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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Time is running out ***
Capitolo 2: *** Falling away with you ***
Capitolo 3: *** Undisclosed desires ***
Capitolo 4: *** Follow me ***
Capitolo 5: *** Madness ***
Capitolo 6: *** Uprising ***
Capitolo 7: *** Resistance ***
Capitolo 8: *** Butterflies and hurricanes ***
Capitolo 1 *** Time is running out ***
«
Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre
decidiamo che cosa farne »
-
Romano Battaglia –
♟»
Londra,
Gran Bretagna, 1782
Lavora,
lavora, lavora, Joshua. Fa’ in fretta, fa’ prima
che sia troppo tardi …
Nella
bottega nel centro di Londra un abile artigiano lavora alla sua
creazione. Anzi, alla sua ultima creazione.
Undici
orologi
a catena sono già disposti sul suo tavolo da lavoro in
logoro
legno di mogano, impolverato e ricolmo di trucioli delle precedenti
lavorazioni.
Ingranaggi
piccoli ma a dir poco portentosi sono racchiusi in
quell’intreccio di acciaio e vetro, quest’ultimo
inserito a
protezione del prezioso quadrante.
L’ultima
vite è inserita … ed ecco qui che il dodicesimo
è pronto.
L’artigiano
fissa soddisfatto l’esito del proprio operato, sorridendo
appena.
Ancora
non lo
sa, tuttavia con l’alchimia che ha utilizzato per incantare
il
meccanismo dei suoi tanto preziosi orologi ha appena creato uno
strumento per raggiungere l’immortalità.
♟»
Parigi,
Francia, 1778
È una di
quelle giornate in
cui, probabilmente, le persone con un minimo di buonsenso se ne
rimarrebbero in casa, con una tazza fumante di chocolate chaude
davanti.
Non per Ethan.
Lui … lui
ha bisogno di fare qualcosa.
Non può
accettare infatti
che la sua persona possa passare inosservata per più di due
minuti. Non può proprio.
Senza staccare la
schiena dal
tronco dell’albero a cui è appoggiato inizia a
cantare,
note fluide e ben scandite che scivolano via dalle sue labbra,
diffondendosi nell’aria intorno a lui.
Subito i radi passanti
rendono
più lieve il loro passo, rallentando progressivamente nelle
vicinanza di Ethan, fermandosi ad ascoltare le note arrochite in modo
accattivante del giovane.
Forse
perché è
qualcosa di così lontano dal loro ideale:dopotutto, di
lì
a trent’anni apriranno i primi café chantant,
quelle musiche riflessive e le voci profonde che quasi recitano parole
cariche di significato … non c’è da
stupirsi se
quei luoghi fossero il centro d’incontro delle figure di
spicco
parigine nel campo della letteratura e della filosofia in quegli anni.
Ethan si passa una
mano tra i
capelli, sorridendo ammiccante in direzione di alcune ragazze che si
trovano in prima fila, in quel piccolo capannello che si è
riunito intorno a lui per ascoltare la sua musica. Quando le giovani
sospirano sognanti non riesce a fare a meno di sentirsi appagato:adora
essere al centro dell’attenzione, quasi alla stessa stregua
di
quanto ami trovarsi in quel luogo, pieno dell’arte e della
musica
che tanto ama.
Forse quelle persone
sono pure
attratte dal suo aspetto quantomeno singolare per gli ambienti della
Parigi “bene”:le miriadi di orecchini che gli
tartassano
entrambe le orecchie, gli anelli argentei un po’ in stile
gotico
che gli adornano le dita ed i piercing sul labbro inferiore certamente
contribuiscono a renderlo così dissonante
dall’ambiente
nel quale si trova, oltre agli appariscenti vestiti rossi e neri.
Il giovane si rigira
tra due dita
l’orologio che porta al collo … e pensare che,
quando
l’ha trovato, pensava si trattasse di un regalo di una fan
–l’effetto di essere un apprezzato cantante heavy
metal, o
forse un accesso d’ego.
Ora invece, Ethan sa
fin troppo bene che quello che porta al collo è tutto
fuorché un normale orologio.
Altrimenti,
come potrebbe trovarsi in un’epoca antecedente alla sua di
quasi trecento anni?
♟»
Amsterdam,
Paesi Bassi, 2012
Amelia si tortura una
ciocca dei
suoi cortissimi capelli neri come la notte mentre continua a fissare
l’acqua del fiume agitarsi nel canale sotto di lei.
Non
è ancora arrivato.
E
se gli fosse successo qualcosa? E se si fosse fatto male? E se
…
I suoi ben poco
allegri
ragionamenti sono interrotti da due braccia forti che spuntano da
dietro la sua schiena, stringendosi appena attorno al suo collo.
Per un momento Amelia
non riesce a
trattenersi dal sobbalzare, a dir poco presa alla sprovvista da quel
gesto inatteso, tuttavia quando scorge un pacchetto rivestito di carta
verdina e dal profumo ben noto non riesce ad astenersi dal sorridere.
«Sei in
ritardo»apostrofa il proprio fidanzato, sebbene nella sua
voce si
percepisca chiaramente una nota dolce ed indulgente.
Darren fa il giro
della panchina e si siede accanto ad Amelia, scoccandole un bacio dal
sapore dolce sulle labbra.
«Perdonami»s’appresta
a giustificarsi il giovane«è che … come
al solito
in pasticceria c’era una fila immensa …».
«Perdonato~»trilla
lei,
anche solo averlo accanto per quelle che già sa che saranno
poche ore e non di più è un sollievo enorme.
Questo
è
quello che succede se finisci per innamorarti di un ragazzo
appartenente ad un’epoca storica diversa dalla tua, si
ricorda
mestamente.
Sua madre avrebbe
dovuto dirglielo,
quando le aveva consegnato l’Orologio, gelosamente custodito
dalla sua famiglia per intere generazioni.
Darren apre il
pacchetto della pasticceria e da esso sale verso il cielo un odore
dolcissimo:i poffertjes,
dei dolcetti tipici olandesi simili a pancake, sono splendidi, come al
solito.
Mentre gustano quelle
prelibatezze
Amelia non riesce a fare a meno di chiedersi come potrà mai
funzionare:lei non appartiene all’epoca di Darren tanto
quanto
Darren non appartenga alla sua. Non potranno mai stare insieme per
più tempo di quello che gli Orologi concedono loro.
Certo, Amelia
può attraversare il continuum
spazio-temporale ogni volta che vuole e raggiungere Darren per passare
tutto il tempo del mondo, tuttavia non riesce a non pensare che prima o
poi Darren crescerà, andrà avanti.
Lei potrà
tornare da lui ogni volta che lo vorrà, saltellando da una
parte all’altra del tempo … ma ne varrà la pena?
Sospira, facendosi
beccare scioccamente dal ragazzo e rimproverandosi mentalmente per
questo.
«Va tutto
bene?»le chiede subito il ragazzo, apprensivo come al solito.
Amelia cerca di
sorridere mentre
ammette:«Sì, stavo solo pensando … al
tempo che
scorre, inesorabilmente».
Il ragazzo sembra
soppesare per
qualche breve istante le parole della giovane prima di domandarle
nuovamente:«A proposito, quando devi ripartire?».
«Stasera»risponde
perentoria Amelia, mordendosi l’attimo dopo un labbro mentre
i
suoi scuri occhi smeraldini sembrano incupirsi ancor di più.
Darren è
infatti convinto
che la giovane faccia la spola tra Amsterdam –dove Darren
studia
e sta per diplomarsi- e Londra, che gli ha raccontato essere la sua
città natale.
Tutto abbastanza
veritiero, con
l’unica differenza che per vederlo Amelia deve viaggiare
anche
sette anni a ritroso nel tempo.
Il ragazzo sbuffa e
brontola:«Uffa, di già? Ma perché per
una volta non
puoi trattenerti per un po’ di più?».
«Perché
sono in piena sessione di esami, lo sai»replica lei, con aria
pragmatica«tempus
fugit, caro~».
«Che?!»
«È
latino, Darren. Credevo lo studiaste, a scuola!».
Il giovane sbuffa
nuovamente,
sconfortato. Certo che, quando vuole, la sua ragazza sa proprio
mettergli i piedi in testa, eccome.
Amelia invece torna a
fissare l’acqua torbida del canale che scorre placida sotto
di lei.
Come
fa a
spiegargli che, se non può fermarsi per più di
poche ore
con lui, è perché appartiene ad un altro tempo?
♟»
New
York, Stati Uniti d’America, 2120
Dal terrazzo
dell’alto
grattacielo può distinguere nitidamente la punta
dell’Empire State Building, illuminata di luci sfavillanti
nella
notte.
Già, notte.
Come se lì
potesse esserci qualcosa di diverso.
Jude non ricorda come
ci sia
arrivato, vorrebbe tanto saperlo. Un momento prima era addormentato tra
le calde coperte di casa sua e quello dopo … eccolo
lì,
in quella sorta di New York futuristica dove non sorgeva mai il sole.
Si era ritrovato perso
in quel
luogo a lui tanto sconosciuto, tuttavia non aveva avuto nemmeno
qualcuno a cui chiedere informazioni.
Più di otto
milioni di
cittadini newyorkesi … svaniti nel nulla. Scomparsi.
D’improvviso, sembravano essere divenuti evanescenti.
Impossibile.
A Jude ci erano volute
parecchie
ore, trascorse a vagare nella metropoli deserta, prima di realizzare di
non essere affatto a New York.
O meglio, si trovava a
New York … ma non la vera New York.
Non
quella del suo universo.
Quel silenzio a volte
diveniva
assordante … invece lì, in quel momento, mentre
lasciava
dondolare i piedi nel vuoto, comodamente seduto su di una balconata al
duecentesimo piano di un palazzo, lo sguardo perso il direzione
dell’orizzonte, era stranamente confortante.
Serviva per rimettere
le idee in ordine, quando invece quel caos continuava a vorticargli
nella testa da … da …
Da
quanto era lì, esattamente?
Oh, ormai aveva
perfino perso la
cognizione temporale. Niente di strano, in fondo, se si finisce
–proprio malgrado- a vivere in una dimensione fuori dal continuum
spazio-temporale.
Dei passi alle sue
spalle lo fanno scattare sull’attenti, le mani che si
stringono con decisione attorno alla balaustra.
Com’è
possibile che ci sia qualcuno, lì?
Ah,
già. Non è da solo.
Altrimenti dubita
perfino che sarebbe riuscito a trovare un posto dove stare.
Ridicolo, la grande e
potente New York si è ridotta ad avere due soli cittadini.
Una voce profonda e
suadente lo raggiunse alle sue spalle, facendolo sorridere di malcelato
sollievo.
«Jude, non
riesci a dormire?».
*
Aria’s corner *
Chi non muore si
rivede ~
Sorpresa,
sono tornata!
E con una nuova
storia, per giunta … quindi non potete proprio lamentarvi,
signori, no no.
Beh,
d’accordo, forse anche perché volevo farmi
perdonare il fatto che ho
deciso di sospendere per un po’ la precedente long,
ma dettagli.
Ammetto che la trama
di primo
acchito potrebbe non sembrare esattamente chiara, perciò
cercherò di farvene un sunto per aiutarvi:
“Ci
troviamo in un futuro distopico, per l’esattezza nel 2059.
Dodici
ragazzi sono venuti in possesso, chi in un modo chi in un altro, di
alcuni oggetti preziosissimi, gli Orologi. Questi permettono a chi li
possiede di poter viaggiare a loro piacimento nello spazio e nel tempo”
O meglio, questo
è quanto
accade fino a quando una terribile minaccia incombe su di loro
…
ma questa è un’altra storia~
Ovviamente i vostri oc
saranno anche loro detentori di un orologio, don’t worry (?)
Vi dico da subito che
con questa
storia sarò molto più rigida su certi criteri,
non ho
intenzione di far colare a picco tutto un’altra volta.
Prima di passare alla
parte delle
direttive generali & co. ci tenevo a ringraziare la mia lovely
_Myosotis (ciao dear~) per essersi imbarcata con me in questa storia
–ma non solo- giacché Ethan Bailey è il
suo oc.
Amelia Greene è invece il mio personaggio, così
come mi
appartiene il banner che
fa abbastanza schifo, lo so, ma chi s’accontenta gode ♪
Beh, lo so che non ci
si capisce
niente lo stesso e che –uhm- l’80% di voi si
starà
chiedendo che fine abbia fatto Yuuto and so on, però visto
che
sono una persona cattiva non ve lo dico e passo invece a tutte le
informazioni per gli oc e
bla, bla, bla.
- Parto
subito col dirvi che gli aggiornamenti non saranno per niente regolari.
O meglio, per i primi capitoli cercherò di fare del mio
meglio
ma non vi assicuro niente. Signori, il classico è quel che
è.
-
Non so
quando compariranno i vostri oc, non vi assicuro niente manco di
questo. Sarà tutto molto casuale, mi sa.
- Pure
se
in ritardo le iscrizioni si aprono oggi, venerdì 20
novembre, e
si chiuderanno tra una settimana esatta, aka venerdì 27
novembre. Lo stesso vale per l’invio dell’oc. Non
concederò proroghe, sorry, altrimenti il prossimo capitolo
vi
arriva come regalo di natale e giù tutti a lamentarsi.
- Sceglierò
gli oc. Scusate ma non ci casco più :)
- E
oh,
sì:se non chiedo troppo vi pregherei di recensire tutti i
capitoli. Non potete capire il senso di abbandono che si prova quando
ci si ritrova con venti recensioni al prologo e poi, andando avanti coi
capitoli, non ce ne sono manco la metà. Lo so che siete
impegnati, io stessa lo sono in primis, perciò cerchiamo di
venirci incontro a vicenda, uh?
Aria says yes
to:
- Oc
originali;
- Oc
coerenti con la loro nazionalità;
-
Recensioni che non siano il sunto del sunto del sunto- avete
capito;
- Qualsiasi
tipo di relazione;
- Fidanzati
di ie (non Genda, Kidou e Tachimukai, plss).
Aria says no
to:
- Mary
Sue/Gary Stu (ormai ho imparato l’antifona, gente);
- Oc non
coerenti (obv);
- Oc
inviati senza la mia autorizzazione tramite risposta alle recensioni;
-
Oc partecipanti alla mia vecchia long (N.B.:per
“oc”
intendo i personaggi inseriti all’interno della storia, non i
loro proprietari, ergo potete partecipare ma con personaggi nuovi da cima a fondo,
chiaro?);
- Fidanzati
di GO/CS/Galaxy –ciao, sono Capitan Ovvio.
Ordunque, senza
ulteriori indugi,
m’appropinquo a consegnarvi ciò che tutti voi
attendevate
trepidanti … detto con altre parole, sotto trovate
la
scheda oc.
Nome:
Cognome:
Età (min
16 – max 19):
Nazionalità:
Aspetto fisico:
Carattere:
Paure/debolezze:
Interesse romantico
(facoltativo):
Epoca storica nella quale
preferisce viaggiare:
Come avete
“trovato” l’orologio
(ereditato dalla vostra famiglia, trovato in una vecchia bancarella,
v’è piovuto dal cielo … siate
creativi!):
Altro (se avete
altro da aggiungere e non avete trovato posto nei punti precedenti):
Basta, la chiudo qui,
più che un capitolo questo è un papiro egizio.
Vi attendo numerosi!
A presto (spero)
Aria~
|
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Capitolo 2 *** Falling away with you ***
«Il
tempo è come un fiocco di neve,
scompare
mentre decidiamo che cosa farne»
– Romano
Battaglia –
♟»
New
York, Stati uniti d’America, 2120
«Jude, non riesci a dormire?».
Quella
frase pare
aleggiare nel cielo buio della metropoli nordamericana per istanti
travestiti da eternità, mentre gli occhi cremisi di Jude
continuano a perdersi ossessivamente tra le luci sfavillanti di
quell’immenso deserto.
Sospira. C’è una
risposta a quella domanda?, si chiede, con una certa punta
di arrendevolezza dentro la sua testa.
«No»risponde
infine amaramente, espirando nuovamente –se di noia o
fastidio è impossibile definirlo– mentre continua
a fissare quella realtà morente davanti ai suoi occhi, tutti
i sensi all’erta. In attesa di cosa, poi, chi lo sa:di un
miracolo, molto probabilmente.
Davanti ai
suoi occhi
non si muove nulla che possa fargli presagire la presenza di altre
forme vitali oltre le loro, tuttavia l’udito estremamente
sviluppato del giovane gli permette di percepire chiaramente i passi
alle sue spalle aumentare nuovamente, muovendosi con estrema
disinvoltura nella sua direzione, finché la figura arriva
finalmente al suo fianco.
Appoggia le
braccia
alla balaustra, seguendo la direzione dello sguardo del ragazzo, perso
nel vuoto.
«Da
quanto
tempo sono qui?»domanda Jude, nella sua voce
c’è una nota d’impellenza impossibile da
ignorare, per chiunque. Soprattutto se quel qualcuno è Ray
Dark.
«È
impossibile saperlo»ammette l’uomo, quasi
rammaricandosi delle sue stesse parole. Detesta deludere Jude in questo
modo«Il tempo qui scorre in modo diverso rispetto alla nostra
dimensione. Sempre che scorra, ovviamente. È perennemente
notte … quasi inquietante, non trovi? Da quando vi sono
arrivato il sole non è mai sorto e dubito l’abbia
mai fatto, in precedenza».
Gli
è
difficile smettere di parlare. Così a lungo si è
ritrovato costretto al silenzio, non avendo nessuno con cui conversare.
L’idea di parlare da soli è stata a lungo
pressoché ritenuta impraticabile, dopotutto
perché perdere pure l’ultimo briciolo di
sanità mentale quando si potrebbe evitare?
Ma
davvero si poteva evitare?
Ormai Ray
non ne era
nemmeno più così certo.
Era
così importante, dopotutto?
In fondo,
adesso
c’era Jude.
Era
tornato.
Gliel’aveva detto, lui, che alla fine sarebbe tornato.
Certo,
magari non come
Ray se l’era immaginato, il tanto sospirato ritorno di quella
creazione perfetta che ora era lì, a dondolare le sue gambe
toniche da un balcone di un palazzo in cui nessuno dei due abitava in
una città che non apparteneva né
all’uno né all’altro.
Sempre che
fosse stato
possibile definire quel luogo una città.
Le mani di
Jude
tremano scompostamente attorno alla balaustra e cominciano a scivolare
sul metallo lucido e freddo.
Perché ho le mani
sudate?, si rimprovera mentalmente il ragazzino, perdendo
l’equilibrio.
L’uomo
dietro di lui lo afferra prontamente, prendendolo in braccio e
stringendolo forte contro il suo petto mentre si avvia subito verso
l’interno del grattacielo.
Jude chiude
gli occhi
con cautela ed una malcelata sensazione di debolezza che aleggia tra le
sue membra mentre cede, abbandonandosi a quella stretta calda.
Le parole
che
pronuncia di lì a poco arrivano a Ray in un sussurro,
talmente è incrinata la voce con cui il giovane le pronuncia.
«E
t-tu? Tu
da quanto sei qui? E p-perché?».
L’uomo
vorrebbe poter rispondere a quella domanda … tuttavia dubita
ancora una volta che esista una risposta. Dev’essere normale,
specie quando scopri che quella in cui vivi non è
l’unica realtà, come invece chiunque crede.
Diventa tutto relativo.
«Sono
giunto
in questo luogo a dir poco surreale subito dopo la mia morte. Da allora
non c’è stato più modo per me di
muovermi da qui, né di vedere un’altra volta
sorgere il sole».
Si rende
conto di non
aver risposto completamente alla domanda del suo ragazzo, tuttavia sa
altrettanto bene di non avere a disposizione risposte migliori da
potergli offrire.
Jude per un
momento
è scosso da un sobbalzo e freme appena tra le braccia
dell’uomo, gli occhi che si velano di una strana patina
fumosa.
Un brutto presentimento,
intuisce l’uomo. È stato così a lungo
suo insegnante che ormai Jude per lui è come un libro aperto.
Per una
volta Ray
avrebbe tanto preferito sbagliarsi. Peccato che le parole che escono
dalle labbra di Jude di lì a poco non possono che confermare
i suoi più reconditi timori.
«Ray … tu
sei morto quattro anni fa …».
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
Amelia
fissa cupamente
le pareti del piccolo appartamento, nel cuore della moderna Londra.
È
questa l’epoca a cui appartiene, non quella di Darren.
Quella sua
stessa
considerazione è così dolorosamente reale che
adesso prenderebbe volentieri a calci il soggiorno della sua casa
… ma alla fine decide di trattenersi, per non passare per
una squilibrata più di quanto non lo sia già.
Ed i suoi
problemi
hanno incredibilmente inizio dall’Orologio che pende dal suo
collo.
Amelia
sospira
pesantemente, scivolando lungo una parete e lasciandosi cadere seduta
sul linoleum a terra, mentre rigira tra le sue dita quel bizzarro
medaglione.
È
evidente
che abbia una storia antichissima:l’oro di cui risplende il
metallo che forma quello strano oggetto sembra essere stato consumato
dal tempo, ecco perché ora pare annerito.
Dopotutto,
stando a
quanto le ha detto sua madre quando le ha consegnato
l’Orologio, quell’oggetto ha più di
trecento anni.
Tre secoli.
Ora che
Amelia
possiede uno degli Orologi in un certo senso è una Custode
del Tempo e, in quanto tale, sa che trecento anni non sono certo un
giochetto da niente.
Accarezza
con il
pollice la superficie levigata dell’Orologio:il quadrante
è protetto da un piccolo sportello, che si può
aprire e chiudere a discrezione del proprietario mediante un pulsante
posto sopra la rotellina per la regolazione dell’orario.
Ridicolo, un artefatto magico
tanto potente da poterti far viaggiare tra le epoche della storia
… che segna pure l’orario corretto. In qualsiasi
epoca ci si trovi.
Sullo
sportello
dell’Orologio è incisa la raffigurazione di un
corvo. Sua madre le ha raccontato che l’uomo che
creò l’Orologio che ora porta al collo
–con tutti gli oneri e gli onori che la situazione comporta-
aveva realizzato in origine ben dodici Orologi, incantandoli con la
magia che albergava il suo corpo:gli ingranaggi dell’Orologio
possiedono infatti una dose necessaria di magia per permettere a chi ne
possiede uno di poter viaggiare a proprio piacimento attraverso lo
scorrere del tempo e dello spazio.
Tutti gli
Orologi sono
andati dispersi, in seguito ad un misterioso incidente, nelle
più svariate parti del globo terrestre. Ogni Orologio
è diverso dall’altro proprio per la
rappresentazione che riporta sullo sportellino, la cui principale
funzione è quella di proteggere il fondamentale meccanismo
custodito al suo interno.
Il corvo
inciso sulla
superficie dell’Orologio di Amelia è il simbolo,
sempre secondo sua madre, della saggezza, tuttavia è anche
portatore di cattivi presagi.
Direi che non sarebbe potuta
andarmi peggio, brontola Amelia tra sé, mentre
si rimette in piedi, in quell’appartamento vuoto dove vive da
sola ormai da troppo tempo.
Non riesce
a fare a
meno di chiedersi che cosa sia rappresentato sugli altri Orologi.
Questo sua madre non gliel’ha mai detto. Per la
verità, Amelia stessa dubita che la donna ne avesse la
minima idea.
In
realtà
quel pensiero sfugge quasi all’istante dalla sua mente, con
la stessa rapidità con cui s’era presentato,
rimpiazzato da ben altre immagini.
Come al
solito, a fare
da padrone nella sua mente è il volto di Darren:solo pochi
minuti prima ha dovuto salutarlo, dopo che il giovane l’aveva
riaccompagnata all’aeroporto, convinto che la sua amata
avrebbe ripreso il volo di ritorno per Londra e sarebbe così
tornata a quegli studi a cui continuamente si professava dedita.
Peccato che
Amelia non
si sia dovuta imbarcare su nessun aereo per tornare nella sua
Londra:dopotutto, nessun mezzo di trasporto umano può
attraversare il tempo a proprio piacimento, come invece è
proprio degli Orologi.
Amelia
scuote la
testa, i suoi corti capelli corvini che si muovono con
lei:sarà meglio che si vada a fare una bella doccia calda.
In fin dei conti, al momento ha solo bisogno di svuotare la mente da
ogni tipo di pensiero e, ora come ora, non ha altre idee se non quella
per far sì che ciò avvenga.
♟»
Atene,
Grecia, 450 a.C.
Ziva avanza
tra la
folla adunante, stringendosi per bene nel suo peplo dalle
tonalità rossastre ed aranciate che le ricorda in modo
alquanto realistico i colori del tramonto.
Davanti ai
suoi grandi
occhi scuri, l’immensa struttura in marmo pario del Partenone
si staglia nel cielo azzurro di Atene, in tutta la sua imponenza.
Mette quasi
soggezione. E forse, pensa Ziva, è questo uno dei fattori
che porta da sempre gli uomini a rifugiarsi nella religione:il timore
divino, di questo qualcosa più grande di noi, che ha potere
decisionale sulla vita altrui. A propria discrezione se lasciar vivere
o far morire un uomo.
Ziva non
crede a tutto
ciò, perlomeno non così visceralmente come le
persone che la circondano, convinte che portando offerte al tempio o
sacrificando animali votivi o chissà che cosa in onore di
queste divinità … le sembra così
esagerato. Non si tratta nemmeno di fanatismo religioso, forse
… forse è solo questione di culture differenti,
di sapere in continua evoluzione. Certo, con le conoscenze di cui
l’uomo dispone nell’epoca in cui è
abituata a vivere, il ventunesimo secolo, certe idee sembrano quanto di
più improbabile possa esistere.
Ma è poi vero?,
si chiede Ziva, siamo
poi così diversi?
La giovane
sospira
silenziosamente per non gettare sospetti tra la folla che la circonda,
non vorrebbe mai e poi mai passare per infedele, chissà cosa
potrebbe capitarle, così si limita a procedere
silenziosamente insieme alla grande adunanza, intonando, di tanto in
tanto, qualche canto o invocazione agli dei, in sincrono con gli altri
fedeli.
Άκούου
εμὦν, ὦ Ζεῦ,
θὦν θεὦν
βασιλεῦ.1
Da sotto le
vesti dai colori brillanti di Ziva dondola in avanti,
fendendo l’aria a ritmo con i suoi passi giusto per qualche
istante prima di tornare a sprofondare tra la stoffa un orologio dal
colore dorato, sul cui sportellino è incisa una pergamena
arrotolata.
La
pergamena è il simbolo della storia.
Ziva
prosegue la sua
camminata insieme al popolo ellenico, mentre intona ancora una volta le
note del canto votivo dedicato a Zeus, l’antico signore del
cielo.
La giovane
sorride,
quando una vecchia nozione di mitologia greca le torna alla mente,
ripescata da chissà quale meandro.
Zeus
era figlio di Crono, Signore del Tempo, ricorda Ziva, sorridendo appena.
Che
ironia della sorte. E dire che ora sono io ad essere una Custode del
Tempo.
♟»
New
York, Stati uniti d’America, 2120
È
notte. O
forse giorno. Dopotutto, ormai chi può dirlo?
Ray si
rigira senza
meta tra le coperte da ore. Il buio è così
soffocante che quel dover rimanere lì per delle ore,
ostinarsi nel portare avanti quella sorta di farsa, dormire comunque
con regolarità per un certo numero di ore ogni determinato
quantitativo di tempo, gli sa tanto di artificioso.
Dopotutto,
poi non è lui stesso il primo ad affermare che lì
la concezione temporale non ha alcun valore, tanto da non esistere
affatto?
Si tira su
a sedere
sul letto, fissando la stanza che lo circonda con aria alquanto apatica.
È
tutto così buio …
La stanza,
così come il letto dove si trova in questo momento,
è interamente circolare, contornata in ogni punto da vetrate
che offrono un’ampia visuale sulla città.
Lì
scintillano alcune luci, tuttavia Ray sa fin troppo bene che si tratta
di palazzi completamente disabitati.
È
lì da così tanto tempo ormai che ha controllato
quei palazzi uno ad uno.
Vuoti. Sono
tutti
terribilmente, miseramente vuoti.
Di colpo,
le parole
che Jude gli aveva rivolto prima, in terrazzo, diventano piene di nuovo
significato.
«Ray
… tu sei morto quattro anni fa
…».
Quattro
anni fa … Ray era già perfettamente
conscio di essere morto, tuttavia non avrebbe mai e poi mai immaginato
di esserlo da così tanto tempo.
Davvero
sono qui da quattro anni?
A Ray pare
impossibile
… forse, a forza di vivere in quel posto a dir poco assurdo,
ha finito davvero per perdere la cognizione temporale.
Per fortuna
che ora
con lui c’è Jude, almeno non correrà
più il rischio di impazzire.
O forse
finirà per impazzire del tutto.
Poco dopo
infatti,
ricordandosi della rassicurante presenza del giovane accanto a
sé, si volta in direzione della parte opposta del letto,
dove sa che il giovane sta riposando.
In effetti
lo trova
sul serio lì e Ray si ammonisce di non averci pensato prima,
d’altronde è così rassicurante averlo
al proprio fianco … perlomeno finché non si rende
conto di quanto sia agitato il sonno del ragazzo.
L’uomo
sobbalza appena nel vedere l’esile figura di Jude dimenarsi
spasmodicamente tra le lenzuola purpuree, la fronte imperlata di sudore
e le labbra socchiuse per l’affanno contratte in una smorfia
di dolore, o forse solo sforzo fisico.
«Jude-»le
parole muoiono sulle labbra dell’uomo,
l’apprensione per le condizioni di salute del giovane troppo
forte per poter essere ignorata.
Gli solleva
appena il
capo dal cuscino, ponendoselo in grembo e riempiendogli i capelli
morbidi e le gote appena arrossate dallo sforzo fisico di carezze
gentili, tante, pacate, da perdervi il conto.
Spera solo
di riuscire
a fare qualcosa per aiutarlo, in questo modo. Ridestarlo sarebbe la
cosa migliore, tuttavia Ray non osa sperare tanto. In fondo, dopo tutti
quegli anni, ha ormai compreso che la speranza è un lusso
troppo grande per uno come lui.
«Ti
prego
…»sussurra l’uomo, la sua voce che si
perde nella stanza vuota«non mi lasciare, non di nuovo
…».
Mentre non
riesce ad
arrestare le carezze al capo del giovane gli occhi di Jude si aprono in
un muto grido di terrore, le pupille ridotte a puntini neri
piccolissimi in quel mare di rosso dilagante. Le labbra si schiudono
ancor di più ma per un tempo che pare infinito non riescono
ad uscire da esse nient’altro che suoni strozzati e
sibilanti, che mettono ancor più in allarme Ray.
Quando
finalmente Jude
riesce nuovamente a pronunciare una frase di senso compiuto, mormora a
voce appena udibile:«Ray
… v-voglio tornare a casa …».
La voce del
ragazzo
è così flebile che sembra essere sul punto di
spezzarsi. Per un attimo Ray non riesce nemmeno a capacitarsi che
quello stesso ragazzo, che ora gli pare così piccolo ed
indifeso, abbia già diciotto anni.
Gli occhi
di Jude si
velano nuovamente dei fumi del sonno, mentre ripiomba addormentato come
se non fosse successo niente.
Ray gli
risistema il
capo tra i comodi cuscini, consumando le sue ultime carezze.
«Ti
riporterò a casa, Jude»sussurra, certo che ormai
il ragazzo non possa sentirlo«te lo prometto».
1 Dal greco,
“Ascoltaci, oh Zeus, re
degli dei”. Traduzione molto home made, spero di non aver
toppato (sono al quarto anno di classico ma lungi da me
l’idea di essere una professionista, dopotutto ho sei in
greco e traduciamo dal greco all’italiano, non viceversa), se
così fosse perdonatemi, altrimenti amen ^^”
*
Aria’s corner *
Signori,
abbiamo un problema.
Con calma.
Anzitutto,
permettetemi di esultare perché per una volta in vita mia
riesco ad essere puntuale nelle scadenze.
Io ve lo
avevo detto
che le iscrizioni chiudevano il 27 novembre e mentre vi scrivo
è il 28.
Per la
verità ho iniziato a scrivere il capitolo già
qualche giorno fa e non perché mi sentissi particolarmente
ispirata, anzi … il problema è che mi sono
arrivati davvero pochi oc e tra questi solo tre si sono rivelati
all’altezza delle mie aspettative. Non che sia colpa vostra,
eh, solo che certe schede non erano adatte al genere di storia che ho
in mente.
Perciò
ho
deciso di riaprire le
iscrizioni!
Ora,
parliamoci
chiaro:mi servono sette oc, le modalità di scelta avverranno
secondo gli stessi criteri che ho utilizzato in precedenza.
Suppongo
che chi
è stato scelto se lo immagini già. Ad ogni modo,
la scheda potete trovarla nelle note del primo capitolo.
Partecipate,
vi prego!
Cercherò di non mangiarvi (però non garantisco
niente, avendo finito di vedere di recente Tokyo ghoul. I feels aiuto)
A scanso di
equivoci,
l’oc presentato in questo capitolo, Ziva Shapira,
è quello di Cari Chan.
Mi è piaciuto tanto il tuo personaggio, davvero.
Non ho
molto altro da
dire, il capitolo è quello che è. In attesa di
qualche altro personaggio, ho deciso di presentarvi un po’
meglio il meccanismo degli Orologi e i complessi mentali
le problematiche che Jude è costretto ad affrontare dopo
essere finito in una dimensione che non è la sua.
Basta, sono
stanca,
vado a dormire.
Vi voglio
bene
… se recensite vi regalo i biscotti alla cannella (Cristo,
Aria, ti sei abbassata a dei livelli di corruzione assurdi ormai)
A presto
(spero)
Aria~
|
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Capitolo 3 *** Undisclosed desires ***
«Il
tempo è come un fiocco di neve,
scompare
mentre decidiamo che cosa farne»
– Romano
Battaglia –
♟»
Chicago,
Stati Uniti d’America, 2059
Ethan fa la
sua
comparsa all’interno dell’ampio soggiorno della
casa della sua famiglia. O meglio, all’interno del soggiorno
deserto della casa della sua famiglia.
In effetti
per lui
parlare di “famiglia” è alquanto
difficile:tutti i suoi familiari sono venuti a mancare …
ormai c’è soltanto Ethan.
Ethan, con
le foto di
famiglia incorniciate, tutti sorridenti, sparse sui mobili del
soggiorno.
Ethan, con
la musica,
unica vera compagna di vita, un vero e proprio linguaggio alternativo
nel quale nascondersi, con le sue pause e i suoi silenzi, le sue note e
le sue chiavi, come ad esempio la chiave di basso, rappresentata anche
sul suo Orologio.
