La Stella di Fëanor

di evelyn80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un gioiello molto speciale ***
Capitolo 2: *** Tingilindë, stella scintillante ***
Capitolo 3: *** L’arrivo degli Hobbit ***
Capitolo 4: *** L’uomo di Gondor ***
Capitolo 5: *** Il Consiglio di Elrond ***
Capitolo 6: *** Due mesi per conoscersi meglio ***
Capitolo 7: *** Verso sud ***
Capitolo 8: *** Moria ***
Capitolo 9: *** Ombra e fiamme ***
Capitolo 10: *** Il Bosco d'Oro ***
Capitolo 11: *** Il dono di Galadriel ***
Capitolo 12: *** Il viaggio continua ***
Capitolo 13: *** La missione si compie ***
Capitolo 14: *** Una nuova vita ***
Capitolo 15: *** Edoras ***
Capitolo 16: *** In marcia ***
Capitolo 17: *** La battaglia ***
Capitolo 18: *** Un triste risveglio ***
Capitolo 19: *** Incontri ***
Capitolo 20: *** Una notte indimenticabile ***
Capitolo 21: *** Il Morannon ***
Capitolo 22: *** L'ultima missione ***
Capitolo 23: *** Vita da Orco ***
Capitolo 24: *** Testarda, io ***
Capitolo 25: *** L'amore è più forte di tutto ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Un gioiello molto speciale ***






Un gioiello molto speciale

 

La mia fantastica avventura ebbe principio in una uggiosa mattinata di inizio autunno.
Ero in auto e stavo andando a fare spese. Procedevo lentamente, perché la pioggia scrosciava furibonda e non vedevo quasi ad un palmo dal naso. Ben presto mi ritrovai a giocherellare, involontariamente, con il ciondolo a forma di stella che avevo al collo, riflettendo ad alta voce. Avevo da poco ripreso – per l’ennesima volta – la lettura del "Signore degli Anelli" e quella mattina, mentre facevo colazione, ero arrivata al capitolo riguardante la morte di Boromir.
"Povero cristo… Non si meritava di morire" dissi tra me e me, con lo sguardo fisso sull’asfalto che mi scorreva davanti. "Non è giusto che, di tutta la Compagnia dell’Anello, sia finito male solo lui! In fondo, ha solo cercato di fare il bene del suo popolo! Aveva il cuore puro e l’anello ha fatto breccia dentro di lui fin troppo facilmente. Eh…" sospirai, sempre tormentando il mio ciondolo. "Boromir, farei qualsiasi cosa pur di poterti far rimanere in vita, e farti tornare sano e salvo a Minas Tirith!"
In quell’istante, la stella che avevo al collo cominciò a brillare, splendendo di una luce calda e scintillante, mentre una voce limpida e profonda di donna risuonò nella mia mente.
"E così sarà!" disse, quasi assordandomi.
Per un attimo, il mio campo visivo fu completamente offuscato da un forte bagliore. D’istinto pigiai con forza il pedale del freno, ma l’asfalto scivoloso mi tradì e la mia auto cominciò a sbandare inesorabilmente verso il guardrail. Chiusi gli occhi, rimanendo in attesa dell’inevitabile botto, che però non ci fu. In compenso, tutto sembrò cambiare intorno a me.
Per prima cosa, non ero più comodamente seduta sul sedile sfondato della mia vecchia macchina, ma piuttosto a cavalcioni di qualcosa di caldo e vivo. Sentivo l’aria fresca sul viso ed udivo il rumore di un fiume che scorreva poco distante. Aprii lentamente gli occhi e mi ritrovai in groppa ad un cavallo color grigio argento, fermo in mezzo ad una strada lastricata di pietre, fiancheggiata da alberi secolari, che scendeva verso il corso d’acqua.
Sbattei le palpebre più volte, arrivando perfino a strofinarmi con forza gli occhi, visto che la visione non cambiava, ma niente da fare! Continuavo a rimanere in sella ad un cavallo, su un sentiero in mezzo al bosco.
A quel punto osservai i miei vestiti e, con stupore, mi accorsi che i jeans avevano lasciato il posto ad un paio di pantaloni di pelle scamosciata marrone e che, al posto di camicetta e cardigan, indossavo uno stretto corpetto con sopra una casacca, anch’essi in pelle come i pantaloni. Completava il tutto un lungo mantello di lana con cappuccio, color verde scuro, stretto al collo da una fibbia argentata. Invece delle mie solite scarpe da ginnastica, avevo ai piedi un paio di stivaletti di cuoio morbido che mi arrivavano a metà polpaccio.
Sempre più incredula mi guardai intorno. A quanto pareva ero circondata esclusivamente da alberi, mentre la strada su cui mi trovavo proseguiva oltre il guado, risalendo l’altra sponda del fiume per poi curvare verso sinistra. Il cielo era limpido e azzurro, con solo qualche nuvoletta bianca sparsa qua e la.
"Non ho idea di dove sono, ma almeno non piove" commentai ad alta voce, per poi aggiungere subito dopo, "ma che fine ha fatto la mia macchina?"
In quel mentre, il cavallo cui ero in groppa voltò la testa verso di me e nitrì debolmente. Lo guardai attentamente e, mentre lo facevo, i miei occhi si sgranarono: quella bestia era esattamente dello stesso colore della mia auto!
"Fre-Freccia? Freccia d’Argento?" mormorai, pronunciando il nomignolo con cui di solito la chiamavo affettuosamente. Per tutta risposta il cavallo mosse la testa in segno affermativo.
"Oh porca miseria! Mi vorresti dire che tu sei… sei la mia macchina?!" esclamai, alzando un poco il tono di voce. L’animale affermò nuovamente.
"E capisci quello che dico?!" gridai, ormai quasi in preda ad una crisi isterica. Per la terza volta il cavallo fece di sì con la testa.
"Oddio, sto per sentirmi male…” sussurrai, posandomi una mano sulla fronte, come a temere la fuga del mio cervello confuso. “Allora, ricapitoliamo il discorso: sono in sella ad un cavallo che capisce la mia lingua e sostiene di essere la mia auto. Mi trovo in una strada nel bosco che non so né da dove arrivi né dove porti e, soprattutto, sono sola come un cane! E ora che faccio?" mi chiesi, sgomenta.
Freccia d’Argento indicò con la testa il fiume e la strada dall’altra parte.
"Tu dici che dobbiamo andare avanti?" le chiesi, dubbiosa, e lei fece di nuovo di sì. "Ah bè, andiamo avanti allora…" conclusi, ormai completamente smarrita, tremando leggermente per la paura. Senza aver bisogno di spronarla, la mia giumenta si avviò lentamente lungo il sentiero.
La distanza che mi separava dal fiume era minima ed, a cavallo, la superai in pochi passi. L’acqua al guado era bassa, arrivava a mala pena ai garretti di Freccia, che in un attimo risalì sull’altra sponda. Ma, non appena fatta la svolta verso sinistra, fummo costrette a fermarci di nuovo perché un cavaliere, alto e con lunghi capelli biondi che gli spiovevano sulle spalle, ci intimò l’alt.
"Chi sei? E cosa fai su questa strada?" mi chiese, con voce profonda, scrutandomi con i suoi occhi penetranti.
"Buongiorno… Mi chiamo Marian e… credo di essermi persa…" risposi, titubante. A prima vista non mi parve ostile ma, ovviamente, non sapevo se potevo fidarmi oppure no.
Il cavaliere mi squadrò attentamente, dalla testa ai piedi, ed io ne approfittai per studiarlo a mia volta. Il suo viso era  talmente pallido ed etereo da apparire quasi luminoso. Aveva mani lunghe ed affusolate, nelle quali stringeva un lungo arco. Sulle spalle portava una faretra, piena di frecce dalle piume bianche. Indossava abiti color grigio verde, che sembravano quasi cambiare colore ad ogni movimento. Le orecchie che spuntavano dai capelli color dell’oro erano indubbiamente a punta.
"Il mio nome è Glorfindel" disse, non appena ebbe finito di scrutarmi, "e sono una delle guardie a sorveglianza della strada di accesso ad Imladris. Sento che il tuo cuore è puro e che non stai mentendo, e che la tua casa è molto distante da qui, anche se non so da dove provieni e come hai fatto ad arrivare da noi. Seguimi! Ti porterò al cospetto di Sire Elrond Mezzelfo, e forse lui potrà aiutarti a ritrovare la strada di casa!" e, senza aspettare oltre, fece voltare il suo cavallo, tornando nella direzione da dove era venuto, senza nemmeno accertarsi del fatto che lo stessi veramente seguendo.
Rimasi per un attimo inchiodata, incapace di fare qualsiasi movimento mentre Freccia, senza bisogno di alcun ordine da parte mia, si rimetteva in marcia dietro al cavallo di Glorfindel. Ciò mi fece ritrovare la favella.
"Aspetta… aspetta un attimo!” mormorai. “Glorfindel?… Imladris?… Elrond?… Mi vuoi dire che… che tu sei veramente un Elfo?! E che io mi trovo veramente a Gran Burrone?!"
Il mio accompagnatore si voltò a guardarmi, lievemente stupito.
"Sì, è così! Hai appena oltrepassato il guado del Bruinen – che voi Uomini chiamate Rombirivo – e questa strada conduce all’Ultima Casa Accogliente!"
"Ma… ma non è possibile! Questi posti non esistono! O meglio, esistono solo dentro ad un libro!" esclamai, incapace di contenermi. Glorfindel mi fissò con il suo sguardo glaciale mentre mi rispondeva, lapidario.
"Forse anche la terra da cui tu provieni esiste solo in un libro. Quello che posso assicurarti è che tutto ciò che vedi esiste, ed è reale” e, con quelle parole, tornò a guardare davanti a sé, senza degnarmi di ulteriori sguardi o spiegazioni. Continuai a cavalcare al suo fianco, troppo stupita ed intenta a guardarmi intorno per parlare o fare altre domande: Imladris… Gran Burrone! Ma, allora, quella voce che avevo sentito appena prima di sbandare… Aveva esaudito il mio desiderio? Mi trovavo nella Terra di Mezzo per avere l’opportunità che avevo chiesto, quella di salvare Boromir? Era un’assurdità, ma tutto sembrava combaciare alla perfezione: Glorfindel rispondeva perfettamente alla descrizione che Tolkien ne aveva fatto nel suo libro e, non appena arrivammo in vista della casa di Elrond, mi resi conto che corrispondeva esattamente a quella ricostruita nel film, con le sue terrazze e le sue cascate. Una strana gioia mi pervase ed, all’istante, smisi di avere paura.
Una volta giunti nel vasto cortile dell’Ultima Casa Accogliente molti altri Elfi ci vennero incontro: alcuni cantavano dolci melodie, altri invece si limitarono a fissarmi con curiosità. Dopo pochi istanti un Elfo alto, con lunghi capelli neri ed un sottile cerchietto d’argento sulla fronte, vestito di sontuosi abiti, uscì dalla porta principale. Capii immediatamente di chi si trattava: Elrond.
Glorfindel scese da cavallo ed io lo imitai, rischiando di finire con il sedere per terra quando il piede mi rimase incastrato nella staffa. Il Mezzelfo sembrò non avvedersene: scambiò alcune parole in alto elfico con la sua guardia che, evidentemente, lo informò sulle circostanze in cui mi aveva trovato, poiché mi disse, con voce profonda ma gentile:
"Benvenuta ad Imladris, Dama Marian. Glorfindel mi ha riferito che vi siete smarrita al guado. Riposatevi un poco, rifocillatevi, e poi parleremo."
Fece un cenno in direzione di un gruppo di fanciulle elfiche che danzavano in un angolo e quelle vennero verso di me. Ridendo e cantando, mi sospinsero verso una delle tante camere che si affacciavano sulle cascate. Mi fecero spogliare ed in quattro e quattr’otto approntarono un bel bagno caldo. All’inizio mi vergognai da morire, poiché io avevo ben poco della loro leggiadra bellezza, ma presto mi resi conto che nelle loro risa non c’era alcuna malizia, ma solo una gioia infinita. Con un lungo sospiro mi godetti il bagno profumato, entrando subito nello spirito di Gran Burrone. Ripensai alle prime parole di Elrond: "Dama Marian". Nessuno mi aveva mai chiamato così prima di allora, ed era una sensazione molto piacevole.
Dopo quelle che mi parvero ore le fanciulle ritornarono, portando asciugamani ed abiti freschi di bucato. Dopo essermi asciugata mi fecero indossare un lungo vestito color del cielo che – strano a dirsi, visto che non ero proprio longilinea – mi calzava a pennello. Poi, sempre ridendo, cantando e danzando, mi accompagnarono al cospetto di Elrond Mezzelfo.
Questi era seduto in quella che riconobbi essere, dalle descrizioni accurate del Professor Tolkien, la "Stanza del Fuoco": un'enorme sala, dal soffitto sorretto da eleganti colonne tornite, illuminata soltanto dal grosso focolare. Accanto a lui sedeva una fanciulla che non poteva essere altri che sua figlia, Arwen Undòmiel.
Non appena misi piede nella sala il mio ciondolo prese a brillare nuovamente, diventando persino più caldo. Il gioiello al collo dell’Elfa – la "Stella del Vespro" – fece altrettanto, come se i due monili si fossero in qualche modo riconosciuti.
Non riuscii a trattenere un grido di sorpresa, ed anche Arwen si lasciò sfuggire un’esclamazione di meraviglia, portandosi le mani al collo. Elrond balzò in piedi dallo stupore, guardando prima la figlia e poi me. Mi venne incontro quasi di corsa, fissando la mia collana.
"Ma ciò è impossibile…" mormorò, con la sua voce grave, non appena riuscì a distinguere qualcosa nel bagliore che la mia stella continuava ad emanare. "Questo gioiello… Dove l’avete preso?"
Arrossii involontariamente, come sempre mi succedeva quando qualcuno mi faceva una domanda accusatoria a bruciapelo, anche se io ero innocente.
"Bè... veramente… io ce l’ho sempre avuto…” balbettai. “Era di mia mamma, e di mia nonna prima di lei, e così via… E’ un gioiello di famiglia!"
L’Elfo continuò a fissare il ciondolo, mormorando nella sua lingua. Poi mi prese per mano e mi fece avvicinare alla sua poltrona. Arwen continuava a fissarmi, meravigliata. Non appena si fu accomodato di nuovo, il sovrano di Gran Burrone riprese a parlare nella lingua corrente.
"Il monile che porti al collo è noto agli Elfi come la "Stella di Fëanor", simbolo della sua casa” mi spiegò. “Egli fu il creatore dei Silmarilli, i gioielli più splendidi di tutta Valinor.”
Annuii: ne avevo letto nel Silmarillion, quella che consideravo l’opera somma di Tolkien. Dopo una brevissima pausa, l’Elfo riprese.
“Si narra nelle leggende che Fëanor creò, con l’ultimo dei Silmaril, un gioiello a forma di stella, che donò a sua moglie. La collana si è tramandata per molti secoli da padre in figlio, fino a quando se ne sono perse le tracce.”
Si interruppe di nuovo, fissando intensamente la mia collana, che continuava ancora a brillare di luce propria. Trasse un lungo sospiro e riattaccò.
“Questo succedeva millenni fa, e fino ad oggi gli Elfi hanno creduto che si trattasse solo di una leggenda. A quanto pare non è così… Quello che portate al collo, mia cara, è l’ultimo dei Silmaril, il gioiello più potente di tutta la Terra di Mezzo!" concluse, appoggiandosi allo schienale del suo scranno.
Ascoltai le parole di Elrond con crescente stupore. Quando ebbe finito non potei trattenermi dal domandare:
"Come fate ad essere sicuro che questo sia proprio il ciondolo che pensate? L’avete detto voi stesso che nessuno l’ha mai visto."
"Solo in presenza della "Stella di Fëanor" la "Stella del Vespro" avrebbe potuto reagire in questo modo!" mi rispose l’Elfo, indicando il ciondolo al collo della figlia. "Il vostro gioiello emana un potere molto forte ed il monile di mia figlia lo ha riconosciuto."
Abbassai gli occhi e strinsi la stella nella mano destra, smorzandone un poco la luce: prima mi ero ritrovata a Gran Burrone, ed ora venivo a conoscenza che la mia famiglia possedeva, da sempre, un preziosissimo manufatto elfico. Cominciai a sospettare di essere veramente andata a sbattere contro il guardrail, con la macchina, e di aver perso i sensi.
"Dev’essere un sogno… Sì, è così, solo un sogno…” mormorai tra me e me, con gli occhi rivolti a terra. “Tra poco mi sveglierò e mi ritroverò in un letto d’ospedale con un bel bernoccolo in testa!"
Ma il ciondolo continuava a brillare ed a bruciare nella mia mano tanto che, alla fine, fui costretta a lasciarlo andare. Ero ancora immersa nei miei pensieri quando Elrond ricominciò a parlare.
"I nostri sono tempi oscuri, e la ricomparsa della "Stella di Fëanor" è di sicuro motivo di speranza. L’Unico è di nuovo in viaggio, anche se Mithrandir non è ancora arrivato" disse tra sé e sé, riflettendo ad alta voce, per poi alzare di nuovo lo sguardo su di me.
"Voi, Dama Marian, venite da molto lontano, e non credo che questa sia una casualità. Sono certo che voi siate stata mandata qui per un motivo ben preciso, anche se forse non ne siete a conoscenza. Mithrandir, il Grigio Pellegrino, saprà di sicuro illuminarci su di voi, non appena giungerà ad Imladris!"
Tornai con la mente al desiderio che avevo espresso e, pur se ancora sconvolta ed incredula, mi sentii rispondere:
"Credo anch’io, Sire Elrond, di non essere giunta qui per caso. Ho espresso un desiderio che, a quanto pare, è stato esaudito, ed ora ho una missione da compiere. Una missione che riguarda anche l’Unico Anello!"
Elrond mi fissò intensamente.
"Voi siete a conoscenza dell’Unico?" mi chiese, inarcando le sottili sopracciglia nere.
"Sì, ed anche di molte altre cose che però, al momento, non posso rivelare. Se, come dite, il gioiello che porto è veramente la "Stella di Fëanor" e se, con essa, potrò essere d’aiuto, sappiate che non mi tirerò indietro."
Mentre parlavo, non potei fare a meno di stupirmi di me stessa: forse era l’atmosfera magica di cui quel luogo era saturo, ma ero veramente convinta di ciò che stavo dicendo. Avrei dovuto morire di paura, ed invece il mio cuore era pieno di pace.
"Sono lieto di sentirvelo dire" mi rispose Elrond, lo sguardo serio, come se per lui fosse una cosa perfettamente normale il fatto che una donna sconosciuta, piombata come un fulmine a ciel sereno ad Imladris, fosse a conoscenza dell’Anello di Sauron.
"Comunque la mia missione rimane al primo posto nei miei pensieri!" ribadii.
"Posso chiedervi di cosa si tratta?"
"Purtroppo temo di non potervi rispondere.” Se gli avessi parlato di Boromir e di quello che gli sarebbe successo, lo avrei sicuramente sconvolto. Senza contare il fatto che avrei dovuto dare troppe spiegazioni al riguardo. Per un istante me lo immaginai a scappare via dalla Stanza del Fuoco, tenendo la lunga veste sollevata da terra come una dama del settecento, lanciando grida isteriche. Trattenni a stento una risatina, prima di riprendere a parlare. Mi era improvvisamente balzata in testa una cosa fondamentale.
“Devo però chiedervi un grande favore: per quello che mi attende, avrò bisogno di conoscere l’arte della scherma, di cui purtroppo sono completamente all’oscuro. Da dove provengo, le spade non sono più utilizzate come armi."
"Avrete la migliore insegnante che posso concedervi: mia figlia!" concluse Elrond indicando, con un gesto del braccio, Arwen che, fino a quel momento, era rimasta seduta in silenzio a fissarmi con curiosità ed interesse. A quel punto ella si alzò e, con mia grande sorpresa, mi prese le mani tra le sue.
"Sarò lieta di insegnarvi ad usare la spada, Dama Marian, ed anche l’arco, se lo desiderate! Grande gioia ha portato nel mio cuore la vista della "Stella di Fëanor"!" mi disse, seria.
"Vi ringrazio, Dama Arwen, ma credo che la spada sarà più che sufficiente! Però, vi prego, chiamatemi solo Marian, e datemi del tu. Mi sento in imbarazzo con tutti questi salamelecchi" aggiunsi. All’inizio era stato piacevole, ma stavo cominciando a stufarmi di tutte quelle smancerie elfiche.
Lei rise. "Ed allora tu chiamami solo Arwen, e smetti di usare il voi!"
Risposi al suo sorriso ed Elrond mi invitò a sedere con loro, in attesa della cena.
Era il trenta di settembre, e quello fu il mio arrivo a Gran Burrone.



Spazio autrice:
Salve a tutti! Dopo aver letto e riletto innumerevoli volte la mia prima storia, ho deciso finalmente di metterla in revisione. Credo (e spero) di essere migliorata con la pratica, e quindi penso che questa storia, che è comunque la mia preferita, si meriti un restyling.
Voglio innanzi tutto ringraziare chi ha letto, commentato e messo tra le seguite, ricordate e preferite la vecchia versione della storia. Se vorrete rileggerla e farmi sapere se la trovate migliorata mi farete un enorme piacere!
Spero, inoltre, di avere anche nuovi lettori, e di conoscere nuovi pareri ed opinioni sulla mia prima long fic sul Signore degli Anelli, rivista e corretta!
Ho spostato tutte le vecchie recensioni sul primo capitolo, perché non volevo di certo cancellarle. Mentre andrò avanti a ripostare la storia le rimetterò ognuna al proprio posto. L'immagine di copertina rappresenta, ovviamente, la Stella di Fëanor.
Bacioni!
Evelyn

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Capitolo 2
*** Tingilindë, stella scintillante ***






Tingilindë, stella scintillante

 
Come affermava Fabrizio De André nella sua famosa canzone "Bocca di Rosa", "una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale; come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca". In brevissimo tempo, tutti gli abitanti di Imladris seppero che era misteriosamente ricomparsa la "Stella di Fëanor", al collo di una donna mortale proveniente da luoghi lontani e sconosciuti.
Ben presto gli Elfi cominciarono a chiamarmi “Tingilindë” – che significa “stella scintillante” – e, quando mi vedevano passare, tutti portavano il pugno alla fronte in segno di rispettoso saluto.  All’inizio ne fui molto imbarazzata: da qualsiasi parte mi voltassi vedevo gente fare quel gesto, e vane furono tutte le mie richieste di smetterla. Alla fine,  Arwen mi consigliò di non farci caso e, pian piano, mi abituai a tutte le loro smancerie.
La mattina successiva al mio arrivo la figlia di Elrond mi accompagnò nella Sala delle Armi.
"Se vuoi imparare l’arte della scherma, innanzi tutto devi avere una spada” mi disse, mentre mi guidava nel vasto salone illuminato da torce. “Qui ne abbiamo molte, sia di fattura elfica che umana: potrai scegliere quella che più ti aggrada!"
In effetti, c’erano un’infinità di lame di varie fogge e dimensioni: lunghe, corte, larghe, strette, e chi più ne ha più ne metta. Passeggiai a lungo, osservando le spade appese al muro, ognuna riposta dentro il proprio fodero ed, alla fine, ne scelsi una dalla lama larga come il palmo della mia mano, ma lunga solo una cinquantina di centimetri. Questo perché, con la mia fervida fantasia, mi ero spesso immaginata come un’eroina fantasy, con la spada appesa sulle spalle e non alla cintura. Di conseguenza, avevo bisogno di una lama che non mi intralciasse troppo, specialmente al momento di estrarla.
Lo dissi ad Arwen e lei non fece alcun commento al riguardo: staccò la spada che le avevo indicato dal muro e mi accompagnò dall’Elfo armaiolo, per far lustrare ed affilare l’arma e per fargli costruire un'imbracatura in cuoio per poterla portare come più desideravo.
Mentre quello lavorava alla mola, ella mi spiegò che avevo scelto una spada che era stata forgiata molti secoli addietro dagli Uomini del Mark, i principi dei cavalli, e che era appunto così corta per essere usata più comodamente durante i combattimenti in sella.
L’armaiolo portò a termine il suo lavoro molto velocemente. Finalmente ebbi modo di guardare da vicino, per la prima volta, la spada che avevo scelto. L’elsa era molto semplice, in acciaio foderato in legno e ricoperta di strisce di cuoio per favorire la presa; il pomolo era anch’esso in acciaio, perfettamente sferico; la guardia era larga, proporzionata alla lama, che era finemente incisa con motivi che mi ricordarono lo scorrere dell’acqua. Mi parve di ricordare che, spesso, i cavalieri solevano dare un nome alle proprie armi, perciò chiesi ad Arwen se quella spada ne avesse già avuto uno.
"Non che io sappia" mi rispose lei.
"Allora, vorrei chiamarla "acqua che scorre", perché la sua decorazione mi ricorda un fiume impetuoso” dissi, convinta.
"Hoskiart" disse l’Elfa a voce alta, fissandomi negli occhi.
"Come, scusa?" le chiesi, inarcando le sopracciglia. Non avevo idea di cosa volesse dire quella parola, ma a me suonava tanto come una parolaccia.
"Hoskiart” ripeté lei. “Nella nostra lingua significa "acqua corrente".”
"Hoskiart" mormorai a mia volta, per imprimermi il nome nella mente. "Mi piace!"
Lei mi sorrise.
"Bene, allora seguimi. Cominceremo subito la prima lezione di scherma."
Dopo aver indossato nuovamente gli abiti con cui ero arrivata, Arwen mi condusse ad una terrazza isolata, che dava sulle cascate. Anche lei indossava abiti maschili e portava al fianco una splendida spada dalla lama leggermente ricurva, che ricordava vagamente una scimitarra.
"Questa è Hadhafang!" mi disse solennemente, mentre la estraeva dal fodero. "La spada forgiata per la principessa Idril Celebrindal di Gondolin, mia antenata. Con essa, sia mio padre che io stessa, abbiamo combattuto molto. Ora, questa spada sarà maestra della tua!".
La mise di piatto davanti al viso, in una sorta di saluto. In questo modo vidi che, sulla lama, era incisa una frase in strani simboli.
“Che cosa vogliono dire quelle parole?” le chiesi indicandole, sinceramente incuriosita.
Aen estar Hadhafang i chathol hen, thand arod dan i thang an i arwen” recitò l’Elfa con voce profonda. “ ”Questa lama è chiamata Hadhafang, una nobile difesa per una nobile dama, contro schiere di nemici”. E’ questo il loro significato. “Hadhafang” significa “massacra-folla”.”
A quelle parole rabbrividii involontariamente e, per la prima volta, mi resi conto che la creatura che avevo davanti aveva più di 2700 anni di età.
Per il resto di quel giorno, e per i successivi, Arwen mi istruì all’uso della spada. Gli Elfi erano molto agili e flessuosi e lei sembrava danzare, anche quando la faceva roteare minacciosa. Io, invece, ero rigida come un pezzo di legno e, molte volte, feci cadere la povera Hoskiart, con disappunto non solo dell’Elfa ma anche dei miei poveri piedi perché, spesso, per impedire che la lama sbattesse contro il suolo, li sacrificavo piazzandoli sotto la spada in caduta. Alla fine della prima giornata potei camminare solo sui talloni e, quando mi tolsi gli stivali per andare a dormire, vidi che avevo molte unghie nere. Ma, con il passare dei giorni, contrariamente alle mie aspettative – in fondo in fondo ero sicura che non sarei mai stata capace di combattere – cominciai a migliorare ed, anche se non raggiunsi mai il livello di bravura ed agilità della mia maestra, imparai ben presto a destreggiarmi.
Una ventina di giorni dopo il mio arrivo ad Imladris, finalmente anche Gandalf giunse a Gran Burrone. Io ed Arwen stavamo ancora tirando di scherma nella nostra terrazza quando Lindir, uno degli Elfi fidati di Elrond, mi venne a chiamare.
"Dama Marian Tingilindë, Sire Elrond vuole vederti. Ti aspetta nella Sala del Fuoco!" mi disse, con un inchino rispettoso. Alzai gli occhi al cielo – ancora quelle stramaledette smancerie elfiche – poi infilai la spada nel fodero, che portavo sulle spalle proprio come avevo sempre desiderato ed, asciugandomi il sudore dalla fronte con la manica della casacca, raggiunsi il padrone di casa.
Era seduto sulla sua poltrona ed, in altro scranno al suo fianco, si trovava lo stregone. Anche questa volta, non appena varcai la soglia del salone, il mio ciondolo prese a brillare. Involontariamente lo coprii con la mano, ma Gandalf mi fermò.
"Lascialo splendere! E da molto, molto tempo che quel gioiello non brilla sulla Terra di Mezzo!" mi disse, con la sua voce cupa ma gentile.
"Ecco, Mithrandir" intervenne Elrond, indicandomi con un cenno del braccio, "questa è la fanciulla degli Uomini di cui ti parlavo! E’ giunta qui diciannove giorni or sono, portando seco la "Stella di Fëanor". Viene da una terra molto lontana…"
"Molto più lontana di quanto tu immagini, Elrond!" lo interruppe il vecchio stregone. "Talmente lontana da essere stata obliata persino dai più saggi! Vieni avanti, mia cara" mi chiese, protendendo le mani nodose verso di me.
Io obbedii, titubante: trovarmi al cospetto di Gandalf mi intimoriva moltissimo. Era come essere nudi ed inermi sotto il suo sguardo, che sembrò leggermi fino nel profondo dell’anima. Lui avvertì la mia esitazione e, con un lieve sorriso, mi rassicurò.
"Non avere paura. Non hai nulla da temere, da me."
"Lo so… non ho paura" mormorai, ma senza comunque riuscire a smettere di tremare mentre avanzavo lentamente verso di lui.
Non appena gli arrivai davanti l’Istari si alzò faticosamente in piedi, stringendomi leggermente le mani e osservandomi a lungo con i suoi occhi penetranti. Dopodiché si rimise seduto ed Elrond mi invitò a fare altrettanto, indicandomi la poltrona di solito riservata a sua figlia.
"Questa ragazza, mio caro Elrond, è l’ultima discendente del ramo perduto della casa di Fëanor” attaccò Gandalf, dopo aver emesso un lungo sospiro. “Uno dei suoi discendenti nell’antichità ha lasciato la Terra di Mezzo portando con se la "Stella" e, dopo un lungo e periglioso viaggio per mare è infine approdato sulle rive di una terra molto remota, il cui nome è Europa. Lì, egli ha conosciuto una fanciulla degli Umani, con cui ha creato una famiglia, per non fare mai più ritorno nella sua terra natia. Ecco perché il Gioiello è stato creduto perduto. Ma ora è ritornato, e credo proprio che questo sia buon segno."
Elrond annuì gravemente ed io, dopo aver preso il coraggio a quattro mani dissi, con la voce che mi tremava dall’emozione:
"Io sono arrivata qui perché ho espresso un desiderio, ed ora ho una missione da compiere…"
"Lo so" mi interruppe Gandalf. "E, non temere, la porterai a termine” affermò, con un dolce sorriso, strizzandomi lievemente l’occhio, in maniera talmente impercettibile che, per un attimo, ebbi l’impressione di essermelo soltanto immaginato.
Le sue parole mi lasciarono di pietra: possibile che Gandalf sapesse cosa volevo fare? Ma, in fondo, riflettei, lui era uno degli Istari e, mentre mi aveva osservato, mi aveva letto nel profondo della mente. Molto probabilmente era riuscito a vedere che volevo salvare Boromir. Ed ora, mi avrebbe forse subissato di domande su tutto ciò di cui ero a conoscenza?
"Non crucciarti inutilmente!" mi disse, vedendomi pensierosa. "Pensa solo che le cose non accadono mai per caso! Tu sei la “Portatrice della Stella” ed, a quel che mi risulta, le stelle sono una cosa buona! Ora vatti a riposare: vedo che Arwen ti sta allenando duramente, non è vero?" mi chiese, guardandomi maliziosamente ed ammiccando di nuovo.
Io annuii.
“Molto bene, dovrai essere pronta e ben addestrata, per affrontare al meglio la tua missione” concluse, sorridendo sotto i baffi.
Annuii ancora, con il sorriso che mi si allargava in faccia. Le parole del vecchio stregone mi avevano infuso una dolce sensazione di pace e di sicurezza. Lasciai la stanza molto più leggera e con la consapevolezza che, stando al Calendario del Libro, tra pochi giorni avrei finalmente incontrato il Capitano di Gondor.
Era il diciotto di ottobre, e così Gandalf mi spiegò perché la mia famiglia possedeva la "Stella di Fëanor".



Spazio autrice:
Salve a tutti! Eccovi il secondo capitolo della storia di Marian, riveduto e corretto.
Una precisazione: come ho detto anche nell’introduzione, la mia storia è ispirata in parte al libro ed in parte ai film. Questo è il caso della spada di Arwen, che nel libro non compare. Le informazioni che la riguardano le ho prese da internet, e sono quelle che sono state rilasciate dalla Produzione della mitica Trilogia di Peter Jackson.
Spero che la mia correzione stia effettivamente migliorando la storia, e sarò lieta di leggere i vostri commenti in merito, se vorrete lasciarmi i vostri pareri. Qui su efp ho cancellato la storia originale ma, se volete fare un confronto, su fanword.it potete ancora trovare quella vecchia.
Bacioni!
Evelyn

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Capitolo 3
*** L’arrivo degli Hobbit ***





L’arrivo degli Hobbit

 

Due giorni dopo l’arrivo di Gandalf, un bel po’ di trambusto scosse Rivendell.
Durante una delle pause negli allenamenti con Arwen, avevo deciso di visitare Gran Burrone in compagnia della mia ex-auto. Stavo passeggiando, in sella a Freccia d’Argento, lungo la strada del guado, raccontando alla cavalla come passavo le mie giornate, quando un gelo profondo mi ghiacciò fin nelle ossa. Freccia si fermò di botto e nitrì nervosamente mentre il cielo si oscurava come se, all’improvviso, fosse scesa la sera. Facendo due rapidi calcoli, in base a quanto ricordavo della vicenda, capii subito che doveva trattarsi dei Nazgûl. A breve, gli Spettri dell’Anello avrebbero cercato di catturare Frodo, per essere travolti dalle acque in piena del Bruinen. Ed, infatti, pochi minuti dopo, il cavallo di Glorfindel risalì al galoppo la sponda sinistra del fiume – con in sella una figurina quasi del tutto priva di sensi – per poi fermarsi, come per guardarsi alle spalle. Udii il Re degli Stregoni chiamare Frodo, con una voce che mi fece quasi fare la pipì addosso dalla paura. Iniziai a tremare come una foglia, mentre la mia giumenta continuava a nitrire nervosamente, le labbra ritratte a scoprire i denti in un atteggiamento di terrore. Poi, non appena i cavalli neri tentarono di superare il guado, vidi il Bruinen "rigonfiar le sponde" come il Piave nella sua canzone della Prima Guerra Mondiale. Il livello delle acque del fiume crebbe all’improvviso, come in un’alluvione lampo. La corrente divenne impetuosa e, sulla cresta delle onde che si erano formate sulla superficie scura, sembrava galoppare un esercito di cavalieri di schiuma. I primi tre cavalli, già al centro del fiume, furono spazzati via come fuscelli mentre gli altri sette, che si erano bloccati in preda al terrore suscitato in loro dalla magia elfica, furono sospinti nelle acque vorticose da Glorfindel e Aragorn che, nel frattempo, avevano acceso delle torce. Il fuoco era l’unica cosa che riusciva, in qualche modo, a respingere gli Spettri, ed i due avevano sfruttato questa debolezza a loro vantaggio. Non appena l’ultimo Nazgûl fu inghiottito dalla piena il cielo tornò a rischiararsi e la sensazione di gelo scomparve. Il cavallo di Glorfindel, incitato dal suo padrone, riprese a galoppare verso Gran Burrone, con Frodo ormai svenuto che ballonzolava sulla sua sella. Mi passò accanto, in un turbine di zoccoli e criniera mentre io, ormai superato il momento di terrore, ripresi ad avanzare verso il guado. Le acque stavano calando e Glorfindel, Aragorn e gli altri tre Hobbit stavano per accingersi ad attraversare.
Non appena mi vide, l’Elfo portò rispettosamente il pugno alla fronte, salutandomi.
"Salute, Dama Marian Tingilindë! Non dovreste trovarvi qui, il guado è diventato un luogo molto pericoloso!"
"Lo so, Glorfindel" gli risposi, dopo averlo salutato a mia volta. "Ho sentito i Nazgûl, ma ho visto che il Bruinen ha difeso bene Imladris."
L’Elfo annuì gravemente poi, leggero come una piuma, attraversò il fiume seguito dagli altri. Non appena mi raggiunsero scesi per presentarmi.
"Salute, Aragorn figlio di Arathorn, è un grande piacere per me fare la vostra conoscenza" dissi, facendo un inchino. Mano a mano che passava il tempo, mi rendevo conto che stavo cominciando a diventare anch’io affettata quasi quanto gli Elfi e, per poco, non mi scappò da ridere, rischiando di vanificare tutta la mia “misurata eleganza”.
L’uomo mi fissò, incredulo: evidentemente non riusciva a capire come facessi a conoscere il suo nome. Glorfindel gli spiegò, in poche parole, chi ero e cosa rappresentavo. A quel punto fu Aragorn ad inginocchiarsi davanti a me, portando il pugno prima alla fronte e poi alle labbra.
"Salute a voi, Dama Marian delle Terre Lontane, portatrice della “Stella di Fëanor”. E’ un onore per me conoscervi."
Diventai rossa come un peperone: Aragorn, l’erede di Isildur, che si inginocchiava davanti a me? Non potevo davvero crederci!
"Alzatevi, per favore, così mi mettete in imbarazzo!” gli chiesi, con le guance in fiamme. “E prego anche voi, come ho già pregato Arwen, di darmi del tu e di non chiamarmi dama" aggiunsi, ridendo. Anche lui sorrise mentre si rialzava.
"Come preferisci, ma chiedo lo stesso trattamento" mi disse, fissandomi negli occhi. Il suo sguardo magnetico mi inchiodò dove mi trovavo ed, involontariamente, arrossii di nuovo. Per superare il momento di imbarazzo mi rivolsi agli Hobbit.
"E voi siete…" cominciai, con l’intenzione studiata di stupire anche loro dimostrando che conoscevo i loro nomi – in caso di domande imbarazzanti avrei potuto dire loro che me li aveva rivelati Gandalf – ma non mi lasciarono il tempo di finire.
"Meriadoc Brandibuck, al vostro servizio! Peregrino Tuc, servo vostro!" esclamarono in coro i due più giovani. "Ma potete chiamarci Merry e Pipino!" soggiunse quest’ultimo.
Anche a loro ripetei il mio invito.
"Vi prego, datemi del tu! E tu sei Samvise Gamgee, giusto?" dissi poi, rivolta al giardiniere di Frodo, che arrossì nel sentirsi chiamare per nome.
"Si, è esatto, ma potete chiamarmi Sam… ed anch’io sono al vostro servizio!" balbettò, strofinandosi le braccia, a disagio.
"Chiedo anche a te di darmi del tu, anche se so già che sarà inutile: se ti conosco abbastanza so che continuerai a darmi del voi" commentai tra me e me, poi aggiunsi, per stemperare un po’ l’atmosfera che stentava ancora a scaldarsi dopo l’incontro con gli Spettri, "c’è qualche Hobbit stanco che vuole evitare di farsi a piedi l’ultimo tratto?"
Com’era prevedibile, Merry e Pipino accettarono subito. Li aiutai a salire in sella, poi chiesi a Sam se voleva usufruire, ma lui fece di no con la testa e riprese a camminare, tirandosi dietro il suo puledro Bill.
Freccia d’Argento partì al passo e noi le andammo dietro. All’inizio i due Hobbit si spaventarono nel vedere che non la guidavo per le briglie. Sapevo che i Mezzuomini non erano propriamente amanti dei cavalli, animali che consideravano decisamente troppo alti per loro, perciò li tranquillizzai.
"Non preoccupatevi. Freccia D’Argento è una cavalla molto intelligente e, soprattutto, capisce quello che dite!"
"Veramente?" chiese Pipino, incredulo, voltandosi a guardarmi.
"Sì! State a vedere: Freccia? Fermati!" ordinai, e la giumenta obbedì.
"Saluta gli Hobbit!" ordinai ancora. Lei voltò la testa all’indietro e nitrì, rivolta ai due, che la guardarono ad occhi sgranati e con la bocca atteggiata ad una "O" di stupore. Non potei trattenere una risatina e, d’un tratto, mi venne un’idea.
"Tenetevi saldi, ragazzi miei!” dissi loro, strizzandogli l’occhio. “Freccia, al galoppo!"
La mia cavalla non se lo fece ripetere due volte: partì di corsa e fu solo grazie alla prontezza di spirito di Merry – che si era aggrappato saldamente alle redini non appena gli avevo chiesto di farlo – se non furono entrambi sbalzati di sella. Freccia era talmente veloce che in un attimo sparì alla vista, portandosi dietro le urla dei due giovani Hobbit.
Anche Aragorn stesso rimase molto colpito.
"Ho visto molti cavalli durante la mia lunga vita, ma mai nessuno simile a questo. E’ per caso una discendente degli antichi Mearas?"
"Non lo so, può anche darsi che in questa parte di mondo lo sia. Nel luogo da cui provengo non è nemmeno un cavallo!" esclamai, alzando le spalle. L’uomo mi guardò ancora più stupito, ma non fece altre domande.
In breve raggiungemmo il cortile di Rivendell. Merry e Pipino erano arrivati urlanti, tra l’ilarità generale, ed erano stati aiutati a smontare da due Elfi. Non appena fummo tutti riuniti ci informarono che Frodo era stato portato all’interno del palazzo e che Elrond in persona si stava prendendo cura di lui. Il processo di guarigione avrebbe richiesto molto tempo, perché il frammento del pugnale con cui lo Spettro aveva ferito l’Hobbit – e che era rimasto all’interno della ferita – era quasi arrivato al suo cuore, ma il Sire di Rivendell era convinto di poterlo guarire.
Subito, Sam raggiunse il capezzale del suo amato padrone, mentre Aragorn si recò prima in cerca di Arwen e poi di Gandalf. Io rimasi con gli altri due Hobbit.
"Scusate per lo scherzo di prima! Vi siete spaventati molto?" chiesi loro, mentre carezzavo il collo di Freccia che mi sbuffò in faccia, facendo tremolare le froge.
"Spaventati? Tutt’altro! E’ stato incredibile! Il tuo cavallo vola come il vento!" rispose Pipino, ostentando una baldanza che in sella non aveva avuto. "Quando lo rifacciamo?"
"Questo dovrete chiederlo a lei" risposi ridendo, mentre Freccia scuoteva la testa ed il collo dalla lunga criniera color argento, voltandoci poi il sedere, per tornare da sola alle scuderie.
Era il venti di ottobre, e quello fu l’arrivo degli Hobbit.

Spazio autrice:
Salve a tutti, gente! Eccovi il terzo capitolo della mia storiella. Rivisto e corretto. Al momento, i cambiamenti si limitano all’aggiunta di qualche frase ed alla modifica della punteggiatura, ma forse più avanti i miei interventi si faranno sentire di più. Spero che sia di vostro gradimento! :-).
Evelyn

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Capitolo 4
*** L’uomo di Gondor ***


Spazio Autrice: Buongiorno a tutti! Ecco il nuovo capitolo “riveduto e corretto”. E’ molto più lungo rispetto ai precedenti, e spero di non annoiarvi. Per chi legge per la prima volta: vi informo che gli asterischi che troverete all’interno del testo, in questo capitolo ed in altri più avanti, stanno ad indicare il cambio del punto di vista tra i vari personaggi: solitamente tra Marian, la protagonista, e Boromir. Voglio ringraziare, oltre a chi ha già letto e commentato in precedenza, anche chi ha cominciato a leggere adesso la storia. Buona lettura! :-)
 


L’uomo di Gondor

 
Frodo impiegò quattro giorni a riprendersi; anche se, in realtà, non sarebbe mai guarito del tutto. Il ricordo della ferita infertagli dallo Spettro l’avrebbe accompagnato per il resto della sua vita.
Per tutto quel tempo Sam e suo zio Bilbo – che io, fino ad allora, avevo visto poco, perché l’anziano Hobbit trascorreva la maggior parte del tempo chiuso nella sua stanza a scrivere le sue memore nel Libro Rosso – rimasero al suo capezzale e, spesso, anche Gandalf fece loro compagnia.
Le lezioni di scherma con Arwen furono sospese, poiché l’Elfa passava la maggior parte del suo tempo con Aragorn. Molto spesso li si poteva vedere mentre passeggiavano mano nella mano lungo i sentieri che costeggiavano il fiume; oppure trascorrevano lunghe ore a leggere in silenzio, seduti l’uno accanto all’altra nella Sala del Fuoco.
"Che bella coppia" sospiravo spesso, a mezza voce, quando li vedevo, mentre con il pensiero correvo a Boromir che, di sicuro, stava cavalcando verso Imladris.
Ma, anche se non avevo più gli allenamenti, non potevo certo dire di annoiarmi perché Merry e Pipino – che mi avevano preso a benvolere sin dall’inizio – trascorrevano la maggior parte delle loro giornate in mia compagnia, lasciandomi soltanto per brevi periodi in cui andavano ad informarsi sulle condizioni di Frodo. Interrogavano tutti gli Elfi che erano stati a contatto con il loro cugino per accumulare più notizie possibile, poi tornavano a farmi un resoconto dettagliatissimo sulle sue condizioni cliniche.
Erano due Hobbit molto curiosi – o, meglio, molto più curiosi della normale media Hobbit – e, nei momenti di quiete in cui non stressavano Elrond e compagnia,  mi divertii molto a raccontare loro come andavano le cose nel mio "mondo". Mi subissavano di domande e ridevano come matti quando cercavo di spiegargli come funzionavano cose che loro non avevano mai visto, come ad esempio il telefono o la televisione.
Dal canto loro, essi mi raccontarono vita, morte e miracoli della Contea e di tutte le famiglie che vi abitavano, le quali erano talmente tante ed avevano cognomi talmente simili tra loro che ben presto cominciai a confondermi, facendo miscugli anche con i nomi delle varie ed innumerevoli località in cui la loro terra d’origine era suddivisa.
"Allora, vediamo se ho capito. I Tuc vivono per la maggior parte a Pianaforata…" cominciai, un pomeriggio in cui eravamo seduti all’ombra di un faggio secolare, cercando di ricapitolare la marea di informazioni con cui i due mi avevano letteralmente travolto.
"No! Innanzi tutto è “Pietraforata” e non “Pianaforata”, ti sei confusa con “Pianilungone”! E poi, i Tuc vivono a Tucboro!" mi corresse serio Pipino mentre Merry si contorceva dalle risate, indicando alternativamente la mia faccia confusa e l’espressione da professore che aveva assunto il suo giovane parente.
"Lasciamo perdere, ragazzi” sospirai allora, rassegnata. “Credo che non riuscirò mai a mandare a mente tutti i vostri nomi!".
Durante quei quattro giorni, in cui Frodo rimase incosciente, iniziarono ad arrivare le delegazioni dei popoli liberi convocate da Elrond per il suo Consiglio. Per primi giunsero gli Elfi silvani di Bosco Atro, tra i quali si trovava il principe Legolas Verdefoglia ed, il giorno successivo, fu la volta dei Nani della Montagna Solitaria, capitanati da Gloin e da suo figlio Gimli. Fui presentata a tutti i nuovi venuti come la "Portatrice della Stella" e tutto ciò cominciò ad essere molto fastidioso poiché – da qualsiasi parte andassi, dovunque mi voltassi – trovavo sempre qualcuno pronto a riverirmi. Infine, esasperata per la nuova ondata di smancerie, arrivai al punto di tentare di nascondermi addirittura dietro ai due Hobbit ogni qual volta vedevo arrivare qualcuno – Elfo, Nano o Uomo che fosse. I miei due nuovi amici mi assecondarono subito ed, anzi, se loro per primi notavano la presenza di un estraneo mi mandavano a nascondermi. Allora mi rifugiavo nelle scuderie, all’interno del box di Freccia d’Argento. Non appena il pericolo era passato i due venivano a chiamarmi e, spesso, in segno di riconoscenza, li portavo a passeggiare in sella alla mia cavalla.
Finalmente il quarto pomeriggio, mentre eravamo tutti e tre seduti su un muretto a guardare il fiume ed a raccontarci barzellette, Glorfindel venne ad annunciarci che Frodo si era svegliato dalla sua incoscienza. I due Hobbit saltarono subito in piedi, entusiasti della notizia, e si lanciarono come lepri verso la sua stanza. Quando si resero conto, però, che  non mi ero mossa, tornarono sui loro passi pregandomi di andare con loro.
"Frodo è vostro cugino, ed è più che giusto che andiate subito a salutarlo” risposi loro, scuotendo la testa rifiutando l’invito, “ma io per lui sono solo un’estranea… Non vorrete mica affaticarlo con delle lunghissime spiegazioni!"
"Ma quale estranea?! Tu sei nostra amica! Devi assolutamente venire con noi!" insisterono, ed io non potei far altro che andar loro dietro, trattenendo a stento un lungo sospiro. Erano molto simpatici, dovevo riconoscerlo, ma a volte erano anche molto, molto invadenti.
Sulla soglia della camera da letto di Frodo trovammo Elrond e Gandalf, che ne stavano uscendo.
"Ah, eccovi qua voi due! Mi raccomando non stancatelo troppo! E’ ancora molto debole!" li redarguì lo stregone, aggrottando le sopracciglia e fissandoli serio. Colsi la palla al balzo.
"Visto, che vi avevo detto? E’ meglio che io non venga, andate solo voi…" tentai di nuovo di defilarmi. Non sapevo perché, ma non mi sentivo ancora pronta per incontrare il Portatore dell’Anello. Gandalf mi sorprese, chiedendomi invece di entrare.
"Va’ con loro! A Frodo farà piacere sapere che non è il solo a portare un pesante fardello" e, con gli occhi, ammiccò in direzione della "Stella" che pendeva appesa al mio collo.
L’Hobbit giaceva adagiato su un morbido letto a baldacchino, avvolto in candide coperte profumate. Aveva appoggiato la schiena alla spalliera imbottita di cuscini e guardava fuori della finestra con sguardo assente. Profonde occhiaie segnavano i suoi begli occhi blu e, dal colletto della larga casacca che indossava, spuntava la fasciatura che copriva la sua ferita alla spalla.
Fu molto contento di vedere i suoi cugini, e sorpreso nel conoscere la mia storia. Si disse onorato di fare la mia conoscenza e di potermi annoverare tra i suoi amici, ma la sua inquietudine tradiva un profondo senso di disagio. Io stessa – anche se avevo cercato di non darlo a vedere – non appena avevo messo piede all’interno della stanza avevo percepito il potere oscuro che scaturiva dall’Anello.
Lo avvertii come una specie di buco nero, un vuoto infinito da cui partivano molti raggi come tentacoli, pronti ad afferrare il cuore di qualsiasi essere si avvicinasse ad Esso. Uno di questi aveva già cominciato a scavare, lento ed inesorabile, macchiando la pura coscienza di Frodo. Il mio ciondolo reagì all’istante, diventando più luminoso e più caldo e, di sicuro, anche l’Hobbit percepì qualcosa perché, d’istinto, si portò le mani al petto – come per difendere l’Anello – per poi adagiarle di nuovo subito dopo sulla coperta.
La nostra visita fu molto breve. Con la scusa di non affaticarlo troppo riuscii a convincere i miei compagni a lasciare la stanza dopo pochi minuti e li ringraziai mentalmente quando si dissero immediatamente concordi con me. Se non avessi avuto la mia collana a proteggermi, di sicuro anch’io avrei sentito l’impellente bisogno di impossessarmi del gioiello di Sauron.
Una volta fuori della camera, Merry e Pipino tornarono nel cortile, parlando allegramente tra loro della fortunata guarigione del cugino. Gandalf, che stava ancora passeggiando nel corridoio, mi trattenne, forse vedendo il mio viso turbato. Mi guardò negli occhi e non ebbe bisogno di farmi alcuna domanda per convincermi a parlare.
"L’ho sentito Gandalf!” esclamai, non appena i miei compagni si furono allontanati. “Ho sentito il potere dell’Anello! Non invidio affatto il povero Frodo. Non vorrei mai trovarmi nei suoi panni!"
Lui annuì gravemente.
"Immaginavo che l’avresti percepito. E scommetto che la "Stella" ha cercato di contrastarlo, non è così?"
"Sì, in effetti è diventata più calda e brillante, ma solo per poco” ammisi. “Durante tutto il tempo in cui sono stata nella stanza ho sentito come un peso sul cuore, ma i neri tentacoli… è così che l’ho visto, come neri tentacoli…” spiegai, “si sono come ritratti quando mi hanno visto."
"La "Stella di Fëanor" è un manufatto molto più antico dell’Unico e forse altrettanto potente” rivelò lo Stregone. “Ecco perché tu rappresenti una speranza per tutti noi. Ma… si sta facendo tardi! Elrond ha organizzato un banchetto in onore di Frodo e della sua fortunata guarigione. Va a cambiarti e non pensare al futuro, per adesso."
Mi strizzò l’occhio lasciandomi da sola e, più tardi quella sera, avrei ricordato quel gesto. Ciò mi fece capire che Gandalf sapeva qual era la mia missione.
Seguii il suo consiglio e mi ritirai nella mia stanza, dove feci un bel bagno caldo e mi cambiai con l’abito elfico che mi avevano dato il giorno del mio arrivo e che, da quella prima sera, avevo accuratamente riposto nell’armadio. Di solito preferivo indossare i miei comodi abiti maschili e le damigelle di Arwen me ne avevano procurati molti altri. Ma, visto che quella sera era dedicata a Frodo, decisi di fare un piccolo sacrificio e di mettermi in ghingheri. Una delle ancelle a mia disposizione si divertì ad acconciarmi i capelli – lunghi fino al fondo schiena – alla maniera elfica e quando uscii dalla mia camera con la "Stella di Fëanor" che scintillava sul mio petto, chiunque avrebbe potuto benissimo scambiarmi per una dei Priminati, se non fosse stato per il fatto che le mie orecchie non erano a punta.
Ero appena giunta nel cortile principale di Imladris, diretta verso la sala da pranzo, quando udii lo scalpiccio di zoccoli di un cavallo al trotto lento. Mi voltai verso l’arco in pietra che segnava l’accesso dell’Ultima Casa Accogliente, appena in tempo per vedere arrivare l’Uomo per cui avevo espresso il desiderio che mi aveva condotto nella Terra di Mezzo: Boromir.
Fece fermare il cavallo tirando le redini e rimase a guardarsi intorno a bocca aperta, quasi meravigliato dalla bellezza del luogo. I suoi abiti, anche se impolverati per la lunga cavalcata, testimoniavano il suo alto lignaggio. Indossava pantaloni e gilet in pelle, quest’ultimo chiuso da tre fermagli a borchia finemente lavorati. Al di sotto portava una casacca color rosso fegato, decorata con ricami di fili d’oro al collo e sulle maniche, che erano corte. Sotto ancora, indossava una spessa e pesante cotta di maglia, mentre le sue mani erano coperte da spessi guanti in cuoio, con parapolsi – decorati con l'albero di Gondor sbalzato sulla superficie – che gli arrivavano fino all’avambraccio. Sopra a tutto indossava un mantello di velluto, anch’esso rosso scuro come la casacca, bordato di pelliccia. Al fianco portava una grossa spada ed appeso alla schiena aveva un grande scudo rotondo, decorato da un’unica borchia metallica centrale. Appeso alla cintura troneggiava il grande corno di Gondor.
I suoi capelli biondo scuro, lunghi fino alle spalle, erano scompigliati per la lunga cavalcata e la barba aveva decisamente bisogno di essere ritoccata ma, nella luce morente del tramonto, mi apparve come una visione, e mentre lui continuava a guardarsi attorno a bocca aperta, io fissavo lui con la medesima espressione. Eccolo, finalmente era arrivato: il Capitano Generale di Gondor!
Mentre continuavo a guardarlo, incapace di muovermi come se i miei piedi avessero messo le radici, molti Elfi si avvicinarono. Lui scese da cavallo e chiese di vedere il padrone di casa. Elrond stesso venne ad accoglierlo ed insieme i due entrarono nel palazzo. Soltanto quando sparì dalla mia vista ritrovai la facoltà di movimento e, lentamente, mi diressi verso la sala da pranzo.
All’interno della grande stanza erano già presenti molti degli invitati. Arwen era seduta al suo posto, accanto all’alto seggio di solito occupato da suo padre e, con la mano, mi fece cenno di raggiungerla.
"Vieni, siedi accanto a me!"
"E Aragorn?" le chiesi, mentre mi accomodavo.
"Lui sederà alla sinistra di mio padre, tra i miei fratelli Elladan ed Elrohir" mi rispose, indicandomi la sedia vuota tra i gemelli.
Dopo pochi minuti, quando quasi tutti gli invitati avevano ormai preso posto a tavola, Glorfindel venne ad annunciare che la cena avrebbe avuto inizio con qualche attimo di ritardo, poiché era appena giunto un ospite inatteso dal sud. Alcuni dei Nani borbottarono tra di loro mentre gli altri si disposero ad attendere di buon grado. Subito dopo arrivarono tutti e cinque gli Hobbit, accompagnati da Gandalf. Merry e Pipino mi salutarono allegramente agitando la mano, prima di mettersi a sedere in fondo ad una delle lunghe tavolate insieme a Sam, che guardava gli Elfi con aria imbambolata. Gandalf fece accomodare Frodo accanto al vecchio Gloin, poi raggiunse l’alta tavola a cui già sedevamo tutti tranne Elrond, e si mise seduto accanto a me. Bilbo si accomodò accanto ad uno degli Elfi silvani ed alla sua sinistra rimase un posto libero, proprio davanti ai miei occhi.
L’attesa durò circa una mezz’ora ma, dal mio punto di vista, ne valse proprio la pena perché quando Boromir entrò nella sala, preceduto da Elrond, una luce si accese davanti a me.
Si era lavato, aveva rasato le guance e ritoccato accuratamente baffi e barba, che portava a pizzetto. Aveva pettinato i capelli, che ora erano lisci e splendenti. Aveva tolto i guanti e la cotta di maglia – al posto della quale indossava una morbida camicia di pelle scamosciata – ma non i parapolsi, che continuavano ad ornargli le braccia tornite. Aveva deposto la spada e lo scudo ma non il corno, ancora appeso alla cintura.
Non appena il padrone di casa fece il suo ingresso nella sala ci alzammo tutti in piedi, in segno di rispetto. Lui fece cenno con le mani di accomodarci e disse:
"Vi ringrazio per la vostra paziente attesa! So che è stata un po’ lunga, ma non potevamo certo cominciare senza il nostro illustre ospite, appena giunto dal reame di Gondor.” Alzò una mano, ad indicare il Gondoriano al suo fianco. “Questi è Boromir, Capitano Generale; figlio di Sire Denethor, Sovrintendente Regnante di Gondor!"
Con un ampio cenno del braccio, Elrond invitò l’Uomo ad accomodarsi nell’ultimo posto rimasto libero, poi lui stesso venne a sedersi a tavola e la cena cominciò.
Boromir si trovava proprio di fronte a me, a pochi passi di distanza, e ne approfittai per guardarlo direttamente in faccia ogni volta che volevo.
Si guardò intorno a lungo, alzando spesso lo sguardo al soffitto che era di legno, a cassettoni finemente lavorati, illuminato da decine di torce appese alle pareti. Dopo aver finito l’esame della stanza i suoi occhi grigio-verdi si posarono su di me ed io mi sentii arrossire fino alla punta delle orecchie. Distolsi lo sguardo con un mezzo sorriso, fissando quello che avevo nel piatto, ma tornando a guardarlo più volte nel corso della serata. Con piacere, notai che spesso i nostri sguardi si incontrarono, perché anche lui guardava me con un’espressione interessata.
"Mi sembri un po’ distratta, questa sera, mia cara" mi disse Gandalf ridendo sotto i baffi quando, per la terza volta, mancai con la forchetta i bocconi che avevo nel piatto, prendendo invece la tovaglia.
"Eh?" dissi, come risvegliandomi da un sogno. Mi ero messa a guardare Boromir che divorava con appetito quello che aveva nel piatto, perdendo completamente la cognizione del tempo e dello spazio.
"Ho detto che mi sembri un po’ distratta" ripeté lo Stregone con un sorriso malizioso, strizzandomi l’occhio. Arrossii e borbottai qualcosa di incomprensibile, chinando di nuovo lo sguardo sul piatto. Gandalf ridacchiò e riprese a mangiare.
Qualche minuto dopo, quando ebbi nuovamente il coraggio di alzare gli occhi, vidi che Boromir aveva vuotato il piatto ed era impegnato in conversazione con Bilbo; poi Pipino mi fece "ciao" sbracciandosi dal suo posto, ed io risposi con entusiasmo, inzuppando la lunga manica del vestito nel piatto.
"Mannaggia! Che impiastro che sono!" esclamai, cercando di ripulire l’abito con il tovagliolo e finendo soltanto con il peggiorare la situazione. Arwen mi guardò inarcando le sopracciglia ed io smisi di dimenarmi sulla sedia, alzando le spalle con fare rassegnato e finendo di mangiare.

 

* * *

 

Non appena si era messo a sedere, Boromir si era subito guardato intorno. Vi erano molti rappresentanti delle diverse razze libere della Terra di Mezzo – Elfi, Uomini e Nani – presenti a quella cena; oltre a cinque creaturine, una delle quali gli sedeva accanto, che non aveva mai visto prima di allora e delle quali ignorava persino l’esistenza. Il suo vicino si era presentato come Bilbo Baggins, Hobbit della Contea, e quando lui gli aveva risposto che non aveva la più pallida idea di cosa fosse un Hobbit, l’omino aveva aggiunto:
"Forse la parola Mezzuomo vi dice qualcosa di più?"
Boromir era rimasto di sasso, tornando con la mente alle parole che aveva udito in sogno: "Cerca la Spada che fu rotta, a Imladris la troverai; i consigli della gente dotta più forti di Morgul avrai. Là un segno verrà mostrato, indice che il Giudizio è vicino; il Flagello d’Isildur s’è svegliato e il Mezzuomo è in cammino". Aveva discusso a lungo in merito a quelle frasi, sia con suo padre che con Faramir: lui aveva fatto quel sogno solo una volta, mentre per suo fratello era stata una visione onirica piuttosto ricorrente. Fino all’ultimo momento, Faramir aveva sperato con tutto il suo cuore che il loro padre scegliesse lui, quale messaggero per Imladris ma, alla fine, Denethor aveva deciso di incaricare il maggiore dei suoi figli, benché anche quest’ultimo avrebbe preferito mandare il fratello. Lui non era mai stato un uomo adatto a tediosissime riunioni: la sua natura di guerriero lo portava ad amare solo ed esclusivamente il campo di battaglia, ma il Sovrintendente era stato irremovibile. Ed era per quel motivo che si trovava lì, ad Imladris: per avere i consigli della "gente dotta". Ed ora si trovava davanti non solo uno, ma ben cinque Mezzuomini!
Si guardò intorno con curiosità, ammirando la bellezza della stanza ma continuando a pensare al suo sogno. Non l’aveva mai rivelato a nessuno – né a suo padre, né al suo amato fratello, né tantomeno ad Elrond durante il breve colloquio che avevano avuto non appena arrivato e durante il quale il Mezzelfo lo aveva invitato a partecipare al suo Consiglio, che si sarebbe tenuto l’indomani – ma lui aveva udito un’altra strofa. "Una lieta presenza è giunta in quel luogo, che libera i cuori dalla morsa che serra; la Stella perduta brilla di nuovo, per l’Uomo di Gondor e per tutta la Terra".
Stava ripetendo per l’ennesima volta quelle parole nella sua mente, quando il suo sguardo si posò su una delle due fanciulle che sedevano alla tavola alta. Al collo portava un monile a forma di stella, così splendente che per un attimo i suoi occhi non riuscirono a vedere altro. Lei a sua volta lo guardò: quando il loro occhi si incontrarono la vide arrossire e chinare lo sguardo con un mezzo sorriso.
Rimase a guardarla colmo di stupore e, durante la serata, più volte i loro sguardi si incrociarono. Quando ebbe finito di mangiare si concesse di osservarla un po’ più a lungo e l’Hobbit seduto accanto a lui colse il suo sguardo.
"Vedo che avete notato anche voi la presenza più lieta di tutto Gran Burrone!" disse, con la sua vocina ancora squillante nonostante l’età, facendo un mezzo sorriso e guardando maliziosamente il suo interlocutore.
"Sì…” rispose distrattamente Boromir, senza neanche voltarsi a guardare il Mezzuomo. “Vedo che è vestita come un’Elfa, ed è acconciata come una di loro, ma le sue orecchie non sono a punta… è dunque della mia razza?" chiese, pieno di una curiosità che non aveva mai provato prima di allora nei riguardi di una donna, e che lasciò lui stesso stupefatto.
"Sì, è una Donna, anche se non è originaria della Terra di Mezzo!” rispose Bilbo, continuando a ridacchiare tra sé e sé. Aveva centoventotto anni e, anche se non si era mai sposato, aveva comunque vissuto le sue esperienze, e sapeva riconoscere un maschio vittima di un colpo di fulmine, quando ne vedeva uno. “Viene da un posto talmente lontano che nemmeno Gandalf ed Elrond sanno dove si trova! Ma l’importante non è da dove proviene, ma quello che reca con sé: vedete il gioiello che porta al collo?"
Boromir annuì, senza distogliere lo sguardo dalla misteriosa fanciulla.
"Quella è la “Stella di Fëanor”, l’ultimo Silmaril che si credeva perduto da tempi remoti. Il suo ritorno è stato una grande gioia per tutti!"
"La Stella perduta brilla di nuovo…" mormorò il Gondoriano ripetendo, senza accorgersene, le parole del suo sogno.
"Sì, è esatto!" confermò Bilbo. "Il suo nome è Dama Marian, ma qui gli Elfi la chiamano Tingilindë, che vuol dire Stella Scintillante!"
Finalmente, Boromir riuscì a distogliere lo sguardo dalla tavola alta ed a fissare il suo interlocutore.
"Ditemi tutto ciò che sapete di lei!" ordinò, senza neanche rendersi conto di aver usato un tono di comando, di certo non adatto alla situazione. L’Hobbit parve non accorgersene nemmeno.
"Purtroppo non posso esservi di aiuto” gli rispose, ancora sorridendo sotto i baffi. “L’ho incontrata solo due o tre volte, prima di oggi, e non abbiamo mai fatto molta conversazione. Passo la maggior parte del tempo nella mia stanza, ormai, ed esco solo di rado; ma i miei cugini passano molto tempo con lei" e, con la mano, Bilbo, indicò Merry e Pipino che gozzovigliano all’altra estremità del tavolo. "Forse loro sapranno dirvi qualcosa di più. Oppure, se ne avrete l’ardire, potrete rivolgervi direttamente a lei!" e, con quelle parole, gli strizzò l’occhio, malizioso.

 
* * *


 
Quando la cena finì, Elrond invitò tutti i suoi ospiti a fargli compagnia nella Stanza del Fuoco. Mi accodai ad Arwen, sempre cercando di mandar via la macchia di sugo che avevo sulla manica, leccandomi le dita e strofinando alacremente,  ma finendo soltanto con l’imbrattare ancora di più la stoffa. Una volta dentro, lei andò a sedersi accanto a suo padre ed Aragorn si mise in piedi dietro di lei. Tutti gli altri si accomodarono sulle varie sedie e panche sistemate tutto intorno alla stanza. Non appena entrò, Bilbo andò in cerca di Aragorn, parlottò un po’ con lui e si allontanò seguito da quest’ultimo, reggendo in mano diversi fogli scritti con una calligrafia minuta ed un po’ inclinata verso destra.
Andai a sedermi al posto che mi era stato riservato, ancora una volta tra la Stella del Vespro e Gandalf, e quando il ramingo tornò si piazzò di nuovo in piedi ma, questa volta, tra Arwen e me. Mi voltai a guardarlo sorridendogli ed egli rispose al mio sorriso. Per quella che non era la prima volta pensai che se li portava veramente bene i suoi ottantasette anni, visto che ne dimostrava almeno la metà.
Mi guardai intorno, per vedere che fine avesse fatto Boromir. Si era messo a sedere in fondo alla stanza, stravaccato su una sedia, con il gomito destro puntato sul bracciolo e la testa appoggiata alla mano. Aveva l’espressione di chi o è completamente immerso nei propri pensieri, oppure si sta annoiando a morte.
"Propenderei per la seconda ipotesi, sapendo come lo ha descritto Tolkien" pensai tra me e me, ma le mie riflessioni furono ben presto interrotte dalla vocetta acuta di Bilbo che si schiariva la gola, per annunciare che aveva appena finito – grazie anche all’aiuto di Granpasso – di comporre un’ode in onore di Elendil e chiedeva il permesso di cantarla.
Elrond glielo accordò di buon grado e l’anziano Hobbit parlò a lungo. Dopo di lui, molti Elfi presero a cantare nella loro lingua di cui io, benché mi fossi impegnata con tutta la mia buona volontà, non avevo appreso che solo pochi termini. Cominciai anch’io ad annoiarmi e, senza rendermene conto, iniziai a sbadigliare ed addirittura a sonnecchiare.
Mi risvegliai di soprassalto – con la bocca semiaperta – quando la musica cambiò decisamente tono. I Nani avevano tirato fuori le loro viole, le loro arpe, i loro flauti ed i loro tamburi, e si erano messi a loro volta a cantare.
"Finalmente qualcosa di più allegro" pensai, stiracchiandomi, e grande fu la mia sorpresa quando attaccarono una canzone che somigliava incredibilmente a "Samarcanda" di Roberto Vecchioni.
"Ehi, ma questa è Samarcanda!" esclamai a voce alta, sobbalzando in maniera talmente violenta da cadere quasi dalla sedia. "Vuoi vedere che i legami fra il mio mondo e questo sono più di quelli che credevo?"
I Nani si misero a cantare nella loro lingua ed io presi a farlo in Italiano. Arwen lo notò e mi chiese se conoscevo quella canzone.
"Sì, la conosco nella mia lingua. La musica è pressoché la stessa, anche se non ho idea di cosa stiano dicendo i Nani" le risposi.
"Puoi cantarla, se vuoi."
"Io…?" dissi, avvampando. Cantare mi piaceva molto, ma mi vergognavo a farlo davanti a tutti. Soprattutto, di fronte a Boromir. Non feci in tempo ad accampare scuse perché, nel frattempo, Arwen aveva parlato con suo padre e, non appena i Nani ebbero finito di suonare, il Mezzelfo prego Gloin e i suoi compagni di attaccare nuovamente perché anche Dama Tingilindë avrebbe cantato la loro canzone nella sua lingua.
Se avessi potuto, sarei scivolata volentieri tra le fessure delle pietre del pavimento! Con il cuore che mi andava a mille all’ora mi alzai in piedi – facendomi mentalmente il segno della croce – ed attaccai a cantare, cercando di non fissare nessuno in particolare.
"Ridere, ridere, ridere ancora, ora la guerra paura non fa…"
Pian piano la tensione diminuì e ci presi gusto, accennando anche qualche passo di danza sugli stacchi musicali. Casualmente lo sguardo mi cadde su Boromir e vidi che si era finalmente destato dalla sua catalessi. Si era raddrizzato sulla sedia e batteva le mani a tempo con la musica. Quell’immagine mi dette una tale soddisfazione che avrei toccato il cielo con un dito, se non fossi stata al coperto.
Quando la musica finì tutti applaudirono. Accennai un inchino e tornai a sedermi, sventolandomi con le mani. Sia Arwen che Aragorn si complimentarono con me per la voce e, se possibile, divenni ancora più paonazza.
Finalmente giunse l’ora di ritirarsi per la notte. Gli ospiti cominciarono a congedarsi ed anch’io colsi l’occasione per andare a dormire, ma Elrond mi fermò.
"Domani, Dama Marian, si terrà un consiglio tra i popoli liberi della Terra di Mezzo, come voi già ben sapete!"
Io annuii, grave.
"Sarebbe un grande onore se la Portatrice della Stella volesse parteciparvi e contribuire, con i suoi consigli, a risolvere le questioni più spinose."
Arrossii involontariamente.
"Accetto con grande piacere, Sire Elrond, anche se, temo, non potrò darvi molti consigli."
L’Elfo non considerò minimamente i miei timori.
"Vi aspetto per domani mattina alla prima ora dopo l’alba” mi disse, con la sua voce profonda.
"Non mancherò" gli risposi. E, con quelle parole, mi congedai ed andai a dormire.
Era il ventiquattro di ottobre, e quello fu l’arrivo di Boromir.


Ri-spazio autrice: vi lascio con un’immagine che rappresenta Marian, con indosso il vestito elfico, la sera dell’arrivo di Boromir. L’ho realizzata grazie ad un simpaticissimo gioco di dress-up, specifico per i personaggi del Signore degli Anelli. Spero vi piaccia!

