavia non se n’era ancora accorto.
Erano quattro ragazzi e cinque ragazze; una di loro, Susan, prese l’iniziativa e gli diede una pacca sulla spalla
“Hey hey!” Aveva dei capelli castani lunghi fino alla vita con numerosissime ciocche tinte di blu ed azzurro; indossava una maglietta bianco panna con una sola spallina e degli strettissimi jeans grigi.
Ricordo che la prima cosa che pensai non appena la vidi fu “Wow! Che bella ragazza!”
Alex si voltò di scatto per esordire a gran voce “Susan! Hey!” Si abbracciarono e si scambiarono due parole mentre tutti gli altri del gruppo si avvicinavano vedendo che io e Julie eravamo seduti a guardarli.
Un ragazzo alto e dai capelli scuri si avvicinò a me e, sorridendo mi tese timidamente la mano
“Ciao, io sono Steven, piacere!”
Non credo che potrò mai scordare quel momento; risposi alla stretta di mano e nell’istante in cui incrociai il suo sguardo avvertì una strana sensazione, come se il mio cuore si fosse fermato per un momento.
Non avevo mai provato niente del genere, mi sentì come se fosse un déjà-vu, come se i suoi stessi occhi scuri mi stessero chiedendo “Ci siamo già incontrati?”, come se fosse una sorta di sogno in pieno giorno, un’illusione. Lui era bellissimo, il più bel ragazzo che avessi mai visto: era alto, aveva i capelli corti di un castano scurissimo che terminavano con un ciuffetto che scendeva sulla sinistra; le spalle larghe, tipiche di chi fa molto movimento aerobico; un viso che emanava calore nel vero senso della parola, e che era contornato da una barbetta corta ed ispida, perfettamente curata nei suoi dettagli.
Portava un orecchino nero al lembo dell’orecchio sinistro e, più avanti, mi sarei reso conto di adorare quel piccolo aggeggio nonostante fosse un pezzo di plastica.
La mia mente si soffermò ad analizzare tutti quei dettagli non rendendosi conto che mi ero letteralmente pietrificato ed ancora non gli avevo risposto; Julie notò la mia faccia e, per aiutarmi ad evitare una figuraccia, mi diede una leggera spinta al braccio destro: al chè mi ripresi e, dopo essermi voltato mezzo secondo verso di lei, lo guardai dritto negli occhi ed improvvisai
Si! Certo, David!” mi voltai di nuovo e mi accorsi che sudavo freddo “Cioè, sono David! Piacere! Ehm, come va?” e mi grattai nervosamente la guancia; al chè lui accennò un sorriso e –trattenendo una risata per non mettermi ulteriormente in imbarazzo- si sedette accanto a me.
Mi voltai un’ultima volta verso Julie che mi sorrise e mi mostrò il pollice in segno di approvazione.
“Sei di qui?”
“Cos.. che cosa?” risposi incrociando di nuovo il suo sguardo
“Vivi qui a Lewdan? Non ti ho mai visto!” disse chinando leggermente la testa
Io incrociai le braccia “No, qui ci studiavo fino a pochi mesi fa, sono di Eneris, giusto a venti minuti in auto da qui!”
Alex si avvicinò a noi e notò con piacere che avevo conosciuto Steven, suo amico di vecchia data dai tempi delle scuole medie; avevano condiviso molto insieme da allora e vedere che in quel momento stavamo parlando gli accese un sorriso.
Non frequentavano più la stessa compagnia da ormai un annetto e per una lunga serie di motivi si erano allontanati sempre di più, fino a perdersi di vista.
“Vedo che fraternizzate!” Disse mentre io ridevo
“Hai una coccinella sul braccio!” Allungai il dito ponendolo sulla mezza manica della sua t-shirt a strisce bianche e blu per portare in salvo la piccola bestia. Dicono tutti che le coccinelle portino fortuna ma non ho mai saputo se crederci, anche se forse quel momento dovrebbe esserne la conferma.
Steven sorrideva e guardava a terra in silenzio, tormentandosi le mani nella ricerca di qualcosa da dire; infondo non è mai stato molto abile con le parole e mi rendo conto che per lui non sia stato facile rompere il ghiaccio, dev’essersi sforzato parecchio per andare a presentarsi ad uno sconosciuto di cui non sapeva nemmeno il nome.
Quando ripenso a quel momento mi si scalda letteralmente il cuore.
“Beh… mi piace molto il colore dei tuoi capelli, ti sta bene!” disse con un filo di voce mentre si grattava la nuca imbarazzato “E’ naturale? Sei davvero così biondo?” ed accennò un sorriso
“Grazie, beh no non è per niente naturale, credo di essere più scuro di te in realtà!” Risposi incurvando le spalle e ridendo; ora mi sentivo quasi a mio agio nella situazione e sentivo di voler proseguire la conversazione.
“Oh, interessante. Beh…ti sta davvero bene… ma te l’ho già detto..”
“Si lo hai già detto, ma ti ringrazio, tutti mi dicono che stavo meglio prima ma finalmente qualcuno lo apprezza” mi voltai verso di lui “era ora!”
Alex e Julie stavano ormai chiacchierando animatamente con gli altri ragazzi presenti, perciò approfittai per fargli qualche domanda anche io; nemmeno io lo avevo mai visto, eppure era un piccolo centro, quindi probabilmente ci saremo incrociati chissà quante decine di volte in passato, ma senza vederci.
“E tu invece sei di qui?” gli chiesi con aria interessata appoggiando il mento sulle ginocchia
“Dipende da cosa intendi, si sono cresciuto in questa zona ma in realtà sono nato su Leonis.”
“Oh, wow!” esclamai spalancando gli occhi “Dicono che sia uno dei pianeti più belli delle Colonie!”
A quel punto i suoi occhi assunsero un espressione lontana e nostalgica e mentre un sorriso spontaneo gli pervadeva la curva della bocca mentre parlava
“Si, è così, non dimenticherò mai quei tramonti in riva al mare e quel clima sempre caldo tutto l’anno… beh ad ogni modo io e mia madre ci siamo trasferiti qui quando avevo otto anni dopo che lei e papà divorziarono.” “Oh, mi dispiace molto..”
“Non è nulla, lui lavora nella Flotta Coloniale, non era mai a casa neanche prima. Sono stato abituato a stare senza.” Non c’era dispiacere nella sua voce; forse non gli pesò più di tanto crescere senza un padre, o forse semplicemente era bravo a nascondere le sue emozioni.
Il rumore assordante dei razzi di manovra di una navetta che stava atterrando a cento metri da noi ci zittì per qualche secondo in cui ci scambiammo un sorriso, timido ma diretto ed in qualche modo esplicito.
“Steve noi andiamo, che fai vieni?” Disse –anzi gridò Susan- a gran voce per farsi sentire nonostante il baccano che andava sfumando
“Oh… d’accordo arrivo!” Ci alzammo in piedi e lui si mise le mani in tasca per poi dirmi “Beh.. è stato un vero piacere conoscerti, spero di vederti ancora!”
“Anche io..” Incrociai nuovamente le braccia; guardai a destra e vidi, oltre il parcheggio, un’equipe di giornalisti scendere dalla navetta appena atterrata trasportare varie attrezzature. Rimasi distratto per un mezzo secondo e quando mi voltai vidi che Steven e gli altri se ne stavano già andando.
Chiesi a Julie se avesse di che scrivere e lei estrasse prontamente un block notes e una penna dalla borsa – se non ci fosse stata lei!-; strappai un pezzo di carta e ci scrissi il mio numero per poi correre come un idiota, sventolandolo per aria e rischiando di farmi investire da un furgone della Gazzetta di Aerilon che sfrecciò sulla strada un attimo dopo che l’avessi attraversata.
Non potevo non dargli quel foglietto, non conoscevo il suo cognome e non sapevo se e quando lo avrei rivisto.
“ASPETTA!” Arrivai con il fiatone e mi piegai per un istante sulle ginocchia.
Steven si girò immediatamente verso di me

“Questo è il mio numero” dissi a bassa voce “chiamami magari!”

Continua...

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Fermento ***


               Capitolo 3 - Fermento

3.1 -“Non sembra vero
Capita a volte che io mi impegni così intensamente nel raccontare questa storia tanto da dimenticarmi per un attimo che la maggior parte delle cose di cui parlo e che descrivo in realtà non esistono più; i pianeti su cui vivevamo sono stati devastati, le nostre città rase al suolo; la società di cui facevamo parte ha smesso di esistere, o almeno non è più quella di quei giorni. La nostra stessa razza ha rischiato di essere spazzata via dall’universo e si è salvata per un pelo dall’estinzione.
Mi sembra assurdo pensare che siano passati solo quattro anni da allora, da quando tutti noi conducevamo le nostre vite ed assaporavamo la noiosa e al contempo meravigliosa condizione dell’ordinario e del consueto; spesso mi stupisco nel pensare che non vedrò mai più i grattacieli di Caprica, ne il cielo azzurro-viola di Virgon, o viaggerò nello spazio a bordo di una nave di linea.
Quasi mi spaventa la consapevolezza che non guiderò mai più un’automobile, ne suonerò un pianoforte o tantomeno impugnerò l’asta di una chitarra; su questo mondo non c’è nulla di tutto questo, ci sono solo erba ed alberi, mari e montagne, e di certo non abbiamo i mezzi per costruire dal nulla quello che conoscevamo una volta.
Non voglio essere frainteso, sono fortunato, siamo stati fortunati tutti noi a scampare a quello che per molti altri è stato un irrevocabile capolinea; io mi sento più fortunato di altri perché c’è Steven qui con me, e perciò il resto passa in secondo piano. Non importa il dove o il come vivere, se siamo insieme è tutto ok.
Certamente, cinque anni e mezzo fa non lo avrei mai immaginato; sicuramente non dopo quel pomeriggio in cui ci conoscemmo di fronte alla stazione dei treni Lev.
 
3.2 – “Pianeti e ansiolitici”
Tornai a casa ai primi vespri quella sera, dopo aver salutato i miei amici, mentre il sole tramontava sulla campagna tingendola di un caldo e familiare arancione.
Amavo quel momento della giornata: dalla strada vedevo i trattori fermi nei campi o vicini ai cancelli delle fattorie, mentre i loro proprietari erano probabilmente in casa a scolarsi una birra o a seguire l’incontro di Pyramid in televisione. Era anche l’ora del ritorno della gente dagli uffici nelle grandi città: la strada era infatti sempre piena zeppa di autobus che raggiungevano i piccoli centri –come quello in cui vivevo- nei quali gli impiegati, reduci da una stressante giornata passata davanti ad un computer o a spillare documenti, si sarebbero abbandonati ad una doccia calda –nonostante fosse piena estate- e successivamente ai comodi cuscini dei loro letti.
Nel cielo, a migliaia di metri da me, decine di astronavi da trasporto per passeggeri o merci attraversavano velocemente l’empireo, entrando e uscendo dall’atmosfera; alcune di esse lasciavano scie di condensazione dietro i propri rotori, esattamente come degli aeroplani, a causa dell’elevata altitudine e del contatto dei loro gas di scarico con l’aria. Sfortunatamente Canceron non aveva lune, e l’unico corpo celeste vagamente visibile ad occhio nudo – e solo in determinati momenti dell’anno- era il gigante gassoso di Hestia, con il quale due dei tre pianeti abitabili del nostro sistema solare condividevano l’orbita; la luce del sole si rifletteva sulla sua vasta superficie, facendolo apparire come un piccolo puntino luminoso nel cielo delle 19:30.
Continuavo a pensare, mentre guidavo, a quello che era accaduto quel pomeriggio e a quanto mi avesse colpito incontrare quel ragazzo; senza rendermene conto, stavo sorridendo come un ebete.
“Chissà se mi chiamerà” pensavo “Non so nemmeno dove vive, lo rivedrò?”.
Avevo già avuto delle cotte in precedenza, anche abbastanza serie, ma non mi ero mai sentito in quel modo, mai in vent’anni che ero al mondo. Già quello avrebbe dovuto farmi capire tutto.
Entrai in casa e andai verso la mia camera senza nemmeno accorgermi che Will, il nostro gatto, era saltato sul mobile facendo cadere a terra il vaso rosa della sala, che ora giaceva in pezzi vicino al divano.
La nostra piccola sala, dall’aria essenziale ma accogliente, piena di tende rosa a tutte le finestre, con lampade dalla luce intensa ma allo stesso modo non eccessiva; costantemente fresca anche quando fuori c’erano trenta gradi.
“Ciao Jennifer, sono a casa!”
“David! Puoi venire qui per favore?” Sentì replicare dal bagno; la trovai seduta sulla vasca con una salvietta in faccia intenta ad asciugarsi i capelli.
“David non trovo gli ansiolitici, li hai presi tu?” Disse mentre si strofinava la salvietta in faccia.
“No non mi pare… non li ho mai nemmeno usati.”
“Dove li avrò messi, che diamine, ho guardato ovunque!” Replicò con un’espressione di acceso disappunto.
“Aspetta, forse sono nel mobiletto in sala!” Si alzò con i capelli ancora umidi e la salvietta in spalla.
“Il medico ti ha raccomandato di andarci piano con quella roba, te lo ricordi vero?” Le dissi mentre la guardavo dirigervisi. Faceva uso di ansiolitici da quando avevo dieci anni, da quando aveva realizzato che la sua vita e la mia sarebbero state intrecciate per sempre –o avrebbe dovuto esserlo-; più volte aveva avuto delle reazioni all’uso smodato del farmaco, sonnolenza e svenimenti, ma i dottori le permettevano di continuare a prenderlo, un po’ perché non costituiva un grosso problema per la sua salute, un po’ perché quella povera donna aveva bisogno di qualcosa che la tenesse calma. Essere “madre” era davvero una dura prova per lei.
“Lo so David e infatti li prendo solo una volta al giorno, non preoccuparti. Vediamo se son…ODDEI!”
Alzai lo sguardo per capire cosa la turbasse.
“Ma chi è stato?”
“Cosa è successo?” Chiesi.
“IL VASO ROSA! E’ A PEZZI!” disse mentre indicava la marea di frantumi disposti a casaccio sul pavimento insieme alla pozza d’acqua e ai tre fiori che conteneva prima di cadere.
“Credo che il colpevole non lo ammetterà mai..” risposi cercando di trattenere le risate mentre il gatto se ne stava seduto, bello impettito sul mobile di fronte a me, con lo sguardo di chi sa benissimo di essere stato beccato ma finge di non sapere nulla. Quel gattone era così bello, il suo pelo lungo e soffice, i suoi baffi bianchi sempre puntati in avanti, e la coda folta come uno spolverino.
“Gattaccio! Questo vaso lo avevo comprato su Virgon prima di trasferirmi qui… guardalo è in pezzi.”
In realtà ero piuttosto dispiaciuto: Jennifer era molto attaccata alle sue cose, specie a quelle che le ricordavano la sua casa. In realtà era la nostra casa, quella che lei aveva lasciato per me.
“Dai” provai a confortarla “Magari possiamo aggiustarlo, un po’ di colla, nessuno lo noterà!”
anche se era poco verosimile –era davvero in mille pezzi, più che un vaso sembrava una costellazione che avevo studiato in astronomia pochi mesi prima-.
“Beh ci penseremo più tardi, ora va a lavarti, io raccolgo i pezzi, tra venti minuti si cena, non farmi aspettare. Ok?”
“Agli ordini, generale!” Le diedi un bacio sui capelli bagnati ed andai di nuovo in bagno.
L’acqua mi passava tra i capelli e sulla pelle ed io, ad occhi chiusi, ripensavo ancora una volta al mio magico pomeriggio, mentre mi insaponavo a dovere.
“Si! Certo, David! Cioè, sono David! Piacere, come va?” Quelle frasi mi rimbalzavano in testa in modo ossessivo: com’era possibile che fossi così tanto una frana in ogni cosa? Non ero capace nemmeno di presentarmi adeguatamente a qualcuno.
Ridevo sotto l’acqua che mi scorreva addosso; sentivo che, in qualche modo, qualcosa era iniziato, e che sarebbe stato determinante per me. Forse, anche per Steven stesso.

3.3 -“Uragani”
“Allora cos’avete fatto oggi di bello?” Chiese Jennifer mentre poggiava il piatto con il polpettone di carne e verdure accanto al mio; io giocherellavo con la forchetta disegnando cerchi immaginari sul tovagliolo bianco a quadretti rosa.
Non avevo letteralmente sentito la sua domanda, ero come assente, avvolto dai miei pensieri che, ovviamente, andavano in un’unica direzione; Jennifer se ne accorse e, dopo un paio di secondi di silenzio intervenne nuovamente:
“Come si chiama? Chi è?” la forchetta mi scivolò tra le dita e finì per terra.
“Come scusa?” Chiesi sgranando gli occhi “…come fai a sapere?” Lei si mise a ridere e riprese il piatto del polpettone per servirsi visto che non lo avevo ancora fatto io.
“Mio caro, ti conosco da vent’anni, ogni volta che hai conosciuto qualcuno hai sempre avuto quell’espressione da triglia lessa, allora lo vuoi il polpettone?” Mi tese di nuovo il piatto.
La stanza era pervasa da un profumo delizioso.
“Allora, come si chiama?” Al chè indugiai per qualche istante.
“Steven… si chiama Steven.” Mi grattai la testa imbarazzato.
“Oh, e com’è? Avete parlato?” Si faceva sempre più interessata, potevo vederlo da come mi guardava.
“E’…” Pensai per un secondo “Interessante. Beh, sicuramente è molto bello, ma a parte questo sembra una persona interessante. E’ di Leonis!” Assunsi un’espressione quasi magistrale mentre pronunciavo il nome del pianeta, inarcando le sopracciglia e chinando leggermente il capo a sinistra, mentre prendevo con la forchetta un paio di fette di polpettone.
Oh, Leonis!” Jennifer sorrise e si illuminò “Sai, quando ero giovane, poco più grande di te, conobbi un uomo di Leonis.”
“Davvero?”
“Si, è stato l’uomo più importante della mia vita. In realtà è stato uno dei pochi, ma meglio così.”
Mi fermai ad ascoltare il suo racconto: non mi aveva mai parlato della sua vita sentimentale, ed ora che ci pensavo, effettivamente non l’avevo mai vista frequentare qualcuno.
Aveva forse rinunciato ad avere relazioni per occuparsi di me? Questo mi avrebbe fatto sentire decisamente in colpa.
“Si chiamava Ryan. Io avevo ventisei anni, lui trentuno. Mia madre ovviamente disapprovava. Mi portò in vacanza su Leonis una volta, è un pianeta bellissimo.”
“Com’è?” Chiesi incuriosito. Conoscevo le sue caratteristiche principali dato che, come tutti , le avevo studiate a scuola, ma non essendoci mai stato volevo sentire un’esperienza diretta.
“E’ bello, è sempre caldo tutto l’anno perché il suo asse non ha inclinazione e i raggi del suo sole riscaldano la superficie sempre allo stesso modo. Ha delle pianure sconfinate sulla maggior parte delle terre emerse e le città sono piene di ristoranti davvero altolocati. La sua cucina e i suoi vini sono noti su tutti i dodici pianeti!”
Pensandoci, mi venne in mente che molto spesso Jennifer ne preparava i piatti tipici; e il mio stupore in realtà era del tutto fuori luogo: Leonis era uno dei mondi più ricchi ed influenti delle Dodici Colonie, sia per gli aspetti culturali e culinari, come diceva lei, sia per quelli istituzionali: era infatti ai primi posti nell’educazione scolastica e nell’industria negli standard coloniali.
“Eh… come mai è finita?” Mi morsi la lingua nel momento stesso in cui lo dissi, temendo di metterla in imbarazzo; Jennifer rispose con molta nonchalance:
“Ero giovane, ero ingenua e accecata da tante cose, poi ho aperto gli occhi.” E sorrise. Non volli chiedere altro per non essere invadente.
“Ma sono sicura che non è il tuo caso invece. Allora, uscirete?”
“Non saprei… gli ho dato il mio numero. Sta a lui contattarmi adesso.”
“Tranquillo” sorseggiò un bicchiere di thè freddo al limone “Lo farà, lo farà.”
Nel frattempo alla televisione, un notiziario ci aggiornava sulle ultime notizie importanti.
“Una scossa di magnitudo 2.4 è stata registrata nei pressi di un agglomerato urbano, su Scorpia.”
Mi voltai per ascoltare meglio, vedendo sullo schermo immagini di palazzine crollate e ponti pericolanti.
“Le autorità del pianeta hanno dichiarato lo stato di calamità naturale e il bilancio dei danni ammonta a quindici milioni di cubiti, una cifra piuttosto alta per delle città già messe a dura prova dai frequenti uragani.”
“Poveretti, posso solo immaginare cosa provino.” Disse Jennifer con un filo di tristezza nella voce.
“Su quel pianeta ci sono continuamente cicloni, cos’era, il sesto quello del mese scorso? Ora il terremoto. Vivere su Scorpia non dev’essere per nulla facile…” Risposi prendendo in mano il cellulare.
-1 new message from StevenJ
Sgranai gli occhi.
“Ci ha messo così poco? Pensavo passassero giorni o si dimenticasse anche…” La mia testa era un vortice di pensieri che frullavano ad una velocità inaudita. Come un uragano.
Come gli uragani su Scorpia.
Eppure era solo un messaggio che –tra l’altro- non avevo ancora letto; sarebbe potuto essere anche un “Non voglio vederti mai più” o “Mi trasferisco, addio” per quanto ne sapevo. Poteva un messaggio non letto mandarmi così su di giri? Jennifer notò la mia faccia stranita ed eccitata allo stesso tempo e sorrise in silenzio.
“Hey ciao! Ho pensato molto ad oggi pomeriggio e se sei d’accordo vorrei rivederti! J”
Il messaggio era decisamente chiaro e diretto e la cosa non poteva che farmi piacere; risposi di scatto picchiettando nervosamente sui piccoli tasti disegnati sullo schermo digitale del cellulare.
“Ciao, piacerebbe molto anche a me, potremmo accordarci! J”
Per un attimo mi sembrò una risposta troppo secca ma in fondo cos’altro avrei potuto dirgli?
“Che ne dici di venerdì? Potremmo vederci nel pomeriggio e fare un giro!”
Venerdi? Oh dei, Venerdì era troppo vicino, troppo poco tempo per prepararmi psicologicamente all’evento! Avevo sempre avuto difficoltà nell’affrontare questo genere di cose e nel relazionarmi in generale e sapere di avere soltanto tre giorni prima di dovermi buttare in quest’impresa mi sconvolgeva.
Ma non potevo nemmeno tirarmi indietro, perciò, dopo aver fissato il cellulare per dieci secondi, risposi.
“Sarebbe perfetto! Ci vediamo venerdì alle 16:00 davanti alla stazione dei Lev, ok?”
Mi sentii immediatamente più leggero appena dopo aver inviato il messaggio.
In tutto questo, Jennifer se ne stava seduta sulla poltrona a seguire le news sui disastri naturali su Scorpia, guardandomi con la coda dell’occhio; naturalmente aveva capito tutto, mi conosceva meglio di quanto mi conoscessi io stesso.
Non ricordo esattamente come andò avanti quella serata; so per certo che guardammo insieme un film pseudo romantico, “Maryanne flowers”: parlava di una ragazza di provincia di Picon che scopriva le proprie origini tramite un’indagine e trovava l’amore della sua vita. Un’operetta leggera ma sicuramente piacevole per una serata madre-figlio.
Una piccola idea cominciava in quel momento a farsi strada nella mia testa: il meglio doveva ancora arrivare.


Continua…

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Principio ***


Capitolo 4: Principio

4.1 – “Fortuna?”
Ad un certo punto della mia vita ho iniziato a dar credito ad alcuni pensieri che da tempo aleggiavano nella mia testa; non sono mai stato un fatalista e non ho mai creduto alla fortuna o alla sfortuna, non in senso stretto almeno, ma ciò che ho passato, ciò che tutti noi abbiamo vissuto in questi quattro anni, ha sensibilmente deviato il mio modo di vedere le cose.
Può essere che mi sbagli, può essere che tutti si pongano certe domande, ma vedere la caduta delle Dodici Colonie mi ha reso più pragmatico.
Può darsi che alcuni di noi siano semplicemente più fortunati di altri. Sembra che mi contraddica da solo ma non è così.
Non credo  che le nostre vite siano affidate al caso, ne che siamo soli in questo mondo di lacrime, ma bisogna ammettere che la vita non concede a tutti le stesse opportunità e le stesse gioie; per alcuni la felicità arriva, per altri è dietro angolo, per altri ancora non si fa proprio vedere.
Anche le disgrazie non sono eque.
Alcuni vi scampano, riescono per un pelo a non portarne il pesante carico sulle proprie spalle, a divincolarsene e a cavarsela unicamente con piccoli problemi; altri invece, ne sono oppressi.
Mi sono sempre chiesto da dove arrivi quest’ordine così caotico e causale che di ordinato non ha proprio nulla, chi decida per noi, chi stabilisca quali persone debbano soffrire e quali poche fortunate possano essere felici.
Chi possa essere felice? E’ forse una concessione?
E di chi? Degli Dei? Di Dio? Del Destino?
Chi ha deciso chi si sarebbe salvato dall’attacco dei Cyloni?
Chi ha deciso che di trenta miliardi di persone che vivevano su dodici pianeti se ne dovessero salvare solo cinquanta mila?
E chi ha deciso che tra di loro dovessimo esserci io e Steven?
E chi ha deciso che io possa svegliarmi ogni mattina e trovarlo accanto a me, che io possa sentirmi tanto felice e grato per la fortuna che mi è stata concessa?
Mi è stato concesso?
Beh, se è stato così, se mi è stato concesso, chiunque l’abbia deciso sappia che avrà sempre la mia totale gratitudine.
 
4.2 - “Pianeti oceanici e colazioni solitarie”
Quell’atteso Venerdì era finalmente arrivato.
Aprì gli occhi alle prime luci dell’alba, com’ero solito fare nei giorni in cui attendevo qualcosa di importante, non riuscivo a continuare a dormire sentendo l’eccitazione e l’energia dentro di me.
La luce del sole filtrava non proprio timidamente tra le fessure delle persiane socchiuse e la mia camera, piuttosto spaziosa per una sola persona e piena di ninnoli della mia infanzia, era pervasa dal cinguettio degli uccelli all’esterno e dal rombo molto lontano delle astronavi che sfrecciavano tra le nuvole.
Mi stropicciai gli occhi con le mani e controllai il cellulare: erano soltanto le 7:30, decisamente troppo presto per alzarsi essendo in piena estate; ma come ho già detto, quando l’eccitazione è troppa diventa difficile rimanere immobile nel letto ad attendere.
Mi alzai e trovai un post-it rosa appiccicato sulla tastiera del mio pianoforte digitale:
“Sono in banca, la cena è già pronta, scusa se non ci sarò oggi, ci vediamo stasera, baci, Jennifer”
Si scusava addirittura.
Mi sentivo davvero in colpa per come lei si prodigava per me, avrei voluto rendermi più utile nei suoi confronti, alleggerire il suo lavoro, ma al di là dell’aiutarla in casa non potevo fare molto.
Aveva bisogno di lavorare molte ore al giorno, era la sua valvola di sfogo per una vita piatta come quella che aveva avuto.  
Accesi la televisione per avere una voce amica mentre stavo da solo in casa.
Sullo schermo apparve la figura di una donna con un tailleur lilla e con un microfono in mano, in piedi sulla banchina di un porto di Queenstown, la capitale del piccolo mondo di Picon.
“In diretta da Queenstown, Playa Palacios, dallo Star Tribune di Picon! Allora Playa, quali sono gli ultimi aggiornamenti dalle tue parti?”
“Grazie Jeremy! L’aria qui è molto tesa da quando il sindaco ha dichiarato chiusa la trattativa per il riciclaggio del carburante nei porti. Il sistema monetario non è mai stato tanto instabile quanto oggi!”

La guardavo, mentre sgranocchiavo dei cereali al miele per colazione, e pensavo a quanto dovesse aver faticato per raggiungere la sua posizione attuale; Playa era una delle più famose giornaliste di Picon, se non di tutte le Colonie stesse, e la rivalità, l’aggressività e la competitività che probabilmente aveva affrontato sul lavoro non dovevano essere state certamente indifferenti.
Inoltre, non avrebbe potuto immaginare in quel momento che, un giorno, sarebbe giunta laddove nessuna giornalista prima di lei era arrivata prima.
Le vetrate dei grattacieli dietro di lei risplendevano quasi come di luce propria mentre nel porticciolo erano ormeggiate decine di barche e yacht lussuosissimi. Il biondo caldo dei suoi capelli creava un piacevole contrasto con il turchese acceso del cielo e dell’oceano, quell’oceano che ricopriva la quasi totalità della superficie di Picon.
Picon, il pianeta dalle acque turchesi.
Ricordo che era quella la didascalia sopra la sua foto sul libro di Geografia astrale alle elementari.
Spesso a scuola ci avevano fatto leggere storie provenienti da quel pianeta, forse per l’incredibile vena artistica dei suoi scrittori, considerati unici all’unanimità.
Ci avevo messo meno di tre giorni per leggere “Omicidio su Picon”, in seconda superiore:  non ero mai stato un lettore incallito ahimè, ma quel giallo mi aveva letteralmente catturato.
“Avremo sicuramente un’idea più chiara della situazione dopo la pubblicazione ufficiale del bilancio alla fine del mese, ma per adesso ci affidiamo ai fatti.”
“Beh, non vediamo l’ora Playa, questi intrighi sono sempre gustosi per i nostri denti. Ed ora passiamo ad altro: il presidente Adar ha indetto un decreto sulla costruzione di nuove strutture minerarie per l’estrazione di Tylium nelle colonie esterne…”

Mentre deglutivo il latte con i cereali mi resi conto che da lì a poche ore avrei dovuto incontrare Steven e in quel preciso istante sentì una fitta allo stomaco, non di dolore, più una specie di brivido.
“Miei Dei aiuto, che faccio?” continuavo a chiedermi.
Improvvisamente il mio guardaroba mi sembrò incredibilmente scarso e pieno di stracci.
 Non una sola t-shirt che mi piacesse, ne un paio di jeans che andasse bene; ero quasi tentato di restarmene in casa ed inventarmi una scusa per sfuggire all’incombente impegno, ma nello stesso momento in cui pensai questa cosa fui colto dal malsano desiderio di prendermi a schiaffi.
“Richard David Jenkins” pensavo “vedi di smettere di piangerti addosso all’istante o sono guai per te, ti avverto!”
Effettivamente sono sempre stato molto bravo a parlare da solo, come uno psicopatico.
Forse sono uno psicopatico.
In quel momento avevo decisamente bisogno di un parere amico, perciò presi in mano il telefono ed inviai un messaggio a Cassie, sperando che, nonostante dalle sue parti fosse piena notte, fosse magari colta da insonnia e mi rispondesse subito.
A pensarci bene è un ragionamento egoista.
“Cassie, aiutami, sono molto in ansia per oggi pomeriggio…” –R.David Jenkins [Eneris, Canceron; 8:12 AM]
“Hey, buona sera canceroniano..!” –Cassie Talbot [Oniana, Sagittarian; 8: 13 AM]
“In realtà è mattina qui… che ore sono da te?” –R.David Jenkins [Eneris, Canceron; 8:15 AM]
“Le due di notte genio. Vedrai che andrà benissimo!” –Cassie Talbot [Oniana, Sagittarian; 8: 16 AM]



In fondo tutti gli amici dicono che “andrà benissimo” quando hai un appuntamento, tutti ti augurano il meglio e danno per scontato che sposerai quella persona; come se fosse così facile poi. Tu invece non riesci a non vedere te stesso impelagato in una serie di figuracce concatenate e quindi ad una porta sbattuta in faccia.
O forse succedeva solo a me?
Ah, ripensando a quei momenti mi vedo così giovane ed ingenuo; nonostante siano passati soltanto cinque anni mi sento come invecchiato di dodici. E’ già una buona cosa che non abbia i capelli bianchi.
Ad ogni modo, decisi di vivere la situazione con fermezza e tranquillità: in fondo era soltanto un appuntamento, un’uscita con un amico.
Un’uscita con un amico? Oh dei, era soltanto un mio amico o voleva di più? L’ansia saliva nuovamente, ma mi ero appena raccomandato di stare tranquillo.
Il cellulare vibrò.
Un nuovo messaggio.
“Hey ciao! Allora oggi ci si vede?” Come se non bastasse la tensione che già stavo vivendo in quel momento.
Avevo ancora sette ore prima di quell’uscita, perciò dovevo davvero darmi una calmata se volevo sperare di arrivarci vivo; Will se ne stava appollaiato sul mobile e, mentre riempiva la stanza con il rumore delle sue fusa, mi guardava dritto in faccia. Aveva una strana espressione, se si può chiamare espressione quella di un gatto, come se mi stesse giudicando.
“Non ti ci mettere anche tu eh!” Dissi guardandolo negli occhi dall’altra parte della stanza.
“Vorrei proprio vedere se ci fossi tu nella mia situazione che faccia faresti!”
Oh miei dei, stavo discutendo con il gatto! Sono davvero uno psicopatico.

Riscaldai gli avanzi di pizza fredda della sera precedente e mangiai di fretta e nervosamente nonostante avessi tutto il tempo di farlo. Quando sono in ansia mi si chiude lo stomaco, e fu così anche quel giorno, tant’è che dopo due fette striminzite dovetti lasciar perdere l’idea di pranzare – se volevo evitare di vomitare il tutto poco dopo-.
Dovetti prendere l’autobus perché Jennifer non mi aveva lasciato l’automobile: sebbene ci volesse meno di mezz’ora per raggiungere Lewdan, mi sembrò un viaggio infinito in cui non riuscì a pensare ad altro che alle gaffe che avrei sicuramente fatto da lì a breve.
4.3 - “Artista”
Era una bellissima giornata, il sole splendeva, faceva caldo –fin troppo- e non accennava a peggiorare.
Ed ecco, l’autobus parcheggiò nello spiazzo di fronte alla stazione dei lev: Steven era sul marciapiede ad aspettarmi ed io lo vidi immediatamente ancora prima di scendere.
“Ok David, ci siamo, adesso vai e dim…AUCH” Sbattei la testa contro il corrimano accanto al mio sedile mentre mi alzavo: ancora oggi non so se lui se ne sia accorto, ma comunque quel piccolo gesto è ciò che più mi rappresenta; il mio terzo nome dovrebbe essere sbadataggine.
“Beh, ciao!” Disse sorridendo e tendendomi la mano –nonostante ci fossimo già scambiati una stretta al primo incontro-.
“Finalmente ci rivediamo!” Risposi ridendo.
“Finalmente? Ma sono passati solo tre giorni, non un secolo, David cominci subito??” Dicevano le voci nella mia testa. Riuscì a silenziarle facendo un leggero sforzo di volontà.
“Beh, dove ti andrebbe di andare?” Chiese mettendosi una mano sulla nuca; come la prima volta, mi persi per un secondo ad osservarlo, in modo discreto ovviamente, ma attento.
Era davvero bellissimo, e si era vestito bene per l’occasione.
Io con una t-shirt blanda ed abbastanza usurata, lui con una camicia bianca con le maniche rimboccate.
Questo mi fece sentire per un secondo a disagio, ma sperai di non fargli una brutta impressione.
“Non saprei, facciamo due passi mentre ci pensiamo?”
Così iniziammo a camminare verso il centro; io pensavo disperatamente a cosa dire per non lasciare momenti di silenzio imbarazzanti, Steven sembrava invece più tranquillo, decisamente più tranquillo.
Quasi due anni dopo, mi avrebbe rivelato che in realtà fosse più agitato di me, ma c’era ancora tempo per scoprirlo.
Ci sedemmo su una panchina nel centro del parco di Artemide; di fronte a noi era pieno di bambini che correvano felici sull’erba o che si divertivano sulle altalene, alle nostre spalle, un monumento ai caduti della Prima Guerra Cylone si ergeva per tre metri di altezza.
“Allora, che cosa fai di bello nella vita?” Chiese appoggiandosi con il braccio destro allo schienale della panchina.
“In questo momento nulla di particolare, ho appena finito il liceo e vorrei prendermi una pausa prima di scegliere quale college frequentare.”
“Hai delle idee?” Insistette.
“Beh in realtà si” mi appoggiai a mia volta con il fianco sinistro.
“Vorrei diventare un insegnante ma con tutte le riforme che hanno indetto dovrei studiare almeno per altri quattro anni.” Mi fermai per un momento e mi voltai sentendo un bambino ridere a squarciagola.
“Non che non lo voglia fare, amo i bambini, ma voglio rifletterci bene. Nel frattempo potrei iniziare a lavorare e dare una mano a Jenn… alla mia madre adottiva diciamo.”
Steven si voltò per un attimo verso i bambini per poi rispondermi.
“Oh… mi dispiace, non lo sapevo! E come va… se posso?” Colsi un filo di tristezza nella sua voce, o forse era più una forma di imbarazzo dovuta alla paura di essere stato indelicato.
“Ma no, figurati! Va tutto bene ormai! La mia famiglia ha una storia molto lunga, non vorrei annoiarti..”
“Mettimi alla prova!” Rispose accennando  un mezzo sorriso, la sua solita espressione a metà tra l’introverso e la sfida. So di averlo già detto in precedenza.
A quel punto posi lo sguardo verso i palazzi oltre il parco, alti quasi ottanta metri e ricoperti di metallo grigio e vetro-cemento.
“I miei genitori sono morti quando avevo un anno.”
“Mi dispiace..”
“ Io sono nato qui su Canceron ma loro erano di Virgon.”
Steven sobbalzò.
“Virgon? Dei, wow! Hai sangue virgano nelle vene?”
“Eh già!” Risi “La cosa buffa è che non ci sono mai stato! Non sono mai uscito da questa fogna di pianeta” Dissi in modo ironico.
Io non odiavo affatto Canceron, non lo sentivo realmente la mia casa, ma non lo odiavo, ne tantomento consideravo una fogna, anzi vi ero affezionato.
Detestavo il fatto che fosse il pianeta più affollato delle Colonie, e non sopportavo che avesse uno dei più alti tassi di povertà ed indigenza che lo ponevano in terza posizione dopo Sagittarian ed Aerilon.
Se soltanto il governo avesse dedicato più risorse e denaro alle opere umanitarie come il risanamento delle baraccopoli o come i servizi di volontariato per i meno fortunati, anziché solo alla gestione dei pozzi di trivellazione mineraria, la situazione sarebbe stata sensibilmente diversa e avrebbe fatto di Canceron un mondo migliore –che in realtà avrebbe avuto molto da offrire-.
“Dai, questa fogna non è così male in fondo!” Rispose ridendo a sua volta.
“Beh, per noi forse no, ma ci sono zone veramente lasciate al loro destino… ma non parliamo di questo adesso!”
“Giusto!”
“Beh te lo dico, il mio sogno più grande è di poter vedere Virgon un giorno e chissà, magari trasferirmici.” Mi resi conto di non averlo mai detto a nessuno, nemmeno a Jennifer. In quello stesso istante pensai che lei aveva lasciato quel pianeta per me, ed ora io, sognavo di ricompensarla andandomene e lasciandola lì da sola. Mi sentì terribilmente egoista, ma il mio conflitto interno fu interrotto dal discorso con Steven che nel frattempo proseguiva.
“Mi sembra un bel progetto!” Disse facendo cenno di si con la testa. Poi si avvicinò leggermente ed iniziò a gesticolare.
“Comunque in fondo, siamo quasi connazionali se ci pensi. Voglio dire, si ora lo siamo, ma lo saremmo anche per quanto riguarda le origini! Virgon e Leonis orbitano attorno alla stessa stella e hanno collaborato molto spesso nella storia!”
“Si… nei momenti in cui non si combattevano.” Scoppiammo a ridere entrambi. I nostri pianeti si erano combattuti aspramente diverse volte, agli albori della colonizzazione. Da quando l’umanità aveva lasciato Kobol ed era arrivata su questi mondi aveva vissuto una serie di prevaricazioni continue per il dominio dei degli uni sugli altri.
Fortunatamente, quegli eventi appartenevano ad epoche lontane, diverse e meno civili della nostra.
“Beh ma… dimmi qualcosa di più di te! Vieni da Leonis e? Aneddoti? Sogni per il futuro?”
Gli chiesi interessato appoggiandomi nuovamente allo schienale.
Ora una piacevole brezza ci accarezzava gentilmente.
“Oh si certo. Beh, come ti dicevo i miei genitori hanno divorziato quando ero piccolo… mio padre non c’era mai. Mai.” Quel “mai” fu pronunciato in tono quasi solenne.
“Hai detto che lavora nella flotta, giusto?”
“Si, è un ufficiale della Flotta Coloniale, è in servizio sulla Yashuman da sei anni. In questo momento probabilmente è in orbita attorno a Caprica o Tauron.” Il tono della sua voce si fece leggermente aspro.
“In passato è stato di ruolo su altre navi, ha viaggiato per tutte le colonie, ma il luogo dove non è mai stato è a casa con noi… a questo punto non vorrei essere io ad annoiarti con questa storia.” Al chè chinai il capo e gli risposi “Ma no, figurati!”
Lui però non ne voleva davvero parlare, lo notai dallo sguardo nei suoi occhi.
“Ho vissuto ad Erima per otto anni” Disse “E’ una città di mare ai piedi di un vulcano inattivo, è vicina all’equatore.”
“Come mai siete finiti anche voi quaggiù, se posso?” Gli domandai.
“Dopo il divorzio mia madre voleva ricominciare da capo… non che avesse molto da dimenticare, lo dico onestamente. Le sue sorelle vivevano su Canceron già da anni e allora fu una decisione quasi scontata.”
Si grattò per un secondo la barba.
“Capisco!”
“Lui ci invia un assegno ogni mese, beh, sostanzioso diciamo. Ha anche proposto di pagarmi gli studi..”
Questo intermezzo mi consentì di aprire una nuova parentesi.
“Cosa vorresti fare dopo il liceo?”
A quel punto, il sorriso ritornò sulle sue labbra donandogli un aspetto meraviglioso.
“Vorrei cantare! Cioè.. io già canto! Sono un cantante ma vorrei esserlo a livello professionale! Sai, formarmi definitivamente, magari riuscire a sfondare!”
Un cantante! Stavo uscendo con un cantante, questo rese Steven ancora più interessante di quanto non fosse già di per se.
“Wow, è fantastico! E’ il miglior mestiere che conosca Steve!”
Steve. Era la prima volta che lo chiamavo per nome e già gli davo un diminutivo; un secondo dopo averlo pronunciato guardai in basso sorridendo.
“Assolutamente!” Disse ridacchiando “E’ esattamente come la pittura! Cioè, in un certo senso. Ti permette di esprimere te stesso con la voce e le parole..” In pratica avevo davanti un artista.
“L’unico problema è che qui sarebbe un po’ difficile per me, passami il temine…spiccare il volo…
“Come mai?” Chiesi.
“Non ci sono accademie musicali valide su Canceron, per quanto riguarda l’arte in generale siamo davvero poveri.. dovrei trasferirmi altrove..”
“Trasferirti?”
“Si… su una colonia il cui settore artistico sia più evoluto. Non saprei, Caprica, tornare su Leonis… o Virgon!”
Sgranai gli occhi: avevo appena accennato al mio desiderio di andarci e lui se ne saltava fuori con questa cosa.
“I Virgani sono i primi artisti delle Colonie, lo saprai meglio di me immagino! La loro moda! I loro capi d’abbigliamento sono venduti ovunque, tanto per dire!”
“Si hai ragione, mio padre era uno stilista infatti!”
“Ecco! Questo intendo, voi siete probabilmente l’incarnazione dello spirito artistico!”
Quella sua affermazione mi fece quasi arrossire. Era un complimento generale per il mio popolo… o per me? E perché dopo così poco sembravano già esserci le premesse per un futuro? Addirittura avevamo la stessa meta in mente? Potevo essere davvero così fortunato? Potevano queste combinazioni essere tutte a mio, a nostro favore?
Mi persi a guardarlo mentre parlava animosamente dei suoi interessi, dei suoi cantanti preferiti, dei generi che amava; mi resi conto di essere totalmente rapito dalla sua figura gesticolante –gesticolava davvero tanto nei momenti in cui parlava di cose che lo interessavano-.
Non mi sentivo in quel modo da tanto, si da tanto.
Così tanto da non ricordarmi quando fosse stata l’ultima volta… in realtà non ce n’era una.
Era la prima volta che mi sentivo in quel modo, dissi a me stesso mentre lo ascoltavo in silenzio.
Sorridevo, annuivo, gli facevo cenno di continuare.
Sorridevo.
Probabilmente era già nato tutto in quel momento, su quella panchina nel parco verde in mezzo a bambini allegri. Era già nato tutto allora.
Era già tutto vero per me.
“Scrivo anche canzoni!”
“…Cos..cosa?”
“Ho detto, scrivo canzoni!”
Mi ero perso per qualche minuto; richiamato alla realtà risposi:
“Oh wow! Vorrei sentirle!”
Imbarazzato, si passò una mano tra i capelli
“Magari più avanti dai!”
“Guarda che ci conto!” replicai con insistenza.


4.4 –“Enchanted”
Camminammo per le strade della cittadina per diverse ore per poi ritrovarci nuovamente di fronte alla stazione dei treni Lev, dove i nostri rispettivi autobus ci avrebbero riportato a casa.
Ricordo quanto mi piacesse quel viale alberato, e quanto il verde delle piante di Lewdan facesse sembrare diversa la città dal resto del pianeta, come se fosse un’isola felice, come al suo esterno se non ci fossero inquinamento e grigiore. La luce del sole del tardo pomeriggio filtrava delicatamente tra le foglie e proiettava timidi raggi sulla strada, dove le automobili procedevano velocemente ed incessantemente.
“Mi ha fatto davvero piacere conoscerti!” Disse Steven incrociando le braccia.
“Anche a me! Se ti va di rivedermi potremmo…”
“Certo!” Non mi lasciò nemmeno finire la frase.
“Beh… allora ci vediamo!” Ero incerto se farlo o meno, ma mi avvicinai a lui e provai ad abbracciarlo –uscì una cosa strana a dir la verità, una sorta di abbraccio incerto e timido ma allo stesso tempo sentito e soprattutto, corrisposto-.
“Non so abbracciare!” Disse ridendo “E’ imbarazzante!” Quanto meno mi sentivo meno solo nel mio disagio.
Salimmo entrambi sui nostri mezzi e ci salutammo dal finestrino.
Ricorderò sempre la sensazione che provai mentre me ne stavo seduto sul mio sedile guardando la campagna in movimento all’esterno, come se avessi realizzato proprio in quel momento come mi sentissi a riguardo.
Avevo il sole in faccia e sorridevo. Sorridevo, come in auto tre giorni prima, sulla stessa strada, di ritorno dallo stesso luogo.
Scesi dall’autobus e mi guardai attorno: sembrava che gli alberi e gli edifici vicini fossero tutti partecipi della mia felicità. Oh dei, ero felice? Per così poco? Così in fretta? Si, lo ero.
Ero felice.
Quel giorno vide l’inizio della mia felicità che, tra alti e bassi, non se ne sarebbe mai andata. Mai.
Ero stupefatto, ed arrossivo sulla via di casa.
Ero incantato.

Quell’incanto si sarebbe trasformato, un giorno, nella mia ragione di vita.
Continua…

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Promesse ***


Capitolo 5: Promesse

5.1 –“L’erba è uguale ovunque”
Ogni giorno i nostri vicini si addentrano sempre di più nel territorio dove ci siamo stanziati da ormai due mesi; l’erba oltre la collina è alta, e penetrare in questa savana non è facile.
Io e Steven siamo leggermente… sedentari, non ci allontaniamo troppo dall’accampamento, un po’ per mancanza di temerarietà; personalmente credo di averla esaurita tutta in questo dannato esodo e adesso che finalmente abbiamo l’opportunità di starcene tranquilli non vedo perché cacciarci in qualche guaio.
Miei dei, abbiamo vissuto un esodo.
In realtà ne abbiamo vissuti due, ma che senso ha distinguerli? Su New Caprica non potevamo certamente considerarci a casa. Eravamo dei fuggiaschi che si nascondevano sperando che i fili d’erba dietro ai quali stavamo fossero abbastanza alti da coprirci. Che ingenui.
Quattro anni di corsa su una flotta di astronavi disperate alla ricerca della Terra, astronavi che fino a non molto tempo prima portavano la gente a spasso per le Dodici Colonie, chi per lavoro, chi per una vacanza.
Mi sembra quasi strano pensare che quelle astronavi le abbiamo spedite tutte nel sole dopo averla trovata,  la Terra.
E i nostri vicini si ostinano ad esplorare le zone che ci circondano.
Mi rendo conto che sia necessario, che qualcuno debba pur farlo… ma chissà che bestie si nascondono in queste.
Forse leoni feroci? Tigri? O altri mostri mitici magari. Preferisco starmene qui sulla nostra cara erba verde. Sembra che l’erba qui sulla Terra sia uguale a quella dei nostri vecchi pianeti, forse è uguale in tutto l’universo?
O magari qualche parte sarà strana, diversa.
Magari molle e animata?
Che discorsi.
Steven lavora alla pompa dell’acqua che hanno costruito al fiume, io aiuto nella costruzione delle capanne e nel pomeriggio tengo i bambini del nostro gruppo.
Se la Roslin fosse ancora viva se ne sarebbe senza dubbio occupata lei.
Povera Laura, avrei voluto conoscerla personalmente e non soltanto vederla in fondo ad una sala conferenze mentre discuteva di politica, o vederla passare di sfuggita in un corridoio affollato circondata da guardie del corpo e segretari del suo entourage, o sentire la sua voce in un alto parlante mentre rassicurava la flotta sul nostro futuro. Avrei voluto parlarle, stringerle la mano e dirle quanto la stimassi.
Entrambi amiamo i bambini.
Lei li amava, almeno.
Siamo stati entrambi degli insegnanti, abbiamo spremuto le nostre meningi sui banchi di scuola ; magari le sarei piaciuto.

Ho molto tempo per riflettere ora che siamo più liberi dalle convenzioni sociali e quando vedo Steven tornare da me mi passa tutto davanti agli occhi come in un film.
Come fosse ieri.
Sapevo di essere innamorato dopo una settimana, cinque anni e mezzo fa.
Come in una di quelle canzoni d’amore country dove l’artista sta seduto su una palla di fieno ,sotto le stelle e con una chitarra acustica in mano, parlando in chiave musicale della felicità che è entrata nella sua vita, e di come quella persona sia magicamente diventata tutto.
Si, magicamente, come se fosse una magia, come se fosse qualcosa di sovrannaturale.
Ma forse in un certo senso l’amore è sovrannaturale, ultraterreno.
Ma questo è un altro discorso.


5.2 – “Non correre”
Su Canceron, Io e Steven continuammo ad uscire stabilmente per settimane, a giorni alterni.
Potrei raccontare decine di aneddoti, di fatti successi, di ricordi.
Come quella sera in cui andammo al cinema insieme: lui era arrivato prima di me e mi attendeva all’entrata dell’edificio, proprio dietro alla porta che stava sotto all’insegna luminosa del cinema – Shining Doors-.
Io arrivai e non appena lo vidi, rimanendo letteralmente bruciato dal suo sorriso – che vedevo per la prima volta in quel modo- non mi resi conto che invece di entrare dalla porta principale entrai da quella accanto, mettendomi in coda senza motivo.
Ridiamo di questa mia figura ancora adesso, dato che la mia goffaggine non se n’è mai andata.
Ricordo il momento in cui iniziammo a vederci davvero come una coppia: fu un pomeriggio, pochi giorni più tardi, nello stesso viale alberato che ci aveva visti salutarci per tornare a casa al primo appuntamento.
Ricordo i pomeriggi all’ombra degli alberi nei parchi di Lewdan, trascorsi ad ascoltarlo cantare con la sua chitarra, seduti su una panchina; le persone attorno a noi passavano di fretta lanciando sguardi veloci e disattenti, quasi come se invidiassero il nostro “noi”, quasi non le vedevo.
Non le vedevamo.
Sentivo di essere nel posto giusto al momento giusto; non mi importava realmente su quale pianeta vivessi, sapevo di essere nell’unico luogo dell’universo in cui avesse senso trovarsi: accanto a lui.
Ricordo quanto la sua risata fosse diversa da quella di chiunque altro, quanto fosse profonda e baritona, e ricordo quanto mi sentissi fortunato ad averlo accanto, come fossi riconoscente verso la vita per avermelo fatto trovare.
Come se fosse stato un regalo da parte di qualcuno sopra di me.
Forse lo è stato.
Lo è stato?
Dicono che l’amore si possa considerare reale solo dopo molto tempo speso insieme a quella persona, eppure io sono convinto che fosse reale fin dal primo giorno.
E in un attimo, si fecero tre mesi da quel primo giorno.

