Reed

di passiflora
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

Giorgia e la sua famiglia lasciarono la loro casa alle dieci del mattino del ventinove ottobre. Alle dodici e trenta salirono tutti e tre su un aereo, classe economica, e alle due e un quarto del pomeriggio atterrarono all'aeroporto di Londra. Attesero le valige senza scambiarsi una sola parola, tesi ma allo stesso tempo eccitati, e imboccarono la porta contrassegnata con "Uscita Arrivi". Una ragazza giovane prese a sbracciarsi per salutare qualcuno alle loro spalle, una serie di uomini in giacca e cravatta alzarono i loro cartelli plastificati o i loro tablet ed iniziarono ad urlare il nome di chi stavano aspettando.

Giorgia e i suoi genitori sgusciarono tra i turisti e le famiglie e i manager d'azienda arrivati dagli Stati Uniti in prima classe e si diressero al parcheggio dei taxi, dove un furgoncino giallo li stava attendendo.

Fuori dall'aeroporto il vento soffiava impetuoso e Giorgia si strinse il più possibile nel piumino; il vento però entrava dal basso e lei sentiva ugualmente freddo.

Una volta caricati i voluminosi bagagli, la famiglia entrò nel taxi e si lasciò condurre per strade sconosciute, grige arterie autostradali uguali un po' in tutto il mondo salvo per il fatto che lì la gente guidava al contrario.

Il padre di Giorgia, in fatti, al momento di salire in macchina si era trovato al posto del guidatore e il tassista si era messo a ridere.

 

La città si fece vedere dopo un tempo che a Giorgia parve infinito.

In realtà si trattava della periferia della città, niente di grandioso. Il taxi si addentrò tra le case, villette carine ma anonime, e scivolò lungo vialetti silenziosi e pieni di foglie cadute per almeno un quarto d'ora per poi fermarsi di fronte ad una villa.

Nella penombra del nuvoloso pomeriggio la casa appariva grigia, austera e spettrale. Era una villa vera, un edificio imponente e squadrato, con molte finestre. Quelle al piano terra erano strette e lunghe e terminavano in un arco, quelle dei piani superiori avevano dimensioni normali ma le imposte erano evidentemente di ferro battuto nero e creavano una trama a nido d'ape. Il vetro appariva spesso e opaco.

Giorgia non poté fare a meno di spalancare la bocca stupita. Dove aveva trovato una casa simile suo padre?

 

Il tassista li aiutò a scaricare le valige e una volta ricevuto il suo compenso se ne andò lasciandoli soli di fronte alla loro nuova casa.

"E così, questo è il mio nuovo inizio" pensò Giorgia.

Suo padre era stato trasferito a Londra per lavoro e si era trascinato dietro sua moglie, lei e pure il gatto, che ora rabbrividiva nella sua gabbietta. Giorgia aveva appena terminato il liceo e voleva iscriversi all'università ma aveva dovuto ritardare la decisione. Quando aveva saputo di ciò che l'attendeva aveva deciso di lasciar perdere i progetti universitari per un anno e di trovare un lavoretto in quel di Londra per poter impratichirsi con l'inglese e poi partire più agevolata.

Suo padre ridacchiò soddisfatto alla vista della loro nuova dimora e spiegò per l'ennesima volta che aveva fatto un enorme affare, che la villa era stata messa in vendita solo di recente dopo essere rimasta per almeno due secoli a marcire. Era sopravvissuta alle guerre, ai bombardamenti e ai vandali e ora qualcuno le dava nuova vita e splendore. Il padre di Giorgia aveva assicurato all'agenzia di accollarsi le spese per eventuali restauri e loro si erano premurati di far trovare ai nuovi inquilini un ambiente privo di polvere, ragnatele, insetti, topi e piccioni. Avevano anche fatto sostituire alcuni vetri rotti. Per il resto, tutto era rimasto uguale.

 

La porta venne aperta utilizzando una grossa chiave di metallo scuro e presto scoprirono che la luce elettrica non c'era. L'agenzia aveva lasciato un biglietto sopra un mobile di legno vicino all'entrata e il cartoncino bianco e blu spiccava esageratamente nella penombra polverosa e fredda della casa.

 

"Purtroppo in questa casa manca la luce elettrica. All'interno di questo mobile sono contenute alcune torce elettriche e delle lampade a olio. In salotto potrete trovare della legna da ardere e potrete usarla per scaldarvi e per cucinare. I nostri migliori saluti", diceva il cartoncino.

 

Il padre di Giorgia si mise a ridere, estasiato da quella nuova esperienza. Lasciò la valigia all'entrata, prese una torcia e corse in una stanza attigua ululando come un bambino a Natale.

La madre di Giorgia sospirò sentitamente, prese un'altra torcia ed entrò nella stanza opposta.

Giorgia invece rimase impiantata all'ingresso, osservando ogni particolare. Il pavimento era di legno ma le assi erano vecchie e sconnesse. Alcuni tappeti erano arrotolati e appoggiati ad una parete dove la carta da parati spessa resisteva ancora, per la maggior parte intatta. Percorrendo il corto corridoio che fungeva da ingresso ci si trovava in uno spazio molto ampio al centro del quale partiva una grande scala che poi si biforcava per salire ai piani superiori. Molte porte si aprivano a quel livello e numerosi arredi erano coperti da teli impolverati. Giorgia prese a toglierli uno per uno e rivelò la statua di una giovane seminuda, un divano stile impero, una chaise longue, un tavolino basso con intarsi dorati, una serie di quadri raffiguranti ritratti di nobili del passato e uno scrittoio. Complessivamente, pensò, sembrava di stare in un museo e quei mobili, quell'atmosfera, tutto quello che riguardava quella casa sembrava essere coperto dal fascino del tempo come doveva essere stato coperto da due secoli di polvere.

 

Un attimo dopo abbassò gli occhi sul mucchio di ritratti. Quello che capeggiava su tutti raffigurava tre giovani seduti proprio sul divano che stava alle sue spalle: una ragazza dai capelli neri e la carnagione pallida, con le gote rosee e le labbra rosse come una ciliegia, stava seduta al centro e al suo fianco sedevano due giovani. Il primo aveva i capelli neri stretti in una coda, fieri occhi neri, spesse sopracciglia e un'espressione molto decisa, niente a che vedere con i soliti, molli fanciulli nobili che Giorgia era abituata a vedere nei quadri racchiusi nei musei. L'altro ragazzo aveva stampata in volto la stessa espressione seria e decisa dell'altro, ma aveva capelli e occhi chiari e il pittore gli aveva disegnato labbra rosse e femminee come quelle della fanciulla. Il ragazzo biondo rientrava maggiormente negli standard di raffigurazione maschile dell'epoca ma Giorgia rimase ipnotizzata dall'espressione dei suoi occhi. Non guardavano l'artista, come quelli degli altri due, ma un punto imprecisato alla sua sinistra, come se fosse stato distratto durante lo scatto di una fotografia. E quegli occhi erano impregnati di curiosità ma anche di rabbia e...

 

« Sono i fratelli Reed » disse la voce di suo padre, sopraggiunto in quel momento.

« Chi? » chiese Giorgia.

« I fratelli Reed. Gli ultimi proprietari di questa casa furono i conti Reed e quelli sono i loro figli. Quei poveri ragazzi scomparvero tutti e tre, uno dopo l'altro nel giro di poco tempo e i genitori li seguirono non molto dopo » .

« Sono morti giovani, allora » disse Giorgia e improvvisamente si sentì triste per quei tre ragazzi.

« Probabilmente sono morti, uccisi da qualcuno, forse dai loro stessi genitori. Ma la leggenda dice che i tre siano scomparsi, letteralmente. Un giorno c'erano e il giorno dopo non c'erano più senza che nessuno abbia mai visto o sentito nulla, senza che qualcosa suggerisse la possibilità di un avvenimento macabro » spiegò lui.

« Capisco » .

 

Quella notte i tre dormirono di fronte al camino acceso, avvolti in più e più strati di coperte. Il camion dei traslochi sarebbe arrivato il giorno seguente e con esso i materassi e gli arredi più moderni che avevano ordinato. Quella notte, Giorgia sognò i tre fratelli Reed. Cavalcavano tre destrieri neri e una voce chiamava orgogliosa i loro nomi. « Florian! Eoden! Johanna! ». Improvvisamente, uno per uno, i tre vennero inghiottiti dalla terra stessa insieme al cavallo che montavano.

Quando Giorgia si svegliò, la mattina dopo, volle appendere il quadro raffigurante i tre ragazzi sopra il caminetto della sala da pranzo.

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Capitolo 2
*** 2. ***


L'urlo atterrito di una donna sembrò squarciare l'umida oscurità della notte come una freccia incandescente. Nello stesso momento Shine, una studentessa di ventuno anni appena compiuti che passava per caso proprio davanti alla casa da cui l'urlo proveniva, vide qualcosa uscire dal cancelletto divelto dell'abitazione. A priva vista le sembrò un cane, un grosso cane nero fuggito dal giardino, ma quando la grossa bestia, allontanandosi dall'abitazione, passò per un attimo sotto la luce di un lampione, Shine poté rendersi conto che non si trattava affatto di un grosso cane ma solo di qualcosa che poteva assomigliarci. Qualcosa ricoperto di una folta peluria scura che non procedeva a quattro zampe bensì curvo in avanti, come una scimmia.

Shine, che si vantava di possedere un'invidiabile sangue freddo, si chiese a che cosa si trovasse di fronte e quale fosse il modo migliore di allontanarsi senza rischiare la pelle. L'animale, sempre che di ciò si trattasse, era lontano meno di dieci metri e sembrava non essersi accorto di lei. Forse la cosa migliore era rimanere immobili e aspettare che se ne andasse e magari poi andare a controllare cosa fosse successo e chiamare la polizia.

In quel momento però, la donna dentro la casa urlò di nuovo e Shine, tesa e concentrata, si lasciò sfuggire un impercettibile esclamazione di sorpresa; così l'animale si accorse di lei.

L'istinto fu rapido nel suggerirle di fuggire, veloce come una gazzella nella savana, ma Shine si rese immediatamente conto che correre via non sarebbe servito a nulla; anzi, con tutta probabilità avrebbe innervosito ancora di più la creatura, che avrebbe potuto decidere di farla fuori, come senza dubbio aveva fatto con qualcuno dentro la casa.

Quello che accade poi, per Shine passò come in un sogno.

L'animale si trascinò verso di lei con movimenti lenti e impacciati, come un bambino che ha appena imparato a camminare. Attraversò la strada e quando fu vicino Shine poté osservarlo con precisione. Era uno strano essere, davvero. Aveva orecchie appuntite ai lati della testa e il muso era del tutto simile ad un viso umano molto allungato e aguzzo, i cui tratti alterati suggerivano l'idea di un muso di cane. Dalla bocca spuntavano grosse zanne da cui colavano sangue e brandelli di materiale vischioso.

La bestia le si avvicinò. Shine sentiva le gambe pesanti come blocchi di marmo, segno che da qualche parte dentro di lei covava un terrore opprimente; fuori però, non sentiva nulla e non aveva paura. Anzi, era curiosa.

La bestia, ormai a meno di un metro da lei, la fissava con degli occhi gialli iniettati di sangue, contratti e vigili. Improvvisamente distese le zampe posteriori e si eresse in tutta la sua statura, sovrastando Shine di almeno un metro. Poi emise un basso e costante ruggito. Un avvertimento, una minaccia. Ma Shine non si mosse. Shine rimase ferma. Non era certo coraggio, il suo, ma non riusciva ad andarsene via né a distogliere lo sguardo.

La bestia parve accorgersi di questo e si chinò verso di lei. Gocce di sangue le caddero sul viso quando il muso dell'animale si avvicinò per annusarla. Il puzzo orribile del mostro invase il naso di Shine e le suggerì immagini di marciume, sporcizia, morte, vermi e muffa e cose disgustose. Era come se avesse addosso l'odore stesso della paura. Improvvisamente, fissando Shine negli occhi, l'animale levò una delle zampe anteriori, del tutto simile ad una mano dalle dita troppo lunghe, e, con un artiglio giallo e ricurvo, incise un solco nel collo di lei. Poi tornò a rannicchiarsi, si spinse con le zampe posteriori, spiccò un salto e sparì nel giardino alle spalle della ragazza.

Un istante dopo la donna che aveva urlato uscì di casa e corse sul marciapiede deserto, nella strada buia.

Shine invece, poiché non aveva più bisogno del suo sangue freddo e poiché il solco che aveva sul collo le faceva davvero male e poiché sospettava di avere appena avuto un incontro con qualcosa che non sarebbe dovuto esistere, svenne.

 

I nuovi mobili ordinati dalla famiglia di Giorgia erano stati sapientemente scelti perché non stonassero troppo con lo stile della casa. Erano tutti mobili scuri, pieni di curve e intarsi che volevano imitare degli opulenti mobili artigianali ottocenteschi. Giorgia ricevette il permesso di scegliere la camera che più preferiva e lei, dopo aver trovato il coraggio di salire al piano di sopra (cosa per nulla facile, visto il silenzio spettrale e la penombra che regnavano sul secondo e terzo piano) designò come sua futura dimora una delle camere più grandi, con ampie finestre esposte a sud. Decisa la stanza, gli operai vi montarono i mobili e quando ebbero finito, la stanza aveva un aspetto molto strano. Sembrava uno strano collage, il fotomontaggio di alcuni oggetti moderni su un dagherrotipo sfocato.

Lo stesso valse per il resto della casa e fu tutto ancora più bizzarro quando finalmente venne creato un impianto di illuminazione, di riscaldamento e venne allacciata la linea telefonica. Il "museo", come Giorgia amava definire la sua nuova casa, ora era attrezzato per le esigenze di una famiglia moderna.

Gli operai e i tecnici avevano fatto davvero un buon lavoro; siccome la casa era d'epoca e non andava rovinata con interventi drastici e insensibili, tolsero le pietre dal muro con la delicatezza con cui si maneggia un neonato, staccarono le assi dal pavimento come se fossero d'oro, e i soffitti decorati vennero trattati con la massima cura. Tutta questa delicatezza costò cara al padre di Giorgia ma alla fine c'erano abbastanza prese per la corrente da poter caricare il cellulare e il computer e il gas per poter scaldare e cucinare. In realtà però, per un paio di mesi il gas venne usato solo per cucinare. Per scaldare riempivano di legna i numerosi caminetti di cui erano dotate la casa e le camere e Giorgia amava moltissimo addormentarsi con il crepito del fuoco acceso.

 

Un mese e mezzo dopo il loro arrivo, dunque, Giorgia poté tornare a vivere come una ragazza del ventunesimo secolo e per prima cosa postò alcune foto della sua nuova magione in facebook, dove ben poche persone attendevano di sapere da lei come mai fosse sparita per un mese e come andasse la vita nella nuova città. La ragazza, infatti, non possedeva una grande cerchia di amici e conosceva ben poche persone che si interessassero anche solo marginalmente a lei. Questo l'aveva rattristata molto, quando aveva attraversato i turbolenti anni dell'adolescenza, ma con il tempo ci aveva fatto l'abitudine e aveva imparato a stare bene da sola con se stessa. Un simile atteggiamento, l'assenza di forti legami, l'aveva resa disponibile al cambiamento e non aveva affatto sofferto il trasferimento in Inghilterra. Anzi, lo vedeva come la possibilità di cambiare le cose e magari, sta volta, cambiare anche un po' se stessa.

 

Con questa positività, durante il mese e mezzo di lavori cercò in lungo e in largo un luogo in cui assumessero giovani e inesperte fanciulle straniere. Ne trovò tre e tutti promisero di richiamare ma siccome mancava l'elettricità in casa né lei né nessuno dei suoi familiari erano reperibili, se anche qualcuno richiamò Giorgia non lo seppe mai. In compenso, un mese e venti giorni dopo l'inizio di questa storia, la ragazza si ritrovò a passeggiare lungo una strada molto animata, piena di negozi, bar e sale da té dall'aria retrò. Proprio lì notò un piccolo cartello attaccato con lo scotch alla porta di un bar:

 

"Cercasi cameriera per fine settimana".

 

Giorgia entrò senza pensarci due volte. Il bar era un posto carino, pieno di mobili di legno scuro, lucidi e spessi, e luci basse e gialle.

« Ciao! Ho visto il cartello appeso alla porta e... » disse in inglese alla ragazza che serviva al bancone. Quella la guardò perplessa per un attimo, poi le chiese da dove venisse.

« Dall'Italia » rispose Giorgia e la ragazza al bancone sorrise e attaccò bottone raccontandole di un viaggio recente che aveva fatto a Firenze. Giorgia ascoltò con pazienza e rispose ogni tanto con qualche luogo comune, corresse la pronuncia della ragazza e rise con lei alle sue battute.

« Allora, sei qui per il lavoro? » chiese lei alla fine.

« Si. Mi sono appena trasferita e vorrei lavorare e praticare l'inglese prima di iscrivermi all'università » rispose Giorgia.

« Sappi che è un lavoro temporaneo. Ci serve qualcuno perché la ragazza che faceva quel turno ora è molto ammalata e non può venire » spiegò la ragazza.

« Capisco. Beh, a me andrebbe bene comunque » rispose Giorgia.

La ragazza al bancone si rivelò essere la figlia del proprietario del bar, che era anche lo zio della ragazza ammalata, e disse a Giorgia che quel fine settimana poteva venire a lavorare ma che sarebbe stata solo in prova e che magari, chissà, se fosse stata brava avrebbero potuto assumerla sul serio.

 

Incredula e incapace di spiegarsi un tale colpo di fortuna, Giorgia si diresse alla biblioteca, luogo che era originariamente stato la sua meta, camminando ad un metro da terra.

Era tanto distratta che entrando nella modesta biblioteca del quartiere quasi travolse un ragazzino che ne stava uscendo. Si scusò in fretta, entrò sorridendo al bibliotecario che la guardava storto e si diresse alla sezione "letteratura moderna". Voleva cercare un libro da leggere per fare esercizio che non utilizzasse un linguaggio troppo arcaico e difficile da capire. Si mise a spulciare i titoli uno per uno, cercando qualcosa che attirasse la sua attenzione. Improvvisamente, un'esclamazione scurrile proferita in francese raggiunse le sue orecchie e catalizzò tutta la sua curiosità. Sporgendosi a lato dello scaffale, infatti, vide una ragazza dai lunghi capelli rossi, vestita di tenui colori pastello, con una romantica gonna a pieghe, china su un cellulare molto costoso e semi distrutto. Imprecava.

Giorgia aveva studiato il francese per molti anni e le si rivolse senza problemi.

Dapprima la ragazza sembrò stupita.

« Sei francese? » domandò, accigliata.

« No, italiana » rispose Giorgia.

Quando Giorgia si offrì di ricomporle il cellulare, lei divenne improvvisamente sorridente e solare e una volta che si vide restituito il prezioso manufatto elettronico integro, divenne addirittura loquace. Si presentò, chiese il nome a Giorgia, dove abitasse, da dove venisse, le raccontò di se stessa, della sua famiglia, di come anche lei si fosse trasferita da poco. Parlarono per quasi un'ora e la ragazza, che si chiamava Felicité, ma che lì tutti chiamavano Felicity ("gli inglesi hanno un grosso problema di spelling"), consigliò a Giorgia di leggere Harry Potter.

Mentre entrambe si dirigevano all'uscita, Felicity con in mano un libro su Turner, Giorgia con Harry Potter e la pietra filosofale, l'occhio di quest'ultima cadde sul giornale del giorno, appoggiato su un tavolino e attaccato ad una catena perché tutti potessero leggerlo ma non spostarlo.

« Moria di gatti? » lesse.

« Già. Sembra che i gatti della città stiano morendo tutti, uno dopo l'altro. E quelli domestici scappano tutti di casa e non si trovano più. Anche il mio è scappato. È successo un mese fa, ormai... » mormorò Felicity, evidentemente rattristata dal fatto.

Anche Giorgia fu improvvisamente invasa dalla tristezza. Anche la sua gatta era scomparsa. Pensavano si fosse nascosta in casa ma non era più spuntata fuori. Era successo una settimana dopo essere arrivati nella nuova casa. Ora Giorgia immaginava la sua povera Ish morta da qualche parte e fu assalita dallo sconforto.

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Capitolo 3
*** 3. ***


« Allora avete trovato una ragazza per il fine settimana... ».

« Italiana? Ma pensa... ».

« Come sto io? Con la febbre alta... ».

« Faccio fatica ad alzarmi dal letto, si ».

« Da quanto continua questa storia? Ventisette giorni precisi ».

« Si, è tantissimo. Nemmeno i medici se lo spiegano... ».

« Speriamo che passi. Già ».

« Ciao zio, grazie per la telefonata ».

 

 

Shine lasciò scivolare il cellulare sul comodino e si tirò nuovamente le coperte fino a sopra il naso. Fare quella telefonata di dieci minuti le era costato uno sforzo notevole e la testa le pulsava come se qualcuno ci stesse suonando dentro le percussioni.