 

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Capitolo 5
*** Il Consiglio di Elrond ***






Il Consiglio di Elrond

 

Quella notte dormii veramente pochissimo, nervosa com’ero. Stavo per partecipare niente meno che al “Consiglio di Elrond”! E volevano addirittura i miei suggerimenti!
Feci una veloce colazione: di solito al mattino adoravo mangiare ma l’ansia mi aveva chiuso lo stomaco, per cui riuscii a buttar giù solo qualche sorso di latte accompagnato da un paio di biscotti. Quando la campana annunciò il raduno dei membri del Consiglio stavo già camminando avanti ed indietro, a grandi falcate, al margine della terrazza dove si sarebbe svolto l’incontro.
Nonostante le ancelle che Arwen aveva messo al mio servizio avessero insistito molto per farmi indossare un abito lungo, io avevo puntato i piedi.
"Devo andare ad un consiglio di maschi e mi vestirò da maschio!" avevo decretato, risoluta, e così avevo indossato gli stessi vestiti con cui ero arrivata a Gran Burrone quella mattina di quasi un mese prima, ormai.
Quando Elrond arrivò, seguito dai suoi illustri ospiti, mi trovarono intenta a grattarmi nervosamente le mani mentre facevo scricchiolare le suole degli stivali all’ennesima giravolta su me stessa. Il Mezzelfo mi fece cenno di mettermi seduta ed io mi accomodai su una delle sedie predisposte per l’occasione, continuando però a tormentarmi i palmi e le unghie per l’agitazione.
Gandalf, Frodo e Bilbo giunsero per ultimi. I due Hobbit si misero seduti tra Elrond e Granpasso, mentre lo Stregone venne ad accomodarsi accanto a me, alla mia sinistra. Ora che eravamo tutti presenti, mi concessi di lasciar vagare lo sguardo sui partecipanti. Alla mia destra si trovava Aragorn con i due Mezzuomini. Boromir, seduto alla destra del Sire di Imladris, rimaneva proprio di fronte a me; si era stravaccato sulla sedia proprio come la sera prima, con la stessa espressione annoiata. Al suo fianco sedeva Glorfindel, poi venivano altri due Elfi e, dopo di loro, Gloin e suo figlio Gimli. Infine, alla destra dei due Nani si erano accomodati alcuni Elfi di Bosco Atro, tra cui Legolas, che chiudeva il cerchio.
La cosa andò per le lunghe e fu molto più noiosa di quanto non avessi mai immaginato leggendone nel libro. Innanzi tutto, Gandalf raccontò della sua disavventura con Saruman e di come fosse rimasto prigioniero sulla sua terrazza di pietra prima di essere salvato da Gwaihir, il Re dei Venti. Poi, Bilbo raccontò la sua parte di storia: di come era venuto in possesso dell’Anello e via dicendo. Tutte cose che sapevo praticamente quasi a memoria, avendo letto sia “Lo Hobbit” che “Il Signore degli Anelli” innumerevoli volte. Vinta dalla noia stavo quasi per abbandonarmi al sonno, nascondendo un enorme sbadiglio dietro la mano quando, finalmente, Elrond chiese a Frodo di mostrare l’Anello.
L’Hobbit si alzò lentamente, obbedendo alla richiesta, e depose con delicatezza "Il Flagello di Isildur" sul cippo di pietra al centro dello spiazzo. Non appena l’ebbe appoggiato, il monile sfolgorò malvagiamente. La mia stella brillò più vivida, come per contrastarlo. Di nuovo sentii il potere di quell’oggetto in tutta la sua grandezza ed, ancora una volta, non invidiai affatto Frodo.
Tutti i presenti cominciarono a mormorare; Boromir si drizzò sulla sedia e disse, a voce bassa ma perfettamente udibile:
"Ma allora è vero…" sgranando lievemente gli occhi alla vista del gioiello.
Gandalf gli lanciò un’occhiata strana, forse già conscio del potere che il “Flagello di Isildur” avrebbe esercitato in futuro su di lui, ma l’Uomo di Gondor ormai era partito per la tangente e non se ne avvide minimamente. Si alzò lentamente in piedi, parlando con voce stentorea, narrando del sogno che gli aveva rivelato il risveglio del “Flagello di Isildur”. Mentre parlava si era avvicinato al cippo, allungando una mano verso l’Anello. Stava quasi per sfiorarlo – ed io vidi chiaramente uno dei neri tentacoli che si sprigionavano da esso allungarsi verso le dita tese di Boromir – quando, appena un attimo prima che il nero potere potesse aggrapparsi a lui, Elrond lo richiamò seccamente. Nel medesimo istante Gandalf si alzò in piedi, pronunciando le parole incise sulla fascia dell’Anello nella lingua di Mordor.
Il cielo si oscurò mentre lo stregone parlava e la mia stella splendette ancora più fulgida. Avvicinandosi al centro dello spiazzo, sempre pronunciando le oscure parole, l’Istari fece retrocedere Boromir che ripiombò a sedere di schianto sulla sua sedia. Elrond distolse il viso con una smorfia di disgusto e Frodo divenne bianco come uno straccio lavato, incassando la testa nelle spalle, colpito dalla durezza nella voce dello Stregone che pareva persino divenuto più alto.
Quando Gandalf richiuse la bocca il sole tornò a splendere. Elrond si lamentò con lui: nessuno poteva usare la lingua di Mordor a Gran Burrone; ma quello non si scusò e si risedette con sguardo tetro.
Evidentemente a Boromir la lezione non era bastata, poiché subito dopo tornò ad alzarsi in piedi, riprendendo il filo del suo discorso bruscamente interrotto.
"Questo è un dono! Un dono ai nemici di Mordor! Possiamo usarlo contro l’Oscuro Signore!" esclamò, infervorato dalle sue stesse parole.
"Povero idiota…" mormorai a mezza voce, scuotendo la testa, mentre lui perorava la sua causa, tirando avanti la sua tiritera. Gandalf mi guardò con un mezzo sorriso ma non ebbe bisogno di interromperlo ancora, perché Aragorn intervenne, bloccando finalmente il flusso di parole del Gondoriano.
"Nessuno può usare l’Anello! Esso ha un solo padrone, e risponde solo a Sauron!" sentenziò, mantenendo un tono di voce calmo.
"E cosa ne sa un ramingo di queste faccende?" gli chiese Boromir, con astio, voltandosi di scatto a guardarlo.
"Egli non è un semplice ramingo!" rispose per lui Legolas alzandosi in piedi a sua volta, il tono di voce alterato, facendo girare il Gondoriano verso di sé. "Questi è Aragorn, figlio di Arathorn, ed erede di Isildur!"
Boromir si voltò di nuovo verso Granpasso – che era rimasto seduto al suo posto – fissandolo con disgusto, come se fosse stato un insetto nocivo, ma senza riuscire a nascondere del tutto l’incredulità.
"Aragorn…? Questi è l’erede di Isildur…?" chiese, in un tono che quasi rasentava lo scherno.
"Ed erede al trono di Gondor!" concluse Legolas, prima che Aragorn gli chiedesse di rimettersi seduto.
A quelle ultime parole lo sguardo di Boromir si rabbuiò.
"Gondor non ha un re! A Gondor non serve un re!" pronunciò con rabbia mentre si abbandonava di nuovo sul suo scranno, il volto accigliato e tetro.
Dopo un istante di silenzio in cui la tensione parve quasi palpabile Elrond riprese la parola.
"L’Anello deve essere distrutto…"
"Ed allora che aspettiamo?" lo interruppe Gimli, saltando in piedi e brandendo una delle sue asce. Si avventò come una furia sull’Anello, ma la sua arma ci rimbalzò sopra andando in frantumi e scaraventando il povero Nano incredulo con il sedere per terra.
Quando l’ascia colpì il gioiello Frodo trasalì vistosamente ed anch’io non fui da meno, poiché anche a me apparve una fugace visione dell’occhio di Sauron. La "Stella di Fëanor" cominciò a bruciare talmente tanto che fui costretta a toglierla da sotto i vestiti, posandola sopra la casacca.
"L’Anello non può essere distrutto con comuni armi, Gimli figlio di Gloin" riprese il Mezzelfo. "Esso è stato forgiato nella Terra di Mordor, all’interno della Voragine del Fato, e solo là potrà essere annientato! L’Anello deve essere condotto a Mordor, ed uno di voi dovrà farlo" sentenziò, spostando il suo sguardo solenne su tutti i presenti.
"E’ una pazzia!" borbottò Boromir, quasi come se parlasse a se stesso, una mano a coprirsi la fronte. "Non si entra così semplicemente a Mordor! I suoi neri cancelli sono sorvegliati da più che meri orchetti! E’ una landa desolata, ricoperta di fiamme, ceneri e polveri! E poi, c’è il grande occhio… sempre all’erta!"
"Non avete udito le parole di Sire Elrond?" lo aggredì Legolas, alzandosi di nuovo in piedi. "L’anello deve essere distrutto!"
"E pensi di essere tu a farlo, non è vero?" ruggì Gimli, intromettendosi nella discussione e balzando a sua volta nuovamente in piedi. "Sarò morto prima di vedere l’Anello nelle mani di un Elfo! Nessuno si fida di un Elfo!" gridò, tremando di rabbia e sdegno.
A quel punto si scatenò un parapiglia. Tutti si alzarono dalle loro sedie – tranne Elrond, Aragorn, Frodo e me – e cominciarono a gridare l’uno contro l’altro: Nani contro Elfi, Boromir contro Gandalf, addirittura Elfi di Imladris contro Elfi Silvani… Peggio che in una seduta notturna della Camera dei Deputati! Frodo fissò per un po’ l’Anello – che, per un attimo, sembrò avvampare – poi si alzò in piedi e gridò, cercando di sovrastare la confusione.
"Lo porterò io!" disse, ma la sua vocina si perse nella babele di urla. Sconcertato si voltò verso di me ed, a quel punto, decisi di intromettermi. Mi alzai in piedi e, sfruttando la mia voce da contralto, gridai:
"SILENZIOOOOOOOOOOOOOOO!"
La stella avvampò più forte che mai. Tutti si voltarono verso di me fissandomi allibiti. Mi rassettai gli abiti, guardando tutti i presenti con aria risoluta, poi feci cenno a Frodo di parlare.
"Porterò io l’Anello a Mordor” disse di nuovo. “Solo… non conosco la strada" ammise, pieno di timore.
A quel punto lo sguardo di Gandalf si raddolcì, ed avvicinandosi all’Hobbit lo consolò.
"Ti aiuterò a portare questo fardello, Frodo Baggins, finché dovrai portarlo."
Anche Aragorn si alzò in piedi, raggiungendolo in poche falcate e mettendosi in ginocchio davanti a lui.
"Se con la mia vita o la mia morte riuscirò a proteggerti, io lo farò! Hai la mia spada!" esclamò, fissando il Mezzuomo dritto negli occhi.
"E hai il mio arco!" aggiunse Legolas, mettendosi dietro di lui.
"E la mia ascia!" proruppe Gimli, accodandosi all’Elfo.
Allora anche Boromir si avvicinò, strascicando i piedi, quasi come se gli costasse un’enorme fatica muoversi verso lo Hobbit
"Reggi il destino di tutti noi, piccoletto” disse, cupo, “ma se questa è la volontà del Consiglio, allora Gondor la seguirà!" ed anche lui si mise alle spalle di Frodo.
Il momento solenne fu spezzato da una voce squillante.
"Ehi, aspettate un momento! Padron Frodo non andrà da nessuna parte senza di me!" esclamò Sam, balzando fuori del suo nascondiglio.
"E neanche senza di noi!" aggiunse Pipino, a sua volta sbucando da dietro una colonna in compagnia di Merry. "Dovrete mandarci a casa chiusi in un sacco! E poi, ci vuole qualcuno intelligente per questo genere di missione!"
"Ma così ti autoescludi, Pipino!" disse Merry, con un tono che voleva essere più serio che ironico, facendo scoppiare a ridere tutti i presenti.
Elrond guardò i nuovi arrivati in un misto tra lo scocciato ed il divertito, voltandosi poi verso lo Stregone alzando le sopracciglia con fare interrogativo. Gandalf gli fece un cenno affermativo e lui cedette.
"E sia!” pronunciò, con la sua voce profonda. “Nove viaggiatori! Voi sarete la Compagnia dell’Anello!"
"No, non nove!" mi intromisi. Fino a quel momento – a parte l’acuto che avevo dovuto lanciare per attirare l’attenzione su Frodo – ero rimasta in disparte ad osservare, ma ora toccava a me farmi avanti. Tutti si voltarono di nuovo a guardarmi, lievemente stupiti, come se si fossero persino dimenticati della mia presenza.
"Dieci, Sire Elrond!” ripresi. “La mia missione richiede la mia presenza nella Compagnia!"
"Non ho nessun potere su di voi, Dama Marian. Potete fare tutto quello che desiderate" mi rispose l’Elfo, chinando rispettosamente il capo.
Boromir non fu dello stesso parere.
"Questo sarà un viaggio irto di difficoltà e di pericoli anche senza che una donnicciola ci stia fra i piedi!” quasi ringhiò, incrociando le braccia sul petto. “La Compagnia non è posto per voi! Rimanete qui a fare il ricamo, come compete ad una donna. Sarà meglio per voi ed anche per noi!"
Mi sentii avvampare dalla rabbia e dalla delusione: la sera prima aveva dato l’impressione di essere attratto dalla mia presenza, con tutti i suoi sguardi furtivi e le occhiate interessate ed ora, invece, mi trattava come una pezza da piedi.
"Non mi interessa la vostra opinione, Capitano Boromir!” sbottai, mettendomi i pugni sui fianchi, trattenendo a stento la voglia di prenderlo a schiaffi. “Io devo venire con voi, che vi piaccia o no! Ho una missione da compiere e, per farlo, devo partire con la Compagnia. Se la mia presenza non è di vostro gradimento potete anche fare a meno di guardarmi e parlarmi. Risparmiate i vostri acidi commenti per le donne di Gondor!"
Mentre pronunciavo quelle parole la "Stella di Fëanor", ancora appoggiata sopra la mia casacca, splendette di una luce bianca e brillante. Per un attimo Boromir rimase a fissarla a bocca aperta, come incantato; poi l’Uomo serrò di nuovo le labbra e distolse lo sguardo, tornando a fissare Elrond, che decretò:
"Così è deciso! La Compagnia partirà non appena avremo appreso tutte le notizie utili e necessarie per la buona riuscita della missione! Nel frattempo, sarete tutti miei graditi ospiti!"
Una campana suonò argentina, e con quelle parole si chiuse il Consiglio.

 
* * *

 

Quando il gioiello aveva brillato fulgido al collo della fanciulla, Boromir si era perduto a fissarla, mentre una voce nelle sue orecchie ripeteva l’ultima strofa del suo sogno: "La Stella perduta brilla di nuovo, per l’Uomo di Gondor e per tutta la Terra". Perché l’aveva trattata così malamente? In fondo, se alla fine aveva accettato senza discutere la decisione di suo padre di mandare lui ad Imladris al posto di suo fratello Faramir era stato anche per quella frase, soprattutto per quella frase!
Poi, improvvisamente, si rese conto di cosa gli stava succedendo: si stava innamorando! Non gli era mai successa una cosa del genere, prima di allora! Nel suo cuore non c’era posto per l’amore. Lui era un combattente, un guerriero, un Capitano di Gondor! Per di più, alla morte di sua madre Finduilas, quando lui aveva solo dieci anni, aveva giurato che non avrebbe mai e poi mai donato il suo cuore ad una donna! Aveva sofferto troppo quando lei era mancata, lasciandolo solo con il suo fratellino e con un padre dal cuore indurito come una pietra!
Non voleva cedere all’amore, ed allora l’aveva trattata come una pezza da piedi. Ma… stava facendo la cosa giusta?

 
* * *



Dopo pranzo, Aragorn ed i Raminghi del Nord partirono insieme ad alcuni Elfi, tra cui i gemelli Elladan ed Elrohir, per pattugliare la zona e raccogliere notizie sui movimenti del nemico e dei Nazgûl. I cavalieri neri, infatti, erano stati sì spazzati via dalle acque del Bruinen ma, essendo spiriti, di sicuro non potevano essere morti anche se erano periti i loro cavalli. Pure Boromir sarebbe voluto andare con loro, ma non conosceva affatto quel territorio così lontano dal suo regno, perciò dovette rassegnarsi e rimanere a Gran Burrone.
Lo vidi guardare, quasi con invidia, gli Uomini e gli Elfi che salivano a cavallo e prendevano la strada per le Terre Selvagge, mentre lui era costretto a restare. Poi, forse conscio del mio sguardo, si voltò verso di me: mi lanciò un’occhiata di fuoco e sparì dentro il palazzo.
Con un sospiro, pensai che quelli sarebbero stati i due mesi – il tempo che sarebbe trascorso, in base a quanto ricordavo dal libro, prima del ritorno di Aragorn e compagnia – più lunghi della mia vita.
Era il venticinque di ottobre, e così si svolse il Consiglio di Elrond.



Spazio autrice: salve a tutti, lettrici e lettori! Eccovi il nuovo capitolo della storia di Marian, riveduto e corretto. Spero che i miglioramenti che sto apportando alla storia la stiano effettivamente migliorando, altrimenti sto lavorando per nulla! :-) 
Per il Consiglio, ho fatto riferimento sia al libro sia al film. Nella prima parte ho seguito principalmente le pagine del Professore, con Bilbo che partecipa all’incontro ed il riferimento ai racconti di Gandalf e dell’Hobbit stesso. Dal momento in cui Frodo butta fuori l’anello ho iniziato a fare riferimento al film, da cui, come avrete notato, sono tratti la maggior parte dei dialoghi. Mi piacevano troppo e non ho voluto cambiarli! Fatemi sapere cosa ne pensate! Bacioni!

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Capitolo 6
*** Due mesi per conoscersi meglio ***






Due mesi per conoscersi meglio

 

Una volta che Aragorn fu partito, gli allenamenti con Arwen ripresero regolarmente. Dopo lunghe ed estenuanti ore di lezioni ero finalmente riuscita – con mia grande soddisfazione – a prendere una certa dimestichezza con le tecniche elfiche di scherma. Hadhafang e Hoskiart danzavano nelle nostre mani ed i loro scontri risuonavano per tutta la stretta valle di Rivendell con squilli argentini come di campanelle.
A volte gli Hobbit assistevano come spettatori ai nostri allenamenti anche se, di solito, si presentavano solo Merry e Pipino. Frodo preferiva trascorrere il suo tempo in compagnia di Bilbo ed, ovviamente, il suo fido giardiniere Sam non lo abbandonava mai. In alcune occasioni, invece, si presentava addirittura Elrond in persona, che si metteva seduto su una pietra ai margini della radura in cui ci esercitavamo, rimanendo a contemplarci in silenzio.
Un pomeriggio, circa quindici giorni dopo il Consiglio, il Mezzelfo raggiunse il nostro campo di addestramento. Non era solo: dietro di lui veniva Boromir, vestito di nuovo con la cotta di maglia e con la spada al fianco.
Non appena i due misero piede nella radura io ed Arwen interrompemmo la nostra lezione. Li salutammo, portando le spade di piatto davanti al viso, per poi rinfoderarle, lei alla cintura ed io sulla schiena.
Dopo un attimo di silenzio, Elrond parlò.
"Comprendo appieno la vostra posizione, Capitano Boromir, e so bene che voi siete un uomo d’arme ed un combattente” attaccò, con la solennità che lo contraddistingueva. “Se vi ho chiesto di rimanere qui a Gran Burrone è perché voi non conoscete bene il nostro territorio come gli Elfi ed i Raminghi; ma mi rendo conto che avete bisogno di qualcosa che vi tenga occupato. Certo, quello che posso offrirvi è ben poca cosa ma, se vi fa piacere, potrete allenare voi Dama Marian da qui in avanti, in modo da farle apprendere anche l’arte degli Uomini nella scherma, e non soltanto quella degli Elfi."
L’Uomo mi guardò con un sorrisetto di scherno, rispondendo:
"Lo farò con molto piacere."
Arwen mi salutò e seguì il padre, lasciandomi sola con Boromir.
Rimasi immobile di fronte a lui fissandolo in faccia e lui fece altrettanto, senza togliersi dalle labbra quel sorrisetto fastidioso. Ma era così bello che non vi prestai alcuna attenzione. Era alto circa un metro e novanta centimetri ed io, dal "basso" del mio metro e sessanta, dovevo alzare parecchio il viso per poterlo guardare negli occhi. Aveva appena quarant’anni, ed il suo fisico era quindi al massimo della forza e del vigore, ma il suo viso era segnato dalle rughe di molte battaglie. I suoi occhi grigio-verdi erano profondi come il mare e si capiva, dalle ombre che ogni tanto li attraversavano, che avevano osservato troppi orrori durante gli anni. Lasciai scivolare lo sguardo lungo il suo corpo: sulle sue spalle larghe, sul suo petto vigoroso, sulle sue braccia tornite, sulle sue gambe lunghe e ben piantate. Alzai di nuovo gli occhi e vidi che anche lui stava osservando attentamente il mio corpo, con in faccia un’espressione che mi parve più che eloquente.
"Chissà cosa starà pensando adesso…" mi chiesi.

 
* * *

 

Per un lungo istante ella lo guardò in volto e lui si rese conto di non riuscire a distogliere lo sguardo da lei. Aveva occhi color delle castagne e capelli lunghi fino al fondo schiena di una tonalità appena più scura che, in qualche modo, gli ricordarono i boschi dell’Ithilien dove lui e Faramir solevano giocare, da bambini. Avrebbe desiderato molto passare una mano tra quei capelli per saggiarne la morbidezza. Con lentezza, percorse con lo sguardo il corpo della fanciulla, fasciato negli abiti maschili: aveva un seno piuttosto importante che, di sicuro, avrebbe fatto girare la testa a molti uomini di Gondor, e la vita morbida che poi si allargava su fianchi da giumenta. Le sue gambe erano robuste e tornite.
Si morse il labbro inferiore senza rendersene conto, mentre il suo cervello di uomo gli proiettava davanti agli occhi un’immagine di lei languidamente adagiata tra le sue braccia. Avrebbe voluto tantissimo poterla avere, anche soltanto per una volta. Quella fanciulla, anche se abbigliata come un uomo, sprigionava sensualità da tutti i pori. Stava quasi per cedere, fare un passo avanti ed afferrarla con forza e passione violenta, quando tornò improvvisamente in sé. Non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere, mai! Non che fosse contrario al sesso in generale, anzi, tutt’altro. A Gondor aveva parecchie concubine che facevano letteralmente la fila per trascorrere qualche ora nel suo letto, quando non era impegnato in qualche battaglia. Si rendeva perfettamente conto, però, che con questa giovane non avrebbe mai potuto comportarsi come con le meretrici di corte. Ella non era una concubina, era la “Portatrice della Stella di Fëanor”, colei cui il suo sogno faceva riferimento. Di sicuro non si sarebbe concessa così facilmente. E lui era un guerriero, non un damerino. Non avrebbe mai potuto accettare di cedere alle spire dell’amore, quel sentimento che lui odiava con tutto se stesso, che aveva scacciato dal suo cuore e che, nonostante tutto, già poteva sentire insinuarsi nella sua anima. Una cosa per lui inaccettabile! Così, per spezzare l’incanto che si era creato tra loro, di cui cominciava a sentirsi vittima, pronunciò le parole più sbagliate che avrebbe mai potuto dire.
"Non ho mai visto nessuno, fino ad ora, portare la spada in un modo più ridicolo del tuo! Forse gli Elfi non hanno avuto cuore di spiegarti che le spade non si portano a tracolla ma si cingono in vita?" le chiese, in tono di scherno.

 
* * *

 

Pronunciando quelle parole, Boromir mi fece tornare bruscamente in me. Mi sentii profondamente ferita e, prima di potermi controllare, portai la mano all’elsa, sfoderai Hoskiart e gliela puntai sotto il naso.
"Gli Elfi hanno esaudito un mio specifico desiderio, realizzando appositamente questa imbracatura. Loro non hanno sindacato la mia volontà e non vedo per quale motivo dovresti farlo tu!". Lui aveva usato il "tu" ed io avevo risposto a tono: erano finiti i tempi delle carinerie, era giunto il momento di mettere bene le cose in chiaro. Non ero assolutamente disposta a farmi mettere i piedi in testa, non dopo che mi ero fatta un sedere grande come una botte con gli allenamenti, esclusivamente per salvargli la vita!
Lui fissò per un attimo la punta della mia spada, incrociando gli occhi, poi tornò a guardare me con lo stesso sorriso beffardo di poco prima.
"Se fossimo a Gondor" disse lentamente, "e se tu fossi un mio sottoposto, pagheresti molto caro quest’affronto."
La sua voce profonda, così incredibilmente sensuale, mi fece correre i brividi lungo la schiena, ma in quel momento ero ancora talmente infuriata che non vi feci quasi caso.
"Bene, facciamo conto che sia così allora! Sfodera la spada e combatti contro di me!" dissi rabbiosamente, allontanandomi di un passo per dargli modo di impugnare la sua arma, ma lui non si mosse.
"Io non combatto contro le donne… O meglio, lo faccio solo tra le lenzuola" disse, il ghigno derisorio che gli si allargava sul volto.
Quella frase mi mandò in bestia e mi ferì profondamente allo stesso tempo: allora Boromir, l’Uomo di cui mi ero innamorata, era un puttaniere? Che tristezza…
"Bene: non combatti contro le donne?” gli risposi, cercando di trattenere le lacrime di rabbia e di delusione che già cominciavano a pizzicarmi agli angoli degli occhi. “Ed io non combatto contro i maiali!"
E, con quelle parole, rinfoderai la spada e mi allontanai a grandi falcate dalla radura, diretta verso le scuderie. Avevo proprio bisogno di starmene da sola con Freccia d’Argento per un po’. Sarei andata a fare una passeggiata a cavallo per smaltire un po’ la rabbia.

 
* * *

 

Non appena Dama Marian ebbe lasciato la radura, Boromir emise un profondo sospiro.
"Perché mi sono comportato come un villano?" si chiese, grattandosi il mento ispido di barba. "Le ho dato un’immagine di me che non corrisponde a verità. Sono uno stolto!" disse ad alta voce, dandosi un pugno in testa con la mano guantata. Poi, dopo qualche altro secondo, lasciò anche lui la radura camminando in fretta, per cercare di raggiungerla.
La trovò che usciva dalle scuderie, in sella alla sua giumenta color dell’argento. La fanciulla gli lanciò uno sguardo di fuoco mentre gli passava accanto, ma lui non si lasciò intimidire.
"Perdonatemi, mia signora” attaccò, con voce accorata, un tono che non gli era affatto usuale. “La mia bocca ha detto cose che la mia mente non pensava. Non sono un maiale anche se, forse, vi ho dato motivo di pensarlo. Vi prego di dimenticare le sciocchezze che ho pronunciato!"
Mentre parlava il viso di lei si era addolcito e, come lui, anche ella tornò all’uso del “voi”:
"Vi perdono, Capitano Boromir” gli rispose, sorridendo dolcemente. “Ma vi prego di continuare a darmi del tu; in fondo, siamo entrambi membri della Compagnia dell’Anello. Volevo fare una passeggiata a cavallo per far sbollire la rabbia. In fondo, nemmeno io mi sono comportata proprio come una gentildonna. Volete accompagnarmi? Magari ci schiariremo entrambi le idee."
"Molto volentieri, ma solo se anche voi darete del “tu” a me."
Lei annuì con un sorriso e lui si affrettò a sellare il suo cavallo, con il cuore che gli batteva molto più velocemente di quanto era solito fare.

 
* * *

 

Non scambiammo molte parole durante la passeggiata, ma anche il silenzio fu dolce in sua compagnia. Mi aveva fatto molta tenerezza quando si era scusato con me e non avevo potuto serbargli rancore troppo a lungo. Sentivo la “Stella” pulsare calda sul mio petto, al ritmo con i battiti del mio cuore, e ciò mi confortava parecchio. Ogni tanto i suoi occhi grigio-verdi si posavano su di me ed io mi sentivo arrossire sotto il suo sguardo. Fu la cavalcata più dolce che avessi mai fatto e l’avrei ricordata per molto tempo a venire.
A partire da quel giorno fu Boromir ad allenarmi con la spada. La sua tecnica di combattimento era molto diversa da quella di Arwen ed io, pian piano, con tenacia e costanza, imparai ad unire le virtù di entrambe, fondendole in uno stile tutto nuovo.
Sempre più spesso Merry e Pipino si unirono a noi. Solitamente rimanevano lì immobili a guardarci ma, a volte, chiedevano al Gondoriano di dare lezioni anche a loro. Durante la loro avventura nei Tumulilande, Tom Bombadil aveva regalato loro delle spade, che i due Hobbit sapevano a malapena impugnare. Pur essendo ancora molto giovani, sapevano entrambi che il viaggio che li attendeva sarebbe stato irto di pericoli, e quindi sarebbe stata buona cosa imparare almeno le tecniche basilari della scherma. Boromir si prestò volentieri a far loro da maestro, finendo con l’affezionarsi moltissimo ai due Mezzuomini.
Ma, durante quel periodo, non fu sempre tutto “rose e fiori”. A volte, di punto in bianco, l’Uomo di Gondor rispondeva con astio alle mie domande e passava interi pomeriggi chiuso in un imbronciato mutismo Allora, in quelle occasioni, appena finito l’allenamento lo lasciavo da solo ed andavo a passeggio con Freccia o, più spesso, con i due giovani Hobbit.
Sul finire di novembre, durante una di quelle giornate "no", chiesi a Merry e Pipino se andava loro di andar per funghi ed i due avevano accettato subito, entusiasti. Gli Hobbit erano golosi in generale, e – avevo avuto modo di scoprire – amavano i  funghi quasi più dei loro stessi parenti, o addirittura di più, in alcuni casi.
"Se li troviamo, poi stasera potremmo chiedere agli Elfi se ce li cucinano!" esclamò Pipino, già con l’acquolina in bocca al pensiero delle cappelle arrosto.
Incamminandoci verso la foresta che circondava il palazzo di Elrond incrociammo Boromir, che passeggiava nervosamente avanti e indietro a grandi falcate in uno dei cortili, con una mano poggiata sull’elsa della spada e l’altra sul corno. Aveva lo sguardo torvo e, nonostante gli Hobbit cantassero a squarciagola una canzone goliardica della Contea dedicata ai funghi, il Gondoriano sembrò non accorgersi nemmeno della nostra presenza.
Stavamo quasi per lasciare lo spiazzo quando lui ci apostrofò, con voce rabbiosa.
"Dove state andando?!"
"Per funghi!" gli rispose allegramente Merry, facendo ondeggiare il paniere di vimini che aveva sotto braccio. "Vuoi unirti a noi?"
L’Uomo si fermò, fissandolo come se fosse stato una nuova specie di insetto particolarmente fastidioso.
"Cosa?! Andar per funghi? Io sono un guerriero, non uno sciocco fungaiolo! Non avete nient’altro di meglio da fare che perdere tempo con queste scempiaggini?"
Quella mattina ero anch’io particolarmente nervosa – forse perché avevo il ciclo, e gli Elfi non sanno cosa sono gli assorbenti igienici – per cui risposi, piccata:
"A quanto pare non solo quella dei cretini, ma anche la mamma dei cafoni è sempre incinta!"
Non l’avessi mai detto… Il bel viso di Boromir si trasfigurò in una maschera di furia. Mi afferrò per il bavero della casacca sollevandomi da terra, alzandomi al punto da portare i miei occhi all’altezza dei suoi; poi mi sbatté la schiena contro un albero. I nostri visi erano talmente vicini che i nasi si sfioravano.
"Prova… a ripetere… quello che hai detto" ringhiò, con voce cupa, alitandomi in faccia tutto il suo livore.
Rimasi scioccata dal suo comportamento: sapevo che la morte della madre, quando lui e suo fratello erano ancora in tenera età, l’aveva colpito molto, ma non credevo certo che quella mia frase potesse offenderlo tanto. Cercai di parlare ma le sue mani, nello schiacciarmi contro l’albero, mi bloccavano quasi il respiro, così riuscii ad emettere solo dei rantoli strozzati. I due Hobbit erano rimasti talmente sconvolti che, in un primo momento, non riuscirono a far niente di meglio che guardarci a bocca spalancata con gli occhi strabuzzati; quando però videro che non riuscivo quasi più a respirare e che l’Uomo non accennava a volermi rimettere con i piedi per terra, si mossero entrambi di scatto.
"Boromir, cosa fai?! Mettila giù, per l’amor dei Valar!" gridò Merry, afferrandolo per la cintura e cercando di strattonarlo all’indietro.
"Aiuto, aiuto! Boromir è impazzito!" urlò Pipino, facendo eco al cugino e, nel contempo, affibbiandogli diversi calci nei polpacci. L’Uomo era talmente rabbioso da non accorgersi minimamente della presenza dei due Hobbit.
Cominciò a mancarmi il respiro. Una nuvola di puntini neri cominciò a vorticarmi davanti agli occhi mentre Boromir, inconsapevole di tutto tranne che della propria rabbia, continuava a sbattermi con la schiena contro l’albero. Nel far ciò, la Stella saltò fuori da dentro i miei vestiti e brillò per un attimo davanti agli occhi del Gondoriano. Allora il suo sguardo si schiarì, il ghigno di rabbia si trasformò in una smorfia di sgomento mentre, all’improvviso, si rendeva conto di cosa stava facendo e mi lasciava andare di schianto. Ricaddi sui miei piedi, ma le gambe non mi ressero e mi accasciai a terra, rantolando e tossendo in cerca d’aria.
Pipino si inginocchiò al mio fianco e mi prese la mano.
"Marian… Marian tutto bene?" mi chiese, con gli occhi sgranati e la voce rotta dalla preoccupazione.
Al contempo, Merry alzò lo sguardo sul Capitano e gli chiese, incredulo:
"Ma si può sapere cosa ti è preso, Boromir? L’hai quasi strangolata!"
L’Uomo ansimava più di me, guardandomi con occhi sbarrati. Poi si infilò le mani guantate nei lunghi capelli, scompigliandoli, e scosse la testa.
"Io… Io… Non lo so… Non lo so…" balbettò, con una faccia da far paura. Fece qualche passo all’indietro ed infine si voltò, correndo via a grandi passi.
"Dove vai? Torna qui!" gli gridò dietro Merry, facendo l’atto di inseguirlo. Allungai un braccio verso di lui per bloccarlo, riuscendo finalmente a rantolare qualcosa di comprensibile. L’Hobbit allora si volse verso di me, lasciando perdere Boromir ed accucciandosi accanto a suo cugino, che ancora mi teneva la mano.
"No, Merry… Lascialo andare… E’ stata anche colpa mia" esalai con voce strozzata, sfregandomi il collo – che ancora mi doleva molto – con la mano libera.
"Colpa tua!? Quello sciagurato ti stava ammazzando!" esclamò il Mezzuomo, alzandosi di nuovo in piedi ed indicando, con un gesto perentorio del braccio, la direzione in cui era scomparso il Gondoriano.
"Ho offeso sua madre" dissi, cercando faticosamente di mettermi seduta e riuscendoci, infine, dopo un paio di tentativi, appoggiandomi con la schiena al tronco dell’albero. "Sua madre è morta… quando lui aveva dieci anni… Soffre ancora come un cane quando qualcuno parla di lei" continuai ansante, pensando alla povera Finduilas ed al poco che sapevo della sua vita. Tutto ciò che il Professor Tolkien aveva detto riguardo a lei era che il mare le mancava da impazzire, che non aveva mai imparato a tollerare la cupa ombra proveniente da Mordor e che, probabilmente, era morta di nostalgia.
"Ma non hai mica fatto il nome di sua madre! Hai detto una frase generica!" esclamò Pipino, che continuava a tenermi stretta la mano sinistra nonostante ora dovesse stare con le braccia tese perché, nell’appoggiarmi al tronco, mi ero un poco allontanata da lui.
"E, comunque, tutto ciò non giustifica la sua reazione! La definisco piuttosto spropositata!" rincarò Merry, incrociando le braccia sul petto ed aggrottando le sopracciglia.
Cadde il silenzio. Dopo alcuni minuti Pipino – finalmente – si degnò di lasciarmi la mano ed io riuscii a rimettermi lentamente in piedi, strofinandomi di nuovo la gola.
"Tutto bene?" chiesero i due Hobbit, in contemporanea.
"Sì, direi di sì…” affermai, schiarendomi la voce. “Allora, andiamo per funghi?" chiesi, dopo aver scosso la testa e scrollato le spalle.
"Sei sicura di farcela?" chiese Merry.
"Ma certo caro Meriadoc. Andiamo, i Boletus ci aspettano!" esclamai, fingendo un’allegrezza che, in realtà, non provavo affatto. Non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine del volto di Boromir stravolto dalla furia. L’Anello del Potere stava già cominciato ad esercitare il suo malefico influsso su di lui, benché dal giorno del Consiglio il Gondoriano non si fosse più avvicinato a Frodo. “Che cosa succederà quando partiremo?” pensai, preoccupata.
Nonostante i miei pensieri nefasti la ricerca fu comunque proficua. Ritornammo al palazzo di Elrond, nel tardo pomeriggio, con tre bei cesti di funghi che furono cucinati per cena.
Da quando la maggior parte della gente era partita in ricognizione, a tavola non eravamo in molti. Solitamente Elrond, Arwen, i cinque Hobbit, Legolas e Gimli – le cui delegazioni avevano fatto ritorno alle loro terre d’origine – Boromir e io per comodità cenavamo in un piccolo salottino attiguo alla Stanza del Fuoco. Quella sera, però, l’Uomo di Gondor non si presentò a tavola.
Non riuscii a cenare tranquilla e, non appena mi potei allontanare senza sembrare maleducata, andai a cercarlo.
Lo trovai seduto in una delle terrazze più basse che si affacciavano direttamente sul Bruinen, su una sedia che aveva girato a rovescio, con le braccia incrociate appoggiate sulla spalliera ed il mento posato sopra. Presi un’altra sedia e mi accomodai accanto a lui, nella stessa posizione.
Dopo un istante che parve infinito – durante il quale l’Uomo non si voltò mai verso di me – ruppi il silenzio.
"Sono venuta a chiederti perdono, Boromir…" mormorai, guardandolo.
Rimase zitto talmente a lungo che credetti non mi avrebbe mai risposto. Alla fine emise un lungo sospiro e parlò, continuando a fissare dritto davanti a sé.
"Ti ho quasi ucciso e vieni anche a chiedermi perdono?" mi chiese, in un misto di incredulità ed ironia.
"Ti ho offeso con quella mia stupida frase…" cominciai, ma lui mi interruppe scuotendo la testa.
"Non so che cosa mi sia preso. Se non fosse stato per quella" e, con il pollice, indicò la “Stella di Fëanor” che brillava nell’oscurità, "credo che non mi sarei nemmeno fermato."
"Ho offeso tua madre. So che hai sofferto molto quando è mancata" tentai di nuovo, ma lui scosse ancora il capo.
"Nessuno sa quello che ho passato” mormorò, cupo, lo sguardo fisso sulle acque del Bruinen. “Anzi, quello che abbiamo passato io e mio fratello. Ma non è stata la tua frase che mi ha fatto uscire di senno" ammise. “Ultimamente sono sempre più spesso nervoso e agitato. Sono stufo di stare qui. Gondor ha bisogno di me! Ho lasciato tutta la responsabilità della difesa del regno sulle spalle di mio fratello! Se dovesse succedergli qualcosa, io…” si interruppe, la voce improvvisamente tremante di rabbia e paura. “Ma ciò non mi giustifica” riprese subito dopo, nuovamente padrone di sé. “Sono io che devo chiedere scusa a te."
Per la prima volta si voltò a guardarmi. Al chiaro di luna, vidi che aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto a lungo ed in silenzio. Sentii un’ondata di tenerezza nei confronti di quell’Uomo al tempo stesso così rude e così sensibile e, lentamente, allungai la mano sinistra scostandogli dolcemente una ciocca di capelli dalla guancia, passandogliela dietro l’orecchio.
"Perdonami…" mi supplicò, la voce di nuovo tremolante. "Meriterei di essere messo ai ceppi almeno per una settimana…"
Questa volta fui io a scuotere la testa.
"No, Boromir. Oggi non eri te stesso, e ti capisco. E’ l’influsso malefico dell’Anello…" mi lasciai sfuggire, prima di mordermi la lingua, piena di rabbia: non dovevo certo fargli sapere che ero a conoscenza di certe cose!
Al sentirmi nominare il "Flagello di Isildur" si irrigidì ma, dopo un momento, emise un altro sospiro ed appoggiò la fronte sulle braccia.
"Perché non sei venuto a cena?" gli chiesi, cercando di cambiare argomento.
"Non ho fame" mi rispose, la voce attutita dai suoi arti.
"Non ci credo…” mormorai, sorridendo. “Un Uomo grande e grosso come te ha bisogno di mangiare. A maggior ragione che, credo, questi saranno gli ultimi pasti decenti che faremo per un bel pezzo!"
Alzò di nuovo lo sguardo, fissandomi in silenzio.
"Ti piacciono i funghi?" chiesi ancora, il sorriso che mi si allargava in volto. Dopo un attimo di esitazione, annuì vigorosamente.
"Allora vieni! Ho tenuto da parte i migliori per te…" dissi alzandomi dalla sedia. Mi seguì con lo sguardo, un po’ inebetito, prima di decidersi ad alzarsi e accompagnarmi nel salottino, dove fece una scorpacciata di porcini ascoltando me, che raccontavo aneddoti divertenti sulla mia permanenza a Gran Burrone, fino a che non gli ebbi fatto tornare il sorriso. Nel profondo del mio cuore sentivo che mi stavo innamorando alla follia di quell’Uomo, e che avrei fatto veramente di tutto pur di salvarlo.
Eravamo ormai quasi giunti alla fine dell’anno. Presto sarebbero ritornati Aragorn, i Raminghi e gli Elfi. Dedicai quegli ultimi giorni di permanenza a Gran Burrone ai preparativi per la partenza, trascorrendo la maggior parte del tempo libero con Freccia, che avrei dovuto lasciare ad Imladris. Andavamo a passeggiare nei boschi, l’una accanto all’altra, ed a lei un giorno confidai tutte le mie paure.
"Temo che non ci rivedremo Freccia, amica mia…"
Lei scosse la testa, facendo ondeggiare la lunga criniera, in segno di diniego.
"Invece credo proprio che sarà così” continuai, “ma sono tranquilla, perché ti lascio in buone mani!"
La cavalla mi strofinò il muso contro il fianco e poi mi poggiò la testa su una spalla, come a voler dire che aveva tutta l’intenzione di seguirmi, ma io rifiutai.
"No, Freccia, non puoi venire con me!” esclamai, fermandomi per fissarla negli occhi, due pozzi neri di intelligenza.  “Attraverseremo le miniere di Moria e quello non è posto né per cavalli, né tantomeno per auto, anche se coraggiose come te! Pure Bill, il puledro di Sam, verrà rimandato indietro. No, Freccia, ti prego! Non rendermi le cose ancora più difficili!" esclamai, quando lei cominciò a mordermi affettuosamente la spalla. "È già abbastanza dura così. Credimi, amica mia: qui starai bene!".
Quando infine l’avanguardia tornò, riferendo ad Elrond tutte le notizie che avevano appurato in quei due mesi di ricerche, il Mezzelfo decise che la Compagnia avrebbe lasciato la valle tre giorni dopo, per dare modo ad Aragorn di riposarsi un poco prima di partire di nuovo. Prima di lasciarlo, Elrond gli consegnò anche la sua nuova spada, Andùril, nata dalla riforgiatura dei frammenti di Narsil, la spada di Elendil che aveva mozzato il dito a cui Sauron portava l’Anello.
La sera prima della partenza lui ed Arwen sparirono ben presto da tavola. Quando fecero ritorno vidi che il gioiello di lei, la “Stella del Vespro”, era ora al collo del Ramingo; capii quindi che l’Elfa gli aveva giurato amore eterno, donandogli il suo cuore.
"Beati voi…" sospirai, quando si mise seduta al mio fianco nella Stanza del Fuoco. Mi guardò interrogativamente ed io ripresi.
"Beati voi che vi amate così tanto! Io avrò mai questa fortuna?" chiesi, quasi a me stessa. Boromir era ancora molto scostante: a volte dolce ed amorevole, a volte duro e freddo come il ghiaccio. Non riuscivo proprio a capire che cosa provasse veramente nei miei confronti.
Arwen mi posò la mano sul braccio e mi sorrise.
"Certo che l’avrai” mi rispose dolcemente. “Devi solo avere un po’ di pazienza."
I suoi occhi si fissarono sull’Uomo di Gondor, seduto come al suo solito in fondo alla sala, stravaccato sulla sedia. Seguii il suo sguardo, sospirando ancora e lui, quasi come in risposta, mi guardò negli occhi così intensamente da farmi avvampare.
"Non sarà facile, perché ha chiuso il suo cuore all’amore" riprese Arwen, "ma si ricrederà, con il tempo."
E, con quelle parole di speranza stampate nella mente, trascorsi l’ultima notte a Gran Burrone.
La mattina dopo, di buon'ora, ci ritrovammo tutti nel cortile principale. Gli Elfi avevano preparato provviste ed abiti di ricambio per tutti. Bill, il puledro di Sam, era carico fino all’inverosimile ma felice di partire; al contrario di Freccia che, ancora offesa per averle impedito di seguirmi, si rifiutò persino di uscire dal suo box per venirmi a salutare.
"Cominciamo male…" pensai, uscendo mestamente dalle scuderie, sistemandomi lo zaino sulla schiena mentre raggiungevo gli altri. Non appena giunsi in vista del resto del gruppo lasciai vagare lo sguardo, contemplandoli.
Gli Hobbit avevano i loro bravi fagotti sulle spalle e quello di Sam era il più gonfio di tutti, con tanto di padelle appese a dei legacci che, ad ogni movimento del Mezzuomo, cozzavano tra loro facendo un rumore d’inferno. I due Uomini, l’Elfo ed il Nano portavano invece solo le loro armi; al pari di Gandalf, che si appoggiava al suo lungo bastone con l’elsa della spada, Glamdring, che gli scintillava al fianco.
Anche l’elsa di Andùril brillava al fianco di Aragorn che, appeso alle spalle, portava pure un lungo e robusto arco in legno di tasso. Quello di Legolas, invece, era in legno di quercia, ed era molto più sottile ed elegante; così come le frecce dal piumaggio leggero che riempivano la sua faretra. Le asce di Gimli, appese incrociate alla sua schiena, mandavano lampi di luce gelida ogni volta che un raggio di sole le sfiorava, e pure la spada di Boromir – che si accompagnava al corno appeso al balteo dal lato sinistro ed allo scudo rotondo con la grossa borchia metallica che il Gondoriano aveva a tracolla – luccicava ogni volta che l’Uomo spostava il peso da un piede all’altro.
Ad una seconda occhiata, notai che anche i Mezzuomini erano armati: Sam, Merry e Pipino con le spade dei Tumulilande che aveva donato loro Tom Bombadil; e Frodo con Pungolo, regalatagli da suo zio Bilbo proprio il giorno prima insieme alla cotta di maglia di Mithril, che ora indossava, invisibile, sotto le vesti.
Mi accodai alla Compagnia, con Hoskiart appesa come al solito alla schiena, sotto allo zaino.
Tutti gli abitanti di Imladris si fecero intorno a noi per salutarci ed Elrond ci lasciò con la benedizione degli Elfi, degli Uomini e di tutti gli altri popoli liberi della Terra di Mezzo. Circondata dalle sue ancelle, Arwen fissò a lungo Aragorn – ricambiata – fino a che l’Elfa non abbassò gli occhi. Quello fu, in un certo qual modo, un segnale. La Compagnia si mise in marcia con Frodo in testa, seguito a ruota da Gandalf.
In quel momento Boromir portò il Corno di Gondor alle labbra e soffiò con forza, facendolo risuonare per la stretta gola di Rivendell. Tutti quelli che lo sentirono balzarono in aria per la sorpresa; me compresa che, sbilanciata dal peso dello zaino, andai a finire con il sedere per terra.
"Infilatelo nel culo quel corno, la prossima volta, e suonalo con una scorreggia!" esclamai a mezza voce, inviperita, mentre mi rialzavo in piedi rassettandomi il fondo dei pantaloni. Pipino e Merry mi udirono e si misero a ridacchiare, incamminandosi poi dietro al Gondoriano.
Non appena il Portatore dell’Anello ebbe superato il portale di pietra che segnava l’uscita dal cortile principale del palazzo di Elrond, si fermò per un attimo e chiese allo Stregone, con voce incerta:
"Da che parte è Mordor? A destra o a sinistra?"
"A sinistra, Frodo" gli ripose lo Stregone, posandogli la mano sulla spalla, in un gesto di incoraggiamento. Girando tutti da quella parte prendemmo il sentiero per uscire da Gran Burrone.
L’Ultima Casa Accogliente era già lontana dietro le nostre spalle quando sentii un forte nitrito alla mia sinistra. Alzammo tutti lo sguardo in quella direzione e vedemmo Freccia, rampante sopra una rupe con il sole alle spalle, che era venuta a salutarci.
"Addio amica mia! Abbi cura di te!" le gridai, sventolando la mano, e lei rispose con un nuovo alto nitrito che si perse nel vento.
Era il venticinque di dicembre, e così lasciammo Imladris.


Spazio autrice: Salve gente! Eccovi il sesto capitolo riveduto e corretto! Finalmente ci siamo, da qui in avanti la storia entra nel vivo.
Mentre rileggevo, mi sono resa conto che avevo scritto alcuni termini, facendoli pronunciare a Boromir, che di sicuro non fanno proprio parte del lessico della Terra di Mezzo, quindi ho cercato di correggere al meglio. Ho cercato invece di mantenere alcune parti comiche, di solito di cui Marian è protagonista, proprio per mantenere fede ad una delle caratteristiche della storia originale, cioè l’essere comica!
Volevo fare, inoltre, un’altra precisazione: avrete sicuramente notato che a volte ho scritto Uomo, altre volte uomo. Ho usato l’iniziale maiuscola per indicare la “razza”: Elfi, Uomini, Nani ecc; mentre l’iniziale minuscola indica il genere maschile/femminile.
Ringrazio ancora chi ha già letto, chi sta leggendo e chi leggerà, ed in particolare Tielyannawen, per avermi lasciato il suo gradito commento!
Vi lascio, infine, con l’immagine della mia versione della Compagnia dell’Anello. Direi che quelli più alti sono facilmente identificabili XD; per quanto riguarda gli Hobbit invece abbiamo, da sinistra verso destra: Merry, Pipino, Frodo e Sam. (Il disegno è sempre realizzato grazie al giochino di dress up sul Signore degli Anelli; il nome della creatrice del programma  è scritto al centro dell’immagine stessa)
Bacioni!
Evelyn



 

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Capitolo 7
*** Verso sud ***








Verso sud

 

Per i successivi quindici giorni il tempo si mantenne brutto. Soffiava un vento freddo da Est che penetrava persino sotto le calde cappe foderate di pelliccia che ci avevano fornito gli Elfi, ed il cielo era sempre coperto da nuvoloni plumbei. Avanzavamo di notte e riposavamo di giorno, e ciò mi dette non poche difficoltà. Non ero mai stata una grande camminatrice e, quindi, già dopo poche centinaia di metri mi ritrovavo con il fiatone in coda al gruppo; e poi, era praticamente impossibile vedere dove si mettevano i piedi nell’oscurità più completa. Gli unici punti di riferimento che avevamo erano il bastone di Gandalf, che procedeva in testa al fianco di Aragorn – il solo del gruppo a conoscere i pochi sentieri che percorrevano quelle lande desolate ad Ovest delle Montagne Nebbiose – e la “Stella”, che ballonzolava sul mio petto al ritmo del mio passo strascicato. Presi parecchie slogature ed inciampai innumerevoli volte tanto che, dopo due settimane, avevo le caviglie blu per i lividi e le mani tutte coperte di graffi.
Infine, il vento si decise a cambiare direzione, spazzando il cielo e, per la prima volta dal giorno della partenza, tornammo a veder sorgere il sole. Anche il paesaggio era cambiato: ora eravamo circondati da arbusti di agrifoglio, pieni di bacche rosse che brillavano alla luce del giorno.
"Siamo finalmente arrivati all’Agrifogliere!" esclamò Gandalf, di buon umore. "Questa è una terra ancora relativamente tranquilla. Credo che, da qui in avanti, potremo proseguire di giorno, e riposare di notte!"
"Deo gratias…" mormorai con un sospiro, lasciando cadere le spalle per la stanchezza accumulata.
"Abbiamo cambiato direzione durante la notte? Ora abbiamo le montagne davanti!" chiese Sam, mettendosi una mano di piatto sopra gli occhi per proteggersi dal riverbero del sole.
"No, è la catena di montagne che volta a Sud-Ovest” spiegò lo Stregone. “Fino ad ora non eravamo mai riusciti a vederle, ma adesso che il cielo è limpido la nostra vista spazia di più!"
"Io conosco quelle montagne" mormorò Gimli, con aria sognante, guardando i tre picchi più alti. "Sotto di esse si trova Khazad-Dûm, Nanosterro, che gli Elfi chiamano Moria; ed al di là di esse si stende la valle dei Rivi Tenebrosi."
"E’ proprio lì che ci stiamo dirigendo” riprese l’Istari. “Passeremo per il valico del Cancello Cornorosso e poi scenderemo per le scale dei Rivi Tenebrosi fino alla valle dell’Argentaroggia! Ma ora basta parlare, credo che potremo accamparci qui per un paio di giorni, e riposarci un po’!"
"Pensi che potrei accendere un fuoco per cucinare qualcosa? Fino ad oggi abbiamo mangiato solo cibo freddo!" chiese di nuovo il figlio del Gaffiere, in tono implorante.
Gandalf ci pensò un po’ su e poi accettò.
"Si, penso che tu lo possa accendere! Cerca solo di non fargli fare troppo fumo!"
L’Hobbit si mise subito a raccogliere la legna e, ben presto, le sue padelle furono piene di roba buona da mangiare che sfrigolava allegramente. Il profumino mi fece venire subito l’acquolina in bocca e lo stomaco cominciò a brontolarmi rumorosamente, al punto che Sam mi servì per prima, dandomi addirittura la precedenza sul suo benamato padrone.
"Complimenti Mastro Samvise!" esclamai dopo aver svuotato il piatto, appoggiandomi con la schiena contro una roccia, "sei il miglior cuoco di tutta la Terra di Mezzo!"
L’Hobbit diventò rosso fino alla punta delle orecchie, lusingato dal complimento.
"Specialmente se non mangi da due settimane!" aggiunse Pipino, in tono ironico, facendo voltare il figlio del Gaffiere dalla sua parte, con stampato in faccia uno sguardo che diceva tutto su quello che stava pensando del compagno in quel preciso momento.
Il commento poco lusinghiero fu punito da Boromir, che aveva approfittato della sosta per allenare nuovamente il giovane Tuc ed il giovane Brandibuck all’uso della spada: mentre commentava, Pipino si era voltato dalla nostra parte e così non aveva parato l’affondo dell’Uomo, che gli sbatté di piatto la spada sulla testa.
"Ahi!" esclamò il Mezzuomo, strofinandosi vigorosamente la parte lesa con il palmo della mano.
"Stai più attento Messer Peregrino, la prossima volta non sarò così delicato!" lo apostrofò il Gondoriano, rimettendosi in posizione.
Comodamente seduta con la schiena appoggiata alla pietra, vicino al fuoco che scoppiettava allegramente, lo osservai con attenzione mentre insegnava ai due Hobbit i movimenti basilari della scherma.
"Due, uno, cinque…” scandiva, muovendo la spada in tre diverse posizioni. “Due, uno, cinque… molto bene!"
Ma, a Pipino, la botta che si era beccato in testa poco prima non era andata giù, perciò, approfittando di un attimo di distrazione del Capitano, gli assestò un potente calcio in uno stinco. Lui non se lo aspettava: esclamò di sorpresa e dolore lasciando andare la spada e massaggiandosi la gamba. A quel punto i due Hobbit gridarono: "Per la Contea!" e lo assalirono, mandandolo a gambe all’aria.
"Questo è per la botta di prima!" esclamò Pipino, cercando di colpirlo scherzosamente alla pancia ma riuscendo soltanto a fargli il solletico.
"E questo è per aver tentato di strangolare Dama Marian!" rincarò la dose Merry, dandogli un morso alla mano guantata.
Boromir si rotolò per terra con loro, ridendo come un matto e, quando Aragorn cercò di intervenire per farli rialzare, quelli si avventarono anche su di lui, scaraventandolo a terra accanto all’altro Uomo, in un groviglio di gambe e braccia degno della miglior gara di "Twister".
Ci lasciammo scappare tutti una risata liberatoria: avevamo davvero bisogno di qualcosa che smorzasse la tensione accumulata durante quei primi giorni di marcia serrata. Solo Sam rimase pensieroso a fissare il cielo, con in mano il piatto di cibo che aveva preparato per sé.
"Cos’è quello?" chiese, dubbioso, indicando una strana macchia che si spostava velocemente nel cielo.
"Bah, una semplice nuvoletta" gli rispose Gimli, dopo averle dato una rapida occhiata, esalando una boccata di fumo. Dopo aver pranzato, il Nano si era acceso la pipa ed ora si godeva un momento di relax.
"Si sposta velocemente, e contro vento" costatò Boromir che, nel frattempo, era riuscito a districarsi dal viluppo di membra e si era rimesso in piedi, allertato dal tono di Sam.
"Sono uccelli" mormorai, alzandomi in piedi, sapendo già cosa aspettarmi.
"I Crebain da Dunland!" esclamò Legolas. "Nascondiamoci, presto!"
Ci fu un parapiglia: chi spegneva il fuoco, chi raccoglieva i fagotti, chi cercava di mimetizzare Bill. Poi, tutti scivolammo di corsa al riparo, sotto i cespugli di agrifoglio e fra le rocce sparse, appena in tempo per veder passare la nuvola di grossi corvi, così radenti al suolo da far alzare la polvere.
Mentre mi inoltravo sotto un cespuglio mi ritrovai con la schiena contro il petto di Boromir. L’Uomo mi cinse la vita con un braccio, in un gesto protettivo, mentre entrambi scrutavamo lo stormo maligno che spazzava l’aria sopra l’Agrifogliere.
Sentivo dietro di me il suo petto che si alzava ed abbassava, al ritmo ansimante del suo respiro. Mi strinsi ancor più contro di lui, spaventata a morte dagli uccelli ma, allo stesso tempo, quasi pazza di gioia per l’occasione che mi si era presentata: finalmente potavo stargli così vicino!
Con un ultimo frullo d’ali, gli uccelli sparirono altrettanto velocemente di come erano arrivati. Gli altri cominciarono a riemergere dai loro nascondigli ma io non accennai a muovermi, incantata dal tepore del corpo di Boromir contro la mia schiena. Il suo sussurro all’orecchio mi fece tornare in me.
"Credo che adesso il pericolo sia passato. Possiamo uscire da qui sotto? Mi sono sdraiato proprio sul ramo più grosso e più spinoso di questo dannato agrifoglio!"
"Oh… sì, subito!" esclamai, arrossendo fino alla radice dei capelli e sgusciando fuori da sotto il cespuglio per raggiungere gli altri. L’Uomo di Gondor mi seguì a ruota.
"Sono spie di Saruman! Il passaggio a sud è controllato!" esclamò Gandalf, spostando lo sguardo nella direzione in cui erano spariti gli uccelli. "Sarà molto più pericoloso adesso affrontare il Cancello Cornorosso! Non possiamo rischiare di proseguire di giorno, dovremo riprendere a marciare con l’oscurità! Riposatevi ora: ripartiremo non appena farà buio!" disse, perentorio.
"Che scocciatura! E tutto per uno stupido stormo di cornacchie!" esclamò Pipino mentre si accingeva a dormire, contrariato dal fatto di dover riprendere a camminare di notte. Non potei che concordare con lui: neanch’io amavo particolarmente quelle passeggiate al buio.
Non appena il sole tramontò Aragorn, cui era toccato l’ultimo turno di guardia, ci svegliò e, dopo una brevissima e frugale cena, ci incamminammo di nuovo per l’Agrifogliere. Per fortuna il cielo era sereno e la luna quasi piena consentiva di vedere almeno dove mettevamo i piedi, anche se conferiva al paesaggio un aspetto a dir poco spettrale.
Ci vollero altre tre notti di marcia serrata per arrivare ai piedi del Carahdras. Era una montagna imponente, con una ripida parete verticale che, quando ci fermammo a rimirarla da vicino, era illuminata debolmente dalla luce rossastra del sole nascente. Il sentiero saliva, di fronte a noi, con molte curve, fino ai piedi della parete rocciosa. Anche se sopra alle nostre teste il cielo era ancora sereno, intorno alla vetta della montagna si andavano addensando nubi nere e minacciose di bufera. Sentii Gimli borbottare nella sua lingua mentre guardava i cumulonembi che si attorcigliavano intorno alla pietra, ed anche Boromir espresse tutto il suo disappunto.
"Non mi piacciono quelle nubi. Da noi si dice che il Nemico abbia il potere di controllare le tempeste a distanza" borbottò, fissando la cima della montagna.
"In effetti, il suo braccio è diventato lungo" concordò Gandalf, prima di lanciare un’occhiata obliqua ad Aragorn che rispose aggrottando la fronte. I due si appartarono per un attimo: facendo mente locale, ricordai dal libro che stavano discutendo sull’opportunità di scalare o meno il passo del Cancello Cornorosso. Era stato Aragorn a decidere per quella via, contro il parere di Gandalf che avrebbe preferito, invece, percorrere la strada sotto le montagne. Lo stregone stava cercando di convincere di nuovo il Ramingo a cambiare idea, ma quello fu irremovibile: non avrebbe accettato di passare sotto i monti se non dopo aver fatto almeno un tentativo di passarci sopra.
Pure Boromir non era tanto allettato all’idea di scalare la montagna.
"Sarebbe più facile passare per la Breccia di Rohan” commentò, “ma, se questa è la vostra decisione, almeno seguite il mio consiglio. Io sono nato all’ombra dei Monti Bianchi e so di per certo che lassù farà freddo, molto freddo! Raccogliamo delle fascine di legna finché possiamo, e prendiamone una ciascuno. Potrebbe essere necessario accendere un fuoco!"
"Sì" concordò Sam, terrorizzato all’idea del freddo, " e Bill potrebbe portarne parecchia anche lui!"
"E sia!" concordò Gandalf, in tono lievemente esasperato, "ma non accenderemo fuochi se non per scampare alla morte per assideramento: il Nemico ha occhi ovunque!"
Così, ognuno di noi raccolse un po’ di legna e se la sistemò sulla schiena. Belli appesantiti ci apprestammo a salire la montagna. Già dopo pochi passi mi ritrovai in un bagno di sudore, ansimando come un mantice mentre arrancavo in coda al gruppo.
"Puff, puff… Ma chi me l’ha fatto fare?… Puff…" alitavo di tanto in tanto, il fiato che si condensava in nuvolette bianche davanti al viso.
Ma il peggio doveva ancora venire. Ben presto il sentiero raggiunse il limite delle nevi e camminare divenne ancora più difficile. Gli stivali affondavano nella neve fino al polpaccio e, ad ogni passo, la bocca mi si riempiva di saliva, dal sapore ferroso per lo sforzo. Anche gli Hobbit, a causa della loro statura ridotta, erano in difficoltà e, ad un certo punto Frodo – che era rimasto dietro di me con Aragorn alle spalle – con i suoi piedoni scalzi perse la presa sulla neve farinosa e ruzzolò verso il basso per diversi metri. Il Ramingo lo aiutò a rialzarsi ed a scuotersi la neve di dosso. Nel far questo, l’Hobbit si frugò all’interno della casacca e, con sgomento, si rese conto di non avere più intorno al collo la catena con appeso l’Anello. Si guardò freneticamente intorno, ma ormai era troppo tardi: Boromir aveva visto brillare qualcosa sulla neve a pochi passi da lui, si era chinato ed aveva raccolto la collana.
"Merda!" sibilai tra i denti, tornando sui miei passi per raggiungere l’Uomo. Questi stava fissando l’Anello con lo sguardo perso nel vuoto, mormorando tra sé e sé.
"Che strano destino… Dobbiamo provare tanti timori per una cosa così piccola… Un oggettino…"
Vidi chiaramente i neri tentacoli di potere oscuro protendersi verso la sua mano tesa, mentre Aragorn gli intimava di riconsegnare tutto a Frodo. Stava per chiudere a coppa la mano sinistra intorno all’Anello – ed un paio di tentacoli gli si erano già avvolti intorno al palmo – quando lo raggiunsi e gli posai la mano sul braccio che reggeva la catena. Il potere nero si ritirò all’istante, colpito dal tocco della “Stella”, ma un piccolissimo frammento di oscurità rimase comunque attaccato al centro del palmo della sua mano sinistra. Particolare di cui non mi accorsi in quell’istante – dato che anche i suoi guanti erano neri – ma che avrei notato solo in un secondo momento.
"Boromir… Fa quello che ti dice Aragorn" mormorai, scuotendolo lievemente.
Non appena il potere dell’Anello si ritirò lo sguardo dell’Uomo si schiarì e, con una risatina nervosa, rese la collana all’Hobbit, che la riprese guardandolo come si guarderebbe il più infido dei ladri. Purtroppo il potere del “Flagello di Isildur” aveva già cominciato a crescere e Frodo cominciava a sua volta ad esserne contaminato.
Non appena scese l’oscurità cominciò a cadere anche la neve. A mano a mano che avanzavamo, sempre più faticosamente, la neve prese a fioccare sempre più fitta. Cominciò a soffiare un forte vento da nord, che ci faceva volare il pulviscolo ghiacciato negli occhi e penetrava sotto i mantelli come se fossimo stati nudi. Nonostante fossi accaldata per la dura camminata cominciai a battere i denti ed immaginai che mi sarebbe venuto, di sicuro, un bel raffreddore.
Ben presto gli Hobbit non riuscirono più ad avanzare: Aragorn e Boromir li presero a coppia sotto le braccia per aiutarli ad andare avanti. Gandalf procedeva in testa alla fila, tenendosi il cappello calcato sulla testa perché la bufera non glielo strappasse via. Ad un certo punto raggiungemmo la parete a strapiombo che ci sovrastava dalla sinistra, e lì diventò un inferno perché, oltre alla neve, cominciarono a cadere dal cielo anche grossi massi.
"Dobbiamo fermarci, non possiamo proseguire oltre per stanotte!" gridò Boromir, per sovrastare la furia del vento. "Questi massi sembrano scagliati proprio contro di noi!"
"Hai ragione" concordò Gandalf, urlando a sua volta per farsi sentire. "Oltretutto, più avanti il sentiero percorre uno stretto canale in cui non avremo più nessun riparo, né dal vento né dalle rocce."
"La nostra gente ha sempre chiamato il Carahdras "Il Crudele"! Anche questa volta non si smentisce" bofonchiò Gimli, scuotendosi la neve dall’elmo.
Ci accostammo tutti con le spalle alla parete che ci offriva un minimo di protezione dal vento. La neve non accennava, però, a voler diminuire e ben presto gli Hobbit, che si erano accoccolati l’uno accanto all’altro con Bill davanti, furono quasi completamente ricoperti. Boromir estrasse di peso Frodo dal nido di neve in cui stava accoccolato, già in preda al torpore, e gridò di nuovo.
"Non possiamo rimanere qui! Questa sarà la fine degli Hobbit!"
"Ma non possiamo nemmeno tornare indietro, se non si placa un poco la tempesta!" rispose Gandalf.
"Almeno accendiamo un fuoco per scaldarci! Non ci sarà di nessuna utilità mostrare indifferenza alle intemperie quando saremo sepolti sotto la neve!" insisté il Gondoriano, in tono imperativo.
"E sia! Accendilo, se ci riesci!” esclamò allora lo Stregone, secco. “Se esiste qualcuno in grado di resistere a questa tempesta per spiarci, ci avrà già visto di sicuro, anche senza fuoco!"
Ma la legna e le esche si erano talmente bagnate che nessuno riuscì nell’impresa. Alla fine Gandalf fu costretto ad intervenire, incendiando le fascine che ci eravamo portati dietro con un tocco del suo bastone. Dopo di ché tirò fuori una bottiglietta dal suo fagotto.
"Questo è Miruvor, il cordiale di Imladris! Ne basta un sorso ciascuno! Fallo girare!" spiegò, dandolo all’Uomo di Gondor.
Gli Hobbit bevvero per primi, poi Pipino mi passò la bottiglia. L’afferrai con le mani che tremavano dal freddo e dalla fatica e buttai giù la mia parte tutta d’un fiato. Il liquore era forte e dolce come il "Fuoco dell’Etna", e subito mi sentii meglio.
"Che toccasana! Forse riesco persino a scamparmi il raffreddore!" esclamai, allungando le braccia intirizzite verso il fuoco magico che ardeva azzurrino. Ben preso il calore del cordiale si diffuse in tutto il mio corpo. Cominciai a sentirmi persino alticcia, tanto da avere voglia di cominciare a cantare a squarciagola.
"Sul cucuzzolo della montagna… Con la neve alta così… Per la valle noi scenderemo… Con ai piedi un paio di sci sci…" mi sgolai, mimando al contempo il movimento di chi scia, con gli altri che mi guardavano come se fossi improvvisamente impazzita.
"E’ arrivata la bufeeeeraaa… E’ arrivato il temporaaaaaleeee… Chi sta bene e chi sta maaaaleeee… E chi sta come gli paaaaar…” ripresi, in parte consapevole di quanto stavo facendo ma incapace di smettere. “Ehi, Gandalf, non è che potrei averne un altro goccetto?" mi sorpresi a chiedere, con un singhiozzo.
"No! Mi sembra che tu ne abbia già bevuto abbastanza!" mi rispose l’Istari, che pareva non sapesse bene se doveva mettersi a ridere oppure infuriarsi.
"Peccato” mormorai, sporgendo il labbro inferiore verso il basso, ma tornando allegra subito dopo e riprendendo a cantare. “Là, sui monti con Annette… Dove il cielo è sempre blu… Là, con Dany e con Lucien… Vieni vieni anche tuuuuu…"
"Chi è Annette?" chiese Pipino, sinceramente incuriosito, e gli altri si strinsero nelle spalle: non ne avevano di certo idea.
Pian piano la tempesta cominciò a scemare e, con essa, anche l’effetto del Miruvor che, finita l’ebbrezza, mi lasciò con un sonoro mal di testa. Boromir si allontanò dal cerchio del fuoco, su cui Gimli aveva appena gettato l’ultima fascina, ed andò a controllare il tempo.
"Il vento è quasi calato del tutto, ed anche la neve ha quasi smesso di scendere" ci informò, non appena tornò vicino alle fiamme.
"La notte è vecchia, ormai siamo prossimi all’alba" aggiunse Aragorn ed, infatti, poco dopo cominciò fare giorno. La luce grigia ci rivelò un mondo completamente coperto di neve, tanto da non riuscire nemmeno più a distinguere il sentiero che avevamo percorso la notte prima.
"E ora che si fa? Non si vede neanche più la strada" si lamentò Sam.
"Gandalf potrebbe precederci, e con una fiamma sciogliere la neve e liberare la strada" suggerì Legolas, ironico. Lui era l’unico a non aver nemmeno risentito della bufera – dato che era anche il solo a non sprofondare nella neve – ed, evidentemente, aveva ancora voglia di scherzare.
Lo stregone, però, non provava lo stesso buon umore. Gli rispose piuttosto piccato ed allora fu Boromir a prendere la situazione in pugno.
"Dalle mie parti si dice che, quando la mente è inutile, allora è il corpo che deve servire” commentò, pensieroso, prendendosi il mento tra le mani. “Potremmo aprire un passaggio nella neve scavando. Cosa ne pensi, Aragorn? Non abbiamo camminato molto sotto la tempesta, forse solo per un centinaio di passi."
"Sì, sono d’accordo con te” concordò il ramingo, “ti seguo."
I due si misero a scavare con le braccia, tracciando un solco nella neve profondo come una trincea e, lentamente, sparirono alla vista, seguiti da Legolas che sembrava fluttuare sopra di loro in tutto quel biancore.
Tornarono dopo un’ora, affaticati ma non ancora del tutto spossati. Presero Merry e Pipino sulle spalle e, di nuovo, scesero giù. Mentre procedeva, Boromir continuò a spalare la neve con le braccia lungo il suo cammino, allargando il passaggio per gli altri. Li seguii subito dopo, con sulle spalle anche i fagotti dei due Hobbit. Il gondoriano ci aveva visto giusto: dopo circa trecento metri di cammino la neve calava bruscamente, riducendosi ad uno spessore minimo. Lì, ci sedemmo su una roccia ad aspettare con Legolas il ritorno degli altri: Boromir con Sam sulle spalle ed Aragorn con Frodo, seguiti da Gandalf che conduceva il pony per le briglie, con Gimli accomodato alla bell’e meglio sopra a tutto il resto del carico.
Da lì in avanti la discesa fu più agevole anche se, quando finalmente arrivammo alla fine del sentiero del Carahdras, eravamo tutti distrutti.
Non mi sentivo più i piedi ed avevo le spalle ingobbite dal peso dei fagotti e di Hoskiart. Gandalf ci disse che avremmo potuto riposare per un po’ ed a quelle parole buttai via gli zaini, mi tolsi gli stivali – sfilandomeli spingendoli via dal tacco con la punta dell'altro piede – gettai lontano i calzini di lana e misi le mie povere estremità affaticate a mollo in un ruscelletto che scorreva poco lontano.
"Ahhhh, che sollievo…" sospirai, mentre l’acqua fredda mi intorpidiva le dita. "Adesso, se ci fosse qualcuno disposto a farmi un massaggio alle spalle, sarei proprio a posto" aggiunsi, toccandomi le scapole indolenzite.
"A questo posso pensarci io!" rispose Merry mettendosi in piedi dietro di me, massaggiandomi la schiena con le abili manine.
"Mastro Meriadoc… Sei veramente un asso… Ma non devi disturbarti" esalai lentamente, con un tono di voce che, però, diceva esattamente il contrario.
"E’ il minimo che possa fare. Tu hai portato i nostri fagotti fino a qui!” replicò, continuando a muovere con perizia le dita. “Vorresti slacciarti un poco la casacca, ed abbassartela sulle spalle?"
A quella domanda mi voltai a guardarlo interrogativamente e lui arrossì in maniera vistosa.
"No… solo per lavorare meglio sulle spalle…" balbettò, imbarazzato.
Scoppiai a ridere e lo accontentai, scoprendo le scapole e scostando i capelli di lato.
"Oh…" lo sentii mormorare di sorpresa.
"Cosa c’è?" gli chiese Pipino, con uno strano tono di voce – un misto tra l’incuriosito ed il seccato – quasi come se invidiasse la posizione del suo compagno.
"Hai un disegno su una spalla?" mi chiese Merry, ignorando completamente il cugino.
"Sì. Dalle mie parti si chiama "tatuaggio"."
"Una rosa, e di colore azzurro. Losillë luin" mormorò Legolas con la sua voce flautata, avvicinandosi a noi, pronunciandone il nome in elfico.
"Che bella…" sospirò Pipino.
"E’ vero, è proprio bella. Voi cosa ne pensate, padron Frodo?" aggiunse Sam, dopo essersi sporto anche lui a guardare.
"Sì, sono d’accordo con voi…" rispose il Portatore, ma la sua voce era distratta, come se la sua mente fosse stata impegnata altrove.
Tutte quelle attenzioni cominciarono a mettermi in imbarazzo. Mi mossi a disagio, decisa a ricoprirmi, quando sentii un passo pesante avvicinarsi e la voce profonda di Boromir solleticarmi le orecchie.
"Una rosellina” mormorò, quasi con tenerezza, “azzurra come il cielo sopra il Mindolluin nelle giornate di primavera…”. Trasse un lungo sospiro. “Quanto desidero vedere di nuovo la mia città…" esalò lentamente. Si interruppe per un attimo, poi riprese, rivolgendosi a Gandalf. "A proposito di questo: dobbiamo decidere quale strada prendere! Andiamo alla breccia di Rohan, e da lì raggiungiamo Minas Tirith!" propose.
"La breccia di Rohan ci porta troppo vicini ad Isengard!” esclamò Aragorn. “Tuttavia, la mia decisione di passare per il Carahdras si è rivelata fallimentare" riprese, avvilito, dopo aver dato un’ultima occhiata alla montagna alle nostre spalle.
"C’è un’altra via" replicò Gandalf, soffiando fuori il fumo della pipa che si era appena acceso. "Finora non ve ne avevo parlato perché Aragorn mi aveva pregato di non prenderla. Ma visto che il Cornorosso ci ha respinto non ci resta altro da fare. Dobbiamo passare da Moria!"
"Non sono allettato al pensiero di farlo, ci sono troppi pericoli sotto le montagne" ribadì Granpasso, rimanendo fedele alla sua idea.
"Lo so, ma non vi condurrei là se non sapessi che abbiamo qualche possibilità di riuscita. Ho già attraversato quelle miniere una volta, e lo farò ancora!" affermò risoluto lo Stregone.
"Anch’io le ho già attraversate, ed è proprio per questo che sono così riluttante" borbottò il Ramingo, accendendosi la pipa a sua volta.
"Non mi piace quel nome… Non ci sono mai stato e nemmeno desidero andarci!" balbetto Sam, stringendosi contro Bill.
"Nemmeno noi!" gli fecero eco i due cugini, mentre Frodo rimase in silenzio.
"Io non ci andrò, a meno che la decisione della compagnia non sia unanime. Quello è un posto maledetto!" sibilò Boromir, stringendo le mani a pugno.
L’unico favorevole all’idea dell’Istari era – ovviamente – Gimli, visto che l’attuale signore di Moria era suo cugino Balin.
"Io ti seguirò Gandalf! Non vedo l’ora di vedere come se la passa mio cugino!" esclamò il Nano, contento all’idea di rivedere il suo parente.
"Grazie, Gimli. Cercheremo insieme le porte nascoste!"
"Anche se, come ho già detto prima, sono riluttante, so che non c’è altra alternativa! Anch’io ti seguirò!" riprese Aragorn, con voce risoluta.
"Non mi sembra saggio rifiutarsi di ascoltare un consiglio di Gandalf" disse Frodo, parlando per la prima volta. "Entrerò a Moria con te!"
Lo Stregone sorrise e gli strizzò l’occhio.
"Allora lo faremo anche noi!" parlò per gli Hobbit Sam.
Legolas annuì semplicemente, senza parlare. Gli sguardi degli altri si fissarono su di me, che stavo ancora con i piedi a mollo e le spalle scoperte dopo che Merry aveva finito il massaggio
"A me sono sempre piaciute sia le miniere sia le grotte in generale" dissi, ricoprendo le spalle ed asciugandomi i piedi con il mantello, "perciò, per me va bene…"
Sapevo benissimo che Moria sarebbe stata un disastro completo ma, visto che Boromir avrebbe accettato solo in caso di unanimità, dovevo obbligatoriamente approvare. Difatti il Gondoriano sbuffò, ma acconsentì a seguirci nel ventre delle montagne.
"Bene, così è deciso!" sentenziò Gandalf. "Ora riposatevi. Lasceremo trascorrere la notte, poi all’alba ci metteremo in marcia. Farò io il primo turno di guardia. Buonanotte!"
Ed, a quelle parole, tutti si prepararono per dormire. Sistemai il mio giaciglio tra quello di Boromir e quello di Aragorn e mi addormentai quasi subito, cullata dal lieve gorgoglio del ruscello.
Era il tredici di gennaio, e fu così che il Carahdras ci sconfisse.