L’estate finì, il caldo se ne andò, ma fu proprio allora che nelle nostre menti si schiarì tutto.
Già pianificavamo un futuro che sembrava correre fuori dalle nostre stesse mani, già pensavamo a come sarebbe stato vivere insieme, avere un nostro tetto.
“State correndo troppo!” Mi diceva Jennifer un pomeriggio mentre la pioggia picchiettava contro il vetro della cucina.
“Non metto in dubbio che i vostri sentimenti siano reali ma… capisci che non si può pensare di costruire un grattacielo in una settimana David! L’amore non è un gioco!”
Stavamo seduti in cucina a parlare di quei piani mentre la televisione parlava di disordini sociali.
“E’ stata dura la decisione del presidente Adar di inviare un gruppo di Marines su Aerelon” diceva la giovane Playa dentro il piccolo monitor della televisione durante la diretta del notiziario generale di Picon, leggendo un copione posto dalla redazione sulla sua scrivania “Al fine di sedare le rivolte popolari nelle contee attorno alla capitale del pianeta.”
Jennifer era leggermente preoccupata per me, per noi, perché temeva che avremmo preso alla leggera l’idea di una vita insieme.
Come darle torto del resto, molti giovani si lasciano ammaliare dal fascino del divertimento e del piacere, e finiscono per lanciarsi in imprese simili senza nemmeno rendersi conto che non saranno minimamente in grado di reggere ai problemi più basilari.
Fortunatamente, non era il nostro caso.
“Vi conoscete da troppo poco tempo per… programmare di andarvene a stare per conto vostro!”
Si tormentava le mani mentre teneva i gomiti appoggiati al tavolo; io avevo gli occhi rivolti verso lo schermo del televisore ed ascoltavo Playa parlare del dramma.
“Durante un conflitto a fuoco in un bar del posto, quindici persone hanno perso la vita. Il presidente Adar e l’intero governo di Caprica hanno espresso il loro profondo cordoglio ad Aerelon.”
Diceva la bionda con l’accento squisitamente tipico della gente di Picon. La sua voce era leggermente incupita mentre leggeva il rapporto, questa notizia sembrava averla leggermente provata.
“David, mi stai ascoltando?” Chiese Jennifer, voltandosi anche lei per un istante verso la tv.
“Come… Si! Si scusami.” Mi posi una mano sulla bocca per poi risponderle.
“Noi non… non stiamo ancora pensando di andare da nessuna parte.”
“Ne sei sicuro?” La sua voce assunse un leggerissimo tono accusatorio, ma percettibile.
“Si… cioè… ma che discorso stiamo facendo Jennifer? Non scappo da nessuna parte, di cos’hai paura?”
Risposi con un lieve scatto. Jennifer si zittì per qualche secondo, mentre il silenzio veniva riempito dalla parlata veloce e ben scandita di Playa che intanto, continuava a parlare della sparatoria su Aerelon.
“Io voglio soltanto che tu non faccia follie. Io ne ho fatte e…voglio evitartelo” Riprese “Lo capisci?” SI voltò nuovamente verso di me.
“Naturalmente..” e guardai verso il basso incrociando le braccia.
“Non farò nulla senza esserne sicuro Jennifer, su questo puoi stare tranquilla.”
Ed ero convinto di quello che dicevo, anche se non potevo immaginare che la situazione si sarebbe evoluta così velocemente in quel momento.
Non potevo immaginare che il rapporto con Steven si sarebbe consolidato in quel modo… in così poco tempo.
“E poi David… non credo sia una cosa giusta andare a vivere insieme…” Disse con un tono diverso, quasi intimidito e indugiante.
“Come mai?” Chiesi guardandola con aria interrogativa.
“Beh…” Iniziò ad giocherellare con le punte dei capelli in modo quasi nervoso, facendo trasparire una certa angustia nel prepararsi a dire ciò che pensava; mentre la guardavo realizzai che non mi fossi mai reso conto di quanto fosse bella quella donna; quanto i suoi lineamenti fossero tipici delle donne di Virgon, quanto fosse invecchiata precocemente in quegli anni e quanto le volessi bene.
“Voi non…” e mi chinai leggermente verso di lei chiedendo “Noi non?”
“…Voi non siete sposati.” Terminò velocemente guardando in basso, come se si vergognasse di ciò che avesse appena detto.
Al chè mi pietrificai per qualche secondo e la mia risposta assomigliò ad suono scomposto –aehw- piuttosto che ad una parola reale; mi passai una mano tra i capelli.
“E sai come la penso, gli Dei non approvano certe cose. Due giovani che vivono sotto lo stesso tetto senza essere sposati…” Arrossì “…e dormono insieme!” Adesso era chiaramente imbarazzata –e a dire il vero lo ero anche io- , la sua parlata era diventata veloce e nervosa, e guardava verso il soffitto con le sopracciglia inarcate.
“Jennifer io non..” Provai a rispondere richiamando a me la ragione.
“Io non so cosa dire… intendo, cioè non… non credo ci sia bisogno di parlarne..” Non sapevo come cavarmela in quella spinosa situazione; in fondo lei non mi aveva mai parlato di cose simili e perciò mi lasciò spiazzato e senza argomenti con cui controbattere.
Inoltre, non mi era mai sembrata una donna particolarmente devota alla religione, non l’avevo mai vista frequentare le funzioni al tempio ne tantomeno pregare.
Non immaginavo avesse idee tanto tradizionali e conservatrici. Davvero la conoscevo così poco?
“Non credo sia un vero problema Jennifer…e poi scusa non dicevi di non correre? Stai parlando di matrimonio!” Inarcai anche io le sopracciglia per poi proseguire.
“E poi forse- indugiai-forse per certi discorsi è un po’…tardi…” dissi abbassando ancora di più la voce, pentendomi immediatamente di aver fatto una tale allusione.
“Oddei!” Scattò Jennifer totalmente a disagio “ la discussione sta andando oltre.. ascolta, sei grande ormai, quello che dovevo dirti te l’ho detto” Inarcò nuovamente le sopracciglia e chiuse gli occhi in tono solenne “Cerca di agire in modo ponderato e non lasciarti prendere la mano, ok?”
“Ok…” Risposi un po’ titubante.
Ci guardammo negli occhi rimanendo in silenzio per pochi secondi prima di scoppiare in una grossa risata, dovuta forse a quello che avevo appena detto, forse al fatto che mi sentissi trattato come un bambino, o semplicemente per quanto fosse insolita la situazione.
“Comunque” cercò di blaterare lei mentre singhiozzava per le risate “non avevo mai pensato che saresti cresciuto così velocemente.”
Le risate divennero fragorose.
5.3 –“Capelli dritti”
Entrambi avevamo deciso di prenderci un anno di pausa con gli studi, e lavoravamo per dare una mano alle nostre rispettive famiglie –oltre che per mettere da parte una manciata di cubiti da investire l’anno seguente nelle rette universitarie.
Io avevo trovato un posto come educatore nella scuola dell’infanzia comunale ad Eneris, dove lavoravo tre pomeriggi a settimana; ero letteralmente terrorizzato all’idea di avere la responsabilità di seguire venticinque bambini dai tre ai sei anni.
Era il mio obiettivo, ed avevo iniziato un percorso per specializzarmi in quel mestiere, perciò il mio terrore era del tutto infondato. Ero bravo ed ero portato per lavorare con loro, eppure la mia bassa autostima e la mia paura del mondo non mi aiutavano.
Steven lavorava come impiegato nell’ufficio sotto il suo palazzo, il suo diploma glielo permetteva; quel lavoro non gli piaceva per niente, ma sarebbe stato solo per un anno, perciò si impose di tenere duro.
Lo prendevo in giro perché doveva indossare sempre giacca e cravatta; per risposta alle mie ingiurie scherzose, scuoteva la testa in silenzio guardando in basso; in realtà trovavo che fosse bellissimo con quegli abiti, gli davano un aspetto professionale e maturo.
A differenza sua, mi divertivo molto al lavoro, ma lo posso comprendere; sebbene non fosse esattamente un impegno leggero, correre dietro ai bambini tutto il pomeriggio era decisamente più interessante di quanto non potesse esserlo spillare carte e stare davanti ad un computer per sei ore al giorno.
E ci divertivamo davvero: li facevo disegnare, giocare con le formine, imparare a scrivere il loro nome.
Ma la cosa che più mi piaceva di quel mestiere erano le domande dei bambini, ogni tanto assurde, ma mai senza senso o nesso di causa; sembra che i bambini sappiano essere molto più profondi degli adulti alle volte, per non dire sempre.
Hanno ancora in cuor loro quel qualcosa che si finisce per perdere crescendo, la capacità di vedere oltre la realtà, di vedere oltre i limiti, di amare. Incondizionatamente.
Proprio in quegli anni Henry Fernandez, famoso psicologo dell’infanzia di Tauron, aveva pubblicato uno studio su una rivista scolastica in cui affermava che i bambini farebbero circa 288 domande al giorno ai propri genitori, per una media di 23 all'ora.
Ricordo quando la piccola Lily Thompson mi chiese, un giorno, prima di tornare a casa accompagnata dal padre, se le persone dall’altro lato del pianeta avessero tutti i capelli dritti in piedi; quando chiesi il perché, incuriosito da quella singolare domanda, mi rispose che essendo a testa in giù quegli sventurati avrebbero avuto questo inconveniente, facendo ridere sia me che il padre.
Tutti i genitori dei bambini sapevano chi fossi e molto presto divenni noto come il “maestro biondino”, “quello che accompagnava sempre Tracy per mano fino all’uscita per non farla piangere”.
Non capisco come facciano certe persone a dire di odiarli, i bambini; sono meravigliosi, sono innocenti e puri, e sono il nostro futuro. Come si fa a non provare amore per loro?
Come si fa a non desiderare di proteggerli ed accudirli?
Me lo sono sempre chiesto –e continuerò a chiedermelo a quanto pare, perché l’uomo non cambia mai-.
Nella mia sezione c’erano bambini provenienti da tutte le Colonie, ma per la maggioranza dai pianeti più poveri –il nostro  Canceron era considerato tra quelli-.  
Alcuni di loro facevano fatica a comprendere la parlata Capricana di noi maestri, da tanto che era grave la condizione di indigenza da cui venivano.
Io e i colleghi ci dovevamo ingegnare al meglio per farci capire, tant’è che appendemmo una serie di tabelloni colorati con immagini rappresentanti le parole più importanti, per aiutarli nel masticare meglio quella strana lingua –nonostante fosse la lingua ufficiale nella nostra società-.
Ricordo che un pomeriggio Steven si fece trovare con un fiore di plastica in mano, fuori dalla porta dell’asilo; non dimenticherò mai quel momento: indossava un giaccone nero, era  appena tornato dall’ufficio, e il sole che stava ormai tramontando gli disegnava un’ombra molto suggestiva sul lato destro del viso, mentre il sinistro era illuminato da una fioca ma interessante luce arancione, fino al mento, sotto il quale era elegantemente adagiata la sua sciarpa rossa.
Ed ancora, quel suo solito sorriso, a metà tra l’introverso e la sfida, la testa chinata quasi verso il basso e un portamento tutto di un gentiluomo.
“Mi ricordava te, mi sembrava una cosa carina.” Disse con un filo di voce mentre mi passava quel dolce regalo che non avrei potuto apprezzare di più.
“E’ bellissimo, grazie.” Risposi abbracciandolo, mentre i bambini uscivano dalla porta dietro di noi, accompagnati dalla signorina Lawrance e l’assistente Levison.
Sarebbe dovuto durare per sempre, quel fiore, quel fiore di plastica con i petali tinti di un fresco lilla.
Mi dispiace non averlo potuto portare con me, mi dispiace che sia andato distrutto con tutto il resto.
Ma esiste ancora nel nostro cuore.
“Com’è andata oggi?” Mi domandò mettendo il suo braccio attorno alla mia spalla, mentre ci incamminavamo verso la sua automobile.
“Oh bene, hai presente Tracy Campbell, la bambina di cui ti parlavo l’altro giorno?” Risposi ridendo, pregustando quello che stavo per dire.
“Quella che piange sempre?”
“Si lei!-risi ancora più forte- I suoi nonni sono di Sagittarian e i genitori la portano da loro tre volte all’anno. Ha passato tutto il pomeriggio a parlarmi di come l’astronave si alza in volo dall’aeroporto e come sia bello vedere il pianeta allontanarsi dal finestrino…”
“Wow è… interessante, lo fa davvero abitualmente?” Chiese Steven.
“Si e continuava a dirmi che l’hostess le porti sempre il succo di melograno quando escono dall’atmosfera e roba simile, mi ha fatto anche il disegno della nave nello spazio. Ora, io amo questa bambina ma” ricominciai a ridere “santi dei non ce la facevo più, non ha parlato d’altro per cinque ore!”
“Beh” ribattè lui “Sai come sono fatti i Sagittariani.. sono tutti fuori di testa!” Disse riferendosi alle assurde idee della gente di quel pianetino freddo e arido a riguardo della medicina, abominio secondo loro agli occhi degli dei.
“Hey! Io ho un’amica su Sagittarian! Lei non è pazza!” Dissi riferendomi alla dolce Cassie; sorrisi voltandomi verso di lui per un attimo e condividemmo un breve sguardo.
“E’…un’amica di penna diciamo, ma è una ragazza fantastica, ci diciamo tutto!”
La sua macchina era parcheggiata dall’altra parte della strada; il traffico era pesante, faceva freddo, ed io sprofondai nel mio giaccone che mi arrivava fino a poco più in alto del ginocchio.
“Stasera vieni con me” disse “voglio mostrarti una cosa!” Attraversammo la strada velocemente ed entrammo in macchina.
“Wow, sono curioso adesso, cosa vedrò?” Chiesi mentre appoggiavo la tracolla sul sedile e lui metteva in moto il motore.
“E’ una sorpresa.” Sorrise.
Mi tolsi i guanti e passai una mano nel mio ciuffo di capelli biondissimi, tendenti quasi al bianco, ma con un centimetro di ricrescita scura, per poi sospirare ed annuire con un sorriso.
Passò a prendermi dopo cena e dopo aver salutato Jennifer, guidò fino ad uno dei campi di grano appena fuori Eneris per parcheggiare sullo spiazzo di fronte. L’aria era gelida ma, in un qualche modo che adesso non so spiegare, gradevole; una leggera foschia aleggiava su ciò che rimaneva delle spighe di grano mietute mesi prima, rendendo il luogo molto suggestivo e, volendo, misterioso e inquietante. In realtà era un banalissimo campo di grano.
“Vieni, scendi!” Disse mentre apriva lo sportello.
Ricordo perfettamente la sensazione della ghiaia sotto le scarpe che provai non appena poggiai piede a terra; mi avvolsi bene la sciarpa attorno al colletto della giacca ed infilai i guanti.
Il silenzio era quasi assoluto, interrotto soltanto dal flebile rumore delle automobili sulla statale dietro gli alberi, e dal rombo lontano dei rotori delle astronavi  che volavano nei cieli della capitale a trenta chilometri da noi.
“Guarda in alto, il cielo.” Mi invitò a sedermi accanto a lui sul cofano della sua utilitaria grigia; guardai in alto aspettandomi una qualche visione straordinaria: nulla di strano, cielo, stelle, qualche nuvola, un paio di navette da trasporto.
“Cosa dovrei vedere?” Gli chiesi strofinandomi le mani per ottenere un po’ di tepore, inutilemente.
“Non ti sembra più bello il cielo, stasera?” Chiese, inducendomi ad osservarlo meglio. Ed era vero!
Non ci avevo fatto caso, ma quella sera –come in altre tre sere di quella settimana, a sua opinione- il cielo sembrava molto più limpido del solito, libero dall’inquinamento luminoso e dalla cappa di smog a cui noi eravamo tristemente abituati e che tormentava costantemente l’atmosfera del nostro pianeta.
“Oh dei, è vero! Si vedono molte più stelle del solito oggi!” Esclamai con molto stupore. Probabilmente era grazie al freddo che aveva momentaneamente dissipato la sporcizia nell’aria.
Steven mi prese per mano, mentre con l’altra indicò in alto a destra nel cielo, indirizzando il mio sguardo verso una stella particolarmente luminosa a meno di mezzo anno luce da noi, non lontana da un’altra simile, dall’anima leggermente più fioca.
“La vedi quella? Quella più grande e luminosa?” Chiese voltandosi leggermente verso di me.
“Si.” “Quella è Helios Beta. E’ la nostra stella, il nostro sistema solare. Virgon e Leonis sono là..”
Mi sussurrò con dolcezza mentre io non dicevo nulla. “E’ casa nostra David. Le nostre radici, la nostra gente.” Continuò guardandomi.
Mi voltai verso di lui sorridendo leggermente.
Com’era strano a vedersi: da quel campo di grano, seduti sul cofano di un’automobile, potevamo vedere  due delle quattro stelle attorno alle quali orbitavano le nostre colonie, i nostri dodici pianeti; quel pallino luminoso nel cielo era in realtà pieno di vita, attorno a lui vivevano miliardi di persone; e chissà quanti altri stessero osservando il nostro sistema solare da laggiù, pensando alle stesse cose. E chissà quante astronavi in quel momento erano in viaggio nello spazio che le separava.
L’altra stella accanto, più fioca – perché leggermente più distante- , Helios Alpha, ospitava Caprica, il fulcro centrale della nostra civilità. Quel mondo ricco e florido che di certo in quel momento, seduto sul cofano di un’utilitaria, non pensavo avrei mai visitato.
“Volevo mostrartelo, mi sembrava una bella cosa. Forse è da sciocchi ma mi sembrava carino..” Indugiò guardando a terra mentre le nostre mani erano strette insieme; sembrava così timido nell’essere tenero nei miei confronti, quasi come se avesse paura di sbagliare qualcosa. Era così giusto invece, per me.
“E’ una cosa bellissima e non è per niente sciocco, credimi.” Gli risposi prima di dargli un bacio in fronte.
“Io penso che… beh, ti ci porterò un giorno. Ti porterò a casa.” Disse lui.
 
“This night is sparkling, don’t you let it go”
Continua…

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Presagi ***


Capitolo 6 - Presagi

6.1 – “Giraffe e profezie”
La settimana scorsa un forte temporale ha messo a soqquadro il nostro accampamento: le assi di legno che avevamo impilato ai piedi dell’albero di fianco all’entrata sono state sbalzate qua e là come stuzzicadenti; due capanne sono state scoperchiate e c’è roba sparsa un po’ ovunque.
Il vento e l’acqua hanno fatto davvero un bel disastro quaggiù.
Massì, diciamolo, un bel casino.
Mi manca davvero avere un tetto solido sopra la testa, un tetto in cemento armato e con le tegole intendo. Certo, un anno nelle tende di New Caprica City mi ha allenato a vivere senza troppe comodità, però santo cielo… se potessi tornare indietro, a casa mia, lo farei immediatamente.
A volte mi sorprendo a pensare che mi manchino le paratie delle cuccette delle astronavi in cui siamo stati rinchiusi per quattro anni, nonostante allora spesso le maledicessi.
In fondo non erano così male. Le astronavi.
Non c’erano continui temporali ed acqua che entrava a fiotti dal soffitto; anzi, l’acqua a volte mancava.
A cento metri da noi, sul fiume, hanno trovato una giraffa morta: probabilmente dev’essere caduta durante il temporale ed è annegata nel corso d’acqua rigonfio per le precipitazioni.
Ho dovuto spiegare io ai bambini del nostro gruppo, ieri pomeriggio, che quella giraffa adesso è in paradiso e che purtroppo era arrivato il suo tempo, come per tutti noi; Ally Trevison ha pianto e mi ha guardato con quel musetto triste che una bambina di sette anni fa davanti ad un avvenimento spiacevole.
“Ma adesso” ha detto tirando su con il naso e singhiozzando “Come farà a mangiare le foglie degli alberi?” con tanta innocenza e disappunto.
Ah, questi bambini sono davvero particolari: sono alcuni tra i pochi sopravvissuti ad un olocausto che ha ucciso quasi trenta miliardi di persone; la maggior parte di coloro che conoscevano sui nostri mondi sono morti… ma loro sono ancora capaci di impressionarsi per la morte di un animale.
Piccoli cuori puri ed ingenui, pieni di stupore e vivacità.
In realtà li capisco; capisco la piccola Ally, perché nel profondo, la morte della giraffa ha colpito anche me. Perciò mi sono avvicinato a lei e le ho messo una mano sulla spalla mentre piangeva, dicendole di non preoccuparsi.

Steven mi ha raggiunto sulla collina, la solita collina dove andiamo per ammirare la vista delle praterie nella savana di fronte a noi.
E’ sempre confortante abbracciarlo, sentire il suo calore, sentirmi protetto nella presa delle sue larghe spalle.
Gli ho passato una mano tra i capelli, cortissimi, dopo che li ha rasati due settimane fa; ho riso malignamente e lui mi ha tirato una gomitata di disapprovazione, non gli piace che lo prenda in giro per i capelli. In realtà mi piacciono, lo fanno sembrare un duro, così corti.

Mentre cercavo di addormentarmi, l’altra sera, pensavo a quanto io e Jennifer fossimo in sintonia, nel tempo che abbiamo avuto insieme; quanto fossimo simili.
Non avevamo lo stesso sangue nelle vene ma…c’era qualcosa in lei che avevo anche io.
Ma cosa, che cosa poteva essere?
All’improvviso mi è balenato in mente un ricordo, e da lì ho capito tutto: una frase che lei mi disse quando ero un bambino, un pomeriggio in auto, di ritorno da scuola:

“Ho come avuto un flash di te da grande, davanti ad una prateria.”
Ho sbarrato gli occhi e fissato il “soffitto” della capanna; mi sono voltato verso Steve che dormiva dandomi le spalle.
Oh dei, può essere?
Lei…sapeva?

“… davanti ad una prateria.”
Davanti ad una prateria.
Ma certo.
Il giorno in cui siamo arrivati siamo arrivati sulla Terra; il giorno in cui abbiamo messo piede sul nostro nuovo pianeta, la nostra nuova patria.

“Ho come avuto un flash di te da grande, davanti ad una prateria.”
La frase continuava a ripetersi nella mia testa mentre io tenevo stretto il lembo della coperta nelle mani; mentre il cuore mi batteva a mille.
Le navette da sbarco erano atterrate a mezzo chilometro dalla collina, quel giorno, esattamente dove sarebbe poi sorto il nostro accampamento; io e Steven eravamo andati a fare due passi verso quella collina e ci eravamo seduti all’ombra dell’albero sulla sua cima, ad osservare il panorama… la prateria.
Miei Dei, ma come ho fatto a non rendermene conto in quel momento? Come ho potuto essere così distratto da non accorgermi che Jennifer me l’aveva detto, che aveva descritto quella scena… più di dieci anni prima.
Ho guardato nuovamente Steven e gli ho scosso il braccio per svegliarlo.
“Hey, Steve…”gli ho sussurrato.
“Mmmh…” ha bofonchiato senza aprire nemmeno gli occhi.
Dopo un secondo di indugio, ho pensato che sarebbe stato meglio parlarne più avanti, da svegli, e l’ho lasciato dormire in pace.
E sono tornato nel limbo dei miei pensieri a chiedermi come fosse possibile.
Lei lo sapeva, sapeva che avrei visto quella prateria, e sapeva anche un’altra cosa:


“Penso che tu vedrai grandi cose, David; ho capito che un giorno tu farai parte di qualcosa di stupefacente.”
…e cosa poteva esserci di più impressionante dell’esodo della civiltà umana dai suoi mondi e più stupefacente della sua rinascita da zero su un pianeta dall’altro lato della galassia?
Ovviamente non era conscia del significato delle sue “visioni”, se così possiamo chiamarle; non immaginava certamente che il nostro quotidiano sarebbe stato incenerito con le bombe nucleari e che i Cyloni ci avrebbero sterminati, ma dentro di se, sentiva che sarebbe accaduto qualcosa di grande, di enorme.
Pensando a queste strane idee che iniziavano a marciare velocemente nella mia mente, stavo finalmente per addormentarmi, quando un ulteriore pensiero mi è piombato di fronte, come se fosse davvero davanti a me, seduto sulla sedia accanto al letto: quei sogni che facevo quasi cinque anni fa, quelle immagini, quelle strane visioni notturne, quelle parole, quelle figure bizzarre, quegli incubi.
Aspetta! Non era la prima volta che ci pensavo! Ma si!
Quel giorno, il giorno degli attacchi alle colonie, quattro anni fa, mentre me ne stavo seduto in prima classe nell’astronave di linea accanto a Steven e attorno a noi dilagava il panico per la notizia! Già allora ci avevo pensato! Lo avevo sognato!
Lo avevo sognato?
Poteva essere così? Poteva essere che io… no. Oh forse si?
Mi sono voltato nuovamente verso Steven e sono scivolato contro la sua schiena, abbracciando la sua vita.
Per un attimo ho percepito i miei occhi inumidirsi, e ho avuto paura; volevo piangere. Mi sono stretto a lui e ho pensato che in qualche modo…mi sentivo colpevole.
Sapevo.
Io e Jennifer sapevamo.
Avevamo visto il futuro, solo che non ce n’eravamo mai resi conto.

6.2 – “Navette e assegni”
Per diversi giorni avevo pensato a quello che Steven mi disse quella sera, seduti sul cofano della sua auto a guardare le stelle:
“Io penso che… beh, ti ci porterò un giorno. Ti porterò a casa.”
A casa, su Helios Beta; su Virgon.
“E’ un sistema solare pieno di opportunità David!” Mi aveva detto in seguito.
“E’ un luogo di crescita, diciamo. La gente è diversa da qui, sono tutti più aperti e pensano in modo trascendente.” Nulla a che vedere con Helios Delta, il sistema che ospitava il nostro grigio e chiassoso Canceron.
Più andavamo avanti e più sentivo che Steve era sincero quando mi diceva di volere davvero un futuro con me, e soprattutto che lo voleva .
E più lo sentivo, più l’idea si faceva strada anche dentro di me.
Era ormai pieno inverno, il mese di Ianuarius si apprestava a finire, ed Eneris era coperta da un leggero strato di nevischio biancastro, tanto sottile da far trasparire qua e là il catramoso colore dell’asfalto stradale, ma abbastanza spesso da rallentare tutte le automobili in circolazione nella zona.
La neve illuminava tutto il paesaggio e quel –seppur sporco- bianco gli donava una sorta di nuovo candore, come se la natura avesse deciso di far sembrare pulito il nostro piccolo angolo di pianeta. Ma soltanto per finta.
Quel pomeriggio, tornavo a casa a piedi dall’asilo comunale, un po’ prima rispetto al solito per via della chiusura anticipata; appena girato l’angolo all’incrocio tra la statale e la via principale della cittadina, dovetti tapparmi per un attimo le orecchie con le mani: i fiocchi di neve mezzi sciolti sui miei guanti di lana mi puntellarono le guance con un fresco pungolio.
Il rumore assordante di una manciata di piccole navette da trasporto che sfrecciavano a nemmeno cento metri d’altezza sopra di me mi fece quasi cadere a terra per lo spavento; guardai in alto nel cielo bianco per contarle da dietro l’albero sul marciapiede: una, due, tre, quattro, cinque! Cinque navette che sfrecciavano in modo decisamente sconveniente e, senza dubbio, illegale sopra il nostro spazio aereo.
Era la terza volta quella settimana: era opera di una gang della quale non ricordo il nome ma che all’epoca faceva davvero scalpore nei sobborghi della nostra zona.
Quegli idioti, stanchi di gareggiare con automobili truccate sulle strade dei centri abitati – rischiando non poco- avevano iniziato a sfidarsi in gare di volo spericolate nei cieli delle nostre campagne: facevano sempre gli stessi giri, ed Eneris era sotto il loro “percorso”.
La gente si lamentava da più di un mese per disturbo della quiete pubblica ma durante le sedute alla giunta comunale, il sindaco non sapeva dire altro che:
“Prenderemo dei seri provvedimenti nei riguardi di quei teppistelli.”
Parole rincuoranti, ma lasciate a se stesse: la polizia non muoveva un dito e quei frak di mafiosi continuavano a scorrazzare in cielo. Era più che un disturbo, era un pericolo per la nostra sicurezza: due settimane prima una delle navette aveva sfiorato il tetto del granaio del signor Johnson raschiando via una decina di tegole e aveva urtato in pieno il mulino a vento accanto.
Che sarebbe successo se una navetta avesse perso il controllo e fosse precipitata sulla piazza della città o su una casa?
O se ci fosse stato un incidente aereo con altre navi –che circolassero legalmente-?
Queste cose mi facevano davvero infuriare al tempo.
Raccolsi la busta di plastica che avevo fatto cadere a terra e continuai a camminare; Steven mi attendeva appoggiato alla staccionata ingrigita del giardino di casa mia.
“Aspetta, fermati un secondo dove sei!” Disse estraendo il cellulare per scattarmi una fotografia.
“Ok..” dissi facendo una strana smorfia ed alzando il braccio destro mostrando la busta azzurra piena dei disegni dei bambini.
“Allora, ti sono mancato?” dissi –o almeno provai a dire- mentre eravamo labbra a labbra.
“Si, sono state otto lunghissime ore, non so come ho fatto a resistere, mia linfa vitale!” Rispose prendendomi in giro ed alzando gli occhi al cielo in tono solenne.
“Davvero divertente ma attento a non inciampare nei tuoi lacci, cantante.” Lo spinsi con una gomitata.
“Non preoccuparti, in genere sono cose che fai tu D!” Rise.
Pensai a quanto fosse vero ed entrammo in casa.
Jennifer aveva appena caricato il camino di legna e ci venne incontro sorridendo.
“Ah, i miei ragazzi, venite qua!” Ero così felice che lei fosse contenta per noi.
Dovrebbe essere la situazione ideale, ma purtroppo non è sempre così.
A volte i genitori disapprovano le storie dei figli per le ragioni più disparate; non era il nostro caso fortunatamente, dato che vedeva Steve come un secondo figlio.
Ci abbracciò entrambi, insieme e con forza, per poi andare di corsa in cucina.
“Steve ha portato una crostata fatta in casa per stasera, ah a proposito ringrazia tanto la mamma!” Disse mentre sistemava nel forno lo sformato di patate che avrebbe servito a cena.
“C’è anche del gelato nel frigorifero, so che fa freddo ma il gelato è sempre buono…”
Will miagolava appollaiato sul mobile dietro il divano, tra un soprammobile e l’altro.
“Oh, vieni qua palla di pelo, è ora di cena per te!” Dissi accanto alla virgana affaccendata.
“David” Mi chiamò Steven a bassa voce dalla sala.
“C’è qualcosa che dovrei dirti.” Si sedette sul divano con le braccia incrociate nel maglione rosso che gli avevo regalato qualche settimana prima, aspettando che lo raggiungessi.
“Che succede?”
“Beh ecco… sai, ti avevo parlato di mio padre che…lavora nella Flotta Coloniale no?”
“Si certo, sulla Yashuman, giusto?”
“Si. Ecco lui si è.. è qui, sul pianeta. Ha preso qualche giorno di congedo ed è qui su Canceron. Vorrebbe vedermi. Anzi” si voltò verso di me “vorrebbe vederci.”
“Oh.” Alzai leggermente le sopracciglia.
“Beh, va bene, ma… non sapevo che parlaste. Oh aspetta, parlate?” Chiesi con un poco di disappunto; ogni volta che si era parlato di suo padre, Steve mi aveva sempre lasciato intendere che il loro rapporto fosse quasi inesistente, se non per eccezione di qualche rarissima email ogni tanto.
“Si.. cioè, più o meno. Da qualche mese abbiamo cominciato a sentirci con più assiduità, almeno una volta a settimana.”
“Non lo sapevo! Beh ne sono davvero felice Steve… anche tu lo sei vero?” gli misi una mano sulla spalla.
“Si abbastanza. Voglio dire, non faccio i salti, assolutamente, comunque non c’è mai stato quando ero piccolo… ma almeno lo sto… riscoprendo.”
Ricominciò a guardare per terra, verso il pavimento sotto la televisione.
“Da quando gli ho detto di te non fa che chiedermi di come vada tra noi. Sembra davvero interessato. E’ la prima volta che lo sento così vicino all’idea di padre.”
In quel momento alzai le sopracciglia ancora di più e sorrisi.
Sentì qualcosa smuoversi dentro: Steven aveva parlato a suo padre e lui si preoccupava per noi, faceva il tifo per noi! Voleva saperne di più. Per un attimo, percepì un profondo senso di gratitudine verso quest’uomo, praticamente a me estraneo, che nonostante fosse sempre stato un pessimo padre per il mio compagno, adesso voleva redimersi.
Tuttavia, l’unica cosa che risposi fu “Oh!”
“C’è dell’altro.”
“Ovvero?” Chiesi.
“Lui…insomma ti ho detto che manda a me e mia madre un assegno ogni mese? Beh… adesso lo ha triplicato.”
“Davvero?” Dissi sbalordito, appoggiandomi con il braccio sinistro allo schienale del divano.
“Si. Dice che ne ho bisogno, ho bisogno di più denaro possibile perché adesso… devo investire nel mio futuro ma soprattutto… nel nostro.”
Io lo ascoltavo in silenzio.
“Dice che per qualunque cosa noi avremo mai bisogno potremo fare totale affidamento su di lui. Se ci servisse aiuto per gli studi, o una casa… o un trasferimento.”
Rimasi in silenzio ancora per un secondo; Jennifer ascoltava in silenzio a sua volta, fingendo di essere indaffarata.
“Oh Steve è..” provai a rispondergli “E’ davvero… non so che dire. Io…grazie!” Lo abbracciai immediatamente. Era curioso come sia io, che Steven che suo padre, dessimo già per scontato che saremmo diventati parenti.
“Si nemmeno io so cosa dire..” Ridemmo entrambi, e il gatto saltò sul divano accanto a noi.
Jennifer ci raggiunse con un vassoio con tre tazze di thè rosso.
“Prendete ragazzi!”
“Beh e… quando vuole incontrarci?” Chiesi mentre mi chinavo verso il tavolino per prendere la tazza.
“Ecco… vorrebbe vederci oggi!”
Sobbalzai e deglutì il thè ustionandomi la gola.
“Oh frak!” riposi di nuovo la tazza sul tavolino per poi ricominciare “No ok, scusa la reazione, solo che… oh dei, incontrerò tuo padre! Oggi! Non sono psicologicamente pronto!”
Jennifer e Steven risero pensando che scherzassi.
“No davvero!” Dissi “E se non dovessi piacergli? Che so, magari...”
“Ma che dici, no!” Mi fermò lui afferrandomi l’avambraccio destro “Non dire sciocchezze, non sarà così.”
Rimasi nuovamente in silenzio per un secondo finchè Jennifer non riempì il vuoto con la propria voce  “A che ora pensate di andare?” Disse per poi portarsi i capelli dietro all’orecchio sinistro con la mano; mi voltai verso di lui
“Beh mio padre ci aspetta tra mezz’ora a Lewdan, nel bar vicino alla stazione dei treni Lev.
Non ci vorrà molto, non è un uomo di molte parole in realtà” Terminò ridendo.
“Torneremo per la cena a ogni modo!” Disse per rinfrancare sia me che Jennifer – che sicuramente non avrebbe avuto piacere a servire uno sformato di patate sfreddato-.
“Non preoccuparti” Rispose “Ho qui Will a farmi compagnia, lui ha sempre bisogno di qualcosa. Vieni qui gattaccio!”

6.3 –“Pyramid e caffè”
Come sempre, c’era traffico e la neve non aiutava; in genere Steven non affondava mai troppo il piede sull’acceleratore, ma quel pomeriggio non voleva decisamente arrivare in ritardo.
In fondo, suo padre, che si stava dimostrando così benevolo nei suoi e nostri confronti, meritava un po’ di riguardo; ma a prescindere da eventuali aiuti che ci avrebbe dato… mi riempiva il cuore di felicità sentire che lui e il figlio si stavano riavvicinando. Sapere che si era pentito di averlo lasciato solo nei momenti più importanti della sua infanzia e giovinezza.
Inoltre, non avendo mai avuto un padre, mi sentivo quasi invidioso delle sensazioni che Steven avrebbe provato da lì a breve, anche se in ritardo di ventanni.
La folla è in delirio qui all’Atlas Arena dove i Caprica Buccaniers e i Virgon United si sfideranno a breve nella finale di stagione!” diceva il cronista sportivo alla radio.
Non avevo mai seguito il Pyramid; in realtà c’erano ben pochi sport che mi interessassero anche soltanto marginalmente. Eppure, la mia conoscenza, seppur scarna, della questione, culminò in un’affermazione:
“Sai che ho lo stesso cognome di un giocatore di Pyramid?” Dissi voltandomi verso Steven che era intento a tenere gli occhi sulla strada.
“Ah si?”Replicò “In che squadra? Da che pianeta viene?”
“Veniva, è morto un paio d’anni fa, aveva quasi ottant’anni ormai.” Risposi passandomi una mano tra i capelli.
“Si chiamava Rod Jenkins; giocava nei Caprica Buccaniers circa sessant’anni fa, quando la squadra era proprietà di Daniel Graystone, prima di…” Mi fermai un momento.
“Prima dei Cyloni.” Steven finì la frase che avevo lasciato in sospeso.
Daniel Graystone.
Ai suoi tempi era acclamato come “l’uomo che prevedeva il futuro”; chissà se quando aveva la mia età immaginava che un giorno, il suo nome sarebbe passato alla storia… e che le sue creazioni avrebbero distrutto i nostri mondi.
Sui libri di storia si parlava in modo piuttosto vago di come lui fosse arrivato a creare il primo Cylone, su Caprica; molto dettagliati erano invece i capitoli riguardanti la loro –prima, ma al tempo considerata unica- ribellione: la Grande Guerra Cylone, avvenuta quasi cinquant’anni fa, diversi decenni prima che io e Steven nascessimo.
La guerra che aveva disseminato morte e distruzione su tutte le Dodici Colonie e al termine della quale l’umanità aveva giurato di non ripetere mai più l’errore di creare qualcosa che avrebbe potuto rivoltarglisi contro.
Centinaia di documentari del periodo circolavano in rete, in televisione, a scuola: una cosa che mi aveva sempre stupito, era vedere come in quarant’anni di tempo, nei nostri mondi non fosse cambiato poi molto: quelle persone, quelle che avevano visto le atrocità della guerra, si vestivano come noi, guidavano automobili come le nostre, e facevano la nostra stessa vita.
Nessuno di noi giovani pensava che nell’arco di un anno avremmo dovuto fronteggiare orrori ben peggiori a quelli dei nostri nonni, mezzo secolo prima.
“Come fai a saperlo? Non sapevo ti interessassi di Pyramid!” Continuò lui mentre svoltava all’incrocio principale per entrare in Lewdan.
“No, non me ne interesso infatti” risi “ma tempo fa digitai il mio cognome per vedere cosa ci fosse in rete e ho letto delle parole chiave in una delle prime voci sullo schermo: Pyramid, Jenkins, Graystone Industries, Cyloni… così ho letto la storia di Rod Jenkins.” Risposi.
“E che tipo era?”
“Non so, l’articolo diceva che fosse un pessimo giocatore.” Scoppiai a ridere
“Oh, buono a sapersi!” Ridacchiò a sua volta “Ci siamo, ci aspetta in quel bar..” Disse mentre slacciava la cintura; assunsi un’aria leggermente ansiosa  in quell’istante: l’idea di incontrare il padre di Steve in modo così tempestivo mi preoccupava non poco.
Riallacciai i bottoni del giaccone, infilai i guanti, scesi dall’auto e seguì Steven sul marciapiede.
Eravamo uno accanto all’altro, lui teneva le mani in tasca e, come suo solito, camminava guardando a terra leggermente ricurvo in avanti, per poi raddrizzarsi dopo qualche secondo.
“Sei sicuro che non … insomma, che io gli vada bene?” Avevo paura che una volta mi avesse incontrato, quell’uomo avrebbe potuto disapprovare il nostro rapporto, o me; del resto era comunque un ufficiale militare, e probabilmente aveva degli standard molto alti: io, per quanto composto  non ero esattamente lo specchio della perfezione e della rigidità, mi lasciavo andare spesso in risate senza contegno o in battutacce –che non facevano ridere, tra l’altro-, quindi ero legittimato ad avere qualche dubbio.
“Non preoccuparti D, vedrai che andrà tutto bene, e poi” Si mise una mano sulla nuca “te l’ho detto, non è un uomo di molte parole…”
Il bar si trovava al pian terreno del palazzo di forma cilindrica della Entiks, la banca principale della città, ed il cui logo era incastonato sulla cima dell’edificio, alto più o meno ottanta metri, attraversato da lunghe vetrate semi trasparenti che tagliavano la sua superficie fluida di cemento ed acciaio grigio. La scritta olografica azzurra “Entiks” era proiettata in maiuscolo verticalmente dal ventiseiesimo piano al ventunesimo, una lettera per ogni livello.
La porta di vetro scorrevole del caffè – il Waloh Bar- portava un simbolo a forma di brioche stilizzata e, prima che questa si aprisse davanti a noi, mi accorsi di osservarla con uno strano e probabilmente insensato interesse.
Entrammo: la sala era pervasa dai versi di una canzone pop molto allegra e movimentata.
Adrian Sanchez sedeva al tavolino sotto alla finestra, non lontano dal bancone; non lo avevo mai visto prima di allora: non indossava l’uniforme, bensì un maglione grigio sotto una giacca aperta nera. I capelli grigi e corti si connettevano alle folte basette brizzolate; aveva un filo di barba, giusto perché non era in servizio e poteva permettersi di tenerla.
“Ecco!” pensai tra me e me non appena entrammo e lo vidi “La barba! Dovevo farmi la barba, la noterà!” adesso ero davvero in ansia.
“Buonasera ragazzi!” Disse Adrian, alzatosi dalla sedia non appena averci visti avvicinarci; io sorrisi e prima che potessi rispondere, Steven accennò con un tentennante ma sentito:
“Ciao papà!” anche lui sorrise, con quella solita espressione che ho descritto innumerevoli volte prima; gli tese la mano, ma il padre lo sorprese tirandolo verso di se per abbracciarlo.
Rimasi di stucco e sgranai gli occhi; non mi aspettavo un benvenuto così caloroso, specie per come Steve mi aveva parlato del genitore.
Anche lui stesso era sorpreso e mostrò i denti in un sorriso più grande, chiudendo gli occhi; le sue mani picchiettavano affettuosamente sulle spalle di Adrian.
Non sapeva cosa dire, in parte perché non era solito per lui avere un contatto così ravvicinato con il padre, in parte perché d’altro canto nemmeno lui stesso era un ragazzo di molte parole.
Terminato l’abbraccio, Adrian si voltò verso di me: mi avvicinai e sorridendo indugiai:
“Salve signor Sanchez, è un piacere conoscerla!” gli tesi a mia volta la mano, non sapendo se avrebbe abbracciato anche me; la mancanza di confidenza fece si che la nostra rimanesse una stretta di mano, ma viva e sentita.
“David, finalmente, il piacere è mio!” Rispose; il suo tono di voce era pacato, la parlata rigida e composta, ma calda. Come quella del figlio. Sorrisi.
“Steven mi ha parlato molto di te, sono felice che ti abbia trovato. E’ un uomo fortunato.”
Sorrisi di nuovo. Sembrava sincero mentre lo diceva, eppure non mi conosceva ancora davvero, se non per ciò che poteva essergli stato detto da Steven.
“Sono io ad essere fortunato, ma la ringrazio!”
Adrian sorrise; mi voltai verso Steven che mi si avvicinò.
“Sediamoci! Prendete qualcosa? Offro io!”
Mi voltai verso il bancone e vidi la cameriera avvicinarsi per prendere le ordinazioni: Alexia Curtis –lessi il nome sul suo cartellino- era una giovane donna con grandi ambizioni che voleva farsi strada nella vita e realizzare i propri sogni. Studiava legge all’università statale di Canceron e lavorava nel pomeriggio per pagare almeno una parte della retta autonomamente. Avrei scoperto questi dettagli su di lei più di un anno dopo.
“Sono felice di vedervi insieme. Voglio farvi i miei più sentiti auguri per il futuro!”
Fui leggermente sorpreso di questa sua apertura così veloce al dialogo; era ottimista, sorridente e seppur impostato, sapeva di casa.
“Grazie signor Sanc..” Risposi o almeno provai a rispondere prima che mi interrompesse impetuosamente “Adrian, chiamami Adrian.”
Sorrisi e tacqui per un secondo per poi annuire “Adrian, va bene!”
“Ci sono decine di superiori e subalterni che mi chiamano Signor Sanchez quando sono in servizio, adesso posso sfruttare l’occasione per sentirmi più… casual.” Affermò con convinzione; risi, perché aveva un concetto tutto suo dell’essere casual.
“Grazie Papà.” Disse Steven “e ti sono gr..” si interruppe, si voltò verso di me “..ti siamo grati per il tuo aiuto, davvero.”
“Per noi significa moltissimo il suo appoggio.”
Alexia arrivò con i nostri tre caffè.
“Non ringraziate. Ormai siete giovani uomini e dovete costruire il vostro futuro con le vostre forze, questo è vero… ma finchè sarà in mio potere aiutarvi sarò una garanzia per voi.”
La sua sollecitudine nell’esserci solidale era animato dalle più disparate ragioni: nobile istinto paterno, senso di conservazione, affetto.
Ma perché tutto ciò si risvegliava in lui solo in quel momento?
Perché, se ne era capace, non aveva dimostrato affetto al figlio durante la sua infanzia, quando davvero ne aveva bisogno?
Forse ora voleva fare ammenda, sia come genitore disattento che per il suo matrimonio fallito?
Ad oggi, non ne sono ancora convinto.
Ma ciò non toglie che la mia impressione su quell’uomo, abituato a vivere su un’astronave da guerra, non potesse essere che positiva.
Grazie, Adrian.

6.4 –“Spigoli e incubi”
Dopo la cena che Jennifer aveva con impegno preparato per passare una piacevole serata insieme, riuscì a convincere Steven a fermarsi per passare la notte da noi, rassicurando la mia madre adottiva sul fatto che avremmo dormito in letti separati.
Dopo esserci accertati che dormisse, lui mi raggiunse in camera mia per condividere le coperte.
“Sei certo che dorma?” chiese lui con un filo di voce mentre si avvicinava in punta di piedi nel corridoio pervaso dal buio della notte.
“Si, sta prendendo dei sonniferi per dormire bene… non sarà sveglia prima delle otto e trenta di domani!” Risposi ridendo.
“Bene allor…auch!” Si tappò la bocca per non farsi sentire dopo aver sbattuto il mignolo da qualche parte nella stanza; risi di nuovo e più forte di prima.
Ci infilammo sotto le coperte calde del mio letto e dopo un secondo di silenzio, ricominciai a ridere.
Non comprenderò mai a pieno questo lato della mia personalità; le situazioni in cui mi ritrovo possono essere banali così come le più improbabili, ma la mia reazione spontanea sarà una: ridere.
“Che cosa ridi?” Chiese nuovamente, ridacchiando anche lui con la sua voce calda e piacevole.
“Niente è che… è che pensavo ad oggi. Tuo padre è una bella persona, mi è piaciuto molto!”
“Si lo è…” rispose senza scomporsi troppo. Il suo braccio era sotto il mio collo; mi voltai verso di lui “Va tutto bene?” gli domandai guardandolo.
“Si… si certo. E’ che… credimi, sono stupito quanto te di averlo nella mia vita. Fino a pochi mesi fa era quasi un estraneo per me” disse con un filo di rammarico “però… ne sono felice.”
Mi sorrise.
Ci scambiammo un bacio.
“Non so te, ma io sto per crollare Steve.”
“Buonanotte.”
Chiusi gli occhi e mi sistemai per bene, facendo calzare il mio corpo con il suo, in modo che fossimo entrambi comodi. Sentivo il calore della sua pelle, lo respiravo.
Era una sensazione meravigliosa. Fuori si congelava, ma noi eravamo lì.
Mi addormentai.

Erano circa le tre del mattino quando cominciò.
Per molto tempo non ho saputo dare nome a ciò che ho visto quella notte; non sono stato capace di ricollegarlo a quanto ho vissuto, sebbene ora mi renda conto di quanto fosse eclatante ed ovvio.
Sognavo.
Mi trovavo nel nulla.
Il vuoto.
Il buio.
Il nero.
Il nero assoluto.
All’improvviso, un’immagine sfocata; i contorni sfumati, indefiniti, non chiari.
“Che cosa?” Chiesi a me stesso ad alta voce, ma senza muovere le labbra; come se nel sogno, le parole non avessero bisogno di essere pronunciate.
Oh dei.
Un viso: un uomo… un uomo che sicuramente avevo già visto, sembrava un personaggio importante; forse l’avevo trovato su un libro di scuola, un articolo di giornale, in foto.
I capelli chiari, rossicci; viso scarno, sguardo intenso.
“No… Daniel Graystone!!!” Esclamai.
Scomparve nel nulla.
Di nuovo il buio.
Il silenzio.
Il vuoto.
Il nero.
Udì uno strano rumore in lontananza, come un conto alla rovescia.
Una luce.
Intensa.
Abbagliante.
Accecante.
Terrificante.
Mi coprì gli occhi con le mani per poi riprovare a scrutarla: dopo il bagliore iniziale, la luce assunse una forma definita. Rimasi a fissarla attonito, senza fiato per diversi secondi.
Non volevo crederci.
“Miei dei”
Un esplosione nucleare. Mi resi conto in quel momento di sognare, che ciò che stavo vedendo non fosse reale, o almeno così speravo fosse. Ma che senso poteva avere? Per quale motivo lo stavo sognando?
Poi di nuovo il nulla.
Il silenzio.
Il vuoto.
L’angoscia.
Vidi qualcosa nell’oscurità, qualcosa in alto stava prendendo forma lentamente.
Incrociai le braccia; stavo tremando. Questo sogno mi stava mettendo alla prova.
Fu allora che lo vidi: non potevo giurarlo, ma mi sembrava di vedere un enorme sagoma, un trentatré rosso ed enorme che pervadeva quello che sembrava essere un cielo oscuro.
Cominciai ad avere davvero paura in quell’istante, ma non potevo sapere di che cosa.
Di nuovo il nulla.
Mi guardai attorno, voltandomi velocemente, a destra, a sinistra, in alto, in basso.
Niente. No, mi sbagliavo.
Il nero adesso era puntellato di minuscoli pallini bianchi, sembravano quasi… no, erano stelle!
Il vuoto era diventato la volta celeste, lo spazio, il freddo e buio spazio.
Una stella si avvicinava a me, la potevo vedere perfettamente. Poi scomparve.
Il vuoto era tornato un’ultima volta.
Sentivo il mio cuore battere a mille.
Una figura di fronte a me apparve all’improvviso: una donna, una bellissima, affascinante donna.
Alta, con gli occhi azzurri e dei meravigliosi capelli mossi, di un biondo perlato, più chiari dei miei.
Mi guardava: sorrideva, ma qualcosa nel suo sorriso mi inquietava; come se fosse malvagio; ora che ci facevo caso, assomigliava più ad un ghigno che ad un sorriso.
Mi svegliai di soprassalto.
NO!” gridai, spaventando e svegliando Steven che aprì gli occhi e si alzò immediatamente.
“Che succede? Cosa?” Chiese di scatto.
“Io… io non so che…” Lo guardai negli occhi e notai che lo stava facendo anche lui, con l’aria preoccupata. Stranita. Mi mise una mano sulla spalla.
“Credo di aver avuto un incubo…”
“Brutto?”
“Non lo so nemmeno io. Non so come interpretarlo.” Non che mi fossi mai disturbato nel cercare di interpretare i sogni prima, ma sentivo che questo… fosse diverso.
“Dai… non pensarci. Vieni qui.”
Tornammo sotto le coperte, cercando di ricominciare a dormire.
Sentivo il suo respiro sul collo, e ciò mi tranquillizzò.
Per qualche minuto chiesi a me stesso per quale motivo avevo appena sognato Daniel Graystone, un’esplosione atomica…e quella donna. Che senso aveva? Che correlazione poteva esserci?
Forse non ve n’era proprio, forse era stato soltanto un parto della mia immaginazione.
Si, doveva sicuramente essere così, intimai a me stesso.
Avrei capito tempo dopo che non fosse così.
Chiusi di nuovo gli occhi.