Andava avanti da un mese. Dal giorno in cui aveva incontrato quella cosa. Sospettava che graffiandola le avesse trasmesso qualche genere di infezione che ora la stava facendo cuocere nella febbre che non si abbassava mai e sciogliere nel sudore. Si chiedeva quanto ancora potesse resistere. Riusciva a stare in piedi per non più di venti minuti, i medicinali servivano solo ad abbassarle la temperatura di qualche decimo di grado e il cibo era tutto insapore e inodore e le faceva pure ribrezzo. I suoi genitori erano sempre più preoccupati e la guardavano e le parlavano in quel modo misto di compassione e paura che si riserva a chi è gravemente malato, forse incurabile, ma ancora non lo sa. Pensavano che stesse per morire, era ovvio. Eppure era resistita in quella condizione per un mese. Poteva davvero finire tutto così? Shine pensava di no. Pensava che prima o poi sarebbe migliorata. Ci sarebbe voluto un po' ma un giorno si sarebbe svegliata e sarebbe stata bene, le coperte non sarebbero state bagnate di sudore, non avrebbe più avuto mal di testa e il graffio, quel maledetto graffio sul collo, sarebbe stato totalmente rimarginato.

Il rumore della porta che si apriva e si chiudeva l'avvertì che suo padre era appena rincasato.

« Ciao, com'è andata oggi? » lo salutò sua madre.

Lui sbuffò, il che significava "non va come deve andare".

« Cosa succede? Qualcosa di grave? » chiese la donna che, al pari dei suoi figli, aveva imparato a decifrare il linguaggio dei gesti e soprattutto i sospiri del commissario di polizia McLood.

« Ne hanno trovato un altro » disse lui. Poi ci fu un tonfo, segno che si era appena gettato di peso sul divano. Brutto segno! Significava disillusione e nervosismo.

« Un altro cadavere? Oh mio Dio! Ma cosa... ».

« Non lo sappiamo! » esclamò l'uomo quasi ruggendo. « Entra nelle case distruggendo porte e finestre, squarta le persone in un modo... Dio... ».

Shine sapeva che in quel momento suo padre aveva portato una mano alla bocca per coprirla e fissava il pavimento con occhi vuoti. Faceva sempre così quando gli capitava un caso riguardante omicidi particolarmente efferati. Il commissario detestava tutti criminali ma soprattutto coloro che uccidevano in modo brutale. Quando era piccolo, mentre giocava con dei suoi amici all'interno di un casolare semi diroccato, aveva per caso assistito allo stupro e all'omicidio di una donna il cui assassino aveva poi infierito sul corpo. Questo era stato il motivo che l'aveva costretto ad anni di terapia e successivamente spinto ad entrare in polizia e a detestare i maniaci violenti. Ogni volta che si trovava di fronte a casi simili, dunque, tornava per un attimo il bambino spaventato e impotente che guardava quella donna soffrire e morire senza poter fare nulla.

« Entra...nelle case? » rispose la madre di Shine e lei seppe che stava stringendo l'orlo del maglione come se dovesse spremerne fuori dell'olio.

« Sembra che non ci siano barriere che possano fermarlo ma...capisci...non è naturale. Nessuno ha una forza simile. Che cosa usa? E...cosa ne fa delle sue vittime? I rilevamenti scientifici hanno trovato...tracce strane. Molto strane. Troppo strane ».

« Cosa? Puoi dirmelo? ».

« Ecco... peli di cane e tracce di...di sangue modificato » rispose l'uomo.

« Modificato? ».

« Si. Con quello di un canide. Lo hanno chiamato "il caso della luna piena". Probabilmente si tratta di un mitomane che si crede un licantropo e agisce portando con se un grosso cane che aizza contro le sue vittime ».

Shine, nella sua camera, si sporse oltre la sponda del letto, afferrò il secchio che aveva preventivamente appoggiato a terra e ci vomitò dentro il poco cibo che aveva ingerito.

 

 

In un'altra stanza, in tutt'altra parte della città, all'ultimo piano di un bell'albergo a quattro stelle, Aurora leggeva articoli di giornale dal computer. La sua stanza era illuminata solo da candele e, poiché i muri erano dipinti di blu scuro e ovunque pendevano arredi neri e viola l'effetto finale era piuttosto tetro.

Il viso di lei, illuminato dalla luce azzurrina proveniente dallo schermo del computer, visto da un estraneo sarebbe sembrato quello di una pazza o di un'artista in piena estasi creativa ma Aurora, sebbene fosse davvero un'artista, stava soltanto dedicandosi al suo passatempo preferito: cercare in internet articoli di giornale che riguardassero fatti così strani e particolari da suggerire quasi un intervento soprannaturale.

Ultimamente era presa da una serie di omicidi così macabri e brutali che i poliziotti avevano soprannominato il caso "luna piena" credendo che il colpevole fosse un mitomane che si comportava come un licantropo. Aurora leggeva, scavava nei particolari, spulciava anche i siti meno affidabili e i blog privati per scoprire l'opinione della gente comune sui fatti. Le piaceva trovare l'opinione degli scettici come quella delle persone che credevano davvero che un lupo mannaro si aggirasse per le strade della città. Dal canto suo, Aurora non era il tipo che credeva facilmente a questo genere di cose ma era anche il tipo che, nel caso si fossero rivelate reali, avrebbe accettato di buon grado la cosa. Anzi, ne sarebbe quasi stata felice. Una sua credenza piuttosto radicata era che se nel mondo fosse esistita la magia forse le cose sarebbero state migliori per tutti.

E a ben pensarci, ormai nel suo quartiere sembravano succedersi cose strane ad una velocità inconsueta. Dapprima era stato il fenomeno dei "pianti fantasma", dove molte persone asserivano di aver sentito distintamente qualcuno piangere mentre erano soli in casa o mentre passeggiavano per strada ma in ogni caso senza che ci fosse mai qualcuno nei paraggi; poi era venuto il primo omicidio della luna piena e aveva gettato nel panico gli abitanti della strada dove si trovava la casa del malcapitato, che era stato trovato dilaniato quando moglie era tornata a casa. Anche il cane della coppia era stato ridotto ad una poltiglia di sangue e ossa. In quel caso sembra che fosse stata aggredita anche una ragazza, la figlia del commissario di Polizia, che si trovava a passare per caso lungo quella strada. Lei diceva di non ricordare nulla.

Poco prima, però, era iniziata la moria dei gatti. I gatti del quartiere, dicevano il giornale e i blog, smaniavano per uscire di casa, diventavano violenti e graffiavano e soffiavano fino a che il padrone non permetteva loro di uscire. Quelli che vivevano in appartamento si gettavano dalle terrazze con risultati più o meno positivi. Tutti sparivano. La maggior parte, però, veniva ritrovata morta nelle vicinanze di un campo, un luogo semi abbandonato accanto ad un parco giochi. Sembrava che tutti i gatti scegliessero quel luogo per finire la loro vita. Non venivano uccisi, sui corpicini non c'era segno segno di violenza. Semplicemente...morivano.

 

TUMP! TUMP!

 

Un rumore sordo e ripetuto, come di bussare, interruppe le interessanti letture di Aurora. La ragazza fissò il muro da cui il bussare proveniva e seppe che non si trattava affatto di qualcuno che colpiva il muro con la mano ma del letto che vi sbatteva contro sotto la forza di ben altro genere di colpi. Sospirò e mise le cuffie alle orecchie. Over the hills and far away dei Nightwish coprì i rumori provenienti dalla stanza adiacente e Aurora poté continuare ad informarsi in pace, sebbene ora un sentimento di sincero fastidio le mordesse lo stomaco. La camera accanto alla sua apparteneva a sua sorella Barbara, più vecchia di lei di un solo anno, che si divertiva con quello che continuava a definire il suo ragazzo sebbene lo tradisse sistematicamente.

« Io lo chiamerei più "zerbino che uso per farmi fare regali e riempire i buchi tra un ragazzo e l'altro" » aveva detto una volta a Barbara e lei, che era una ragazza bellissima e superficiale come nessun'altra, si era messa a urlare e sostenere che nessuno aveva il diritto di parlarle così e che Aurora diceva sciocchezze solo perché a ventidue anni nessuno se la voleva filare.

« Fa male sentirsi dire la verità, eh, Barbie? » aveva risposto Aurora, continuando a guardare il suo film al computer, vestita di una tuta vecchia di dieci anni, struccata e con i lunghi capelli biondi a ciocche blu legati in un fungo sopra la testa. Quel giorno Aurora aveva pensato che sua sorella somigliasse ad un secchio con un buco sul fondo: qualsiasi cosa ci mettessi dentro usciva nel giro di qualche secondo e Barbara rimaneva nel suo mondo perfetto dove lei era la regina. In ogni caso, Aurora provava pietà per il povero Ryan, che era davvero un bravo ragazzo sebbene non dovesse essere particolarmente brillante, visto che sembrava adorare Barbara.

Tornò a guardare lo schermo del computer dove il titolo dell'articolo diceva "CONTINUANO A SPARIRE GATTI". Era un articolo di blog di soli due giorni prima e l'autore sosteneva che dietro ci fosse un incantesimo. Infatti proprio in quel campo era situato un vecchissimo pozzo che si diceva fosse direttamente collegato con la villa maledetta dei Reed e che proprio lì fossero stati ammazzati i tre famosi fratelli. I gatti, quindi, si radunavano in quel luogo per chissà quale rituale.

Aurora non ebbe difficoltà ad immaginarsi la scena, solo che le dispiacque molto pensare di aver perso il suo povero Loki a causa di un macabro incantesimo. Che almeno servisse a qualcosa! Che almeno ne uscisse qualcosa di incredibile!

In quel momento sentì delle voci concitate provenire dalla stanza di Barbara e si tolse le cuffie. Non era chiaro cosa stessero dicendo ma non sembravano affatto discorsi felici da piccioncini. Curiosa si alzò e uscì dalla sua stanza. Voleva sentire meglio e godersi l'eventuale momento in cui Ryan o Barbara sarebbero schizzati fuori dalla stanza in preda alla collera, l'avrebbero vista e avrebbero cercato di darsi un tono.

Sgattaiolò silenziosa fuori dalla camera e andò a versarsi un bicchiere di tè freddo. In quel momento esatto la porta della camera di sua sorella si aprì e ne schizzò fuori Ryan, i capelli spettinati, la camicia fuori dai pantaloni e il maglione infilato senza criterio. Si accorse di lei e le lanciò uno sguardo che voleva dire "mi dispiace per l'increscioso inconveniente" (si, questo era il modo in cui Ryan si sarebbe espresso, il che provocava automaticamente il dubbio su come potesse esseri interessato a Barbara). Subito dopo Barbie uscì di corsa e lo inseguì chiedendo perdono, che non era come pensava, che era stata solo una svista di poco conto e Aurora si mise a ridere sotto i baffi vedendo apparire davanti ai propri occhi, chiaro come se stesse vedendo un film, quello che doveva essere successo: Barbara si era fatta sfuggire qualcosa, probabilmente il nome di uno degli altri ragazzi, mentre era intenta a trarre soddisfazione da Ryan e lui, che era più sveglio di lei, se ne era accorto e aveva capito tutto. Ben le stava.

Poco dopo Ryan se ne andò, non prima di averle dato della ragazza sciocca, cretina e confusa (dove qualcun altro avrebbe usato aggettivi più pesanti) e Barbara tornò indietro con le lacrime agli occhi.

« Rora... » mugolò.

« Oh! Ma te la sei cercata! » esclamò "Rora". « Smettila di piangere » aggiunse e se ne tornò in camera con il suo bicchiere di tè.

Le lacrime di Barbara si seccarono all'istante.

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Capitolo 4
*** 4. ***


Subito dopo essere uscite dalla biblioteca, Felicity e Giorgia si sedettero su una panchina e continuarono a chiacchierare. Per Giorgia fu una sensazione nuova e molto strana. Stava parlando liberamente di se stessa con una sconosciuta senza che lei dimostrasse segni di impazienza o poco interesse. Le stava raccontando particolari insignificanti della propria vita e lei non aveva stampata in viso l'espressione del "e a me dovrebbe importarmene qualcosa?". Tutto ciò inondò Giorgia di una positività e un entusiasmo che non provava da molto tempo. Si sentì, in un certo senso, di nuovo bambina e d'impulso invitò Felicity a casa sua per bere un tè e questa, che doveva comunque tornare indietro nella stessa direzione di Giorgia, accettò volentieri.

« Sono molto curiosa di vedere la tua casa da dentro! » esclamò. « Da quando ci siamo trasferiti qui non faccio che sentir parlare di quanto sia misteriosa la villa dei Reed, di quanto sia maledetta e infestata, di quanto sia magica ».

Gli enormi occhi azzurri di Felicity brillavano mentre enunciava le macabre qualità della villa che era stata dei Reed ma Giorgia non fu così felice di venire a conoscenza di quante leggende aleggiassero sopra di essa.

Era pur vero che di notte l'intero edificio sembrava mormorare e gemere; era vero anche che il terzo piano e la soffitta erano praticamente rimasti intoccati e potevano tecnicamente nascondere qualsiasi cosa; era inoltre vero che gli angoli bui erano tanti e spesso Giorgia si sentiva osservata mentre percorreva da sola i numerosi corridoi che si intrecciavano all'interno della villa ma non voleva credere che questi fenomeni fossero opera di spiriti maligni e non della sua suggestione.

Arrivarono all'entrata, che era sopraelevata dalla strada per mezzo di quattro gradini di pietra bianca, e Giorgia aprì la porta tramite una vecchia chiave di ferro. Non avevano ancora cambiato le serrature ma sembrava non essere un problema: quella casa non era stata toccata per quasi due secoli e probabilmente questa particolare condizione sarebbe continuata in eterno, alla faccia dei ladri. La paura era il migliore antifurto in cui potessero sperare.

Felicity si precipitò all'interno, curiosa ed eccitata dalla possibilità di esplorare un vero e proprio museo privato.

« Oh mio Dio! È meraviglioso qui! » esclamò camminando quatta come un gatto, quasi avesse paura di fare male ai pavimenti con i suoi passi. Esplorò la stanza a destra dell'entrata, che era divenuta uno studio e una piccola biblioteca; poi passò alla cucina, che era la stanza che aveva subito più interventi: vi si poteva accedere scendendo un paio di gradini e aprendo una massiccia porta di legno ed era una stanza vasta dal tetto basso in cui tre lati su quattro erano stati occupati da forni artigianali alimentati a legna e l'ultimo da un camino colossale dentro cui potevano tranquillamente essere messi a bollire tre paioli di grandi dimensioni. Erano state fatte le dovute modifiche e ora c'erano un forno vero, un microonde, un paio di ampi lavelli, dispense di legno lucido e vetro, scaffali di metallo, e tutto quanto può servire ad una cuoca del ventunesimo secolo. L'illuminazione era data da lampade nascoste sapientemente e complessivamente la cucina era uno degli ambienti più intimi, caldi e confortevoli della casa. Giorgia ci si metteva spesso a studiare. Da una porticina sul fondo si accedeva ad una grande dispensa, molto più grande di quanto non servisse ad una famiglia di tre elementi che non doveva sfamare anche una ricca servitù. Giorgia vi entrò e tornò indietro con il pacchetto di foglie per fare il té e disse a Felicity che poteva guardare in giro mentre lei lo preparava.

La ragazza non se lo fece ripetere e in un attimo sparì nella sala da pranzo. Un attimo dopo era tornata indietro esclamando ripetutamente che sul caminetto era appeso un quadro che raffigurava i fratelli Reed.

« Si, sono stata io a volerlo appendere lì » disse Giorgia.

Felicity sembrava ottenebrata dalla contentezza. Spiegò a Giorgia che fin da piccola aveva una sfrenata passione per le leggende, locali o meno, e che durante i viaggi con la sua famiglia aveva sempre insistito per andare a visitare i castelli, le ville e gli anfratti più misteriosi che i vari luoghi avevano da offrire. Quindi si scusava tanto ma quello stato di sciocca eccitazione sarebbe continuato per parecchio.

Giorgia rise del comportamento della sua nuova amica e le disse che anche lei amava i luoghi misteriosi e pieni di storie umane e disumane da raccontare e alla luce di questo propose alla ragazza di esplorare i due luoghi più nascosti della casa: la soffitta e la cantina. Felicity accettò immediatamente e, finito il tè, si munirono di torce elettriche e salirono fino al quarto piano.

L'accesso alla soffitta si trovava alla fine di una scala di legno che occupava un angolo remoto del terzo piano, che una volta era stato adibito ad alloggio per i servi. Giorgia portava con se il grosso mazzo di chiavi di metallo scuro che l'agenzia aveva loro fornito e si mise a provarle una ad una per trovare quella che avrebbe aperto la porta della soffitta. La riuscita dell'operazione venne accompagnata dal sollevarsi di una spessa nuvola di polvere, disturbata nel suo quieto riposo dopo due secoli.

« Qui l'impresa di pulizie non ha toccato niente » mormorò Giorgia tra sé. Guardando lo stato della soffitta, si domandò in che condizione doveva essere stato il resto della casa.

Insieme a Felicity vagò per corridoi di fortuna ricavati in mezzo a montagne di oggetti coperti da ragnatele, muffa e almeno tre dita di polvere. La soffitta era illuminata dalla luce soffusa che filtrava da alcuni abbaini appannati dal tempo.

Per le due ragazze fu come fare un salto nel passato. Quello che trovarono all'interno dei bauli, delle borse da viaggio, dei vecchi armadi o semplicemente gettato sul pavimento, sarebbe stato bene in un museo.

In una cassa così alta che arrivava loro alla vita, trovarono vecchi abiti da signora magnificamente ricamati, la cui stoffa aveva resistito intatta ai duecento anni di inutilizzo. Trovarono oggetti d'argento, d'oro, e gioielli dalle pietre autentiche. Trovarono moltissimi quadri e in alcuni di essi raffiguravano ancora i tre giovani fratelli Reed o un paio i loro genitori. Il conte e la contessa Reed erano estremamente diversi uno dall'altra: lui era basso, pingue, con baffi neri e un viso rubicondo mentre lei era bionda, slanciata e bella. Sembrava che in quanto a bellezza i tre fratelli avessero ereditato tutto dalla loro madre, per loro fortuna.

Dentro un baule più piccolo trovarono un fascio di lettere, tre spille d'oro con una erre incisa sopra, tre anelli che riportavano lo stesso simbolo e qualcosa che pareva un contratto matrimoniale. C'erano altre cose sul fondo ma si stava facendo molto tardi, stava per venire buio e nessuna delle due voleva rimanere in quel luogo una volta immerso nell'oscurità. Uscirono e richiusero la porta a chiave ma portarono con se il piccolo baule pieno di documenti.

La loro seconda vittima fu la cantina. Qui gli operai avevano lavorato abbastanza, perché molti dei cavi elettrici e i tubi idraulici sarebbero dovuti passare anche per di là. Accesero la luce e scesero i gradini. La cantina era semi vuota e un giorno sarebbe diventata una taverna o un garage ma per ora serviva solo a contenere scatoloni vuoti e bottiglie di vino. Le pareti erano di pietra grezza, scura, e l'aria era fredda e umida. Felicity sembrò un po' più delusa, questa volta ma si ravvivò quando vide una porta solitaria che faceva bella mostra di se in un angolo della cantina spoglia.

« E li cosa c'è? » chiese.

« Non lo so, adesso lo scopriremo » rispose Giorgia e ripeté l'operazione delle chiavi. Anche qui la porta scattò dopo qualche tentativo e le due infilarono la testa all'interno piene di speranza. La stanza, però, era totalmente vuota.

« Eh? » esclamò Felicity. « A cosa serve questo posto? ».

« Sarà stato un altro ripostiglio » disse Giorgia.

« Oh, peccato. Niente di interessante. Beh, senti, ho un'idea! Hai mai cercato informazioni sulla tua casa in internet? ».

« No » rispose Giorgia, rendendosi conto che invece avrebbe dovuto.

« Bene. Rimediamo subito, ti va? ».

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Capitolo 5
*** 5. ***


Tre giorni esatti dopo la telefonata di suo zio, trenta giorni dopo l'aggressione da parte della misteriosa bestia, Shine si svegliò dal suo sonno completamente guarita. Erano le otto e mezza di sera e si era addormentata quattro ore prima, febbricitante come sempre, ma ora sembrava che tutti i segni della malattia fossero spariti senza lasciare traccia. Non aveva più mal di testa, non sentiva più i brividi, non sentiva più la testa girare e gli occhi gonfi e pesanti. Scese da letto e si accorse di non essere sudata. Andò allo specchio e osservò il proprio viso, che sembrava aver ripreso colore, sebbene fosse ancora scavato. Si scostò i lunghi capelli neri dalla spalla e vide con suo sommo stupore che il graffio sul collo era completamente rimarginato e di lui rimaneva solo una chiara cicatrice. Stupita tornò a letto. Non era forse appena accaduto proprio ciò che lei si aspettava che accadesse? Non aveva forse previsto che un giorno si sarebbe alzata e sarebbe stata guarita?

Sua madre bussò alla porta e lei fece finta di stare ancora male e la guardò con gli occhi semi chiusi e un'espressione ebete dipinta in volto.

« Shine, ti ho portato qualcosa da mangiare » disse la donna.

« Grazie » rispose lei con voce fioca.

« Lo lascio qui » disse sua madre e appoggiò il vassoio con il cibo sul comodino accanto al letto di lei.