Spazio autrice: Eccomi di nuovo qua, con un nuovo capitolo rivisto. Il viaggio della Compagnia è finalmente cominciato e qui si nota parecchio che ho fatto un mix tra libro e film. Infatti, alcuni dialoghi sono ripresi dal primo, ed altri dal secondo. La descrizione della scalata al Cornorosso è, nella prima parte, ripresa dal film, quando Frodo perde l’Anello e Boromir lo raccoglie; e nella seconda, dal libro, con la scena del Miruvor che nel film non compare. Così come ho ripreso dal libro le idee di Aragorn e Gandalf a proposito della strada da prendere: sulla carta stampata è, infatti, Aragorn ad essere restio a passare da Moria, mentre nel film è il contrario. Lo stesso vale per l’Agrifogliere: l’ho descritto come appare nel libro, ma inserendo la scena dei Crebain come rappresentata nel film.
Riguardo alle canzoni che Marian canta quando è ubriaca: la prima è “Sul cucuzzolo” di Rita Pavone; la seconda è “E’ arrivata la bufera” di Renato Rascel e la terza ed ultima è la sigla del cartone animato “Sui monti con Annette” cantata da Cristina D’avena.
Un’ultima precisazione: il “Fuoco dell’Etna” o “Fuoco del Vulcano” è uno squisito liquore siciliano fatto con le ciliegie, di colore rosso intenso e dalla notevole gradazione alcolica, che vuole appunto ricordare la lava del Mongibello.
Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate! Bacioni! Evelyn

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Capitolo 8
*** Moria ***






Moria

 

Fui svegliata, nel cuore della notte, da un ululato sinistro e prolungato, talmente vicino da farmi accapponare la pelle. Alzai la testa di scatto, spaventata: a parte gli Hobbit, gli altri compagni erano già tutti ben desti. Gimli aveva acceso un fuoco al centro della radura in cui ci trovavamo, evidentemente per tenere lontano gli animali pericolosi, ed ora affilava le asce al chiaro delle fiamme, alzando gli occhi di tanto in tanto. Aragorn fumava la sua lunga pipa di legno, seduto su una roccia ai margini della pozza di luce, dando la schiena al falò e fissando attentamente nell’oscurità. Boromir passeggiava nervosamente in cerchio intorno al fuoco, carezzando distrattamente sia il corno di Gondor sia l’elsa della sua spada. Gandalf stava appoggiato ad un tronco, con gli occhi chiusi, immobile come se dormisse. Legolas non era in vista, ma un lieve fruscio sopra la mia testa mi fece alzare gli occhi e scoprire che l’Elfo era appollaiato come un grosso uccello sopra ad un ramo. Anche lui scrutava le tenebre intorno a noi.
Troppo preoccupata per riprendere sonno mi alzai dal giaciglio, avvolgendomi ben bene nel mantello per proteggermi dal vento freddo ed arrotolando la coperta legandola sul mio zaino. Non appena pronta, mi misi a sedere accanto a Gimli.
Nonostante i rumori, gli Hobbit continuavano a dormire il sonno dei giusti, incuranti dei lupi che si andavano ammassando nella foresta intorno a noi.
"Siamo inseguiti" mormorò lo stregone, senza aprire gli occhi. "Temevo che sarebbe successo, ma non possiamo muoverci adesso, sarebbe troppo pericoloso! Spero solo che questi lupi non si avvicinino più di così. Non appena farà giorno dovremo partire, ed anche alla svelta.” Si interruppe, per trarre un breve sospiro, poi continuò. “Se non riusciremo a raggiungere i cancelli occidentali di Moria entro il prossimo tramonto, temo che non ci riusciremo mai. Forse per stanotte gli animali non ci assaliranno; ma lo stesso non potrà più dirsi, domani."
"Che prospettiva incoraggiante…" mormorai, incapace di trattenermi.
"Non temere!" riprese Gandalf, "le mura di Moria non sono poi così lontane. Abbiamo piegato verso sud durante la discesa dal Cornorosso: non dovrebbe essere troppo difficile trovare l’ingresso della miniera."
Ma, quelle, si rivelarono le sue “ultime parole famose": Gandalf non riuscì a trovare il Sirannon – il Rivo del Cancello – che, a suo dire, un tempo scorreva proprio davanti alle porte di Moria, neanche con il lanternino. Stavamo tutti con le orecchie dritte per sentire il gorgoglio dell’acqua ma persino Legolas, con il suo udito di Elfo, non riuscì a captare niente. Fu soltanto dopo mezzogiorno e dopo una frettolosa colazione, che Gimli – che i peli della sua barba possano allungarsi sempre più! – trovò un misero ruscelletto fangoso in cui scorreva a mala pena un filo d’acqua.
"Ecco il Sirannon!" esclamò Gandalf.
"Finalmente…" gli fece eco Pipino, massaggiandosi i piedoni pelosi, "non ne potevo più di arrancare tra queste rocce aride e aguzze!"
"Ora non ci resta che seguirlo a ritroso fino a raggiungere ciò che cerchiamo!"
E così facemmo e, mano a mano che avanzavamo, ci rendemmo conto che il paesaggio era cambiato molto dall’ultima volta in cui Gandalf era passato da quelle parti. Arrivati in cima alle Scalinacascate – dove un tempo il fiume scorreva impetuoso ed ora invece gocciolava mestamente – trovammo la strada sbarrata da un grosso lago immobile dalle acque stagnanti e puzzolenti, che invadeva tutta la vallata di fronte a noi.
"Ecco che fine ha fatto l’acqua del Sirannon!" esclamo nuovamente l’Istari, togliendosi il cappello e grattandosi la testa. "Bene, ora non ci resta che aggirarlo ed arrivare dall’altra parte!"
"Dobbiamo camminare ancora? Io non ce la faccio più!" si lamentò il più giovane degli Hobbit, lasciandosi cadere pesantemente su una roccia.
"A meno che tu non voglia fare una nuotata, Messer Peregrino, e sei liberissimo di farla, se ciò ti aggrada!” lo apostrofò Gandalf, “ma io non ho nessuna intenzione di attraversare nuotando queste acque malsane e, credo, nemmeno i tuoi compagni!"
Tutti scuotemmo la testa e Pipino si rimise in marcia con un lungo sospiro.
Era ormai pomeriggio inoltrato. Gandalf aveva allungato molto il passo, tanto che perfino Aragorn e Boromir stentavano quasi a tenergli dietro. Giunti alla parte più settentrionale del lago, però, ci rendemmo conto che, volenti o nolenti, avremmo dovuto per forza mettere i piedi nell’acqua, per attraversare una piccola baia che ci sbarrava la strada.
Il primo ad avventurarsi fu Gimli – l’unico veramente entusiasta di entrare nelle miniere – che, dopo aver proceduto con cautela sulle rocce viscide e scivolose del fondale, raggiunse sano e salvo l’altra sponda. Per fortuna l’acqua arrivava solo fino alle caviglie, quindi anche gli Hobbit riuscirono a superare l’ostacolo senza difficoltà, anche se rabbrividirono a lungo al contatto con l’acqua fetida.
Io fui l’unica ad avere problemi. Ero rimasta per ultima, e mi mancava ormai più solo un passo per arrivare di nuovo all’asciutto, quando i miei stivali persero la presa sul fondo ed andai a finire con il sedere a mollo, sollevando una miriade di spruzzi di acqua puzzolente. Fui costretta a mettere le mani a terra per risollevarmi e, quando le estrassi di nuovo dall’acqua, le trovai coperte di melma viscida color marrone verdastro, che odorava di foglie marce e chissà cos’altro.
"Bleah!" esclamai, scuotendo vigorosamente le mani per liberarle dalla poltiglia e finendo, così, per schizzare anche tutti gli altri membri della Compagnia, colpendo Merry in un orecchio e Legolas in un occhio.
"Fai più attenzione!" mi gridò Boromir, togliendosi lo schizzo di melma dalla guancia con il dorso del guanto, la bocca contorta in una smorfia di disappunto.
"Scusatemi… Non volevo…" balbettai, cercando di pulire l’orecchio di Merry con l’orlo del mio mantello ma finendo soltanto con il peggiorare la situazione, visto che anche quello era completamente fradicio e ricoperto di fanghiglia.
"Andiamo ora, non abbiamo tempo da perdere!" gridò Gandalf, rimettendoci in riga e ripartendo a grandi falcate ma, nel frattempo, asciugandosi la melma che gli era finita nella barba.
Dopo un'altra mezz’ora di cammino serrato arrivammo ai piedi di una parete rocciosa, talmente liscia che sembrava fosse stata levigata. Davanti ad essa, proprio al centro, si ergevano due enormi alberi di agrifoglio, le cui radici si immergevano nelle acque stagnanti del lago.
"Oh… Le mura di Moria" sospirò Gimli, con voce sognante.
"Sì Gimli, siamo arrivati finalmente! Ora non ci resta che trovare le porte nascoste!" disse Gandalf.
"L’unico problema è che non ho idea di come fare per trovarle. Le porte dei Nani diventano inaccessibili anche ai loro padroni, se il loro segreto viene obliato" replicò il figlio di Gloin, fissando la parete.
"Chissà perché la cosa non mi sorprende…" sussurrò sarcastico Legolas. A quel commento, Gimli rispose con un grugnito.
Ma non ci fu bisogno di ricordare segreti dimenticati da tempo perché, all’improvviso, la “Stella” si mise a brillare e sulla parete, proprio in mezzo ai due alberi secolari, iniziarono a tracciarsi delle deboli linee luminose.
Ben presto fu visibile un alto arco, sotto il quale brillavano un’incudine ed un martello, sormontati da una corona circondata da sette stelle, simbolo della Casa di Durin. Alle colonne che sostenevano l’arco erano attorcigliati due alberi con delle mezzelune appese ai rami, simbolo degli Alti Elfi. Al centro del portale, brillava una stella dalle molte punte.
"La Stella della Casa di Fëanor!" ridacchiò Gandalf, indicandola, "a quanto pare avevi con te la chiave per trovare le porte!"
"Come mai è incisa anche sulle porte di Moria?" gli chiesi, toccando involontariamente il gioiello che avevo al collo.
"Perché Celebrimbor, ovvero l’Alto Elfo che ha tracciato queste linee con l’Ithildin, era un discendente di Fëanor" mi spiegò, prima di mettersi di nuovo a fissare le linee brillanti. Sopra l’arco si era formata un’iscrizione.
"Cosa dice?" chiese Merry.
"Allora. C’è scritto “le porte di Durin, signore di Moria: dite amici ed entrate”!" rispose lo Stregone, seguendo le parole con la punta del suo lungo bastone mentre leggeva.
"E cosa vuol dire?" domandò Pipino.
"Ah, è semplice: se sei amico dici la parola magica e le porte si aprono!" e, puntandoci contro il bordone, Gandalf pronunciò una frase in elfico, senza risultato. Provò altre due o tre volte, ma sempre inutilmente.
"Non succede niente! E adesso cosa facciamo?" chiese di nuovo il più giovane dei Mezzuomini, con la sua vocetta petulante.
"Sbattici contro la testa, Peregrino Tuc! E se questo non le fracassa, e mi viene lasciato un attimo di tregua dalle domande sciocche, tenterò di trovare la parola giusta!" gli rispose lo Stregone, infuriato ed anche un po’ frustrato.
Sapevo perfettamente che la parola giusta era "mellon", ovvero "amici" in elfico, ma non sapevo se avrei fatto bene o meno ad alterare i tempi della storia, quindi preferii lasciar correre, anche a costo di incontrare il Guardiano, che era in agguato nelle profondità del lago.
Mentre Gandalf si spremeva le meningi suddividemmo il bagaglio di Bill, scegliendo cosa portarci appresso e cosa no, e raggruppammo il tutto in pile ordinate da aggiungere ai fagotti che già avevamo. Con la morte nel cuore, Sam tolse la cavezza al pony, che non avrebbe potuto seguirci all’interno della miniera, ed Aragorn lo rimandò indietro con una pacca sulla groppa.
Nell’attesa che lo Stregone trovasse infine la parola giusta ci mettemmo a sedere sotto gli alberi. Merry e Pipino, che non riuscivano a star fermi, cominciarono a lanciare pietre nel lago e, prima che Aragorn intervenisse, li aveva imitati anche Boromir, che non sopportava affatto quel luogo. Legolas stava in silenzio a contemplare le foglie degli agrifogli sopra la sua testa e Gimli fumava la sua corta pipa di terracotta.
"Vedrai, mio cugino Balin ci riserverà un’accoglienza regale!" mi disse, agitando la pipa davanti al naso.
"Non ne dubito" gli risposi, ben sapendo che, all’interno di Moria, di Balin avremmo trovato soltanto la tomba.
Finalmente Frodo, seduto con Sam dietro allo Stregone, si rese conto che l’iscrizione era in realtà un enigma e trovò la parola giusta. Le porte si spalancarono e tutti ci alzammo in piedi, con un sospiro di sollievo.
Gandalf entrò per primo, seguito da Gimli che fantasticava su quello che avremmo visto all’interno di Khazad-Dûm.
"Presto, Mastro Elfo, potrai gustare la leggendaria ospitalità dei Nani!" disse, rivolgendosi in particolar modo a Legolas. "Grandi falò, birra di malto, carne stagionata con l’osso! Questa, amico mio, è la casa di mio cugino Balin! E la chiamano una miniera… Una miniera!" concluse, con il tono lievemente offeso.
Ormai eravamo tutti dentro e, alla luce della luna che era appena sorta, potemmo vedere che l’ingresso e le scale che salivano davanti a noi erano disseminati di scheletri di Nani.
"Questa non è una miniera” mormorò Boromir, deglutendo a vuoto, in risposta alle parole di Gimli. “È una tomba…"
Solo allora il figlio di Gloin si rese conto della situazione e cominciò ad ululare come una sirena da nebbia. Legolas esaminò le frecce che avevano colpito i Nani e mormorò: "Gli orchi…"
A quelle parole tutti estraemmo le spade, guardandoci intorno come se, da un momento all’altro, un esercito di Orchetti avesse dovuto riversarsi fuori dalla miniera.
"Tutti fuori! Svelti! Non saremmo mai dovuti venire qui! Andiamo alla Breccia di Rohan!" gridò il Gondoriano, brandendo la lama e facendo cenno agli altri di retrocedere.
Non appena usciti, però, i tentacoli dell’Osservatore emersero dall’acqua, dirigendosi minacciosi verso Frodo. Uno di essi con uno scatto repentino afferrò l’Hobbit per la caviglia. Sam lanciò un grido e, mentre Merry e Pipino trattenevano il compagno perché non venisse trascinato via, Aragorn tranciò l’arto con un colpo di Andùril.
Il mostro non si dette per vinto, ed altri tre o quattro tentacoli schizzarono fuori dall’acqua ghermendo il Portatore, che questa volta fu strappato dalle braccia degli amici ed issato, urlante, a dieci metri d’altezza. Legolas iniziò a lanciare frecce all’indirizzo dell’Osservatore che, nel frattempo, aveva tirato fuori la testa e spalancato le fauci. Aragorn e Boromir si slanciarono in acqua, menando fendenti a destra e a sinistra, cercando disperatamente di liberare il povero Frodo, che gridava a squarciagola appeso a testa in giù sopra la bocca del Guardiano. Ripetendo dentro di me, come una specie di mantra, che sarebbe andato tutto bene, mi lanciai anch’io nell’acqua, facendo mulinare Hoskiart sopra la testa e colpendo a ripetizione i grossi arti scivolosi del mostro, che ruggiva di rabbia e di dolore.
Dopo diversi colpi, finalmente rimase un solo tentacolo a trattenere Frodo. Aragorn lo tagliò con un colpo netto di spada e Boromir afferrò al volo l’Hobbit, prima che questo si schiantasse nell’acqua bassa. Allora tornammo tutti di corsa verso le porte di Moria, mentre Legolas continuava a lanciare frecce verso i terribili occhi del Guardiano, nel tentativo di rallentare la sua avanzata. Non appena l’Elfo – che era rimasto per ultimo – fu entrato, il mostro sbatté le ante alle nostre spalle con i pochi tentacoli che gli rimanevano, mandando in frantumi le rocce all’esterno e sigillandoci all’interno della miniera, lasciandoci nell’oscurità più completa.
"Non abbiamo altra scelta: dobbiamo affrontare le tenebre di Moria!" sentenziò Gandalf, inserendo un grosso cristallo trasparente tra le radici nodose che formavano la punta del suo bastone ed illuminandolo, così da poter vedere qualcosa. "E’ un viaggio di almeno tre giorni da qui all’altra parte della montagna! Cerchiamo almeno di passare inosservati.” Si interruppe per un istante, il tempo di estrarre dal suo fagotto la bottiglietta contenente il cordiale di Imladris. “Tenete, beviamo un sorso di Miruvor. Non è più molto, e sono certo che dovremo berne ancora prima di uscire all’aperto; ma ora abbiamo proprio bisogno di essere rinfrancati, prima di partire".
Reggendo alto il suo bordone, cominciò a salire le scale, seguito a breve distanza da Gimli che, nonostante i cadaveri all’ingresso, sperava ancora di incontrare suo cugino. Dietro di lui veniva Legolas; poi gli Hobbit ed infine io, Boromir ed Aragorn, tutti e tre fradici come pulcini e puzzolenti delle acque del lago. Il ramingo aveva preso una vecchia torcia che giaceva a terra in fondo alle scale e l’aveva accesa, illuminando così la retroguardia.
Dopo aver salito quella che mi parve la rampa di scale più lunga della storia – milleduecentocinquanta gradini senza nemmeno un pianerottolo – finalmente varcammo un’altra soglia e ci addentrammo nel cuore della miniera vera e propria.
In alcuni punti il nostro sentiero era largo ed agevole; in altri stretto e tortuoso, con voragini che si aprivano ogni tanto a destra ed a sinistra. A volte, queste si spalancavano all’improvviso anche sotto ai nostri piedi, costringendoci a saltare od a camminare su stretti cornicioni con la schiena contro la parete di roccia. In alcuni punti, il bastone di Gandalf e la torcia di Aragorn illuminavano qualche stalattite o qualche vestigia della vecchia miniera, come un carrello rovesciato o delle travature di legno marcio. Rabbrividivo spesso per la paura, nonostante l’aria stesse diventando sempre più calda ed i vestiti mi fossero ormai asciugati addosso.
"Di solito io adoro le miniere e le grotte, ma questo posto mette veramente i brividi…" sussurrai, ed il vuoto intorno a noi amplificò la mia voce tanto da renderla perfettamente udibile a tutti.
"A chi lo dici" mi rispose Pipino, che arrancava davanti a me prendendomi ogni tanto per mano, specialmente nei punti più difficili.
Stavamo percorrendo un lungo tratto di stretto sentiero dritto, con la parete alla nostra sinistra ed il nulla alla nostra destra, quando Gandalf si fermò.
"Le Miniere di Moria non sono famose per l’oro o per i gioielli, ma per un’altra cosa: Mithril" sussurrò, alzando un poco il bastone ed illuminando la voragine che si apriva sotto i nostri piedi e della quale non si vedeva il fondo. Le pareti luccicarono di piccole venature argentate. Boromir si sporse per guardare meglio ed io, per vincere la paura del vuoto, mi afferrai al suo braccio affacciandomi a mia volta. Quando ci rimettemmo in marcia, la mia mano scivolò nella sua guantata e rimase in quella posizione per qualche passo, finché le mie dita non persero la presa sul liscio cuoio del guanto. Per un attimo, ebbi la netta sensazione che lui stesse per riafferarmela, ma non accadde nulla ed il momento passò.
Dopo diverse ore di cammino l’effetto del cordiale di Imladris cominciò a svanire e cominciai a sentirmi le gambe pesanti. Avevamo camminato quasi ininterrottamente, facendo solo brevissime soste per bere, ed avevo letteralmente i piedi in fiamme.
Stavo per implorare Gandalf di fermarci almeno un minuto per metterci a sedere, quando lo Stregone ebbe il primo vero scacco. Ci trovavamo davanti ad un trivio e lui non sapeva più da che parte andare. Osservò attentamente i tre archi, facendosi luce con il bastone per vedere se trovava qualche indicazione, ma senza risultato.
"Non ho memoria di questo posto" mormorò, fissando prima il cunicolo di sinistra che scendeva verso il basso, poi quello centrale che continuava in piano, ed infine quello di destra che saliva con decisione. "E’ inutile proseguire ora: riposiamoci un poco, mentre cercherò di ricordare qual è la strada giusta."
Sul lato destro del corridoio che stavamo percorrendo si apriva una porta, da cui si accedeva in una piccola stanza. L’Istari fece strada all’interno, illuminando l’ambiente e rivelando un pozzo, aperto al centro del pavimento, che dava sulle profondità della miniera.
"Questa stanza doveva essere un ricovero per le guardie! Quel pozzo di sicuro serviva per attingere l’acqua!" commentò Gimli guardandosi attorno.
A quel punto ricordai dal libro che, non appena tutti si fossero sistemati per la notte, Pipino si sarebbe avvicinato di soppiatto al pozzo, facendoci cadere dentro un sasso per vedere quanto era profondo. Questo avrebbe risvegliato gli Orchi che vivevano parecchi livelli più in basso. Riflettei per un attimo.
"All’ingresso ho deciso di lasciar correre, e l’attacco del Guardiano è stato più violento di quello descritto nel libro. Cosa succederà se impedisco a Peregrino di buttare il sasso? Forse che gli Orchi non ci sentiranno? Oppure ci assaliranno prima? Voglio provare…" decisi, incuriosita di vedere quali effetti potevano avere le mie scelte sull’andamento futuro dell’avventura.
Mentre gli altri preparavano i loro giacigli io tenni d’occhio il giovane Hobbit e, non appena lo vidi strisciare furtivo verso l’apertura, lo richiamai all’ordine.
"Se butti un sasso dentro quel pozzo, Peregrino Tuc, ti giuro che la tua testa lo seguirà subito dopo, accompagnata dal resto del tuo corpo!" esclamai, in tono serio.
Il Mezzuomo trasalì e tornò di corsa accanto al suo fagotto, con sguardo colpevole. Gandalf mi strizzò l’occhio e si accese la pipa, andandosi poi a sedere davanti ai tre archi per riflettere sul da farsi.
Mi ero appena sdraiata avvolgendomi nella coperta, quando Pipino, adagiato vicino a me, mi chiese, meravigliato:
"Come facevi a sapere che volevo buttare un sasso nel pozzo?"
"Intuito femminile" risposi, sorridendogli.
L’Hobbit rispose al mio sorriso, guardandomi con occhi adoranti – fin troppo veneranti, per i miei gusti – poi si buttò giù e si addormentò all’istante. Anch’io ero esausta e dopo aver augurato la buona notte agli altri caddi in un sonno profondo.

 
* * *

 

Prima di poter chiudere gli occhi a sua volta, Boromir si ritrovò a fissare Marian, che dormiva accanto a Peregrino. Ricordava ancora benissimo la sensazione che aveva provato quando lei si era aggrappata al suo braccio, per sporgersi a guardare nell’abisso, e quando la sua mano piccola e delicata aveva stretto la sua grande e guantata. Aveva sentito un brivido corrergli su per la spina dorsale, un fremito che gli aveva quasi mozzato il respiro. Quando, una volta ripresa la marcia, la mano di lei era sfuggita alla sua presa, per un unico istante aveva desiderato ardentemente di riafferrarla e tenerla ancora stretta. Ma poi si era riscosso. Non doveva cedere! Aveva amato un’unica donna nella sua vita, sua madre, e cosa era successo? Che lei lo aveva lasciato quando aveva appena dieci anni, spezzando il suo cuore e quello del suo fratellino. Non poteva fidarsi delle donne. Non voleva fidarsi delle donne! Ma non riusciva a convincere il suo cuore del contrario.
Il suo sguardo si spostò poi su Frodo ed indugiò, troppo a lungo, sul petto dell’Hobbit dove, sotto la casacca, era nascosto l’Unico Anello, appeso alla sua catena. Si grattò distrattamente il palmo della mano sinistra, dove negli ultimi giorni sentiva spesso un fastidioso prurito e, per un attimo ancora, pensò al “Flagello di Isildur”, al suo potere, ed a quanto sarebbe stato utile a Gondor per la guerra contro l’Oscuro Signore.

 
* * *

 

"Ho trovato!" esclamò Gandalf, venendoci a svegliare dopo solo sei misere ore di sonno, "ora so qual è la strada che dobbiamo prendere!"
"Te lo sei ricordato!" esclamò Merry, balzando in piedi e cominciando a riavvolgere la sua coperta.
"No, ma non mi piaceva l’atmosfera del corridoio centrale, ed in quello di sinistra l’aria era troppo fetida. Quando non sei sicuro, Meriadoc, da retta al tuo naso!” esclamò l’Istari, dando una pacca sulla spalla del Mezzuomo. “Direi che la direzione giusta è a destra: è ora di ricominciare a salire!"
Percorremmo un lungo tratto di strada in salita, senza proferire parola. A mano a mano che avanzavamo, il corridoio diventava sempre più largo e più alto. Il pavimento era liscio e levigato, sicuramente dal passaggio di molti piedi naneschi.
Dopo otto ore di marcia, intervallate soltanto da due brevi soste, le pareti del corridoio sparirono e ci ritrovammo in una sala che, a giudicare dagli spifferi d’aria che ci arrivavano in faccia, doveva essere enorme.
"Voglio osare un po’ più di luce…" mormorò Gandalf, alzando il bastone sopra la testa.
Lentamente la sua luce si espanse, illuminando un salone immenso diviso in numerose navate da pilastri di pietra nera, finemente intagliata, che sorreggevano un soffitto ad archi a sesto acuto.
"Mirate l’antico regno della città dei nani: Nanosterro!" esclamò lo Stregone, mentre alzavamo gli occhi a guardarci intorno, con la bocca aperta per la meraviglia.
Boromir fece un giro su se stesso, fissando il soffitto con stupore, ed anch’io non potei fare a meno di sussurrare uno "Wow…" d’ammirazione per la maestria dei Nani, mentre sfioravo uno dei pilastri finemente decorati. Gli Hobbit sembravano persino scomparire nell’immensità di quel vasto salone mentre si guardavano attorno, estasiati.
La voce di Gandalf ci riscosse.
"Credo che non dovrebbe mancare più molto al lato orientale della montagna, anche se di sicuro siamo di parecchi livelli sopra ai cancelli” costatò, guardandosi attorno e grattandosi la testa, pensieroso. “Per oggi fermiamoci qui! Può darsi che, domani mattina, vedremo sorgere l’alba da qualche lucernario. Allora forse potrò anche orientarmi meglio!"
Ci accampammo ai piedi di uno dei pilastri, perché al centro delle navate la corrente d’aria era fin troppo fastidiosa. Dopo aver mangiato e bevuto l’ultimo sorso di Miruvor a testa, gli Hobbit, Gimli, Aragorn e Gandalf accesero le loro pipe. La luce del bastone dello Stregone si smorzò quasi del tutto, lasciandoci quasi completamente al buio, per cui i loro visi erano illuminati soltanto dalle braci nei fornelli. La “Stella di Fëanor”, che avevo tirato fuori della casacca, brillava debolmente nell’oscurità, rischiarando a malapena il mio volto. Boromir e Legolas, invece, erano immersi nel nero più assoluto: soltanto i loro occhi erano appena visibili, grazie al riflesso del debole chiarore del bordone dell’Istari.
La quiete calò sul nostro gruppo. Per parecchi minuti si poté udire solamente il suono del tabacco che si consumava, unito ai nostri respiri calmi e regolari. Solo Pipino sembrava non riuscire a star fermo, dimenandosi come in preda all’inquietudine.
"Il silenzio è troppo pesante in questa oscurità” sbottò alla fine, “potete cantare qualcosa?" e Gimli lo accontentò, cantando un’antica canzone nanesca che parlava di Khazad-Dûm ai suoi tempi di gloria.
"Ora cantane una tu, Marian!" mi pregò il più giovane degli Hobbit quando il Nano si zittì, timoroso forse di restare di nuovo vittima di un silenzio talmente intenso da far male persino alle orecchie.
Purtroppo per lui, non avevo alcuna voglia di cantare: il Miruvor mi aveva messo sonnolenza e l’odore inebriante dell’erba pipa mi faceva girare la testa.
"Allora facciamo almeno un gioco! Tutto questo buio mi deprime!" insisté il Mezzuomo, petulante.
Più per farlo smettere che per vero divertimento, decisi di accontentarlo.
"Pensate tutti ad un numero" dissi, trattenendo a stento uno sbadiglio. "Anche tu Gandalf, se vuoi!"
"Un numero come?" chiese Merry.
"Quello che vuoi, basta che tu poi sia in grado di farci operazioni aritmetiche" gli spiegai.
"Allora è meglio che ne scelga un altro" mormorò Sam, "non sono mai stato bravo in matematica."
Dopo un istante, ripresi.
"Ora raddoppiatelo." Attesi per un attimo, poi continuai. "Al numero che avete ottenuto, aggiungete dieci… poi dividete per due.”
Questa volta il silenzio si protrasse più a lungo: potevo quasi sentire il rumore delle meningi che lavoravano.
"Ed, infine, sottraete il primo numero che avevate pensato" conclusi.
Pipino aveva la lingua tra i denti quando finalmente esclamò, con soddisfazione: "Fatto!"
"Vi rimane cinque?" chiesi, trattenendo a stento una risatina.
La quiete della vasta sala fu rotta da diversi "Oh!" di sorpresa: dal grugnito di Gimli alla voce flautata di Legolas, passando dalle vocine degli Hobbit a quelle profonde dei due uomini. L’unico che non mostrò incredulità fu Gandalf: tutto ciò che fece fu mettersi a sghignazzare sotto i baffi. Evidentemente aveva capito subito il trucco: se prima moltiplichi per due e poi dividi per due, la soluzione è la metà del numero che hai fatto aggiungere.
"Come hai fatto?" chiese Sam, guardandomi con occhi sgranati.
"Io voglio provare di nuovo!" esclamò Merry, mettendosi più dritto contro il pilastro, come per ostentare una maggior concentrazione.
Sorrisi, indulgente, prima di ripetere il gioco.
"Allora: pensate ad un numero… raddoppiatelo… aggiungete sei questa volta… dividete per due… sottraete il primo numero… vi rimane tre?"
Ci furono altre esclamazioni di meraviglia ed ancora Gandalf ridacchiò, strizzandomi l’occhio.
Sospirai profondamente. Il fumo passivo dell’erba pipa cominciava a confondermi i pensieri e mi sentivo stranamente leggera. Aggiunto poi all’ebbrezza del Miruvor, che avevo bevuto prima, ne venne fuori una miscela letteralmente esplosiva.
"Io voglio sapere come hai fatto?" mi chiese petulante Pipino, scatenando involontariamente la mia parlantina.
"Una maga non svela mai i propri trucchi, caro Peregrino" gli risposi, sorniona.
"Te l’ho già detto tante volte: gli amici mi chiamano Pipino! Perché continui ad usare il mio nome intero?" domandò ancora, con tono insistente.
In effetti, aveva ragione. Non l’avevo mai chiamato con quel nomignolo, mentre con Merry o Sam non avevo nessun problema nell’usare i loro soprannomi. Il perché di questo mio comportamento glielo rivelai nello stordimento di fumo ed alcool.
"Perché, mio caro, nella mia lingua con il nome “Pipino” indichiamo un'altra cosa" dissi, ammiccando all’Hobbit che mi sedeva accanto il quale, dal canto suo, continuò a guardarmi stupito.
"E cioè?" chiese, inarcando le sopracciglia.
"L’attributo maschile!”
Pipino divenne rosso come un pomodoro; gli altri Hobbit ridacchiarono, imitati dal Nano.
"Voi chiamate "pipino" il… il pene?" concluse in un sussurro il giovane Mezzuomo, diventando ancora più paonazzo nel pronunciare quella parola.
"Sì! Ed usiamo anche altri nomi! Come pisello, per esempio… oppure fava. Qualcuno lo definisce anche banana" elencai, tenendo il conto sulle dita.
"Che cos’è la banana?" chiese Merry, con un’innocenza tale da farmi sorridere.
"E’ un frutto di forma cilindrica allungata” gli spiegai.
"Anche nella Contea utilizziamo nomi di vegetali: lo chiamiamo, per esempio, carota!" disse Sam, vincendo la sua naturale ritrosia, forse anche lui grazie al Miruvor.
"Oh sì, e anche cetriolo a volte!" rincarò la dose Merry.
"Ma non utilizziamo solo nomi di vegetali" ripresi, ormai partita per la tangente, "usiamo anche nomi di animali, come uccello, oppure anguilla!"
"Noi usiamo serpente!" disse Merry, mentre Pipino diventava sempre più rosso, assumendo sfumature addirittura violacee alla luce tenute del bastone.
"Noi Nani usiamo solo termini relativi alle rocce ed ai minerali, ed a ciò che concerne le miniere in generale" si intromise Gimli che, evidentemente, si divertiva un mondo, "come, ad esempio, cristallo oppure mazza!"
"E per indicare tutto l’insieme” continuai, ormai senza più alcun ritegno, “si usa il termine pacco. Vi faccio un esempio pratico: se un uomo ha un bel rigonfiamento nel cavallo dei pantaloni, una donna può esclamare “che pacco!”"
"Nella contea viene usato il termine fagotto, che comunque mi pare molto simile!" spiegò Merry, tirando una boccata dalla sua pipa e sbuffando il fumo in faccia a Pipino. "E per quanto riguarda le femmine?" mi incalzò subito dopo.
"Merry!" esclamò il giovane Tuc, ormai completamente livido per la vergogna, "ma ti sembrano domande da farsi?!"
"Domandare è lecito, rispondere è cortesia” declamai, citando un detto popolare tipico delle mie parti. “Per le donne si può usare patata, oppure susina, per quanto riguarda i termini vegetali."
"Patata lo usiamo anche noi" si intromise Frodo per la prima volta, pensieroso. Il giovane cugino si voltò a guardarlo come se gli fossero spuntate altre due teste.
"In ambito animale utilizziamo passera, topolina, ed un sacco di altri termini dialettali che ora non vi sto ad elencare: andremmo troppo per le lunghe" conclusi, stiracchiandomi ed appoggiandomi meglio contro il pilastro.
"Noi la chiamiamo caverna, oppure tana. Ahhh…" sospirò Gimli, con la mente forse rivolta a qualche Nana lontana.
La conversazione aveva preso una piega decisamente "osé". Pipino era scioccato e Legolas completamente scandalizzato! Guardava alternativamente gli Hobbit, il Nano e me come se fossimo stati delle specie di maniaci sessuali. Gandalf aveva chiuso gli occhi, ma dal sorrisetto divertito che aveva sulle labbra si capiva che stava ascoltando attentamente le nostre parole. Aragorn e Boromir non avevano fatto commenti, ma si vedeva chiaramente che i due uomini erano in imbarazzo, e che preferivano tacere onde non fomentare ulteriormente il discorso.
Percepivo gli occhi dell’Uomo di Gondor puntati su di me, la testa mi girava e mi sentivo leggera come una piuma. Avevo la netta sensazione che, da un minuto all’altro, avrei preso il volo, fino a raggiungere l’alto soffitto sopra di noi. Scossi violentemente la testa nel tentativo di schiarirmi le idee.
"Accidenti! Credo che il mix "Erba Pipa-Miruvor" mi abbia fatto sragionare… Ora sarà meglio che mi metta a dormire…" biascicai, alzandomi a fatica per prendere la mia coperta e traballando vistosamente mentre la stendevo a terra, tanto che anche Boromir si alzò e mi sostenne.
"Grazie…" mormorai, non appena fui al sicuro, stesa nel mio giaciglio.
Stava per sedersi di nuovo accanto ad Aragorn, quando la mia voce lo fece fermare di schianto.
"Boromir?” biascicai ancora, totalmente inconsapevole di cosa stavo per dire, il cervello ormai completamente ottenebrato dai fumi di alcool e tabacco. “Lo sai che hai proprio un bel pacco?… Buonanotte…" e mi addormentai, praticamente di botto, non appena conclusi la frase.

 

* * *

 

Non appena sentirono l’ultima frase borbottata dalla ragazza Merry, Sam ed il Nano sghignazzarono. Boromir trattenne invece il fiato per la sorpresa, sentendosi avvampare per la vergogna. Nessuna donna gli aveva mai detto una cosa del genere: nemmeno Moran, la sua concubina preferita, colei con cui aveva diviso le sue lenzuola più spesso. Per una frazione di secondo i suoi pensieri corsero al viso di quella giovane donna e, con grande meraviglia, si rese conto di non riuscire quasi più a ricordarne i lineamenti, ormai soppiantati da quelli di Marian.
Non appena tornò nel cerchio di debole luce videro che era diventato rosso come un peperone.
"Ah, non prendertela! Ti ha fatto un bel complimento, sai?" esclamò Gimli, agitando la sua corta pipa. L’Uomo borbottò qualcosa di inintelligibile, mentre il ramingo gli dava una consolatoria pacca sulla schiena.
Marian dormiva proprio di fronte a lui, per cui gli era impossibile non guardarla così, placidamente addormentata, con una mano sotto la guancia e la bocca socchiusa. Se avesse dato retta al suo cuore, si sarebbe coricato accanto a lei e l’avrebbe stretta tra le sue braccia; ma il suo cervello si rifiutava di dare alle sue gambe un comando del genere. Si grattò distrattamente ancora una volta il palmo sinistro: ultimamente gli aveva dato parecchio fastidio, ma non c’era assolutamente niente che non andasse, nella sua mano.
"Riposatevi amici. Farò io il primo turno di guardia!" disse Aragorn, e gli altri si sistemarono per la notte. Prima di chiudere gli occhi, Boromir fissò nuovamente la fanciulla di fronte a lui, chiedendosi ancora una volta se, come diceva il sogno che aveva fatto, lei sarebbe stata il suo destino.

 
* * *

 

Quando Boromir mi svegliò per il mio turno di guardia avevo il cervello finalmente sgombro dai fumi dell’alcool e dell’erba pipa. Non appena aprii gli occhi ricordai con chiarezza l’assurda conversazione che avevo intrattenuto e, soprattutto, l’ultima frase che avevo detto al Capitano prima di addormentarmi. Avvampando per la vergogna mi avvicinai all’Uomo, che si stava sistemando per riprendere il sonno interrotto.
"Boromir" sussurrai per non svegliare gli altri, "devo chiederti scusa."
Nei suoi occhi si rifletté il brillio della “Stella” quando li alzò per guardarmi.
"Ieri sera mi sono comportata come una perfetta idiota” continuai, “ma avevo il cervello confuso dal Miruvor e da tutto quel fumo… Perdonami per quella mia ultima uscita poco elegante. Spero di non averti offeso…"
Lui rimase in silenzio per un attimo, poi scosse la testa.
"In fondo ha ragione Gimli" sussurrò in risposta. "Dopotutto, mi hai fatto un complimento…" e, con quelle parole, si sdraiò e mi voltò la schiena, lasciandomi a guardarlo perplessa. Dopo qualche secondo mi strinsi nelle spalle e mi apprestai al mio turno di guardia, nascondendo la “Stella” sotto i vestiti per rimanere nell’oscurità. Oscurità interrotta soltanto dai due occhi vigili di Gollum – che ci seguiva ormai da tre giorni – che spiava dall’ingresso della sala.
Era il quattordici di gennaio, e così trascorremmo la notte nella sala Numero Ventuno di Moria.

Spazio autrice: Buongiorno! Ecco il nuovo capitolo rivisto. E’ decisamente lungo, ma spero che non vi sia risultato noioso, se siete arrivati a leggere fin quaggiù!
Anche qui, ho deciso di fare un mix tra libro e film; mix che spero sia riuscito bene. Innanzi tutto devo precisare che mi ispiro alla “extended version” del film, come forse avrete capito dalla scena in cui Gandalf si sofferma ad illuminare la voragine con le venature di mithril, o da altre scene in capitoli precedenti. La scena della ricerca del Sirannon e dell’attraversamento della baia è presa dal libro, mentre l’assalto dell’Osservatore è quello del film. Così come i tre che lanciano i sassi nell’acqua: nel film sono Merry e Pipino a farlo, mentre nel libro è Boromir. Nella mia versione li ho fatti buttare a tutti e tre!
Inoltre, nel libro Pipino getta il sasso nel pozzo quando si fermano al trivio per la notte, risvegliando gli orchi che però attaccheranno solo due giorni dopo; mentre nel film sarà lo scheletro del Nano a cadere nel pozzo della Camera di Mazarbul, risvegliando subito l’attacco. Come avete visto, Marian ha impedito a Pipino di fare sciocchezze, ma cosa succederà nel prossimo capitolo? Lo scoprirete presto, spero!
La parte finale del capitolo, con la digressione sui “1000 e più modi di chiamare il “pipino”” fatta da Marian è forse un po’ fuori luogo per Il Signore degli Anelli. Ho deciso di mantenerla, però, in primo luogo perché, comunque, la mia storia vuole essere anche comica, ed in seconda battuta perché mi piaceva allentare un po’ la tensione durante un capitolo così lungo e riguardante uno dei luoghi più oscuri della Terra di Mezzo.
Bacioni!
Evelyn

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Capitolo 9
*** Ombra e fiamme ***







Ombra e fiamme

 

La mattina dopo, al risveglio, mi resi conto di non essere più circondata dal buio opprimente: la totale oscurità era stata sostituita da una specie di crepuscolo polveroso. Da una porta, che si apriva nella parete alla nostra destra, filtrava la luce del sole.
"Avevo ragione! Siamo vicini al lato orientale della montagna!” esclamò Gandalf, apprestandosi a ripartire dopo una veloce colazione. “Se riuscissi a vedere fuori potrei anche capire dove siamo con esattezza! Direi di andare a dare un’occhiata!"
Gimli fu il primo ad entrare nella stanza. Il raggio di sole, proveniente da un’alta feritoia tagliata obliqua nella parete di fronte a noi, colpiva una specie di tavolo coperto da una spessa lastra di pietra. Non appena ebbe letto le rune che vi erano incise sopra, il Nano si mise ad ululare come un allarme antincendio. Avevamo trovato la tomba di suo cugino.
"Qui giace Balin, figlio di Fundin, Signore di Moria” declamò lo Stregone, leggendo a sua volta le incisioni. “È morto dunque… È come temevo!"
Si chinò a raccogliere un grosso libro, dalle pagine macchiate di sangue, che giaceva a terra tra le braccia di uno scheletro nanesco, posandolo sulla lapide. Si tolse il cappello e lo dette, insieme al bastone, a Pipino perché glieli reggesse, poi riprese il tomo e ne sfogliò le pagine, alcune delle quali si sgretolarono sotto le sue dita.
Si trattava del diario della colonia dei Nani: lesse rapidamente alcune fra le prime pagine, dove scoprì che quella in cui ci trovavamo era la “Camera di Mazarbul”.
"Almeno adesso so dove siamo rispetto ai cancelli" commentò meditabondo, andando poi a cercare l’ultima pagina scritta.
"Non possiamo più uscire” lesse a voce alta, “hanno preso il ponte… Tamburi, tamburi negli abissi… Arrivano!"
Non fece in tempo a concludere la frase che risuonò un fracasso infernale. Pipino si era avvicinato al pozzo in fondo alla stanza, su cui era seduto lo scheletro di un Nano. Nel toccargli la mano mummificata, lo aveva fatto involontariamente cadere giù, e quello si era trascinato dietro anche il secchio per attingere l’acqua con tutta la sua catena. Ci volle un bel po’ prima che si spegnesse l’eco della caduta.
"Merda!" esclamai tra me e me, "a questo non avevo pensato! Accidenti a te, Pipino, ed alla tua dannata curiosità! Mi sono distratta ad ascoltare Gandalf, ed ora la frittata è fatta! Ed io che speravo già di evitarmi gli Orchi!"
L’Istari richiuse il libro con un colpo secco, buttandolo a terra, poi si diresse verso il giovane Hobbit con fare molto minaccioso, strappandogli di mano bastone e cappello in un colpo solo.
"Idiota di un Tuc! Gettati tu la prossima volta e liberaci della tua stupidità!" esclamò, duro, fulminandolo con lo sguardo.
Pipino abbassò gli occhi, mortificato. Subito dopo, però, si voltò spaventato a guardare verso il fondo del pozzo, imitato da tutti noi. I tamburi negli abissi avevano preso a rullare, seguiti a breve distanza dal vocio malefico degli Orchi. Sam fissò la spada di Frodo e lanciò un’imprecazione: la lama di Pungolo brillava di una tenue luminescenza azzurra, indicando che i nemici si stavano avvicinando.
Boromir si affacciò sulla soglia della Camera e, per poco, due frecce non gli staccarono il naso. Dette una spallata alla porta di legno per chiuderla.
"E’ un troll di caverna!" ci informò, mentre Aragorn lo aiutava a serrare i battenti con pezzi di asce e spade che Legolas passava loro.
Gli Hobbit si radunarono e si misero dietro a Gandalf, mentre Gimli balzò sulla lapide di suo cugino.
"Che vengano pure!” ruggì, sventolando le asce con fare minaccioso. “Troveranno che qui a Moria c’è ancora un Nano che respira!"
Aragorn e Legolas tesero gli archi, Boromir imbracciò lo scudo e sfoderò la spada ed io feci altrettanto con Hoskiart, piazzandomi al fianco del Gondoriano.
"Bene” mormorai, cercando di trattenere il tremito nella voce, mettendomi la corta lama di piatto davanti al viso, “è ora di mettere in pratica i tuoi insegnamenti e quelli di dama Arwen!"
Gli Orchi cominciarono a menare colpi sul legno della porta e, non appena si aprì uno spiraglio, Legolas lasciò partire una freccia, uccidendo il mostriciattolo dall’altra parte. Ma i nemici erano molti: ben presto l’uscio fu sfondato e parecchi Goblin si riversarono nella stanza.
Aragorn si buttò nella mischia, urlando "Elendil!", seguito a ruota da Boromir che gridò "Gondor!". A quella vista, anche gli Hobbit presero coraggio e si fecero avanti mulinando le spade, lanciando grida belluine. Non potei fare a meno di imitarli.
"Banzaaaaaaaiiii!" strillai con quanto fiato avevo in gola, infilando la spada nel petto del primo Orco che mi capitò a tiro.
Gli avversari erano veramente innumerevoli, e benché ne cadessero molti sotto i colpi delle nostre armi, altrettanti ne entravano dal vano della porta. Un gruppo di Goblin si trascinava dietro il Troll di Caverna, trattenuto da una grossa catena cui era agganciato un anello di ferro che gli cingeva il collo. L’essere, talmente grande da non riuscire a passare dall’uscio, si fece largo con un colpo della sua mazza chiodata, divellendo l’architrave. La situazione divenne ancora più ingarbugliata, perché il Vagabondo menava colpi di mazza a destra e a sinistra senza badare a chi mirava e, nel far ciò, abbatté anche molti degli Orchi che gli stavano attorno. Benché fosse chiaro che non aveva un’intelligenza sopraffina, continuava comunque a dirigersi sempre verso gli Hobbit, come se ci fosse stato qualcosa che lo attirava inesorabilmente.
Il suo primo bersaglio fu Sam che riuscì fortunosamente a sfuggirgli, in un primo momento, sgusciandogli sotto le enormi gambe. Una volta dall’altra parte, però, si ritrovò messo all’angolo e fu solo grazie all’intervento dei due Uomini – che trattennero il mostro afferrandolo per la catena – se il povero giardiniere non finì spiaccicato.
Il Troll non fu molto contento di essere stato tirato indietro e, con uno strattone, fece volare via il povero Boromir – che non era stato lesto, come Aragorn, a lasciare la presa sulla grossa catena – mandandolo a sbattere contro la parete, a due metri d’altezza. L’Uomo scivolò a terra con lo sguardo perso nel vuoto, scrollando la testa nel tentativo di schiarirsi le idee.
"Boromir!" gridai, dirigendomi verso di lui nella mischia e tagliando nel contempo, senza nemmeno riflettere su ciò che stavo facendo, la testa di un Orchetto che stava per avventarsi sul Gondoriano. "Tutto bene?".
Mi fissò per qualche secondo ma senza realmente vedermi, poi le sue iridi si schiarirono e mi fece di sì con la testa, rialzandosi ed afferrando di nuovo saldamente la spada.
Nel frattempo, il Troll aveva rivolto la sua attenzione verso gli altri tre Hobbit ed, in particolar modo, su Frodo che cercava in tutti i modi di nascondersi alla sua vista, girando intorno ad una colonna.
Purtroppo per lui, il giochetto non funzionò a lungo. Il Vagabondo riuscì ad afferrarlo per un piede, scuotendolo fino a fargli sbattere i denti come se fossero stati nacchere. Aragorn tentò di intervenire ma, con una manata, il Troll lo spedì contro un pilastro, facendogli perdere i sensi. L’Hobbit riuscì a liberarsi dalla sua presa e, con fatica, si trascinò verso il Ramingo, scuotendolo violentemente nel vano tentativo di farlo tornare in sé. L’enorme essere afferrò la lancia con cui l’Uomo aveva tentato di trafiggerlo e con quella si avventò sul Portatore, colpendolo al petto. Convinto di averlo ucciso, il bestione sbuffò pesantemente dalle narici e gli voltò le spalle.
Nessuno – a parte me – sapeva che Frodo indossava la cotta di maglia di Mithril, perciò non appena videro la scena, tutti si fecero prendere dallo sconforto. Appellandosi alla forza della disperazione, Merry e Pipino saltarono sulla schiena del Vagabondo, colpendolo a ripetizione con le loro spade ed urlando a squarciagola il nome del caduto. Legolas dava loro man forte, lanciando tutte le frecce a sua disposizione verso l’enorme bersaglio.
Finalmente gli Orchetti cominciarono a diminuire di numero. L’unico vero nemico ancora impegnativo era il Troll che, nel frattempo, era riuscito a scrollarsi di dosso Merry. Pipino, sostenuto dalla rabbia e dal dolore per la perdita di Frodo, continuava invece a rimanergli attaccato al collo come una sanguisuga.
Un ultimo colpo di lama ben assestato da parte dell’Hobbit indusse il mostro a spalancare la bocca per il dolore. L’Elfo ne approfittò, spedendogli in gola due frecce in un colpo solo. Colpito alla trachea, il Troll non riuscì più a respirare e, dopo pochi secondi, si abbatté di schianto sul pavimento, sollevando una nuvola di polvere. Emise un ultimo singulto strozzato poi giacque immobile, finalmente morto.
Passato un primo istante, necessario per riprendere fiato, Sam corse verso Frodo, piangendo a calde lacrime. Non appena lo toccò, però, il Portatore cominciò a tossire, aprendo lentamente gli occhi. Il giardiniere lo guardò con incredulità, poi si lasciò andare ad un sospiro di sollievo.
“È vivo…” esalò, incurvando le spalle.
Dalle lacerazioni sulla sua casacca faceva capolino il brillio della cotta di maglia di Bilbo. A quel punto fu chiaro a tutti come aveva fatto a sopravvivere all’assalto del Troll.
Dopo aver ripreso un poco le forze lasciammo di corsa la Camera di Mazarbul, diretti verso il ponte di Khazad-Dûm. Non appena fummo di nuovo nella Sala numero Ventuno, però, una marea di Orchetti venne fuori letteralmente da ogni parte – persino da alcuni fori sul soffitto, calandosi lungo i pilastri come grossi ragni deformi – circondandoci senza lasciarci alcuna via di fuga. Ci stringemmo in cerchio, dandoci la schiena per proteggere ognuno le spalle dell’altro, sollevando le armi con fare minaccioso.
Ma non ci fu alcun bisogno di combattere: dall’altra estremità del salone giunse un cupo brontolio, mentre la parete di fondo si illuminava di una luce rossa come le fiamme dell’inferno.
Gli Orchi si voltarono subito in quella direzione e, terrorizzati, tornarono immediatamente da dove erano venuti, vociando selvaggiamente, lasciandoci soli. Ci girammo a guardare a nostra volta ed, a quella vista, Gandalf chiuse gli occhi ed incassò la testa nelle spalle.
"Cos’è questa nuova diavoleria…" mormorò Boromir, deglutendo a vuoto mentre fissava la luce con occhi pieni di timore represso. Fui assalita dalla paura, una specie di terrore atavico impossibile da combattere ed, istintivamente, mi strinsi contro il Gondoriano mentre Pipino, a sua volta, si accostò a me, tremando come una foglia.
Dopo un istante di silenzio, in cui parve raccogliere tutte le sue forze, già duramente provate dal combattimento appena sostenuto, lo stregone rispose.
"Un Balrog, un demone del mondo antico. È un nemico al di là delle vostre forze… Fuggiamo!" gridò e, senza indugiare oltre, si lanciò di corsa nella direzione opposta.
Percorremmo di volata il resto della sala, fino ad arrivare ad una rampa di scale che sembrava scendere all’infinito, subito oltre la soglia. I gradini voltavano bruscamente verso destra, mentre la rampa che un tempo continuava dritta era crollata chissà quanti anni prima.
Boromir fu il primo a varcare la porta: imboccò la scala correndo a perdifiato e riuscì fortunosamente a fermarsi proprio sull’orlo del baratro. Agitò selvaggiamente le braccia per non perdere l’equilibrio, facendo cadere la torcia che teneva nella mano sinistra. Stava già per seguirla nella caduta, avvinto dalla forza di gravità, quando riuscii ad afferrarlo per la vita, stringendolo a me come per impedirgli di spiccare il volo. Il Gondoriano recuperò prontamente la posizione eretta ma non accennai comunque a lasciarlo andare: era assurdo, data la situazione di grave pericolo in cui ci trovavamo, ma adoravo stringerlo a me!
"Grazie” mi disse, con un mezzo sorriso celato nella voce, “ma ora riesco a stare in piedi anche da solo."
"Oh… Sì, scusa…" mormorai, arrossendo fino alla radice dei capelli, liberandolo dalla mia stretta. Lo guardai negli occhi ed il suo sorriso si ampliò: alzò una mano e mi sfiorò una guancia con il dorso delle dita guantate. Mi sentii letteralmente sciogliere come un gelato, ma non feci in tempo a dire od a fare nulla perché l’Uomo di Gondor aveva già ripreso la sua corsa, precedendomi giù per le scale, lasciandomi lì inchiodata. Riuscii a muovermi di nuovo soltanto quando Pipino mi passò accanto in uno svolazzare di mantello, prendendomi per mano e trascinandomi via.
Aragorn e Gandalf furono gli ultimi a varcare la soglia. Lo Stregone pareva ancora più stanco, ma fu con uno sguardo pieno di determinazione che chiese al Ramingo di condurci fuori, qualsiasi cosa fosse successa.
Continuammo a scendere il più velocemente possibile. La rampa era larga circa un paio di metri e non aveva nessun tipo di parapetto; oltre il bordo si spalancava un precipizio di cui non si vedeva il fondo, anche se era illuminato dalle fiamme. Ad un quarto della discesa, il percorso era interrotto: mancavano circa tre metri di scale, crollate nell’abisso sotto i nostri piedi molti anni prima.
Legolas saltò agilmente dall’altra parte, seguito subito dopo dall’Istari. Boromir afferrò saldamente Merry e Pipino sotto le braccia e si lanciò dall’altra parte con un grido. Nel far ciò fece crollare un altro metro abbondante di scala, che evidentemente stava ancora in piedi solo per puro miracolo.
"Un passo un po’ più leggero, no?" mormorai, osservando preoccupata la distanza che mi separava dall’altra parte. Non ero mai stata una grande saltatrice e, di sicuro, non sarei mai riuscita a superare quel baratro senza aiuto.
Aragorn afferrò Sam per la collottola e per la cintura dei pantaloni e lo lanciò, senza tanti complimenti, dall’altra parte, dove fu preso al volo dal Gondoriano; poi si volse verso Gimli il quale, però, alzò una mano per fermarlo.
"Nessuno può lanciare un Nano!" esclamò orgogliosamente il figlio di Gloin e, con un grido, saltò per quanto gli consentivano le sue gambe tozze. Ci arrivò per un soffio, ma solo con le punte dei piedi, e Legolas fu costretto ad afferrarlo per la lunga barba – nonostante le sue vivaci proteste – per non farlo cadere.
A quel punto il Ramingo si voltò verso di me, fissandomi con aria interrogativa.
"No no, io non mi faccio nessun problema ad essere lanciata!" affermai, con voce quasi isterica. Non feci in tempo a finire la frase che mi ritrovai scaraventata dall’altra parte, tra le forti braccia di Boromir. Il suo odore inebriante mi riempì le narici e sarei rimasta così per sempre se non avessi saputo che avevamo il Balrog alle calcagna.
Subito dopo il mio lancio un altro pezzo di scale era crollato, ed ora la distanza era troppo grande per essere superata con un salto. Il Ramingo e Frodo rimasero in piedi sull’orlo del baratro, in attesa del da farsi.
Il demone, intanto, aveva raggiunto la soglia da cui iniziavano le scale e menava colpi furiosi all’architrave per farsi largo. Nel fare così, fece cadere un grosso masso dal soffitto, che si schiantò sulle scale dietro ai due, lasciandoli in piedi su un moncone di rampa che subito iniziò a vacillare. Chinandosi in avanti e bilanciando l’equilibrio, Aragorn riuscì fortunosamente a guidare le scale in caduta verso di noi, potendo così raggiungerci prima che finissero disintegrate nel baratro.
Di nuovo riuniti tornammo a scendere di corsa, fino a raggiungere il livello dei cancelli. Mancava solo il ponte. L’ultimo ostacolo che ci divideva dall’uscita delle miniere di Moria.
Ormai il Balrog era dietro di noi, ed avanzava spedito ad ogni passo. Potevamo perfino sentire l’enorme calore demoniaco che si sprigionava dal suo corpo.
Ed eccolo, finalmente! Il ponte era ormai davanti a noi: lungo una decina di metri e largo solo cinquanta centimetri, svettava sull’abisso come un sottile ramoscello. Gli Hobbit furono i primi a passare dall’altra parte, seguiti da Gimli. Quando venne il mio turno, e mi trovai a dover mettere piede sullo stretto passaggio, mi bloccai di botto: con terrore, scoprii proprio in quell’istante di soffrire di vertigini. Le gambe presero a tremarmi ed a piegarmisi e non fui in grado di muovere un altro passo.
"Che fai?! Muoviti!" mi pungolò Boromir alle spalle, spingendomi per farmi avanzare.
"Non ce la faccio… Non mi reggono le gambe… Non riesco a stare in piedi…" balbettai, in preda al panico.
L’Uomo mi oltrepassò, mise un piede sul sottile arco di pietra e poi mi tese la mano.
"Avanti, afferrati a me!" esclamò. Tentennai e lui mi strinse le dita con forza. "Non avere paura!” continuò, “tu non hai fatto cadere me, prima, ed io non farò cadere te adesso!"
Rincuorata dalle sue parole, mossi il primo incerto passo dietro di lui, guardando attentamente lo stretto passaggio roccioso su cui poggiavo i piedi.
"Non guardare in basso, fissa davanti a te!" mi consigliò. Puntai lo sguardo sulla sua nuca ed, un passo dopo l’altro, arrivai sana e salva dall’altra parte, seguita da Legolas ed infine da Aragorn. Gandalf si fermò a metà della passerella ed a nulla valsero i richiami degli altri: lo Stregone piantò i piedi sulla pietra e tenne il bastone dritto davanti a sé.
Sull’imboccatura del ponte, il demone ruggì cavernosamente, emettendo una folata di aria calda e cercando di intimidirlo. Gandalf, però, non si mosse di un millimetro.
"Tu non puoi passare!" gli intimò, alzando Glamdring. Il Balrog sfoderò la sua lunga spada di fiamme e tentò di colpirlo, ma l’Istari parò il colpo con un grido e la lama del Flagello di Durin andò in mille pezzi.
"Sono un servitore del fuoco segreto e reggo la fiamma di Anor!" gridò di nuovo, alzando il bastone davanti a sé. "Il fuoco oscuro non ti servirà a nulla, fiamma di Udûn! Ritorna nell’ombra!”
Si interruppe solo per un breve istante, come per chiamare a raccolta tutte le sue ultime forze rimaste, poi, fissando il demone negli occhi, declamò gridando: “TU… NON PUOI… PASSARE!" e, con quelle ultime parole, sbatté a terra il bastone, sprigionando un lampo di accecante luce bianca. Il Balrog mosse un passo sul ponte ma quello, colpito dalla magia dell’Istari, si sgretolò sotto di esso per metà – lasciando intatta la parte dove si trovava Gandalf – facendolo precipitare nell’abisso sotto i suoi piedi.
Tutti i miei compagni tirarono un sospiro di sollievo, pensando che fosse finita. Io, invece, consapevole di ciò che stava per succedere, avrei tanto voluto chiudere gli occhi per non vederlo cadere. Ma la curiosità, si sa, è femmina: il desiderio di guardare ebbe la meglio su di me, e non riuscii a distogliere lo sguardo.
Mentre precipitava, il Balrog fece schioccare la sua lunga frusta dalle nove code. Questa si avvolse attorno alle ginocchia di Gandalf, trascinandolo giù. Egli riuscì ad aggrapparsi alla roccia del ponte ma riuscì a mantenere la presa solamente per il tempo necessario a dirci di fuggire, poi scivolò e cadde senza un grido dietro al Flagello di Durin.
Gli Hobbit cominciarono a gridare come ossessi. Frodo fece il tentativo di slanciarsi verso ciò che rimaneva del ponte, ma Boromir lo afferrò e lo strinse a sé, trattenendolo. Ora che il Balrog era caduto gli Orchi tornarono a farsi vedere ed a lanciarci contro una nuvola di frecce. Aragorn riprese subito il controllo della situazione e ci spinse via, verso l’uscita.
Tutti scoppiarono a piangere, me compresa. Benché sapessi che lo Stregone non era morto – ma, anzi, che avrebbe sconfitto il Balrog e che sarebbe tornato più forte di prima – non potevo comunque negare a me stessa che la scena fosse stata piuttosto drammatica. Il vedere non solo i Mezzuomini, ma anche Gimli e Boromir, piangere a calde lacrime, mi fece frignare come una fontana.
Nonostante il Capitano di Gondor avesse pregato Aragorn di concedere qualche minuto agli Hobbit, che erano i più provati da quanto appena successo, il Ramingo non ci fece fermare troppo a lungo fuori dei cancelli orientali di Moria. Il rischio che gli Orchi potessero uscire dalle miniere era troppo grande. Il mezzogiorno era già passato da un po’, ed era necessario, per la nostra incolumità, arrivare entro sera ai confini di Lothlòrien. Ci attendeva, quindi, una lunga marcia.
Era il quindici di gennaio, e fu così che Gandalf ci lasciò, anche se temporaneamente.

Spazio autrice: Salve gente! Eccovi il nuovo capitolo, in cui si conclude (per ora) l'avventura di Gandalf. Questo capitolo è ispirato principalmente alla” extended version” del film, da cui ho ripreso sia la descrizione dello scontro con gli Orchi che la scena della fuga giù per le scale. Descrizioni che, spero, non siano risultate troppo noiose. Confesso che questo capitolo è stato un po’ difficile da correggere, non riuscivo mai a trovare le parole giuste…
Approfitto inoltre di questo spazio per ringraziare ancora tutti coloro che leggono e che hanno inserito questa storia tra le “preferite – seguite – ricordate” ed, in particolar modo, in ordine alfabetico didi_95, Tielyannawen e zebraapois91 che hanno lasciato le loro recensioni.
Bacioni a tutti!
Evelyn

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Capitolo 10
*** Il Bosco d'Oro ***






Il Bosco d’Oro

 

Procedemmo per il resto della giornata a ranghi serrati, fermandoci solo per un breve istante – su insistenza di Gimli – ad osservare il Mirolago e la Pietra di Durin, ovvero il punto in cui il più vecchio dei Sette Padri dei Nani si era specchiato per la prima volta nel Kheled-Zaram.
Sul far della sera arrivammo ai confini di Lòrien, nel punto in cui il Nimrodel si gettava nell’Argentaroggia, l’emissario del Mirolago. Guadammo il ruscello e ci accampammo ai piedi di un grosso albero, sbocconcellando qualcosa nell’oscurità che sempre più si infittiva.
Su suggerimento del Nano, Legolas decise di salire sull’albero sotto il quale ci eravamo sistemati, per vedere se fosse stato possibile passarci sopra la notte, togliendoci così da terra e dalla portata degli Orchi. Ma, non appena si aggrappò al ramo più basso, una voce gli intimò l’alt in una lingua a me sconosciuta ed un Elfo vestito di grigio fece capolino tra i rami, saltando agilmente a terra subito dopo. Si presentò come Haldir di Lòrien e chiese al principe di Bosco Atro ed a Frodo di seguirlo, salendo sulla pianta. Fu srotolata una scala di corda ed i due si arrampicarono; ovviamente anche Sam andò loro dietro, incapace di separarsi neanche per un attimo dal suo "padrone".
Noialtri rimanemmo seduti in silenzio, cercando di respirare il più silenziosamente possibile, visto che l’Elfo ci aveva detto sarcasticamente che avrebbero potuto colpirci anche al buio, tanto eravamo rumorosi.
Un quarto d’ora dopo Legolas tornò, informandoci sulle decisioni dei suoi simili.
"Possiamo passare la notte con loro sugli alberi: gli Hobbit su questo" disse indicando in alto l’albero da cui era appena sceso, "con Haldir ed i suoi due fratelli. Noi sull’altro" e puntò l’indice verso l’albero a fianco. "Hanno concesso anche a te di restare, Gimli, anche se gli abitanti di Lòrien non trattano con i Nani sin dai giorni oscuri” continuò, con tono lievemente sarcastico, “ma sono io il responsabile delle tue azioni, quindi cerca di comportarti bene e di non farmi fare brutta figura!"
Il Nano rispose con un cupo borbottio nella sua lingua, che a me sapeva tanto di imprecazioni. Aragorn ci fece prendere le nostre coperte, dopodiché nascose il resto dei bagagli sotto un mucchio di foglie. Merry iniziò a salire lungo la scala portandosi dietro le sue coltri; Pipino invece si rivolse a me.
"Non puoi venire anche tu con noi? Io ho paura di dormire per aria, noi Hobbit non amiamo le altezze" mormorò, guardando timoroso le fronde degli alberi che ci sovrastavano.
"Mi dispiace Peregrino, ma io non sono stata invitata sul tuo albero. E poi, ti confesserò che anch’io non faccio i salti di gioia all’idea di dover dormire appollaiata come un piccione" ammisi, fissando a mia volta i grossi rami nodosi.
"Non sarà necessario che tu ti appollai" mi rispose Legolas, che nel frattempo era salito sul secondo albero ed aveva buttato giù la scala. "C’è un talan anche su questa pianta."
"Un… cosa?!" chiesi, fissandolo come se fosse stato un alieno. Nonostante glielo avessi già ripetuto molte volte, non aveva ancora capito che io non avevo imparato quasi niente, in Elfico.
"Una piattaforma" mi spiegò Aragorn mentre mi avvolgeva la coperta intorno alle spalle, per avere le mani libere e facilitarmi così la salita. "Gli Elfi sono agili, ma neanche loro riescono a dormire stando in equilibrio come gli uccelli."
Una volta salita faticosamente la scala – che non voleva assolutamente saperne di stare ferma – scoprii che il “talan” era una piccola piattaforma quadrata, senza parapetti né ringhiere di alcun tipo. L’unico accessorio di cui era dotato consisteva in un misero paravento pieghevole che poteva essere spostato per riparare dal vento, che quella notte spirava da sud. I miei compagni si prepararono subito per dormire, stendendo le nostre coperte ed utilizzando anche i manti di pelliccia che gli Elfi ci avevano messo a disposizione, ma io non accennai a muovermi. Mi misi seduta al centro della pedana; strinsi le ginocchia al petto, abbracciandomele; e lì rimasi, immobile, con gli occhi spalancati nell’oscurità.
"Tu non ti sdrai? Non hai sonno?" mi chiese Aragorn, già sistemato nel suo giaciglio.
"Non posso dormire… Se dormo cadrò… Lo so che succederà…” balbettai, convulsamente. “Sono caduta anche dal letto a castello quand’ero in gita con la scuola, è logico che cadrò anche stavolta… Ma il letto a castello era alto solo un metro e mezzo, qui come minimo siamo a dieci metri da terra…” continuai, in una specie di monotona litania sconclusionata. “Quella volta sono atterrata su un ginocchio e mi ha fatto male per dei giorni… Ancora adesso mi fa male, se lo tocco nel punto sbagliato… Se cado stanotte altro che ginocchio, mi sfracellerò al suolo! No, no… Io non dormo!" conclusi, con il tono ormai diventato quasi isterico.
"Non ho idea di come sia fatto un letto a castello ma, se ciò può farti stare più tranquilla, puoi stenderti qui, contro di me" mi disse Boromir, facendo cenno con la mano allo stretto spazio tra lui ed il Ramingo. "Per rotolare giù dovrai arrampicarti sul corpo di Aragorn… oppure sul mio."
Pronunciò quelle ultime tre parole abbassando la voce di un’ottava. Quel cambiamento di tono mi fece correre un piacevole brivido lungo la schiena. Muovendomi con cautela, stesi la coperta accanto a lui, avvolgendomi strettamente in essa. Con un colpo secco del braccio sinistro, l’Uomo mi coprì con il manto di pelliccia che aveva addosso, dividendolo con me. Mi spinsi verso di lui fino a che con la schiena non sfiorai il suo petto e così, cullata dal suo respiro e dal gorgoglio delle acque del Nimrodel sotto di noi, mi addormentai profondamente.

 
* * *

 

Quando Marian si strinse contro di lui, fino ad appoggiarsi al suo petto, a Boromir parve di impazzire. Il cuore prese a battergli all’impazzata ed il respiro gli divenne corto, proprio come se fosse stato un ragazzino alle prese con la sua prima cotta. Con la mano sinistra sfiorò i suoi lunghi capelli castani poi, lentamente, le cinse la vita con delicatezza, come se avesse avuto paura di farle del male. La stava ancora guardando dormire, con la testa appoggiata sul braccio destro ripiegato, quando Aragorn lo chiamò.
"Boromir?"
Alzò gli occhi verso l’altro Uomo, che riprese a parlare.
"Che cosa provi per lei?"
Il Gondoriano rimase sorpreso dalla domanda.
"Perché mi chiedi questo?"
"Ti ho osservato a lungo, ed ho visto come ti comporti con lei” gli rispose il Ramingo, fissandolo negli occhi. “A volte sei dolce ed amorevole, come stanotte. In altre occasioni la ignori completamente, come se neanche esistesse."
L’Uomo di Gondor scrollò la testa, indeciso.
"Non lo so… Io… Non lo so…" balbettò, confuso dai suoi stessi sentimenti.
"Ti chiedo solo una cosa: non farle del male!” gli intimò Aragorn, con tono serio.
"Perché mi dici questo?" gli chiese in risposta, con aria di sfida e di superiorità.
"Perché ho osservato anche Marian. E lei prova di sicuro qualcosa per te. Buonanotte" e, con quelle parole, il Ramingo gli voltò le spalle e giacque, immobile.
"Buonanotte…" rispose Boromir, sempre più indeciso. Anche se non riusciva ancora ad ammetterlo a se stesso lui, di quella bizzarra fanciulla, si era proprio innamorato.
Rimase ad osservarla ancora a lungo, dopo che il silenzio era caduto, riflettendo sulle parole del Numenoreano. Infine si sdraiò ed, affondandole il naso tra i capelli, si addormentò.