Avevo previsto la catastrofe.
Continua…


 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Speranze ***


Capitolo 7 – Speranze

7.1 –“Anni Luce e anelli matrimoniali”
Dovrei davvero imparare a concentrarmi e a non perdermi pensando ad altro mentre faccio qualcosa; è sempre stata una mia caratteristica, il vizio di distrarmi ed iniziare a navigare con la mente, in qualsiasi momento.
Sarà che ho una grande immaginazione ed un’instancabile vena nostalgica, e il che può essere anche un bene, ma in certi momenti è un problema.
Mi è successo oggi pomeriggio, mentre spiegavo ai bambini del gruppo il significato di “anno luce”; loro stavano seduti sul pavimento della capanna che chiamiamo scuola, un pavimento formato da piastrelle in ceramica di bassa qualità, riciclate dalle paratie interne di una sala dei servizi igienici di una delle astronavi passeggeri più piccole prima che fossero spedite nel sole dopo il nostro atterraggio sulla Terra.
Io camminavo a zig zag tra di loro con le braccia conserte e guardando in basso; in questi giorni non fa molto caldo, contrariamente al solito, e molti di loro indossavano magliette a maniche lunghe, chi rimboccandole ai gomiti, chi no.
Io avevo addosso i miei cari jeans neri, quelli stretti ed elasticizzati che indossavo il giorno degli attacchi alle Colonie; è incredibile che siano riusciti a conservarsi in tutti questi anni, nonostante le improbabili condizioni in cui siano dovuti permanere; nemmeno una sgualcitura.
“L’anno luce ragazzi” dicevo gesticolando “è un'unità di misura.” Mi sono fermato e mi sono voltato verso di loro per proseguire e porre ai bambini un quesito:
“Sapete cos’è un’unità di misura?” Ho incrociato le braccia e sorriso, invitando i giovani apprendisti a svelare il mistero.
La piccola Hilary Lorentz, figlia del supervisore ai lavori alla pompa dell’acqua, ha alzato la mano ed azzardato un’ipotesi; il suo indice teso verso il soffitto oscillava leggermente, mentre l’altro braccio, coperto dal suo golfino rosa leggero era timidamente conserto sul pancino.
“Hilary! Avanti, dicci.” L’ho indicata dandole il via.
“L’unità di misura è una cosa che ci dice quanto sono grandi le cose!” Ha ipotizzato timidamente mentre si toccava ansiosa i codini neri.
“Esatto” Ridacchiai per le parole buffe ma efficaci che aveva usato.
“E’ un mezzo per misurare le dimensioni degli oggetti. In questo caso, l’anno luce” mi sono passato una mano tra il ciuffo di capelli castani che mi copriva le sopracciglia “indica la lunghezza, ma.. di cosa, ragazzi?” Ho chiesto. Il silenzio nell’aula.
“La lunghezza  della distanza percorsa dalla luce in un anno.”
E’ seguito un sentito “ooh!” da parte di tutti loro; a quel punto ho tentato di renderli più partecipi e protagonisti della lezione, così, ho posto loro un nuovo quesito.
“Sapete quanti anni luce abbiamo percorso in questi anni? Da quando abbiamo lasciato le Colonie a quando abbiamo raggiunto la Terra, sapete quanti anni luce abbiamo percorso?”
Adesso i loro sguardi oscillavano qua e la nella stanza, cercando un qualche indizio per rispondermi.
“Non avete idea?” Ho chiesto di nuovo; ma nessuno ha risposto.
“Beh” mi sono arreso “I sistemi solari delle Colonie sono molto lontani da questo pianeta!”
“E quanto?” Ha chiesto il piccolo Robert Stewart con un tono curioso e quasi quasi esasperato, come se fosse una domanda che lo assillasse da anni.
“Abbiamo percorso circa duemila anni luce, ragazzi, una bella corsa!” a quel punto mi sono avvicinato al banco sul quale avevo precedentemente posto un foglio di carta bianco ed un pennarello blu –tutto ciò che ero riuscito a rimediare negli scatoloni della roba che ci siamo portati dietro- e l’ho portato in mezzo al cerchio.
“Questa è la nostra galassia!” Ho detto mentre disegnavo una sorta di spirale rotonda.
“Questo puntino siamo noi ora, sulla Terra” ho detto disegnando un cerchietto minuscolo all’estremi destro della spirale.
“E le Colonie… le Colonie sono qui” e ho disegnato il piccolo ammasso stellare che una volta chiamavamo casa, rappresentandolo con quattro piccoli puntini vicini.
Infine, ho unito i due estremi con una linea obliqua e leggermente zizzagata, che rappresentava il nostro tanto agognato esodo; quattro anni di viaggio, di battaglie, di salti iperspaziali, di speranze.
I bambini guardavano attentamente il movimento che le mie mani compivano sul foglio, analizzando scrupolosamente le linee che collegavano le stelle, tranne la dolce Sarah Kingsley, che era molto più interessata al luccichio della luce del sole che si rifletteva sul mio anello di matrimonio, infilato nell’anulare destro.
Ho guardato nuovamente i bambini e mi sono reso conto che la maggior parte di loro era troppo giovane anche solo per ricordare le Colonie, i pianeti su cui erano nati, dato che molti di loro avevano appena cinque anni, e di quei mondi lontani potevano avere solo delle flebili reminiscenze, alimentate dai racconti dei genitori; altri ancora più piccoli erano venuti al mondo già nello spazio, a bordo delle navi della flotta.
Una generazione di esuli che finalmente aveva trovato casa.
“Quanti salti iper-luce abbiamo fatto, David?” Ha chiesto Sarah alzando la mano e poi protraendola come se dovesse nascondere un misfatto, con quel suo sorrisetto impertinente e vivace.
“Oh cielo, beh, bella domanda! Ne abbiamo effettuati così tanti che credo che anche gli ufficiali sul Galactica ne abbiano perso il conto!” Centinaia di salti iper-luce.
Vidi le stelle fuori dal finestrino contorcersi e sparire in un bagliore accecante per poi riapparire centinaia di volte. Mentre rispondevo, disegnavo un panorama urbano sul retro del foglio “Comunque tanti, Sarah…” Ho risposto distrattamente.
Erano i palazzi di Hades, quelli che stavo disegnando, i palazzi della capitale di Canceron, la città vicino a cui avevo vissuto con Jennifer per vent’anni.
Si riconoscevano perfettamente i grattacieli del centro, soprattutto con il tetto spiovente della Telconf Corp, accanto allo spazioporto, ai piedi del quale Steven mi aveva chiesto se fossi felice con lui. Il giorno in cui ebbi la certezza delle sue speranze.
I bambini mi guardavano in silenzio domandandosi perché avessi smesso di parlare loro di misure astronomiche e mi fossi chiuso in un silenzioso e casuale momento artistico; al chè, rendendomi conto di essermi distratto nel momento sbagliato –come mio solito-, ho sorriso un momento per poi congedare i bambini.
“E’ abbastanza per oggi ragazzi! Andate pure fuori a giocare, domani continueremo il discorso sullo spazio.”
Sarah mi si è avvicinata per un’ultima confessione e vedendo che indugiava mi sono accovacciato perché potesse sussurrarmi il fatto in modo discreto.
“Il tuo anello è davvero carino!” Ha detto la piccola capricana con un filo di voce e un sorrisetto non più impertinente ma timido, prima di scappare di corsa fuori nel campo insieme agli amichetti.
Mi ha strappato un grande sorriso.
Ho osservato per un attimo l’anello a mia voglia e mi sono stupito di come quel piccolo, semplice cerchietto di argento, un argento nemmeno poi tanto pregiato, potesse rappresentare un concetto così grande ed infinito come l’amore.
E ho sorriso ancora una volta prima di uscire, per la consapevolezza che il tesoro a cui allude, è mio.

7.2 “Recapiti telefonici e amori”
Amavo suonare il pianoforte; era una di quelle cose che mi permettevano di staccarmi dalla realtà e di volare, librarmi in aria sfuggendo alla forza di gravità ed alle paure della vita.
Ricordo come il pianoforte digitale donasse una certa aria importante e ‘maestosa’ alla mia stanza, stracolma di oggetti d’infanzia e fotografie di amici incorniciate ed appese al muro.
Mi capitava di passare delle ore seduto su quello sgabello a suonare, alle volte deliziando l’udito di Jennifer che nel frattempo correva avanti e indietro presa dalle sue faccende, altre volte facendola impazzire per la micidiale ripetizione sempre degli stessi pezzi.
Ma la cosa che amavo di più era suonare in compagnia di Steven, accompagnando la sua voce con accordi bianchi e neri; era forse quello uno dei punti di forza del nostro rapporto, l’armonia, la musicalità, l’intesa artistica.
Riusciva a raggiungere note altissime quando si impegnava; il mio pezzo preferito era “Should I Let You In”  dei Priestly Bakers, una rock band di Libran che adoravo.
Iniziava con un arpeggio di piano seguito da accordi rombanti e graffianti di bassi e chitarre elettriche; Steven riusciva a rendere perfettamente quel verso nel pre ritornello cantato in falsetto

“Since I’ve been on this tree with my feet in my head”

Era il tredici Februarius quando, durante un pranzo insieme, Jennifer disse di doversi recare ad Hades per rinnovare il contratto con la compagnia telefonica della quale eravamo clienti.
Stava servendo il sufflè di pollo mentre disse di avere uno spiacevole inconveniente.
“Perché devi andare fin là? Non puoi farlo da casa?” Chiesi io mentre versavo dell’acqua nel suo bicchiere.
“No, diamine! E’ tutta una questione burocratica, non accettano pagamenti via computer ne per posta, devo firmare di persona!” Disse scuotendo la testa da cui oscillava una coda di capelli castano chiaro raccolti con un fermaglio di plastica.
“Devo farlo entro la fine della settimana, ma sono piena di impegni, ci mancava anche questa…”
Amavo il modo in cui la sua vena teatrale riusciva a rendere drammatici anche gli eventi più modesti.
“Questo sufflè è fantastico, Jennifer!” Esordì Steve per distrarre la donna dalla tragedia senza senso che stava vivendo.
“Oh caro, ti ringrazio, è una ricetta di Leonis! Sapevo ti sarebbe piaciuta!” Cambiò immediatamente espressione accendendosi in un sorriso compiaciuto.
“Potrei sempre occuparmene io, non è un problema!” Dissi a mia volta.
“Non ho molti impegni e con il lavoro posso gestirmela facilmente!” E deglutii un boccone.





7.3 –“Treni lev e paure”
Stavo seduto sulla panchina al centro del binario uno sotto il porticato della stazione dei treni di Lewdan ad aspettare che Steven mi raggiungesse; mentre soffiavo nelle mie mani per ottenere un leggero tepore, osservavo le persone attorno a me.
Vestite per lo più in abiti scuri, con lunghi cappotti e valigette ventiquattrore che contenevano i loro preziosi rapporti, o documenti legali, o ricevute di pagamenti.
Giusto una manciata di loro aveva in mano un cellulare; non eravamo in tanti ad averne uno a quel tempo: dopo la –prima- guerra con i Cyloni la nostra società aveva iniziato a provare una sorta di terrore smisurato verso le tecnologie informatiche avanzate.
Un terrore non proprio campato per aria dato che durante i dodici anni di guerra che misero a ferro e fuoco le Colonie, i Cyloni furono in grado di infilarsi più volte nei database, nei terminali e nei circuiti delle apparecchiature connesse tra loro degli umani ed usarle contro di loro.
 Nonostante i nostri mondi fossero in pace da molto tempo e ormai i Cyloni fossero solo un ricordo –o almeno, così pensavamo-, la paura delle innovazioni continuò ad assillare per anni la mente dei coloniali, come un oscuro presagio, un dubbio meschino e subdolo. Molte persone non si sentivano al sicuro sapendo di avere un computer in casa; per alcuni –pochi- fanatici, anche la televisione era diventata un nemico in agguato nel salotto, pronto a colpire i suoi padroni nel sonno.
Non saprei dire se per fortuna, ma la  nostra mentalità si stava gradualmente rilassando in quegli ultimi anni, riabituandoci all’idea di possedere aggeggi capaci di connettersi alla rete coloniale –rete che per altro era stata riattivata e diffusa nuovamente nei dodici mondi da appena quindici anni- soprattutto grazie alle ricerche e le parole pronunciate a gran voce a favore del progresso da personaggi di spicco come Gaius Baltar, noto per la sua piena approvazione degli studi per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, banditi dal governo dopo il disastro generato dalla creazione dei Cyloni.
Avrei scoperto tempo dopo –lo avremmo scoperto tutti- che tipo di uomo potesse essere quel Gaius: tanto geniale ed incredibile quanto vile e calcolatore.
Vedevo quelle persone attendere poco lontano da me, e mi chiedevo a cosa stessero pensando, in quel momento del pomeriggio di un qualunque giorno di fine inverno.
I treni a levitazione magnetica passavano velocemente sui binari tre e cinque; non potevo fare a meno di osservarli e scrutare le loro silhouette massicce, e il modo delicato e decisamente elegante con cui le loro calotte inferiori non sfiorassero nemmeno le rotaie, grazie ad un effetto di antigravità dovuto alla repulsione magnetica esercitata dagli apparati del mezzo sulla superficie.
Grazie all’assenza di ruote e freni altri dispositivi convenzionali, quei treni erano assai silenziosi, nonostante sfrecciassero a tutta velocità, quasi come se fossero estranei alla forza d’attrito dell’aria, di fronte a me.
Steven arrivò sul binario aprendo molto sgraziatamente la porta scorrevole accanto alla panchina su cui sedevo; si stava ancora avvolgendo nella sua sciarpa rossa mentre avanzava velocemente verso di me.
“Scusa il ritardo, ho dovuto aspettare cinque minuti davanti a quel frak di semaforo!”
Disse mentre guardava in basso, sistemando nervosamente il bottone superiore del suo cappotto nero.
“Il treno sta per arrivare, superstar, lo hanno appena annunciato!” Risposi nell’atto di controllare l’ora nel mio cellulare.
L’alto parlante trasmise nuovamente l’annuncio del nostro treno lev.

“Il treno interurbano 4592 in arrivo da Lianna e diretto a Hades delle 15:23 è in arrivo al binario uno.”
Ed eccolo là, il nostro treno lev, che si avvicinava velocemente e silenzioso, con il suo muso stondato e le piccolissime escoriazioni sul fondo della fusoliera dovute all’usura.
I suoi vetri oscurati all’esterno erano in netto contrasto con la vernice bianca smagliante –o almeno un tempo- sulla carrozzeria; fluttuava a circa mezzo metro d’altezza dal fondo della monorotaia, permettendomi di notare un piccolo mazzolino di fiori che cresceva alla destra del suo fondo, sbucando a lato della struttura metallica e del cemento.
I portelli di accesso traslucidi si aprirono davanti a noi che, dopo aver lasciato scendere un numero non proprio indifferente di passeggeri, ci andammo a sedere accanto al finestrino sul lato destro della cabina.
Avevo sempre amato viaggiare in treno; lo trovavo estremamente rilassante, e la possibilità di osservare il paesaggio in movimento conciliava i miei lunghi viaggi mentali.
In un attimo fummo fuori da Lewdan e potevamo osservare i vasti ma ben delimitati campi coltivati, alternati ai pozzi di trivellazione sotterranei, off limits per i cittadini di passaggio.
Nonostante l’inquinamento, l’eccessiva urbanizzazione, il sovraffollamento e la povertà, Canceron era uno dei pianeti era uno dei più fertili e ricchi di giacimenti petroliferi e metalli preziosi, le cui installazioni  per lo sfruttamento erano disseminate un po’ ovunque.
Era un giornata uggiosa e grigia, ma potevo vedere i monti, la grande catena montuosa sempre innevata, nonostante non fosse molto lontana dall’inquinamento.
Gli edifici sempre più fitti ed alti nelle zone che attraversavamo, sfrecciavano davanti al nostro finestrino ad una velocità impressionante, quasi da non farmene distinguere le forme, per lo più cilindriche e grigiastre.
C’erano molti stili architettonici nei mondi, stili che comprendevano moltissime forme, ma gli edifici più diffusi un po’ ovunque, erano quelli di forma cilindrica.
“Sai, potremmo andare al cinema domani!” Disse sorridendo il ragazzo dai capelli scuri di fronte a me, massaggiandosi delicatamente il mento con la mano sinistra. Non lo stavo ascoltando.
“Hey?” Ancora ero assorto nei miei pensieri; stavo domandandomi se avessi portato con me i documenti necessari per rinnovare l’abbonamento; dovrebbe essere una cosa ovvia, ma spesso mi capita di dimenticare persino di avere una testa sul collo.
“Finto biondo, mi senti?” provò nuovamente ad attirare la mia attenzione con un’espressione che mi era stata appioppata da una mia compagna di classe al liceo. Finto biondo.
Per un attimo quelle due paroline mi risuonarono in testa e m fecero realizzare che avevo più di tre dita di ricrescita e forse era ora di decolorare di nuovo il mio caschetto.
Steven, lungi dall’essere spazientito, schioccò le dita –cosa che io non sono mai stato capace di fare e che non so fare tuttora- vicino alla mia faccia per risvegliarmi dal coma.
“Hey! Scusa, hai detto qualcosa?” Dissi sbarrando gli occhi.
“Dicevo che domani potremmo andare al cinema, Chris e gli altri vanno a vedere Mary Trace Griffit e mi hanno chiesto se ci va di unirci!” Sorrise.
“Certo.. certo, perché no?” Risposi sorridendo a mia volta. 
I suoi amici erano formidabili; non avevo mai incontrato un gruppo così unito e perfettamente assortito quanto loro. Jeremy era il migliore amico di Steven  ed era una persona molto particolare; non riuscivo mai a capire quando scherzasse e quando fosse serio per via della sua sottilissima ironia, alle volte bonaria, altre volte pungente e spietata.
Chris era la sua migliore amica invece, ed era una ragazza di rara dolcezza; ingenua, divertente e carina, aveva i capelli chiari e mossi e le guance leggermente paffute. I suoi occhi brillavano e riflettevano i suoi sogni. Ci eravamo piaciuti da subito, forse perché anche lei ambiva a diventare un’insegnante, e non potevamo che condividere questo aspetto della nostra vita.
“Si dai, andiamo! Però, che film è Mary Trace Griffit?” Chiesi ridacchiando.
“Non ne ho idea” Rise “Ho visto il trailer ma non ho capito nulla, so solo che c’era una pazza che lanciava le cose” Rise di più.
“Oh bene!” Risi anche io, di nuovo. Guardai fuori dal finestrino: il treno sfrecciava a poco meno di duecento chilometri orari e quasi non ce ne accorgevamo dai nostri sedili.  L’ambiente fuori cambiava: gli agglomerati di edifici, o almeno quelli che riuscivo a vedere, si facevano sempre più fitti e numerosi nella campagna, i palazzi più alti e grigi. In cielo, il traffico aereo si intensificava man mano che ci avvicinavamo alla nostra meta; potevo vedere sempre più astronavi in rotta di decollo e di atterraggio verso gli aeroporti spaziali sia nel centro che nella periferia della capitale.
Guardai Steven: ora era lui ad essere assorto nei suoi pensieri; chissà a che pensava.
Forse alla sua arte: da qualche tempo stava lavorando ad una nuova canzone, “To You”.
In quelle ultime settimane lo avevo sentito parlare con suo padre al telefono, molto più di quanto non avesse fatto prima; abbassava la voce se si accorgeva che ascoltavo. Non sapevo ancora di cosa discutessero.
Ma io lo amavo, ed ero certo di amarlo. Non ero mai stato tanto certo di qualcosa in vita mia quanto quello.
Eravamo ormai circondati da palazzi piuttosto alti ed il treno diminuiva gradatamente la velocità con il sopraggiungere della stazione.

“Siamo in arrivo a Stazione Centrale di Hades”


7.3 “Grattacieli e domande”
Il centro urbano della capitale era certamente uno dei più avvenieristici e moderni sul pianeta, e la città era un tripudio di stili architettonici diversissimi tra loro, risalenti a più epoche, sia antiche che estremamente recenti. A terra, palazzine ultramoderne e piene di vetro luccicante si alternavano ad altre in mattoni vecchie di centinaia di anni, restaurate e ridipinte per nasconderne i tratti tipici di un’epoca in cui i lavoratori delle campagne decisero di affollare le grandi città. In alcuni incroci avremmo trovato templi con frontone a timpano, ancor allora frequentati dai credenti, per la maggior parte dedicati al patrono Efesto, ma non solamente data la moltitudine di forme di culti religiosi sul pianeta.
Due dozzine di torri in vetro ed acciaio svettavano dalla superficie frastagliata dalle molte palazzine più piccole e dagli edifici inferiori, raggiungendo un’altezza che variava dai trecento agli ottocento metri: grattacieli enormi a forma di parallelepipedi e cilindri, con guglie e tetti piramidali, spioventi o piatti. Si potevano notare sui terrazzi le decine di condensatori ed evaporatori che emettevano importanti quantità di anidride carbonica e condensa rilasciate dagli edifici. Una moltitudine di schermi digitali, ologrammi ed inserzioni pubblicitarie in neon puntellavano lo skyline di una delle città più popolate e cosmopolite delle Colonie, assillandone gli abitanti e i turisti con incessanti spot promozionali che li invogliassero a comprare, viaggiare, spendere.
E le antenne, centinaia di antenne spuntavano dai tetti e dalle cime dei palazzi: antenne televisive, radiotelevisive, antenne di comunicazione, trasmettitori interstellari.
Una delle cose più caratteristiche e curiose della città era il sistema di trasporto metropolitano, forse unico nelle Colonie, se non per alcune strutture simili ma comunque più semplici e in scala minore su Virgon, Leonis e Caprica: una fitta rete di cavi metallici elettrificati, ponti e cavalcavia sopraelevati attraversava la città a partire da un’altezza di diciotto-venti metri –appena poco più in alto del livello della strada- fino alla quota di duecentocinquanta metri circa; centinaia di treni metropolitani a levitazione magnetica scorrevano appesi lungo questi cavi grazie ad un gioco di attrazione e distorsione gravitazionale non molto diverso da quello descritto precedentemente, permettendo ai cittadini di spostarsi agevolmente nel sovraffollato centro urbano senza dover ricorrere necessariamente alle strade –spesso intasate- o alla metro sotterranea.
Le fermate della metro sospesa erano situate all’interno di stazioni alloggiate negli stessi grattacieli o in solide intercapedini ad essi collegate all’altezza in cui si intersecavano con i cavi magnetici.
Avevo undici anni quando vidi quei treni scorrere nel cielo, la prima volta che venni con Jennifer nella capitale per ritirare i risultati di una visita medica, e ricordo che la mia reazione fu di estrema sorpresa, quasi come se non avessi mai saputo di vivere in una società interplanetaria e tecnologicamente avanzata.
Qua e là, aiuole e piccoli parchi allietavano la vista dei passanti stressata dall’eccessivo e turpe grigiore della zona; preoccupante era la pesante cappa di smog che aleggiava nei cieli azzurro-grigiastri di Hades, ed ancor più preoccupante, se non irritante, era l’incredibile disinteresse del governo a proposito del problema. Su altri pianeti erano stati da tempo presi provvedimenti per circoscrivere i tassi di inquinamento, ma su Canceron che forse ne aveva più bisogno nessuno batteva ciglio.
Io e Steven ci facevamo strada tra la folla che abitava i marciapiedi, purtroppo, pieni di vagabondi e barboni che chiedevano l’elemosina, mentre alla nostra destra le automobili marciavano a doppio senso in sei corsie e sopra le nostre teste i treni metropolitani andavano e venivano, disegnando cupe ombre passeggere e sprazzi di luce solare quando ci sorpassavano.
“Non dovrebbe essere lontano” dissi leggendo l’indirizzo della sede dell’agenzia telefonica scritto sul biglietto da visita che Jennifer aveva conservato “dovrebbe essere al prossimo incrocio, nel palazzo a destra della strada.” Guardavo avanti.
Steve si guardava attorno con un’aria leggermente stranita e provando probabilmente un leggero senso di inadeguatezza. Il mondo da cui veniva era molto meno popolato di quello su cui vivevamo allora, ed era soprattutto  contraddistinto da una certa raffinatezza che si rispecchiava nei suoi abitanti e nelle sue costruzioni, raffinatezza che una società mista e meno isolazionista come quella di Canceron aveva perso da secoli.
Un grande schermo digitale affisso alla parete dell’edificio di fronte trasmetteva in quel momento un’intervista a Gaius Baltar, che spiegava al pubblico il progetto che stava realizzando in collaborazione con il ministero della difesa, un nuovo programma di navigazione utilizzabile dalle astronavi da guerra coloniali per ottimizzare gli sforzi del personale con una maggior resa.
Il suo sguardo sicuro e fiero si accendeva in una smorfia beffarda e quasi di sfida e forse lasciava trasparire il suo vero essere interiore, ma nessuno di noi pensava allora che ci sarebbe mai potuto interessare di ciò.
Non sapevamo ancora cosa avrebbe portato il futuro.

7.4- “Graffiti e religioni”
Sistemato l’affare con l’agenzia telefonica, decidemmo di svagarci un po’ per il resto del pomeriggio, esplorando il panorama urbano che ci circondava.
C’era davvero un gran frastuono in quella città, tra il via vai incessante di automobili per le strade, le migliaia di voci che si sovrapponevano, gli sbuffi  di vapore nelle prese ad aria sotto i nostri piedi ed i treni sopra di noi.
Nonostante ciò, non era comunque così male, e potevamo ancora godere della nostra reciproca compagnia; camminavamo vicini e ridacchiavamo frivolamente delle nostre cose, come se non ci fosse un domani, come se non avessimo impegni o come se non esistesse nulla attorno a noi.
Lui sorrideva, dolcemente; il suo sguardo sembrava darmi un eterno benvenuto, come se fosse un luogo fisico dove rifugiarmi dalle mie paure.
Ci trovavamo ora nella via che conduceva al Canceron Interplanetary Space Port, l’aeroporto spaziale più importante del pianeta; quel giorno non potevo immaginare che vi sarei entrato da lì a meno di un mese.
Ci appartammo in un parchetto accanto all’edificio, ai piedi del palazzo della Telconf Corp che, quasi totalmente ricoperto di vetro e con il tetto spiovente, sarà stato alto poco meno di settecento metri.
C’era una panchina, in realtà ce n’erano almeno una trentina in quell’isola verde, ma quella in particolare, accanto ai due alberi e a sinistra delle altalene per bambini, mi ricordava tantissimo quella vecchia panchina su cui ci sedemmo al nostro primo appuntamento, mentre ci raccontavamo delle guerre passate tra Virgon e Leonis e delle nostre vite.
Non so se anche lui notò quella curiosa somiglianza, non era mai stato uno che ricordava molto i dettagli –non dico di essere migliore di lui; in compenso io non so fare calcoli più complessi di 2+2 senza andare in panico-, ma vidi che sorrise quando gli feci cenno di sederci là.
Alla nostra destra, a circa duecento metri, le vetrate del terminal dello spazioporto luccicavano deliziosamente nella luce del tardo pomeriggio, così come la quasi totalità degli altri –ed alti- edifici attorno; con un intervallo regolare, le nostre voci venivano eclissate dal rumore assordante delle astronavi di linea che decollavano ed atterravano sulle piste là vicino.
Davanti a noi, decine di bambini chiassosi e gioiosi, incuranti dello stress della vita di città, correvano avanti e indietro nel parco trasformando quel piccolo fazzoletto d’erba in una distesa felice e genuina, ai piedi di colossali grattacieli d’acciaio, simbolo ultimo del potere imperialista del capitalismo.
“Allora ci andiamo al cinema domani?” Mi chiese guardandomi con un’espressione carica di comicità; sapeva formulare delle smorfie davvero uniche.
“Certo che ci andiamo se ti va!” Risposi “Ti va vero?” Chiesi.
“Se te l’ho proposto io mi va si!” E scoppiò a ridere.
Ci fu un attimo di silenzio in cui guardammo avanti a noi sorridendo. Ma solo un attimo.
Mi fece una domanda cogliendomi davvero alla sprovvista.
“Sei felice?”
Mi voltai verso di lui sbarrando leggermente gli occhi. Per un momento, non dissi nulla.
“Sei felice con me?” Chiese di nuovo.
Non dovetti pensarci più di un secondo e mezzo, giusto il tempo di assimilare la domanda e permettere alle mie labbra di pronunciare la risposta.
“Certo.” Sorrisi.
“Ne sei sicuro?” Indugiò un’ultima volta; non era una domanda posta per un qualche motivo oscuro, era sereno mentre lo chiedeva. In fondo possiamo amare qualcuno e volercelo anche sentir dire ogni tanto, no? Eppure notai qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non vedevo dai primi momenti in cui ci frequentavamo. Come un’ombra di paura, un’ansia, un dubbio.
Metteva in dubbio i nostri sentimenti? O i miei? Perché?
Ma no, no forse voleva soltanto sentirmelo dire, un’altra volta. Era una cosa romantica a pensarci.
“Con tutto me stesso.” Gli misi una mano attorno al collo e sorrisi, poi iniziai a scherzare facendo il verso a me stesso ed assumendo espressioni caricaturali mentre parlavo.
“Assolutamente. Senz’ombra di dubbio. All’unanimità. Chiaramente, anzi di più.” E scoppiammo a ridere di gusto, appoggiandoci l’uno sulla fronte dell’altro.
Misi la mano sinistra sulla panchina per appoggiarmi meglio, ma nel farlo non potei fare a meno di notare un piccolo disegno o scritta che stavo coprendo; spostati la mano e mi vi avvicinai, strizzando leggermente gli occhi per mettere bene a fuoco. Vidi una strana immagine.
Su quella panchina di legno, tra le decine di scritte che si confondevano tra loro, vi era un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito, ed ai suoi piedi una scritta in maiuscolo, probabilmente incisa con un pennarello bianco indelebile:

                                                                          THE ONE”
Guardai Steven e gli indicai il piccolo graffito che avevo individuato; poteva essere un pasticcio qualunque come tanti altri su una panchina a caso su un pianeta sovraffollato, eppure destò la mia attenzione.
“Guarda Steve! Cos’è?” Chiesi come se avessi scoperto un nuovo corpo celeste.
“E’ … un disegno?” Rispose con ilarità.
“Si ma… guarda meglio! Guarda cosa c’è scritto! The ONE!”
The One. L’unico. Mi guardò perplesso con un espressione leggermente divertita. Io pensavo.
Ma si! Era il motto del culto monoteista!
I monoteisti erano sempre stati una minoranza nella nostra società, fin dai suoi albori; si dice che le origini di quel culto risalgano a prima ancora che l’umanità lasciasse Kobol, la nostra culla ancestrale.
E da allora, quella piccola branca di credenti devoti ad una fede ritenuta controversa, e da molti, assolutista ed integralista, si era sempre contraddistinta con il triste nominativo di voce fuori dal coro, in parte per il modo intransigente di condannare i costumi della società coloniale –infedele all’unico vero Dio ed infatuata dalla voce di un pantheon di dei bugiardi e falsi-, in parte per l’utilizzo in passato di mezzi come il terrorismo per divulgare le proprie idee.
I Soldati dell’Unico erano stati un tempo una piaga che trascinava nell’oscurità l’immagine pubblica della Chiesa Monoteista, inducendo la gente a pensare, erroneamente, che la violenza fosse accettata da quella religione, o che ne fosse addirittura la base.
Non mi ero mai sentito vittima di tale pregiudizio, ed ero in grado di capire la differenza tra credente e terrorista; forse in ciò mi è venuto in aiuto il fatto di essere cresciuto in un habitat multietnico e misto come quello di Canceron, in cui la diversità era riconosciuta in tutti gli ambiti della vita.
“Si è… è il simbolo dei monoteisti!” Dissi orgoglioso di me stesso.
“Ah si? I terroristi dici?” Chiese in dubbio.
“Non sono terroristi, non tutti!” Lo ammonì “Quelli sono solo una piccola frangia estremista… la religione non c’entra niente, e poi sono anni e anni che non si sentono più…”
I soldati dell’unico erano scomparsi così com’erano nati, nel nulla.
Tutt’ora non mi è chiaro quanto la Chiesa Monade monoteista fosse coinvolta o anche fosse solo consapevole del loro operato. So solo che sui libri di storia si diceva che prima della Guerra con i Cyloni la loro tela si fosse praticamente dissolta; nonostante ciò, l’odio nei confronti dei credenti in un unico Dio continuò a farsi sentire per molto tempo, tant’è che soltanto sul povero ed arido pianeta di Gemenon, da sempre patria del monoteismo, se ne poteva riconoscere una percentuale considerevole tra la popolazione.
Riguardai il simbolo dell’infinito e notai che vi era un’altra scritta accanto alla sua sagoma, ma molto più piccola dell’altra, quasi invisibile.
Dovetti sforzarmi per riuscire a leggerla. Qualcosa scattò dentro di me.

                                                                         They’ll come back
Sentì il sangue gelarsi nelle vene. Mentre fissavo quella scritta apparentemente senza alcun significato, mi sembrò per un istante di poter vedere un’immagine, ma questa era solo nella mia mente. Mi balenò di fronte agli occhi il viso di quella bellissima donna bionda che avevo visto in sogno un mese prima. Quella donna con un sorriso inquietante sulle labbra che mi fissava nell’oscurità della notte, preceduta da esplosioni atomiche ed altre visioni bizzarre.
Sul momento non trovai il nesso e pensai di aver fatto un qualche genere di associazione mentale inconscia, ma priva di nesso logico.
In realtà, un nesso c’era. Ancora adesso fatico a credere che tanti indizi ed avvertimenti siano stati posti sul mio cammino prima che l’inevitabile prendesse forma e ci sconvolgesse la vita, ma forse queste cose vanno prese così come vengono e senza stare a pensarci troppo.
Nonostante siano le prove quasi concrete di un disegno trascendentale che va oltre al nostro orizzonte materiale.
Il rumore di un’altra astronave che decollava mi fece sussultare, e Steven, notando il mio stato di disagio mi guardò leggermente preoccupato.
“Va tutto bene?”
Guardai di fronte a me la sagoma della nave, con tratti che la rendevano simile ad un aereo ed un dirigibile, librarsi in volo contro la luce del sole avviandosi verso la sua meta.
“Si, tutto bene.” Sorrisi, la nave non si vedeva già più.

7.5-“Voci e proposte”
Incontrai una certa difficoltà nel tentare di addormentarmi quella notte, sentivo una strana e profonda inquietudine e non avevo la minima idea di che cosa la facesse scaturire.
Mi ero sentito osservato tuttala sera, ed anche Jennifer si era accorta del mio strano comportamento a cena, io e lei da soli; continuavo a guardarmi attorno, come se ci fosse qualcun altro in casa –fatto assolutamente impossibile.
Anche il nostro gatto sembrò notare il mio strano disagio; alcuni dicono che gli animali, in particolare quelli domestici, siano capaci di percepire i nostri stati d’animo molto meglio di quanto noi stessi non sappiamo fare con i nostri simili.
E’ curioso, ma non incredibile, forse perché non possono comunicare con la parola e possiedono una sorta di sesto senso.
Forse non sono i soli ad averlo.
Mentre mi rigiravo tra le coperte in stato di dormiveglia, ebbi una stranissima sensazione che fu poco chiara per pochissimi istanti; divenne perfettamente decifrabile in un istante e, nonostante stessi per addormentarmi, capì che avrei sognato qualcosa che mi avrebbe turbato.
Di nuovo.
Prima di cadere definitivamente ebbi la sensazione di udire una frase che veniva pronunciata direttamente nel mio orecchio; era chiaramente una voce femminile, una voce calda, rassicurante e sensuale. Mentre diceva quelle parole sembrava quasi che sorridesse, lo potevo capire dalla cadenza che usava. Si stava sorridendo, anche se ovviamente non c’era nessuno accanto a me.
Ma lo stava dicendo davvero, lo stavo udendo davvero!
Era una voce… nella mia testa.
“I figli dell’umanità torneranno a casa…”
I miei occhi erano chiusi, ma risposi a quella voce come se le stessi davvero parlando.
“No..No!” Dissi senza rendermi realmente conto di aver capito cosa lei intendesse.
Crollai in un profondo sonno l’istante successivo; non ho altri ricordi di ciò che sognai quella notte, fu come se non ci fosse nemmeno stata.
Chiusi gli occhi e li riaprì il mattino successivo come se fosse passato un solo secondo.



Steven ed io ci eravamo accordati per fare una passeggiata in campagna nel pomeriggio prima di raggiungere i nostri amici al cinema, l’ideale per rilassarsi dopo una giornata nel caos della città.
Andai a prenderlo in auto direttamente sotto il suo ufficio e parcheggiammo nello spiazzo di fronte alla strada asfaltata che portava sulla cima della collina ai piedi della quale giaceva arroccata Eneris.
Amavo il silenzio di quel luogo; nonostante fossimo sul mondo più popolato, edificato, inquinato e chiassoso delle Dodici Colonie, quella collina sembrava essere un’isola felice nella quale rifugiarsi era un vero piacere per me.
In primavera ogni angolo si puntellava di colori gradevoli e sgargianti che creavano un delizioso contrasto con il verde della vegetazione.
C’era una straordinaria particolarità in quella zona: nelle ultimissime settimane dell’inverno, gli alberi, gli arbusti e tutta la vegetazione vivevano una sorta di “secondo autunno”, qualcosa
all’unanimità  di unico al mondo e considerato caratteristico solamente della nostra zona.
Ad una velocità inaudita, le fronde si riempivano di piccole foglie verdi chiare che si trasformavano in foglie rossicce nell’arco di pochissimi giorni e che sarebbero cadute altrettanto velocemente per lasciare il posto a quelle nuove che sarebbero spuntate in primavera.
La strada era dunque ricoperta di un manto di cellulosa marrone-cremisi, esattamente come in ogni altro luogo accadeva solamente in Novembre.
Steven era molto silenzioso e camminava fissando il tappeto rossastro che sembrava essersi posato poco prima proprio per onorare il nostro passaggio; non diceva nulla, ma i suoi occhi sembravano trattenere delle parole molto importanti.
“Oggi al telegiornale parlavano dello scandalo del ministro Rosbender!” Provai a rompere il silenzio con un argomento che lo avrebbe interessato solo relativamente.
“Ah si?” rispose “E cos’hanno detto?”
Balle! Dicono che su tutta Caprica si occuperanno delle indagini ma è chiaro come il sole che quei soldi se li sia intascati il governo, non capisco chi pensano di prendere in giro!”
“Oh beh… certo immagino..” continuava a guardare a terra e ciò mi rese leggermente perplesso.
“Va tutto bene?” Chiesi. “Mi sembri leggerm…” provai a continuare prima di inciampare e cascare a quattro zampe sul marciapiede; una cosa che mi capita spesso del resto, credo di essere la persona più scoordinata dei mondi.
“Dovrò raccoglierti con il cucchiaino se continui a ruzzolare così!” Disse lui ridacchiando mentre si chinava per soccorrere quel bradipo maldestro. Con tutto il rispetto per i bradipi.
“Lo so, lo so, sono incorreggibile!” Mi rialzai spolverando il tessuto elasticizzato dei jeans che ricopriva le ginocchia.
Guardai Steve negli occhi e notai che la sua espressione era cambiata: ora sembrava veramente che volesse dire qualcosa, ed infatti appena ricominciammo a camminare fu come se le parole gli sfuggissero senza controllo.
“Non capisco” Dissi “cosa intendi ?” Chiesi quando accennò al fatto che avremmo potuto operare dei cambiamenti nella nostra vita.
“Io… beh quello che intendo è che..” Indugiava. Io avevo la testa rivolta verso di lui, a destra, ma guardavo avanti.
“Sai ho parlato molto con mio padre in queste settimane e mi ha consigliato di..”
“Di?”
“Di trasferirci.”
Di trasferirci. Trasferirci? In che senso? Dove?
“Io… continuo a non capire!” In effetti stavo diventando assillante.
“Ricordi quello di cui parlammo un po’ di mesi fa? Di… tornare a casa?” Sentì qualcosa colpirmi il petto.
“Su Helios Beta…” Dissi con voce tremolante riferendomi alla nostra stella di origine.
“…su Virgon, David.” Al che mi voltai verso di lui e mi fermai.
“David, su Virgon avremmo moltissime possibilità di realizzare i nostri sogni….” Mi mise le mani sulle spalle e mi guardava dritto negli occhi “Ci sono ottime università, ottime scuole musicali, l’arte è il centro della cultura, non come qui…”
Aveva ragione. Virgon era uno dei pianeti più raffinati ed altolocati specialmente per quanto riguardasse l’arte; la sua moda era in voga ovunque, e i suoi architetti, studiosi, scrittori, poeti, migravano un po’ dappertutto nelle colonie,  tenendo alta la fama del proprio mondo.
“Mio padre vorrebbe davvero aiutarci, abbiamo trovato un appartamentino fuori dalla capitale e…l’ha acquistato…”
“Avete trovato un appartamento? Ma… non mi hai mai detto nulla!” La cosa mi toccò in modo strano; non posso dire che mi diede fastidio ma si parlava di ristrutturare completamente la nostra vita, e quanto meno avrei voluto esserne informato.
“Qui si parla di un cambiamento enorme Steve, perché non me ne hai parlato?”
“Scusami, lo so avrei dovuto… ma mi hai sempre detto che avresti desiderato moltissimo tornare a casa, sul pianeta della tua famiglia… possiamo farlo!” Il suo tono di voce era molto pacato; sembrava stesse chiedendo perdono per aver omesso questo progetto.
“Possiamo farlo davvero!” Ribadì. Non sapevo che cosa dire.
“Certo..” Continuò “…solo se lo desideri.” Sorrise, rassicurandomi.
Pensai per qualche istante, e mi resi conto che ciò che stava accadendo aveva dell’incredibile: il mio ragazzo mi stava chiedendo di lasciare tutto quello che conoscevo per seguirlo in un’avventura nuova e potrei dire mozzafiato. Cambiare pianeta. E’ vero, Virgon era la casa dei miei genitori quando erano ancora in vita, ma io non avevo mai lasciato Canceron, e a dir la verità non avevo nemmeno viaggiato tanto sul pianeta stesso.
Quello che Steve mi proponeva era eccitante ma allo stesso tempo spaventoso per il ragazzo di soli vent’anni insicuro e pieno di timore che ero allora.
“Io non so che cosa… cioè… si è vero, è una cosa che ho sempre voluto fare ma… non… come faremo?” Un turbinio di emozioni mi pervadeva e mi impediva di esprimermi correttamente.
Mi fece cenno di muoverci per la strada; io lo guardavo e non capivo come facesse ad essere così sicuro di ciò che diceva, come e stesse parlando di una cosa tanto leggera.
“In questi mesi abbiamo risparmiato soldi a sufficienza per almeno un anno di rate scolastiche, inoltre potremmo cavarcela con le sovvenzioni universitarie che danno” Ancora una volta, lo ascoltavo in silenzio ciò che diceva.
“Per il resto ci aiuterà mio padre, per il viaggio, il trasferimento e tutto quanto, e come ti dicevo, l’appartamento praticamente è già nostro…”
“Ma perché l’ha già acquistato? Nessuno mi ha nemmeno interpellato… voglio dire, è una cosa bellissima, ma come posso accettare un regalo del genere? E’…è una cosa enorme!” Espressi il mio disappunto. Mi faceva uno strano effetto pensare di andare a vivere in una casa che mi sarebbe stata regalata da mio suocero, non perché non fossimo in buoni rapporti, ma perché non avrei praticamente dovuto fare nulla per guadagnarmela. Si può costruire un futuro insieme senza faticare? Senza fare sacrifici? Non è essenziale lavorare sodo per concretizzare un progetto di vita? Erano queste le domande che mi giravano in testa in quel momento. Ma c’era dell’altro…
“Oh dei, e Jennifer?” Chiesi a me stesso ad alta voce “Le si spezzerà il cuore!”
“David ascolta..”
“No ascolta tu!” Ribattei deciso “Quella donna ha rinunciato alla sua vita per me, alla sua felicità, tutto per prendersi cura di me e crescermi… lei ha lasciato il suo pianeta per venire su questa roccia desolata e io… io la lascio qui? Come posso farlo?”
Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, finchè non provò di nuovo a dissuadermi
“Lo so cosa provi, credimi… ma sono sicuro che sarà lei stessa a spingerti a farlo.”
“Come fai a saperlo?” Chiesi.
“Da piccole cose, alcune allusioni che ha fatto… mi ha sempre detto che meriteresti molto di più, che dovresti vedere la tua vera casa.”
Oh Jennifer. Avrei dovuto starti più vicino quando ancora potevo. Mi manchi sai?
Mi voltai a sinistra ed osservai per un attimo il panorama dall’alto della collina; i grattacieli di Hades in cui ci trovavamo appena un giorno prima luccicavano lontani quasi all’orizzonte, mentre l’azzurro grigiastro del cielo si fondeva ad una sfumatura rosa aranciata dovuta al tramontare del sole. Vedevo tutte le città della contea da lassù, Eneris, Lewdan, Lianna; vedevo i campi, i giacimenti, le centinaia di strade che si sovrapponevano, e le montagne quasi evanescenti sullo sfondo. Canceron. Non ne avrei sentito la mancanza?
“Non posso credere che questo stia accadendo davvero…”Scoppiai a ridere, contagiandolo.
Un’auto sportiva rosso fuoco sfrecciò sulla strada accanto a noi; ci voltammo a guardandola sparire tra gli alberi che costeggiavano la carreggiata.
“Tu… tu ti rendi conto della gravità di tutto questo, vero?” Mi guardò “Sai cosa significa vero? Un passo del genere… è un per sempre.” Lo guardai anche io dritto negli occhi “Sei sicuro di volerlo davvero?”
Lui sorrise.
“Si. Credimi. Si.”
Quel si mi scosse profondamente; in realtà sapevo già che mi amasse davvero, ma come ho già detto precedentemente, è bello sentirselo ripetere ogni tanto. Ed era una conferma. Mi amava.
Una nave passeggeri di linea sorvolò la collina ad appena cento metri da noi, portandosi in assetto orizzontale e facendo l’ambiente attorno a noi. Come se il mondo si piegasse di fronte all’energia terrificante ed all’assordante rumore dei post bruciatori del velivolo; sparì fra le nuvole.
“D’accordo.”

Continua…

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Consapevolezze ***


Capitolo 8 – Consapevolezze

8.1 – “Miracoli e capelli bianchi”
Stamattina sono andato al fiume insieme a Cassie ed altri del nostro gruppo per lavare i nostri vestiti: non avevo mai fatto il bucato a mano –in un corso d’acqua, poi!- prima di arrivare su questo mondo verde e azzurro; un po’ mi manca avere una lavatrice automatizzata, con temperatura regolabile e possibilità di lavare a secco; mi manca l’ammorbidente e il profumo di fiori del detersivo… ma in fondo, non è così male nemmeno questo.
Lo facciamo da mesi ormai, come facevano i nostri antenati una volta: con i jeans rimboccati e delle spugne in mano che sfreghiamo sugli indumenti sporchi per eliminarne le macchie con il solo ausilio di acqua fredda e incontaminata.
Cassie era davvero radiosa oggi: il vento scompigliava i suoi lunghi capelli castano chiaro con una curiosa armonia, quasi come se sapesse come dovesse farlo per risaltarne la bellezza.
Sulle punte, le rimanevano ancora sette centimetri di schiaritura, risalenti a quando si era tinta i capelli l’ultima volta, più di un anno prima, ancora sulla flotta, nello spazio.
Io dovetti smettere di tingermi i capelli una volta giunti su New Caprica: il prezzo del cibo e dei pochi beni primari rimasti era alle stelle e di certo non potevo permettermi di sprecare denaro in cose superflue come il colore dei miei capelli. Mi mancano i capelli biondi, mi ricordano l’inizio del periodo più felice della mia vita. Ma era solo l’inizio, perché in realtà quel periodo, tra alti e bassi –a volte molto bassi- dura ancora.
I denti bianchissimi nascosti tra le rosate labbra carnose spuntavano, ogni tanto, dallo scrigno che li proteggeva, illuminando il sorriso di quella dolce ragazza di Sagittarian con la quale avevo per anni mantenuto un rapporto a distanza interplanetaria tramite computer; non avrei  mai immaginato che l’avrei incontrata per la prima volta il giorno dopo gli attacchi alle Colonie, nel centro di smistamento allestito a bordo della Rising Star, nella flotta dei sopravvissuti.
Lo ricordo ancora: era un venerdì pomeriggio –nel calendario standard delle Colonie, nonostante ci trovassimo nello spazio- e lei era di spalle, appoggiata ad uno scaffale di ferro pieno di scatoloni, nel bel mezzo di un attacco di panico; Steven era accanto a me ed io mi tenevo stretto al suo braccio, mentre attorno a noi decine di persone correvano avanti e indietro nei corridoi di quell’astronave medica, cercando disperatamente di trovare i propri cari tra i superstiti recuperati dall’attacco, allettati in infermeria. I Cyloni avevano appena attaccato la flotta, e la nave su cui ci trovavamo aveva subito danni superficiali allo scafo esterno. I contraccolpi facevano tremare le lampade appese al soffitto che ora funzionavano ad intermittenza, ed alcuni scatoloni erano caduti dagli scaffali.
La riconobbi per via del braccialetto che portava al polso sinistro: un legaccio nero con un cuore di metallo grigio al centro; ne avevo uno identico, che lei stessa mi aveva regalato e spedito l’anno prima tramite il servizio postale intercoloniale, con annessa una cartolina di Tawa, la capitale del suo pianeta.
E’ stato quattro anni fa.
E stamattina ci trovavamo in riva ad un fiume su un pianeta lussureggiante a lavare i nostri panni, come formiche laboriose che si impegnano per il bene della propria collettività.
“Come sta Jake?” Le ho chiesto mentre passavo la mia spugna ad Andrew Trevors, rimasto senza per colpa della corrente che gliel’aveva portata via.
“Bene, molto bene.” Ha risposto ridendo. La sua risata spensierata che avevo sentito solo per telefono per diversi anni.
“Perché ridi?” Iniziavo a divertirmi anche io.
“Oh niente, è che a volte penso che abbia davvero il senso dell’umorismo, davvero tanto!”
“Eh menomale, sai che noia altrimenti? Stare con un frak di musone lunatico?” e ho riso anch’io.
“Però continuo a non capire come mai ne sei divertita.”
Ci siamo seduti per qualche istante sull’erba, poco fuori dai fiotti dell’acqua limpida che ci scorreva sotto i piedi; lei si è passata una mano tra i capelli, illuminati da nuovi riflessi tendenti al biondo miele, regalatigli  dalla luce del sole piuttosto intensa alla quale eravamo ormai spesso esposti, in quella calda terra erbosa. Persino io cominciavo a prendere un  filo di colore sulla mia pelle normalmente sempre pallida. Ma solo un filo.
“Lui dice che in realtà non glie n’è mai fregato un fico secco di studiare legge.”
“Ah no?”
“No. L’ha fatto solo perché su Libran sono quasi tutti avvocati.” Si è fermata un secondo “…erano quasi tutti avvocati.” Si è corretta.
“Ma in realtà il suo sogno era…” E qui è scoppiata a ridere di nuovo.
“Era?” Ho chiesto incuriosito.
“Ammaestrare scimmie!” il tono della risata si faceva più alto.
“Oh… però, non me l’aspettavo!”
Lei e Jake si erano conosciuti poche settimane prima che la flotta trovasse New Caprica e vi approdasse, facendoci sperimentare un nuovo tipo di sofferenze che il –al tempo- presidente Baltar avrebbe mascherato con il nome di “Sogni per il futuro”. Un disgraziato.
Una coppia decisamente improbabile agli occhi di molti: lei del povero mondo di Sagittarian, lui dal paludoso ma fortemente istituzionalizzato pianeta di Libran, sede della Corte Intercoloniale, il complesso di tribunali più importante di tutte le Colonie. Lei figlia di genitori bigotti e fondamentalisti, lui generato da una famiglia di gente in carriera con nient’altro che il lavoro in testa.
“Scusate..” una pacata voce femminile ha timidamente chiesto; abbiamo alzato gli occhi verso di lei: se ne stava lì, alta, snella, bellissima, con uno sguardo incerto, un sorriso che celava una certa preoccupazione per il fatto di averci disturbati, una testa piena di capelli mossi e di un biondo perlato, praticamente bianchi. L’abbiamo guardata per un attimo prima di riconoscerla.
“Io mi chiamo Sonja…mi chiedevo se aveste una spugna da prestarmi… la mia è completamente consumata…”
Era una di loro.
Un Cylone.
Una numero sei, la numero sei che era stata eletta rappresentante della base stellare dei Cyloni ribelli, per la precisione. Identica a tutte le altre sei, a tutte le altre copie del suo modello.
La donna che per anni avevo visto in sogno, molto tempo prima della distruzione dei mondi.
Incredibilmente umana all’apparenza, come ogni individuo della sua specie.
Ancor più incredibile, è pensare che quegli stessi Cyloni che noi creammo e che avevano cercato di sterminarci… ora convivono con noi, pacificamente, su questo pianeta.
Il ciclo della violenza e dell’odio si è chiuso; abbiamo lasciato da parte i rancori.
I Cyloni si sono ricongiunti con noi, loro vecchi creatori; i figli dell’umanità, che erano insorti, ora ne respirano, di nuovo, la stessa aria.
Se non è questo un miracolo, non so cosa lo sia.
L’oracolo Pythia, tra gli scrittori delle Sacre Pergamene, disse  migliaia di anni fa che “tutto questo è già accaduto ed accadrà di nuovo”, una visione decisamente assolutistica e limitante della vita, se ci pensiamo: la vita non sarebbe altro che un cerchio, un continuo susseguirsi di  una serie di eventi sempre uguali.
Gli stessi progressi, gli stessi errori, le stesse imprese, destinate a ripetersi per tutta l’eternità, in diverse combinazioni, ma pur sempre allo stesso modo… ma se si fosse sbagliato? Se Pythia avesse visto male? Se il ciclo fosse cambiato? Se fosse così, se davvero è così, oggi, noi e i Cyloni stiamo scrivendo –insieme- un nuovo capitolo nella storia. Non solo nella storia dell’umanità, ma dell’esistenza stessa, e del concetto di accadere.
“Certo!” Ho teso la mano offrendole la mia spugna “Non si preoccupi, la prenda!”
Lei si è chinata con molta grazia per riceverla.
“Grazie di cuore!” Ha detto assumendo un’espressione che faceva trasparire una profonda gratitudine. Una così grande riconoscenza per un gesto così piccolo: alcuni di loro fanno ancora fatica ad adattarsi alla vita tra noi umani, ma a piccoli passi si sistemerà tutto.
E’ addirittura probabile che un giorno i nostri discendenti li considerino umani quanto noi, non ricordandosi la realtà della loro natura cibernetica, ne ricordandosi dell’olocausto da loro messo in atto che quasi annientò la nostra razza.
Si è allontanata mentre il vento le scompigliava i capelli lunghi fino alle spalle, e la luce rendeva ancora più chiaro il loro colore.
“Riesci a credere che lei sia una di quelli che hanno distrutto i nostri mondi? Che sia colpa sua se siamo qui?” Ha sussurrato Cassie mentre la guardavamo unirsi agli altri.
Sono rimasto in silenzio per un attimo, per poi rispondere esitando
“Per colpa sua… o è grazie a lei…” Cassie si è voltata verso di me.
“Non lo so più come devo vederla questa cosa, non lo sa nessuno…” Ho ripreso accennando una leggerissima risata. Cassie ha sorriso ed abbassato lo sguardo.
“Per una frase simile la Roslin mi avrebbe fatto buttare fuori da un boccaporto, se fosse ancora qui.” E scoppiammo a ridere.