Shine aspettò che la donna se ne andasse e scendesse le scale, poi si avventò sul cibo e divorò tutto in un attimo. Aveva fame come se fosse stata a digiuno da tutto il mese. Appena ebbe finito si accorse di non essere sazia e prese a rovistare nei suoi cassetti alla ricerca di qualche snack che di solito teneva lì come riserva personale. Non ne trovò. Nervosa si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra. Aprì le imposte e l'aria fredda della sera entrò nella camera che odorava di chiuso e malattia. La luna, piena e luminosa, brillava alta nel cielo e lei la trovò bella e magnetica e, esattamente come se fosse emozionata per un complimento, esattamente come se avesse ricevuto un'invitante promessa, il cuore della ragazza prese a battere forte, sempre più forte, come se volesse schizzarle fuori dal petto. Shine sentì di nuovo la testa girare. Doveva fare qualcosa, qualunque cosa, doveva uscire da quella stanza, andarsene via, ma i suoi genitori avrebbero visto, l'avrebbero scoperta.

Facendo appello a tutta la sua forza riuscì a chiudere la finestra e tirare le tende. Aveva scacciato la luna, ma solo per poco. Doveva solo aspettare che i suoi dormissero.

Tornò a letto e aspettò paziente che tutti se ne andassero a dormire. Ogni tanto guardava il cielo buio oltre la finestra e di nuovo sentiva il cuore batterle nel petto come impazzito. Di nuovo voleva alzarsi e correre via. Ma non poteva, doveva aspettare il momento. E quando questo venne lei si alzò dal letto, aprì la finestra e saltò giù senza paura. Atterrò leggera, mosse qualche passo nel giardino per uscire dall'ombra della casa e finalmente poté farsi bagnare dai raggi pallidi della luna. Le sembrò di respirare davvero per la prima volta e si beò per qualche secondo di quella meravigliosa sensazione ma subito dopo un dolore lancinante la percorse da capo a piedi. Sembrava che qualcosa volesse dilaniarle la pelle, squartarla a partire da dentro. Ogni fibra del suo corpo fremeva e doleva, la sua pelle pareva percorsa da un'infinità di spilli. Shine cadde bocconi, ora davvero incapace di respirare. Voleva urlare ma dalla sua bocca non uscì nessun suono. La sua pelle divenne rossa e sangue le uscì dalle unghie e dalle gengive.

A quel punto il dolore fu troppo intenso perché lei potesse sopportarlo oltre e tutto si fece buio.

 

Quando si svegliò, sopra di lei vide il cielo grigio e azzurro dell'alba. Una brezza fredda e pura le sfiorava il viso e i fili d'erba coperti di brina le accarezzavano il corpo. Shine allungò una mano davanti agli occhi. Era normale, la sua mano di sempre. Aveva solo un'unghia spezzata. Controllò anche l'altra mano e anche in quella non trovò nulla di strano. Passò le mani sul viso e anche il suo viso le restituì le sensazioni di sempre. Era il solito, bellissimo viso, come dicevano tutti.

Distese le mani e le appoggiò accanto a se. Era distesa su un prato, questo era ovvio. Doveva essere uscita la notte precedente e poi essere svenuta in giardino. Improvvisamente, spostando di poco le dita, toccò qualcosa di soffice. Si alzò a sedere, sentendosi bene come non si era mai sentita in tutta la vita e si accorse di due cose: la prima è che si trovava distesa nel grande prato vicino al parco giochi ed era circondata da corpi di gatti morti, alcuni in pieno stato di putrefazione; la seconda era che non indossava abiti.

Rimase ancora per qualche minuto a guardarsi intorno, osservando ciò che la circondava: l'entrata del pozzo era accanto a lei e le assi che lo coprivano erano state divelte, corpi di gatti erano sparsi tutto intorno e Shine cercò di individuare tra quelli il corpo del suo Plutone, ma non lo vide. In compenso, una volta che se ne rese conto, capì che nel suo naso si stavano mescolando migliaia di tracce olfattive diverse e che lei riusciva, concentrandosi, a distinguerle lì dove normalmente si sarebbe percepito solo un generico puzzo di morte e erba bagnata. Ogni gatto aveva un odore e la rugiada e i fili d'erba e la muffa e i funghi all'interno del pozzo e le piante che circondavano il parco e i giochi di plastica e legno e gli escrementi degli uccelli e…

Senza accorgersene Shine prese ad annusare a terra e proseguì a quattro zampe fino al parco giochi, inebriata da quelle nuove sensazioni.

Una moto solitaria passò in quell'attimo e Shine, sebbene fosse lontana decine di metri, la sentì vicina come se le stesse passando sopra. Stupita, stordita, eccitata e curiosa ma anche impaurita, Shine si disse che doveva tornare a casa il più presto possibile. Ma non aveva vestiti, era nuda e per lei, si accorse, non ci sarebbe stato alcun problema a camminare così fino a casa ma si disse che forse avrebbe attirato troppo l'attenzione e si ingegnò per trovare una soluzione.

Si guardò intorno e vide un cassonetto per l'immondizia. Vi si avvicinò cauta cercò di capire, usando la sua nuova capacità olfattiva, se qualche sacco contenesse dei vestiti, ma non ci riuscì. In un giardino poco lontano, però, alcune lenzuola sventolavano appese al loro filo, diligentemente stese da una vecchia signora molto mattiniera.

Shine si mosse silenziosa come un'ombra, attenta a non farsi vedere, e in un attimo fu in grado di rubare uno dei lenzuoli. Scappò via veloce, molto più veloce di quanto si potesse aspettare e fu lontana prima che la signora si accorgesse del furto.

Ora che era coperta e sulla via di casa, Shine ebbe modo di rendersi conto di cosa le fosse successo. Ricordava la sera precedente, quando era saltata giù dalla finestra e aveva provato quel dolore acuto, totale, e ricordava il sangue che le scendeva dalla bocca e dalle unghie. Di quello che era successo dopo non aveva il minimo ricordo.

Sospirò. Era molto chiaro ciò che era successo, ciò che quell'incontro fortuito di un mese prima aveva provocato. Ora sapeva perfettamente cosa suo padre e i colleghi della Polizia stavano cercando e le sembrò paradossale che il poveruomo ne avrebbe dovuto ospitare uno uno sotto il suo stesso tetto.

Per Shine quello che le era successo poteva annoverarsi tra i fatti tanto incredibili da non poter far altro che crederci. Dopotutto non esisteva altra spiegazione. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che una persona malintenzionata avrebbe potuto averla trovata in giardino svenuta e averla trasportata nel campo vicino al parco dopo aver fatto chissà cosa di lei ma Shine non lo riteneva plausibile perché c'erano altri fattori bizzarri in gioco: sentiva distintamente ogni odore, percepiva i rumori intorno a se chiari e forti, correva veloce e dentro di sé sembrava che fosse sparita la nozione di paura.

Si sentiva straordinariamente bene. Non poteva essere spaventata o piangersi addosso. Sapeva cosa era diventata dopo un mese di malattia e sì, ne era quasi felice.

 

I lupi mannari esistono sul serio?, scrisse mentre osservava la ragazza di nome Shine passare davanti alla sua finestra coperta solo da un lenzuolo.

Era una ragazza bellissima, con voluttuosi capelli neri, occhi azzurri che potevano essere dolci come quelli di una bambina o gelidi come scaglie di ghiaccio, e un corpo apparentemente perfetto; era alta, slanciata, con forme e curve perfettamente proporzionate. La conosceva di vista e sapeva che nel quartiere era ammirata e desiderata da molti, moltissimi. Lui aveva scelto davvero bene.

Creature della notte, mortali e affascinanti, libere, indomite e allo stesso tempo fragili e costrette a nascondersi. L'assassino della luna piena sembra essere un pazzo, una mente malata che modifica il suo corpo per poter assomigliare ad una di queste creature. Ma se così non fosse? Se in realtà esistesse davvero un lupo mannaro tra di noi? Cosa fareste? Potrebbe essere chiunque. Un vicino di casa, il barbone all'angolo, la bella ragazza che vedete passare di fronte a casa vostra. Cosa fareste? Di chi sospettereste?

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Capitolo 6
*** 6. ***


Giorgia si presentò al bar il venerdì di quella stessa settimana, alle quattro del pomeriggio. Il suo turno sarebbe cominciato alle sei di sera ma Penny, la figlia del padrone, voleva darle delle istruzioni e parlare con lei prima che iniziasse a lavorare. La accolse con un sorriso e la fece accomodare nel retro bottega, dove le fece anche una tazza di tè.

Penny era una ragazza con una gran quantità di capelli ricci e crespi, che teneva sempre raccolti in una coda. Aveva venticinque anni e si era laureata in lettere. Per ora era in cerca di lavoro e nel tempo libero scriveva. Aveva anche pubblicato alcuni racconti brevi in alcune riviste e aveva vinto un piccolo premio locale.

« Allora, ascolta. Il tuo turno finisce tardi, okay? Di solito lo zio portava a casa Shine quando chiudeva il bar. Tu hai qualche modo per tornare a casa? » le domandò.

Giorgia rispose che per quel giorno si era accordata coi suoi genitori che, siccome sarebbero andati fuori a cena con i nuovi colleghi di suo padre, avrebbero potuto venirla a prendere senza problemi.

« Ottimo. Allora domani posso portarti a casa io. La seconda cosa è questa: alcuni clienti si sbronzeranno di brutto, succede sempre. Ma finché stai dietro il bancone non possono farti niente. Invece, quando vedi che ordinano troppo prova a fermarli, con gentilezza. Ma se insistono fai come desiderano » continuò Penny.

« D'accordo. Altro? » domandò Giorgia, che non credeva il lavoro del barista fosse particolarmente difficile.

« Si. Se non capisci cosa dicono chiedi di ripetere e lo faranno, basta che tu sia gentile e sorridente. Gli starai simpatica. Scherza, ridi, divertiti. E se per caso allungano le mani schiaccia il pulsante che sta vicino alla cassa e arriva papà a buttarli fuori. A preparare i cocktail ci pensa Thomas, tu saprai versare una birra, no? ».

« Posso provarci » rispose Giorgia.

« Fare o non fare, non c'è provare » rispose Penny, citando Yoda.

 

Penny mostrò a Giorgia il funzionamento della cassa e di alcuni macchinari, illustrò il listino prezzi e le bevande che si potevano ordinare al tavolo, le mostrò la dispensa di salatini e patatine e quando vennero le sei la ragazza iniziò con la sua prima sera di lavoro.

Fino alle otto non incontrò nessun problema. I clienti erano ragazzi che venivano a prendere un aperitivo e signori di mezza età che smontavano dal lavoro e Giorgia trovò il tutto pienamente gestibile. Dalle otto e mezza, invece, la clientela si fece più varia e le raccomandazioni di Penny non sembrarono più prive di fondamento. Dalle nove in poi le cinque sedie del banco che dava sulla finestra vennero occupate in pianta stabile da cinque vecchi signori che se ne andarono a mezzanotte passata; i tavoli presero a riempirsi di gente sempre più rumorosa e mano a mano che l'ora si faceva più tarda le donne diminuivano di numero. Aumentavano invece i gruppi intenti ad occupare la loro serata con un giro alcolico dei locali della zona e gli ubriaconi di vecchia data che, a detta di Thomas -colui che sapeva sfornare i cocktail più elaborati- , erano clienti abituali.

Uno di questi, un signore di sessant'anni con un naso rosso e grosso come un pomodoro, la chiamò Penny e quando Giorgia gli disse che non era affatto Penny e che si chiamava Giorgia, lui ripeté il nome per tre volte storpiandolo e chiese se fosse spagnola.

« Italiana » rispose Giorgia porgendogli il terzo bicchiere di birra.

« Italiana? Italiana?! » esclamò lui e si mise a parlare della seconda guerra mondiale (in termini piuttosto abbozzati e imprecisi) ripetendo che suo padre e suo zio erano morti proprio in Italia, ma Giorgia ebbe la sensazione che se lei avesse detto di venire dalla Svezia, suo padre e suo zio sarebbero morti in Svezia, per qualsiasi altro motivo.

« E dove abiti, eh? Dove? » domandò.

La ragazza pensò per qualche secondo a cosa avrebbe dovuto fare. Dire o non dire dove abitava? Che quell'uomo potesse essere pericoloso? Che potesse seguirla? Ne dubitava.

« Abito nella villa dei Reed » disse e lui sgranò immediatamente gli occhi e spalancò la bocca sdentata.

« La villa dei Reed?! » esclamò almeno tre o quattro volte, come se non fosse sicuro di quanto aveva sentito; quando ne fu abbastanza sicuro, invece, urlò « Tu abiti nella villa dei Reed! ». Poi si voltò verso i presenti ed esclamò « Ehi! Tutti! Joja, qua, abita nella villa dei Reed! ».

Il bar intero scoppiò in risate ed esclamazioni di sorpresa. Qualcuno propose un brindisi a chi era così stupido da stabilirsi nella villa della morte. Questa volta Giorgia sapeva esattamente di cosa stavano parlando. Si era informata a dovere insieme a Felicity e aveva imparato a memoria la storia della villa: Reed Manor House era stata costruita nel 1789, anno in cui Edmund Reed si era sposato con Isabel Manderly-Howtorne, che proveniva da una famiglia molto ricca. La pianta originale della casa prevedeva due ali laterali e numerose costruzioni di servizio che però erano sparite insieme alla campagna, mano a mano che la città si era estesa. Era rimasto solo il corpo principale.

I tre figli della coppia, Johanna Harriet, Eoden Edmund e Florian Henry, erano nati dal 1793 in poi, a distanza di due anni uno dall'altro ma, e qui iniziava la leggenda, si dice che Edmund, il padre, verso il 1815 avesse conosciuto un tizio losco, un guaritore e cartomante che si diceva in grado di parlare con gli spiriti e prevedere il futuro. Da lì iniziò il declino finanziario e morale dei Reed. Johanna si rivelò un ragazza ribelle e venne addirittura arrestata, Eoden viveva come un libertino mentre Florian giocava a fare il topo di biblioteca e non usciva mai di casa se non di notte. Fu lui il primo a sparire, la notte del primo novembre 1817. La notte dopo sparì Eoden e quella successiva Johanna. I servi furono tutti d'accordo nell'affermare che erano senza dubbio stati uccisi dal loro padre, che non aveva più i soldi per mantenerli o farli sposare e che, questo era meschino, aveva iniziato ad odiarli e a maltrattarli. Una serva di nome Ginny affermò con forza che i tre erano stati sacrificati in un luogo segreto dal signor Reed e Mortimer, che era il nome – falso o meno- del mago. A dicembre morì la madre, Isabel, che si suicidò impiccandosi. L'ultimo ad andarsene fu Edmund, che si sparò un colpo in bocca due anni dopo. Di Mortimer si erano perse le tracce e tutti i servi rimasti se n'erano andati. Erano così spaventati dalla casa e da quello che al suo interno era accaduto che lasciarono ogni cosa al loro posto, chiusero la porta alle loro spalle e se ne andarono tutti a vivere in altri luoghi, lontani dalla villa e dai Reed.

Come aveva raccontato suo padre, la villa era resistita semi intatta alle vicissitudini della storia e ancora su di lei circolava la voce che fosse abitata dai fantasmi dei Reed, che impedivano a chiunque di entrare in casa e scoprire i loro segreti. Addirittura i ladri ne erano spaventati. Una volta un paio di ragazzi avevano tentato di rompere un vetro per intrufolarsi all'interno ma avevano visto una mano bianca premersi contro di esso dall'interno della casa e questo li aveva fatti immediatamente desistere. C'erano testimonianze di avvistamenti di creature sovrannaturali risalenti ad ogni epoca e la notte in cui Giorgia aveva scoperto quei fatti non aveva dormito un solo attimo. Per tutta la notte era rimasta sveglia, con gli occhi spalancati, sensibile a qualunque rumore. Però non era successo niente e lei si era rilassata. Nessun fantasma era venuto a disturbarla per un mese e mezzo, quindi era probabile che gli spiriti non si sentissero così minacciati da lei.

Il vociare dei clienti non si attenuò nemmeno quando ne entrarono di nuovi; anzi, quelli già seduti additarono Giorgia e misero al corrente i nuovi venuti che la ragazza al banco viveva nella casa infestata. Lei sorrideva e prendeva gli ordini dicendo qualche parola su come si viveva nella villa e sui fantasmi che non aveva ancora visto.

Proprio mentre un uomo di quelli appena entrati stava facendo una divertentissima battuta che Giorgia non capì, un uomo molto strano entrò nel bar silenziosamente e sgusciò alle spalle del simpaticone andandosi a sedere nell'ultimo posto libero in fondo al bancone. Giorgia si avvicinò per prendere la sua ordinazione, anche se quel tizio le sembrava davvero inquietante. Aveva dei capelli lunghi e luridi, come se non si lavasse da mesi, e sopracciglia e barba lunghi e crespi, incrostati di resti di cibo. Era coperto da un impermeabile sgualcito, più verde che beige.

« Cosa ci sarà mai da ridere... » borbottò quando Giorgia gli si avvicinò.

« Intende, ridere di me che vivo nella villa dei fantasmi? Proprio non lo so » rispose la ragazza e gli domandò cosa volesse da bere.

Lui alzò lo sguardo e lo puntò su di lei. Sotto sopracciglia cespugliose e i capelli neri che gli scendevano sulla faccia, Giorgia sembrò distinguere due occhi stranamente luminosi, quasi gialli. Inoltre, l'uomo sembrava essere più giovane di quanto non apparisse, anche se parlava con una voce roca, scura e cavernosa come quella di un fumatore accanito.

« Come si sta, nella casa dei Reed? » chiese lui.

« Bene, ora che abbiamo l'elettricità e il riscaldamento » rispose Giorgia.

« Non hai paura? » chiese lui.

« Ne avevo un po' all'inizio, ma ora non più ».

« E quando ti sei trasferita? ».

« Un mese e mezzo fa » rispose Giorgia e lui parve sul punto di rispondere ma alla fine si limitò a ordinare una birra che la ragazza gli servì con prontezza. Quando lui allungò la mano sul tavolo per pagare, Giorgia vide che aveva delle unghie spesse e tutte spezzate. L'uomo non disse altro. Ingoiò la sua birra tutto d'un fiato, pagò e uscì dal bar senza nemmeno alzare lo sguardo.

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Capitolo 7
*** 7. ***


Venerdì sera Felicity stava tornando dalla biblioteca a piedi. Le piaceva passeggiare di sera, quando ancora non era molto tardi. Era passata anche davanti alla vetrina del bar e aveva visto Giorgia indaffarata con i clienti.

Trovava Giorgia molto simpatica, le piaceva stare con lei ed era contenta di essersi fatta un'amica nuova. Ne aveva bisogno. Aveva lasciato in Francia tutto quello che aveva e smaniava per ricostruire la propria vita al meglio.

Mentre camminava, uno spiffero d'aria fredda le portò al naso un odore nauseabondo di marcio e putrescenza. Pensò di aver appena esalato i miasmi della spazzatura dimenticata nel giardino di qualche casa e proseguì. Non mancava molto a casa sua; bastava svoltare un angolo, e proseguire per altri duecento metri.

Raggiunse l'angolo, girò a destra e di nuovo sentì quell'odore orribile. Istintivamente si mise a camminare più velocemente e fu presto in vista del suo traguardo. Mancavano solo tre cancelli a quello di casa sua quando qualcuno la chiamò.

« Felicity! ».

La voce proveniva dall'interno del giardino alla sua destra. La ragazza si voltò e vide che ad averla chiamata era stato un ragazzo. Aveva i capelli neri, lisci e lunghi quasi fino alle spalle, il colorito pallido e due occhi così chiari che a Felicity parvero bianchi.

« Si, sono io » rispose. « Tu sei? ».

« Mi chiamo Lance, abito qui. Scusa, proprio oggi mi sono presentato alla tua famiglia e persino a tua sorella ma non sono mai riuscito a presentarmi a te perché non eri in casa e ho pensato di rimediare ora visto che… passavi proprio qui... ».

Felicity sorrise. Se questo ragazzo, Lance, si fosse presentato in quel modo a sua sorella lei lo avrebbe immediatamente etichettato come stalker; Felicity invece era meno prevenuta e decise di ritenerlo semplicemente un ragazzo impacciato dal pessimo tempismo.

« Ti sei presentato a tutta la mia famiglia? » domandò divertita.

Lui fece una faccia contrita. « Seh » borbottò. « Insieme ai miei genitori. Ci tengono moltissimo a fare questo genere di cose... ».

Felicity rise. Era il genere di etichetta che anche i suoi genitori avrebbero rispettato se qualcuno si fosse trasferito nel quartiere.

« Senti… mmm… so che non ci conosciamo ma… ecco… posso offrirti una tazza di tè? Ecco, vorrei domandarti una cosa » domandò Lance.

Felicity si domandò cosa dovesse fare. Non conosceva Lance ma le luci all'interno sembravano accese e si potevano sentire delle voci, il che faceva presumere che ci fossero i suoi genitori in casa, e ciò contribuì a renderla più tranquilla.

« Va bene » rispose.

« Oh! Bene! » esclamò lui sorridendo timidamente.

Aprì il cancello e fece entrare Felicity, l'accompagnò fino alla soglia e la introdusse in casa. Dentro l'accolsero i genitori di lui e Felicity venne in un attimo fagocitata dalla curiosità e loquacità della coppia, che la investì con una raffica di domande più o meno importune.

Lance invece sgusciò nuovamente fuori casa. Si diresse all'angolo destro del piccolo giardino che abbelliva la parte anteriore della casa e si sporse al di là della staccionata bianca, dove sembrava condensarsi lo stesso odore acre che aveva insospettito Felicity poco prima.