 
* * *

 

La mattina dopo, quando mi svegliai, ero voltata verso Boromir. Lui dormiva ancora della grossa, mentre io ero stata destata da un raggio di sole che mi batteva proprio sugli occhi. Scivolai verso l’alto, per eliminare il fastidio, e rimasi a contemplare il volto dell’uomo che amavo, studiando attentamente ogni particolare: le rughe sulla sua fronte, i peli della sua barba, i pori della sua pelle. Scostai con delicatezza un ciuffo dei suoi capelli biondo scuro che lo solleticavano sul naso e, nel far così, gli sfiorai la guancia. Nonostante il contatto fosse stato minimo, abituato com’era a dormire sempre all’erta Boromir aprì subito gli occhi, ed il loro balenio grigio-verde mi sorprese.
"Buongiorno" mormorò, sorridendomi.
"Buongiorno… Scusa, non volevo svegliarti…" mormorai, arrossendo.
"Nessun problema… Anzi, mi piacerebbe molto essere svegliato così tutte le mattine" mi sussurrò, in risposta.
Il mio cuore perse un battito al sentire quelle parole, ma non feci in tempo a dire o a fare niente che lui si era già messo a sedere, scivolando fuori del manto di pelliccia che ci aveva fatto da coperta.
Mi guardai attorno, alzandomi con cautela: Aragorn e Legolas erano già svegli mentre Gimli dormiva ancora, russando come un trombone.
Sull’altro albero, dirimpetto a noi, gli Hobbit stavano già facendo colazione. Pipino si sbracciò per salutarmi, agitando un pezzo di pane imburrato, ed io risposi allegramente al saluto. La frase di Boromir mi aveva messo di buon umore, e sentivo che niente avrebbe potuto turbarmi per il resto della giornata.
Purtroppo, la mia previsione si rivelò errata. Dopo aver fatto pochi passi con Haldir come guida, ci ritrovammo a dover attraversare l’Argentaroggia. Non lo si poteva guadare, perché le sue acque erano troppo fredde e turbinose, ma non esistevano nemmeno dei ponti per passare dall’altra parte, visto che in quei tempi oscuri gli Elfi non ne costruivano.
"Allora come dobbiamo fare? Dobbiamo forse volare come uccelli?" chiese Sam, guardando preoccupato il letto del fiume in piena.
Per tutta risposta, sull’altra riva apparve un altro Elfo che, con un gesto elegante, lanciò una corda ad Haldir, il quale la afferrò al volo e la legò ad un albero vicino alla riva. Dall’altra parte, il suo compagno fece altrettanto.
"È così che attraversiamo" ci disse la nostra guida e, salito sulla fune, andò dall’altra parte del fiume e tornò camminando come un funambolo.
"Io posso percorrere questo sentiero, ma non credo che i miei compagni ne siano in grado" replicò Legolas, con un mezzo sorriso che pareva quasi di scherno.
"Io no di certo" aggiunsi in risposta, pensando già al bagno nelle acque gelide che, di sicuro, mi aspettava.
"Abbiamo altre due funi: ne legheremo una all’altezza della vita e l’altra a quella delle spalle. Così sarà più facile per loro attraversare!" continuò il Galadhrim.
"Eh, come no…" dissi a mezza voce, pur sapendo che gli Elfi mi avrebbero udito comunque. Infatti, sia Legolas che Haldir si voltarono verso di me e quest’ultimo, con un ampio gesto del braccio, mi indicò le funi appena legate.
"Prima le fanciulle."
"Grazie…” gli risposi, in tono sarcastico. “Preparate degli asciugamani, perché di sicuro faro il bagno!"
Con le mani che mi tremavano mi aggrappai alle corde e, pian piano, scivolai dall’altra parte del fiume, che rombava impetuoso sotto i miei piedi. Cercai di non guardare mai in basso e quando, finalmente, arrivai dall’altra parte – asciutta contro le mie più funeste previsioni – mi feci per tre volte il segno della croce e mi misi a sedere contro un albero, spossata come se avessi appena corso la maratona di New York.
Legolas fu il secondo a passare ed in due passi mi raggiunse, sedendosi accanto a me. Poi fu la volta di Boromir, che fece piegare parecchio le funi verso il basso, a causa del peso della cotta di maglia, del corno e delle armi che si portava appresso. Anche lui si mise seduto al mio fianco, e subito prese a grattarsi la mano sinistra.
I suoi movimenti attirarono la mia attenzione e, quando si sfilò il guanto per grattarsi meglio, rimasi senza fiato per lo choc: aveva la mano completamente nera!
"Boromir!" esclamai, incapace di trattenermi.
"Mmm?" mugolò in risposta, senza smettere di grattarsi.
"La tua mano! È…" ma non riuscii a finire la frase: in quel momento, mi resi conto che solo io la vedevo in quelle condizioni.
"È da un po’ di tempo che mi da fastidio, ma non riesco proprio a capire cosa c’è che non va” mi rispose, senza prestare attenzione al mio tono allarmato. “Non riesco a vedere assolutamente nulla di strano!"
Nella mia mente, apparve come un lampo il momento in cui lui aveva raccolto l’anello, quando era caduto a Frodo lungo la strada per il Cancello Cornorosso. I tentacoli neri si erano avvinghiati alla sua mano, ritirandosi solo quando gli avevo toccato il braccio. Evidentemente, un piccolo frammento di potere dell’Anello aveva attecchito sul suo palmo, ed ora si stava espandendo. Fino ad allora non l’avevo notato, perché lui indossava sempre i guanti ed a Moria l’oscurità era stata quasi totale. Ora che eravamo di nuovo alla luce del giorno, però, potevo vedere chiaramente quanto fosse cresciuta in lui la brama dell’Anello e mi spaventai, anche se cercai di non darlo a vedere.
"Posso vederla?" gli chiesi timidamente, e lui mi porse la mano.
Non appena la toccai vidi il nero impallidire: evidentemente il potere bianco della “Stella di Fëanor” combatteva contro quello oscuro del Flagello di Isildur. Gli sfiorai il palmo con le dita, fingendo di esaminare la sua pelle, poi alzai leggermente la manica della sua cotta di maglia. Un filamento si stava già arrampicando lungo il braccio, diretto verso il suo cuore. Quando lasciai la sua mano, il potere oscuro prese di nuovo il sopravvento. In breve tempo, il desiderio di potere l’avrebbe afferrato a tal punto da diventare insuperabile, anche per un uomo forte come lui.
Nel frattempo, ci avevano raggiunto anche Gimli, Merry e Pipino, ed ora era la volta di Sam. Il povero Hobbit si era avvinghiato alle corde con entrambe le braccia e, mentre avanzava a tentoni, teneva lo sguardo fisso sulle acque vorticanti.
"Sam! Non guardare in basso, è peggio!" gli consigliò il più giovane degli Hobbit, mentre il giardiniere borbottava qualcosa di incomprensibile riguardo al suo Gaffiere. Non appena raggiunse la sponda si lasciò cadere a terra, chiuse gli occhi e lì rimase, immobile, fino a che Aragorn – che era rimasto per ultimo – non ebbe attraversato.
Adesso potevamo riprendere la marcia ma, secondo quanto stabilito tra Legolas e Haldir la sera prima, Gimli avrebbe dovuto proseguire bendato. Ovviamente, il Nano non fu per niente contento di questo, ed avrebbe preferito piuttosto tornare indietro da solo, affrontando tutti gli Orchi di Moria, che non subire quell’affronto. Purtroppo per lui, il Galadhrim non gli consentì nemmeno di tornare sui suoi passi: ormai aveva varcato i confini del Naith di Lòrien e non sarebbe potuto andarsene senza prima aver incontrato il Sire e la Dama.
Gimli puntò i piedi, ostinato, e decretò che non si sarebbe mosso da lì se anche Legolas non avesse subìto lo stesso trattamento. Inutile dire che anche l’Elfo si impuntò, incrociando le braccia sul petto e guardando in cagnesco il Nano, che gli rispose con uno sguardo altrettanto eloquente. Per riportare la pace, Aragorn propose ad Haldir di bendarci tutti, così fummo costretti ad affrontare la prima parte di cammino – che durò un giorno e mezzo – senza poter vedere dove mettevamo i piedi.
Anche se il sentiero era pianeggiante inciampai diverse volte e quando, a metà del secondo giorno, ci fermammo per una sosta, dichiarai che non avrei mosso un passo di più con gli occhi bendati, a costo di rimanere lì per il resto della mia vita. Per mia fortuna, un gruppo di Elfi ci comunicò che la Dama aveva dato ordine di sbendarci e, con sollievo di tutti, potemmo finalmente guardarci attorno.
Eravamo ai piedi di una collina, sulla cui sommità crescevano due anelli di alberi: il primo completamente spoglio, il secondo coperto di foglie d’oro. Haldir invitò Frodo e Sam a salirvi sopra, mentre noi ci mettemmo seduti nella radura a mangiare: Merry, Pipino e Gimli ed io facemmo onore al pranzo, mentre Boromir sbocconcellò appena qualcosa ed Aragorn non mangiò per nulla. Il Ramingo continuava a fissare la cima della collina, mormorando "Cerin Amroth" ed altre parole in elfico, e sembrava perso nei suoi ricordi.
Rimuginando sul “Signore degli Anelli”, ricordai che in quel punto Aragorn aveva incontrato Arwen per la prima volta, lì si era innamorato di lei e l’Elfa gli aveva a sua volta giurato amore eterno.
Boromir, invece, mi sembrava turbato. Continuava a grattarsi distrattamente la mano ed a volte girava la testa di scatto, come se avesse udito dei rumori sospetti.
"Deve sentire la voce di Galadriel…" pensai tra me e me, sempre memore delle parole del libro.
Dopo pranzo riprendemmo la marcia e, dopo altre due ore, arrivammo in vista del cuore di Lothlòrien.
"Ecco Caras Galadhon" annunciò Haldir, "dimora di Sire Celeborn e di Galadriel, la Dama della luce!"
Davanti a noi si innalzavano gli alberi più grossi che avessi mai visto. Le loro chiome svettavano molto più in alto di quelle di tutte le altre piante ed i loro tronchi avevano circonferenze tali che ci sarebbero voluti almeno venti uomini, se non di più, per abbracciarli.
Entrammo nella capitale dei Galadhrim sul far della sera; i talan erano illuminati da centinaia di piccole lanterne, che li facevano risplendere come se fossero stati trapunti di stelle.
Al centro della città si ergeva l’albero più grande e maestoso, talmente alto che da terra non si riusciva a scorgerne la cima. Su di esso si trovava la dimora dei Signori degli Elfi. Una lunga scala a spirale si avvolgeva intorno al tronco. Ci volle un bel po’ per percorrerla fino al flet dove si trovava il palazzo di Celeborn.
I due Elfi ci accolsero in pompa magna. Si dispiacquero per la caduta di Gandalf e si interessarono molto al resoconto del nostro viaggio che fece Aragorn. Poi, Dama Galadriel ci guardò tutti negli occhi, dicendoci che la nostra missione era sulla lama di un coltello, ma che c’era ancora speranza, fin quando la Compagnia fosse rimasta unita. I suoi occhi indugiarono a lungo su Boromir, che fu incapace di sostenere il suo sguardo e chinò quasi subito la testa, tremando. Io ero l’ultima della fila: quando arrivò davanti a me e mi scrutò con i suoi occhi profondi, leggendomi nella mente, mi sembrò di essere nuda.
"Benvenuta, Marian delle Terre Obliate" risuonò la sua voce nelle mie orecchie, "Portatrice della Stella. Il cuore dell’Uomo che ami è ottenebrato dalla forza dell’Anello, ma tu puoi ancora salvarlo. Per farlo, però, Egli dovrà accettare il tuo amore, e ricambiarlo."
Il tutto durò pochi istanti, ma a me parve un’eternità. Stavo ancora riflettendo sulle sue parole che già venivamo congedati.
"Che i vostri cuori non si turbino. Stanotte dormirete in pace” ci salutò la Dama.
Con un inchino, lasciammo il palazzo e riprendemmo la scala. Gli Elfi avevano allestito per noi un padiglione proprio ai piedi dell’albero, con grande gioia degli Hobbit ed anche mia: non mi andava proprio a genio di dormire per aria!
Mentre scendevo lentamente le scale, fissando Boromir che mi precedeva nella discesa, il mio pensiero tornò alle parole della Dama. Così distratta, mancai un gradino e persi l’equilibrio; per non cadere mi appoggiai al tronco dell’albero. La sensazione fu così strana che mi lasciai sfuggire un "Oh!" di sorpresa: la corteccia era liscia come la seta e calda. Potevo sentire perfino la linfa che vi scorreva al di sotto. Mi trattenni a guardare la pianta, stupita, mentre anche gli altri si fermavano, richiamati dalla mia esclamazione.
"Tutto bene?" mi chiese Aragorn.
"Sì..." risposi con aria sognante, senza smettere di carezzare il tronco, "sento la vita che scorre nell’albero…"
Poggiai entrambi i palmi sulla corteccia ed, all’improvviso, la mia mente fu rapita dalla pianta. Mi sentii sollevare in alto, trascinata dalla spinta della linfa, ed il mio sguardo si sollevò sopra il resto della Compagnia – su, sempre più su – fino a che non arrivai all’ultima foglia, quella che stava più in alto di tutte, e la mia vista spaziò su tutta Lothlòrien ed anche oltre. Ma la sensazione durò solo un istante, perché la linfa tornava già a scorrere verso il basso, riportandomi verso il mio corpo. Tornai in me con un sussulto e, solo allora, mi resi conto che avevo smesso di respirare. Staccai le mani dal tronco ed alzai lo sguardo verso i rami sopra la mia testa, con la faccia da ebete.
I miei compagni mi avevano circondato e mi guardavano preoccupati.
"Sei sicura di stare bene?" ripeté Aragorn.
"Sì… Mai stata meglio…"
"Che cosa hai visto?" mi chiese Legolas, curioso.
"Tutta Lothlòrien… Mi ha portato lassù… Fino in cima…" dissi con voce sognante, alzando a malapena un dito ad indicare la chioma dell’albero.
L’Elfo sorrise e mise a sua volta le mani sulla corteccia ma, dopo pochi secondi, le ritirò con sguardo pieno di disappunto. Evidentemente a lui non era successo nulla.
Gli altri continuarono a fissarmi preoccupati, mentre pian piano il mio sguardo si andava schiarendo.
"L’ha rapita la coscienza dell’albero" spiegò Legolas, "le piante di Lòrien sono molto potenti."
Feci di sì con la testa, mentre tornavo completamente padrona di me stessa.
"Penso che tu abbia ragione. La linfa mi ha trascinata via e mi ha portato fin sulla foglia più alta. Ho sentito la vita crescere nell’albero."
Riprendemmo lentamente a scendere e Pipino mi rimase accanto.
"Dev’essere stato bello…" mi disse, anche lui in tono sognante.
"Sì, molto…" risposi, abbassando gli occhi a guardarlo. Ancora una volta, notai il suo sguardo adorante.
"Temo che questo Hobbit si stia invaghendo di me…" pensai, preoccupata.
Quella notte dormimmo veramente in pace, per la prima volta dopo la partenza da Gran Burrone. Sarebbe andata ancora meglio se gli Elfi non avessero cantato un infinito lamento per Gandalf di cui, oltre tutto, Legolas si rifiutò di farci la traduzione.
Era il diciassette di gennaio, e fu così che arrivammo a Lothlòrien.

Spazio autrice: Buongiorno e buona settimana a tutti. Eccoci finalmente a Lothlòrien... Questo capitolo è ispirato nella prima parte al libro: l’incontro con Haldir, la notte sui talan, l’attraversamento dell’Argentaroggia con le corde e la marcia da bendati, infatti, non appaiono nel film, o quanto meno, nella long version sono solo accennate alcune parti.
Dal momento in cui la Compagnia avvista Caras Galadhon, invece, ho scelto la versione cinematografica.
La scena con l’albero, in cui la linfa rapisce Marian, è un omaggio al mondo vegetale: sono sempre stata convinta che anche le piante, come esseri viventi, siano in qualche modo senzienti e, di sicuro, gli alberi di Lòrien contengono molta magia, al loro interno!
Ringrazio ancora una volta tutti coloro che leggono, ed in particolare le mie fedeli commentatrici!
Evelyn

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Capitolo 11
*** Il dono di Galadriel ***






Il dono di Galadriel

 

I giorni passati nella terra di Lòrien furono felici e quasi spensierati. In quel luogo pareva quasi di essere fuori dal mondo, e che Sauron e l’Anello fossero soltanto un brutto sogno. Legolas trascorse la maggior parte del tempo con i suoi simili ma, a volte, andava a passeggiare per il folto degli alberi in compagnia di Gimli, dando inizio a quella che sarebbe diventata un’amicizia di lunga durata.
Gli Hobbit erano più allegri che mai, persino Frodo, nonostante il potere dell’Anello stesse cominciando a gravare anche su di lui. Ogni volta che lo guardavo potevo vedere la sofferenza nei suoi profondi occhi blu; la nube nera del potere del Flagello di Isildur lo avvolgeva, sempre più strettamente, ogni giorno che passava. Anche Sam pareva essersene accorto e non si allontanava mai da lui, seguendolo praticamente come un’ombra.
Merry e Pipino trascorsero molto tempo con me ed anche Boromir fu più gentile del solito: sembrava quasi di essere tornati ai bei tempi di Rivendell, prima della partenza della Compagnia. Come nostra vecchia abitudine, riprendemmo gli allenamenti con la spada ed il Capitano di Gondor si dimostrò, ancora una volta, un ottimo insegnante, sia per me sia per i piccoli Mezzuomini.
Durante quel periodo, riflettei a lungo sulle parole che Galadriel mi aveva detto telepaticamente durante il nostro primo ed unico incontro: Boromir avrebbe dovuto accettare il mio amore e ricambiarlo, per poter essere salvato. In quei giorni il Gondoriano era stato talmente buono ed amorevole nei miei confronti – tanto da mantenere persino l’abitudine di condividere la sua coperta di pelliccia con me, stringendomi teneramente contro il suo petto mentre dormivamo – che un pomeriggio, in cui eravamo stranamente da soli – stranamente perché, di solito, Pipino mi stava sempre alle costole come una specie di cagnolino – decisi di farmi avanti.
Durante il nostro allenamento quotidiano iniziai a pungolarlo, prendendolo bonariamente in giro.
"Sei troppo lento" gli dissi, in tono canzonatorio, schivando agilmente i suoi affondi grazie agli insegnamenti che avevo ricevuto da Arwen a Gran Burrone. "Non colpiresti nemmeno un Troll!"
Lui mi lasciò fare per un po’, un lieve sorrisetto che gli aleggiava sulle labbra, poi sfoderò tutta la sua grinta ed, in un attimo, mi disarmò facendo volare Hoskiart lontana.
"Chi sarebbe troppo lento?" mi chiese, con il tono di voce di un’ottava più bassa del solito, guardandomi dall’alto in basso ed avvicinandomisi a tal punto da sfiorarmi.
Alzai il viso e lo guardai negli occhi, mentre si faceva sempre più vicino. Con un gesto repentino, gli passai le braccia dietro la schiena, stringendomi contro di lui.
"Boromir…" sussurrai a fior di labbra, alzandomi in punta di piedi per riuscire a raggiungere la sua bocca.
I nostri visi erano vicinissimi, sentivo il suo respiro caldo su di me. Socchiusi gli occhi e dischiusi le labbra e, tra le ciglia, vidi lui fare altrettanto. Ma, non appena le nostre bocche arrivarono in contatto, lui si riscosse e mi spinse via di mala grazia. Potei assaporare solo per un instante la morbidezza della sua pelle, prima di essere riportata bruscamente alla realtà.
"Ma cosa credevi di fare?!" ruggì, lo sguardo irato, strofinandosi le labbra con il dorso della mano guantata come per pulirsele. Quel gesto, più che le sue parole, mi ferirono nel profondo.
"Boromir… Io pensavo…" balbettai, stupita dal suo repentino voltafaccia.
"Cosa pensavi? A quali brillanti conclusioni è giunta la tua testolina di fanciulla?"
"Credevo che tu… provassi qualcosa per me…" balbettai ancora, sempre più stupita e mortificata dal suo atteggiamento.
"Che io provassi qualcosa per te?! E cosa, per esempio?!"
La rudezza nella sua voce mi fece tirar fuori la grinta, che nello sconcerto del momento avevo temporaneamente abbandonato.
"Amore, per esempio!" replicai, alzando il tono a mia volta, fissandolo negli occhi con determinazione.
"E cosa te l’ha fatto pensare?!" mi chiese, lasciandosi sfuggire una risata di scherno.
"Il modo in cui ti comportavi con me!” continuai, sempre più furibonda. “Da quando siamo qui, abbiamo dormito nello stesso giaciglio! Questo per te non vuol dire niente?"
"Di sicuro non che ti amo! Io sono un guerriero! Nel mio cuore non c’è posto per l’amore!” esclamò, tornando serio di colpo. Si interruppe per un breve istante, poi riprese, di nuovo in tono ironico. “E poi, a che pro accontentarsi di un’unica donna, quando posso averne quante ne voglio? A Minas Tirith le concubine litigano per passare una notte nel mio letto. Mi basta alzare un dito e tutte cadono ai miei piedi!"
Ancora una volta mi diceva di essere un "puttaniere" e quella fu la seconda pugnalata che mi dette. Ma il colpo di grazia doveva ancora arrivare.
"Se proprio fossi costretto a dover sceglierne una da sposare, per avere degli eredi, di sicuro ne preferirei una più bella di te” sibilò, in tono sprezzante, “un’insulsa fanciulla che non sa nemmeno da quale parte del mondo proviene!"
Dopo avermi dato quell’ultima staffilata al cuore mi voltò le spalle e si allontanò. Mentre lo guardavo andarsene vidi il potere nero dell’Anello protendersi dal suo braccio sinistro fino alla spalla, avvinghiandosi alla scapola ed alla clavicola, pronto a raggiungere il suo cuore.
Rimasi immobile per parecchi minuti, incapace di muovermi o di pensare. Alla fine andai a raccogliere Hoskiart, la riposi nel suo fodero e mi incamminai nella direzione opposta, andando a sedermi sul bordo di un laghetto appartato in cui, a volte, avevo fatto il bagno. Portai le ginocchia al petto, ci poggiai sopra il viso e piansi.

 

* * *

 

Dopo aver percorso una ventina di passi, Boromir si fermò. Ancora una volta, aveva negato ciò che il suo sogno sosteneva, rifiutando l’amore che lei apertamente gli dimostrava quando lui stesso, con il suo comportamento, l’aveva indotta a fare il primo passo. Stava per tornare indietro, per chiederle scusa e dirle che la amava – che si era innamorato di lei fin dal primo momento in cui l’aveva vista a Rivendell – quando avvertì come una specie di peso sul petto. Si poggiò una mano all’altezza del cuore e si massaggiò con lenti movimenti circolari, fino a che il senso di oppressione non si sciolse in un’onda calda. Allora, i suoi lineamenti si distorsero in un ghigno maligno. Riprese ad allontanarsi dalla radura in cui si erano allenati, senza nemmeno voltarsi indietro.
Anche se lui non ne era consapevole, quello fu il momento in cui il potere del “Flagello di Isildur” si impossessò del suo cuore.

 

* * *

 

Rimasi seduta su un sasso, sulla riva del laghetto, per tutto il resto del pomeriggio, anche dopo aver esaurito tutte le mie lacrime. Avevo la mente completamente sgombra da qualsiasi pensiero, ormai, mentre le ombre cominciavano ad allungarsi tra gli alberi. Stavo per alzarmi in piedi per tornare al nostro accampamento quando udii un fruscio alle mie spalle. Mi voltai e vidi una figura femminile avvolta in una pallida luce spettrale: Galadriel.
Mi alzai ed attesi che mi raggiungesse.
"Ha rifiutato il mio amore" le dissi, non appena fu al mio fianco.
"Lo so" mi rispose, con la sua profonda voce da contralto. "Quest’oggi, il potere dell’Unico Anello si è impossessato di Boromir."
"Non posso fare più niente per lui?" le chiesi, fissandola con tristezza.
"La speranza non è ancora perduta” mi rispose, lentamente. “Puoi ancora salvarlo, ma questo dipende dalla tua volontà. Sei ancora decisa a portare a termine la tua missione? Anche se, ora, conosci l’Uomo di Gondor per quello che in realtà è?"
Ci riflettei su per un attimo, poi annuii.
"Bene, allora. Vieni con me."
Scivolando sull’erba, eterea come uno spirito, mi guidò verso il cuore del Bosco d’Oro, dove cresceva l’albero più imponente di tutta Lothlòrien. Alla base del suo tronco si apriva una cavità che conduceva fin nel cuore della pianta, dove era stata ricavata una stanza dalla volta a botte. Al centro di questa si ergeva un piedistallo e, sopra di esso, era posata un’ampollina di cristallo contenente del liquido ambrato. La luce dorata che si sprigionava dall’ampolla si rifletteva sui nostri visi. Mi fissò a lungo con i suoi occhi senza tempo, poi parlò.
"Ciò che vedi è “Nén Cuivie”, o "Acqua di Vita”, una pozione elfica molto potente” mi spiegò. “Può essere distillata solo in presenza di particolari condizioni astrali, che si verificano una volta ogni cento anni. Questa, io l’ho preparata per te."
Abbassai lo sguardo sulla piccola fiala lucente, mentre lei proseguiva.
"Questa pozione è in grado di curare anche le ferite più mortali. Ne basta una sola goccia in ogni lacerazione per vederla guarire all’istante. Se la userai quando Boromir verrà colpito, lo salverai!"
Annuii. Galadriel era una veggente, ed anche lei sapeva quale sarebbe stata la fine di Boromir se io non fossi intervenuta. Feci per allungare la mano e prendere l’ampolla ma la Dama dei Galadhrim mi fermò, riprendendo a parlare.
"Ma, come ogni filtro magico, anche questo ha i suoi lati negativi: le ferite curate con Nén Cuivie guariscono sulla vittima, ma non scompaiono. Esse si trasferiscono in egual maniera su colui, o colei, che la utilizza. Mentre su un corpo si sanano sull’altro si aprono, con la stessa intensità!"
"Quindi" giunsi da sola alla conclusione, "visto che le ferite di Boromir saranno mortali, lo risulteranno anche le mie."
Lei annuì gravemente, chinando il capo.
"Ora sta a te decidere” concluse, gravemente. “Andare avanti, e compiere ciò per cui hai chiesto di venire fin qui; oppure tornare indietro, adesso."
Nel udire quelle parole, capii. Capii che la voce che avevo sentito, prima che Freccia andasse a schiantarsi contro il guardrail, era la sua. Era stata Galadriel a chiamarmi nella Terra di Mezzo!
Rimasi in silenzio, con il cervello annebbiato da tutte quelle informazioni che mi arrivavano in contemporanea. Per salvare Boromir sarei dovuta morire al posto suo. Se lo meritava? Per come si era comportato quel pomeriggio, avrei tanto voluto dire di no ma, nel profondo del mio cuore, sapevo che non avrei mai potuto abbandonarlo. Mi trovavo nella Terra di Mezzo da diversi mesi, ormai, e probabilmente i miei genitori mi avevano dato per morta, in quello che sicuramente ai loro occhi era apparso come un incidente d’auto. Non avevo più niente, a casa, che mi spingesse a tornare. Ed a che pro rimanere nella Terra di Mezzo senza l’amore del Gondoriano? Così, presi la mia decisione. Alzai di nuovo gli occhi e fissai fieramente Galadriel.
"Vado avanti! Salverò Boromir, anche a costo della mia vita!" dissi, risoluta.
Lei annuì di nuovo, prendendo l’ampolla e consegnandomela.
"Bene. Questo è il mio dono per te” pronunciò, in tono grave. “Tienilo nascosto, e non dire a nessuno ciò che intendi fare. Alcuni membri della Compagnia non capirebbero."
Mi lanciò un’occhiata eloquente, che mi fece pensare subito a Pipino ed alla forte devozione che mostrava nei miei confronti. Annuii a mia volta e nascosi la fiala nella tasca interna della casacca, per poi lasciare la piccola stanza arborea, diretta verso l’accampamento.
Vi arrivai che era ormai buio. Quando raggiunsi la radura, Pipino mi venne incontro di corsa, con aria spaventata.
"Marian! Finalmente! Eravamo in pensiero per te!" mi gridò, abbracciandomi ed affondandomi il viso nello stomaco. “Boromir ci ha detto che non ti vedeva dal primo pomeriggio! Aragorn voleva mandare gli Elfi a cercarti!"
"Mi dispiace di avervi fatto preoccupare" gli risposi, incamminandomi verso il nostro padiglione, posandogli una mano sulla spalla mentre lui si metteva al mio fianco, "ma avevo bisogno di stare un po’ da sola ed ho perso la cognizione del tempo."
Tutti i compagni tirarono un sospiro di sollievo quando mi videro entrare nella tenda in compagnia di Pipino. Persino Boromir anche se, subito dopo, distolse lo sguardo e si chiuse nel suo mutismo.
Dopo cena riuscii, per un attimo, ad avvicinarmi a lui.
"Sono venuta a chiederti perdono, Capitano Boromir, per il mio comportamento inqualificabile di oggi pomeriggio” gli dissi, fissandolo seriamente negli occhi, fingendo una tranquillità che ero ben lungi dal provare. “Non si ripeterà mai più!"
L’Uomo rimase interdetto per un attimo, fece l’atto di aprire la bocca per dire qualcosa ma poi si limitò ad annuire seccamente. Mi allontanai ed andai a sedermi accanto al fuoco, dove fui subito raggiunta dal giovane Tuc.
"Oggi è stata una giornata così noiosa!” esclamò, con la sua vocetta acuta. “So che non dovrei dirlo, perché gli Elfi sono tutti buoni e gentili… Ma sono così barbosi!” concluse, in un sussurro, strappandomi un mezzo sorriso. “Facciamo un gioco?" mi chiese, infine, guardandomi speranzoso.
Non ero proprio in vena di giocare, non dopo aver saputo che di lì a pochi giorni sarei morta per salvare un Uomo che nemmeno mi amava, ma strinsi i denti, feci buon viso a cattiva sorte e sorrisi al Mezzuomo.
"Va bene. Ma, prima vorrei pettinarmi i capelli. Sono talmente lunghi ed aggrovigliati che potrei usarli come trappole per topi!"
"Se vuoi posso pensarci io!" mi disse Gimli. "Noi Nani siamo esperti nell’acconciare le barbe" e, nel dir così, si accarezzò le lunghe trecce che gliela ornavano. "Potrei farti una bella treccia!"
"Oh, caro Gimli, lo apprezzerei veramente tanto! Sai che quando ero bambina ho sempre portato le trecce? Ma sono sicura che la tua sarà più bella di quelle che faceva la mia mamma!"
Il Nano gongolò tutto soddisfatto e si mise a sedere su uno sgabello dietro di me, cominciando a districare i miei capelli tutti arruffati in tre ciocche ben distinte.
"Non è mica da tutti avere un Nano come parrucchiere ed un Hobbit come massaggiatore!” esclamai, fingendo allegria. “Bene, allora, vediamo un po’… un gioco che si può fare anche da seduti. Ah sì! Con cosa oltrepassiamo la frontiera?” chiesi, alzando l’indice verso il cielo, in tono da banditore. “Può essere qualsiasi cosa: un oggetto, un animale, un mezzo di trasporto; però, ovviamente ci sono delle regole, ovvero non tutti possono varcare la frontiera con le stesse cose" spiegai, a grandi linee.
"Non ho capito…" balbetto il più giovane dei Mezzuomini, guardandomi interrogativamente.
"Non preoccuparti Peregrino, capirai” gli risposi, evasiva. “Comincio io. Allora: io varco la frontiera… avvolta in un bel mantello di lana!" esclamai.
"Anch’io!" mi fece eco Pipino.
"No, Peregrino, tu non puoi."
"Perché no?" mi chiese, deluso.
"Questo lo devi scoprire da solo."
"Ed io, invece? La posso varcare con il mantello?" chiese Merry, mentre si accendeva la pipa.
"Sì, Meriadoc, tu sì!" gli risposi, annuendo.
"Perché lui sì ed io no?" chiese Pipino, in tono molto risentito, ed io gli ripetei quello che gli avevo detto poco prima: avrebbe dovuto scoprirlo da sé.
"Io la varco con un vaso di fiori!" esclamò Sam, giardiniere fin nelle ossa.
"Mi dispiace Sam, ma non puoi" gli risposi, scuotendo la testa e rimediando un grugnito da parte del Nano – ancora intento a districare i miei lunghissimi capelli – che mi intimò di stare ferma.
Il figlio del Gaffiere ne fu deluso e si mise a rimuginarci sopra.
"Direi che io dovrò varcarla con l’Anello…" disse Frodo, soprappensiero, facendo voltare tutti a guardarlo. La cosa lo sorprese, perché non si era reso conto di aver espresso il suo pensiero ad alta voce.
"Bè, questo è innegabile Frodo, ma ai fini del gioco non puoi."
"Io la varcherò con il mio arco stretto in pugno" disse fiero Legolas, tendendone la corda e rilasciandola, come per scoccare una freccia invisibile.
"Idem come sopra: non puoi!" gli risposi, divertita. L’Elfo si offese e non parlò più. Gimli ridacchiò alle mie spalle.
"E tu, mastro Nano, cosa mi dici? Con cosa varchi la frontiera?" gli chiesi, visto che lui non aveva ancora partecipato.
"Io? Ma con la mia ascia, naturalmente!"
Feci schioccare la lingua alcune volte, nel tipico verso utilizzato per dire di no. Per tutta risposta, lui grugnì.
"Aragorn? Vuoi partecipare?"
"Stavo riflettendo…” mi rispose il Ramingo, pensieroso. “Tu e Merry potete varcarla con lo stesso oggetto, mentre Pipino non può. E tutti gli altri hanno sbagliato. Vediamo…"
"Io varcherò la frontiera di Gondor con la mano sull’elsa della spada e suonando il corno a pieni polmoni!" esclamò Boromir, lasciandomi di stucco. Non avrei mai immaginato che avesse voluto partecipare al gioco ma, forse, la sua era stata soltanto una riflessione.
"Molto lodevole da parte tua, ma non è la risposta esatta" risposi, comunque.
"Ci sono!" esclamò Aragorn, "io varco la frontiera con Andùril!"
"Bravo Aragorn! Con Andùril puoi!"
"Lui può con la sua spada ed io non posso con la mia?" chiese rabbioso Boromir, ricordandomi vagamente Pipino.
"Non avrebbe potuto con una semplice "spada", ma il fatto che la sua si chiami Andùril glielo consente!” spiegai. “Per assurdo, tra di noi l’unico che la può varcare con una spada è Sam."
"Eh?" mormorò il giardiniere, che stava ancora rimuginando sulla risposta di prima, alzando la testa e guardandomi inebetito sentendosi chiamato in causa.
"Credo di aver capito anch’io" disse Legolas, facendo penzolare le gambe dal ramo dell’albero sul quale si era messo a cavalcioni. "Io varco la frontiera con un cesto di lamponi!"
"Mmmm, buoni i lamponi…" mormorò Pipino, strofinandosi lo stomaco.
"Bravo, mastro Elfo, hai indovinato!" mi complimentai.
Anche Gimli, che aveva appena finito di pettinarmi, parve aver capito perché disse, titubante.
"Vediamo un po’… Con i Gioielli del Tesoro di Smaug?"
"Bravissimo Gimli, anche tu hai indovinato!"
Il nano fece una faccia soddisfatta, gongolando apertamente. A quel punto, anche il viso di Merry si illuminò.
"Io la varco a dorso di mulo!"
"Ottimo Meriadoc!” esclamai, soddisfatta. “Allora: per chi non ha ancora capito, continuiamo il gioco. Io varco la frontiera con una mazza ferrata!"
"Anch’io!" esclamò di nuovo Pipino, alzando la mano.
"Nooo, non hai ancora capito, Peregrino? Merry può varcare la frontiera con le cose che uso io, ma tu no!" esclamai, quasi esasperata dalla cocciutaggine di quell’Hobbit.
"Perché lui sì ed io no?" chiese ancora, petulante.
"Perché sì!” gli risposi, secca. “Frodo?"
"Con il mio amico Sam?"
"No, ma potresti farlo con una fionda, per esempio” gli spiegai, per farlo giungere più facilmente alla soluzione, “oppure con…"
"Con la mia forchetta preferita! Peccato che sia rimasta a Casa Baggins…" esclamò, interrompendomi, arrivato finalmente a capire come funzionava il gioco.
"Esatto! Boromir? Vuoi ancora partecipare?"
"No, sono stanco di questo stupido gioco!" grugnì, voltandomi le spalle.
"Molto bene, ma sappi che tu la frontiera la puoi varcare in barca. Sam?"
Il cervello dell’Hobbit stava ancora lavorando alacremente, sembrava quasi di poter sentire gli ingranaggi muoversi macchinosamente dentro la sua testa.
"Credo di esserci arrivato!” esclamò, infine. “Con un sacco! Magari pieno di sabbia, o di sassi!"
"Bravissimo, mastro Samvise! Ora ci rimani solo tu, Peregrino…" esalai, mettendomi i pugni sui fianchi.
Il Mezzuomo mise la lingua tra i denti, mentre pensava.
"A cavallo?" chiese, speranzoso.
"No."
"Correndo?"
"Nooo."
"Con una ciotola di zuppa! Mmm, buona la zuppa…" mormorò, strofinandosi di nuovo lo stomaco.
"Nemmeno…" esalai ancora, esasperata.
"Sei proprio un idiota, Pip!" si spazientì alla fine Merry. "Devi dire cose che cominciano con la lettera P, l’iniziale del tuo nome!"
"Come patate?” chiese, guardandomi, come ad avere conferma che suo cugino aveva detto la verità. “Mmm, buone le patate…" mormorò di nuovo subito dopo, sfregandosi la pancia per la terza volta.
"Sì, proprio così!" confermai, contenta che il gioco fosse finalmente finito; ma Pipino continuò, sempre più petulante.
"Be, ora che so la soluzione, posso dire che era facile! Ne facciamo un altro?"
"Mi dispiace Peregrino, ma ora ho proprio voglia di fare una bella dormita” mormorai, fingendo di sbadigliare. In quel momento provavo mille sensazioni fuorché il sonno, ma non me la sentivo più di fingere un’allegria che non provavo. “Buonanotte!" dissi infine, alzandomi e raggiungendo la mia coperta, ancora stesa accanto a quella di Boromir.
Avrei tanto voluto spostarla e mettermi a dormire da un’altra parte, possibilmente lontana da tutti gli altri ma, di sicuro, mi avrebbero chiesto spiegazioni ed io non avrei saputo cosa rispondere. Così, mi avvolsi nel mio giaciglio voltando la schiena a quello del Gondoriano, la fiala di cristallo che mi premeva contro le costole, ricordandomi il mio destino. La strinsi da sopra la stoffa della casacca e chiusi gli occhi, cercando di trattenere le lacrime e fingendo di dormire.
Dopo pochi minuti, anche gli altri si sistemarono per la notte. Sentii Boromir scivolare dietro di me ed avvolgersi nelle sue coltri ma, quella sera, il manto di pelliccia degli Elfi rimase inutilizzato e, per la prima volta da quando eravamo arrivati a Lòrien, il suo braccio non venne a cingermi la vita.
La mattina dopo, Celeborn ci fece convocare: era giunto il tempo di parlare del nostro viaggio. Era passato un mese dal nostro ingresso a Lòrien ed ora era venuto il momento, per noi, di riprendere il cammino. Frodo doveva portare a termine la sua missione.
Aragorn non aveva ancora deciso da che parte andare: se piegare a sud in direzione di Minas Tirith oppure puntare dritto ad est, verso Mordor. Boromir continuava ad insistere, chiedendo di raggiungere la sua città, ma il Ramingo era titubante, perché se Frodo avesse scelto di passare per gli Emyn Muil lui avrebbe dovuto seguirlo. Celeborn ci donò tre barche, con le quali avremmo potuto seguire per un certo tratto il corso dell’Anduin. Di ciò il ramingo fu molto grato: così avrebbe potuto rimandare la sua scelta ancora per qualche tempo.
Il giorno dopo, un gruppo di Elfi capitanati da Haldir ci scortò fin sulle rive dell’Argentaroggia, dove le tre barche ci aspettavano. Ci donarono abiti e mantelli elfici per il viaggio – chiusi da spille a forma di foglia dalle venature d’argento – e ci riempirono di vettovaglie, tra cui il lembas, il pan di via. Pipino ne fu così entusiasta che se ne mangiò quattro, prima che uno degli Elfi che caricavano il nostro bagaglio sulle barche gli dicesse che un solo morso bastava a sostentare un Uomo adulto per una lunga giornata di marcia. Due ore dopo, il Mezzuomo era piegato a metà con le mani strette sullo stomaco ed un’espressione sofferente in faccia, come se la pancia stesse per scoppiargli.
"Credo che non mangerà mai più lembas per il resto della sua vita" mi sussurrò Merry, ridacchiando, mentre mi passava il suo fagotto, che caricai su una delle barche.
"Io, invece, credo che ne mangerà ancora, quando ne avrà bisogno" gli risposi a mezza voce. Ricordavo dal libro che ne avrebbe perfino raccolto le briciole, durante il periodo di cattività con gli Orchi.
"Sì, forse hai ragione” ammise il Mezzuomo, sorridendo mentre fissava il cugino contorcersi in preda ai dolori di stomaco. “Pipino ama alla follia qualsiasi tipo di cibo, come forse ti sarai accorta…"
Non appena i bagagli furono tutti caricati a bordo prendemmo posto sulle tre piccole imbarcazioni: Aragorn, Frodo e Sam sulla prima; Boromir, Merry e Pipino sulla seconda; Legolas, Gimli ed io sulla terza. Gli Elfi ci consigliarono di risalire il fiume per un breve tratto in modo da prendere dimestichezza con le barche, e così facemmo. Stavamo per tornare indietro e riprendere quindi il nostro viaggio quando fummo affiancati dalla barca a forma di cigno di Celeborn e Galadriel. Dopo un mese passato nel loro regno, si erano finalmente ricordati di non aver mai desinato con noi e, così, ci invitarono a pranzo sull’erba lungo la sponda dell’Argentaroggia.
Tutti fecero onore al pasto, tranne Frodo e me. L’Hobbit a causa del potere dell’Anello che continuava a crescere inesorabile, assorbendo ogni sua energia vitale e togliendogli anche l’appetito; io, perché travolta da una miriade di sentimenti contrastanti, che si accentuavano sempre più mano a mano che si avvicinava il momento in cui avrei dovuto portare a termine la mia missione, ciò per cui ero arrivata fin lì. Ad ogni passo che muovevo, l’ampolla di cristallo contenente la pozione batteva contro le mie costole, ricordandomi costantemente quello che mi aspettava.
Finito il pranzo, Galadriel ci fece bere dalla coppa dell’addio, poi chiamò uno alla volta i miei compagni per dare loro un dono speciale da parte sua. Ad Aragorn regalò uno splendido fodero per Andùril, a Boromir una cintura d’oro, a Merry e Pipino uguali cinture d’argento, a Sam dette una matassa di corda elfica ed una scatoletta contenente terra e semi del Bosco d’Oro, a Legolas un arco dei Galadhrim ed a Gimli, che glieli aveva chiesti, tre capelli della sua chioma dorata. Infine, donò a Frodo la fiala contenente la luce di Eärendil, intrappolata nell’acqua della sua fontana. Quando giunse davanti a me, mi fissò con uno sguardo che sembrava contenere tutte le ere del mondo e mi carezzò dolcemente il viso.
"Arinya" mi sussurrò, posandomi un bacio sulla fronte. “A presto, Tingilindë.”
Stavamo per prendere di nuovo posto sulle barche quando Pipino mi si avvicinò e, tirandomi per la manica della casacca, mi fece chinare verso di lui.
"Perché Dama Galadriel ha dato a tutti noi un regalo mentre a te non ha donato nulla?" mi chiese, innocentemente.
"Pipino!" gli sibilò Merry, inorridito per l’insolenza della domanda di suo cugino.
"Non c’è problema, Meriadoc, dalle mie parti si dice "domandare è lecito, rispondere è cortesia". Anche a me ha fatto un regalo. Me lo ha dato qualche giorno fa” dissi, rivolta al giovane Tuc.
"Ah… E cosa ti ha regalato?"
Merry si sbatté la mano sulla fronte, scuotendo il capo e borbottando qualcosa in lingua Hobbit.
"Oh, un dono molto prezioso, che di sicuro mi tornerà utile a breve…" risposi enigmatica prima di raddrizzarmi per non fargli vedere che gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime.
Una volta saliti a bordo, ci lasciammo scivolare lungo la corrente dell’Argentaroggia, fino a quando il fiume non confluì nell’Anduin. Lì, ci voltammo tutti a guardare Lòrien: Galadriel era in piedi sulla punta estrema del suo regno e sembrava scivolare via, lontana da noi. Rimanemmo voltati all’indietro finché il Bosco d’Oro non scomparve dietro un’ansa. Allora Legolas afferrò la pagaia, imitando Aragorn e Boromir che si erano già allontanati dalla corrente principale del Grande Fiume.
Era il sedici di Febbraio, e fu così che lasciammo Lothlòrien.

Spazio autrice: Salve gente, eccovi un altro capitolo della storia di Marian... Questo è ispirato per la maggior parte al libro, sia riguardo al tempo di permanenza a Lòrien, un mese; sia riguardo la descrizione della partenza e del pranzo finale; sia i regali che sono stati fatti dalla dama. Nel film dona agli Hobbit dei pugnali, mentre nel libro delle cinture.  L’unica cosa che ho ripreso dal film è Pipino che si è mangiato 4 lembas!
Non l’avevo mai detto prima, ma anche Andùril è ripresa dal libro. Mi spiego meglio: nel libro Andùril viene riforgiata prima della partenza della Compagnia da Gran Burrone, ed infatti nella mia storia Aragorn ha già la sua spada; mentre nel film gli viene portata da Elrond prima della partenza verso il sentiero dei morti.
La parte del gioco, ricordi di bei tempi scolastici, è stata pensata come sempre per portare un po’ di comicità ed allentare la tensione, che da qui in avanti diventerà palpabile.
Ed ora, finalmente sapete cosa dovrà fare Marian per salvare Boromir. La storia sta entrando nel vivo, e spero che vi piacerà la direzione che prenderà! Aspetto i vostri carissimi commenti!
Bacioni a tutti!
Evelyn

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Capitolo 12
*** Il viaggio continua ***






Il viaggio continua

 

Nessuno di noi aveva fretta di raggiungere le cascate di Rauros perché, una volta giunti lì, avremmo dovuto decidere da che parte andare. Di comune accordo, avevamo stabilito di lasciare che fosse la corrente del fiume a darci la velocità di crociera. L’unica condizione che aveva posto Aragorn era di partire prima dell’alba e di fermarsi solo a notte inoltrata.
All’inizio il paesaggio si mostrò sempre uguale: fitti boschi sia a dritta sia a manca. Poi, dopo un paio di giorni di navigazione e di accampamenti lungo le rive, gli alberi sparirono del tutto. Alla nostra sinistra si aprivano le Terre Brune e, proprio come diceva il loro nome, su di esse non cresceva nemmeno un filo d’erba. Alla nostra destra si stendevano invece prati e pascoli a perdita d’occhio che, però, per lo più rimanevano nascosti alla vista da fitti canneti.
C’era ben poco da fare a bordo delle piccole imbarcazioni. Era Legolas ad avere in mano la pagaia della nostra, ed anche lui dava solo qualche colpetto a destra o a sinistra per mantenere la barca dritta, visto che, per il resto, ci lasciavamo scivolare sulle acque dell’Anduin. Per questo motivo, ebbi molto tempo per pensare.
All’inizio, riflettei molto sul perché Galadriel mi avesse detto "a presto", invece di "addio" come a tutti gli altri, ma senza riuscire a trovare una spiegazione logica. Se tutto andava come era scritto nel libro, di lì a pochi giorni avrei donato la mia vita per salvare quella di Boromir, mentre gli altri avrebbero proseguito per la loro strada, nel bene o nel male. Quindi, perché dire "addio" a chi continuava a vivere ed "a presto" a chi sarebbe perito?
Mano a mano che passavano i giorni mi raccapezzavo sempre meno. Costantemente, la mano mi correva al rigonfiamento nella tasca interna della casacca, dove custodivo l’ampolla di cristallo. Allora fissavo le spalle di Boromir, che conduceva la barca davanti alla nostra, e cantavo canzoni tristi tra me e me.
"I never had a dream… that… I could follow through… Only tears… left to stain… Dry my eyes… once again…" intonavo spesso e volentieri, ripetendo le parole di una canzone dei Jamiroquai – “Picture of my life” – che amavo particolarmente e che rispecchiava anche moltissimo lo stato d’animo in cui mi trovavo in quel momento.
Durante una delle mie performance da solista udii Gimli chiedere a Legolas:
"Amico mio, io non capisco un accidente in elfico, vorresti tradurmi le parole di questa canzone? Gliel’ho già sentita cantare sei o sette volte, questo pomeriggio, e mi piacerebbe tanto sapere cosa dice."
"Questo non è elfico, Gimli, ma una delle lingue della sua terra d’origine, suppongo” gli rispose l’Elfo, mestamente. “Non so cosa significhino queste parole, ma il mio cuore mi dice che è una canzone molto triste. E che anche lei è molto triste, adesso."
Viaggiammo sul fiume per otto giorni prima di giungere alle rapide di Sarn Gebir. Con la fortuna che ci ritrovavamo, ci arrivammo a notte inoltrata. Sam era a prua di vedetta sulla prima imbarcazione ma, quella notte, la falce di luna era appena visibile, perciò l’Hobbit si rese conto solo all’ultimo istante che stavamo per andare a sbattere contro le rocce. Lanciò un grido di allarme ma, ormai, la corrente ci stava già spingendo verso la sponda sinistra del fiume, dove stavano in agguato diversi gruppi di Orchetti. Non appena arrivammo loro a tiro, cominciarono a bersagliarci di frecce: una colpì Frodo proprio al centro della schiena, rimbalzando sulla sua cotta di Mithril; una seconda si conficcò nel cappuccio del mantello di Aragorn e diverse altre colpirono le fiancate delle barche.
"Remate! Tutti insieme!" cominciò ad urlare Boromir, sgolandosi come un araldo. Obbedimmo al suo ordine, mettendo mano alle pagaie per allontanarci dal pericolo. Fu un’impresa ardua, a causa della forte corrente che ci spingeva in senso contrario, ma alla fine riuscimmo a riguadagnare nuovamente il centro del fiume ed a raggiungere la sponda destra. Stanchi, sudati e con le braccia a pezzi, remammo comunque fino a che le barche non si arenarono sulla riva sabbiosa. Aragorn e Boromir saltarono subito a terra, fissandole a degli alberi vicini. Legolas li seguì, incoccando una freccia sul suo nuovo arco mentre scendeva, tendendo la corda e scrutando la riva opposta in cerca di un bersaglio. Era ancora tutto teso nella sua ricerca quando un’ombra immensa oscurò le stelle sopra di noi. Sentii un’ondata di gelo penetrarmi fin nelle ossa, facendomi rabbrividire nonostante grondassi di sudore, mentre la “Stella di Fëanor” diventava calda e brillante, come per combattere contro il pericolo che ci sovrastava. Vidi Frodo accasciarsi sulla sua barca, stringendosi convulsamente la spalla sinistra, mentre Sam cercava di capire cosa gli stesse succedendo. L’Elfo alzò il tiro e scoccò la sua freccia contro il nemico volante, che lanciò un grido acuto e precipitò sulla sponda opposta, sparendo nell’oscurità.
"Che cos’era quell’affare?" chiese Pipino, ancora piegato in due con le mani sopra la testa, nella posizione in cui si era messo non appena la creatura alata era passata sopra di noi.
"Credo fosse uno spettro dell’Anello" risposi, stringendo la “Stella” che, pian piano, stava tornando fredda.
"Uno dei Nove Nazgûl?" chiese Aragorn, in tono preoccupato.
"Sì… E penso che anche Frodo sia del mio stesso avviso."
Il Mezzuomo si rialzò a fatica, massaggiandosi la clavicola sinistra.
"Ho avvertito un forte dolore alla ferita quando quell’essere ci ha sorvolato” mormorò debolmente, ancora dolorante. “Sì, anch’io, come Marian, credo si trattasse di uno dei Servitori dell’Oscuro Signore."
"Questo ti rende ancora più merito, Legolas! Complimenti per il tiro!" si congratulò Merry.
Ma non ci fu tempo per esultare, perché i due Uomini ci ricondussero subito alla realtà.
"Non possiamo affrontare le rapide di Sarn Gebir, né al buio né alla luce del sole!” disse serio Boromir, fissando il fiume che scorreva nell’oscurità. “Forse queste barche saranno anche inaffondabili, come sostengono gli Elfi; ma noi, di sicuro, non ne usciremo indenni!"
"Hai ragione" convenne Aragorn, "passeremo qui la notte e, domani mattina, cercheremo l’antica strada che permetteva ai mercanti che viaggiavano sul fiume di oltrepassare le rapide” decretò. “Monteremo la guardia a coppie: tre ore di riposo, ed una di veglia. Comincio io. Chi vuole farmi compagnia?"
Merry si offrì volontario e noi altri ci accoccolammo dentro le barche, avvolgendoci nelle nostre coperte.
Poiché eravamo in numero dispari, a me toccò il turno da sola. Non mi dispiacque, perché sentivo il profondo bisogno di riflettere. Pipino si offrì di farmi compagnia, nonostante la testa gli ciondolasse dal sonno, ma rifiutai.
Non appena mi fui seduta su un masso, da dove potevo tenere d’occhio la sponda opposta del fiume, cominciò a piovere: una pioggerellina minuta ma insistente, che ben presto inzuppò il mio manto elfico. Sembrava quasi che anche il tempo rispecchiasse il mio stato d’animo. Stringendo tra le mani la fiala di Nén Cuivie scoppiai a piangere in silenzio. L’acqua mi gocciolava dal cappuccio fin sulla punta del naso, mescolandosi con le lacrime che mi scorrevano copiose sul viso. Fui sul punto di rinunciare alla mia missione, di lasciar morire Boromir per mano degli Uruk-Hai, pur di salvarmi… Ma, a che scopo? A casa mia la mia vita non era poi gran ché. Non avevo amici, non avevo mai conosciuto il vero amore. Ero arrivata all’età di trentacinque anni senza uno straccio di vita sociale. Dopo tutto, era meglio farla finita così, salvando la vita dell’uomo che in quei mesi avevo imparato a conoscere e ad amare sempre più, piuttosto che trascorrere una vita in solitudine, rimpiangendo quello che mi era stato offerto e che alla fine avevo rifiutato.
Poco prima dell’alba la pioggia cessò e, con essa, anche i miei dubbi svanirono. Avevo preso la mia decisione definitiva, e l’avrei portata a termine.
La mattina dopo, Aragorn e Legolas si misero in cerca dell’antica strada e, dopo che l’ebbero trovata, trasportammo le barche e tutti i nostri bagagli fino all’approdo meridionale. Ci volle quasi tutta la giornata, perciò decidemmo di riposarci e riprendere la navigazione solo il giorno successivo.
Dopo le rapide di Sarn Gebir, il corso dell’Anduin cambiò velocemente. Le pareti si alzarono sulle nostre teste, trasformando il letto del fiume in una specie di canyon, da dove si poteva vedere solo uno stretto sentiero di cielo sopra di noi. Le acque erano più veloci, adesso, quindi anche se non pagaiavamo procedevamo comunque piuttosto rapidamente. A metà pomeriggio cominciammo ad intravedere, in lontananza davanti a noi, due enormi statue che si ergevano ai lati del fiume.
"Guardate! Gli Argonath!” esclamò Aragorn dalla barca capofila. “Da tempo desideravo vedere il volto dei miei padri!" Alzammo lo sguardo, fissando con espressione di stupita meraviglia i colossi che ci sovrastavano, mentre passavamo tra i loro piedi.
"Altro che Colosso di Rodi…" mormorai, allungando il collo per cercare di vedere i visi delle due figure scolpiti nella pietra. Ogni mio tentativo fu inutile, visto che si trovavano almeno duecento metri più in alto.
Oltre le statue, l’Anduin si immetteva nel Nén Hithoel, un lungo lago ovale al termine del quale il Grande Fiume si gettava nelle Cascate di Rauros. Subito appena prima delle cascate il lago si divideva in due bracci, separati dall’isola di Tol Brandir, che si ergeva fuori delle acque cristalline come il dente di un gigante ed intorno alla cui cima aguzza volteggiavano molti uccelli.
Stava ormai calando la sera quando Aragorn ci guidò verso il prato di Parth Galen, una distesa erbosa che si stendeva lungo la riva del lago fino ai piedi del colle di Amon Hen, il seggio della vista. Il Numenoreano ci spiegò che, ai tempi d’oro della Terra di Mezzo, quello era stato un luogo di pace e di serenità. Aveva tuttora motivo di credere che, per il momento, gli Orchi non lo avessero ancora contaminato, anche se riteneva comunque opportuno montare di guardia.
Eravamo quindi arrivati al dunque. Adesso dovevamo scegliere da che parte andare. Ero l’unica a sapere che Frodo e Sam avrebbero proseguito da soli per Mordor, che Merry e Pipino sarebbero stati rapiti dagli Uruk-Hai e che Aragorn, Legolas, Gimli e presumibilmente Boromir, si sarebbero lanciati al loro inseguimento per salvarli. Ed io… bè, io avrei concluso lì la mia avventura nella Terra di Mezzo.
Il Ramingo decise di lasciar passare un’altra notte e di rimandare la decisione alla mattina successiva. Ci sistemammo per dormire, ma io chiusi a malapena occhio. Non potevo fare a meno di fissare Boromir che dormiva, visto che quella era l’ultima occasione che avevo per guardarlo da vicino senza disturbarlo.
Era il venticinque di febbraio, e così si svolse il nostro viaggio sul Grande Fiume.

Spazio autrice: Buongiorno a tutti! Questo capitolo è un po' corto, lo so, ma stiamo entrando nel vivo e vi lascio ancora con un po’ di suspance.
Anche in questo caso, ho fatto maggior riferimento al libro, anzi, direi quasi in tutto: nel film, la parte del viaggio sul fiume si riduce a qualche immagine delle barche viste dall’alto e ad una scena in cui anche Boromir nota la presenza di Gollum, ma questa solo nella versione estesa.
Spero che la storia continui a piacervi. Grazie di cuore a tutti voi che leggete! Bacioni!
Evelyn

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Capitolo 13
*** La missione si compie ***







La missione si compie

 

La mattina successiva ci alzammo tutti di buon’ora e, dopo colazione, Aragorn chiese a Frodo di decidere il da farsi. In fondo il Mezzuomo era il Portatore dell’Anello, e toccava quindi a lui scegliere la direzione da prendere: se andare direttamente a Mordor oppure recarsi prima a Minas Tirith, come Boromir continuava a chiedere.
L’Hobbit non sapeva che pesci prendere, così chiese un’ora di tempo per riflettere e si allontanò.
Tutti gli altri si disposero all’attesa. Gimli accese la pipa – imitato da Merry e Pipino – ed intavolò una conversazione con i due giovani Mezzuomini. Sam rimase seduto in disparte, attendendo ansiosamente il ritorno del suo migliore amico. Aragorn si mise ad affilare Andùril, mentre Legolas controllava l’impiumaggio delle sue frecce. Solo Boromir ed io non riuscivamo a star fermi: lui, perché sentiva il potere dell’Anello che lo chiamava; io, perché sapevo che ormai mancavano più solo pochi minuti, al massimo un paio d’ore, all’ora X.
Poco dopo, infatti, l’Uomo di Gondor sparì ed io, che lo tenevo d’occhio, fui l’unica ad accorgermene. Il destino stava per compiersi. Boromir, ottenebrato dalla potenza del “Flagello di Isildur”, avrebbe aggredito Frodo costringendo il Mezzuomo alla fuga. Subito dopo, tornato in sé, avrebbe combattuto fino alla morte contro gli Uruk-Hai, in difesa di Merry e Pipino, per riscattare il suo onore perduto.
Mi ritrovai a camminare a lunghe falcate sulla sponda del lago, incapace persino di mettermi seduta.
"Perché sei così nervosa, Tingilindë?" mi chiese Legolas, guardandomi stupito, interrompendo per un attimo il controllo delle sue armi.
"Eh? Cosa?" gli risposi distrattamente, come strappata da uno strano sogno, senza smettere di passeggiare avanti ed indietro. "Non lo so… credo che la “Stella” avverta un pericolo nell’aria" aggiunsi vagamente e lui annuì, grave, riprendendo ad esaminare le sue frecce.
Fu la più lunga della mia vita ma, alla fine, anche quell’ora passò. Di Frodo non c’era ancora traccia. In quel momento, anche gli altri si accorsero che pure Boromir era svanito nel nulla, così tutti scattarono in piedi per andarli a cercare. I tre Hobbit cominciarono a correre come impazziti, chiamando a gran voce il loro amico e parente. Cercai di seguire i due cugini visto che, se fossi stata con loro, avrei trovato anche Boromir al momento giusto. Durante la mia passeggiata inquieta, infatti, avevo cominciato a temere che il fato potesse essere in combutta contro di me, facendomi arrivare dal Gondoriano troppo tardi, quando ormai neanche più la pozione elfica avrebbe potuto salvarlo. Cercai di correre più velocemente possibile per non rimanere indietro ma quei piccoletti, benché avessero avevano le gambette corte, correvano veramente rapidi e ben presto li persi di vista, spariti tra gli alberi.
"Merda!" esclamai, in preda all’esasperazione, guardandomi intorno in cerca di tracce del loro passaggio, ma senza risultato. "Merry! Pipino! Aspettatemi! Oh, accidenti!" gridai, frustrata, voltandomi freneticamente in tutte le direzioni, fino a che non trovai, finalmente, un rametto spezzato: l’unico flebile indizio sulla strada da prendere.
Avevo percorso solo un breve tratto al loro inseguimento quando, all’improvviso, percepii il terreno della foresta tremare sotto i miei piedi. Gli Uruk-Hai erano arrivati, ed ora sarebbe cominciata la battaglia.
Sempre cercando di raggiungere i due Hobbit, mi buttai nella mischia sfoderando Hoskiart, che sfavillò di luce fredda come la morte. Sfruttando tutti gli insegnamenti di Arwen e di Boromir riuscii ad avere la meglio sui miei nemici, che erano sì forti ma poco coordinati nei movimenti. Se tanti morivano, però, altrettanti arrivavano a sostituire i caduti: parevano non finire mai. La spada divenne pesantissima ed i colpi degli Orchi cominciarono ad arrivare a segno. Uno di loro mi graffiò una guancia con la punta ricurva del suo spadone, ed un altro mi colpì al braccio sinistro prima che riuscissi a decapitarlo.
Ero sola contro un mare di nemici. Non avevo la più pallida idea di dove fossero gli altri e, presto, cominciai a credere che sarei stata sopraffatta e che, quindi, non sarei riuscita a portare a termine la mia missione. Ma, proprio mentre stavo per arrendermi, un boato potente squarciò l’aria intorno a me: Boromir stava suonando il corno di Gondor!
Gli Uruk-Hai arretrarono, spaventati dal suono di guerra, ed io ne approfittai per sfuggire alla loro morsa e correre in direzione del richiamo. A qualche centinaio di metri di distanza vidi, con la coda dell’occhio, Aragorn, Legolas e Gimli fare altrettanto.
Il corno suonò una seconda volta. Cercai di accelerare il passo, per quanto mi era consentito, correndo a rotta di collo per la fitta boscaglia ma, quando arrivai da Boromir, ormai tutto era compiuto. Un manipolo di Orchi aveva afferrato Merry e Pipino, trascinandoli via e Lurtz, il comandante degli Uruk-Hai, stava per scagliare contro il Gondoriano la sua quarta freccia, dopo averlo già trafitto con altre tre.
Gridando a squarciagola il nome dell’Uomo che amavo mi lanciai verso di lui ma, proprio mentre stavo per raggiungere il nemico, Aragorn mi sorpassò sulla destra e saltò addosso all’enorme Orco, ingaggiando con lui una lotta all’ultimo sangue. Questo mi consentì di agire indisturbata.
Boromir si era accasciato con la schiena contro le radici di un albero, respirando a fatica. Di sicuro, una delle frecce doveva avergli perforato un polmone, poiché un rivolo di sangue gli colava dall’angolo della bocca.
"Boromir" lo chiamai mormorando, non appena lo raggiunsi, inginocchiandomi accanto a lui.
"Hanno rapito i piccoletti…" ansimò con fatica, inspirando rumorosamente.
"Lo so" gli risposi, carezzandogli una guancia, nel tentativo di calmarlo.
"Ho tentato di prendere l’Anello a Frodo…" riprese, la voce debole e stanca.
"So anche questo" risposi nuovamente, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte sudata, senza riuscire a staccare i miei occhi dai suoi pieni di sofferenza.
"Ho fallito… Ho perduto il mio onore…" sussurrò ancora, aggrappandosi disperatamente alle mie braccia con le ultime forze rimastegli.
"No, Boromir!” lo interruppi con veemenza. “Hai combattuto valorosamente per salvare Merry e Pipino e, dopo che ti avrò curato, andrai con gli altri per strapparli dalle grinfie del nemico!"
Afferrai con decisione una freccia ma lui fece l’atto di bloccarmi.
"È troppo tardi, oramai…" sussurrò faticosamente, accettando il suo ineluttabile destino.
"No, Boromir, non è troppo tardi” replicai, seria. “Fidati di me!" e, senza alcun altro preavviso, strappai il primo ferro dal suo petto.
L’uomo gridò di dolore, contorcendosi disperatamente. Afferrai la seconda freccia, incurante delle sue mani che tentavano di scacciare le mie, e strappai anche quella, facendolo gridare di nuovo: un urlo che si perse nel clamore della lotta che si svolgeva alle nostre spalle.
"Perché mi tormenti inutilmente…" ansimò, mentre afferravo l’ultimo dardo.
"Tra un minuto starai di nuovo bene" gli risposi, estraendo anche l’ultimo ferro, facendolo lamentare debolmente.
Con mani frementi, slacciai i suoi abiti fino ad esporre il suo petto ferito. Per la prima volta, vidi il corpo dell’Uomo che amavo: un torso dalla muscolatura possente, segnato dalle cicatrici di molte battaglie, che adesso si alzava ed abbassava freneticamente, al ritmo del suo respiro alterato.
Estrassi la fiala di Galadriel dalla tasca, la stappai e feci cadere una goccia di pozione nella prima ferita, trattenendo il fiato. Non appena il liquido ambrato colpì la sua carne straziata, questa cominciò immediatamente a guarire – dalla profondità verso la superficie – mentre il fluido magico evaporava in un sottile filo di fumo. Mentre la sua pelle si risanava, la mia si aprì esattamente nello stesso punto, lasciandomi senza fiato per il dolore.
Dopo un istante di smarrimento – in cui pensai, convulsamente, a come avesse potuto continuare a combattere con ben due frecce in corpo – strinsi i denti e versai un’altra goccia nella seconda ferita. Proprio come la precedente, anche questa cominciò a guarire all’istante, trasferendosi sul mio corpo e lasciandomi ancora più spossata mentre il mio polmone sinistro si lacerava, rendendomi difficoltoso il respiro.
Boromir cominciava a capire che la pozione che stavo usando su di lui era veramente miracolosa, e si osservava il petto con meraviglia, mentre le ferite si sanavano come per magia.
Con mani tremanti, riuscii a versare la terza ed ultima di goccia di liquido nell’ultima ferita rimastagli, che all’istante si risanò sul suo corpo, riaprendosi sul mio. La fiala ormai vuota mi sfuggì dalle mani, rotolando via sul terreno in pendenza.
"Ecco, la mia missione è compiuta…" mormorai accasciandomi al suolo a faccia in giù, accanto al Gondoriano. Solo in quel momento, l’Uomo si rese conto che c’era qualcosa che non andava: mi strinse le spalle con forza e mi fece voltare supina.
Nel frattempo, Aragorn aveva finalmente sconfitto Lurtz, mozzandogli un braccio e decapitandolo. Voltandosi verso di noi, notò che sulla mia casacca erano sbocciati tre fiori di sangue. Allertato da ciò che vide ci raggiunse di corsa, seguito da Legolas e Gimli. Il Ramingo fissò prima il petto di Boromir – sul quale, a testimonianza delle ferite appena ricevute, rimanevano solo tre cicatrici circolari grandi come una monetina – poi osservò il mio, notando che le mie lesioni si trovavano esattamente nello stesso punto di quelle del Gondoriano. Anche l’Elfo se ne accorse, scorgendo poi subito dopo la fiala di cristallo, che giaceva a terra poco lontano. La prese e se la portò al naso, annusando profondamente.
"Nén Cuivie!" esclamò, con un tono di voce tale da far voltare tutti dalla sua parte. Aragorn – che era sul punto di slacciarmi la casacca per esaminare le ferite – si fermò e scosse la testa, sconsolato.
Nel frattempo, Boromir mi aveva sollevato dolcemente tra le braccia e quando vide il Numenoreano scrollare il capo lo guardò, incredulo.
"Perché scuoti la testa?" gli chiese, rudemente.
"Perché non posso fare nulla. Ha scelto il suo destino" gli rispose il Ramingo, fissandolo seriamente.
"Che cosa vuol dire? Cos’è tutto questo mistero?" domandò di nuovo il Gondoriano, lo sguardo che saettava dall’Uomo all’Elfo ed al Nano, in cerca di spiegazioni.
"Ha usato una pozione elfica che si chiama "Acqua di Vita"…" cominciò Aragorn, ma Boromir lo interruppe con veemenza.
"E allora?!"
"Spiegaglielo tu, Legolas."
"L’Acqua di Vita è un distillato molto potente, che ha la capacità di trasferire le ferite da un corpo all’altro” attaccò il Principe di Bosco Atro, con voce lenta e sommessa. “Come vedi, usandola Marian ha fatto passare le ferite dal tuo corpo al suo…"
Si interruppe con un singhiozzo, un grosso groppo che gli si formava in gola.
"Questo l’avevo capito anche da solo!” ruggì il Capitano Generale, con rabbia. “E con questo? Si possono comunque curare, non è così?" chiese ancora, furioso, fissando il Ramingo.
"No, purtroppo!” gli rispose Aragorn. “Usando l’Acqua di Vita per salvare un individuo destinato a morte certa, è la morte che si trasferisce, insieme alle ferite. Non si possono resuscitare i morti" concluse, voltando le spalle.
"No, non può essere vero… Non può essere vero!" gridò il Gondoriano, come se la colpa di tutto quanto era successo fosse stata dei suoi compagni di viaggio.
A quel punto toccava a me spiegare. Anche se, ormai, le forze mi stavano abbandonando del tutto, non potevo permettere che Boromir desse la colpa di quanto avvenuto ad Aragorn, Legolas e Gimli. Mi sforzai di parlare, e la voce mi uscì in un soffio.
"Boromir… Boromir…” mormorai, “non prendertela con loro… È stata una mia scelta…"
L’Uomo, che mi teneva ancora stretta tra le sue braccia, abbassò lo sguardo su di me, costringendomi a lottare per non perdermi nei suoi occhi grigio-verdi.
"Era l’unico modo… per salvarti… Per farti tornare a casa…" continuai faticosamente.
"Ma… perché? Perché ti sei sacrificata al posto mio?" mi chiese, con lo sguardo colmo di incredulità.
"Perché ti amo… Boromir."

 
* * *

 

Quelle tre semplici parole lo colpirono come un pugno nello stomaco. Ora che non era più in balia del potere dell’Anello, riuscì finalmente a capire che anche lui l’aveva sempre amata, che si era innamorato di lei fin dal primo momento in cui l’aveva vista, a Rivendell. Il sentimento era cresciuto nel suo cuore giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, anche se lui non aveva mai voluto ammetterlo a se stesso. Non aveva mai voluto riconoscere che, per la prima volta dalla morte di sua madre, si era di nuovo innamorato di una donna. Non un semplice desiderio di possesso ma amore, puro e semplice. Ed a Lothlòrien, quando lei si era abbandonata tra le sue braccia cercando di baciarlo lui, invece di dare retta al suo cuore, l’aveva scacciata brutalmente, umiliandola!
Ed ora, lei cedeva la sua preziosissima vita per salvare la sua, a lui che aveva fallito tutto! Che non si era ribellato alla volontà di suo padre quando gli aveva ordinato di portargli il “Flagello di Isildur”; che si era lasciato irretire dall’Anello; che aveva perduto il suo onore, aggredendo Frodo in un impeto di follia; che non era stato nemmeno in grado di proteggere Merry e Pipino.
E, peggio ancora, proprio adesso che avrebbe potuto di nuovo imparare ad amare…
"Non puoi lasciarmi proprio adesso… Non adesso che so cosa significa amare davvero!” implorò, stringendole convulsamente le mani. “Anch’io ti amo, Marian, anche se non ho mai avuto il coraggio di ammetterlo! Anche se ti ho rifiutato! E poi" aggiunse, come folgorato da un’idea, "devi ancora compiere la tua missione!"

 
* * *

 

Non riuscii a trattenere un sorriso triste, mentre una lacrima mi scivolava lungo la guancia.
"Non hai ancora capito, Boromir?” riuscii a mormorare debolmente, la bocca contorta in uno spasmo di dolore. “La mia missione… si è appena conclusa. Era questo il mio compito… Salvarti…"
Alzai debolmente la mano destra, sfiorandogli la guancia con una piccola carezza. Poi, molto lentamente, mi sfilai la catena dal collo e gli porsi la “Stella di Fëanor”.
"Questa la dono a te, Boromir” sussurrai, porgendogliela, “perché possa guidarti e proteggerti… in questi tristi giorni che verranno…"
Lui scosse la testa, mentre anche i suoi occhi andavano empiendosi di lacrime.
"No!” gridò ancora. “Me l’ha detto il mio sogno! Tu devi brillare per me! Per me, e per tutta la Terra di Mezzo!" disse con forza come se, ordinandolo, fosse in grado di strapparmi alla morte.
"Non io, Boromir… La “Stella”… La “Stella”…" sussurrai, ormai completamente priva di forze.
Non appena la sua mano strinse il gioiello la mia ricadde, inanimata. Ogni respiro era un tormento. L’aria mi bruciava nei polmoni; non sentivo più né le gambe né le braccia; la vista si andava oscurando. Cominciai a tremare come una foglia, il corpo scosso da brividi sempre più violenti.
"Ho… tanto… freddo… Boromir…" riuscii a malapena ad articolare, tra le convulsioni.
Lui mi strinse ancor di più a sé, facendomi appoggiare il viso contro il suo petto nudo, nel vano tentativo di placare i miei tremiti. L’ultimo odore che percepii fu quello acre della sua pelle sudata poi, oltre alla vista, anche l’olfatto svanì.
"Addio… Capitano… di Gondor" esalai con il mio ultimo respiro. Poi, l’oblio mi colse, strappandomi a me stessa ed ai miei compagni.

 
* * *

 

Boromir rimase fermo per un istante o due, il tempo necessario per rendersi conto che Marian aveva smesso di respirare. A quel punto, lanciò un grido talmente forte che la sua eco rimbalzò sulle pareti a picco dell’isola di Tol Brandir e persino oltre, sull’altra sponda del Grande Fiume. Giunse fino alle orecchie di Frodo e Sam, che si stavano arrampicando tra gli alberi verso i colli degli Emyn Muil e che si immobilizzarono, acquattandosi e drizzando le orecchie, cercando di capire quale creatura avesse mai potuto emettere quel verso.
Continuò a cullare il corpo inanimato della fanciulla per parecchi minuti, prima che Aragorn trovasse la forza di asciugarsi gli occhi e di riprendere in mano le redini della situazione.
"Non possiamo indugiare oltre. Frodo e Sam hanno scelto la loro strada: sono diretti a Mordor, ed ormai non possiamo fare più niente per aiutarli” decretò. “Ma Merry e Pipino sono ancora in mano al nemico. Non possiamo abbandonarli!" aggiunse, stringendo con forza i pugni.
"Non possiamo nemmeno lasciare il corpo di Tingilindë qui, a marcire come una carogna in mezzo ai cadaveri di questi immondi Orchetti!" replicò Legolas, guardandosi intorno inorridito.
"No, è vero” concordò Gimli, gli occhi ancora umidi di lacrime. “Ma non abbiamo nemmeno gli utensili adatti a scavare nella terra per darle un’adeguata sepoltura! E non possiamo nemmeno costruire un tumulo di sassi” aggiunse, passandosi le dita nella barba, con fare pensieroso. “Si trovano solo sulla riva e ci metteremmo troppo tempo a trasportarli quassù!"
"La adageremo su una delle barche elfiche, con la sua spada, e la affideremo all’Anduin. Il Grande Fiume non permetterà che il suo corpo venga violato" concluse il Ramingo, avvicinandosi a Boromir per cercare di convincerlo a lasciare andare il corpo della giovane.
Il Gondoriano tentennò solo per un minuto. Poi, tenendo il corpo di Marian tra le braccia, la trasportò fin sulla riva del lago e la depose in una delle due canoe rimaste. Composero il suo corpo, avvolgendola nel mantello di Lòrien, il cappuccio del quale le incorniciava il viso. Le incrociarono le braccia sul petto e le misero la spada a fianco. Boromir le mise al collo la sua collana, formata da un’unica pietra bianca incastonata in oro. Si rialzò lentamente, contemplando per un lungo istante il suo viso: era così bella che pareva che dormisse. Si portò il pugno prima alla fronte e poi alle labbra e, compiuto quel gesto, si allontanò, volgendo le spalle al lago. Infine, mentre Legolas intonava una breve nenia in elfico e Gimli borbottava nella sua lingua nanesca, Aragorn spinse lentamente la piccola imbarcazione, facendola scivolare sull’acqua. Subito la corrente la catturò, sospingendola verso sud. I tre rimasero ad osservarla finché non la videro sparire, avvolta dalla nebbia generata dalle Cascate di Rauros.
Durante quei pochi minuti Boromir era rimasto in disparte, riabbottonandosi la casacca ed allacciandosi al collo la catena d’oro cui era fissata la “Stella di Fëanor”. Quando il Ramingo lo avvicinò, il Gondoriano aveva lo sguardo fisso a terra, la fronte corrucciata e la mano sull’elsa della spada. Sembrava immerso in profondi pensieri.
"Purtroppo, adesso devi prendere una decisione, Boromir” esordì il Numenoreano. “So che desideri molto tornare a Minas Tirith, dove di certo hanno bisogno di te. Ma, se sceglierai di andare là, noi non potremo accompagnarti. Non possiamo abbandonare Merry e Pipino al tormento ed alla morte” continuò, con tono serio. “Se, invece, deciderai di venire con noi, sarai il più ben accetto dei compagni, sul quale contare per portare a compimento la nostra missione!" concluse, con convinzione.
Dopo un attimo di silenzio, il Gondoriano trasse un lungo sospiro ed alzò gli occhi, fissandoli in quelli dell’erede di Isildur.
"Prima di estrarre le frecce” gli rivelò, “Marian mi ha detto che, una volta curato, avrei dovuto salvare gli Hobbit. Vengo con voi!"
A quelle parole, Aragorn posò entrambe le mani sulle spalle dell’altro Uomo e gliele strinse. Boromir mise le sue sugli avambracci del Numenoreano, stringendolo a sua volta.
"Io ti seguirò ovunque, fratello mio. Mio capitano. Mio Re!" pronunciò con orgoglio il Gondoriano. Con un abbraccio, i due Uomini suggellarono quella promessa di fedeltà.
"Bene! Allora lasciate tutto quello che non vi serve! Viaggeremo leggeri: andiamo a caccia di orchi!" concluse Aragorn, ed i quattro partirono di gran carriera sulle tracce degli Uruk-Hai.
Nessuno di loro si accorse che, sfidando tutte le leggi della fisica, la piccola imbarcazione elfica non era caduta nelle cascate – come avrebbe dovuto – ma aveva aggirato la sponda meridionale di Tol Brandir per tornare poi indietro dall’altra parte, dal lato orientale, diretta a Lothlòrien – la sua casa – con il suo prezioso carico.
Era il ventisei di Febbraio, e così si sciolse la Compagnia dell’Anello.