8.2 –“Ricordi e astronavi”
Jennifer nacque cinque anni prima della fine della Guerra Cylone, venendo alla luce in un momento particolarmente oscuro della nostra storia. Molto spesso mi raccontò della sua paura, e della paura di sua madre e di suo padre; ricordava vividamente il rumore delle divisioni aeree di viper sfrecciare in cielo e anche le immagini di distruzione mostrate ai notiziari televisivi ogni giorno. Ricordava la penuria di risorse; mi diceva che il loro riscaldamento era sempre stato spento da che ne aveva memoria, e i suoi vestiti erano sempre gli stessi, rattoppati e ricuciti.
Si irrigidiva sempre quando mi narrava storie risalenti ad allora, e lo posso comprendere, specialmente con il senno di poi, dato che ho vissuto l’esperienza di una guerra anche io.
Tuttavia si potrebbe dire che in qualche modo Jennifer sia stata tra i più fortunati in quel periodo: Virgon fu uno dei mondi meno toccati dalla distruzione causata dal conflitto che perdurò per dodici anni; il pianeta uscì quasi illeso dalla guerra, cavandosela con una piccola serie di attacchi più o meno a metà del primo anno di ostilità. Le sue città non vennero messe a ferro e fuoco come successe sulle altre undici colonie, e i Virgani subirono meno vittime di qualunque altro popolo. Certo il pianeta non fu risparmiato dalla povertà e dal crollo monetario, ma quanto meno gli abitanti se la cavarono stringendo un po’ la cinghia.
I miei genitori nacquero entrambi negli ultimi mesi della guerra, perciò non avevano memoria di quell’antico terrore, ma Jennifer… oh, Jennifer lo ricordava,
Lo ricordava eccome.

“Le strade erano sempre deserte, vedevi appena una o due macchine in giro di giorno, di sera nemmeno…”
Mi raccontò un giorno poiché le avevo detto che la professoressa di storia ci aveva parlato della guerra quella mattina.
“Avevamo paura. Avevamo tutti paura, la mia scuola era aperta solo due giorni a settimana e mamma non voleva che stessi in giardino da sola. Non evacuarono la nostra città perché Virgon non era quasi mai stato attaccato…”
Non so per quale motivo, ma era a queste parole che pensavo mentre me ne stavo seduto su un sedile accanto al finestrino nella terza fila a destra in prima classe, sulla nave da trasporto passeggeri 9805. La nave da trasporto passeggeri 9805, la cui destinazione era il Porto Spaziale Interplanetario di Boskirk, la capitale di Virgon.
Erano trascorsi due mesi dal pomeriggio in cui Steven mi aveva proposto di trasferirci. Volati.
Andammo al cinema con i suoi amici a vedere Mary Trace Griffit quella sera; fu una piacevole serata, e come ogni volta, mi trovai molto a mio agio in quella compagnia tanto variegata e ben assortita. Eppure, nonostante l’atmosfera gradevole che si creò come sempre, mi trovai sollevato dalla realtà, come se la mia mente fosse altrove. E lo era davvero in effetti! Continuai a pensare alle parole di Steve e al mio “si, facciamolo” come se si trattasse di una cosa comune e leggera.
Tre ore prima passeggiavamo lungo una strada asfaltata in cima ad una collina progettando di trasferirci su un altro pianeta, ed ora ce ne stavamo seduti sulle poltroncine nere di un cinema a chiacchierare e ridacchiare con degli amici che erano del tutto ignari delle nostre intenzioni.
Tutti a parte Chris e Jeremy, i suoi due più fidati confidenti, che ovviamente lo conoscevano perfettamente.
Io proferì pochissime parole; mi limitai ad accennare sorrisi e risate per le battute di Angela e Sophie, e ad annuire per gran parte della serata. Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo Jennifer: vedevo i suoi occhi tristi ed impauriti chiedermi di non andarmene; vedevo la sua vita di sacrifici fatti tutti per me non venire ripagata con il mio supporto fisico e morale.
Come poteva essere d’accordo? Come poteva davvero volerlo? Steve ne era convinto.
Non riuscì a seguire il film per più di dieci minuti di seguito; tuttora non ne ricordo la trama.
Ripensavo a quella serata mentre me ne stavo seduto sul sedile accanto al finestrino nella terza fila a destra.
“Ancora un attimo e caricheranno i nostri bagagli, D!”
Mi voltai verso Steven che apriva lo sportello sopra di noi per riporvi il suo borsone a mano blu.
Sorrisi e stetti in silenzio, e abbassando lo sguardo notai che indossava il maglione rosso che gli avevo regalato e a cui ero tanto affezionato.
Osservando gli altri passeggeri prendere posto nei sedili attorno a noi provai uno strano senso di inquietudine misto a sconforto, non capendone il motivo dato che stavo per cambiare la mia, la nostra vita con questo viaggio. Tutti gli altri sembravano così tranquilli.
Probabilmente quello era per loro un semplice viaggio di routine, o di lavoro, o una vacanza.
Non avrebbe stravolto le loro esistenze. O salvarle, come per noi due.
Ripensandoci, trasferirci su Virgon diede il via ad una serie di circostanze ed eventi che ci avrebbero salvato la vita il giorno degli attacchi, quando i Cyloni distrussero le Dodici Colonie.
Fuori dal finestrino la luce del mattino si rifletteva sulle vetrate degli immensi grattacieli del centro di Hades, protesi verso l’alto in un cielo stranemente limpido e azzurro; scintillavano i raggi solari scontrandosi sulle carrozzerie esterne dei treni metropolitani a levitazione magnetica, sospesi tra gli edifici.
Ripensai a Jennifer che mi diceva di non preoccuparmi, quando le dissi la verità,  che già lo sapeva, che già ne aveva parlato con Steven.
Glielo dissi tre giorni dopo il cinema; pensavo di prolungare un po’ i tempi, ma tenermi dentro quell’intenzione mi logorava letteralmente.
Stavamo guardando il notiziario delle 18:30; Playa Palacios parlava dell’anniversario dell’incidente in cui andò distrutta la colonia mineraria di Tylium sul piccolo pianeta di Troy, orbitante attorno ad Helios Beta, la stella di Virgon e Leonis; forse fu proprio quella strana e triste coincidenza a spingermi a sputare il rospo.
Sudavo e avevo gli occhi lucidi, lei invece era impassibile; lei sapeva, sapeva ed era serena.
Ero talmente nervoso che ho letteralmente rimosso parte dell’accaduto: non riesco a ricordare le mie parole, come mi posi, come glielo dissi. Ricordo soltanto lei che mi rassicura e mi abbraccia.
Non ci abbracciavamo molto spesso a dire il vero; era una donna dolce, ma gli abbracci non facevano molto parte della nostra vita.
Per questo mi rimase tanto impresso.
“Gentili passeggeri, è il capitano Britt del volo coloniale 9805; stiamo terminando di imbarcare i bagagli e partiremo non appena ultimati i controlli tecnici”
La voce del capitano all’alto parlante mi riportò alla realtà svegliandomi dal mio sogno ad occhi aperti; Steven era adesso seduto accanto a me e mi guardava sorridendo in silenzio.
Accarezzai la barbetta ispida sulla sua guancia e sorrisi a mia volta.
“Sei pronto?” Mi chiese. Sperava davvero che lo fossi; tutto questo era in fin dei conti venuto da lui e non poteva fare a meno di preoccuparsi se ciò a cui aveva contribuito a creare fosse giusto per me e mi rendesse davvero felice. Mi amava, e chi ama si preoccupa della felicità della persona a cui ha donato l’anima.
“Credo di si…” Esitai per un momento “Si… si sono pronto.”
Ci abbracciammo in modo leggermente scomodo data la posizione dovuta ai sedili.
Mentre i nostri corpi aderivano in quell’affettuosa stretta, ripensai all’abbraccio che mi regalò la piccola Tracy Campbell il giorno in cui dissi alla classe in cui insegnavo  che avrei presto lasciato il pianeta. La mia piccola Tracy, la bambina che piangeva sempre e che andava accompagnata per mano fino al portone d’uscita a fine giornata. Mi manca così tanto.
“Non ti rivedremo più allora?” Disse con la voce tremolante accennando ad un singhiozzo malinconico.
“No, certo che no! Tornerò a trovarvi!” Le risposi cercando di rassicurarla mentre le solleticavo il mento ed asciugavo la lacrimuccia che le rigava il viso.
“Non sparirò nel nulla! Tornerò qui prima che andiate alle scuole elementari!” Mi spezzava il cuore salutare quei bambini, era un po’ come se fossero i miei figli adottivi, sentivo di abbandonarli nonostante la Levison fosse un’ottima educatrice anche migliore di me.
Avevano fatto un disegno su un cartellone che appesero quel giorno accanto alla lavagna, una vera opera d’arte: “Arrivederci David, buon viaggio!” era scritto a caratteri cubitali nel centro, circondato da una miriade di cuoricini e stelline; in basso, infine, erano disegnati i globi di Canceron e di Virgon, in mezzo ai quali stava una riproduzione infantilmente stilizzata di un’astronave di linea dalla quale spuntava la mia testa. Curioso come dei bambini così piccoli avessero già chiaro il concetto di viaggio interplanetario.
Mi toccò profondamente quel piccolo e dolce gesto: triste pensare che quel cartellone sia stato incenerito, così come l’aula in cui si trovava… e i suoi occupanti. Ovviamente allora non potevo immaginare che sarebbe accaduta una cosa simile.
La vita è spietata.
Ma ancora di più pensavo alla frase di Jennifer mentre uscivo di casa, quella stessa mattina, l’ultima volta in cui lasciai la nostra casa.
Nei due mesi che avevano preceduto la mia partenza non vi era stata alcuna discussione a riguardo, nessun attrito, nessun imbarazzo; consideravamo entrambi, o almeno ci sforzavamo di fare, quel cambiamento come un evento unicamente positivo, come se non comportasse una separazione tra di noi.
Eravamo costantemente calmi e sereni, in modo quasi innaturale, esagerato.
Eravamo felici ed assaporavamo ogni istante insieme.
“Tornerò prima della fine dell’estate…” Le sussurrai mentre la abbracciavo fortissimo sotto la porta di casa; non ci accompagnò allo spazio porto, rimase a casa. Come se non volesse vedermi andarmene via per sempre, come se fosse un monito.
Come se sapesse già.
“Ci vedremo presto, ok?”
“…No.” Mormorò.
“Come no? Certo che ci vedremo, e comunque ci sentiremo ogni giorno e parleremo in web cam…”
“Non tornerai quest’estate, e nemmeno la prossima.” Disse con fermezza spiazzandomi.
“Non tornerai nemmeno la prossima primavera. Soprattutto la prossima primavera. E sarà giusto così.”
Un brivido mi scosse dalla testa ai piedi. Che diamine stava dicendo? Cosa intendeva con l’estate e la primavera? Soprattutto “la prossima primavera”? Perché?
“Ma Jennifer cosa dic…”
“Tranquillo. Sarò felice. Lo sono già ora. Sei la mia felicità. Vai.”
Volevo chiederle spiegazioni ma una forza superiore alla mia mi impose di tacere; la abbracciai più forte di prima per poi allontanarmene e lasciare che anche Steven la salutasse.
“Abbi cura di lui” Le sentii dire a bassa voce mentre uscivo “Dovrete fare molta attenzione nei prossimi anni… sarà difficile. Per voi e pochi fortunati, ma poi sarete ricompensati.”
Chiesi a me stesso cosa potesse significare una frase così bizzarra ed ancora una volta, quel brivido scosse ogni centimetro del mio corpo, ma qualcosa di più grande annullò il pensiero interrogativo nella mia testa. Non era ancora ora di sapere, avevamo ancora un anno di normalità a disposizione da gustare.
Salì in auto sul sedile del passeggero ad aspettare Steven, e le lacrime cominciarono a scorrere giù dalle mie guance.
Perdonami Jennifer, io ti ho abbandonata.
Era a questo che pensavo mentre me ne stavo seduto sul sedile accanto al finestrino della nave passeggeri 9805.
Erano passate poche ore da quell’arrivederci, ovviamente non immaginavo fosse un addio.
Forse però, Jennifer l’aveva previsto.
“Gentili passeggeri siamo pronti per iniziare la procedura di decollo; siete pregati di allacciare le cinture e spegnere ogni apparecchiatura elettronica fino a procedura completata. Gli assistenti di volo saranno a vostra totale disposizione.”
Allacciai la cintura e sprofondai nel sedile, rendendomi conto solamente in quel momento che per me era il primo volo spaziale e che, preso com’ero da tutte le mie faccende, non ricordavo quanto la cosa mi spaventasse fino a quel momento.
Il poggiatesta era coperto da un piccolo telo bianco sul quale era ricamato lo stendardo delle Dodici Colonie di Kobol; il sedile era invece blu scuro, con piccole fantasie di un bianco panna.
Mi voltai di nuovo a destra e scrutai, al di là del finestrino, lo skyline della capitale del pianeta su cui avevo trascorso tutta la mia vita.
Avevo una tale confusione dentro la mia testa e non riuscivo a capire se dentro di me prevalesse la parte che considerasse Canceron la mia casa o invece quella che volesse fuggire.
A sentire Jennifer quella sarebbe stata l’ultima volta che lo vedevo, che ne respiravo l’aria e ne calpestavo il suolo… ma perché mai sarebbe dovuto essere così? Avevo tutta la vita davanti, e chissà quante occasioni per tornare per una rimpatriata. O almeno così sembrava.
“Si. Sono pronto.” Pronunciai a bassa voce guardando negli occhi Steve, che rispose con un sorriso silenzioso, mentre il rumore delle turbine che si avviano velocemente cominciava a farsi sentire.
Ed ecco che una leggera vibrazione scosse i nostri sedili per poi divenire più intensa in pochi istanti: i propulsori ventrali inferiori si attivarono freneticamente sollevando la nave a diverse decine di metri al secondo, e facendoci avvertire una certa “pesantezza”, come se venissimo un poco schiacciati su noi stessi.
I rotori posteriori erano ora in moto, spingendoci in avanti in assetto orizzontale: la manovra di salita era nel pieno del suo svolgimento.
I grattacieli di Hades, tanto alti, scomparvero tra le nubi che coprivano un agglomerato urbano che dal mio finestrino pareva posto in obliquo; e poi le nubi cominciarono ad essere l’unica cosa che potevo vedere all’esterno. Avevo la sensazione fisica che stessimo letteralmente salendo nel cielo, e tanto più questa mia sensazione si acuiva, tanto più mi sentivo aderire al sedile, seppur in modo lieve ed accettabile.
E poi una distesa blu, contornata da una costa grigiastra illuminata da migliaia di piccole e brulicanti luci, il tutto sotto una sottile linea azzurro evanescente.
Improvvisamente tornai a sentirmi leggero come prima del decollo e fui in grado di divincolarmi liberamente dalla posizione in cui mi trovavo; il segnale lampeggiante rosso sopra la porta della cabina divenne verde, indicando la possibilità di slacciare la cintura: eravamo in orbita.
“Dei…Steve guarda!” Esclamai con stupore mentre il cuore mi esplodeva per l’emozione data da quello che stavo vedendo. Non ero mai stato nello spazio, mai fuori pianeta. In realtà non avevo nemmeno mai volato.  Steven si avvicinò appoggiandosi alle mie gambe ed osservò l’immagine che catturava i miei occhi in modo quasi maniacale: Canceron.
Sebbene ne avessi studiata la morfologia e ne avessi viste numerose rappresentazioni a forma di planisfero a scuola, non avevo mai avuto l’occasione di osservarlo, fisicamente, in quel modo.
Una gigantesca sfera azzurra puntellata da grandi macchie irregolari di toni verdi, marroni ed in prevalenza grigiastri, i suoi continenti occupati da alte catene montuose ed imperiose e vaste città, che apparivano dallo spazio come densi spruzzi di puntini luminosi e cerchi concentrici.
“Dei… santi Dei.” Continuavo a ripetere.
“Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto!” Mi sorrise lui mentre io fissavo attonito il globo del pianeta senza lune che si allontava velocemente dal mio finestrino; si allontanava, si rimpiccioliva, anche se ci mise quasi dieci minuti a sparire del tutto dal mio raggio visivo.
“E’ davvero incredibile Steve, non posso ancora crederci, siamo nello spazio!” Dicevo come se fosse qualcosa di incredibile, incurante del fatto che la maggior parte degli abitanti delle colonie fosse abituata a viaggiare molto frequentemente tra i dodici pianeti. Ero uno dei pochi ad essere rimasto indietro; allora, non potevo immaginare che avrei trascorso quattro anni nello spazio come fuggiasco, insieme ad altre poche migliaia di fortunati superstiti.
“Gentili passeggeri, la sequenza di decollo è stata completata e siamo ora in viaggio per Virgon; il tempo previsto per la tratta è di circa nove ore. Ci auguriamo che vi troviate a vostro agio a bordo e che il viaggio sia piacevole. Vi ringraziamo per aver scelto Pan Galactic.”
La cabina tornò ad essere animata dal chiacchiericcio dei passeggeri, accompagnato dal flebile e rassicurante ronzio dei propulsori e della sala macchine.
“Nove ore, miei dei!” Esclamò Steven coprendosi gli occhi con le mani in un gesto teatrale.
E come dargli torto! Per lui fu un viaggio interminabile, nonostante fossimo liberi di alzarci e circolare per la nave. Ciò che lo rese così lungo fu forse proprio l’ansia del nuovo inizio che la sua fine avrebbe portato.
Per me fu diverso, perché non appena Canceron non fu che un piccolo puntino luminoso nell’oscurità dello spazio io fui colto da un irresistibile desiderio di chiudere gli occhi: le palpebre mi sembrarono improvvisamente pesanti come incudini.
Mi rannicchiai sul sedile, appoggiai la mia testa sulla spalla destra di Steven e gli sussurai:
“Ci vediamo dall’altra parte.” Per poi addormentarmi velocemente, cullato dal rumore di sottofondo dei motori dell’astronave passeggeri 9805, che nel frattempo, percorreva la strada che le avrebbe fatto attraversare due sistemi solari, portandoci verso la nostra nuova vita.

8.3 –“Sguardi ed atterraggi”
Ricordo di aver fatto un breve sogno durante il viaggio, un breve e strano sogno che non scorderò mai.
Tutto attorno a me sembrava corrispondere alla realtà che stavo vivendo in quel momento: mi trovavo sul mio sedile a bordo della nave che ci stava portando su Virgon, ed attorno a me gli altri passeggeri chiacchieravano normalmente.
Tuttavia, Steven non era con me; non so dove potesse trovarsi, e di fronte, anzi che voltarmi le spalle, due sedili erano orientati verso di me: accomodati sopra di essi, due figure.
Una di loro mi era familiare; impiegai un paio di secondi per identificarla, ma quando ci riuscì rimasi incredulo. Era lei, di nuovo lei! La bellissima donna dai capelli mossi e chiarissimi.
Mi fissava con uno sguardo penetrante e un sorriso che mi metteva a disagio.
L’altra figura era un uomo, con i capelli corti a metà tra il biondo e il brizzolato e gli occhi chiari.
Mi guardavano in silenzio e sorridevano entrambi, come se sapessero qualcosa che io invece ignoravo. Lui prese improvvisamente parola.
“Non avere paura, David. Andrà bene.” Terminò la frase con un sorriso che mi trasmise sicurezza.
“Andrà tutto bene.” Disse la donna bionda, che a sua volta, mi rassicurò con la medesima espressione.
Mi svegliai improvvisamente sobbalzando sul sedile.
“David!” Esclamò Steve preoccupato dal mio risveglio frenetico.
“Stai bene?” Chiese.
“Io… si… si tutto bene. A che punto siamo?” Chiesi anch’io mentre sentivo alzarsi il tono di voce degli altri passeggeri.
“Siamo quasi arrivati, siamo entrati nel sistema solare un’ora e mezza fa, Virgon dovrebbe essere visibile fra poco!”
Mi sistemai sul sedile ed incrociai le braccia per un secondo e riflettei su ciò che era appena accaduto; naturalmente durante il sonno non si percepisce il trascorrere del tempo all’esterno, tuttavia quelle nove ore di volo mi erano letteralmente volate. Nove ore senza svegliarmi.
  Avevo praticamente riaperto gli occhi un secondo dopo averli chiusi, senza considerare il mio breve e strano sogno, che ricordavo alla perfezione. E mi chiesi come mai avessi sognato nuovamente quella donna bionda.
Perché lei? E perché si trovava in compagnia di quell’uomo? Più avanti nel tempo, le mie domande avrebbero avuto risposta.
“Gentili passeggeri raggiungeremo a breve l’orbita di Virgon; non appena inizieremo la procedura di discesa nell’atmosfera sarete avvisati da un segnale acustico che vi inviterà ad allacciare le cinture.  Speriamo che il volo sia stato di vostro gradimento e vi ringraziamo nuovamente per aver scelto PanGalactic.”
La voce del comandante all’alto parlante mi distrasse dalla mia auto indagine mentale, ricordandomi che una parte del nostro destino si stava per compiere, e non c’era certo il tempo per stare ad interrogarsi il significato di strani sogni inquietanti; la vita era una corsa, una corsa piacevole ed eccitante con destinazione la felicità, e nessuno di noi aveva intenzione di fermarsi.
Io e Steve non vedevamo l’ora di metterci in gioco, in tutti i sensi: come studenti, come tirocinanti, e infine ma forse soprattutto, come coppia.
“Oh dei, ci siamo davvero.” Dissi quasi incredulo.
Ed eccolo, quel piccolo pianeta blu e azzurro, accompagnato dalla sua luna nevosa, Hibernia, avvicinarsi velocemente come due sfere in movimento fuori dai nostri finestrini. L’emisfero nord –nel quale eravamo diretti- era adesso illuminato dalla luce del suo sole, Helios Beta, secondo sistema solare in ordine di importanza politica nelle Dodici Colonie; importanza che per secoli aveva creato discriminazione e sfruttamento nei sistemi più poveri.
Stava davanti a noi: Virgon.
Il simbolo dell’aristocrazia e della raffinatezza; la perfetta fusione di tradizionalismo e avanguardia, di arte e cultura, classicismo ed avanguardia, secondo soltanto a Caprica, il mondo più ricco e florido nonché capitale della nostra società.
L’ultima monarchia parlamentare delle colonie, allora sotto il governo della regina Helena II, detentrice di un potere unicamente simbolico che andava ormai affievolendosi sotto l’influenza del parlamento federale.
“Siamo arrivati David, ci credi?” Disse lui “E’ sempre più vicino, è sotto di noi!”
Le coste frastagliate dei continenti erano sotto di noi: le vaste terre emerse puntellate di numerosissime alture, visibili fin dal limite dell’atmosfera; ecco le luci dei grandi centri urbani che accoglievano gran parte degli abitanti del pianeta.
L’entroterra appariva più bluastro che verde, ma da quell’altezza astronomica non fu un particolare a cui feci molto caso.
La nave scendeva elegantemente nel cielo del pianeta percorrendo una traiettoria basata su complicati calcoli matematici che i piloti avevano approssimato con l’ausilio dei computer e i programmi di navigazione.
La mia mano sinistra stava stretta nella destra di Steven mentre fuori dal finestrino incominciavo a notare il colore azzurro indaco dell’atmosfera che adesso ci circondava; le nubi rosate correvano verso l’alto velocemente mentre noi scendevamo.
Intravidi un’oceano ad Est scomparire dietro una serie di alte catene montuose, i tratti morfologici dominanti sulla superficie: vasti alti piani ed imponenti montagne alle cui pendici gli abitanti dei villaggi producevano la famosissima birra di Virgon, nota in tutte le dodici colonie come ed uno dei drink da bar più quotati all’unanimità.
Virammo delicatamente verso ovest e gli edifici delle città sulla superficie divenivano man mano più grandi, indicando che stavamo scendendo velocemente verso terra.
La nave seguì, o almeno così mi parve stesse facendo, una pista di un paio di chilometri rimanendo ad un’altezza di cento metri, per poi atterrare in assetto verticale su una piattaforma in cemento e metallo, articolata in diversi livelli ed affiancata da diverse travi in acciaio; si trovava di fronte al terminal del porto spaziale, un edificio circolare il cui tetto era formato da un insieme di cupole, a cui era collegata tramite cinque corridoi vetrati sospesi a circa dieci metri d’altezza.
“Gentili passeggeri, la procedura di atterraggio è terminata. Potete abbandonare la cabina tramite le uscite sul lato destro dello scafo. Vi ringraziamo ancora per aver scelto PanGalactic!”
“Oh dei Steve. Siamo su Virgon!!” Esclamai con voce tremolante.
“Non ancora” Rispose lui “Siamo ancora sospesi!” Ridacchiò.
Io davvero non riuscivo a credere che fossimo davvero là, mi pareva un sogno e forse poteva anche esserlo date le stranezze che mi capitava di vedere ad occhi aperti alle volte.
E invece era tutto vero, eravamo davvero là.

8.4 –“Auto elettriche e cieli rosati”
Uscimmo dal terminal con i nostri bagagli stretti in mano ed i giubbotti con i portafogli, denaro e documenti pronti ad essere utilizzati se necessario.
Una leggera brezza spettinava i ciuffi di capelli castani e biondi sulle nostre fronti; avevamo entrambi un’aria spaesata, un po’ come se ci fosse scoppiata in faccia una piccola bomba poco prima lasciandoci in uno stato confusionale.
Ma forse parlare di aria è proprio il modo giusto per descrivere i nostri primi istanti su Virgon: fu proprio l’aria il particolare che mi colpì per primo, prima della vista, prima dell’udito.
Era fresca e pungente sul viso ma allo stesso modo secca e confortevole, tipica dei climi temperati ma ancora meglio; frizzante e viva, come sugli altri mondi si poteva respirare solo nei paesi di montagna, forse proprio per via del grandissimo numero di montagne sul pianeta.
La luce del mattino era incredibilmente intensa, e alla mia vista, costretta per nove ore al buio dello spazio e alla fioca illuminazione artificiale della cabina della nave, risultò un vero pugno in un occhio.
Potevo ora chiaramente vedere gli edifici del centro di Borskirk svettare nel cielo, alti e luminosi, pieni di guglie, cupole e vetrate; simili a quelli di Canceron, ma da un design più classico e minimale. Li descriverò più avanti.
Il cielo sopra di noi era tinteggiato di un azzurro molto intenso, quasi cobalto, che tuttavia si fondeva in una serie di sfumature violacee veramente meravigliose, ed era ogni tanto occupato da soffici nuvole biancastre e rosate.
Ma era ancora una volta l’aria a destare il mio stupore: sembrava essere blu, nel vero senso della parola, ed infatti era così: tra i vari nomi che aveva fatto propri nel corso della storia, Virgon era nota come “La Colonia Blu”, e non era di certo per caso.
Non soltanto i mari e gli oceani del pianeta vantavano un meraviglioso blu, ma la maggior parte delle sue forme di vita vegetale era mantenuta viva da uno speciale tipo di clorofilla contenente degli olii che le donavano una suggestiva tinta verde-bluastra: questa animava la cellulosa delle foglie degli alberi, degli arbusti, delle vaste e folte foreste ovunque nei continenti. Esposti alla luce del sole, questi olii evaporavano, spargendo nell’atmosfera miliardi di piccolissime particelle che, unite  ad una densissima quantità di antracene presente nell’aria -una sostanza che emette una luce bluastra  quando esposta ai raggi UV- la coloravano di una varietà di toni che andavano dal cobalto all’indaco, e in alcune zone, perfino al rosa.
Virgon possedeva uno degli ecosistemi più unici e spettacolari di tutte le Dodici Colonie, e le sue meraviglie naturali erano considerate patrimonio dell’umanità, rendendo i suoi abitanti molto devoti all’ecologia ed alla salvaguardia della bellezza dell’ambiente, un tesoro che i Virgani custodivano gelosamente adottando diverse misure di sicurezza.
Le grandi città ovviamente non mancavano ed ospitavano la maggior parte dei quattro miliardi di persone sul globo, e non avevano nulla da invidiare alle metropoli degli altri mondi in quanto riguardi avanguardia, tecnologie ed estensione: al contrario, incarnavano perfettamente lo spirito della modernità e del progresso, materializzato in imponenti torri di acciaio e vetro alte centinaia di metri e cavalcavia sospesi sui quali scorrevano velocissimi treni a levitazione magnetica.
Da notare il fatto che il 90% delle automobili immatricolate sul pianeta fossero alimentate da motori elettrici o ibridi, abbassando drasticamente l’emissione dei gas discarico che, sugli altri pianeti, avevano un tasso molto più alto per via del gran numero di veicoli a combustione interna in circolazione: l’aria, anche nelle città, era notevolmente più pulita e leggera, e non aveva davvero nulla a che vedere con quella viziata e piena di smog che avevo respirato per vent’anni sul grande e chiassoso Canceron; si potrebbe dire che io abbia respirato per la prima volta e per davvero solo in quel giorno.
Questo ecosistema meraviglioso e luccicante sarebbe stato irreparabilmente distrutto e cancellato dall’attacco nucleare dei Cyloni in un futuro davvero molto prossimo, ma in quel primissimo giorno della nostra nuova vita, io e Steven non potevamo averne la minima idea, così come il resto dell’umanità sparsa sui globi delle Dodici Colonie.
“E’… Dei, è così bello!” Disse lui sbigottito, quasi come se non se l’aspettasse.
“Ancora più di quello che pensavo!”
Stavamo sul marciapiede di fronte alla hall del terminal, gremito di persone e puntellato di lampioni con lanterne dalla forma classicheggiante e di piccoli alberi con folte chiome blu: mi impressionò il fatto che tutti fossero vestiti alla moda, con abiti eleganti, non necessariamente costosi, ma ben scelti e dall’aspetto raffinato, anche se di natura semplice.
Tutti avevano con se borse di carta che riportavano i simboli dei più famosi negozi di abbigliamento che conoscessi: Virgon era la capitale della moda delle Colonie, per questo mi sembrava che tutti fossero vestiti bene, con buon gusto, come artisti. Mio padre, quell’uomo di cui non avevo ricordi, era uno stilista, un artista. I virgani erano artisti.
Io ero un virgano, un virgano mancato. I miei genitori –e Jennifer- erano nati e cresciuti su quel pianeta blu e rosato, ed ora io calpestavo il cemento che ne ricopriva il suolo.
“Steve io non so che dire!” Mi avvicinai a bocca aperta.
“Dobbiamo raggiungere la stazione degli autobus, David” disse “Il nostro appartamento è in una cittadina appena fuori Boskirk.”
Mi resi conto che praticamente non sapevo nulla del luogo in cui sarei andato a vivere.
Certo, avevo visto delle foto sul sito in rete, ma non avevo fatto caso all’indirizzo e ad esempio non sapevo se si trovasse in centro o in periferia, e adesso venivo a scoprire che non si trovava nemmeno nella capitale!
“Sta più attento, David, sta più attento…” sentì mormorare nella mia mente da una voce femminile che effettivamente mi lasciò stupito per un attimo; pensai di essermela immaginata.
La stazione degli autobus era ad appena settanta metri di distanza dal terminal del porto spaziale: un edificio rettangolare di tre piani coperto di lucenti vetrate che cominciavano direttamente dal livello del marciapiede, e contornato da deliziosi cespugli pieni di fiori.
Salimmo sull’autobus della linea y-13, diretto a Claireview, un piccolo centro abitato di meno di diecimila persone circondato da morbide colline coperte di fiori ad appena venti minuti dalla periferia di Boskirk; il padre di Steven aveva proposto al figlio di trasferirci in quella cittadina –quando ancora io ne ero all’oscuro- poiché aveva conosciuto diversi membri dello staff del sindaco durante un suo soggiorno sul pianeta, gente per bene.
L’autobus che ci trasportava lasciò il deposito di stoccaggio emettendo un rumore quasi impercettibile grazie al suo motore elettrico; la carrozzeria era colorata di verde e riportava un simbolo a forma di foglia e una scritta “eco bus” sulla fiancata destra.
“Guarda Steve, in strada ci sono soltanto auto elettriche!” Dissi con grande entusiasmo; avevo sempre detestato il rombo dei motori a scoppio, comuni in tutte le colonie, senza parlare dell’insopportabile odore dei gas di scarico delle automobili che, sul pianeta dove avevo vissuto fino ad allora, intasava ogni angolo di ogni strada.
Lui sorrise in silenzio, compiacendosi ancora di più per avermi portato a casa.
“Qui è tutto diverso… non è come a Canceron…” Mormorai “E’… diverso.”
Pensai a Jennifer. Non l’avevo ancora avvertita che fossi arrivato. Miei dei, sarà stata sulla sedia in cucina in silenzio sapendo di avermi perso. Perché lei lo sapeva, lo sapeva già.
La mia attenzione fu catturata da un ragazzo dai capelli biondi –naturali, non finti come i miei- che suonava una chitarra acustica blu appoggiato ad un albero sull’angolo del marciapiede accanto al quale l’autobus si era momentaneamente accostato; non potevo sentire cosa cantava, ma sembrava così genuino, così spontaneo, e sorrideva. Era davvero pieno di artisti.
Era il pianeta degli assoluti: tutti vestiti bene, tutti artisti, tutte auto elettriche. Come potevo non sentirmi a casa?
Attraversammo la zona suburbana velocemente per arrivare presto alla campagna blu che circondava Boskirk; una moltitudine di palazzine e tetti spioventi di villette familiari cominciarono ad apparire sparse tra gli alberi e le aiuole piene di fiori, mentre dietro di noi gli alti grattacieli della capitale svettavano riflettendo la luce del sole su tutta la loro superficie verticale vetrata.
La vista era fantastica e mi sembrava incredibile: eravamo appena oltre la periferia urbana della capitale di Virgon, ovvero una delle città più grandi e importanti del pianeta, ed attorno a noi vedevo aiuole, alberi dalle fronde folte e allegre e campi pieni di fiori di mille colori; su Canceron una visione del genere era difficile – se non impossibile- da trovare, e sicuramente, non nei pressi di una grande metropoli, attorno alla quale si poteva ammirare solo un triste e cupo grigiore.
“Ci siamo quasi D! Claireview è in mezzo a quelle colline!” Disse Steven indicando i rilievi appena dietro il bosco che costeggiava la strada.
Ed ecco che il cartello stradale poggiato al centro di un’aiuola piena di fiori gialli e rosa ci diede il benvenuto nella piccola cittadina che sarebbe stata la nostra casa per un anno.

8.5 –“Condominii e legno laccato”
Entrammo nel centro abitato tramite la statale 12 il cui sbocco conduceva direttamente al parco di fronte al condominio dove avremmo abitato; una deviazione dovuta a lavori in corso obbligò il conducente del nostro autobus a svoltare a destra, offrendoci la possibilità di osservare più nel dettaglio l’aspetto di Claireview.
Un piccolo sobborgo puntellato di giardini e parchi giochi dove i bambini correvano urlando e ridendo; il municipio era circondato da piccole palazzine vetrate, ai cui piani terra si trovavano molti negozi ed imprese private: drogherie, mini market, boutique.
Passammo di fronte all’edificio delle scuole elementari dove avrei insegnato come tirocinante da lì a pochi mesi; lo vidi di sfuggita, ma ne notai immediatamente la scritta che ne sovrastava l’entrata: “Jean Evans Elementary School”, intitolata a nome dell’omonima insegnante elementare che era vissuta sul pianeta di Tauron ed aveva perso la vita per salvare la vita ai suoi studenti quando un pazzo squilibrato si introdusse armato nella scuola in cui lavorava, settantacinque anni prima che io nascessi. Il suo nome divenne noto ovunque, e il suo sacrificio la consacrò come eroina, tant’è che ovunque nelle Dodici Colonie venne dato il suo nome a molti istituti.  Steven controllava ogni fermata sul foglietto che si era preparato a mano prima di partire: il tragitto era stato disegnato frettolosamente con una penna non cancellabile verde, e tre diverse fermate erano scarabocchiate poiché aveva sbagliato a ricopiarne il nome dal computer.
“Ci siamo quasi, ancora tre fermate David, scendiamo al parco!” Disse mostrandomi il suo capolavoro stilizzato, indicando il quadratino che riportava la scritta “Lehnsherr Park”.
Avevamo viaggiato per mezzo anno luce nello spazio, una trentina di chilometri a terra, ed ora stavamo per raggiungere la nostra destinazione; non potevo credere che ci fossimo realmente.
Eravamo davvero sulla colonia blu.
Imboccammo la destra ad un incrocio con tre strade ed in cinque minuti raggiungemmo una deliziosa stradina puntellata di villette familiari e piccoli complessi di appartamenti: giardini con staccionate bianche erano popolati da ortensie lilla ed azzurre, automobili parcheggiate nei vialetti e altalente sotto gli alberi.
Sulla destra della strada, le fronde degli alberi del Lensherr Park davano ombra ai vecchietti che si riposavano sulle panchine e agli uccellini che cinguettavano sui marciapiedi.
Scendemmo dall’autobus trascinandoci dietro le nostre tre pesanti valige.
Steve si avvicinò a me e, mettendomi una mano sulla spalla sussurrò:
“E’ quello!” Sorrise ed indicò una palazzina di quattro piani sulla sinistra della strada, circondata da alberi e villette. A giudicare da quanto potevo vedere, doveva contenere sei appartamenti che, sulla facciata, vantavano un piccolo balcone ciascuno che dava sulla strada e quindi sul parco. Circa dieci minuti dopo avrei scoperto con piacere che dal nostro balcone fosse possibile ammirare i grattacieli della capitale che emergevano da dietro i tetti di Clairview e dalle variopinte colline della campagna attorno a noi.
“E’… è bellissimo, non so che dire!” Esclamai attonito, mentre entrambi trascinavamo i nostri pesanti bagagli verso i cinque scalini che ci avrebbero condotto all’ingresso.
Nonostante abbia sempre preferito salire a piedi, data la mole di oggetti che ci portavamo dietro, dovettimo prendere l’ascensore. Steve aveva le chiavi nel suo portafogli: le aveva ricevute da suo padre la settimana prima di partire, insieme ad una lauta somma di denaro che avrebbe dovuto mettere da parte per la nostra nuova vita.
“David è la tua famiglia ora, figliolo” gli aveva detto “ devi prendertene cura ed insieme costruirete un futuro… non fare i miei stessi errori.”
La chiave ruotò tre volte  in senso anti orario nella serratura; spinsi in avanti la porta e scoprì un piccolo salotto:  l’arredamento, seppur spoglio e minimale, era già presente ed era stato scelto dal padre di Steven diverso tempo prima; curioso come fosse riuscito a soddisfare le nostre esigenze in modo così preciso.
Una cassettiera rettangolare non molto spessa, in legno laccato bianco ed alta settanta centimetri, sorreggeva uno schermo televisivo ultra piatto che pareva essere fatto di vetro, come quello che vidi in un film una volta.
Di fronte ad essa, un piccolo tavolino, dei medesimi materiali e colori, ed un divano coperto da un velluto blu pastello con sfumature bianche; dietro il divano, una libreria, ancora una volta in legno laccato bianco, ed alla destra di tutto quanto appena descritto, una luminosa porta di vetro che dava direttamente sul nostro balcone. Si, era il nostro balcone.
“Che ne pensi?” Chiese Steve che mi stava fino ad allora osservando ispezionare il piccolo nido.
Mi voltai verso di lui, e risposi con un sorriso che avrebbe potuto sciogliere il ghiaccio.
Si, mi rendo conto che faccia ridere.
Aprimmo la finestra ed uscimmo all’esterno, ammirando la vista spettacolare che il balcone ci offriva: trovandoci al terzo piano dell’edificio, riuscivamo a vedere tutte le altre piccole palazzine di Clairview, così come i tetti spioventi delle villette familiari che emergevano dalle ridenti chiome blu e verdi degli alberi; vedevamo le ondulate colline coperte di fiori nella campagna che ci rircondava, e i grattacieli  della capitale del pianeta che scintillavano tra le nuvole da dietro di esse. In lontananza, nel cielo, il sibilo dei propulsori delle astronavi girovagare qua e là, proprio come su Canceron; proprio come su ogni altro pianeta.
Poggiai la mia mano su quella di Steven, che a sua volta poggiava sulla ringhiera grigia.
Lo percepii in quel momento, e ne fui assolutamente sicuro.
Ero a casa. La nostra casa che, al tempo, non sapevo sarebbe durata poco.
Eravamo a casa.
“Ti amo.” Dissi.

Continua…

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Correnti ***


Capitolo 9 - Correnti

9.1-“Baby sitter irresponsabili e venti prepotenti”
Questa mattina, mentre i bambini giocavano a rincorrersi nel prato vicino all’accampamento, la piccola Rory Mayfair mi si è avvicinata con un piccolo legnetto in mano; io me ne stavo seduto  in riva al fiume aspettando che Steven mi raggiungesse, ma chissà per quale motivo tardava.
Le ho dato il benvenuto sorridendole non appena dopo averla vista, e lei ha orgogliosamente esibito il suo legnetto bruciacchiato ondeggiandolo qua e là con la mano.
“Sai dove l’ho trovato, David?” Ha chiesto con aria imperiosa e tronfia.
“Dove?”
“Sotto l’alberone… quello che è stato colpito dal fulmine!” Ed ha sgranato gli occhi.
Un fulmine era caduto su quell’albero due settimane fa durante un forte temporale, spaventandoci tutti a morte con il suo tagliente boato.
“Ne sarai fiera, giusto?” Le ho chiesto io sorridendo di nuovo.
“Certo! Il mio papà ha rischiato la vita per spegnere il fuoco quel giorno!”
Tutti noi ci eravamo adoperati per spegnere l’incendio causato da quella scarica; fortunatamente, la pioggia ci aveva dato una bella mano.
Rory si è seduta accanto a me e mi ha poi guardato nuovamente con aria interrogativa.
“Tu hai mai rischiato la vita?” Mi ha chiesto con tutta l’ingenuità che una bambina di nove anni può avere.
“Certo… tutti quanti qui l’abbiamo rischiata, anche tu piccola.”
Nei quattro anni di esodo in cui i Cyloni ci avevano dato la caccia braccandoci tra le stelle, ogni singolo essere umano a bordo delle astronavi della flotta superstite aveva rischiato di morire.
“Forse così tante volte che non le conto più.”
“Oh…” Ha sgranato di nuovo gli occhi.
“Ma in verità…” Ho alzato lo sguardo e riportato alla memoria un fatto del mimo passato.
“Sai quando mi è capitato per la prima volta di rischiare di morire?” Lei ora mi guardava interessata, nonostante la morte non sia in genere un argomento di cui si parla ai bambini.
“No! Quando?”
“Beh…ricordo che quando avevo sei anni quando mi accadde per la prima volta, o quanto meno ci andai molto vicino” Ho iniziato il mio racconto.
Ovviamente non sapevo che poi avrei rischiato di morire centinaia di volte a causa del ritorno dei Cyloni, ma questo è un altro discorso.
Avevo solo sei anni e conducevo la mia vita in tutta tranquillità insieme a Jennifer nella nostra villetta circondata dalla staccionata bianca, ingrigita dallo smog, nel piccolo sobborgo Canceroniano di Eneris.
Accadde in un pomeriggio di primavera, attorno alle 14:05 se non sbaglio; per tutta la mattina c’era stato un sole abbagliante che sembrava spaccare le pietre, e io avevo giocato sulla veranda con le bolle di sapone, meravigliandomi della loro trasparenza e della loro consistenza solo apparente che svaniva al tocco.
Non appena dopo pranzo la situazione cambiò in modo tanto frenetico da non farcene rendere nemmeno conto –del resto, avevo solo sei anni, cosa potevo capirne allora del pericolo? -.
Jennifer era scappata di corsa in banca a lavorare, e mi aveva lasciato in compagnia di Mary, la figlia della signora Shoenfender, la vicina di casa, che mi curava tre pomeriggi a settimana –senza troppo impegno direi, dato che ero un angelo tranquillo, in genere- in cambio di cinque cubiti l’ora.
Avevamo pranzato noi due da soli con un omelette al prosciutto e al formaggio preparate da Jennifer qualche ora prima di uscire. Stavamo ancora mangiando quando Mary dovette alzarsi di corsa per chiudere la finestra della cucina perché il vento si era alzato improvvisamente a tal punto da farne sbattere le ante.
“Frak!...Cioè…accidenti!” Si corresse immediatamente guardandomi.
“Cosa significa Frak?” Chiesi innocentemente non sapendo si trattasse dell’imprecazione più diffusa sulle Dodici Colonie.
“Ehm significa…” Tentennò Mary riprendendo in mano la forchetta.
“Beh, non ha importanza.” Rise.
Feci spallucce e ripresi a mangiare; Mary si voltò verso le tende bianche della finestra, notando che la luce all’esterno andava progressivamente diminuendo, come se una nuvola piuttosto spessa avesse coperto il sole, ed era proprio così: il cielo diventò nero in pochi secondi e il vento incominciò a guadagnare potenza, tant’è che dalla mia sedia potevo vedere le fronde verdi degli alberi piegarsi e dimenarsi avanti e indietro come alghe marine immerse nell’acqua.
Mary mi spedì a lavarmi i denti, ma senza accompagnarmi; lei si sedette in modo poco composto ed accese la televisione, pensando di farmi guardare un cartone animato o simili.
Appena cinque minuti dopo aver acceso la tv, il cartone animato che stavamo vedendo –in cui un bambino fatto di foglie veniva bruciato da un altro fatto di legno, molto strano- venne interrotto da un’edizione straordinaria del notiziario pomeridiano, in cui una donna con i capelli ricci scuri e con un tailleur beige avvertiva che era stato diramato nella nostra zona un allarme tornado.
“Se non avete un rifugio o un riparo piazzatevi nel centro della casa!” diceva.
“Oh dei!” Esclamò Mary; udimmo le sirene risuonare all’esterno ed in quel momento la quindicenne bionda, colta dal panico dovuto alla minaccia appena annunciata, gridò con forza
“Presto! Usciamo di qui!” e si diresse verso la porta indicandomi di seguirla; fece per aprirla e nello stesso istante in cui poggiò la mano sulla maniglia la porta si spalancò sbattendo contro la parete, spinta dalla forza dell’aria che stava dietro. Foglie e legnetti iniziarono ad entrare in casa, mentre Mary corse fuori non rendendosi conto di avermi lasciato indietro.
Io ero attonito, ancora dietro la porta, piccolo e con aria interrogativa, e la vedevo sparire tra i cespugli del giardino animati dalle raffiche: non avrebbe avuto molto più senso scappare in cantina invece che uscire all’esterno nel mezzo di una tempesta? E dove pensava di andare quella? Ero piccolo e innocente, ma avevo ragionato in modo più logico di lei, di nove anni più grande di me.
“David sbrigati!!!!” La sentì gridare un’ultima volta, prima che il rumore assordante di quello che stava accadendo fuori sovrastasse tutto. Avrei scoperto appena un’ora dopo che Mary era fuggita in casa propria  scampando alla catastrofe, per fortuna,  senza farsi un graffio. Quello sarebbe stato l’ultimo pomeriggio in cui mi curava, logicamente.
Decisi di doverla seguire ovunque fosse andata e così, piccolo ed esploratore, uscì di casa e mi avventurai a fatica per il vialetto –dopo aver chiuso la porta, Jennifer non avrebbe gradito un salotto pieno di foglie!- mentre l’aria sembrava aver assunto la consistenza di un muro di gomma che lottava per spingermi a terra ad ogni passo.
Il mio caschetto di capelli castani scuri era spettinato dalla brezza ciclonica e stava in piedi come se fosse impregnato di gel; non avevo paura, anzi, era quasi divertente!
Non mi rendevo conto del rischio che stavo correndo in quegli istanti.
Una manciata di tegole si staccò dal tetto per cadere ad appena due passi dietro di me –inutile dire che se mi fossero cascate addosso mi avrebbero ucciso sul colpo- mentre dieci metri di fronte a me, vicino alla staccionata –oscillante- vedevo il mio vecchio triciclo giallo e blu rotolare a destra, verso la casa di Mary.
Alzai ora lo sguardo: il cielo sembrava sbuffare nelle gorgoglianti nubi nere e grigiastre che urlavano e si contorcevano sopra di noi, e i pochi uccelli in volo apparivano terribilmente disorientati.
Il rumore era adesso assordante e proveniva da sinistra, così mi voltai e vidi l’inquietante figura che stava causando quel trambusto: la nube scura e imbutiforme del tornado infuriava prepotente e minacciosa sullo sfondo del dipinto che stavo vivendo in quell’istante, circondata da detriti che fluttuavano in un moto vorticoso e venivano scagliati in diverse direzioni a terra.
In realtà, il tornado non era ancora entrato nella nostra città, ma essendo la nostra casa in quartiere periferico di Eneris –ed essendo quella una tempesta di dimensioni notevoli- riuscivo a vederlo quasi come se fosse vicino, e la sua potenza era chiaramente percepibile da dove mi trovavo. Nei giorni a venire avremmo saputo che quel tornado era stato visto fin dai tetti dei grattacieli della capitale, a trenta chilometri di distanza.
Ero pietrificato; non capivo se si stesse muovendo verso di me o se si stesse allontando (in realtà si stava davvero avvicinando pericolosamente) e rimasi immobile, incurante della precarietà della mia situazione e bloccato in quel punto del vialetto, in mezzo alle povere rose che si dimenavano disperate. Attorno a me, pezzi di legno, bidoni della spazzatura e altre cose rotolavano ovunque, mancandomi miracolosamente.
Udì lo stridio di quattro pneumatici contro l’asfalto.
DAVID!!!” Gridò Jennifer con una forza che non le avevo mai sentito prima in corpo; aveva preso la macchina ed era venuta a casa più velocemente che poteva non appena le sirene avevano iniziato a suonare. La vedevo correre verso di me, con la gonna come una bandiera al vento e i capelli proiettati verso sinistra; mi afferrò letteralmente e mi trascinò in casa, lasciando l’auto in strada in preda a se stessa e al tornado.
Sbattè la porta e corse dietro al divano per chiudere le imposte della finestra grande della sala.
“Dov’è Mary? Dov’è??” Mi chiese mentre si precipitava al piano di sopra per fare la medesima cosa alle finestre rivolte verso la tempesta, per evitare che il vento distruttivo entrasse e disastrasse tutto.
“Non lo so!” Risposi, mentre lei tornava correndo al pian terreno
“Oh, Frak sta arrivando!” Imprecò guardando dalla finestra del bagno prima di serrarla: lo vidi anch’io, ed ora mi sembrava davvero spaventoso, visto accanto alle piastrelle rosa a fiori della doccia; lo vidi travolgere la palazzina di cemento e acciaio grigio che stava a duecento metri da noi, la palazzina che guardavo ogni mattina mentre mi lavavo i denti.
Quella si sbriciolò letteralmente come fosse fatta di cartone e i suoi pezzi volarono nell’aria in tutte le direzioni.
“Presto va di sotto David! In cantina, corri!!!” Gridò lei spaventatissima. Ubbidì e mi buttai letteralmente giù per le scale di marmo bianco lucidate due giorni prima: la nostra cantina assomigliava ad un appartamento per com’era arredata e tenuta; articolata in diverse stanze, piena di lampade dalla luce famigliare ed accogliente, tappeti, divani, mensole con quadretti, tende rosate appese alle pareti… insomma nonostante non ci fossero spesso tempeste come quella, Jennifer voleva assicurarsi di avere un posto in cui stare se qualcosa fosse andato storto.
Ci sedemmo sul divanetto nell’angolo della lavanderia e rimanemmo in silenzio mentre il chiasso là fuori si faceva sempre più minaccioso.
“E’ qui fuori ormai…” Disse lei mentre io giocherellavo con un peluche di un orsetto bianco con il muso nero che avevo lasciato in cantina durante uno dei miei momenti di gioco.
Era così ospitale quel nostro seminterrato: Jennifer lo teneva in perfetto ordine –così come i due piani di sopra- ed avevo un mio personale angolo dei giochi con un tappeto e diversi pupazzi.
Un terribile rumore seguito da un esplosione e vari pezzi di oggetti che cadevano –e picchiavano contro le pareti di casa nostra- ci fece sobbalzare dai cuscini su cui poggiavamo e ci fece guardare verso il soffitto; cosa poteva essere stato? Probabilmente il tornado aveva scaraventato qualcosa di grosso e pesante vicino a noi.
“Spero che la casa resti in piedi, miei dei… oh miei dei…” Si tormentava Jennifer adesso che il pericolo sembrava più vicino.
Aveva fatto riverniciare le pareti esterne della casa giusto un mese prima, e ancor prima che il tornado si avvicinasse, il vento aveva staccato qualche tegola qua e là.
“Non è detto che ci travolga del resto…” disse deglutendo una delle pastiglie di ansiolitici che conservava nel bagno di sotto.
Ora, il rumore dei detriti contro i muri esterni pareva più forte.
“E’ qui sopra!” Mi prese per mano e mi portò dall’altro lato della stanza, accanto alla lavatrice e alla libreria dove teneva riposti i suoi documenti bancari.
Provavo un turbinio di emozioni –un turbinio è proprio il termine più azzeccato per quella situazione- ma non avvertivo una vera paura; fuori il tornado stava distruggendo il mondo ma io non avevo paura, pensavo a cosa avrei visto una volta uscito.
Sarebbe cambiato qualcosa? Sarebbe tornato il sole?
“Ascolta…” Mi disse alzando il dito “…si sta allontanando!”
Sbarrai gli occhi e cercai di ascoltare con più attenzione.
“Si… sta finendo!”
Attendemmo dieci minuti prima di avventurarci al piano di sopra: Jennifer salì le scale per prima, ricordo che stavo un metro dietro di lei che mi faceva cenno di camminare piano con la mano.
Notò con piacere o forse con stupore che nessuna finestra era stata rotta o danneggiata; nessun detrito era entrato in casa, le tende erano ancora al loro posto ed io scorgevo dietro di esse l’ombra di rami degli alberi sradicati appoggiati contro i vetri delle finestre.
“Resta dentro.” Mi disse mentre apriva la porta, scoprendo con orrore che il portico era arredato da un paio di pneumatici e da diversi pezzi della nostra staccionata.
“Oh dei!”
Non l’ascoltai ed uscì dalla porta; guardai in alto e vidi che il cielo era ancora grigio, ma il vento che fino a poco prima ruggiva imperioso era adesso una fresca brezza sibilante.
Il vialetto era coperto da un mucchio di assi di legno, tegole e persino dal cartello stradale che dava il benvenuto ad Eneris –che il tornado aveva strappato al suo alloggiamento a quasi seicento metri da noi-.
“Oh miei dei!! Oh miei dei no!!!!” Gridò Jennifer in un attimo di shock; mi avvicinai a lei e scoprì il motivo del suo sfogo: la carcassa di un auto treno rosso fiammante –adesso letteralmente in fiamme- si trovava su un cumulo di macerie di legno e cemento, ai piedi delle quali si intravedevano quelli che sembravano essere i resti di un tetto, di alcune pareti e di una staccionata simile alla nostra: era la casa della signora Kinderman, che “fortunatamente” non era in città quel giorno, ma a Lewdan, dalla sorella Nora.
“Oh dei… Anne! Anne!” Gridò Jennifer quasi in un impeto di disperazione rivolgendosi verso le macerie su cui l’autotreno poggiava comodamente; Mary Shoenfender emerse dall’ingresso della sua casa coperto di vegetazione sradicata dalla tempesta.
“Non è qui, signora! Non è in casa, mia madre le ha parlato stamattina!” Disse per rassicurare Jennifer che, dopo essersi riavvicinata a me, mi chiese come mai Mary non fosse a casa nostra quando era arrivato il tornado.
“Tu eri fuori in giardino David! Che diamine stavate facendo? E dov’era Mary?” Chiese inarcando il sopracciglio; il nostro quartiere era sotto sopra, due case erano state distrutte, ma lei inarcava ancora così bene il sopracciglio.
“Non lo so…” dissi
“E’ uscita urlando e l’ho seguita, poi sei arrivata tu e il tornado…”
Continuavo a guardarmi attorno; la nostra casa, se non fosse per il caos in giardino e qualche tegola volata via, era uscita praticamente illesa dal disastro, e grazie al cielo aggiungerei.
Sarebbe stata distrutta comunque quindici anni dopo, ma questa è un’altra storia.
Il vento aveva spinto la nostra auto contro la staccionata, parcheggiandola nel bel mezzo del prato, accanto all’alberello sotto il quale amavo giocare –e che era adesso storto-.
“Vieni David…torniamo dentro, non è sicuro rimanere fuori.”
Mi prese per mano e ci incamminammo per il nostro vialetto coperto di foglie e pezzi di staccionata bianca ingrigita dallo smog; intanto in cielo, cominciavo ad avvertire il ronzio dei motori delle navette di soccorso della protezione civile che atterravano nelle zone travolte dalla furia del tornado.