« Non lei » disse.

« Chiunque » rispose una voce nell'ombra.

« Non lei, cercati qualcun altro ».

« Uhm... ».

« Vai a farti una birra » disse Lance ed estrasse dalla tasca alcune monete per poi lanciarle dove sapeva che lui era nascosto.

« Lei non è Zaira ».

« Lo so ».

« E allora... ».

« Non sei nella condizione di discutere ».

L'odore si allontanò sempre di più e Lance seppe che se n'era andato. Sorrise tra sé e tornò dentro casa dove i suoi genitori avevano già svelato a Felicity perché Lance era tanto ansioso di conoscerla: studiava francese a scuola ma non riusciva davvero a venirne fuori e sperava che lei potesse aiutarlo. Così, Felicity aveva anche scoperto che Lance, sotto tutto il pallore, la discreta altezza e i capelli lunghi, aveva diciassette anni appena compiuti, tre in meno di lei.

Rimasero a parlare e a ridere tutti e quattro insieme, con Felicity che cercava di far parlare Lance in francese e lui che sbagliava ogni costrutto possibile, fino alle dieci e mezzo, quando lui si offrì per accompagnarla a casa.

La lasciò all'ingresso di casa sua, venti metri più in là. « Scusa i miei genitori » le disse. « Fanno sempre un sacco di domande ».

« Ma no, sono divertenti. E anche tu lo sei » rispose la ragazza. Pensava davvero che Lance, dopotutto, fosse divertente.

« Sai che hai dei capelli bellissimi? Mi piacciono i capelli rossi » esordì lui senza abbassare lo sguardo né mostrando altri segni di imbarazzo. Se non ci fosse stato il buio a celarli, entrambi avrebbe visto le guance di Felicity arrossire violentemente.

« Grazie... » mormorò lei.

« Oh, di nulla. È la verità. »

Poco dopo si separarono ma non prima che Lance si esibisse in un galante baciamano. " Alla francese" disse lui. Felicity si mise a ridere e non riuscì a smettere fino a che non fu entrata in casa, dove dovette ammettere a se stessa che rideva a causa della sorpresa, dell'imbarazzo e della piacevole sensazione di lusinga.

 

Sabato mattina Shine era riuscita a rientrare in casa dalla stessa finestra da cui era uscita. Aveva richiuso le imposte e si era infilata a letto, dove aveva finto di dormire fino a che sua madre non era venuta a svegliarla.

Accarezzandole i capelli sulla fronte si accorse che la pelle di sua figlia non scottava più e improvvisamente il suo sguardo si fece sollevato. Non si levò il sorriso dal volto per tutto il giorno. Quando Shine scese per pranzo lavata e vestita, le domandò dove volesse andare e lei le disse che si sentiva così bene che voleva fare una passeggiata. Sua madre le misurò nuovamente la febbre e, non riscontrando segni di quest'ultima, acconsentì alla condizione che la ragazza si coprisse il più possibile.

Fu così che Shine, ristabilita, uscì nel mondo con addosso dei vestiti e dentro di sé nuove e portentose capacità. Camminava pensando a quello che le era successo e si chiese come mai non provasse paura per le nuove cose che riusciva a fare. Si rispose sbrigativamente che i suoi nuovi "poteri" erano troppo incredibili per averne paura. Se tutto fosse degenerato, un giorno, allora avrebbe riconsiderato la cosa sotto un'altra luce. Fino a quel momento, però, si sentiva in cima al mondo.

I passi la portarono verso il centro e poi fino al bar di suo zio.

Entrò e tutti i clienti si voltarono a guardarla. Qualcuno la salutò pure. Penny la salutò calorosamente, invitandola a chiacchierare dietro il bancone. Poco dopo sopraggiunse anche suo zio, un uomo alto e tondo come una boccia da bowling che la stritolò in un abbraccio gioioso.

I due la trattennero a chiacchierare fino all'ora di pranzo e poi nel pomeriggio, durante il quale Shine aiutò Penny al bancone. Quando si fecero le cinque e mezza, una ragazza entrò nel bar, salutò Penny e si infilò dietro il bancone. Poi si presentò a Shine.

« Ciao! Sono Giorgia! » disse tendendole la mano. Era una ragazza molto carina, con i capelli castani, grandi occhi verdi e il viso cosparso di lentiggini. Aveva un'aria piuttosto simpatica.

Le strinse la mano e si presentò a sua volta. In quel momento si rese conto che la ragazza aveva addosso un forte odore di… polvere.

« Oh, tu sei Shine! Stai meglio, meno male » disse la nuova ragazza, salvo poi farsi scura in viso. « Ma allora...allora io... » mormorò dubbiosa. Le era improvvisamente sfumata davanti agli occhi la possibilità di lavorare nel bar durante i fine settimana ed espresse a Penny il suo dubbio.

« Non ti preoccupare. Sono qui solo di passaggio. Questo fine settimana è tutto tuo » le disse Shine e Giorgia si sentì sollevata. Pensò anche che la ragazza avesse una bellissima voce e che fosse a sua volta davvero bellissima, con quel mento appuntito, quegli occhi azzurri, le labbra piene e i bellissimi capelli neri e ondulati che le scendevano sulla schiena. Sembrava una moderna Biancaneve e per un attimo ne fu invidiosa.

 

Siccome non c'erano molti clienti, le tre si misero a chiacchierare e per l'ennesima volta Giorgia dovette ripetere che viveva nella villa dei Reed, al che Shine si dimostrò al corrente -come tutti- delle leggende che circolavano su quel luogo e le domandò se non avesse paura.

« Ieri sera me lo avranno chiesto in...non lo so...cento? » disse Giorgia. < Ho fatto il grosso errore di dire ad un signore che abito nella villa e lui ha provveduto ad informare tutti quanti. »

« Devi aver parlato troppo con Marvin. È un vecchietto con il naso rosso che non sa tenere i segreti » le rispose Shine.

« Oh si, era sicuramente lui » esclamò Giorgia e questo diede loro modo di incentrare la conversazione sulla serata precedente. Shine rise al racconto delle disavventure di Giorgia ma si dimostrò particolarmente incuriosita quando lei le parlò del misterioso cliente con l'impermeabile. La ragazza le chiese dove si fosse seduto e quando le venne detto si avvicinò alla sedia e si inginocchiò come se cercasse qualcosa a terra. Quando si alzò in piedi disse di avere qualcosa di molto urgente da fare, si rivestì e uscì di corsa senza nemmeno salutare Penny.

Non aveva dimenticato il terribile odore che emanava la bestia ed era proprio quello di cui il vecchio sgabello di legno era impregnato.

« Ti ho trovato subito. Che fortuna » disse a bassa voce, camminando velocemente.

L'odore del mostro, acre e pesante, aleggiava ancora nell'aria e lei poteva seguirlo, proprio come se una scia luminosa le indicasse la strada. Qualche volta ebbe delle esitazioni, confuse le tracce e sbagliò strada ma alla fine, dopo aver camminato quasi due ore, si ritrovò di fronte al luogo dove lui doveva per forza trovarsi; quell'odore sembrava impregnare anche i marciapiedi.

Si trovava davanti ad una bettola buia, immersa in un quartiere degradato che la Shine di prima avrebbe evitato a tutti i costi. Ora, invece, ci si era addentrata a testa alta, incurante degli sguardi che attirava, dei fischi e degli inviti volgari che le venivano rivolti.

I vetri del pub erano oscurati e da dentro proveniva un gran fracasso. Doveva trovare un modo per vedere cosa stesse succedendo all'interno senza dover entrare. Girò intorno all'edificio, controllò le porte e le finestre e finalmente riuscì a trovare un punto in cui i giornali con cui erano stati coperti i vetri si erano sollevati. Aguzzò la vista ed ebbe la chiara visione di quello che sembrava essere un ring artigianale. Due persone combattevano, ma lei ne vedeva solo le gambe. Uno dei contendenti indossava un paio di Jeans sgualciti, l'altro sembrava essere appena stato attaccato da un cane che gli aveva lacerato i pantaloni neri. Quest'ultimo era scalzo e sembrava più basso e esile dell'avversario, le cui dimensioni si intuivano anche solo osservando le gambe spesse come tronchi, ma lo mandò a tappeto in pochi colpi. Quando scese dal ring, osannato dai presenti, Shine ebbe la certezza di aver appena trovato il mostro che stava cercando.

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Capitolo 8
*** 8. ***


Domenica mattina, verso le otto e mezzo, Felicity, che era un tipo piuttosto mattiniero, chiamò Giorgia al cellulare per domandarle se volesse uscire a fare una passeggiata. Giorgia era ancora a letto e aveva in programma di non alzarsi fino alle dieci ma la ragazza insistette tanto che alla fine si accordarono per incontrarsi alle nove e mezza.

Giorgia ebbe il tempo di alzarsi, lavarsi e vestirsi con calma e quando uscì di casa il sole era sorto, il cielo era limpido e lei si sentiva molto più energica di quanto si fosse aspettata.

Felicity la stava aspettando seduta sugli scalini e quando Giorgia uscì di casa la salutò in francese e le disse che voleva tanto portarla in un certo posto.

« Quale posto? » le domandò Giorgia.

« Vedrai » rispose Felicity e le fece cenno di incamminarsi.

Passeggiarono per meno di un quarto d'ora, durante il quale Giorgia ebbe modo di raccontare all'amica ciò che le era successo al bar. Le parlò del venerdì sera, di Marvin, dell'uomo con l'impermeabile e poi del sabato, durante il quale si erano ubriacate seriamente almeno dieci persone e un paio avevano vomitato proprio fuori dal locale.

« Non ti fa paura? » le chiese Felicity che, immaginandosi al posto di Giorgia, ritenne che avrebbe avuto qualche difficoltà a gestire simili individui.

« Perché tutti mi fanno questa domanda? » le rispose Giorgia. In effetti, da quando aveva iniziato ad avere contatti con delle persone, quella specifica domanda le era stata rivolta più volte da chiunque avesse incontrato.

Felicity non le rispose ma si fermò e indicò a Giorgia un prato incolto che si stendeva a lato di un parco giochi. « Siamo arrivate » disse.

Giorgia la seguì senza fare domande e la ragazza la guidò al centro del prato, dove, coperto solo in parte da delle assi di legno marcite, si apriva un foro nel terreno. Intorno al pozzo, frotte di formiche banchettavano coi cadaveri di alcuni gatti.

« Questo è il campo dove vengono a morire i gatti? » domandò Giorgia.

« Esatto! E questo pozzo ha la fama di essere maledetto tanto quanto la tua casa. Dicono che i Reed siano stati ammazzati proprio qui e poi gettati dentro. Qualcuno invece pensa che il pozzo sia direttamente collegato a casa tua » spiegò Felicity.

« Ah, davvero? » esclamò Giorgia. Quell'idea le piaceva molto meno di quanto le piacessero le storie di fantasmi. Voleva forse dire che esistevano passaggi esterni che conducevano a casa sua e che chiunque li conoscesse ci sarebbe potuto entrare? Poi si rammentò dei gioielli in soffitta e di tutte le cose antiche e potenzialmente remunerative che la casa conteneva e che nessuno le aveva mai neanche toccate in duecento anni, il che faceva presumere che non sarebbe successo ora.

« Già, vero. Non lo trovi affascinante? » esclamò Felicity inginocchiandosi a lato del cerchio di pietre che delimitava il perimetro del pozzo. « Chissà perché hanno divelto le assi » borbottò tra sé.

« Forse perché qualcuno ne è uscito » rispose una voce alle loro spalle.

Incuriosite, le due si voltarono all'unisono. La voce proveniva da un ragazzo dai capelli biondi che le guardava con espressione indecifrabile tenendo le mani nelle tasche di un giubbotto sportivo troppo grande.

« E chi dovrebbe esserne uscito? » ridacchiò Felicity, che temeva di avere di fronte uno di quei creduloni che finivano per inondare internet di informazioni e opinioni sciocche.

« Mio fratello » rispose lui, perfettamente calmo, come se fosse assolutamente sicuro delle proprie parole.

Felicity non seppe cosa rispondere. Che quel ragazzo fosse debole di mente? In quel caso avrebbe dovuto parlargli con estrema cautela, anche se in realtà avrebbe voluto scoppiargli a ridere in faccia.

Giorgia, invece, lo aveva fissato in silenzio per tutto il tempo. L'aveva riconosciuto immediatamente. I capelli biondi, le labbra dal taglio quasi femminile, quell'espressione indecifrabile e… quegli occhi. Il pittore non era riuscito a renderli al meglio, non gli aveva reso giustizia.

« Chi è tuo fratello? » chiese. Voleva una risposta ben precisa e se l'avesse ricevuta sarebbe stata disposta quasi a credere a quello che vedeva.

« Eoden Reed » rispose lui con voce calma, come chi sta parlando di una cosa familiare e ben conosciuta.

« E tu chi sei? » riprese lei.

« Florian Reed » disse lui. « E vi stavo cercando ».

 

Verso mezzogiorno Shine ricevette sul cellulare un messaggio da un numero sconosciuto. Lo aprì curiosa: era un invito di Giorgia che le domandava di passare a casa sua nel pomeriggio e che era una questione molto importante.

Shine aveva in mente un modo diverso di passare il pomeriggio ma intuì dal tono secco e conciso con cui Giorgia aveva scritto il messaggio che doveva esserci qualcosa di importante sotto. Così accettò.

Alla stessa ora trillò anche il cellulare di Aurora, ma lei non lo sentì perché stava dipingendo. Vide il messaggio solo alle due del pomeriggio e uscì subito di casa per dirigersi alla villa senza nemmeno degnarsi di rispondere. Vedere la casa dei Reed dall'interno era uno dei suoi sogni ed era felice della proposta fattale da Felicity, sebbene non sapesse davvero in che modo la ragazza, la cui sorella aveva la sua stessa età e che l'aveva aiutata col francese quando ne aveva avuto bisogno, si fosse procurata l'accesso. Quando arrivò a destinazione venne colta da una sciocca riluttanza alla sola idea di suonare il campanello ma la porta venne aperta prima che lei potesse farlo. Una ragazza dagli occhi verdi comparve davanti a lei, si presentò e le disse di entrare e salire le scale. Aurora eseguì gli ordini ricevuti ma con tutta calma. Voleva osservare per bene l'interno di quella casa che tanto spaventava la gente. Trovò tutto semplicemente magnifico ma tutt'altro che spaventoso.

« Puoi dirmi perché sono qui? » chiese a Giorgia.

« Conosci la leggenda dei Reed, scommetto » rispose lei.

« Certo ».

« E avevi un gatto che si chiamava Loki, no? ».

« Si, esatto ».

« Uhm » fece Giorgia. « Loki aveva duecento anni, quasi ».

Dopo quell'affermazione la ragazza fece cenno ad Aurora di entrare in una stanza; dentro, l'aria era calda e profumata di legno. Felicity era seduta su un letto troppo moderno che cozzava irrimediabilmente con l'aria Ottocentesca della stanza, una ragazza dai capelli neri sedeva su una spessa cassapanca posizionata sotto la finestra e un ragazzo sedeva vicino al camino e fissava le fiamme.

Felicity la salutò ma ciò non contribuì a far sentire meglio Aurora, che non capiva cosa ci facesse in quel posto e perché la sconosciuta affermasse cose impossibili sul suo povero gatto scomparso.

« Bene, ora ci siamo tutte » borbottò Giorgia e chiuse la porta alle proprie spalle.

« Posso sapere per quale motivo mi avete chiamata con tanta urgenza? » domandò Aurora.

« Lui dice di essere Florian Reed » rispose la ragazza dai capelli neri senza smettere di fissare un punto fuori dalla finestra.

« E voi gli credete? » esclamò Aurora. Certo, le piaceva l'idea di un mondo magico e nascosto ai ciechi occhi umani, le piaceva l'idea che potessero esistere creature come i vampiri o i lupi mannari, ma questo era solo un fantasticare, un immaginare. Un'altra cosa era sentirsi dire che un morto era tornato dall'oltretomba.

« Sì » rispose la ragazza alla finestra.

« Ma veramente? » sbottò Aurora.

La ragazza che le aveva aperto la porta le spiegò come avevano incontrato il ragazzo e mostrò ad Aurora il ritratto di Florian Reed, dipinto nel 1815 e portato nella stanza dalla soffitta proprio quella mattina.

Aurora, che amava dipingere, commentò che non era un'opera di grande rilievo ma esaminò i tratti del giovane dipinto e li comparò attentamente con quelli del ragazzo seduto vicino al camino. Trovò che combaciassero quasi perfettamente.

« Beh, potrebbe essere un sosia » esclamò Aurora.

« Plausibile » rispose Felicity. « Ma sembra conoscere questa casa come le sue tasche. Ci ha persino mostrato dei passaggi segreti ».

« E allora? Potrebbe averli scoperti tramite una pianta di questa casa » obiettò Aurora. « Forse esistono, al catasto o chissà dove. »

« Conosce tutti i nomi dei vecchi servitori » continuò Felicity.

« Potrebbe averli letti da qualche parte! »

A quel punto Florian alzò lo sguardo dal fuoco e Aurora si sentì improvvisamente a disagio. I suoi occhi erano così strani... Non avrebbe saputo dire di quale colore fossero.

« Siete sempre stata una persona difficile » le disse e ad Aurora parve di conoscere quella voce, come se provenisse da un ricordo molto lontano. « Tu non trovasti il tuo gatto ma fu lui a venire da te. Lo trovasti accovacciato sul tuo letto senza sapere come fosse entrato e decidesti di tenerlo. Stavi leggendo un fumetto sui supereroi, in quei giorni, e per questo decidesti di chiamarlo Loki, che negli anni è divenuto più volte Laky, Lock, ma soprattutto Pokki, come i dolcetti. Francamente, lo trovavo imbarazzante, ma sei stata sempre molto gentile con me ».

Aurora guardò il ragazzo senza capire. Stava davvero raccontandole la storia del suo gatto? O meglio, stava davvero spacciandosi per il suo gatto?

« Conosce un sacco di cose, di tutte noi. Cose che sono troppo insignificanti perché qualcun altro oltre a noi le possa sapere » disse Giorgia. « Io mi sono trasferita dall'Italia un mese fa e lui sa cose che sono successe mentre ero ancora lì e che non ho mai detto a nessuno. »

Quando, poco prima, le aveva ricordato il momento in cui si era messa a piangere a dirotto mentre era sola in casa, il giorno successivo al funerale di suo nonno, Giorgia si era sentita quasi mancare. Florian aveva rincarato elencando tutti i nascondigli in cui lei confinava gli oggetti scomodi, come i preservativi (all'epoca in cui aveva ancora un ragazzo), le barrette al cioccolato di cui anche sua madre era ghiotta, le sigarette che Alessia le chiedeva di nascondere, alcuni cosmetici particolarmente costosi che aveva comprato più per sfizio che per necessità e via così. Più lui parlava, più Giorgia si era sentita sciocca e superficiale, ma alla fine aveva ceduto e gli aveva concesso la propria fiducia.

Aurora si guardava intorno con la bocca spalancata, indecisa su cosa pensare.

« Ma... non è possibile » mormorò alla fine.

« Lo avrei pensato anche io » rispose la ragazza alla finestra. « Ma ora sono più incline a credergli ».

« Ma questo cosa significa? Cosa… cosa dovremmo fare, noi ora? E com'è possibile che lui sia tornato dal mondo dei morti » domandò Aurora.

« Non sono mai morto » rispose Florian. La sua voce calma parve penetrare dentro Aurora e lei si sentì improvvisamente calma e rilassata. « Ma potrò spiegarvi tutto una volta che avrò trovato mio fratello ».

« Fratello? » ripeté Aurora.

« Eoden Reed » rispose lui.

Aurora cercò lo sguardo delle altre ragazze ma tutte fissavano Florian.

« E perché? » rincarò Aurora.

« Perché lui ha portato con se una cosa molto importante. Voi potete aiutarmi a trovarlo e non solo... » disse lui.

« E come facciamo? » obiettò Felicity.

A quel punto Shine scese dalla sua panca e disse che lei sapeva bene dove trovare Eoden.

« Vi aspetto tutte al bar di mio zio questa sera dopo la chiusura. Inventatevi una scusa e… non vestitevi come principesse. Anzi, meglio tutto il contrario. Ora, io devo andarmene da qui » disse e salutati velocemente i presenti se ne andò via.

 

Giorgia passò il turno di domenica completamente sovrappensiero. Aveva portato con se alcuni abiti che avrebbe indossato appena uscita dal lavoro. A Penny aveva detto che era stata invitata ad una festa a casa di una ragazza che aveva conosciuto.

La domenica c'erano meno clienti e la serata fu quasi noiosa. Giorgia ebbe modo di pensare all'incontro di quel pomeriggio e si disse che c'era una ridicola discrepanza tra il modo in cui si manifestava la magia nei film e come invece la stava vivendo lei. Vedeva Florian come uno strano sogno prolungato e tangibile ma allo stesso tempo irreale, come un miraggio, un'allucinazione. Se le fosse sparito davanti agli occhi per non tornare mai più non se ne sarebbe stupita.