Spazio autrice: Ed eccoci arrivati al dunque... Spero di avervi messo un po' di curiosità e che continuerete a leggere la storia. Come avrete capito dalle ultime righe, infatti, non è finita qui. Assolutamente no! Anzi, il bello deve ancora venire!
In questo capitolo ho fatto più un mix tra libro e film. Nella prima parte, con Aragorn che concede un’ora di tempo a Frodo per prendere la sua decisione, ho seguito la carta stampata, poi sono passata alla pellicola ispirandomi ad essa per la battaglia, inserendo Lurtz e la scena del ferimento di Boromir così com’è apparso sullo schermo. Nel finale sono tornata verso il libro, con i dialoghi relativi alla sepoltura che nella versione originale sono riferiti a Boromir, per poi concludere di nuovo con il film.
Volevo inoltre fare una precisazione: durante una sua riflessione, Boromir dice di non essere riuscito a ribellarsi al volere del padre che voleva che gli fosse portato l’Anello. Questo concetto è ripreso dalla versione estesa del film. Ne “Le due torri”, infatti, compare uno spezzone – un flashback di Faramir – in cui si scopre, appunto, che Denethor ha inviato Boromir a Gran Burrone proprio con l’intento di ottenere il Flagello di Isildur.
Bene, e dopo queste spiegazioni, vi lascio!
Grazie, grazie ed ancora grazie a chi legge ed alle mie care recensiste: didi_95, Fjorleif, Tielyannawen, e zebraapois91. Bacioni!

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Capitolo 14
*** Una nuova vita ***







Una nuova vita

 

Buio, il nero più assoluto, tutto intorno a me. Silenzio, caldo ed ovattato.
Poi, ad un tratto, una penetrante luce bianca mi ferì gli occhi, tanto da costringermi ad aprirli. Impiegai molto tempo a mettere a fuoco ciò che mi stava davanti: un viso senza età, coronato da una chioma e da una lunga barba, entrambe bianche come la neve. Due occhi, azzurri come il cielo di settembre e vispi come quelli di un bambino, ammiccarono.
"Mithrandir” mormorai, riconoscendo il volto dell’Istari. “Ma… allora… non sono morta…?"
"No. Hai ancora molto da fare. Non è ancora tempo di morire” sussurrò, con la sua voce profonda e roca.
"Dove sono…?" chiesi ancora, cercando di guardarmi intorno.
"Al sicuro. Ora riposati e pensa solo a recuperare le forze."
Mentre la mano dello stregone mi carezzava la guancia, richiusi lentamente le palpebre, cadendo di nuovo nell’oscurità.
Quando riaprii gli occhi, vidi una luce dorata sopra di me. Sbattei le palpebre più volte, fino a rendermi conto che non stavo sognando. Il soffitto della stanza in cui mi trovavo era fatto di foglie gialle come l’oro, sostenute dai grossi rami intrecciati di un albero. Mi appoggiai sui gomiti e mi guardai attorno: ero sdraiata in un morbido letto su un flet molto grande. Alla mia destra, su una poltrona di un bianco perlaceo, stava seduta una figura dai lunghi capelli biondi, che mi guardava sorridendo in silenzio.
"Dama Galadriel?!” dissi, incredula.
"Ben tornata, mia cara Tingilindë” rispose, con la sua profonda voce da contralto. “Sei nel mio palazzo di Caras Galadhon" aggiunse subito dopo, evidentemente prevedendo la mia domanda. “La barca, cui i tuoi compagni hanno affidato il tuo corpo, ti ha riportata qui."
"Ma… io dovrei essere morta… Le ferite erano così dolorose" balbettai, toccandomi il petto e sentendo un grosso bendaggio che mi attraversava il torace. "Perché sono ancora viva?"
"Perché, anche se oramai contaminato da lunghi anni di esilio, nelle tue vene scorre ancora sangue elfico” spiegò. “Tu sei l’ultima discendente di Fëanor. La tua parte Umana è perita, mentre la parte Elfica ha preso il sopravvento. Come ben sai, gli Elfi sono immortali."
"Ma anche gli Elfi, se feriti, possono morire" obiettai, cercando di capirci qualcosa. Era tutto molto confuso… Cosa voleva dire, dicendo che era perita la mia parte Umana? Che ero morta solo a metà?
"Tu non sei stata ferita. Ti sei sacrificata” riprese Galadriel, lentamente, “e questo sacrificio ha consentito alla tua metà Elfica, ormai latente in una remota parte del tuo corpo, di tornare alla sua antica gloria."
"Vuol dire che ora sono un’Elfa?!" chiesi, incredula.
"Non completamente” mi rispose, con un lieve sorriso, “sei una Mezzelfa, in cui ora la parte Elfica è dominante, mentre quella Umana è recessiva. Guarda tu stessa."
Ed, avvicinando il suo viso al mio, mi fece specchiare nei suoi occhi, limpidi come un lago d’alta montagna.
Non riuscii a trattenere un’esclamazione di stupore: ero ancora io ma, al contempo, non lo ero più. Forse solo mia madre avrebbe potuto riconoscermi. Il colore degli occhi e quello dei capelli era rimasto lo stesso, ma la fisionomia era completamente diversa. Il viso era divenuto più sottile, gli zigomi più alti, le orecchie a punta. Al collo non avevo più la “Stella di Fëanor”, ma una catena con una pietra bianca incastonata in oro. La riconobbi subito: era la collana di Boromir. Evidentemente doveva avermela donata in cambio della mia.
All’improvviso, ricordai quello che mi aveva detto mentre ero in fin di vita, tra le sue braccia. Anche lui mi amava e, finalmente, riusciva ad ammetterlo. Avrei fatto un salto di gioia, se non fossi stata così sconcertata dalla mia immagine.
Distolsi lo sguardo dagli occhi della Dama e guardai prima le mie mani – che ora erano lunghe ed affusolate – e poi il resto del mio corpo, che aveva perso in buona parte le rotondità che mi avevano sempre caratterizzato.
Rimasi in silenzio: non sapevo né cosa dire né cosa pensare. Galadriel si alzò e si avviò verso la porta della stanza, formata anch’essa da rami intrecciati come il soffitto.
"Non tormentarti, adesso” sussurrò. “Pensa solo a riposare. Sei ancora debole. Domani parleremo ancora" e, scivolando sul pavimento come se fosse stata un fantasma, mi lasciò da sola.
Rimasi a guardarmi le mani fino a che la stanchezza non ebbe di nuovo il sopravvento. Mi lasciai andare sul letto e dormii ancora saporitamente per diverse ore.
La terza volta, fui svegliata da un paio di mani che mi toccavano. Aprii gli occhi di soprassalto e, d’istinto, allungai le mani per cercare Hoskiart. Le mie dita si strinsero convulsamente sull’aria.
"Non avere paura, non ti farò del male” disse una voce calma e profonda. “Devo solo controllare le tue ferite."
Quelle parole mi rilassarono. Voltai la testa e scoprii che il mio guaritore era, nientemeno, Celeborn in persona.
Con abili movimenti, il Signore dei Galadhrim rimosse i tamponi di fibra vegetale che coprivano le mie piaghe. Con meraviglia, mi accorsi che erano guarite quasi del tutto.
"Da quanto tempo sono qui?" chiesi, incerta.
"Da tre giorni” mi rispose l’Elfo, “durante la maggior parte dei quali sei stata addormentata."
"Io… non ho sempre dormito” ricordai d’un tratto, “ho visto Gandalf…"
"Sì” confermò il mio guaritore. “Gwaihir lo ha portato qui, per essere curato, dopo il suo scontro con il Balrog. Prima di partire ha voluto vederti. Eri ritornata solo da poche ore."
Celeborn giudicò che le ferite non avevano più bisogno di medicazioni e mi disse che, se volevo, avrei potuto alzarmi e mangiare con loro. A quelle parole, il mio stomaco brontolò. Mi resi conto di avere una fame da lupo, così accettai il suo consiglio. Lui lasciò la stanza e mi mandò un’ancella, per aiutarmi a vestirmi ed a scendere a pranzo.
Grazie alle virtù del cibo elfico, riuscii in breve tempo a recuperare le forze. Dopo qualche giorno, fui di nuovo in grado di camminare senza l’aiuto di nessuno, tanto che riuscii perfino a scendere la lunga scalinata, anche se molto lentamente, ed a mettere di nuovo i piedi per terra.
Ovviamente, ero molto contenta di essere ancora viva, ma c’era qualcosa che non quadrava. Ero stata trasportata nella Terra di Mezzo perché avevo chiesto di poter salvare Boromir e, questo, l’avevo fatto. Quindi, perché non mi ero risvegliata a casa mia? Perché mi trovavo ancora in quel mondo? Avevo veramente ancora molto da fare, come aveva detto Gandalf la prima volta in cui avevo riaperto gli occhi?
Chiesi lumi a Galadriel e lei mi rispose che, se volevo, avrei potuto cercare le risposte alle mie domande nel suo specchio. Naturalmente accettai.
La Dama della Luce riempì il bacile d’argento con l’acqua della sua fontana e, dopo avermi raccomandato di non toccare la superficie liquida, si mise in piedi dall’altra parte della vasca.
All’inizio, potei vedere solo la mia nuova me stessa – che ancora faticavo a riconoscere – riflessa nella limpida acqua della sorgente. Poi, apparvero delle immagini.
Vidi un esercito di Uomini a cavallo diretti, in file compatte, verso una città dalle bianche torri. Sugli stendardi che svolazzavano al vento, campeggiava un cavallo bianco al galoppo su sfondo verde: lo stemma dei Rohirrim. L’immagine si avvicinò, in una specie di zoomata. Mi vidi, in groppa a Freccia, al fianco di un altro cavaliere che portava nascosto sotto il suo mantello una piccola figurina: Éowyn, vestita da uomo, con Merry. Quindi, ciò significava che avrei dovuto marciare con gli uomini del Mark verso Minas Tirith, al fianco di dama Éowyn.
L’immagine cambiò. Vidi il Monte Fato eruttare lava incandescente, ma la torre di Barad-Dûr era crollata al suolo: la visione si riferiva, quindi, ad un momento successivo alla distruzione dell’Anello del Potere. Mi vidi addentrarmi, a piedi, in quella landa desolata ed alzare al cielo la “Stella di Fëanor”. Mentre camminavo, la “Stella” emanava una fortissima luce e, dietro di me, la terra si risanava e tornava ad essere un giardino, come prima dell’arrivo di Sauron. Ecco quindi a cosa serviva il mio gioiello: a far tornare le cose a posto. D’istinto, portai la mano al collo e tastai la pietra di Boromir. Per compiere quell’ultima impresa, avrei dovuto quindi riavere il mio monile, che era ancora al collo del Gondoriano.
Forse perché i miei pensieri corsero a lui, l’immagine cambiò per la terza volta. Lo specchio mi mostrò la sala di un palazzo, piena di gente festante che mangiava e beveva. Riuscii a scorgere Aragorn e Gandalf che guardavano divertiti Merry e Pipino ballare su di un tavolo, applauditi da tutti. Legolas e Gimli erano seduti ad un altro desco, intenti a bere birra: davanti a loro c’erano già diversi boccali vuoti. Infine, la visione si focalizzò su Boromir. Era seduto su di una panca – con lo sguardo perso nel vuoto – mentre giocherellava distrattamente con la “Stella”, rigirandosela nella mano destra. Al suo fianco era seduta una donna e, dal suo abbigliamento, potei riconoscere in lei una concubina. Si appoggiava lascivamente al suo braccio sinistro, sussurrandogli parole all’orecchio. Rimasi ad osservare, immobile, mentre Boromir si voltava verso di lei e la guardava con uno strano sguardo, carico di desideri repressi. Lo vidi alzarsi in piedi, afferrarla per un polso e farla alzare a sua volta, attirandola contro di sé, parlandole ad un centimetro dalla bocca, sfiorandole il naso con il suo. Poi, lo vidi allontanarsi dalla sala tirandosela dietro, diretto evidentemente alla sua stanza.
In quel momento, una goccia cadde sulla superficie dell’acqua, facendo sparire la visione. Si trattava di una grossa lacrima che era scesa silenziosamente dai miei occhi fino alla punta del mio naso, staccandosi poi e finendo nel bacile.
Il mio cuore si spezzò. Ma come… mentre mi teneva stretta a sé, mentre ero in punto di morte, mi diceva di amarmi, e poi? Dopo neanche una settimana, si avventurava con la prima che gli capitava? Bel modo di amare era, quello…
"Il cuore degli Uomini è molto volubile" disse Galadriel, con la sua voce grave, facendomi alzare gli occhi. "So quello che hai visto, perché è anche nella mia mente."
"Ha detto di amarmi… Perché si comporta così?" le chiesi, la voce rotta dalle lacrime che riuscivo a trattenere a stento.
"Io non posso aiutarti in questo. Dovrai scoprirlo da sola” mi rispose, seria. “Ma” aggiunse, “ricordati che lo specchio mostra anche cose che devono ancora accadere, e che possono ancora essere cambiate."
Mi asciugai gli occhi e raddrizzai le spalle. Dovevo partire, ed anche alla svelta, se volevo unirmi alla cavalcata dei Rohirrim e cambiare l’ultima visione che avevo appena avuto. Se i miei calcoli erano esatti, in quel preciso momento Merry e Pipino stavano partecipando alla distruzione di Isengard in compagnia degli Ent, mentre gli altri erano impegnati nella battaglia al Fosso di Helm. Dovevo sbrigarmi, se volevo arrivare in tempo. L’unico problema era il fatto che ero a piedi.
"Non sei a piedi” disse Galadriel, rispondendo alle mie riflessioni. “Se non sbaglio, sei giunta qui con un cavallo."
"Freccia?!” chiesi, incredula, alzando lo sguardo su di lei. “Sì, l’ho vista anche nello specchio, ma… lei è a Gran Burrone! Non posso tornare lassù a prenderla."
"No, ma puoi chiamarla."
"Chiamarla?! E come potrà sentirmi, da quella distanza?" domandai, ancora più stupita, le sopracciglia inarcate.
"Dimentichi che qui, nella Terra di Mezzo, la tua cavalcatura è una Mearas" mi ricordò la Dama.
"Ma… allora… volete dirmi che, se la chiamo da qui, lei mi sentirà?" balbettai.
Galadriel annuì ed io, benché ancora incredula e stupefatta, cominciai a chiamare a gran voce la mia macchina – o meglio, la mia cavalla – correndo, al contempo, verso la scala che si arrampicava fino in cima all’albero su cui si trovava il palazzo di Celeborn.
"Freccia… Freccia… Freccia!" ripetevo, mentre salivo le scale di corsa con una grazia ed una leggerezza che non avevo mai avuto prima. Gli Elfi che mi incrociarono lungo la salita mi guardarono stupiti, alcuni sorridendo ed altri con disappunto, ma non badai a nessuno di loro. Mi premeva solamente di poter farmi sentire dalla mia amica.
"Freccia! Freccia!! FREEECCIAAAAAAAAAAAA!!!" gridai a squarciagola una volta arrivata in cima alla scala, tanto da far volare via, in un turbine di penne e piume, gli uccelli posati sui rami all’intorno.

 
* * *

 

A Gran Burrone, tutti gli stallieri furono costretti a recarsi nelle scuderie. Freccia d’Argento, la giumenta di Dama Tingilindë – che era rimasta affidata alle loro cure dopo la sua partenza – sembrava completamente impazzita. Scalciava la porta della sua stalla con tutta la forza che aveva, nitriva e si impennava spingendo via, con le zampe anteriori, chiunque provasse ad avvicinarsi per legarla. Ogni tentativo di calmarla fu vano perciò, alla fine, Amdir, il responsabile delle scuderie, fu costretto a recarsi da Elrond. Il signore di Imladris si trovava nella Stanza del Fuoco, intento nella lettura di un grosso tomo, in compagnia di Arwen che ricamava il vessillo per Aragorn.
"Sire Elrond, abbiamo un grave problema!” esordì Amdir, dopo un breve inchino. “La giumenta di Dama Tingilindë è come impazzita! Scalcia, morde… Non riusciamo a trattenerla!” continuò, concitato. “Ha quasi sfondato il suo cubicolo a suon di calci!"
Elrond alzò lo sguardo dal libro, fissando accigliato il suo interlocutore, ma non fece in tempo a dire nulla che sua figlia intervenne.
"È stata chiamata dalla sua amica e compagna" disse, alzando gli occhi dal ricamo. "Dama Tingilindë ha bisogno di lei, e lei deve raggiungerla. Lasciatela andare."
L’Elfo si inchinò ancora e tornò alle scuderie dove, per mezzo di un lungo bastone – dato che non voleva avvicinarsi a quella satanassa più del necessario – aprì la porta della stalla. Immediatamente, la giumenta dette in un lungo nitrito liberatorio e partì al galoppo ma, invece di lanciarsi subito verso il passo delle Montagne Nebbiose, si diresse alla Stanza del Fuoco. Elrond inarcò le sopracciglia quando la vide entrare, ma Arwen posò nuovamente il suo vessillo e si alzò.
"Fai buon viaggio Freccia, e salutami tanto Marian" le disse, carezzandole il collo. La giumenta annuì, strofinandole delicatamente il naso contro la guancia in segno di saluto. Poi, fece dietro front e questa volta sì, galoppò come un fulmine verso Lothlòrien.
Arwen si rimise seduta e suo padre la fissò.
"Come facevi a sapere che quella giumenta voleva andarsene?" le chiese, stupito.
"Perché ho sentito Marian che la chiamava" gli rispose semplicemente la figlia.
Il Mezzelfo inarcò ancora di più le sopracciglia, e lei si spiegò.
"Io e Dama Marian abbiamo molto in comune. Siamo entrambe Mezzelfe, ed entrambe siamo innamorate di un mortale. Questo, in un certo qual modo, ci unisce…"
Si interruppe, nel vedere la faccia scandalizzata del genitore. La sua espressione la fece scoppiare a ridere.
"Ma cosa avete capito, padre? Lei non è innamorata di Aragorn, ma del Capitano Boromir!"

 
* * *

 

Per quanto Freccia fosse veloce – ed, essendo una macchina, nel mio mondo arrivava a più di 150 chilometri orari – la distanza tra Gran Burrone e Lothlòrien era comunque troppo vasta perché potesse percorrerla in poche ore, senza contare che avrebbe dovuto superare anche il passo di Carahdras. Gli Elfi trascorsero il tempo dell’attesa preparandosi per la mia partenza. Hoskiart fu affilata da uno dei mastri fabbri di Caras Galadhon; le ancelle di Dama Galadriel mi confezionarono dei nuovi abiti maschili; Celeborn stesso controllò per un’ultima volta le mie ferite, decretandone la completa guarigione. Il mio vecchio fagotto fu riempito di viveri per il viaggio, soprattutto Lembas, e mi furono dati anche un paio di otri per trasportare l’acqua.
Io, invece, non riuscivo a stare ferma. Mi sentivo come un’anima in pena e, spesso, mi fermavo a guardare la mia immagine riflessa in una delle tante fontane della città. Al crepuscolo, proprio mentre ero intenta ad osservarmi attentamente la punta delle orecchie, Galadriel mi raggiunse.
"Non mi riconosco più" le dissi, senza neanche aver bisogno di voltarmi. Ora che tutti i miei sensi erano acuiti a livello elfico, la riconobbi dal fruscio del suo lungo abito e dal profumo di fiori che emanava.
"Sei ancora te stessa, uguale seppur diversa" mi disse, in tono calmo e profondo.
"Come farò a farmi riconoscere dai miei compagni? Persino la mia voce è cambiata" aggiunsi, voltandomi a guardarla.
"Porti un segno che loro conoscono, e che non è scomparso nella metamorfosi” rispose, carezzandomi dolcemente una guancia.
Ricordai il mio tatuaggio e, scoprendo la spalla destra, lo guardai riflesso nella fontana.
"Hai bisogno di un nuovo nome, di un nome elfico, adatto al tuo nuovo sembiante” riprese la Dama dei Galadhrim. “Ne prediligi qualcuno in particolare?"
Scossi la testa: non avevo mai pensato, in realtà, alla possibilità di dover cambiare nome.
"Allora te ne darò uno io: ti chiamerai Ennòna, che significa "nata di nuovo"" concluse l’Elfa.
"Non so perché, ma ho come l’impressione che avrò bisogno di travestirmi da uomo” dissi, pensierosa, tornando di nuovo, con la mente, alle visioni che avevo avuto nello specchio. “Qual è il suo l’equivalente maschile?"
"Ennòn."
Annuii, fissando nuovamente il mio nuovo volto nella conca della fontana che avevo davanti. Da allora in poi non sarei più stata Marian, ma Ennòna.
All’improvviso udii un nitrito in lontananza: Freccia stava arrivando! Ed, infatti, pochi minuti dopo, accompagnata dagli strilli di molti Elfi, la giumenta fece il suo ingresso a Caras Galadhon, completamente coperta di schiuma e fango, con foglie e rametti avvinghiati alla criniera ed alla lunga coda. Lanciò un nitrito acuto non appena mi vide, riconoscendomi all’istante benché fossi completamente diversa. Le corsi incontro, gettandole le braccia al collo.
"Oh, Freccia! Mi sei mancata!” esclamai, abbracciandola. “Sapessi quante ne ho passate in un paio di mesi… Ma sei ridotta da far paura! Vieni, fatti un bagno nello stagno, poi ti farò dare una bella strigliata!" aggiunsi, allontanandomi un poco per poterla osservare meglio.
La giumenta si strusciò a lungo con il muso contro i miei fianchi, lasciandosi guidare lungo le strade della città. Dopo un bel bagno ed una bella strigliata, che le fecero tornare il manto lucente, la condussi alle scuderie. L’avrei fatta riposare per la notte. Avremmo dovuto cavalcare molto prima di poter giungere ad Edoras e, visto che lei aveva già galoppato parecchio, era giusto farla dormire un po’. Saremmo partite il giorno successivo.
La mattina dopo, di buon ora, i Signori di Lothlòrien mi salutarono. Galadriel mi fece dono di un nuovo fodero da schiena per la mia spada e, questa volta, mi disse veramente addio, baciandomi sulla fronte.
Saltai in groppa a Freccia cavalcando a pelo, come solevano fare gli Elfi e, con un ultimo saluto al Bosco d’Oro, la spronai al galoppo.
Era il quattro di marzo, e così lasciai per sempre Lothlòrien.


Spazio autrice: Buongiorno! Visto, che cosa vi avevo detto? La storia è ben lungi dall’essere finita. Marian ha ancora molte cose da fare! Innanzi tutto, riconquistare il cuore dell’uomo che ama, e poi ha una nuova missione da portare a termine. Ma tutto questo lo vedremo più avanti.
Anche se è una scena trita e ritrita, forse usata in tutte le fic sul Signore degli Anelli, non ho potuto impedire a Marian di dare un’occhiatina nello specchio di Galadriel… se avrà fatto bene o male, lo giudicherete voi più avanti…
Ho cercato di seguire il libro in questo capitolo, attenendomi alle date riportate nel volume. Facendo i miei dovuti calcoli, ho cercato di inserire il risveglio di Marian facendolo combaciare con tutti gli altri avvenimenti. Gandalf viene portato a Lothlòrien, dopo il suo scontro con il Balrog, il 17 di febbraio, dove riprenderà le forze. Incontrerà Aragorn il 1° di marzo. Ho quindi immaginato che il 26 di febbraio, giorno del ritorno di Marian a Lothlòrien, fosse pronto per partire. Il 3 di marzo ha luogo sia la battaglia del Trombatorrione che la distruzione di Isengard. Nei prossimi capitoli farò invece più riferimento al film, come vedrete in seguito. Ho comunque cercato di mantenere una certa coerenza con le date.
Due ultime precisazioni: 1) la collana di Boromir, una pietra bianca incastonata in oro, è così descritta dal buon Tolkien nel libro; 2) il personaggio di Amdir, l’Elfo stalliere, è una mia invenzione. Ho scelto quel nome, perché il suo significato è “colui che vigila”.
Per concludere: vi lascio con un’immagine di Freccia d’Argento, creata con un simpaticissimo giochino di Dress Up sui cavalli, così come appare prima di lasciare Lothlòrien.
Bacioni!


 

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Capitolo 15
*** Edoras ***







Edoras

 

Cavalcai per due giorni ed una notte, fermandomi solo per mangiare pochi bocconi di Lembas e bere un sorso d’acqua una volta ogni tanto. Approfittai di alcune di quelle soste anche per dormire un poco: benché il mio lato elfico avesse preso il sopravvento, continuavo comunque a provare spesso stanchezza. Al crepuscolo del secondo giorno giunsi, finalmente, in vista di Edoras. I vessilli sventolavano al vento fresco della sera, svettando sulle mura della città e sulle guglie del Palazzo d’Oro di Meduseld. A giudicare dai falò che brillavano nelle piazze, i soldati dovevano già essere rientrati dalla battaglia al Fosso di Helm. Probabilmente, era già in corso la festa che avevo visto nello specchio di Galadriel: dovevo sbrigarmi, se volevo che Boromir mi vedesse prima di andarsene con la cortigiana. Spronai Freccia per un’ultima volta, pregandola di fare più in fretta che poteva. Nonostante fosse esausta per la lunga e spossante galoppata, la giumenta rispose alla mia richiesta, lanciandosi a rotta di collo verso le porte della città.
Solo due sentinelle rimanevano a guardia dei cancelli, ed entrambe erano ubriache fradice. Mi avvolsi strettamente nel mantello di Lòrien, cercando di passare inosservata. L’euforia per la battaglia vinta che ancora aleggiava nell’aria mi consentì di arrivare, indisturbata, fino ai piedi del palazzo di Re Théoden. Lì smontai e lasciai libera Freccia d’Argento di andarsi a riposare.
Salii le scale con trepidazione, chiedendomi come sarei potuta entrare nel palazzo senza destare troppi sospetti. La fortuna era dalla mia parte poiché, a quanto sembrava, anche i due soldati di posta alle porte di Meduseld si erano goduti la vittoria scolandosi diversi boccali di birra, ed ora cantavano a squarciagola, sotto il cielo che si andava riempiendo di stelle, tenendosi vicendevolmente sottobraccio per non cadere.
Scivolai all’interno e, subito, mi ritrovai nel caos più completo. Decine e decine di persone affollavano la vasta sala del trono che, per l’occasione, era stata arredata con tavoli di legno imbanditi di leccornie. Un gruppo di musici con flauti e zampogne suonava in un angolo, ma era quasi impossibile sentirli nella confusione generale.
Mi addentrai nella sala, dando di gomito più volte per farmi largo tra gli ospiti. Individuai quasi subito Merry e Pipino che ballavano su un tavolo, cantando a squarciagola una delle goliardiche canzoni della Contea. Aragorn e Gandalf erano poco lontano, ed entrambi ridevano e battevano le mani al ritmo della canzone, quasi come a voler cancellare la tensione accumulata durante la battaglia. Qualche tavolo più in là, Legolas e Gimli stavano dando fondo alle loro energie rimaste in una gara di bevute. Entrambi avevano già diversi boccali vuoti posanti davanti, ma mentre l’Elfo pareva perfettamente savio, il povero Nano aveva le guance paonazze e gli occhi strabici, vistosamente ubriaco.
Lasciandomi sfuggire un sorriso, mi inoltrai ancora di più tra la folla in cerca di Boromir, ma senza riuscire a trovarlo. Sapevo – avendolo visto nello specchio di Galadriel – che doveva essere seduto ad uno dei tavoli, ma era praticamente impossibile individuarlo in mezzo a quel mare di teste. Vidi Re Théoden seduto sul suo trono, con Éowyn ed Eomer in piedi al suo fianco, ma del Gondoriano nessuna traccia.
Stavo quasi per mettermi a gridare il suo nome, in preda all’ansia, quando finalmente lo individuai. Era seduto ad un tavolo laterale, lontano dalla mischia, con le braccia conserte e la fronte aggrottata. Mentre lo guardavo, lo vidi alzare distrattamente la mano destra, tirar fuori la “Stella” e mettersi a giocherellare con essa. Dovevo assolutamente sbrigarmi. Riuscii ad avanzare a fatica, ostacolata dalla gente che sembrava volermi passare tutta davanti proprio in quel preciso momento. Stavo per arrivare a portata delle sue orecchie, quando vidi la donna mettersi seduta accanto a lui. Si appoggiò lascivamente al suo braccio sinistro, facendogli scorrere la punta delle dita lungo la manica. Gli parlò e, grazie all’udito da Elfo che ora mi ritrovavo, la sua voce mi arrivò chiaramente.
"Mi è stato riferito che avete combattuto molto valorosamente al fianco del nostro Re, durante la battaglia del Trombatorrione" gli disse, la voce languida e carezzevole.
Lui rimase in silenzio, continuando a rigirarsi il mio gioiello tra le dita, ed allora lei insisté.
"Dovete essere veramente un uomo coraggioso."
Boromir grugnì in risposta, lo sguardo fisso nel vuoto. Dopo pochissimi istanti di attesa, la concubina tornò alla carica.
"Siete un Capitano di Gondor, non è vero?” gli chiese all’orecchio, sfiorandogli il petto con la mano. “Non avevo mai conosciuto un Capitano di Gondor, prima d’ora” continuò, lascivamente, strofinando il seno prosperoso contro il suo avambraccio. “Mi piacerebbe molto poter guardare da vicino il vostro corpo…"
A quel punto Boromir si voltò verso di lei, fissandola in quello strano modo che avevo già visto. Si alzò in piedi di scatto, la afferrò per il polso e la costrinse ad alzarsi a sua volta, attirandola a sé al punto da far sfiorare i loro nasi.
"Vuoi vedere da vicino il corpo del Capitano Generale di Gondor? Bene, ti accontenterò!" le disse con voce roca, sfiorandole le labbra con le sue. Dopodiché, si allontanò tirandosela dietro, uscendo dalla Sala del Trono passando da una porta laterale. Rimasi impotente a guardarlo mentre se ne andava inconsapevole della mia presenza, lasciandomi lì in mezzo a tutti quegli sconosciuti, sola come un gambo di sedano.
Quindi era stato tutto inutile. Non era servito a niente sfiancare la povera Freccia. Ero comunque arrivata tardi e la visione dello specchio si era svolta esattamente come preannunciato. Boromir aveva ceduto alle lusinghe della prima donna che gli era capitata sottomano, confermando ancora una volta quello che mi aveva detto in ben due occasioni: non era altro che un puttaniere.
Cercai di giustificarlo in qualche modo: in fondo era un uomo e gli uomini hanno bisogni fisici, a volte. Ma, subito dopo, pensai ad Aragorn. Anch’egli era un maschio, ma non si comportava come il Gondoriano. Lui era sempre stato fedele ad Arwen e per sempre lo sarebbe rimasto, rifiutando persino l’amore offertogli dalla povera Éowyn. Era inutile, non esistevano scuse per Boromir. Evidentemente, non mi amava come credevo io.
Con il cuore a pezzi, mi avvolsi nuovamente nel mantello elfico e, lentamente, riguadagnai l’uscita del Palazzo. Percorsi in silenzio le strade di Edoras, senza neanche sapere dove stessi andando. Dopo molto girovagare mi fermai, appoggiandomi con le spalle ad una delle case della città e lasciandomi scivolare a terra. Mi coprii gli occhi con le mani e piansi tutte le mie lacrime.
Era già notte inoltrata e stavo quasi per appisolarmi, con il viso appoggiato alle ginocchia che avevo stretto al petto, quando mi trovò Freccia d’Argento. La giumenta aveva gironzolato per un po’ per le strade della città: nessuno aveva badato a lei dato che, per i Rohirrim, i cavalli erano sacri. Aveva trovato le scuderie, dove aveva mangiato e bevuto a volontà, poi era tornata a cercarmi. Sentii il suo respiro caldo sulla testa ed alzai il viso, su cui oramai le lacrime si erano asciugate.
"Ciao Freccia…" le dissi, carezzandole il muso. Nel farlo, ricordai la prima visione che avevo avuto nello specchio: io che cavalcavo al fianco di Éowyn, al seguito dell’esercito del Mark. Tutto cominciava ad avere un senso. Per compiere quello che, a questo punto, ero destinata a fare, ovvero riportare la terra di Mordor al suo antico splendore grazie al potere della “Stella di Fëanor” – che si trovava ancora al collo di Boromir – dovevo assolutamente recuperare il mio gioiello. Di conseguenza, avrei dovuto seguire il Gondoriano ovunque andasse. A quel punto, dovevo trovare la Scudiera di Rohan e convincerla a darmi un’armatura. Mi sarei travestita anch’io da uomo, come lei. Éowyn, per combattere al fianco dell’Uomo che amava come un padre, per difendere la sua terra e per sentirsi finalmente libera da qualsiasi vincolo dovuto alla sua condizione di donna. Io, per recuperare il mio monile e portare a termine la mia ultima missione.
Mi alzai e mi diressi risolutamente verso il Palazzo di Meduseld, decisa a parlare con la nipote di Théoden. Fatti pochi passi, però, fui costretta a togliermi dalla strada in tutta fretta per non essere travolta da un cavallo al galoppo. Si trattava di Gandalf che, in groppa ad Ombromanto, portava Pipino a Minas Tirith. L’Hobbit aveva contravvenuto ai suoi ordini, guardando nel Palantir di Saruman rischiando la pazzia e, cosa ancor più grave, di svelare i loro piani al Nemico.
Aspettai fino a che il rumore degli zoccoli non si fu allontanato, poi tornai ad incamminarmi verso l’alto. Non appena arrivai ai piedi della scalinata che conduceva al palazzo fui, però, costretta a fermarmi di nuovo ed a nascondermi nell’ombra. Due uomini erano appena usciti dall’edificio, parlando piano. Li riconobbi immediatamente dalle loro voci: erano Aragorn e Boromir.
"Mi dispiace, Boromir, ma le nostre strade devono dividersi" disse il Ramingo, in tono serio. Mi parve perfino di cogliere un accenno di comando, nella sua voce.
"Perché Aragorn?” gli chiese il Gondoriano, in risposta. “Io ti ho giurato fedeltà! Ho giurato che ti avrei seguito ovunque!" Il tono della sua voce era accorato, molto diverso dal suo solito.
"Lo so, fratello mio. Ma ora devo percorrere una strada che è mia, e mia soltanto" replicò Aragorn.
"Anche Legolas e Gimli hanno espresso il desiderio di seguirti, ma tu non li hai rifiutati!" si risentì Boromir. Dal fruscio che le mie orecchie colsero, capii che doveva aver incrociato le braccia sul petto.
"È vero, e vorrei tanto che anche tu potessi accompagnarmi” ammise l’erede di Isildur, la voce più pacata. “Ma tu sei figlio del Sovrintendente e quindi, in qualche modo potresti apparire, agli occhi dei Morti, come un mio avversario. Non voglio che ti accada nulla di male” gli spiegò, con calma. “E poi” riprese, “a Minas Tirith hanno bisogno di te! Ora più che mai, devi raggiungere la tua città e riprendere il comando del tuo esercito!"
Boromir aprì la bocca e prese fiato per ribattere, ma Aragorn lo interruppe, quasi prevedendo la rimostranza dell’altro.
"So che Faramir è un ottimo Comandante, ed egli è un uomo molto valoroso, proprio come te, perfettamente in grado di adempiere i suoi compiti” gli disse, “ma sono sicuro che anche lui, adesso, desidera avere il suo amato fratello al suo fianco, per condividere insieme la vittoria… o la sconfitta."
Il Gondoriano rimase silenzioso per un attimo, riflettendo profondamente.
"Hai ragione, amico mio” rispose infine, con un sospiro. “Marcerò verso la mia città al fianco di Re Théoden, anche se una parte del mio spirito rimarrà con te."
"Se i Valar lo vorranno, ci rivedremo presto a Minas Tirith" concluse Aragorn.
Mi mossi cautamente, per sbirciare di là dal muro dietro al quale mi ero nascosta, e vidi i due uomini abbracciarsi fraternamente. Entrambi alti e fieri, entrambi risoluti: quella visione mi fece commuovere. Poi, rientrarono insieme nel palazzo, lasciandomi via libera. Attesi qualche minuto, per evitare di incontrarli casualmente all’interno, poi ripresi a salire la scalinata, avvolgendomi ancor più strettamente nel mantello elfico, calandomi il cappuccio fin quasi sugli occhi.
Varcai facilmente l’ingresso, visto che le guardie si erano addormentate ed, una volta all’interno, drizzai le orecchie per captare la voce di Éowyn e capire da quale parte andare.
Ben presto, udii una voce femminile parlare con Aragorn. Tornando con la memoria alla storia scritta da Tolkien capii che doveva trattarsi della donna che cercavo. Attesi che il Dunedain si allontanasse poi la raggiunsi, arrivando alla sua stanza appena prima che lei chiudesse l’uscio.
"Dama Éowyn?" la chiamai sottovoce, fermando la porta con una mano per impedirle di serrarla.
"Sì…?" rispose lei, titubante, guardandomi in un misto di sorpresa e sospetto. "Come fate a sapere il mio nome?" mi chiese poi, non appena ebbe superato il primo attimo di smarrimento, aggrottando le sopracciglia. Per tutta risposta abbassai il cappuccio, mostrandole i miei lineamenti affilati e le orecchie a punta. Lei soffocò un’esclamazione di meraviglia.
"Oh… Ma allora voi siete… l’Elfa promessa a Sire Aragorn?" chiese con la voce che tremava, la delusione per il suo amore respinto ancora forte dentro di lei.
"No, mia signora, anche se appartengo alla sua stessa stirpe” le risposi, enigmatica. “Il mio nome è Ennòna e sono qui per chiedervi un favore" continuai, andando dritta al punto.
"Parlate" mi rispose la giovane Scudiera, diretta, celando nuovamente i suoi sentimenti amareggiati.
"Vi chiedo di poter prendere in prestito una delle vostre armature, e di marciare con voi fino alle mura di Minas Tirith."
"Perché lo chiedete a me e non al Re?" mi chiese, piena di sospetto ma al contempo senza riuscire a celare del tutto la sua curiosità.
"Perché so già cosa mi risponderebbe” le risposi, sapendo quale argomento usare per convincerla. “Che sono una donna, e che le donne non debbono intromettersi in affari da uomini."
Le sue labbra si strinsero mentre annuiva gravemente. Mosse qualche passo inquieto nella stanza prima di riprendere a parlare.
"Non ho alcuna difficoltà a darvi quel che mi chiedete, poiché seguire l’esercito come un cavaliere è quello che anch’io intendo fare!” disse rabbiosamente. “Sono stanca di rimanere prigioniera in questo palazzo, ingabbiata dai miei doveri di donna! Voglio essere libera e combattere per il mio popolo, al fianco del mio popolo!” ammise, trovando il coraggio di confidarsi con una sconosciuta. “Seguitemi, vi condurrò alle armerie: troveremo qualcosa di adatto a voi!"
Fece per incamminarsi, poi ebbe come un ripensamento.
"E voi? Perché volete combattere con noi? Voi siete un’Elfa, e gli Elfi non si sono mai preoccupati di quello che accade a Rohan" mi chiese, voltandosi a guardarmi, un nuovo sospetto malcelato nello sguardo.
"La mia è una lunga storia e quando questa guerra sarà finita, se ne avremo l’occasione, ve la racconterò” le risposi, cercando di stuzzicare la sua curiosità senza rivelare troppo di me. “Per ora, posso solo dirvi che ho una missione da portare a termine e che, volente o nolente, solo legata ad un Uomo che si trova al momento presso la corte di Re Théoden, ma che non è un Rohirrim."
Visto che solo due persone rispondevano a queste caratteristiche, e che ne avevo già esclusa una all’inizio, per lei non fu difficile indovinare.
"State parlando del Capitano Generale di Gondor?"
Risposi annuendo semplicemente. Lei ripeté il gesto a sua volta, poi riprese il cammino verso le armerie.
Sgusciammo silenziose nell’oscurità del palazzo. Ormai la maggior parte della gente era andata a dormire: molti erano ubriachi e russavano come tromboni, abbandonati nei corridoi di Meduseld. Una volta all’esterno, Éowyn mi condusse verso un basso edificio in legno posto dietro al Palazzo d’Oro. Si guardò furtivamente intorno, poi vi scivolò dentro, facendomi cenno di seguirla.
"Bene" disse, quando fu sicura che fossimo sole, prendendo una torcia dalla parete e riprendendo a camminare verso il centro dell’enorme struttura. "Di cosa avete bisogno?"
"Mi occorre tutto, a parte la spada" le risposi, estraendo Hoskiart dal fodero che avevo sulla schiena. "Ho bisogno però di una custodia per poterla cingere al fianco. Boromir non è a conoscenza della mia presenza qui e, per il momento, non voglio nemmeno che lo venga a sapere” le spiegai velocemente. “Questo mio vezzo di portarla sulle spalle, tuttavia, è ben conosciuto dal Capitano.”
"Vi darò quello che mi chiedete" concesse, mentre già rovistava all’interno di un vecchio baule, tirandone fuori un logoro fodero di cuoio. “Vi occorrerà anche una lancia… ed uno scudo" continuò, e mentre parlava avanzava all’interno dell’edificio, prendendo ora un oggetto, ora l’altro, fino a che non ebbi tra le braccia tutto l’occorrente.
"Ed ora veniamo all’ultimo problema” proruppe infine, seria. “Vi serve un cavallo."
Scossi la testa, in risposta alle sue parole.
"No, mia signora. Ho già una giumenta e, se le mie orecchie non mi ingannano, credo che in questo momento si trovi proprio qui fuori.” Ed, infatti, dopo aver spinto il portone con il muso, Freccia entrò all’interno dell’edificio, affiancandomi.
Éowyn rimase ad ammirarla mentre avanzava verso di noi.
"Che splendido animale…" mormorò, ammaliata, prima di riscuotersi e riprendere il tono pratico di poco prima. "Abbiamo bisogno di un’armatura anche per lei. Seguitemi!"
Dopo aver bardato Freccia d’Argento, e dopo avermi mostrato come indossare i vari pezzi della mia armatura, Éowyn si congedò.
"Il Re mio zio darà ordine di adunata all’alba. Vi consiglio di prepararvi subito, Ennòna, se vorrete essere pronta per la partenza.”  Mi fissò per un attimo, poi aggiunse di slancio. “Vi consiglio anche di cambiare il vostro nome. Forse per gli Elfi è una cosa naturale, ma qui a Rohan non ci sono donne soldato."
"Sì, lo so. Sarò Ennòn, l’equivalente maschile del mio nome"
"Ed io sarò Dernhelm. Così dovrete chiamarmi, se vorrete cavalcare con me al momento della partenza” disse, con un mezzo sorriso.
"Molto volentieri, mia signora” le risposi, chinando lievemente il capo. “Vi chiedo soltanto un altro favore. Non parlate a nessuno di me. Voi non mi conoscete" aggiunsi, in tono di urgenza. Non volevo assolutamente che Boromir sapesse che ero ancora viva, non dopo averlo visto andar via con quella cortigiana.
Lei annuì, lasciandomi sola con la mia giumenta che tentava, inutilmente, di scrollarsi dalla testa la placca metallica che le proteggeva il muso.
“Devi avere pazienza, amica mia" le dissi con un sospiro, incamminandomi verso la parte bassa della città. "So che deve essere scomoda, ma dobbiamo proteggerci, se vogliamo sopravvivere alla battaglia.” Mi voltai a guardarla attentamente: nonostante fosse così agghindata, mi parve ancora troppo riconoscibile. “Dovrò infangarti un po’…” aggiunsi. “Merry ti conosce fin troppo bene e non vorrei che ti riconoscesse, una volta che saremo al suo fianco."
Freccia nitrì risentita, scrollando il muso: poteva anche accettare l’armatura ma, di fango, proprio non ne voleva sentir parlare. Provai ad insistere, ma quando tentai di buttargliene contro una manciata lei mi mostrò prima i denti poi mi volse le natiche, alzò una zampa posteriore ed agitò lo zoccolo ferrato con fare minaccioso.
"Va bene, va bene… Niente fango!” le concessi, con un altro sospiro. “In fondo, saranno tutti così indaffarati che credo nessuno presterà attenzione a noi. Che Dio ce la mandi buona… e senza vento!" conclusi, congiungendo le mani ed alzando gli occhi al cielo.
Era il sei di Marzo, e così diventai una Rohirrim.

Spazio autrice: Salve a tutti. In questo capitolo ho seguito principalmente la trama del film, facendo tornare l’esercito Rohirrim ad Edoras prima di partire per Dunclivo, mentre nel libro Théoden ed i suoi lo raggiungono direttamente quando lasciano il Fosso di Helm. Continuerò principalmente a seguire la pellicola, se non per qualche piccolo riferimento alla carta stampata, ed è per questo che ho inserito il dialogo tra Aragorn e Boromir. Nel film, il ramingo, Legolas e Gimli partono per il sentiero dei morti proprio da Dunclivo, accompagnando l’esercito fino a lì; nel libro, invece, Aragorn lascia prima i Rohirrim, e con lui andranno anche i Raminghi del nord. Ai fini della mia storia, però, Boromir deve andare a Gondor, e così mi sono inventata questa storia dei morti che potrebbero vederlo come rivale di Aragorn. Spero che la cosa non sia troppo forzata o poco verosimile.
Grazie, come sempre, a tutti voi che leggete e recensite!
Bacioni!

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Capitolo 16
*** In marcia ***







In marcia

 

Come Éowyn aveva previsto, non appena sorse il sole – rosso e malaticcio, in parte coperto da una nuvola di ceneri e lapilli proveniente da Mordor – uno squillo di corni risuonò potente nell’aria. I Comandanti dell’esercito chiamavano i Cavalieri del Mark all’adunata.
Avevo trascorso il resto della notte ad indossare l’armatura, sbagliando più volte nonostante le indicazioni della nipote del Re. Quando risuonò il segnale avevo appena terminato. Indossai l’elmo e salii in groppa a Freccia d’Argento, dirigendomi verso le porte della città ed accodandomi alla lunga fila di soldati già pronti per partire.
Da lontano, vidi Théoden in sella al suo bianco cavallo, Nevecrino. Al suo fianco si erano schierati i suoi nipoti – Éowyn stessa vestita come un cavaliere – e ciò che restava della Compagnia dell’Anello. Il povero Gimli era costretto a stare in sella dietro a Legolas e, benché fossi piuttosto distante, con il mio nuovo udito finissimo riuscii benissimo a sentirlo brontolare, un po’ in Lingua Corrente ed un po’ in Nanesco, maledicendo la sua scomoda posizione.
Nonostante i cavalieri fossero più di cinquemila, nel complesso l’operazione di adunata fu piuttosto veloce, segno che i soldati erano ben addestrati. A metà mattinata, la lunga colonna di guerrieri si incamminò in direzione del forte di Dunclivo, una fortezza – costruita ai tempi di Eorl – posta in mezzo ad alte montagne da cui partiva, tra l’altro, anche il Sentiero dei Morti. Per il momento, quindi, Aragorn ci avrebbe accompagnato ancora.
La marcia durò per tutto il pomeriggio. Non appena calarono le tenebre – in maniera così repentina da cogliermi alla sprovvista – il Re dette ordine di accamparci. Cercando di non dare troppo nell’occhio, mi sistemai vicino al padiglione reale perché, nonostante tutto, non riuscivo a togliermi Boromir dalla testa. L’amore che ancora provavo nei suoi confronti era troppo potente. Il solo pensiero che lui, la notte prima, si era consolato tra le braccia di un’altra mi faceva star male ma, allo stesso tempo, non riuscivo ad odiarlo. Portavo al collo la sua pietra bianca ed ogni volta che quella – a causa di un movimento più brusco del solito – mi rimbalzava sul petto, la mia mente correva a lui ed a tutti quei piccoli momenti di tenerezza che c’erano stati tra noi, durante il viaggio da Rivendell a Lothlòrien. Allora stringevo il suo gioiello tra le mani e, con il ricordo, tornavo alle ultime parole che mi aveva detto, prima che una parte di me morisse tra le sue braccia. Non mi ero pentita di essermi sacrificata per lui ed, anzi, lo avrei fatto nuovamente se fosse stato necessario, nonostante la delusione cocente che ancora mi assillava.
Nel corso della sera lo vidi fare la spola tra la sua tenda e quella del Re, in compagnia degli altri compagni. Il suo sguardo non si volse mai nella mia direzione: per lui, ero solo uno su mille, un soldato come tanti altri nel mucchio.
Quella notte non riuscii a dormire. Oltre al fatto che l’armatura era estremamente scomoda, per me che non ero abituata ad indossarla, il mio pensiero correva spesso anche al fatto che la guerra si stava avvicinando e che temevo di non essere forte abbastanza per affrontarla. Nonostante il grado di abilità che avevo raggiunto, sarei stata capace di sopravvivere alla Battaglia dei Campi del Pelennor?
Stava albeggiando, e mi ero appena appisolata, quando arrivò l’ordine di partenza. Mi arrampicai a fatica sulla sella di Freccia, con gli occhi cisposi per la mancanza di sonno, invidiando quasi Boromir che era avvezzo alle marce e sembrava fresco come una rosa. Anche Éowyn era alta e fiera sul suo cavallo, mentre io mi sentivo uno straccio! Nonostante il mio lato elfico avesse preso il sopravvento, alcune delle debolezze tipiche degli uomini erano rimaste: la stanchezza e la fame prime fra tutte. Per mia fortuna, la marcia procedette al passo per tutto il giorno. L’armatura era talmente rigida da reggersi in piedi da sola così, esausta, riuscii a sonnecchiare da seduta, cullata dalla lenta andatura della giumenta che era intelligente abbastanza da mantenere il passo degli altri cavalli.
Arrivammo a Dunclivo tre giorni dopo la nostra partenza da Edoras. Ero distrutta, con la schiena a pezzi a causa del peso dell’armatura e con i calli al sedere – come una scimmia – a suon di stare in sella. La vista di cui si godeva da lassù, però, mi ripagò abbondantemente del sacrificio.
Il forte si trovava a metà di un alto costone di roccia, in una vallata talmente stretta che il sole non riusciva ad illuminarne il fondo. Era possibile accedervi solo per mezzo di un lungo sentiero, intagliato nella montagna, che saliva in stretti tornanti. Ad ogni curva si trovava una statua di pietra raffigurante un uomo seduto. A giudicare dal loro aspetto logoro ed antico, giunsi alla conclusione che dovevano essere molto, molto vecchie.
Il custode del forte accolse il Re con tutti gli onori. Il sovrano, però, non volle sistemarsi all’interno. Preferì restare fuori, nel suo padiglione, per rimanere in compagnia dei suoi soldati.
Ancora una volta, mi sistemai nelle vicinanze della tenda reale. Da lì, potei vedere i miei vecchi amici raggiungere Théoden ed i suoi nipoti, per cenare insieme.
Stavo tentando di rendere il più comodo possibile il mio giaciglio di terra e sassi, quando la relativa pace dell’accampamento fu turbata dall’arrivo di un messaggero di Gondor. L’uomo fu subito condotto dal Re, che lo accolse immediatamente. Piena di curiosità, nonostante conoscessi bene la vicenda, drizzai le orecchie ed ascoltai la loro conversazione.
Il suo nome era Hirgon, ed era partito da Minas Tirith subito dopo l’arrivo di Gandalf in città. Portava con sé la Freccia Rossa. Ciò significava che Gondor chiedeva l’aiuto di Rohan. Il Re lo tranquillizzò, affermando che avremmo marciato più in fretta possibile. Poi, invitò il messaggero a cenare ed a riposarsi.
Una volta terminato il pasto, Hirgon lasciò la tenda reale, seguito da Boromir. Prima di partire per la sua missione, il messaggero era stato avvisato da Gandalf che il suo Capitano Generale si trovava alla corte del re del Mark ed aveva quindi deciso di portare con sé l’armatura del suo superiore. La consegnò al figlio del Sovrintendente che abbracciò il suo compatriota, mormorandogli parole di incoraggiamento in Gondoriano, una lingua che non avevo mai sentito prima ma che, forse perché parlata dall’uomo che amavo, suonò incredibilmente dolce alle mie orecchie. Rimasi a fissare talmente a lungo i due Uomini che parlavano che pure Boromir si accorse di essere osservato. Con un moto di sorpresa si voltò verso di me, fissandomi interrogativamente, con le sopracciglia aggrottate. Distolsi subito lo sguardo, sentendomi avvampare sotto l’elmo. Quando trovai il coraggio di girarmi nuovamente dalla sua parte l’Uomo aveva salutato il suo concittadino ed aveva raggiunto Aragorn, Legolas e Gimli, i quali erano pronti per percorrere il Sentiero dei Morti. I tre salutarono il loro compagno con lunghi abbracci, rinnovando l’augurio di un futuro incontro a Minas Tirith.
Non appena vidi che il Gondoriano puntava verso di me, diretto alla sua tenda, mi finsi affaccendata ad affilare la punta della lancia, nella speranza che mi ignorasse. Con mio grande disappunto, invece, si fermò, fissandomi intensamente. Con la coda dell’occhio vedevo la punta dei suoi stivali coperti di fango, ed il mio udito acuto mi permetteva di sentire il rumore del suo respiro calmo e, persino, il battito regolare e forte del suo cuore. Mi sentii nuovamente avvampare mentre il mio ritmo cardiaco accelerava freneticamente. Non sapevo se voltarmi e chiedergli cosa volesse, oppure aspettare semplicemente che se ne andasse. Poiché non accennava a muoversi, per non apparire come un soldato maleducato decisi per la prima opzione.
"Desiderate qualcosa, mio Capitano?" gli chiesi, girandomi lentamente dalla sua parte, tentando di abbassare il più possibile il tono della voce.
"No” mi rispose, con un sorriso appena accennato. “Ti stavo solo osservando, come tu hai fatto con me, prima."
Il rossore mi invase le guance per la terza volta, per fortuna celato in parte dall’elmo.
"Mi dispiace, signore” risposi, balbettando, “non volevo essere importuno. E’ solo che…" mi interruppi, in cerca di una scusa plausibile. "Solo che, di questi tempi, è raro vedere due uomini che si abbracciano così fraternamente…" conclusi, infine, sperando di aver soddisfatto la sua curiosità.
Fece un sorriso sghembo, mettendosi seduto accanto a me.
"Quell’uomo è come un fratello per me” mi confidò, gli occhi perduti nel ricordo. “Abbiamo la stessa età, siamo cresciuti insieme, e ne abbiamo combinate di cotte e di crude, quando eravamo bambini." Il suo tono si incupì, così come il suo sguardo. "E’ dura pensare che, forse, domani non ci saremo più."
"Non dite così. C’è ancora speranza…" mormorai, la voce che tremava.
"Non sei il primo che mi dice una cosa del genere…" sospirò, "ma io non riesco a vederla…” Si interruppe, trattenendo a stento un singhiozzo. Serrò le labbra, come per darsi un contegno, poi riprese. “Ora meno che mai. Da quando ho perduto per sempre l’unica persona per la quale avrei dato la vita, la speranza è svanita del tutto, per me."
Mi sentii mancare: si stava forse riferendo a me?
"Avete perso vostra moglie?" gli chiesi, titubante, trattenendo il fiato.
Lui scosse la testa.
"Non era mia moglie… Ma era l’unica donna cui avrei mai voluto chiedere di diventarlo…” La sua voce tremolò, smorzandosi. “Marian…” mormorò in un soffio, “oh, Valar, mi manca così tanto!" esalò infine, coprendosi gli occhi con la mano, come a trattenere il pianto.
All’improvviso, fui presa dal desiderio di gettare via l’elmo e rivelargli la mia identità ma, dopo una veloce riflessione, rinunciai. Se fossi caduta in battaglia? A che scopo rivelargli che ero ancora viva, se poi fossi morta sul serio? E comunque, rimaneva ancora il fatto che, per quanto paresse disperato, non aveva esitato a trovare consolazione nel letto di una cortigiana. Strinsi quindi i pugni per resistere alla tentazione e, dopo avergli dato una piccola pacca consolatoria sul braccio, ripresi ad affilare la lancia. Capì che non avevo più voglia di starlo ad ascoltare, così si alzò di nuovo.
"Scusami se ti ho importunato con i miei dolori, cavaliere” disse, cupo, riprendendo il suo usuale contegno. “Ognuno di noi ne ha già abbastanza per proprio conto."
"Nessun problema, Capitano" gli risposi, liquidandolo con un gesto della mano.
"Posso sapere il tuo nome?" mi chiese, con sincera curiosità.
Smisi di nuovo di armeggiare con la selce, alzando gli occhi su di lui.
"Mi chiamo Ennòn."
"Io sono Boromir. Sarei lieto di averti nella mia eored, quando cavalcheremo verso la mia città!"
"Sarà un onore per me, Capitano Boromir!" gli risposi, alzandomi in piedi e porgendogli la mano. Lui me la strinse, poi si diresse alla sua tenda.
Dopo quella rivelazione, avevo perso del tutto il sonno. Provai a stendermi comunque ma, nella mente, continuavano a mulinarmi le sue parole. Avrebbe voluto chiedermi di diventare sua moglie! Ma, allora, perché aveva tradito la mia memoria con quella concubina? "Gli uomini sono tutti uguali…" pensai cupamente, "per loro esiste anche il sesso senza amore mentre, per noi donne, le due cose vanno di pari passo…"
Contrariamente a quanto temevo, nonostante il turbamento interiore mi addormentai profondamente. La mattina dopo, fui svegliata da Freccia che mi faceva il solletico sul mento con il muso. Mi misi lentamente a sedere, rendendomi conto che l’accampamento era in subbuglio. Tutti si stavano già preparando per la partenza, nonostante fosse ancora buio pesto. Alzai gli occhi alla piccola striscia di cielo visibile ed, allora, ricordai che quello sarebbe stato "il giorno senza alba". La nube proveniente da Mordor aveva oscurato tutto il cielo e, per quel giorno, non avremmo mai visto la luce del sole.
Raccolsi in fretta le mie poche cose, allacciai il fodero di Hoskiart in vita, salii in sella e misi la lancia in resta, pronta per marciare verso Minas Tirith insieme al resto dell’esercito di Rohan. Disposti perfettamente in fila, i cavalieri fecero ala al passaggio di Théoden, seguito da Éomer e da Boromir. Il Capitano Generale aveva indossato la sua armatura di Gondor, di lucido acciaio, con l’albero bianco – stemma degli antichi Re e della città – inciso a sbalzo sul pettorale. Con l’elmo calato sulla fronte era quasi irriconoscibile. Era dritto e fiero come un Dio, il corno e la spada che gli pendevano al fianco. Quando passò davanti a me parve riconoscermi, poiché mi rivolse un breve cenno del capo, a cui risposi drizzandomi ancor di più sulla groppa di Freccia d’Argento.
Non appena il terzetto di Uomini ebbe raggiunto la testa del gruppo, i cavalieri si disposero in fila per sei e presero il passo scandito da Nevecrino.
Mi ritrovai dal lato destro di una delle file. Alla mia sinistra avevo un cavaliere dalla corporatura minuta come la mia, con lunghi capelli biondi, lo sguardo fiero ed una gobba sospetta sotto il mantello. Sorrisi mio malgrado.
"Buongiorno Dernhelm" dissi, chinando lievemente il capo nella sua direzione.
"Buongiorno a voi, Ennòn" mi rispose, ripetendo il gesto.
Quelle furono le uniche parole che ci scambiammo durante il resto della giornata. La tensione era palpabile e nessuno aveva voglia di parlare.
La nostra marcia durò per diversi giorni, impossibili da distinguere l’uno dall’altro. A volte Éowyn cavalcava al mio fianco ma, più spesso, la Scudiera di Rohan preferiva seguire da vicino suo zio e suo fratello. In quelle occasioni, allora, mi accodavo a Boromir. Quando, però, lo vedevo voltarsi nella mia direzione, chiedevo a Freccia di rallentare un poco l’andatura. Non mi sentivo in grado di sostenere una nuova conversazione con lui.
L’ultima sera, l’ordine di fermata arrivò parecchio tempo dopo quello che doveva essere stato il tramonto. Era diventato impossibile capire che ora fosse, non senza il sole a darci un punto di riferimento. Il mio stomaco, però, diceva che l’ora di cena era già passata da un bel po’.
Io ed Éowyn sistemammo i nostri giacigli l’uno di fianco all’altro. Per la prima volta, vidi Merry fare capolino da sotto il mantello della dama. Anche lui era vestito come un Rohirrim, con un giustacuore di cuoio ed un piccolo elmo. Mi guardò con soggezione, temendo che potessi andare a dire al Re che non aveva obbedito ai suoi ordini di rimanere al sicuro ad Edoras.
"Non temere Messer Hobbit, nessuno ti tradirà" gli dissi, tentando di tranquillizzarlo.
Mi rispose con un sorriso tirato, poi si sistemò tra di noi e, stanco com’era, si addormentò poco dopo.
Durante la notte, ricevemmo l’ordine di metterci di nuovo in marcia. L’aria era calda e pesante ed, in lontananza, si udivano rullare dei tamburi. Per tutto l’accampamento si sparse la notizia che gli Uomini Selvaggi ci avrebbero guidato lungo l’antica strada che percorreva la Valle Cavapietra, per permetterci di aggirare un manipolo di orchetti che si trovavano tra noi e le mura che circondavano i Campi del Pelennor. Non c’era tempo da perdere, perché la battaglia era già iniziata e Minas Tirith era in fiamme. Mentre mi accingevo a risalire in sella, vidi Boromir guardare in direzione della sua città, con sguardo preoccupato, come se riuscisse a vederla anche da quella distanza. Lo udii mormorare il nome di suo fratello, seguito da quella che aveva tutta l’aria di essere una preghiera. Mi unii mentalmente a lui, recitando tra me e me le poche orazioni che riuscivo a ricordare.
La scorciatoia lungo l’antica strada ci consentì di aggirare il nemico e di arrivare, nel giro di poche ore, in vista delle mura del Pelennor. Alcune vedette degli Uomini Selvaggi riferirono che vari gruppi di orchi erano intenti a distruggerle, senza curarsi del possibile arrivo di un nemico alle loro spalle. In questo modo fu facile sorprenderli e sbaragliarli. L’avanguardia dell’esercito riuscì a liberarsene in pochi minuti, senza subire perdite.
Una volta all’interno della cinta muraria il vento cambiò, portando l’odore del mare da sud. Mi voltai in quella direzione: laggiù, le nubi si stavano diradando ed il sole faceva capolino, come un presagio di speranza.
L’esercito dei Rohirrim si schierò alle spalle del suo Re e del suo vessillo. Théoden enunciò a gran voce parole di incoraggiamento che accalorarono gli animi di tutti i presenti, poi soffiò nel corno del suo vessillifero tanto forte da frantumarlo.
Non appena l’eco del suo suono si fu spenta, Boromir soffiò nel corno di Gondor, infondendo fiducia e speranza in chi lo ascoltò, poi si lanciò in avanti, da solo.
"Per Gooooondooooor!" gridò, prima di spronare il suo stallone.
Théoden lo imitò.
"Avanti Eorlingas!" urlò, sfoderando la spada ed, in risposta alle sue parole, ci lanciammo tutti in avanti al galoppo, come un sol uomo.
Era il quindici di Marzo, e così i Rohirrim scesero in battaglia.

Spazio autrice: Salve a tutti! Anche questo capitolo è un po', diciamo così, transitorio forse, in attesa di avvenimenti più succosi, ma spero che vi sia piaciuto comunque, anche se a me non convince affatto ed è stato, per di più, il più difficile da correggere e da rendere più scorrevole. Qui, sono tornata a mischiare libro e film. In particolare, ho ripreso dalla carta stampata la descrizione del forte di Dunclivo, la presenza degli Uomini Selvaggi e della loro scorciatoia ed il particolare della rottura del corno da parte di Théoden, nelle ultime righe.
Grazie, grazie ed ancora grazie di cuore a tutti/tutte!
Bacioni!

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Capitolo 17
*** La battaglia ***






La battaglia

 

Per un breve tratto Éowyn cavalcò al mio fianco, con Merry che brandiva la spada dietro di lei, agitandola al vento. Poi, la Scudiera di Rohan seguì Nevecrino nella sua galoppata, mentre io mi diressi verso Boromir che continuava a gridare, spronando il suo cavallo alla massima andatura.
L’esercito di Orchi che circondava la città si faceva sempre più vicino. Riuscii a rimirare la bianca torre di Echtelion solo per pochi istanti, poi Freccia si lanciò come una forsennata nella mischia e non potei fare altro che cominciare a combattere.
Infilzai la lancia nella schiena del primo Orco che mi capitò a tiro, senza fare il minimo tentativo di recuperarla. Non ero abituata ad usarla e per me costituiva soltanto un peso inutile ed un impaccio. Estrassi Hoskiart dal fodero e cominciai a mulinarla a destra ed a sinistra, tagliando teste e menando fendenti. La mia era una spada della gente di Eorl ed, infatti, era maneggevolissima da usare a cavallo. Sembrava quasi che anche essa stessa ricordasse le vecchie battaglie affrontate, muovendosi quasi di sua spontanea volontà nella mia mano.
L’impeto della corsa si arrestò pian piano mentre mi addentravo nelle file avversarie. Avevo ormai perso di vista Boromir o qualsiasi altro dei Rohirrim: c’erano solo nemici intorno a me. Nonostante gli Orchi fossero in superiorità numerica, la loro organizzazione tattica era pressoché assente e, spesso, sembravano andare allo sbaraglio, come se non avessero una guida precisa. Quando si resero conto che l’esercito di Rohan stava cavalcando verso Minas Tirith, in parecchi, invece di combattere, si dettero alla fuga. Quelli che rimasero si lanciarono a testa bassa contro le spade, senza curarsi minimamente di difendersi ma seguendo soltanto il loro istinto bellicoso. In questo modo, molti di essi caddero sotto i fendenti degli Eorlingas. Io stessa ne abbattei diversi.
Freccia mi aiutava nella lotta, combattendo pure lei a calci e morsi, impennandosi sulle zampe posteriori e tirando pugni con quelle anteriori, frantumando crani e lasciando lividi a forma di zoccolo. Ogni tanto, un altro cavaliere mi sfrecciava vicino e, per un attimo, ebbi l’impressione di intravedere Éowyn, con Merry ancora aggrappato alle sue spalle.
Avevo già ucciso molti Orchi, ma tanti altri ne arrivavano. Sentivo nell’aria l’odore del sangue, che mi ubriacava. Non udivo più nulla, solo il rimbombo dei battiti del mio cuore. Avevo consapevolezza soltanto del mio corpo e di quello di Freccia, i cui muscoli possenti guizzavano sotto di me mentre galoppava a destra ed a manca, menando calci in direzione dei nemici.
Pian piano riuscii ad avvicinarmi alle mura di Minas Tirith. Oltre all’odore di morte, riuscii a percepire anche quello acre del fumo che si sprigionava dalla città. A poche centinaia di metri di distanza dalla porta della capitale del regno di Gondor si trovava una guarnigione di Haradrim, in sella ad enormi elefanti. Erano bestie colossali, molto più grandi dei loro parenti africani e con quattro zanne invece di due. Diressi Freccia fra gli arti di uno di quelli, cercando di ferirlo alle zampe – che erano grosse come tronchi d’albero – ma riuscendo soltanto a procurargli qualche graffio. Piena di disappunto mi allontanai, in cerca di qualche nemico alla mia portata. Non appena uscii dall’ombra del pachiderma, però, mi cadde addosso una gragnuola di frecce, lanciata dagli Haradrim in groppa al mastodonte. Mi riparai la testa con lo scudo, bestemmiando come una turca, mentre Freccia d’Argento scartava di qua e di là, facendo la gimcana tra i dardi che piovevano dall’alto.
In quel momento, un’ombra alata oscurò il cielo – in cui era da poco tornato visibile il sole – lanciando un grido orripilante che trasmise, nell’animo di tutti, terrore e disperazione. Era il Re degli Stregoni che, alla vista della carica dei Rohirrim, aveva lasciato la sua postazione al cancello di Minas Tirith e si dirigeva verso Re Théoden, per abbatterlo.
Il mio cuore si empì di sgomento nel sentire quello strido terribile, ed anche la mia giumenta si spaventò a morte, impennandosi e scalciando come impazzita. Ancora con lo scudo sopra la testa mi ritrovai sbilanciata e, quando lei si imbizzarrì all’improvviso, mi colse alla sprovvista. Non feci in tempo a stringere le gambe e ad afferrare le redini, così fui sbalzata via di sella. Caddi pesantemente a terra, sbattendo con l’elmo contro un grosso sasso e, per un attimo, rimasi intontita. La vista si annebbiò, e fui costretta a lottare con tutta me stessa per non perdere i sensi. Quando finalmente riuscii a mettermi seduta e ad alzare lo sguardo, vidi Freccia, con gli occhi fuori dalle orbite per la paura e la schiuma alla bocca, che continuava ad impennarsi ed a nitrire. Feci per raggiungerla e calmarla ma, all’improvviso, il suo nitrito si innalzò in una specie di urlo di dolore. Uno dei sudroni a cavallo dell’elefante aveva scorto un punto debole nella sua armatura e le aveva scagliato contro un dardo, colpendola alla base del collo.
Come al rallentatore, la vidi cadere a terra sul fianco sinistro, mentre dalla ferita cominciava a sgorgare un fiotto di sangue rosso scuro che andava ad imbrattare il suo manto argentato.
"FRECCIAAAAAAAA! NOOOOOOOOOOOOOO!"
Il mio grido si perse nel caos generale. Mi rialzai faticosamente in piedi e, barcollando, la raggiunsi, buttandomi su di lei e cingendole il collo.
"Freccia!” ansimai, disperata. “È tutta colpa mia! Non avrei mai dovuto coinvolgerti in tutto questo!"
La cavalla nitrì debolmente ed io, scossa per quanto stava succedendo alla mia più cara amica, mi isolai completamente dal resto del mondo, dimenticando la battaglia, i nemici e persino l’Oscuro Signore. Ero completamente ignara che, a poche decine di metri da me, Théoden stava morendo schiacciato da Nevecrino e che Merry ed Éowyn stavano combattendo contro il Negromante. Non mi importava più di nulla: pensavo solo al fatto che Freccia d’Argento stava morendo e che la colpa era soltanto mia.
Nemici ed amici mi correvano intorno, le spade continuavano a cozzare e le frecce a volare, ma tutto mi lasciava perfettamente indifferente. Ero come avvolta da una bolla di sapone che racchiudeva solo Freccia e me, isolandoci da tutto il resto, ovattando i rumori e soffocando gli odori. Avevo occhi solo per la povera giumenta, che si agitava debolmente a terra con il sangue che continuava a sgorgarle dalla ferita.
Un Orco cadde al mio fianco, trapassato da un colpo di spada, ma nemmeno me ne accorsi. Un altro lo seguì subito dopo e poi un terzo, ma io continuavo a non reagire. Allora, come da molto lontano, mi giunse una voce: un timbro che conoscevo molto bene.
"Ennòn! ENNÒN! Reagisci, cavaliere!"
Mi voltai lentamente in direzione del richiamo. Boromir, ritto in sella, con l’armatura completamente imbrattata di sangue, menava colpi con la sua spada a destra ed a sinistra, uccidendo gli Orchi che venivano verso di me. Tra un fendente e l’altro continuava a spronarmi, incitandomi a combattere.
"Lo so che per voi Rohirrim i cavalli sono come fratelli ma, per l’amor dei Valar, reagisci!” gridò, interrompendo brevemente la sua lotta, facendo voltare il suo stallone nella mia direzione. “La battaglia non è ancora terminata! Vendica la tua cavalcatura! Combatti, cavaliere!"
Lo ascoltai quasi senza capire ciò che stava dicendo, fissandolo con occhi persi nel vuoto. Poi, mentre si voltava di scatto verso destra per colpire un altro nemico, la “Stella di Fëanor” uscì fuori da sotto la sua armatura, brillando fulgida nella luce incerta del giorno. Quella visione mi fece tornare in me: scrollai il capo, come a schiarirmi le idee, afferrai la spada che era caduta poco lontano, mi alzai in piedi e, con un grido, tornai a lanciarmi nella mischia.
"Ti vendicherò amica mia! Ti vendicherò!" urlai, rivolta alla giumenta morente.
Rincuorato da quella vista, Boromir tornò a combattere, allontanandosi pian piano da me. Avevo ancora, davanti agli occhi, l’immagine della “Stella” che splendeva appesa al suo collo e quella mi dette la forza di continuare a lottare, anche se ormai le forze mi stavano venendo meno ed i nemici sembravano non finire mai.
Uno degli Esterling mi assalì all’improvviso da dietro e, prima che potessi voltarmi ed infilzarlo, quello riuscì a colpirmi recidendo, con la sua scimitarra, il laccio di cuoio che teneva agganciato il pettorale dell’armatura alla mia spalla destra, facendo scivolare la placca metallica verso il basso. Il fendente fu così potente da lacerare il tessuto della tunica di lana che indossavo al di sotto, fino ad aprirsi un varco nella mia carne. Il dolore fu lancinante, atroce. Gridai di rabbia e di frustrazione mentre lo passavo a fil di spada, rendendomi conto, mentre lo facevo, di non riuscire più a maneggiare Hoskiart con il braccio destro.
Sia Arwen che Boromir mi avevano insegnato a duellare con entrambe le mani, perciò gettai via lo scudo e tentai di continuare ad andare avanti nella lotta. In quelle condizioni, però, combattere era diventato molto più difficile. Avevo perduto completamente il controllo del braccio destro. Sentivo il sangue caldo ed appiccicoso che scorreva sotto l’armatura, andando ad inzuppare il tessuto di lana della casacca che indossavo al di sotto.
Lo squarcio nella stoffa lasciava intravedere una buona porzione della mia spalla, compresa la rosellina azzurra che avevo tatuata in quel punto. Quella macchia blu fu come il centro di un bersaglio per il Sudrone in groppa all’elefante che avevo tentato di azzoppare poco prima. Prese la mira e scagliò il dardo, che si conficcò pochi centimetri alla sinistra del disegno.
Mi sembrò di essere stata colpita da un pugno d’acciaio, che mi fece volare in avanti e piombare a faccia in giù sul corpo agonizzante di Freccia d’Argento. Non avevo la minima idea di chi o che cosa mi avesse ferito, così voltai la testa, riuscendo infine ad intravedere l’impennaggio rosso di una lunga freccia. Il dolore era insopportabile, un martellare sordo e pulsante che avevo già provato quando avevo guarito Boromir. Questa volta, però, sarebbe stata la fine: non ci sarebbe stata Galadriel, non ci sarebbe stato Celeborn. Non ci sarebbe stato nessuno.
"Freccia… Perdonami, se puoi…" mormorai abbracciando, tremante, il collo della giumenta, chiudendo gli occhi.
Non avrei assistito alla fine del Re degli Stregoni, colpito a morte da Merry prima e da Éowyn poi. Non avrei visto l’arrivo trionfale di Aragorn a bordo delle navi dei Corsari di Umbar, alla testa dell’Esercito dei Morti. Non avrei partecipato all’assalto al Nero Cancello di Mordor. Dopo tutto, Galadriel aveva ragione: il suo specchio mostrava anche cose che dovevano ancora verificarsi ma che potevano essere cambiate. Non avrei mai risanato la terra di Mordor con la “Stella di Fëanor”.
Con quegli ultimi pensieri agonizzanti, trassi un lungo sospiro e persi i sensi, sprofondando nel buio.
Era il quindici di Marzo, e fu così che feci la mia parte nella Battaglia dei Campi del Pelennor.