9.2 –“Reali e Condomini”
Aprì gli occhi e sul comodino accanto a me, al lato destro del letto, la sveglia digitale segnava le 5:47 del mattino; dalle spesse e lunghe tende azzurre della finestra penetrava un leggero accenno di luce. Steven dormiva profondamente a pancia in giù, abbracciato teneramente al suo cuscino; il suo corto ciuffo di capelli scuri era schiacciato sulla fronte, rilassata in una rilassata espressione e un mezzo sorriso, dovuto probabilmente ad un sogno piacevole che stava avendo.
Sorrisi e stetti per qualche istante fermo ad osservare la sua figura dormiente e mi domandai cosa potesse passargli per la mente in quel momento, se stesse sognando e se fosse felice; ah, sicuramente lo era, e l’aveva esternato più volte negli ultimi otto mesi, su Virgon.
Si, erano trascorsi ben otto mesi dal nostro trasferimento su quel pianeta; otto mesi da quando avevamo abbandonato le nostre famiglie e le nostre case per saltare nel vuoto –sebbene avessimo qualcuno ad aiutarci- ed avevamo cominciato la nostra nuova vita insieme.
Provavo un profondo senso di colpa che mi avvinghiava il cuore non di rado: non avevo tenuto fede alla mia promessa di tornare su Canceron prima della fine dell’estate a trovare Jennifer.
Gliel’avevo promesso, quasi giurato, prima di andarmene; avrei voluto farlo con tutto il cuore, ma nonostante l’aiuto del padre di Steven, non eravamo riusciti a risparmiare abbastanza cubiti per acquistare dei biglietti di andata e ritorno per il pianeta, e di conseguenza ci eravamo trovati costretti a rimandare. Del resto, io avevo iniziato un tirocinio retribuito in concomitanza al college, e certamente quell’entrata in più ci avrebbe permesso di risparmiare qualche soldo.
Jennifer non era rimasta delusa dal mio fallimento, mi aveva confortato anzi.
Mi atterrivano però le sue parole: continuai per diversi giorni ad assicurarle che il viaggio era solo rimandato, ma non annullato; ogni volta che aprivo il discorso, lei vagheggiava e cambiava argomento. Come se non volesse parlarne, come se sapesse.
E continuavo a ripensare a ciò che mi disse il giorno in cui partì per Virgon, quelle frasi che avevano scavato un solco nel mio cuore, ma che una strana forza a me sconosciuta mi aveva spinto ad ignorarne la gravità, quasi come se fossi mentalmente controllato.


“Non tornerai quest’estate, e nemmeno la prossima.
Non tornerai nemmeno la prossima primavera. Soprattutto la prossima primavera.
E sarà giusto così.”

A distanza di tutto quel tempo non riuscivo a spiegare a me stesso cosa potesse aver voluto dire; insomma, erano parole davvero drammatiche.
Eppure, io stesso non mi interrogavo più di tanto, come se qualcosa me lo impedisse e distogliesse la mia attenzione quando ci provavo.
Ora so.
Dopo aver contemplato la bellezza del mio compagno assorto dal sonno profondo, scostai la coperta e mi alzai, nonostante l’orario fosse davvero insolito e prematuro.
Versai del thè caldo nella mia tazza, indossai un maglione che avevo lasciato sul divano la sera prima, ed andai a sedermi sulla poltrona di vimini sul balcone, che ogni giorno ci offriva una vista che adoravo letteralmente.
Il cielo era attraversato da sfumature blu e rosa, e le primissime luci del sole cominciavano ad emergere a mo di spiraglio dalle montagne in lontanza, illuminando il globo biancastro della grande luna Hibernia che splendeva in alto a destra nell’empireo.
La fissavo, e potevo chiaramente distinguere ad occhio nudo la sua morfologia nonostante si trovasse fuori dalla nostra atmosfera; il grande fiume Erakle ne attraversava gran parte dell’emisfero occidentale, vantando la propria presenza nella classifica dei fiumi più grandi delle Dodici Colonie, nonostante si trovasse su un satellite.
Hibernia era stata per secoli la patria dei Celtans, una piccola nazione ribellatasi al governo monarchico di Virgon, stabilitasi sulla suaa fredda luna per ottenere l’indipendenza sociale ed economica; all’oggi, le tensioni tra i due governi erano totalmente terminate, e i Celtans si erano nuovamente uniformati alla società madre.
Di fronte a me, i grattacieli di Boskirk erano ancora illuminati dai neon e dalle varie centinaia di migliaia di lampade dietro le loro immense vetrate, e sembravano dei bellissimi pinnacoli di vetro e acciaio che si slanciavano in un cielo violaceo che si stava svegliando in quel momento.
Anche la nostra cittadina, Clairview, stava cominciando ad aprire gli occhi in quegli istanti, e il cinguettio degli uccellini mattinieri nel parco di fronte casa nostra cominciava a solleticarmi le orecchie.
“Ti sei svegliato presto, biondino.” Mi sorprese Steven sedendosi sulla poltrona accanto alla mia, ancora alla deriva nei fumi del sonno.
“Non riuscivo a riaddormentarmi” Confessai.
“E tu invece? Quando mi sono alzato quasi russavi!”
Si grattò la testa e sorrise prima di rispondermi.
“Ho allungato il braccio verso di te ma il letto era vuoto” Sorrise “Così mi sono svegliato anch’io”.
Sorrisi a mia volta, e una freschissima brezza ci investì, svegliandoci un pochino di più.
Mi accarezzai le cosce con le mani e guardai le mie gambe, storcendo il collo ed assumendo una smorfia un pochino sconfortata.
“Che c’è?” Chiese Steven dopo aver voltato a sua volta la testa nella direzione in cui guardavo io.
“Le mie gambe” risposi “Sono storte!” Grugnii.
“Ma che dici, sono perfette!” Cercò di confortarmi lui.
“No, guarda come poggia la caviglia destra quando sto in piedi!!”
Ho sempre pensato di avere un leggero valgismo alle gambe; certo, nulla di eccessivamente evidente, non è certo un pugno in un occhio, ma se si fa attenzione si riesce a notare.
La gamba sinistra sembra a posto, ma quella destra tende verso l’interno anziché essere dritta; mi sono informato quando avevo diciotto anni, ed è un difetto congenito che in genere i pediatri correggono nei bambini piccoli con delle manovre ortopediche; alla mia età era ormai tardi e per sistemarmi le gambe mi sarei dovuto sottoporre ad un’operazione a dir poco invasiva che, per un difetto così poco visibile, non credevo valesse la pena fare –dato che nessuno se n’è mai accorto-.
Agitavo il mio piede destro in aria sapendo che l’occhio di Steve non avrebbe mai colto il dettaglio che volevo vedesse; in fondo, non mi dispiaceva il fatto che non fosse evidente.
Lui rideva in quel suo solito modo che mi invogliava a sorridere, e il cielo continuava progressivamente a schiarirsi mentre il mondo si svegliava.
“Beh, visto che non dormiamo, vado a preparare qualcosa per colazione!” Esordì alzandosi dalla poltrona per entrare in cucina.
Lo seguì, mi sedetti ed accesi la televisione, incappando nel notiziario nazionale delle sei e dieci del mattino; il presentatore era circondato da diversi altri giornalisti presi con i loro rispettivi servizi.
“Jim McDonnell, in diretta dal Palazzo Reale di Boskirk; siamo qui in attesa dello scoccare delle 7:30, ora in cui, come ogni anno in questo giorno, il re Regulus IV e la regina Lyndra pronunceranno il discorso in nome della pace nelle Colonie…”
Il camera man inquadrò per diversi istanti il palazzo reale dando l’occasione ai telespettatori –e a me- di dare un’occhiata alla sua figura.
L’avevo già visto in fotografia, ma lo osservai meglio dallo schermo della televisione: le sue forme classicheggianti esprimevano regalità, così come le alte finestre rettangolari, e il grande timpano sulla facciata frontale. Le pareti erano verniciate di bianco e diverse piante rampicanti vi erano disseminate, ma la sera, delle speciali lampade al neon installate in vari punti del giardino attorno all’edificio, proiettavano su di esse una luce bluastra, tingendole di un finto azzurro luminoso, rendendo la casa reale distinguibile da mezzo chilometro di distanza.
 Non era poi così grande, e per essere la dimora del monarca di un pianeta si poteva dire quasi umile, seppur decorosa, umile così come lo era ora mai il potere della monarchia della quale era la sede: Virgon era l’ultimo pianeta nelle Colonie governato da una monarchia costituzionale, o nel quale se ne potesse semplicemente trovare una; gli altri mondi si erano adattati alla progressione dei tempi adottando forme di governo liberale, le quali si erano andate unificandosi sotto una repubblica federale dopo la guerra dei Cyloni.
Naturalmente anche Virgon rientrava nella Federazione delle Dodici Colonie di Kobol, e come tutte le altre colonie vantava un rappresentante all'interno del Consiglio dei Dodici, ma manteneva una facciata conservatrice e tradizionalista –che non va assolutamente confusa con chiusura mentale o arretratezza, dato il grado di progresso e benessere sul pianeta- che tuttavia era appunto una facciata; il potere dei regnanti delle ultime generazioni era stato sempre di più fagocitato dalla potenza del parlamento che li affiancava –se non, guidava- fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui la famiglia reale di Rioga regnava in modo puramente rappresentativo e simbolico, come a voler ricordare al popolo l’antico splendore delle tradizioni, mentre l’assemblea legislativa amministrava realmente il pianeta.
Nonostante ciò, Regulus e Lyndra erano profondamente amati dai loro sudditi che li ritenevano senza ombra di dubbio il simbolo dell’orgoglio del proprio mondo: i giorni del loro rispettivi compleanni, a Junius e ad Ottobre, era festa nazionale su tutto il pianeta, ed era tradizione che la coppia reale passasse per le strade del centro di Boskirk affacciati dal tettuccio dell’automobile blindata, scortata dal suo convoglio; i cittadini si riversavano per le strade lanciando chicchi di riso e petali dei fiori di betulle, un’antica usanza risalente ai primi secoli della Colonizzazione.
Guardavo le immagini nel televisore distrattamente e riflettevo su come dovessero sentirsi i cittadini di Virgon in quei momenti; ero legalmente anche io un suddito della casa di Rioga, eppure non sentivo l’emozione che sembrava pervadere le membra di tutti attorno a noi, ma del resto ero sul pianeta solo da otto mesi, e avevo davanti a me tutta la vita per integrarmi nella nuova società, o almeno così pensavo sarebbe stato.
Le uova e il bacon sfrigolavano nella padella mentre Steve armeggiava sul piano cottura fischiettando; non era una cosa che faceva abitualmente, anzi a dire il vero ricordo di averglielo sentito fare pochissime volte, ma un buon cantante dovrà pur saper fischiare!
Io contrariamente a lui non ero minimamente capace di farlo: più volte avevo provato ad inumidirmi ed arricciare le labbra e soffiarci dentro, ma nulla vi fuoriusciva se non un silenzioso getto d’aria. Non che la cosa mi avvilisse, in realtà.
“Dovremmo fare qualcosa per la signora Hatcher, non trovi?” Chiese lui mentre si avvicinava al tavolo con la padella.
“Mmh?” Risposi distrattamente distogliendo lo sguardo dal notiziario, in cui un reporter descriveva la desolazione prodotta da un mega tornado che aveva appena raso al suolo una piccola città agricola, su Aerilon.
“La signora Hatcher, dovremmo ricambiare il favore.” Ripeté.
“Ah si! Certo, scusa sono ancora mezzo addormentato. E’ una cara donna.”
La signora Melanie Hatcher abitava dall’altro lato del pianerottolo, nell’appartamento accanto al nostro; nonostante ci trovassimo sul pianeta da molti mesi, avevamo tuttavia fatto la sua conoscenza solamente la settimana prima, poiché fino ad allora si trovava in “villeggiatura”, così come diceva lei, dalla sorella in un sobborgo nella periferia di Hadrian.
Un pomeriggio tornai da lavoro e lei era lì, di fronte alla nostra porta, ad osservare lo zerbino nuovo riportante la scritta welcome, chiedendosi chi si fosse stabilito nell’appartamento accanto al suo, che era stato sempre vuoto fino ad allora.
In realtà, i gestori del condominio inviano un’email a tutti i residenti ogni volta che accadde nella struttura qualcosa di importante, così come l’arrivo di un nuovo vicino, ma questo la signora Hatcher non l’aveva tenuto in considerazione, dato che non possedeva un computer da almeno vent’anni.
Ricordo il suo grande entusiasmo nello scoprire che –cito testualmente- “un bel giovanotto biondo e il suo amante fossero i suoi nuovi vicini di casa” e ricordo anche la mia risata leggermente forzata dettata dall’imbarazzo del momento.
“Non vedo l’ora di conoscere questo Steven, e sappi che siete invitati da me per un thè! Non si scampa!” Aveva detto quel pomeriggio mentre entravo in casa salutandola.Mi aveva fatto da subito una bella impressione, ed ero felice che un vicino appena conosciuto si mostrasse così ospitale nei nostri confronti.
“Potrei prepararle una torta, che dici?” Proposi facendo una simpatica e ridicola smorfia.
“Si, anche se ci inviterebbe … ci costringerebbe a venire da lei a mangiarla!” Rise lui.
“Eh beh, è una così cara signora! Glielo dobbiamo, no? Ha detto che sei affascinante.” Alzai le sopracciglia in un’espressione solenne. E poi risi.
“D’accordo ma non questa settimana, ho ancora un sacco di lavoro da portare a termine per il prossimo esame di canto!” Disse poco prima di iniziare a mangiare.
“Ma certo, non c’è problema.” Risposi per poi voltarmi nuovamente verso la tv, dove ancora si parlava del cataclisma meteorologico; le immagini mostravano ettari di grano e vegetazione sradicati dal suolo, in quella che, se vista da diverse decine di metri di altezza, sembrava essere una gigantesca cicatrice sul terreno.
“Il tornado” diceva un uomo con una benda in fronte intervistato dal reporter “aveva un diametro di quasi due chilometri, ha spazzato via tutto… non avevo mai visto una tempesta così!”; attorno a lui, soltanto detriti, macerie, pezzi di legno e lamiera, automobili rovesciate.
“Anch’io ho vissuto una cosa simile…” Dissi mantenendo il contatto visivo con la tv.
“Davvero?” Chiese Steven guardandomi.
“Si. Beh certo non era un tornado così grande, ma era comunque piuttosto spaventoso, ero un bambino. Ha distrutto due case nel mio quartiere.”
Steven annuì mentre masticava, mentre il servizio ci informava del numero delle vittime.
Quarantasette morti, quarantasette vite spezzate da una tempesta autunnale su un pianeta agricolo distante mezzo anno luce da noi.

Mentre mi preparavo ad uscire, mi sedetti ai piedi del letto per allacciarmi le scarpe, poi aprì la mia valigetta nera per controllare di avere quanto mi servisse per la lezione del giorno: il sussidiario di geografia, le schede da completare ed i disegni da colorare che avrei dato ai bambini alla fine della mattina.
Ma c’era anche un piccolo diario che avevo inserito nella valigetta senza motivo, così, per avere qualcosa di familiare sempre con me; era un quadernino che tenevo da un paio d’anni, nel quale avevo incollato fotografie, immagini, fotocopie, poesie, tutta roba a cui tenevo e che desideravo portarmi addietro.
La mia attenzione ricadde su un breve scritto che si trovava alla metà del diario, una sorta di poesia sentimentale ed intimista che mi aveva donato Jennifer prima che io partissi per la mia nuova vita; non l’aveva scritta lei, bensì una sua amica d’infanzia, Marissa Winchester, pochi mesi dopo la fine della guerra dei Cyloni, più di quarant’anni fa.
Marissa era più grande di Jennifer di due anni e viveva sulla sua stessa strada, nella villetta affianco alla sua. Era figlia di una buona famiglia, tuttavia negli ultimi mesi –al tempo- il padre aveva iniziato a cambiare; era sempre la stessa persona, tuttavia aveva adottato dei comportamenti meschini nei confronti del resto della famiglia, che incolpava per la sua felicità, ritenendo che la propria non fosse mai abbastanza.
Era sempre insoddisfatto, arrabbiato, deluso; eppure, lui e la famiglia erano sopravvissuti alla guerra dei Cyloni, la gratitudine sarebbe dovuto essere il sentimento primario nel suo cuore, e questo Marissa lo capiva; lei non riusciva a tollerare quel comportamento da parte del padre, e non potendolo esternare direttamente nei suoi confronti, lo fece nella poesia che sarebbe stata tramandata a me, sopravvivendo a quarant’anni di storia.

«Mi ami? –iniziava così-
Ti amo? Hai un cuore arido?
Hai mangiato bene stamattina?
Dove sei finito?
Non ti riconosco, o forse si, o forse no.
O forse la vita ti ha cambiato, o magari non ci calzi più come prima.
Ma magari poi passa, ma anche io passo.
Anche io passerò, non sarò sempre qui.
Ma cosa farai se io passassi?
Ma cosa dirai se io passassi?
Mi darai -di nuovo- la colpa?
Ma non hai sonno?
Ma non ti tiene sveglio, la coscienza?
Ma non ti chiedi se sbagli?
Ma se io passassi?
Cosa diresti?
Ma perchè usi quelle parole? Pensi che non capisca? Ma perchè non parli come mangi?
Pensi che non capisca?
Ma perchè credi che ti odiamo, ma perchè credi che te ne vogliamo?
O forse sono davvero cattiva? Forse sbaglio davvero, io?»


Così scriveva la piccola Marissa Winchester in un caldo pomeriggio su Virgon.
Quel foglietto arrivò fino a me, passando dalle sue mani, a quelle di Jennifer, per poi cadere nelle mie, per raccontarmi la storia di una figlia che non riusciva a capire l'egoismo del padre.
Probabilmente quell’uomo non era realmente cattivo, e non voleva male alla sua famiglia, ma era troppo pieno di se, troppo accecato dai suoi futili problemi per vedere che stava facendo del male  chi l’amava.
Non so perché Jennifer mi abbia regalato quel foglietto, e nemmeno riesco pienamente a comprendere come si sentisse Marissa; in fondo, io non ho mai conosciuto mio padre.

9.3 –“Girasoli e Lezioni di storia”
Guidavo la nostra auto elettrica grigio metallizzato verso la scuola dove lavoravo come stagista tre giorni a settimana, in quella che sembrava essere una bellissima mattina; il clima continuava ad essere mite per le prime ore della giornata, nonostante ci trovassimo in autunno inoltrato.
Verso sera invece, temperatura calava drasticamente, e per questo mi portavo dietro il giaccone e la sciarpa. Mi metteva sempre di buon umore uscire di casa e vedere la gente della cittadina camminare per strada, intenta a prodigarsi per portare avanti la propria vita nel  piccolo angolo dell’universo che l’accoglieva.
Erano già un paio di mesi che lavoravo, ed ero totalmente convinto che quella fosse realmente la mia strada; come già ho detto più volte, amavo i bambini e lavorare a stretto contatto con loro in ambito didattico mi faceva sentire incredibilmente vivo.
Mi ritenevo uno dei ragazzi più fortunati delle Dodici Colonie; avevo tutto quello che una persona semplice potesse desiderare per essere felice: stavo con la persona che amavo e che era indubbiamente la mia anima gemella, vivevo su un pianeta bellissimo in una casa mia e mi stavo specializzando in quella che sarebbe stata la mia professione, quella che mi avrebbe permesso di portare a casa il pane.
Anche per Steven le cose andavano decisamente a gonfie vele: frequentava la “Boskirk Royal School Of Art And Music”, una delle più prestigiose accademie artistiche del pianeta –e delle Colonie, tant’è che faceva concorrenza alla Grand Academy Of Art di Caprica- dove si recava quattro giorni a settimana per seguire corsi di canto, musical e recitazione.
La sua voce,  grandemente allenata già da prima, si stava evolvendo e trasformando sempre di più, colorandosi di tecniche e sfumature sempre più altolocate.
Grazie alla sua creatività, riusciva a trovare ispirazione in tutto e scriveva canzoni incredibilmente belle ed elaborate, con testi pieni zeppi di metafore di interpretazione decisamente non banale.
La mia preferita è sempre stata Sunflowers, un pezzo arrangiato alla chitarra acustica di due minuti e trenta secondi che lui aveva dedicato a me, paragonandomi appunto ad un girasole –mi imbarazza leggermente scrivere di questi dettagli così intimi, ma in fin dei conti se voglio raccontare la nostra storia devo farlo fino in fondo-  ; si potrebbe pensare che abbia scelto il girasole come metafora per parlare di me per via dei miei capelli –che al tempo erano- biondi, ma il motivo di questa sua scelta è in realtà tuttaltro, e la sua origine risale all’inizio della nostra relazione. Quella prima estate insieme, quando ancora vivevamo su Canceron, quando ancora non eravamo certi di cosa il futuro avrebbe avuto in serbo per noi; accadde che un pomeriggio, mentre ce ne stavamo seduti su una panchina nel parco di Lewdan a chiacchierare con una bibita fresca in mano, i nostri discorsi verterono sul tasso di povertà sul pianeta che abitavamo.
In realtà ero stato io, come sempre, ad iniziare il discorso, discorso che finiva inevitabilmente per fare innervosire il mio animo illuso e moralista.

“Non può essere Steven” Dicevo agitando la mia bibita al limone che per poco non rovesciai
“Capisco che ci siano ottantotto stati qui, su Canceron; è vero che siamo quasi sette miliardi e che nessun’altra colonia abbia così tanta gente… ma questo pianeta è pieno di risorse!
Abbiamo dei terreni tra i più fertili delle Colonie e il sotto suolo è zeppo di giacimenti di metalli e materiali di ogni tipo. Dovrebbe essere uno dei mondi più ricchi il nostro, e tecnicamente lo è, eppure le città di questo pianeta sono quelle con le baraccopoli più grandi e affollate! Le risorse che abbiamo dovrebbero essere sufficienti per tutti e non affamare milioni di persone perché poche centinaia possano andare in giro con automobili d’oro.”
Il mio fervore sull’argomento lo divertiva in qualche modo, ma allo stesso tempo diede alla sua mente creativa l’ispirazione per la sua arte. Dopo pochi istanti di silenzio se ne uscì con un’affermazione che non dimenticherò mai:
“Sei un’anima Eliotropica”
Al che, risposi aggrottando leggermente le sopracciglia in un’espressione interrogativa; che voleva dire? Faceva quasi ridere.
“Sei un po’ come un girasole, in un certo senso. Ti giri verso il sole, verso la luce. Stai sempre dalla parte della vita.”
Rise.
“So che sembra un po’ una frase da film e faccia ridere, ma lo penso davvero!”
Effettivamente mi viene ancora da ridere adesso pensando a quella sua strana espressione, ma non è certamente da tutti un’associazione come quella.
Lasciai la macchina nel parcheggio della Jean Evans Elementary School –della quale credo di aver già spiegato l’origine- e mi avviai verso la mia classe; da quasi un mese lavoravo in una terza elementare a fianco dell’insegnante di storia, che alle volte lasciava che gestissi la lezione autonomamente; alla fine dell’anno sarei stato valutato sulla base dei suoi giudizi, e il risultato ottenuto sarebbe rientrato nel mio libretto valutativo universitario.
Amavo quella scuola; nonostante ci fossero delle regole particolarmente importanti, come il dover portare le uniformi, i bambini sembravano allegri e sereni, e questo metteva di buon umore gli insegnanti, tra cui me.
Entrai nella terza porta a sinistra del corridoio est al secondo piano: le tre grandi finestre sulla parete di sinistra donavano all’aula una forte luminosità, che rendeva superfluo l’uso dei lampadari, che accendevamo soltanto nelle giornate molto nuvolose.
Due lavagne nere di forma quadrangolare occupavano il muro accanto alla porta d’ingresso e alla cattedra, mentre una cassettiera lunga quattro metri e mezzo occupava il fondo dell’aula, che i bambini consideravano affettuosamente la zona di gioco, e che era arredato con poltroncine, tavolini ed un paio di tappeti colorati, sui quali in genere avremmo trovato delle ceste contenenti i giocattoli.
Sopra la cassettiera, giacevano dodici planisferi che rappresentavano i globi dei nostri dodici mondi, con dettagli morfologici, antropici e geografici; i dodici pianeti che orbitavano nei quattro sistemi solari che noi conoscevamo come le Dodici Colonie di Kobol, che per duemila anni l’umanità aveva chiamato casa.
Sulla stessa parete, era appesa la cartina mondiale di Virgon, così che i bambini potessero avere sia una visione dettagliata della geografia del loro pianeta che una visione d’insieme di com’erano fatte le altre Colonie.
“Buongiorno, David!” Mi salutò la signorina Bolen mentre spostava dalla cattedra una pila di libri di storia e geografia.
I suoi capelli lunghi e lisci tinti di rosso mogano erano illuminati da una serie di chiarissime meches bionde che donavano alla sua chioma uno strano contrasto: non era molto comune vedere dei capelli tinti di rosso e di biondo, ma consideravo quel mix di colori più che piacevole.
Il suo viso ovale e leggermente spigoloso esprimeva grazia e gratitudine verso la vita: Emily era stata assunta come insegnante contro ogni aspettativa di un padre arcigno e arido che non le aveva mai detto che le voleva bene; aver realizzato il suo sogno l’aveva riempita di amore e l’aveva resa una ragazza forte e decisa, ma incredibilmente dolce. Era amata dai suoi alunni che vedevano in lei una sorta di madre, nonostante fosse molto giovane e per alcuni versi ancora inesperta; è stato un vero onore per me lavorare con lei, per il poco tempo che abbiamo avuto a disposizione.
“Credo di aver riletto il copione una ventina di volte questa settimana, Emily, impazzirò!”
Esclamai mentre attraversavo frettolosamente l’aula per dirigermi verso i mappamondi, vicino ai quali stavano dei sussidiari di cui avevo bisogno per la lezione.
“Non preoccuparti” Rispose dalla cattedra, intenta a preparare i fogli.
“E’ una lezione semplicissima, andrai alla grande, e poi io sono qui di fianco a te, cosa credi?” E ridacchiò teneramente.
Emily mi aveva assegnato il compito di spiegare ai bambini la storia della scoperta delle Dodici Colonie, argomento che tecnicamente avrebbero dovuto trattare già dalla prima elementare, ma per una serie di disguidi con le precedenti insegnanti, era stato rimandato di due anni.
Come lei stessa aveva detto, era una lezione molto semplice, sia perché a grandi linee tutti, bambini compresi, conoscessero la storia della nostra civiltà, e perché sarebbe stato un lavoro interattivo ed interessante; nonostante ciò, ero inspiegabilmente preoccupato da quel mio compito e nei giorni precedenti ripetei a me stesso –e al povero Steven- il discorso che avrei dovuto fare, o che credevo avrei fatto per introdurre l’argomento.
Ovviamente sul momento finì per cambiare ogni parola.
Una volta che terminato l’appello, fu Emily ad introdurmi.
“Ragazzi, oggi David ci parlerà di una cosa molto interessante, perciò vi consiglio di ascoltare quanto ha da dirci!” e detto questo, mi sorrise facendomi cenno di agire.
“Dunque ragazzi… beh…” Tutti mi fissavano con aspettando che cominciassi ad esporre la merce sul bancone. Esitai, ma mi decisi a parlare. Erano solo bambini in fondo.
“Allora, sapete di cosa parleremo oggi?” Chiesi mentre mi appoggiavo alla cattedra; Emily mi guardava sorridendo da dietro di essa. Le teste ondeggianti in un timido “no” dei bambini risposero alla mia domanda, spingendomi a svelare i miei piani.
“Bene beh… oggi parleremo della scoperta delle Dodici Colonie, interessante vero?” E vidi diversi visi accendersi in espressioni di curioso interesse.
Iniziai a camminare tra i loro banchi colorati, tenendo le braccia conserte nel mio maglioncino color panna.
“Vorrei iniziare la spiegazione citando una frase delle Sacre Pergamene, sapete cosa sono, vero?”
La piccola Abigail Horner alzò la mano e le sopracciglia per il desiderio di rispondere.
“Abigail?” Le diedi il via libera per la parola.
“E’ il libro sacro degli Dei!” Rispose con la sua chiara vocina.
“Precisamente, Abigail, le Sacre Pergamene sono un insieme di libri sui quali si basano molti dei culti religiosi conosciuti… ma ora questo non ci interessa. Vi ho parlato delle Pergamene per un altro motivo.” Tutti erano assorti ad ascoltarmi, mentre l’aula risplendeva sempre di più per via della luce bluastra che entrava dalle finestre.
“Sapete quanto tempo fa sono state scritte?” Chiesi, retoricamente ovvio, perché nessuno rispose.
“Beh, tolti alcuni dei libri più antichi, come le profezie di Pythia che sembrano risalire a più di 3600 anni fa, i libri posti all’inizio delle Pergamene sono stati scritti diverso tempo dopo, circa 2000 anni fa.” Un leggero “wo” sembrava pervadere le loro facce.
“Una data molto importante… sapete perché?”
Ancora una volta le loro testoline colorate ondeggiavano in un timido “no”.
“Ebbene, secondo i più affidabili studi archeologici, i primi coloni sarebbero giunti qui sulle Dodici Colonie proprio duemila anni fa! Le Pergamene iniziano proprio con questa frase, ascoltatela attentamente: <>
Adesso si trovavano davvero catturati da quello che dicevo, in parte per il mio tono di voce volutamente misterioso, un po’ perché quello che dicevo richiedeva concentrazione.
“Sapete cosa significa? Dovete sapere che noi esseri umani non siamo nati su questi dodici pianeti… cioè, noi si, noi e le nostre famiglie, e i loro nonni e le centinaia di generazioni prima di noi… ma i nostri antenati più lontani, i primi esseri umani viventi, non sono nati qui!”
“E dove?” Chiese Randy Honeycutt senza alzare la mano.
“Su Kobol!” Risposi.
“Il grande Kobol, il pianeta d’origine di tutti noi, la culla ancestrale dell’umanità.
 Antiche leggende scritte nelle pergamene narrano che su quel pianeta lussureggiante gli esseri umani stessero fisicamente a fianco degli Dei, con quali condividevano la vita di tutti i giorni… ovviamente questa è solo una leggenda. Quello che sappiamo per certo è che su Kobol esistevano dodici tribù, o nazioni, i cui nomi erano gli stessi delle costellazioni dello Zodiaco. Conoscete i loro nomi?” E nessuno rispose, come se avessi interrogato un morto.
“Andiamo, ma certo che li conoscete, solo non lo sapete!” E mi misi ad enumerarli.
Aries. Aquarius. Cancer. Capricorn. Gemini. Leo. Libra. Pisces. Sagittarius. Scorpius. Taurus. Virgo. Non vi dicono niente?” Chiesi.
“Si…” Provò a formulare un’ipotesi Abigail.
“Sembrano i nomi delle Colonie…ma sono un po’ diversi…”
“Esatto Abigail, sono i nomi antichi delle Dodici Colonie di Kobol! Gli storici non sono certi del perché ma quasi tutti sono concordi su una teoria: circa duemila anni fa, in seguito ad un conflitto… sapete cos’è un conflitto vero?” Volli accertarmi di non adoperare parole troppo grandi per loro, che mi accontentarono con un sentito si.
“Bene, dopo un conflitto che… a dire il vero non siamo sicuri del perché ci sia stato, ma dopo ciò le dodici tribù lasciarono Kobol a bordo di grandi galeoni stellari… ovvero a bordo di grandi astronavi. Le scritture dicono che, in preda alla disperazione per l’esodo dell’umanità, la dea Atena si sia tolta la vita gettandosi da una montagna.”
“L’ha fatto davvero?” Domandò Alicia Hobby con aria preoccupata.
“Non lo so… questo dice la leggenda! E dice inoltre che durante l’esodo nello spazio, gli dei avrebbero mostrato ai nostri avi la strada per un nuovo mondo dove potessero ricominciare da capo… e così trovarono un piccolo ammasso stellare formato da quattro sistemi solari, nei  quali orbitavano diverse decine di corpi celesti, tra cui, dodici pianeti abitabili.” Adesso i bambini incominciavano a comprendere quello che stavo dicendo. Era noto a tutti loro il fatto di vivere in una società interplanetaria.
“Quindi…” Osò Kimberly Pattymore
“Loro hanno trovato i nostri pianeti?”
“Precisamente, Kimberly! Le dodici tribù trovarono quelli che oggi sono i nostri mondi, ed ognuna di esse ne scelse uno su cui stabilirsi: i pianeti su cui viviamo presero il nome delle tribù che li avevano colonizzati. La tribù del Capricorno di stabilì su quello che oggi conosciamo come Caprica, la nostra odierna capitale e centro della società delle Colonie.
La tribù dei Gemelli su Gemenon, il pianeta che condivide la stessa orbita di Caprica; la tribù dei Pesci su Picon; la tribù della Bilancià colonizzò Libran,  quella del Cancro prese Canceron, sul quale tra l’altro sono nato e cresciuto…  la tribù della Vergine mise piede su Virgon, sul quale ci troviamo noi ora, e così via! I dodici mondi abitabili vennero colonizzati, diventando appunto le Dodici Colonie di Kobol su cui viviamo oggi… ovviamente è stato molto tempo fa, sono passati duemila anni e la nostra società si è evoluta da allora, ma è importante che tutti conosciamo quali sono le nostre origini.”
Molti di loro sorridevano, chiaramente elettrizzati da un racconto così interessante come quello delle origini dell’umanità e dell’odierna civiltà… o almeno, odierna per quei giorni.
Ne loro ne io avremmo mai immaginato cosa sarebbe accaduto da lì a pochi mesi.
Emily si alzò e venne ad appoggiarsi alla cattedra accanto a me; sembrava davvero soddisfatta di come avevo introdotto l’argomento, ed io ne ero felice.
“Molto bene ragazzi!” Disse accennando un sorriso.
“Avete qualche domanda da fare su quanto ci ha appena raccontato David?” E non appena terminata la frase l’aula sembrò gremirsi di mani alzate.
“Patrick?” Disse indicando il bambino seduto al primo banco di fronte a noi; lui si alzò in un battito di ciglia e quasi con il fiatone ci pose un quesito che sembrava attanagliarlo.
“Ma… come fecero le tribù a scegliere il pianeta giusto per loro?” E in effetti non era affatto una domanda sciocca.
“Beh” Provai a rispondere “Il mito vuole che siano stati gli Dei a guidare le tribù verso questi pianeti, quindi è ragionevole pensare che abbiano anche suggerito ad ogni tribù quale pianeta scegliere! Bisogna inoltre dire che un sistema solare quadruplo come quello in cui viviamo e pieno zeppo di pianeti abitabili è qualcosa di rarissimo nell’universo! Le probabilità di trovare un solo pianeta che possa ospitare la vita, la fuori, sono scarse… figuratevi dodici mondi vicini! Per questo molti pensano che ci sia davvero del miracoloso nella nostra storia..”
“David..” Chiese nuovamente Patrick.
“Quindi tutti gli esseri umani lasciarono Kobol? Non è rimasto nessuno ?” Disse ponendo un tono quasi sinistro su quel “là”.
“Beh… è probabile che qualcuno sia rimasto per un breve periodo dopo l’esodo, altrimenti non avremmo avuto un resoconto, seppur mitologico, tanto dettagliato… ma c’è una cosa che non vi ho detto, perché questa è pura leggenda. Non credo che sia reale e nessuna comunità storica o scientifica l’ha mai considerata reale.”
“A cosa ti riferisci?” Chiese Emily con tono interrogativo, anche se in realtà sapeva benissimo dove volevo andare a parare.
“Beh, il mito vorrebbe che, oltre alle dodici tribù di cui vi ho parlato, ne esistesse una tredicesima, che lasciò Kobol diverso tempo prima delle altre… sempre secondo le Pergamene, questa tredicesima tribù lasciò il mondo d’origine per colonizzare un pianeta orbitante attorno ad una stella lontanissima, un pianeta disabitato chiamato Terra… ma come vi dicevo, è solo una leggenda.”
Intendevo davvero quello che dicevo; non tutti erano a conoscenza di quel passo delle scritture, soprattutto perché ritenuto poco importante rispetto agli altri miti e dottrine presenti nelle Pergamene. Io non lo ignoravo ,come Emily, perché in quanto futuro insegnante dovevo conoscere alla perfezione i nostri testi sacri, ancora ritenuti alla base della nostra società, sebbene si professasse quasi sempre laica.
Consciamente, credevo davvero che la storia della tredicesima tribù e della Terra fosse solo una leggenda, eppure, ogni volta che lo pensavo, sentivo dentro di me una strana voce sussurrarmi che mi sbagliassi.
Gli eventi dei mesi successivi mi avrebbero portato a capirne il perché.



9.4 –“Foglie rosse e Strane presenze”
Uscito da scuola in ormai pieno pomeriggio, mi incamminai verso il parco di fronte all’edificio, accomodando le mie mani nelle tasche del mio lungo cappotto; il freddo vento autunnale soffiava tra le fronde bluastre degli alberi, le cui foglie avrebbero cominciato molto presto a tingersi di rosso, come ogni foglia fa durante la stagione che precede l’inverno, prima di avvizzire e cadere morente al suolo.
E’ davvero suggestivo vedere delle foglie passare dal blu al rosso: la prima parte a cambiare colore sono le venature, che da dal loro verde scuro naturale scivolano non molto lentamente verso un arancione opaco, che poi diventa rosso marroncino; solo successivamente il resto della foglia prende quel colore, e fino a quel momento è possibile osservare foglie bluastre con venature rossicce. Questo è uno degli aspetti che mi mancano di più degli autunni su Virgon; i colori erano proprio la chiave per interpretare l’anima di quel pianeta, colori impossibili da trovare altrove nelle Dodici Colonie –e da quanto avrei scoperto, in nessun altro mondo nello spazio.
I lampioni illuminavano con un fioco bagliore i marciapiedi trafficati da gente vestita alla moda e di tutto punto; su qualunque lato della strada voltassi lo sguardo, vedevo negozi di abbigliamento d’alta moda, boutique e atelier, nonostante ci trovassimo in un piccolo centro.
Virgon era il pianeta della moda per un motivo, ovviamente.
E da dietro gli alberi bluastri del parco che cominciavano ad arrossire, vedevo in lontananza le cime illuminate dei grattacieli della capitale svettare sbrilluccicanti nel cielo quasi scuro del pre tramonto, contornati dal movimento delle astronavi che lo attraversavano ad alta quota, come in tutte le grandi città delle Colonie.
E il vento soffiava oltre che nelle fronde bluastre degli alberi che stavano per arrossire anche nel ciuffo di capelli biondissimi  ma dalle radici scure che copriva parte della mia fronte per adagiarsi sul sopracciglio sinistro; e le luci fioche dei lampioni che illuminavano dolcemente le strade attraversate da silenziose auto elettriche, rendevano il caschetto di capelli biondi che occupava la mia testa di un colore quasi bianco.
Amavo il contrasto tra i miei capelli chiarissimi e quelli scurissimi di Steven, agli antipodi, come noi due del resto, ma complementari. Vedevo quel contrasto e quella complementarietà cromatica e psicologica nella fotografia appoggiata sulla cassettiera in camera nostra, e in quella accanto al vaso rosa, in sala, nella quale stavamo abbracciati.
Steven mi veniva in contro dall’altro lato della strada, reggendo due grosse buste di carta contenenti altre buste e delle scatole di cartone; in una di quelle scatole alloggiava un nuovo microfono, affidatogli dalla sua insegnante del corso di canto moderno, con il quale avrebbe potuto registrare comodamente da casa alcuni dei suoi pezzi acustici, con il  solo bisogno di un computer portatile come sala studio. Un gentile omaggio di un insegnante che aveva visto in lui del potenziale.
La sua sciarpa rossa era sempre attorno al suo collo e pendeva dalla spalla destra, e quel cappotto nero che amavo continuava ad arrivargli poco più in alto delle ginocchia.
“Hei, ciao straniero!” Dissi abbracciandolo, prima di imboccare insieme il marciapiede alla nostra destra.
“Oggi è stato strano” Disse “Ero al corso di musical e ascoltavo il professore parlare dell’importanza del padroneggiare la respirazione diaframmatica non solo durante la performance, ma la mia testa andava altrove…” Parlava con uno strano tono di voce, quasi come se fosse preoccupato da qualcosa.
“E dove andava?” Chiesi.
“Ti ricordi quando mi parlasti dei tuoi continui sogni… quelli delle esplosioni nucleari dappertutto?” Disse riferendomi ad una serie di incubi che avevo continuato a partorire praticamente tutte le notti durante i primi mesi su Virgon; sognavo sempre delle colossali esplosioni atomiche distruggere ogni cosa, forse tutto quanto, senza alcun motivo apparente.
“Oh, si ricordo certo. Cosa c’entra?”
“Non so, sul mio blocco per gli appunti … ho continuato a disegnare morbosamente dei funghi atomici laddove avrei dovuto annotare quello che diceva il professore. Il bello è che non me ne sono reso conto finchè non è suonata la campanella. Te lo farò vedere quando arriviamo a casa…”
Camminavamo a braccetto verso l’automobile, il mio braccio sinistro stava sotto il suo destro, e la mia mano destra appoggiata sugli stessi; ancora qualche settimana ed avrei ricominciato a portare i guanti.
Eccoli lì, il ragazzo con il ciuffetto scuro e il ragazzo dal caschetto biondo perla; insieme, sul marciapiede, eccoli camminare verso la loro auto, verso il loro futuro.
Anche le forme dei nostri corpi e dei nostri cappotti sembravano esprimere armonia, insieme.
Qualcosa alla mia destra, catturò la mia attenzione.
Una cosa davvero strana alla vista che mi fece rimanere perplesso.
“Hey Steve ma…guarda…” Dissi stranito mentre indicavo la panchina sulla piazzola in fondo alla strada, dove sembravano essere seduti un uomo e una donna, ma non un uomo e una donna qualunque: erano loro.
Loro, quella coppia che avevo visto in sogno, mesi prima, durante il viaggio verso Virgon.
Quella donna inquietante, dai capelli biondissimi, quasi bianchi, che avevo sognato così tante volte… ed erano là, seduti su una panchina, in mezzo alla gente, alla luce del sole che tramontava!
Li vedevo ed ero certo che fossero loro, nonostante fossero a più di cinquanta metri di distanza; e nonostante quei cinquanta metri di distanza ero assolutamente sicuro che mi stessero guardando, sorridendo.
Ma erano reali? Erano davvero là? Li fissavo attonito, incredulo di quanto stesse avvenendo, se stava avvenendo davvero.
Era assurdo anche il modo in cui erano vestiti: lui con una camicia leggera, lei con un completo rosso totalmente scollato che lasciava scoperte tutte le spalle; eravamo in pieno autunno e ci saranno stati sei gradi.
 In quell’istante udì una voce dentro di me, guardai quell’uomo, la voce nella mia mente disse “Mi chiamo Leoben, andrà tutto bene.”
“Leoben” Dissi a me stesso.
“David ma cosa succede?” Chiese Steve tirandomi per il braccio, non capendo perché mi fossi bloccato per strada.
“Io… io non…” La panchina era vuota, loro non c’erano, ma io ero certo di averli visti.
Diamine, erano là! O forse stavo impazzendo?
Continuai a non capire quanto avevo appena visto per tutto il percorso verso casa, ma non appena vi misi piede, il pensiero a riguardo abbandonò la mia mente, come se nulla fosse mai avvenuto.
Steve non fece domande, io non ricordai nulla, sebbene dentro il mio cuore sentissi, per chissà quale motivo, che qualcosa di molto grande stava prendendo forma attorno a noi.
Pochi mesi dopo, tutte le Colonie avrebbero visto il concretizzarsi di quel qualcosa, ma solo pochi fortunati avrebbero potuto raccontarlo, un giorno, ai loro figli.

Continua…

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Stranezze ***


Capitolo 10 – Stranezze

10.1 –“Creature e Peccati”
Questa mattina ho avuto un dibattito piuttosto interessante con due cyloni mentre insieme ci recavamo al campo più vicino all’accampamento, nel quale una decina di uomini aspettavano che venissero consegnati loro i due sacchi di semi il cui contenuto sarebbe stato sparso nella terreno minuziosamente preparato; noi stavamo portando uno di quei sacchi – in realtà lo stavo portando io.
E’ incredibile pensare che noi, i pochi esseri umani rimasti, ora viviamo insieme ad una manciata di queste creature, nate dall’ingegno dei nostri bisnonni; ho pensato a lungo se fosse più appropriato chiamarli creature o creazioni, e non nego che fino a non molti mesi fa non avrei esitato nel considerarli degli oggetti senza vita, dei fottuti robot tostapane, come in molti li hanno denominati, ma da quando ci siamo avvicinati a loro ed abbiamo colonizzato la Terra, qualcosa in me è cambiato. Qualcosa è cambiato in tutti noi del resto, dato che ci stiamo gradualmente rendendo conto che forse i Cyloni sono davvero degli esseri viventi, in un qualche modo che nemmeno io riesco a comprendere; forse realmente c’è qualcosa dentro i loro cuori, nonostante i tessuti che compongono i loro corpi, le loro pelli, le loro ossa, i loro capelli, siano sintetici, creati in avanzati  laboratori genetici che le loro stesse controparti meccaniche avevano ideato, con l’aiuto di potenti alleati.
Io reggevo il sacco di tela pieno di semi di mais consegnatomi da un ufficiale ancora in servizio, il quale mi aveva liquidato con una fredda scortesia che mi aveva fatto gelare il sangue; capisco che i civili non siano quasi mai ben visti dai militari, ma santo cielo, un pochino di cortesia non guasta.
Capelli castani lisci e lunghi, pelle leggermente olivastra ed occhi a mandorla contornati da sottili cuscinetti di grasso: il modello numero 8 –la cui linea era identificata con il nome di Sharon Valeri- stava alla mia destra, trasportando un rastrello ed un piccone che avrebbe consegnato agli uomini addetti alla semina del campo; in passato, nessuno si sarebbe voluto trovare a fianco di un cylone che portasse in mano oggetti contundenti –nessuno si sarebbe semplicemente voluto trovare accanto ad un cylone e basta-, ma ormai non c’era motivo di temerli.
Mentre camminavamo, il silenzio della savana dominava la scena attorno a noi, interrotto solamente dal fruscio del vento che ogni tanto ci accarezzava la pelle, rendendo più piacevole il calore. Ma io volevo rompere quel silenzio.
Io volevo parlarci con quei due Cyloni che avevo vicino, perché mi sembrava sensato: ormai le ostilità erano cessate da mesi, quasi un anno, e dato che condividevamo lo stesso pianeta senza possibilità di andarcene –e perché avremmo dovuto andarcene? Avevamo cercato la Terra per quattro anni- era forse il caso di conoscerci meglio.
Inoltre, sapevo di serbare ancora un briciolo di rancore nei loro confronti, come tutti noi in realtà: avevano comunque distrutto le Colonie e sterminato la nostra razza, perciò una piccola discussione avrebbero potuto sopportarla.
“Io … beh insomma, chissà quanti vi hanno già…” Ho indugiato guardando in basso mentre reggevo il mio sacco di semi, che pesava non poco.
“Cosa?” Ha chiesto Sharon accennando l’idea di un sorriso.
“Beh… molti vi avranno già fatto le stesse domande, credo.. perciò vorr..frak!!!” Ho incespicato in un arbusto sotto il mio piede; l’erba era piuttosto alta. Sharon ha preso il mio avanbraccio sinistro impedendomi di cadere, mentre la bionda –anzi la biondissima- donna alla mia sinistra, un cylone numero 6, ha afferrato il sacco di semi di mais prima che cadesse e si aprisse, con un’agilità ed una forza che un essere umano non poteva certamente vantare.
“Dei, sono un imbranato!” Ho riso nervosamente mentre la bionda mi restituiva il sacco.
“In realtà” Ha detto Sharon con tono compiaciuto “C’è solamente un Dio.”
Si riferiva naturalmente alla mia espressione “Dei”,  espressione che per altro era sempre stata sulla bocca di tutti.
Al che rimasi in silenzio per un secondo, per poi realizzare il perché della sua affermazione: i Cyloni erano molto religiosi, e credevano fermamente nell’esistenza di unico vero Dio onniscente, nel nome del quale avevano ratificato il genocidio della razza umana.
La motivazione del loro credo era probabilmente dovuta al legame che i Soldati dell’Unico –i terroristi monoteisti di cui sono certo di aver già parlato- avevano avuto con gli inventori di quelle macchine, alle quali avevano in qualche modo trasmesso la propria fede.
“Dio è amore, David, è amore infinito.” Disse la donna biondissima alla mia sinistra, il cylone che per molto tempo avevo visto in sogno, anni prima.
“Si… immagino che sia così, anche se non so… non so…” Risposi.
“Che cosa?” Sussurò Sharon, sempre sorridendo.
“Non so in che cosa credo in realtà.” Il sacco cominciava davvero a pesare adesso.
“Per questo avevo bisogno di farvi questa domanda…” Ricominciai a guardare in basso verso l’erba alta mentre la nostra destinazione si avvicinava sempre più.
Le due donne mi guardavano interessate.
“Perché. Perché lo avete fatto?” Non risposero.
“Perché avete sterminato il mio popolo?” I mezzi sorrisi sulle loro labbra erano spariti ed ora anche loro fissavano in silenzio l’erba alta che circondava i nostri jeans.
“Io… so che i nostri popoli sono in pace e che alcuni di voi ci hanno aiutato alla fine … ma ho bisogno di sentirvelo dire.” Il vento ci scompigliava i capelli.
“Perché l’avete fatto?” Ora la tristezza nella mia voce era palpabile.
Dopo le mie ripetute provocazioni, Sharon ha tentato di assecondarmi con un filo di incertezza nella voce e sul suo viso.
“E’ davvero difficile risponderti, David. Noi… ti prego non fraintendermi. Noi lo abbiamo fatto per amore” Io me ne stavo zitto; avevamo perdonato i pochi Cyloni che avevano deciso di convivere con noi sulla Terra, e molti di noi erano addirittura riusciti a dimenticare quanto orrore ci avessero inflitto, sia negli ultimi quattro anni, sia durante la Prima grande Guerra, avvenuta cinquant’anni prima… eppure, ammetto che in quell’istante potevo sentire un briciolo di risentimento crescere in me.
Amore. Come osava quel robot organico parlare di amore? Si, ammetto che potesse provare un qualche genere di sentimento per i suoi simili, ma come si azzardava a giustificare un genocidio con l’amore? Tuttavia ho immaginato che volesse continuare a parlare, perciò ho taciuto.
“Non fraintenderla, David” E’ intervenuta la bionda “Noi adesso ci rendiamo conto di quanto sia stato sbagliato…” Una leggerissima nota di rammarico albergava nella sua voce, mentre io stringevo più forte il mio sacco di semi e la guardavo distrattamente.
“E’ che” Ha proseguito Sharon “Noi eravamo convinti che Dio volesse questo… noi pensavamo che Lui volesse punire i vostri peccati.”
“Ma come … cosa vorrebbe dire?” Cominciavo davvero a perdere il controllo, non ricordandomi che anche se quelle due macchine femminili non avessero intenzione di farlo, avrebbero potuto farmi a pezzi, staccare la mia testa dal collo e lanciarla a cento metri di distanza senza il minimo sforzo, se solo l’avessero voluto.
“Sharon, non…” La bionda ha aggrottato le sopracciglia preoccupata “Non credo sia il caso…”
“Scusa David, io non voglio giustificare me e i miei fratelli.” In quell’istante, la bionda alla mia sinistra ha poggiato la mano sulla mia spalla, come aveva fatto molte volte nei miei sogni, e mi ha guardato con uno sguardo pieno di pietà e sofferenza.
“David” Ha detto “Noi eravamo come bambini. Eravamo convinti che Dio avesse scelto noi.”
“Scelto per cosa?” Ho chiesto con aria stranita –e leggermente alterata.
“Pensavamo… credevamo di essere lo strumento di Dio per cambiare le cose… per purificare il mondo dai vostri errori; pensavamo che voi foste una creazione imperfetta, e che un giorno noi ci saremmo sostituiti a voi.”
Ero allibito; scioccato; dovevo immaginare che parlando con due Cyloni avrei sentito delle cose strane, ma non mi ero preparato psicologicamente a sufficienza prima di farlo.
“David…noi ci sbagliavamo, ovviamente.” Continuava la bionda sperando di non aver detto qualcosa che non fosse troppo forte da mandar giù per me.
“Noi odiavamo i vostri difetti e pensavamo di poter parlare a nome di Dio, e non ci siamo resi conto che in realtà sentivamo solo quello che volevamo sentire, e pensavamo dicesse quello che noi volevamo dicesse… esattamente come voi. Ci rendiamo conto adesso di non essere assolutamente meglio o più di voi, ci rendiamo conto di essere più umani di quanto credessimo, con i vostri stessi difetti. Ipocriti ed egoisti. Quello che abbiamo fatto è e resterà sempre atroce… ma guarda a cosa ci ha portato. Ora siamo qui, tutti insieme, riuniti dopo una vita di odio reciproco… insieme, abbiamo annullato il ciclo della violenza!”
Il suo sorriso era visivamente addolorato, le sue sopracciglia alzate e nei suoi occhi c’erano tristezza e speranza: lei sperava con tutto il cuore di riuscire a convincermi delle sue parole; sperava con tutta se stessa che potessi comprendere la grandezza di quello che stava dicendo.
Detto questo, ha lentamente ritratto le sue mani dalle mie spalle e serrato le labbra in un dubbioso silenzio, incerta del peso che le sue parole e quelle di Sharon avrebbero avuto sulla mia povera e fragile mente umana.
Sono rimasto in silenzio per qualche istante anche io, pensando al fatto che quei due cyloni, forse, in qualche strano modo, potessero anche avere ragione; o quanto meno, le loro parole potevano avere un senso.
Durante gli ultimi mesi della guerra, prima di trovare la Terra, la manciata di loro che ora vive con noi si era ribellata al proprio “popolo”, dimostrandoci lealtà e capacità di sacrificarsi per il bene comune.
Quindi, forse le parole di queste due donne sintetiche meritavano un briciolo di fiducia.
Questo di certo non avrebbe cancellato i loro peccati: non avrebbe riportato in vita trenta miliardi di morti; non ci avrebbe ridato le Colonie, ne le nostre famiglie perdute. Non mi avrebbe restituito Jennifer… ma forse, avrebbe potuto aiutarci ad andare avanti e costruire un nuovo futuro. Insieme.
Siamo arrivati al campo in silenzio, guardando in basso per evitare i nostri sguardi per il leggero imbarazzo creatoci dal dibattito che avevamo appena terminato.
“Forse sono diventato pazzo.” Ho detto io attirando la loro attenzione.
“Spero che il futuro di cui parliate sia davvero possibile.”  Mi sono scostato con una mano il ciuffo di capelli castani dagli occhi.
“Lo spero anche io, David, credimi.” Ha risposto la bionda, sorridendomi.
Ho sorriso anche io.