A mezzanotte Penny decise che era ora di chiudere, mandò Giorgia a vestirsi nel retro bottega e salutò Shine che era appena arrivata. Giorgia infilò jeans neri, stivaletti di pelle dello stesso colore e coprì il maglioncino color vino con un giaccone nero piuttosto vecchio. Quando si guardò nello specchio, pensò che con la faccia da bambina che si ritrovava non sarebbe risultata minacciona nemmeno vestendo completamente di borchie e pelle.

Uscì dal retrobottega e osservando Shine, fasciata in abiti provocanti e attillati, la trovò di una bellezza sfrontata e imbarazzante. Poco dopo alle due si unirono Felicity, che aveva fatto del suo meglio per rendere più aggressivo il suo stile solitamente bon ton e Aurora, che si era conciata in modo tale da sembrare una ragazza di strada appena uscita da un centro di recupero. Florian le raggiunse davanti al locale quando la serranda del locale era ormai stata abbassata e insieme si allontanarono.

 

Shine guidò il gruppo lungo la strada che aveva percorso il giorno precedente senza perdersi una sola volta. Infine si trovarono di fronte alla costruzione buia; sotto la porta filtrava una luce gialla e da dentro provenivano schiamazzi volgari.

Shine entrò per prima, rivelando agli occhi dei suoi compagni un ambiente fumoso e spoglio, che poteva essere un pub particolarmente squallido come una palestra priva di attrezzi. In fondo alla stanza si innalzava un ring dall'aspetto cadente con sponde particolarmente alte. Non aveva delle corde elastiche a delimitarlo ma delle catene che tintinnavano ad ogni movimento degli sfidanti.

L'entrata delle ragazze provocò la curiosità e l'ilarità di parecchi clienti; piovvero commenti e qualcuno cercò di allungare le mani ma l'incontro che iniziò poco dopo catalizzò l'attenzione di tutti.

Shine seppe chi si preparava a combattere prima ancora di vederlo con gli occhi. Sul ring erano saliti un uomo grosso come un armadio, con il naso storto e pochi capelli in testa, e il cencioso cliente che aveva tanto incuriosito Giorgia, la quale non poté fare a meno di esclamare: « E' lui! ».

Uno dei presenti prese quell'esclamazione come quella di una fan e le sorrise in modo poco rassicurante dicendole che sicuramente avrebbe vinto.

« E siccome lui vincerà, io vincerò la scommessa e con i soldi ti pagherò da bere, bambina » aggiunse, in un afflato alcolico. Giorgia rifiutò garbatamente e si avvicinò il più possibile alle ragazze e a Florian.

L'incontro sembrò essere privo di qualsiasi regolamento. I due contendenti picchiavano senza nessun criterio, colpendo solo per il gusto di provocare dolore. Piovvero colpi sotto la cintura, furiose graniole di pugni sul volto, le orecchie, lo stomaco. Eoden cadde scivolando su del sangue e l'altro sfidante non perse un solo secondo, colpendolo alla schiena con un calcio che avrebbe potuto spezzargliela. Eoden invece rotolò di lato, si rialzò agile e saltò letteralmente addosso all'avversario, come un cane che si avventa al collo di una preda; lo rovesciò a terra e lo seppellì di colpi. Ad un tratto, con la mano rimasta libera l'uomo con il naso storto estrasse qualcosa dalla tasca dei pantaloni e subito colpì Eoden con un gancio devastante che lo mandò quasi al tappeto. Per un'interminabile secondo, Eoden rimase accasciato al suolo, tenendosi il viso sanguinante con la mano, poi però il locale venne attraversato da uno strano borbottio, una sorta di vibrazione di sottofondo che gli spettatori accolsero con urla di giubilo.

Un istante dopo, Eoden era in piedi. Il suo attacco successivo fu così veloce che le ragazze non riuscirono a seguirlo. Vi furono urla e rumore di ossa spezzate. Quando tutto terminò, lo sfidante dal naso storto era accasciato in una posizione innaturale. Le ossa di entrambi gli avambracci uscivano dalla carne come speroni. Eoden si asciugò il rivolo di sangue che gli scendeva dallo zigomo e gli impregnava la barba, dopo di che scese dal ring mentre due individui trascinavano via di peso l'enorme sfidante, ridotto alle lacrime come un bambino.

Florian si fece largo tra la folla e disse alle ragazze di seguirlo. Passò al bancone, comprò due bottiglie di birra e con quelle si diresse verso il punto in cui Eoden sembrava essersi diretto.

Lo trovarono poco dopo, accasciato su una sedia di plastica con il volto nascosto tra le mani. Davanti a lui, su un tavolino tondo di plastica bianca, era appoggiato un boccale vuoto. Florian stappò una delle bottiglie, riempì il boccale e poi lo toccò con la bottiglia rimasta dicendo « Cin ». Eoden alzò gli occhi e per un attimo parve non rendersi conto di dove fosse né di chi gli stesse rivolgendo la parola.

« Che tu fossi un dissoluto era un fatto noto, ma un miserabile straccione... questo no » disse Florian e presa una sedia da un tavolo vicino vi si sedette e prese a bere la sua birra. Suo fratello lo guardava come se avesse appena visto un fantasma.

« Brindo a te, fratello mio. Eoden Edmund Frederich Emmett Reed. Spero che tu ricordi ancora il tuo nome per intero ».

A quel punto, come se improvvisamente si fosse ricordato della sua identità, Eoden Reed spalancò la bocca rivelando denti gialli e due canini spessi e appuntiti come zanne. Le ragazze lo fissarono incredule tanto quando lui pareva incredulo di avere di fronte il proprio fratello.

« Florian » mormorò. « Sei...sei... tornato anche tu ». Poi prese il boccale e tracannò la birra tutto d'un fiato. Rinvigorito dall'alcol divenne più loquace.

« Non credevo sarebbe successo » disse. « Ma sono riuscito a liberarmi. È come...è come se fosse finito un incubo e mi fossi svegliato. Sono uscito e... e... ».

« E non sei più riuscito a controllarti » terminò Florian.

« Avevo fame. Una fame...che non puoi immaginare » rispose Eoden.

Shine fissava la scena come in trance. Non muoveva un muscolo, non sbatteva nemmeno le palpebre.

« Lo capisco, invece. Ma propongo di andare a parlare da un'altra parte. E poi...mi serve una cosa, una cosa che hai tu » disse Florian che, sebbene fosse il fratello minore dei tre, sembrava godere di molta autorità su Eoden. Questo, alle parole del fratello, si mise una delle sue grosse e sgraziate mani in tasca e ne estrasse una piccola chiave di metallo.

« Ma io non voglio tornare lì dentro » disse mentre la porgeva a Florian.

« Non ci tornerai » rispose lui alzandosi e aiutando il fratello ad alzarsi a sua volta. Lo zigomo di Eoden sanguinava copiosamente.

« Era un tirapugni d'argento » sbottò quando vide lo sguardo interrogativo di Florian.

Insieme andarono a ritirare il premio che Eoden aveva vinto atterrando l'uomo dal naso storto: trecento sterline e una cassa di birra. Presero i soldi e lasciarono la birra, dopo di che uscirono dal pub seguiti dagli sguardi interrogativi di tutti i presenti.

Florian sorresse il fratello per tutto il tragitto e lo zigomo di Eoden non smise mai di sanguinare. Un rivolo rosso e denso scendeva dalle labbra della ferita lungo la guancia, infiltrandosi tra la fitta e ispida barba scura.

Giorgia, Felicity e Aurora non sapevano cosa fosse appropriato dire. Assistevano agli eventi come spettatrici impotenti di un film; si limitavano a seguire i pacati ordini di Florian senza capire dove il giovane volesse condurle. Shine, invece, sapeva qualcosa in più: Eoden aveva l'odore della bestia. Lui era la causa della sua trasformazione. Voleva parlargli e chiedergli perché avesse deciso che anche lei dovesse diventare un mostro. Aveva agito d'istinto o aveva seguito una logica? Non le importava quanti anni i due dicessero di avere, la loro storia, il ritorno dal mondo dei morti; erano tutte cose che non la riguardavano personalmente e Shine tendeva a risolvere prima di tutto le questioni strettamente personali.

Alle quattro del mattino il piccolo gruppo di ragazzi era giunto in prossimità del prato incolto e quindi dell'apertura del pozzo. Eoden strinse più forte la spalla del fratello e lo pregò di passare oltre. Florian lo accontentò e tutti e sei proseguirono il loro cammino.

Poco dopo, Giorgia iniziò a riconoscere gli edifici, le strade e l'arredo urbano e capì dove erano diretti.

« Stiamo...stiamo andando a casa mia? » mormorò.

« Casa nostra, intendevi forse. Non è così, ragazza del bar?» rispose Eoden.

A Giorgia sembrò così strano sentirsi rivolgere la parola da lui, ora che sapeva chi fosse, che per un po' non riuscì a pronunciare altro. Infine, però, la curiosità ebbe la meglio.

« Come sperate di entrare? » chiese.

« Dalla porta, presentandoci ai tuoi genitori con garbo. Mi ricordo ancora come si fa » rispose ancora Eoden e fu scosso da qualcosa di molto simile ad un ruggito sommesso che Giorgia interpretò come una risata.

« Non badare a quello che dice » intervenne Florian, con il suo modo di parlare calmo e autorevole. « A Eoden piace scherzare ».

« Perché, fratello? Non è educato introdursi in casa altrui di soppiatto come ladri » obiettò Eoden. Parlava nello stesso modo sguaiato di un ubriaco ma il suo lessico era davvero impeccabile. Tra sé, Aurora pensava che sembrasse sotto l'effetto di qualche blanda sostanza stupefacente.

« Ci sono molti modi per entrare in casa nostra » rispose Florian.

Eoden sorrise divertito, come illuminato da un bel ricordo, e disse « Si, e anche molti per uscirne ».

Florian sorrise a sua volta. Era evidente come i due stessero pensando a qualche vecchia avventura.

Pochi istanti dopo si trovaron davanti alla vecchia villa. Quando quella mattina Giorgia e Felicity avevano condotto Florian alla sua vecchia casa, lui era rimasto per cinque minuti a fissarne la facciata, in silenzio; poi aveva voluto fare il giro e vederla da tutti i lati. Giorgia e Felicity avevano pensato che si trattasse di una bizzarra reazione di felicità del giovane nel rivedere la propria dimora ma ora sospettavano che non avesse fatto altro che controllare la situazione e cercare le vecchie vie d'uscita.

Anche Eoden rimase interdetto per alcuni minuti e si rifiutò di muoversi. Fissò la sua casa, stringendo il fratello in una morsa d'acciaio e nello sguardo gli si dipinse una sfumatura di cieca rabbia; il respiro gli si fece affannoso e inarcò i muscoli della schiena, del tutto simile ad un gatto spaventato che sguaina gli artigli e soffia contro il suo aggressore.

« Dobbiamo entrare dalla cantina. Tu conoscevi ogni passaggio, riesci a ricordarne la posizione ora? » chiese Florian a suo fratello.

Eoden sembrò riflettere, poi fece cenno di no con la testa.

« Hanno distrutto le stalle, i capanni, le latrine, i canili, tutto. Quindi le uscite non esistono più » disse Eoden.

A quel punto fu Florian ad illuminarsi.

« Ogni passaggio terminava in un edificio? » chiese.

« Si, esattamente ».

« Per caso ne esisteva uno che terminava dentro la chiesa? » domandò Florian.

« Oh, certamente » rispose Eoden. « La figlia del pastore mi aspettava lì ogni domenica sera ».

« Ma guarda » esclamò Florian riprendendo a camminare e superando la vecchia villa. « La timida e pudica Margareth».

« Solo in pubblico » ridacchio Eoden.

« Tu possiedi il potere di corrompere le anime, caro fratello. Forse, quando ti accusavano di essere un demonio non si sbagliavano » gli rispose Florian.

 

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Capitolo 9
*** 9. ***


I due fratelli percorsero l'isolato, svoltarono a destra un paio di volte e si ritrovarono cento metri dietro il giardino della villa, dove sorgeva una vecchia chiesetta. Era una costruzione modesta, ricostruita in parte sul sito dove sorgeva una precedente chiesa di paese.

« Esiste ancora? » esclamò Eoden.

« Evidentemente » rispose Florian.

La porta della chiesa era chiusa da pesanti catenacci ma Eoden li spezzo senza fatica e i due poterono entrare indisturbati. Quando le ragazze raggiunsero la vecchia chiesa, Florian e Eoden sembravano essere spariti.

Le quattro entrarono caute all'interno dell'edificio, consce di trovarsi in un luogo dove non avrebbero dovuto essere. La chiesa aveva muri bianchi e lisci, un pavimento piastrellato e panche di legno chiaro nuove di zecca, ma la zona dell'altare e la base dei muri erano evidentemente più antichi, lasciati a vista da dei costruttori sensibili al patrimonio storico del quartiere.

Dei fratelli Reed, però, non c'era traccia.

Le ragazze si sparsero per la navata, cercando una porta aperta, un segno che indicasse il passaggio di qualcuno, ma non riuscirono nel loro intento. La chiesa aveva inghiottito i due spettri del passato.

D'un tratto, una risata scura e roca si diffuse in tutto l'ambiente senza che le ragazze potessero individuare il punto da cui il suono si propagava. Solo Shine, dopo essersi attentamente concentrata, riuscì ad individuare il luogo dove, con tutta probabilità, si nascondeva Eoden.

Salì sulla piattaforma di liscia pietra grigia sul cui fondo era posto l'altare, che era una grezzo blocco di marmo lavorato innestato su un piano decorato da immagini di angeli e demoni. A lato dell'altare, una delle pareti incise era scostata di qualche centimetro.

Shine chiamò le altre ragazze, scostò la pietra ed essa rivelò una scaletta ripida e buia; ma Shine riusciva a vedere nel buio e quando giunsero le altre le guidò all'interno dello stretto cunicolo con estrema sicurezza. Le scale scendevano ripide, umide e scivolose per almeno tre metri in profondità per poi terminare in un lungo tunnel dal soffitto basso.

« Oh mio dio... » mormorava continuamente Felicity che aveva una gran paura dei luoghi chiusi o sotterranei, lontani dall'aria aperta. Si sentiva come intrappolata in una tomba. Aurora, invece, si stava divertendo moltissimo. Ancora non credeva del tutto alla storia di Florian e Eoden Reed che ritornano dal mondo dei morti e in un certo senso temeva di essere vittima di uno sciocco ma ben architettato scherzo televisivo. Giorgia e Felicity, però, sembravano divertirsi molto meno di lei e avevano tenuto un'espressione seria per tutto il tempo.

Giorgia aveva sempre amato scendere in luoghi bui e misteriosi. In Italia aveva visitato le catacombe a Roma, le tombe etrusche in Toscana, castelli e prigioni in svariati borghi, a Venezia i "Piombi" e procedere lungo quello stretto budello, tre metri sotto terra come i morti, non la rendeva nervosa. A renderla nervosa era il buio. Proseguiva aggrappata alla manica di Shine, che sembrava vederci bene come un gatto, e le avvertiva di eventuali dislivelli nel terreno, buche o deformazioni della roccia su cui si poteva sbattere la testa. In ogni caso, trovava affascinante il fatto che la vecchia villa dei Reed fosse piena di cunicoli sotterranei. Con un sorriso pensò alle gallerie che si intrecciano sotto il suolo di Napoli o ai Trabuilles che aveva visitato a Lione, in Francia, e pensò a Florian, che li usava per uscire di casa di nascosto e passeggiare nella notte, e ad Eoden che, bello come era nei ritratti, andava agli appuntamenti notturni con le sue amanti.

Le sue divagazioni si interruppero nel momento in cui le ragazze raggiunsero Eoden e Florian, i quali erano fermi di fronte ad un muro di pietra grezza. Giorgia, Felicity ed Aurora non potevano vedere nulla ma Shine sì e notò che Eoden tastava il muro alla ricerca di qualcosa. Finalmente, riuscì a trovare quello che cercava, vi premette sopra e con un rumore sordo la parete di pietra si spostò sui cardini arrugginiti di cui era dotata e i ragazzi poterono passare al di là del muro, dove trovarono ad attenderli altro buio e un tremendo odore di marcio. Il pavimento era costellato di pozzanghere d'acqua putrida; gli insetti, sentendosi disturbati, si alzarono in volo ronzando. Shine avanzò senza timore guidando le ragazze fuori da quella palude orribile.

Eoden si fermò per un momento ad annusare l'aria stagnante, poi puntò una direzione precisa e tutti lo seguirono nell'uniforme e perfetta oscuritò fino a quando Shine non si fermò ed emise un sospiro di sorpresa.

« Ma che cosa... » mormorò e avanzò di qualche passo.

Davanti a lei c'erano quelle che senza ombra di dubbio erano sbarre di metallo. Dietro le sbarre di metallo, due sagome erano appoggiate ad un muro, entrambe con un braccio sollevato ed incatenato con una morsa di metallo alla parete di pietra.

Per quanto erano magre avrebbero potuto essere degli scheletri. Shine poteva vedere chiaramente il braccio ridotto alle sole ossa coperte dalla pelle e dei capelli lunghissimi che coprivano quasi interamente il loro corpo rannicchiato. Ma non erano cadaveri. I due corpi erano vivi. Respiravano ed emanavano un debolissimo calore.

« Che cosa c'è Shine? Cosa c'è davanti a noi? » chiese Giorgia.

« Una prigione » rispose Shine. « E due persone prigioniere ».

 

Florian non riuscì più a trattenersi e lasciò Eoden da solo per correre verso i due corpi incatenati al muro.

Con le mani tremanti si inginocchiò verso il primo, il quale era coperto da una cascata da sudici capelli neri in cui si annidavano le pulci. La mano schelettrica sussultò per un attimo quando lui, dopo qualche tentativo, tramite la piccola chiave nera che Eoden gli aveva consegnato, riuscì ad aprire la manetta di metallo e a liberarla, poi ricadde a terra senza emettere rumore.

Un momento dopo il corpo, rinsecchito come quello di una mummia, inspirò rumorosamente e l'eco di quel respiro riempì tutto il sotterraneo facendo rabbrividire le ragazze che non potevano vedere.

Florian ripeté l'operazione e liberò anche l'altra figura, la quale invece aveva lunghi e pesanti capelli rossi. Anche questa volta, la schelettrica creatura inspirò profondamente, come se fosse riemersa da un lungo periodo passato in apnea.

Quando Florian tornò a rivolgere la propria attenzione al primo prigioniero che aveva liberato, si trovò di fronte sua sorella Johanna, perfettamente integra, come se due secoli di prigionia fossero stati cancellati in un unico istante. Alle sue spalle, nello stesso modo, era appena rinata Zaira.

 

Da qualche altra parte, in un luogo lontano e vicino, visibile e invisibile, qualcun altro seppe del risveglio delle due fanciulle. E ne fu dispiaciuto.

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Capitolo 10
*** 10. ***


« Fratello! » mormorò Johanna Read, sfiorando appena la spalla di Florian. La prigionia le aveva fatto dimenticare quale sensazione si provasse a muoversi, parlare, toccare qualcuno. Florian era caldo. Alzò la mano, gli sfiorò la guancia liscia come quella di un ragazzino, dopo di che non riuscì più a trattenere le lacrime e gli gettò le braccia al collo, singhiozzando disperatamente.

    « Florian, sei vivo. Che sollievo, che enorme sollievo! » mormorò, il viso affondato nel giaccone del ragazzo.

    Lui la strinse a sua volta, le accarezzò i lunghi capelli neri.

    « E' finita, Jo » rispose lui, ma in quel momento una voce debole ma stizzosa li interruppe.

« Non è finito un bel niente » disse. « Anzi, è appena iniziato. »

« Zaira » la voce cavernosa di Eoden risuonò nella grotta-prigione come il rombo di un tuono. « Serpe maledetta, chiudi quella bocca velenosa e per una volta mantieni il silenzio quando puoi. »

« Non ti piace sentire la verità, bestia? » rispose la voce stizzosa, che apparteneva alla ragazza dai lunghi capelli rossi. Fino a quel momento era rimasta accovacciata a terra ma si alzò, ritrovando immediatamente il vigore da lungo tempo sbiadito a causa della prigionia, e scostò dal volto la cascata di sudici capelli.

Shine vide il suo volto e trasalì. Le ragazze se ne accorsero.

« Cosa succede? » escamò Felicity.

« Oh, lo vedrai presto » mormorò Shine.

« Non ho voglia di sentirvi bisticciare stupidamente » esclamò Florian, più come un padre autoritario che come il minore di tre fratelli.

« D'accordo » sbottò Eoden. « Che dovremmo fare ora che abbiamo ritrovato la deliziosa compagnia delle nostre fanciulle? »

« Trovare un posto tranquillo » rispose Florian, aiutando Johanna a sollevarsi.

« E' a questo che servono loro? » domandò Zaira indicando le ragazze con un gesto nervoso della mano.

« Proprio così » rispose Florian. « Non avete idea di cosa ci sia lì sopra, ora. Ci serve una guida. »

« Chi sono? » chiese allora Johanna.

« Sono state le mie padrone negli ultimi quindici anni. »

 

Esclusa Shine, le altre ragazze non avevano visto nulla di quanto era accaduto. Non avevano idea di come Johanna e Zaira fossero letteralmente rinate non appena Florian le aveva sciolte dalla morsa metallica che le teneva prigioniere, né di che aspetto avessero le due ragazze. Si sentivano opprimere da quel buio così denso che sembrava rendere più pesante anche l'aria.