Spazio autrice: Buonsalve a tutti! Ed ecco a voi il nuovo capitolo riveduto e corretto. Siamo arrivati infine alla Battaglia dei Campi del Pelennor. In questo caso, ho seguito le immagini del film per cercare di descrivere le scene della battaglia, e non avete idea di quanto sia stato difficoltoso. Infatti, come avrete notato, il capitolo è il più corto fra quelli pubblicati fino ad ora. Vi ho lasciato con il fiato sospeso? Mi auguro di si… Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!
Vi lascio, infine, con un'immagine di Marian in versione Rohirrim, realizzata con un giochino per creare Avatar.
Bacioni e grazie, come sempre, a voi che leggete e recensite!
Evelyn

 

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Capitolo 18
*** Un triste risveglio ***







Un triste risveglio

 

Dal buio più completo vidi spuntare un chiarore, una lama di luce sempre più intensa, al punto da diventare quasi fastidiosa. Poi, giunse la consapevolezza di essere sdraiata a pancia in giù su qualcosa di morbido, odoroso di bucato. Ed, infine, avvertii una sensazione di calore sul viso.
Aprii lentamente gli occhi, senza riuscire ad immaginare cosa avrei visto, ma fui costretta a richiuderli di nuovo, abbacinata. Spostai leggermente la testa e ritentai. Ero stesa su un comodo letto, avvolta fra lenzuola di lino e coperte; il sole che entrava dalla finestra mi colpiva direttamente in faccia. Tentai di alzarmi ma, subito, avvertii un dolore lancinante alla spalla destra che mi fece ricordare all’improvviso tutto quello che mi era successo. Cercai di tastare il mio corpo rendendomi conto, in quel modo, di avere il braccio destro immobilizzato dentro una grossa fasciatura che mi copriva anche gran parte del busto. Il secondo ricordo che mi sovvenne fu quello della mia giumenta, che avevo lasciato morente sul campo di battaglia.
"Freccia…" mormorai, cercando nuovamente di alzarmi.
In quella, udii uno scalpiccio di piccoli piedi alle mie spalle ed una vocina, allo stesso tempo allegra ed accorata, esclamò:
"Marian! Finalmente ti sei svegliata! Oh, sapevo che non potevi essere morta! Non sei morta la prima volta, figuriamoci la seconda! Ero così in pensiero per te! Sei qui da un giorno intero e anche Aragorn cominciava a temere che non ti saresti più ripresa! Hai perso un sacco di sangue, sai! Non preoccuparti per Freccia, anche lei sta bene, ora è nelle scuderie! Oh… Ma fai piano, fai piano! Sei ancora debole!"
Pipino aveva pronunciato quelle parole alla stregua di un fiume, interrompendosi solo quando si era reso conto che cercavo faticosamente di girarmi su un fianco e di mettermi seduta. Corse immediatamente dalla mia parte del letto, aiutandomi a sedermi e ad appoggiare con cautela la schiena ai cuscini che ricoprivano la testiera.
"Dove… dove sono?" chiesi, debolmente, guardandomi intorno con aria confusa.
"Nelle Case di Guarigione!” mi rispose prontamente l’Hobbit. “Sei stata molto fortunata, sai? Se a Boromir non fosse venuto in mente di fare un nuovo giro di perlustrazione, in cerca di feriti, non ti avremmo mai trovata!"
Al sentirlo nominare, il mio cuore fece un balzo.
"Boromir! Come sta, lui?" domandai, con urgenza.
"Benissimo! Non ha neanche un graffio, e tutto grazie alla tua Stella!” ridacchiò Pipino. “Aspetta, ora lo vado a chiamare! Non ha fatto altro che fare la spola tra te e suo fratello Faramir, in attesa del vostro risveglio!” mi spiegò, incamminandosi verso la porta. “Ora è da lui, si è ripreso circa un’ora fa! Aspettami qui, non muoverti, mi raccomando!"
L’Hobbit mi lasciò da sola e, nonostante il movimento mi facesse sentire male ovunque, non potei trattenermi dallo scoppiare a ridere per il suo sproloquio logorroico.
Erano passati solo pochi minuti quando udii bussare alla porta. Non feci in tempo a dire "avanti" che Boromir era già entrato, buttandosi in ginocchio accanto al letto e prendendo la mia mano sinistra tra le sue, con le lacrime che gli roteavano negli occhi.
"Marian… amore mio…" mormorò, quasi timoroso di potermi far male anche solo parlando a voce troppo alta. Mi sfiorò dolcemente il viso, poi rimase in silenzio, guardandomi a lungo senza riuscire a parlare. Alla fine, dopo un’ultima carezza, si decise.
"Sei ancora tu, eppure sei così diversa… Cosa ti è successo?" mi chiese, fissandomi negli occhi.
Gli raccontai cosa era accaduto, di come la piccola imbarcazione elfica mi avesse riportato a Lothlòrien e di ciò che mi aveva rivelato dama Galadriel riguardo alla mia doppia natura: umana ed elfica. Gli spiegai che il sacrificio aveva permesso, a ciò che di elfico rimaneva in me, di prendere il sopravvento, e che Sire Celeborn in persona aveva curato le mie ferite.
Mentre parlavo lui continuò ad accarezzarmi, percorrendo tutto il mio viso con lo sguardo. Poi, prima di pronunciare la domanda che più gli premeva, lo vidi aggrottare lievemente le sopracciglia.
"Quando ti sei unita ai Rohirrim? E perché ti sei finta uomo?"
Rimasi per un attimo in silenzio, prima di rispondergli a mezza voce.
"Sono giunta ad Edoras la sera della festa, dopo la battaglia del Trombatorrione."
"Undici giorni fa!” pronunciò, con sorpresa. “Perché sei rimasta nascosta? Perché non sei venuta subito a dirmi che eri ancora viva?" domandò poi, il dubbio che si insinuava sul suo volto.
Distolsi gli occhi fissando le coperte, incapace di sostenere il suo sguardo accusatorio.
"Stavo per farlo, ma non ne ho avuto la possibilità…" mormorai, un moto di delusione che mi scoppiava dentro al solo ricordo di quanto era accaduto quella sera.
"Cosa intendi dire?" Il suo tono non era più dolce ed amorevole; era divenuto aspro, e quasi imperioso.
"Avevo quasi raggiunto il tavolo cui eri seduto ma, quando stavo per gridare il tuo nome, sei stato avvicinato da…” mi interruppi per un istante, in cerca della parola adatta. “Da una fanciulla…” infine sputai, con asprezza, “che era curiosa di vedere da vicino il corpo del Capitano Generale di Gondor; e tu l’hai accontentata” spiegai, in tono cupo. “E’ per tale motivo che ho deciso di fingermi un uomo: in quel momento, non volevo che tu potessi riconoscermi in qualche modo…" conclusi con un sospiro, lo sguardo ancora rivolto ai piedi del letto.
Con la coda dell’occhio lo vidi scuotere la testa prima di replicare.
"Non è andata come pensi!"
Rimasi in silenzio e lui riprese.
"Ed allora, perché non ti sei rivelata a Dunclivo, quando mi sono fermato a parlare con te, credendoti un altro, e ti ho confessato che ti amavo e che avrei voluto sposarti?" mi chiese, con voce rabbiosa. Non seppi cosa rispondergli, così rimasi immobile a fissare le coltri.
A quella mia reazione, lui mi lasciò la mano.
"Non mi hai creduto…" mormorò e, dato che continuavo a tacere, si alzò in piedi. "E non mi credi nemmeno adesso!" sibilò, furibondo, fissandomi con astio e livore.
"Boromir, io…" balbettai, tentando infine di spiegare quali erano stati i miei sentimenti e le mie emozioni ma, quando alzai finalmente gli occhi sui di lui, il suo sguardo, divenuto di ghiaccio, mi trapassò come una lama.
"Non c’è altro da aggiungere!” disse, guardandomi dall’alto in basso. “Credo sia giunto il momento di restituirti questa!" e, con un gesto secco, si strappò la “Stella di Fëanor” dal collo, spezzandone la catena d’oro e lasciandola poi cadere sul comodino di fianco al letto. Infine, si voltò e percorse a grandi passi il breve spazio che lo separava dalla porta.
"Boromir, aspetta…" tentai di richiamarlo, alzando il braccio verso di lui, ma le mie parole furono smorzate dal tonfo della porta che si chiudeva alle sue spalle.
Appoggiai lentamente la testa ai cuscini, tentando inutilmente di frenare le lacrime. Attirata da uno strano bagliore mi voltai lentamente verso il comodino: la “Stella di Fëanor” brillava fulgida, proprio come se fosse stata un astro vero e proprio. Seguendo un misterioso richiamo allungai faticosamente la mano sinistra, stringendola tra le dita, per poi tornare ad appoggiarmi nuovamente ai guanciali, chiudendo gli occhi.
Sulle mie palpebre chiuse presero subito a scorrere delle immagini, così nitide da sembrarmi perfino reali. Mi resi conto che stavo assistendo a ciò che era successo a lui: la “Stella” mi stava mostrando il punto di vista di Boromir.

 
* * *



Lo vidi correre con Aragorn, Legolas e Gimli all’inseguimento degli Uruk-Hai, per salvare Merry e Pipino; lo vidi incontrare Éomer prima e Gandalf poi; lo vidi arrivare a Edoras, dove lo Stregone liberò Théoden dalla schiavitù di Saruman.
Lo vidi partire alla volta del Fosso di Helm in compagnia degli altri; lo vidi combattere nella battaglia del Trombatorrione; lo vidi giungere ad Isengard dove, finalmente, i membri rimanenti della Compagnia poterono riunirsi.
Lo sentii raccontare agli Hobbit che ero morta per salvarlo, e lo udii confidare loro che mi amava più della sua stessa vita, ma che non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo.
E, finalmente, lo vidi alla festa, seduto al suo tavolo: non aveva toccato cibo e non riusciva a lasciarsi andare alla gioia liberatoria della vittoria. Troppo dolore albergava ancora nel suo animo. Continuava a giocherellare con la “
Stella”, fissando il vuoto davanti a sé. Ed ecco arrivare la concubina, che gli si sedette a fianco.
Udii nuovamente le parole che tanto mi avevano ferito.
"Mi è stato riferito che avete combattuto molto valorosamente al fianco del nostro Re, durante la battaglia del Trombatorrione" gli disse la donna, la voce languida e carezzevole.
Lui rimase in silenzio, continuando a rigirarsi il mio gioiello tra le dita, ed allora lei insisté.
"Dovete essere veramente un uomo coraggioso."
Lo udii grugnire in risposta, lo sguardo fisso nel vuoto. Dopo pochissimi istanti di attesa, la concubina tornò alla carica.
"Siete un Capitano di Gondor, non è vero?” gli chiese all’orecchio, sfiorandogli il petto con la mano. “Non avevo mai conosciuto un Capitano di Gondor, prima d’ora” continuò, lascivamente, strofinando il seno prosperoso contro il suo avambraccio. “Mi piacerebbe molto poter guardare da vicino il vostro corpo…"
Lo vidi voltarsi verso di lei, lo vidi alzarsi ed afferrarla per il polso, attirandola a sé a tal punto da far sfiorare i loro nasi.
"Vuoi vedere da vicino il corpo del Capitano Generale di Gondor? Bene, ti accontenterò!" le disse con voce roca, sfiorandole le labbra con le sue.
Lo vidi trascinarla fuori della sala e lungo un corridoio, fino a raggiungere un angolo appartato. Lì, la lasciò andare, cominciando a sbottonarsi con rabbia la lunga casacca.
"Non qui, mio Capitano… potrebbero vederci…" esalò lei guardandosi attorno, ma la sua voce tradiva l’attesa. Non le importava minimamente di dove si trovavano: tutto ciò che desiderava era dargli piacere, e riceverne in cambio.
Lo vidi gettare lontano i vestiti, fino a rimanere a torso nudo davanti a lei. Allora, la prese di nuovo per il polso, stringendoglielo a tal punto da strappargli una smorfia di dolore, attirandola nuovamente contro di sé.
"Guardami…" le sibilò.
Lei cominciò ad avere paura. Quello che aveva davanti non era un uomo carico di desiderio, bensì un guerriero furibondo. Tentò di sfuggire alla sua presa, ma lui fu implacabile.
"GUARDAMI!" le gridò rabbioso, strattonandola. “Le vedi queste?" e, nel pronunciare quelle parole, indicò le tre cicatrici circolari che gli marchiavano il petto. "Lo sai cosa me le ha procurate?" Lo vidi scuoterla ancora, visto che lei, piena di spavento, non rispondeva. "Sono stato colpito in pieno petto da tre frecce degli Uruk-Hai!” ringhiò. “Sarei dovuto essere morto ed invece sono ancora vivo, e lo sai perché? Perché una donna, l’unica donna che abbia mai amato veramente dopo la morte di mia madre, si è sacrificata per salvarmi!” Si interruppe per un attimo, ansimando furente, gli occhi che parevano lanciare dardi infuocati. “Mi ha fatto dono della sua vita per permettermi di continuare a vivere!” riprese, “ ed io non ho nemmeno mai avuto il coraggio di dirle che la amavo! Ho giurato a me stesso che non toccherò mai più una donna che non sia lei! Ed ora vattene…VATTENE!" gli gridò, infine, quando lei tentennò, troppo spaventata persino per andarsene. Non appena rimase solo, lo vidi rivestirsi e tornare poi nella Sala del Trono.
Quanto ero stata ingiusta nel giudicarlo. Ma non ebbi tempo per fare altre considerazioni, poiché la visione continuava, inesorabile.
Lo vidi marciare con i Rohirrim fino a Dunclivo; lo vidi parlare con Hirgon prima e con me stessa, vestita da uomo, poi. Sentii nuovamente le sue parole, così dolci ed amare allo stesso tempo.
Lo accompagnai nella sua marcia verso Minas Tirith a fianco di Re Théoden; seguii la sua folle cavalcata nella Battaglia dei Campi del Pelennor ed udii ancora la sua accorata preghiera al giovane cavaliere Ennòn, affinché quest’ultimo non si lasciasse andare e continuasse a combattere per vendicare la sua cavalcatura..
Assistei, attraverso i suoi occhi, all’arrivo dell’Esercito dei Morti ed alla fine della battaglia. Lo vidi riabbracciare i compagni e suo zio, il Principe Imrahil di Dol Amroth e, con loro, entrare nella cittadella.
Vidi Pipino informarlo che suo fratello era stato gravemente ferito, e che Denethor si era chiuso nel suo palazzo, deciso a contrastare il ritorno del Re con tutte le sue forze. Assistei alla sua battaglia interiore quando, in compagnia di Aragorn, si recò dal padre, cercando di fargli intendere ragione.
"Padre, questi è Aragorn, figlio di Arathorn, erede di Isildur…" disse, mentre introduceva il futuro Re di Gondor al cospetto del Sovrintendente.
"So benissimo chi è!” lo interruppe con astio il genitore. “Quando ero giovane si faceva chiamare Thorongil, ma già allora sapevo cosa voleva e cosa era venuto a cercare, qui!"
Lo vidi voltarsi verso Aragorn, con sguardo interrogativo.
"Ti dissi a Lothlòrien che avevo già visto Minas Tirith, tempo fa” gli spiegò il Numenoreano, in risposta alla sua muta domanda. “Ho vissuto qui per un periodo di tempo, quando ero giovane. Tuo padre ha sempre creduto che tuo nonno, Echtelion, mi preferisse a lui, ma ciò non era vero."
Lo udii replicare, in tono dubbioso ed incredulo.
"Aragorn… Ma, non è possibile! Non puoi essere così vecchio! Dimostri la mia età…"
"Dimentichi che sono uno dei Dùnedain, Boromir. Ho ottantasette anni” gli rispose con calma il Ramingo.
Il Capitano Generale lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Denethor ne approfittò per riprendere il suo discorso.
"Non lasciarti raggirare da questo straccione! La stirpe dei Re si è estinta ormai da tempo! Gondor appartiene ai Sovrintendenti! A te, figlio mio!"
Boromir guardò perplesso prima l’uno poi l’altro ed, infine, rispose risoluto al genitore.
"Ho giurato fedeltà al Re di Gondor, padre. Ho fatto la mia scelta!"
A quelle parole, il Sovrintendente si infuriò. Si alzò di scatto dal suo trono nero e si diresse verso il figlio, con sguardo minaccioso.
"Non… parlare… così… a tuo… padre!” sibilò scandendo le parole, tremante di sdegno. “Fino a prova contraria, sono ancora io a comandare, qui! Ed, a proposito di ordini: dov’è?!"
"Non so di cosa state parlando, padre!" lo udii rispondere, in tono cupo.
"Lo sai benissimo, invece!” replicò Denethor, pieno di rabbia. “Dov’è il Flagello di Isildur?! Ti avevo espressamente ordinato di portarlo a Gondor, di portarlo a ME!" gridò, furioso.
Aragorn guardò Boromir, ma l’Uomo non distolse lo sguardo dagli occhi del padre.
"Il Flagello di Isildur non può essere usato da altri che non sia l’Oscuro Signore! Io stesso ne ho avuto la prova” lo udii replicare, la rabbia trattenuta a stento. “Sarebbe stato un errore gravissimo portarlo qui! Sta viaggiando verso Mordor, adesso; verso la sua distruzione."
Le labbra del Sovrintendente si incurvarono verso il basso, in un’espressione di profondo disgusto.
"Sei un debole! Un vile! Proprio come Faramir!” sibilò. “Lui mi ha sempre deluso, ed un tale comportamento da parte sua non mi avrebbe meravigliato; ma, da te, questo non me lo sarei mai aspettato, Boromir! Ho messo al mondo due inetti!"
Quelle parole bruciarono come pece liquida nel cuore del Gondoriano. Lo vidi stringere i pugni e prendere le difese del fratello che, per cercare di innalzarsi nel giudizio del padre, ora giaceva ferito a morte nelle Case di Guarigione.
"Faramir vi ha sempre amato, padre. Ma voi non l’avete mai considerato” lo udii rispondergli, la furia pronta ad esplodere. “Tenevate soltanto a me: il vostro prediletto! Ed ora, ai vostri occhi anch’io sono un fallimento. Bene, ed allora lasciate che questo fallito vi dica che Gondor si inchinerà al nuovo Re. L’erede di Isildur è finalmente giunto a reclamare il suo trono e la mia spada sarà sempre al suo fianco, anche contro il vostro volere!"
"Nessuno potrà mai costringermi ad inchinarmi davanti ad un Ramingo! Il trono è MIO!” urlò Denethor, fuori di senno. “Preferisco morire, piuttosto che vedere il mio regno in mano ad uno straccione!"
Fece l’atto di estrarre la spada ma Boromir lo prevenne, sguainando la sua e puntandola verso il padre. Aragorn tentò di fermarlo, ma l’altro lo scansò con la mano, invitandolo a non intromettersi.
"Non costringetemi a fare ciò di cui poi dovrò pentirmi. Arrendetevi, padre. Consegnatemi la spada."
Per tutta risposta, Denethor si lanciò tra i due uomini, diretto verso la rupe – così simile alla prua di una nave – che sovrastava la città.
"Denethor non si inginocchierà mai davanti ad un Ramingo!" gridò e, con quelle ultime parole, ormai completamente impazzito, si lanciò nel vuoto, precipitando ed andandosi a schiantare novanta metri più in basso.
Vidi Boromir tentare di bloccarlo, ma senza riuscirci. Oramai era troppo tardi. Poté solo seguire la caduta del padre dall’alto della rupe. Aragorn lo raggiunse subito dopo, stringendolo in un forte abbraccio per impedirgli di fare qualsiasi sciocchezza.
"Tuo padre era ormai completamente in preda alla pazzia, Boromir" giunse la voce di Gandalf alle loro spalle. "Forse non ne eri a conoscenza, ma tuo padre possedeva un Palantir. Era convinto di poter spiare il nemico a sua insaputa ed, invece, l’Oscuro Signore l’ha utilizzato per farlo impazzire ed indebolire Gondor” spiegò, lentamente. “Non sobbarcarti una colpa che non hai. Ora, come Sovrintendente Regnante, dovrai governare il tuo popolo fino a quando Aragorn non verrà incoronato!"
Le immagini si confusero per un attimo poi, come in un balzo temporale, la “Stella” mi mostrò il mio ritrovamento tra centinaia e centinaia di cadaveri.
Vidi Boromir chiedere a Pipino di accompagnarlo in un ultimo giro di esplorazione dei Campi del Pelennor, alla ricerca di qualche eventuale ferito rimasto anche se, oramai, era improbabile che qualcuno di loro fosse sopravvissuto. Li vidi percorrere, in lungo ed in largo, il vasto prato. Il sole stava tramontando quando Pipino indicò qualcosa alla sua destra.
"Boromir… là! Guarda!" esclamò, con voce accorata.
Lo sguardo dell’Uomo seguì la direzione del dito dell’Hobbit, fino a che non vide un cavaliere abbracciato al collo del suo cavallo. Lo riconobbe immediatamente.
"Ennòn… povero ragazzo” sospirò, “aveva abbandonato la battaglia per piangere il suo cavallo che, per ironia della sorte, gli è sopravvissuto" aggiunse, visto che l’animale nitriva ancora debolmente.
Ma Pipino insisté, puntando ancora l’indice con persistenza.
"Guarda bene, guarda la sua spalla! Non è una rosellina azzurra, quella?"
Boromir fece avvicinare ancora di più il cavallo e finalmente la vide: una macchiolina azzurro cielo che spiccava sulla pelle pallida. L’aveva vista solo una volta prima di allora, ma non avrebbe mai potuto dimenticarla.
"Marian… Non è possibile… NO!" gridò, disperato.
Lo vidi scendere di sella con un balzo e correre verso il mio corpo disteso. Non appena lo vide avvicinarsi, la cavalla alzò un poco la testa e nitrì ancora debolmente, in segno di saluto.
"Freccia d’Argento” mormorò, rivolto alla giumenta, “come ho potuto non riconoscerti prima?"
Lo vidi togliermi dolcemente l’elmo e sollevare delicatamente il mio corpo, stando attento a non spezzare la freccia: sarebbe potuta servire ad Aragorn per riconoscerne la provenienza e, quindi, la fattura della punta. Lo vidi avvicinarsi al mio viso ed osservarmi attentamente, con occhi pieni di angoscia, accostando il bracciale d’acciaio dell’armatura al mio naso. Quando lo ritrasse, questo era lievemente appannato.
"E’ ancora viva!” esclamò, senza riuscire a trattenere un singulto. “Pipino! Corri da Aragorn ed avvertilo che abbiamo trovato Marian in fin di vita! Chiama i barellieri e digli di venire subito qui!"
L’Hobbit annuì vigorosamente e, tenendosi saldo alle redini, galoppò via in sella all’enorme stallone.
"Marian… Perché mi hai tenuto nascosto che eri ancora viva?” lo udii mormorare debolmente. “Non puoi morire adesso, non dopo che ti ho ritrovata…"
Lo osservai mentre mi cullava dolcemente, nell’attesa dell’arrivo dei barellieri. Vidi il mio corpo esanime trasportato fino alle Case di Guarigione ed, una volta lì, curato da Aragorn.
"È una freccia Haradrim…" spiegò al Gondoriano, non appena la vide. "Di solito, quei vili usano frecce avvelenate, ma non questa volta, per fortuna!"
Vidi Boromir fare la spola tra me e suo fratello Faramir ed, infine, vidi l’ultimo colloquio che avevamo avuto, fino al momento in cui lui aveva deposto la “
Stella” sul comodino.

 
* * *



Aprii gli occhi, ansimando come se avessi fatto uno sforzo sovrumano. Mi bastò un’occhiata alla finestra per capire che era passato molto tempo da quando la visione era cominciata, poiché il sole era ormai tramontato del tutto. Avevo visto molte cose e capito cosa aveva passato Boromir durante quei momenti: la mia morte, le battaglie, il ferimento di suo fratello, il suicidio di suo padre… e poi, infine, il mio ritrovamento. E, quando lui mi chiedeva perché mi ero tenuta nascosta, io che lo deludevo ancora, facendogli capire che non lo avevo creduto.
Ma, ora, la “Stella” mi aveva rivelato la verità! Potevo ancora rimediare! Potevo dirgli che il mio gioiello mi aveva mostrato tutto quello che gli era accaduto!
All’improvviso, la mia vista si oscurò ancora. Il monile aveva in serbo un’altra visione, per me. Per un istante, mi vidi camminare nella terra di Mordor, con la “Stella” tenuta alta davanti a me. L’erba alle mie spalle rinverdiva mentre avanzavo.
Ricordai che avevo un’ultima missione da compiere. Un compito che, di sicuro, sarebbe stato molto difficile, per non dire sfiancante. Sarei riuscita a portarlo a termine senza conseguenze? Oppure mi sarebbe accaduto qualcosa di irreversibile, come un’altra mutazione, o peggio? E Boromir, come avrebbe reagito? Avrei dovuto dirgli che conoscevo la verità, rischiando di farlo soffrire ancora di più se avessi perso veramente la vita, oppure avrei dovuto lasciarlo senza altre spiegazioni, ed eventualmente affrontarle nel caso di un mio ritorno?
Ero rosa dai dubbi, non sapevo cosa fare. Mi stavo ancora rigirando il gioiello tra le dita, pensierosa, quando un inserviente mi portò la cena. Passai il resto della sera a rimuginare su cosa sarebbe stato meglio per entrambi. Pensando che la notte mi avrebbe portato consiglio mi addormentai, sempre concentrata sul mio spinoso dilemma.
Era il sedici di Marzo, e fu così che mi risvegliai nelle Case di Guarigione.

Spazio autrice: Salve a tutti! Vi è piaciuto il nuovo capitolo? Personalmente, è quello che preferisco. Come avete visto, è composto principalmente da una sorta di flashback. Finalmente si sono chiarite molte cose, anche se la nostra protagonista ha adesso un altro bel dilemma morale da affrontare.
Spero, inoltre, che abbiate apprezzato il modo in cui ho modificato la storia per "togliere di mezzo" Denethor. Visto che Boromir non è morto, per me non aveva alcun senso farlo bruciare sulla pira che aveva preparato per Faramir. Il Sovrintendente, in questa versione, non ha perso il suo figliolo prediletto, e quindi ho pensato che, a lui, dell’eventuale morte di Faramir poco gli importasse. Così, mi sono presa la libertà di farlo buttare di sotto... Riguardo sempre a quella parte di flashback, se ricordate nel quarto capitolo avevo spiegato che, nella “extended version” del film, Denethor ordina a Boromir di portare l’Anello a Gondor. Qui, ho ripreso lo stesso concetto.
Fatemi sapere cosa ne pensate. Grazie a tutti! Bacioni!

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Capitolo 19
*** Incontri ***






Incontri

 

La mattina dopo, al risveglio, scoprii con disappunto che il detto “la notte porta consiglio” non aveva alcun fondamento di verità, visto che mi sentivo ancora più confusa di prima.
Il dolore alla spalla era diventato sopportabile, niente più che un fastidioso prurito, quindi decisi di alzarmi per far fare un po’ di movimento alle gambe, che erano quasi più indolenzite della spalla stessa a causa della forzata immobilità. Stavo passeggiando avanti ed indietro per la stanza, subito dopo aver fatto colazione, quando la porta si spalancò e Pipino entrò di volata, senza nemmeno bussare. Lo guardai con aria interrogativa – e, forse, anche un po’ scocciata – stupita dalla sua irruenza. Nel vedere la mia faccia, si rese conto di essere stato molto maleducato e, senza dire una parola tornò indietro, bussò, aspettò che dicessi "avanti" e solo allora entrò di nuovo, con un’espressione così compunta da farmi scoppiare a ridere.
"Sciocco! Non volevo mica che tu entrassi di nuovo? Ormai eri dentro!" esclamai, cercando di trattenere le risa.
"E invece era doveroso che lo facessi!” mi rispose, serio. “Sono una guardia della Cittadella! Devo comportarmi come un gentilhobbit!"
La sua faccina tutta convinta mi fece scoppiare di nuovo a ridere. Fui costretta a mettermi a sedere sul letto perché le gambe, ancora deboli, rischiavano di cedere. Gli feci cenno di accomodarsi accanto a me e lui obbedì, facendo penzolare i piedi oltre il bordo del materasso.
"Lo sai che stai veramente bene con la divisa di Gondor? Sembri persino più alto!" osservai, scrutandolo attentamente.
"Sono più alto!" esclamò lui in risposta, rizzandosi di nuovo in piedi e mettendosi sull’attenti. "Ho bevuto l’acqua dell’Entalluvio nella foresta di Fangorn, quando io e Merry eravamo con Barbalbero!” mi spiegò. “Quell’acqua è veramente miracolosa! Anche Merry è cresciuto, ma non quanto me!"
"A proposito di Merry, come sta?" chiesi, sinceramente interessata. Benché sapessi che era sopravvissuto, avevo comunque a cuore la sua salute.
"Meglio adesso, anche se se l’è vista brutta, anche lui” rispose Pipino, rabbuiando lo sguardo. “Ha quasi perso ľuso del braccio destro e solo per aver dato una pugnalata in un ginocchio al Re degli Stregoni! Se ti va possiamo andarlo a trovare!"
"Molto volentieri!"
"Così almeno ci racconterai cosa ti è successo!" incalzò l’Hobbit, speranzoso.
"Certo” concessi, “e voi lo racconterete a me."
Seguii Pipino fuori della mia stanza ma, dopo aver fatto solo pochi passi, fummo fermati da un inserviente che avanzava verso di noi a passo di marcia.
"È Bor, il responsabile delle Case" mi sussurrò Pipino a mezza bocca mentre l’Uomo ci raggiungeva.
"Buongiorno, mia signora” disse quello, con un inchino. “Sono spiacente, ma devo pregarvi di tornare nella vostra stanza!"
Non ne vedevo il motivo, per cui puntai il pugno sinistro contro il fianco.
"E perché?" gli chiesi, con una nota di fastidio nella voce.
"Perché Sire Aragorn e Sire Boromir mi hanno raccomandato di tenervi a riposo!" rispose semplicemente Bor.
"Non voglio mica andare a fare la maratona di New York! Vado solo a trovare un amico, anche lui si trova all’interno delle Case" gli risposi, cercando di non alzare troppo il tono.
"Vi siete svegliata solo ieri pomeriggio. Dovete ancora recuperare le forze!" insisté l’Uomo, con un piglio che non ammetteva repliche.
"Non lo farò di certo standomene a letto!” gli risposi, perdendo infine la calma. “Ed ora fatemi passare, per favore!"
Il responsabile mi si parò davanti, con le mani sui fianchi. Senza sapere bene il perché, estrassi la “Stella di Fëanor” dalla tasca dei pantaloni – dove l’avevo riposta dopo che Boromir ne aveva strappato la catena – e la feci oscillare davanti agli occhi di Bor, quasi come un ipnotizzatore con il suo pendolo. Per alcuni istanti l’Uomo ne osservò la fredda brillantezza, affascinato, poi all’improvviso il suo sguardo divenne vitreo. Lentamente si fece da parte e ci lasciò passare.
Pipino mi trotterellò accanto, continuando a guidarmi verso la stanza di Merry.
"Bella trovata quella di fargli vedere la “Stella”!” esclamò, “ma… mi spieghi cos’è la maratona di…" si interruppe, dubbioso, senza riuscire a ricordare lo strano nome che avevo pronunciato.
"Di New York? E’ una corsa lunga quarantadue chilometri che si svolge, appunto, nella città di New York, una volta l’anno. Ce ne sono molte altre, oltre a quella, nel mio mondo: Londra, Parigi, Tokyo, Roma…" elencai, tenendo il conto sulla punta delle dita.
In breve giungemmo da Merry. L’Hobbit fu molto contento di vedermi ma, anche lui, mi rimproverò per non avergli rivelato la mia vera identità.
"A me avresti potuto dirlo, che eri tu!" esclamò, incrociando a fatica le braccia sul petto, mortificato dalla mancanza di fiducia che avevo dimostrato nei suoi confronti.
"Scusami Meriadoc, ma avevo le mie buone ragioni” gli risposi, poggiandogli la mano sulla spalla. “Avanti, raccontatemi piuttosto degli Uruk-Hai e di Barbalbero!" ripresi subito dopo, in tono più allegro, sinceramente curiosa di conoscere la loro versione della storia.
Gli Hobbit si lanciarono subito in un frenetico racconto a due voci e, mentre l’uno parlava, l’altro annuiva e viceversa.
"Non immagini nemmeno quanto ho sofferto, quando Boromir mi ha detto che eri morta" mi rivelò Pipino interrompendo suo cugino, impegnato nel racconto dell’arrivo di Gandalf e degli altri ad Isengard dopo la sua distruzione da parte degli Ent. "All’inizio non ci volevo credere! Poi mi ha fatto vedere la "Stella" e le cicatrici… Ho pianto per un’ora di fila…" mormorò, le lacrime che tornavano a roteare nei suoi grandi occhi verdi al solo ricordo.
"Un’ora e mezza" interloquì Merry, "sulla mia spalla! Alla fine, ho dovuto stendere il gilet al sole per farlo asciugare!"
La battuta allentò la tensione, facendoci scoppiare a ridere. Avevo intuito, già parecchio tempo prima, che Pipino provava qualcosa per me ed il modo in cui mi aveva guardato, quando aveva pronunciato le sue parole, me lo aveva confermato. Incapace di trattenermi, lo strinsi d’impeto in un mezzo abbraccio, serrandolo contro di me con il solo arto sinistro, dato che l’altro era ancora immobilizzato dalla fasciatura. Per non fare differenze, ed evitare illusioni al mio piccolo amico, feci lo stesso con Merry prima di iniziare a raccontare la mia parte di storia.
All’ora di pranzo mi trovavo ancora nella stanza dell’Hobbit. Non appena uno degli infermieri portò il vassoio con il cibo, Pipino saltò in piedi tutto imbarazzato. Nella foga del racconto aveva completamente dimenticato che, nonostante la morte di Denethor, lui era comunque ancora una guardia della Cittadella e, quindi, agli ordini di Boromir. Avrebbe dovuto recarsi a palazzo almeno un’ora prima. Ci salutò in fretta ed imboccò la porta correndo come il vento, sferragliando come un vecchio treno per via dell’armatura che indossava.
Non appena l’eco della corsa di Peregrino si smorzò salutai Merry a mia volta, lasciandolo con la promessa che sarei tornata a trovarlo, più avanti. Non avevo voglia, però, di rinchiudermi nella mia stanza. Quelle quattro pareti mi parevano tanto opprimenti da togliermi persino il respiro, così decisi di continuare a passeggiare per le Case di Guarigione, che erano immense e racchiudevano persino un giardino al loro interno. Il parco si apriva come una terrazza, affacciata sulle mura della città in direzione est. Trovandosi nella sesta cerchia e, quindi, piuttosto in alto, da lì la vista spaziava molto all’intorno. Quel giorno il vento soffiava da sud, portando con sé un vago sentore di salmastro, a dispetto dei fumi che ancora si alzavano da Mordor. Non era ancora finita: Frodo non aveva ancora raggiunto il Monte Fato e l’Anello doveva ancora essere distrutto.
Mi accostai al muro di cinta e socchiusi gli occhi, respirando la brezza marina e godendo del tepore del sole primaverile che riusciva a filtrare tra le spesse nubi. Dopo pochi attimi, le mie orecchie acute colsero un rumore di passi leggeri alle mie spalle. Un Uomo si schiarì lievemente la voce e pronunciò il mio nome, quasi con reverenza.
"Dama Marian?"
Già immaginando chi potesse essere il mio interlocutore, mi voltai lentamente. Per la prima volta, da quando ero giunta nella Terra di Mezzo, vidi Faramir.
Notai subito che non c’era una somiglianza molto stretta tra i due fratelli, anche se entrambi avevano i capelli biondo scuro, il naso piuttosto importante e lo stesso sguardo fiero. Mi sorrise dolcemente mentre mi affiancava.
"Vedo che sapete il mio nome, Capitano Faramir" gli dissi, rispondendo al suo sorriso.
"E voi conoscete il mio."
"Vostro fratello mi ha parlato di voi" gli spiegai, abbassando lievemente gli occhi.
"E lo stesso ha fatto con me, narrandomi di voi… molto a lungo" aggiunse, con una punta di malizia.
"Spero in termini positivi…" esalai, incapace di trattenermi, alzando di nuovo lo sguardo.
"Più che positivi, direi” mi rispose senza esitare. “Boromir è innamorato pazzo di voi! Non appena ho saputo che eravate qui ho subito provato il desiderio di conoscervi, di incontrare la fanciulla che è miracolosamente riuscita a fare breccia nel cuore di mio fratello" ridacchiò.
Al sentire quelle sue parole mi rabbuiai, ricordando l’ultimo scambio di battute che avevo avuto con il Sovrintendente. Faramir se ne accorse e riprese subito a parlare.
"State pensando a quello che è successo ieri, non è vero?" mi chiese, fattosi di colpo serio, fissandomi negli occhi con intensità.
"Siete molto perspicace…" mormorai.
"La perspicacia è l’unica cosa che abbia mai avuto in comune con mio padre" disse, quasi con amarezza, voltando lo sguardo verso Mordor. Gli posai la mano sinistra sul braccio, in un gesto che voleva essere consolatorio.
"Mi dispiace molto per quello che è successo al vostro genitore."
Lui scosse la testa, come a voler scacciare un brutto ricordo.
"Ve ne ha già parlato mio fratello?"
"No. In realtà ho avuto una visione… tramite questa" risposi, togliendo di nuovo la “Stella” dalla tasca.
"La “Stella di Fëanor”…" mormorò Faramir, osservandola con timore reverenziale. Conosceva, a grandi linee, la storia di quel gioiello: in parte perché ne aveva letto su antichissime pergamene, nella biblioteca della città durante i suoi studi con Gandalf; ed in parte perché Boromir gliene aveva parlato molto a lungo, durante la sua degenza.
"Sì” confermai. “Non appena l’ho presa in mano, dopo che vostro fratello me l’ha restituita, ho visto tutto quello che gli era accaduto, come se l’avessi vissuto in prima persona."
Lui annuì gravemente prima di continuare.
"Quindi, sapete anche che mio fratello vi ha detto la verità. Su tutto."
Lo guardai di nuovo, incredula. Evidentemente, Boromir doveva avergli raccontato ogni minimo particolare.
"Sì, ora lo so con certezza" ammisi, piena di vergogna, chinando il capo ed arrossendo.
"Ed allora, cosa c’è che ancora vi blocca?" disse di getto, senza riuscire a trattenere le parole. Si rese conto di essere stato maleducato e subito si scusò. "Perdonatemi, mia signora, sono stato molto inopportuno” tentò di giustificarsi, “ma è l’amore che provo per mio fratello che mi ha fatto dire ciò che penso, senza riflettere."
"Non preoccupatevi” replicai, scuotendo la testa, “sono a conoscenza del rapporto di amore fraterno che vi lega.” Alzai di nuovo lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi, quasi perdendomi nella loro profondità. “Vi parlerò del dilemma che mi affligge, se mi promettete che non direte nulla a Boromir…" esalai, tendendo la mano verso di lui, come in cerca di un appiglio.
"Ve lo giuro sul mio onore" mi rispose, stringendomi la sinistra con entrambe le sue.
E lì, nel giardino delle Case di Guarigione, aprii il mio cuore a Faramir, raccontandogli tutto quanto era successo tra me e suo fratello, dall’inizio alla fine: dalla prima volta in cui ci eravamo visti, a Rivendell, al nostro ultimo incontro a Minas Tirith. Ogni frase, ogni gesto, ogni allusione, ogni rifiuto. Poi, gli parlai della missione che ancora mi attendeva e del timore di tornare ancora una volta diversa, oppure di non tornare affatto.
"Ora sapete perché ho ancora dei dubbi. Io amo vostro fratello, e non voglio farlo soffrire inutilmente" conclusi con un sospiro.
Faramir trasse un lungo respiro, lo sguardo fisso sulle Montagne dell’Ombra.
"Mio fratello ha sofferto molto per la morte di nostra madre” disse, infine. “Vedete… lui ha dovuto fare da padre, da madre e da fratello, per me. E, all’epoca, aveva solo dieci anni" mi spiegò, in tono cupo.
"Ma, vostro padre…" cominciai, ma lui mi fermò, alzando una mano.
"Mio padre non ha mai avuto alcun interesse per me” disse, secco. “È stato Boromir a fare di me quello che sono diventato, ed io gliene sarò grato per sempre!” esclamò, voltandosi infine dalla mia parte. “Anche se forse potrà sembrarvi strano, mio fratello non è un donnaiolo, anche se ve lo ha fatto erroneamente credere.” Si interruppe per un istante, come valutando quali parole dovesse usare. “È vero, ogni tanto ha i suoi passatempi” ammise, infine, “ma quale uomo, nel suo pieno vigore, non ne ha? Anch’io, ogni tanto, mi diletto…” Si interruppe all’improvviso, notando lo sguardo omicida che, involontariamente, gli avevo lanciato, gli occhi ridotti a due fessure e le labbra compresse a tal punto da farle quasi scomparire. Alzò le mani, in segno di resa, prima di riprendere a parlare in tono accorato. "Non guardatemi a questo modo, ve ne prego! Non abbiamo moglie… Non facciamo torto a nessuno, se non forse a noi stessi…"
Sospirai, rilassando i lineamenti.
"Sì, probabilmente avete ragione…" fui costretta ad ammettere.
Rincuorato dalla mia reazione, Faramir proseguì.
"Ma se mio fratello sostiene di amarvi, potete credergli fino in fondo. Alla morte di nostra madre ha giurato a se stesso che non avrebbe mai amato nessun’altra donna. Se ha infranto il suo giuramento deve pur esserci un motivo."
"Mi fido delle vostre parole” gli risposi con enfasi, “ma questo mi riporta al mio dilemma! E se non dovessi tornare? L’ho già fatto soffrire una volta, quando ha creduto che fossi morta. E se, questa volta, dovessi morire davvero? Ne sarebbe distrutto, stando a quello che mi dite anche voi."
A malincuore, Faramir annuì.
“Ne morirebbe…” mormorò a mezza voce, chinando lo sguardo.
"Allora, credo sia meglio non dirgli niente, per il momento. Almeno, se non tornerò lui si sarà già messo il cuore in pace” riflettei ad alta voce. “Se, invece, dovessi ritornare, allora gli racconterò tutto."
L’Uomo annuì ancora.
"È una scelta che spetta solamente a voi e, qualunque essa sarà, io la rispetterò” disse, serio. “Vi avverto, però, che al vostro ritorno potrebbe essere già troppo tardi. Se il suo cuore si indurisce troppo potrebbe non accettarvi mai più" aggiunse, incupendosi.
A quelle parole le mie spalle si incurvarono. Con quella frase mi faceva sprofondare di nuovo nel dubbio. Mi sarei presa volentieri a schiaffi, pur di potermi schiarire le idee.
Ringraziai Faramir per avermi prestato ascolto. Egli fece un piccolo inchino, baciandomi la mano. Dopo un ultimo cenno di saluto lo lasciai da solo nel giardino. Volevo andare a trovare Éowyn e ringraziare anche lei per tutto l’aiuto che mi aveva dato.
La trovai alle prese con il responsabile delle Case di Guarigione. Pure lei voleva uscire per fare una passeggiata e l’Uomo stava cercando di impedirglielo. Non appena mi vide arrivare, Bor si immobilizzò guardandomi terrorizzato, poi si allontanò veloce come il vento, lasciandoci sole. Éowyn seguì la sua ritirata spalancando gli occhi per lo stupore, voltandosi poi a guardarmi con aria interrogativa.
"Ho già avuto un incontro con lui questa mattina: non voleva far uscire neppure me” le spiegai, cercando di trattenere una risata. “Come state, dama Éowyn?" le chiesi infine, incamminandomi al suo fianco.
"Forse dovrei dire bene… ma sarebbe una bugia, dama Ennòna. Non sono riuscita a salvare l’uomo che amavo come un padre” mi confidò, abbassando lo sguardo a terra.
"Ma avete sconfitto il Re degli Stregoni, e questa non è certo un’impresa da poco" le ricordai, cercando di risollevarle il morale.
"Non è servita a nulla, se tutti continuano a considerarmi debole ed indifesa!” esclamò, piena di rabbia, cogliendomi di sorpresa. “Non mi è permesso neppure allontanarmi dalla mia stanza! Sono ancora chiusa in una gabbia… ciò che temo di più."
"Vedrete che le cose si sistemeranno… ancora prima di quanto crediate” le risposi, enigmatica. “Sono venuta a ringraziarvi per il vostro aiuto" aggiunsi, prendendola sotto braccio.
Lei non mi rispose ed io non aggiunsi altro. Era ancora molto turbata e quello, riflettei, era forse il momento giusto per farle incontrare Faramir.
"Questo posto ha un giardino bellissimo! L’avete già visto?" le chiesi in tono leggero, cercando di mascherare la malizia che mi aveva spinto a pronunciare quelle parole.
Lei scosse la testa, apparentemente priva di interesse. Non demorsi e la guidai risoluta verso il parco, cedendole poi il passo una volta giunte sulla soglia. Faramir era ancora in piedi, vicino al muretto di cinta. Non appena udì i nostri passi si voltò con un sorriso. Lei procedette all’esterno ma io rimasi ferma all’ingresso.
“Voi non venite, Ennòna?" mi chiese la Scudiera di Rohan, voltandosi a guardarmi piena di sorpresa.
"No… Perdonatemi, ma ho già visitato il giardino. Comunque, non sarete da sola: quello che vedete laggiù è il Capitano Faramir, il figlio minore del Sovrintendente Denethor. È un ottimo anfitrione. Vi lascio in buona compagnia…" e, dopo averle strizzato l’occhio, ricevendo in cambio un’occhiata scandalizzata, mi ritirai, tornando a percorrere in lungo ed in largo l’edificio e raggiungendo nuovamente la mia camera solo nel tardo pomeriggio.
Mi ero da poco messa a sedere sul letto quando qualcuno bussò alla porta. Era Pipino, che tornava dal Palazzo dei Re portando le ultime novità.
"Domani l’esercito parte nuovamente: andiamo al Morannon, al Cancello di Mordor! Aragorn e Gandalf pensano che sia un buon espediente per tenere lontano l’occhio di Sauron da Frodo e Sam” mi informò, la voce resa ancora più acuta dal nervosismo. “L’ho appena detto anche a Merry e quell’idiota mi invidia, perché io posso andare con loro e lui no. Povero scemo! Se potessi me ne starei anch’io qui, al sicuro dentro Minas Tirith, ma Aragorn ha detto che dovranno essere presenti tutti i rappresentanti delle diverse razze della Terra di Mezzo che sono nemiche dell’Oscuro Signore…"
"Partite di già?!” esclamai, interrompendo il suo fiume di parole. “Cavoli, io non mi sono ancora ripresa! Devo farmi assolutamente togliere queste bende!" aggiunsi, cercando di liberare il braccio destro da quel viluppo di stoffa e finendo soltanto con l’annodarmi ancora di più. "Posso chiederti un favore?" continuai, sempre tirando disperatamente per sciogliere i nodi. "Potresti far riparare la “Stella” da qualcuno? La catena d’oro si è rotta."
Tolsi di tasca il gioiello e glielo porsi, senza smettere di dimenarmi come un’anguilla. Prima di partire con gli altri alla volta di Mordor, per compiere la mia ultima missione, la “Stella di Fëanor” doveva assolutamente essere riparata.
"Per questa non c’è problema” mi rispose, afferrando il monile, “ma per quando riguarda la nostra partenza no, non se parla! Tu non ti muovi da qui! Sei ancora troppo debole!” esclamò, preoccupato. “Non fare anche tu come Merry, adesso…" sospirò, cingendomi la vita con le braccia ed affondandomi il viso nello stomaco.
Smisi di contorcermi e sorrisi, passandogli dolcemente la mano libera tra i ricci castani. A quel tocco l’Hobbit alzò il capo, fissandomi con sguardo accorato ed adorante allo stesso tempo, facendomi arrossire.
"Se dovesse succederti qualcosa, non me lo perdonerei mai… E neanche Boromir…" mormorò, tornando a nascondere il viso nelle pieghe dei miei abiti.
"Io non ne sarei così sicura, se fossi in te" gli risposi, allontanandomi da lui e mettendomi a sedere sul letto. Considerando i termini con cui ci eravamo lasciati, nonostante le parole di Faramir non riuscivo proprio a credere che a Boromir importasse ancora qualcosa di me.
"Ed invece ha proprio ragione" disse una voce roca dalla soglia. Alzai lo sguardo e vidi Gandalf che mi guardava con uno strano sorriso.
"Gandalf! Che bello vederti!" esclamai, lanciandomi ad abbracciarlo. Rispose al mio saluto dandomi delle affettuose pacche sulla spalla, poi mi rispedì subito a letto, mettendosi seduto al mio fianco.
"Per oggi ti sei stancata anche troppo! Ora devi pensare a guarire, per portare a termine la tua ultima missione!"
Lo guardai stupita.
"Come lo sai?"
"Sono uno Stregone!” mi rispose, fingendosi offeso dalla mia domanda. “E poi”, aggiunse, “ho parlato con Faramir, questo pomeriggio, dopo che lui ha casualmente incontrato Éowyn di Rohan." Mi scappò da ridere a quell’accenno, ma lui continuò il suo discorso. "Nonostante tutto quello che è stato detto o fatto, Boromir è veramente innamorato di te. Non temere anche tu di lasciarti andare."
"Io non ho paura di lasciarmi andare… Ho paura di non tornare!" replicai, seria.
"Timore più che lecito. Ma non credo che sia questo il tuo caso. In fondo, devi fare una cosa buona! Non lasciare quel poveretto nel dubbio, proprio ora che la partenza incombe."
Sospirai, ma non feci in tempo a ribattere: Gandalf si rialzò dal bordo del letto, dirigendosi verso la porta.
"Chiederò ad Aragorn di venire a controllare le tue ferite, così magari potrai cenare con noi, stasera” aggiunse con un mezzo sorriso, voltandosi a guardarmi. “Andiamo Peregrino Tuc: Marian ha bisogno di dormire, ora. Smettila di importunarla con in tuoi inutili discorsi da Hobbit!" concluse infine, redarguendo il povero Mezzuomo.
Pipino annuì e, dopo avermi salutato con un altro abbraccio, seguì lo Stregone lasciandomi sola. Solo allora mi resi conto che, in effetti, ero veramente stanca. Mi stesi sul letto e, dopo poco, mi addormentai.
Era il diciassette di Marzo, e fu così che incontrai vecchi e nuovi amici.


Spazio autrice: Salve! Buongiorno a tutti! Questo capitolo, nella versione originale della mia storia, era molto più lungo, e comprendeva anche gli avvenimenti della sera e della notte successive. Appunto perché era così lungo (e dopo la revisione si è allungato ancora di più) e dato che, comunque, si prestava bene ad essere scisso in due parti, ho pensato bene di dividere il malloppo originale in due capitoli diversi. Questo ha mantenuto il titolo originale, ovvero “Incontri”, mentre il prossimo avrà, ovviamente, un nuovo titolo
Ancora un’annotazione prima dei ringraziamenti. Non ricordo se il responsabile delle Case di Guarigione ha un nome, nel romanzo originale. Ho scelto di chiamare il mio Bor, il cui significato è “Uomo fidato”.
Voglio ancora ringraziare, con tutto il cuore, tutti coloro che seguono la mia storia e la leggono silenziosamente. In più, voglio citare ancora coloro che hanno recensito la revisione della storia: didi_95, Fjorleif, Flo_Rian23, Laura Mars, Silvye 91, Tielyannawen e Virgo00.
Bacioni!

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Capitolo 20
*** Una notte indimenticabile ***







Una notte indimenticabile


Fui risvegliata dal suono di una voce calda e dal tocco di una mano delicata. Aprii gli occhi e vidi Aragorn.
"Re Elessar!" esclamai senza riflettere, la voce ancora impastata dal sonno.
"Non chiamarmi così, non sono ancora stato incoronato. Per ora sono ancora Aragorn, il Dùnedain del Nord” rispose, serio. “Sono venuto a controllare la tua spalla. Gandalf mi ha chiesto di lasciarti venire a cena nel Palazzo dei Re, stasera."
Sciolse le bende, controllando sia il taglio provocato dalla scimitarra sia la lacerazione lasciata dalla freccia, la ferita che lo preoccupava di più.
"Per tua fortuna quel dardo non era avvelenato” rifletté a voce alta, sfiorando la pelle intorno al piccolo squarcio rotondo. “I tessuti si stanno rimarginando bene. Ti farò un altro impacco con l’Athelas poi ti benderò di nuovo, ma questa volta lascerò libero il braccio."
Si fece portare un catino pieno di acqua calda in cui immerse alcune foglie. Non appena entrarono in contatto con il liquido, sprigionarono un aroma intenso e fragrante che mi fece sentire subito meglio. Le mani di Aragorn massaggiarono la mia spalla con cura, tamponando le ferite con una pezza di cotone intrisa di acqua aromatizzata. I suoi polpastrelli scorrevano delicati sulla mia pelle, provocandomi un lungo brivido. Oltre alle varie proprietà curative, riflettei, le foglie di Athelas dovevano essere anche afrodisiache. Se, in quel momento, ci fosse stato Boromir al posto del Ramingo, probabilmente non avrei risposto di me stessa.
Una volta finito il bendaggio, Aragorn mi concesse di andare a cena con gli altri, perciò chiamò una delle inservienti perché mi aiutasse ad indossare un abito adatto. Una volta vestita lo raggiunsi nel corridoio e con lui uscii per la prima volta dalle Case di Guarigione, diretta verso la Cittadella.
Sopra Minas Tirith le stelle brillavano come piccoli diamanti mentre, ad Est, il cielo era ancora completamente coperto. Ogni tanto le nubi nere si tingevano di rosso, illuminate dai bagliori del Monte Fato.
L’albero bianco di Gondor, secco e contorto, svettava davanti al Palazzo dei Re, nel Cortile della Fontana. Il vento teso della sera fischiava tra i suoi rami morti. Mi fermai ad osservarlo, incantata, allungando una mano per sfiorarne la corteccia, ormai resa completamente liscia da tutte le intemperie che aveva dovuto sopportare.
“È un vero peccato che anche l’ultimo dei figli di Nimloth il Bello sia oramai morto” mormorò Aragorn, avvicinandosi al tronco per carezzarne a sua volta la superficie.
"Non è l’ultimo. Ne troverai un germoglio sul monte Mindolluin, quando tornerete dal Nero Cancello" gli risposi senza neanche riflettere, continuando a sfiorare il legno.
Il Ramingo si immobilizzò, voltandosi lentamente a guardarmi.
"Credo che tu sappia molte più cose di quanto non ci abbia mai fatto credere" sentenziò, per poi incamminarsi di nuovo, andando a bussare al portone.
All’interno della piccola sala da pranzo riservata, i pochi ospiti erano già seduti a tavola. Legolas e Gimli ne occupavano il lato sinistro, con Pipino accanto a loro. Boromir sedeva al centro con a fianco suo zio il Principe Imrahil di Dol Amroth, fratello di sua madre. Davanti a loro si trovavano due scranni vuoti, su uno dei quali Aragorn mi fece accomodare prima di sedersi a sua volta. Al lato destro sedevano Éomer e Gandalf. All’appello mancavano Merry, Faramir ed Éowyn che, purtroppo, non avevano avuto il permesso di lasciare le Case di Guarigione.
Non appena l’Elfo ed il Nano mi riconobbero fui sommersa dalle loro domande: persino Legolas non fu in grado di trattenere la sua curiosità. Entrambi chiesero a gran voce di conoscere le mie peripezie ed io li accontentai, raccontando loro la mia storia tra una portata e l’altra. Mentre parlavo percepivo lo sguardo di Boromir che, seduto di fronte a me, tentava evidentemente di ascoltare ciò che stavo narrando, fingendo però disinteresse.
Durante la cena un garzone si presentò a Palazzo, trafelato. Il suo padrone, il miglior orafo di tutta la città, aveva appena riparato la catena d’oro del magico gioiello di Dama Marian Tingilindë, e gli aveva ordinato di riconsegnarlo subito alla sua proprietaria. Si era recato nelle Case di Guarigione, dove era stato informato che la Dama si trovava a cena al Palazzo dei Re.
“Per tale motivo ho avuto l’ardire di interrompere il vostro pasto, mia signora” balbettò, rosso in faccia. “Se non vi avessi reso subito il vostro gioiello, il mio padrone mi avrebbe sicuramente preso a bastonate…” tentò di giustificarsi.
Aragorn lo rincuorò: nessuno lo avrebbe rimproverato per la sua irruzione. Dopo aver ricevuto i miei più sinceri ringraziamenti il garzone batté in ritirata, senza smettere di balbettare e di inchinarsi.
Non appena la indossai, tutti i presenti ammutolirono per lo stupore: la “Stella” brillava come un vero astro, ed ora che avevo le sembianze di un Elfo sembrava emanare ancora più potere. Riuscivo a percepirne il calore, che mi riscaldò l’animo ed il cuore.
Alla fine della cena, quando tutti si alzarono per andare a riposare in vista dell’imminente partenza per il Morannon, mi avvicinai a Boromir chiedendogli di poter parlare in privato. Le parole di Gandalf e quelle di Faramir avevano finalmente fatto breccia dentro di me. Avrei detto al Gondoriano che ero a conoscenza di tutto quello che aveva passato, e gli avrei rivelato i miei timori riguardo alla mia ultima missione.
L’Uomo annuì e mi accompagnò fuori del Palazzo, nel Cortile della Fontana. La luna stava sorgendo dalle pendici del Mindolluin ed il vento si era fatto piuttosto freddo sulla sommità della rupe. Rabbrividii, avvolgendomi ancor più strettamente nello scialle leggero che mi copriva le spalle. La stoffa era talmente sottile, però, da non riuscire a proteggermi dalla brezza pungente. Boromir se ne accorse: si slacciò il mantello di velluto verde scuro bordato di pelliccia che indossava e me lo posò sulle spalle. Avvertii subito il suo calore sulla pelle ed il suo odore mascolino nelle narici. Alzai il viso per guardarlo negli occhi, ma lui tenne lo sguardo fisso in direzione di Mordor mentre si avvicinava al muro esterno che cingeva la rupe.
"Di cosa volevi parlarmi?" mi chiese in tono rude, non appena ebbe posato il piede destro sul basso muretto, appoggiandosi con l’avambraccio al suo stesso ginocchio.
"Volevo chiederti scusa per non averti creduto" mormorai, dopo aver tratto un lungo sospiro.
Chinò lo sguardo verso di me, inarcando un sopracciglio.
"E cosa ti ha fatto cambiare idea?" chiese ancora, senza riuscire a mascherare un accenno di rabbia velato appena da un pizzico di curiosità.
"Questa" risposi, sfiorando la “Stella”. "Non appena l’ho stretta tra le dita, dopo che me l’hai restituita, ho visto tutto quello che ti è successo, come se fossi stata lì con te” spiegai. “Ho scoperto cosa è accaduto realmente la sera della festa a Rohan. Ho visto cosa è successo a tuo padre…"
Mi interruppe bruscamente, voltandosi di nuovo verso Est.
"Non voglio parlare di lui, adesso!" ringhiò.
"D’accordo…” annuii, prima di riprendere, incerta. “Bè… volevo dirti che mi dispiace per non averti creduto subito, ma tu, con le tue allusioni… prima a Gran Burrone e poi a Lòrien, quando mi hai rifiutato… ho creduto che non ti saresti certo lasciato sfuggire l’occasione…” balbettai.
Lo sentii grugnire pieno di sdegno e quel suono, più di mille parole, mi fece avvilire. Trassi un altro profondo respiro, lottando contro le lacrime che minacciavano di uscire, poi ripresi a parlare.
“Ma la “Stella” mi ha mostrato la verità! Avrei voluto mandarti subito a chiamare per scusarmi con te, ma prima che potessi farlo il gioiello mi ha ricordato che ho ancora una cosa da fare. Una cosa che credo impiegherà la maggior parte delle mie forze e che temo non mi lasci scampo…” spiegai. “Non volevo farti soffrire ancora, illudendoti per pochi giorni e poi magari morire davvero e… lasciarti solo per sempre! Poi, ho parlato con tuo fratello e con Gandalf ed entrambi mi hanno convinto a dirti la verità.” Mi interruppi ancora per un istante, fissando insistentemente il suo profilo. “Io ti amo, Boromir!” esclamai, infine. “Sono arrivata fin qui, dal mio mondo, perché ho espresso ad alta voce il desiderio di salvarti dalla morte per mano degli Uruk-Hai! Io… ti amavo ancora prima di conoscerti!"
A quelle parole l’Uomo si voltò a guardarmi, posando di nuovo il piede a terra.
"Se non mi conoscevi, come facevi a sapere che sarei morto?" mi chiese, in un misto di incredulità e collera mal celata.
"Nel mio mondo esiste un libro che narra le vostre avventure. Io sapevo già tutto quello che sarebbe accaduto!” gli spiegai, in tono accorato. “È stata Dama Galadriel ad accogliere la mia supplica ed a farmi arrivare fin qui grazie alla “Stella di Fëanor”."
"Quindi sapevi anche che mio padre sarebbe morto…"
"Sì" ammisi, chinando il capo.
"Ed allora perché non me lo hai detto?!" mi gridò contro, rabbioso, incapace di trattenere ulteriormente il suo furore.
"Perché avendo modificato la storia in questo modo non credevo che sarebbe successo! Non ho mai immaginato che si sarebbe tolto la vita!” esclamai, la voce resa acuta dalla paura della sua reazione, giungendo le mani davanti al petto. “Nella versione originale della storia tu, che sei il suo figlio prediletto, muori! Quando Faramir viene ferito mortalmente, a Osgiliath, tuo padre si rende finalmente conto di quanto sta perdendo. Convinto che anche tuo fratello morirà, benché Faramir non abbia ancora esalato il suo ultimo respiro, Denethor prepara la loro pira funebre, si stende al fianco del suo secondogenito e si da fuoco con essa!” raccontai, narrando le vicende del libro, incurante delle conseguenze che quelle rivelazioni avrebbero potuto avere. “Pipino, che ha seguito Denethor nel suo delirio fino alle Case dei Morti, si rende conto che Faramir è ancora vivo e corre a chiamare Gandalf! Tuo fratello si salva, ma tuo padre muore tra le fiamme! Visto che tu adesso sei ancora vivo, non avevo certo previsto che si sarebbe piuttosto suicidato prima di accettare l’autorità di Aragorn… Mi dispiace…"
Mentre pronunciavo quelle ultime parole la mia voce si incrinò: le lacrime, a lungo trattenute, infine sfuggirono al mio controllo. Scoppiai a piangere, le spalle scosse da singhiozzi sempre più forti.

 
* * *



Boromir aveva ascoltato le parole di Marian con stupore sempre crescente ma mai, nemmeno per un attimo, aveva dubitato della loro veridicità. Quella fanciulla si era sacrificata per salvargli la vita: per quale motivo avrebbe dovuto mentirgli proprio adesso? Nel vederla scoppiare in lacrime anche la sua collera di sciolse. Lei non aveva alcuna colpa di quanto era successo. Si fece avanti e la strinse tra le braccia, facendole poggiare il capo sul suo petto.
"Non piangere, Marian” le sussurrò, le labbra a sfiorare i suoi lunghi capelli castani. “Perdonami se sono stato così rude nei tuoi confronti. Tu non hai nessuna colpa."
"Boromir…” mormorò lei, tra un singhiozzo e l’altro, “lo so che hai sofferto tanto quando è morta tua madre… e che hai sofferto altrettanto quando hai visto morire me… non voglio farti soffrire ancora…"
La baciò sul capo poi, prendendole il mento tra le dita, la spinse ad alzare lo sguardo su di lui.
"Ti amo, Marian. E non smetterò mai di farlo, qualunque cosa accada" le disse, guardandola negli occhi.
Si chinò lentamente verso di lei, verso le sue labbra socchiuse e tremanti. La vide chiudere gli occhi, un’espressione di aspettativa dipinta sul volto. Sorrise lievemente prima di poggiare la bocca sulla sua.
 
* * *


Quando vidi Boromir avvicinarsi lentamente non potei fare a meno di chiudere gli occhi, nell’attesa di quel bacio che, oramai, temevo non sarebbe arrivato più. Poi, finalmente la sua bocca si poggiò sulla mia, leggera come una piuma. Le sue labbra, lievemente screpolate per via delle privazioni subite in battaglia, erano calde e morbide. Il cuore prese a battermi all’impazzata mentre le mie mani salivano a carezzare il suo viso ruvido di barba. Dopo pochi istanti si allontanò un poco, ma soltanto per cambiare posizione e mettersi più comodo. Incapace di resistere dischiusi le labbra, invitandolo così ad approfondire il bacio. Con un gemito appena trattenuto Boromir rispose prontamente, facendo scivolare lentamente la lingua verso la mia. Intrecciai le mani dietro al suo collo, come per impedirgli di allontanarsi ancora mentre lui, allo stesso tempo, mi cingeva la vita. Le nostre lingue presero subito a muoversi dolcemente insieme, in una lenta e sinuosa danza che continuò fino a che non fummo costretti a riprendere fiato.
"Ora è meglio che tu torni alle Case di Guarigione" mormorò Boromir fissandomi negli occhi, ansimante ed accaldato nonostante il vento freddo. "E’ tardi ed hai ancora bisogno di riposo."
Trattenni a stento un moto di delusione. Avrei voluto sinceramente che quel bacio durasse molto di più, ma non mi opposi alla sua richiesta.
"Anche tu hai bisogno di riposarti, in vista della nuova marcia” gli risposi, carezzandogli dolcemente la guancia, “ma… vorresti almeno accompagnarmi? Così posso restituirti subito il mantello."
Sorrise porgendomi il braccio, scendendo con me al livello inferiore ed accompagnandomi fin dentro la mia stanza. Una volta all’interno, tolsi il morbido e pesante manto e glielo porsi. Invece di indossarlo ed andarsene, però, lo appoggiò lentamente sulla sedia di fianco al letto. Lo guardai con aria curiosamente interrogativa e lui, ancora sorridendo lievemente, si avvicinò di nuovo con il volto al mio chiedendomi un altro bacio.
"Perché mi porti fortuna" mormorò, prima di unire le nostre labbra.
Complice l’aroma delle foglie di Athelas che ancora aleggiava nella stanza in breve il bacio, da tenero e casto, divenne focoso ed appassionato. Le nostre mani cominciarono a esplorare i nostri corpi con sempre maggior desiderio. Insinuai le dita tra i suoi capelli mentre i polpastrelli di Boromir percorrevano con impazienza la mia schiena. Ebbe persino l’ardire di posare la mano a coppa sul mio seno sinistro, massaggiandolo dolcemente, facendomi mugolare di piacere contro le sue labbra. A quel punto, forse timoroso di correre troppo, l’Uomo si staccò da me, ansimante e tremante.
"No… Non voglio trattarti come una concubina…" balbettò, trattenendo a stento la bramosia.
"Shh…" lo zittii, posandogli un dito sulle labbra. "Non mi importa niente di ciò che penserai di me ma, semplicemente, non posso fermarmi proprio ora. Ti voglio, Boromir…" sussurrai, fissandolo negli occhi.

* * *


Al sentire quella frase non seppe più cosa pensare. Rimase semplicemente allibito. Nessuna delle fanciulle che aveva conosciuto, nemmeno le concubine più esperte, avevano mai avuto l’ardire di pronunciare parole simili. Si mettevano semplicemente a sua completa disposizione, senza bisogno di dire alcunché. Si immobilizzò, incapace di reagire, il corpo e la mente vittime del profondo turbamento che provava.
Deglutì a vuoto, senza riuscire ad aprire la bocca per parlare. Marian alzò lentamente le braccia, spingendolo dolcemente verso il letto. Si lasciò guidare da lei, lasciandosi cadere seduto sul materasso.
Rimase a fissarla, a bocca aperta, mentre la fanciulla lo spogliava, uno strato dopo l’altro, fino a rivelare il suo torso muscoloso e possente, dove le tre cicatrici circolari apparivano come monetine bianche sulla pelle dorata dal sole.
A quel punto, Marian alzò le mani a scostare le sottili spalline del lungo vestito grigio che indossava, facendole scivolare di lato fino al punto in cui, vinto dal suo stesso peso, l’abito non scivolò a terra con un tenue fruscio. La vide slacciarsi il corpetto che indossava al di sotto, sciogliendone il nastro che lo fermava sul petto con un unico movimento fluido.
Per la prima volta, vide le sue stesse cicatrici sul corpo di Marian e adagio, quasi con devozione, le sfiorò con le dita che tremavano. Infine, con lentezza estenuante, la fanciulla calò lentamente le lunghe brache di tela, rimanendo completamente nuda di fronte a lui, fissandolo negli occhi con uno strano sguardo, carico di amore e desiderio.
Deglutì ancora una volta poi, finalmente, si riscosse. Si alzò in piedi, finendo di svestirsi in fretta. Una volta nudo egli stesso si stese lentamente sul letto, prendendola per le mani ed attirandola verso di sé. Lei non si ritrasse ed, anzi, accolse con piacere il suo invito, sdraiandosi sopra di lui. La contemplò ancora per alcuni istanti poi, forse ricordando che toccava a lui condurre il gioco, con un'unica rapida spinta del bacino invertì le loro posizioni, facendola stendere supina sulla morbida coperta.
La guardò ancora, percorrendo lentamente il suo viso con lo sguardo.
"Sei così bella…" le mormorò, sfiorandole una guancia con le dita.
Lei gli sorrise in risposta, alzando il viso per baciarlo lievemente.
"Prendimi, Boromir…” gli soffiò infine sulle labbra e, con un gemito strozzato, il Gondoriano accolse l’invito.
 
* * *


Non appena Boromir mi penetrò, un’infinita gamma di sensazioni mi invase: gioia, amore, desiderio, appagamento. Non era la mia prima esperienza, quella, ma nelle poche altre occasioni che avevo avuto non mi ero mai sentita totalmente coinvolta. Con lui fu completamente diverso. Stretta tra le sue braccia mi sentii di nuovo viva e niente sembrava esistere più. Eravamo soltanto noi due, persi entrambi nell’estasi dell’amore più profondo.
I nostri corpi danzavano all’unisono, come se fossimo stati fatti l’uno per l’altra, da sempre. Come se i nostri destini fossero sempre stati allacciati. All’apice del piacere lo serrai contro di me, sussurrando il suo nome, quasi invocandolo, come a chiedergli di non lasciarmi mai più. Lui rispose con enfasi, affondando per un’ultima volta, lasciandosi sfuggire un gemito di piacere mentre, tremante, si accasciava su di me, completamente svuotato.
Più tardi, quella notte, proprio mentre stavo per abbandonarmi al sonno con la testa appoggiata al suo petto e Boromir si divertiva ad intrecciare le dita tra i miei lunghi capelli, l’Uomo mi sorprese con una richiesta improvvisa.
"Vuoi essere mia sposa?"
Alzai il capo di scatto, chiedendogli di ripetere, convinta di aver frainteso le sue parole.
"Ho chiesto se vuoi sposarmi” mormorò di nuovo, sorridendo nella penombra. “Vuoi concedermi l’onore di diventare la moglie del Sovrintendente di Gondor?"
A quelle parole il cuore parve esplodermi nel petto. Stavo già per gridare il mio sì quando ricordai l’ultima missione che ancora mi attendeva.
"E se dovesse succedermi qualcosa? Se non dovessi tornare?" mormorai dubbiosa, più a me stessa che non a lui.
"Tu sei l’unica donna che amo. In qualsiasi condizione tu tornerai, io ti sposerò!” mi rispose, convinto. “E se non lo farai, se non ritornerai mai più da me, non sposerò nessun’altra!” aggiunse, accorato, un tono che gli era così poco usuale. “Mi lego a te sin d’ora ed onorerò la mia promessa, qualsiasi cosa dovesse succedere! Fai di me l’uomo più felice della Terra di Mezzo. Vuoi sposarmi?"
"Sì, Boromir… Sì, lo voglio!" balbettai, ebbra di felicità, buttandomi tra le sue braccia.
Mi strinse forte a sé, tempestandomi il viso di piccoli baci teneri ed affettuosi. Non appena le nostre labbra si sfiorarono di nuovo, però, la dolcezza lasciò subito il passo alla passione. Quella volta fui io a condurre il gioco, stupendolo ancora di più per la mia audacia, lasciandolo infine stremato e senza fiato.
"Ora sarà meglio dormire…" ansimò, steso supino sul materasso con le braccia spalancate, "o domani mattina non sarò nemmeno in grado di cavalcare…"
"Hai ragione, amore mio… Buonanotte…" gli risposi, accoccolandomi ancora una volta contro di lui, poggiando la testa nell’incavo della sua spalla, il naso contro la curva della sua gola per inebriarmi del suo odore mascolino.
Era il diciotto di marzo, e fu così che trascorsi la mia prima notte con Boromir.