 
10.2 –“Bambine intelligenti e Viaggi stellari”
Me ne stavo seduto su un vecchio lenzuolo che non avevo paura di sporcare; leggevo un libro che mi aveva regalato Steven un mese prima: “Il sole di Jodie”, scritto da un certo Alexander Shavannon, un modesto scrittore nato su Leonis, lo stesso mondo di Steve, ed emigrato su Caprica, dove aveva poi trovato la fama come giovane autore influente sotto le luci della capitale delle Colonie.
Era la storia di Elly Jodie Candles, per gli amici Jodie, una ragazzina che viveva sul mondo di Scorpia, nel sistema di Helios Gamma: il libro raccontava gli anni delle scuole elementari di quella giovane cresciuta senza i genitori, sbatacchiata da un orfanotrofio all’altro, per poi essere seguita da un assistente sociale molto poco affettuosa e materna.
Steve me lo aveva regalato proprio per quel motivo: sebbene fossi cresciuto amato e curato, in una casa che considerassi mia e con una donna che aveva fatto per me tutto quello che avrebbe fatto una madre naturale, in fondo al mio cuore conoscevo anche io la pena di non aver mai incontrato i miei veri genitori, o almeno il dispiacere di non averne memoria, dato che erano morti prima che fossi pienamente cosciente della loro e della mia esistenza.
Il libro offriva una dettagliata descrizione dei paesaggi di Scorpia, il pianeta che ospitava il cantiere navale della Flotta Coloniale, situato nell’orbita dello stesso e presso il quale attraccavano una moltitudine di astronavi coloniali, civili ma soprattutto militari.
Non potevo ancora saperlo, ma da lì a poco più di un mese, quando i Cyloni avrebbero attaccato, sarebbe stato quello il luogo in cui si sarebbe trovata la Battlestar Pegasus, la quale insieme alla Battlestar Galactica, avrebbe contribuito a scrivere un pezzetto di storia nel capitolo della fine delle Dodici Colonie.
Come sono sicuro di aver già detto, Scorpia era un mondo paludoso, noto per le sue fitte giungle e le sue alte temperature nella fascia equatoriale; il pianeta era spesso dilaniato da forti uragani e tempeste cicloniche, esattamente come il suo vicino, il pianeta di Libran, situato nello stesso sistema solare –insieme a Sagittarian e ad una serie di corpi celesti rocciosi e gassosi senza vita- il quale presentava più o meno le medesime caratteristiche climatiche, geologiche e demografiche.
Ricordo come nel secondo capitolo del libro, l’autore descrivesse la capitale di Scorpia, Celeste, vista dagli occhi della piccola Jodie, la quale nonostante fosse una giovane anima riuscisse a cogliere l’essenza della città più importante del suo pianeta: conoscevo già le caratteristiche di Celeste perché, come chiunque, avevo studiato a scuola la geografia fondamentale di ognuno dei dodici mondi delle Colonie; tuttavia mi piaceva incredibilmente il modo in cui Alexander aveva descritto quella città giocando con una serie di parole e metafore che, seppur altolocate, sembravano comunque plausibili per essere pronunciate da una bambina: “Celeste” diceva “era una città che sembrava portare il cielo in terra, con le sue strutture piramidali e i suoi grattacieli di vetro affusolati che si protraevano verso e attraverso le nuvole.” Come ben sapevo, la città era situata in un grande altipiano che prendeva forma nella conca di una valle, attorniata da alte montagne quasi sempre innevate –le montagne di Scorpia, nelle poche regioni fresche e soprattutto meno colpite dagli uragani, erano molto famose in tutte le Colonie per le loro molteplici installazioni per il parapendio, le quali attiravano migliaia di turisti ogni anno. Altro interessante dettaglio di Scorpia, era la presenza di un “mezzo anello” di rocce in orbita, quasi sicuramente dovuto alla distruzione del satellite della colonia avvenuta miliardi di anni prima: questi era noto come “mezzo” perché circondava l’orbita equatoriale del pianeta per poco meno di tre quarti, lasciando “scoperto” gran parte dell’emisfero occidentale.
C’era un gradevole silenzio attorno a me, interrotto dal cinguettio degli uccelli che svolazzavano tra le fronde verde scuro degli alberi ed ogni tanto dallo sbuffo in lontananza dei motori delle astronavi in cielo: mi trovavo in cima ad una delle colline dietro al nostro isolato, dalla quale potevo osservare le sagome tondeggianti di tutte le altre colline attorno a noi.
Era davvero un panorama meraviglioso: quelle dolci colline rivestite da manti erbosi bluastri erano qua e là punteggiate da campi fioriti di vario colore; giallo, rosa, arancione, rosso, per poi confondersi nel verde e nel blu generale della campagna, nella quale si distinguevano le piccole sagome dei tetti dei centri abitati e delle strade che si insinuavano a zig zag nell’ambiente.
Erano circa le 17:35 ed il sole illuminava con una modesta forza il cielo del mio angolo di Virgon in un tiepido pomeriggio di inizio primavera; indossavo un maglioncino leggero color panna, e i miei soliti jeans neri elasticizzati.
Il mio cappotto primaverile era appoggiato e spiegazzato sul telo su cui poggiavo io, con le gambe più o meno incrociate, ma non proprio del tutto.
Steven apparve dal vialetto a dieci metri da me, a destra, passando tra il lampione e la panchina in ghisa che stavano accanto al marciapiede.
Mi venne incontro sorridendo e con la giacca slacciata; iniziava già a fare caldo e quel suo giaccone pesante, oltre che ad essere fuori luogo, avrebbe fatto meglio ad essere appeso nell’armadio fino alla fine della stagione calda. Non immaginavo che quella sarebbe stata la nostra ultima primavera sulle Colonie.
“Sei felice per qualcosa?” Chiesi coprendomi la fronte per non accecarmi con il sole.
“Eh?” Rispose mentre si avvicinava.
“Stai ridendo! O io sono molto ridicolo oppure tu sei felice!” Ridacchiai un po’.
Si lasciò cadere fragorosamente con il fondo schiena sul telo e dopo essersi tolto la giacca, nera per altro, rispose:
“Si, sono molto felice… e lo sarai anche tu!”
“E per che cosa?” Sorrisi mentre chiudevo e riponevo il libro accanto a me, dando alla piccola Jodie l’arrivederci ad un momento più consono. Lo guardai.
“Ho vinto!” Esclamò alzando tanto le sopracciglia da far sembrare che gli saltassero via.
“…Davvero? Oh miei dei ma è fantastico!” E mi fiondai contro di lui per abbracciarlo –o meglio, su di lui- ridendo.
Farò un passo indietro per spiegare cosa avesse vinto e perché fossimo entrambi così contenti.
Circa un mese prima, alla fine dell’inverno, era stato indetto nella sua accademia un concorso canoro, al quale studenti di qualunque classe ed anno dell’istituto avrebbero potuto candidarsi liberamente e partecipare, cantando un brano famoso o inedito.
I giovani si sarebbero esibiti di fronte ad una giuria di quattro insegnanti di canto, provenienti dalla Streamline and Melodics art Academy, la cui sede centrale invece che a Boskirk si trovava nella città di Hadrian; il giovane candidato poteva scegliere se permettere o meno agli altri concorrenti e studenti dell’accademia –ed eventualmente a familiari e amici- di presenziare all’audizione. Mi fu permesso di assistere da dietro le quinte del palco sul quale Steve cantò, avendo la possibilità di vederlo esibirsi da molto vicino. Tentò con un brano di Kirsten Horler, famosa cantautrice pop di Libran, nota per le sonorità rockeggianti delle sue canzoni.
I premi che i giovani si sarebbero aggiudicati erano diversi a seconda della posizione in cui si sarebbero classificati: il primo posto riservava un contratto discografico con un’importante casa produttrice musicale nota in tutte le Colonie; il secondo in classifica avrebbe vinto la possibilità di cantare in tournè intercoloniale con il grande cantante rock William Devore per cinque mesi.
Infine, il terzo sul podio, avrebbe ottenuto un lascia passare per uno dei concerti o musical che si sarebbero tenuti da quel momento in poi: il particolare di questo premio, era che le spese di viaggio e di pernottamento in caso lo spettacolo che il giovane avrebbe selezionato si trovasse in un'altra città –o su un’altra colonia- erano totalmente coperte dal fondo economico dell’Accademia stessa; in pratica, lo studente avrebbe potuto andare dall’altra parte delle Colonie  senza spendere un centesimo.
“Ho vinto!!!” Esclamò nuovamente, mentre ero sopra di lui, sorridendogli ed accarezzandogli la guancia destra.
“Sono in terza posizione… non avrò un contratto discografico purtroppo…” Io continuavo ad accarezzarlo e sorridergli, aspettando che mi rivelasse cosa lo attendeva.
“Ho un lasciapassare per uno spettacolo a mia scelta.” Disse tornando velocemente con i piedi per terra, distogliendo lo sguardo dai miei occhi e puntandolo verso il cielo, che stava sopra di lui parallelamente al suo corpo steso per terra. Ebbi in quel momento una strana sensazione, come se nella sua voce avvertissi la paura di avermi in qualche modo deluso.
Ma come poteva pensarlo?
“So che non è il massimo che potevo ottenere, non sono arrivato al primo posto… fors…”
“Che cosa dici? Va benissimo così!” Lo interruppi con un bacio.
Amavo tantissimo le sue labbra e il modo in cui coincidevano perfettamente con le mie, quasi come se fossero fatte apposta per completarsi a vicenda.
“Io ho la possibilità di scegliere un concerto o un musical di qualunque artista o compagnia delle Colonie… e ovunque nelle Colonie.”
Forse non era molto logico lasciare un premio del genere all’ultimo posto: questo premio rendeva possibile ad un ragazzo che magari non avrebbe potuto permetterselo di fare un viaggetto niente male. Non era una cosa da poco.
“C’è dell’altro però” Disse, tornando a guardarmi negli occhi.
“Che cosa?” Chiesi.
Un raptor della polizia  sorvolò la collina in direzione della capitale, ad appena una trentina di metri dalle fronde degli alberi, assordandoci per una manciata di secondi.
“Posso portare una persona con me, una persona a mia scelta.”
Stetti un attimo in silenzio.
“E vorrei che fossi tu, ovviamente.” Terminò sorridendo.  Sorrisi anche io, poi mentre ancora stavo sopra di lui, alzai lo sguardo e vidi il raptor in lontananza atterrare sul tetto di uno dei grattacieli di Boskirk.
“Dove si va di bello, allora?” Lo guardai sorridendo.
Sorrise a sua volta.
“Su Caprica.”
Sbam.
“Cosa?! Su Caprica?!” Chiesi incredulo.
“Si… la mia intenzione era quella. Se sei d’accordo, ovviamente” Rispose.
Titubai solo per un paio di secondi.
“No ma... certo che sono d’accordo…frak se sono d’accordo!” Risi.
“Ma come mai fuori pianeta? Così lontano?”
Lui fece per mettersi seduto, io mi scostai da sopra di lui per fare la medesima cosa.
“Perché fra circa un mese ci sarà la prima di Glanstone Bourg Flowers, è un musical rock che attendo da due anni! La prima sarà proprio su Caprica, nella sala dell’Opera di Caprica City… non c’è spettacolo a cui tenga di più, ti giuro.” Rispose alla mia domanda così.
“Oh capisco!”
“E poi, questo sarebbe un’occasione unica, David. Quando ci ricapita … di poter vedere la capitale delle Dodici Colonie di Kobol!!!!” Disse ponendo una particolare enfasi scherzosa sulle ultime parole, facendomi ridere. Sebbene l’idea di un altro viaggio nello spazio mi provocasse una leggerissima perplessità, il fatto di poter mettere piede su Caprica era decisamente eccitante.
Aveva ragione, quando ci sarebbe ricapitata un’occasione simile?
Guardai il cielo, immaginando di attraversarlo nuovamente per una nuova breve avventura a due tutta da scoprire. Caprica era lassù, a due sistemi solari di distanza, in orbita attorno ad Helios Alpha, la stella più vicina alla nostra nelle Colonie.
“Allora, che ne dici?” Disse Steve avvicinandosi a me, sorridendo.
“Non vedo l’ora.” Risposi.

10.3 –“Tinte per capelli e Promesse”
Stavo seduto al tavolo della cucina indossando un paio di guanti di lattice mono uso; sul tavolo erano disposti uno specchietto, una piccola vaschetta di plastica azzurra, un pennello per capelli, una bustina di decolorante, una bottiglia cilindrica bianca contenente un attivatore al perossido, un tonalizzante, uno shampoo viola e un balsamo ristrutturante.
Strappai l’estremità della bustina e ne versai il contenuto nella bacinella, seguito dall’attivatore; miscelai il tutto con il pennello, trasformandolo in un composto di una consistenza cremosa che profumava di lavanda.
“Ci troviamo a Platersen Avenue,  Caprica City” disse Jordan Silver attraverso lo schermo televisivo in sala, inviato speciale di Cap News, durante il notiziario delle diciotto.
I miei capelli erano raccolti in varie sezioni con delle forcine: iniziai ad applicare il decolorante sulle mie radici scure, sulle quali lo avrei lasciato per una quarantina di minuti, prima di applicarlo solo per un’altra decina sulle lunghezze e sulle punte già chiare. Mi sono sempre tinto i capelli da solo, ed allora devo dire che ci avevo preso veramente la mano.
Fuori dalle mie finestre pioveva a dirotto, come accadeva spesso durante la primavera, su Virgon; in televisione invece, il cameramen inquadrava i grattacieli della città più grande di Caprica, il pianeta noto come la Capitale delle Colonie, cielo dalla luminosità leggermente giallognola, in cui splendeva un sole accecante.
I grattacieli di Caprica non erano molto diversi da quelli di Virgon, o Canceron, o Leonis o qualunque altro pianeta, eppure avevano un qualcosa di inconfondibile: nessuno avrebbe mai potuto confondere lo skyline di Caprica City con quello di una qualunque altra città delle colonie. E devo dire che la loro visione catturò di molto la mia attenzione: parallelepipedi di vetro, tetti stondati e torri che si perdevano tra le nuvole e scintillavano alla luce di Helios Alpha, la stella del sistema nel quale il pianeta orbitava assieme ad altri suoi tre fratelli, Gemenon, Picon e Tauron.
“Sono in compagnia di un funzionario statale, il sottosegretario all’istruzione delle Dodici Colonie, la signora Laura Roslin.” Proseguì Jordan, indicandola con la mano
Ed eccola, Laura Roslin.
La dolce Laura, che sorrideva in modo distinto e sommesso: la sua folta chioma di capelli castani con forti sfumature rosse risplendeva sotto i raggi del sole del tardo pomeriggio, e le piccole rughe dovute al tempo attraversavano in modo poco visibile il viso della bellissima donna di quarantacinque anni che era.
Come si poteva notare dall’inquadratura, Jordan e Laura stavano in piedi in una piccola piazzetta, pavimentata da grosse piastrelle quadrate rossicce intersecate da linee bianche, ed alle loro spalle si ergeva un piccolo edificio di appena due piani e mezzo, tinteggiato di rosso e con mattoni esposti: la sua entrata, attorniata a destra e sinistra da alberi ed arbusti ordinatamente riposti in vasi ed alloggiamenti nel marciapiede, era situata nel centro di una grande vetrata che ne occupava quasi tre quarti della facciata fontale; sopra la porta, era visibile il nome dell’istituto ospitato dall’edificio: Wilson Elementary School.  Al lato destro, l’edificio proseguiva per il lungo, circondando parte della piazzetta e vantando una moltitudine di piccole finestre e porte di vetro che emergevano anch’esse da una parete con mattoni esposti.
Era dunque una scuola elementare: una piccola, modesta e graziosa scuola elementare che avrà ospitato al massimo centocinquanta bambini, con il tetto obliquo e tanti arbusti di fronte all’atrio, alta probabilmente poco più di quindici metri, situata nelle zone centrali di una città i cui grattacieli superavano senza esagerare i seicento metri di altezza.
Osservavo attentamente lo schermo mentre continuavo a passare la tinta tra i capelli, sbirciando ogni tanto nello specchietto sul tavolo per controllare se lo stessi facendo bene. Con il decolorante non si scherza.
Laura, da qualche tempo membro del governo, aveva iniziato la sua carriera come insegnante elementare, esattamente come aspiravo di fare io.
Era riuscita poi ad entrare in politica partecipando alla campagna elettorale dell’allora presidente delle Dodici Colonie, Richard Adar. Non poteva nemmeno immaginare quanta strada avrebbe fatto da lì ad appena un mese: non poteva davvero sapere che lei, umile insegnante e da poco funzionario statale, sarebbe divenuta il simbolo della speranza e della sopravvivenza per i pochi sopravvissuti a quello che stava per precipitarci addosso.
“Signora Roslin, potrebbe spiegare ai nostri telespettatori per quale motivo siamo in questa piazza?” Disse il giornalista porgendole il microfono; ora lei era in primo piano.
“Certamente Jordan. Come potete vedere alle nostre spalle ci troviamo di fronte alla Wilson Elementary School: questa scuola ha una storia molto interessante, poiché è stata aperta quasi cento anni fa.” Il suo tailleur rosa le donava moltissimo.
I suoi occhi chiari esprimevano decisione e fermezza, ma anche dolcezza e speranza per un futuro migliore; in realtà celavano un pizzico di timore per il presentimento di qualcosa di pesante e gravoso che in qualche modo immaginava l’avrebbe presto riguardata. Se lo sentiva insomma.
“Questa scuola è… beh… è stata chiusa quasi quarant’anni fa, non appena dopo lo scoppio della guerra con i Cyloni. Come sapete, Caprica City è stata luogo di pesanti battaglie in quel periodo.” Jordan riprese per un momento il microfono per farle un’altra domanda.
“Ed ora che cosa succede, Laura? Oh, posso chiamarla Laura, vero?”
Lei accennò una composta risata.
“Ma certo! Dopo la fine della guerra, gran parte della città era stata distrutta e le operazioni di restauro si occuparono prevalentemente degli edifici più importanti… se metteste a confronto una cartolina di sessant’anni fa con lo skyline odierno della città notereste che mancano alcuni grattacieli che magari sono stati sostituiti da alcuni più moderni. Comunque, questo istituto non è più stato riaperto e la scuola è stata usata come magazzino per più di vent’anni. Oggi finalmente, siamo qui per inaugurare la riapertura della Wilson Elementary School e vorrei aggiungere, finalmente!” La Roslin applaudì, seguita dal pubblico che circondava lo staff del notiziario e dai passanti.
Questa scena mi strappò un sorriso, sia perché mi sentivo immedesimato in quella donna per via delle sue personali aspirazioni, sia perché avevo sempre nutrito una profonda simpatia per lei.
C’è da dire che ho provato simpatia per una cerchia davvero esile e circoscritta di politici, ma lei è sempre stata la mia preferita.
“Come si sente per questo evento, Laura?” Chiese nuovamente Jordan porgendole il microfono per l’ultima volta.
“Sono davvero eccitata! Sa, ero un’insegnante prima di fare politica e … sebbene questa sia una minuscola scuola come un’altra, provo un grande senso di gioia nel vedere quella porta vetrata aprirsi di nuovo. Come sottosegretario all’istruzione non potevo mancare.”
Le mie radici, come vedevo nello specchio, stavano già mutando colore, passando dal castano scuro ad una sorta di arancione giallognolo; ancora una ventina di minuti ed avrei potuto continuare con l’applicazione sulle punte.
Mentre il notiziario continuava e le mie orecchie udivano distrattamente le voci dei direttori, pensai che molto presto avrei avuto anche io la possibilità di visitare Caprica.
Avrei visto fisicamente quei poderosi grattacieli di vetro ed avrei messo piede sulle strade del pianeta più importante delle Colonie. La sede della cultura, della moda, della conoscenza, dell’economia, di tutto.
Continuavo però ad arrovellarmi nel senso di colpa, mentre la tinta mangiava progressivamente il colore naturale dei miei capelli: come avrei potuto andarmene bello tranquillo su Caprica se solo qualche mese prima avevo disdetto il viaggio su Canceron per salutare Jennifer? E’ vero, io e Steve questa volta non avremmo speso un centesimo, però sarebbe stata come una vacanza, mentre il mio dovere verso la mia madre adottiva non era mai stato adempito.
“Tornerò” Dissi a me stesso.
“In qualche modo tornerò da te, te lo prometto.” Osservai la nostra foto sulla cassettiera, in sala.
Mi avvicinai e la afferrai, sperando ingenuamente che potesse sentirmi, nonostante fosse solamente un’immagine stampata su un foglio di cellulosa.
“Lo prometto.”

10.3 –“Principesse scelerate e Pilastri di Vetro”
Dovetti recarmi a Boskirk appena un paio di giorni dopo per completare le procedure per acquisire ufficialmente la cittadinanza su Virgon, dopo mesi di rinnovamenti del visto e del permesso di soggiorno. Steven mi avrebbe aspettato direttamente nel centro urbano di Boskirk poiché si trovava già in città per ritirare i nostri biglietti per il viaggio verso Caprica.
Generalmente utilizzavo i mezzi pubblici per muovermi da Clairview verso la capitale o nelle zone limitrofe, ma quel giorno decisi di prendere la macchina ed essere padrone dei miei movimenti.
Superate le schiere di palazzine e villette familiari che abitavano la nostra piccola e graziosa cittadina, mi trovai sommerso dalla vegetazione e dagli alberi bluastri che contornavano la statale che si faceva strada in mezzo alle colline: l’abitacolo silenzioso della nostra berlina elettrica era incredibilmente rilassante, tanto che era più facile sentire il rumore delle altre automobili piuttosto che di quella su cui stavo. Rumore comunque flebile dato che anche la maggior parte delle automobili fossero elettriche o ibride.
La sagoma lucida e molto compatta dell’auto sfrecciava sulla strada bagnata dalla pioggia della sera precedente, sulla quale le piccole imperfezioni o buchi del manto stradale creavano delle pozzanghere di modeste dimensioni.
Guardai per un attimo il riflesso del mio viso nello specchietto centrale; non sono mai stato particolarmente vanitoso o ossessionato dall’aspetto del mio corpo, ma ho sempre amato tingermi i capelli, e la ricrescita scura che avevo fino a poco fa era sparita.
Mentre tenevo le mani salde sul volante –forse fin troppo salde, dato che ho sempre avuto una paura matta di andare fuori strada, e mi sono sempre ritenuto un imbranato alla guida- alla radio parlava Serena Charlton, una professoressa di psicologia presso il Kobol College di Gemenon, la quale presentava il suo nuovo libro sulla devianza giovanile, “La Luce Distorta”.
La donna fece riferimento alle sue origini: era nata a Themis, su Libran, ma si era trasferita sull’arido e povero Gemenon per frequentare la celebre università nella quale adesso insegnava; qui, la Charlton ebbe il modo di conoscere situazioni di disagio dovute alla precarietà economica ed al decadimento sociale, fattori che la motivarono a specializzarsi in psicologia del disagio, e a scrivere una serie di volumi, tra cui quello che presentava in radio.
Senza alcun nesso di causa, il fatto che Serena avesse nominato Libran, mi fece pensare a quel pianeta che in genere, nell’immaginario collettivo, non sapeva di niente.
Libran era sempre stato noto per essere il mondo che, durante la lunga storia delle Dodici Colonie, avesse partecipato a meno guerre. I suoi abitanti, i membri della tribù della Libra che l’avevano colonizzato, infastiditi dalla scelta dei nostri progenitori di partire da Kobol, scelsero un pianeta apparentemente isolato ed intrattennero sempre poche relazioni con le altre colonie.
Evitarono di partecipare a molte guerre coloniali guadagnandosi la giusta reputazione di gente molto pragmatica ed equilibrata. Il suo “non sapere di niente” era dovuto al fatto che il pianeta  avesse molte risorse naturali ma non tante quante altre colonie, così come la sua gente avesse diverse qualità, ma non molte come altri popoli.
La grande ricchezza della colonia nacque nel momento in cui i governi delle altre undici si resero conto che i loro capitali e le loro finanze sarebbero stati molto più al sicuro su Libran, facendole guadagnare la reputazione che la colonia avrebbe avuto fino alla sua distruzione.
Il sistema bancario libriano crebbe in maniera e alla lunga Libran divenne una delle colonie più benestanti dei quattro sistemi, portando il suo governo ad investire una moltitudine di cubiti nella gestione della terra.
Furono costruiti complessi turistici, hotel, casino e lussuose navi da crociera. Queste attrazioni resero Libran un’importante meta turistica, nonostante il suo inospitale ambiente e le sue impietose condizioni climatiche: giungle impenetrabili, foreste pluviali, forti tempeste ed uragani sulla terra ferma.
Altro motivo di stupore era che Libran fosse la sede del Tribunale Intercoloniale che si occupava delle più importanti cause dei dodici pianeti; nel lontano passato, in molti erano rimasti meravigliata dalla scelta del governo di installare un’istituzione giuridica di tale importanza su un mondo dall’ecosistema tanto feroce, ma questa è un’altra storia.
Mi persi senza motivo in questo vortice di pensieri astratti, quando mi accorsi di essermi leggermente distratto dalla guida.
Come credo di aver già detto in passato, mi capita spesso di dissociarmi dalla realtà lasciandomi trasportare dall’armonia dei viaggi mentali che la mia testa bionda crea.
Una volta arrivato al termine della contea  imboccai la superstrada che mi avrebbe portato in meno di venti minuti dritto verso il centro.
A tre corsie per senso di marcia, la superstrada era prevalentemente dritta con giusto un paio di curve molto dolci; si trovava ad un livello sopraelevato rispetto al terreno erboso, circa a venti metri d’altezza: ai lati erano presenti dei pannelli di plexiglass trasparente per ridurre al massimo l’impatto ambientale che il rumore – seppur di per se contenuto- delle automobili elettriche avrebbe avuto nella campagna. Su quei pannelli, venivano pubblicate digitalmente spot pubblicitari e video senza audio, che ovviamente non avrebbe avuto senso di esserci.
La strada arrivava proprio tra i primi grattacieli dei distretti centrali della capitale, snodandosi in una serie di corsie di decelerazione che portavano al livello della superficie; imboccai la terza per il centro e scesi nel quartiere accanto all’ Aphrodite Park, lasciando l’automobile nel parcheggio di fronte agli alberi. Percorrendo il parco per raggiungere la mia meta, potevo vedere le alte montagne ergersi in lontananza, ancora ricoperte di neve e circondate da maestose nubi grigie e bianche. Le famose montagne di Virgon, la patria della birra e dell’alpinismo.
La primavera era ormai inoltrata, eppure quelli erano giorni piuttosto freschini, dovuti alle frequenti piogge che avevano interessato la nostra regione. Mentre percorrevo la Wimberley Avenue, una delle vie centrali della città sulla quale gettavano le fondamenta i grattacieli più alti della metropoli, la mia attenzione fu catturata dalla parete di un negozio sulla quale era proiettato un notiziario televisivo –credo di aver descritto un’infinità di notiziari finora- nel quale si parlava dello scandalo rosa che aveva appena visto protagonista la sedicente principessa Victoire, la figlia più anziana della casa reale di Rioga di Virgon: la giornalista parlava –mentre alle sue spalle era visibile la fotografia di Victoire- dell’ennesimo intruglio amoroso nel quale la giovane reale si era trovata incastrata.
Victoire era una manna per i tabloid e le riviste scandalistiche delle Dodici Colonie, i quali non dovevano far altro che attendere che la delfina si spostasse da uno scandalo all’altro facendo irrimediabilmente parlare di lei.
Una nota non molto positiva per la casata reale di un mondo conservatore come Virgon.
Non potevo saperlo in quel momento, ma da lì a pochissimo tempo, la giovane Victoire sarebbe stata una dei pochi superstiti della sua famiglia all’olocausto nucleare che i Cyloni si stavano preparando a scatenare, seguita unicamente dal fratello Ioan.
La giornalista proseguì parlando delle cerimonie di disarmo delle ultime astronavi da guerra rimaste in servizio da dopo la guerra: la Battlestar Atlantia e la Battlestar Galactica; le cerimonie si sarebbero svolte nelle settimane seguenti, e le basi stellari congedate avrebbero lasciato il posto a vascelli più moderni come la Yashuman, sulla quale serviva il padre di Steven.
I grattacieli sopra di me si protendevano nel cielo come immensi pinnacoli di vetro progettati per superare la magnificenza della creazione degli Dei, simboleggianti il progresso e la capacità dell’essere umano di dominare sul reame che gli era stato donato.
Le navi che sfrecciavano nel cielo erano decisamente più rumorose delle numerose automobili che circolavano sulle strade, le quali, alimentate per la maggior parte da motori elettrici, tendevano a passare inosservate. Guardavo attorno a me le persone che abitavano il mio pianeta, sorridendo tra me e me per la fortuna della quale mi sentivo investito: i Virgani erano gente in gamba, ed erano ovunque nelle Colonie; molti attori, cantanti, sceneggiatori, soldati, architetti, erano tutti provenienti da questo pianeta ricco di idee.
Ancora una piccola serie di pratiche, e io e Steve avremmo ottenuto la cittadinanza: saremmo divenuti legalmente Virgani.



10.4 –“Guerre Civili e Strane Consegne”
Tornati a casa dopo le nostre commissioni, io e Steve ci concedemmo un po’ di riposo di fronte alla televisione dopo una cena a base di sformato di patate, ricetta che avevo imparato da Jennifer.
Ce ne stavamo sul divano abbracciati: la mia testa sul suo torace, la sua mano sulla mia spalla.
Semplici momenti che amavo, ed amo tuttora.
Lui non parlava, se ne stava in silenzio con un’espressione leggermente turbata, espressione che temevo fosse causata da un qualche cosa di grave; in realtà, non era niente del genere, era semplicemente preoccupato da una proposta che avrebbe voluto farmi ma alla quale non sapeva cosa avrei risposto…
La televisione trasmetteva immagini moleste: stavamo vedendo un documentario storico che parlava della tremenda guerra civile che ci fu su Tauron circa cento anni fa; il conflitto era iniziato per via del pugno di ferro che il governo del pianeta esercitava si nativi, i quali, una volta assunto il nome “Ha’la’tha” si rivoltarono per ottenere condizioni di vita migliori.
Il governo rispose alla ribellione con la controffensiva messa in campo dalle truppe degli Eraclidi, una forza militare molto potente che schiacciò letteralmente i rivoltosi in una serie di sanguinose repressioni. I membri dell’Ha’la’tha abbandonarono Tauron per sfuggire all’estinzione, e volarono ovunque nei dodici mondi; negli anni, il loro potere sarebbe cresciuto, e l’Ha’la’tha sarebbe divenuta una delle più forti e pericolose forze mafiose nelle Colonie. O almeno fino alla prima guerra Cylone; il loro potere svanì negli anni successivi.
Mentre ascoltavo il respiro di Steve direttamente dal suo petto, ripensavo alle strane immagini, sogni, visioni o allucinazioni che avevo –o che credevo di avere- da diverso tempo.
Perché continuavo a vedere ovunque quella donna bionda? Chi era? E’ possibile che un sogno sia tanto ricorrente? Sempre se era solo un sogno! Era un sogno?
E quell’uomo che spesso la accompagnava? Li avevo visti entrambi insieme, diverse volte.
E che dire delle sensazioni strane e sinistre che mi scuotevano dal profondo? Quei presentimenti, quelle intuizioni? Forse ero tanto stressato da avere delle allucinazioni? O forse ero un pazzo psicotico?
Cominciavo a temere che Steven si fosse accorto di quella stranezza che ormai pervadeva parte del mio essere, ed ancor di più temevo che quella condizione avrebbe potuto dettare una serie di cambiamenti nel nostro rapporto. Se la cosa ci avesse allontanati? Non me lo sarei mai perdonato.
Presi coraggio e parlai, senza smettere di osservare la tv: avevamo cambiato canale, ed ora c’era un film d’epoca in cui un robot gigante distruggeva Oranu, capitale di Gemenon.
“Steve.”
“Dimmi.”
“Io… tu mi ami, vero?” Chiesi. Lui mi guardò con aria interrogativa aggrottando leggermente le sopracciglia.
“Ehm… aspetta che ci penso un attimo…” Disse fingendo una voce seria.
“Ti prego, non sto scherzando.” Voltai la testa verso di lui, appoggiandola sulla sua vita e guardandolo dritto negli occhi. Lui assunse un’espressione dubbiosa e mi rispose, non capendo il mio strano tono.
“Certo che ti amo.”
“Incondizionatamente?” Chiesi di nuovo, cominciando a preoccuparlo.
“Incondizionatamente.” Accarezzò i miei capelli biondi, tinti da pochi giorni.
Mi sollevai e lo abbracciai, per poi sospirare e sussurrargli:
“Non ti importerebbe se io fossi pazzo?” Accarezzai anche io i suoi capelli corti castani scuri.
Lui rise e buttò indietro la testa come un piccolo bambino, appoggiandola allo schienale del divano, per poi rispondermi che non ero pazzo.
“Ma se lo fossi?” Insistetti.
“Hey… senti, c’è qualcosa che non va che non mi hai detto?” Mi guardò negli occhi poggiando una mano sulla mia testa. Pensai se fosse il caso di dirgli tutto quello che pensavo, che avevo vissuto nella mia mente negli ultimi tempi. Mi feci forza.
“Credo di avere un problema.”
“Di che tipo?” Chiese piegando leggermente il capo.
“Non so… è che… è che io vedo delle cose. Vedo delle cose strane, quando sono fuori, quando dormo.” Steven mi ascoltava, osservandomi con un’espressione facciale leggermente incuriosita.
“C’è questa donna… questa bellissima donna… ricordi quella notte, quasi un anno e mezzo fa, quando venisti a dormire da me?”
“Si… credo di si… cosa, cosa c’entra la donna? Quale donna?”
“La sognai quella notte! Per la prima volta, quella notte…” Mi ammutolì.
“Eh?” Chiese lui con aria sempre più sbigottita.
“E allora è più di un anno che la sogno. Mi è sembrato di vederla in giro, qui da noi, per strada. Come se fosse reale… e poi quei sogni, quelle immagini terribili che sogno… io non…” Coprì i miei occhi con le mani, mettendomi a sedere staccandomi da lui. Steve mi si avvicinò nuovamente abbracciandomi.
“Sei solo stressato, hai capito?” Sussurrò nel mio orecchio sinistro.
“Hai abbandondato casa, tua madre, il tuo pianeta, tutto quello che conoscevi per buttarti in tutto questo… credo che sia normale che tu ti senta così…” La sua voce era calma e rassicurante, e lui sorrideva teneramente. Eppure ciò non mi bastava: io gli stavo dicendo di avere delle continue immagini nella mia testa, immagini ben precise che probabilmente potevano voler dire qualcosa; non si sogna la stessa donna per mesi in condizioni normali.
Non si sentono certe voci nella propria testa solo perché si è tristi o stressati.

Steven si era già addormentato, comodo e tranquillo nel suo lato del letto: se ne stava a pancia in su, con le braccia sul cuscino e la coperta che lo copriva fino al petto, dove indossava la sua cannottiera blu.
Io ero ancora sveglio, e nonostante avvertissi il lento sopraggiungere del sonno, continuavo a guardare inerme il soffitto della nostra stanza inondata di oscurità, la cui pesantezza era alleviata unicamente dalla flebile luce del bagno che arrivava dal corridoio; si, abbiamo sempre dormito con una piccola luce accesa, come i bambini. Non è che io abbia paura del buio pesto, non avrei problemi ad addormentarmici, ma il problema sopraggiunge se mi sveglio nel cuore della notte: se nel momento in cui apro gli occhi mi ritrovo nell’oscurità totale vado in panico, mi sento soffocare e comincio a dimenarmi; per questo motivo una piccola luce accesa non è male, almeno per me.
La pioggia ticchettava contro i vetri, coperti dalle lunghe tende.
Le palpebre iniziavano a divenire pesanti, ed ogni volta che le chiudevo ci mettevo di più per riaprirle; mi lasciai convincere dalla stanchezza, e così mi addormentai.
Dicono che non si cominci a sognare fino alle fasi immediatamente precedenti al risveglio, e che in realtà tutti i sogni che facciamo siano concentrati nella frazione di secondo che si scandisce prima del riaprire gli occhi.
Eppure ebbi la sensazione che non appena dopo averli chiusi, delle immagini già si stessero delineando di fronte a me.
Ciò che sognai quella notte fu davvero particolare e strano; ne avrei successivamente scoperto solo parte del significato, per comprenderlo poi del tutto anni dopo.
Spazio, stelle, oscurità.
Di fronte a me, due pianeti vicini l’uno all’altro sembravano avvicinarsi a me: uno leggermente più piccolo e rossiccio, l’altro colorato di un blu intenso e un florido verde.
“Caprica e Gemenon!” Esclamai, incurante di trovarmi in un sogno.
Caprica era sempre più vicino a me, come se vi stessi precipitando sulla superficie; non riuscivo a capire che senso avesse un sogno simile.
Mi ritrovai di fronte ad una casa, una villetta familiare: le pareti in legno erano verniciate di verde, le finestre senza imposte erano contornate di bianco, ed attorno alla casa un delizioso giardino pieno di bambini che correvano e giocavano.
Notai che seduta sui gradini di fronte alla porta d’ingresso, se ne stava seduta una donna con dei lunghi capelli mossi e neri: mi guardava attentamente, mentre reggeva la testa con la mano sinistra, il cui gomito era appoggiato sulle sue ginocchia; notai un anello rotondo argentato sul dito anulare della mano sinistra, sul quale era inciso un qualche genere di disegno che da quella distanza non riuscivo a mettere a fuoco.
Me ne stavo in piedi fuori dal recinto a guardarla, quando sentì una mano poggiarsi sulla mia spalla destra: mi voltai e vidi quel viso ormai a me tanto familiare; la solita donna con quei capelli biondissimi, quasi bianchi, la stessa che mi era parso di vedere per strada, in sogno, ovunque. Mi sorrise e si avvicinò a me, indicando la donna che se ne stava seduta sulle scale di fronte a noi.
“Lo sai chi è lei, David?” Mi sussurrò con la sua calda, sensuale e tranquillizzante voce.
“No.” Risposi “Chi è quella donna?” Chiesi.
“E’ la nostra maestra, David. E’ colei che ha guidato i figli dell’umanità verso una più profonda consapevolezza.”
Non riuscivo a capire, così, scuotendo la testa con un’espressione di disappunto e voltandomi verso di lei, chiesi nuovamente:
“Che genere di consapevolezza? Consapevolezza di cosa?”
“La consapevolezza dei piani di Dio. Lei ci ha resi più forti e ci ha istruiti. Ci ha aperto gli occhi mostrandoci la nostra strada.” Sorrideva mentre parlava, guardando la donna che dagli scalini della sua casa ci osservava con un’espressione a metà tra la sfida e l’analisi.
“Lei ci ha liberato dalla nostra schiavitù, ci ha aiutati a compiere il nostro destino.”
Qualcosa di immensamente sinistro aleggiava attorno alle parole di quella donna; non sapevo cosa tutto questo potesse voler dire, e nonostante mi trovassi nel mio stesso sogno, decisi di indagare.
“Ma chi sei tu? Perché continuo a sognarti? Perché ti vedo ovunque?” Le domandai con sguardo diretto. Ero estenuato da questa situazione.
Lei mi guardò e mi sorrise, nuovamente. Mi accarezzò i capelli.
“Io sono una figlia di Dio, come te.” Mi disse; continuai a guardarla per farle capire che non mi bastava.
Io sono un Cylone, e sono qui per punire i peccati dell’umanità, per conto di Dio, nostro Signore e Creatore.” Un Cylone? Sentì qualcosa trafiggermi, un brivido freddo attraversarmi, come se tutto nel mondo ora fosse sconvolto e terribile.
“Cos… che cosa sei tu?” Chiesi esterrefatto, con voce tremolante. Lei mi sorrise e chinò il capo verso di me, per poi proseguire.
“Sono qui anche per te. Voglio rassicurarti. Non avere paura di quello che verrà. Altri mi vedranno, non sarai l’unico.” Non capivo. La bionda si voltò.
“Lei ci ha istruiti, ma ha peccato, e ha dovuto pagare le sue colpe.” Disse indicando di nuovo la donna dai capelli neri.
“Che cosa?” Ero scioccato.
Lei indicò con la mano la casa; mi voltai verso di essa: scomparve.
Tutto scomparve, tranne noi tre. Ora, il nero assoluto ci circondava.
“Lei è Clarice Willow, la madrina dei Cyloni.” Disse la bionda, mentre l’altra donna misteriosa si avvicinava.
Mi guardò silenziosa, senza dire nulla, mi sorrise.
Avvertì un qualcosa di strano alla nostra destra, e tutti e tre ci voltammo in quella direzione, scoprendo che un’altra figura ci stava osservando silenziosamente. Non appena la vidi, provai l’irrefrenabile desiderio di chiederle chi fosse, ma prima ancora che potessi farlo e che la sua sagoma fosse ben delineata, la bionda si avvicinò a me e rispose alla mia non ancora partorita domanda.
“Lei è la vittima più grave dei peccati di Clarice; il suo sangue fu versato per un fraintendimento e la sua vita innocente fu spezzata. Tutto per un malinteso.”
Lunghi capelli castano chiaro, un viso materno e giovane, l’addome gonfio per la gravidanza ancora in corso: la terza donna misteriosa emerse dall’oscurità, evitando il mio sguardo come per pudore, sorridendo sommessamente.
“Lei è Mar-Beth Willow, l’innocente.”
Non riuscivo a capire: poteva essere davvero un sogno normale? Così elaborato? Era privo di significato? Il nero attorno a noi si tramutò in quella che sembrava essere la volta celeste, puntellata da miliardi di stelle che splendevano con luce fioca.  Mar-Beth si avvicinò a Clarice; rimasero in silenzio.
Le tre donne mi si avvicinarono; la bionda toccò nuovamente la mia spalla, indicando con l’altra mano verso “l’alto”.
“Guarda, David. E’ il giorno del giudizio.”
Udì per qualche istante una serie di rumori davvero inquietanti che risuonavano per quello che sembrava essere il freddo ed inospitale spazio: strazianti grida di migliaia di persone, fragori di potenti esplosioni, boati di proiettili sparati a bruciapelo, sfrigolanti suoni di incendi divampanti. Alzai lo sguardo e vidi dodici pianeti orbitanti attorno a quattro stelle vicine tra loro: non ci misi molto per riconoscerli e rendermi conto che si trattasse delle Dodici Colonie di Kobol, la nostra casa, la nostra grande dimora.
Le vedevo chiaramente, l’una vicino all’altra, nonostante in realtà si trovassero in quattro sistemi solari distinti. Potevo scorgere le luci delle grandi città negli emisferi immersi nella notte.
Udì un frastornante boato: sgranai gli occhi.
Cominciai a notare con orrore migliaia di luminosissime esplosioni dilagare sulle superfici delle Colonie: immense deflagrazioni –probabilmente nucleari- distruggevano tutto nell’arco di migliaia di kilometri quadrati.
NO!” Esclamai. “Che cosa sta succedendo??” Mi voltai con fare disperato verso la bionda, che ancora mi sorrideva.
“Sono i piani di Dio. E’ il destino.” Non riuscivo a comprendere l’enigmaticità delle sue parole, perciò mi voltai di nuovo verso l’alto: le Colonie erano sparite, volatilizzate.
Strabuzzando gli occhi notai in lontananza una flotta di astronavi, probabilmente un centinaio, dal design coloniale. Una grande nave da guerra stava in testa alla flotta, e dietro di essa un gran numero di astronavi civili più piccole –non dissimili da quelle su cui avevo viaggiato io- popolavano quello che sembrava essere un grande convoglio di fuggiaschi.
La nave da guerra si avvicinava alla nostra posizione; con grande sforzo, riuscì a leggerne il nome inciso sul grande scafo pesantemente corazzato: Battlestar Galactica.
Mi voltai verso la bionda di nuovo: accennò ad un “si” con il capo e sorrise.
Mar-Beth si avvicinò e mi sussurrò nell’orecchio queste strane parole:
“Cercami sulla tua cassettiera.”
Mi svegliai di soprassalto, coperto di sudore e con un gran mal di testa; inizialmente non ricordai nulla, ma la memoria mi sarebbe tornata la mattina seguente. Purtroppo.

10.5 –“Tessere Magnetiche e Ritagli di Giornale”
La mattina era cominciata freneticamente: Steve era uscito di corsa sbattendo involontariamente la porta poiché doveva letteralmente volare nella sua accademia per compilare delle pratiche relative all’incombente viaggio prima che la segreteria chiudesse momentaneamente per la festività del Colonial Day.
Io avevo la giornata libera, così approfittai per portare a termine alcuni miei piccoli lavoretti domestici e sbrigare un paio di commissioni.
Generalmente mi occupavo io della pulizia della casa, non perché Steven non volesse aiutarmi, ma perché ero decisamente più portato per i mestieri domestici di quanto non fosse lui –modestamente-; spolveravo i mobili a giorni alterni, mentre passavo l’aspirapolvere e pulivo il bagno quasi giornalmente.
Avevo appena finito e mi preparavo ad uscire quando entrai in camera da letto per prendere il giubotto quando notai qualcosa sulla cassettiera sotto lo specchio: la tessera della biblioteca era lì sopra, nonostante quello non fosse sicuramente il suo posto ed io non ricordassi di avercela lasciata –a meno che non fosse stato Steve.
Mi avvicinai e la afferrai per osservarla: quando la portai vicino al viso avvertì quello che ancora adesso ricordo come un brivido gelido che mi attraverò letteralmente il corpo, dalla pianta dei piedi alle punte più estreme dei capelli.
Le gambe mi cedettero e dovetti appoggiarmi al letto per non cadere: in preda al panico, mi ci sdraiai sopra boccheggiando per il respiro che mancava.
“Dei…” Biascicai. Susseguirono una serie di respiri profondi –o almeno di tentativi di farne- che proseguirono finchè non riacquistai il controllo: a quel punto trovai la forza di mettermi seduto.
“Che diamine mi è successo?” Mi chiesi scostandomi i capelli biondi dal viso. La tessera della biblioteca mi era caduta di mano, e giaceva ora sul tappeto ai piedi del letto. La sua sagoma catturò di nuovo la mia attenzione.
La fissai con una certa inquietudine, sospettando che lo pseudo attacco di panico che avevo appena sperimentato fosse in qualche modo stato causato da lei.
In quegli attimi pensai che dovevo essere pazzo per aver solo pensato che la mia tessera della biblioteca fosse stregata e, dopo aver riso di me stesso per un secondo, la afferrai.
Ebbi un flash: la villetta, le tre donne, i pianeti, le navi… o dei, stavo ricordando il bizzarro sogno della notte appena passata.

“Cercami sulla tua cassettiera.”
Era la strana frase che mi aveva detto Mar-Beth prima che mi svegliassi all’improvviso; provai uno sgradevole senso di inadeguatezza. Era possibile che… no non poteva essere.
Ma forse… era in qualche strano modo possibile che la donna che avevo sognato, Mar-Beth l’innocente, avesse un qualche legame con la mia realtà fisica? Era forse possibile che si riferisse proprio a quella tessera? La fissai per un po’. Mi osservai nello specchio mentre la reggevo chiedendomi se stessi realmente prendendo in considerazione l’idea che quel sogno mi stesse parlando. Mi osservai con aria preoccupata e titubante.
“Sei davvero fuori di testa, Richard David Jenkins, lo sai vero?” Mormorai mentre scrutavo il mio riflesso.
Preoccupandomi per la mia sanità mentale, decisi di prendere la macchina e volare verso la biblioteca: non sapevo perché lo stessi facendo, ne cosa stessi cercando. Eppure Mar-Beth, una donna che non avevo mai visto in vita mia, mi aveva chiesto in sogno di cercarla sulla mia cassettiera, dove effettivamente avevo trovato la tessera magnetica: c’erano diverse spiegazioni ovviamente, a parte l’essere visionario; ad esempio potevo aver dimenticato di averla spostata per poi sognare un qualche collegamento con essa.
Nonostante ciò, incredulo per aver deciso di assecondare quella “donna” e senza rendermene conto, ero già in macchina diretto verso il centro, dove stava la biblioteca.
Si trovava sulla stessa via della scuola elementare in cui lavoravo, di fronte ai giardini pubblici centrali.
Scesi dall’auto ed osservai per un istante l’edificio che ospitava la libreria della città: non era molto grande, di modeste misure; del resto si trovava in un piccolo borgo.
Circondata da alberi e cespugli fioriti, la biblioteca di Clairview si ergeva nei suoi due piani con mansarda: la parete frontale vantava otto finestre ed ospitava quattro colonne in rilievo, al culmine delle quali “poggiava” un timpano triangolare, a sua volta forato da una finestrella rotonda; composto da una superficie in mattoni a vista tinteggiati di azzurro, il piccolo edificio era sempre ben curato e pulito, grazie agli sforzi del municipio che dava molta importanza alla cultura.
Entrai dalla porta scorrevole di vetro che si aprì automaticamente al mio passaggio e rimasi per un momento immobile nella hall, di fronte allo scalone che portava al piano superiore: mi voltai prima a sinistra, vedendo l’insegna della sezione “Botanica” e poi a destra la sezione “Bandiere”, nella quale, per ogni scaffale di libri era appeso uno stendardo di ognuna delle Dodici Colonie –tra l’altro, la bandiera gialla e verde di Virgon era appesa proprio di fronte alla porta.
Non sapevo che cosa fare, ne dove andare; in fondo non sapevo nemmeno che cosa ci facessi là e cosa dovessi cercare.