« Vi porterei in casa » disse Giorgia, forse per rompere quell'atmosfera asfissiante e ricordarsi di essere ancora presente. Il buio sembrava inghiottire le loro stesse percezioni, come se poco a poco potesse cancellare anche la loro esistenza. « Ma ci sono i miei genitori. »

« No » rispose Aurora. « Verrete con me all'albergo. Vi darò un paio di camere. »

« Sì, faremo così. E' meglio allontanarsi da qui » concordò Florian.

Per uscire dal sotterraneo utilizzarono lo stesso stretto cunicolo da cui erano venuti. Risalire si rivelò più arduo che scendere, ma la via del ritorno è sempre più breve e quella che a Giorgia e Felicity era sembrata una discesa agli inferi si rivelò una scalata sorprendentemente breve.

Le ragazze si accasciarono sulla prima panca, inspirando a pieni polmoni l'aria fredda e inodore della sera. Uno alla volta, i Reed e Zaira risalirono dal cunicolo, affacciandosi in modo definitivo alla loro nuova esistenza, duecento anni dopo la prima.

« Non perdiamo tempo » disse Florian, mettendo il proprio giubbotto sulle spalle della sorella. « Abbiamo molte cose di cui discutere. »

Zaira, alle sue spalle, lo tocco sul braccio, come per attirare l'attenzione. Lui si voltò nella sua direzione e la ragazza sembrò esitare, salvo poi afferrargli una mano e ringraziarlo, sorridendo in un modo mesto che strideva con il tono acido della sua voce.

Fu in quel momento che, nella penombra della chiesa, Felicity posò lo sguardo sul volto della ragazza e lo stupore che la colpì la fece saltare sulla panca e scattare in piedi. Come trasportata dall'incredulità, si avvicinò a Zaira e incurante della presenza di Florian le si mise davanti, osservandola con gli occhi azzurri così sgranati da sembrare tondi. Lo sguardo disgustato e seccato di Zaira si trasformò a in puro stupore, a sua volta sgranò i propri occhi, azzurri anch'essi, e in quel momento si produsse un incredibile effetto specchio: le due ragazze erano identiche fin nei minimi dettagli, come se fossero gemelle.

« Chi sei? » domandò Zaira, incredula quanto Felicity.

« Felicité Lerond, mi chiamano Felicity » rispose la ragazza.

Zaira si accigliò. « Della terra dei Franchi è la maga dell'Aria…» disse, dopo di che rivolse lo sguardo verso le altre tre ragazze, ancora sedute e in attesa. « E figlia d'artista è la maga di Terra, dalla notte al giorno è la maga dell'Acqua e la maga di Fuoco è la bestia più bella. »

Il silenzio cadde sulle sue parole e nessuno osò fiatare fino a che lei stessa non si voltò verso Florian ed esclamò: « Abbiamo moltissime cose di cui parlare. »

 

Raggiungere l'albergo di Aurora, il Dawn Hotel, fu più semplice di quanto si aspettassero. Le strade, a quell'ora di notte, erano deserte e i pochi passanti che incontrarono erano lavoratori mattinieri, troppo assonnati per prestare loro attenzione, oppure frettolosi passanti.

Il Dawn era una costruzione di dieci piani risalente alla fine dell'Ottocento che manteneva intatto il suo stile liberty. Era di proprietà della famiglia di Aurora da sempre e veniva trattato come un figlio. Il padre della ragazza faceva lo chef e sua madre era la concierge. Lei e Barbara aiutavano spesso ai tavoli o a riassettare le camere e Aurora sospettava che Barbara ne approfittasse per incontrare qualche amante occasionale.

Fecero il giro intorno al palazzo, addentrandosi nel vicolo dove si trovavano i bidoni dell'immondizia, e sgattaiolarono all'interno dalla porta sul retro, riservata al solo personale. La sala dove entrarono era stata adibita a magazzino ed era stipata di scatoloni. La porta successiva era lo spogliatoio del personale, ma loro infilarono immediatamente le scale di sicurezza, che si snodavano proprio a partire da lì.

Aurora possedeva un passepartout e una volta fatta memoria delle prenotazioni ricevute, decise che avrebbe destinato ai Reed e a quella copia di Felicity le tre stanze appena rinnovate in fondo al corridoio del decimo piano, dove sarebbero sicuramente stati tranquilli.

Salirono a piedi e dovettero fermarsi più volte perché Johanna, molto più debole di Zaira, aveva continui mancamenti. D'un tratto, Eoden la prese in braccio e proseguirono senza ulteriori intoppi.

Sgattaiolarono, cauti e silenziosi, lungo il corridoio, poi Aurora aprì loro la prima stanza e tutti vi si introdussero tirando poi un sospiro di sollievo.

« Non ho mai viso un palazzo di queste dimensioni. E si tratta di una locanda... » mormorò Johanna. « Qui fuori è tutto così cambiato. »

« E' terrificante » sbottò Zaira, che trasaliva ogni volta che un'auto sfrecciava lungo la strada.

« No, è solo diverso » rispose Aurora.

« Diverso e terrificante » puntualizzò Zaira.

« Di questo avremo modo di parlare in seguito » le interruppe Florian. « Ora, Aurora, possiamo abusare della vostra ospitalità? Non mangiamo come si deve né tocchiamo dell'acqua calda da… »

« Oh, certo, certo! » esclamò lei, calandosi improvvisamente nel ruolo della premurosa padrona di casa. « Potete usare questa stanza, quella adiacente e quella di fronte. Le ragazze possono mostrarvi come si usano tutte le nostre cose… moderne. Io vado a prendere qualcosa da mangiare. »

Si girò per avviarsi verso la porta ma si bloccò e aggiunse: « E per favore, non darmi del voi. Sono Aurora, solo Aurora. »

Appena ebbe oltrepassato la porta, Zaira commentò: « Dalla notte al giorno è la maga dell'Acqua. »

 

Si distribuirono nelle tre camere. Felicity seguì Zaira nella camera accanto a quella dove si trovavano e Shine si offrì di mostrare a Eoden quella di fronte, così Giorgia si ritrovò insieme a Florian e Johan.

« Venite, vi mostro il bagno » disse, tanto per rompere il silenzio. Aprì a colpo sicuro la porta in fondo alla stanza e li guidò in una sala da bagno così nuova e scintillante che sapeva ancora di plastica e pittura per pareti.

La vasca era scintillante, pulita, dalle linee stondate e appoggiata di quattro zampe di metallo a forma di testa di leone.

« Preferite il bagno o la doccia? » domandò, indicando il doccione grande quanto un piatto da portata che pendeva dal soffitto, all'interno di un cubicolo di vetro.

« Doccia? » domandò Johanna. « Ma è per gli zotici la doccia. »

« Non più » disse Florian.

« Posso avere comunque il bagno? » domandò Johanna. Solo in quel momento Giorgia la osservò a fondo e notò che aveva gli occhi scuri arrossati dal pianto. Un alone rosso le circondava il piccolo naso elegante e delicato e anche le guance pallide erano arrossate. Nel complesso, tuttavia, il suo viso rimaneva straoridinariamente piacevole.

« Ma certo! » rispose Giorgia aprendo il rubinetto dell'acqua calda. Mentre la vasca si riempiva, rovesciò all'interno il bagnoschiuma fornito dall'albergo. Quando l'acqua ebbe raggiunto un buon punto, Johanna si voltò verso il fratello e sorridendo per la prima volta gli disse: « Fratello, ti ringrazio. » Lui capì e uscì dal bagno.

Johanna rivolse un sorriso anche a Giorgia, dopo di che si fece scivolare di dosso il cencio ammuffito che indossava e che una volta doveva essere stata una tunica bianca. Aveva un corpo asciutto, sottile ma sano e forte. Chiese a Giorgia di aiutarla ad entrare, dopo di che la congedò gentilmente, come se lei fosse ancora la padrona di qualcosa e Giorgia una serva in casa Reed.

Quando anche lei uscì dal bagno, trovò Florian disteso sul letto matrimoniale, intento a osservare fissamente il soffitto.

« E così, tu eri Ish » disse. Era la prima volta che si trovava da sola con lui e l'imbarazzo che provava ogni qual volta si trovava a intavolare una conversazione con uno sconosciuto senza l'appoggio di un terzo interlocutore la colse inesorabile.

« Ero anche Loki, Plutone e Absinthe » rispose Florian.

« Dunque tu conosci bene il nostro mondo, non ti spaventa » disse Giorgia, chiedendosi se quella fosse una cosa interessante da dire oppure no.

« Non mi spaventa affatto. E' molto più sicuro dell'epoca da cui provengo io. »

« Ma perché loro sono stati imprigionati e tu invece sei stato...»

« Trasfigurato e disperso » disse lui, mettendosi a sedere. Giorgia pensò che non possedesse la bellezza sfrontata che di suo fratello Eoden, che era sicura si trovasse da qualche parte sotto tutto il sudiciume che lo copriva, ma che fosse dotato piuttosto di un fascino greve e di una bellezza più sottile, meno vistosa ma altrettanto se non più insidiosa. Inoltre, il suo sguardo indecifrabile lo rendeva misterioso e Giorgia non si sentiva adatta ad interagire con un individuo di quel genere; si sentiva troppo insignificante, come una formica a cospetto di una tigre.

« Perché un oggetto nascosto è un mistero ma uno rotto è solo spazzatura » aggiunse lui.

In quel momento, la voce di Johanna che chiedeva cortesemente una forbice interruppe il loro breve dialogo.

 

« Perché io? » aveva chiesto Shine non appena lei e Eoden avevano messo piede nella stanza. « Perché? »

« Avevo due alternative » disse lui, senza fare una piega. « Ucciderti o trasformarti. Dovevo sfogare l'istinto distruttivo in qualche modo. »

« Istinto distruttivo? » ripeté lei, mentre il ragazzo si levava il sudicio impermeabile e l'altrettanto sudicia maglietta nera che indossava sotto. I lividi della recente lotta erano ancora visibili, ma i tagli si erano rimarginati. Shine aprì l'acqua della vasca.

« Lo capirai presto. E' passata solo una luna per te quindi tu e lui siete ancora separati » disse Eoden, levandosi le scarpe e i pantaloni. Puzzava ed era sudicio ma Shine dovette comunque sopprimere il moto di imbarazzo con la colpì nel momento in cui si girò verso di lei per immergersi nell'acqua.

« Ma dopo un po', diventerete una cosa sola e ti donerà un bruttissimo carattere » continuò lui. « A meno che tu non l'abbia già. In ogni caso, il tracimare della bestia dentro di te inizierà a renderti scontrosa e irritabile, accumulerai rabbia, così ogni volta che ti trasformerai la tua fame crescerà e invece di limitarti a cacciare gli animali desidererai cacciare le persone, ma non solo. Vorrai distruggerle, annientarle. E annientarle, significa anche trasformarle in esseri come te rovinando la loro esistenza. »

La mano di Shine si mosse prima ancora che lei se ne accorgesse e colpì la guancia di Eoden così forte da lasciargli impressi i segni delle cinque dita. Dalle labbra del ragazzo si levò un ruggito basso e minaccioso, il suo sguardo si fece duro, feroce, come se fosse pronto ad azzannarla se solo avesse osato avvicinarsi.

« Hai appena ammesso di avermi rovinato la vita. Te lo meriti » disse lei e Eoden smise di ringhiare.

« C'è un altro motivo per cui ho deciso di risparmiarti » disse, mentre Shine gli lanciava una spugna e lui cominciava a sfregarsela sulle braccia.

« Perché ti ho fatto pena? » azzardò la ragazza, azionando il soffione e direzionando il getto caldo conto i capelli del ragazzo.

« Perché sei bellissima » disse lui, con naturalezza.

Shine rimase in silenzio. Era decisamente abituata ad avere corteggiatori, sapeva di non passare inosservata e i complimenti per il suo aspetto le erano piovuti addosso senza sosta sin da quando era bambina, ma per qualche motivo le erano sempre sciovolati addosso senza lasciare traccia. Shine considerava i complimenti una delle espressioni più superficiali dell'eloquio umano, l'attestazione di un semplice risultato e spesso svincolato dalla realtà dei fatti. Quando era piccola, a quei complimenti non rispondeva mai e sua madre le aveva insegnato che era educazione rispondere quantomeno : « Grazie mille! » quando qualcuno diceva qualcosa di carino su di te. Così aveva imparato a rispondere « Grazie mille! » in modo così perfetto, con la giusta proporzione di imbarazzo e lusinga, che tutti credevano di lusingarla sul serio.

Per una volta, però, quelle parole le sembrarono avere un senso. Per una volta, quella bellezza che le era stata data in sorte per caso aveva un senso: le aveva salvato la vita.

Shine spremette lo shampoo tra i capelli neri di Eoden. « Ti ringrazio » disse. « Anche se da un famoso e impenitente libertino come te saranno venuti altri mille complimenti come questo » aggiunse.

« Non usate più il voi, in quest'epoca. »

« No, siamo molto più diretti e scortesi. »

« Io amo la bellezza. La amavo, almeno. Le donne che ho avuto erano sempre bellissime » disse Eoden, sfregandosi il petto e il collo con la spugna. L'acqua era diventata nera.

« E dunque io sarei bellissima come tante altre? » rispose Shine, sfregandogli con forza i capelli da cui scendeva un rivolo di sporcizia. Lungi dall'essere infastidita, apprezzava la sincerità di Eoden.

« Voi donne, sempre ansiose di sentirvi diverse » disse lui.

« Voi uomini, sempre pronti a generalizzare. »

I capelli lunghi e ispidi di Eoden ricadevano all'indietro, bagnati, domati e incollati alla testa, lasciandogli scoperto il viso. I suoi occhi sembrarono istantaneamente più grandi e Shine, scivolando sul bordo della vasca fino a trovarsi di fronte a lui si rese conto di come i suoi tratti fossero perfettamente simmetrici.

« Sei gentile a prenderti cura di me » le disse d'un tratto, afferrandole una mano. Un ragazzo qualsiasi di quelli che conosco, pensò Shine, si sarebbe sparato piuttosto di dire una cosa del genere. « Confesso che fa paura, un po', trovarsi in questa epoca. Aver trovato te mi fa sentire molto meglio. »

« Non esistono cose spaventose quanto me e te, in quest'epoca » rispose Shine, passando le dita su una ferita che percorreva l'angolo della fronte del ragazzo. Notò che la ferita sullo zigomo provocata dal tirapugni si stava rimarginando poco a poco, anche se la pelle intorno era rossa e tumefatta.

« Ci sono cose molto peggiori di me, ma sono ancora nascoste. Aspettano. »

« Beh… » mormorò lei, turbata. « Per quanto possiamo aiutarvi, io e le altre, lo faremo. » Poi si alzò in piedi raggiunse il mobile da bagno, sopra cui capeggiava un enorme specchio. Aprì un'anta e ne estrasse un telo da doccia che porse teso verso Eoden. « Nel frattempo vediamo di darti un aspetto più umano. »

Il ragazzo sorrise e si sollevò dall'acqua senza mostrare alcun imbarazzo. Ripulito dalla sporcizia, il suo corpo riacquisì un'apparenza più umana e con essa un'avvenenza che mandò a fuoco le guance di Shine. Eoden aveva braccia e gambe forti, il torace largo, muscoli scolpiti e scattanti che tendevano la pelle pallida cosparsa di lividi e cicatrici,

Prese il telo e se lo avvolse attorno ai fianchi. I capelli bagnati gli arrivavano molto più giù delle spalle.

« Vieni qui, siediti. » Shine gli mostrò lo sgabello che aveva sistemato di fronte allo specchio. Eoden obbedì mentre la ragazza estraeva da un cassetto un kit di spazzole e forbici messo a disposizione dei clienti. Accanto al lavandino, invece, faceva bella mostra di sé un rasoio elettrico intonso.

Sotto le luci bianche che circondavano il grande specchio, per una volta Shine si vide sciatta e stanca. Non ci era abituata, ma la visione non le dispiacque. Non le dispiaceva mai quando qualcosa la intaccava, rendendo imperfetta quella bella apparenza che vinceva per lei qualsiasi battaglia.

Con le forbici, prese ad accorciare i capelli di Eoden.

« Li ho sempre portati lunghi » disse lui.

« Li vuoi tenere lunghi? »

« Se non ti dispiace. »

Non le dispiaceva. Sentiva qualcosa di inconsueto nei confronti di Eoden, una spinta, un'attrazione istintiva. Quel sentimento si faceva sempre più forte mano a mano che la trasformazione da bestia a umano si faceva più evidente.

« Hai i capelli ricci » osservò, mentre raggiungeva la lunghezza adeguata con gli ultimi, sapienti colpi di forbice.

« Come mio padre in gioventù » disse lui.

« Il padre che comandò il vostro omicidio, si dice. » Shine prese una forbice più piccola e iniziò ad accorciare la folta barba che gli copriva metà del volto e il collo.

« Colpevole sì, d'omicidio no. Ma mio padre ebbe principalmente la colpa di essere un povero stolto. »

« Si fece plagiare? »

« E' esatto. »

Shine lavorava, concentrata. Tagliando sfiorò con le dita le labbra del ragazzo.

« E vi condannò alla reclusione? »

« Molto peggio » disse lui. « Si assicurò che non potessimo morire fintanto che fossimo rimasti rinchiusi e ci rese dei mostri, per rendere la reclusione stessa una tortura ancora peggiore.»

« E' per colpa sua se tu sei diventato un lupo? » Era la prima volta che Shine utilizzava la parola "lupo" e improvvisamente la sua condizione acquisì una pesante concretezza.

« Sì. » Lo sguardo di Eoden si fece improvvisamente truce, fisso nel vuoto, opaco e assente. Shine capì che era sprofondato in un ricordo pieno di rabbia. Il ragazzo piegò la testa in avanti e nascose il volto tra le mani, il corpo improvvisamente scosso da potenti tremiti. In quel momento, Shine capì cosa intendesse quando parlava di fusione tra sé e il mostro che ospitava.

« Eoden » esclamò, cercando di distrarlo. « Eoden, ora siete fuori. » Appoggiò la forbice sul bordo della vasca e quella cadde nell'acqua. « Guardami » esclamò, afferrandogli i polsi ma non riuscì a smuoverli. In compenso lui sembrò agitarsi ancora di più, così Shine decise di agire d'impulso e lo circondò con le braccia.

« Siete insieme adesso, tu e i tuoi fratelli » gli sussurrò all'orecchio. « E ci siamo anche noi. Ci sono io. »

Dovrà pur contare qualcosa, pensò stringendolo.

Eoden smise a poco a poco di tremare ma Shine non allentò la presa. Sentì le mani del ragazzo cingerle i fianchi e guidarla fino a che passò dall'essere in ginocchio a sedersi sulle sue ginocchia.  

« Questo è quello di cui ti parlavo poco fa » le disse, stropicciandosi gli occhi. « Ti chiedo perdono. »

« Capisco la rabbia che provi » rispose Shine, sciogliendo l'abbraccio. « E' normale. »

« Normale? » ripeté Eoden come se il concetto stesso di "normale" gli fosse estraneo. Per molto tempo, troppo per qualsiasi uomo, si era sentito chiamare bestia e mostro, si era sentito dire che covare una rabbia così devastante nei confronti del proprio padre era peccato, che desiderare la vendetta era ingiusto e lo stava avvelenando. Prima ancora, tanto tempo prima, si era sentito ripetere continuamente che la sua condotta era immorale, che era un uomo senza cuore e senza Dio, dagli appetiti famelici, più simile a un animale che a un uomo. Non era mai stato normale, nessuno gli aveva mai detto che lo fosse.

In quel momento, a causa di quell'unica parola, Shine smise di essere una bellissima e avvenente fanciulla e una bestia simile a lui per trasformarsi in qualcosa di diverso, qualcosa di luminoso come il suo nome.

All'improvviso, la desiderava.

Allungò le mani sgraziate verso di lei. Le sue dita, fino a poche ora prima contratte in un pugno e pronte ad abbattersi su un uomo alto il doppio di lui, divennero delicate mentre si insinuavano tra i capelli neri della ragazza. Lei capì; le sue mani sottili gli afferrarono i polsi. Poi Eoden si tese verso Shine e la baciò.

Credeva di aver dimenticato la dolcezza delle labbra di una donna così come credeva di aver dimenticato buona parte di sé stesso, ma in quel frangente Shine gli restituì un pezzo di umanità.

Quando lei si allontanò, lui la ritrasse a sé. Non voleva che finisse. Mentre la baciava con sempre maggiore impeto si accorse di aver desiderato quel calore disperatamente per secoli.

Quando lo avevano accusato di essere una bestia si erano tutti sbagliati, sempre. Non era perfido, non era rabbioso, non era feroce. Eoden era semplicemente alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare e per un attimo quella sera ebbe la sensazione di averlo trovato.

Qualcuno bussò. I due si separarono lentamente, consci che qualcosa fosse accaduto, per entrambi.

« Sono Aurora. »

Shine si alzò e andò ad aprire la porta. Aurora portava un carrello dove aveva sistemato cinque vassoi diversi.

« Menù del lottatore » disse, porgendole il vassoio con sopra appoggiato dello stufato di carne e delle verdure. Shine si rese conto che nessuna di loro aveva ancora capito cosa fosse Eoden, né erano al corrente di cosa fosse lei.