Ah,
già.
L’Orologio.
Proprio
lui, la causa
di non pochi problemi nella sua vita, ultimamente. A cominciare dal
terribile mal di testa che ora lo attanaglia.
In effetti
non tutti i
salti nel tempo sono uguali:alcuni sono più lunghi, altri
più brevi … in teoria, più si va
indietro nel tempo peggio si sta, tuttavia questo dipende anche da
altri fattori sia interni che esterni, come ad esempio condizioni
psico-fisiche di chi compie il salto.
Si lascia
cadere su
una delle sedie intorno al tavolo al centro del soggiorno, sospirando
appena.
C’è
un certo non so che di sfacelo nell’aria, come un sapore acre
e persistente che non riesce proprio ad abbandonare quelle quattro
mura, arredate in perfetto stile moderno, il bianco che pare colare
giù dalle pareti come acqua che scivola giù lungo
il vetro di una finestra in un cupo pomeriggio di pioggia, neve al sole
in un mondo impazzito.
Berrebbe
volentieri
qualcosa ma adesso è troppo stanco perfino per alzarsi da
quella sedia, figurarsi per accendere i fornelli e scaldarsi un
caffè o una tisana che sia.
O forse
è
solo troppo pigro per tutto ciò.
In fondo
quella sorta
di quiete apatica e senza rumore alcuno che pare essersi venuta a
formare come cappa eternamente presente in quella casa non gli dispiace
nemmeno così tanto:è bello ogni tanto riuscire a
staccare la spina, anche solo per un paio di minuti, da quei rumori
forti e contrastanti tra loro ai quali è ormai abituato e
che sempre lo circondano.
Sospira
pesantemente,
Ethan, valuta che se proprio deve addormentarsi meglio allora che sia
nel suo letto, tanto ormai stava letteralmente crollando sul tavolo del
soggiorno. Così si tira in piedi, abbandonando la sedia e
rendendosi conto di non aver mai trovato una di queste così
comode, prima … devo
essere messo proprio male, mormora tra sé, se sono finito a valutare la
comodità di una sedia.
E quello
non
è che uno dei suoi problemi … in fondo, quanto
può essere normale trovare un Orologio capace di viaggiare
attraverso lo spazio ed il tempo?
Ben poco, ragiona
in fretta Ethan, nonostante l’ormai generale intorpidimento
della sua mente a causa della stanchezza.
Arriva in
camera da
letto con incedere lento ed affatto cadenzato, come si suol dire da
vero e proprio elefante in una cristalleria, lasciandosi cadere sul
materasso con tutto fuorché grazia.
Affonda il
volto tra
le piume morbide del cuscino e pensa che, ora come ora, rimarrebbe
volentieri lì sul suo letto per il resto della sua vita.
Peccato che
un
ennesimo rumore improvviso arrivi ad interrompere i suoi piani di beato
e meritato riposo.
Oh,
rumore … a Ethan sembra che la sua vita non sia fatta
d’altro che di questo …
Quando si
è
lasciato cadere sul letto infatti il suo cellulare deve essergli
scivolato dalla tasca della giacca ed ora giace incustodito sul
materasso.
Almeno
finché non emette un trillo acuto.
Ethan si
mette a
sedere sul letto, cercando il telefono di ultima generazione tra le
lenzuola color del mare.
Quando lo
trova se lo
avvicina subito al volto, esaminando attentamente il display
dell’apparecchio, che pare essere ora illuminato da una
vivace luce turchina.
In effetti
quella luce
segnala una notifica:gli è arrivato un messaggio ed Ethan
non ha quasi bisogno di leggerlo per comprendere quale sia il testo
contenuto in quest’ultimo.
Le
prove della band. Merda.
♟»
Parigi,
Francia, 1789
Carcere de
la
Bastille, periferia orientale di Parigi, 14 luglio 1789. Già
dalle prime luci dell’alba un certo fervore ha avvolto le
grandi pietre squadrate di cui è costituito
l’edificio.
Fino a
quando quel
fervore non è finito per divenire la scintilla di una
rivoluzione.
I cittadini
parigini
sono affluiti lì da ogni angolo della città,
attaccando la fortezza dove vengono detenuti i prigionieri di stato.
Le fiamme
che hanno
appiccato ormai da ore s’innalzano sempre più alte
verso il cielo, con quel loro tetro colore vivo, così forte
da credere che solo quel rosso potrebbe essere in grado di bruciare
ogni cosa intorno a sé.
Da in cima
ad una
delle alte torri del carcere una figura estranea e totalmente
distaccata da quegli eventi osserva con un certo cipiglio attento e
curioso l’inizio di quella che poi, già lo sa,
sarà la Rivoluzione francese.
A farle
compagnia
dalla sua postazione, le urla dei dannati prigionieri destinati alla
morte in quell’inferno di calore e fuoco e l’odore
acre, quasi dolciastro, delle fiamme e della cenere, di quello che
è già stato bruciato e non esiste più
ormai, dei morti che aumentano, uno dietro l’altro.
Margarita
dondola le
gambe nel vuoto, rimanendo seduta sulle pietre compatte della torre che
ha scelto come punto d’osservazione.
Già,
osservazione, perché in fondo è di questo che si
tratta:l’attrazione, la curiosità di studiare le
reazioni umane, in ogni loro minima sfaccettatura.
Per la
verità, non si sente nemmeno così partecipe al
dolore di quei morti. Non per niente, è solo che non
è una persona particolarmente empatica.
Nonostante
ciò osservare è sempre stata
un’occupazione fonte d’interesse per lei, ecco
perché in quel momento si trova lì:percepire quel
miscuglio di emozioni che attanaglia ora quel folto gruppo di persone
ha a dir poco dell’incredibile per lei.
Può
infatti
sentire nitidamente la rabbia, l’odio salire dallo sciame di
cittadini che accorrono presso le carceri per uccidere quanti
più uomini possibile ed il terrore e l’ansia che
ora invadono i prigionieri, bloccati nelle segrete e nei vari piani
dell’enorme edificio quale la Bastille è, le loro
grida strazianti mentre il fuoco soffoca tutto, tutto quel dolore
…
Rabbia,
disperazione, un fiume in piena di emozioni e sensazioni impossibili da
contrastare o da tenere a bada …
È
così che comincia una rivoluzione.
Margarita
sorride,
sistemandosi con noncuranza una ciocca di capelli castani dietro
l’orecchio e sorride, come una bambina davanti ad una
scoperta nuova ed ai suoi occhi interessantissima del mondo che ha
appena visto con i suoi grandi occhi.
Il segreto sa nel sapersi stupire,
si ricorda Margarita.
E forse lo
stupore
più grande che le sia mai capitato di provare è
stato quando ha … trovato l’Orologio.
Credeva
fosse solo un
normalissimo cimelio, uno dei quei vecchi artefatti un po’
ampollosi che ormai si trovano solo in qualche bottega di artigianato o
tra le bancarelle di qualche mercatino, con quel suo fascino un
po’ retrò e la superficie dorata resa lucente dal
tempo e dai ripetuti sfregamenti.
Forse
l’elemento che maggiormente l’ha attratta di quel
medaglione –dopo quella sorta di strana
lucentezza s’intende, ovviamente- è il simbolo che
è raffigurato sulla superficie metallica di esso, che
avvolge completamente l’Orologio, proteggendo i suoi preziosi
ingranaggi.
Sono due
maschere, non
due qualsiasi maschere, bensì il simbolo del teatro
classico, la commedia con la maschera dall’espressione ilare
e sorridente e la tragedia, con il volto contratto in una smorfia di
dolore e disgusto.
Margarita
non riesce a
non pensare che quel simbolo sia piuttosto azzeccato.
Il
mondo è diviso in molteplici sfumature, tuttavia la
più grande risiede proprio in questa distinzione:bene o
male, gioia o dolore.
♟»
Il
Cairo, Egitto, 1332 a. C.
Atemu
passeggia tra le
sabbie dorate e rossastre della sua terra d’origine, il
terreno fino e morbido che si alza in piccoli sbuffi vaporosi,
sollevato dai suoi passi, svariati granelli colorati che rimangono
poggiati sulla punta dei suoi stivali scuri.
Attorno a
lui
può osservare i ferventi lavori di costruzione di imponenti
monumenti, piramidi, sfingi, lo splendore della culla della
società in tutta la sua regale magnificenza.
È
questo, il potere dell’Orologio? Può riportarlo in
quei luoghi e in quei tempi tanto lontani?
Avvicina le
dita
all’oggetto che tiene appeso al suo collo, tastandone la
superficie fredda e liscissima.
Quando suo
padre
gliel’aveva consegnato aveva ritenuto con evidente
erroneità che non fosse altro se non un altro pezzo da
aggiungere alla sua collezione di strani e rarissimi orologi
provenienti da tutto il mondo.
Eppure,
già
osservandolo meglio, si era reso conto di non trovarsi davanti ad un
comunissimo orologio.
Ne aveva
visti a
bizzeffe nella sua vita e quello non sembrava assomigliare a nessun
altro degli orologi presenti nella sua collezione. Non avrebbe neppure
saputo dire il perché se mai glielo avessero chiesto:era
strano, non aveva mai visto niente del genere.
Non
sembrava
più antico di altri quadranti che possedeva …
eppure, pareva in grado di racchiudere in se stesso molta
più storia rispetto a qualsiasi orologio esistente.
Inoltre
aveva quel
certo non so che … che lo rendeva estremamente affascinante,
come se intorno ad esso ronzasse una sorta di strana energia magica
sotto la forma di una nube evanescente appena visibile, a cominciare
dalla raffigurazione che spiccava in rilievo sul metallo che
racchiudeva il quadrante dell’orologio e tutti i suoi
ingranaggi.
Era la
rappresentazione della mappa del globo terrestre, tanto accurata d
sembrare quasi inquietante.
Atemu vi
passa sopra
il pollice, come una sorta di leggera scarica di energia elettrica pare
attraversare tutto il suo corpo.
Non aveva
individuato
subito la vera funzionalità dell’Orologio, gli era
servito del tempo per comprendere quale fosse la sua vera
utilità e pure allora, quando si era reso conto di quanto
potere trattenesse ora tra le sue mani, era successo quasi per caso.
Stava
osservando per
l’ennesima volta quello strano oggetto che suo padre gli
aveva consegnato, qualche tempo prima e, mentre passava un dito sopra
il piccolo pulsante in cima all’orologio, gli era capitato
inavvertitamente di premerlo, ritrovandosi così a vagare nel
tempo e nello spazio fino a giungere in epoche remote e luoghi lontani
rispetto alla quotidianità a cui era abituato.
Affascinato
da quei
meccanismi tanto da volerne imparare tutti i segreti
cominciò a viaggiare spesso a ritroso nel tempo, tornando
per quanto più gli fosse possibile proprio lì,
nell’antico Egitto, dove avvertiva le proprie radici
più forti che mai.
Atemu non
riesce
infatti ad immaginare raffigurazione più azzeccata sul
proprio Orologio:il mondo, quel mondo tra il quale è in
parte conteso, le sue radici lì in Egitto, così
lontane dall’Inghilterra, luogo in cui ora vive.
Il giovane
avanza tra
lo splendore dell’antico Egitto, mentre un’altra
grossa pietra viene inserita alla base di una piramide.
Simbolicamente,
riflette tra sé Atemu, quelle
pietre gettano la base anche della nostra odierna società.
♟»
New
York, Stati Uniti d’America, 2120
Jude si
risveglia
pacatamente tra le lenzuola di quel letto che, da un periodo a quella
parte, è ormai solito considerare il suo letto.
Ancora
intorpidito dal
sonno, allunga una mano tra le coperte purpuree, tastando il materasso
accanto a sé.
Sorprendentemente,
lo
trova vuoto
e, soprattutto, freddo.
Balza
repentinamente a
sedere, guardandosi attorno con aria piuttosto spaesata.
Sa bene che
l’uomo con cui, ormai già da qualche tempo,
condivide il letto non è solito rimanere tra quelle coperte
per più del tempo necessario di un buon riposo.
Jude
finisce per darsi
dello stupido quando si rende conto di essere quasi dispiaciuto che non
sia lì al suo fianco … a volte è
successo.
Di
svegliarsi e di
ritrovarlo già sveglio lì nel letto con lui. Gli
è capitato.
Per quanto
possa
trovare confortante l’idea di ritrovare quella presenza
accanto a sé al risveglio in quel mondo arido e deserto non
può che darsi dello stupido se si permette di sperare che
pure per Ray valga la stessa cosa.
In fondo
sono due
individui differenti, con diverse necessità. Lo sono sempre
stati …
…
No.
No,
questo non è vero:non sono sempre stati due individui
diversi.
C’è
stato un tempo, infatti, in cui le loro menti lavoravano
all’unisono, i loro pensieri e le loro decisioni viaggiavano
nella stessa direzione, come se a formularli fosse stata una sola
persona.
Troppo
tardi,
tuttavia, era stato comprensibile ad entrambi che non era
così.
Jude
sgattaiola fuori
dalla camera da letto, i piedi nudi che percorrono il pavimento freddo
mentre tutto intorno a lui continua ad esserci quella persistente
penombra.
È
questa
forse la cosa che meno riesce a mandar giù:in quel luogo
può comunque trovare delle attività da fare per
dilettarsi … tuttavia, anche se mangia, anche se dorme,
anche se respira ormai non sa mai quanto tempo sia trascorso mentre
faceva quell’azione.
È
… destabilizzante, senza dubbio.
Camminando
in punta di
piedi arriva fino in cucina, dove nonostante sospettasse già
di trovare Ray rimane per qualche momento sorpreso e spiazzato dalla
presenza dell’alta figura dell’uomo, seduto su uno
degli sgabelli, intento a fissare l’oscurità che
avvolge tetramente i palazzi davanti ai loro occhi.
«Buongiorno?»domanda
con tono beffardo l’uomo mentre continua a rimanere seduto
sul proprio sgabello, agitando appena una mano nell’aria.
«Stavo
per
chiedertelo io»replica Jude, affatto scoraggiato
dall’inflessione leggermente impertinente dell’uomo
, quindi prende posto a sua volta su uno degli sgabelli presenti nella
cucina.
«Ma
immagino
che, come al solito, mi avresti risposto dicendomi che qui è
impossibile calcolare il tempo, giusto?»riprende poco dopo,
certo di averci azzeccato.
Ray scrolla
le spalle,
quasi con noncuranza:«Può darsi, chi
può dirlo …»
Jude prende
un
biscotto dalla scatola che Ray ha aperto sul tavolo, masticandolo
lentamente. In quel luogo estraneo allo scorrere del tempo gli oggetti
non invecchiano, tanto che risultano gradevoli al palato perfino
biscotti vecchi di … meglio
non pensarci, valuta in fretta
il ragazzo.
Dopotutto
è
pure comprensibile:quella è l’unica colazione che
hanno a disposizione, meglio non sprecarla.
Entrambi
rimangono in
silenzio per un tempo tanto lungo che pare infinito. Eppure di cose da
dirsi ce ne sarebbero, e tante oltretutto.
Solo che
forse quel
silenzio è molto più conforme al loro, al loro
modo di pensare, ai loro spiriti affini.
Ray sospira
pesantemente e prende coraggio –sempre se coraggio possa
essere definito- mentre spiega:«Non so se te lo ricordi ma
stanotte … hai avuto un incubo. Quando ti sei risvegliato,
tu … hai detto una cosa …».
Jude si
mette subito
sull’attenti, circospetto. Sa bene infatti quanto possa
essere importante qualsiasi dettaglio in una situazione come la loro,
perfino quelli sciocchi come i suoi incubi notturni, che in una
qualsiasi altra occasione avrebbe ben volentieri ignorato,
considerandoli futili ed insensati, privi di significato.
«E
sentiamo,
cosa avrei detto?»domanda, il tono che tradisce una certa
indifferenza, sebbene a questo punto della conversazione sia piuttosto
interessato al loro discorso.
«Che
vuoi
tornare a casa»ammette Ray, quasi freddamente.
Per un
momento Jude
indugia, la bocca socchiusa e le parole bloccate a metà
strada nella gola, tuttavia l’attimo subito successivo cerca
di dissimulare una sicurezza che non ha
nell’affermare:«E allora? Mi sembrerebbe anche
comprensibile, non trovi? Sono in una dimensione che non è
la mia, non posso mica rimanerci in eterno!».
D’un
tratto
una scintilla d’ira attraversa i piccoli occhi neri di Ray,
tuttavia il cambiamento è così breve,
giacché con la stessa rapidità con cui
è apparso scompare nuovamente, lasciando il posto alla
consueta espressione imperturbabile sul volto dell’uomo, che
Jude effettivamente non ha nemmeno il tempo materiale per rendersene
conto.
«Ah,
sì?»domanda l’uomo, visibilmente
irritato, lo sguardo basso«e così ti dà
così fastidio essere in mia compagnia, non è
vero?».
Jude resta
nuovamente
a bocca aperta. Non era certo quello che intendeva, dannazione,
tuttavia come potrebbe ora spiegarlo a Ray senza essere nuovamente
frainteso da lui?
«Tu
non
capisci …»fa per sbottare il ragazzo, tuttavia
è nuovamente interrotto dalla voce profonda
dell’uomo.
«Beh,
ovvio
che non capisco»ribatte
infatti, gli occhi velati da astio
che nemmeno tenta di celare«dopotutto io non capisco mai
, non
è vero, Jude?».
«I-io
…»il ragazzo cerca di ribattere, tuttavia sente
d’improvviso i suoi occhi velarsi di lacrime.
Perché
riesce sempre ad essere così vulnerabile al momento
sbagliato?
Balza in
piedi,
assestando un forte colpo contro il piano della cucina. Ora
è così tremendamente infuriato, con Ray, con se
stesso, con il resto del mondo che ragionare lucidamente gli suona
tanto come un’utopia.
«Io ti odio,
Ray!»scoppia, fuggendosene poi via dalla cucina,
correndo a rifugiarsi nella camera da letto, chiudendo attentamente la
porta a chiave per poi scivolare seduto a terra lungo di essa, gli
occhi lucidi.
Perché
ha detto una cosa del genere, se non ci crede minimamente?
*
Aria’s corner *
I-io
… io
non volevo scrivere quella brutta cosa, lo giuro …
Buhuhah,
i miei dolci tesssoriii--
Okay, la
pianto.
Anzitutto
mi scuso se
non ho potuto pubblicare ieri ma in questi giorni non sto affatto bene
(dannata influenza) e pertanto non garantisco poi molto sul contenuto
di questo capitolo.
{soprattutto
sull’ultima parte. Che immane tristezza, signori}
In compenso
assistiamo
al ritorno in scena di Ethan (*nota
di servizio per la mia stalker personale aka _Myosotis:non avevo
inserito Ethan nel chap precedente non perché non avessi
recensito ma piuttosto perché avevo preferito utilizzare il
capitolo successivo per spiegare un po’ a tutti la situazione
in cui ci troviamo, perciò tranqui dear~*) ed alla
presentazione di ben due nuovi personaggi!
In questo
capitolo
infatti conosciamo Margarita
Rimšaitė, l’oc della mia cara chion e Atemu McKinley,
l’oc della mia altrettanto cara black dalia.
Ho preso
una decisione
importante riguardo agli oc ma per ora non vi dico niente
perché sono sadica~
Ammetto di
averci
messo un po’ per la stesura di questo capitolo, vuoi per
l’influenza, vuoi per l’ispirazione che viene e che
va, vuoi per
lo stalkeraggio ma alla fine … yo, ce
l’ho fatta!
In
realtà
sono in quella fase in cui la vita mi fa schifo ma non ho nessuno a cui
dirlo, perciò mi taccio.
Anche
stavolta non ho
molto da dire (non ho mai molto da dire) perciò credo la
chiuderò qui per non tediarvi oltre.
Ci si sente
in
recensione~
A presto
(spero)
Aria~
|
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Capitolo 4 *** Follow me ***
«Il
tempo è come un fiocco di neve,
scompare
mentre decidiamo che cosa farne»
– Romano
Battaglia –
♟»
Londra, Regno Unito, 2059
L’acqua
scivola lentamente sul corpo di Amelia, donandole quella sensazione di
piacevole beneficio che la appaga infinitamente.
La ragazza
chiude gli
occhi e lascia che i vapori della doccia le portino via il sapone con
cui ha ricoperto il suo corpo.
Sospira:
aveva proprio
ragione, una bella
doccia era proprio quello che ci voleva per svuotare completamente la
mente.
Chiude
piano
l’acqua e resta per un momento, forse fin troppo lungo, a
fissare le piastrelle levigate e dal colore avana opaco, che rivestono
le pareti del bagno e della doccia stessa.
Inspira,
espira. Inspira, espira.
A volte
Amelia deve
ricordarsi come si respira, per non lasciarsi sprofondare del tutto
nelle sue paure.
Alla fine
espira per
un’ultima volta e si convince ad aprire la doccia e ad uscire
da questa, facendo scorrere di lato lo sportello e recuperando dal
gancio metallico lì a lato un grosso telo, con cui avvolge
il proprio corpo.
Arriva
davanti al
lavabo e scruta la sua immagine riflessa nel lungo specchio disposto
orizzontalmente sulla parete davanti a lei.
Si passa
una mano tra
i corti e scarmigliati capelli corvini, cercando di donare loro una
certa vitalità; con l’altro palmo invece continua
a tenere ben fermo l’asciugamano all’altezza del
seno, dove l’ha fermato.
Arresta la
mano,
smettendo di frizionarsi la cute ed osservandosi, forse per la prima
volta da quando si è posta davanti a quello specchio.
Gli occhi
blu
oltremare paiono risplendere di una luce fredda ed incantevole, come
due laghi di qualche regione nordica, immensi e profondissimi.
Amelia
poggia la mano
sulla pelle candida del volto, proprio sotto la palpebra inferiore
dell’occhio, tastandola quasi come incuriosita e trovandola
morbida, liscia, elastica.
Se gli
occhi sono lo
specchio dell’anima, in quelli di Amelia si possono leggere
un’infinità di informazioni, tutti quei piccoli
spezzoni di vita che trascorre e che, spesso e volentieri, non le
capita di rivelare a nessuno.
Chissà cosa
leggerebbe qualcuno nei miei occhi, se solo mi osservasse davvero,
si chiede Amelia quasi con aria di rammarico.
Poco dopo
si sente
sopraffare da un’ondata di malinconia del tutto improvvisa,
mentre le torna in mente il volto dolce e rassicurante di sua madre,
quando le sorrideva con quella sua infinita tenerezza.
Amelia era
ancora una
bambina in fasce, eppure le sembra di ricordare quei momenti con una
nitidezza che ha dell’incredibile.
Fin da
quando era
piccola chiunque, parenti o amici che fossero, non aveva potuto far
altro che mettere in evidenza la spiccata somiglianza tra lei e sua
madre, dalla quale aveva ereditato la carnagione lattea, i capelli neri
e quegli occhi scintillanti.
Sua
madre … quanto le manca …
Amelia
scuote la testa
con decisione, come se quel gesto possa dissipare i suoi mille pensieri.
Percorre la
morbida
moquette beige con i piedi scalzi e l’asciugamano ancora ben
stretto intorno alla sua esile figura fino alla propria camera da letto.
S’infila
un
vecchio maglione di lana verde pastello e dei jeans scuri ben
attillati, mentre lascia i piedi vagare liberi nei calzini a fantasia.
Giusto in
tempo:proprio in quel momento infatti sente il bollitore fischiare.
La ragazza
si
precipita in cucina e spegne repentinamente il fornello, facendo poi
ben attenzione mentre versa l’acqua bollente in una tazza di
lucida ceramica bianca.
Mischia con
calma,
sedendosi direttamente sulla penisola della cucina moderna, mentre
lascia che l’infuso alla rosa canina faccia
l’effetto desiderato.
Respira a
fondo,
constatando che l’odore delicato ed al tempo stesso pungente
della tisana si sta già diffondendo soffusamente nel suo
appartamento.
Amelia si
passa una
mano tra i capelli, sistemandosi una piccola ciocca dietro
all’orecchio, mentre prende a bere l’infuso.
È
delizioso.
Il cielo di
Londra
è bigio e fumoso, mentre piccole gocce di pioggia
cristallina continuano ad infrangersi piano contro la finestra della
cucina.
La solita
Londra, la
solita pioggia …
…
o forse no.
Solo in
quel momento
infatti la giovane pare accorgersi di un bagliore azzurrino,
proveniente dal soggiorno lì accanto.
Amelia
balza
giù dal tavolo, preoccupata, riponendo la tazza sulla
superficie lignea ed avvicinandosi guardinga alla soglia della cucina.
Da
lì
sbircia con cautela oltre essa, restando non poco sorpresa quando si
rende conto di quale sia la fonte di quello strano luccichio.
Prima
di andare a fare la doccia infatti aveva riposto l’Orologio
sul divano del soggiorno ed ora il medaglione ha preso a scintillare di
quell’intensa luce bluastra.
♟»
Chicago,
Stati Uniti d’America, 2059
Ethan
attraversa la
città correndo a perdifiato, sebbene tra i marciapiedi
affollatissimi sia praticamente costretto a prendere a spallate la
gente pur di proseguire.
“Perché
capitano tutte a me? ” brontola il ragazzo dentro di
sé.
Quando
finalmente
arriva allo studio di registrazione, quasi non gli par vero di avercela
fatta, così si lascia sfuggire un piccolo sospiro di
sollievo.
Giusto il
tempo di un
paio di profonde boccate d’aria ed il ragazzo si è
nuovamente lanciato verso le porte di vetro del palazzo, che spinge con
decisione.
Quando
attraversa in
fretta e furia la reception della casa discografica parecchie paia di
occhi si voltano nella sua direzione, ad osservare
quell’uragano di vestiti dai colori accesi e grintosi e
borchie che non è altro, tuttavia nessuno osa dire qualsiasi
cosa per fermarlo.
Tutti
conoscono Ethan
là dentro e tutti lo rispettano … forse
c’è addirittura qualcuno che lo teme.
“
Che immane
mucchio di sciocchezze” sentenzia lapidario il giovane.
Si ferma
davanti ad
una fila di ascensori e ne prenota uno:sebbene l’idea di
rimanere in attesa per del tempo decisamente considerevole non lo
alletti più di tanto, di certo preferisce perdere quei due o
tre minuti piuttosto che farsi cento e più piani di scale a
piedi.
Anche la
fretta ha i
suoi limiti, dopotutto.
L’ascensore
arriva con un monotono trillare ad annunciarlo ed Ethan ci salta
letteralmente dentro, non appena le porte si sono sufficientemente
schiuse da permettere il passaggio della sua figura.
Prenota il
suo piano
premendo l’apposito pulsante e l’ascensore si
chiude senza che nessun altro salga con lui, come volevasi dimostrare.
L’ascesa
verso i piani alti del palazzo della sua etichetta discografica
è un lento incedere accompagnato da un motivetto sconosciuto
ed anche piuttosto irritante, di cui Ethan farebbe volentieri a meno.
Tuttavia si
trattiene
dal procurare un danno piuttosto considerevole all’impianto
audio di quel luogo, ricordandosi di quanti danni d’immagine
si sia già procurato nel corso del tempo, a cominciare dalla
sua vita alquanto mondana per arrivare a … quelle notizie.
È
ovvio che
è a causa di quello che nessuno è salito con lui
sull’ascensore.
Per un
momento
l’espressione sfrontata scompare dal volto di Ethan,
rimpiazzata da una tesa, contrita.
Quasi non
si accorge
che l’ascensore sta per arrivare al suo piano.
“Davvero
è colpa mia?”
L’ascensore
trilla nuovamente, segno che finalmente ha raggiunto il piano dello
studio di registrazione. Ethan pare risvegliarsi da quella sorta di
sonno catatonico in cui era finito e si risveglia, tornando in
sé ed uscendo dalle porte dell’ascensore giusto il
momento prima che si richiudano nuovamente.
Non ha
alcuna
intenzione di farsi riportare giù.
Si decide a
riprendere
la sua affannosa avanzata e si slancia lungo il corridoio, alla ricerca
della stanza che sta cercando.
Evita
parecchi
impiegati, segretarie in eleganti tailleur in gonna e tacchi a spillo
che piroettano su se stesse pur di non cadere a causa del frettoloso
incedere del ragazzo, addirittura qualche uomo con un grosso faldone di
documenti in mano gli lancia dietro qualche improperio …
Eppure lui non se ne cura.
Già
… Deve solo pensare alla musica.
È
questo
l’importante, lui e la sua musica, basta. Il resto non conta.
Il ragazzo
non si
ferma fino a quando non compare davanti a lui una porta, su cui
campeggia una targhetta metallica con sopra l’incisione
“Sala prove”.
Ethan torna
a
sorridere, soddisfatto e sfrontato, mentre abbassa la maniglia e lascia
che la porta si apra con studiata e teatrale lentezza.
♟»
Tokyo,
Giappone, 2059
Shiba
continua a
camminare lungo le strade della città, affrettandosi verso
casa sua, il cappuccio rosso della felpa tirato su a coprire la zazzera
di capelli biondi.
Il ragazzo
continua a
tenere gli occhi bassi sul videogame che tiene tra le mani,
concentratissimo nel suo intento di vincere anche quella partita.
Salta.
Salta. Spara. Schiva.
Le persone
lungo i
marciapiedi devono compiere una sorta di slalom tutt’intorno
al ragazzo per evitare di andare a sbattergli contro, tanto il giovane
è concentrato sul videogame da non accorgersi del mondo vero
che lo circonda.
Così,
in un
certo senso, il videogioco si ambienta anche nella vita reale.
Ancora una
raffica di
colpi di mitra … boom, vinta anche quella partita!
Shiba alza
lo sguardo
dalla console portatile, sentendosi estremamente vittorioso; dondola
appena la testa, gli occhi che si illuminano di un luccichio frizzante
mentre ripone le “armi” nella tracolla di scuola.
Si guarda
intorno con
aria leggermente confusa e stralunata: ci impiega qualche secondo a
realizzare che quelli che lo circondano sono esseri umani in carne ed
ossa, non altri personaggi di un nuovo gioco, da evitare o uccidere.
Avverte un
lieve
capogiro … E si dice che è strano, dopotutto
ormai sono anni che trascorre il suo tempo passando da una console
all’altra e non gli era mai capitato prima di avere dei
simili malori …
…
Poi
però fa mente locale e si rende conto che deve trattarsi
ancora di quello strano oggetto.
Già,
probabilmente si trascina ancora dietro i postumi della botta in testa
che ha preso giorni prima.
Stupido
oggetto.
Riesce a
sentirlo
anche adesso, sotto strati e strati di vestiti che ricoprono il suo
corpo: la felpa, l’uniforme scolastica … E poi
c’è quel coso assurdo, che gli rimbalza sul petto
pallido come un secondo cuore.
Un cuore …
A Shiba il paragone pare ben poco credibile.
L’oggetto
che penzola appeso al suo collo di un cuore non ha quasi niente, forse
solo quella cadenza ritmica e ben precisa, che riprende, con una
precisione che ha dell’incredibile, i suoi passi svelti
sull’asfalto umido di Tokyo.
Per il
resto
è totalmente dissimile dal muscolo cardiaco: entrambi hanno
un peso, tuttavia quello che ora Shiba avverte più
distintamente contro la sua pelle ha una forma circolare estremamente
regolare ed è di un metallo così freddo...
Non
può
fare a meno di pensare a quanto sia inquietante.
È
comparso
letteralmente dal nulla e gli ha procurato quel bernoccolo in testa,
piovendogli sul capo dal cielo.
Già.
Ha cercato
di
liberarsene, tuttavia, nonostante i suoi innumerevoli tentativi, quel
medaglione continua ad apparirgli accanto, come se volesse prendersi
beffa di lui.
“Che
cosa
ridicola” valuta piuttosto in fretta Shiba.
Il ragazzo
infila
piano le dita sotto i suoi vestiti, frugando finché non
individua con i polpastrelli, levigati dagli anni di pratica con i vari
videogiochi, il medaglione che rimbalza quieto contro la sua pelle.
Shiba
estrae
l’Orologio, perdendosi per qualche attimo ad osservarlo,
pieno d’interesse.
Continua a
portare
verso quell’oggetto una sorta di timore reverenziale, sebbene
ormai una certa rassegnazione si sia impossessata di lui: ecco
perché ha cominciato a tenerlo sempre con sé.
Non
può di
certo negare che quello strambo aggeggio possieda in sé un
fascino affatto trascurabile, a cominciare dalla superficie dorata fino
al simbolo scalfito sul suo dorso.
Degli
ingranaggi.
Per un
momento Shiba
non può fare a meno di valutare quanto quella coincidenza
sia quasi inverosimile: lui, tanto amante della tecnologia, che si
ritrova d’improvviso in possesso di uno strumento che
raffigura delle ruote dentate che, all’inizio dei recenti
sviluppi delle scienze tecniche, erano proprio alla base di queste
ultime.
Il ragazzo
sorride con
un certo compiacimento: non
è poi così certo che si tratti solo di una
coincidenza.
♟»
New
York, Stati Uniti d’America, 2120
“Stupido.
Sei davvero
uno
stupido, Jude Sharp.”
Probabilmente
in
questo momento prenderebbe volentieri a testate la parete davanti a
sé.
O quella
accanto a
sé.
Oppure una
di quelle
intorno a sé.
Ah, gli
svantaggi di
essersi rinchiusi di propria volontà tra quelle quattro mura.
Per la
verità sarebbero tre mura, l’ultima è
completamente occupata dalla vetrata che offre un incantevole scorcio
sulla città perennemente buia di New York.
Sì,
insomma
… quella
New York.
Perché
deve
essere sempre tutto così complicato?
Non che
rimanere
rannicchiati in quella posizione, stringendo forte le ginocchia al
petto con le braccia ed affondando il volto in quella sorta di strano
involucro, sia una soluzione ai suoi problemi, ovviamente.
Però,
in un
certo qual senso, è perfino rassicurante.
Starsene
lì, rintanati, lontano da tutto e da tutti …
Poi
però si
ricorda che non ci sono né un tutto
né dei tutti
da cui scappare, in quella realtà distorta.
Ed
è allora
che nasce, nel silenzio di quella camera, una vaga sensazione di paura
che non fa altro che salire, piano –e per questo è
ancor più terrificante–, in un crescendo che
aumenta sempre di più, fino a diventare assolutamente
terrorizzante ed ad avvolgere ogni cosa, con il suo senso di opprimente
mestizia.