Spazio autrice: Buongiorno a tutti! Ecco la seconda parte del vecchio capitolo precedente, ormai reso in tutto e per tutto un nuovo capitolo. In origine, in questa parte non c’erano cambi di punti di vista. Ho pensato di aggiungerli perché credo che migliorino un po’ la storia, mostrando i sentimenti di entrambi. Ho modificato molto quello che avevo scritto in principio, specialmente nella parte finale, sperando di averla migliorata e di avervi suscitato intense emozioni.
Fatemi sapere, mi raccomando! Qualsiasi cosa!
Anzi, vi dirò di più: c’è qualcuno/a eventualmente interessato a leggere, più nel dettaglio, cosa è successo tra Boromir e Marian? XD Se sì, posso provare a scrivere una one-shot molto, molto piccante…
Per finire, vi lascio con un’immagine, realizzata con il solito giochino dress-up di LOTR… Immaginate un po’ a cosa si riferisce?
Bacioni!
Evelyn
 

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Capitolo 21
*** Il Morannon ***






Il Morannon

 

All’alba fummo svegliati da qualcuno che bussava insistentemente alla porta.
"Sovrintendente Boromir? Sovrintendente, è qui?" gridò una voce dall’altra parte dell’uscio.
Mugolai, stringendomi ancor di più al petto del Gondoriano, impedendogli di alzarsi subito al richiamo.
"Devo proprio andare, tesoro mio” mormorò lui, posandomi un lieve bacio sui capelli. “Quest’oggi ha inizio l’ultimo atto della Guerra dell’Anello."
"Lasciami venire con te, Boromir…" chiesi supplichevole, lasciandolo alzare a malincuore ed osservando la sua schiena muscolosa mentre si rivestiva.
"No! Sei ancora debole, la tua spalla non è ancora guarita del tutto!" mi rispose, in un tono che non ammetteva repliche.
"Stanotte non te ne sei dato troppo pensiero, però…" sussurrai maliziosa, e quell’accenno alla notte appena trascorsa lo fece arrossire involontariamente.
"Tra le mie braccia non correvi alcun pericolo, ma nei prossimi giorni sarà ben diverso" disse, cercando di mantenere un tono rigido, mentre si infilava gli stivali di pelle. "Ora devo proprio andare, amore mio, ma ti prometto che, non appena tutto questo sarà finito, la prima cosa che farò sarà annunciare pubblicamente le nostre nozze."
Si chinò, dandomi un bacio veloce.
"Dimentichi che anch’io devo entrare a Mordor" gli ricordai, mentre si allacciava il fodero della spada alla vita.
"Lo farai. Ma solo dopo che avrò fatto ritorno!” concluse secco. Raggiunse la porta a grandi falcate e, prima di aprirla, si voltò a guardarmi. “Ti amo" sussurrò teneramente e, con quelle parole, mi lasciò sola.
Non appena fu uscito mi alzai subito dal letto. Non avevo nessuna intenzione di attendere il suo rientro. Dovevo andare a Mordor e l’avrei fatto insieme agli altri, marciando con il resto dell’esercito.
"A costo di calarmi dalla finestra con le lenzuola annodate, se il responsabile non mi lascia uscire!" sentenziai a voce alta, affacciandomi all’apertura per valutare l’altezza da terra.
Mi vestii in fretta con i miei soliti abiti maschili, indossai il vecchio fodero di Hoskiart a tracolla, provai un paio di volte ad estrarre la spada – stringendo i denti per sopportare meglio il dolore delle ferite – poi mi avvolsi nel mantello di Lòrien ed uscii dalla stanza, diretta verso l’esterno.
Naturalmente – come avevo immaginato – appena fatti pochi passi fui raggiunta da una delle guaritrici: Boromir aveva dato ordine a tutti di impedirmi di uscire. La liquidai con un gesto della mano, senza nemmeno rivolgerle la parola, passandole accanto come un fulmine. Quella lanciò un grido di allarme e, ben presto, mi ritrovai circondata da un nugolo di persone. Tentai inutilmente di farmi largo, minacciando persino di sfoderare la spada, ma senza ottenere alcun risultato. Scornata, fui costretta a tornare sui miei passi, dirigendomi verso il giardino.
Lì, trovai già Faramir, Éowyn e Merry che osservavano dall’alto i preparativi per la partenza dell’esercito. Sia la donna sia l’Hobbit bramavano ardentemente di raggiungere gli altri, mentre il giovane Gondoriano pareva aver accettato la sua condizione di “recluso” con filosofia, ed era anzi divertito dalle espressioni rabbiose della Rohirrim.
"C’è poco da ridere! Ha perfettamente ragione a lagnarsi!" lo apostrofai, notando il suo sorrisetto mentre li raggiungevo, vicino al muro esterno.
"Non dirmi che anche tu vorresti partire?!" rispose, il sorriso che si ampliava.
"Non “vorrei”. Voglio! Partirò, questo è certo! Forse non oggi, forse non domani, ma di sicuro prima che l’esercito arrivi al Cancello!” sbraitai, incapace di contenere la rabbia e la frustrazione. “Devo andare a Mordor, e non mi importa un fico secco se tuo fratello vuole che io rimanga qui fino al suo ritorno! Io faccio come mi pare!"
Faramir scoppiò a ridere.
"Credo che mio fratello abbia proprio trovato la fanciulla giusta per lui! Una ragazza di carattere che riesce perfettamente a tenergli testa!”
"Non penso che sia il solo, però… O sbaglio?" dissi, sorridendo a mia volta ed ammiccando in direzione di Éowyn, che stava ancora discutendo con Merry su quanto sarebbe stato bello poter salire nuovamente in groppa a Windfola, il suo grande destriero, e correre verso la battaglia.
L’uomo arrossì vistosamente, imbarazzato, per poi scoppiare di nuovo a ridere.
"No, non sbagli, sorella mia!"
Quell’appellativo mi scaldò il cuore: sarebbe stato bello diventare sua cognata, riflettei tra me e me. E non vedevo l’ora che accadesse.
Non appena l’esercitò fu partito, scomparendo in una nuvola di polvere nella tenue luce del mattino, mi misi ad escogitare un piano per lasciare l’edificio. Faramir capì immediatamente che stavo tramando qualcosa e mi si avvicinò.
"Sei realmente intenzionata ad andare con loro, non è vero?" mi chiese, di nuovo serio.
"Sì, Faramir!" gli risposi accorata, alzando lo sguardo lo su di lui. Oltre all’urgenza della missione, avevo cominciato a provare un nuovo timore. Fino ad allora, Boromir aveva avuto la “Stella di Fëanor” a salvaguardarlo ma, ora che me l’aveva restituita, quale talismano ci sarebbe stato a proteggerlo da quella morte che io, con il mio intervento, avevo evitato? E se la storia avesse voluto riprendere il suo vero corso, facendo perire il Capitano Generale davanti al Morannon? Sarebbe stato tutto inutile! Dovevo assicurarmi che tutto andasse per il verso giusto. Spiegai le mie motivazioni al giovane Uomo che mi stava davanti, la voce traboccante ansia.
"Se è questo ciò che temi, allora ti aiuterò!” mi rispose stringendomi le mani, come ad infondermi coraggio. “Cercherò di distrarre i guaritori e gli inservienti, permettendoti di allontanarti indisturbata. Però dovrò pensare a qualcosa di convincente e credo che dovrai attendere fino a domani."
Annuii e lui continuò. "Chiederò anche ad Éowyn e a Merry di aiutarmi. Fatti trovare vicino all’ingresso, domani mattina all’alba. Se il nostro espediente funzionerà, corri alle scuderie! Boromir mi ha detto che la tua cavalla è stata curata a dovere ed ora si trova nelle stalle” spiegò. “Si trovano poco lontano da qui, proprio sotto la residenza della Guardia della Cittadella.” Si interruppe, per tracciare una semplice mappa della sesta cerchia nella terra battuta dei sentieri del giardino. “Non appena sarai in groppa parti a spron battuto perché, se le guardie riusciranno a bloccarti, non potrò fare più niente, per aiutarti!"
Lo ringraziai vivamente con un caloroso abbraccio, poi mi ritirai nella mia stanza per prepararmi.
La mattina dopo, all’alba, mi appostai vicino al portone delle Case di Guarigione. Avvolta strettamente nel mantello di Lòrien mi accoccolai in un angolo buio, nell’attesa che Faramir e gli altri mettessero in atto il loro piano.
Dopo pochi minuti, un grido isterico risuonò per i lunghi corridoi, seguito subito dopo da una specie di squittio spaventato. Uno scalpiccio di piedi scalzi, accompagnato dal ciabattare di un passo affrettato, rimbombò sotto le volte a sesto acuto. Merry ed Éowyn stavano correndo a perdifiato, l’Hobbit inseguito dalla donna che strepitava come una pazza, fingendo una crisi isterica. Subito dopo, la voce di Faramir si unì al duetto, attirando così l’attenzione di tutti i presenti.
Alcuni guaritori mi sfrecciarono accanto senza notarmi, diretti verso la fonte del disturbo. Nessuno si degnò di rimanere nei pressi del portone d’ingresso perciò, non appena fui sicura di essere sola, presi la porta e corsi verso le scuderie.
Le strade erano deserte e la città era immersa nella penombra. Raggiunsi velocemente le stalle che, a quell’ora del mattino, erano quiete e silenziose. Mi aggirai furtiva in cerca della mia giumenta: Freccia d’Argento occupava proprio uno degli ultimi cubicoli. Non appena mi vide, proruppe in un acuto nitrito di gioia, facendomi sobbalzare per la sorpresa.
"Shh!” sibilai, cercando di zittirla. “Freccia, non fare rumore! Le guardie non sanno che sono qui!"
Ma, ormai, era troppo tardi. I soldati che vivevano nella caserma soprastante le scuderie erano stati allertati dal baccano. Feci appena in tempo a saltare in groppa alla cavalla che già cinque o sei guardie accorrevano all’entrata.
"Ferma! In nome del Sovrintendente!" gridarono alcune, alzando le mani ad intimarmi l’alt. Senza prestar loro la minima attenzione mi chinai sul collo di Freccia, avvinghiandomi strettamente con le dita alla sua criniera argentea.
"Vai, più veloce che puoi" le sussurrai all’orecchio, con urgenza. Subito la giumenta si slanciò in avanti con un altro nitrito, superando i soldati con un agile balzo e buttandosi a rotta di collo lungo le strette strade di Minas Tirith, diretta alle porte della città. I suoi zoccoli risuonarono sul selciato marmoreo, riverberando contro le pareti delle case ancora addormentate.
Le mura, distrutte dall’assalto dell’esercito di Sauron, erano state riparate posticciamente con delle semplici barricate di legno. Freccia d’Argento le superò con un salto, senza nemmeno rallentare, per poi correre veloce come il vento verso le rovine di Osgiliath. La cavalla filava talmente veloce che riuscivo a sentire soltanto il vento che mi fischiava nelle orecchie. La lasciai libera di scegliere l’andatura che preferiva, e lei continuò a galoppare come un turbine fino a che non ebbe attraversato il Grande Fiume. Mi appiattii ancor di più contro il suo collo per non venire sbilanciata, mentre il paesaggio mi scorreva intorno, confuso.
Mano a mano che passavano i minuti, però, cominciai a rendermi conto che Boromir aveva ragione: la ferita alla spalla non era ancora guarita del tutto. Ad ogni sobbalzo provavo un dolore fortissimo e, ben presto, la manica della casacca si inzuppò di un liquido caldo e viscoso. Allungai lentamente la mano sinistra per tastare la parte dolorante e, quando la ritrassi, la vidi macchiata di sangue. In aggiunta, pure Freccia sembrava non galoppare più con lo stesso ritmo delle prime ore. Ogni tanto zoppicava e rabbrividiva, nitrendo lentamente. Mi sporsi con fatica a guardare: un rivoletto di sangue le sgorgava dal collo, scendendole lungo la zampa anteriore. Mi resi immediatamente conto che non potevamo continuare in quelle condizioni, perciò le chiesi di fermarsi. Con un nitrito di sollievo la giumenta si arrestò, tremando, con il corpo coperto di schiuma biancastra.
Scivolai lentamente a terra, stringendo i denti per il dolore, ed andai ad esaminare la sua ferita. Per fortuna la lacerazione si era riaperta solo superficialmente, anche se sanguinava in abbondanza. Mi guardai intorno, alla frenetica ricerca di un’erba in particolare, dalle proprietà cicatrizzanti: l’Achillea Millefoglie. Mia nonna era stata, da sempre, un’appassionata di botanica e, da lei, avevo imparato a riconoscere molti tipi di piante ed arbusti dalle più svariate capacità. Certo, l’Achillea non poteva davvero reggere il confronto con l’Athelas, ma sarebbe servita adeguatamente al mio scopo.
Alla mia destra notai un’antica statua con la testa, un tempo staccata dal busto, riposizionata alla bell’e meglio al suo posto originario. Capii subito di trovarmi al “Crocevia del re caduto”. Rimuginando sugli avvenimenti del libro, ricordai che l’esercito riunito di Gondor e Rohan era giunto in quel luogo sul far della sera. Quindi, riflettei, Aragorn e gli altri avevano circa mezza giornata di vantaggio su di me.
Alla base della statua si trovava un tappeto di piccoli fiori bianchi, raccolti in capolini, contornati da tante foglioline frastagliate. Sorrisi involontariamente, riconoscendo la piantina che cercavo e che doveva il suo nome niente meno che al Pelide Achille. Secondo gli antichi storici, infatti, anche l’eroe greco protagonista dell’Iliade aveva usato proprio quella piccola pianticella per curare le ferite di alcuni suoi compagni, durante la guerra di Troia. Sorrisi ancora al ricordo delle storie che mia nonna era solita raccontarmi, quando mi mostrava le varie erbe curative che conosceva.
Mi chinai e raccolsi una bella manciata di foglie, prendendo a strizzarle tra le mani, riducendole ad una poltiglia fibrosa. Sciacquai la ferita di Freccia d’Argento con l’acqua, ancora limpida, di un ruscelletto che gorgogliava poco lontano e poi vi applicai l’impiastro, facendolo aderire direttamente sulla lesione. Infine, strappai una lunga striscia dal mio mantello elfico, per fare una fasciatura di fortuna. L’erba si intrise subito di sangue, ma la pezza di stoffa rimase quasi interamente pulita. La giumenta aveva seguito attentamente ogni mio movimento e quando mi raddrizzai a fatica, dichiarandomi pronta a ripartire, lei voltò la testa e mi sfiorò la spalla destra con il muso, sporcandosi un poco le froge con il mio sangue.
"Oh, non preoccuparti per me” le sussurrai, carezzandole la fronte con la mano sinistra. “Sei tu che devi fare tutto il lavoro, per adesso. E poi, anche se volessi” aggiunsi, “non riuscirei a fare niente. La ferita è fuori della mia portata… Forza, rimettiamoci in marcia!"
Le saltai in groppa con fatica, stringendo i denti, mentre lei riprendeva a galoppare in direzione del Morannon, all’inseguimento dell’esercito riunito della Terra di Mezzo.
Al tramonto arrivai in vista dei primi fuochi del campo. Ero stremata, tremante di febbre e con la vista annebbiata. Non riuscivo più a muovere il braccio destro ed avevo la casacca intrisa di sangue. Per via del lungo galoppare, pure la fasciatura di Freccia aveva ceduto e la sua ferita aveva ripreso a sanguinare.
Le sentinelle appostate ai margini dell’accampamento si presero un bello spavento nel veder arrivare un cavallo coperto di schiuma biancastra e scosso da brividi di dolore, con in groppa un’Elfa che stentava a mantenersi dritta e che, per di più, aveva il lato destro della schiena completamente coperto di sangue. Presero subito a gridare qualcosa in gondoriano ed, a quei richiami, uno dei soldati seduti lì vicino partì di slancio, diretto verso il centro dell’accampamento. Con gli occhi velati, seguii a fatica la sua corsa fino a che non scomparve, inghiottito dalle tende.

 
* * *

 

I restanti membri della Compagnia dell’Anello, in compagnia di Éomer ed Imrahil, erano riuniti in assemblea nella tenda centrale del campo. Stavano studiando tattiche e strategie di guerra, per meglio decidere come comportarsi una volta giunti di fronte al Nero Cancello. L’ingresso del soldato che proruppe correndo come un turbine nella tenda li fece sobbalzare tutti quanti, tanto che Pipino rovesciò la sua mezza pinta di birra sulla mappa che gli altri stavano consultando.
"Sire Boromir! Sire Aragorn! Accorrete, presto!" esclamò il gendarme, in tutta fretta.
"Cosa è successo di tanto urgente da farti piombare qui dentro come un invasato? Parla!" gli intimò Gandalf, tentando di rimediare al danno fatto da Pipino che, nel frattempo, stava chiedendo perdono in tutte le lingue della Terra di Mezzo, conosciute e non.
"È appena arrivata un’Elfa in groppa ad una giumenta color dell’argento! Sono entrambe ferite!" rispose il soldato, rivolgendosi allo Stregone.
"Freccia!" gridò Pipino, interrompendo all’improvviso la sua litania di scuse.
"Marian!" esclamarono all’unisono Aragorn e Boromir, facendo eco all’Hobbit. Entrambi avevano capito subito di chi doveva trattarsi, perciò uscirono di volata dalla tenda, seguendo il compagno d’armi che li precedeva.
"Al nostro ritorno il responsabile delle Case di Guarigione avrà la punizione che si merita!” esclamò il Sovrintendente, percorrendo l’accampamento a passo di marcia. “Gli avevo espressamente ordinato di non lasciarla partire, per nessun motivo al mondo!"
"Prima di decretare sentenze sentiamo cosa ha da dire Marian" gli rispose il futuro Re, serio.
Camminando come se avessero avuto i Nazgûl alle calcagna, i due Uomini raggiunsero velocemente i margini del campo. Appena in tempo perché Boromir potesse afferrare al volo la fanciulla che stava scivolando giù dalla groppa del cavallo, ormai priva di sensi.

 
* * *

 

Quando riaprii gli occhi, la prima cosa che vidi fu il viso serio di Boromir. Aveva la bocca contratta, ridotta ad una linea sottile che quasi scompariva tra i peli di barba e baffi. Pochi istanti dopo, subito sotto fece capolino la faccia di Pipino. I suoi grandi occhi verdi erano pieni di ansia e preoccupazione. Non appena si rese conto che ero sveglia, l’Hobbit attaccò a parlare a raffica.
"Oh Marian! Hai fatto proprio una sciocchezza, un’enorme sciocchezza! La tua ferita si è riaperta ed hai perso molto sangue! Aragorn ha detto che…"
"Risparmiami la predica, Peregrino" lo interruppi, in un tono più secco di quanto avrei voluto. "Avevo le mie buone ragioni per fare quello che ho fatto!"
"Vorresti, per favore, farne partecipe anche me?" chiese Boromir, con voce cupa.
Il giovane Tuc lasciò vagare lo sguardo sui nostri volti accigliati. Capì immediatamente che nella tenda si stavano addensando nubi di tempesta e preferì lasciarci soli.
"Tolgo il disturbo, gente… Ci vediamo più tardi..." squittì, retrocedendo a passo svelto.
Non appena rimasti soli, Boromir ripeté la domanda. Sospirai e risposi con tutta sincerità.
"Avevo paura che potesse succederti qualcosa. Che… che tu potessi morire."
"Sciocchezze! Sono sopravvissuto alla Battaglia dei Campi del Pelennor, e a molte altre battaglie prima di quella” disse con enfasi. “Non vedo perché dovrebbe accadermi qualcosa proprio adesso!"
"Forse dimentichi che, secondo la storia originale, tu dovresti essere morto! E se il destino volesse riprendere il suo corso perduto?" gli domandai, piena di timore.
"Ed allora perché non al Fosso di Helm? Oppure davanti alle mura della mia città?" mi chiese, in tono quasi sarcastico.
"Perché indossavi la “Stella di Fëanor”, che ti è servita da porta fortuna!” proruppi, alzando il tono. “Ma ora il mio gioiello non è più al tuo collo!"
Involontariamente, il Gondoriano portò la mano alla gola. Si immobilizzò e parve riflettere sulle mie parole.
"Non potrei sopportare di perderti proprio ora che ci siamo ritrovati” ripresi in un sussurro. “Non essere in collera con me, Boromir…"
Lui chinò lo sguardo, sospirò e fece un mezzo sorriso.
"Non sono arrabbiato con te. Ero semplicemente preoccupato, ecco tutto” mi spiegò, in tono più calmo, mettendosi seduto sul giaciglio, al mio fianco. “Hai riaperto la tua ferita ed hai perso molto sangue. Nemmeno Freccia è in buone condizioni. Nonostante tu l’abbia medicata e bendata, pure la sua lesione si è aperta di nuovo…"
"Lo so” lo interruppi, “ma… te l’ho già detto, non potevo lasciarti da solo."
Si protese verso di me, sfiorandomi le labbra con un bacio.
"Ora riposati” disse mentre si rialzava. “Io devo tornare dagli altri Comandanti, per decidere la nostra strategia, ma chiederò a Pipino di farti compagnia. Tornerò appena potrò."
Pochi minuti dopo la sua uscita, la testa del giovane Tuc fece capolino da un lembo della tenda, seguita subito dopo dal resto del suo corpo. L’Hobbit aveva già ritrovato il buonumore che lo contraddistingueva e si divertì ad intrattenermi, raccontandomi scenette comiche avvenute nella Contea. La sua allegria era contagiosa e, benché la ferita fosse molto dolorosa, non potei proprio fare a meno di ridere come una pazza alle sue battute.
La riunione dei Comandanti durò molto a lungo. Oramai era notte inoltrata, ed il capo del povero Mezzuomo ciondolava dal sonno ormai da parecchi minuti. Lo invitai a stendersi sul giaciglio di pelli ed a riposarsi, e lui non se lo fece ripetere due volte. Si accoccolò in fondo al letto improvvisato, mormorò una strascicata “Buonanotte” e si addormentò all’istante.
Quando Boromir rientrò lo trovò così, ancora nella stessa posizione di quando si era addormentato. Io, invece, non riuscivo a prendere sonno, per via del dolore pulsante alla spalla e della tensione e preoccupazione che albergavano nel mio animo. Il Gondoriano sorrise nella semioscurità, sollevò lentamente Pipino tra le braccia – stando bene attento a non svegliarlo – e lo portò nella sua tenda, per poi tornare subito dopo.
Scivolò piano sotto le calde pelli di lupo che fungevano da coperta, facendomi poggiare la testa nell’incavo della sua spalla. Mi baciò sulla tempia e mi strinse teneramente a sé, senza parlare. Cullata dal lento e regolare battito del suo cuore riuscii finalmente ad addormentarmi.
La mattina dopo ci volle del bello e del buono per convincere Boromir e gli altri che ero perfettamente in grado di affrontare la marcia in sella ad un cavallo. Avevo perso molto sangue, ma le cure di Aragorn erano riuscite a rimettermi in sesto nel giro di poche ore. Poiché Freccia D’Argento, però, mostrava ancora i segni dell’estenuante cavalcata cui l’avevo costretta il giorno precedente, fui obbligata a giungere ad un compromesso: avrei cavalcato con il Capitano Generale, mentre la mia giumenta ci avrebbe seguito senza cavaliere.
La marcia verso la nostra meta durò per altri quattro giorni durante i quali, ogni tre ore, gli araldi al seguito dell’esercito annunciavano l’arrivo del Re di Gondor e del suo Sovrintendente. I momenti che seguivano a quegli appelli erano sempre i più carichi di tensione: i soldati stringevano le armi in pugno, pronti a rispondere ad un possibile assalto. Ma, stranamente, nessuno si fece mai vivo.
Infine, all’alba del quinto giorno, giungemmo in vista del Morannon, il Nero Cancello di Mordor. Si trattava di un’enorme struttura lignea, tanto vasta e pesante da necessitare l’impiego di numerosi Troll per poterne aprire i battenti.
Davanti al varco si ergevano due collinette, come piccole isole sopraelevate rispetto al resto della pianura morente. Aragorn fece schierare l’esercito proprio sulle due cime, suddividendolo in due ali: una al comando di Éomer e del principe Imrahil e l’altra capeggiata da lui stesso e da Boromir. I vessilli di Rohan e Dol Amroth, rispettivamente verde e rosso, sventolavano a fianco a fianco mentre, sull’altro lato, lo stendardo di Gondor – ricamato personalmente da Arwen in Mithril e gemme preziose – svettava solenne alle spalle del futuro Re e del suo Sovrintendente.
A quel punto mi fu concesso, finalmente, di poter salire in groppa alla mia cavalla, con l’obbligo, però, di restare nelle retrovie. Vi rimasi per pochi minuti solamente: Freccia intuì subito la mia volontà e lentamente, al passo, mi condusse fino al fianco di Boromir, proprio in prima linea.
Ad un suo comando, gli araldi del regno si fecero avanti, facendo squillare le trombe ed annunciando con voce solenne l’arrivo del Re di Gondor e del suo Sovrintendente. Per alcuni istanti niente si mosse e non arrivò alcuna risposta. I banditori stavano per portare di nuovo i loro strumenti alla bocca, per ripetere il messaggio, quando nell’enorme battente destro del possente cancello si aprì uno spiraglio, accompagnato da un sinistro cigolio. Un singolo Uomo a cavallo ne uscì lentamente. Il suo volto era quasi interamente celato da un alto elmo appuntito; soltanto la bocca era visibile: un orifizio infernale, irto di denti marcescenti ed appuntiti. Fu subito ben chiaro a tutti di chi si trattava: il primo luogotenente dell’Oscuro Signore, la “Bocca di Sauron”.
Aragorn gli si avvicinò lentamente, fissandolo con astio, la bocca ridotta ad una linea sottile per lo sdegno.
“Il mio padrone, Sauron il Grande, vi porge il benvenuto” sibilò la creatura, mostrando i denti. “Ho un pegno che mi è stato ordinato di mostrarvi.”
Da una bisaccia estrasse due oggetti, riconoscibilissimi anche nella distanza: la cotta di Mithril di Frodo e la spada di Sam. Scosse vigorosamente la prima facendola tintinnare, prima di lanciarla in direzione dell’erede di Isildur che la afferrò al volo.
A quella vista, Pipino si lasciò sfuggire un’esclamazione di sgomento.
“Frodo, no!” gridò, prima che Gandalf potesse tappargli la bocca.
Mi accostai a lui e sussurrai al suo orecchio.
“Non temere, amico mio. Frodo e Sam sono ancora vivi e liberi. Non vedi? La spada che quell’essere ha in mano non è Pungolo” gli feci notare, indicandola col dito. “Sai cosa significa? Che quei due oggetti sono stati semplicemente trovati dagli Orchi. Vogliono farci credere di averlo catturato, ma puoi star sicuro che non è questo il caso” spiegai, fissandolo negli occhi, rivelandogli forse più di quanto avrei dovuto.
Pipino spalancò le palpebre, incredulo, poi sussurrò.
“Tu sai cosa sta succedendo a Mordor, non è vero? Tu conosci tutta la storia!”
Sorrisi, enigmatica, senza rispondere. Gandalf annuì impercettibilmente e mi strizzò l’occhio.
Aragorn stesso aveva ben capito che quello della “Bocca di Sauron” altro non era che un trucco. Fremente di rabbia si accostò al luogotenente dell’Oscuro Signore e, con un unico movimento fluido, alzò Andùril e tagliò di netto il capo del suo avversario – che si abbatté al suolo senza neanche un lamento – per poi tornare alla testa dell’esercito.
A quel punto, con un terribile cigolio, spinto a braccia dai Troll il Nero Cancello si spalancò lentamente, mostrando un esercito immenso che si estendeva a perdita d’occhio per le pianure di Mordor.
Alla vista di tutti quei nemici un fremito di terrore percorse tutta la nostra piccola armata. Il futuro Re levò di nuovo la spada e, con un grido belluino che infuse nel cuore di tutti forza e coraggio, guidò la carica della cavalleria che si infranse come un’onda contro la barriera di Orchi.
Era giunto il momento di combattere ancora. Lanciai Freccia d’Argento al galoppo sfoderando Hoskiart allo stesso tempo, mantenendomi alla destra di Boromir. La spalla mi faceva ancora male, ma la spada sembrava muoversi di sua spontanea volontà nella mia mano, come guidata da una forza irresistibile.
"Ti avevo detto di rimanere nella retroguardia!" mi gridò il Gondoriano, infilzando il primo Goblin che gli capitava a tiro.
"E perdermi tutto lo spettacolo? Non se ne parla nemmeno!" risposi, decapitando un Orchetto, mentre la giumenta, con un calcio bene assestato, ne spediva un altro a gambe all’aria.
Ogni speranza di vittoria era ovviamente vana. Il piccolo esercito non avrebbe mai potuto prevalere su quell’orda di terrificanti creature, senza contare gli Esterling e gli Haradrim che ingrossavano le fila già incredibilmente cospicue dell’armata di Mordor. Il nostro unico compito era quello di mantenere il più a lungo possibile l’Occhio di Sauron lontano dai due Mezzuomini, anche a costo delle nostre vite, se necessario. In quel momento, la missione di Frodo e Sam aveva la priorità su tutto il resto: distruggere l’Anello era tutto ciò che contava.
I soldati combattevano valorosamente. Ne vidi cadere molti, vicino a me, ed ogni volta il mio cuore desiderava che tutto potesse finire al più presto.
Infine, gli otto Nazgûl superstiti piombarono su di noi dal cielo e, per un momento, la cavalleria si fece prendere dallo sgomento. Le formazioni di combattimento si dispersero e molti altri Uomini persero la vita. Le strida delle cavalcature alate degli Spettri dell’Anello risuonavano nell’aria, tanto che fui costretta a tapparmi le orecchie mentre anche Freccia d’Argento scalciava imbizzarrita.
Stavo per temere il peggio quando Gandalf, finalmente, gridò.
"Le aquile! Arrivano le aquile!"
Alzai gli occhi appena in tempo per vedere Gwaihir, il Re dei Venti, lanciarsi con gli artigli protesi contro uno dei mostri volanti. Al suo seguito, volavano altre decine di aquile dalle ali così grandi da coprire quasi completamente il cielo. Così, mentre a terra si combatteva a piedi ed a cavallo, gli enormi rapaci ingaggiarono una lotta aerea con i Nazgûl, e due di questi ultimi furono abbattuti.
Il numero dei nemici era tale, però, che saremmo stati comunque facilmente sopraffatti se Gollum, al posto giusto nel momento giusto, non fosse precipitato nella Voragine del Fato con l’Anello in mano. Non appena Sauron si accorse di quanto stava accadendo il suo Occhio si volse subito all’Orodruin, richiamando allo stesso tempo i Nazgûl rimasti. Quelli volarono più velocemente possibile ma, per quanto rapidi fossero, non fecero mai in tempo ad arrivare al Monte Fato e caddero sconfitti non appena l’Anello fu distrutto. La torre di Barad-Dûr crollò lentamente su se stessa, come un castello di carte, e l’Occhio infuocato si spense per sempre. A quel punto, l’esercito nemico si dette alla fuga. Gli Orchi sbattevano l’uno contro l’altro mentre cercavano precipitosamente di ritirarsi. L’Orodruin cominciò a vomitare lava, ed una tremenda scossa di terremoto percorse la superficie, già duramente provata, della terra di Mordor. Le fenditure si allargarono a tal punto da inghiottire i nemici in fuga, e quelli che non ci caddero accidentalmente ci si buttarono dentro di proposito, per paura di dover affrontare le nostre spade.
Solo gli Esterling e gli Haradrim rimasero a combattere, incuranti del fatto che Sauron era ormai stato sconfitto. Aragorn fece deporre le armi ai nostri soldati e, con voce stentorea, spiegò ai Sudroni che l’unico nemico comune a tutti i popoli mai esistito era ormai distrutto. Gli Uomini del Sud lo ascoltarono con attenzione, compresero che le sue parole erano veritiere ed accettarono la resa senza indugio.
Stanca, con la spalla dolorante ma soddisfatta, mi avvicinai a Boromir che stava ripulendo la lama della spada dal sangue dei nemici con un lembo del suo mantello.
"Tu l’hai sempre saputo che sarebbe andata a finire così, non è vero?" mi chiese non appena gli fui accanto, alzando lo sguardo su di me.
"Sì, ma non ho voluto rovinarvi la sorpresa…" gli risposi, ammiccando.
Fece un mezzo sorriso, accostò il suo viso al mio e mi baciò teneramente.
Era il venticinque di marzo, e così ebbe fine la tirannia di Sauron.


Spazio autrice:
Eccomi di nuovo qua! Finalmente ce l’ho fatta! La revisione di questo capitolo è stato un vero e proprio travaglio! A parte gli impegni di lavoro, che queste ultime due settimane mi hanno tenuta parecchio occupata, fino all’ultimo avevo intenzione di accorpare questo capitolo a quello che seguirà, per poi dividere il tutto in tre parti. Arrivata ad un certo punto, però, mi sono resa conto che questa idea non funzionava come avrebbe dovuto, così l’ho accantonata ed ho deciso di mantenere la suddivisione originaria. E’ anche per questo che mi ci è voluto molto più tempo del solito.
Questo capitolo è ispirato per la maggior parte al libro: la descrizione della marcia verso il cancello, la suddivisione dell’esercito sulle due colline e la battaglia sono tratte appunto dalla carta stampata. L’unica scena che ho ripreso dalla Extended Version del film è la parte che riguarda la “Bocca di Sauron” e la sua decapitazione da parte di Aragorn.
Ed ora, in conclusione, vi ringrazio di tutto cuore per la pazienza con cui mi avete aspettato.
Vi lascio, infine, con un’immagine dell’Achillea Millefoglie, tratta da Wikipedia.
Bacioni!
Evelyn


 

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Capitolo 22
*** L'ultima missione ***








L’ultima missione


Avrei tanto voluto avere più tempo da passare in compagnia del Gondoriano ma, purtroppo, altre incombenze urgevano. I caduti dovevano essere sepolti e Frodo e Sam recuperati dall’inferno di lava che la Terra di Mordor era diventata. 
Gandalf chiese aiuto alle aquile e Gwaihir, con suo fratello Landroval, acconsentì ad accompagnarlo alla ricerca degli Hobbit. Non appena tornarono, e mi fui accertata delle reali condizioni dei due Mezzuomini, cominciai i preparativi per la mia ultima missione.
Lasciai Hoskiart alla custodia di Pipino. I nemici erano stati completamente sbaragliati e la spada sarebbe stata solo un peso inutile da trasportare, durante la mia marcia a piedi verso il Monte Fato. L’Hobbit la prese con mani tremanti, poi continuò a seguirmi come un’ombra, sommergendomi con i suoi consueti fiumi di parole nel tentativo, forse, di dissuadermi dal partire. Mentre parlava, tutto accalorato, faceva oscillare la mia spada da una parte all’altra, maneggiandola come se fosse stata un qualunque bastone. 
Non ascoltai neanche la metà di quello che disse. La mia mente era divisa in due: da un lato concentrata su ciò che mi attendeva; dall’altro costantemente rivolta a Boromir che, da quel bacio scambiato che eravamo ancora a cavallo, non avevo più visto. Percorsi l’accampamento in lungo ed in largo, in cerca del Sovrintendente. Dovevo partire, ma non avevo assolutamente intenzione di farlo senza prima averlo salutato a dovere. Stavo già per farmi prendere dal panico quando, alla fine, lo vidi fare capolino dalla tenda di Gandalf.
"Finalmente ti ho trovato!" esclamai, entrando senza neanche farmi annunciare. "Io sono pronta…"
"Anch’io" mi interruppe, con un sorriso.
"Per che cosa?! Sai benissimo che devo andare da sola" mormorai, guardandolo incerta.
"Certo che lo so. Infatti, non mi stavo riferendo alla tua missione, ma ad un’altra cosa" e, mentre pronunciava quelle parole, lanciò un’occhiata in tralice allo Stregone che rispose con una strizzatina d’occhio.
Guardai prima l’uno e poi l’altro, con sguardo interrogativo.
"Cosa state tramando, voi due?” li apostrofai. “Guardate che se avete intenzione di impedirmi di fare quello che devo fare…" ripresi con tono minaccioso, puntando l’indice verso entrambi.
"Stai tranquilla mia cara" mi rispose Gandalf, avvicinandosi e posandomi una mano sulla spalla. "Non abbiamo intenzione di proibirti nulla. Boromir mi ha semplicemente chiesto di rendere ufficiale la promessa che vi siete fatti nella notte prima di partire per il Morannon."
Il Gondoriano si avvicinò, prendendomi entrambe le mani e portandomi davanti a lui.
"Ricordi ciò che ti dissi? Che, non appena tutto fosse stato finito, avrei annunciato pubblicamente le nostre nozze?" mi chiese, ed io annuii.
"È ciò che ho intenzione di fare adesso" spiegò, appoggiando la sua fronte alla mia.
In quel momento, fecero il loro ingresso nella tenda Aragorn, Legolas e Gimli, accompagnati da Éomer e Imrahil. Quest’ultimo si mise alla sinistra del nipote, mentre il futuro Re si piazzò alla mia destra. Mi voltai a guardarlo, confusa, e lui mi sorrise.
Gandalf si schiarì rumorosamente la voce. Stava giusto per cominciare il rito, quando il lembo della tenda si sollevò per un’ultima volta, lasciando entrare un trafelato Pipino.
"Ehi, ehi! Aspettatemi, non potete cominciare senza di me!" esclamò, affannato. 
Mi voltai a guardarlo, in un misto di incredulità e disappunto.
"Mi stai dicendo che tu lo sapevi?!" gli chiesi, con un pizzico di rabbia. "E non mi hai detto niente?!"
"Non potevo mica dirtelo, era un segreto!" mi rispose, serio, raddrizzandosi e mettendosi sull’attenti. 
Scossi la testa, sospirando rassegnata, per poi tornare subito a sorridere mentre con gli occhi cercavo quelli di Boromir.
Lo Stregone si schiarì nuovamente la voce.
"Bene! Davanti a questi testimoni qui riuniti, celebriamo il rituale di fidanzamento tra Boromir e Marian! Ripetete dopo di me" disse, guidandoci passo passo nella cerimonia.
"Secondo l'antica tradizione degli Eldar, chiediamo a voi, nostri cari e nostra gioia, di essere testimoni della nostra promessa" recitammo insieme, continuando a fissarci. Poi, Boromir prese la parola.
"Ecco colei che ho scelto ed a cui ho legato il mio cuore" disse, rivolto a suo zio che gli faceva da padrino. "A te mi affido come figlio dell'anima. Accoglila dunque come un padre accoglie una figlia e rallegrati della nostra gioia."
"Come una figlia l'accolgo nella mia anima e nel mio cuore" rispose il Principe di Dol Amroth e, dopo essersi avvicinato, mi posò le mani sulle spalle, invitandomi a fare altrettanto. Mi dette un leggero bacio sulla fronte per poi tornare al fianco del nipote, che riprese la parola.
"Il mio cuore è legato al tuo. Porta dunque questo anello, che ora ti dono, come pegno della mia fedeltà e segno del nostro legame."
Per un istante cadde il silenzio, rotto soltanto dai singhiozzi di Pipino che si stava asciugando gli occhi con la manica della casacca, tirando su rumorosamente con il naso. Non appena si accorse che tutti lo stavano osservando si interruppe bruscamente.
"Scusate…” balbettò, “ma mi commuovo facilmente…"
Gandalf non riuscì a trattenere un grugnito. Poi, porse un anello d’argento a Boromir che, subito, infilò all’indice della mia mano sinistra.
"Con gioia lo accetto in dono, con gioia lo porterò” dissi, continuando a seguire la formula di rito, per poi rivolgermi ad Aragorn.
"Ecco colui che ho scelto ed a cui ho legato il mio cuore. A te mi affido come figlia dell'anima. Accoglilo dunque come un padre accoglie un figlio e rallegrati della nostra gioia."
"Come un figlio l’accolgo nella mia anima e nel mio cuore" rispose il Dùnedain, poggiando le mani sulle spalle di Boromir e baciandolo in fronte.
"Il mio cuore è legato al tuo” ripresi. “Porta dunque questo anello, che ora ti dono, come pegno della mia fedeltà e segno del nostro legame" e, sorridendo, misi al dito del Sovrintendente l’anello che Gandalf mi porgeva.
"Con gioia lo accetto in dono, con gioia lo porterò" rispose il Gondoriano, sorridendo a sua volta, unendo nuovamente le nostre fronti.
Infine, lo Stregone ci fece rivolgere ai presenti.
"I Valar siano testimoni accanto a voi di quanto oggi è avvenuto!" pronunciammo insieme, concludendo così il rituale di fidanzamento.
"Bene, ora siete ufficialmente promessi!” esclamò Gandalf sfregandosi le mani, soddisfatto. “Oggi avete assunto un impegno importante! Non dimenticatelo mai, qualunque cosa accada!" e, con quelle ultime parole, mi lanciò un’occhiata eloquente prima di lasciare la tenda, seguito dagli altri, con Pipino che piangeva a dirotto per la commozione sulla spalla di Gimli.
Una volta rimasti soli, Boromir prese nuovamente le mie mani tra le sue.
"So che devi partire per la tua missione, ma vuoi concederti almeno una notte di riposo?” mi chiese, con tono quasi implorante e così poco adatto al suo carattere forte. “Oramai è pomeriggio inoltrato. Rimani con me, stanotte, e parti domani mattina. Lasciami trascorrere almeno una notte con la mia promessa sposa."
Il suo appello accorato mi riempì il cuore di tenerezza. Quella sera, nella sua tenda, abbandonati sul suo giaciglio tra le pelli di lupo, scoprii un nuovo Boromir, che fino ad allora non avevo mai conosciuto: un Uomo dolce, romantico e focoso al tempo stesso. Quella fu la notte più bella che avessi mai trascorso con lui da quando ero arrivata nella Terra di Mezzo.
All’alba della mattina successiva fu veramente difficile staccarmi da lui. Scivolai lentamente fuori delle pelli, stando attenta a non svegliarlo, contemplando in silenzio il suo viso rilassato nella quiete del sonno. Mi vestii di fretta e lasciai la tenda, senza mai guardarmi indietro, diretta verso ciò che rimaneva del Nero Cancello.
Stavo già per lasciare il campo, indisturbata, quando udii un nitrito ed uno scalpitio di zoccoli alle mie spalle. Freccia d’Argento mi aveva scorto mentre mi allontanavo, ed ora mi stava trottando dietro.
Mi fermai ad attenderla.
"Ti sei accorta che me ne stavo andando, non è vero?” le sussurrai, carezzandole il collo. “Mi dispiace molto, amica mia, ma anche questa volta devo andare da sola."
Per tutta risposta la giumenta scosse la testa, facendo ondeggiare la lunga criniera argentea. Mi poggiò il muso sulla spalla, come a dirmi che non mi avrebbe lasciata partire senza di lei.
"Freccia, lo so che saresti disposta ad andare anche all’inferno, con me, ma cerca di capire…” mormorai ancora, allontanandomi da lei. “Questa volta non puoi proprio accompagnarmi."
Lei sbuffò e mi mostrò i denti.
"Amica mia, per favore, non fare così” sospirai, poggiando la fronte contro il suo muso, carezzandola ancora. “Ti affido Boromir e Pipino. Veglia su di loro, in mia assenza. E, quando sentirai… e so che sarà così, non è vero?…” continuai, allontanandomi un poco per guardarla negli occhi, “quando sentirai che ho compiuto la mia missione, allora potrai venire a riprendermi."
Parve riflettere per un attimo, prima di annuire con uno sbuffo che fece fremere le sue morbide froge.
"Grazie, Freccia!" le dissi, cingendole il collo. Poi, con un ultimo sospiro, mi rassettai gli abiti e mi incamminai verso la Terra di Mordor.
La strada da percorrere apparve, fin da subito, molto difficoltosa. Le prime scosse di terremoto avevano squarciato la superficie in molti punti, ed ora la via lastricata che portava ai resti della torre di Barad-Dûr era interrotta, per lunghi tratti, da voragini sul cui fondo scorreva la lava dell’Orodruin. Ogni volta ero costretta a fare lunghe deviazioni, prima di poter trovare un punto in cui fosse possibile saltarle od aggirarle. Di tanto in tanto, il vulcano in lontananza vomitava un’alta colonna di ceneri e lapilli, accompagnata da schizzi di magma incandescente. Ogni volta che accadeva, la terra tremava ancora e nuove fessure si aprivano mentre le vecchie si ampliavano.
Era ormai arrivato il momento di prendere in mano la “Stella di Fëanor” e di farmi largo in mezzo a tutto quel disastro. La levai in alto, sopra la mia testa e, non appena lo feci, la mia bocca si aprì di sua spontanea volontà, pronunciando parole in elfico di cui non conoscevo il significato.
"Aiya Eärendil elenion ancalima, vanimle sila tiri! Tollen i lû nîn si boe bedin, an vinya aa’ menealle nauva calen ar’ malta!" * 
Come per magia, il terreno intorno a me cominciò a riempirsi di erba tenera di un verde brillante. Le spaccature si richiudevano e nelle orme che lasciavo alle mie spalle sbocciavano piccoli fiori bianchi. La “Stella” brillava fulgida nella mia mano, bruciando come se fosse stata incandescente mentre assorbiva le mie energie, lasciandomi ben presto con il fiato corto nonostante camminassi molto lentamente.
Procedetti con calma verso il Monte Fato, il cuore della distruzione di quella landa desolata e, sempre più stanca, arrancai verso le sue falde che erano ancora sconvolte, a tratti, da scosse di terremoto. Di tanto in tanto qualche bomba lavica mi cadeva intorno, ma mai nessuna mi colpì, nemmeno di striscio; forse deviate, nella loro corsa, dal magico gioiello. Il braccio mi doleva al punto da non sentirlo quasi più, ma una forza irresistibile mi costringeva a tenerlo alzato.
A volte ero costretta a fermarmi per tirare un po’ il fiato. In quelle occasioni mi voltavo indietro, a guardare la strada che avevo percorso. Una striscia di un verde straordinario, punteggiata di corolle bianche, serpeggiava fin quasi ai resti del Morannon. 
Il buio mi colse a metà strada dalla mia meta, ma mai pensai alla possibilità di fermarmi per riposare. Sembrava che i miei piedi e le mie gambe andassero avanti per conto loro, spinti da una forza senza uguali. La luce emanata dal gioiello mi guidò durante il cammino notturno, illuminando come un faro la strada da percorrere.
Il sole stava sorgendo di nuovo quando, finalmente, giunsi ai piedi del vulcano. L’eruzione era ormai terminata quasi del tutto; solo qualche sbuffo di fumo nero, ogni tanto, saliva verso il cielo. Pareva che anche il Monte Fato fosse in attesa, come se percepisse che stava per succedere qualcosa di eccezionale.
I raggi solari illuminarono la mia scalata verso la Voragine del Fato, colpendo per la prima volta, da tempo immemore, quelle lande desolate. Infine, giunsi a ciò che rimaneva del Sammath Naur,* completamente devastato dall’eruzione. Da lassù, mi fermai a contemplare l’astro diurno, schermandomi gli occhi con la mano a proteggermi dal riverbero.
Per la prima volta, da quando avevo varcato il Morannon, riabbassai il braccio destro riallacciando la “Stella di Fëanor” al collo. Volsi lo sguardo all’intorno, contemplando la vastità della Terra di Mordor poi, dopo aver tratto un grosso respiro gridai, guidata da un potere incontenibile.
"Io sono Tingilindë, la Portatrice della Stella! Che i Valar ascoltino le mie parole! Che la Terra di Mordor torni all’origine, che le tracce di Sauron svaniscano per sempre! Aiya Eärendil elenion ancalima!"
Il gioiello divenne incandescente, e cominciò a brillare in maniera tanto intensa che fui costretta a chiudere gli occhi, gettando indietro la testa. Udii nelle orecchie un canto, fatto di parole in una lingua a me sconosciuta, che si accrebbe al punto da diventare potente come il rombo di un tuono. Poi ci fu un’esplosione di luce, di una violenza tale da sbalzarmi via. Andai a sbattere con la testa contro qualcosa di duro, perdendo i sensi.

 
* * *

 

L’esercito della Terra di Mezzo stava lentamente marciando verso Minas Tirith quando, nella fila di testa, Freccia d’Argento, il cavallo di Dama Marian Tingilindë, cominciò a nitrire e ad impennarsi, facendo voltare verso di lei tutti gli uomini che erano nei pressi.
Boromir, che gli cavalcava accanto, con Pipino seduto sulla sella davanti a lui, la fissò preoccupato.
"Credo che il momento sia giunto…" mormorò, volgendo lo sguardo alla sua sinistra, verso le Montagne dell’Ombra.
Gli altri Capitani dell’Ovest lo imitarono ma, non appena alzarono il capo, furono costretti a mettere le mani davanti agli occhi per proteggersi da un forte riverbero. Una luce, perfino più brillante di quella del sole, si stava riversando come una cascata d’oro lungo i fianchi delle montagne. Le pendici rinverdivano a vista d’occhio al suo passaggio, l’erba spuntava e gli alberi germogliavano, mentre una marea di fiori sbocciava qua e là.
Quando il bagliore giunse a loro, li sfiorò come una calda carezza odorosa di primavera, per poi svanire subito dopo.
“Marian…” sussurrò Pipino, concitato, chiudendo gli occhi e giungendo forte le mani.
Con un ultimo nitrito, Freccia d’Argento si lanciò al galoppo verso la Terra di Mordor, lasciando gli altri a fissare la sua lunga coda che svolazzava nel vento.
"Eh sì!" confermò Gandalf, "l’ultima missione è compiuta. Non temere Boromir, la rivedrai" concluse, rivolgendosi al Sovrintendente di Gondor che, con una mano stretta sul cuore, mormorava un’antica preghiera insegnatagli da sua madre quando era piccolo.

 
* * *


Seduti al sole nei giardini delle Case di Guarigione, Faramir ed Éowyn stavano chiacchierando amabilmente tra loro.
All’improvviso, furono interrotti da un grido di Merry che stava passeggiando, con le mani dietro la schiena, qualche decina di metri più in là.
"Guardate! Cos’è quella luce?"
I due si voltarono nella direzione indicata dall’Hobbit, verso i confini della Terra di Mordor ed, entrambi, rimasero affascinati a guardare a bocca aperta. Pareva quasi fosse nato un secondo sole che ora brillava sopra al regno di Sauron.
Mentre la fissavano, la palla di luce esplose lanciando un’onda luminosa in tutte le direzioni. La videro oltrepassare la cima delle Montagne dell’Ombra che, come per magia, si trasformarono al suo passaggio. Niente più erba avvizzita, niente più alberi morti, ma vegetazione folta e rigogliosa.
"Ennòna!" esclamò Éowyn giungendo le mani all’altezza del petto.
"Sì… ha compiuto la sua ultima missione" confermò Faramir, passando un braccio attorno alle spalle della fanciulla.
"Oh, Marian… Speriamo non le sia accaduto nulla!" sospirò Merry, lasciandosi cadere sulla panchina al fianco dei due innamorati.

 
* * * 

 

Qualcosa di caldo mi sfiorò una spalla, poi mi scosse dolcemente.
"Ancora cinque minuti, mamma…" mormorai, senza aprire gli occhi. 
Un debole nitrito mi arrivò alle orecchie e qualcosa di peloso cominciò a farmi solletico su una guancia. Cercai debolmente di scacciarlo, ma senza risultato. Fui costretta ad aprire gli occhi ed a voltarmi a pancia in su.
Il muso della giumenta a pochi centimetri di distanza dal mio volto mi fece ricordare, all’improvviso, di dov’ero e di cosa era successo.
"Freccia, sei venuta a prendermi…" mormorai ancora, la voce lievemente rauca.
Lei annuì con un nitrito allegro e, con una spinta del muso sul fianco, mi invitò ad alzarmi.
Mi misi a sedere stiracchiandomi le membra intorpidite, poi mi guardai intorno. Mi trovavo su un ripiano erboso illuminato dal sole del mattino, a diverse centinaia di metri di altezza sopra al fondo della valle. Il silenzio era rotto soltanto dal ronzio degli insetti e dal cinguettio di qualche uccello solitario. Alle mie spalle si ergeva il cono del Monte Fato, ormai spento e ricoperto di vegetazione.
Il cielo era terso e l’aria limpida. Mossi qualche passo per sgranchirmi le gambe, feci un paio di piegamenti sulle ginocchia per far riprendere la circolazione e sbadigliai sonoramente. Mi tastai il collo, alla ricerca della “Stella di Fëanor”. Il gioiello era ancora al suo posto ma, da incandescente, era divenuta fredda come il ghiaccio. Rimasi quindi per un attimo in attesa, valutando le mie condizioni di salute. Non avvertivo nessun dolore particolare e nemmeno stanchezza. Non ero mai stata meglio di così.
"Fantastico!" esclamai, rivolta alla cavalla. "Gandalf aveva ragione! Ho fatto quello che dovevo fare e sto benissimo! Non vedo l’ora di tornare da Boromir! Ma, prima, ho bisogno di darmi una rinfrescata!" conclusi, annusandomi sotto le ascelle ed avvertendo un odore fin troppo penetrante, un misto di fango e carne marcia.
"BLEAH!" esclamai ancora, chiudendo gli occhi e turandomi il naso. Senza perdere comunque il mio buonumore, presi a scendere verso valle, in cerca di un ruscello per lavarmi, seguita a ruota da Freccia d’Argento che, ogni tanto, si fermava a brucare un ciuffo d’erba tenera.
A metà discesa trovai un piccolo rivo che gorgogliava argentino nel suo letto di pietre. Mi tolsi la casacca senza nemmeno fermarmi e mi buttai in ginocchio, pronta per darmi una bella lavata. Stavo proprio per spruzzarmi addosso la prima manciata d’acqua fredda quando mi bloccai, in preda al terrore.
"Oh Cristo Santo…" mormorai, fissando la mia immagine riflessa. 
Abbassai gli occhi sulle mie mani – che, fino ad allora, non avevo neanche pensato di osservarmi – e rimasi inorridita. Le dita sottili ed affusolate da Elfo avevano lasciato il posto a delle specie di artigli color del fango ammuffito, con unghie lunghe ed appuntite come quelle di una belva feroce. Tornai a fissarmi nel mio specchio improvvisato. Solo gli occhi erano rimasti gli stessi, di un intenso marrone scuro. Tutto il resto si era completamente trasformato. La pelle aveva la stessa sfumatura bruno-verdastra delle mani; le orecchie erano ancora appuntite, ma non più dritte ed eleganti: ora erano leggermente flosce e la loro punta era rivolta all’indietro. Il naso era diventato camuso. Sollevai le labbra fino a che non scoprii una manciata di zanne giallognole che sembravano quasi messe a caso sulle gengive e, per l’orrore, mi tappai la bocca con entrambe le mani. I miei capelli lunghi erano diventati radi e stopposi; il mio corpo si era inflaccidito, assumendo dei connotati quasi grotteschi. Alzai gli occhi a guardare Freccia d’Argento che, per tutto quel tempo, era rimasta ferma ad osservarmi.
"Freccia! Sono diventata un’orchessa!" esclamai, buttando le braccia al cielo per la disperazione.
La cavalla parve non dar peso alle mie parole. Per tutta risposta mi strofinò il muso contro il fianco, come a farmi capire che, per lei, non era cambiato assolutamente niente. Ma per me era cambiato tutto, eccome se era cambiato!
"Ed ora come faccio a tornare a Minas Tirith?! Le guardie mi uccideranno non appena arriverò a tiro dei loro archi!” urlai, gli occhi rivolti al cielo. “E Boromir?" aggiunsi, abbassando lo sguardo sull’anellino d’argento che portavo ancora all’indice della mano sinistra. "Come farò a sposarlo? È andato tutto bene un corno! La Terra di Mordor sarà anche tornata ad essere un giardino, ma io sono diventata un mostro! Non posso nemmeno tornarmene a casa mia, cosi conciata! Sono destinata a vagare da sola per il resto dei miei giorni!" conclusi gridando, mettendomi le mani nei capelli. 
All’improvviso ebbi un ripensamento.
"Forse… forse con l’aiuto della “Stella” Gandalf, o magari Galadriel, potranno farmi tornare normale!"
La sfilai in fretta dal collo e la osservai attentamente, piena di una speranza che ben presto si infranse. Il gioiello era completamente opaco e spento, non conteneva nemmeno più un briciolo di magia, oramai. Evidentemente, era stata tutta consumata per compiere l’ultima missione.
"Al diavolo! Sono destinata a rimanere così per sempre!" urlai ancora, scagliando via la collana in un accesso di rabbia. Mi misi a sedere su una pietra piatta e scoppiai a piangere per la frustrazione.
Freccia d’Argento non si scompose. Andò a raccogliere la “Stella” – che era atterrata qualche metro più in là, in un ciuffo di trifoglio – e me la riportò, posandola ai miei piedi. Poi cominciò a pungolarmi con il muso, invitandomi a rialzarmi.
"No, Freccia. Non posso tornare a Gondor. Non in queste condizioni" mormorai, ma lei insisté, cominciando a mordermi le spalle.
"Non riesco proprio a capire l’utilità del tornare a Minas Tirith. Lasciami in pace!" sospirai, amareggiata, prendendomi il viso tra le mani.
Per tutta risposta, mi dette un calcetto con la zampa posteriore, facendomi finire a faccia in giù nel ruscello. L’acqua gelata mi ritemprò, schiarendomi le idee.
"Va bene, ti darò retta!” esclamai, esasperata. “Forse Gandalf troverà una soluzione, anche se la “Stella” mi pare inservibile…"
Mi sfregai energicamente il viso ed il resto del corpo, asciugandomi poi un poco al sole. Infine, indossai di nuovo la casacca, riallacciai la collana e salii in groppa a Freccia d’Argento che partì subito al galoppo, diretta verso la città.
Era il primo di aprile, e fu così che la mia vita cambiò per la terza volta.


* Salute Eärendil, più brillante tra tutte le stelle, la tua bellezza risplende intensamente! E’ giunto il mio momento devo andare adesso, perché possa il tuo cammino essere verde e dorato!
* Nome in Quenya della Voragine del Fato



Spazio Autrice: Salve a tutti! Allora, che dite? Ho fatto proprio un bel pesce d’aprile alla nostra Marian, facendola diventare un’orchessa, non vi pare? Spero vi sia piaciuta la svolta inaspettata! In realtà non ho idea se siano mai esistiti orchi femmina. Non credo che Tolkien ne parli mai. Ma, anche se, all’inizio, i primi orchi sono stati creati dalle torture inflitte da Melkor agli elfi suoi schiavi, presumo che poi abbiano trovato un modo per riprodursi. E quindi forse c’erano anche creature di sesso femminile tra di loro, anche se magari le loro caratteristiche fisiche non permettevano di distinguerle dai maschi. 
Bene, ed ora interrompo la musica di Quark e passo a darvi altre informazioni: innanzi tutto la formula del rito del fidanzamento non è, ahimè, farina del mio sacco, ma l'ho trovata già bella e pronta su internet. Marian avrebbe dovuto avere una madrina, in realtà, ma ho preferito farla affiancare da Aragorn. Lo stesso vale per quell’accozzaglia mista di frasi in elfico che Marian pronuncia a Mordor: le ho trovate già belle e composte. Purtroppo l'elfico non è proprio il mio forte, e spero che non sia venuta fuori una scemata.
Come sempre grazie, grazie e ancora grazie a voi tutti!
Bacioni!
Evelyn

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Capitolo 23
*** Vita da Orco ***







Vita da Orco

 

Freccia d’Argento cavalcò più veloce del vento, desiderosa di tornare quanto prima a Minas Tirith. Dal canto mio, invece, non avevo nessunissima voglia di giungervi troppo in fretta. Non riuscivo ad immaginare come avrebbero potuto reagire i miei amici e, soprattutto, Boromir. Non mi sentivo ancora in grado di reggere i loro sguardi e di rispondere alle loro domande.
Pregai più volte la giumenta di rallentare, ma quella non volle sentire ragioni. Scalò le Montagne dell’Ombra di gran carriera, buttandosi a capofitto in discesa verso l’Ithilien e raggiungendo il fondovalle, all’altezza del Crocevia del Re Caduto, dopo appena mezza giornata di cavalcata. Da lì in poi la strada era in pianura e Freccia si mise letteralmente a volare, attraversando le rovine di Osgiliath come un turbine e percorrendo i Campi del Pelennor a velocità talmente elevata, che i soldati di guardia alle barricate esterne si accorsero della sua presenza solo per via della scia di polvere che lasciava dietro di sé.
Quando quelli intimarono l’alt lei si limitò a superarli con un salto, atterrando agilmente dall’altra parte e scomparendo, in un lampo, tra le stradine contorte della capitale del regno di Gondor.
A quel punto fu costretta a rallentare, perché le vie erano affollate di gente che si dava da fare per rimettere in ordine e riparare i danni causati dalla guerra.  In molti furono costretti a scansarsi in fretta al suo passaggio, gridando parolacce in gondoriano cui lei rispondeva con nitriti seccati. Mentre avanzava, tenevo strette le falde del mantello elfico intorno al mio corpo, perché nessuno si accorgesse che l’essere in groppa a quel cavallo non era umano.
Giunta alla settima ed ultima cerchia di mura, le guardie di picchetto al cancello le intimarono di nuovo l’alt. I cavalli non erano mai stati ammessi all’interno della Cittadella e le mura erano troppo alte per essere superate con un balzo. Volente o nolente, Freccia d’Argento fu costretta a fermarsi. Lo fece così bruscamente che, ormai priva della grazia tipicamente elfica, fui sbalzata malamente dalla sua groppa andando a finire con il sedere per terra.
Non mi feci troppo male – avevo perso in leggiadria ma avevo guadagnato in resistenza e robustezza – però, nel cadere, il cappuccio del mantello elfico scivolò all’indietro, rivelando la mia faccia non troppo piacevole agli occhi delle guardie.
Come avevo previsto i soldati si misero subito a gridare, mettendo mano alle loro spade e puntandole tutte all’altezza della mia gola. Quello che pareva essere il capitano delle Guardie della Cittadella mi chiese chi fossi e cosa ci facessi a Minas Tirith.
"Rispondi subito, o giuro che ti aprirò la gola in due!" sibilò, sprezzante, pungendomi la pelle del collo con la punta della sua arma.
"Sono Dama Marian… Torno dalla mia missione…" balbettai convulsamente. Benché mi fossi aspettata una reazione del genere, non era comunque piacevole vedere tutte quelle lame puntate verso di me.
Nell’udire la mia risposta le guardie scoppiarono in una risata amara, per poi tornare serie di colpo.
"Non prenderci in giro, non abbiamo tempo da perdere! Di’ le tue ultime preghiere, immonda creatura!" ringhiò con rabbia il capitano, spostando il braccio all’indietro per sferrare il colpo mortale. Chiusi gli occhi ed aspettai che accadesse l’inevitabile quando, all’improvviso, udii gridare una vocina trafelata.
"Fermi! Fermi! Aspettate! Fermatevi!"
Le guardie si voltarono in direzione della voce. Pipino, con l’elmo sulle ventitré e la casacca a rovescio, correva a tutta velocità verso il cancello cercando, allo stesso tempo, di raddrizzare l’indumento.
"Fermi! Lasciatela stare! Vi ha detto la verità! Oh Marian, come stai? Che cosa ti è successo?" gridò ancora il Mezzuomo, travolgendomi in un abbraccio che, nell’impeto della sua corsa, mi mandò lunga distesa. "Oh, scusa! Ti ho fatto male?" mi chiese, concitato, rialzandosi in piedi ed aiutandomi a rimettermi seduta. 
Scossi la testa in segno di diniego. L’Hobbit mi fissò ancora molto attentamente per un istante, poi tornò a gettarmi le braccia al collo, affondando il naso nei miei radi capelli.
"Ma cosa state dicendo, Messer Perian?!” gli chiese il capitano delle Guardie, al colmo dello stupore. “Non vedete che questo è solo un immondo Orchetto?!" 
"No, Tirdir, l’Hobbit non si sbaglia” interloquì una voce grave. Alzai lo sguardo, fino a che non incontrai quello limpido e penetrante di Gandalf. “Quella che avete davanti agli occhi è davvero Dama Tingilindë!” riprese. “Devo ricredermi, Peregrino Tuc. Dopotutto non sei un idiota, visto che sei stato in grado di riconoscere subito la tua compagna di avventure” aggiunse, in tono a metà tra il meravigliato ed il divertito. “Vieni mia cara, alzati. Gli altri ti stanno aspettando."
Mentre parlava lo Stregone aveva scansato le guardie, allontanato Pipino con una pacca sulla spalla ed aiutato me a rialzarmi in piedi. Senza degnare i soldati di un’altra occhiata fece cenno all’Hobbit di precederci, poi mi porse il braccio e mi accompagnò all’interno della Cittadella. Freccia ci seguì e, non appena la coda della giumenta fu passata dal cancello, l’Istari richiuse il grosso portone di legno con un movimento del suo bastone, facendolo sbattere.
"Come stai mia cara?" mi chiese, non appena l’eco del tonfo di legno contro legno si fu spento.
"Male! Guarda come sono ridotta. Sono diventata un mostro!" esclamai, serrando i pugni ed alzandoli al cielo.
"Oh, non dire così. I veri mostri non sono quelli brutti fuori, ma quelli brutti dentro” rispose lo Stregone, con filosofia. “Tu sei sempre la stessa, anche se hai cambiato aspetto un’altra volta."
"Ma perché proprio un Orco? Non potevo tornare semplicemente normale?" domandai, indispettita.
“In realtà, tu non sei totalmente un Orco, bensì un Mezzo-Orco. Essi sono stati creati aggiungendo sangue umano ad alcune razze di Orchi già esistenti. Gli Orchi, come saprai, sono stati creati corrompendo nel corpo e nella mente gli Elfi che sono stati schiavi di Melkor” mi spiegò. “Quindi, questa è l’ultima fase da cui devi passare. Sei stata Donna, sei stata Elfa, ora sei Orchessa."
"Tu lo sapevi che sarebbe andata a finire così?"
"Lo sospettavo" rispose sinceramente.
"Non puoi fare nulla per farmi tornare normale?" chiesi, speranzosa.
"Temo di no, mia cara. Anche se sono convinto che non sia ancora finita qui."
"Bella fregatura…” borbottai, scuotendo la testa. “Boromir non mi accetterà mai…" aggiunsi infine con un sospiro, guardando l’anello d’argento che portavo al dito.
"Ricorda quello che ti ho detto nella mia tenda. Avete preso un impegno e dovrete mantenerlo, qualsiasi cosa accada!" mi ricordò Gandalf, in tono serio.
"Io non pensavo certo che sarei diventata un Orco! Oh povera me!" esclamai ancora, prendendomi la testa tra le mani.
Mentre parlavamo avevamo raggiunto l’ingresso del Palazzo dei Re. La guardia di picchetto ci annunciò, non senza prima avermi lanciato un’occhiata stupita, e subito fummo introdotti nella Sala del Trono. Gimli stava passeggiando nervosamente avanti ed indietro per la stanza, fumando come un turco, in preda all’ansia. Aragorn e Legolas, invece, stavano in piedi in un angolo, a braccia conserte, entrambi con gli occhi rivolti al pavimento. Boromir era seduto sul trono nero appartenuto un tempo a suo padre, con lo sguardo carico di apprensione. Non appena ci vide entrare, si alzò in piedi venendoci incontro.
"Marian! Finalmente!” esclamò di slancio, ma si interruppe non appena mi vide in faccia. "Oh, per tutti i Valar!" gridò ed, inconsapevolmente, arretrò di qualche passo. La sua esclamazione fece voltare anche gli altri tre. Gimli bestemmiò in nanesco e Legolas si lasciò sfuggire una frase in elfico che, alle mie orecchie, suonò come un’imprecazione. Aragorn fu l’unico a mantenere un contegno da vero Re: mi si fece incontro, mi abbracciò e mi dette il benvenuto.
"Bentornata Marian, figlia mia!"
Quelle parole mi fecero venire le lacrime agli occhi e, per un attimo, dimenticai la faccia inorridita di Boromir. Il Sovrintendente, che ormai si era ripreso dallo choc iniziale, si fece di nuovo avanti.
"Marian… Oh mio Eru, cosa ti è successo?" chiese in un sussurro, alzando le mani nel tentativo di sfiorarmi il viso. Mi ritrassi involontariamente e Gandalf lo fermò, rimproverandolo.
"Ti sembra una domanda da farsi? Ha compiuto la sua missione, ecco che cosa le è successo!"
"Sì… Certo… Io non volevo mancare di rispetto. E’ solo che…" tentò di giustificarsi il Gondoriano.
"Non preoccuparti, Boromir, non fa nulla. So di non avere un bell’aspetto" mormorai rimettendomi il cappuccio, calandolo fino sugli occhi.
"Peregrino, accompagnala nella sua stanza e chiama delle ancelle perché la aiutino a prepararsi. Stasera festeggeremo il ritorno della Portatrice della Stella!" riprese l’Istari, in tono autoritario.
"Oh no, Gandalf! Non sono proprio in vena di festeggiare!" tentai di protestare, ma lo Stregone mi zittì con un gesto della mano e Pipino obbedì al suo ordine, accompagnandomi in una stanza che scoprii essere quella del Sovrintendente.
"Devi esserti sbagliato. Questa stanza è già occupata…" costatai guardandomi intorno, piena di imbarazzo.
"Sì, è la stanza di Boromir! Siete fidanzati, no? E’ logico che dividiate la stessa stanza" mi rispose il Mezzuomo con semplicità.
"Non credo che Boromir voglia dividere la sua stanza con me…" sospirai, abbassando il capo.
L’Hobbit alzò su di me uno sguardo che, nonostante tutto, non aveva mai smesso di essere adorante.
"Sì, invece!” mi rispose, con veemenza. “Non preoccuparti! Pensa solo a rilassarti ed a farti un bel bagno! Ci vediamo più tardi!" e, con quelle parole, mi piantò in asso.
Scoprii ben presto che, per quanti bagni avessi potuto fare, non sarei mai riuscita a togliermi di dosso l’odore fetido tipico degli Orchi. Le ancelle si rifiutarono di aiutarmi ma la cosa non mi dispiacque affatto. Non avevo certo bisogno di avere intorno belle fanciulle che storcessero il naso alla mia vista. Una volta pronta, ed indossati di nuovo i miei abiti maschili ed il mantello elfico, mi misi a sedere davanti alla finestra, riflettendo sulla mia misera condizione. Purtroppo, non riuscivo a vedere nessuna via d’uscita. La “Stella di Fëanor” era ormai inservibile; Gandalf aveva detto di non potermi aiutare e Galadriel non si sarebbe di certo scomodata da Lothlòrien per venire a dare una mano ad un Orchessa. Ero destinata a rimanere così per sempre. Avrei dovuto fare buon viso a cattiva sorte, e sapevo già che non sarebbe stato affatto facile.
Immersa com’ero nei miei pensieri, non mi ero accorta che era già arrivata l’ora di cena. Due colpi leggeri bussati alla porta mi fecero trasalire. Chi poteva mai essere? Rimasi in silenzio, desiderosa di rimanere da sola ancora un po’.
"Marian, lo so che sei lì dentro! Puoi aprirmi, per favore?"
Incredibilmente, la voce di Pipino mi rincuorò. Aprii la porta e l’Hobbit non fece in tempo ad entrare che già prese a martellarmi con i suoi fiumi di parole.
"Ma come! Non sei ancora pronta? Guarda che ti stiamo aspettando tutti! L’ora di cena è già passata da un po’ ed io sto morendo di fame! Mi ha detto Boromir che, nell’armadio, ci sono dei vestiti di sua madre. Ora ti mando qualche ancella per aiutarti a vestirti!"
Pipino stava per riprendere la porta senza neanche interrompersi quando lo richiamai.
"Aspetta Peregrino! Niente fretta, ti direbbe Barbalbero!"
"L’hai conosciuto anche tu?" mi chiese, incredulo.
"Diciamo di sì…” risposi, senza riuscire a trattenere un mezzo sorriso. L’avevo conosciuto, certo, ma solo sulla carta stampata. “Allora” ripresi, “innanzi tutto, non sono proprio all’altezza di indossare gli abiti di Finduilas. E poi, non credo che troverai delle ancelle disposte ad aiutarmi, sono già scappate tutte oggi pomeriggio.”
"Sciocchezze! Ci penso io! Tu non muoverti da qui!"
"E dove vuoi che vada…" risposi mestamente alla sua schiena che già si allontanava.
Ritornò cinque minuti dopo, accompagnato da dama Éowyn.
"Oh Ennòna! Come stai, amica mia?” mi chiese con sincero interesse, abbracciandomi calorosamente, senza mostrare alcun segno di disagio. “Messer Peregrino mi ha chiesto di aiutarti ad indossare i tuoi abiti."
"Éowyn, non dovevi disturbarti. Preferisco rimanere in abiti più comodi…" cominciai, ma lei mi interruppe.
"Ti capisco, avrei voluto tanto farlo anch’io” ammise, “ma questa serata è in tuo onore, non puoi deludere gli ospiti!"
"Ospiti?! Ma quanta gente c’è?" chiesi, sgomenta, rivolta a Pipino, mentre già la Scudiera di Rohan rovistava nell’armadio in cerca di un vestito adatto.
"Tutta la corte" mi rispose gravemente il Mezzuomo. 
"Oh mamma!” esclamai, scuotendo la testa. “Prevedo una serata da dimenticare…"
Éowyn scelse un abito color verde acqua dalle maniche lunghe, e benché continuassi a ripeterle che farmi indossare quel vestito non avrebbe di certo migliorato il mio aspetto, lei insisté perché lo infilassi e non ci fu verso di farle cambiare idea. Tentai, allora, di coprire il tutto con il mantello elfico, ma Pipino me lo strappò di mano buttandolo sotto il letto, per poi spingermi letteralmente fuori della stanza.
Non appena giunsi nel Salone delle Feste, scoprii che gli invitati non erano stati avvisati del fatto che Dama Tingilindë non era più una Donna né tantomeno un’Elfa, bensì un’orribile Orchessa. Molti uomini borbottarono ad alta voce ed alcune delle dame di compagnia finsero addirittura di svenire. Udii pure parecchi commenti non proprio carini nei miei confronti. All’inizio tentai di ignorarli, cercando di concentrarmi unicamente sui miei amici che sedevano a tavola al mio fianco. Frodo e Sam erano stati curati a dovere ed ora si erano riuniti al resto della Compagnia. Furono molto felici di rivedermi ed entrambi si congratularono con me per l’importanza della mia missione. Ovviamente ricambiai: se loro non avessero buttato l’Anello nel Monte Fato, io avrei potuto fare ben poco. Anche Merry era stato dimesso dalle Case di Guarigione, ed ora i quattro Mezzuomini facevano di nuovo comunella da un lato della tavola alta, alla mia destra. Mi concentrai sui loro discorsi tipicamente da Hobbit, cercando di sopportare, con stoicismo, le critiche che continuavo a captare a destra e a sinistra. Per mia sfortuna, anche gli Orchi avevano lo stesso udito sviluppatissimo degli Elfi.
Ad un tratto, alla mia sinistra udii l’ennesimo commento infelice della serata. Si trattava di un segretario di corte che si meravigliava del fatto che un Orco potesse mangiare carne cotta. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi alzai di scatto, con tanto impeto da rovesciare la sedia, che finì al suolo con un tonfo sordo. Trattenni a stento le lacrime mentre gli sguardi di chi mi circondava si alzavano su di me. L’unico che non lo fece fu Legolas. Anch’egli aveva udito le parole mormorate dal segretario, ed ora lo stava fissando con occhi fiammeggianti. Boromir mi imitò, alzandosi in piedi a sua volta, tendendo le braccia verso di me. Mi ritrassi d’istinto, allontanandomi veloce dalla tavola, diretta verso la porta.
"Marian! Dove vai!" mi gridò dietro il Sovrintendente, imperioso, ma non mi fermai e nemmeno mi voltai a guardarlo. Presi l’uscio di volata, sbattendomelo alle spalle, diretta verso la sua camera.
Una volta dentro la stanza mi buttai a faccia in giù sul letto, scoppiando in un pianto dirotto. Perché mi stava succedendo tutto questo? Non avevo nessun diritto di essere felice? Non avevo già sofferto abbastanza? Questi interrogativi mi si affollavano nel cervello senza che potessi trovargli riposta.
Piansi talmente tanto da inzuppare la coperta, ed ero talmente angosciata che mi accorsi a malapena che stavano bussando alla porta.
"Marian, aprimi per favore."
La voce, calma ma autoritaria, di Gandalf, mi spinse ad obbedire subito. Lo Stregone entrò nella stanza, mettendosi seduto sullo scranno vicino allo scrittoio senza che lo invitassi a farlo.
"Capisco che per te è difficile, devi ancora abituarti alla tua nuova condizione” disse, solenne, “ma devi ricordarti che tu sei la Portatrice della Stella. Non devi abbatterti per così poco. Devi essere forte e non avere paura di niente e di nessuno” riprese, puntandomi contro l’indice, fissandomi con tanta intensità da costringermi ad abbassare il capo. Subito dopo il suo tono si addolcì: “Vedrai che presto tutti impareranno ad amarti ed a rispettarti per quello che sei!" e, senza aggiungere altro, si rialzò dalla sedia ed uscì, lasciandomi di nuovo sola.
Dopo pochi minuti, i Mezzuomini vennero a bussare a loro volta, proponendomi di andare a fare una passeggiata nei giardini del Palazzo. Convinta che la loro compagnia mi avrebbe fatto bene, accettai la loro proposta. Non mi sbagliai. Con i loro "discorsi da Hobbit" mi fecero ritrovare un po’ di buonumore a dispetto del mio sconforto, arrivando addirittura a strapparmi qualche risata. Era incredibile come quei quattro riuscissero sempre a trovare il lato positivo delle cose, anche nelle disgrazie. 
Quando tornai in camera avevo lo spirito molto più sollevato. Il lieve sorriso che mi aleggiava sulle labbra, però, si spense non appena incrociai lo sguardo di Boromir. Il Sovrintendente era seduto sul letto, con le braccia incrociate e le sopracciglia aggrottate. Mi sentii ripiombare nel baratro da cui mi ero appena affacciata a fatica.
"Perché sei scappata via così da tavola?" mi chiese, cupo, fissandomi negli occhi.
"Ero stanca di ascoltare commenti che mi riguardavano…" gli risposi con un sospiro, abbassando lo sguardo.
"Non mi hai fatto fare una bella figura. Ricorda che noi due siamo fidanzati!" riprese nello stesso tono imperioso, alzando la mano sinistra per far scintillare l’anello d’argento che aveva al dito. 
"Lo so…” sospirai ancora, fissando a mia volta il mio anello. “Ma, se vuoi, possiamo sciogliere la nostra promessa…"
"Non dirlo neanche per scherzo. Non mancherò alla parola data!" mi interruppe, alzando la voce. Calò per un attimo il silenzio. Quando riprese a parlare il suo tono si era raddolcito. "Vieni, ti aiuto a slacciare tutti questi legacci…" mormorò, alzandosi e mettendosi alle mie spalle, prendendo a sciogliere i nodi che fermavano il vestito sulla schiena. 
Quando lo sfece scivolare a terra le sue mani mi sfiorarono le braccia, facendomi rabbrividire involontariamente. Mi allontanai da lui con uno scarto, stringendomi nella sottoveste.
"Boromir, non sei obbligato a dormire con me se non vuoi" sussurrai, guardandolo con la coda dell’occhio.
"Ma io voglio dormire con te. Siamo fidanzati, non dimenticarlo!" mi rispose, sdraiandosi sul letto ed invitandomi a fare altrettanto con un gesto della mano.
"E come posso scordarlo, se non fai che ripetermelo ogni minuto?" pensai tra me e me, avvilita. Mi accoccolai sul bordo sinistro del materasso, raggomitolandomi come un gatto e dandogli la schiena.
"Mi metto qui, da un lato, almeno non ti darò fastidio…” mormorai, cercando di trattenere il tremito nella voce. “Buonanotte, Boromir…"
Dopo un attimo di esitazione, anche lui rispose.
"Buonanotte".