« Grazie » disse e stava per richiudere la porta quando Aurora le domandò: « Come sta andando lì dentro? Hai le guance tutte rosse. »

« Tutto a posto » rispose Shine sbrigativa e richiuse la porta. Prima di tornare nel bagno sospirò. Quando aprì la porta vide che Eoden osservava con curiosità il rasoio elettrico, azionandolo e spegnendolo a intermittenza.

« Questo strumento emette uno strano suono » esclamò lui, quando la vide.

« Non temere, non è d'argento e nemmeno feroce » disse Shine. « E a breve lo userò su di te. »

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Capitolo 11
*** 11. ***


« Maga dell'Aria? »

Zaira si era accontentata di una doccia sbrigativa e ora sedeva davanti allo specchio, intenta a pettinarsi e accorciarsi i capelli rossi, identici nel colore e persino nella consistenza a quelli di Felicity, la quale aveva deciso di cogliere quel momento per esternare la propria curiosità.

« E' una cosa che mi disse mia madre, quando ero bambina » rispose Zaira, tagliando via una lunga ciocca che si arricciò e cadde sul pavimento liscio con un fruscio.

« E pensi siamo noi, quelle maghe? » Se Felicity non avesse visto quello che aveva visto, avrebbe preso tutta la questione come un enorme scherzo. Maga dell'Aria? Che idiozia. Era tutto sbagliato: il contesto, il modo, persino l'età. Felicity e le altre erano troppo vecchie per scoprire di essere qualcosa più che sé stesse.

"Sei un mago, Harry." Questo andava bene solo quando avevi undici anni.

« Mi sembra palese. La descrizione corrisponde. » Zaira guardò il riflesso della ragazza nello specchio, domandandosi come fosse possibile che il fato avesse creato un essere umano identico a lei. Era un fatto troppo inconsueto per non avere una motivazione precisa. E in ogni caso, era irritante vedere due sé agire, pensare e parlare in modo diverso.

« Quindi io sarei la maga dell'Aria perché sono francese, giusto? » domandò Felicity incrociando le braccia al petto. « Aurora quella dell'Acqua per via del suo nome. E le altre due? »

« Il fuoco è la ragazza con i capelli neri » disse Zaira, passando a sfoltire l'altra metà della lunga chioma.

« Shine? » disse Felicity. « La bestia più bella? Che significa? »

« Oh » esclamò Zaira, sorridendo come qualcuno che pregusta una prossima reazione esplosiva. « Non l'avete ancora capito. »

« Cosa… »

In quel momento, Aurora bussò alla porta e consegnò a Felicity il vassoio con il cibo per Zaira. La ragazza lo prese titubante. Aveva la mente piena delle parole della sua gemella di due secoli prima, parole che in qualche modo stavano trovando la loro strada e iniziavano a sedimentare. Doveva assolutamente saperne di più.

« Grazie, ci aggiorniamo dopo » disse e chiuse la porta in faccia ad Aurora, dopo di che appoggiò il vassoio sulla scrivania accanto al letto e tornò nel bagno.

« Cosa intendevi dire, poco fa? » chiese.

« E' probabile che in questa epoca siate diventati tutti ciechi, perché è così palese che l'ho capito senza nemmeno riuscire a vederla. »

« Senti » sbottò Felicity, che si infastidiva difficilmente e si arrabbiava ancora meno, ma che proprio non sopportava l'arroganza. « E' perfettamente inutile che ti comporti così. In quest'epoca non succede mai nulla, non esiste la magia non esistono pericoli inspiegabili. Non dovreste esistere nemmeno voi, eppure dopo due secoli comparite dal nulla, vivi e in forze. Questo è già abbastanza per me. Quindi ti prego, illuminami tu, perché ancora non sono in grado di vedere. »

Zaira sospirò, come se le parole di Felicity fossero la noiosa predica ripetuta mille volte da una madre apprensiva. « Ci sono stati omicidi, in questo posto, ultimamente? Omicidi brutali? »

« Sì » rispose Felicity. L'ultimo era avvenuto non molto lontano da casa sua e per giorni i suoi genitori le avevano impedito di uscire di casa la sera, come se i giornali non avessero insistito ampiamente sul fatto che il colpevole entrava nelle case come una furia, divelgendo le porte e gli scuri dai cardini, sforndando le finestre, piegando le grate.

« Il colpevole è Eoden » disse Zaira, sistemandosi sullo sgabello con un movimento che denotava un certo compiacimento nell'aver svelato quell'informazione. « Duecento anni fa fu tramutato in un licantropo, un lupo mannaro. Quando è riuscito a liberarsi deve aver iniziato a sfogare la sua rabbia e la fame che ha covato per tutto questo tempo. E la vostra amica dev'essere stato un incidente di percorso. Oppure è stato perché è piuttosto bella. Lui ha sempre avuto un debole per i bei visetti. »

Felicity rimase interdetta. Le parole di Zaira le sbatterono contro violente e incomprensibili.

« Ti prendi gioco di me? »

« A che pro? » rispose Zaira, che aveva ormai terminato di accorciarsi i capelli e ora sembrava più che mai identica a Felicity. « E' bene che sappiate con chi avete a che fare, non trovi? »

Felicity inspirò a fondo, cercando di calmarsi. Sentiva la tensione crescere e dipanarsi dallo stomaco alle mani, che formicolavano e dolevano.

« Dunque lei è il fuoco. Giorgia dev'essere la terra. Suo padre è… un architetto e sua madre… non so, cosa faccia sua madre. »

« Gli architetti non sono più considerati degli artisti? »

« Non proprio. »

Zaira emise uno sbuffo divertito, come se si sentisse moralmente superiore a chiunque vivesse in quella nuova epoca.

« E cosa significherebbe essere la maga dell'Aria? A cosa servirebbe? » continuò Felicity.

« Significherebbe che hai capacità legate a questo elemento. »

« Ah, sì. Sicuro. Infatti mi sposto volando e creo tempeste. Ma per piacere! »

Zaira si alzò dallo sgabello e si spazzò via di dosso le ciocche rimaste appiccicate all'accappatoio. Dopo di che, scavalcò il cumulo dei suoi capelli e uscì dal bagno sorpassando Felicity.

« Oh, accidenti! Frutta e dolci solo per me! Dopotutto non è così male quest'epoca » la sentì squittire.

Felicity rimase nel bagno, dove l'aria era calda e satura del profumo dello shampoo e del bagnoschiuma. C'era qualcosa che si agitava dentro di lei, un ricordo molto sbiadito, di quelli che non sai se sono veri ricordi o pura immaginazione.

Capacità legate all'aria, pensò mentre vedeva il viso cianotico di una bambina che annaspava cercando di respirare. Nel ricordo c'erano urla e pianti. Ma chi era quella bambina? Non aveva i capelli rossi.

Una fitta dolorosa allo stomaco la piegò in due come se avesse appena ricevuto un pugno, ma la fece anche distrarre da quella tremenda visione.


Florian uscì dalla doccia con addosso un'aria decisamente divertita e soddisfatta. Dei nuovi arrivati era l'unico ad aver conservato un aspetto dignitoso, per cui nel suo caso la trasformazione non fu particolarmente significativa. Johanna invece, con i capelli raccolti sulla nuca e il viso scoperto aveva assunto le sembianze di un quadro preraffaelita.

I due fratelli mangiarono di gusto sotto lo sguardo vigile di Giorgia, che parlo poco o niente per tutto il tempo, preferendo osservarli e riflettere.

« Siete sempre così silenziosa, Gin… come avete detto che vi chiamate? » disse d'un tratto Johanna.

« Non l'ho detto. Mi chiamo Giorgia. »

« Georgia? » ripeté la ragazza, storpiando la pronuncia del nome come tutti avevano fatto da quando aveva messo piede in Inghilterra. Tutti tranne Florian, che doveva essersi abituato a sentirlo pronunciare.

« E' lo stesso. »

« Il tuo aspetto mi ricorda quello di una giovane che conoscevo » proseguì Johanna, lanciando uno sguardo tutt'altro che velato a Florian.

« Spero fosse una brava persona » mormorò Giorgia.

« Molto brava, molto amata da noi tutti. » Il suo sguardo, rivolto verso Florian, era così eloquente che delle gomitate amichevoli sarebbero passate più inosservate.

Giorgia si sentì in imbarazzo. Florian teneva lo sguardo basso mentre mangiava.

« Dunque, Giorgia » riprese Johanna. « Posso sapere qual è la professione di tuo padre e, se i tempi sono evoluti quanto penso, anche di tua madre? »

Quella strana domanda lasciò Giorgia perplessa. « Mio padre è architetto, mia madre una fotografa free-lance e anche un po' illustratrice. »

Johanna sbatté le palpebre. « Fotografa free-lance? » ripeté.  

Giorgia si rese conto che la ragazza non aveva idea di cosa lei stesse parlando. « Oh, è più facile mostrarvi cosa intendo piuttosto che spiegarvelo. »

Anche lei si era adattata ad usare il voi piuttosto che il tu.

« Ma illustrare è una mansione artistica » continuò Johanna.

« Direi di sì. »

« Oh, bene » disse lei, sorridendo con le labbra ma non con gli occhi. « Allora tu devi essere la maga di Terra. »

« Io cosa? »

Mentre si trovavano nella chiesa, Giorgia aveva a malapena sentito le parole di Zaira, quindi si sentì spiazzata e confusa. La prendeva forse in giro? Quelle cose non esistevano.

« Zaira lo ripete da secoli. La maga di Terra è figlia d'artista. In più, Florian ha scelto voi come padrone non a caso, non è vero? » disse Johanna rivolta al fratello, che finalmente alzò lo sguardo e fece un cenno d'assenso.

« Quindi di sicuro c'è qualcosa in te. Dimmi, hai ricordi particolari legati alla terra? » continuò Johanna.

A quelle parole, la stanza intorno a loro sembrò farsi più scura, come se qualcuno avesse abbassato la luminosità dei faretti led che illuminavano l'ambiente. Certo che aveva dei ricordi legati alla terra, ma non ne era felice. Quei ricordi le erano costati molta sofferenza. Ora che Johanna li aveva rievocati, li sentiva premere nella testa, dietro gli occhi. Vide il prato, lei e suo cugino che ci si rotolavano ridendo. Sentì il fruscio dell'erba scossa dal vento e il tonfo sordo del ragazzino che piombava in una macchia d'erba alta. Vide quella stupida cavalletta che saltava e le si aggrappava ai capelli con le sue zampe arcuate, sentiva la sensazione del solido esoscheletro dell'animale che le pesava sopra l'orecchio. Era terrorizzata. Alle sue urla si erano aggiunte altre urla, diverse, di dolore. Qualcuno era accorso, l'avevano liberata dalla cavalletta… ma di liberare suo cugino dalla stretta dell'erba alta non c'era stato verso. Era morto soffocato, strangolato da innocui fili d'erba. Giorgia non aveva mai più voluto avere a che fare con le piante, detestava i fiori, i prati e l'unica forma vegetale che riusciva a tollerare erano gli alberi che svolgevano la funzione di decoro urbano.

« Penso proprio di sì » mormorò la voce di Johanna, da qualche parte in lontananza.

In quel momento, la porta della camera venne aperta ed entrò Aurora, che dopo aver portato cibo per tutti aveva anche scovato degli abiti per chi non ne era provvisto.

Consegnò dei fagotti a Florian e Johanna. Quest'ultima si alzò e tornò nel bagno per cambiarsi.

« Lei cosa sarebbe? » domandò Giorgia, indicando Aurora con il pollice.

« Acqua » rispose Florian.

Aurora guardò entrambi con aria interrogativa. « Prego? »

La porta si aprì nuovamente e nella stanza entrarono Shine e la versione trasfigurata di Eoden.

Eccolo, il ragazzo del ritratto, penso Giorgia. Shine gli aveva tagliato i capelli e la barba, che ora più che coprirlo sembravano esaltare i tratti del suo volto. Aurora aveva trovato per lui degli abiti lasciati da qualcuno degli amanti di Barbara; tshirt, jeans, scarpe, maglione, tutto era nero.

Giorgia indicò Shine senza dire una parola e Florian rispose: « Fuoco. »

« Eoden me l'ha spiegato » esclamò Shine. « E sì, ho dei ricordi legati al fuoco. Ho mandato in fiamme la mia scuola di danza. Avevo sei anni. »

Ne parlava come se nulla fosse.

« Scusa? » esclamò Aurora alle sue spalle.

« Hai capito bene » ribatté Shine. « Nessuno ha mai creduto fosse colpa mia ma io l'ho sempre saputo. »

Aurora si guardò intorno, strinse le labbra e mormorò: « Non so cosa credere. »

« Credi a quello che sai, a quello che senti » rispose Florian. « C'è qualcosa legato all'acqua, nel tuo passato? »

« No, non c'è! » esclamò Aurora.

Non aveva intenzione di farsi prendere in giro in quel modo. Certo, aveva visto, per così dire, accadere un miracolo, una magia, ma credere di poterne essere parte andava al di là di ciò che poteva accettare.

« Riflettici » le suggerì Eoden.

Aurora sembrò vederlo per la prima volta. Per un attimo rimase senza parole, arrossì, poi abbassò lo sguardo e fece come lui le aveva suggerito. Rifletté. Non aveva alcun ricordo legato all'acqua, tranne la paura che provava quando accompagnava suo padre o sua madre a Londra e si trovavano a passare sopra un ponte. Le acque verdi del Tamigi la repellevano e insisteva per camminare sempre dal lato interno.

No, l'acqua non le piaceva. Non sapeva nuotare, non aveva mai fatto una vancanza al mare e si sentiva inquieta alla sola vista di una foto il cui soggetto fossero le acque nere dell'oceano. Al bagno preferiva la doccia, ai fiumi i torrentelli di montagna, il sole alla pioggia e le pozzanghere ai laghi.

« Non mi viene in mente nulla, solo che odio le grandi portate d'acqua. Mi spaventano » disse infine.

« E' già qualcosa » rispose Florian.

 

La porta si aprì per l'ennesima volta. Sulla soglia comparvero Zaira e Felicity, identiche fino all'inverosimile.

Zaira sgusciò all'interno della stanza con l'aria di chi si è perfettamente ambientato e corse a sedersi accanto a Florian, che l'accolse freddamente.

« Shine! » esclamò invece Felicity, puntando la ragazza. « Shine, quando pensavi di dircelo? Quando pensavate di dircelo tutti quanti! » aggiunse, indicando tutti i presenti con un ampio gesto.

« Feli… » iniziò Shine, ma Felicity la interruppe: « Un licantropo! » esclamò. « Sei un lupo mannaro! Oddio, mi sento così stupida a dire una cosa del genere ma… come hai potuto non dircelo subito? »

« E tu » continuò puntando gli occhi azzurri su Eoden. « Cosa ti è saltato in mente? »

« E voi! » esclamò rivolgendosi poi a Florian e Johanna. « Una banshee? Un mago? »

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Capitolo 12
*** 12. ***


« Zaira, sempre troppo impaziente » fu l'unico commento di Florian, che si voltò lentamente verso la ragazza e la squadrò con occhi severi.

« E voi siete sempre così misteriosi » sbottò lei storgendo il naso. « Cosa ci sarà mai da fare mistero? Credo piuttosto che dovremmo mettere in chiaro le cose, anche perché stiamo per chiedere loro di aiutarci, no? » Poi puntò lo sguardo chiaro e pungente verso Shine e aggiunse: « Tu non sei affatto sconvolta vero, Shine? »

Shine non rispose ma i suoi occhi azzurri, di una tonalità più corposa, meno eterea rispetto a quelli di Zaira, si incupirono.

« Io ho una proposta » si intromise Aurora. « Che ne dite di riposare qualche ora e riprendere questa conversazione quando saremo tutti più lucidi? Per questa notte credo di aver sopportato abbastanza. Ho bisogno di dormire e dalle vostre facce suppongo che anche per voi valga lo stesso. »

La proposta della ragazza venne accolta quasi all'unisono. Florian e Eoden non si dimostrarono particolarmente entusiasti all'idea di riposare.

« Posso aiutarti io » sussurrò Zaira all'orecchio di Florian, sperando di non essere udita ma in effetti parlando a voce piuttosto alta. La sua piccola mano scivolò veloce lungo il collo del ragazzo e poi sulla guancia. Lo attirò a sé e gli diede un bacio sulla guancia, il bacio sulla guancia più lascivo che le ragazze avessero mai visto. Felicity sentì lo stomaco contorcersi nel vedere quella copia di sé stessa provarci in quel modo con Florian. Era come se lo stesse facendo lei stessa.

Fu Johanna a risolvere il problema. Prese la ragazza a braccetto e la condusse nella stanza adiacente. Zaira tentò di protestare, ma Johanna mantenne la presa e la fulminò con lo sguardo rendendola istantaneamente più docile.

Florian rimase così solo e libero dalle attenzioni della ragazza, che sembrava non gradire. Eoden tornò nella stanza di fronte. Le ragazze lo videro afferrare il braccio di Shine. Lei si avvicinò, gli sussurrò qualcosa e subito dopo seguì le altre lungo il corridoio.

 

« Dunque… maghe? » disse Aurora, appena si furono sistemate in camera sua. Lei e la sorella condividevano una delle due suite in cima all'hotel, l'altra era dei loro genitori. Aurora aveva spiegato che i due appartamenti erano in origine un unico spazio ma che i suoi genitori avevano deciso di dare più privacy alle proprie figlie e di guadagnarne così a loro volta. In quel momento, sua sorella Barbara non era in casa e di conseguenza erano completamente sole.

« Ora che quei quattro non ci sono, la cosa mi sembra ancora più inverosimile » commentò Felicity.

« A me no. » Shine si sedette compostamente sul divano.

« Già » fece Felicity. « Ti andrebbe di spiegarci cos'è successo? »

Shine raccontò tutto, dal giorno dell'aggressione alla febbre alla guarigione repentina alla nottata passata all'aperto ai sensi acuiti.

« Oh cielo » esclamò Felicity.

« La luna piena è passata da poco. Ora come ti senti? Voglio dire… senti anche qualcos'altro di… lupesco? » domandò Aurora, sistemando delle brandine da campeggio che aveva estratto da un ripostiglio.

« Quasi niente, per ora » rispose Shine. « Tranne un forte senso di… orgoglio, fierezza. Temo che andrà peggiorando. Tuttavia, se volete una prova, posso fornirvela: dentro quello sgabuzzino tenete una scatola piena di tempere e pastelli a cera. E' così? »

Aurora sgranò gli occhi blu, Shine continuò: « Nel frigo ci sono uova, bacon, formaggio italiano, vino, birra… »

Avrebbe continuato l'elenco, ma Aurora la fermò. « D'accordo, d'accordo » esclamò. « Ti credo. »

« Maghe degli elementi. » La voce di Giorgia sembrò levarsi dal nulla. Per tutto il tempo era rimasta così silenziosa e in disparte che le altre tre si erano quasi dimenticate di lei. « Hanno detto che siamo questo. Ha un senso, secondo voi? Perché io ho ricordato una cosa che non volevo ricordare mai più e se questo è quello che posso fare, beh, non voglio farlo. »

« Di cosa parli? » domandò Shine, la più vicina a Giorgia.

Giorgia raccontò l'episodio della morte di suo cugino. Vide le ragazze rabbuiarsi, in particolare Felicity, la quale inspirò profondamente e disse: « Io soffocai una ragazzina. » Sembrò rabbrividire, poi aggiunse: « Ero piccola, molto piccola. Quella ragazzina strillava e dava fastidio a tutti. Mi tirò i capelli, strappandone una ciocca. Io urlai di dolore, lei urlò altrettanto e io desiderai farle del male e poi che smettesse di urlare. In un attimo, era diventata blu. E' morta soffocata. »

« Io da bambina facevo danza » disse Shine. « Un giorno, la maestra mi fece arrabbiare incredibilmente ma non ricordo per quale motivo. Quello stesso giorno dovemmo fuggire fuori dalla palestra perché era scoppiato un incendio che divorò l'intera struttura, provocando ustioni a tre ragazzine e a quella stessa insegnante. Ero convinta di essere stata io e lungo tempo. Ora lo sono di nuovo. »

« A me invece l'acqua fa semplicemente molta paura » disse Aurora « ma ora sono troppo stanca per proseguire. I vostri letti sono pronti. Ci risentiamo per l'ora di pranzo. » Poi si alzò si chiuse nella propria camera senza voltarsi indietro.

 

Nonostante le vicissitudini della serata, non appena si distesero sulle brandine (su cui Aurora aveva sistemato dei sottili materassi, lenzuola e coperte) scoprirono di essere terribilmente stanche e si abbandonarono al sonno nel giro di qualche minuto.

Shine sognò di avere la pelle di lupo e di correre sotto la luna, libera e senza paura: non puoi essere spaventato quando sei tu stesso la creatura più pericolosa nei dintorni. Sognò di inoltrarsi in un bosco, sempre più all'interno, dove gli alberi si chiudevano uno sull'altro e il sottobosco era fitto e impediva di avanzare velocemente. I rami più bassi si fecero più invadenti, protendendosi come artigli, graffiandole la pelle, strappandole la pelliccia. Ogni graffio ne strappava via una striscia. Shine continuò ad avanzare e i rami continuarono a farsi più fitti. Quando la ragazza riuscì ad oltrepassare quella barriera, non aveva più la pelliccia addosso, era tornata sé stessa. Poco lontano, vide Eoden. La stava aspettando. Gli si avvicinò e nonostante entrambi fossero completamente nudi non provò alcun imbarazzo. Lo raggiunse e allungò le braccia verso di lui allacciandogliele al collo. Si premette contro di lui e le sembrò di sentire davvero il calore della pelle del ragazzo sulla sua.