Quel genere
di paura
che ti fa venir voglia di piangere gridando, mentre metti a soqquadro
qualsiasi cosa ti capiti sottomano.
Peccato non
poterlo
fare, perché si è stati educati fin da piccoli a
reprimere le proprie emozioni, a non lasciarle venire a galla.
È
per
questo che adesso Jude non può far altro che rimanere
lì, rannicchiato su se stesso, mentre sente il cuore
continuare a martellargli fortissimo ed impietoso nel petto.
“Stupido.
Stupido. Stupido. Stupido. Stupido.”
Se lo
ripete nella
testa come una cantilena, quelle lacrime cristalline che non hanno
desistito e sono ancora lì, a luccicare agli angoli delle
sue cornee, come a ricordare quanto sono pericolose, che potrebbero
scendere da un momento all’altro lungo il suo volto.
È
così concentrato a valutare quanto sia pietoso lo stato in
cui si trova ora, che nemmeno si accorge di un altro peso che comincia
a gravare dall’altro lato della porta.
O forse lo
sa fin
troppo bene che adesso, in corrispondenza della sua schiena,
c’è quella di Ray; a distanziarlo da lui solo lo
strato ligneo della porta,
Riesce
quasi a vederlo
in maniera distinta nella sua mente: una gamba distesa,
l’altra piegata, le braccia distese orizzontalmente e le mani
che penzolano mollemente oltre il ginocchio.
Nella sua
testa
combatte, indeciso se urlargli di andarsene o chiedergli di rimanere
con lui, sebbene sia perfettamente cosciente che la seconda sia
ciò che lui desidera, la prima quello che entrambi sono
tenuti a recitare da anni, secondo quel loro copione non scritto che si
ostinano a portare avanti.
Così
finisce prevedibilmente per rimanere in silenzio, in attesa forse di un
qualche miracolo.
Sente
l’uomo
dall’altra parte della porta schiarirsi la voce e si
rimprovera per tante cose.
Per essere
così vile, per esempio, tanto da aver lasciato, con il suo
silenzio, la parola a lui, che ora come ora colpe non ne ha.
Può
essersi
macchiato dei peggiori scempi in passato, questo è vero
senza dubbio … Tuttavia ormai ha davvero così
importanza?
Sono finiti
in un
mondo che non è possibile definire tale e lottano insieme
per la sopravvivenza, non gli pare proprio il momento di interrogarsi
su fatti che risalgono a quattro anni prima.
O forse
questo sarebbe
proprio il momento giusto per parlare, per chiarirsi una volta per
tutte, finalmente.
Eppure ci
sono ancora
così tante questioni in sospeso che preoccuparsi del passato
sembra qualcosa di così irreale… Oppure la base
dei loro mille discorsi.
Ad ogni
modo, chi
può mai dirlo, ormai?
È
questa
una delle cose che Jude odia di più di quella dimensione:
aver perso tutte le sue certezze ed essere così in
balìa degli eventi in divenire.
Non che
fosse
così legato a quelle cose, solo che non avere delle basi da
cui partire … E’ destabilizzante,
sul serio.
Vorrebbe
solo
ritrovare un equilibrio …
“Ti
prego,
Ray, tu che puoi, aiutami a ritrovare il mio equilibrio
…”
«Jude»
Quando
l’uomo inizia a parlare il ragazzo è colto alla
sprovvista e per poco non si prende un coccolone dallo spavento.
Il suo
nome,
pronunciato così semplicemente dalla voce profonda e secca
dell’uomo, pare fluire dalle sue labbra in maniera melodiosa,
senza tuttavia troppi fronzoli.
“Oh,
Ray
…”
«Perdonami
per quello che è successo poco fa»
“Non
hai
nulla da farti perdonare.”
«So
che sei
spaventato»
“Lo
siamo
entrambi.”
«Il
fatto
è che vorrei aiutarti ad essere più tranquillo,
invece non faccio che farti stare peggio …»
“Non
dire
così.
Non devi
fingere di
star bene con me, lo sai. Ti conosco meglio di qualsiasi altra persona
al mondo, ho avuto molti anni per studiarti, ormai so che sei proprio
come me, che soffri come me, che ci stai male come me …
È
umano,
Ray, e va bene così. Davvero.”
Jude
vorrebbe riuscire
a dire veramente quelle cose all’uomo oltre la porta, non
solo pensarle dentro la sua testa, invece non riesce a far altro che
rimanersene lì, in silenzio.
«È
per questo che ho preso una decisione»
“Aspetta
…”
«Ti
aiuterò concretamente a tornare a casa»
“Come?”
Per poco il
ragazzo
non finisce per strozzarsi con il suo stesso respiro, muovendosi
inquieto sul posto per la prima volta da quando si è
rintanato in quella stanza.
«Jude?»domanda
preoccupato Ray, ignaro della fonte di quel trambusto.
Se solo non
ci fosse
quella porta a dividerli …
Per questo
non
può che sorprendersi quando, poco dopo, vede proprio quella
porta aprirsi davanti ai suoi occhi, a dir poco increduli.
Ne emerge
la figura un
po’ tremante del ragazzino, che pare riuscire a tenersi in
piedi per miracolo, tenendosi stretto alla porta, gli occhi ancora un
po’ umidi di lacrime.
«Cosa
… cosa intendi?»
*
Angolo autrice *
D’accordo,
sono in ritardo.
Ora ne
parliamo.
Anzitutto
…
buon anno a tutti!
Spero che
questo nuovo
anno possa essere per tutti voi simbolo di nuove fantastiche esperienze
ed auguro a tutti voi che state leggendo un sacco di cose meravigliose~
Io in
teoria non
potrei lamentarmi, quest’anno diventerò
maggiorenne (sempre che io arrivi viva a giugno, intendiamoci) e poi mi
attendono dei viaggi fantastici –ed io adoro viaggiare,
tuttavia credo che questo lo si possa capire comunque molto bene anche
da questa ff.
A parte
questo
… il ritardo. Lo so, lo so.
È
stato un
brutto periodo, la voglia di scrivere se n’è
andata di nuovo ed ho cominciato a dubitare delle mie
capacità.
Non
è stata
affatto una cosa gradevole, diciamo così.
Alla fine
però mi sono convinta ad andare avanti:anzitutto
perché lo devo a voi, e poi perché un
po’ è anche per me stessa.
Haters gonna hate.
È così che gira il mondo.
Per
carità,
senza rancore per nessuno, eh~
Comunque,
ringrazio Sissy
per aver preso
in betaggio questa storia –mentre sto scrivendo
quest’angolino non le ho ancora inviato niente, in compenso
però le ho comunicato di aver concluso il capitolo, quindi
in un certo senso va bene lo stesso, non?~ -, sebbene di
recente sia piena di cose da fare. Non ti ringrazierò mai
abbastanza per tutto quello che stai facendo per me.
In questo
capitolo
abbiamo conosciuto il penultimo oc, Shiba
Orubo di _AliHeichou_.
Penultimo?
WTF?
Eh
già,
signori, nel prossimo capitolo apparirà l’ultimo
oc che ho scelto;approfittando di tale fatto ho deciso di pubblicare
qui di seguito la lista dei personaggi selezionati ed i loro rispettivi
simboli.
Amelia Greene
~ corvo
Ethan Bailey ~
chiave di basso
Ziva Shapira ~
pergamena
Margarita
Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Atemu McKinley
~ mondo
Shiba Orubo
~ ingranaggi
Andrea Cervini
~ scheggia di vetro
Aww, ma che
belli che
siamo!~
Avete un
personaggio
preferito? Devo dire che a me piacciono tutti davvero troppo
–altrimenti non li avrei scelti, ah ah–
però sono curiosa di sentire i vostri pareri in merito.
Mi dispiace
per chi
non è stato scelto:purtroppo non tutti i personaggi erano
congeniali alla trama ma … ehi, sarà per
un’altra volta~
Parlando di
questo
capitolo, ammetto di essermi accorta solo dopo aver finito di scriverlo
che, escluso il pezzo ambientato nella dimensione del futuro, tutte e
tre le altre narrazioni sono ambientate nell’epoca alla quale
i ragazzi appartengono, vale a dire il 2059.
Vorrei
dirvi che nel
prossimo capitolo ci sarà qualche salto temporale
… ma dubito che potrà essere così.
È già un capitolo in cui succederanno un sacco di
cose (per esempio devo presentare l’ultima oc e …
gnn … io non so come dirvelo ma … succederanno
delle cose e … okay, non vi dico niente. Lo sapete che sono
una brutta persona, per cui … no. No, non vi dico niente)
perciò … temo che vi toccherà
aspettare ancora per un po’~
Tornando a
questo
capitolo beh, che dire … Amelia si fa sommergere dai suoi
complessi mentali (a proposito, senza che vi scervelliate
più di tanto vi dico già da subito che il
bagliore del suo Orologio è legato all’ultimo
personaggio che presenterò nel prossimo capitolo, vale a
dire quello di Andrea), Ethan corre come un forsennato, Shiba rischia
di andare a sbattere contro un palo e Jude si deprime …
insomma, tutto nella norma, no?
Ah,
già,
avete notato che, seppur lievemente, ho modificato il banner? Vi piace?
Mi ero dimenticata di chiedervelo, lo so.
Ringrazio
chiunque sia
arrivato fino a questo punto e … beh … io me ne
andrei.
A presto,
spero
Aria~
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Capitolo 5 *** Madness ***
«Il
tempo è come un fiocco di neve,
scompare
mentre decidiamo che cosa farne»
– Romano
Battaglia –
♟» Milano,
Italia, 2059
Le guglie
gotiche del
Duomo si stagliano alte, in tutto il loro bianco, marmoreo splendore,
nel grigiore mattutino del cielo milanese.
Sono
così
visibili che da tutte le finestre delle abitazioni circostanti
è pressoché impossibile avere un panorama
differente.
In effetti
un lieve
scorcio della cattedrale lo si riesce ad avere anche da dietro le tende
di organza azzurrina della camera di Andrea.
Eppure lei,
apparentemente, è concentrata su tutt’altro per
accorgersi di quello spettacolo, oggi.
Seduta sul
letto a
gambe incrociate, il suo sguardo si muove continuamente dal portatile
aperto davanti ai suoi occhi all’oggetto che ha adagiato tra
le lenzuola fresche di bucato.
Nella
stanza aleggia
un’armonia di profumi a dir poco deliziosi e forse
è anche questo che concilia così tanto la mente,
aiutandola a concentrarsi naturalmente anche sulle questioni
più complesse.
Carta
nuova, nei fogli
poggiati sopra la scrivania di legno stagionato, lavanda, nei sacchetti
con cui sua madre le riempiva i cassetti e l’armadio, per
evitare che prendessero uno sgradevole odore di stantio, infine
tè alla vaniglia, un paio di dita di quella bevanda ancora
riempiono la tazza di ceramica bianca, residui di quanto ne aveva
bevuto la sera precedente, prima di andare a dormire.
“Dormire
per
modo di dire” si maledice la giovane tra sé.
Mordicchia
distrattamente l’impugnatura della matita che tiene tra le
dita, mentre i suoi occhi stanchi esaminano centinaia di linee di testo.
Prende un
appunto, la
matita che traccia precisa i contorni delle lettere mentre segna un
paio d’annotazioni su un taccuino, poggiato anche questo a
poca distanza da lei.
Sospira
stancamente,
la tentazione di gettarsi all’indietro sul letto e crollare
addormentata tra i morbidi cuscini è forte, troppo forte …
Però
non
può arrendersi adesso, si ricorda ancora una volta; non
può vanificare gli sforzi di una notte passata in bianco
così, crollare adesso, dopo tutti quegli sforzi non
è contemplabile …
Scuote la
testa. No no, non
può
proprio.
Prende il
taccuino in
mano, cercando di dare un senso logico a quello che ha appreso, in
tutti quegli svariati tentativi di ricerca.
Da quello
che ha
scoperto dovrebbe trovarsi nel pieno dell’Illuminismo.
Già,
il
Settecento, “il secolo dei lumi”.
Questo,
tuttavia, non
le giustifica il motivo della presenza di un oggetto del genere in
quell’epoca.
Era anche
il principio
del Romanticismo e questo fa pensare ad Andrea che potrebbe trattarsi
di un regalo, fatto da qualche galantuomo alla sua dama.
Eppure,
nemmeno in
questo caso, riuscirebbe a spiegarsi tutti i misteri che aleggiano
intorno a quell’oggetto.
Per esempio
… perché
proprio un regalo del genere?
Andrea lo
afferra
cautamente tra le dita, quasi come se portasse verso di esso una sorta
di timore reverenziale, dunque lo osserva, ancora una volta.
Da quando
l’ha ottenuto non le pare di far altro.
Sfiora con
ricercata
attenzione la superficie levigata e lucida: dita esperte devono esserci
passate sopra svariate volte, probabilmente alla ricerca di qualcosa.
La vera
domanda
è: cos’è che cercavano?
Si fa
scorrere la
catena non troppo spessa, dal quale pende il medaglione, attorno al
collo, lasciandola ricadere giù.
Recupera il
ciondolo e
se lo porta davanti agli occhi.
Le sue
grandi iridi
nere percorrono senza sosta l’ottone levigato, che ha ormai
preso una sfumatura ramata.
La parte
frontale
è occupata quasi interamente dal quadrante
dell’orologio che, nonostante l’inevitabile
scorrere degli anni, ha comunque mantenuto il suo colore biancastro;
sopra di esso si staglia una sorta di gabbia metallica, che riveste
l’orologio e lo protegge da eventuali urti e consente al
tempo stesso di intravedere l’orario sottostante.
Il retro,
invece,
è ancora una volta dominato dal metallo, in questo caso
lavorato al fine di lasciare un’incisione su di esso.
Andrea ci
passa il
pollice con voluta calma.
È
una
scheggia di vetro.
Una
semplice,
comunissima, scheggia di vetro.
Non
sembrerebbe niente
di speciale, considerando anche le sue modeste dimensioni.
Eppure,
Andrea non si
lascia mai ingannare tanto facilmente dai dettagli.
Un momento.
Dettagli.
Una
perfezionista,
abituata a notare perfino il minimo particolare, perfino quelli
appartenenti al mondo dell’infinitesimale, del minuscolo, del
piccolo …
…
come una scheggia di vetro.
La
trasparenza, la
lucidità … possibile che non ci abbia pensato
prima?
Quell’orologio
sembra quasi avere un legame con lei.
Però
non
è possibile: stando alle sue ricerche
quell’ottone, quel determinato tipo di lavorazione del ferro
risale a circa trecento anni prima.
Allora
come diamine è possibile che lei e quell’oggetto
siano legati?
Non lo sa,
come non sa
perché le sia capitato di poter viaggiare nel tempo da
quando ne è entrata in possesso.
Come non sa
perché adesso abbia preso a scintillare.
Stavolta ci
casca
eccome all’indietro sul letto, trattenendosi appena dallo
strepitare solo perché l’ultimo briciolo di
sanità mentale che le è rimasto le ricorda che si
trova in un condominio abitato anche da altre persone e che
è ancora mattina presto, molto probabilmente la maggior
parte di loro starà ancora dormendo.
Però
sa
perfettamente che un oggetto di fine Settecento non dovrebbe emettere
quella lucina azzurra.
Ma
che diavolo …?
La luce non
fa che
aumentare sempre di più e Andrea è tentata
svariate volte di sfilarsi l’Orologio dal collo e di
nasconderlo sotto un cuscino, in attesa che smetta di emanare quella
luce blu, tuttavia è come se quei bagliori
l’attirassero, catalizzassero il suo sguardo sulla superficie
del medaglione.
Quando
ormai il
ripetersi degli scatti luminosi è diventato rapidissimo e il
colore è più tendente ad un celeste biancastro,
Andrea si trova costretta a distogliere lo sguardo per non essere
accecata.
Poco dopo
infatti la
luce dell’Orologio pare esplodere e tutto nella stanza
diventa bianco.
Andrea
è
costretta a soffocare un gridolino di sorpresa contro il suo braccio
per non mettere in allarme tutto il vicinato.
Neanche
qualche minuto
dopo la luce pare affievolirsi, fino a sparire del tutto, gradualmente.
L’unica
cosa
che si solleva ancora dall’Orologio è una lieve
colonna di fumo, che si disperde piano nella stanza, amalgamandosi
all’odore di carta e di lavanda.
Non ha la
più pallida idea di cosa sia successo e di dettagli che non
tornano ce ne sono a valanghe.
Anche se,
obiettivamente, la cosa più curiosa resterà senza
dubbio il volto che Andrea ha visto nell’Orologio, poco prima
dell’esplosione di luce.
Il
volto di una ragazza, di all’incirca la sua età,
incorniciato da dei corti capelli corvini.
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
Atemu
appare nei
pressi del London Eye e ringrazia il cielo che sia notte fonda, sarebbe
stato problematico altrimenti giustificare alla marea di turisti ed
abitanti che generalmente bazzica il lungofiume del Tamigi la sua
improvvisa comparsa.
Anche
perché dubita che, sebbene sia la verità,
qualcuno gli crederebbe se spiegasse di essere appena tornato da un
salto temporale.
Un salto
temporale
piuttosto lungo, per l’esattezza.
La testa
gli gira e
deve appoggiarsi al muretto di pietra che corre lungo tutto il fiume
per non cadere giù.
Anche
vomitare
è un’opzione che tiene in considerazione, tuttavia
dubita che sarebbe una situazione decorosa; così, con le
ultime forze che gli sono rimaste in corpo, si costringe a combattere
l’impulso di rimettere.
Si gira
nuovamente
verso la strada e tira un sospiro profondo, asciugandosi con il dorso
della mano la fronte imperlata di sudore.
I salti a
lunga
distanza lo sfiniscono, dovrebbe averlo imparato ormai.
Si guarda
intorno: il
Big Ben segna mezzanotte e quarantacinque.
Grazie al
cielo Londra
è un metropoli ultraevoluta ed i trasporti pubblici
funzionano anche a quell’ora, altrimenti sarebbe stato nei
guai fino al collo.
La stazione
degli
autobus è a pochi passi da lì, così ci
si avvia subito. Adesso non prende neanche in considerazione il viaggio
in metro: già si sente male, oltretutto di certo muoversi
sottoterra non gli gioverebbe affatto.
L’unica
soluzione che gli rimane è l’autobus: di certo a
piedi potrebbe muoversi, tuttavia ora come ora è
estremamente debole, inoltre gli ci vorrebbe fin troppo per raggiungere
la sua meta. E non sa quanto ancora riuscirà a resistere,
prima di svenire.
Per fortuna
l’autobus sta sopraggiungendo proprio in quel momento: Atemu
riesce ad arrivare davanti al segnale del bus quando questo si ferma,
facendo scorrere le sue ampie e rosse portiere proprio di fronte a lui.
Sale,
oblitera
l’abbonamento –non ha ben chiaro il meccanismo per
cui, nonostante il salto, si ritrovi ancora il portafoglio con
all’interno i soldi e l’abbonamento del pullman-
quindi si va subito a sedere nel primo posto libero che trova.
Impresa
piuttosto
semplice, considerando che a quell’ora solo pochi lavoratori
notturni sono in giro.
Durante
tutto il
viaggio rimane con la fronte appoggiata al finestrino freddo, traendo
una sorta di beneficio da esso.
Pare
rinvenire
lievemente solo quando, una mezz’oretta dopo, intravede il
cartello della fermata di Hyde Park sfilargli accanto.
Si avvia
all’uscita, barcollando leggermente, tanto che, quando
l’autista frena bruscamente, rischia di cadere a faccia in
avanti sugli scalini dell’autobus.
L’uomo
alla
guida si astiene dal far commenti, forse per pietà, forse
semplicemente perché, nella sua lunga carriera, deve averne
viste di molto peggio.
Atemu
scende e
l’autobus riparte, metafora dell’immensa metropoli,
impietosa nei confronti dei suoi abitanti.
Sospira
ancora,
stancamente, per poi ricominciare a muoversi, stavolta a piedi.
L’unica
nota
di sollievo che riesce a trovare è che sarà un
tragitto breve: dopo neppure un paio di minuti di camminata si ritrova
ai piedi di alcuni scalini, che conducono al portone
d’ingresso.
Il giovane
li percorre
stancamente, quasi trascinando gambe e braccia lungo di essi.
Quando si
ritrova
davanti al citofono, preme senza indecisioni l’interno
corretto.
Non conosce
altre
persone che sarebbero ancora sveglie, a quell’ora.
Per alcuni
momenti non
succede niente e Atemu ha il terribile presentimento di aver appena
fatto un terribile buco nell’acqua, tuttavia di lì
a poco sente una voce rispondergli dall’altra parte e non
può trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo.
«Se
ve lo
state chiedendo sì, è qui la
festa!~»sente infatti esultare dall’altro capo del
citofono da una voce piuttosto squillante.
«Hurley
…»mormora invece Atemu, senza energie.
«Atemu?»sente
domandare Hurley, improvvisamente pare più serio
«Ma … che ci fai qui? E a quest’ora,
poi? Per non parlare della tua voce …».
Atemu
è
colto da un altro improvviso conato di vomito ed è costretto
a tirare un forte colpo con il pugno contro la parete per continuare a
resistere.
«Apri,
idiota …»sussurra ancora, la sua voce sembra sul
punto di spezzarsi.
«Oh,
sì, certo!»Hurley pare essere colto da
un’illuminazione fulminante e di lì a poco Atemu
sente il portone scattare e aprirsi.
Subito
s’infila nella palazzina, correndo –per quanto gli
sia possibile, nello stato in cui è ridotto adesso- verso
l’ascensore.
A quanto
pare stasera
qualche dio deve averlo preso in simpatia, poiché
l’ascensore è già al pianterreno,
quindi non gli rimane altro da fare che salirci e premere il tasto del
quarto piano.
Mentre
sale, si lascia
cadere seduto a terra, esausto.
In effetti,
per
quant’è stanco, gli pare che l’ascensore
ci metta ben meno del solito per arrivare... Alla fine si alza ed esce,
quasi barcollando.
Hurley lo
attende
sulla soglia di casa; le luci dell’interno
s’infrangono sulla sua pelle bronzea, ad Atemu sembra una
divinità, al che si chiede se non sia proprio lui, il dio
che l’ha aiutato, quella sera.
Il ragazzo
dai capelli
rosati osserva il nuovo venuto con aria quasi ilare mentre
commenta:«Ehi, amico? Troppo esausto per reggere fino
all’after o …-».
Fa per dire
qualcos’altro, tuttavia vedendo il corpo di Atemu che
barcolla in avanti fino quasi a cadere si tace subito e accorre in
direzione dell’amico, prendendolo proprio prima che cada di
faccia.
Lo afferra,
circondandogli il bacino con un braccio e costringendolo a stare in
piedi, in qualche modo.
«Atemu
…»cerca di richiamarlo di nuovo Hurley, stavolta
in apprensione.
«Ho
b-bisogno di un bagno …»biascica
l’interpellato, confuso.
«Certo,
certo ...»Hurley si chiude alle spalle la porta e trascina
letteralmente di peso l’altro lungo il breve corridoio
d’ingresso, conducendolo fino in bagno.
Una volta
lì Atemu gli chiude letteralmente la porta in faccia: non
vuole che l’amico assista a quello spettacolo impietoso.
Si accascia
sul
lavandino, rimettendo pure l’anima.
Non
credeva di essere ridotto così male...
Sente la
porta del
bagno schiudersi e allunga istintivamente una mano verso di essa, come
a voler impedire la visuale, implorando:«Ti prego, non
guardare!».
Poco dopo
sente dei
morbidi asciugamani poggiarsi accanto a lui e una mano gli stringe
forte la spalla.
«Coraggio,
Atemu …»sente sussurrare Hurley, accanto a
sé.
A quelle
parole il
giovane riverso sul lavabo si volta in direzione della doccia e, poco
prima di cadere in ginocchio, riesce ad aprire l’acqua.
Il getto
gli colpisce
in pieno il volto, che si sfrega energicamente con le mani per un paio
di minuti.
Poco dopo
Hurley gli
passa uno degli asciugamani, quindi si asciuga la faccia, spossato.
A lavoro
ultimato
Atemu si sente sollevare; nonostante un iniziale momento
d’imbarazzo si rende conto di essere ormai troppo esausto per
potersi opporre all’amico, che l’ha preso in
braccio.
Hurley lo
conduce
ancora una volta attraverso il suo appartamento, fino a ritrovarsi in
una camera da letto libera, per gli ospiti.
Una volta
lì distende Atemu nell’unico letto presente nella
stanza e lo copre piano con la trapunta.
«Hurley
…»cerca di mormorare il giovane, stremato.
L’altro
però lo zittisce, mettendogli un dito sulle labbra.
«Shh~»sussurra,
ponendogli un fazzoletto umido d’acqua fresca sulla fronte,
madida di sudore«Ne parleremo domani. Ora riposa».
Il giovane
annuisce,
docilmente; forse vorrebbe ancora dire qualcosa all’amico,
probabilmente solo ringraziarlo, tuttavia nemmeno un momento dopo un
velo d’oscurità cala sui suoi occhi, mentre
precipita nell’oblio del sonno.
♟»
Chicago,
Stati Uniti d’America, 2059
Ethan esce
dall’alto palazzo dello studio di registrazione quando il
mondo è già caduto vittima delle tenebre della
sera, che circondano ed avvolgono qualsiasi cosa capiti loro a tiro.
Estrae
l’Orologio, che ancora porta appeso al collo, da sotto la
camicia vermiglia con un gesto svogliato, quasi senza pensarci
più di tanto.
Perché
continua a meravigliarsi ogni volta che si rende conto che quello
stramaledetto coso segni l’ora esatta … nonostante
tutto?
Quando si
rende conto
che sul quadrante le lancette segnano le ventuno passate contrae le
labbra, in un’espressione impensierita.
Non si era
accorto che
fosse così tardi.
Sta quasi
per avviarsi
attraverso la lunga via, tutta diritta, dello studio di registrazione,
via da quel luogo, anche stavolta …
Via
dall’unico posto che lo fa stare bene, che non lo fa pensare,
almeno ancora per qualche altra ora …
Ovviamente
non
è questione di vigliaccheria, ci mancherebbe altro, o almeno
questo è ciò che continua a ripetersi Ethan,
mentre percorre adagio e con portamento a dir poco carismatico il
marciapiede.
Codardo.
«Ehi,
Ethan!»esclama qualcuno, alle sue spalle.
Il ragazzo
riflette
che sono poche le persone che ancora lo chiamano per nome, ancora meno
di quelle che si rivolgono a lui.
Forse
è
questo il fattore che lo fa voltare, una certa sensazione di sorpresa.
Ad
attenderlo, gli
sguardi sereni e ridenti degli altri componenti della sua band.
«Che
ne dici
di andarci a prendere qualcosa da bere insieme?»propone il
batterista, con una certa aria strafottente che Ethan non riesce
proprio a giustificarsi.
In un altro
momento
molto probabilmente avrebbe rifiutato senza pensarci due volte,
preferendo la riservatezza e il silenzio del suo appartamento vuoto al
caos e alla musica sparata a tutto volume di una delle bettole
frequentate dai suoi amici.
Poi
però
sembra ripensarci e mettersi a riflettere su quell’ipotesi,
che ora non gli sembra nemmeno più così lontana
… in fondo ormai cos’ha da perdere?
“Di
certo
qualche bicchiere non mi farà male” mormora una
vocina dentro di sé, forse mettendoci dentro una malizia e
un senso di perdizione che altrimenti nemmeno lo stesso Ethan avrebbe
infuso nelle proprie parole.
Com’è
che dicono alcuni? Ah, già: bere per dimenticare.
Ed Ethan ne
avrebbe,
di cose da dimenticare.
Non sa
davvero se alla
fine sia stato davvero questo a convincerlo o semplicemente una follia
del momento –se si esclude la possibilità di un
desiderio non espresso.
Fatto sta
che dopo
quell’unico e solo tentativo cede, annuendo bonariamente in
direzione dei suoi amici.
«E
va
bene»acconsente, con uno sguardo strano, che agli altri
ragazzi pare quasi essere perso nel vuoto«In fondo che male
può farmi?».
Non ci ha
visto poi
così lontano, quando ha immaginato che lo avrebbero portato
in una bettola.
Diciamo che
forse quel
luogo è un po’ migliore rispetto alle sue
aspettative … ma nemmeno di tanto.
Cameriere
in abiti
succinti si aggirano tra i tavoli occupati da avventori
dall’aspetto piuttosto rozzo e nerboruto.
Ethan
osserva la scena
con aria alquanto incuriosita, anche se già al secondo
bicchiere di superalcolici ha cominciato a sentire la testa pesante e
la vista un po’ annebbiata.
È
seduto
con i ragazzi della band al bancone del locale, davanti a sé
il quarto
bicchiere di pampero.
O il quinto? No, aspetta
… forse era il sesto
… ah, non lo sa più.
Dopotutto,
forse
è anche meglio così.
Gli piace
quella sorta
di sensazione di annullamento che prova quando assume
dell’alcool … è più o meno
le stesso principio che lo porta a stare tanto bene quando canta.
Sente la
propria mente
altrove, lontana … come se si staccasse dal suo corpo e
volasse via.
Questo lo
porta a non
pensare più a niente, perlomeno per qualche ora.
E questo
gli piace.
Eccome, se gli piace.
Per quel
tempo si
può perfino illudere di non avere più nemmeno un
problema.
Che
meraviglia …
Una
cameriera gli si
avvicina, osservando il suo bicchiere ancora pieno.
«Non
lo
bevi, quello?»gli domanda, con una voce un po’
troppo stucchevole.
Ethan muove
lo sguardo
velocemente –per quello che può, intontito
com’è dall’alcool– dal
bicchiere ancora pieno davanti a sé sul bancone alla
cameriera che ora si staglia davanti a lui.
Capelli
biondo cenere
lunghi fino alle spalle, un po’ crespi e con un lieve accenno
di boccoli all’altezza delle punte, labbra tinte di un
rossetto rosso piuttosto intenso.
Nonostante
questo
forse il dettaglio che colpisce maggiormente l’attenzione di
Ethan sono i suoi occhi: taglio e grandezza regolari, di un marrone
comunissimo.
Forse
è
proprio quella canonicità ad attrarre tanto Ethan: i suoi
occhi, grigi e tumultuosi come nuvole in tempesta, non potrebbero
desiderare altro.
Lancia uno
sguardo
leggermente ammiccante alla ragazza –che avrà
all’incirca una ventina d’anni, proprio come
lui– quindi commenta:«Beh … e io che
volevo bere qualcosa di tutt’altro genere».
Partono
risolini
imbarazzanti lungo tutta la fila del bancone, tuttavia la ragazza non
pare esserne particolarmente colpita.
Che
stia veramente al gioco?
«Senti
un
po’»continua, rivolgendosi ancora alla
cameriera«ti andrebbe di vedere qualcosa di
bello?~».
Si alzano
nuovi
risolini, eppure nemmeno stavolta la ragazza pare avere una
qualsivoglia reazione.
“Deve
essere
priva del senso del pudore” valuta Ethan,
nell’ultimo angolino sobrio della sua mente.
«D’accordo»concede
lei, con espressione del tutto imparziale.
C’è
da chiedersi cosa sia passato nel cervello di tutti e due, in quei
precisi istanti:Ethan è assolutamente certo che la ragazza
non possa aver frainteso le sue parole, dopotutto ormai deve aver
raggiunto l’età del consenso già da un
po’, inoltre i doppi sensi malcelati nelle sue parole e tutti
quei risolini sono piuttosto inequivocabili.
D’altro
canto, l’espressione algida della ragazza non era mutata
minimamente da quando avevano cominciato quella conversazione.
Ethan si
alza dallo
sgabello, sul quale era rimasto seduto fino a quel momento, circondando
i fianchi della giovane con un braccio.
«Come
ti
chiami?»le chiede, fissandola dritto negli occhi,
senza gentilezze o pietà.
«Kate»risponde
lei con voce schietta, monocorde.
«Kate
…»ripete, facendo rotolare ogni singola lettera in
modo piuttosto seducente lungo il proprio palato«gran bel
nome ~».
Si avvia
lungo il
locale, tenendo ancora un braccio stretto intorno alla sua vita, mentre
diversi fischi di approvazione e alcune risate grevi e battute di
pessimo gusto accompagnano il loro incedere, forse un po’
troppo traballante a causa della quantità di alcool
decisamente eccessiva presente nel corpo di Ethan.
Si
appartano nel
retrobottega piuttosto scadente del locale,
nell’oscurità più assoluta e tra la
polvere e la sporcizia di alcuni vecchi scaffali di legno marcescente.
Ethan fa
sedere la
giovane su un vecchio barile vuoto di rum, di cui a quanto pare nessuno
di loro due saprebbe ricondurne l’appartenenza.
Le slaccia
subito la
camicetta, senza metterci una particolare dose di grazia o gentilezza,
solo colto da un improvviso desiderio di farlo.
Lascia
cadere
lentamente l’indumento a terra, sembra un gabbiano che plana
sull’oceano.
Kate
reclina la testa
all’indietro, lasciando la gola candida e morbida alla
completa mercé di Ethan, che subito ne approfitta per
andargliela a riempire di baci famelici, umidi di saliva.
Anche
questo è un ottimo modo per non pensare a niente.
Nel
frattempo il
giovane le sospinge con calcolata lentezza le mani sul corpo, andandole
a palpare i glutei e i seni bianchi.
Potrebbe
anche
toglierle il reggiseno, in effetti.
Sfiora il
tessuto in
nero pizzo ricamato, niente di esaltante in fin dei conti.
Ethan lo
stringe un
po’ di più tra le proprie dita tiepide e
affusolate, facendo gemere la ragazza di inaspettato piacere.
A quella
reazione il
ragazzo non resiste oltre e le va a baciare entrambi i seni, con le
labbra che sembrano ancora una volta estremamente affamate e desiderose
di lei.
A quel
nuovo contatto
gemiti sempre più accaldati sfuggono dalle labbra di quella
perfetta sconosciuta, favorita anche dai palmi grandi e caldi di Ethan,
che ora sono scivolati sotto la sua minigonna cortissima e le palpano i
glutei con un filo alquanto spesso d’indecenza.
Osservare
quel volto
cereo imporporarsi e perdere quell’espressione impassibile,
per acquisirne una stupita e sconvolta dal piacere, è
qualcosa che possiede un certo fascino, per Ethan.
Sente che
potrebbe
andare avanti, spingersi oltre, di più, molto di
più … oh, eccome se lo farebbe, con quale immenso
piacere si concederebbe a quella venere …
Quando
tuttavia sta
effettivamente per andare oltre, un rumore improvviso li fa sobbalzare
entrambi per la paura.