 
* * *

 

Quando Marian si era rannicchiata sul bordo del letto, Boromir aveva alzato un braccio con l’intenzione di attirarla a sé. Voleva guardarla più da vicino, osservarla meglio, fissarla negli occhi e dirle che per lui non era e non sarebbe mai cambiato niente. Ma quando lei gli augurò la buonanotte, evidentemente convinta di essere divenuta solo un peso da dover sopportare, il Gondoriano lo lasciò ricadere sulla coperta e si stese supino, incerto su come comportarsi. Anche lui aveva sentito alcuni dei commenti e suo zio Imrahil aveva già cominciato ad accennargli che il popolo non avrebbe mai accettato una "Sovrintendente Consorte Orchessa". Ma allora cosa avrebbe dovuto fare? Sospirò e si rigirò nel letto, voltandole la schiena.

 
* * *

 

La mattina dopo, al risveglio, scoprii di essere sola. Boromir mi aveva lasciato un biglietto in cui mi avvertiva che sarebbe stato impegnato tutto il giorno con Aragorn e Faramir, ed in cui mi chiedeva di fare come se fossi stata a casa mia. Già persuasa che non sarebbe stato affatto facile, uscii e mi diressi verso le cucine per fare colazione. Non appena mi videro arrivare, le cuoche cominciarono ad urlarmi di tutto, minacciandomi con mestoli e matterelli. Riuscii ad afferrare solo una fetta di pane, al volo, evitando per un soffio di essere colpita in testa da uno degli attrezzi da cucina.
Lasciai il palazzo avvolta nel mantello elfico, sbocconcellando lentamente. Poi, mi misi a sedere sul muro di pietra che circondava la Rupe, lo sperone roccioso che fendeva in due la città come la prua di una nave. Da lassù potevo osservare tutto ciò che avveniva nel resto della città, sotto di me, senza essere vista. Ed, infatti, fui la prima ad avvistare due carovane che marciavano fianco a fianco, a ranghi serrati, dirette verso le porte di Minas Tirith. Stavo aguzzando la vista, cercando di capire chi fossero i nuovi venuti, quando i quattro Hobbit – che avevano appena finito la loro seconda colazione – mi raggiunsero.
"Buongiorno Marian” esordì subito Pipino, “tieni, ti ho riportato la spada! L’ho trattata bene!" disse, convinto, restituendomi Hoskiart con il suo fodero. "Cosa stavi guardando, di bello?" aggiunse poi, accomodandosi al mio fianco ed accendendosi la pipa.
"Buongiorno amici miei. Stavo cercando di capire chi sta arrivando" risposi, indicando i due gruppi in lontananza mentre indossavo di nuovo la spada a tracolla.
"Devono essere gli Elfi di Bosco Atro ed i Nani di Erebor!” esclamò nuovamente il giovane Tuc, aspirando una lunga boccata. “Ieri pomeriggio ho sentito Legolas e Gimli parlarne con Aragorn. Vengono per aiutare a ricostruire la città!"
Al termine della loro pipata, i Mezzuomini mi invitarono a scendere con loro dabbasso, per assistere all’arrivo dei nuovi venuti. Accettai di malavoglia, più per timore di rimanere di nuovo sola ed abbandonarmi a tristi pensieri che non per la voglia effettiva di incontrare altri Elfi e Nani. Era già abbastanza seccante dover sopportare le ingiurie dei miei simili, figuriamoci quelle di altre razze.
Mentre scendevamo di livello in livello, gli abitanti di Minas Tirith si inchinavano di fronte agli Hobbit. Pipino e Merry facevano la loro discreta figura con indosso, rispettivamente, la divisa della Guardia della Cittadella e quella dei soldati di Rohan; mentre Frodo e Sam venivano da tutti riconosciuti come i “Distruttori dell’Anello”. Al mio apparire, invece, gli uomini bestemmiavano e le donne balbettavano terrorizzate, con i bambini che si andavano a nascondere dietro alle loro gonne.
"Amici, non credo che sia stata una buona idea, per me, venire quaggiù" commentai, guardandomi furtiva alle spalle e tentando, allo stesso tempo, di diventare invisibile dietro alle falde del mantello.
"Perché?" chiese Pipino, con aria ingenua.
"Perché la gente la crede un nemico, ecco perché, idiota!" gli rispose Merry, seccato. "Nessuno sembra ricordarsi che è solo merito di Marian se la Terra di Mordor è di nuovo abitabile!"
"Non temete, Dama Tingilindë, io ed il signor Frodo vi difenderemo a spada tratta, se qualcuno oserà farvi del male, non è vero, padrone caro?” disse Sam, tutto infervorato. “Ed anche il signor Meriadoc ed il signor Peregrino!" aggiunse, mentre gli altri tre annuivano all’unisono, rafforzando le sue parole.
"Vi ringrazio, amici miei, mi siete di grande conforto…" mormorai, sinceramente grata.
Una volta giunti alle porte della città, scoprii che la mia nuova immagine portava anche certi vantaggi. Non appena mi vide arrivare, la massa di gente che si era già radunata ai margini della strada per accogliere i nuovi venuti si fece da parte, consentendoci così di arrivare comodamente in prima fila.
I primi ad entrare furono gli Elfi: alti come statue ed eterei come divinità, vestiti di grigio, con lunghi capelli neri come la notte o dorati come il sole. Al loro seguito si accodarono i Nani, forti e robusti come la roccia, tutti con lunghe barbe, fulve o castane, intrecciate in splendide trecce. Nelle loro file uno di essi si voltò verso di me, lanciandomi un’occhiata divertita e carica di simpatia, strizzandomi l’occhio. Non appena mi ebbe superato capii che si trattava di una femmina, poiché non indossava pantaloni ma una lunga gonna di panno spesso. Sorrisi pensando che forse, dopotutto, c’era qualcuno messo peggio di me: quantomeno io non avevo la barba...
Era il due aprile, e così cominciò la mia nuova vita da Orco.


Spazio autrice: Buongiorno a tutti! Siamo ormai quasi arrivati alle ultime battute, anche se ci sarà ancora tempo per qualche piccola sorpresa! Questo capitolo non è che mi convinca appieno. Mi raccomando, fatemi sapere le vostre opinioni.
Devo inoltre un paio di piccole spiegazioni:
1)Il capitano delle Guardie della Cittadella è un personaggio di mia invenzione. Ho deciso di non mettere Beregond perché, essendo stato ferito a morte davanti al Morannon, probabilmente si trovava ancora nelle Case di Guarigione, così ho inserito questo suo “vice”, il cui nome, Tirdir, significa letteralmente “guardiano”.
2) Éowyn continua a chiamare Marian con il nome “Ennòna” perché quello è il primo nome con cui l’ha conosciuta. Non ricordo se avevo già fatto questa precisazione, se sì, mi sono ripetuta :-)
Ed ora non posso fare altro che ringraziare ancora tutti voi che avete dedicato un po’ del vostro tempo a leggere questa storia.
Bacioni!
Evelyn

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Capitolo 24
*** Testarda, io ***







Testarda, io.

 

La sera, durante la cena, notai che tutti i nuovi arrivati erano stati equamente distribuiti fra i vari tavoli che affollavano il Salone delle Feste del Palazzo dei Re. Solamente uno di loro, e più precisamente un Nano, era seduto alla tavola alta, al fianco di Gimli. Guardandolo bene, mi accorsi che si trattava della Nana che quella mattina, al suo ingresso nella città, mi aveva guardato ammiccando. Il figlio di Gloin me la presentò. Si chiamava Gwina ed era sua cugina da parte di madre. Era un abile architetto ed avrebbe presieduto alla ristrutturazione di molti edifici; tra cui anche il Palazzo dei Sovrintendenti che, dopo l’incoronazione di Aragorn, sarebbe tornato ad essere la residenza di questi ultimi.
In qualità di Sovrintendente in carica Boromir mi chiese, come sua promessa sposa, di decidere in che modo dovessero svolgersi i lavori. La mattina dopo, quindi, ancora avvolta nel mantello elfico e col cappuccio calato fin sugli occhi, mi ritrovai a camminare al fianco della Nana che avanzava a grandi falcate – fendendo letteralmente la folla che si accalcava nelle strade – diretta al Palazzo dei Sovrintendenti.
Benché la sera precedente avessimo scambiato soltanto poche parole, avevo comunque capito che si trattava di una persona molto diretta. Infatti, dopo solo pochi metri si voltò verso di me e, senza rallentare, mi rivolse una domanda schietta.
"Perché ti nascondi dietro quel mantello e sotto quel cappuccio?"
"Perché mi vergogno" fui costretta ad ammettere, mormorando e chinando lo sguardo a terra.
"E di cosa ti vergogni?" insisté lei, in tono secco.
"Del mio aspetto…" cominciai, ma subito mi interruppe.
"E perché? Non c’è assolutamente niente che non va, in te!” esclamò, continuando ad avanzare a grandi falcate. “Checché ne dica la gente!" aggiunse immediatamente, dopo aver visto un vecchio bestemmiare e sputare al mio indirizzo.
"Sono un’Orchessa…" presi a lamentarmi, ma Gwina di nuovo mi bloccò, risoluta.
"Appunto! E, come tale, non ti manca assolutamente niente! Sei un’Orchessa perfetta sotto tutti i punti di vista!" decretò, in un tono che non ammetteva repliche.
"Forse è come dici tu, ma la gente mi insulta… Ahi!” esclamai, interrompendomi all’improvviso, colta di sorpresa. Qualcosa mi aveva colpito alla nuca. Mi voltai, appena in tempo per veder scappar via un gruppo di ragazzetti schiamazzanti. “E si prende gioco di me" ripresi, cercando di ripulire alla meglio il retro del cappuccio dal pomodoro marcio che quei monelli appena fuggiti mi avevano lanciato.
"Gli Uomini prendono in giro le altre razze perché hanno paura di tutto ciò che è diverso da loro!" commentò Gwina socchiudendo gli occhi, con l’aria di chi la sapeva lunga.
"Forse Gimli non ti ha detto che anch’io, prima, ero un essere umano" le rivelai, continuando a sfregare la stoffa.
"Certo che me lo ha detto! Mi ha raccontato tutta la tua storia, ieri pomeriggio!” esclamò ancora. “Quello che hai fatto per la Terra di Mezzo è semplicemente favoloso, e non devi certo lasciarti abbattere da due miseri insulti! Via quel cappuccio! Via quel mantello! Non sei tu che devi vergognarti, ma chi ti prende in giro!" proruppe, fermandosi bruscamente e strappandomi via di dosso il manto elfico.  "Bene!" riprese, dopo avermi contemplato con occhio critico dalla punta degli stivali all’elsa di Hoskiart, "ed ora, andiamo ad occuparci del Palazzo dei Sovrintendenti!".
Senza aggiungere altro, riprese il suo passo di marcia diretta verso la nostra meta.
I muratori Gondoriani incaricati della ristrutturazione non furono molto contenti delle loro superiori: una Nana con la barba lunga fino al petto, intrecciata in una decina di piccole trecce ornate di perline di vari colori, ed un’Orchessa puzzolente, oltretutto armata di spada. Fin da subito, con le mie orecchie anche troppo sensibili, li sentii borbottare commenti non proprio educati nei nostri confronti. Fui tentata di rimettermi il mantello e di sparire dalla circolazione, ma Gwina mi lanciò un’occhiataccia e scrollò le spalle, come a voler far scivolare via gli insulti. Poi, iniziò ad elencarmi le varie possibilità che avevamo per rimettere in sesto l’edificio, chiuso ormai da secoli, presentandomi i vari vantaggi e svantaggi di ognuna. Era talmente appassionata dal suo lavoro che riuscì a coinvolgermi appieno, tanto che dimenticai persino gli sguardi ostili che, di tanto in tanto, gli operai ci lanciavano. In breve tempo scelsi i lavori da portare a termine, con estrema soddisfazione della Nana che approvò gran parte delle mie scelte.
Gwina non aveva un solo cantiere da seguire: ne aveva diversi sparsi in tutta la città. Mi chiese se mi andava di accompagnarla nel suo giro di controllo ed io accettai. Lei era l’unica con cui mi trovavo veramente a mio agio, ancora più che con gli Hobbit, forse perché era anch’essa una femmina. Durante la giornata incontrammo molti dei suoi compagni di Erebor e, dai colloqui che ascoltai, ebbi modo di capire che doveva trattarsi di una Nana molto rispettata, poiché quasi tutti le chiesero consigli anche per i loro cantieri.
Il resto del pomeriggio trascorse piuttosto serenamente e la sera, a tavola, Boromir fu piacevolmente sorpreso di trovarmi senza mantello.
"Sono contento di vedere che hai finalmente deciso di toglierti quel manto sporco e consunto" mi disse, non appena gli fui seduta accanto.
"È stata Gwina a convincermi” gli risposi. “Mi ha fatto capire che non c’è niente che non va, in me, e che sono gli altri che sbagliano.”
Sorrise dolcemente.
"Ne sono felice" mormorò, avvicinandosi nel tentativo di baciarmi. A quel punto, qualcosa in me si bloccò di nuovo. Misi le mani avanti, come per respingerlo, mentre mi ritraevo con uno scarto. Il Sovrintendente mi guardò interrogativamente ed io scossi la testa.
"No, Boromir. Ti prego, non ancora…" mormorai, “non mi sento ancora pronta…”
Lui sospirò ed annuì, fissandomi serio.
"D’accordo. Aspetterò. Ma ricordati che non sarà per molto."
Quelle parole mi colpirono al petto come una pugnalata. Spostai lo sguardo sull’anello d’argento che portavo all’indice sinistro. "Vuole lasciarmi" pensai con un sospiro, “ e non ha tutti i torti… Io non sono più la donna giusta per lui."
Quando alzai di nuovo lo sguardo vidi che mi aveva voltato le spalle, impegnandosi in conversazione con Aragorn e Faramir. Pipino attirò allora la mia attenzione, facendo delle facce buffe. Mi voltai così verso gli Hobbit, che subito si misero a raccontarmi freneticamente in che modo si era svolta la loro giornata. Come sempre succedeva, con loro ritrovai il buonumore. Il giovane Tuc continuava, imperterrito, a lanciarmi sguardi adoranti che mi intenerivano. “Se Diamante lo venisse a sapere…” mi sorpresi a pensare, lasciandomi sfuggire un sorriso triste, “il suo Pipino, innamorato di un’Orchessa…”.
Una volta in camera, Boromir mi chiese quali decisioni avessi preso riguardo alla ristrutturazione del Palazzo dei Sovrintendenti. Seduta sul letto, al suo fianco, cominciai a raccontargli tutto quello che mi aveva spiegato Gwina ed a motivare le scelte che avevo fatto. Lui, però, non parve ascoltarmi troppo attentamente. Mentre parlavo, prese ad accarezzarmi lentamente prima le spalle e poi le braccia. La mia voce cominciò a tremare involontariamente, sopraffatta dal tocco delicato delle sue dita. Quando tentò di attirarmi a sé, tuttavia, mi liberai dalla sua presa, alzandomi di scatto dal letto e correndo verso la finestra. Lui rimase seduto, con lo sguardo fisso sulla mia nuca.
"Perché mi respingi?" mi chiese con un sospiro.
"Non puoi veramente desiderarmi, Boromir…" mormorai, triste.
"E perché non potrei? Sei la mia Promessa."
"Sono un’Orchessa…" protestai debolmente.
"Non mi interessa il tuo aspetto” mi rispose, scuotendo la testa. “Io ti amo per quello che sei. Mi pareva di aver capito che la cugina di Gimli ti avesse aiutato ad accettarti."
"Sì, è vero, l’ha fatto… Ma tu…" la mia voce si smorzò e lui mi incalzò a continuare.
"Ma io?"
"Ma tu meriti di meglio, Boromir…" conclusi, infine, con un sospiro.
Lui scosse di nuovo il capo, poi si alzò e mi raggiunse.
"Io desidero solo colei che ho scelto" disse, prendendomi per le spalle e facendomi voltare. I suoi occhi grigio-verdi si fissarono nei miei e, per un attimo infinito, mi persi dentro di essi. Riuscii a riscuotermi solo quando avvertii il suo naso sfiorare il mio. Con uno scarto mi allontanai, correndo alla porta.
"No, Boromir. Mi dispiace ma… io non merito il tuo amore!" e, con quelle parole balbettate tra i singhiozzi, spalancai l’uscio e mi allontanai di corsa senza voltarmi indietro, per paura che potesse inseguirmi e raggiungermi, il suo richiamo disperato che mi seguiva come un’eco.
Scesi nella sesta cerchia, fino alle scuderie. Freccia d’Argento era sveglia e vigile, come se mi stesse aspettando. Le salii in groppa senza neanche sellarla e lei non ebbe nemmeno bisogno di essere spronata. Mi aggrappai forte alla sua criniera argentea, lasciando che le lacrime mi scorressero copiose sul viso mentre lei si allontanava dalla città, galoppando nella vastità dei Campi del Pelennor.
Con la morte nel cuore, durante quella corsa sfrenata presi la mia decisione. L’unico modo per consentire a Boromir di dimenticarmi era allontanarmi da lui. Per fare ciò avrei dovuto restituirgli “l’anello della promessa” e cercare un’altra sistemazione, possibilmente quanto più lontano dalla Cittadella.  Lo avrei fatto quella mattina stessa, pensai confusamente prima di abbandonarmi al sonno, abbracciata al collo della giumenta, mentre la luna tramontava dietro il Mindolluin ed il cielo ad est cominciava a tingersi dei colori rosati dell’alba.
Le strade di Minas Tirith erano di nuovo affollate quando, in groppa a Freccia d’Argento, tornai a salire verso la settima cerchia. Mi ero avvolta strettamente nel manto di Lòrien, calando il cappuccio fin sugli occhi, ma non soltanto per non farmi vedere dalla gente. Il sole del mattino mi feriva dolorosamente gli occhi e pareva quasi bruciarmi sulla pelle.
Le guardie all’ingresso della Cittadella mi fecero entrare, senza però riuscire a trattenere i rimbrotti. Seguendo il consiglio di Gwina li lasciai scivolare via, scrollando le spalle. Poi, con un sospiro profondo, mi feci annunciare.
Boromir si trovava nella Sala del Trono in compagnia di suo fratello Faramir, di Aragorn e di Gandalf. Tutti e quattro si voltarono a guardarmi. Non appena mi vide, l’espressione sul volto del Sovrintendente si distese, passando dall’ansietà alla dolcezza. Decisa a non farlo nemmeno parlare mi diressi risoluta verso di lui e, quando gli fui di fronte, sfilai lentamente l’anello d’argento dal dito, senza distogliere lo sguardo dal suo volto.  
"Sono venuta a restituirti questo, Boromir" dissi in tono solenne, stendendo il braccio destro davanti a me ed aprendo le dita, lasciando cadere il piccolo gioiello. Il tintinnio che produsse, rimbalzando sul pavimento di marmo, riecheggiò per tutta la stanza amplificato dalla vastità dell’ambiente.
"Perché…" sussurrò infine il Gondoriano, quando cadde di nuovo il silenzio.
"Perché è giusto così. Dimenticami, Boromir."
E, con quelle ultime parole, girai sui tacchi e lasciai la stanza.

 
* * *

 

Non appena il pesante portone si richiuse alle spalle di Marian, Aragorn e Faramir si lanciarono uno sguardo sconcertato, mentre Boromir rimase a fissare il fondo della sala con sguardo spento. Solo Gandalf pareva tranquillo e perfettamente padrone di sé. L’improvvisa ed eclatante decisione della fanciulla sembrava non averlo turbato affatto.
Il silenzio si protrasse per un lunghissimo minuto poi, finalmente, il Sovrintendente parve riscuotersi. Si chinò lentamente a raccogliere l’anello e, mentre lo contemplava nel palmo della mano, chiese allo Stregone:
"Cosa devo fare ora, Gandalf?"
"Assolutamente nulla" gli rispose quello, in tono calmo.
L’Uomo alzò lo sguardo sull’Istari, fissandolo incredulo.
"Come sarebbe a dire, "nulla"?"
"Mi hai capito bene. Assolutamente nulla!" ripeté lo Stregone, calcando l’accento sull’ultima parola.
"Ma…" tentò di protestare il Sovrintendente.
"Sì, lo so cosa stai per dire”, lo interruppe Gandalf, “avete fatto una promessa che tu intendi rispettare. Ma devi avere ancora un po’ di pazienza! Non è ancora riuscita ad accettarsi. Ma vedrai che, prima o poi, Marian capirà di aver fatto un grosso errore."
"Prima… o poi?" sospirò il Gondoriano.
"Questo dipende dalla sua testardaggine. E, se oltre all’aspetto, ha preso anche il carattere degli Orchi, credo che dovrai aspettare un bel po’!” esclamò l’Istari. “Ma stai tranquillo” aggiunse subito dopo, sorridendo. “I suoi amici l’aiuteranno. Abbi fiducia negli Hobbit… e nelle Nane!"
Gandalf concluse il suo discorso dando una pacca sulla spalla di Boromir, che annuì con un sospiro rassegnato.

 
* * *

 

Adesso, non mi restava altro da fare che cercare un posto dove dormire nell’attesa di una sistemazione definitiva. Visto che dovevo per forza rimanere nella Terra di Mezzo, avevo deciso di trovarmi un lavoro – sempre che qualcuno fosse stato disposto ad assumere un Orchessa, per quanto Portatrice della Stella – e di cercarmi un modesto alloggio in cui vivere dignitosamente. Ovviamente sarebbe stato molto difficile attuare il mio piano e, nell’attesa di veder realizzate tutte le mie più rosee aspettative, scesi di nuovo lungo le varie cerchie, alla ricerca di una locanda disposta ad alloggiarmi nel frattempo.
La cosa, però, risultò molto più difficile del previsto. Nonostante, il giorno prima, Gwina mi avesse spinto ad avere più fiducia in me stessa, l’atteggiamento dei Gondoriani nei miei confronti non era cambiato minimamente. Tutti continuavano a guardarmi con sospetto e, per quanto chiedessi e pregassi con tutte le mie forze, non ci fu verso di trovare una stanza in nessuna delle taverne delle cerchie più alte della città.
Stavo giusto per scendere nelle parti basse, e più malfamate, di Minas Tirith quando mi sentii chiamare.
"Marian! Eccoti finalmente!” gridò una voce alle mie spalle. “È tutta la mattina che ti cerco, dove diavolo ti eri cacciata? Perché non sei venuta a seguire i lavori al Palazzo, stamani? Dovevamo discutere dei decori delle colonne!"
Gwina, con indosso un lungo grembiule di cuoio e la parte centrale della barba acconciata in un'unica treccia, camminava a passo di marcia, agitando sopra la testa un enorme mazzuolo di legno e metallo al ritmo con le sue parole. In molti furono costretti a chinarsi ed a spostarsi in fretta, per evitare di essere colpiti da quella specie di arma impropria.
"Mi dispiace, Gwina” le risposi, fermandomi ad attenderla, “ma i lavori al Palazzo dei Sovrintendenti non sono più di mia competenza."
"Cosa?!" gridò ancora mentre mi affiancava, piantandosi i pugni sui fianchi. "E che novità sarebbe mai, questa? Chi l’ha deciso?"
"Io. Stamattina ho restituito l’anello di fidanzamento a Boromir…" cominciai a spiegare, ma il suo ennesimo urlo mi interruppe.
"COSA?!" strillò, così forte da farmi fischiare le orecchie, "CHE COSA HAI FATTO?!"
Mi afferrò di malagrazia la mano sinistra per controllare che stessi dicendo la verità. Quando si rese conto che era tutto vero prese a sbraitare in nanesco tirandosi la barba e, contemporaneamente, sbatacchiando il mazzuolo a destra e a sinistra, finendo per rompere un vaso di fiori che stava su un davanzale lì vicino. Alle sue urla si unirono quelle della proprietaria dell’abitazione, piuttosto alterata per i cocci e per la piantina rovinata.
Lo spettacolo alquanto inconsueto cominciava a radunare parecchi curiosi perciò, per evitare di attirare ulteriori attenzioni, afferrai Gwina per un braccio trascinandola via, chinando la testa ogni volta che il mazzuolo roteava in aria. Una volta giunte al sicuro dentro un vicolo, buio e privo di gente, mi fermai e la lasciai andare. Solo allora la Nana smise di parlare nel suo dialetto e tornò alla Lingua Corrente.
"Tu devi essere matta!” urlò. “Sei fidanzata con l’Uomo più affascinante di tutta la città – dopo Elessar, naturalmente – e tu cosa fai? Gli vai a restituire l’anello?! Ma cos’hai in testa al posto del cervello, fango e foglie marce?!"
"Può anche essere… Non so che cos’abbiano gli Orchi in capo" le risposi alzando le spalle.
"Hanno un cervello, come tutte le altre creature della Terra di Mezzo! È solo che tu non lo stai utilizzando! Sentiamo un po’: per quale motivo avresti restituito l’anello?"
"Perché io non posso sposare Boromir…" cominciai a spiegare, ma Gwina subito mi interruppe.
"E perché no?"
"Perché un Sovrintendente non può sposare un’Orchessa…" ripresi, per essere di nuovo bloccata.
"E chi lo dice? E non rispondermi "Io"!" mi prevenne, togliendomi così le parole di bocca.
Per un attimo rimase ferma a fissarmi, con la faccia ancora rossa di rabbia e la treccia della barba mezza disfatta, prima di riprendere a parlare.
"Smettila di commiserarti” disse in tono più calmo. “Se continuerai a piangerti addosso, nessuno riuscirà mai ad accettarti. Accetta te stessa, e vedrai che lo faranno anche gli altri. Boromir ti ama, gliel’ho letto negli occhi dal primo momento che l’ho visto. Non buttare via quello che la vita ti offre!"
Chinai lo sguardo a terra e lei parve acquietarsi del tutto.
"Nessuno stamani è venuto a dirmi che c’è un altro responsabile dei lavori” riprese, “per cui, fino a prova contraria, il compito spetta ancora a te. Andiamo, il Palazzo ci aspetta!"
Mi prese per mano e mi trascinò sul cantiere, dove fui costretta a rimanere fino all’ora di pranzo.
Quando stavo per accingermi a scendere di nuovo in cerca di una locanda per la notte, fui fermata nuovamente da un coro di voci che mi chiamava.
"Marian, aspettaci!"
Questa volta si trattava dei quattro Hobbit – Pipino in testa – che mi correvano incontro, trafelati e con lo sguardo preoccupato.
"Ma è vero?" mi chiese il giovane Tuc non appena mi ebbero raggiunto, appoggiandosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
"Che cosa?" chiesi, con finta ingenuità.
"Che hai restituito l’anello a Boromir" intervenne Merry, visto che Peregrino stava ancora boccheggiando.
Annuii semplicemente.
"Perché l’avete fatto, Dama Tingilindë?" mi chiese Sam, accorato.
"Avevo le mie buone ragioni" mormorai in risposta, incerta.
"L’essere diventata un’Orchessa, per caso?" mi domandò Frodo, fissandomi negli occhi. Chinai lo sguardo, senza sapere cosa rispondere, e lui continuò. "Non mi sembra una ragione valida."
Feci per ribattere ma Pipino, che finalmente aveva ripreso fiato, si intromise.
"Frodo ha ragione, Marian. Non è una ragione valida!"
"Ma si può sapere a voi chi l’ha detto?" sbottai, infine, incrociando le braccia sul petto, lievemente seccata da tutto questo interesse.
"Ce l’ha detto Gandalf" mi rispose Merry.
"E anche Gwina!" aggiunse Pipino, facendogli eco.
Non riuscii a trattenere uno sbuffo.
"Mai nessuno che si faccia gli affari suoi" borbottai, alzando gli occhi al cielo.
"Ma questi sono affari nostri!" disse con enfasi Peregrino, accorato. "Facciamo ancora tutti parte della Compagnia, nel bene e nel male! Boromir ti ama, Marian, perché lo rifiuti?"
"Io non vorrei farlo! Che diamine, lo amo ancora più del primo giorno!” esclamai a mia volta. “Ma non posso diventare sua moglie, non posso! Riuscite a capirlo, almeno voi?"
I quattro Hobbit si guardarono l’un l’altro, sconcertati, senza sapere cosa rispondere. Fu Frodo il primo a riscuotersi ed a trovare le parole adatte.
"Marian, non devi aver paura dei giudizi degli altri. Conta solo ciò che volete tu e Boromir!"
"Lo so, Frodo” ammisi, “ma è più forte di me! Non riesco a sopportare il fatto che, se Boromir mi sposa, diventerà lo zimbello di tutta Gondor!”. Mi interruppi per un attimo, sospirando, poi ripresi. “Preferisco lasciarlo e permettergli di rifarsi una vita, per quanto doloroso possa essere, piuttosto che renderlo ridicolo davanti alla sua gente."
"Quindi, vuoi dire che non ci ripenserai?" mi chiese tristemente il giovane Brandibuck.
"No, Meriadoc, ho preso la mia decisione! Stavo giusto andando a cercarmi un nuovo alloggio…"
"Non lo fare, Marian! Boromir ne morirà!" mi interruppe Pipino, congiungendo le mani in atto di preghiera.
"Sciocchezze! Boromir se ne farà una ragione…” gli risposi scrollando le spalle benché, dentro di me, mi sentissi malissimo. “E ora scusatemi ma devo proprio andare, se non voglio passare la notte nelle stalle."
Gli voltai le spalle e me andai, lasciandoli a guardarsi l’un l’altro. Ero ben consapevole che avevano ragione, ma non riuscivo ad accettarlo. L’essere diventata un’Orchessa aveva sconvolto totalmente la mia vita, proprio quando speravo che tutto sarebbe andato a finire per il meglio. Purtroppo per me, la mia storia non avrebbe avuto un lieto fine.
Come avevo temuto, non riuscii a trovare nessun oste disposto ad alloggiarmi, nemmeno nelle più infime bettole della prima cerchia. A tarda notte, con lo stomaco che mi brontolava, mi arresi e con passo pesante mi diressi alle scuderie. Freccia pareva aspettarmi. Mi salutò con un nitrito acuto e, con un cenno della testa, mi invitò a salire in sella. Non mi feci pregare e la assecondai nella sua corsa, lasciandomi trasportare nella piatta distesa del Pelennor. Ben presto, però, mi resi conto che la giumenta si dirigeva verso le rovine di Osgiliath. Immaginai, con disappunto, che qualcuno doveva averle chiesto di portarmi laggiù. Non avevo nessunissima voglia di spiegare ancora le mie motivazioni a chicchessia, per cui cercai in ogni modo di farle cambiare direzione, ma né le lusinghe né le minacce sortirono l’effetto sperato. Per tutta risposta, Freccia d’Argento nitrì nervosamente mostrandomi i denti, aumentando l’andatura per arrivare prima alla sua meta. Si fermò solo nel cuore della città in rovina dove, impennandosi, mi fece scendere malamente.
"Ahio!" urlai, massaggiandomi le natiche. "Ora ti ci metti anche tu, Freccia? Ed io che credevo che almeno tu mi fossi rimasta amica!"
"Lo è, infatti, come lo sono anch’io" mi rispose una voce dall’ombra. Lentamente, una figura incappucciata uscì da dietro ciò che restava di un antico palazzo, avvicinandomisi. Solo quando fu a pochi metri da me riconobbi il mio interlocutore.
"Faramir…" mormorai tristemente, trattenendo a stento un sospiro.
"Buonasera, Marian."
“Anche tu vuoi chiedermi perché ho lasciato tuo fratello?" gli chiesi, cupa.
"Non hai perduto la tua perspicacia" mi rispose, calmo.
"Ma ho perso tutto il resto…"
"Non è vero, non hai perso nulla" disse, scuotendo il capo.
Prima Gwina, poi gli Hobbit ed infine lui. Quella, per me, era stata veramente una lunga giornata e la mia poca pazienza era oramai terminata da un pezzo.
"Guardami Faramir!" sbottai, arrivando a pochi centimetri da lui, ghermendogli le braccia. "Guardami!” ripetei, fissando i miei occhi nei suoi. “Sono un mostro! Nessuno mi rispetta più! Ho cercato per tutto il giorno e non c’è stato alcun oste, nemmeno uno, che abbia voluto darmi una stanza, neanche nella bettola più lurida della città! Lo sai cosa mi hanno detto?” gli gridai in faccia, scrollandolo lievemente. “Che puzzo come una carogna! E tu credi che io possa diventare la moglie di tuo fratello? La moglie del Sovrintendente?” gli chiesi ancora, la voce distorta dalla rabbia. “E cosa dirà la gente? Che Boromir ha sposato una carogna? Un mostro?"
"Ti preme così tanto l’opinione della gente?" chiese lui pacatamente in risposta, liberandosi delicatamente, ma con fermezza, dalla mia stretta e poggiandomi le mani sulle spalle.
"Sì, Faramir! Mi interessa!" replicai, dura.
"E non pensi invece ai sentimenti di mio fratello?" insisté, stringendo dolcemente la presa sulle mie scapole.
"Certo che ci penso! Ed è proprio per questo che l’ho lasciato. Lui non può essere felice con una come me…" mormorai, chinando lo sguardo.
"Tu sei la donna che ama!" esclamò Faramir, scrollandomi lievemente a sua volta.
"No. Non lo sono più, ormai…"
"Quindi non tornerai indietro?" mi chiese ancora, la voce che si incrinava leggermente mentre lasciava scivolare via le mani dalle mie spalle.
"No, Faramir. Non lo farò!" gli risposi, secca.
"Allora ti dirò un’ultima cosa soltanto…” sussurrò, infine. “Così, uccidi mio fratello."
Mi voltò lentamente le spalle e, mentre si muoveva, un raggio di luna gli illuminò il volto. I suoi occhi erano lucidi di lacrime. Fu solo questione di un istante. Un secondo dopo, Faramir sparì di nuovo nell’ombra, silenzioso come un fantasma.
Di nuovo sola, chiamai Freccia d’Argento perché tornasse a prendermi. La cavalla mi rispose nitrendo da lontano, rifiutando di avvicinarsi. A quel punto la mia rabbia si trasformò in frustrazione, e la frustrazione in amarezza. Mi lasciai cadere a terra, piangendo tutte le mie lacrime.
Era il quattro di aprile, e così ruppi il fidanzamento con Boromir.


Spazio autrice: Salve a tutti! Siamo ormai arrivati alle battute finali della revisione di questa storia, mancano più soltanto un capitolo e l'epilogo. Volevo spiegare un po' meglio la presenza del personaggio di Gwina, la cugina di Gimli. All'inizio, nella prima stesura della storia, l'avevo inserita come nuovo personaggio perché, nel mio cervello bacato e dato il mio stato d’animo dell’epoca, questa storia doveva durare molto più a lungo, con Marian in versione Orchessa. La immaginavo già vittima di non so quali soprusi ed angherie, prima di poter coronare finalmente il suo sogno d’amore. Poi, mi sono resa conto che la storia, così, sarebbe diventata noiosa e ripetitiva, quindi decisi di accorciare, ed ora mantengo questa mia decisione. Ho deciso comunque di lasciare la Nana perché il suo personaggio mi piace, e chi lo sa che non si ripresenti ancora in qualche altra storia… Detto questo, ringrazio ancora tutti quelli che leggono, sia in silenzio che commentando.
Per finire, vi lascio con due immagini, realizzate con il solito giochino di dress up: la prima mostra Gwina con il suo famigerato mazzuolo in mano; la seconda rappresenta Faramir durante il suo colloquio con Marian tra le rovine di Osgiliath.
Bacioni a tutti!
Evelyn



 
 

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Capitolo 25
*** L'amore è più forte di tutto ***






L’amore è più forte di tutto.

 

I giorni passarono lentamente. Dopo numerosi e vani tentativi di trovare una casa ed un lavoro a Minas Tirith mi ero insediata all’interno di una casupola abbandonata, ai margini dei Campi del Pelennor, vicino ad una folta macchia di alberi in cui potevo nascondermi, all’occorrenza. Fin da subito mi resi conto che non avrei mai potuto trovare una soluzione migliore: l’ultima trasformazione che avevo subito, infatti, pareva continuare inesorabile e la parte "orchesca" stava ormai prendendo il sopravvento su quella umana. Passavo la maggior parte della notte sveglia, di solito cacciando piccoli animali che poi mangiavo crudi, mentre di giorno mi rintanavo all’interno per sottrarmi alla luce del sole, che riuscivo a sopportare sempre meno. Tenendo un comportamento simile, non avrei mai potuto vivere all’interno della città.
Nessuno, a parte gli Hobbit, sapeva dove mi ero nascosta. Li avevo pregati caldamente di tenere segreta la mia residenza pure, e soprattutto, a Boromir. Pensavo che, se non avesse più avuto mie notizie, avrebbe smesso di cercarmi e si sarebbe finalmente deciso a rifarsi una nuova vita. 
Non volevo nemmeno ricevere visite: dato che la natura animalesca tipica degli Orchi stava prendendo il controllo delle mie azioni, temevo di poter fare involontariamente del male a qualcuno. Solo Pipino osava, a volte, avventurarsi fino alla casupola. Di tanto in tanto lo vedevo giungere nella luce morente del crepuscolo, in sella a Freccia d’Argento, dopo aver fatto un lungo giro per far perdere le sue tracce. Per lui facevo uno sforzo, sedendomi nel vano della porta e cercando di sopportare i raggi del sole al tramonto. In quei momenti gli chiedevo di raccontarmi ogni cosa.
Dal Mezzuomo venni a sapere che le delegazioni degli Elfi e dei Nani avevano finito il loro lavoro ed avevano lasciato Minas Tirith per tornare alle loro case; e che Gwina si era raccomandata caldamente con lui di venirmi a dire di mettere in funzione il cervello, una volta per tutte.
Alla fine di ogni resoconto ripetevo sempre la stessa domanda, a cui Pipino rispondeva ogni volta alla solita maniera.
"E Boromir? Come sta?"
"È difficile da dire, perché non lo vedo quasi mai. Lascia solo di rado il Palazzo dei Sovrintendenti. Però, Faramir mi ha detto che è molto triste e che ti sta ancora aspettando."
Una sera, sul finire di aprile, stufa di sentirgli ripetere sempre le stesse parole, borbottai:
"Perché quel testone non si decide a rifarsi una vita?"
"E perché tu non ti decidi a tornare?" replicò Pipino, fissandomi negli occhi.
Quella semplice domanda mi lasciò senza parole. Possibile che non lo avessero ancora capito, che non potevo farlo? Senza sapere cosa replicare mi ritirai nel buio della casupola e l’Hobbit, dopo aver finito la sua pipata, silenziosamente se ne andò.
Pian piano i giorni divennero mesi. 
Venne il primo di maggio, ed Aragorn fu incoronato Re da Gandalf con il nome di Elessar, Gemma Elfica. 
Venne il venti di giugno, ed Arwen raggiunse finalmente Minas Tirith, accompagnata da tutta la sua famiglia e da molti altri Elfi di Gran Burrone e Lothlòrien. 
Venne il Giorno di Mezza Estate, in cui fu celebrato il matrimonio tra Re Elessar ed Arwen Undòmiel, ed i cui festeggiamenti durarono per giorni interi. Dalla mia casupola potevo vedere le bandierine colorate che sventolavano, al fianco dei vessilli rappresentanti l’Albero Bianco di Gondor. Come gli avevo predetto tempo prima, Aragorn ne aveva trovato un nuovo germoglio sulla cima del Monte Mindolluin.
"Perché non sei venuta anche tu, alle nozze? Mi pareva proprio di avertelo consegnato, l’invito!" mi chiese Pipino una settimana dopo il termine delle celebrazioni, durante una delle sue ormai consuete visite serali. "Arwen desiderava molto vederti e ti avrebbe voluto come damigella d’onore!"
"Proprio una bella damigella sarei stata" risposi, sarcastica, con la voce ormai arrochita, sia per la mancanza di utilizzo che per la progressiva ed inesorabile mutazione di cui ero vittima.
"Anche Elrond, Galadriel e Celeborn hanno chiesto di te” riprese imperterrito il Mezzuomo, “volevano venire a farti visita, ma Gandalf li ha fatti desistere…"
"Meno male che almeno lui ha ancora un po’ di giudizio" borbottai, interrompendolo.
"Abbiamo tutti giudizio! Sei tu che non ne hai più nemmeno una briciola!” sbottò l’Hobbit, scattando in piedi come una molla per l’indignazione e la disperazione. “Faramir mi ha detto che suo fratello non prova più interesse per niente e per nessuno e che, se non fosse per lui e per gli altri membri della Compagnia, non si alzerebbe nemmeno dal letto!"
Come ogni volta in cui Pipino mi parlava di Boromir, anche in quell’occasione le sue parole mi colpirono come una staffilata al cuore. Ma cos’altro avrei potuto fare? Oramai vivevo quasi esclusivamente di notte, mangiando cose che avrebbero fatto vomitare una capra. “Di quale conforto posso essergli io, ormai?” pensai con un sospiro.
Ed infine, ad un mese esatto dalla celebrazione delle nozze tra il Re e la Regina, Pipino venne a darmi la notizia che tanto temevo.
Il giorno prima Éomer era arrivato da Rohan: a Edoras erano finalmente pronti ad accogliere la salma di Re Théoden che, fino ad allora, aveva riposato nelle Case dei Morti a Minas Tirith. Era giunto quindi, per il giovane Tuc e per gli altri Mezzuomini, il momento di tornare nella Contea. Come avrei fatto, io, a sopportare da sola la mia misera condizione? Senza più neanche le sue visite che mi erano diventate così tanto care? 
"Tra una settimana partirà il corteo funebre” mi annunciò quella sera. “Io e gli altri ne approfittiamo per partire. È passato quasi un anno, ormai, da quando abbiamo lasciato la Contea, ed è giunto il momento di tornare a casa."
Annuii senza pronunciare una parola, un grosso nodo che mi si andava formando in gola.
"Il nostro sarà un gruppo ben nutrito” proseguì Pipino. “Ci accompagneranno anche gli Elfi; ed inoltre pure Aragorn, Arwen e gli altri verranno a tributare l’ultimo saluto al Re.”
"Anche Boromir?" gli chiesi trattenendo involontariamente il fiato, nella speranza che l’Uomo avesse deciso di darsi una scossa. Il Mezzuomo, però, scosse la testa.
"No, lui non vuole venire. Sostiene che, in assenza del Re, almeno il Sovrintendente deve rimanere a Minas Tirith; ma io credo che in realtà abbia paura di non ritrovarti più al suo ritorno. Spera ancora che tu cambi idea."
Mi lasciai sfuggire un grugnito al sentire quelle parole ed il Mezzuomo cambiò argomento.
"Verrai almeno a salutarci al momento della partenza?" mi chiese speranzoso.
"Mi dispiace molto, amico mio, ma non credo di poterlo fare…” gli risposi, con voce cupa. “Come ben sai, non riesco quasi più a sopportare la luce del giorno. Ti dico addio adesso. Porta un abbraccio agli altri da parte mia. Fate buon viaggio…" mormorai, già pronta a ritirarmi di nuovo all’interno della buia casupola.
L’Hobbit rimase a fissarmi per un lungo momento, durante il quale sembrò lottare per trattenersi. Poi, all’improvviso, il suo labbro inferiore cominciò a tremare, come quello di un bambino sul punto di scoppiare in lacrime. Con un grido mi gettò le braccia al collo, mettendosi a piangere come una fontana.
"Volevo essere forte… Non volevo piangere… Ma non ce la faccio…” balbettò, tra un singhiozzo e l’altro. “Ti amo Marian! Mi sono innamorato di te dal primo momento che ti ho visto! Lo so che siamo di due razze diverse, ma non posso farci nulla! Non ho mai smesso di amarti, neanche dopo la tua trasformazione!" esclamò, affondando il viso nell’incavo del mio collo, scosso dai singulti del pianto violento.
Gli posai dolcemente una mano sul capo, carezzandoglielo lentamente. La sua tenera confessione mi aveva riempito il cuore di commozione.
"Lo so…” mormorai in risposta, “me ne sono accorta molto tempo fa. Ed ho visto dal tuo sguardo che non hai mai smesso di farlo…"
"Ed allora, se l’hai capito dal mio sguardo, perché non riesci ad intendere che anche Boromir ti ama?!” esclamò di nuovo, staccandosi bruscamente da me e fissandomi negli occhi. “Lui ti ha sempre guardato al mio stesso modo! Non lasciare che la tua avventura con noi vada sprecata! Non lasciare che il tuo sacrificio vada perduto!" gridò ancora, le lacrime che continuavano a scendergli copiose sulle guance.
Le sue parole mi colpirono profondamente, facendo nascere un terribile sospetto dentro di me.
"Perché dici così, Peregrino?" gli chiesi, con la voce che tremava.
"Perché Boromir si sta lasciando morire!” sbottò l’Hobbit, afferrandomi per le maniche della casacca e strattonandomi.  “Non mangia quasi più! Passa le sue giornate chiuso nella sua stanza, a fissare le Montagne dell’Ombra!"
Le sue parole si confusero nella mia mente mentre, col ricordo, tornavo alla frase pronunciata da Faramir ormai quasi quattro mesi prima: "Così uccidi mio fratello!". Possibile che Boromir, invece di ricominciare a vivere, continuasse a desiderarmi al punto tale da preferire la morte piuttosto che una vita senza di me? Dovevo convincerlo a dimenticarmi una volta per tutte, e l’avrei fatto quella notte stessa!
Il primo tuono esplose nel cielo nel momento esatto in cui chiusi la porta della casupola alle mie spalle. Era quasi mezzanotte ed il cielo era coperto da pesanti nubi color della pece, ma la totale assenza di luce non era per me un problema. Gli Orchi vedevano benissimo anche al buio più assoluto ed erano inoltre camminatori instancabili. Percorsi la lunga distesa del Pelennor in meno di due ore e quando arrivai alle porte della città mi sentivo ancora fresca come una rosa.
Protetta dall’oscurità riuscii ad arrivare proprio davanti ai cancelli senza che nessuno mi notasse. Le guardie si resero conto della mia presenza soltanto quando ormai ero già di fronte a loro, e solo perché un fulmine illuminò la notte con la sua luce spettrale, facendo rilucere i miei occhi.
"Alto là! Chi va là!" gridarono all’unisono i due gendarmi, puntandomi contro le spade.
"Devo vedere il Sovrintendente!" risposi, senza curarmi delle loro lame, con la voce ormai ridotta ad un ringhio sordo dalla mutazione irreversibile.
"Fatevi identificare!" urlò ancora uno dei soldati accendendo una lanterna ed alzandola sopra il capo, illuminando l’area antistante le porte. Non appena mi riconobbe trasalì vistosamente, tanto che la lucerna gli sfuggì di mano facendoci ripiombare nell’oscurità più completa.
Il suo compagno non si perse d’animo. Strinse ancor di più la presa sull’elsa e replicò:
"Abbiamo ordine di non far entrare nessuno, dopo il tramonto!"
"Devo vedere il Sovrintendente!" ripetei, la voce resa ancor più gutturale dalla rabbia.
"Lo vedrete domattina. Sempre se vorrà ricevervi…" mi rispose, ironico. 
"Io devo vederlo adesso!" insistei, le mani strette a pugno.
"Non costringeteci ad usare le armi!" intervenne di nuovo il primo gendarme, dopo essersi ripreso dall’attimo di smarrimento.
All’udire quelle parole sfoderai Hoskiart che, nel bagliore dei fulmini, parve risplendere di una luce azzurrina. Le due guardie fecero involontariamente un passo indietro, vinte da un nuovo istante di sbandamento, ma dopo soli pochi secondi tornarono al loro posto alzando le spade, pronte a combattere.
Spostai il braccio all’indietro, decisa a difendermi ad ogni costo, quando una voce imperiosa, proveniente da dietro al pesante cancello, ci bloccò.
"Lasciatela passare!"
"Ma… Mithrandir! Sapete bene anche voi che il Re ha ordinato…" balbettò uno dei gendarmi, stupefatto.
"So benissimo quali sono gli ordini del Re, glieli ho suggeriti io!” gli rispose lo Stregone, con rabbia. “Ma Dama Tingilindë deve incontrare il Sovrintendente, e subito!"
I due soldati esitarono ancora. Gandalf fece l’atto di sfoderare Glamdring e, con quell’unico gesto, li convinse ad aprire il portone ed a lasciarmi passare.
Una volta all’interno, presi ad avanzare a grandi falcate lungo il viale principale. L’Istari mi si affiancò.
"Finalmente ti sei decisa! Peregrino è riuscito a convincerti!" mi apostrofò, serio, mantenendo la mia andatura senza alcuno sforzo apparente.
"Sì, Gandalf” gli risposi in tono altrettanto grave. “Ho capito che, se non lo spronerò, Boromir non si convincerà mai a trovare un’altra donna…"
La voce dello Stregone esplose più forte del rombo dei tuoni, interrompendomi bruscamente. Quando mi voltai a guardarlo mi parve essere diventato alto il doppio e, da quell’altezza incredibile, mi fissava con occhi fiammeggianti.
"Piantala di comportarti come una stupida! Devi smetterla di compiangerti!” tuonò. “Non hai ancora capito che Boromir ha bisogno di te?! E, soprattutto, che tu hai bisogno di lui?!"
Mentre parlava mi feci piccina piccina: mi addossai contro un muro e mi lasciai scivolare a terra. L’Istari mi sovrastò per un altro istante ancora, fissandomi con intensità, prima di tornare normale.
"Scusami se mi sono un po’… alterato” riprese in tono più calmo, “ma devi capire che tu e Boromir siete fatti l’uno per l’altra. Altrimenti, secondo te, cosa ti ci avrebbe portato a fare qui Dama Galadriel?" mi chiese, porgendomi la mano per aiutarmi a rimettermi in piedi. "Forza, ora corri da lui! Ti sta aspettando da troppo tempo ormai!"
Con l’eco delle sue parole che ancora mi risuonava nelle orecchie mi lanciai di corsa su per la strada principale di Minas Tirith, fin nella settima cerchia di mura, diretta al Palazzo dei Sovrintendenti.
Una volta di fronte all’edificio estrassi nuovamente la spada dal fodero, determinata a farmi largo a qualsiasi costo, ma le guardie che dovevano essere di stanza all’ingresso del palazzo si trovavano in realtà poco più in là, appoggiate con la schiena contro il muro, placidamente addormentate. Mi buttai con tutto il mio peso sui battenti: l’avrei sfondato a spallate, se fosse stato necessario. Con mia grande sorpresa, invece, le ante si aprirono docilmente, senza fare rumore, scivolando sui cardini bene oliati. 
Entrai nel buio ingresso, chiamando a gran voce:
"Boromir! Boromir, dove sei?"
Poiché non ricevetti risposta mi lanciai su per le scale, continuando ad urlare. Il palazzo sembrava deserto, o forse profondamente addormentato: nessuno, nemmeno i servitori, rispondeva ai miei richiami, forse perché tutti vittima di un sortilegio, lanciato magari proprio da Gandalf per lasciarmi campo libero.
Non sapevo dove dirigermi. Il palazzo sembrava un tetro labirinto dai corridoi infiniti, che percorsi in tutta fretta alla ricerca di colui che amavo. Infine, giunsi in un largo passaggio chiuso da una porta, sotto la quale filtrava una sottile lama di luce. Mi avventai su di essa e la spalancai senza nemmeno bussare.
Il Sovrintendente era lì. L’avevo trovato – finalmente – ma, per un attimo, non riuscii nemmeno a riconoscerlo: pareva diventato l’ombra dell’Uomo che era. Aveva perso molti chili, tanto che la veste da camera che indossava gli ciondolava addosso; aveva gli occhi cerchiati di nero, i capelli lunghi e scompigliati e la barba incolta.
"Boromir…" mormorai con un filo di voce, quasi temendo di potergli fare del male anche solo con la mia orrenda voce da Orchessa.
Si voltò lentamente, osservandomi per un istante con lo sguardo perso nel vuoto. Poi, all’improvviso, i suoi occhi parvero schiarirsi
"Marian… Finalmente sei arrivata…" mormorò con voce flebile.
Mi avvicinai tremante a lui, tendendogli le braccia. Lui fece altrettanto, stringendomi debolmente contro il suo petto.
"Boromir… Come ti sei ridotto… Perché ti sei fatto questo…?" singhiozzai, sfiorandogli delicatamente il viso.
"Perché senza di te la mia vita non aveva più alcun senso… Ma ora sei tornata… Sei di nuovo qui con me…" rispose, carezzandomi i radi capelli.
Solo allora, stretta tra le sue braccia magre ma ancora vigorose, mi resi conto di quanto l’amassi ancora – di quanto l’avessi sempre amato con tutta me stessa – e dello sbaglio madornale che avevo fatto quando gli avevo restituito l’anello.
"Boromir… Perdonami per averti lasciato… Io credevo di agire per il tuo bene… Non volevo farti questo…" ripresi, scoppiando in lacrime.
"Lo so…” mormorò di nuovo lui in risposta. “Ed, infatti, io non aspettavo altro che il tuo ritorno, per chiederti di ricominciare."
Mise una mano nella tasca della vestaglia estraendone il mio anello, che lui aveva sempre gelosamente conservato nella speranza di un mio ripensamento. Lentamente mi prese la mano sinistra, sollevandola all’altezza del mio petto, e me lo infilò nuovamente al dito. In quel momento, capii che eravamo veramente destinati l’uno all’altra. Pur se timorosa di ricevere un rifiuto protesi il viso verso di lui, in cerca di quel bacio che tante volte egli aveva tentato di darmi.
Boromir non si lasciò pregare. Le sue labbra si posarono dolcemente sulle mie, schiudendosi subito dopo per permettere alle nostre lingue di incontrarsi. La “Stella di Fëanor” divenne improvvisamente incandescente, trasmettendomi una specie di scossa elettrica che mi percorse dalla testa ai piedi, facendomi irrigidire involontariamente. Il Gondoriano se ne avvide e per tale motivo si staccò da me, fissandomi con occhi che sempre più si riempivano di stupore. La sua bocca prima si aprì in una "O" di incredulità, poi si spalancò in un enorme sorriso.
"Marian… guardati!" esclamò, trascinandomi verso lo specchio. 
Per poco non mi venne un colpo. I miei capelli stavano tornando quelli di sempre, il mio viso stava riprendendo i vecchi lineamenti. Guardai le mie mani: lentamente anch’esse stavano recuperando l’aspetto originario. Le fissai per qualche istante, incredula, prima di tornare a osservarmi nello specchio. Ero tornata finalmente ad essere quella di una volta. Non più Orchessa, non più Elfa, ma di nuovo Donna, come quando la mia avventura era iniziata.
Riflesso nella grande specchiera vidi Boromir accostarsi alla mia schiena.
"Allora è vero! Gandalf aveva ragione!" esclamò di nuovo, cingendomi la vita con le braccia.
"Certo che avevo ragione! Per chi mi hai preso, per un mago da strapazzo?"
La voce dell’Istari ci fece sobbalzare entrambi. La porta della camera si aprì di scatto mentre lo Stregone si affacciava sull’uscio, appoggiandosi al suo lungo bastone con aria soddisfatta. Mi voltai a guardarlo per un attimo prima di tornare a fissare il Sovrintendente, con aria stupita.
"Ragione su che cosa? Mi volete spiegare, per favore?" chiesi, mettendomi le mani sui fianchi.
"Gandalf era convinto che l’unico modo per farti tornare quella di un tempo fosse darti un bacio di vero amore” mi illustrò Boromir. “Io mi sono innamorato di te fin dal primo giorno in cui ti ho vista, a Gran Burrone, e da allora non ho mai smesso di farlo. Da quando sei diventata un’Orchessa ho tentato di baciarti più volte, ma tu mi hai sempre respinto" aggiunse, in tono quasi di rimprovero.
"Ma il bacio d’amore sarebbe dovuto essere corrisposto per funzionare” interloquì lo Stregone, “e, a giudicare dal tuo attuale aspetto, lo era."
"Oh, sì che lo era!” risposi con enfasi. “Neanche io ho mai smesso di amarti, Boromir, ma l’ho capito solo stasera" ammisi, lasciandomi cadere tra le sue braccia in cerca di un nuovo bacio che non fu negato.
"Tutto è bene quel che finisce bene! Allora, a quando le nozze?"
La domanda di Gandalf mi colse impreparata. Mi voltai di scatto a guardarlo, con aria stranita.
"Non fissarmi a quel modo, mia cara. Ora non c’è più niente che possa impedire il vostro matrimonio!” rise l’Istari. “E, inoltre, c’è un certo Hobbit molto curioso che vuole sapere la data, per non mancare all’appuntamento!"
"Peregrino!” esclamai, sorridendo a mia volta. “Ma, questo pomeriggio, mi ha detto che fra qualche giorno lui e gli altri lasceranno la città per tornare a casa” aggiunsi, ricordando all’improvviso le sue parole.
"Sì, ci sono alcune cose che devono essere sistemate nella Contea” confermò Gandalf, “ma credo che possiamo permetterci di aspettare ancora un po’ di tempo."
Tornai a guardare Boromir, perdendomi nei suoi occhi grigio-verdi.
"Io sono arrivata qua, nella Terra di Mezzo, il trenta di settembre. Mi piacerebbe molto che il giorno delle nozze corrispondesse all’anniversario del mio arrivo…” mormorai. “Oggi è il ventidue di luglio. Abbiamo poco più di due mesi per organizzare tutto. Tu cosa ne pensi, Boromir?"
"Che ogni tuo desiderio è un ordine, per me” mi rispose ridendo. “Avrò almeno anche il tempo di rimettermi un po’ in forma!" aggiunse, scuotendo le braccia e facendo ondeggiare le maniche della vestaglia, che gli andava larghissima.
"Bene! E allora che il trenta di settembre sia!” concluse Gandalf, sorridendo soddisfatto. “Vado subito ad avvertire il nostro amico comune. Buonanotte!" E, con un mezzo sorriso ed una strizzatina d’occhio, lo Stregone lasciò la stanza chiudendo la porta dietro di sé.
Finalmente sola con il Gondoriano mi voltai a fissarlo con avidità. Era passato molto, troppo tempo, dall’ultima volta in cui avevamo fatto l’amore. Boromir parve essere dello stesso avviso perché con un rapido gesto si disfece, lanciandola lontano, della veste da camera, cui seguirono subito dopo le lunghe brache di tela. Benché avesse perso molto peso i suoi muscoli erano ancora ben delineati ed il suo corpo mi sembrò quanto mai desiderabile.
"Wow…" riuscii soltanto a mormorare prima di spogliarmi in tutta fretta a mia volta, buttandomi sul letto tra le sue braccia.
I preparativi del matrimonio occuparono tutti al punto da far passare il tempo ancora più velocemente di quanto già non facesse. Boromir recuperò la sua perfetta forma fisica in meno di un mese, allenandosi quotidianamente con suo fratello Faramir. Quest’ultimo ed Éowyn si erano sposati non appena la ragazza era tornata da Rohan, dopo il funerale di suo zio Re Théoden. Non appena mi aveva visto mi era corsa incontro, senza badare minimamente all’etichetta, abbracciandomi con foga ed esultando con me per tutte le belle cose che erano accadute in sua assenza. Con grande gioia ero stata la sua damigella d’onore, con la promessa, però, che anche lei avrebbe ricambiato.
Pipino si era autoproclamato organizzatore dell’evento, ed aveva preso talmente a cuore la faccenda che rischiò seriamente di farsi venire un esaurimento nervoso. Gli altri tre Hobbit facevano la spola tra il Palazzo dei Re e quello dei Sovrintendenti, eseguendo gli ordini di quello strampalato wedding planner e controllando che tutto si svolgesse come previsto. Non era inconsueto vederli correre di qua e di là, con il giovane Tuc a battere le mani al loro indirizzo, per spronarli a fare presto.
Finalmente venne il grande giorno. La Regina Arwen in persona mi aveva confezionato uno splendido abito da sposa color dell’avorio, completamente adorno di pizzi e merletti, che lasciava scoperte le spalle e la mia rosellina azzurra. Non ero mai stata così nervosa, in vita mia, come quando arrivò il momento di uscire nella Piazza della Fontana, dove tutta la popolazione si era riunita per assistere alle nozze del Sovrintendente Boromir. Con il velo calato sul viso detti il braccio a Re Elessar, che mi accompagnò davanti a Gandalf. Lo Stregone era maestoso nel suo lungo abito bianco come la neve. Dietro di me venivano Éowyn e la Regina stessa, come damigelle d’onore, accompagnate da Pipino e Merry in veste di paggetti. Il giovane Tuc non riusciva a trattenere le lacrime ed, ogni tanto, si soffiava rumorosamente il naso dentro un fazzolettone a quadri.
Boromir, bellissimo nella sua armatura scintillante, mi attendeva in piedi davanti all’Istari, con al fianco Faramir e, poco più dietro, Frodo e Sam. Lo vidi alzare lo sguardo su di me e seguire attentamente ogni mio passo mentre mi avvicinavo, al braccio del Re. Poi, una volta di fronte a lui, sollevò il mio velo con mani tremanti, mormorando:
"Sei bellissima…"
"Anche tu…" gli risposi in un soffio.
Arwen ed Éowyn ci posarono sul capo una corona di fiori bianchi intrecciati, per poi allontanarsi di qualche passo; Gandalf si schiarì la voce e cominciò il rito.
"Chi conduce al cospetto di questa assemblea i due esseri che diverranno uno? Pronunciate i loro veri nomi!"
"Io, Faramir, presento Boromir, che indossa l’anello della promessa" rispose per primo il giovane Gondoriano.
"Io, Elessar, presento Marian, che indossa l’anello della promessa" gli fece subito eco Aragorn.
Pipino si soffiò il naso per l’ennesima volta e Gandalf gli lanciò un’occhiataccia prima di continuare.
"Boromir e Marian, davanti a questa assemblea, confermate le vostre promesse?"
Faramir ed il Re fecero un passo avanti, traendo di tasca un anello d’oro ciascuno.
"Boromir dona a Marian questo anello, a testimonianza della propria volontà!" pronunciò di nuovo, in tono solenne, il fratello del Sovrintendente.
"Marian dona a Boromir questo anello, a testimonianza della propria volontà!" ripeté Aragorn.
I due Uomini ci porsero le nuove fedi, che noi sostituimmo a quelle d’argento. In quel momento cadde il silenzio, rotto soltanto dai singhiozzi di Peregrino. Poi i nostri testimoni ci condussero proprio di fronte a Gandalf, facendoci intrecciare le mani. Lo stregone annuì soddisfatto prima di riprendere a parlare.
"Boromir e Marian, per il suolo sul quale viviamo, sarete sempre fedeli l’uno all’altra come le rocce al terreno?
"In nome di Aulë Talkamarda, saremo roccia e terreno!" rispondemmo all’unisono; e tutti i presenti si unirono in coro, invocando il nome del Vala.
"Á vala Aulë!"
"Boromir e Marian, per tutto ciò che cresce sulla terra, sarete sempre uniti l’uno all’altra come le verdi foglie agli alberi?" continuò Gandalf.
"In nome di Yavanna Kementári, saremo foglia ed albero!" 
"Á vala Yavanna!" ripeterono di nuovo tutti in coro.
"Boromir e Marian, per le acque che ci danno la vita, sarete sempre l’uno parte dell’altra come la goccia lo è dell’oceano?"
"In nome di Ulmo Vailimo, saremo goccia ed oceano!" replicammo di nuovo, insieme.
"Á vala Ulmo!" rispose il coro dei presenti.
"Boromir e Marian, in nome del brillante firmamento, vi darete sempre gioia l’uno all’altra come le stelle nel cielo?" chiese di nuovo lo Stregone.
"In nome di Varda Elentári, saremo stelle che si scambiano la luce!"
"Á vala Varda!" pronunciò tutta l’assemblea, all’unisono.
"Boromir e Marian, per l’aria che respiriamo, per la brezza che ci allieta e per il vento impetuoso, volete essere uno il respiro dell’altra?" 
"In nome di Manwë Súlimo, saremo un solo respiro!" 
"Á vala Manwë!"
"Boromir e Marian, in nome del Fuoco segreto che ci ha creati, volete essere d’ora in poi marito e moglie?" chiese infine l’Istari.
"In nome di Eru Ilúvatar e di tutti i suoi spiriti, noi giuriamo di amarci e di essere una cosa sola!" rispondemmo solennemente, fissandoci negli occhi.
"Á vala Eru!" proclamò la folla.
Gandalf posò, infine, le sue mani sulle nostre, che erano ancora intrecciate.
"Á vala Valar! Per l’amore che vi lega e le promesse che vi siete scambiati davanti alle forze della Terra siete divenuti veru, una cosa sola da due. Che Eru fonda i vostri due cuori per l’eternità con il suo Fuoco Segreto!" concluse lo Stregone, per poi allontanarsi di un passo. 
Finalmente fummo liberi di abbracciarci e baciarci. Tutto, nella mia testa, si confuse. Le voci dei presenti diventarono solo un rumore di sottofondo. Eravamo solo io e lui, io e Boromir: mio marito!
All’improvviso fummo trascinati, quasi di peso, all’interno del Palazzo dei Re, nel Salone delle Feste, dove era stato allestito un banchetto degno di tutte le corti della Terra di Mezzo. A quel punto fummo costretti a separarci, anche se a malincuore, per poter adeguatamente prestare attenzione a tutti gli invitati che richiedevano insistentemente di essere ascoltati o, più semplicemente, volevano congratularsi.
Solo a notte fonda, quando oramai la maggior parte degli ospiti se ne era andata o era crollata a terra ubriaca fradicia – come Gimli, che aveva chiesto a Legolas la rivincita per la gara di bevute sostenuta, a suo tempo, a Rohan – potei incontrare di nuovo mio marito. Mi ero appena messa a sedere sul basso muretto che cingeva la rupe di Minas Tirith quando egli mi raggiunse.
"Finalmente anche questa giornata è finita…” esalai, lasciandomi sfuggire un lungo sospiro. “Non ne potevo più di tutte quelle congratulazioni! E poi i piedi mi fanno un male…" aggiunsi, togliendomi le scarpe e prendendo a massaggiarmi le dita indolenzite.
"A chi lo dici…" rispose Boromir, lasciandosi cadere seduto al mio fianco. "Tutte queste smancerie non fanno per me. Non vedo l’ora di tornare a casa nostra e di togliermi quest’armatura."
Per un attimo cadde il silenzio, interrotto solo dal frinire dei grilli, poi lui riprese:
"Sei felice?"
"Sì, amore mio, sono felicissima… E tu?" replicai con un sorriso.
"Da impazzire!" rispose annuendo.
"E ora… Che cosa succederà?" chiesi, quasi a me stessa, pensando all’improvviso al futuro che mi si stendeva davanti.
"Non lo so…” sospirò il Sovrintendente, altrettanto pensieroso, “ma, qualsiasi cosa il destino ci riservi, io sarò l’Uomo più felice del mondo, perché avrò te al mio fianco!"
Alzai lo sguardo alle stelle, sorridendo, prima di tornare a guardarlo dritto negli occhi.
"Ti amo, Boromir…" mormorai, siglando quelle parole con un bacio.
Era il trenta di settembre, e così iniziò la mia nuova vita nella Terra di Mezzo.

Spazio autrice: Et voilà, ci siamo arrivati infine, alla fine di questa storia rivista e corretta, anche se, in realtà, proprio finita finita non è, visto che manca ancora l'epilogo. 
Spero che l’idea del bacio che sistema tutto non sia troppo banale. Forse fa un po’ molto favola, tipo Biancaneve, o La Bella Addormentata, ma è stata l’unica idea che ho avuto… La potenza dell’amore che riesce ad estrarre l’ultimo briciolo di potere dalla Stella. 
Eccovi inoltre le ultime annotazioni di rito:
1) la frase “mangiando cose che avrebbero fatto vomitare una capra” è una citazione tratta dal film “Rambo” del 1982, il primo della celebre saga con protagonista il mitico Sylvester Stallone. Dice così di lui il Colonnello Trautman quando ne parla ai poliziotti.
2) anche in questo caso, la formula del matrimonio non è di mia invenzione(ahimè), ma ripresa da internet.
Grazie, grazie ed ancora grazie a tutti voi che leggete e recensite!
Vi lascio, infine, con due immagini: la prima rappresenta Marian al suo arrivo davanti ai cancelli di Minas Tirith, intenzionata a parlare con Boromir. Lo so, gli Orchi sono ben più brutti, ma non sono riuscita a trovare niente di meglio… La seconda, invece, rappresenta la scena che credo tutti aspettavano: il matrimonio di Boromir e Marian, realizzata con il solito fantastico giochino di dress up.
Bacioni!




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Capitolo 26
*** Epilogo ***






Epilogo

 

"Ahi! Mamma! Rinion mi ha tirato i capelli!"
L’urlo mi costrinse ad alzare gli occhi di scatto dalla pergamena che stavo leggendo. Un bambino ed una bambina stavano giocando vicino alla fontana.
"Galasrinion!” esclamai, irata, “smetti immediatamente di dare fastidio a tua cugina!"
"Ma io non ho fatto niente, mamma! Finduilas dice le bugie!" rispose risentito il maschietto.
La bimba si portò una mano al viso per nascondere un sorrisetto divertito. Il movimento non sfuggì agli occhi vigili di Éowyn.
"Finduilas?! Vieni immediatamente qui!” sbottò la Principessa d’Ithilien. “Hai mentito, non è vero? Ormai riconosco quello sguardo!"
La piccola, di cinque anni, con i capelli color dell’oro come quelli della madre e gli occhi grigio-verdi ereditati dal padre, Faramir, corse via ridendo. Il bambino – mio figlio – di sei anni, una versione in miniatura di Boromir, si mise a rincorrerla. Finduilas andò a nascondersi dietro il tronco dell’Albero Bianco e Galasrinion la inseguì, mettendosi poi a girare intorno alla pianta per cercare di prenderla.
Il gioco si interruppe solo quando arrivarono altri due bambini, entrambi di nove anni, tutti e due armati di spade di legno: Eldarion ed Elboron; rispettivamente i primogeniti di Arwen ed Éowyn.
La bambina, che portava il nome di sua nonna materna, corse subito a rifugiarsi alle spalle del fratello maggiore che puntò l’arma giocattolo contro il cuginetto, imitato dall’amico.
Mio figlio fu costretto a fermarsi contemplando, con sguardo allo stesso tempo spaventato ed ammirato, le piccole lame di quercia. Poi retrocedette di un passo nella mia direzione dicendo agli altri due:
"Tanto, la mia mamma mi ha detto che un giorno mi regalerà la sua spada Hoskiart! Vero, mamma? Quando potrò averla?"
Alzai nuovamente gli occhi dall’ultima missiva di Pipino che mandava saluti e notizie dalla Contea.
"Quando sarai più grande" gli risposi, vaga.
"Allora posso averne almeno una di legno anch’io?" insisté il bimbo, in tono petulante.
"Dobbiamo chiederlo a tuo padre, prima" replicai, nel tentativo di zittirlo.
Proprio in quel mentre le porte del Palazzo dei Re si spalancarono. Ne uscì Elessar che, con un braccio, sosteneva sua moglie Arwen – grandemente appesantita dalla sua terza gravidanza ormai giunta quasi a termine – mentre, con l’altro, reggeva la sua secondogenita di tre anni, Nerwen. Dietro di loro venivano Boromir e Faramir.
Il Re accompagnò la Regina fino alla panca di pietra dove, quest’ultima, si mise a sedere tra a me ed Éowyn, accasciandosi sulla seduta con un sospiro che parve quasi più un gemito.
"Come stai, mia cara?" le chiese la Principessa d’Ithilien, aiutandola a sistemarsi meglio la lunga gonna dell’abito sotto al sedere.
"Non ne posso più…” le rispose l’Elfa, ansimando. “Non vedo l’ora di sgravarmi di questo peso!"
Nel frattempo Aragorn si era messo Nerwen a cavalluccio, portandola fin sotto le fronde dell’Albero Bianco. La piccola allungava le manine grassocce verso l’alto, tentando di afferrarne i fiori e ridendo a più non posso perché, al contempo, il padre le faceva il solletico alle gambe. I dieci anni che erano trascorsi dall’incoronazione non sembravano aver inciso minimamente sul Re: ormai alla soglia del secolo, aveva ancora l’aspetto di un quarantacinquenne.
Finduilas, al vedere quella scena, corse da Faramir pregando di essere sollevata allo stesso modo. Il Principe che, come tutti i padri, aveva un debole per la figlia, la accontentò, prendendola sulle spalle e raggiungendo Aragorn sotto l’Albero.
Eldarion ed Elboron si erano messi a duellare con le loro piccole spade giocattolo e Galasrinion non riusciva quasi a distogliere lo sguardo da loro. Solo quando Boromir mi raggiunse, mettendosi seduto sulla lunga panca al mio fianco, si riscosse avvicinandosi al padre.
"Papà, papà! Posso avere anch’io una spada di legno?" chiese implorante.
"Sei ancora troppo piccolo!" rispose il Sovrintendente, fingendo una severità che, in realtà, non riusciva a mantenere con il figlio.
"Avanti, Boromir!" si intromise Faramir, sorridendo, "io avevo la sua età quando nostro padre mi regalò la mia prima spada di legno!"
Boromir sospirò ed infine sorrise: "D’accordo” acconsentì. “Da qualche parte, nel vecchio ripostiglio, deve esserci ancora la mia vecchia spada giocattolo. Domani chiederemo a Garamond di andarla a cercare."
"Evviva!" Galasrinion esclamò di gioia, per poi correre subito a dare la notizia a suo cugino ed all’amico.
Lo seguii con lo sguardo, sorridendo, prima di tornare a leggere la lettera dell’Hobbit.
"Che cosa dice di bello il nostro amico Peregrino?" chiese mio marito, chinandosi verso di me ed appoggiando la tempia alla mia, per leggere sulla pergamena.
"Oh, le solite cose da Hobbit…” gli risposi con un sospiro ed un sorriso. “Sai com’è fatto, no?"
"Sì…" 
Rimase per un attimo in silenzio, continuando a leggere, poi all’improvviso si raddrizzò voltandosi nella mia direzione. Sentendo il suo sguardo fisso su di me mi girai verso di lui. Con un tuffo al cuore mi resi conto che il suo viso era serio.
"Sei felice…?" mi chiese, quasi con cautela.
"Certo, Boromir!" risposi con un lieve sorriso, tranquillizzandomi. "Oggi più di ieri e meno di domani! Lo sai, te l’ho già detto molte volte."
"Hai mai pensato… alla possibilità di tornare a casa tua?" aggiunse lentamente, sfiorando la “Stella di Fëanor” con la punta delle dita.
Poggiai l’indice sulle sue labbra, lasciando vagare lo sguardo su ciò mi circondava: mio figlio, i miei nipoti, i miei cognati ed i miei amici più cari. Poi, dopo averlo baciato delicatamente, gli risposi:
"Io sono a casa, Boromir."

 
Fine


Spazio autrice: Salve a tutti! Adesso sì, che è veramente finita questa storia! Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuta! Ringrazio ancora infinitamente tutti quelli che hanno letto e leggeranno in futuro questa storia! Ed una menzione speciale, ovviamente, a chi a recensito, sia la vecchia che la nuova versione! Un bacione grande grande a tutti voi!
Evelyn

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