Si sollevò sulle punte dei piedi e lo baciò con un impeto, gli morse le labbra, poi sentì le mandi di Eoden scenderle lungo la schiena, le natiche e le cosce. D'un tratto la strinse e la sollevò per poi inginocchiarsi a terra e stendersi sopra di lei.

A quel punto, Shine si svegliò. Era sudata, eccitata e si sentiva le guance in fiamme. L'attrazione che provava per quel ragazzo aveva qualcosa di ridicolo nel suo essere così irrazionale e allo stesso tempo schiacciante. Non lo conosceva, era un mostro, eppure sapeva di volerlo, di desiderarlo profondamente. Quella sensazione era del tutto nuova per lei: di ammiratori ne aveva avuti a frotte, ma in quanto a concedersi a qualcuno, quella era una cosa diversa. Shine era selettiva, tanto che si era guadagnata la fama della spocchiosa che si credeva "di avera d'oro", come dicevano alcune ragazze di sua conoscenza; ma la verità era che detestava l'idea di concedersi a qualcuno solo per passare il tempo.

Il cielo fuori era azzurro, il sole era già sorto da un pezzo. Guardò l'orologio: erano le nove e mezzo. Aveva dormito solo quattro ore.

Si girò verso Giorgia e Felicity, entrambe ancora profondamente addormentate e si chiese se anche loro facessero bei sogni o se fossero tormentate dagli incubi sulle morti di cui avevano raccontato. Fu solo in quel momento che si rese conto che anche lei, con tutta probabilità, sarebbe stata causa di morte ma il pensiero non riuscì a turbarla come avrebbe dovuto.

 

I sogni di Felicity furono confusi ma non particolarmente oscuri e se ne andarono dalla sua mente nell'istante stesso in cui aprì gli occhi. Tuttavia, poco prima di svegliarsi, quel turbinio di immagini sembrava aver preso una direzione. Aveva visto sé stessa seduta sulla balaustra di un balcone, sullo sfondo una notte stellata e fresca. Lei indossava un mantello. D'un tratto, qualcuno era entrato nel sogno, un uomo dai capelli neri che indossava a sua volta un pesante mantello col cappuccio. Felicity aveva sorriso allo sconosciuto, il quale aveva estratto un oggetto da sotto le falde del mantello e glie lo aveva porto: un computer portatile.

Quando si sollevò dalla brandina, notò che a differenza del solito non era la prima ad essersi svegliata. Shine aveva già preparato un brunch per tutte.

Si voltò verso Giorgia e la scosse dolcemente. La ragazza aprì gli occhi a fatica; erano rossi per il poco sonno e per contrasto le iridi sembravano ancora più verdi.

« Buongiorno » le disse. « Dormito bene? »

« Ho sognato di essere una serva » rispose lei, sollevandosi a stento a sedere. « Una serva che serviva té alle erbe ai fratelli Reed. »

« Beh, io ho sognato di annegare. Ho vinto il premio per l'incubo peggiore, spero » si intromise Aurora, uscendo dalla propria camera sbadigliando, con addosso un pigiama blu dall'aria vetusta.

« Penso di sì » disse Felicity. « Io ero con uno sconosciuto incappucciato che mi offriva un portatile. »

« Bizzarro. E tu, Shine? » disse Aurora, prendendo dal frigo una bottiglia di succo di frutta.

« Io lo facevo con Eoden Reed, in un bosco, di notte » rispose Shine con molta più naturalezza di quanto non si sarebbe aspettata. « Anzi, abbiamo solo iniziato perché poi mi sono svegliata. »

Mangiarono poco, perché nessuna di loro aveva molta fame, e dopo essersi rassettate al meglio scesero al decimo piano per controllare in che stato versassero i loro ospiti.

Tutti dormivano ancora profondamente tranne Eoden, che quando entrarono nella sua stanza era intento a fare flessioni, indossando soltanto i boxer che Aurora aveva in qualche modo recuperato.

« Già sveglio? » trillò Felicity, spingendo avanti Shine, che riservò al ragazzo uno dei suoi migliori sorrisi.

« Non dormo quasi mai. Non ci riesco » rispose lui.

Il suo corpo scolpito fece arrossire tutte le ragazze, anche se nessuna volle darlo a vedere, premurandosi di dissimulare l'imbarazzo come meglio poterono.

« Bene, allora intanto lo diciamo a te. Shine, Giorgia e Felicity tornano a casa per qualche ora. Questo pomeriggio andremo tutti a fare una passeggiata a Ebury Park, d'accordo? Così parleremo con tranquillità e in quasi totale solitudine » disse Aurora.

« Mi sembra un'ottima idea » rispose Eoden. « Che Ebury Park sia. »

Mentre le ragazze uscivano dalla stanza il suo sguardo catturò quello di Shine e non lo lasciò andare fino a che lei non fu fuori dal suo campo visivo.


Mentre tornavano a casa, Felicity non smise un secondo di parlare di quanto era accaduto. Sembrava che le ore di sonno le avessero infuso nuove energie e che avesse trovato mille nuovi punti su cui fare chiarezza.

« Per esempio » disse. « Dev'esserci per forza un motivo per cui tutte, più o meno, abbiamo subito un'esperienza simile. Dev'esserci, non lo so, un collegamento. »

« L'unico collegamento tra noi, prima d'ora, è che tutte avevamo un gatto » osservò Giorgia.

Felicity si zittì e sgranò gli occhi, poi si voltò verso la ragazza con in viso la stessa espressione di chi ha appena scoperto il senso della vita: « Hai sempre avuto la tua gatta, sin da quando riesci a ricordare? » chiese.

« No. La trovai quando avevo sei o sette anni » rispose Giorgia, intuendo dove Felicity volesse andare a parare.

« E quanti anni avevi quando successe quella cosa a tuo cugino? »

« Sei o sette anni. »

Felicity batté il pugno destro sul palmo della mano sinistra. « Ah! » esclamò. « Lo stesso è accaduto per me. Trovai Absinthe poco prima di compiere sei anni e qualche mese dopo avvenne l'incidente. »

« Quindi… secondo te sono stati i gatti, o per meglio dire Florian Reed, a conferirci dei poteri mortiferi che non abbiamo manifestato mai più? » osservò Giorgia.

« Questo lo verificheremo oggi pomeriggio. »

Si separarono davanti a Villa Reed. Ora, entrare in quella casa aveva tutt'altro sapore. Dopo quello che era successo, Giorgia non riusciva più a vedere la villa come la propria casa ma come un'entità viva, un po' come la raccontavano le leggende che circolavano nel quartiere. Quante cose erano successe, quanti misteri, quanti orrori, quanti amori? Giorgia aveva la testa piena di domande. Per un attimo, tornò indietro di qualche ora, a quando avevano condotto il ragazzo che si professava Florian Reed dentro la casa. Si era guardato intorno certo, ma aveva più l'aria di chi torna a casa propria dopo lungo tempo e la trova stravolto piuttosto che quella di qualcuno che entra per la prima volta in un edificio.

Una cosa simile non avrebbe dovuto essere possibile, le persone non tornavano dal nulla dopo duecento anni. Una parte di lei ancora non credeva di aver trovato due donne che erano rimaste imprigionate in un sotterraneo per due secoli e che queste donne fossero uscite di lì perfettamente in forze; non credeva che il ragazzo che aveva visto combattere su un ring illegale fosse un lupo mannaro, così come non credeva lo fosse Shine; e non credeva che Florian Reed fosse stato in qualche modo "diviso" e disperso, chiuso nel corpo di quattro gatti.

"Un oggetto nascosto è un mistero, uno rotto è spazzatura" aveva detto lui. Dal suo tono di voce sembrava che parlasse di un dispetto, come se il responsabile di quanto gli era accaduto (il loro padre, se non ricordava male) avesse voluto vendicarsi su di lui in special modo, o burlarsi.

Si sedette sul divano e di nuovo il sonno la colse. Sua madre venne ad accoglierla ma prima di poter rispondere Giorgia si era già addormentata.

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Capitolo 13
*** 13. ***


La vide passare di fronte a casa sua mentre si trovava sul retro, a riparare la sua vecchia bicicletta. Fece di corsa il giro della casa e la chiamò poco prima che lei oltrepassasse il suo giardino.

« Oh, ciao Lance » disse lei. Era vestita di nero e a lui piacque, perché nero e rosso erano i suoi colori preferiti.

« Ciao, tutto bene? »

« Ma certo. Tu? »

Era sempre così gentile e sorridente. Lance apprezzava questo aspetto di lei così come tutto il resto.

« Io non riesco a venire a patti con il francese » rispose, allargando le mani con aria sconfitta. Aveva le dita sporche di nero. « Non posso più confidare nella magnanimità di Madame Rochelle. Ho bisogno di un aiuto. »

« D'accordo » rispose lei sorridendo. « Oggi sono impegnata, ma possiamo iniziare già domani. »

« Oh sì, te ne prego » esclamò lui, felice di vedere una luce ergersi al suo orizzonte: avrebbe imparato il francese, imprimendo una svolta positiva alla propria media, e avrebbe passato del tempo con lei. Non poteva chiedere di meglio.

« Non ho mai conosciuto qualcuno così ansioso di ricevere delle ripetizioni » ridacchiò lei.

« Ci tengo molto alla mia media » rispose lui.

« Sei saggio » rispose lei. « Va bene alle cinque? »

« E' perfetto. Il mio cervello comincia a lavorare più o meno a quell'ora. Potresti addirittura trovarmi attento e interessato. »

« Oh, sei uno che va a letto tardi, eh? »

« Sì » rispose Lance grattandosi la testa imbarazzato. « Una tendenza un po' controproducente. »

« Oh, beh, ognuno ha i propri ritmi. »  

Scambiarono ancora qualche convenevole, dopo di che si separarono. Lance osservò Felicity raggiungere il proprio cancello, dopo di che tornò in casa. In bagno lavò via il grasso nero dalle mani, poi salì al primo piano, dove si trovavano le camere da letto. Entrò nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Il portatile era appoggiato sul letto; lo prese e si mise alla scrivania.

Mentre il computer si avviava, Lance incrociò le braccia dietro la testa e sospirò: no, Felicity non era Zaira. Era molto meglio di lei.

Il pc si accese, Lance aprì il browser internet e aprì il proprio blog. Scorse la statistica delle visite, dopo di che aprì lo strumento di scrittura e iniziò un nuovo post: I QUATTRO ELEMENTI NELLA MAGIA.

 

Ebury park si trovava a tre chilometri dal loro quartiere. D'estate ci andavano le famigliole e i fidanzatini a passeggiare intorno a laghetto, ma in quella stagione ci si trovava al massimo dei corridori irriducibili, qualche ciclista e una minima dose di passeggianti. Pertanto, ci si addentrarono praticamente indisturbati.

« Ebury park » disse Florian, come se trovasse buffo il suono di quelle parole. « Prima questo posto era nostro. »

« Già » continuò Johanna, con gli occhi arrossati come se stesse per mettersi a piangere ma un sorriso eloquente stampato in faccia. « Ci venivo con quel garzone, Peter. » Si guardò intorno e sospirò. « Qui dopotutto non è cambiato molto. »

No, non era cambiato molto ma valeva solo per quel lato della visuale. Se si fosse voltata, avrebbe visto in lontananza un agglomerato di palazzi e villette di recentissima costruzione.

Le ragazze seguivano i quattro visitatori dal passato a debita distanza, ognuna persa nella propria versione di un unico pensiero: cosa dovrebbe succedere, ora?

 Zaira procedeva in testa al gruppo, risoluta come un comandante che guidi il proprio esercito. Si inoltrarono nella macchia d'alberi che circondava il laghetto e la oltrepassarono, fino a trovarsi sulle rive sassose dello specchio d'acqua. Imboccarono il sentiero che partiva alla loro sinistra e si inerpicava sul terreno irregolare proseguendo per tutto il perimetro del laghetto, fino a incontrare due grossi massi che sporgevano dal terreno, uno accanto all'altro, formando una V nel mezzo. I ragazzi li chiamano "le tette", ma questo nessuno lo disse.

Il naso di Shine, captò immediatamente qualcosa che non avrebbe saputo distinguere, qualcosa di simile a una variazione minima dell'odore che impregnava quel luogo, fatto di corteccia, acqua, roccia, alghe e smog proveniente dalla città.

Zaira si sfregò le mani, ghignando mentre appoggiava i palmi sulla superfice dei due massi. Un attimo dopo, le ragazze percepirono un fremito percorrere il loro corpo dai piedi fino alla testa, i capelli sulle loro nuche si drizzarono come il pelo di un gatto infuriato. Era successo qualcosa. Zaira si inchinò davanti a loro, facendo un affettato cenno nella direzione dell'apertura tra le due rocce. Florian fu il primo ad attraversarla e non appena mise piede al di là… sparì.

Johanna lo seguì e così fece Eoden. Le quattro ragazze, invece, si sentivano incapaci di muovere un muscolo.

« Desiderate rimanere qui? » chiese Zaira. « Oppure volete seguirci e capire cosa sta succedendo? »

Shine fu la prima a uscire dal torpore. Titubante mise un piede al di là dell'apertura a V e sentì nuovamente il pizzicore di poco prima attraversarle la gamba e irradiarsi in tutto il corpo. Prese un bel respiro e si spinse completamente oltre. Con suo sommo stupore si ritrovò all'interno di una radura che in quel bosco non era mai esistita. Tutto intorno allo spiazzo d'erba erano stati sistemate delle pietre bianche e lisce, che riportavano incise quelle che sembravano essere delle rune. Oltre al perimetro di pietre, gli alberi erano fitti e scuri, molto più fitti che nel bosco in cui si trovavano fino a qualche istante prima. La radura, invece, era invasa di fiorellini blu e rossi dai colori così vividi da sembrare finti.

Aurora fu la seconda a comparire e andò a sbattere contro la schiena di Shine. Felicity la seguì ed infine passò Giorgia. L'ultima ad entrare fu Zaira.

« Dove siamo? » domandò Aurora, sedendosi a terra. Quel posto dava una strana sensazione di pace, forse dovuta al perfetto silenzio che lo circondava.

« In uno Squarcio » rispose Zaira, sedendosi a terra accanto a Florian. « Un posto dove potremo parlare in pace senza paura che qualcuno ci possa ascoltare. »

L'unica a sentirsi a disagio in quel luogo di pace sembrava essere Giorgia, a cui i boschi non piacevano affatto. Li trovava opprimenti e inquietanti.

« Cosa sei tu? » domandò Aurora rivolta alla ragazza, ammirata e allo stesso tempo turbata da quanto era accaduto.

« La vostra prima e più importante risorsa » rispose lei, orgogliosa.

« La nostra condanna » borbottò Eoden.

« La ragione della vostra salvezza » si affrettò a correggere lei, alzando sempre di più la voce. « L'unico motivo per cui siete rimasti in vita fino ad ora. »

« Eoden, Zaira ha ragione » disse Florian, calmo e diplomatico come sempre. « Se non fosse stato per lei non avremmo avuto la possibilità di vendicarci. »

« Quindi è questo » si intromise Giorgia e tutti furono stupiti di sentirla parlare. Da quando era iniziata quella storia sembrava aver perso l'uso della parola. « Quello a cui ambite è una vendetta. E' a questo che vi serviamo noi? » Fece una pausa, poi riprese: « Parlate tra voi, vi capite tra voi, ma ancora non ci avete spiegato nulla. Mi avete detto che sono la maga della Terra, ora ditemi anche cosa significa. »

« Significa questo » disse Florian, strappando uno dei fiorellini dal terreno. Era completamente avvizzito. Le ragazze si guardarono intorno: tutti i fiori erano appassiti.

« Avete ragione ad esigere delle spiegazioni » continuò il ragazzo. « Fatemi le vostre domande, dopo di che continueremo a discutere. »

« Perché noi? » domandò immediatamente Felicity. Da ore rimuginava su quelle domande e non voleva lasciarsi sfuggire la possibilità. « E come ci hai trovate? »

« Ho avuto un sacco di tempo per cercare » rispose Florian. « Ma esiste una cosa chiamata Risonanza ed è quella che mi ha condotto proprio da voi, al momento giusto. »

« Risonanza? »

« Creature della stessa natura hanno un legame, come se fosse una traccia lasciata nell'aria, una traccia che risuona quando la incontri. E quando queste creature della medesima natura si incontrano, quest'ultima si moltiplica e accresce. E' come quando incontri un buon amico: la tua personalità non viene schiacciata da alcuna pretesa ed è libera di espandersi. Quella è la Risonanza. Lo stesso è accaduto tra me… e voi. » Florian fece una pausa e si godette l'espressione sconvolta e allo stesso tempo scettica sul volto delle ragazze con cui per tanto tempo aveva vissuto, che conosceva forse più di quanto loro conoscessero sé stesse. « Quando arrivai nelle vostre case il mio potere era debole, ma bastò entrarci in contatto perché tutte voi riusciste a liberare i vostri. Certo, non è stato sufficiente per farvi coltivare quelle capacità, ma potete iniziare a farlo ora. »

Calò il silenzio.

« Sono troppo vecchia per credere a queste cose » mormorò Aurora. « Se non fossi appena passata attraverso quelle pietre vi manderei tutti a quel paese. »

« Come fate a sapere quale elemento ci appartiene? E perchè? » continuò Felicity, decisa a saperne il più possibile.

« Siete state voi stesse a manifestarlo. Il perché non lo conosco, ma evidentemente era scritto nel destino che incontrassi proprio voi e non altri maghi. »

« Mia madre lo aveva previsto » esclamò Zaira, fiera come se fosse stata lei a vedere nel futuro. « Era una veggente. La premonizione sulle maghe degli Elementi fu l'ultima che ebbe prima di morire, le ultime parole che mi disse prima di spirare. Ora che ci penso, suppongo fossero il suo ultimo tentativo di mettermi in guardia, o forse di aiutarmi. »

« Aiutarti? » domandò Felicity, ma fu Johanna a rispondere. « Cosa sapete della nostra storia? » chiese.

Fu Giorgia a prendere la parola e spiegare loro quello che più o meno tutti sapevano. Quando ebbe terminato, Zaira scoppiò a ridere, i fratelli Reed, invece, divennero pallidi e cupi.

« E' così che è morta nostra madre? Impiccandosi? » domandò Johanna. I suoi occhi neri si riempirono istantanemente di lacrime e dalla sua gola proruppe un lamento sordo, quasi animalesco. Le mani presero a tremargli convulsamente. Rovesciò la testa in avanti, nascose il volto tra le dita ed emise il lamento più straziante che le ragazze avessero mai sentito in vita loro. Quella nota acuta, carica di dolore, sembrò attraversarle e prosciugare via da loro la minima traccia di positività e felicità. In breve, si trovarono a piangere anche loro e senza sapere il perché. La radura era invasa dai singhiozzi di Johanna, che si facevano sempre più inconsulti, tanto da assomigliare ad una folle risata.

« Smettila » singhiozzò a sua volta Aurora. Piangere la infastidiva, piangere faceva colare il trucco e girare la testa, piangere non risolveva niente ed era l'arma degli inermi. Odiava piangere. « Smettila di piangere, piantala. »

In un istante, come se avessero seguito l'ordine della ragazza, le lacrime sul volto di Johanna si seccarono e così quelle di Shine, Felicity e Giorgia. Poco a poco, i singhiozzi si spensero e la radura tornò silenziosa. Quando Johanna sollevò lo sguardo dalle proprie mani, però, quell non aveva nulla di umano. Sulla sua fronte e sulla punta delle sue dita pallide correvano sottili vene verdastre, i capelli le ricadevano scomposti davanti agli occhi e questi ultimi, gonfi e così rossi da sembrare quasi viola, sembravano quelli di uno spirito maligno pronto a divorare la sua preda.

Aurora scattò all'indietro, impaurita. Johanna voltò loro le spalle e si sistemò nuovamente i capelli. Dopo un attimo, torno a guardarle, il volto tornato quello di sempre. « Perdonatemi » mormorò.

 

« Che cos'era? » domandò Aurora, profondamente scossa.

« Quello che sono diventata per volere di mio padre » rispose lei, la voce resa incerta dal pianto recente.

« Diteci cosa vi successe » disse Giorgia, gli occhi fissi su Johanna.

« Fummo vittime della cieca ambizione di nostro padre » disse Florian, passando il braccio attorno alle spalle della sorella.

« Nostro padre era un uomo mediocre e frustrato, roso dall'invidia » si intromise Eoden. « Che per qualche motivo riuscì a sposare nostra madre, che non solo era facoltosa ma anche colta, molto bella ed estremamente gentile e amorevole. Avrebbe avuto tutte le qualità per scacciare il demone di mio padre e invece lo rese più grande e vivido che mai.

« Tuttavia, non aveva mai fatto del male a nessuno se non a sé stesso. Aveva problemi fisici di ogni tipo, era magro, brutto e una compagnia spiacevole se non irritante. Poi un giorno conobbe Mortimer. »

Eoden lanciò a Zaira uno sguardo che avrebbe incenerito un sasso. Lei gli restituì un ghigno beffardo.

« Mio padre » puntualizzò la ragazza.

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