Si guardano
subito
intorno, cercando di localizzare la fonte da cui è provenuto
quel rumore.
Inutile
dire che le
loro espressioni risultano piuttosto sconcertate quando si rendono
conto che ad interromperli è stato un topolino, che subito
fugge via, sgattaiolando nell’oscurità fino a
scomparirvi.
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
È
piuttosto
singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra
moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e
dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a
quanto pare,
è proprio così.
Amelia
ricontrolla
l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio,
piuttosto sgualcito.
L’inchiostro
nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di
essere nel posto sbagliato … in effetti ha paura che qualche
strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento
all’altro… se non fosse per la piccola bottega di
legno che si trova ora davanti agli occhi.
È
un posto
piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata
all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno
spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano
non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è
anche un’insegna in alto, solo che è parecchio in
alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue
–scarse- abilità di equilibrista
nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al
lato per controllare il nome di quel posto.
“No,
preferirei tardare la mia morte almeno per un altro po’
” valuta tra sé.
Si avvicina
alla porta
con incedere lento: quando la raggiunge valuta che né i
cardini né la serratura sono stati divelti.
Apparentemente
quel luogo è decisamente impenetrabile.
Non riesce
a
intravedere l’interno della bottega, pure il vetro della
porta è ridotto alquanto male a polvere, il che fa supporre
ad Amelia che neppure il locale stesso debba essere messo bene.
Ancora una
volta la
ragazza si ritrova a chiedersi perché sia andata fino in
quel luogo desolato, alla ricerca di chissà quale tesoro
segreto.
Per poi
ricordarsi,
puntualmente, della lettera.
Si morde il
labbro
inferiore, cercando di trattenere le lacrime.
Avrebbe
voluto trovare
quella lettera molto tempo prima … Di certo non sarebbe
cambiato poi molto, tuttavia si tratta pur sempre di un pezzo della
vita di sua madre. Quella vita, inesistente adesso, che Amelia
desidererebbe sondare, capire… per saperne trarre conforto.
Fa parte del suo passato, ma non può tornare indietro, non
può starle accanto, abbracciarla forte, donarle carezze.
Ecco
perché
si trova qui. Dopo che l’Orologio aveva emanato quella luce
azzurrognola tanto forte, si era subito messa alla ricerca di una
plausibile spiegazione per quell’assurdo fenomeno.
Aveva
cercato in tutti
i libri del vecchio studio di suo padre, sperando che sua madre le
avesse lasciato una qualche forma d’indicazione almeno
lì.
Niente,
nessuna
traccia.
Mentre
tuttavia
rimetteva a posto quei vecchi tomi polverosi –per frugare al
loro interno li aveva sparsi tutti sul pavimento dello studio, dando
vita a un vero e proprio marasma- un foglio accuratamente ripiegato era
scivolato fuori da uno dei libri, cadendo con leggiadria sul pavimento.
Amelia
l’aveva recuperato subito, aprendolo ed osservando per un
tempo indefinibilmente lungo la scrittura piccola e ordinata, che non
poteva essere di nessuno se non di sua madre.
Le dita le
tremavano
per l’emozione mentre leggeva e rileggeva quelle parole.
Era venuta
a mancare
diversi mesi prima, fino a quel momento non aveva più avuto
l’immenso piacere di entrare in contatto con qualcosa che le
appartenesse.
Beh, tranne
per
l’Orologio.
Le era
stato
consegnato proprio dalla donna, pochi giorni dalla morte –o
suicidio che qualsivoglia dire– senza grandi cerimonie.
Adesso
toccava a lei
portare avanti quel “tesoro di famiglia” dei Greene.
Nella
lettera erano
contenute le ultime parole di sua madre per lei e per suo padre.
Inoltre,
tra le pieghe
di quel foglio, l’indirizzo stropicciato che ora
l’ha portata lì.
Per questo
deve
entrare là dentro, a qualsiasi costo.
Poggia la
mano sul
pomo dorato della porta, cercando di farlo ruotare, in modo da far
scattare la serratura.
Niente.
Inizia a
spazientirsi,
non si è fatta quasi mandare a quel paese da un tassista per
un buco nell’acqua.
Sta quasi
per
desistere, quando avverte un lieve clangore metallico sotto la propria
mano.
Osserva la
porta con
un’espressione a dir poco sbigottita mentre la spinge
lentamente in avanti, lasciando che si apra davanti al suo volto
attonito.
La pesante
porta in
legno di noce della bottega si dischiude con un cigolio piuttosto tetro
mentre dona lentamente ad Amelia una visuale sull’interno di
quel luogo.
Inizialmente
Amelia
elabora due considerazioni, anche piuttosto sciocche se si vuole: la
prima è che là dentro c’è
così tanta polvere che, con ogni probabilità,
qualcuno non vi entra da parecchi anni; la seconda è che
pare essere scoppiata una bomba.
Ci sono
fogli sparsi
in ogni dove, oggetti praticamente buttati all’aria
… niente là dentro è nel posto in cui
si dovrebbe trovare.
Francamente,
Amelia
non ha la più pallida idea del perché il suo
Orologio dovrebbe venire da un posto del genere, tuttavia si fidava di
sua madre –e si fida ancora di lei, nonostante ormai non ci
sia più– il che vuol dire che, se le ha lasciato
quell’indirizzo non è di certo per farsi beffa di
lei, bensì per aiutarla in qualche modo.
Che Amelia
non abbia
ancora la più pallida idea di quale sia questo modo sono
solo dettagli, ovviamente.
Scende i
due gradini
d’ingresso del locale –anche questi in
legno– e si ritrova in quello che deve essere un atrio
piuttosto spazioso.
La porta si
chiude
alle sue spalle con un cigolio piuttosto inquietante, Amelia non
può fare a meno di trovarlo spettrale.
Eppure
… le
sembra come che in quel luogo ci sia qualcosa che non vada.
Ripensa
istintivamente
a sua madre, a quanto fosse precisa, ordinata, quindi sposta nuovamente
lo sguardo tra il disordine della bottega.
Amelia non
ha mai
creduto all’ipotesi della polizia, secondo la quale quello di
sua madre sarebbe stato un suicidio.
Elizabeth
Greene era
una donna solare, aveva sempre il sorriso sulle labbra e, che la figlia
ricordasse, nemmeno un problema ad affliggere la sua vita.
Avrebbe
potuto
nascondere il dolore dietro a quel suo sorriso … tuttavia
Amelia non riusciva a darsela a bere, conosceva sua madre e sapeva che
non era capace di raccontarle una bugia, figurarsi nasconderle
qualcosa; inoltre, perché mai avrebbe dovuto mentirle?
Certo, i
motivi
sarebbero potuti essere tanti, Amelia lo sapeva perfettamente
… tuttavia sua madre era morta qualche mese fa, lei non era
più una bambina, se ci fosse stato un problema nella vita di
sua madre se ne sarebbe dovuta accorgere … no?
Non aveva
mai creduto
che si fosse buttata spontaneamente da quella scogliera; piuttosto,
riteneva molto più probabile che qualcuno l’avesse
spinta giù da questa.
Però
… chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? E,
soprattutto, perché?
Da un
periodo a quella
parte aveva cominciato a credere che la chiave di tutto fosse proprio
quell’Orologio:prima quella strana luce, adesso questa
bottega assurda …
Se solo
fosse riuscita
a capire quale fosse la chiave che collegava tutti quegli eventi
…
Si avvicina
ad uno dei
lunghi tavoli da lavoro che corrono verticalmente attraverso tutto il
locale: sono pieni di scartoffie di ogni genere, dai progetti per come
sistemare delle lenti in un cannocchiale ad altri di cui Amelia non ha
la più pallida idea di cosa siano, non le pare di aver mai
visto qualcosa del genere in vita sua.
Dopo
diversi minuti
che i suoi occhi vagano a vuoto in quel caos senza via
d’uscita scorge qualcosa che le risulta stranamente familiare.
Allunga una
mano verso
un foglio non troppo distante, meravigliandosi non poco quando si rende
conto di star osservando una rappresentazione incredibilmente
realistica di un Orologio molto simile al suo.
In
realtà
il formato del foglio è piuttosto ampio –e
l’aspetto piuttosto antico, quel foglio pare essere di secoli fa–
e su di esso sono rappresentati ben dodici Orologi.
Sono tutti
piuttosto
simili tra loro, a cambiare è solamente il disegno
raffigurato sul retro:c’è il corvo di Amelia, un
frammento di vetro,
una chiave di basso
–sua madre era una musicista, suonava il pianoforte e le
aveva insegnato a riconoscere alcuni simboli musicali, oltre che a
riprodurre qualche semplice motivetto–, una pergamena, delle maschere teatrali,
degli ingranaggi
meccanici, una freccia,
il sole,
la luna e,
infine, addirittura la rappresentazione del mondo intero.
Quello che
colpisce
maggiormente l’attenzione di Amelia, tuttavia
–nemmeno lei sa perché– è
quello che riporta sul dorso l’effige di una clessidra.
Sembra un
po’ la chiave di lettura di tutti quegli Orologi, quelli che
li lega tutti.
Solo che
Amelia non ha
la più pallida idea del perché.
Le pare di
avvertire
un rumore improvviso, che le fa alzare la testa di scatto.
Strano, non
le pare
che nel locale sia cambiato qualcosa … tuttavia lei quel
rumore non se lo è immaginato, ne è certa.
È
allora
che le viene in mente: si guarda intorno, lo sguardo che ancora una
volta naviga tra quella confusione immensa.
E
davvero si chiede se sia la prima ad entrare in quella bottega dopo
quasi due secoli o se qualcuno l’abbia preceduta, alla
ricerca di chissà che cosa.
♟»
New
York, Stati Uniti d’America, 2120
Non ha
ancora ben
chiaro perché l’ha fatto.
Dubita sia
stato
desiderio di andarsene da quel luogo … inoltre nutre anche
un timore non indifferente nei confronti di quel mondo sterile
all’esterno della “campana di vetro”
dentro cui è rimasto per così tanto tempo.
Allora
perché ha accettato?
Forse la
risposta
è che sarebbe sembrato strano il contrario, tuttavia non
riesce a giustificarsi il perché debba sempre ricorrere a
quella sorta di logica contorta per poter motivare le proprie decisioni.
Lancia uno
sguardo
fugace alla persona al suo fianco, che avanza con una certa sicurezza
attraverso le strade buie e deserte di quella New York.
Jude si
stringe nella
giacca, rimedio di fortuna che hanno trovato per un puro caso, mentre
si chiede quale possa essere la dimestichezza del suo accompagnatore
con le strade di quella versione piuttosto inverosimile di una della
metropoli americane per antonomasia.
È
vero che
Ray procede nel suo cammino con una certa disinvoltura, eppure non
può fare a meno di chiedersi quando mai sia andato a farsi
un giro di ricognizione in quel luogo surreale.
Non glielo
chiede,
ovviamente: teme che potrebbe risultare scortese, inoltre non vorrebbe
mai rievocargli alla mente dei ricordi spiacevoli.
Sa infatti
che Ray
è rimasto in quel luogo per molto più tempo di
lui, peraltro senza nessuno accanto a fargli compagnia … per
questo a Jude non serve certo un indovino per capire quanto possa
essersi sentito solo, in tutto quel tempo.
Deve
aver rischiato di impazzire …
E ora che
non
è più da solo che cosa succede? L’unica
persona che vede dopo una quantità di tempo piuttosto
allucinante gli chiede un modo per andarsene di lì.
Senza
menzionarlo
minimamente, ovvio.
Jude si
sente
piuttosto egoista:la verità è che non ha pensato a lui, al fatto che
avrebbe potuto cercare di portarlo con
sé, a come si doveva essere sentito dopo che
gli aveva rivolto quelle parole …
“Okay,
ho
ragione io: sono davvero uno stupido” rimugina tra
sé, decidendo però di non tramutare i propri
pensieri in parole: non crede infatti che Ray sarebbe poi
così d’accordo con lui.
Piuttosto,
preferisce
chiedergli ben altro.
«Si
può sapere dove stiamo andando?»domanda infatti,
convincendosi a parlare mentre butta fuori una discreta
quantità di fiato.
Per tutta
risposta
riceve uno sguardo interrogativo, dopodiché quei piccoli
occhi neri tornano a guardare davanti a sé.
Come
sempre, dopotutto.
Jude
è
convinto che non lo sentirà proferire parola oltre.
Tuttavia,
sorprenderlo
è sempre stata una dote di quell’uomo.
«Certo
che
si può sapere. Dunque, avevo pensato di iniziare la ricerca
da un grattacielo: credo che, se andassimo in alto per quanto
più ci è concesso, potremmo avere
un’ottima visuale. E chissà che magari da
lassù non scopriremo qualcosa di
interessante…~»lo sente in effetti risponde.
Per un
momento Jude
rimane a bocca aperta, interdetto se chiedere altro o meno.
Tuttavia la
soluzione
al suo dilemma gli arriva neanche troppo tempo dopo, poiché
l’uomo si arresta di colpo, dinanzi ad un palazzo
dall’altezza piuttosto considerevole.
All’inizio
cerca quasi di trattenersi, mordendosi la lingua e tentando invano di
frenarla, tuttavia ovviamente tutti i suoi sforzi si rivelano inutili.
«Dobbiamo
entrare là dentro?»domanda, una nota dubbiosa ben
percepibile nella voce.
Sa che
è
una richiesta piuttosto superflua, dopotutto nemmeno dieci secondi
prima -erano dieci
secondi prima? Ahh, i soliti problemi con la percezione temporale-
gli ha detto che sarebbero dovuti andare in alto per vedere qualcosa.
Però
ormai
gliel’ha chiesto lo stesso, alla ricerca di chissà
quale conferma: comincia a sospettare che, in un mondo dove non ha la
neppur minima certezza, aggrapparsi a delle piccole certezze, come se
siano delle ancore di salvezza in un mare burrascoso e in tempesta, sia
l’unico modo in suo possesso per riuscire a sopravvivere.
Ray si
volta subito
nella sua direzione non appena lo sente parlare, osservandolo
intensamente. Non sembra intenzionato a parlare, quello no.
Jude
percepisce che
deve aver intuito il suo stato d’animo, non sa nemmeno lui
come, evidentemente deve avere una sorta di strana espressione dipinta
in volto -e di cui, a quanto pare, non riesce proprio a liberarsi- e
forse ha compreso quel suo bisogno irrazionale di ricevere aiuto,
qualcosa a cui aggrapparsi.
Ecco
perché, poco dopo, lo sente rispondergli.
«Beh,
direi
di sì»commenta infatti, cercando di risultare
quanto più semplice e comprensibile nel proferire la frase,
non vorrebbe confondere il ragazzo più del dovuto.
Deve
ammettere che
l’idea di entrare in un grattacielo vuoto e abbandonato non
rientri esattamente tra i suoi sogni segreti.
E
ancora si ritrova a chiedersi quanto valga la pena entrare
là dentro e fare tutte quelle cose, se poi è lui
stesso il primo ad avere dei dubbi sulle possibilità
concrete che hanno di andarsene da quel luogo.
«Ma
non
è illegale? Voglio dire, non dovrebbe trattarsi di
effrazione o qualcosa del genere?»obietta Jude, inarcando le
sopracciglia.
Ray scuote
la testa,
sospirando mestamente mentre replica:«Siamo in un luogo
disabitato, davvero credi che possa esistere un eventuale qualcuno che
avrebbe qualcosa da ridire se entriamo in un palazzo di
proprietà di nessuno?».
Jude scuote
prontamente la testa, il che fa sorgere un ghignetto divertito sulle
labbra dell’uomo.
«Dì
la verità, Jude, hai paura di trovarci dentro qualche zombie
affamato di cervella umane, vero?~»lo schernisce infatti,
piuttosto divertito da quella situazione.
Il ragazzo
decide di
ignorare bellamente quella provocazione, scuotendo il capo con
decisione mentre inizia a salire i gradini che portano
all’ingresso del palazzo, quasi con una punta di risentimento.
«Certo,
come
no»borbotta infatti poco dopo« Adesso che ne dici
di fare qualcosa di veramente utile ed entrare qui dentro,
anziché continuare a girarti invano i pollici?».
Ray sale in
fretta gli
scalini dietro al ragazzo, precedendolo nell’aprirgli la
porta del grattacielo ed invitandolo a entrare prima di lui con un
gesto galante.
Jude non
sembra farci
troppo caso, entra con disinvoltura, quasi come se non si fosse accorto
di Dark al suo fianco, come se fosse stato intenzionato fin
dall’inizio a fare ingresso in quel luogo prima di lui
… cosa che, in effetti, corrisponde al vero.
L’interno
dell’edificio è piuttosto malridotto -
dall’esterno non si sarebbe intuito così
facilmente- fuori infatti sembra tutto in un ottimo stato, il palazzo
mantiene una certa parvenza d’ordine, le ampie vetrate che si
affacciano sul mondo sono lucide e riflettono l’inquietante
oscurità di quel mondo con una veridicità
impressionante; dentro invece le stanze sembrano essere state
attraversate da dei monsoni.
Si trovano
in quella
che, all’apparenza, risulta essere la hall di una qualche
multinazionale, tuttavia non sembra esserci nemmeno una cosa al posto
che le spetti.
Quadri da
raddrizzare,
poltroncine d’attesa completamente ribaltate, fogli di
fotocopiatrice sparsi in ogni dove.
Jude si
stringe le
braccia intorno al corpo, rabbrividendo appena: quel luogo non gli
piace affatto, ha un non so che di spettrale, non si meraviglierebbe
se, da un momento all’altro, sbucasse davvero uno zombie
completamente dal nulla, tutto benintenzionato a nutrirsi del suo
cervello.
Ray invece
osserva il
luogo con aria decisamente più distaccata ed imparziale,
quasi asettica: proprio per questo individua quasi subito una grande
rampa di scale, ad una cinquantina di metri dalla scrivania in fondo
alla stanza che domina un po’ tutto il pianterreno, se
così si possa definire il posto dove ora si trovano.
Tocca con
pacatezza la
spalla del giovane, indicandogli le scale, che paiono avvilupparsi
intorno alla struttura di vetro e ferro di un ascensore.
Quel luogo
è indubbiamente moderno, non c’è che
dire, come del resto tutta quella sorta di sub-città.
Questo non
nega che ci
siano dei problemi anche lì: come nel resto di quella
surreale New York, non c’è elettricità
in alcun modo, inoltre come se non bastasse i cavi
dell’elevatore sembrano essere stati trinciati di netto.
La domanda
ovviamente
è come sia possibile tutto ciò: se nessuno vive
lì, chi mai può aver tagliato le linee guida di
un ascensore che non sarebbe riuscito a funzionare comunque,
considerata anche e soprattutto la generale mancanza di
elettricità diffusa in tutta la città?
Jude sente
che in quel
luogo c’è qualcosa che non va, lo ha percepito
prima ancora di metterci piede, questo tuttavia non
l’autorizza a darsela a gambe levate come invece
desidererebbe così tanto, anzi arrivato a quel punto
è cosciente che non può farlo, già
entrando lì ha fatto molto, inoltre non ha la neppur minima
intenzione di buttare all’aria tutti gli sforzi fatti sino a
quel momento per una paura stupida ed insensata.
«Non
dirmi
che dobbiamo salire tutte quelle scale...»mormora, quasi
implorando l’uomo.
«Abbiamo
detto che abbiamo bisogno di una buona visuale, ricordi?»gli
riporta alla mente l’uomo, con un tono piuttosto pragmatico.
Jude
sbuffa, piuttosto
insoddisfatto, tuttavia alla fine si arrende all’evidenza ed
al fatto che, volente o nolente, dovrà davvero farsi tutta
quella scarpinata.
Alla fine
sospira
ancora una volta e comincia ad arrampicarsi su per quelle scale, a
passi piuttosto svogliati, seguito a breve distanza dall’uomo.
L’ascesa
si
rivela essere piuttosto tediosa, inframezzata unicamente dai passi
ritmici dei due e dai loro battiti e respiri appena accelerati a causa
dello sforzo fisico.
Jude non ha
idea di
quanto ci mettano ad arrivare fino in cima al palazzo, non esistono
orologi in grado di definire una cosa simile, tuttavia è
piuttosto certo che siano trascorsi parecchi minuti quando finalmente
giungono all’ultimo piano.
L’aspetto
sembra quello di un ufficio dirigenziale, con diverse scrivanie e
poltrone rivestite di pelle rossa e nera.
Il buio
domina in gran
parte anche quel luogo, non c’è fonte di luce che
possa rischiararlo, sebbene sia presente anche qui una vetrata che
corre lungo tutto il piano.
A
differenza del
pianterreno, quel luogo sembra aver mantenuto un certo ordine,
probabile che loro due siano stati gli unici due a farsi tutte quelle
scale per… per cosa, poi?
Ma
cosa sta dicendo? “Gli unici”? Come se mai potesse
esserci qualcun altro oltre loro due in quel luogo, certo.
Però…
però per la prima volta un dubbio insorge nel ragazzo.
Si muove
intorno con
una certa cautela, osservando quel nuovo mondo che ora lo circonda.
Nota quasi
subito di
un dettaglio piuttosto bizzarro, che gli salta all’occhio con
prepotenza.
Si avvicina
alla
scrivania più prossima a sé e si china davanti ad
essa, osservando sbigottito ciò che ora vede ai suoi piedi.
Sono fogli,
anzi no,
non esattamente, sarebbe più corretto definirle pagine di calendario,
evidentemente strappate e lasciate cadere a terra con la stessa grazia
di petali di fiori.
Ne prende
alcune tra
le mani, facendole girare e rigirare tra le dita con delicatezza, quasi
come se avesse il timore che possano sgretolarsi da un momento
all’altro.
Non se ne
accorge
subito, tuttavia quando lo vede ci manca poco che gli venga un colpo:
su quel calendario, infatti, la data riportata è il 2100.
“Aspetta
un
momento…”mormora tra sé il ragazzo,
mentre i suoi occhi si dilatano a dismisura, prendendo delle vivide e
ancor più intense del solito sfumature cremisi.
Si rimette
in piedi,
le mani che adesso gli tremano in modo incontrollato.
“Com’è
possibile…?”si chiede, nello sguardo terrore misto
a disorientamento.
Avanza fino
a
ritrovarsi di fronte alla vetrate, le mani vi si appoggiano sopra,
ancora tremanti.
Sente
alcuni passi
alle sue spalle, tuttavia non si oppone ad essi in nessun modo, per
quanto sia duro ammetterlo a se stesso ciò che vorrebbe
adesso non è nient’altro che un po’ di
conforto.
Per questo
non rifiuta
le braccia dell’uomo che poco dopo si stringono intorno al
suo corpo, avvolgendolo nella sua interezza, rincuorandolo con delicate
accortezze.
È
incredibilmente piacevole, tutto sommato, sentirlo presente. Come se
non fosse lui a pensare, Jude si accorge che stare vicini è
davvero l’unica che cosa che possono fare, adesso.
Perciò
non
oppone alcuna resistenza a quel tocco gentile che ora l’aiuta
a voltarsi verso di sé.
Così
si
ritrovano uno di fronte all’altro, a guardarsi intensamente.
Chissà cosa vogliono dirsi, quegli occhi…
qualcosa che non è comprensibile a nessuno, se non a quello
stesso gioco di sguardi, il rosso che s’incrocia con il nero
e che affoga all’interno di quest’ultimo, come a
trovare finalmente pace.
Ecco
perché
non può far altro che abbandonarsi alle labbra che ora
premono piano sulle proprie, ponendo fine ad un dolore trascinato
dietro per fin troppo tempo.
Jude chiude
gli occhi,
lentamente:ora non è quello il senso che gli serve.
*
Angolo autrice *
{OTP OTP
OTP Jesus
Christ OTP}
Ignorate lo
sclera
là sopra, vi prego.
{OTP!}
Okay,
basta, la
smetto, giuro.
Non
parlerò
neanche del fatto che sono in ritardo perché da una parte
ehi!, è proprio così, sono in ritardo,
dall’altra invece per la prima volta in vita mia ho deciso di
fare un ragionamento sensato e ne emerso il fatto che la scrittura per
me è, in primo luogo, una grande passione, pertanto credo
che quando una passione si tramuta in un’obbligazione il
piacere che c’era nello svolgerla venga un po’ a
mancare.
E questa
non
è una bella cosa. Mai.
Così
ho
preferito prendermi più tempo per la stesura di questo
capitolo che alla fine, nonostante si sia fatto attendere per un bel
po’, però adesso è qui, nella sua
magnificenza di ben venti pagine di word. Pertanto gioite.
Spero possa
soddisfare
almeno un po’ tutta questa attesa:voglio dire, essendomi
presa tutto questo tempo per prepararlo dovrebbe essere perlomeno
decente, no?
Non so
quanto quello
scritto sopra abbia senso, perciò ignorate e andate avanti.
Parliamo un
po’ del capitolo:devo ammettere che mi ha messo un
po’ in crisi, specie per quanto riguarda gli ultimi tre point
of view. Anzi, in effetti mi reputo piuttosto fortunata, i primi due si
sono scritti praticamente da soli.
Dunque,
anzitutto
abbiamo finalmente visto introdotto l’ultimo personaggio che
mancava all’appello, vale a dire quello di Andrea (e qui ne
approfitto per ringraziare Marina
Swift, con la quale mi sono sentita spesso nel periodo pre
- pubblicazione e che diciamo mi è stata molto vicina in
questo senso). Se non si fosse capito, l’episodio della luce
luminosa è legato a quello di Amelia dello scorso (?)
capitolo –vale a dire che è lo stesso. Ciao, sono
Capitan Ovvio parte due.
Diciamo che
questo
capitolo è stato rinominato “Il capitolo delle ship”
perché giuro che me ne partiva una ogni dieci secondi. Dai,
ammettiamolo che Hurley e Atemu insieme sono due piccoli cutie
… o meglio, loro non stanno ancora insieme ma io
già li shippo, pace e bene fratelli (?)
Ops.
Spoiler.
Si
è notato
che non so essere imparziale? D’altronde però
questa è la mia storia, quindi perché mai dovrei
esserlo? u.u
Poi
(dimentico
niente?) abbiamo Ethan e devo ammettere che quando ho deciso il suo pov
in questo capitolo ero molto “Ethan ma what the f**k-”.
Credo però che questo avvenga perché io so tante
belle cose –che a voi ovviamente non posso dire, perché altrimenti che
gusto ci sarebbe?- e quindi boh, staremo a vedere.
Amelia
invece ha
trovato una bottega –per chi se lo sta
chiedendo:sì, ovviamente è quella bottega- e
ci ha dato un indizio interessante:come dissi nel prologo di questa
storia gli Orologi sono dodici, di fatto però gli oc che ho
ritenuto adeguati alla storia erano solo otto, quindi mi sono dovuta
inventare una fine plausibile per gli altri quattro.
Inoltre
abbiamo anche scoperto qualcosa in più sul suo
conto, vogliamo mettere? So che qualcuno di voi attendeva con ansia
questo momento (ciao chion
...)
E io una
fine plausibile me la sono inventata, solo che … non so,
comprende morte e sofferenza …
Il che la
rende
perfetta, yu-uh!
Quindi
arriviamo
finalmente all’ultima parte di questo capitolo, sulla quale
mi sono bloccata a lungo e sono riuscita a sbrogliarmene solo ieri
pomeriggio grazie all’aiuto di mia moglie Sissy, che a
proposito ringrazio come al solito per avermi betato il qui presente
panfleu e per avermi aiutata nella stesura dell’ultima parte
del capitolo, dove mi stavo fermando nuovamente. Ahh, come farei senza
di te? Non vedo l’ora di abbracciarti tra poco più
di un mese, yup yup~❤
E nnno,
niente {OTP-
ma non avevamo detto basta? owo} è che … su
questa ultima parte non riesco proprio ad essere imparziale,
perciò penso che non la commenterò oltre.
Ci terrei
piuttosto a
fare una constatazione:questo capitolo arriva in ritardo rispetto al
precedente di quasi due mesi –per motivi miei personali che
non credo sia questo né il luogo né il momento
adatto per stare a discernere questi ultimi– ma sta di fatto
che in questi due mesi solo tre
persone si sono degnate di recensire lo scorso capitolo.
Ora, io capisco tutto, di fatto sono io stessa a postare i capitoli
ogni due ere geologiche ed è chiaro che, come io posso aver
avuto dei problemi anche voi ne abbiate, però mi farebbe
davvero piacere sentirvi, specie per quanto riguarda Cari Chan e _AliHeichou_ che mi
sono un po’ sparite dalla circolazione.
Anche
perché, sia chiaro:se non vi fate più
sentire non mi riterrò responsabile se al vostro personaggio
verrà amputato un braccio o peggio ...
Ripeto,
capisco tutto e so che, da un certo punto di vista sono io stessa la
prima ad essere in ritardo, però che ne dite di venirci un
po’ incontro a vicenda, mh?
{Per
Sissy:moglie,
scusa se insisto ma anche le tue recensioni mi mancano
all’appello. Lo so che sei impegnata, però quando
vuoi mi fai un fischio …}
Quindi, per
piacere,
recensite. Altrimenti vi vengo a cercare (con affetto ❤)
Un’ultima
cosa:dal prossimo capitolo entreremo (credo) nella seconda parte della
storia, e per la verità pure nel vivo di questa. Preparatevi
a qualsiasi tipo di colpo di scena –ci sarà pure
un nuovo banner- ma per il resto non vi anticipo altro,
perché altrimenti non sarei io.
Bene, direi
che
è arrivato il momento di togliere le tende. Ringrazio
chiunque continuerà a seguire questa storia e chiunque
(nessuno) sia arrivato alla fine di questo space (nessuno). E
recensite, umpf.
Aria
|
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Capitolo 6 *** Uprising ***
«
Non è vero che abbiamo poco tempo:
la
verità è che ne perdiamo molto »
–
Seneca –
Chapter five
“
Uprising ”
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
Le tende color panna
ondeggiano lievemente in quell’ambiente accogliente, mosse da
un alito di vento proveniente dalla finestra, lasciata socchiusa.
In effetti, tutto in
quel luogo ispira uno spiccato senso di familiarità, a
partire dai raggi del sole che filtrano tenui all’interno
della stanza, atterrando con la fioca mansuetudine del pulviscolo fin
sulla moquette beige a terra, creando soffici macchie di luce, per
arrivare poi al bianco delle pareti.
Non è una
tinta inospitale, di quelle tanto asettiche che ti fanno sentire quasi
come se fossi rinchiuso in un ospedale, bensì
anch’essa trasmette una certa aria di vissuto.
La camera è
inoltre ricolma di una bizzarra quanto stranamente piacevole unione di
profumi, tutti immancabilmente differenti tra loro: un vago sentore di
alcool, forse tequila, rimasto a fluttuare lì dalla sera
precedente – e chissà da quante altre prima ancora
– dell’immancabile polvere, probabilmente
attribuibile in gran parte ai mobili in legno presenti in quel luogo,
un poco di fumo di sigaretta e diversi altri odori penetrati dalla
finestra socchiusa.
L’acqua
umida e inquinata del Tamigi, che scorre poco distante da
lì, lo smog dei mezzi di trasporto, l’aroma dei
caffè di prima mattina che proviene direttamente dai bar.
Atemu ha ancora gli
occhi chiusi, li strizza leggermente per via del sole, che lo colpisce
in pieno volto.
Se si concentra
meglio, riesce a percepire anche altri due odori.
Il primo gli ricorda
in modo incredibile quello delle crespelle dolci che adora, tuttavia si
convince piuttosto in fretta che deve trattarsi di
un’allucinazione influenzata dal suo subconscio – e
soprattutto dal suo stomaco, che attualmente non sembra essere affatto
intenzionato a smettere di borbottare per via della fame.
L’altro
invade letteralmente tutta la stanza: è un misto di sale,
vitalità e desiderio di avventura, un miscuglio alquanto
peculiare che Atemu non ha mai esitato ad attribuire ad Hurley.
Atemu apre subito gli
occhi, osservandosi rapidamente intorno. Non riesce a riconoscere il
luogo in cui si trova, tuttavia ha la pessima sensazione di essere a
casa di Hurley.
Il che non sarebbe
neanche un problema, certo, se solo riuscisse a ricordarsi come diavolo
sia finito lì.
Della casa di Hurley
conosce davvero solo poche stanze, ossia quelle che ha visitato nelle
rare volte in cui si è recato presso
l’appartamento del suo amico: la cucina, il piccolo soggiorno
e basta, oserebbe dire. È una casa piuttosto piccola,
sebbene questo non escluda quella sensazione di confidenza che tutto
lì trasmette.
Atemu si mette
dapprima a sedere sul letto, per poi cercare di alzarsi: il tutto lo fa
con una certa lentezza, cercando di non incappare in movimenti troppo
bruschi per il timore che il male alla testa torni a tormentarlo.
Ha ricordi piuttosto
offuscati della notte precedente, quindi non è esattamente
cosciente di come sia arrivato fin lì – e
soprattutto del perché si sia recato a casa
dell’amico piuttosto che nella propria abitazione.
Deve aver fatto un
salto con l’Orologio, perché ricorda abbastanza
nitidamente di essere andato in Egitto – pardon,
l’antico Egitto – nelle scorse
ventiquattr’ore, perciò considerando la sua scarsa
soglia di sopportazione di quegli assurdi sbalzi spazio-temporali.
A volte continua a
ripetersi che dovrebbe proprio smetterla, con quei salti…
peccato che la cultura e tutto ciò che è antico
abbiano un simile richiamo su di lui che pensare di doversi privare di
tutte quelle gli sembra davvero un peccato, oltre che impossibile.
Si rinfila gli
scarponcini, piegandosi per allacciarli non sente la testa vorticare
– e questo, a suo dire, è davvero un gran bel
segno.
S’incammina
a passi lievi attraverso la stanza, la moquette sotto i suoi piedi
attutisce i movimenti, così da non fare davvero alcun rumore
mentre si avvia verso la porta.
Aveva proprio bisogno
di un buon sonno ristoratore, in effetti: ora si sente molto
più leggero, ogni cosa gli sembra essere tornata a posto;
perfino l’Orologio, che mentre cammina sente rimbalzare
appena sul proprio petto, sotto la camicia di lino bianco che ancora
conserva un po’ di decenza, gli pare decisamente
più leggero e fresco rispetto alla notte precedente.
Eh, già:
dopo ogni salto, l’Orologio tende a surriscaldarsi e ad
appesantirsi, probabilmente per via della considerevole distorsione
dello spazio-tempo che si viene a formare quando lo si usa.