“Cercami sulla tua cassettiera”
Ma che diavolo significava? Rimasi lì, immobile, e la gente cominciava a notare la mia presenza un pochino strana. Un ragazzo fermo nella hall di una biblioteca. Qualcuno mi pare abbia anche riso.
Salì al piano superiore e notai subito, accanto alla porta della toilette ed ai rivenditori di snack, l’insegna della sezione “Giornali”: ebbi un qualche strano sentore, come quando un rabdomante si avvicina all’acqua grazie al suo bastone –in quel caso il bastone magico era la mia tessera magnetica-, così decisi di entrare.
Mi sedetti al primo computer libero – la stanza ne era piena- ed inserì la mia tessera nel terminale per accedere al servizio: i computer in quella stanza davano la possibilità di consultare tutti i più importanti quotidiani e giornali pubblicati ovunque nelle Colonie negli ultimi trecento anni; ogni evento, ogni dettaglio, ogni pagina che era stata stampata in passato era stata scannerizzata e raccolta in vastissimi schedari digitali per noi posteri. Nulla di speciale, dato che un servizio identico era reperibile in quasi ogni singola biblioteca di ogni città di ogni colonia.
Comparve sul display una schermata che mi chiedeva di scegliere una categoria da visitare: scelsi “News Generali”, non sapendo se potesse esserci un nesso.
A sua volta, una nuova schermata mi chiese di scegliere di quale colonia volessi esplorare il repertorio di ritagli di giornale: vi erano quindi dodici icone con i nomi dei pianeti e con a fianco le rispettive bandiere. Dodici pianeti, dodici icone, dodici possibilità.
Ripensai al sogno, e vidi di nuovo quello strano scenario: Caprica e Gemenon nello spazio che si avvicinavano a me.
“Ma certo!” Cliccai su Caprica. Non che questo mi potesse essere d’aiuto, non avevo idea di cosa cercare, e conoscere solamente il nome di un pianeta non può poi portarti lontano se voli alla cieca.
Comparvero una lista pressoché infinta di quotidiani: “The Caprican”,  “Caprica Tribune”, “Cap News”, “Caprica Times” e molti altri.
“Come diavolo faccio a scegliere, ce ne sono seimila!!!” Dissi a bassa voce guardandomi attorno.
Notai in alto a destra sullo schermo l’icona di una lente di ingrandimento: accanto, la dicitura
“enter key word”.  Dopo un attimo di silenzio e immobilità, provai a digitare nella piccola barra di ricerca azzurra il nome “Clarice Willow”.
“Lo sto facendo davvero? Dei lo sto davvero per fare?” Mi chiesi prima di cliccare sul tasto di invio: stavo cercando in rete il nome di una donna che avevo visto in un mio sogno la notte prima.
“Sei ridicolo, santi dei.” Mi beffeggiai da solo.
“Hai un computer con l’accesso alla rete anche a casa, perché venire fin qui per cercare tra gli articoli di giornale una donna che non esiste?” Mi rimproverai per l’improbabilità della situazione in cui mi trovavo. Come potevo aver perso la mia mattinata per cercare di capire il senso di un mio sogno? Non bastava cercare in rete da casa un sito per l’interpretazione dei sogni? Uno di quelli gestiti da stregoni ciarlatani e truffatori che ammaliano la gente in televisione?
Non avevo la minima idea di quello che avrei trovato –ammesso che avessi trovato qualcosa- ma premetti comunque il tasto di invio.
Ecco che in alto a sinistra vennero evidenziate un paio di pagine del Caprica Tribune: controllai la data di pubblicazione del quotidiano e scoprì con stupore che questo risaliva all’anno 1,942 dopo l’Esodo da Kobol, ovvero circa cinquantotto anni fa –cinquantotto anni fa in quell’anno almeno, adesso sono circa sessantadue.
Ero incredulo; mi misi a leggere il documento che riportava una sua foto: una donna con dei lunghi capelli neri e mossi, la stessa che avevo sognato; portava l’anello che le avevo visto al dito.
Sudavo freddo. Com’era possibile? Questa donna era vissuta quasi sessant’anni fa, come avevo fatto a sognarla? Non ne avevo mai sentito parlare, ne mai ne avevo vista una foto, o letto qualcosa a proposito. Fino a pochi istanti prima credevo di essermela sognata e basta, invece ora stavo scoprendo che era esistita davvero.
Scoprì che Clarice Willow era stata un’insegnante, più precisamente, una sacerdotessa di Athena e preside dell’Athenian Academy, scuola superiore nei pressi di Caprica City, su Caprica, diversi anni prima della nascita dei Cyloni. Clarice era in realtà una terrorista, un agente sotto copertura, leader delle celle terroriste di Caprica dei Soldati dell’Unico, il braccio armato della Chiesa Monade Monoteista di Gemenon, gli stessi terroristi che si erano macchiati di orrendi crimini ratificati in nome del loro credo.
Clarice era responsabile di un attentato avvenuto nell’anno 1,942 sulla metropolitana di Caprica City, dove un ragazzo –da lei assoldato- si era fatto saltare in aria distruggendo un treno a levitazione magnetica ed uccidendo centinaia di persone in un istante.
C’erano fior di fascicoli su di lei che mostravano la sua implicazione nella setta di fondamentalisti religiosi monoteisti, al tempo in guerra con la società laica di Caprica e delle altre Colonie infedeli.
Dovetti scorrere diverse pagine prima di scorgere con gli occhi un paragrafo in cui veniva citata Amanda,la moglie di Daniel Graystone, fondatore dell’omonima industria e creatore dei Cyloni, i quali furono inventati proprio in quell’anno.
Amanda Graystone aveva avuto un rapporto di amicizia con Clarice, ed era stata ingaggiata dal Gdd (Caprica Global Defence Department) per smascherare la donna dalle sue false vesti di dirigente scolastico e consegnarla alla giustizia.
Stavo leggendo il fascicolo su Clarice quando incappai nella sezione che parlava della sua famiglia: Clarice aveva convolato a nozze in un matrimonio di gruppo; i matrimoni di gruppo erano molto comuni nelle Dodici Colonie, e alle volte ci si poteva imbattere in famiglie composte da una ventina di consorti e decine di figli.
Il matrimonio della Willow non era da meno, tant’è che nella sua casa si trovavano più di dieci bambini; Clarice aveva diversi mariti, tra cui Nestor, Tanner, Olaf e Rashawn, e tre mogli: Desiree Willow –da cui il nucleo familiare prendeva il cognome-, Helena e… Mar-Beth Willow. Fu come se il mio cuore si fosse bloccato.
Mar-Beth Willow.
Era esistita davvero. Esisteva davvero anche lei, ed era una delle mogli di Clarice. Ma com’era possibile? Come avevo potuto sognare quelle due donne senza averle mai viste?
C’era una foto accanto al suo nome, la quale corrispondeva perfettamente al mio sogno: alta, capelli castano chiaro, molto bella, molto materna.
Lessi il fascicolo su di lei: Mar-Beth era scomparsa non appena dopo aver dato alla luce l’ultimo figlio dei Willow; Clarice e la famiglia affermarono che non era pronta per essere madre ed era fuggita.
In realtà, le indagini dimostrarono che Mar-Beth era stata assassinata dalla stessa Clarice, la quale sospettava che la moglie fosse segretamente un informatore del Gdd e che cercasse di far arrestare Clarice ed i loro mariti –l’informatore era in realtà Amanda Graystone.

“Lei è Mar-Beth Willow, l’innocente; è il più grave dei peccati di Clarice”
Aveva detto così la bionda nel mio sogno, la bionda che affermava di essere un Cylone. Lo avevo sognato. Lo avevo veramente sognato. Com’è possibile? Continuai a leggerre.
I Willow, con l’eccezione di Tanner, Desiree, Helena e Mar-Beth, erano tutti parte dei Soldati dell’Unico, e stavano lavorando ad un progetto religioso dalla natura molto controversa che avrebbero messo in atto dopo un grande che avevano intenzione di scatenare a Caprica City; il Gdd, con l’aiuto dei Graystone e dei primissimi modelli di Cyloni appena costruiti, riuscì a sventare la catastrofe, uccidendo Olaf e Nestor –e diversi altri terroristi.
Clarice fu incarcerata, ma fu prosciolta l’anno seguente per “mancanza di prove sufficienti”, probabilmente ad opera di un avvocato corrotto, tornando in libertà sulla parola: iniziò a frequentare diversi siti del mondo virtuale, attirando a se l’attenzione di molti Cyloni, i quali erano entrati in commercio nelle Colonie proprio in quegli anni –la guerra sarebbe scoppiata meno di quattro anni dopo.
I documenti che seguivano erano poco chiari; spensi il computer.
Mi lasciai andare sulla sedia con le braccia conserte e un’espressione piena di scompiglio e disappunto. Ero leggermente impaurito dalla strana esperienza che avevo appena avuto, e non riuscivo a trovare alcuna motivazione razionale che potesse spiegare quel fatto.
Sospirai con un filo di voce tremolante, come quando si piange; in silenzio, mi alzai dalla sedia ed uscì dalla stanza, passando in mezzo alle persone che leggevano tranquillamente ai tavoli, ignari del peso che mi portavo dietro uscendo.
L’asfalto era ancora bagnato dalla pioggia della notte precedente e le automobili schizzavano sui marciapiedi l’acqua nelle pozzanghere con il loro passaggio.
Ancora una volta, rimasi fermo e immobile nel parcheggio di fronte alla biblioteca, provato dalla stranezza del mio sogno premonitore al contrario.
“Se continui così finirai davvero in manicomio.” Dissi a me stesso mentre estraevo dalla tasca della giacca le chiavi dell’auto.
Ero davvero stanco di tutto questo, volevo solamente che la mia vita tornasse alla normalità, che tutte queste “cose strane” finissero e mi lasciassero in pace.
Forse il mio subconscio mi stava punendo per il senso di colpa che provavo ad aver lasciato Jennifer da sola su Canceron… eppure tutto questo non era solo nella mia testa: avevo appena consultato dei documenti risalenti a quasi sessant’anni prima che testimoniavano l’esistenza di persone che avevo sognato.
C’erano solamente due possibili spiegazioni a questo fenomeno: sebbene non avessi alcuna memoria e fossi pronto a testimoniare sotto giuramento che non fosse così, potevo in qualche modo aver già visto quei documenti in primo tempo, magari anche anni prima, e la mia testa poteva averne catturato il contenuto per poi scaraventarlo nel mio sonno; un’altra ipotesi poteva essere che davvero in qualche modo io fossi “sensitivo” e riuscissi ad avvertire cose a me esterne e sconosciute… in fondo non è così assurdo: la scienza non ha mai accreditato teorie di questo tipo, ma non le ha nemmeno mai smentite del tutto.
Del resto, l’universo è formato di una certa materia che, anche se a noi rimane in parte sconosciuta, sappiamo che c’è: può essere che gli eventi passati, presenti e futuri si “muovano” e si articolino in questa materia, e che siano quindi attorno a noi, sempre; e può quindi essere che alcune persone abbiano una qualche capacità, ovvero che riescano a percepire questi eventi che ancora non si sono palesati a loro.
Se ci pensiamo bene, questo non ha necessariamente a che fare con il sovrannaturale, ne tantomeno è un “superpotere”; prendiamo ad esempio un lavavetri che pulisce le finestre di un grattacielo a centinaia di metri di altezza: se ci fosse un incidente a tre isolati dal suo palazzo, lui lo vedrebbe, mentre le persone ai piedi dell’edificio no, ma questo non renderebbe quel lavavetri dotato di superpoteri o quanto mai “migliore” degli altri. Semplicemente, avrebbe una posizione avvantaggiata che gli permetterebbe di vedere più in là.
La mia testa si riempiva di queste strane considerazioni ed ipotesi mentre mi avviavo verso casa, non sapendo cos’avrei fatto durante il resto della giornata per scacciare quei pensieri sgradevoli.
Avrei fatto meglio a godermi quegli ultimi momenti su Virgon, perché da lì a pochissimo tempo, non avrei avuti più.



…Continua

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Rivelazioni ***


Capitolo 11: Rivelazioni

11.1 –“Preoccupazioni e fogli volanti.”
E’ da diverse settimane che non scrivo; l’altro ieri mi sono trovato a cercare disperatamente dove avessi riposto i miei fogli nella capanna che ospita la nostra scuola: mi sono reso conto con orrore che le risme a mia disposizione non sono infinite e che prima o poi tutte le penne esauriranno l’inchiostro; a quel punto, spero di essere già riuscito a terminare questo racconto, o dovrò lasciare ai posteri una sorta di autobiografia incompleta.
Che poi, autobiografia.
Credo sia un parolone, un’esagerazione; non sono di certo un bravo scrittore, anzi non sono proprio per niente uno scrittore dato che ho studiato per fare ben altro ( tra l’altro non ho nemmeno fatto in tempo a portare a termine gli studi) e sono certo che questa accozzaglia di parole messe insieme alla rinfusa sia piena di orrori grammaticali da far cadere i capelli a chiunque di scrittura ci capisca veramente qualcosa…
Comunque si, per diverso tempo ho evitato di scrivere perché è come se inconsciamente volessi ritardare il momento in cui tutto questo finirà. Perché un po’ mi spaventa la consapevolezza che prima o poi terminerò di raccontare quello che ho vissuto: è come se questo libro –librettino se proprio vogliamo fare i gradassi- sia l’unico collegamento che ho con la mia vecchia vita, che se devo essere sincero, a volte mi manca.
Quando trovammo questo pianeta, stremati da tutto quello che avevamo dovuto affrontare, il governo decise di rinunciare ai comfort dati dalla tecnologia che ci era rimasta, temendo che un giorno, i disastri avvenuti sulle Dodici Colonie, sulla vecchia Terra e su Kobol prima di essi, ricapitassero ancora una volta. Come disse Pithya “Tutto ciò è già accaduto ed accadrà ancora.”
Niente telefoni, niente lavatrici, niente astronavi, niente automobili, niente asciugacapelli. Niente.
Solo trentamila persone, una manciata di Cyloni pentiti e qualche sogno per il futuro.
Ammetto che non fossi esattamente entusiasta come molti altri quando i militari ci proposero questa via. Ma del resto, ero parte di una minoranza. Chissà se il nostro popolo sopravviverà nei millenni a venire, senza difese, senza mezzi.
I dottori dicono che il nostro DNA è compatibile con quello degli indigeni primitivi di questo mondo verde e azzurro; c’è chi auspica che un giorno i nostri discendenti potrebbero unirsi a loro, e perpetrare i geni di una nuova specie. Una specie che popolerà queste sconfinate praterie, e gli altri continenti.
In realtà, c’è anche chi si chiede se non finiremo per unirci con i Cyloni: è già avvenuto, e i Cyloni  dicono sia stato un miracolo di Dio, che avrebbe secondo loro instillato la vita in un essere concepito dall’atto d’amore di un uomo umano ed una donna Cylone, circa cinque anni fa.
La piccola Hera, figlia di Karl Agathon e del Cylone noto come Sharon Valerii.
La piccola per cui tutte le nostre forze civili e militari, unite a quelle dei Cyloni, si erano mobilitate al fine di salvarne la vita, ritenuta la chiave per la salvezza dei nostri due popoli. Chissà se davvero accadrà.
Forse, un giorno, tra migliaia e migliaia di anni, forse è probabile che quanto avvenuto in passato venga dimenticato: le nostre origini, Kobol, le Colonie, le nostre antiche conoscenze sul viaggio spaziale, la guerra con i Cyloni, tutto.
Magari i nostri posteri non avranno nemmeno idea di chi fossero i Cyloni: saranno essi stessi in parte Cyloni, senza saperlo mai, se davvero si dovessero avverare le previsioni di alcuni tra noi.
Ma queste sono solo fantasie che partorisco quando mi annoio, quando non so che cosa fare tra un’attività e l’altra.
A volte mi offro perfino volontario per aiutare ad arare il campo; chi l’avrebbe mai detto, io che faccio l’agricoltore: un bel salto di qualità per il maestro biondino che ero ai tempi delle Colonie.
Beh, dicevo che i fogli a mia disposizione non sono infiniti e prima o poi mi mancherà la carta per scrivere e che spero di aver già terminato la mia opera per allora.
Non so sinceramente che cosa ne farò a quel punto, dove la metterò, a chi la lascerò.
Sta di fatto che mi servono le graffette per rilegarla, spero di averne ancora qualcuna nella mia scrivania.



11.2 –“Saluti e presenze inquietanti”
La luce del sole filtrava tra le tende blu della finestra proiettando nell’ambiente un confortevole e azzurrognolo candore, il quale investiva molto dolcemente i mobili che abitavano la nostra camera da letto che si svegliava ora insieme al piccolo angolo di mondo in cui si trovava.
Era davvero inusuale che dormissimo con le ante della finestre anche solamente socchiuse: a meno che non fosse per via del caldo estivo in cui era praticamente un obbligo, non mi era mai piaciuta l’idea che vi fosse un apertura senza filtri sulla stanza in cui dormivo, e questa sensazione era stata mia fin dai primissimi anni di vita; Steven non si è mai preoccupato di questi dettagli poco significativi –almeno per lui- e quindi, finestre aperte o chiuse, a lui non importava molto, così non era stato un problema accettare quella mia abitudine una volta iniziata la convivenza.
Come dicevo, non mi era mai piaciuto dormire con la finestra aperta, ma la sera prima di quella mattina, non so davvero per quale motivo, ne lasciammo le ante appena accostate, senza nemmeno abbassare le tapparelle.
Fu il riflesso del sole sullo specchio della cassettiera a svegliarmi, credo; aprì gli occhi e li agitai per qualche istante a destra e sinistra, in alto e in basso, analizzando bene l’ambiente in cui mi trovavo, come ogni mattina del resto.
Coperte azzurre, lenzuola indaco, pareti di un verde acqua quasi bianco: i Virgani amavano alla follia il blu, in tutte le sue tonalità, ritenuto insieme al viola, il colore rappresentativo del loro pianeta –nonostante la bandiera di Virgon fosse gialla e verde-; io stesso adoravo quei colori, ed ero ben felice di abitare in un appartamento che li incarnasse tutti nelle loro sfumature più tenui e gradevoli.
Avevamo preparato i bagagli a mano la sera prima e vidi che –ovviamente- si trovavano ancora dove li avevamo riposti, ovvero accanto alla porta del bagno.
Era finalmente arrivato l’attesissimo giorno della partenza, il nostro viaggio verso Caprica era ormai alle porte. Indossata una forcina per tenere indietro il mio spettinato ciuffo di capelli decolorati, mi alzai e corsi in cucina a preparare il caffè per entrambi, dato che Steven ancora dormiva; sapevo che probabilmente non avrei mangiato nulla per l’ansia, dato che come mi accadeva sempre prima di vivere una bella esperienza –o comunque qualcosa di nuovo- avevo lo stomaco chiuso. In televisione si parlava dell’imminente cerimonia di disarmo della base stellare Galactica, la quale dopo più di cinquant’anni di onorato servizio se ne stava per andare in pensione, accingendosi a diventare un museo per i turisti.
Curioso pensare che un’astronave sulla quale durante la guerra erano morte così tante brave persone per mano dei Cyloni sarebbe divenuta una meta turistica e sarebbe stata trattata con la solita leggerezza inconsapevole della gente.

Indossato il cappotto –faceva freschino in quei giorni, nonostante fossimo in piena primavera-, feci per prendere i bagagli e portarli di sotto in auto.
“Porto la roba in auto!” Dissi ad alta voce, non sapendo dove fosse Steven.
“Aspetta! Devo darti una cosa!” Rispose con foga dal bagno.
“Oh dei, che ho dimenticato di mettere in valigia?” Brontolai con una smorfia di finto dolore molto teatrale; corse fuori a piedi scalzi e con la camicia mezza sbottonata.
“Questo!” E mi tese la mano. Lo guardai piegando la testa, non capendo che intendesse.
“Questo cosa?” Chiesi. Come risposta mi tirò il naso e rise, per poi tornare in bagno lasciandomi sotto la porta con una faccia da scemo. Rido ancora un po’ anche adesso a pensarci, più che altro perché in quel momento mi aspettavo davvero di aver scordato di mettere qualcosa in valigia.
Scuotendo la testa attraversai l’uscio, pensando di entrare nell’ascensore, quando fui fermato –nuovamente- dalla nostra vicina che stava uscendo per andare al supermercato dell’isolato dove vivevamo.
“Il tuo uomo mi ha detto che partite, dove state andando di bello?”
“Si, partiamo… per Caprica!” Risposi mentre mi chinavo a raccogliere il mio portafogli, cadutomi dalla tasca.
Caprica!?! Santi dei che bello! Andate in vacanza?” Chiese con un entusiasmo che quasi quasi mi sorprese, ma del resto chiunque al tempo sarebbe stato entusiasta di partire per Caprica.
“Diciamo che è un viaggio finanziato dall’accademia di Steven, c’entra con la sua formazione artistica e musicale… e in più è una bella occasione per farsi un viaggetto niente male!” Sorrisi.
“Altro che viaggetto, è il viaggio della tua vita!” Esclamò. Non sapevo quanto avesse ragione in quel momento.
“I miei figli si sono trasferiti tutti su Caprica, è il cuore delle Colonie! Non troverai nulla tanto pieno di vita!”
Duemila anni di storia avevano inculcato in tutti i cittadini delle Colonie la supremazia di Caprica, quasi come se fosse una nazione idilliaca e privilegiata; non a caso, in molti nei secoli si trasferirono sul pianeta in cerca del famoso sogno capricano.
“Adesso porto le nostre valige in auto e poi scappiamo! Il nostro volo parte fra due ore e mezza!”
Lei si avvicinò per salutarmi con i classici baci sulle guance.
“Buon viaggio David, divertitevi e godetevi questi momenti bellissimi! Com’è bello essere giovani!!” Mi disse sorridendo in modo spropositato.
“Grazie signora Hatcher, lo faremo!”
Melanie!” Mi sgridò.
“Chiamami Melanie, sarò anche vecchia ma non sono decrepita!” Ridacchiò. Del resto è sempre stato il mio cruccio, quello del dare sempre del lei alle persone più grandi, anche una volta entrati in confidenza. Certe volte mi capitava di farlo anche con il padre di Steven, ed altre con Emily durante le lezioni in classe.
Era una bellissima giornata, fredda ma bella; nemmeno l’ombra di una singola nuvola. Nonostante facesse freddo, Helios Beta splendeva con una discreta intensità nel cielo terso delle 8.17, illuminando abbondantemente la nostra amata campagna azzurrognola.
“Adesso chiudo tutto e scendo!” Gridò Steve dal balcone.
“Hai preso tutto o hai lasciato su qualcosa?” Una vecchietta che passeggiava con il cane si voltò in alto a spiarlo.
“Eh… no ho preso tutto…si tutto!” Chiusi il bagagliaio della nostra berlina elettrica; respirai l’aria frizzantina e pungente dal freddo per poi aprire la portiera ed aspettare Steve.
“Non ti pare che faccia un po’ troppo freddo oggi?” Gli chiesi mentre apriva la sua ed io gli passavo le chiavi da sopra il tettuccio.
“Dici?” Guardò in alto.
“Siamo quasi ad Aprilis, guarda che cappotti abbiamo addosso!” Risposi mentre lui saliva.
Mi voltai verso il nostro condominio; la nostra bellissima palazzina, con i bordi stondati, le vetrate luccicanti e i balconi color panna. Sorrisi e poi salì a mia volta in auto, non sapendo che quella vista sulla nostra casa sarebbe stata l’ultima.
“Dobbiamo passare solo un momento dalla banca, devo prelevare.” Girò la chiave nell’alloggiamento dietro al volante.
“Non hai già riempito la carta ieri?” Chiesi allacciandomi la cintura.
“Si ma mio padre ci ha fatto un altro bonifico ieri notte e ha detto di prelevare assolutamente, non gli ho chiesto perché.” Io annuì; Steve mise in moto la macchina e premette gradatamente sull’acceleratore, portandoci fuori dalla nostra via in direzione del centro.
La nostra banca si trovava esattamente di fronte al parco centrale della cittadina, dall’altro lato della strada del municipio.
“Ci metto un minuto, aspettami!” Disse Steve scendendo dall’auto.
Slacciai la cintura e rimasi in silenzio per un attimo.
Fuori dal finestrino le persone passavano, avanti e indietro, dirette al parco, agli autobus, al municipio, alla stazione dei treni a levitazione magnetica, ovunque.
Io le guardavo distrattamente e poi mi venne in mente di non aver ancora chiamato Jennifer per avvertirla che fossimo quasi pronti per partire; presi il cellulare incurante del fatto che una chiamata interplanetaria senza abbonamento mi sarebbe costata un occhio della testa.
Premetti il tasto verde e portai il telefonino all’orecchio destro.
Poi vidi qualcosa che mi fece rabbrividire.
Fuori dal finestrino.
Mi guardava.
Chiusi il cellulare e scesi dall’auto senza nemmeno rendermene conto.
Mi avvicinai a lei, che se ne stava seduta su una panchina, circondata da piccioni e vestita in modo decisamente bislacco; una tunica bianca leggermente sgualcita, un foulard rosa scuro sistemato in testa a mò di turbante e dei sandali che lasciavano trasparire un paio di calze grigie da ginnastica.
Mi avvicinai a lei e rimasi in silenzio per un momento, cercando di capire perché il suo sguardo mi avesse fatto raggelare.
“Sei arrivato da me, finalmente.” Disse guardandomi e sorridendo.
“Siedi!” Mi fece cenno di accomodarmi accanto a lei sulla panchina di marmo. I piccioni grugavano attorno a noi in cerca di briciole a terra. Lei glie ne lanciava una manciata ogni tanto.
“Chi sei?” Lei chiesi d’impulso. Interessante notare come le diedi del tu senza accorgermene.  “Non è ovvio? Sono un oracolo.” Disse ridendo, nascondendo un brutto colpo di tosse.
“Mi chiamo Dodona. Dodona Selloi.” Si presentò, poi lanciò un’altra manciata di briciole a terra come regalino ai piccioni.
Io la guardavo e non sapevo spiegare nemmeno a me stesso perché mi fossi sentito attratto dal suo sguardo tanto da scendere dall’auto ed avvicinarmi. A proposito del suo sguardo, perché diamine mi stava guardando, tra l’altro?
“Io…” Provai, lei mi guardò.
“Io non so perché sono qui.” Dissi.
“Beh, perché ti ho invitato a sederti, no?” Rise guardando il cielo. Non mi sembrava messa molto bene in quanto a salute, ma potevo anche sbagliarmi. Reggeva un tubetto di plastica trasparente dal quale estraeva delle foglioline blu che si ficcava in bocca all’improvviso.
“Perché mi fissavi? Prima, mentre ero in macchina, mi stavi guardando, perché?” Chiesi, incerto se volessi realmente conoscere la risposta alla mia domanda; in qualche modo immaginavo che quello che avrebbe detto non mi sarebbe piaciuto troppo.
“E’ chiaro, no?” Disse “Perché ti conosco!” Piegai il capo a destra.
“Mi conosci?”
“Conosco il tuo sguardo. So cosa provi.” Si infilò in bocca ancora un frammento di quella fogliolina bluastra.
“Sai cosa provo?” Lei assunse una strana espressione, quasi come se stesse entrando in uno stato di trance; l’occhio mi cadde sul tubetto di plastica che reggeva, quello dal quale estraeva le foglioline blu: senza il desiderio di essere invadente lessi per caso la scritta fatta a penna sull’etichetta bianca appiccicata al bordo del contenitore. Sgranai gli occhi.
“Tu prendi il chamalla??!?” Le chiesi avventatamente senza rendermi conto di quanto non fossi appena stato fuori luogo. Lei non rispose e continuò a fare smorfie strane.
Capì che lo stato di evanescenza in cui si trovava era appunto dovuto alla sostanza che stava ingerendo: il chamalla era un estratto di dubbia natura, reperibile dalle piante sia sotto forma di radici che di foglie secche lavorate in un certo modo che non mi è chiaro; sebbene non vi fossero reali studi che ne testimoniassero l’ efficacia, alcuni erano convinti che la sostanza potesse essere utilizzata come panacea per i motivi più disparati, tra cui la cura del cancro.
Ovviamente si trattava di teorie non comprovate, da sempre poste allo scherno della comunità scientifica.
Ma c’era anche un altro fatto riguardante il chamalla; l’utilizzo della sostanza comportava per sua natura un effetto collaterale non indifferente: allucinazioni.
Molti oracoli lo utilizzavano, infatti, a scopo predittivo: tramite le allucinazioni che il farmaco procurava loro, essi dicevano di essere in grado di sentire la voce degli dei –o di Dio, in determinate minoranze- e di riuscire perfino ad interpretarla; non era un fatto raro che alcune persone particolarmente devote, un po’ ovunque nelle Dodici Colonie, si recassero da queste figure per avere risposte alle loro domande esistenziali, per sapere cosa fare delle proprie vite, o semplicemente per sentirsi cantilenare strani indovinelli incomprensibili che a detta degli oracoli fossero la volontà divina.
“Io so cosa stai passando.” Riprese a parlare, tenendo gli occhi chiusi. Io stetti zitto.
“Colui che loro venerano ti parla attraverso me, come ti parla attraverso i tuoi sogni e i suoi angeli.”
Boom. Cuore a mille.
Stavano capitando troppe cose strane nella mia vita, troppe. Più di quanto non fossi disposto a tollerare. Vedevo persone che non esistevano, sognavo cose terribili e sentivo voci che mi sussurravano frasi allegoriche, ed ora una tizia sconosciuta vestita da santona e per giunta drogata mi guardava e diceva di sapere cosa provavo. Ero giusto un po’ stanco.
“No. No no no no, no basta!!!” Esclamai alzandomi dalla panchina. Lei aprì gli occhi.
“Tu non sai. Tu non sai niente di me, e non c’è niente da sapere!!!!” Dissi raggiungendo il limite massimo che mi separava dalla scortesia.
“Non temere David, non sono una persona cattiva.” Esordì spaventandomi.
“Come frak fai a sapere il mio nome?!” Ecco. Ero stato scortese, avevo imprecato. Ma quella donna sapeva il mio nome e sapeva cosa sognavo. Com’era possibile? E chi erano loro?
Mi prese la mano e dolcemente mi fece sedere di nuovo; rimase in silenzio per dieci secondi perché due navette mediche stavano attraversando il cielo appena cinquanta metri sopra di noi, assordandoci.
“Io so che tu lo avverti. Lo percepisci, percepisci che sta per accadere qualcosa. So che lo senti da tempo, da anni, forse da sempre. Sei felice, ma stai vivendo in attesa di qualcosa di bellissimo e spaventoso che sta arrivando. Ormai è alle porte David, devi essere pronto. Non sarà facile. All’inizio non sarà per niente facile.”
 Io non sapevo nemmeno che cosa dire. Rimasi in silenzio, ancora una volta, mentre i piccioni grugavano e la gente si faceva gli affari propri.
“Non temere. Noi ci rivedremo, me lo sento.” Disse pensando di confortarmi. Io ero come catatonico.
“David??” Sentì la voce di Steven chiamarmi dall’automobile: era appena tornato dalla banca e non mi aveva trovato, anche se non aveva dovuto faticare molto per scoprire dove fossi, dato che io e la strana donna profetica eravamo ad appena una ventina di metri da lì, nella piazzetta alberata di fronte al municipio.
Io lo guardai ed esitai per una manciata di secondi, scorgendo la sua espressione leggermente perplessa mentre aspettava che mi alzassi.
Rimasi fermo per un attimo, finchè l’oracolo non mi invitò ad andare da lui.
“Va, David. Va e vivi.” Mi diede una leggera pacca sulla spalla e mi sorrise; io continuavo a non sapere cosa dire.
Mi alzai dirigendomi verso l’auto, ma mi voltai a metà strada, senza fermarmi; camminai all’indietro per un paio di secondi perché non riuscivo –o forse non volevo- smettere di guardare quella strana donna. Lei continuava a sorridermi, dolcemente, distrattamente.
“Chi è quella?” Mi domandò Steve mentre aprivo il portello dell’auto; io scossi la testa e risposi che non avessi idea. Stavo per dirgli che sapeva il mio nome, ma mentre quelle parole mi stavano per uscire dalla bocca, qualcosa me le fece dimenticare, come se una volontà superiore volesse che non ci pensassi. Così come mi era accaduto tante volte, troppe volte.
Perciò, scossi nuovamente la testa e salì in auto.
“Beh… adesso possiamo andare, che ne dici?” Esordì sorridendo il ragazzo da Leonis mentre entrambi ci allacciavamo le cinture di sicurezza; mi strinse la mano per un attimo, poi girò le chiavi nell’interruttore. Il motore elettrico si avviò con un rapido e leggero suono elettronico, e così tutti i piccoli indicatori luminosi sul cruscotto si accesero.
Partimmo, questa volta diretti verso l’aperta campagna, dove avremmo poi imboccato la superstrada che ci avrebbe portato a Boskirk, capitale del pianeta, nella quale avremmo raggiunto lo spazioporto e preso il volo.
La gente era tranquilla, sorrideva, camminava per le strade immersa nelle proprie responsabilità; non avevano davvero idea di cosa li aspettasse dietro l’angolo, di che cosa tanto terribile ed indicibile gli si sarebbe scagliata addosso da lì a pochissimi giorni.
E’ incredibile pensare che la maggior parte di tutte quelle persone sarebbe morta nell’arco di settantadue ore. Incredibile e doloroso.
Mentre osservavo scorrere fuori dal finestrino le piccole palazzine, le villette e le aiuole fiorite che popolavano la piccola cittadina che avevo chiamato casa per un anno, sorrisi dando a Clairview l’arrivederci, con la consapevolezza che vi sarei presto tornato.
Non sapevo che quell’arrivederci fosse in realtà un addio, poiché molto presto, tutti i luoghi che avevo visto ed in cui avevo vissuto non sarebbero stati altro che una landa desolata e radioattiva. Compreso quello.

11.3 –“Partenze e ricordi.”
Ricordo che mentre attraversavamo la hall dello spazioporto di Boskirk, la mia attenzione venne catturata da una bambina bionda alta si e no un metro; avrà avuto sei anni, due occhi azzurri enormi e un sorriso teneramente sdentato, tipico per una piccola di quell’età.
Camminava dando la mano sinistra alla madre, mentre nella destra reggeva un fiore, una rosa di plastica, praticamente identica a quella che mi aveva regalato Steve, molto tempo prima.
Mentre camminava, la piccola fingeva di odorare il suo fiore e sorrideva, come se fosse una principessa a cui fosse appena stato fatto un grande dono.
“E’ inutile che la annusi, Zoe!” la canzonò la madre “E’ fatta di plastica, non ha profumo!” La sua voce riecheggiò nel corridoio vetrato e luminoso, nel quale rimasi immobile per un attimo osservando le sagome della madre e della figlia confondersi tra le tante altre in movimento; aggrottai le sopracciglia e guardai verso l’alto, domandando a me stesso dove avessi già sentito prima quel nome.
“Zoe…Zoe… Dove l’ho…Dove…”
“David?” Steven interruppe la mia improvvisata ricerca anagrafica interiore; mi voltai.
“Dai vieni, la nostra nave decolla fra mezz’ora!” Disse controllando l’ora sullo schermo monocromatico del suo cellulare; tornai in me e lo seguì, mentre lui ancora leggeva i piccoli numerini analogici in modo decisamente elegante. Quanto era bello quel ragazzo, quello con cui condividevo la mia vita, la mia mente, il mio corpo e la mia anima. Era davvero bellissimo, ed io lo amavo, silenziosamente, un po’ di più ogni momento.
Zoe Graystone!” Dissi.
“Cosa?” Chiese Steve non capendo cosa intendessi.
“Io… niente, mi chiedevo dove…dove avessi già sentito quel nome, Zoe…” Risposi incerto mentre il mio sguardo era fisso sulle astronavi di linea per il trasporto passeggeri, le quali stavano ‘parcheggiate’ sulle grandi piste asfaltate sul retro del terminal dello spazio porto che potevo vedere dalla vetrata; gli autobus per l’imbarco e lo sbarco attraversavano le piste portando  gruppi di  diverse decine di persone alla volta dal terminal alle singole navi e viceversa.
Infondo alla pista, Diverse astronavi erano già in fase di decollo verticale, altre si accingevano ad atterrare.
Alla destra del corridoio vi erano una decina di bar e negozi dove i viaggiatori si fermavano per qualche minuto a spendere una manciata dei loro sudati cubiti; uno schermo televisivo proprio accanto al fish and chips all’angolo della sala trasmetteva uno spot di una famosa agenzia di viaggi, la Eva Trek: una voce femminile presentava un meraviglioso centro sciistico sulle montagne di Aquaria, il gioiello di ghiaccio delle Dodici Colonie.
Il pianeta orbitava attorno ad Helios Delta, condividendo il sistema con Aerelon e Canceron, dov’ero cresciuto, e diversi altri pianeti sterili come Phoebe e il gigante gassoso Hestia.
Aquaria era noto per essere il mondo più freddo delle Colonie, data la sua posizione in un orbita particolarmente esterna ed ellittica attorno alla propria stella; a causa della sua estrema inclinazione, i raggi solari riuscivano a scaldarne la superficie in maniera veramente blanda, lasciando quel piccolo mondo, quasi completamente ricoperto da vasti oceani –come Picon, che però era al contrario un pianeta caldo ed accogliente- nella morsa del gelo e delle temperature glaciali. L’estate, se così si poteva chiamare, durava poche settimane e si registrava in quel periodo dell’anno solare in cui il pianeta al perielio rispetto al suo sole.
Vi era un solo continente che emergeva dalle gelide acque del pianeta, una massiccia formazione isolare e leggermente frastagliata sulle coste, puntellate di vulcani attivi, i quali in contrasto con il candore del frigido panorama, donavano all’ambiente un tono veramente suggestivo.
Vulcani gorgoglianti emergevano qua e là anche dagli oceani, facendo ribollire quelle poche regioni acquose che non si ghiacciavano durante l’inverno.
Pochi milioni di persone abitavano Aquaria, la maggior parte concentrate nella piana nevosa che ospitava la città più importante, Heim; la capitale –in realtà Aquaria non aveva una capitale, ma spesso ci si riferiva ad Heim con quel nominativo per comodità lessicale- si trovava in una delle zone più “calde” del continente, dove le temperature non scendevano, in genere, sotto i meno cinque gradi centigradi. Questo clima favorì nei secoli precedenti la nascita di moltissimi insediamenti turistici nella zona, dove cittadini da ogni angolo delle Dodici Colonie, giungevano per sciare e fare una vacanza sulla neve; negli anni precedenti alla prima guerra con i Cyloni, il pianeta trovava un concorrente in quanto a turismo su ghiaccio nel piccolo mondo di Djerba, un pianetucolo congelato utilizzato come resort scistico, localizzato in un sistema solare a pochi anni luce dalle Colonie. Djerba era poi divenuto una roccaforte dei Cyloni durante la guerra, ed anche al termine di essa, non venne più ricolonizzato, dato il basso valore che cominciò ad avere l’espansionismo in favore dell’isolazionismo.
“Il volo coloniale 5198 diretto a Caprica delle ore 10:23 partirà fra venticinque minuti; chiediamo ai gentili signori passeggeri di recarsi al check in per l’imbarco.”
Balenò nella grande sala già attraversata da migliaia di voci diverse.
La nostra nave era visibile dalla grande vetrata alla mia destra: lunga e stretta, ricordava vagamente un dirigibile, se non fosse per gli alettoni laterali posteriori; era il modello di trasporto civile più comune nelle Colonie, lo stesso modello della nave che ci aveva portati da Canceron a Virgon.
Sul suo scafo bianco, attraversato da linee e paratie blu, era inciso il logo della compagnia di volo, Gemon Liners, una delle agenzie più gettonate dopo la Intersun.
Ricorderò per sempre il viso della ragazza che controllò il mio passaporto: aveva gli occhi verdi, anzi verdissimi, sembravano fatti di vetro. E i capelli. Erano rosso fuoco, raccolti in una crocchia molto elegante che cedeva il posto sopra di lei al berretto della compagnia per cui lavorava.
Lei mi sorrise con una tale gentilezza che mi venne voglia di ringraziarla.
Aprirono il gate e ci fecero entrare nel connettore mobile; entrammo nell’astronave insieme al resto dei passeggeri e ci sedemmo ai nostri posti.
Non ricordo moltissimo dei secondi precedenti al decollo; in genere ricordo tutto di ogni momento della mia vita, ma quegli istanti… credo di non averli vissuti veramente.
E’ quasi come se la mia testa abbia deciso di censurarli dal mio subconscio facendomene ricordare pochi frammenti, non perché sia accaduto qualcosa di eclatante o sconvolgente, ma forse perché, inconsciamente, dato che teoricamente non potevo saperlo, mi rendevo conto di star dicendo addio alla mia amata casa.
Ricordo che Steven mi stava parlando di qualcosa che c’entrava con i mulini a vento su Leonis, che avevano qualcosa di diverso rispetto a quelli sugli altri pianeti, ma francamente non ricordo davvero i dettagli. Ricordo il suo sorriso, lui mi che mi tiene la mano, e subito dopo ricordo la spinta dei motori verticali per il decollo che si accendevano all’improvviso, e il panorama rimpicciolirsi sempre più fuori dal finestrino. Le nubi che ci circondano.

Virgon era sotto di noi adesso.
Sorvolammo tutto l’emisfero occidentale prima di lasciare l’orbita, per poter sfruttare l’effetto “fionda” della gravità ed utilizzare una potenza minore nei propulsori posteriori ma giungere a destinazione velocemente: nello spazio non c’è attrito, quindi se un’astronave viene lanciata ad una certa velocità, essa manterrà tale velocità fino alla fine del percorso –a meno che non si intervenga, si intende.
Guardando fuori dal finestrino potevo distinguere chiaramente i rilievi e le catene montuose sui continenti, i corsi d’acqua, le nubi, le luci delle città intensificarsi sempre più man mano che ci avvicinavamo all’emisfero immerso nella notte. Infine ci sollevammo definitivamente per lasciarle l’orbita.
Passammo accanto alla luna Hibernia: anche su di essa riuscì a scorgere le luci degli insediamenti e i tratti morfologici, come il grande fiume Erakle, che potevo vedere anche dal balcone di casa nostra durante le belle giornate. Più avanti mi sarei pentito di non aver mai visitato la nostra luna quando potevo; in determinati momenti dell’anno i biglietti costavano anche poco.
“E’ davvero bellissimo.” Dissi mentre osservavo fuori con la testa poggiata sul sedile; il pianeta e la sua luna si allontanavano a vista d’occhio.
“Si, lo è.” Rispose Steven.
“Sembra ancora più bello di quando ci siamo arrivati, non credi?” Disse una cosa a cui non avevo pensato; in effetti era così: quella sfera azzurra e rosata, in qualche modo, pareva ancora più affascinante e sicura del giorno in cui la vedemmo per la prima volta.
Quasi come se volesse dirci qualcosa; quasi come se quel pianeta, il nostro pianeta, volesse avvisarci che quella fosse l’ultima vista che avremmo mai preso su di lui.
Non potevamo saperlo, o almeno non potevamo essere certi che fosse così, nonostante da molto tempo io avessi degli stranissimi presentimenti dovuti ai miei sogni; ma si, non avremmo mai più visto Virgon.
Mai più.
Le Dodici Colonie avevano ormai i giorni contati, così come le nostre vite tranquille che stavano per essere irrimediabilmente cambiate e sconvolte da qualcosa di enorme.
Ma non potevamo saperlo in quell’istante, mentre ce ne stavamo seduti su due sedili in una cabina piena di passeggeri petulanti.




 
11.4 –“Distanze e orbite.”
Il viaggio fu molto più breve del precedente, solo cinque ore di volo rispetto alle quattordici che separavano Canceron da Virgon nel nostro precedente viaggio; le Dodici Colonie erano situate in quattro sistemi solari molto ravvicinati tra loro, un piccolo ammasso stellare soprannominato con il nome di Sistema Cyrannus, ammasso al quale per motivi di comodità lessicale ci si riferiva spesso come se fosse un unico grande sistema solare. Le quattro stelle che formavano il sistema  erano raggruppate in due coppie, le quali, alle estremità dell’orbita comune, ruotavano a loro volta le attorno a due orbite più ristrette larghe 140 unità astronomiche (diverse riviste scentifiche identificavano a volte l’ammasso stellare come formato da due piccoli sistemi solari binari, ma non è necessariamente vero, dato  che le distanze e le dimensioni degli oggetti bastavano a considerarli come sistemi solari a se stanti).
Le due “coppie” erano formate da Helios Alpha ed Helios Beta ad un’estremità dell’orbita, ed Helios Delta ed Helios Gamma all’altra: la distanza che separava i due sistemi binari era di circa un quarto di anno luce, o 10,091 unità astronomiche; trovandosi Virgon nel sistema Beta e Caprica nel sistema Alpha, il viaggio sarebbe stato molto più breve del precedente –che ci aveva visti attraversare tutto lo spazio vuoto tra Helios Delta ed Helios Beta.
Mi scuso per la pochezza che dimostro in materia e per la difficoltà a spiegare il concetto –probabilmente non si sarà capito nulla-, ma come ho ben imparato ai tempi del liceo, le discipline scientifiche non sono mai state il mio forte. Però devo dire che amavo l’astronomia, anche se con i calcoli non ci azzeccassi mai.
Così come per il decollo, non ricordo molto del viaggio, se non pochi momenti qua e là; ciò che non ho scordato è un discorso apparentemente privo di senso che ebbi con Steven a circa tre ore dalla partenza; ne mancavano altre due, ed entrambi eravamo ormai in preda alla noia. Ogni tanto mi voltavo verso il finestrino, ma fuori non c’era –ovviamente- nulla di interessante; solo oscurità e stelle lontanissime.
Ricordo che me ne uscì senza cognizione di causa con una domanda:
“Sai con cosa lavano l’insalata confezionata?” Dissi voltandomi verso di lui, prendendolo alla sprovvista.
“Eh?” Scosse la testa non capendo.
“L’insalata, l’insalata in busta. Sai come la lavano?” Ripetei sorridendo.
“Perché me lo chiedi?”
“Sai come?” Insistetti. Lui scosse la testa e inarcò le sopracciglia.
“Con il cloro! Non sono sicuro che faccia molto bene, sai?” Lo redarguì sull’argomento. In realtà non era stato affatto un caso il fatto di pensare all’insalata. Collegavo inconsciamente l’insalata in busta a Jennifer, la quale avevo sempre visto lavare freneticamente più e più volte prima di servire in tavola per il timore di rimanere avvelenata. Mentre ci annoiavamo per il viaggio mi resi conto di non averle telefonato prima di partire, poiché ero stato sorpreso da quella strana Dodona Selloi e dai suoi discorsi metafisici. Così, mi era venuta in mente l’insalata.
“Cloro, eh?” Annuì lui. Sorrise a sua volta e mi accarezzò i capelli.
“Beh, credo che nemmeno quella pappetta blu piena di ammoniaca che ti metti in testa per sbiancarti i capelli faccia molto bene.” Ridacchiò continuando ad accarezzarmi il folto ciuffo che mi arrivava fin dietro le orecchie.
“La pappetta blu che uso io è senza ammoniaca caro mio, ci tengo ai capelli!” Sorrisi e chiusi gli occhi. Rimase un momento in silenzio per poi riprendere:
“Va tutto bene?”
“Certo.”
“Sta accadendo qualcosa che non so? Sai, non ho ben capito chi fosse quella donna con cui parlavi oggi.” Effettivamente non aveva torto a chiederemi se fosse tutto ok. Non era per niente ok.
Scossi la testa e sprofondai nel sedile fissando il vuoto tra i sedili.
“A volte credo di impazzire. Cioè, te ne ho già parlato, ricordi? Mi sembra di vedere sempre qualcosa di strano in giro.” Sospirai.
“Si, ricordo, dicevi di temere di essere pazzo. Non credo tu lo sia.” Disse grattandosi la testa.
“Non so chi fosse quella. So che a causa sua mi sono distratto e non ho chiamato Jennifer prima di partire.” Ero leggermente seccato da quella situazione; odiavo –e odio- trascurare le persone, specialmente quelle più vicine a me.
“La chiamerai appena atterriamo dai.” Mi confortò. Sembrava non capire. Non si trattava solamente di quella chiamata; io non la vedevo praticamente da un anno. Avevo mancato alla mia promessa di tornare per l’estate, passata da ormai otto mesi, ora andavo fuori pianeta per una vacanza e nemmeno l’avvisavo.
“E’ mia madre, Steven. O almeno ciò che più ci si avvicina. Tu dimenticheresti così tua madre? Non credo…” Risposi turbato, e lui se ne rese conto. Mi prese la mano e rimase in silenzio.
I passeggeri attorno a noi stavano ancora parlando tra di loro del più e del meno, inconsapevoli, come lo eravamo noi, ma forse un po’ di più.



11.5 –“Contraccolpi e felicità.”
Fu l’urto con il finestrino a svegliarmi dal sonno profondissimo che mi aveva avvolto negli ultimi settantatré minuti di volo; pochi minuti prima di raggiungere l’anello esterno dell’orbita di Caprica, accadde qualcosa di inaspettato: il radar del pilota non captò la presenza di un frammento di metallo appartenente allo scafo di una vecchia nave da battaglia di classe Valkirye risalente alla prima guerra cylone; la nave, andata distrutta durante una delle battaglie finali della guerra, era stata ridotta ad un cumulo di detriti che galleggiavano a pezzi qua e là attorno alla stella, come se formassero una piccola cintura asteroidale.
Probabilmente fu per un malfunzionamento del dradis della nostra nave che ignorò la presenza di quell’ammasso di paratie mangiucchiate dalle antiche esplosioni e dalle pallottole che si erano beccate; il capitano se ne accorse proprio a pochi istanti dalla collisione, trovandosi costretto ad effettuare una brusca manovra evasiva che non evitò nemmeno del tutto il contatto con i rottami: nessuno di noi indossava le cinture di sicurezza, tant’è che fummo sbalzati dai nostri sedili andando a sbattere, io con la testa contro il finestrino, lui con tutto il peso del corpo contro il retro del sedile di fronte.
Mi svegliai di soprassalto e per un istante pensai a qualcosa che solo qualche giorno dopo sarei riuscito a spiegarmi:
“E’ già il momento? Ti prego, no!”
Poi tornai in me, mi guardai attorno agitando la testa in tutte le direzioni, vedendo gli altri passeggeri agitati quanto me: qualche bagaglio a mano era caduto dagli alloggiamenti sopra i sedili; le assistenti di volo cercavano di richiamare all’ordine ed alla calma.
“Signore e signori, per cortesia! Mantenete la calma! Non c’è motivo di temere!”
Steven era sveglio durante l’urto, ed aveva sentito lo sfregamento dei rottami sullo scafo della nostra nave, un rumore che avrebbe poi descritto come quello di un gesso su una lavagna.
“Stai bene?” Mi chiese aiutandomi a sedermi di nuovo al mio posto.
“Hai preso una bella botta in testa, fa vedere?” Chiese preoccupato.
“Non mi sono fatto niente, non preoccuparti!” Risposi toccandomi la testa per assicurarmi che fosse ancora lì e fosse tutta intera.
“Che diamine è successo?” Sentì balenare questa domanda qua e là nella cabina da una moltitudine di voci diverse.
Signore e signori passeggeri, per cortesia! Si è trattato di un piccolo incidente, non è nulla che il personale non possa gestire. Tornate a sedervi e preparatevi per l’atterraggio: saremo nell’orbita di Caprica tra meno di cinque minuti.”
Ridemmo dell’accaduto mentre ci ricomponevamo dopo il piccolo inconveniente che avevamo vissuto; ne colsi l’aspetto positivo: una cosa curiosa da raccontare a Jennifer quando l’avrei chiamata, e da narrare ai miei alunni quando sarei tornato su Virgon.