In effetti, non ci si
può di certo augurare di viaggiare in luoghi ed epoche
differenti e non creare nemmeno una minima modificazione nel luogo e
nell’epoca in cui ci si trova, sarebbe sciocco –
oltre che piuttosto impossibile – sperare in qualcosa di
diverso.
Se ci si mette anche
ad interagire con persone provenienti da periodi storici differenti dal
proprio, poi, non ne parliamo: si finirebbe per parlare o peggio
relazionarsi con gente appartenente ad un mondo totalmente diverso dal
proprio e, una volta ripartito, distorcerebbe la matassa temporale al
punto che gli altri conserverebbero un ricordo deformato di un incontro
che, di norma, non sarebbe mai dovuto avvenire.
Ahh,
la difficile vita di un Crononauta…
Atemu apre la porta,
ritrovandosi nello stretto corridoio dell’appartamento di
Hurley: altra buona notizia, almeno quello lo riconosce.
Percorre a passi
piccoli e silenziosi la strada che, gli pare di ricordare, dovrebbe
condurre fino alla cucina, anche se per una buona parte si affida al
proprio olfatto, seguendo l’odore di crespelle appena cotte
è impossibile finire in una stanza differente.
Trova Hurley ancora ai
fornelli, la padella in mano e un’altra crespella in via di
preparazione, intenta ad ondeggiare nell’arnese tenuto
abilmente sospeso sopra i fuochi dal ragazzo dai capelli rosa.
Non appena il surfista
si accorge che l’amico l’ha raggiunto in cucina gli
riserva un sorriso a trentadue denti, agitando appena una mano nella
sua direzione in un caloroso cenno di saluto.
«Ehilà!
Vedo che ti sei ripreso» commenta subito il padrone di casa,
senza riuscire a perdere il suo ampio sorriso.
«Eh
già…» Atemu, fermo sulla soglia della
stanza e con la schiena poggiata contro lo stipite della porta gli
rivolge un lieve sorriso, mentre ancora indugia sul da farsi.
Hurley, notando
l’amico temporeggiare, si lascia sfuggire una risata soffusa
mentre aggiunge:«Prego, accomodati pure».
Mentre si limita a
rispondere con un “grazie” sussurrato a bassa voce,
Atemu prende posto al vitreo tavolo circolare che Hurley gli sta
indicando con un braccio.
Il tavolo è
situato davanti ad una finestra piuttosto alta, che a partire da pochi
centimetri prima del soffitto arriva fin giù al pavimento,
donando un’ampia visuale sull’esterno.
Da lì
infatti Atemu riesce a distinguere piuttosto nitidamente i viali di
Hyde Park, appena avvolti nella nebbia mattutina che sempre
caratterizza Londra.
Poco dopo, mentre
Atemu è ancora perso nella contemplazione del panorama
esterno, Hurley lo raggiunge, portando con sé le crespelle
appena tirate fuori dalla padella e diverse bevande, tra cui del
caffè, il latte – ancora riposto nelle taniche in
plastica nelle quali viene commerciato in Inghilterra – ed
una caraffa contenente un’abbondante quantità di
spremuta d’arancia.
«Ecco
fatto» annuncia Hurley, con un sorriso trionfante
«spero che la colazione possa essere di tuo
gradimento».
«Lo
è, alquanto» si affretta ad assicurare Atemu,
racimolando un po’ dell’entusiasmo perduto la sera
precedente, per via della stanchezza «ti ringrazio, non
dovevi disturbarti tanto, specie dopo tutti i problemi che ti ho
causato nel giro di così poche ore…».
L’altro si
passa una mano davanti al volto, sminuendosi, per poi
interromperlo:«Ti sbagli, Atemu: dopo che sei arrivato qui
così malridotto, stanotte, non avrei potuto far altro che
aiutarti. Sei mio amico, dopotutto, ti sembro il tipo da lasciarti
fuori la porta?».
Il diretto interessato
non sembra intenzionato a rispondere, mentre si passa le dita tra i
lunghi capelli neri raccolti in una coda bassa si è
già irrimediabilmente perso ad osservare
l’amico… e dubita che la sua distrazione sia
dovuta ai postumi della sera precedente.
Hurley approfitta del
silenzio dell’amico per passargli una delle crespelle,
apostrofandolo senza cattiveria:«Tieni, mangia: hai bisogno
di rimetterti in forze».
Atemu annuisce,
condiscendente, ringraziando sommessamente il rosa mentre recupera le
posate ed inizia a mangiucchiare piano.
Di lì a
poco anche Hurley lo imita sebbene, a differenza di Atemu, si metta ad
addentare le crespelle con una certa voracità.
Hurley non
è stato mai un tipo abituato a fare grandi complimenti o
cerimonie e ad Atemu la cosa non ha mai dato particolarmente fastidio,
anzi se ne è sempre sentito piuttosto sollevato, non avendo
mai particolarmente apprezzato le persone troppo cerimoniose.
Forse però
è anche vero che Atemu è piuttosto di parte,
considerando che ormai si è reso conto già da un
bel po’ di essersi innamorato di Hurley.
L’altro non
ha mai dato segno di ricambiare i suoi sentimenti – o
perlomeno di provare per lui qualcosa di simile –
così Atemu si è sempre limitato a tacere la
verità ad Hurley, per paura di perdere il proprio migliore
– e unico – amico per via di una cosa del genere.
Certo, ha sempre
sperato in un cambiamento, magari notare un giorno nello sguardo di
Hurley un modo diverso di guardarlo, tuttavia per ora non si
è mai accorto di niente, perciò è
sempre rimasto in silenzio, ad aspettare.
C’erano
giorni in cui l’attesa diventava logorante, asfissiante, nei
quali il giovane dai capelli neri avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di
essere notato e fare così in modo che l’altro si
rendesse finalmente conto di ciò che provava realmente per
lui.
Perfino
baciarlo…
Poi però
ogni volta Atemu tornava in sé, ricordando a se stesso che
non erano quelli i pensieri che gli erano concessi, che era di altro
che doveva occuparsi, non certo di quello…
Come se fosse
facile…
No, lui doveva
aspettare: la sua volontà era stata ferrea fino a quel
momento, non poteva certo smettere di impegnarsi proprio adesso e
mandare così all’aria tutti gli sforzi che aveva
fatto per tutto quel tempo.
Si era di nuovo perso
nei suoi pensieri, il che sarebbe stato decisamente imbarazzante se non
avesse avuto ben altri problemi di cui preoccuparsi.
Solo allora infatti si
rende conto che, sotto la sua camicia, l’Orologio ha preso a
scaldarsi nuovamente, senza che lui l’abbia toccato.
Il che è
decisamente un ennesimo avvenimento da aggiungere alla sua ormai
infinita lista di stranezze che sono cominciate a capitargli, da quando
ha trovato quell’assurdo orologio.
Atemu cerca di non
dare a vedere la sua crescente preoccupazione ad Hurley, tuttavia con
l’Orologio che si scalda sempre di più contro la
pelle bronzea del suo petto gli è impossibile non agitarsi,
accavallando appena le gambe sotto il tavolo e muovendosi irrequieto
sulla sedia.
Nonostante tutte le
sue premure, ad Hurley non passa certo inosservata
l’inquietudine del ragazzo, che va mano a mano aumentando
ogni secondo di più, così non riesce a
trattenersi dal chiedergli:«Ehi, amico, va tutto
bene?».
Atemu si sforza di
sorridere mentre risponde, forse con un tono di voce più
acuto del solito:«Oh, sì, va tutto benissimo, ti
ringrazio…!».
L’altro, per
niente convinto dalla sua risposta, cerca di
insistere:«Sicuro? Magari posso
offrirti…».
Le parole di Hurley,
tuttavia, rimangono sospese a mezz’aria.
Poco dopo, infatti,
una luce intensa e di un giallo vivace si sprigiona da Atemu
– o meglio, dall’Orologio sotto la sua camicia
– avvolgendo interamente la figura del ragazzo.
Quando la luce arriva
al massimo del suo splendore sembra quasi esplodere, inondando
l’intera cucina di scintillii dorati; non appena i bagliori
iniziano a diradarsi, Hurley comincia a riaprire nuovamente gli occhi
– non si era nemmeno accorto di averli chiusi, in effetti.
Ci mette un
po’ a riadattare la vista all’ambiente intorno a
sé, cercando di focalizzare per bene ogni dettaglio.
La prima cosa che,
sfortunatamente, nota è il fatto che Atemu è
letteralmente scomparso dal suo appartamento.
Di certo, Hurley non
può negare a se stesso di essere alquanto sorpreso e
sbigottito.
«…un
sorso della spremuta d’arancia»conclude tra
sé, lasciando che le parole aleggino nella stanza che ormai
occupa nuovamente da solo.
♟»
Chicago,
Stati Uniti d’America, 2059
I
lampioni cominciano a spegnersi lentamente, uno dietro
l’altro, in contemporanea con il sorgere delle prime luci
dell’alba.
Man
a mano che Ethan, arrancando faticosamente sul marciapiedi, vede quelle
stesse luci affievolirsi ogni volta proprio nel momento in cui le
raggiunge, non riesce a fare a meno di pensare che perfino quei
bagliori si stiano spegnendo con lui.
O
forse è solo l’alcool che ha in corpo che lo fa
ragionare – o, per meglio dire, sragionare – in un
tal modo.
Quel
che è certo è che almeno non sta camminando
completamente al buio: infatti, con la venuta del nuovo giorno i primi
raggi del sole riescono a raggiungere le strade fredde di Chicago,
rendendole almeno un po’ più ospitali, sebbene sia
ancora mattino presto e non ci sia assolutamente nessuno in giro.
Il
che fa sentire Ethan ancor più solo.
Tira
un calcio ad una lattina, osservandola rimbalzare prima sul cemento del
marciapiede e poi su quello della strada accanto a sé.
Perché
non c’è in giro una macchina nemmeno a
quell’ora? Non pensava che una grande metropoli come Chicago
potesse spegnersi, dopotutto…
In
realtà i pensieri che Ethan sta soppesando in quel momento
sono proprio altri.
I
suoi occhi grigi sono ancora persi nella lattina che, lentamente,
rotola lungo la strada fino a che, finalmente, non si ferma.
Da
musicista quale è, Ethan non ha potuto fare a meno di essere
attirato da quel tintinnio metallico, così assurdamente
regolare, fino al punto di chiedersi se lui non si trovi nella stessa
situazione di quella lattina.
D’altronde,
anche lui sta rotolando, in balìa del corso degli eventi.
Come
se fosse un sasso trascinato via dalla tumultuosa corrente di un
torrente, così ora si sente Ethan, come quella sua incolore
routine lo stesse trascinando via, sempre più verso
l’autodistruzione…
Tuttavia
d’un tratto, letteralmente dal nulla, sente una voce giungere
da dietro le sue spalle e richiamarlo, con una calma sorprendente.
«Ethan
Bailey?»
Ah,
allora non era poi così deserto, quel luogo…
Ethan
pensa – erroneamente – che si tratti di uno dei
soliti fan, ecco perché indugia nel voltarsi; è
stanco, adesso vorrebbe solo poter andare a casa a riposarsi, non certo
incappare nell’ennesima trafila di selfie e autografi per
ragazzine troppo piccole per lui.
Forse
è troppo perso in pensieri di quel genere, tanto da non
accorgersi del pugnale dalla lama lunga una trentina di centimetri che
gli trapassa l’addome fin quando non inizia ad avvertire un
dolore intenso, bruciante, lacerante alla parte colpita, la lama che
gratta volontariamente conto le costole.
Sente
l’aria essere risucchiata via dai suoi polmoni, tanto che nel
giro di poco tempo rimane a corto di fiato, mentre un fiotto violento
di sangue scarlatto gli macchia la camicia candida, piena di volant sul
petto.
Ethan
si porta le mani sul ventre, solo che non riesce a capire…
qualcuno l’ha ferito? E perché mai sarebbe dovuta
succedere, una cosa del genere?
Le
gambe gli cedono, così si ritrova ben presto con le
ginocchia a terra sul selciato, la bocca socchiusa contratta in una
smorfia di dolore.
Arriva
un altro colpo, stavolta all’altezza delle spalle e forse
è solo suggestione, eppure a Ethan sembra quasi di sentire
la lama raschiare lo sterno.
“Per
pochi centimetri non ha colpito i polmoni…” valuta
il ragazzo tra sé. Forse il suo aguzzino l’ha
fatto apposta, per prolungare ancora di più quella sorta di
perversa ed efferata violenza.
Ethan
vorrebbe poter chiamare aiuto, solo che in quel momento tanto critico
la sua così preziosa voce stenta a far capolino, beffardo
gioco della vita. D’altronde, senza aria in corpo
è difficile cantare, figurarsi gridare per chiedere aiuto,
non è forse vero, Ethan? Te l’hanno sempre detto
tutti: i tuoi produttori discografici, i maestri di canto di cui dicevi
di non aver bisogno… non hai mai dato loro ascolto, Ethan.
Così, ecco come ti ritrovi adesso: sangue che macchia il
cemento a terra e bocca dischiusa nel vano tentativo di chiedere aiuto,
che non riesci a portare a termine. Perché sei debole, Ethan
Bailey. Ti sei fatto fregare come un povero sciocco da… da
chi, poi?
Un
ladruncolo qualunque, incontrato per strada a causa della mala sorte?
Qualcuno che ha bevuto più di te, stanotte e non
è ancora riuscito ac smaltire la sbronza?
Comunque,
forse gridare sarebbe inutile: hai già appurato che non
c’è nessuno, oltre te e il tuo assassino, nel giro
di diversi isolati. Forse a questo punto dovrebbe subentrare
l’amara consapevolezza d’aver fallito, Ethan:
dopotutto, per quanto ti atteggiassi e quante arie ti dessi, non sei
certo un Dio, bensì un comune, misero – se non
addirittura miserrimo – essere umano, parassita venuto fuori
dai bassifondi, che ha eretto la propria carriera lucrando sulle
sventure altrui, cavalcando l’onda del gossip quando ce
n’era bisogno. Ogni settimana con una ragazza nuova, feste,
eventi, alcol, droga. Una vita d’eccessi, la tua, proprio
come quella di ogni rockstar che si rispetti.
Anche
quando i giornali parlavano male, dicendo che la tua musica istigava al
suicidio, non hai fatto altro che fiondarti ancora di più in
quel progetto, non importava che il costo fossero delle vite umane.
Le
palpebre si fanno pesanti e calano sugli occhi, mentre il corpo cade in
avanti, facendolo ritrovare supino a terra, la faccia premuta contro il
marciapiede. Sono tracce di sassi, quelle che sente nella propria
bocca? Che schifo.
A
quanto pare, tuttavia, il tizio sopra di sé non ha ancora
finito di divertirsi con lui. Ethan inizia a pensare che sia il padre o
il fratello di una delle sue vittime, quelle persone che si sono
suicidate a causa della sua musica. Magari hanno dato troppo retta a
quelle cazzate scritte sul giornale e hanno deciso di dargli il
benservito. Gli pare un’ipotesi ben più
plausibile, in effetti.
Gli
viene rifilato un poderoso calcio sul fianco destro e se potesse Ethan
si piegherebbe ben volentieri su se stesso, cercando di attenuare il
dolore, solo che le ferite che ha nella pancia e tra le spalle glielo
impediscono, perciò non può far altro che ruotare
fino a ritrovarsi prono, non senza trattenere un rantolo per il dolore.
Sputa,
del sangue coagulato si rapprende sulle sue labbra e non volendo
finisce per schizzarsi tutta la faccia. La bocca vellutata e il suo
intero volto sono ridotti in uno stato assai pietoso, decide tuttavia
che quello è davvero il male minore.
L’aguzzino
si piega su di lui, posando le ginocchia ai lati del corpo abbandonato
di Ethan. Ci manca lo stupro in pubblico, e poi la sua collezione di
esperienze tremende sarà finalmente completa.
Passa
la lama imbrattata di sangue lungo la mascella prominente del giovane,
con un cipiglio impensierito. Ethan non ha la più pallida
idea di che cos’altro gli farà, adesso.
Sinceramente, non gli è ancora bastato averlo ridotto in fin
di vita.
Poi
succede una cosa strana, che mai Ethan si sarebbe aspettato. Il suo
assassino si mette a parlare.
«Sai,
detesto i tipi come te» ammette infatti, la punta di
disprezzo ben percepibile nella voce «quelli che nella vita
hanno tutto, insomma. Successo, fortuna, amore, soldi.
Ahimé, a me non è toccato nulla del genere,
così adesso mi tocca sfacchinare in giro per il mondo a
causa di un vecchio borioso. Odio la mia vita».
“Non
sai quanto io detesti la mia, di vita” vorrebbe replicare
Ethan, peccato solo che ormai abbia finito già da un bel
po’ il fiato che aveva in gola.
Una
domanda, tuttavia, continua a ronzargli prepotentemente nella testa,
senza lasciargli tregua.
Chi
diavolo è quel tipo?
Alla
fine, con le ultime forze che gli rimangono, Ethan si costringe a
sollevare le palpebre. E la visione che gli si para davanti
è a dir poco sconvolgente.
È
abbastanza sicuro di non averlo mai visto prima, in vita sua. Pelle
diafana, occhi verde-grigiastri, capelli castani acconciati in una
maniera talmente improponibili che farebbero ridere persino i polli.
Anche in punto di morte, è difficile non notare certi
particolari, per uno che tiene tanto alla moda come Ethan.
Per
un attimo crede che quel tipo possa essere interessato
all’Orologio, tuttavia ben presto è costretto a
smentire nella sua testa anche quella ipotesi, poiché
soprattutto per lui è impossibile non notare la catena che
scende dal collo del giovane, terminando in un Orologio in tutto e per
tutto identico al suo, tranne per il retro, decorato da tanti e fitti
microscopici puntini. È abbastanza certo di non aver mai
visto niente del genere. Che diavolo è quella roba?
Continua
a chiedersi chi diavolo sia questo ‘vecchio
borioso’ che quel ragazzo ha nominato, solo che non ha il
tempo materiale per poter trovare una risposta a quella domanda.
«Oh,
beh» riprende il ragazzo, con voce fredda e impassibile,
melliflua, calcolatrice «sono qui per portare a termine un
lavoro. Vediamo di finirlo nel migliore dei modi».
Ciò
detto, Ethan sente ancora la lama trafiggerlo. Solo che, questa volta,
ad essere colpito è il cuore. E il buio cala davanti ai suoi
occhi mente Ethan Bailey, inesorabilmente, muore da solo, in una via
deserta del centro di Chicago.
Riemergere da quella
specie di visione è come prendere una profonda boccata
d’aria, dopo interminabili minuti d’apnea.
Thiago sbatte un paio
di volte le palpebre, decisamente confuso.
Il musicista Ethan
Bailey è morto nella notte tra il venti e il ventun
novembre, brutalmente assassinato da un uomo senza nome e senza volto.
Le ipotesi sul suo omicidio sono state tante – vendetta
personale, rapina finita male, semplice incidente umano –
eppure, dopo quasi un mese dall’accaduto, gli inquirenti
sembrano non riuscire ancora a darsi una risposta.
Più che
altro, le prove dell’omicidio – tra le tante,
l’arma del delitto – sembrano essersi letteralmente
volatilizzate nel nulla.
Ora, però,
la situazione sembra essersi ribaltata.
Dopo aver sentito
parlare di quell’artefatto, per mesi e mesi Thiago
l’ha cercato in lungo e in largo, fino a quando non
è incappato in quell’articolo di giornale sulla
morte di Ethan, in cui si faceva cenno al misterioso medaglione che il
ragazzo aveva indosso, quando era stato ritrovato riverso in una pozza
di sangue.
Si era pensato che
fosse stato quello l’obiettivo dell’aggressore,
tuttavia non era riuscito a portarglielo via. Forse per mancanza di
tempo?
In realtà,
in quel momento Thiago può tranquillamente affermare che non
era all’Orologio che quel tipo mirava, bensì a
Ethan stesso.
Non per faida
personale, non spinto dalla foga dei giornali scandalistici o
quant’altro… no, il punto era un altro.
Qualcuno aveva spinto
quel ragazzo a compiere un gesto così efferato. Un
‘vecchio borioso’, stando a quella ricostruzione.
Thiago non può fare a meno di porsi la stessa domanda che
è riecheggiata nella mente di Ethan, in punto di morte: chi
diavolo sarebbe questo vecchio di cui il ragazzo parlava?
Per anni, Thiago ha
rincorso quell’orologio, sulla scia di miti e leggende. Aveva
sentito parlarne per la prima volta tanti anni addietro, in uno dei
suoi numerosi viaggi di lavoro. Da allora non aveva mai smesso di
cercarlo, correndo dietro alle più disparate piste, da
quelle più giuste ad altre, decisamente sbagliate ed
altamente improbabili.
E poi era incappato in
quel trafiletto, su un giornale di seconda mano, in cui si faceva
riferimento alla morte di un giovane musicista ventenne, sepolto con il
suo strano orologio.
Da qualche parte
– una biografia di Ethan, uscita in seguito alla sua
prematura scomparsa – aveva letto che uno dei sogni del
ragazzo era morire a ventisette anni, possibilmente di morte violenta,
così da poter essere ricordato nel Club 27, ossia gli
artisti principalmente statunitensi morti proprio a
quell’età.
Vedere il proprio nome
comparire insieme a quelli di Kurt Cobain, Jimi Hendrix ed altri
artisti di tale calibro gli avrebbe conferito gloria e fama eterne.
Non sa quante di
quelle dicerie corrispondano alla realtà, tuttavia Thiago
preferisce pensare che Ethan volesse avere successo nella vita con la
sua musica, non certo per essere morto alla stessa età di
Jim Morrison.
Comunque, a quanto
pare Ethan non è riuscito nel suo intento di diventare
“indimenticabile” nella memoria della gente e
Thiago dubita che sia perché è morto con sette od
otto anni d’anticipo rispetto a Brian Jones, quanto piuttosto
per quel che ha fatto in vita. Ethan Bailey era infatti un narcisista,
cinico, insensibile musicista, disposto a lucrare sulla morte altrui
pur di costruire il proprio successo.
In un certo senso,
Thiago si sente simile a lui: certo, non ha mai pensato di passare
sulle vite altrui pur di raggiungere i suoi scopi, però non
può negare a se stesso di essere anche lui, almeno un poco,
arrivista.
Ha investito tutta la
sua vita nel lavoro e nella ricerca di quell’Orologio, ecco
perché adesso è lì.
Meglio non pensare a
quanto ha dovuto pagare i becchini per far disseppellire loro quella
bara e, chiaramente, per assicurarsi che tengano la bocca chiusa
sull’argomento. Per lo scopo che si è prefissato,
è disposto a questo ed altro.
Tornando alle dicerie
sull’Orologio, una di queste era che, al momento del
passaggio non concordato tra il vecchio possessore e quello nuovo,
quest’ultimo rivedesse nella propria mente gli ultimi momenti
di vita del vecchio proprietario.
Beh, inutile dire che
Thiago ha appena accertato la veridicità di quelle parole
– per quanto non fosse di certo favorevole a ricevere gli
ultimi stralci di vita di un ragazzo spocchioso e pieno di
sé morto assassinato, certo.
La visione era stata
incredibilmente realistica, gli sembrava di poter sentire ancora
l’odore acre del sangue e il pugnale conficcarsi nelle
proprie carni, anziché in quelle di Ethan.
Thiago rabbrividisce,
nel freddo pungente di dicembre. È passato quasi un mese dal
funerale di Ethan – niente di troppo formale o pomposo, una
semplice cerimonia privata riservata solo agli amici e ai pochi
famigliari – e le corone di fiori poste sul cumulo della bara
sono pressoché appassite, tra i primi fiocchi di neve.
Nessuno si reca a far
visita a quel tempio, nemmeno i fan. Neppure un nuovo omaggio ad ornare
la terra fredda che ha accolto la salma senza vita di quel giovane uomo.
Thiago se
l’aspettava, perciò ha avuto il buonsenso di
portare un unico fiore, una rosa bianca. Non che fosse un ammiratore
della musica di Ethan, è abbastanza certo di non aver mai
sentito niente di suo, perlomeno fino a dopo la sua morte, quando
qualche radio locale si è degnata di passare alcuni suoi
pezzi. Aveva una gran bella voce, Ethan. Roca, sofferta, accattivante.
Cantava
d’amore, a volte di dolore. Qualche ANSA di nicchia deve aver
sparso la notizia che Ethan fosse innamorato di un suo amico, un certo
Joseph King. Ecco perché gli ha portato quella rosa: una
volta, una fiorista in Portogallo – la sua patria –
gli ha detto che, nel linguaggio vittoriano dei fiori, la rosa bianca
significava “un cuore che non conosce
l’amore”. La definizione gli è parsa
adatta ad Ethan, poiché a quanto pare non ha mai avuto il
coraggio – o forse, più semplicemente, il tempo
– necessario per poter confidare il suo amore a questo Joseph.
Quanto
all’Orologio, Thiago ha cercato di ricostruire un filo di
verità intorno a quell’oggetto. Parrebbe trattarsi
di un artefatto magico, costruito anni addietro da un alchimista di
Londra, un certo Joshua Parrish, che per molto tempo si è
spacciato per un semplice artigiano, lavorando presso la sua bottega.
Pare che, nel 1782,
Joshua avesse costruito dodici Orologi, dei congegni che, grazie
all’alchimia che scorreva nei loro ingranaggi, fossero in
grado di viaggiare tra le varie pieghe del tempo, passate o future.
Peccato che qualcuno
avesse scoperto le reali intenzioni
dell’artigiano-alchimista, così da decidere di
ostacolarlo. Chi fosse stato in possesso di tutti gli Orologi, infatti,
sarebbe stato un vero e proprio Signore del Tempo, capace di dominare
ogni epoca a proprio piacimento.
A quel punto, un uomo
crudele e senza scrupoli tentò, dopo aver ucciso Joshua, di
impossessarsi di tutti gli Orologi, tuttavia l’alchimista era
stato più furbo: infatti, aveva già disposto ogni
cosa in modo da far sì che, alla sua morte, avvenisse quella
che comunemente viene denominata la “diaspora degli
Orologi”, vale a dire la dispersione degli artefatti magici
in giro per tutto il mondo.
Da allora, al
succedersi di ogni nuova generazione, una dozzina di nuovi ragazzi
entra in possesso ciascuno di un Orologio e il loro compito
è quello di non far cadere gli artefatti in mano del loro
nemico e, dunque, sconfiggerlo.
Quanto a chi sia
quest’uomo, beh, nessuno lo sa per certo: è senza
dubbio una persona assetata di sangue, pronto a qualsiasi cosa pur di
ottenere quel potere che agogna da quasi due secoli e mezzo.
Già, chi entra in possesso di un Orologio –
comunemente abbreviato in Oro – perde la capacità
di invecchiare, fino a che non se ne separa, per volontà
propria o costretto da altri che sia.
Probabilmente, ragiona
Thiago, quello che ha visto nei ricordi dell’Oro di Ethan
doveva essere un emissario del nemico, visto che al collo portava
l’Oro del male – sì, gli Oro si
distinguono in base ai simboli raffigurati sul retro e cambiano in base
a chi li possiede.
La cosa strana
è che Thiago è abbastanza sicuro di non aver mai
visto quell’effige, prima di allora.
L’Oro tra le
sue mani brilla di una luce turchese scuro, mentre sente il retro di
esso farsi di una temperatura insostenibilmente calda. Malgrado
ciò, Thiago si costringe a tenere l’Oro ancora ben
stretto nella sua mano, fino a che la luce non si attenua e il calore
smette di diffondersi.
Adesso, sul retro
dell’Oro, è rappresentato un ragno, simbolo dello
zelo e dell’operosità: gli aracnidi, infatti, sono
noti per la loro pazienza nel tessere le tele, dove poi attirano le
loro prede, per catturarle e mangiarle in tutta calma, mentre queste si
dibattono tra quei fili da cui non riusciranno a liberarsi e che
causeranno loro la morte.
Ecco, Thiago non
è certo un ragno in questo senso, tuttavia sa di essere
provvisto di quel giusto pizzico di zelo – e, talvolta,
sprovvedutezza, certo – che gli consentono di avere sempre la
meglio su tutti i suoi avversari. Anche stavolta ce l’ha
fatta, sebbene sopraffare qualcuno che è già in
una bara non sia poi così difficile.
A tal proposito,
continuare ad osservare la salma grigiastra di Ethan non gli
sarà certo di beneficio. Ormai il passaggio
dell’Oro è avvenuto e senza intoppi, pertanto non
ha più senso fissare quel corpo dalla pelle mortalmente
diafana.
«Potete
rimetterla giù» comunica agli inservienti del
cimitero, che chiudono la bara e cominciano a calarla nuovamente
sottoterra. Non sa perché, eppure ha come
l’impressione che questo gli costerà degli altri
soldi.
Ora anche Thiago
è finalmente un Crononauta e ha tutte le intenzioni di
rimanerlo per un po’, non certo di farsi portare via la vita
tanto facilmente come è successo ad Ethan. Ripensa tuttavia
all’emissario del nemico che gli è apparso nella
visione, con quello strano Oro mai visto da nessun’altra
parte e sa già che sarà una missione
tutt’altro che semplice.
♟»
New York,
Stati Uniti d’America, 2120
Quando
l’ossigeno torna a fluire nei suoi polmoni, Jude quasi non se
ne accorge.
Ha gli occhi chiusi,
sente le guance in fiamme e il cuore martellargli ad un ritmo folle nel
petto. Le labbra gli fremono ancora, mentre tutto il mondo sembra
essersi ristretto ad un pugno di centimetri.
Sa di non essersi
sognato tutto – ed è ben lieto del fatto che non
sia così – eppure gli appare tutto in modo
così incredibile che crederci gli sembra folle.
Sa tuttavia che non
sta immaginando le mani che ora gli stringono piano il volto,
così come la fronte che si poggia alla sua, o lo sbuffo di
fiato leggero che gli colpisce il viso, riportandolo di colpo alla
realtà.
È in una
dimensione che non è la sua.
Parla da tempo
indefinito con una persona che credeva morta da quattro anni.
Quella persona
– che altri non è se non Ray Dark – lo
ha appena baciato.
No,
un momento.
Ray Dark
l’ha appena baciato.
Oddiooddiooddiooddio.
Jude deve ripeterselo
nel cervello circa un centinaio di volte, prima di cominciare a
rendersi conto dell’effettiva realtà dei fatti.
“Calmo. Sta
calmo, Jude. Ragiona lucidamente, ti prego, non andare nel
panico…”
Oh, andiamo, a chi
voleva darla a bere, ormai era già innegabilmente nel panico
più totale da cinque minuti buoni. Lui, quello sempre
padrone di sé e delle proprie emozioni—
Oh, al diavolo.
«Jude»
La voce
dell’uomo sembra risvegliarlo da una letargia secolare; non
appena solleva le palpebre ed incrocia lo sguardo affranto e colpevole
dell’altro, Jude sente il cuore riprendere a battere con una
frequenza insostenibile, mentre un nodo in gola si stringe, ad
ostruirgli il respiro.
«Ti prego,
perdonami» lo sente riprendere, di lì a poco
«ho fatto una cosa terribile, lo so. Io—»
Jude, tuttavia, non
gli lascia il tempo per finire la frase.
Poggia
l’indice sulle sue labbra, intimandogli il silenzio, mentre
percepisce il corpo di Ray sobbalzare per quel gesto improvviso,
inatteso.
«Ti stai
scusando per avermi baciato?»
domanda Jude, la voce piatta e monocorde che si rivela stranamente
minacciosa.
«B-beh…
sì, a dir la verità…» cerca
di spiegare l’altro, avvertendo la voce pericolosamente
incerta.
«Mi
è piaciuto»
«Cosa?»
«Come
‘cosa’?» Jude sospira, facendo roteare
gli occhi per l’esasperazione «Parlo del bacio,
Ray, a cos’altro diavolo dovrei rif—»
«Ti è piaciuto?»
Ray sembra incredulo, non pensava che avrebbe mai sentito dire quelle
parole a Jude Sharp.
«È
quello che ho appena detto» replica il diretto interessato,
gli pare di star parlando con uno stupido – cosa che Ray Dark
non è, affatto. Può attribuire un sacco di
aggettivi negativi a quell’uomo – megalomane,
folle, cinico, prepotente e via dicendo – di certo tuttavia
non può dargli dello stupido.
Ha visto con i suoi occhi quello che è in grado di fare e
per quanto il più delle volte si tratti di cose malvagie su
cui Jude non è affatto d’accordo, sa che
dietro ogni suo gesto si cela una grande dose di raziocinio.
«Davvero?»
rincara l’altro, sembra letteralmente incredulo.
«Certamente»
gli assicura il giovane, rivolgendogli un lieve sorriso.
«Oh, allora
è così, mh?» Dark sembra essersi
ripreso dallo shock della rivelazione, mentre stringe la vita del
ragazzo e lo trascina con sé «Beh, in tal caso
potrebbe anche saltarmi in mente di fare una cosa».
«Che genere
di cosa?» si azzarda a chiedere il giovane, tenendo le
braccia strette attorno al collo dell’ex allenatore e
lasciandosi trascinare lentamente.
«Direi…
questa» si appresta a rispondere l’uomo, sorridendo
furbescamente.
Neanche un secondo
dopo, le sue labbra tornano su quelle del ragazzo, riempiendole con una
miriade di piccoli baci.
Jude arrossisce, senza
tuttavia accennare all’intenzione di allontanarlo da
sé.
In fondo, finirebbe
per mentire a se stesso se dicesse che tutto ciò non gli
stia dannatamente
piacendo.
«Ti
amo» sente mormorare Ray, tra un bacio e l’altro
«ti amo, ti amo, ti amo…»
«E-ehi…»
lo richiama poco dopo Jude, carezzandogli una guancia mentre si
distacca piano da lui, appoggiando la fronte contro la sua «e
perché te ne vieni fuori con una cosa del genere solo
adesso?»
Ray sembra sorpreso da
quella domanda, tanto che per un attimo le sue iridi sembrano
dilatarsi, puntini neri d’inchiostro che si espandono lungo
un mare di carta bianca.
«Beh, ecco,
io…» balbetta l’uomo, poco dolo,
apparentemente spiazzato «…n-non sapevo se
dirtelo. Avevo paura di spaventarti, non volevo che mi odiassi ancora
di più…»
«Ray»
Jude sospira, ha l’impressione di rivolgersi ad un bambino
«io non ti odio. Ti ho perdonato tanto tempo fa,
ricordi?»
«M-ma»
dopo quelle parole, Ray sembra essere ancora più confuso
«tu l’altro giorno hai detto che mi
odi…»
«Oh,
insomma» Jude sbuffa, esasperato, deve fare uno sforzo
immenso per non mettersi ad urlare «mi dispiace per quello
che ho detto. Credevo sapessi però che non lo penso sul
serio, in quel momento ho sbraitato così solo
perché ero infuriato con te».
«Sul
serio?»
Jude sospira di nuovo
prima di replicare ancora una volta:«Dio, Ray, certo che
sì. E smettila di tremare in questo modo,
dov’è il Comandante spavaldo e sicuro di
sé che amo?»
«Che il
cielo sia lodato!» gli occhi dell’uomo sembrano
illuminarsi, mentre si lancia nuovamente a baciare quelle labbra
giovani e tanto amate «Hai detto che mi ami, Jude, hai detto
che mi ami~»
«E-ehm…
sì, l’ho detto. Ray, adesso potresti smetterla
di—»
«Hai detto
che mi ami!»
«Ray, se non
la pianti immediatamente di interrompermi giuro che mi rimangio ogni
singola parola che ho detto» lo minaccia subito il ragazzo,
senza indugiare oltre.
«Oh»
l’uomo si ferma all’istante sul posto, congelato al
pensiero di quella possibilità «sì,
giusto, hai ragione. Ti chiedo scusa, Jude».
Il giovane Sharp
sogghigna soddisfatto: sono poche le volte in cui Ray Dark
l’abbia lasciato spuntarla, durante un dibattito.
«Molto
bene» Jude gli carezza il capo, con sguardo malizioso
«e adesso che si fa?»
Ray ghigna
immediatamente, ricambiando l’occhiata lasciva del giovane.
«Oh, io una
mezza idea ce l’avrei…~» ammette infatti
poco dopo, prendendo colui che ora, a maggior ragione, può
finalmente definire il
suo ragazzo, per mano.
«Vieni con
me» aggiunge ancora, la voce carica d’aspettativa.
«Anche in
capo al mondo» s’affretta a replicare il ragazzo,
un sorriso gentile che gli fa capolino sul volto.
Ed è lo
stesso sorriso che, poco dopo, incurva le labbra dell’uomo,
solitamente piegate nel consueto ghigno arcigno, mentre inizia a
correre attraverso l’ufficio in cui si trovano, e poi
giù, giù, giù, lungo rampe e rampe di
scale.
Jude ride cristallino,
lasciandosi trascinare con piena condiscendenza. Per un istante la
tentazione di ricordare a Ray – sebbene sia abbastanza sicuro
che l’uomo lo sappia già – che non
avrebbero dovuto baciarsi, oltre al fatto che nessuno di loro due
dovrebbe provare dei sentimenti del genere verso l’altro.
Però alla fine decide di non farlo, non vuole rovinare quel
momento così perfetto con le sue solite stupidi ed inutili
paranoie.
Dal canto suo, anche
Ray ha preferito omettere qualcosa al suo ragazzo: mentre correvano via
da quell’ufficio, infatti, ha intravisto uno strano bagliore
purpureo, attraverso la lunga vetrata.
Non gliene ha parlato,
perché quella risata limpida e quegli occhi rossi che
scintillano solo per lui valgono decisamente molto di più di
una luce che potrebbe benissimo essersi sognato.
Non turberebbe mai e
poi mai la tranquillità di Jude, non in un momento del
genere, ora che il ragazzo ha ripreso a sorridergli e a fidarsi di lui
dopo così tanto tempo.
Ray,
però, ancora non sa che quel bagliore potrebbe essere ben
più importante di quello che crede…
♟»
Nel
frattempo, in un luogo non meglio definito…
Spire di fumo si
uniscono in ipnotici movimenti circolari, ricreando una superficie
speculare, attraverso la quale appaiono, nitidi e ben visibili, Jude
Sharp e Ray Dark, intenti a correre giù lungo ampie rampe di
scale, tra risolini entusiasti ed occhi scintillanti.
“Che scena
al limite del patetico” si limita a commentare tra
sé l’uomo seduto sul trono dorato, con la solita
espressione impassibile.
«Non era
così che dovevano andare i piani» sente sbottare
qualcuno, in fondo alla sala immersa nelle tenebre.
L’altro
rotea gli occhi, esasperato. Possibile
che, tra tutti i servitori esistenti al mondo, proprio a lui dovesse
toccare un moccioso spocchioso e amante delle insubordinazioni?
«Ah,
buonasera» l’uomo si volta in direzione del nuovo
arrivato, con un’espressione di biasimo «andato
bene il viaggio? Per tua fortuna ti sei risparmiato la parte in cui si
dichiarano amore eterno e via discorrendo—»
«Non mi
racconti cazzate» sbotta il giovane, sputando a terra,
disgustato «dovevamo farli fuori tempo fa, quando ne avevamo
la possibilità. Quei due sono una minaccia bella e buona per
i nostri progetti…»
«I miei progetti,
vorrai dire» il sorriso scompare dal volto
dell’uomo, tramutandosi ben presto in un ghigno che gli
è più congeniale «non prenderti meriti
che non ti appartengono, Stonewall. Se non fosse stato per me, tu
saresti ancora da qualche pare a commiserare la tua patetica figura,
nel 2059. Suvvia, porta rispetto… e modera il linguaggio,
soprattutto».
Fosse per Caleb,
adesso salterebbe ben volentieri alla gola di quel vecchio aguzzino
senza scrupoli. Un attimo prima che possa farlo, tuttavia, si ricorda
che l’uomo per cui lavora ha così tanto potere da
poterlo uccidere in un istante, se solo lo desiderasse.
«Vorrei
ricordarti inoltre – visto che forse te ne sei scordato
– che sei dentro questa storia fino alla punta dei capelli, pardon, mi
correggo, fino alla punta di quell’orrendo ciuffo che ti
ritrovi in testa. Hai forse dimenticato di essere stato tu ad uccidere
Ethan Bailey, lo scorso novembre?» puntualizza il vecchio,
con voce arcigna e calcolatrice.
E merda,
sì, quel tizio ha fottutamente ragione. Si è
macchiato le mani del sangue di qualcun altro per lui, solo
perché era d’intralcio
per i piani. ‘Una minaccia troppo grande’
l’aveva definito il vecchio, prima di mandare Caleb ad
ucciderlo. Minaccia per cosa, poi, il ragazzo non l’aveva
capito.
Cazzo, aveva ammazzato
Ethan senza nemmeno saperne il perché. Se
quell’uomo gli avesse detto di buttarsi da un ponte,
probabilmente l’avrebbe fatto senza battere ciglio, pur
continuando a non capirne il motivo.
«Piuttosto»
lo richiama il vecchio, massaggiandosi distrattamente una tempia
«ti sei occupato di quelle ‘faccende’ che
ti avevo detto?»
«Certamente,
Signore» risponde meccanicamente Caleb, non senza una smorfia
di disgusto «ho rifilato una botta in testa a Ziva Shapira,
per poi iniettarle la sostanza – che Lei mi ha consegnato,
Signore – mentre era ancora svenuta. Sono abbastanza certo
che, una volta risvegliata, non ricordasse un bel niente di Orologi e
quant’altro. Comunque, adesso a quanto pare l’Oro
del Tempo – quello con il simbolo della pergamena, per
capirci – sarebbe caduto nelle mani di una certa Claudine
Blanchard, cambiando il simbolo in una rondine, quindi l’Oro
della Libertà. Per quanto riguarda Shiba Orubo, è
stato più semplice del previsto: quel tipo ha sempre la
testa in culo al mondo, mi è bastato spingerlo
giù oltre il reticolo spazio-temporale durante uno dei suoi
viaggi e il gioco è fatto. Adesso ad essere in possesso
dell’Oro dell’Ingegnosità sarebbe Amos
Akolzin, chi diavolo sia nessuno lo sa. Infine, quanto
all’Oro della Musica di Ethan Bailey che, come Lei ha
ricordato, sono stato io stesso ad uccidere…»
«…ora
appartiene, proprio come io avevo previsto, a Thiago Joel Ferreira dos
Reis, arrivato in America direttamente dal Portogallo, come Oro
dell’Ambizione. Possiamo rilassarci, Caleb. Tutto procede
secondo i nostri piani. E ti avevo detto di moderare il linguaggio,
cosa che tu non hai fatto, tuttavia adesso queste non sono che inezie,
dinanzi alla magnificenza di ciò che si sta costruendo sotto
ai nostri occhi» conclude l’uomo, pieno di un
preoccupante fervore.
«Sì»
cerca di riprendere Caleb, ben più ancorato alla
realtà dei fatti «ma per quel che riguarda Jude
Sharp e Ray Dark…»
«Oh, Caleb,
dunque è questa la tua preoccupazione?» chiosa
l’uomo, quasi prendendolo in giro con quelle sue stesse
parole «Di questo non dobbiamo preoccuparci, mio fedele
servitore. Lasciali pure ardere in questa passione: vedrai che, a conti
fatti, di loro non resteranno che ceneri, mentre a trionfare saremo
noi».
E, detto
ciò, quell’essere viscido e perfido scoppia in una
roca risata malvagia, mentre Caleb serra la mascella, fissando il suo
migliore amico e il suo ex allenatore correre e ridere attraverso
quelle strade deserte, diretti verso l’Hillton Hotel.
*Angolo
autrice*
Oddio, non ci credo,
sono riuscita a finire questo capitolo.
Probabilmente
adesso, in qualche remota parte del mondo, a Marina sarà
venuto un infarto
Sono molto felice di
potervi lasciare questo nuovo capitolo e Ange è
contenta di poterlo finalmente leggere
Comunque, ammetto di
essere in ritardo stratosferico, visto che l’ultimo capitolo
risale a sei mesi fa e al tempo stesso di essere invece abbastanza in
tempo, perché le nuove iscrizioni si sono chiuse tre giorni
fa.
Ebbene sì,
abbiamo un nuovo assetto dei Crononauti, che qui di seguito vi
andrò ad elencare, con rispettivi colore della luce
dell’Orologio durante il salto spazio-temporale e simbolo sul
retro dell’artefatto
Amelia Greene ~
corvo
Thiago Joel Ferreira dos
Reis ~ ragno
Claudine Blanchard
~ rondine
Margarita
Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Atemu McKinley
~ mondo
Amos Akolzin
~ ingranaggi
Andrea Cervini
~ scheggia di vetro
Ed eccoli qua, i
nostri prescelti :3
Mi spiace per chi
è stato eliminato ma… in un certo senso, ve la
siete cercata voi.
Parlando del
capitolo… come vi avevo promesso, abbiamo un nuovo banner.
Probabilmente l’altro era più carino, sappiate
però che per il terzo ed ultimo arco narrativo ce ne
sarà uno ancora diverso (alla faccia della pigrizia).
Ammetto che la parte
di Atemu – e un pochino di quella di Ethan – avevo
cominciato a scriverla già da maggio, solo che poi, tra un
problema e l’altro, sono rimasta lontana dalla scrittura per
un bel po’. Ora però ho tutte le intenzioni di
recuperare il tempo perduto.
Mi dispiace di aver
ucciso Ethan? No, affatto. È stato anzi una sorta di
esercizio per sfogare tutta la rabbia repressa che avevo dentro, ecco
perché – almeno a me – sembra una
narrazione incredibilmente realistica. E poi andiamo, Thiago
è un personaggio centomila volte migliore di Ethan, questa
cosa non si discute.
(Se mi venite a dire
via recensione che vi dispiace che io abbia ucciso Ethan giuro che vi
mangio la testa)
Quello che mi premeva
fare è un ragguaglio sulle situazioni temporali: tutta la
storia è ambientata nel 2059, mentre gli eventi della
premiata coppia KageKi avvengono in una dimensione parallela
atemporale, dove il tempo si sarebbe ipoteticamente fermato nel 2100
dopo una grave catastrofe. Ieri sono stata tipo tutto il giorno sul
computer per poter far quadrare ogni cosa, inoltre ho corretto tutti i
vari errori di punteggiatura e tempi verbali disconnessi che avevo
disseminato in giro per il testo. Giuro che appena trovo
dieci secondi di tempo posto anche i capitoli revisionati e corretti.
A proposito di questi
ultimi, ci sono state delle modifiche sostanziali nelle parti di
Amelia: le vicende di lei e Darren si svolgono comunque nel 2059 e non
nel (cos’era) 2012, inoltre la paura di Amelia quanto a
ciò che non può confidare a Darren è
relativa al fatto che sia una Crononauta, non certo perché
venga da un’epoca diversa – perché per
l’appunto no, le loro epoche non sono più diverse.
Un’altra
cosa importante: gli eventi di Amelia nel capitolo precedente e di
Atemu e Thiago in questo si svolgono nel dicembre 2059, mentre tutti
gli altri archi narrativi – all’infuori dei salti
temporali – si ambientano a novembre 2059. Questo succede
perché mi
dovevo far quadrare i conti, in qualche modo dal prossimo
capitolo in poi la narrazione sarà stabilmente ambientata a
dicembre 2059, tranne per i salti spazio-temporali.
Dovevo aggiungere a
questo capitolo anche una parte in cui Amelia richiama gli altri sette
Crononauti alla bottega, solo che ormai il chap mi era venuto
decisamente troppo lungo – circa 7.150 parole e 20 pagine di
Word – perciò ho preferito spostarlo nel prossimo
capitolo, che se tutto va bene uscirà i primi di settembre
(scusate ma attualmente sono alle prese con una one shot molto
impegnativa, pertanto ho preferito lasciarvi questo capitolo oggi in
modo da potermi concentrare poi sull’altra storia e
riprendere la long più avanti, quando sarò un
po’ meno oberata di impegni).
Ho anche modificato
l’ordine dei capitoli, quindi questo è il quinto,
mentre il prossimo sarà il sesto. E anche lì,
aspettatevi colpi di scena a go go: conosceremo anzitutto i due nuovi
personaggi, Claudine e Amos, inoltre avremo la prima vera e propria
riunione dei Crononauti e… oh, finalmente un po’
di azione!
Dunque, con questo
credo di aver detto tutto. Mi dispiace di non aver pubblicato prima ma,
davvero, è stato forse il periodo peggiore di tutta la mia
vita. Adesso però sono qui, lo giuro, e m’impegno
solennemente a portare avanti questa storia.
A presto
Del
Next stop .:: Chapter six —♟Resistance
|
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Capitolo 7 *** Resistance ***
«
Non è vero che abbiamo poco tempo:
la
verità è che ne perdiamo molto »
–
Seneca –
Chapter six
“
Resistance ”
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
Amos si appoggia al
muro di mattoni alle sue spalle, gli occhi chiusi e la fronte imperlata
di sudore, mentre prende ampie boccate d’ossigeno, cercando
di scacciare la sensazione di nausea.
È
incredibile come l’inizio di tutti i suoi guai sia
esattamente riconducibile al momento in cui si è imbattuto
in quell’Orologio. Maledizione
a lui e alla sua passione per l’antichità, insomma.
Quello stano oggetto
ancora arde e pulsa di energia pura, sotto i vari strati di vestiti che
quel giorno indossa. È dicembre inoltrato, il clima ucraino
è rigido e impietoso come al solito.
O meglio, lui si
è preparato in modo consono a trascorrere
un’ennesima giornata esposto al gelo invernale delle pianure
della sua terra, anche se è abbastanza certo che ora non si
trovi più presso le sue regioni natie.
All’improvviso
l’Orologio si è acceso di un’intensa
luce grigiastra, assumendo un calore ben poco rassicurante. Col passare
dei minuti, né la temperatura né il bagliore
avevano dato segni di diminuzione, al contrario continuando ad
aumentare sempre di più, fino a quando entrambe erano
culminate in una sorta di esplosione intensa.
Un attimo prima era
assolutamente certo di trovarsi in Ucraina… e quello dopo
eccolo lì, in una stradina laterale. Di che
città, esattamente?
Due anziane passano
lì accanto, mormorando qualcosa di ben poco rassicurante in
un inglese rapidissimo e fluido, mentre continuano a tirare dritto
lungo la via principale, fissando Amos con sguardi di biasimo.
Il ragazzo corruga la
fronte: non credeva di aver commesso qualcosa di tanto sbagliato. Beh,
suvvia, da quando in qua apparire dal nulla nel bel mezzo di una
città era vietato? Specie se tutto ciò
– chiaramente – accadeva contro la propria
volontà.
Perché, va
specificato, Amos non ha fatto proprio un bel niente per cacciarsi in
quel danno, giacché, a quanto gli risulta, essere
affascinati da un orologio notato per caso in un negozio di
antiquariato non è ancora un reato. Stava camminando
tranquillamente e civilmente, quando è successo…
beh, tutto.
Sposta lo sguardo di
lato, concordando con il proprio inconscio che la cosa migliore da fare
in quel momento sia cercare di capire dove si trovi, così da
poter chiedere aiuto ed eventualmente trovare il modo per tornare a
casa, qualora non ci si trovi – e ad Amos pare essere
abbastanza palese che non sia
cosi.
Il fatto che
le due anziane di poco prima parlassero inglese non lo aiuta poi molto,
dopotutto l’inglese è la lingua più
parlata del mondo, anche se crede che se fosse stato ancora in Ucraina
due signore di quell’età avrebbero parlato la loro
lingua, non certo l’inglese.
Lo scorcio che i suoi
occhi catturano è quello di un ampio viale, le strade
asfaltate costellate di platani, scivolano via leggere, mentre la luce
grigiastra del mattino accompagna il placido scorrere di un fiume, poco
distante da lì.
«È
il Tamigi» sente affermare qualcuno alle sue spalle, la voce
roca e affaticata.
Amos si volta, in un
impeto di curiosità, forse con troppa avventatezza. La testa
gli vortica nuovamente, attentando alla sua già precaria
situazione eretta.
Si ritrova a fissare
un ragazzo – avrà all’incirca la sua
età – dai lunghi capelli neri raccolti in una coda
e la pelle ambrata, che sembra aver assunto una colorazione malaticcia.
Niente a che vedere
con la sua carnagione pallida e la zazzera di capelli castani, tenuti
sempre rigorosamente ordinati sulla testa.
«Uhm,
okay» commenta Amos, sistemandosi gli occhiali con un gesto
quasi meccanico «il punto è che sarebbe carino
capire come io ci sia arrivato qui, visto che sono piuttosto certo sul
fatto che, fino a pochi istanti fa, mi trovassi a—»
Non fa in tempo a
finire la frase, perché – da dietro le lenti
d’occhiale – i suoi occhi hanno appena notato un
particolare non irrilevante: il ragazzo davanti a sé,
infatti, ha un orologio proprio come il suo, che pende dal collo, in
parte nascosto tra la sciarpa di seta verdina e la giacca di pelle da
esploratore.
«M-ma quello
è…» tenta di esclamare Amos, tuttavia
è fin troppo sbigottito per riuscire a terminare la frase,
così si limita a puntare l’indice verso
l’orologio dell’altro.
Il tizio davanti a lui
sposta lo sguardo sul proprio orologio, per poi portarlo nuovamente su
quello strano ragazzo, ripetendo l’azione diverse volte.
Lui,
l’altro, lui, l’altro, lui, l’altro.
Il giovane dalla pelle
ambrata si lascia sfuggire una risatina leggermente nervosa, passandosi
una mano tra i capelli.
«Ma che
razza di storia è mai questa?» domanda, inarcando
le sopracciglia.
«Credimi,
vorrei saperlo anch’io» ammette Amos, sfoggiando un
perfetto inglese «un momento prima stavo camminando per
andare al lavoro, verso il ristorante dove mi hanno assunto come
cameriere, e quello dopo eccomi qui, a… Londra? Come diavolo
ci sono finito, qui? Io vivo in Ucraina».
«Non dirlo a
me» il giovane scuote la testa, incredulo «un
attimo fa stavo facendo colazione con dei pancake, comodamente seduto
nella cucina di un appartamento qui sul lungofiume».
«Aspetta, tu
vivi qui?» Amos è sempre più
esterrefatto, deve sbattere le palpebre un paio di volte prima di
rendersi conto che non sta sognando.
«Sì,
anche se al momento ero a casa di un amico. Comunque, questo adesso non
importa» replica prontamente l’altro ragazzo,
affrettandosi a cambiare argomento.
«Ad ogni
modo, tu chi sei?» le parole sgorgano fuori dalle labbra di
Amos prima che lui se ne possa rendere conto, non ha il tempo materiale
per poterle fermare.
Il giovane dalla pelle
ambrata sospira pesantemente prima di rispondere:«Mi chiamo
Atemu McKinley, sono nato in Egitto ma vivo ormai a Londra da parecchi
anni. E si dà il caso che potrei farti esattamente la stessa
domanda».
«Amos
Akolzin, piacere» si presenta in fretta il nuovo arrivato,
allungando la mano verso Atemu.
In un primo momento
l’inglese sembra indugiare, poco dopo però stringe
lo stesso la mano di Amos, non senza un certo cipiglio dubbioso ben
visibile sul volto.
«E
così sei ucraino, mh?» Atemu si concentra sul
colore della pelle delle loro mani stette, il suo caffelatte contro
l’alabastro del nuovo venuto.
«Già,
una roba da non crederci» Amos sembra scalpitare sul posto,
per quanto quella situazione gli suona così nuova e strana,
piena zeppa di nuovi dettagli tutti da scoprire «ti dispiace
se do un’occhiata a quello? Non ne avevo mai visto un
altro».
«Sì,
certo» Atemu osserva confuso il nuovo ragazzo, mentre lo
sente armeggiare con il suo Orologio.
Amos lascia scorrere
le dita lungo la superficie levigata dal tempo di quel manufatto,
perdendosi nei dettagli d’ottone. A quanto pare, anche
stavolta la sua fascinazione per l’antichità non
stenta a farsi sentire.
«È
diverso dal mio» esclama di lì a poco il giovane
ucraino, i suoi polpastrelli esperti che hanno già scoperto
l’arcano.
«In che
senso?» gli domanda Atemu, anche lui ormai non riesce
più a tenere a freno la curiosità.
Subito Amos volta i
loro due Orologi, mostrandone il retro al ragazzo appena conosciuto.
«Vedi?»
lo interroga l’ucraino, certo di avere assolutamente ragione
«sul mio ci sono delle ruote dentate, mentre sul tuo la
rappresentazione del mondo – che, a proposito, è
proprio una gran figata. Però si vede che a realizzarli
è stato lo stesso artigiano, perché i dettagli,
le tacche, i tratti incisi a mano sono stati visibilmente realizzati
dalla stessa persona, lo stile è proprio
quello!»
«L’hai
trovato in un negozio d’antiquariato come me?» si
sente domandare ancora subito dopo, un fiume di parole che per un
momento fa temere ad Atemu di finire del tutto in confusione.
«No»
riesce a rispondere infine, una volta riacquisito un minimo di polso
fermo necessario «a dir la verità è
stato mio padre a consegnarmelo, conoscendo la mia passione per gli
orologi…»
«Io invece
sì» sentono invece ribattere da una terza voce,
proveniente dalle loro spalle.
Subito i due ragazzi
si voltano, ritrovandosi ad osservare la figura di una giovane, tutta
intenta a spolverarsi la gonna – probabilmente dopo essere
caduta a terra.
«Mon dieu»
borbotta la ragazza, con un palese accento francese «nemmeno
un secondo prima stavo passeggiando nel centro di Nizza, mangiucchiando
un croque-monsieur…
et maintenant, dove sono?»
«A
Londra» rispondono contemporaneamente Amos e Atemu.
La giovane li fissa
con aria stralunata, limitandosi a roteare gli occhi.
«Questo
dannato coso tout
à coup ha iniziato a lampeggiare di un bagliore
rose…»
spiega lei, con tono concitato, mentre fa dondolare un medaglione
davanti a sé «…et
voilà, je suis ici».
«È
capitato lo stesso anche a noi» ammette Atemu, con un sospiro
sconsolato.
«Ah,
oui?» s’informa la francese, palesemente
incuriosita «je
suis désolé, mon ami».
Amos fa fatica a star
dietro alla rapida e perfetta parlantina francese della ragazza,
tuttavia cerca comunque di richiamare la sua attenzione, facendo
affidamento su tutte le sue – fiacche – attitudini
da chevalier charmant.
«E con chi
ho il piacere di parlare, mademoiselle?»
le chiede infatti, col tono più mellifluo che, in quella
situazione, riesce a tirare fuori.
La ragazza francese lo
fissa a lungo, con aria piuttosto stralunata, tanto che per un tempo
che gli pare infinito Amos teme di aver fatto uno dei suoi soliti
strafalcioni, in una lingua peraltro che non è nemmeno la
sua.
«Claudine»
risponde infine la ragazza, senza nascondere un certo cipiglio
divertito «se dovete rivolgervi a me, allora sappiate che mi
chiamo Claudine. E ora scusate, devo mettere a posto queste plisses sulla mia
gonna».
Ciò detto,
una cascata di boccoli biondi si riversa in avanti, mani intente ad
assestare colpi precisi al tessuto morbido della gonna mentre una nuova
sfilza di insulti in francese si susseguono costantemente, una dietro
l’altra.
Amos ed Atemu si
fissano dubbiosi, senza tuttavia aggiungere altro – forse
perché, sebbene siano in due, avranno capito sì e
no la metà delle parole di Claudine, a causa dei termini
incomprensibili in francese sparsi un po’ ovunque.
Peccato che i due
ragazzi non abbiano neanche il tempo di riprendere fiato che nuovi
bagliori di luci colorate ed intense, rumori confusi e una serie di
imprecazioni in diverse lingue non tardano ad arrivare.
Una ragazza dai
capelli castani e con un grazioso paio di occhiali poggiati sul naso
sta probabilmente ringraziando tutti i santi che conosce,
perché per soli pochi centimetri non è finita in
una botte piena d’acqua – e di chissà quali
altre schifezze, ugh.
Gli altri due sono
rispettivamente un ragazzo e una ragazza: il primo ha la schiena
appoggiata al muro e sta riprendendo fiato – anche se non
sembra essere in uno stato di drastica difficoltà
respiratoria, al contrario è forse solo un po’
affaticato – mentre la seconda si sta divertendo a dar
sfoggio alle sue abilità di equilibrista, visto che
è perfettamente in bilico su una pericolante pila di casse
di legno.
«Ehm,
uh—» borbotta Amos «questo vicolo sta
cominciando a diventare decisamente affollato».
«Non ha
tutti i torti» ammette la ragazza appollaiata sulle casse,
che proprio in quel momento spicca un balzo leggero, atterrando a terra
con eleganza felina.
La giovane in
questione si stringe nei propri abiti sbarazzini, fissando tutti i
presenti, gli occhi che saettano entusiasti e curiosi su ciascuno di
loro, come se d’improvviso si trovasse dinanzi a una nuova
scoperta estremamente affascinante.
«Come ti
chiami?» le domanda Atemu, in un riflesso incondizionato
– e pentendosene subito dopo.
«Margarita»
risponde lei, che in un battito di ciglia si è avvicinata al
ragazzo ed ora tiene tra le dita il suo medaglione «e ho un
Orologio, proprio come te».
«Sì,
beh—» comincia Atemu, lievemente a disagio.
Non fa in tempo
però a terminare la frase, visto che la sua interlocutrice
scompare improvvisamente dal suo campo visivo.
E,
con lei, anche il suo Orologio.
Un nuovo rumore
improvviso fa voltare ben quattro paia di teste in un’unica
direzione, dove in effetti ritrovano Margarita, con tanto di Orologio
di Atemu.
«Ehi!»
sbotta il ragazzo, leggermente irritato «quello è
il mio
Orologio».
«Ma
certo~» conviene Margarita, che subito glielo rilancia al
volo, senza perdere nemmeno per un secondo l’equilibrio.
Già,
perché si trova nuovamente su un punto d’appoggio
piuttosto instabile, visto che i suoi piedi sono ai lati
dell’apertura della botte colma d’acqua.
Se prima
c’era il rischio che cadendo potesse farsi male, adesso
qualora dovesse perdere l’equilibrio finirebbe
inevitabilmente per bagnare la ragazza ancora seduta lì
accanto, anche se quest’ultima non sembra essere affatto
preoccupata dalla cosa – tanto che è
l’unica a non aver spostato lo sguardo verso Margarita.
Nel frattempo Atemu
afferra l’Orologio a mezz’aria e Margarita
spiega:«Volevo solo mostrare a te e a tutti voi quanto
sarebbe facile per me sfilarvi da sotto il naso uno di questi Orologi a
cui tenete tanto. Ovviamente però non ho nessun motivo
sensato per farlo, visto che anche io ne ho uno tutto mio».
E, ciò
detto, non indugia oltre per far dondolare nello spazio davanti a loro
il proprio medaglione, con tanto di effige delle maschere del teatro.
Claudine solleva per
un istante lo sguardo dalle pieghe della sua gonna, osservando prima
l’Orologio di Margarita e poi il proprio, notando quanto i
due simboli siano diversi – su quello della giovane francese
c’è infatti una libellula.
Atemu reprime una
smorfia di fastidio, per poi rinfilarsi l’Orologio. Nel
frattempo Amos porge una mano della ragazza ancora seduta a terra,
sorridendole incoraggiante.
«Tutto
bene?» si affretta a domandarle, cortese.
«Ce la
faccio da sola» replica lei, con aria altera, rimettendosi in
piedi senza afferrare la mano di Amos – il che lascia il
ragazzo abbastanza sorpreso e perplesso, immobile sul posto.
Una volta di nuovo in
posizione eretta, non perde occasione per sistemarsi gli occhiali sul
naso, quindi recupera un elastico che ha attorcigliato intorno al polso
e lo adopera per legarsi i capelli in una comoda coda di cavallo.
Come sua consuetudine,
la prima cosa che viene spontanea da fare ad Andrea è quella
di analizzare razionalmente l’assurda situazione nella quale
ora si ritrova.
Neanche una settimana
prima il suo Orologio aveva preso a baluginare in quel modo assurdo,
culminando poi in quell’esplosione, nella quale aveva visto
apparire il volto di una giovane dai corti capelli corvini.
E adesso, a distanza
di nemmeno una settimana, questo.
Certo che, se mai
Andrea avesse pensato che ci fosse un limite alle stranezze, di recente
purtroppo aveva dovuto tristemente ricredersi.
Come a voler
confermare quel suo ultimo pensiero, tuttavia non finisce nemmeno di
ideare quelle parole nella sua mente che subito le viene data
un’altra riprova.
Un baluginio dalle
sfumature aranciate infiamma il vicolo, mentre un gridolino stridulo
annuncia l’arrivo di una nuova persona nel vicolo –
e per questo Andrea vorrebbe sospirare di esasperazione, tuttavia
all’ultimo finisce per trattenersi, interrotta da un urlo
più virile e un tonfo sordo a terra.
Stavolta tutti si
voltano a guardare Amos – Andrea ne è quasi lieta,
considerando che questa volta i suoi occhi non dovranno nemmeno fare
molta strada, visto che il ragazzo dai capelli castani è
ancora a pochi centimetri di distanza da lei.
Con l’unica
differenza che adesso è sdraiato prono a terra, schiacciato
sotto il peso di un’ennesima nuova arrivata.
«La mia
solita sfortuna» borbotta Amos, accompagnando le sue parole
con una serie di brontolii sconnessi.
«Ahh, una
pantegana!» grida la ragazza seduta sul dorso
dell’ucraino, indicando disgustata un ratto, mentre
quest’ultimo si allontana in tutta fretta, spaventato dal
baccano del vicolo, infilandosi in un tombino e correndo lungo le
tubature, con ogni probabilità verso il fiume.
Amos sospira
pesantemente, per poi affermare debolmente:«Ehm…
io non vorrei dire niente di male, eh, però mi starebbe
sinceramente facendo un attimo male la schiena…»
«Oh,
cielo!» la ragazza dai lunghi capelli castani balza
immediatamente in piedi, con un’espressione desolata ben
dipinta sul suo volto «perdonami, non era mia
intenzione—»
«Tranquilla,
ormai ci sono abituato» Amos scuote il capo, arrendevolmente
«comunque, dall’accento mi è parso di
capire che anche tu sei francese».
«Già!»
trilla lei, esibendosi in una lieve piroetta e lasciando volteggiare
con sé l’abito che indossa, il tessuto dorato e
l’ampia gonna che si muovono a tempo con lei
«perché, non sono l’unica? Tu di certo
non lo sei, non hai per niente l’accento francese».
«Oh, io sono
francese~» esclama Claudine, incredibilmente ben lieta di
aver trovato una sua connazionale in mezzo a quel trambusto.
«Per
favore» Andrea inspira ed espira a fondo per un paio di
volte, cercando di mantenere la calma e i nervi saldi che sempre la
caratterizzano «possiamo cercare di concentrarci e capire
tutti insieme come sia possibile che sette adolescenti siano apparsi di
colpo in un vicolo a Londra?»
L’attenzione
di tutti si catalizza all’istante sulla giovane italiana, che
tuttavia non sembra essere messa affatto in soggezione, mentre continua
al contrario ad ostentare calma e lucidità lodabili.
«Non
possiamo prima sapere il nome dei nuovi arrivati?» le propone
Claudine, in tono lezioso e bonario.
«No»
sentenzia Andrea, lapidaria.
Ovviamente, tutti gli
altri decidono di ignorarla bellamente.
«Io sono
Julie Dupont, piacere» si presenta l’ultima
arrivata, stringendo cordialmente la mano a Claudine – a
dirla tutta, anche lei è lieta di aver incontrato
un’altra francese lì.
«Ohh, Claudine Blanchard,
heureuse de faire ta connaissance» conviene
l’altra, sorridendo come se si trovasse davanti in una
pasticceria, davanti al bancone dei dolciumi.
Margarita, invece,
saltella da una parte all’altra della via, fino a raggiungere
l’unico ragazzo che, fino a quel momento, è
rimasto in silenzio.
«E questo
bel tenebroso qui chi è, invece?» gli domanda, non
appena ci si ritrova davanti, dondolandosi lievemente avanti e indietro
mentre lo osserva attentamente.
«Oh»
il giovane in disparte dischiude finalmente gli occhi, osservando
attentamente la giovane davanti a sé «chiamami
pure Thiago. Tu invece devi essere Margarita, giusto?»
«Esatto!»
replica lei, in un trillo divertito, per poi lasciarsi sfuggire una
lieve risata cristallina quando il ragazzo più grande le
scompiglia appena i capelli.
Andrea è
francamente frustrata da quella situazione, tuttavia non è
decisamente nelle sue abitudini dare a vedere sensazioni del genere.
Deve
trovare un modo di catalizzare l’attenzione di tutti su di
sé, adesso.