“Ci siamo finalmente”
Mi sfuggì l’esclamazione alla vista di ciò che si mostrava fuori dal mio lunotto: i due mondi gemelli, Caprica e Gemenon, che di simile non avevano proprio nulla; ne la geologia, ne il clima, ne l’aspetto, ne la popolazione, ne le usanze, ne il tipo di società; il primo, il gioiello dell’umanità, la capitale delle Dodici Colonie, il simbolo dell’avanguardia, del progresso, dell’imperialismo, coperto da acque limpide ed azzurre e da una florida vita vegetale; il secondo, un piccolo mondo arido e stepposo, povero ed arretrato, casa delle più antiche tradizioni e forme di culto della nostra società.

I due pianeti, che si scambiavano di posizione ogni ventotto giorni circa, condividevano la terza orbita nel loro sistema stellare e ruotavano insieme attorno a un baricentro comune, separati da una distanza di quattrocento novantatré mila chilometri; vi erano alcuni periodi dell’anno in cui i due mondi si trovavano più vicini tra loro, mentre altri in cui erano più lontani: la loro stretta relazione portava spesso, nei momenti di massima vicinanza, ad alcune spettacolari apparizioni nei cieli dei due pianeti, dalle cui superfici, sia di giorno che di notte, era possibile osservare l’altro (eventi che, data la rifrazione dei raggi solari sui due globi, tendevano ad illuminare con incredibile potenza le notti su entrambi i mondi, rendendole tutt’altro che oscure).
Sorvolammo Gemenon da una distanza più o meno ravvicinata, e guardando in basso da dove mi trovavo ne notai la conformazione arida e per lo più montagnosa: non c’era una grande vastità di vita vegetale sul pianeta, prevalentemente freddo e desertico, dall’aspetto rossastro ed argilloso.
Un vasto agglomerato di luci scintillanti si abbarbicava nei pressi di un’imponente catena montuosa innevata: capì che si trattava di Oranu, la capitale del pianeta; se fossimo atterrati lì avrei potuto osservarne il pittoresco skyline: in un mondo prevalentemente povero e popolato di case diroccate e templi infrattati sulle cime dei monti più alti, una città piena di alti grattacieli di cilindrici ed imponenti piramidi di vetro non poteva certamente passare inosservata!
Avevo visto delle foto di Oranu ovviamente, sia in rete che su qualche cartolina, ed il contrasto creato da uno sfondo impervio come quello delle montagne innevate e dei deserti stepposi posti di fronte ad un centro urbano splendente come quello, era un’immagine gradevole agli occhi, o almeno per me.
Ci avvicinavamo ora a Caprica. Penso che la maggior parte degli altri passeggeri non stesse vivendo quel momento allo stesso modo: per noi due era un evento, probabilmente per molti altri era solo un pezzetto di routine.
“Siete pregati di allacciare le cinture ed assicurarvi che il tavolinetto sia chiuso; inizieremo a breve la procedura di atterraggio e sbarcheremo nello spazioporto di Caprica City.”
Non tardarono ad arrivare i lievi scossoni dovuti alle manovre di discesa nell’atmosfera: mentre il nero dello spazio lasciava il posto al biancore delle prime nubi dell’esosfera, i contorni delle coste, le luci delle città e i rilievi montuosi sulla superficie apparivano gradualmente sempre più chiari e distinti. Gli scossoni si facevano sempre più forti.
Ad un tratto eravamo nuovamente circondati da nubi, ma stavolta molto più fitte e bianche, che ci impedivano di vedere all’esterno: ed ecco che ne uscimmo e fu chiaro che da lì a pochissimi minuti avremmo raggiunto la nostra destinazione.
La terra sotto di noi pareva virare, le città, ridotte a delle linee tracciate sui territori, scorrere una dopo l’altra; gli scossoni erano cessati, il volo era adesso dolce e fluido.
Ci avvicinavamo rapidamente ad un golfo semichiuso vicino alla costa, sulla quale sembrava esserci una grande città, i cui grattacieli erano visibili da chilometri di altezza.
Era lei.
Caprica City era di fronte –o meglio, sotto- a noi.
Una moltitudine di astronavi attraversavano il cielo sopra la città in tutte le direzioni, alcune in fase di decollo, altre in procinto di atterrare.
La manovra di discesa finale fu molto secca: potei notare all’esterno del finestrino, non molto più in basso rispetto alla mia posizione, degli sbuffi di scarico prodotti dai razzi di manovra sullo scafo, i quali posizionarono il velivolo nel giusto assetto mentre i motori sullo scafo inferiore producevano una nube di vapore sulla piattaforma di atterraggio.
E poi quel rumore tipicamente meccanico delle sospensioni che toccavano terra: “Clank”

Ed eravamo finalmente atterrati.
“Dei… ci siamo, grazie agli dei.” Disse Steven slanciando le braccia verso l’alto per stiracchiare il corpo indolenzito dalle ore di inattività su una poltrona che non gli sembrava più tanto comoda.
“Finalmente.” Risposi nel culmine della stanchezza. Ero davvero a pezzi; nonostante il viaggio non fosse stato troppo lungo, mi ritrovavo in una condizione di totale mancanza di energie; avrei scoperto che c’era un motivo.
I portelli vennero aperti ed i passeggeri cominciarono a sbarcare seguendo le direttive del personale: udivo il chiacchiericcio delle persone attorno a noi, il rumore meccanico dei montacarichi già in azione sotto la stiva della nave e il ronzio delle turbine che si spegnevano gradualmente nel retro del veicolo spaziale.
Erano le undici del mattino in quell’angolo del pianeta, e la luce entrava prepotente nella cabina da ognuno dei finestrini sulla paratia di destra.
Ci mettemmo in coda per scendere insieme agli altri.
La luce del sole era quasi accecante. Ricordo che non appena misi la testa fuori dal portello e mi ritrovai a tutti gli effetti sotto il reale cielo di Caprica chiesi a me stesso come i suoi abitanti facessero a sopportare quel candore così intenso.
Ad eccezione di Helios Delta –la stella di Canceron- che presentava uno spettro rossastro e di conseguenza più freddo, le altre tre stelle delle Colonie si trovavano, a livello di temperatura ed intensità spettrale, tutte nella fascia di vita principale, classificandosi come nane gialle; la stella di Caprica non era diversa, tuttavia, una particolare composizione gassosa all’interno dell’atmosfera del pianeta faceva si che i raggi del sole donassero all’ambiente un’illuminazione amplificata e dall’aspetto leggermente giallognolo –così come per Virgon il blu dato dai rispettivi componenti atmosferici.
“Non avrei dovuto mettere gli occhiali da sole nel bagaglio a mano, accidenti!” Imprecai mentre scendevamo i gradini della scala mobile; Steve rise vedendomi strabuzzare gli occhi in un’espressione assai buffa.
Salimmo a bordo dell’autobus automatizzato che ci avrebbe condotto presso al terminal del porto spaziale in cui avremmo effettuato il check-out per poter circolare liberamente nel pianeta.
Una cosa che avvertì nei primi attimi dopo aver messo piede su Caprica, fu la differenza dell’aria che stavo respirando rispetto a quella di Virgon a cui mi ero abituato: per quanto fosse un mondo con un tasso di inquinamento piuttosto basso, Caprica era sicuramente leggermente avvelenato dalla piaga dei combustibili fossili che ancora il governo non si era deciso ad abbandonare; moltissime auto con motore a scoppio circolavano ancora sul pianeta, che sebbene non fosse assolutamente al livello di Canceron per quanto riguarda lo smog, era meno puro di Virgon.
La hall del terminal dello spazioporto era la più affollata che avessi mai visto prima: avevo passato vent’anni della mia vita su Canceron, che con i suoi sei miliardi e mezzo di abitanti si aggiudicava la posizione di colonia pià popolosa, eppure non avevo mai visto così tanta gente tutta insieme nello stesso edificio. Ed era ben il terzo porto spaziale per il quale passavo.
Ovunque nella luminosissima sala vi erano lampade, vasi con arbusti, schermi digitali e tabelloni elettronici raffiguranti i diversi voli; ricordo che il mio occhio cadde su un grande teleschermo sulla parete leggermente curva nel quale, a caratteri neri su sfondo giallo vi era scritto “Welcome to Caprica, Capitol of the Twelve Colonies”; dietro al messaggio era raffigurato lo stendardo arancione ed azzurro delle Dodici Colonie, una forma che mi era sempre piaciuto disegnare fin da piccolo.
“Ci sei?” Mi chiese Steve voltandosi verso di me che, come al solito, ero indietro, perso ad osservare i dettagli attorno a me; è una cosa che ho sempre fatto e non solo quando arrivo in un posto nuovo, praticamente in qualsiasi situazione. A volte però può risultare sconveniente.
“Dobbiamo esibire il visto prima di uscire altrimenti ci sbattono sulla prima nave diretta fuori pianeta e tanti saluti alla vacanza!” Disse mentre si chinava per aprire il suo bagaglio a mano e recuperare i documenti.
La ragazza che esaminò le nostre credenziali ci sorrise e molto garbatamente ci pose le solite domande di protocollo che doveva farci.
“Siamo su Caprica per una breve vacanza di studio, è tutto scritto qui, nel contratto.”
Disse Steve toccando con l’indice la riga sul fascicolo che la sua accademia gli aveva fornito, spiegando brevemente a parole all’hostess cosa ci portasse alla capitale.
“Benvenuti su Caprica, vi auguro una piacevole permanenza nel nostro mondo!” Sorrise ancora una volta, e noi anche. Nessuno di noi si accorse che Steve lasciò inavvertitamente cadere la tessera magnetica della patente, la quale rimase inerme sul pavimento. Sarebbe stata la stessa hostess ad accorgersene più tardi, e quel dettaglio ci avrebbe salvato la vita ventiquattro ore più tardi.

A sinistra, collocata tra una serie di vetrate e di intercapedini in marmo, la porta di ingresso della struttura; oltre la porta, una piazzola alberata dove diversi passeggeri attendevano l’arrivo del taxi o di un parente che venisse a prenderli.
Lo spazio porto si trovava poco lontano dal centro; gli imponenti grattacieli di vetro e dal design ultra moderno erano a poche centinaia di metri da noi e li guardavo con la testa rivolta verso l’alto e l’espressione sbalordita, mentre diversi velivoli sorvolavano la zona passando in mezzo alle grandi strutture urbane, considerate da sempre l’apice dell’ingegno e della magnificenza umana. Credo che noi umani ci sopravvalutassimo un poco e peccassimo di superbia al tempo, ma l’abbiamo pagata tutta, poi.
Taxi!” Gridai alzando la mano per farmi vedere. Steve stava ingegnandosi per capire sulla cartina della città in che luogo si trovasse l’albergo dove avevamo pernottato per i due giorni seguenti.
“Dovremmo metterci non più di venti minuti in auto, anzi forse meno!” Disse riponendo la sua cartina nella valigia. L’aria era fresca, non fredda da necessitare un cappotto, ma non calda abbastanza da poter girare senza almeno un maglioncino leggero. Era curioso che Caprica City si trovasse in una regione del pianeta in cui in quel momento era primavera, esattamente come lo era a Boskirk, su Virgon. I due pianeti sembravano sincronizzati, ma era solamente un’illusione, poichè nell’emisfero opposto di Caprica fosse pieno inverno.
Dato che il taxi non arrivava, Steve si avvicinò a me e mi abbracciò guardandomi negli occhi, sorridendo, e di riflesso avvolsi le mie braccia sopra le sue spalle ed attorno al suo collo; le sue scesero sulla mia vita.
“Sei felice di essere qui?” Chiese, mentre i clacson delle auto si facevano sentire non poco sulla strada.
“Assolutamente si.” Mi guardai attorno “Siamo sulla capitale, frak!!”
La capitale delle Dodici Colonie di Kobol.
Caprica era da sempre stata la sede di ogni aspetto della cultura e dei costumi della società umana; il centro, il cervello, il punto nevralgico, il nesso centrale. La capitale.
Non fu il primo pianeta del sistema ad essere colonizzato dai nostri antenati esuli da Kobol; studi archeologici del secolo scorso hanno rivelato che il primo sbarco di coloni umani nei Dodici Mondi avvenne su Gemenon, gemello di Caprica e chiamato da allora “la colonia antica”.
Da Gemenon, le dodici tribù si sarebbero sparpagliate nel corso degli anni seguenti nei quattro sistemi, scegliendo in ognuno di essi il pianeta su cui stabilirsi.
Per secoli le Dodici Tribù si erano combattute aspramente per la supremazia, il denaro e il potere; per tempi lunghissimi le colonie più ricche, come la stessa Caprica, avevano sfruttato le più povere, Sagittarian e Gemenon. Le ostilità sarebbero cessate con l’avvento dell’era contemporanea e, dopo la guerra dei Cyloni, le Dodici Colonie si sarebbero unite in un unico governo giurando di non combattersi mai più per motivi futili, fino ad arrivare al periodo di relativa pace che stavamo vivendo in quegli anni. Quel periodo che sarebbe finito nell’arco di meno di quarantotto ore, portandosi via tutto ciò che per duemila anni aveva costituito la nostra storia.
“Eccolo!” Esclamai notando che un taxi si era fermato per noi. Finalmente, cominciavamo a muoverci.

Fu un sollievo distendermi sul letto matrimoniale avvolto da un leggero copriletto bianco che celava una trapunta piuttosto sottile; i cuscini gonfi e ricurvi riportavano dei ricami color panna che si diramavano dal centro verso l’esterno.
Le due porte vetrate si affacciavano sul balcone dal quale, trovandocisi al quarto piano, era possibile osservare un pizzico di dettagli in più del panorama urbano, a partire dai neon sulle strade trafficate, fino alle cime dei grattacieli che si perdevano quasi tra le nuvole, anch’esse trafficate.
La luce inondava la stanza tinta di bianco, e si rifletteva sul televisore, i cui due schermi verticali erano incastonati nella parete di fronte al letto, e separati da circa venti centimetri di distanza l’uno dall’altro.
Mentre Steve riponeva i bagagli accanto all’armadio (che tra l’altro era più grande di quello che avevamo nella nostra casa), accesi la televisione e feci scorrere distrattamente i vari programmi: su Cap News, un uomo pallidissimo e con i capelli grigi annunciava che la cerimonia per il disarmo della Battlestar Galactica, che si trovava in quel momento in orbita di stazionamento nello spazio vuoto tra Helios Alpha ed Helios Beta, si sarebbe svolta nelle ore seguenti, e che una delegazione di giornalisti, turisti, sacerdoti e perfino politici, tra cui Laura Roslin, fosse appena decollata da Caprica per recarsi sulla famosa astronave, per assistere al congedo dell’ultima nave da battaglia che aveva servito durante la guerra dei Cyloni.
Nel canale successivo la trasmissione riempì i due schermi con immagini diverse: sullo schermo di destra, una donna di colore con i capelli a caschetto neri, un tailleur rosa con un doppio petto a bottoni grandi, degli orecchini di perla ed un sorriso molto rassicurante, presentava la settimanale intervista ad uno dei personaggi di spicco della società.
Alle sue spalle, erano riposte su di una parete blu la bandiera nazionale di Caprica ed un vaso di fiori dai toni rossastri. La musica iniziale accompagnò le sue parole:
“Buongiorno signore e signori, sono Kellan Brody. Per tutti coloro che partecipano al gioco della Piramide su Gemenon, benvenuti su Spotlight, il nostro programma settimanale di interviste dedicato a persone che fanno notizia a Caprica.”
Sullo schermo di sinistra, l’intervistato fingeva di non guardare nella telecamera, mostrandosi perso ad osservare il panorama all’esterno della sua finestra –si trovava in collegamento dalla sua abitazione.
“Oggi noi parleremo con il dottor Gaius Baltar” proseguì Kellan, mentre lui faceva un cenno con la testa guardando lo spettatore dritto negli occhi; sorseggiò poi un goccio d’acqua.
“vincitore di tre Premi Magnet nel corso della sua carriera. Figura di culto per i media e amico personale del presidente Adar, sta attualmente lavorando come consulente sui problemi informatici per il Ministero della Difesa, ma forse più conosciuto per il suo controverso punto di vista riguardo al futuro impiego della tecnologia.”
In quel momento, sul viso di Gaius Baltar era perfettamente riconoscibile il senso di compiacenza provocatogli dagli elogi della conduttrice; la sua posa aristocratica ed altolocata sulla poltrona ne evidenziava l’appartenenza all’elite della società, un qualcosa di falso che sarebbe durato ancora molto poco.
La camicia rosa accostata ad una giacca grigia a righe recuperata da una delle migliori linee primaverili di Caprica e Virgon; i capelli castani leggermente mossi ed un sorriso beffardo.
“Non se la tira un po’ troppo? Guarda che faccia che ha! Sembra che ce l’abbia solo lui!” Rise Steve dall’angolo della stanza, facendo ridere anche me. Aveva ragione in effetti.
Avremmo scoperto tempo dopo quanto Gaius Baltar potesse essere un pallone gonfiato.
“Dottor Baltar, le do di nuovo il benvenuto.”
“Grazie Kellan”
Esordì Baltar con un tono smielato e corrugando ulteriormente la fronte al punto da sembrare quasi finto.
“Prima di tutto vorrei dirle che lei è molto affascinante e secondo che è un grande piacere partecipare al vostro show.” L’espressione sul suo viso si fece ammiccante.
Kellan rise prima di continuare.
“Siamo lieti di averla con noi. Le dispiacerebbe riassumere il suo punto di vista per il nostro pubblico?” Chiese la donna con tono cordiale.
“Lo farò con piacere! La mia posizione è molto semplice: il divieto di ricerche di sviluppo riguardo all’Intelligenza Artificiale è come sappiamo tutti un retaggio della guerra dei Cyloni. Molto francamente trovo che questo sia un concetto antiquato, non serve a nessuno scopo utile…”
“Hey!” Sbottai quando Steven spense la televisione per farmi uno scherzo.
“Non lo starai seriamente ascoltando?” Rise sdraiandosi accanto a me sorridente.
Sorrisi anche io, e poi risi. E poi passò un po’ di tempo.

11.6 –“Esplorazioni e domande.”
L’attesissima prima di “Glastone Bourg Flowers” si sarebbe tenuta la sera seguente, perciò avevamo tutto il pomeriggio, la sera e il giorno seguente a disposizione per esplorare Caprica City, la città che chiunque, a prescindere da quale mondo venisse, avrebbe dovuto visitare almeno una volta nella vita.
Dopo aver riposto i nostri leggeri bagagli a mano nella stanza del nostro albergo ed esserci presi qualche momento per noi , decidemmo di uscire e fare un piccolo tour armati di cartina.
Il nostro albergo, un grazioso alberghetto sulla Swinton Street, parallela ad una delle vie centrali della città, era un piccolo edificio rettangolare di sette piani, alla cui infrastruttura di cemento armato bianco si sovrapponevano ampie vetrate che donavano alle camere un’illuminazione davvero eccellente. Dal terrazzo sull’ultimo piano, provvisto di bar e tavolini per la colazione o il break pomeridiano, era possibile osservare in lontananza il famoso Pantheon Bridge, uno dei ponti che attraversava la Caprican Bay, unendo il centro urbano di Caprica City alla zona suburbana situata sull’altra sponda del fiume. Il Pantheon Bridge era stato costruito esattamente novantotto anni prima ed era stato considerato per quasi un secolo il ponte più grande del pianeta, per un centimetro. Perse il primato con la costruzione del Nausicaa Overpass, un mastodontico ponte autostradale posto sullo stretto che separava i continenti di Lamos e Metis, per una lunghezza di centotrentadue chilometri sulle acque dell’Enipeus Sea, nelle regioni centro occidentali. Il ponte venne costruito subito dopo la guerra dei Cyloni e, come tanti altri monumenti sorti in quegli anni un po’ ovunque nelle Colonie, doveva simboleggiare la rinascita dopo il buio decennio che l’umanità aveva appena trascorso.
Steve teneva sempre con se la cartina ed analizzava con lo sguardo, come del resto facevo anche io, ogni singolo monumento che incontravamo nelle varie piazzole a fianco della strada.
“Questa città è fantastica, non riesco a credere di essere qui!” Disse Steve sorridendo come un bambino mentre i suoi occhi impazzivano per la moltitudine di bellezze a cui erano sottoposti.
Un tratto dominante del suo carattere era senza dubbio la spontaneità, che lo portava a gioire per ogni nuova esperienza, specialmente una tanto attesa come questa.
Era trasparente, schietto, senza troppi fronzoli e se doveva dirti una cosa lo faceva, senza star troppo a pensare se potesse essere carina o meno. Ammetto che questo dettaglio alle volte ci abbia fatto litigare un po’, ma nulla di che. Quel momento era per lui un tripudio di emozioni, emozioni che apparivano chiare sul suo volto, felice e contento come quello di un bambino che riceve un regalo.
Passammo di fronte a diversi edifici importanti del centro della città, diversi luoghi storici ed iconici; non lontano dal molo principale ci imbattemmo nella cosidetta “Little Tauron”, un quartierino malfamato pieno di piccoli bazar dove i Tauroniani commerciavano secondo i loro costumi; in passato sarebbe stato veramente molto pericoloso trovarsi in una zona simile della città, ma per fortuna le cose stavano andando meglio.
L’Atlas Arena era l’edificio sportivo più importante della città, e la sua imponente struttura biancastra e ondeggiante emergeva dal livello della strada, tra i parchetti inverditi e i moderni grattacieli in vetro ed acciaio: nell’arena venivano disputati gli incontri delle più prestigiose squadre di Pyramid delle Dodici Colonie, e migliaia di tifosi gremivano gli spalti del palazzetto facendolo tremare con le loro grida, sventolando bandierine dei colori dei loro favoriti.
Fu interessante il momento in cui ci trovammo di fronte ad un piccolo edificio dismesso e chiuso da delle transenne arrugginite; faceva un certo contrasto vedere una bettola tanto malmessa in una città così apparentemente perfetta ed impeccabile.
“Quello è il GDD” disse Steven indicando i vetri rotti del secondo piano “Era il dipartimento della difesa globale, fino a quarant’anni fa.” Aggiunse.
Ricordai di aver letto a proposito di quell’organo di polizia durante le mie ricerche su Virgon; il GDD era stato sciolto dopo la fine della guerra Cylone, per via dell’unificazione sotto un unico governo per tutte le Dodici Colonie; venne rimpiazzato da un nuova gerarchia poliziesca che dipendeva direttamente dal gabinetto presidenziale.
Lo stupore mi pervase nello scoprire che a pochi –anzi, pochissimi- passi dalle rovine del GDD si trovasse l’isolato che ospitava la Wilson Elementary School, la scuola elementare riaperta di recente che avevo visto in televisione durante quel notiziario in cui era apparso il ministro dell’educazione Laura Roslin. Mi avvicinai ed entrai nella piazzetta: era così bello trovarmi di fronte all’atrio di una scuola, pensando a quello che sarebbe stato il mio futuro professionale. I grattacieli svettavano oltre il tetto della piccola e graziosa scuoletta, mentre il sole inondava di giallo tutto attorno a me.
Ricordo che mi colpì molto la statua di Icaro all’ingresso di Orpheus Park, una delle distese verdi più grandi della città, poiché era identica a quella che per anni avevo osservato vicino alla stazione rosa dei treni Lev di Lewdan, su Canceron. Il luogo dove per altro io e Steven ci eravamo conosciuti. Entrammo quindi nella riserva che portava il nome del dio Orfeo e ne percorremmo il marciapiede  che disegnava il perimetro, senza addentrarci troppo nelle zone boscose.
Era bellissimo, tutte quelle piante verdi e rigogliose che ospitavano uccellini cinguettanti, i lampioni ancora spenti e le panchine in ferro battuto nero.
Il marciapiede andava in salita e si arrampicava su una collinetta verde, dalla quale era possibile osservare un po’ meglio la struttura di Caprica City e del meraviglioso ambiente naturale che la circondava: innanzi tutto va detto che il centro urbano che brulicava di grattacieli ultramoderni e slanciati si trovava su una penisola situata in un golfo chiuso da uno stretto che lo separava dall’oceano di Tethys, la cui influenza sul clima si faceva sentire rendendolo tra i più miti del pianeta. Diversi ponti, tra cui il sopra citato Pantheon Bridge, collegavano la penisola sia con la zona suburbana che la circondava oltre le acque dei due fiumi, sia con l’isola verde di Hermes distante appena ottantasette metri.
Attorno alla baia che ospitava la penisola immersa nelle acque fiumane che conducevano all’oceano, si ergevano importanti montagne innevate sulla cima e tappezzate di abeti verdissimi su tutto il pendio; dalla collinetta su cui ci trovavamo mi sembrava di poterli quasi contare, da quanto riuscivo a distinguerli mentre si arrampicavano immobili sui crinali rocciosi.
L’erba era verdissima, probabilmente la più verde che avessi mai visto, e sulla cima della collinetta abitava un’altra panchina, accompagnata da un lampione e una manciata di alberi dalle fronde esuberanti.
“Sediamoci qui un attimo!” Mi invitò Steve ad accomodarmi accanto a lui; alle nostre spalle i grattacieli di vetro scintillavano sotto il sole giallastro del primo pomeriggio. I velivoli sfrecciavano facendo non poco rumore nei cieli della capitale delle Colonie.
“Non pensavo che avrei visto così tante cose in vita mia…” Sospirai sorridendo mentre mi appoggiavo allo schienale con il gomito. Lui mi ascoltò.
“Sono cresciuto su Canceron e per vent’anni non ho avuto molte pretese dalla vita, non che là non fossi felice, anzi…” Uno shuttle volò non molto lontano da noi spaventando gli uccellini.
“Poi sei arrivato e … hai cambiato tutto.” Gli sorrisi scuotendo leggermente la testa.
“Non sapevo di avere questi super poteri!” Rise Steve, scostandomi i capelli biondi dal viso, in netto contrasto con i suoi scuri.
“O forse sei strano!” Ribattei scherzosamente alla sua affermazione poco modesta. Lui rispose con un sorriso silenzioso, perdendosi con lo sguardo tra le montagne verdi e innevate di fronte a noi.
“Sai” esitai un momento “Ho una strana impressione.” Mi guardai attorno per poi sistemarmi con la mano i capelli spettinati dal vento, riordinandoli con la riga sul lato destro.
“Un’impressione?” Chiese Steve raddrizzandosi ed osservandomi chinando la testa.
“Si è come se… come se sentissi che su questa panchina si fosse seduto qualcuno di molto importante, una volta.” Qualcosa nell’aria che ci accarezzava il viso spettinando il mio caschetto e il suo ciuffetto, sembrava sussurrarmi strane parole.
“Non so, è come se avvertissi che in questo parco sia accaduto qualcosa di terribile, molti anni fa… ma non so spiegarmelo.”
“…e sarei io quello strano?” Rise, lasciandomi per un attimo perplesso. E che avrebbe dovuto dire? In effetti era una cosa strana, ed io ero una persona strana e non poco. Una risata era più che appropriata.
Perciò, nel dubbio, risi anche io.
“Comunque c’è una cosa che ancora devi vedere, biondino.” Mi toccò il naso con l’indice e sorrise.
“Ovvero?”
Leonis!” Sorrise compiaciuto. Non era la prima volta che mi prometteva di mostrarmi il suo mondo natale, in un futuro che lo permettesse economicamente; data la nostra crescente esperienza nel viaggio intercoloniale, non avevo motivo di dubitare che un giorno avrei messo piede sul pianeta più caldo ed orgoglioso delle Colonie. E pensare che in primavera era possibile vederlo sotto forma di un puntino rosso durante i primi vespri dal nostro emisfero di Virgon, trovandosi nello stesso sistema solare. Non potevo immaginare che non sarebbe mai stato così.



11.07 –“Tramonti e proposte.”
Il sole incominciava ormai a calare, ed est si faceva sempre più vivido il globo di Gemenon, investito dai raggi del sole giallo attorno al quale i due pianeti orbitavano. Il cielo si tingeva di  un arancione famigliare che mi ricordava molto il luogo in cui ero cresciuto. Il sibilo dei propulsori dei velivoli che solcavano i cieli della capitale era sempre presente, a tratti gentile a tratti prepotente, ma non smetteva mai di risuonare sopra di noi.
Ci trovavamo in un parco molto famoso nella zona suburbana di Caprica City, un luogo di ritrovo per le famiglie che si riunivano a giocare con l’acqua insieme ai figli usciti da scuola, un posto che aveva assunto nel corso degli anni il nome non ufficiale “The Riverwalk Market”.
Il parco era di forma rettangolare ed ospitava al suo centro una piscina nella quale era ovviamente vietato entrare, e dalla cui superficie emergevano delle fontane intermittenti; era inoltre circondato da un edificio in cemento armato grigio alto si e no dieci metri che formava una sorta di foro attorno alla zolla verde: l’edificio ospitava un piccolo campus, uffici turistici, negozi di abbigliamento e qualche bar, e la sua particolarità stava nella sua struttura, in quanto era sorretto da una serie di robusti piloni di circa tre metri d’altezza. Da ovunque nel parco, si poteva quindi osservare l’ambiente che circondava l’edificio, dalle montagne innevate ad est, i grattacieli della città a nord e la baia che la racchiudeva. Il luogo era disseminato di piccoli chioschetti che in alcuni giorni della settimana ospitavano mercatini di antiquariato, vestiario ed artigianato, tavolini dove sorseggiare un drink all’aria aperta e spettegolare con gli amici e numerosi cespugli verdi e squadrati.
Una miriade di bambini scorrazzava sui gradini cementati che precedevano l’erba gridando e sghignazzando, presi dai loro divertimenti. Notai che alcuni di loro indossassavano delle maschere che riprendevano la forma degli elmetti dei centurioni Cyloni che avevano messo a ferro e fuoco i nostri mondi quarant’anni prima. Sebbene potesse far sorridere il fatto che si divertissero così tanto, trovai leggermente di cattivo gusto quel genere di giocattoli; quei bambini non sapevano quale tipo di terrore avevano rappresentato per i nostri genitori quegli elmetti monocolari. Nemmeno io in realtà lo sapevo.
Non lo sapevamo.
Non ancora.
Steve osservava soddisfatto le bandiere delle Dodici Colonie infisse alle pareti esterne del campus, ma la mia attenzione fu catturata da quella che sembrava essere la figura di una donna… una donna biondissima, dai capelli mossi e perlacei.
Sgranai gli occhi, non essendo certo di averla vista davvero; era lontana, all’altro estremo del parco, ed era di spalle; indossava un cappotto violaceo e stava a braccetto con un uomo dai capelli leggermente mossi e castani, un po’ più basso di lei.
“David!”
Mi voltai verso Steve perdendo immediatamente il ricordo della presunta immagine che avevo visto.
“Vieni, da qui si vede tutto!” Attraversammo il perimetro del campus e ci trovammo su un marciapiede che correva lungo la riva del fiume che separava la terra ferma dalla penisola su cui si trovava il centro della città. Era bellissimo.
Ci appoggiammo entrambi al corrimano del marciapiede. Gli imponenti grattacieli di fronte a noi si riflettevano sull’acqua del fiume, mentre le prime luci venivano accese al loro interno. Il sole tramontava e con lui, la città, la vita, le Colonie stesse, in tutti i sensi. Un astro molto luminoso cominciava a splendere: era in realtà un pianeta, il piccolo mondo oceanico di Picon che stazionava nella seconda orbita attorno alla stella, particolarmente visibile in primavera.
Mi voltai verso di lui, nel suo maglione rosso, bello impettito…eppure, c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Evitava il mio sguardo, come se qualcosa non andasse. Mi preoccupai per un attimo e dopo averlo guardato di nuovo mi feci avanti.
“E’ tutto ok?”
Annuì in silenzio per qualche secondo prima di rispondere a voce. Non ne ebbi la certezza ma mi parve di sentire che deglutì in modo piuttosto rumoroso.
“Si… è tutto ok!” E scoppiò a ridere. Nervosamente. Arrossendo.
Lo guardai con un’aria leggermente stranita scuotendo la testa in segno di disappunto.
“Sei sicuro?” Chiesi.
Annuì nuovamente, trattenendo un’altra risata tra i denti.
La torre degli uffici amministrativi della città svettava imperiosamente su tutti gli altri edifici, con la sua forma a pinnacolo slanciata verso il cielo, per un’altezza di quasi ottocento metri.
Qualcosa mi suggerì che forse Steven volesse dirmi qualcosa ma non era certo di riuscirci: avevo avuto questa sensazione già diverse volte nelle settimane precedenti. Bella o brutta che fosse, forse era il momento migliore per dirmi quella cosa, di qualsiasi fosse la sua natura.
I rumori della città erano la colonna sonora di quei freschi e piacevoli istanti. Il globo di Gemenon dominava prepotentemente il cielo rosato di Caprica City, e l’aria era carica di promesse e di una sottaciuta felicità. Non parlarne in quel momento avrebbe significato sprecare un’occasione unica, ma sappiamo quanto il nostro intelletto sia fallace in certi momenti.
Mi persi nel seguire con lo sguardo una navetta che sfrecciò verso le cime dei grattacieli per perdersi fra di essi.
“David” Mi voltai.
“Lo sai che ti amo, vero?” Disse Steve assumendo un tono serissimo. La sua mano sfiorò la mia.
“Certo” risposi.
Allora sposami

Sbam.

Ricordo che ebbi la sensazione che tutto attorno a me fosse come ovattato, racchiuso nel cellophane o qualcosa di simile. Ebbi un flash di me, alle elementari, su Canceron, mentre Jennifer mi aspettava fuori da scuola al pomeriggio. Vidi me stesso correrle incontro ridendo e udì la mia risata riecheggiare nell’aria attorno a noi. Non capì il motivo di quel flash, ne lo capisco adesso onestamente. Le parole di Steve dovevano proprio avermi scioccato.
Ed in un attimo fui di nuovo lì, nel mio corpo, di fronte a lui che mi sorrideva serioso ma sembrava essere leggermente in ansia. Piuttosto in ansia anzi. Del resto non è mai una domanda facile, spesso molti si spaventano quando viene loro fatta, nonostante la chiarezza dei loro sentimenti.
Le barche erano ancora ormeggiate al molo vicino a noi, i grattacieli ancora in piedi, i bambini ridevano ancora nel parco.
Con uno sforzo immane, richiamai tutta l’aria che avevo in petto per pronunciare un affaticato e tremolante sì.
Mi sembrò di toccare il cielo, anche se le mie membra sconvolte non riuscivano a dimostrarlo.
E per un attimo parve che una dolce musica danzasse nel mondo che ci circondava, celebrando la gioia di quel momento per qualcosa che stava per accadere. Era proprio vero che l’aria fosse carica di promesse.
Ricordo che quella notte, prima di addormentarmi avvinghiato al suo corpo, sorrisi pensando a quanto fosse meraviglioso il futuro che ci attendeva, e credetti di vivere in una sorta di favola nel mondo reale.
Presto, qualcuno mi avrebbe però ricordato che le favole sono solo storie.

11.8 –“Preoccupazioni e bagliori.”
Se non si crede a nulla di trascendentale e di spirituale, si potrebbe pensare che certe cose siano solo dei casi; la così detta “ironia della sorte” che sembra pervadere la nostra esistenza, distribuendo gioie e dolori per mano di Zeus che con le sue saette colpisce uomini senza motivo.
Fortunatamente (o purtroppo?) io non sono così, e sono quasi del tutto certo che lassù qualcuno vegli su di noi, così come sono certo che le cose avvengano per una ragione.
Se non fosse così, avrei compreso solo a metà l’incredibile dettaglio che ci salvò la vita quel giorno, il giorno in cui le Dodici Colonie vennero distrutte; se non fosse stato per quel piccolissimo contrattempo, io Steven saremmo probabilmente morti come tutti gli altri e non saremmo stati diversi dalle altre decine di miliardi di vittime.
Fu il cellulare che suonava a svegliarmi dal sonno; era il telefono di Steve che per qualche ragione si trovava accanto a me.
Sgranai gli occhi e vidi che erano solo le 5 e quarantacinque del mattino, ed il numero che stava chiamando era sconosciuto. Provai a svegliare Steve che emise un mugugno infastidito, così mi auto concessi il diritto di rispondere personalmente alla chiamata.
“Pronto?” Cercai di parlare nel modo più chiaro possibile nonostante il sonno.
“Signor Sanchez?” Disse una voce femminile.
“Si ehm, no mi scusi, sono il compagno… chi parla?”
“Sono un’assistente di volo della compagnia con la quale avete volato, devo avvertirvi di un contrattempo che si è causato.”
“Un contrattempo?” Avevo ancora gli occhi chiusi.
“Purtroppo il signor Sanchez ha erroneamente lasciato qui il suo documento di circolazione, la sua patente. Ce ne siamo accorti solo ieri sera e vi abbiamo chiamato quanto prima! E’ importante che venga a recuperarlo immediatamente per evitare problemi per il re imbarco!”
Trattenni un’imprecazione “… Grazie signorina arriviamo subito.”
Sbuffai, guardai Steve che dormiva e sospirai di nuovo.
“Steve… alzati.”



Ci trovavamo di nuovo in uno spazio porto, cosa che ormai mi sembrava di fare continuamente.
La mia vita, la nostra vita, sembrava così piena delle medesime esperienze, come se fossimo destinati a quel tipo di routine; me ne stavo seduto sul divanetto accanto al rivenditore di caramelle per bambini, quelle rotonde e colorate con quel sapore dolce e stantio che personalmente ho sempre trovato nauseante; la signora seduta a un metro da me leggeva una rivista, credo fosse The Caprican, e ne sfogliava le pagine con molta calma, una calma quasi innaturale: aveva le gambe accavallate, e leggeva un articolo su un particolarissimo tipo di orchidea che cresceva soltanto nelle valli delle regioni nord occidentali di Scorpia, solo lì e in nessun altro posto nelle Colonie.
Che cosa meravigliosa, i fiori.
Che artificio di pazzesca conformazione ha creato la natura.
E pensare che non ne crescono su Tauron.
Su Tauron non esistono fiori, non crescono, non ne nasce nemmeno uno. Non esiste una vera spiegazione scientifica a riguardo, ma su quel pianeta non esistono fiori.
In effetti sarebbero state così le nostre vite, pensavo in quel momento; se Steve fosse riuscito nel suo intento e fosse diventato una star… che cosa ne sarebbe stato di noi due?
Se fosse realmente arrivato a quella meta probabilmente la nostra vita di coppia ne sarebbe stata fortemente condizionata, se non del tutto. Un cantante famoso si trova continuamente impegnato in tournè, interviste, tabloid, registrazioni, esibizioni… non ha mai un secondo per se, figuriamoci per la persona amata.
Non è certo un caso che la maggior parte delle star divorzi dopo pochissimi anni di matrimonio.
Ammetto che quei pensieri mi preoccupassero e che di tanto in tanto si facessero vedere nella mia mente che, normalmente, li rifuggiva per via della loro astrattezza: mi sembravano lontani e impalpabili e del resto non potevo essere certo di come sarebbe stato il futuro, per quanto ne potevo sapere un autobus avrebbe potuto investirmi da lì a pochi giorni e a quel punto tutto il resto non sarebbe più significato nulla, no?
In un certo senso era così, ma non lo sapevo ancora; lo avrei scoperto circa dieci minuti più tardi.
La luce penetrava generosamente dalle vetrate sulla parete curva del terminal, puntellata di lampade dalla luce soffusa che donavano alle ore serali un’atmosfera quasi piacevole.
Sulla parete dietro di me era infisso il tabellone elettronico che informava i passeggeri sui prossimi voli, sulle destinazioni e sui loro orari, ed accanto ad esso erano posti una moltitudine di teleschermi elettronici che raffiguravano diverse località turistiche nelle Dodici Colonie; alla sinistra del divanetto grigio su cui sedevo vi era un vaso con un alberello alto circa un metro e ottanta centimetri; piante similari erano disseminate un po’ ovunque nel terminal.
“Eccomi, c’era un po’ di coda al bancone.” Disse Steve porgendomi un bicchiere di plastica contenente un cappuccino acquistato alla caffetteria  nella hall, dato che eravamo corsi a prendere i suoi documenti al terminal senza aver fatto colazione.
“Prego, signor Sanchez!” Ridacchiò.
Si sedette al mio fianco e distese le gambe poggiandole sulla poltrona di fronte.
“Abbiamo già deciso che sarò io a prendere il tuo cognome?” Chiesi ridendo in modo sarcastico ed appoggiando la testa alla mano destra.
“Ma certo! Sanchez è un nome da duri!”  sorrideva mentre fissava le cime dei grattacieli di Caprica City perdersi nella foschia fuori dalle finestre dello spazioporto.
“Oh beh, io ho proprio l’aspetto di un duro, vero?” Risi ancora.
“Già, non proprio, infatti. Con questi capelli poi!” Disse accarezzandomi la testa.
Guardai di fronte a me: era una visione piuttosto suggestiva effettivamente: quegli imponenti grattacieli dal design modernissimo e slanciato, protesi verso l’alto in una serie di pinnacoli e tetti appuntiti e stondati, apparivano quasi evanescenti nella sottile nebbia che quella mattina abbracciava la baia in cui era situata la città. Quell’ultima mattina.
Nel biancore era possibile distinguere le luci fluorescenti e violacee degli ologrammi e dei teleschermi pubblicitari che tappezzavano le strade in cui migliaia di persone circolavano ogni giorno; sembravano tanti piccoli evidenziatori luminosi nella foschia. In cielo, si vedeva a malapena il contorno dell’emisfero nord di Gemenon, coperto dalla nebbia.
Ero tentato di allungare le gambe anche io ora. Steven mi prese la mano e la baciò chiudendo gli occhi mentre le sue labbra premevano sulle mie nocche, e dopo aver atteso un istante mi chiese se fossi felice; come mi aveva chiesto molto tempo prima, ai piedi di un grattacielo alto settecento metri, su Canceron.
“Certo! Certo che lo sono!”
Certo che lo ero. E dovevo dirlo a Jennifer. Dovevo dirle che adesso avevo un anello di argento finto al dito e che in un futuro molto prossimo sarebbe divenuto vero, e non sarebbe stato solo simbolico.
Miei dei, pensai, Steve mi aveva chiesto di sposarlo. Sposarlo! Sposarci per davvero, come gli altri, come le persone nei film, come nelle storie. Ma ero pronto? Sarei stato all’altezza di una tale impresa? In realtà, forse ero più terrorizzato che felice, ma sapevo di non dovermi preoccupare di ciò in quel momento, perché di certo quando sarebbe stata l’ora, le mie paure avrebbero lasciato spazio alla cosa più bella della mia vita.
E diamine se dovevo dire tutte queste cose a Jennifer; già me la immaginavo dare di matto al telefono, quella povera donna ansiosa, terrorizzata dalla sua stessa ombra.
Immaginai come si sarebbe vestita in quel giorno, e pensai che molto probabilmente avrebbe pianto molto, come del resto avrei sicuramente fatto anche io.
Risi, pensando di avere ancora tempo per avvertirla. Steve sorrise, poi la sua attenzione fu attirata da qualcos’altro.
“Guarda!” Mi disse picchiettando sulla mia spalla con la mano ed indicando con l’altra in alto nel cielo.
“Guarda Gemenon! Cosa sono quei cosi?”
Strabuzzai gli occhi: per quanto poco si riuscisse a vedere tra la nebbia e le nuvole grigiastre, riuscii a notare dei bizzarri puntini luminosi comparire rapidamente sulla superficie del pianeta gemello di Caprica; sembravano quasi stelle ai primi vespri, eppure erano sopra un pianeta! E noi li stavamo vedendo da sotto l’atmosfera di un altro, a centinaia di migliaia di chilometri di distanza! Cos’erano?
Comparivano progressivamente su tutta la superficie.
“Guarda !!!” Esclamai notando che dal cielo stavano cadendo una manciata di puntini neri, in lontananza, ma nemmeno così tanto lontani in realtà; li seguì con lo sguardo per meno di tre secondi finchè non li persi di vista.
“Che frak…”
Quello che udimmo in quell’attimo… veramente credo ci sia solamente un modo per tradurlo in parole, e ossia utilizzando una forma onomatopeica molto spesso citata, ma che da quel momento non sono più riuscito ad associare a nient’altro se non a quello.

Boom.
Boom.



Boom.


Sono sicuro che non dimenticherò mai quei secondi.
I secondi trascorsi dal primo “boom” fino all’istante in cui i miei sensi mi abbandonarono momentaneamente.
Mi tremano le mani ancora adesso a pensarci, mi trema tutto. E’ stato stata l’esperienza più traumatica della mia vita; non la più spaventosa, ma la più tempestiva, la più sconvolgente.
Ora proverò a descriverlo qui, ma dubito fortemente di essere bravo abbastanza da saper scegliere le giuste parole per esprimere quello che provammo; in tal caso spero che chi leggerà riesca a fare uno sforzo di immaginazione –anche se non credo riuscirà nemmeno lontanamente a farsi un’idea realistica.
 
Un accecante bagliore si accese dietro ai grattacieli di Caprica City e in una frazione di secondo illuminò le nostre finestre in un modo così intenso e repentino da non darci nemmeno il tempo di rendercene conto; gridai per il dolore che i miei occhi provarono e vi schiaffai letteralmente sopra le mani, e in quel momento il primo “boom” si palesò, ma non fu un semplice rumore, fu qualcosa di diverso: fu un boato; fu il suono più potente e fragoroso che avessi mai sentito. Il boom arrivò circa un secondo dopo il bagliore: si sa, la luce viaggia più velocemente del suono.
La sala del terminal era pervasa dalle urla di centinaia di persone terrorizzate.
Immediatamente tutte le finestre e le vetrate esplosero e l’intero edificio fu colpito da una tremenda onda d’urto: io e Steven fummo sbalzati via dal divanetto grigio su cui sedevamo e volammo letteralmente contro la parete in fondo alla sala; io persi i sensi quasi subito, ma ricordo di aver visto il tabellone elettronico crollarci addosso: questi non ci schiacciò solamente perché un grosso frammento di granito “emerso” dal pavimento per via dell’onda d’urto lo bloccò all’altezza di un metro e dieci centimetri da terra.
Mentre i miei occhi si chiudevano continuai ad udire per una manciata di secondi il terribile rumore di edifici che crollavano su se stessi, di vetri che si frantumavano, di cemento che si sbriciolava, di detriti che sbattevano ovunque, e ad intervalli regolari, quei terrificanti e fragorosi boom.
Ricordo che mentre svenivo chiesi a me stesso con la mente cosa stesse accadendo, perché non riuscivo a farlo parlando, ma non potei darmi una risposta.
Poi il buio.



11.8 –“”
Mentre il mondo crollava attorno a me privo di sensi, io sognavo.
Mi trovavo in un prato verde sconfinato, dolci colline, un cielo azzurro terso e tantissimi fiori.
La donna bionda vestiva un completo rosso aderente e che lasciava scoperte le spalle: i suoi bellissimi capelli biondi perlacei, quasi bianchi, venivano gentilmente gonfiati dalla brezza che accarezzava anche me.
Mi stava venendo incontro con un’espressione compiaciuta e pareva che avesse qualcosa da dirmi; stavo sognando, si, ma il mio io cosciente era consapevole di sognare, sapevo che non stesse accadendo realmente.
Anzi, mi trovavo in un certo stato di angoscia, perché sebbene l’immagine di fronte a me fosse così soave e rassicurante, sapevo di essere svenuto per un qualche genere di esplosione.
Sapevo che fuori dalla mia testa ci fosse il finimondo.
“Sei arrivato fin qui, finalmente!” Disse sorridendo di gioia e accarezzandomi la spalla.
“Io… io ho paura!” Le risposi sul procinto di piangere; agitavo la testa e mi guardavo attorno in quella strana e silenziosa pace.
“Shhh…” Sibilò “non devi! Tutto andrà bene! Questo è il volere di Dio! E Dio ti ama.” Afferrò entrambe le mie spalle guardandomi dritto negli occhi, mentre la brezza continuava a scompigliarle i capelli.
“Io… io non capisco! Tu, tu lo sapevi? Sapevi che sarebbe accaduto?” Le chiesi disperato, non sapendo realmente nemmeno io cosa fosse successo.
“Si.” Sembrò quasi dispiaciuta nel rispondere.
Udì qualcosa di strano aleggiare nel fruscio del vento, un suono particolare; sembrava quasi… una musica! Assomigliava ad un ticchettio, una sequenza di lievissime percussioni elettroniche accompagnate da degli archi…
“Ma… la senti?” Chiesi “Che cos’è?”
“E’ Dio che ti parla. Noi ci rivedremo, un giorno… ma tu non ti ricorderai di me. Non subito.”
“Che cosa?”
Lei mi fece cenno con la mano invitandomi a guardare a sinistra; ciò che vidi mi sconvolse.
La nostra cucina: Jennifer stava seduta al tavolo della cucina nella quale avevo mangiato per vent’anni. Era triste, ma sorrideva.
“Jennifer!” La chiamai, ma non mi sentiva; capì che stavo vedendo la vera lei, probabilmente in tempo reale, ma la vedevo solo io.
“Lei sa.” Disse la bionda.
Jennifer chiuse gli occhi. Un bagliore accecante, simile a quello che avevo visto da sveglio, illuminò la cucina filtrando dalle tende bianche fino a far scomparire la stanza: riuscivo a vedere la sagoma di Jennifer, ferma dov’era prima, immobile, zitta. Boom.
“Ora devi svegliarti.” Disse, la bionda, e poì mi tirò uno schiaffo così forte da farmi barcollare.
“Scusa.” Disse.

“Scusa…” La voce rieccheggiò nella mia mente.

Aprì gli occhi e scoprì Steven di fronte a me, coperto di polvere e cenere, con la fronte insanguinata e mezza manica sinistra del maglione strappata.
“Scusa ho dovuto schiaffeggiarti.” Mi disse mentre si sbrigava ad afferrare e levarmi i cocci che avevo addosso; la mia testa stava come esplodendo, e i suoni che mi arrivavano da fuori, come la voce di Steven o i rumori degli oggetti che cadevano attorno a noi, giungevano alle mie orecchie incredibilmente ovattati. A stento riuscivo a tenere gli occhi fissi su di lui.
“Ti prego, non smettere di guardarmi!” Levò gli ultimi e mi trascinò fuori dalla catasta di detriti dalla quale mi trovavo, emettendo un flebile mugugno per lo sforzo; non appena provai a tirarmi su ed accovacciarmi avvertì una tremenda fitta alla schiena, dovuta alla botta che avevo preso “volando” contro la parete. Per fortuna non era niente di grave e, tolto qualche altro livido marcato e qualche graffio, non mi ero fatto nulla, così come Steven. Fummo davvero fortunati.
Mi guardai attorno e non riuscì a credere a ciò che vidi.
Il soffitto era crollato, così come gran parte delle pareti attorno a noi; il piano su cui ci trovavamo era, adesso, il più alto dell’edificio dato che tutti quelli sopra di noi non c’erano letteralmente più, poiché erano stati spazzati via da quella tremenda onda d’urto che ci aveva investiti.
E non era finita.
Colonne di fumo gigantesche salivano vorticosamente dal panorama circostante, disegnando uno scenario davvero terribile alla vista sconvolta di chi guardava. L’intera città aveva sembrava aver subito il nostro stesso fato; moltissimi dei grattacieli che fino a pochi istanti prima svettavano nel cielo per centinaia di metri, ora erano un cumulo di macerie, come se fossero implosi su se stessi.
Le fiamme si alzavano prepotenti per le strade, che ora potevo vedere chiaramente non essere più illuminate da neon e ologrammi, ma da scoppiettanti incendi, la cui ingordigia di terreno cresceva a vista d’occhio.
“Dei…Fr..Frak! Che ??” Gridai in preda al panico.
L’aria era ricolma di cenere, la quale iniziava a posarsi sopra di noi come neve leggera e grigia.
“Guarda laggiù, miei dei…” Disse Steve terrorizzato, indicando con la mano oltre le rovine dei grattacieli.
le sagome di tre funghi atomici si innalzavano nel cielo, annerendolo e rendendoci chiaro cosa fosse appena accaduto. O per lo meno in parte.
Intuì  che in qualche modo i miei strani presentimenti degli ultimi anni si fossero appena palesati e che il destino mi avesse trovato. Ora non avrei avuto più nulla dietro a cui nascondermi per sfuggirvi.

Continua… ________________________________________________________________________________________________________________________ Note dell'autore: Mi sembra giusto scrivere due righe a fine capitolo, cosa che non ho mai fatto prima, ma che questa volta mi pare necessaria: sono passati più di sei mesi dall'ultimo capitolo e il motivo per cui ho impiegato così tanto ad approntare questo sono stati i molteplici cambiamenti che sono avvenuti in questo periodo nella mia vita. Ho iniziato ad affrontare situazioni totalmente nuove, un nuovo lavoro, nuove responsabilità, nuove conoscenze... inoltre nell'ultimo mese ho perso, probabilmente per sempre, quella che per tantissimo tempo era stata la persona che costituiva il centro della mia vita, e la sua dipartita ha spezzato non solo il mio cuore ma ogni mio ossicino (il capitolo infatti era quasi pronto già un mese fa, ma dato che è accaduto questo fattaccio ho impiegato molto tempo per rileggerlo e correggerlo e magari qualcosa mi è pure sfuggita). Quando l'ho caricato oggi mi sono sentito sollevato perchè davvero mi mancava il fatto di aggiornare la storia che ormai scrivo da un anno e mezzo. Spero di stare bene molto presto e di riuscire a proseguire il racconto con una certa velocità, dato che questo è il capitolo che segna il punto di svolta e di connessione tra la storia di David e Steve e la trama della serie tv. Grazie ancora a tutti voi per il vostro tempo, per avermi letto e magari per aver dato un parere. Un abbraccio a tutti! Ciao!

 

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