«Immagino
che anche voi siate arrivati qui in seguito all’intensa
emissione di luce colorata da parte del vostro Orologio,
giusto?» decide di domandare allora, certa che
così qualcuno la starà senza dubbio a sentire.
Sei paia di occhi si
voltano a guardarla, in men che non si dica, attenti ed incuriositi,
mentre nel vicolo torna a calare un’opprimente cappa di
silenzio. In questo modo, Andrea è assolutamente certa di
aver catturato l’attenzione di tutti.
«Non ci hai
ancora detto come ti chiami, però» obietta
Claudine, gli occhi che scintillano di mille diverse sfaccettature di
colore.
«Oh,
quisquilie» sbotta Andrea, accompagnando le parole con un
rapido gesto stizzito della mano «francamente, quel che mi
preme realmente di sapere adesso è come sia possibile che
sette persone siano comparse contemporaneamente nello stesso
posto».
Prima che chiunque
altro possa provare ad aggiungere qualsiasi cosa, il vicolo
è riempito da un rumore, un cigolio profondo.
Tutti e sette i
ragazzi si voltano ancora una volta, dividendosi in quelli dallo
sguardo particolarmente incuriosito, tra cui Julie, Amos, Margarita e
Claudine e gli altri che invece sono più disinteressati al
riguardo, in particolare Atemu e Thiago – il primo
poiché probabilmente preferirebbe di gran lunga tornare a
mangiare pancake nel caldo ed accogliente appartamento del suo amico,
l’altro perché invece sembra sapere esattamente
quello che sta succedendo. Nel limbo, come al solito, Andrea, che
sebbene sia a sua volta incuriosita cerca di non darlo troppo a vedere.
All’apparenza,
il rumore ha avuto origine proprio dalla bottega alle loro spalle,
infatti osservando meglio i sette si accorgono che la porta, che fino a
pochi secondi fa sembrava essere irrimediabilmente chiusa, adesso si
è leggermente spalancata, facendo intravedere la figura di
una ragazza dai corti capelli corvini che fa capolino da dietro di essa.
«Beh, forse
questo posso dirvelo io» ammette la giovane, in tono
conciliante.
~♟~
All’invito della ragazza dai capelli corvini, tutti e otto
scivolano insieme all’interno della piccola bottega,
sistemandosi alla bell’e meglio nei pochi posti liberi che
trovano in giro, sparsi qua e là all’interno del
locale.
Non appena entra, per
poco Claudine non cade a terra, incespicando sui gradini – e
lanciandosi diversi improperi per questo. Fortunatamente, Thiago
l’afferra al volo per un braccio, assicurandola per bene in
piedi e permettendole così di continuare a scendere in tutta
tranquillità.
«Merci» lo
ringrazia lei, a mezza voce.
Lui si limita a
scrollare le spalle, al momento concentrato su ben altro.
Ha sentito a lungo
parlare della bottega di Joshua Parrish, l’alchimista che ha
incantato il suo Orologio, donandogli così la
capacità di viaggiare attraverso il reticolo dello spazio e
del tempo.
Come fa ad essere
così sicuro di trovarsi nel luogo giusto? Beh, facile:
insieme a lui ci sono ben altre sette persone e tutte loro possiedono
un Orologio simile al suo ma non uguale.
Già,
simile: come ben sa, ogni Orologio porta la rappresentazione del
carattere di chi lo porta e come lui possiede il simbolo del ragno, in
quella stanza c’è anche chi ha una libellula, o un
pavone, addirittura perfino un dettaglio così minimale quale
una scheggia di vetro.
Se il ragno
è l’emblema dell’operosità
– Thiago sta ancora ringraziando il cielo che non gli sia
capitata un’ape, sarebbe stata abbastanza ridicola come
effige altrimenti – allora tutti gli altri simboli devono
essere indizi sui possessori dei rispettivi Orologi.
Thiago sta quasi per
mettersi a lavorare sulle varie congetture che al momento gli ronzano
per la testa, quando una nuova voce lo distoglie dai suoi pensieri.
«E
così sei… uhm, spagnolo?» si sente
infatti domandare da una voce, a pochi passi da sé.
«Portoghese»
la corregge automaticamente lui, voltandosi lentamente verso la sua
interlocutrice.
«Figo~»
commenta Margarita, balzando agilmente a sedere su uno dei tavoli da
lavoro del laboratorio artigianale «devo ammettere che sei un
tipo piuttosto affascinante».
«È
un modo carino per dirmi che ti piaccio?» commenta lui,
ammiccando lievemente nella sua direzione.
«È
un modo carino per dire che emani charme da ogni poro del tuo
corpo» replica lei, facendo schioccare la lingua contro il
palato «tuttavia mi spiace dover deludere il tuo smisurato ed
incommensurabile ego ma ahimè devo dirti che no, non mi
piaci affatto. Soddisfatto?»
«Però!»
commenta lui, con uno sguardo divertito «A quanto pare tu
invece sei un tipetto piuttosto complicato con cui avere a che fare,
eh?»
«Così
mi dicono» si limita a convenire la ragazza, mettendosi a
giocherellare con alcuni trucioli di legno che trova sul ripiano.
Andrea, invece, sembra
essersi persa nell’osservazione di quel luogo tutto nuovo,
mentre la sua memoria fotografica non smette di lavorare un momento,
saettando da una parte all’altra del locale, imprimendo a
fuoco nella sua mente istantanee della bottega.
Gli spessi stati di
polvere che avevano invaso prepotentemente ogni centimetro del
pavimento, lavorazioni in legno iniziate e mai concluse, ampie finestre
in vetro piombato, che probabilmente un tempo donavano luce ed
ariosità a quell’ambiente ristretto –
rendendolo forse anche più ampio agli occhi degli inesperti
visitatori – tuttavia ora sono orrendamente sporche, ben
lontane dal lustro di un tempo e anche la luce filtra col contagocce.
Sembra terribilmente
concentrata, come se niente al mondo possa distrarla, in quel momento.
Non è detto
tutto tuttavia che qualcuno non possa farlo.
«Non mi hai
ancora detto come ti chiami» chiosa infatti Claudine, alle
sue spalle, con voce angelica.
Andrea deve sforzarsi
per non trasalire, di certo non si aspettava un agguato del genere.
«Senti»
sospira Andrea, esasperata «possibile che il mio nome sia
così importante per te? Cosa ti cambia saperlo o meno? Di
certo non ti è indispensabile per la
sopravvivenza».
«Ma io sono
curiosa!» obietta Claudine, in uno strepitio lieve, un
cinguettio che suona piuttosto come un uggiolato.
«Oh, e va
bene» le concede infine la giovane italiana, assecondandola,
mentre sulle labbra di Claudine sboccia un sorriso raggiante
«il mio nome è—».
Non fa tuttavia in
tempo a terminare la frase che una nuova voce sta già
sovrastando la sua, riempiendo completamente tutta la stanza
– seppur con un tono di voce basso, soffice, lieve.
«Posso avere
la vostra attenzione?» domanda infatti la giovane dai
gradini, in piedi ancora sui gradini d’ingresso,
così da occupare una posizione sopraelevata rispetto a tutti
gli altri.
La sua voce non ha
niente di particolare, non è estremamente carismatica o
evocatoria, non è carica di pathos o
chissà cos’altro, eppure attraverso quelle
semplicissime parole riesce ad attirare su di sé la mente e
lo sguardo di tutti i ragazzi.
È come se,
per loro, possedesse una qualche magia, un magnetismo che attira la
concentrazione di ciascuno di loro verso la sua figura minuta, come
falene attratte inevitabilmente dalla luce, senza
possibilità alcuna di sottrarsi.
Per Amelia quella
è una sensazione stranissima e del tutto nuova. Non le piace
essere al centro dell’attenzione, la infastidisce
notevolmente e le regala uno sgraditissimo formicolio sottocute, come
se tutti i nervi del suo corpo si tendessero all’unisono.
Orrendo.
Però
comprende anche lo smarrimento di quei ragazzi e sa perfettamente di
dover loro delle spiegazioni.
«Io…
io ti conosco» mormora all’improvviso Andrea,
lasciando di stucco ben sei ragazzi nel laboratorio.
Amelia invece non
sembra essere particolarmente colpita, quasi come se si aspettasse
un’affermazione del genere. Inclina il capo di lato, con una
guancia riesce quasi a sfiorarsi la spalla, tuttavia non aggiunge
altro: resta lì, impassibile, un lieve sorriso dipinto sulle
labbra e fissa attentamente la ragazza davanti a sé, come se
fosse in attesa di qualcosa.
Andrea non sa bene
cosa stia aspettando quella misteriosa ragazza, tuttavia ora che ha
iniziato a parlare sembra non riuscire più a smettere
– stranamente per lei, che è sempre
così lapidaria ed incisiva – le parole che
scivolano fuori dalle sue labbra una dietro l’altra, come un
fiume in piena.
«Mi chiamo
Andrea Cervini» esordisce – e a quelle parole
Claudine sorride di sottecchi, con un grande sospiro, finalmente
soddisfatta «e sono originaria dell’Italia. Per la
precisione, vengo da Milano. Prima della grande esplosione di
stamattina, che mi ha condotta fino a qui, il mio Orologio aveva emesso
luce violentemente già un’altra volta, un paio di
settimane fa. Ebbene, quando il bagliore era giunto al suo culmine, per
un momento mi era sembrato di vedere il volto di una giovane dai
capelli corvini riflessa sulla superficie del mio Orologio. Fino ad ora
non avevo la più pallida idea di chi potesse
essere… poi però ora ti ho vista e ho capito:
quella ragazza eri tu».
Nel locale cala
nuovamente il silenzio per diversi, interminabili secondi, seguito poi
da un brusio sempre crescente. I ragazzi parlottano tra loro,
confrontandosi con chi hanno vicino, chiedendosi quale sia il senso di
tutti quegli strani avvenimenti e perché stiano capitando
proprio a loro e in quel determinato momento.
Amos sta giustappunto
valutando con Atemu che deve trattarsi della sua solita sfortuna che,
come al solito, lo perseguita, quando la ragazza dai capelli corvini
prende di nuovo parola.
«Oh,
beh» commenta infatti, estraendo da sotto la camicetta bianca
decorata da fini linee blu una collana piuttosto lunga, la catenina
sottile di metallo da cui pende un altro Orologio «in effetti
è successa anche a me una cosa del genere».
Esclamazioni di
stupore si susseguono lungo tutta la stanza, mentre i sette osservano
con aria esterrefatta l’Orologio della ragazza, il corvo
raffigurato sul retro che li occhieggia con un’espressione
vagamente arcigna.
«Ma
tu… chi sei?» domanda d’impulso Amos,
rendendosi conto solo dopo delle parole che ha pronunciato –
e desiderando ardentemente seppellirsi per questo.
«Domanda
lecita» concede la giovane, smorzando almeno in parte
l’imbarazzo generale che adesso è inesorabilmente
calato tra tutti i presenti «vedete, il mio nome è
Amelia. Vivo qui a Londra fin dalla nascita. Anche io sono dentro
questa storia tanto quanto voi, fin sopra la testa. Mi scuso se i
vostri Orologi in queste settimane hanno avuto qualche anomalia
– degli sfarfallii luminosi sporadici – ma di
questi non sono responsabile, ne sono capitati alcuni anche a me.
Tuttavia, a convocarvi tutti qui oggi sono stata proprio io».
«Come?!»
strepitano all’unisono Julie, Amos e Claudine, a dir poco
sbalorditi. Gli occhi di Margarita continuano a rimbalzare curiosi da
una persona ad un’altra, mentre Thiago è rimasto
immobile al suo fianco, mentre scruta imperturbabile la situazione,
nascondendo perfettamente l’interesse dietro una maschera di
apparente indifferenza, o perlomeno d’indolenza. La
verità è che è forse il più
informato sul funzionamento degli Orologi tra tutti i presenti,
perciò al momento non sta sentendo niente di particolarmente
nuovo.
Anche Atemu
è terribilmente affascinato da tutta quella faccenda,
sebbene stia cercando di conservare almeno un vago sentore di decoro,
poiché non ci tiene affatto ad apparire ridicolo agli occhi
di sette perfetti sconosciuti. Andrea infine è totalmente
concentrata, la mente che scatta a valutare ogni possibile scenario,
desiderando non apparire impreparata qualsiasi occorrenza debba
fronteggiare.
«Così»
replica Amelia, scendendo gli scalini e cominciando a camminare tra i
lunghi tavoli da lavoro. I ragazzi la seguono con lo sguardo mentre
sfila davanti a loro, per poi affrettarsi a seguirla – Thiago
che è il primo a partire, seguito subito da Andrea e da
Amos, mentre tutti gli altri sono giusto qualche passo dietro di loro.
La giovane londinese
si arresta più o meno a metà della stanza,
accostandosi ad un tavolo alla sua destra. I crononauti fanno un
piccolo capannello intorno a lei, cercando di vedere e riuscendoci
all’incirca tutti, chi più e chi meno, quelli alti
sbirciando da sopra le spalle del compagno che hanno davanti, i bassi
invece devono ahimè farsi spazio cercando di svicolare tra i
vari corpi ammassati.
«Ecco»
inizia a spiegare Amelia, lasciando srotolare il lungo foglio di un
progetto davanti a sé «questo è il
foglio con tutte le rappresentazioni degli Orologi.
C’è il mio, quello con il corvo e poi un sacco di
altri tipi, che suppongo siano i vostri. La cosa strana è
che alcuni dei disegni mi sono cambiati davanti agli occhi, mentre
osservavo il foglio…»
«Beh, in
realtà non è poi così
strano» s’intromette Thiago, appoggiandosi
sensualmente con entrambi i palmi delle mani al bancone sotto di
sé «i simboli degli Orologi sono indici del
carattere del crononauta che li possiede, quindi se cambia il
possessore, cambia anche il simbolo».
«E tu questo
come fai a saperlo?» domanda Julie, osservando il ragazzo con
uno strano cipiglio incuriosito a segnarle il volto.
«Per anni ho
fatto ricerche sugli Orologi» ammette Thiago, con una
vigorosa scrollata di spalle «pare che l’artigiano
che lavorava in questa bottega, un certo Joshua Parrish, fosse in
realtà un alchimista ed avesse incantato gli ingranaggi
degli Orologi con un po’ del suo potere, ecco
perché possono viaggiare nello spazio e nel tempo».
Gli occhi di Amelia
saettano da una parte all’altra della stanza, inquieti.
Continua ad avere l’allarmante percezione di essere osservata
e convincersi che siano gli occhi dei sette crononauti a trafiggergli
la schiena gli risulta davvero impossibile. No,
c’è qualcosa che non va, se lo sente.
«Ad ogni
modo» riprende Amelia, cercando di recuperare il bandolo
della matassa «mentre stavo osservando il foglio, ho tenuto
inavvertitamente premuto il pulsante sopra il mio Orologio
e… non so, di colpo si è sprigionata tutta quella
luce e l’attimo dopo ho sentito il trambusto qua fuori. Mi
sono affacciata un momento e c’eravate voi. Mi dispiace, non
era mia intenzione trasportarvi qui. Ora che ci siamo, tuttavia, credo
che per correttezza dovremmo almeno cercare di capire quello che ci sta
succedendo. Lo dobbiamo a noi stessi, così come a tutti gli
altri che sono coinvolti. Dopotutto, è il minimo che possa
fare, dopo avervi richiamati qui».
«Aspetta,
aspetta» prorompe Julie, la testa appoggiata alla spalla di
Claudine – che non sembra essere estremamente lieta di questo
«tu come hai fatto ad avere quell’Orologio? E che
vorrebbe dire che ci hai ‘richiamati
qui’?»
Amelia sospira
lievemente mentre spiega:«L’Orologio…
beh, mi è stato lasciato in eredità da mia madre,
che è venuta a mancare pochi mesi fa. Quanto al
‘richiamo’, è scritto qui, in una nota a
piè di pagina. Vedete?»
Mentre parla di sua
madre, gli occhi di Amelia si velano di lacrime e subito Thiago ha la
premura di accarezzare lentamente la schiena della ragazza, cercando di
rincuorarla almeno in quel modo. Per quanto possa essere ambizioso e
spesso disposto a passare sopra i sentimenti della gente pur di
raggiungere i suoi scopi, riconosce che il dolore per la perdita di un
genitore è immenso, non lo augurerebbe mai a nessuna persona
al mondo.
Nel frattempo, Amelia
indica una scritta in fondo al foglio del progetto, dove viene in
effetti spiegato il funzionamento del ‘richiamo degli
Orologi’.
«C’è
scritto che è un procedimento che tutti i possessori di
Orologi possono adottare» spiega Andrea, che è
già china a leggere sul progetto «e che gli
Orologi vengono attratti naturalmente verso chi li richiama solo nel
momento del bisogno. Quindi probabilmente adesso, per quanto strano ci
possa apparire, siamo nel posto giusto al momento giusto».
Tutti gli altri si
chinano ad osservare le parole scrutate da Andrea, sussurrando parole
di assenso tra loro, mentre la giovane ti tiene gli occhiali ben fermi
pinzati sul naso.
«Però
ci sono anche altri simboli» obietta Atemu, perplesso.
La risposta ai suoi
dilemmi giunge poco dopo, da parte di Thiago.
«Certo»
spiega infatti, scrupoloso «Joshua aveva realizzato ben
dodici Orologi, otto dei quali sono oggi qui, nelle nostre mani. Tutti
gli artefatti sono andati dispersi in giro per il mondo in seguito alla
morte dell’alchimista, avvenuta in circostanze misteriose e
piuttosto sospette. Probabilmente i quattro Orologi che mancano ancora
all’appello sono ancora dispersi, in qualche remota parte del
mondo. Quello che non capisco è come mai qui siano
rappresentati sedici Orologi, anziché dodici. Che in giro
per il globo ci siano altri—»
Il giovane portoghese
non fa in tempo a concludere in suo discorso che un rumore improvviso
lo interrompe, come di cianfrusaglie che franano rovinosamente a terra.
Ne segue un borbottio incomprensibile, probabilmente improperi, mentre
le teste degli otto crononauti si voltano in direzione della fonte di
quella confusione.
Quello che i loro
occhi inquadrano è il corpo di un ragazzo, voltato di spalle
e con il cappuccio grigio della felpa che indossa a coprirgli la testa,
mentre cerca di sgusciare fuori dal mare di scatoloni che gli
è caduto addosso.
«Ehi!»
esclamano in coro Amelia e Andrea, seccate.
Per una frazione di
secondo il misterioso sconosciuto si volta verso di loro, attento a non
mostrare il volto. E in quell’istante sospeso si fissano a
vicenda, i crononauti che osservano l’intruso, lo sconosciuto
che li scruta di rimando.
Nessuno
però fa in tempo a dire qualcosa, neppure
un’esclamazione di sorpresa, che il ceffo misterioso
è già scattato, prendendo la direzione della
porta.
«Sta
scappando!» sbotta Amos, indignato, balzando in piedi, mentre
lo sgabello sul quale si era accomodato casca al suolo con un ennesimo
fragore.
«Ha
trafugato un documento» fa notare Andrea, indicando lo
scampolo di un foglio che il tipo tiene in mano scomparire oltre la
soglia dell’ingresso.
«Non sono
arrivata fin qui per farmi sfilare le informazioni da sotto il
naso» mormora Amelia, furente, i corti capelli corvini che
fluttuano ed ondeggiando insieme a lei mentre il suo corpo si protende
in avanti, già pronto e partito all’inseguimento
dell’oscuro figuro.
I ragazzi restano a
fissare la compagna mentre sparisce oltre l’uscita della
bottega, per alcuni interminabili secondi incapaci di fare qualsiasi
cosa, resi immobili come statue di pietra dallo sgomento.
Il primo a riprendersi
rispetto agli altri è Thiago che, dopo aver scosso con
vigore la testa, si avvia subito verso la porta.
«Che diavolo
stiamo facendo ancora qui?» domanda, esterrefatto
«Forza, muoviamoci! Andiamo a darle una mano».
Ciò detto,
anche lui si fionda fuori dal locale.
Con la scomparsa di
Thiago, anche i sei crononauti, ora rimasti soli, si decidono a partire
a razzo, tutti alla rincorsa del ladro.
Intanto, Amelia
è già più avanti rispetto a tutti gli
altri. I suoi piedi battono veloci sul selciato, mentre la giovane
maledice i suoi scarponcini da trekking, che per quanto possano essere
decisamente adatti alla corsa, non sono il massimo in quanto ad
attutimento dei colpi presi, tanto che deve stringere i denti per non
mettersi ad urlare, visto quant’è lancinante il
dolore che di riflesso avverte alle piante dei piedi.
Sente
l’adrenalina pulsargli dentro, il sangue che viene spinto in
circolo nelle vene ad una velocità sempre più
forte mentre i polpacci tirano per lo sforzo, acido lattico in circolo
e il sudore algido dell’emozione che si forma sulla sua
pelle, piccole gocce che le imperlano la fronte e le fanno rimanere i
capelli attaccati al volto.
Non può
perdere di vista quel tipo, non
deve, non se lo concede. Sua madre è morta
perché era in possesso di quell’Orologio, adesso
non permetterà a nessuno di trafugare dei documenti che
potrebbero aiutarla a non deluderla, ovunque si trovi…
Sente dei passi dietro
di sé e lanciando un rapido sguardo alle sue spalle nota che
alcuni dei ragazzi di poco prima l’hanno raggiunta: il
giovane ed avvenente uomo dai tratti ispanici e l’italiana
che aveva intravisto nel proprio medaglione, tempo prima. Sembrano
essere molto meno affaticati di lei, mentre invece Amelia avverte
già l’inesorabile avvento del fiato corto calare
sempre più rapidamente su di sé. Non per questo,
tuttavia, è meno motivata degli altri a riacciuffare il
fuggitivo, anzi, tra tutti è senza dubbio la più
determinata.
«Ci sono
anche gli altri, dietro» le comunica ad alta voce Andrea,
mentre cercano di farsi spazio e procedere agilmente tra i marciapiedi
fin troppo affollati – come al solito, d’altronde
– di Londra «non lo lasceremo scappare,
vedrai».
La ragazza con gli
occhiali rivolge un sorriso incoraggiante ad Amelia;
quest’ultima cerca di ricambiare, tuttavia il meglio che
riesce a tirar fuori è un’espressione contorta.
Ora come ora, impegnata nell’inseguimento
com’è, questo è davvero il massimo che
possa riuscire a fare.
Subito i tre si
rituffano al massimo delle loro capacità nella corsa, corpi
sempre più affaticati mentre fanno slalom tra la gente,
distribuendo centinaia di ‘scusi’ mentre avanzano
nel loro percorso e per sbaglio incappano in qualche passante,
schiacciando un piede o due, costringendo qualche anziana signora a
piroettare su se stessa per non cadere rovinosamente a terra.
Qualcuno lancia anche
contro di loro diversi improperi, tuttavia i ragazzi nemmeno se ne
preoccupano più di tanto, considerando che
l’obiettivo che si sono prefissati di raggiungere
è ben altro.
Intanto la strada di
ciottoli della zona antica e borghese di Londra ha lasciato il posto a
lastre di basalto lisce e morbide e a colate di cemento armato,
eleganti, lussuosi e ben rasati. Il che è decisamente un
sollievo per i piedi ormai martoriati di Amelia, sebbene anche adesso
qualche brutto contraccolpo sia costretta a subirlo.
Quando capisce
tuttavia verso quale zona della città si stiano dirigendo
è ormai troppo tardi.
«Il
fiume» grida, così che Thiago e Andrea possano
sentirla nitidamente «si sta dirigendo verso il
fiume!»
Per un attimo i
ragazzi sembrano non comprenderla, quando però spostando il
loro sguardo e da Amelia tornano a fissare davanti a sé,
tutto si fa improvvisamente molto più chiaro per loro.
Sono infatti ormai
giunti nei pressi di Tower Bridge, tant’è che
l’imponente costruzione si erge ora in tutta la sua
magnificenza davanti ai loro occhi. Le nuvole sembrano essersi
addensate sopra le teste dei londinesi ancor più di prima,
cupe e bigie minacciano pioggia da un momento all’altro.
«Guardate!»
Thiago richiama l’attenzione delle due ragazze, indicando una
nave che si sta avvicinando sempre di più al ponte.
«Tra poco
tireranno su le sponde del ponte» spiega Amelia,
l’angoscia nella voce «e questo vuol dire che se
non ci sbrighiamo potremmo anche perdere il nostro fuggitivo».
«Allora ci
toccherà sbrigarci» annuncia Andrea, funerea
«perché in effetti stanno proprio cominciando a
sollevarlo».
A quelle parole, i tre
ragazzi aumentano ancor di più la velocità della
loro corsa, ormai allo strenuo delle forze, dando ciascuno il proprio
massimo.
Il traffico viene
bloccato, le auto non passano più mentre i pedoni affollano
in maniera insolitamente ricca strade e marciapiedi, rendendo
difficoltoso ai ragazzi il proseguimento dell’inseguimento.
Il ceffo misterioso,
nel frattempo, si sta arrampicando con un’agilità
a dir poco sorprendente su uno dei due bracci del ponte, ormai
terribilmente inclinato in un’angolatura impossibile da
scalare per qualsiasi essere umano che si rispetti. Proprio quando
è ormai giunto nel punto più alto, spicca un
balzo fenomenale e, accompagnato da uno scuro bagliore color fango,
scompare nel nulla, con un altro baluginio.
Non ne è
certa, eppure, per un istante ad Amelia è quasi sembrato di
aver visto ciondolare un Orologio al collo del ragazzo.
Ed è
così che il loro inseguimento fallisce miseramente.
♟» New York, Stati
Uniti d’America, 2120
Il New York Hilton
Hotel risplende nella notte eterna di quel mondo distorto, al pari
della stella polare che nell’antichità guidava i
marinai lungo le loro rotte, come una sorta di scherzo del destino.
La facciata frontale
è nient’altro che una lunga scia di vetri lustri,
bordati dalla struttura esterna in resistente acciaio chiaro e
scintillante. Sembra di osservare un gigantesco diamante, perfettamente
incastonato nel dedalo di ampie vie e viali della Grande Mela,
progettata per quei suoi grandi traffici che la contraddistinguono in
tutto il mondo.
In realtà
l’edificio sorprende, perché ad
un’occhiata superficiale sembrerebbe quasi che – in
maniera del tutto atipica – sia sviluppato su un unico piano
orizzontale e non si slanci verso il cielo. Tuttavia un buon
osservatore saprà certo notare che il palazzo prende ben
presto una direzione verticale a partire da quel primo piano dalla
pianta rettangolare irregolare, ergendosi con un grattacielo degno
delle costruzioni che lo circondano.
Nella parte sviluppata
verso l’alto sono stipate le varie, lussuosissime camere del
famigerato hotel, mentre al pianterreno una hall di tutto rispetto
è stata progettata per accogliere turisti da ogni parte del
mondo. In un certo senso ora quel luogo mastodontico quasi spaventa,
immerso nell’oscurità senza fine e con nessun
passante o yellow cab
a girargli intorno. Perfino l’insegna, posta sulla facciata
principale e che in origine doveva brillare di un costante azzurro
vivido, ora è spenta, i neon abbandonati al loro destino.
Una desolazione del
genere scoraggerebbe chiunque dal pensiero di mettere piede
là dentro. Tuttavia, a quanto pare, quando si perde la testa
certi dogmi pesano meno di una piuma.
«Dici che si
aprono?» Jude osserva con cipiglio impensierito le vitree
porte scorrevoli che dovrebbero permettere l’accesso alla
clientela. Già, dovrebbero, perché in un mondo
senza corrente elettrica Jude non si stupirebbe se l’entrata
dell’Hilton Hotel decidesse di marciare contro di loro e i
loro propositi.
«O si aprono
o si aprono» borbotta in fretta Ray, continuando a spingere
una delle due ante dalla parte opposta «non ho intenzione di
rinunciare, dopo tutta la fatica che ho fatto e che sto facendo, ad
entrare qua dentro. Ti sembro il tipo che si arrende davanti ad una
sciocchezza del genere, Jude?»
«Touché»
replica poco dopo il ragazzo dagli occhi rubizzi. Aiuterebbe ben
volentieri il suo ex allenatore, se solo quest’ultimo gli
permettesse di farlo. Lui ha anche cercato di chiederglielo, solo che
Dark s’è impuntato con fermezza, brontolando che
deve riuscirci da solo, perché “voglio dimostrarti
che per te posso impegnarmi e riuscire in qualsiasi cosa,
Jude”.
Ahh, se solo ogni
tanto lasciasse a casa l’orgoglio e si impegnasse
affinché tutti e due riescano a stare bene insieme, per una
volta…
Finalmente
l’anta scorrevole giunge dalla parte opposta, i cardini che
si fissano a terra schioccando con un sonoro
‘clack’. Ray non prende in considerazione nemmeno
per un momento la possibilità di sfacchinare per la
successiva mezz’ora – sempre in relazione al
contorto scorrere del tempo di quel luogo, certo – per aprire
anche l’altra anta, così senza indugiare oltre
prende per mano Jude e lo trascina con se all’interno della
lussuosa e affascinante hall dell’hotel.
Jude resta subito
colpito e affascinato dall’atrio, soprattutto
perché – a differenza di buona parte degli edifici
di New York che ha visitato finora – non sembra essere stato
soggetto allo scorrere degli anni, senza possedere quindi segni di
degrado quali polvere o sporcizia, bensì conservando i fasti
splendenti di un tempo.
L’androne
è rivestito interamente di pregiati marmi bianchi e lucidi,
probabilmente originari di Carrara. Il bancone della reception, invece,
è in legno d’acero, solido e resistente. Per un
attimo Jude s’immagina quegli ambienti, sotto le luci calde e
sfavillanti delle lampade sparse un po’ in ogni dove nella
stanza e soprattutto dell’immenso lampadario di cristallo che
scende giù dal soffitto e troneggia un po’ tutta
la scena. Devono essere stati meravigliosi, senza dubbio.
Ray si sta
già dirigendo proprio verso quest’ultimo, sul suo
volto fa di nuovo capolino il sogghigno furbo di quando
un’idea geniale ha preso a ronzargli per la mente.
«Buonasera»
lo sente introdursi, poco dopo «io e il mio giovane ospite
avremmo bisogno di una camera presso la vostra struttura. No, non
avevamo prenotato: diciamo che ci piace presentarci di più
così, senza preavviso… non lo trova anche lei
molto più altolocato e degno delle nostre persone? Quale
stanza desideriamo, dice? Oh, ma che domante: la vostra Suite Deluxe
sarà perfetta, senza dubbio!»
Ray è
così preso nella sua recita che, per una frazione di
secondo, Jude non può fare a meno di chiedersi se stia
veramente parlando con qualcuno che d’improvviso si
è materializzato lì e adesso
consegnerà loro le chiavi della più prestigiosa
suite di quell’hotel, senza nemmeno pretendere in cambio
pagamenti o qualcosa del genere.
“Magari non
siamo poi così soli” sussurra speranzoso Jude,
dentro di sé.
Poco dopo
però si rende conto che chiaramente Ray sta scherzando.
È così bravo da riuscire perfino a portare avanti
da solo quella farsa e risultare pur sempre convincente. Jude ormai non
ha neanche più parole adatte per poterlo descrivere.
Ad ogni modo, non
riesce comunque a trattenersi dal chiedergli:«Ma con chi
diavolo stai parlando?»
«Da solo,
ovviamente» risponde subito Ray, come se fosse la cosa
più scontata del mondo «ti sembra che ci sia
qualcun altro in circolazione, qui?»
Jude rotea gli occhi,
senza aggiungere altro. Certo che non sa proprio risparmiarsi brutte
figure, eh?
Ray, nel frattempo,
poggia entrambe le mani sul bancone ligneo della reception, balzando
agilmente dall’altra parte. E dire che non credeva di avere i
riflessi necessari per fare una cosa del genere, alla sua
età, specie dopo l’incidente.
Neanche un secondo
dopo e le mani dell’uomo sono già intente a
frugare in vari cassetti, alla ricerca della tessera elettromagnetica
della suite desiderata. Jude nel frattempo si appoggia con i gomiti sul
bancone, lo sguardo perso ancora tra quelle mille meraviglie. Ma chi lo
segue il bon ton, quando vivi in una dimensione parallela disabitata?
«Trovata
~» gli comunica poco dopo Ray, con tono vagamente lascivo,
mentre gli sventola una card turchina sotto gli occhi.
«Uh,
bene!» Jude scuote la testa, colto alla sprovvista
«E sai anche a che piano dobbiamo salire?»
«Ma
certo» Dark si volta alla svelta, ruotando su se stesso di
centottanta gradi, fino a ritrovarsi con il volto a pochi centimetri da
un foglio di carta bianca e linda, appeso in una piccola bacheca che
occupa parte della parete.
Quando Ray si gira di
nuovo verso il ragazzo, sembra essere notevolmente sbiancato.
«Non dirmi
che è occupata» ironizza Jude, cercando di
smorzare la tensione.
«Vuoi
davvero sapere a che piano si trova, Jude?» si sente
domandare di rimando, con tono mortalmente serio.
«È
parecchio in alto, mh?» intuisce il giovane, mentre in volto
gli compare un’espressione mesta.
Ray annuisce, e a Jude
non rimane che lasciarsi sfuggire un sospiro sconsolato.
«Mi
dispiace» si affretta a scusarsi Ray, mortificato
«avrei dovuto pensare a qualcosa di più fattibile.
Posso provare a cercare una camera al primo piano,
volendo…»
«Ma no, ma
no… va bene così, sul serio» lo
rassicura il ragazzo, sorridendogli lievemente. Non poteva saperlo, in
fondo…
Certo che è
una scocciatura, vivere in un mondo senza elettricità. Buona
parte delle azioni che si compiono abitualmente sono inevitabilmente
compromesse, tra cui la possibilità di prendere un ascensore
al posto di farsi tutti quei piani di scale, che per quanti anni di
allenamenti sportivi tu possa avere alle spalle non sono certo alla
portata di un comune essere umano.
«Aspetta, ho
avuto un’idea!» Jude sembra illuminarsi,
saltellando appena sul posto.
«Sarebbe
a dire?» s’informa Ray, sporgendosi verso di lui
oltre il bancone, tutto incuriosito dall’improvviso cambio di
prospettiva.
«Credo che
da qualche parte debba esserci un montacarichi, di quelli vecchi a
motore, che funzionano anche senza elettricità»
spiega il ragazzino, tutto orgoglioso per aver avuto quella trovata
geniale «Mi pare che si usino proprio durante i guasti, i
blackout o problematiche di questo genere. Almeno, anche se manca la
corrente, il mondo non è costretto a fermarsi».
«Mi sembra
un’intuizione meravigliosa» si congratula Ray
«solo che non potevi averla prima? Magari ci saremmo potuti
risparmiare tutte quelle scale, prima, al Rockfeller
Center…»
«Ah, era il
Rockfeller Center, quello?»
«Già»
«Oh,
ma pensa, non lo sapevo…»
«Jude, non
cercare di cambiare argomento. Lo sai che con me non funziona,
signorino».
«Non sto
cercando di cambiare argomento» si affretta ad assicurargli
il giovane, con aria scaltra «ci tenevo solo a precisare che
non sapevo che quello fosse il Rockfeller Center, sul
serio…~»
Ray sospira, stremato.
Certo che avrebbe dovuto impartire un po’ meno
caparbietà, al suo ragazzo.
«Comunque»
riprende Jude, deciso a non mollare la spugna «avresti potuto
pensarci benissimo anche tu, caro.
Dopotutto, non sei sempre il primo che ci tiene a puntualizzare che
tutto quello che so mi è noto solo perché sei
stato tu a
insegnarmelo?»
«Va
bene» acconsente infine Dark, la mente al momento occupata da
ben altre preoccupazioni mentre fa il giro per sgusciare finalmente
fuori da dietro quel bancone, stavolta senza salti strabilianti o
acrobazie del genere – dubita infatti che il suo corpo
potrebbe sostenerlo in un salto simile per una seconda volta
«Adesso vuoi darmi una mano a cercare questo montacarichi o
preferisci rimanertene qua da solo, al buio, in questa hall
abbandonata?»
«Opto per la
prima» gongola il ragazzo, mettendosi in punta di piedi per
potergli scoccare un bacio leggero a fior di labbra.
«Ottimo»
sentenzia l’uomo, accarezzandogli i capelli
«allora, visto che la mia giovane creazione ha avuto
un’idea tanto brillante, a lei toccherà il compito
di guidarci verso questo benedetto montacarichi, mh?»
«D’accordo»
concede Jude, mettendosi a saltellare attraverso l’elegante
hall, dirigendosi strategicamente verso l’area
“riservata al personale autorizzato”.
Neanche qualche minuto
di traversata lungo gli immensi corridoi dell’hotel che un
piccolo montacarichi si para davanti ai loro occhi.
«Non avevi
detto che sarebbe stato così piccolo» protesta
Ray, imbronciato.
«Beh, se
è per questo tu non hai neanche dato segno di volerlo
sapere» replica Jude, la solita aria furba ad illuminargli il
volto.
Poco dopo, Ray si
ritrova ad armeggiare con l’inferriata metallica che
ostruisce l’ingresso al montacarichi, il che gli fa sfuggire
un grugnito.
“Io ti ho
trovato il montacarichi perché l’idea di usarlo
è stata mia, adesso però lo metti in funzione te,
visto che sei tu quello che è voluto venire qui”
gli aveva infatti comunicato Jude qualche minuto prima, non senza una
buona dose di sarcasmo.
In fondo, se lo amava
così tanto era anche per questo, no?
Lo spazio
all’interno del montacarichi, in effetti, è
sorprendentemente ristretto, tanto che per entrarci Jude è
costretto a mettersi seduto in un angolo, mentre Ray deve rimanere in
piedi, per non occupare troppo spazio.
«Ma non
potevi proprio cercare una camera da letto un po’
più alla mano?» obietta Jude, sbuffando
sonoramente, mentre il montacarichi comincia a salire.
«No»
risponde secco Ray, non senza un sogghigno adatto
all’occasione.
Per il resto, il
viaggio in montacarichi trascorre abbastanza in silenzio, fatta
eccezione per gli sporadici brontolii di lamentela di Jude e le carezze
che Ray gli distribuisce di tanto in tanto sul capo, chinandosi su di
lui per poterlo rassicurare.
Una volta arrivati al
piano giusto, Ray deve far di nuovo pressione affinché la
grata si apra e Jude non aspetta neanche che l’altro lo
inviti ad uscire per primo con un gesto galante, gettandosi piuttosto
in corridoio di sua spontanea volontà, adottando di nuovo il
passo saltellato come in precedenza.
Ray sospira,
affrettandosi tuttavia a seguirlo.
Man mano che passano
lungo il corridoio, percorso da due file parallele e densamente fitte
di porte, Jude non perde occasione per bussare a ciascun ingresso,
ridacchiando soavemente.
«Jude,
smettila di importunare la clientela dell’hotel, per
favore» lo riprende Ray, seppur con tono estremamente bonario.
Il ragazzo ride ancor
di più a quell’affermazione, voltandosi verso
l’altro e mettendosi a camminare all’indietro pur
di poterlo osservare in volto nel frattempo.
«Non hai
più paura degli zombie affamati di cervelli?»
rincara l’uomo «E cammina come si deve, se cadrai
non verrò certo a tirarti su».
«Oh, lo
farai eccome, invece!» lo sbeffeggia Jude, fingendo di
inciampare all’indietro sulla moquette rossa decorata dai
simboli di alcuni gigli dorati, venendo prontamente afferrato da Dark
«E no, non ho paura di zombie o chissà cosa. Tanto
adesso ci sei tu che mi proteggi, no?»
«Ma io ti
proteggo sempre, sciocchino ~» lo rimbrotta Ray,
carezzandogli suadentemente il mento con due dita, mentre lo aiuta a
rimettersi per bene in piedi.
Jude avvampa
vistosamente al contatto delle dita di Ray con il suo volto, tuttavia
cerca di non farglielo notare, tornando a voltarsi e incamminandosi
nuovamente lungo il corridoio.
Ray lo segue
pedissequamente, a pochi passi di distanza dalla sua schiena.
Quando arrivano
davanti alla suite, per poco Jude crede di esserselo sognato. Stanno
camminando da diversi minuti lungo quel corridoio che gli pare
infinito, mani rasenti al muro per non perdere l’orientamento
in quell’oscurità accecante, rischiarata
parzialmente solo dalle rade luci presenti all’esterno, che
filtrano nell’hotel attraverso le finestre che di tanto in
tanto incrociano sul loro cammino.
«Credo che
ci sia un altro problema» annuncia Jude, rimproverandosi per
essersene reso conto soltanto adesso.
«Sarebbe a
dire?» domanda Ray, perplesso.
«Beh»
ammette il ragazzo, con un sospiro affranto «senza corrente
elettrica è tecnicamente impossibile che il meccanismo della
tessera magnetica funzioni. Servirebbe una chiave o qualcosa
del—»
Nemmeno un secondo
dopo, Ray sta già facendo dondolare un paio di scintillanti
chiavi d’ottone davanti agli occhi meravigliati del ragazzo.
«Diciamo
pure che ci avevo già pensato» replica Ray,
ghignando soddisfatto.
«E questa
cos’è, una sorta di rivincita? Io ho avuto
l’idea geniale del montacarichi e tu quella delle chiavi? Oh,
okay, va bene» brontola Jude, facendosi prendere da un moto
d’irritazione.
«Suvvia, non
imbronciarti» Ray lo abbraccia di slancio, mentre sta
già infilando la chiave nella serratura «godiamoci
questo momento e basta, okay?»
«Mh,
okay» concede il ragazzo, strofinando appena il capo contro
il petto dell’ex allenatore.
La chiave scatta nella
serratura e Ray spinge delicatamente la porta, che si dischiude piano
davanti ai loro occhi, rivelando il suo interno con un certo velo
ammaliante.
Il buio non permette
una visuale completa e certo la fioca luce che entra dalle due finestre
non aiuta granché. I tendaggi sono stati lasciati aperti,
per quanto però possano essere in alto adesso tutto quello
che riescono a scorgere da lì non sono altro che i soliti,
monotoni grattacieli – e Jude è abbastanza certo
di cominciare ad essere stanco, di quel panorama. A terra
c’è una moquette scura, con dei ricami bianchi
appena visibili, decisamente moderna rispetto a quella in corridoio; la
mobilia in legno d’acero è distribuita un
po’ ovunque, a partire dalla scrivania alla destra
dell’entrata, con la sedia girevole rivestita con morbidi
cuscini, passando per la cassettiera discreta, che ben si fonde con
l’ambiente e che ospita un invitante televisore al plasma
– che ovviamente non funzionerà, sempre per via
dell’assenza di corrente elettrica. Contro la parete opposta
spiccano un divano e una poltrona, che devono essere decisamente morbidi,
sormontati da un elegante dipinto ad olio. Nella stanza sono inoltre
presenti ben cinque lampade, due abat-jour sui rispettivi comodini,
posti ai lati del letto e tre paralumi, per illuminare a giorno la
camera – ma ahimé, di nuovo, non
c’è modo che queste possano funzionare, in quella
dimensione distorta.
In fondo
c’è una porta bianca, che condurrà
senza dubbio alla toilette super equipaggiata, completa di lavabo
regale, vasca con idromassaggio e box doccia, oltre a tutti gli altri
vari comfort che non possono mai mancare nel bagno di un hotel di
lusso. La cabina armadio è immensa ed occupa quasi
interamente la parete su cui compare la porta d’ingresso
– e peccato non avere dei vestiti da riporvi, insomma.
Il vero e proprio
elemento chic della stanza è tuttavia, ovviamente, il letto
matrimoniale, che occupa una posizione centrale. Un talamo nuziale in
piena regola, lenzuola bianche immacolate in raso, testiera imbottita,
cuscini e materasso soffici come piume e una struttura lignea che
giunge fino a toccare il soffitto.
Jude è
rimasto a bocca aperta, lo sguardo che non smette di saettare da un
centimetro all’altro di quella camera dalle pareti
tinteggiate di bianco – non un bianco opprimente come quello
degli ospedali, quanto piuttosto un panna che rende tutto
così incredibilmente accogliente, rassicurante, rilassante
– troppo rapito da tutti quei nuovi dettagli.
«Non
sarà… troppo, per noi?» si azzarda a
domandare, una punta di timore nella voce.
Ray chiude la porta
con nonchalance, sorridendo entusiasta nell’avvertire il
dubbio e l’incertezza nella voce del suo ragazzo. Sarà un bel gioco,
Jude, vedrai…
«Desidero
solo il meglio per te, Jude. Dovresti saperlo, ormai, dopotutto ci
conosciamo da tanti di quegli anni…» commenta
solennemente Dark, incrociando le braccia al petto e restando ad
osservare il ragazzo con un cipiglio sorprendentemente interessato.
«E posso
fare qualsiasi cosa, adesso che sono qui?»
«Assolutamente,
qualsiasi cosa, ragazzo mio»
«Davvero?
Qualsiasi qualsiasi?» insiste Jude, sbigottito.
«Qualsiasi
qualsiasi» rincara Ray, scompigliandogli appena i capelli.
Ottenuta la conferma
desiderata, Jude non indugia oltre prima di lanciarsi sul maestoso
letto matrimoniale. Ogni volta che suo padre l’ha portato con
sé, in uno dei suoi numerosi viaggi d’affari in
giro per il mondo, il ragazzo si era dovuto trattenere da esternazioni
di gioia del genere di fronte a un comodo giaciglio d’hotel,
certo che l’uomo non avrebbe accettato. Invece con Dark,
adesso, la musica è ben diversa: non essendo apparentemente
quella la vera New York, non avrebbe comportato danni di alcun genere e
nessuno sarebbe andato da lui a contestare per quel che aveva fatto. E
poi Ray gliel’avrebbe permesso a prescindere, si vede da
chilometri di distanza che è perdutamente innamorato di lui,
gli concederebbe di fare qualsiasi cosa.
La cosa buffa
è che la sua mente ha dovuto compiere uno sforzo non
indifferente per riportare a galla i ricordi di lui e suo padre
– anche sommariamente recenti, peraltro – il che
è decisamente preoccupante. Forse dovrebbe parlarne con Ray,
solo che quel momento è così esaltante che non
gli sembra proprio il caso di rovinarlo con le sue solite paranoie.
Jude non si accorge
neanche del momento in cui ha cominciato a saltare sul letto, sa solo
che un attimo prima non ne era cosciente, occhi chiusi e mente altrove,
invece l’istante successivo, non appena solleva nuovamente le
palpebre, percepisce lo sguardo stralunato di Ray su di sé,
mentre sente il proprio corpo alzarsi di qualche centimetro in aria per
poi tornare con i piedi poggiati sul materasso, poi di nuovo su,
andando avanti così, di continuo, senza riuscire a fermarsi.
«Oh
cielo» borbotta imbarazzatissimo, le guance che hanno ormai
preso una poco rassicurante sfumatura purpure «scusa, scusa,
scusa, non mi sarei dovuto mettere a saltare
così—»
«Ma no,
tranquillo» Ray si avvicina al letto, quasi scivolando nelle
tenebre della notte «dopotutto, è bello vederti
così spensierato. Mi fa scoppiare il cuore di
gioia».
Quando
l’uomo è ormai giunto ai piedi del talamo, Jude
è riuscito finalmente a smettere di saltellare. Anche se
adesso è più in alto rispetto
all’altro, contando il materasso e tutta la struttura del
letto, Ray continua a sovrastarlo, pur con i piedi ancora a terra.
Il ragazzo sente il
cuore martellargli nel petto, mentre uno strano rossore gli ha invaso
di nuovo le gote. È strano percepire Dark così
vicino a sé… a Jude sembra di sentire il suo
respiro caldo sfiorare la propria pelle, che invece ora gli pare
così incredibilmente fredda.
Non credeva che averlo
così vicino lo avrebbe fatto sentire
così… così
come? Jude non sa nemmeno definire quella nuova
sensazione, che d’improvviso lo ha avvolto completamente.
«Ehm,
ecco—» cerca di mormorare qualcosa di intelligente
– o quantomeno sensato – tuttavia le parole in quel
momento sembrano avercela con lui, dato che pare non vogliano uscire
fuori dalle sue labbra per nessuna ragione al mondo.
«Non
preoccuparti» lo incoraggia Ray, una mano che si perde tra i
capelli del ragazzo, mentre l’altra si è
già persa lungo la sua schiena candida, sotto strati e stati
di vestiti «penso a tutto io adesso, mh?»
«M-ma
io—» Jude si morde il labbro inferiore, fino a che
non sente il sapore ferroso del sangue sgorgare nella bocca,
invadendola del tutto.
«Shh~»
Ray continua a riempirgli la schiena di carezze bollenti, che corrono
lungo tutta la linea della colonna vertebrale, mentre così
facendo lo induce a distendersi sui cuscini morbidi del letto
«Devo forse ricordarti che ci troviamo in un paese in cui la
maggiore età si raggiunge legalmente a sedici anni e tu ne
hai già ben diciotto?»
Il ragazzo sobbalza,
il rossore sulle sue guance che sembra aumentare ancora di
più, mentre trattiene a stento un gemito quando le labbra
dell’uomo si posano sulle sue, languide e possessive.
«Bravo.
Lasciati andare. Così» lo esorta ancora, spingendo
il proprio petto contro quello del giovane, le mani che hanno
già cominciato a slacciare sapientemente la camicia del
più piccolo, bottone dopo bottone.
Jude chiude gli occhi,
rapito dai fremiti che lo comprendono completamente, come onde che si
riversano sugli scogli, in un giorno di alta marea.
E forse è
solo allora che comprende cosa voglia dire abbandonarsi davvero alle
proprie emozioni.
«Faresti
meglio a riposarti, adesso»
«Cosa?
Riposarmi? E io che non vedevo l’ora di ricominciare tutto da
capo…»
«Non
prendermi in giro, sarai stanco»
«I-io
non sono affatto stan—»
Jude non aveva fatto
in tempo a terminare la frase che si era addormentato placidamente, il
volto premuto appena contro il petto dell’uomo.
Uscendo dalla doccia,
Ray non riesce a far a meno di riportare alla mente gli stralci della
conversazione – o meglio, di quell’accenno di
dialogo – avuti poco prima con Jude, negli istanti che
avevano preceduto l’addormentamento del ragazzo.
È stato
tutto così… perfetto. Non immaginava neanche
lontanamente di poter sfiorare apici di piacere tanto alti…
beh, forse se lo sarebbe dovuto aspettare, visto che tra le sue braccia
c’era proprio lui.
L’essere
perfetto, la prima, meravigliosa creazione.
Ray Dark riemerge
dalla toilette, un asciugamano annodato in vita e i capelli tamponati
appena con i teli generosamente offerti dall’Hilton Hotel
ancora umidi che gocciolano un poco sull’elegante moquette.
Lo shampoo gli ha lasciato stille di profumo alla vaniglia, nonostante
il sentore di stantio emerso dai flaconi subito dopo averli aperti, per
essere rimasti chiusi così a lungo – secoli,
letteralmente.
È assurdo
che, in un mondo senza elettricità, le docce siano ancora
perfettamente funzionanti. Non puoi mangiare cibi freschi né
riscaldarli, non hai possibilità di riscaldarti dal gelo ma
almeno puoi farti trovare perfettamente pulito e profumato durante
l’apocalisse. Certo.
Ovviamente
l’acqua calda non si trova neanche a pagarla –
senza corrente è impossibile che boiler, scaldabagni e
caldaie varie funzionino – ma almeno l’acqua
c’è. Che poi a Ray quello sembra un paradosso
bello e buono: come fanno ad averla, se le centrali idriche non
funzionano? Perché, parliamoci chiaro, è
impossibile che si riesca ad ottenere un fabbisogno d’acqua
necessario a soddisfare una megalopoli come New York, senza centrali
idriche.
Forse il governo
americano aveva stipulato un fondo per le emergenze, così
che, anche in caso di un blackout generale, l’immensa
megalopoli che è New York non rimanesse a corto di un bene
tanto prezioso quale l’acqua. Ray s’informerebbe
ben volentieri, se solo i computer o la rete wifi funzionassero,
peccato che sia di nuovo da capo a dodici – niente
elettricità, niente computer e quindi niente accesso ad
internet. Avrebbe dovuto pensarci, a quanto sia importante la corrente
elettrica nel mondo moderno, perlomeno prima di finire in una
dimensione priva di essa.
Anche
perché, a quel punto, non dovrebbe esistere un piano
d’emergenza nazionale anche per
l’elettricità? No, no, questa faccenda continua a
non quadrargli.
Ray, in effetti, ha
sempre avuto il sospetto che, dietro a quel loro soggiorno
lì, ci fosse qualcuno, capace di macchinare e architettare
un piano del genere, fornendo loro solo ciò di cui avevano
bisogno nel momento esatto in cui ne percepissero la
necessità, ovunque si trovassero. Solo che questo a Jude non
l’ha mai detto, una prospettiva del genere basta ad
inquietare se stesso, meglio non mettere ulteriori pesi sulle spalle
del suo adorato ragazzo, soprattutto non dopo tutto quello che ha
dovuto soffrire, negli ultimi tempi.
A proposito di Jude,
tornando nella camera da letto Ray lo trova ancora profondamente
addormentato: è disteso nel letto a pancia in
giù, tutto il lato sinistro del volto premuto contro il
cuscino, la bocca socchiusa e il corpo abbandonato in una posizione
piuttosto innaturale – le braccia aperte, una gamba
più sollevata rispetto all’altra. È
crollato esattamente così, poco prima.
Ray non fatica a
trovarlo adorabile:
gli appare estremamente puro, innocente. Quasi si sente in colpa,
perché in tutti quegli anni – e soprattutto dopo
quello che è successo poco prima – non gli sembra
d’aver fatto altro che deturpare l’immacolata
perfezione di quel ragazzo.
Adesso, tuttavia,
è troppo tardi per essere colti dai rimorsi. Quel che
è fatto ormai è fatto, inutile pentirsene.
Inoltre…
perché mai pentirsi di cotanta perfezione?
Le dita affusolate di
Ray accarezzano quel che il lenzuolo lascia scoperto della schiena di
Jude, candida e vellutata: ne percorre la colonna vertebrale,
sogghignando di soddisfazione nel constatare che il ragazzo non
dà segno di risvegliarsi, nonostante quel contatto.
Non
mentirmi, Jude: tu ti fidi ancora di me, nonostante tutto, oltre lo
scorrere del tempo che mai è stato clemente con noi.
Con un sospiro stanco,
l’uomo lascia il giovane al suo meritato riposo, recuperando
i propri vestiti – sparsi alla rinfusa sul materasso
– e rivestendosi in tutta calma.
Un velo di pace sembra
essersi posato tra di loro, su quella camera, su quell’intera
città di
fantasmi e Ray si sente finalmente in pace con se stesso,
così come non gli capitava da anni.
Magnifico.
Dark è un
tutt’uno con le ombre della stanza mentre muove passi felpati
su quella moquette morbidissima in direzione di una delle due finestre,
che sembra non essere stata minimamente toccata dallo scorrere del
tempo.
Il mondo esterno gli
appare così come l’ha lasciato, prima di
addentrarsi nel nugolo di corridoi dell’Hilton Hotel, insieme
al suo adorato Jude: un mondo freddo, arcigno, crudele, abbandonato al
degrado della solitudine e al silenzio eterno, immerso in quel mare di
tenebre.
In passato, forse, non
gli sarebbe nemmeno sembrato un posto tanto inospitale, considerata
l’oscurità che albergava – o meglio,
quella che voleva che gli altri credessero che albergasse –
all’interno del suo cuore. Ora invece, tutto quel buio gli
pare così opprimente, tanto che a volte quasi teme di non
riuscire più a respirare.
Ray ruota piano la
maniglia della finestra, facendo attenzione affinché
scattando produca meno rumore possibile – tutto, pur di non
turbare in alcun modo la tranquillità del suo ragazzo.
Dischiudendo le ante,
ovviamente è ancora una volta il silenzio tombale ad
accoglierlo, tanto che Ray non si meraviglierebbe di sentire i grilli
cominciare a frinire da un momento all’altro, come nelle sere
di tranquillità in campagna.
E in effetti se alza
lo sguardo in cielo può facilmente scorgere una notte
stellata in piena regola, Orione che gli strizza l’occhiolino
con fare insensibile.
Già, come
se nemmeno le stelle si curassero del loro dolore – e forse
è proprio così.
È una notte
senza luna come ogni altro istante che ha trascorso in
quell’oscurità senza fine, il che rende tutto
ancora più tetro, palazzi perfettamente conservati sembrano
ruderi senza porte e finestre, i loro unici inquilini spettri di
tenebre, che s’affaccendano mentre aleggiano tra quei
corridoi, albergando quelle stanze come nere certezze.
Il paesaggio
è ostruito dai grattacieli vuoti e disabitati, la visuale
è ampiamente ridotta. Ray è assolutamente certo
di essere incapace di vedere pochi metri oltre il suo naso.
Tutto sommato, quella
tranquillità – per quanto artificiosa possa essere
– è piacevole, immergersi nel silenzio aiuta a
sciogliere i nervi, indubbiamente.
Un refolo di vento
attraversa silenziosamente l’atmosfera immobile e immutabile,
un alito fresco che sfiora la pelle di Ray dopo un tempo che gli
è parso infinito.
No,
un momento.
In quel mondo che di
reale ha ben poco, Ray si rende nitidamente conto che non
c’è mai stato un singolo istante, da quando
è giunto in quella dimensione distorta, in cui ha sentito il
vento soffiare.
E quello, per
l’uomo, è un campanello d’allarme fin
troppo chiaro.
È un attimo
prima che accada l’inevitabile.
Dapprima è
un sentore leggero, quasi impossibile da percepire, troppo lontano
perché l’orecchio o qualsiasi altro senso umano
possa captarlo. Ben presto, tuttavia, quel rumore ovattato si fa sempre
più vicino, acquistando nitidezza.
Sembrano pulsazioni
ritmiche, quasi come quelle di un cuore. Tu tum, tu tum. Tu tum, tu tum.
La terra trema sotto i
suoi piedi, le pareti vibranti sembrano d’improvviso fogli di
carta macerati dall’acqua per quanto fragili e impotenti si
rivelino alla necessità di proteggerli.
“Il
terremoto” è il primo pensiero
dell’uomo, nell’avvertire quei rumori sospetti. In
tutti quegli anni, Dark non si è mai ritrovato dinanzi ad
una prospettiva così tragica, ecco perché
all’idea che i suoi sospetti possano essere fondati resta per
un attimo eterno impietrito, senza avere la più pallida idea
di cosa fare.
Per un attimo Ray
crede – anzi, forse addirittura spera – di essersi
immaginato tutto, che i quattro interminabili anni trascorsi
lì l’abbiano condotto del tutto alla pazzia e che
quelle vibrazioni che ha sentito non siano altro che il frutto della
sua mente distrutta.
Peccato che dopo tutto
il tempo passato in quella riproduzione di New York, in cui
è notte in ogni momento della giornata e i secondi di sabbia
non scorrono nelle clessidre, ha ormai compreso che dove si trova nulla
accade per caso.
I colpi pesanti si
rimarcano sul terreno, tanto che Ray sente quasi di riconoscerli con il
rumore di passi.
Solo che dei normalissimi calpestii non creerebbero tutto quel fragore,
lo sa fin troppo bene.
E Ray ne ha la
conferma, quando vede la via dell’Hilton Hotel inondarsi di
giganti di pietra.
~♟~
«Oh, sei
tornato, finalmente».
Caleb fa il suo
ingresso nella stanza a passo nervoso e spedito, ricordando quasi
l’incedere furente di un cavallo al trotto. Getta a terra una
felpa grigia dall’aspetto piuttosto malandato mentre tra le
mani tiene un lungo foglio, tutto arrotolato su se stesso.
«Sì,
beh, bello schifo, insomma» sbotta, le parole che sembrano
quasi essere sputate «per poco non mi prendevano, quegli
pseudo crononauti. Mi hanno inseguito per mezza Londra e mi sono dovuto
inventare l’impossibile per seminarli. Solo trasportarmi via
con l’Oro all’ultimo momento, dopo essermi
arrampicato fin in cima al Tower Bridge sollevato ha funzionato, pensi
un po’…»
«Tutto molto
interessante» commenta l’uomo, con un tono che
sembra essere tutto, fuorché incuriosito dalle gesta del
ragazzo «ma almeno hai recuperato quello che ci
serve?»
«Ne
dubitava?» Caleb raggiunge il suo interlocutore, in piedi
davanti alla vetrata, che dona un’incantevole scorcio sulla
città di New York, immersa nel suo buio perenne. Passa il
foglio all’uomo, che subito lo srotola, iniziando ad
osservarlo attentamente.
«Eccellente»
commenta, soddisfatto «ora siamo a conoscenza degli Orologi
mancanti. Riposati, figliolo, questa volta hai compiuto il tuo lavoro
egregiamente».
«Eh, certo,
stavolta. Come no» Caleb sbuffa, irritato
«comunque, quanto ai nostri
“ospiti”?»
L’uomo si
volta, per la prima volta da quando è giunto nella stanza,
in direzione del ragazzo, con in volto un’espressione stupita.
«Oh, Jude
Sharp e Ray Dark, dici? Non preoccuparti» si passa una mano
davanti al volto, ghignando malevolmente «ho preparato una
“sorpresa” tutta per loro. Accomodati pure, Caleb:
lo spettacolo sta per cominciare».
* Angolo autrice *
Yee, ce l’ho fattaaa! *suona trombetta*
Scusate, sono io
stessa la prima ad essere incredula: non credevo che alla fine sarei
riuscita a pubblicare oggi, per quanto mi stessi impegnando a finire il
capitolo. Ad ogni modo, ce l’ho fatta: siete contenti?
Mi sono tipo slogata
un polso per finire di scriverlo tutto, perché –
parliamoci chiaro – la parte dei crononauti è
lunga sedici pagine e quella ambientata a New York dodici. Voglio
troppo morire, ahahah, ventotto pagine, chi me l’ha fatto
fare—
In realtà
la parte di Amelia (che ebbene sì, è ricomparsa
ed è ancora qui tra noi – beh, più o
meno), Thiago & co. doveva venire molto più breve,
tuttavia alla fine ho deciso di allungarla e di lasciarvi col
cliffhanger finale del ladro perché sì.
Perché sono una persona malvagia, ecco.
Comunque, per la prima
volta in vita mia svelo un cliffhanger nello stesso capitolo in cui
compare. Il ladro è ovviamente Caleb, che trafuga le
raffigurazioni degli Orologi perché almeno così
sarà più facile trovarli. Oh no, i cattivi adesso
sono un passo avanti ai nostri eroi. Però dai, diciamoci la
verità: a chi piacciono le cose semplici? A me.
Non so se avete notato
ma rispetto alla lista dei personaggi che vi avevo lasciato nel
capitolo precedente è apparso un nuovo oc che non avevo
segnato: ebbene, si tratta di Julie
Dupont, oc di Michy_66.
Ho scelto di integrare Julie nella trama perché
praticamente, se non lo avessi fatto, mi sarebbe rimasto un posto vuoto
tra i crononauti, giacché fin dal progetto iniziale dovevano
essere otto. A proposito, finalmente i nostri ragazzi si sono
incontrati! Che ne dite, li ho fatti interagire bene tra loro?
Qui sotto vi lascio
nuovamente la lista degli oc con l’aggiunta di Julie,
indicando come al solito colore della luce sprigionata durante i viaggi
e simbolo dell’Oro.
Julie Dupont
~ pavone
Atemu McKinley
~ mondo
Amelia Greene ~
corvo
Andrea Cervini
~ scheggia di vetro
Thiago Joel Ferreira dos Reis
~ ragno
Margarita Rimšaitė
~ maschere del teatro classico
Claudine Blanchard
~ rondine
Amos Akolzin
~ ingranaggi
Ad ogni modo, vi
lascio una piccola anticipazione sul prossimo capitolo: i nostri
ragazzi dovranno andare alla ricerca degli Orologi perduti, quindi
inizieranno i primi viaggi in giro per il mondo! Ho già
deciso quali saranno le destinazioni in cui si recheranno,
perciò, visto che stasera mi sento estremamente magnanima,
ho deciso di lasciarvi anche lo schemino delle coppie e di chi
andrà con chi. Sono proprio buona oggi, eh?
Andrea/Claudine
– Roma, Italia
Atemu/Amos
– Città del Capo, Sudafrica
Amelia/Thiago
– Ayers Rock, Uluru, Australia (Outback australiano)
Margarita/Julie
– Beijing, Cina
Ecco fatto! Vi piacciono le coppie? E le destinazioni?
Bene, con questo credo
che per stavolta sia decisamente tutto. Vi lascio
l’appuntamento al prossimo mese per il nuovo capitolo
(sì, cercherò di aggiornare almeno una volta al
mese, sperando di rientrarci con le tempistiche) e spero di sentirvi
presto, magari nelle recensioni, chi lo sa!
Ci vediamo domani, con l'ultimo chap di Mar (viva Ange!)
Aria
Next stop .:: Chapter
seven —♟Butterflies and
hurricanes
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Butterflies and hurricanes ***
«
Non è vero che abbiamo poco tempo:
la
verità è che ne perdiamo molto »
–
Seneca –
Chapter seven
“
Butterflies and hurricanes ”
♟»
New York,
Stati Uniti d’America, 2120
«Spero
vivamente che tutto ciò non sia che uno scherzo di pessimo
gusto».
Jude
scivola rapidamente lungo in corrimano polveroso delle scale
dell’Hilton Hotel, le mani che litigano furentemente con un
bottone della camicia che proprio non vuole saperne
d’infilarsi nell’asola, mentre i lembi della felpa
continuano a sbatacchiare contro il suo corpo, a causa della cerniera
lampo slacciata sul davanti e dell’aria sferzante che
s’è formata attorno al suo corpo, a forza di
andare a quella velocità insostenibile.
«Credimi,
anche io vorrei che lo fosse» Ray sospira di frustrazione,
stare dietro al ragazzo in quelle condizioni è piuttosto
difficoltoso, soprattutto considerando il fatto che si deve fare tutte
le scale a piedi e di corsa, mentre Jude può filare via
tranquillamente seduto su quel pezzo di legno.
Dark non
c’è potuto salire perché, chiaramente, con
ogni probabilità il corrimano non avrebbe retto il suo peso.
«Anche
perché» riprende l’uomo, passandosi
nervosamente una mano tra i capelli «che diavolo di
giovamento potrei trarre dal guastarmi da solo l’unico
momento della mia vita in cui finalmente mi sono sentito bene?»
Jude
termina una rampa di scale, saltando giù dal corrimano con
una capriola a mezz’aria ed atterrando in piedi senza
difficoltà, percorrendo di corsa il pianerottolo per poi
rituffarsi sulla scivolata successiva. Solo quando è sceso
già di un altro piano accenna finalmente a rallentare,
arrestandosi sul posto, come se fosse riuscito a comprendere solo
allora le parole dell’ex Comandante.
Quando
riesce a raggiungerlo, Ray ha il fiato corto, tanto che per
riacquistarne un po’ è costretto a piegarsi su se
stesso, le mani poggiate sulle ginocchia.
«Aspetta»
commenta Jude, osservando con cipiglio incuriosito l’uomo
«hai forse detto di essere stato bene con me?»
«Beh»
l’uomo si tira nuovamente su, drizzando per bene la schiena
«e te ne stai meravigliando?»
Un accenno
di rossore fa capolino sulle guance del ragazzo, che tuttavia si
appresta a nasconderlo, troppo orgoglioso per mostrare i propri
sentimenti perfino in un momento del genere.
«Piuttosto»
borbotta Jude, ostinandosi testardamente a tenere la testa china verso
il basso «perché non mi hai svegliato prima, se
avevi già visto quei cosi invadere la strada?»
«Potrei
dirti che osservarti mentre dormi è così
affascinante che anche solo il lontano pensiero di doverti svegliare mi
è sembrato incredibilmente doloroso» ammette
l’altro, sollevandogli il volto con due dita, in modo da
costringerlo a guardarlo negli occhi mentre gli parla «o che
ho valutato la possibilità di scendere senza dirti niente,
poiché non volevo metterti in pericolo. E non dubitare di me
se adesso ti dico che non saprei quale tra queste affermazioni sia la
più vera, Jude Sharp».
Per un
momento Jude teme di essersi dimenticato come si respira, per poi
costringersi a distogliere lo sguardo dall’uomo, mascherando
il proprio imbarazzo.
«Vedi
di non fare l’eroe, Ray Dark» lo riprende
seccamente, nel borbottio di voce più convincente che riesce
a tirare fuori «ti ricordo che in questa faccenda ci siamo
dentro entrambi fin sopra la testa».
«Certamente»
replica Ray, per poi chinarsi lievemente sul ragazzo, sfiorando le sue
labbra con le proprie. Jude è scosso da un fremito che gli
attraversa il corpo da capo a piedi, mentre il rossore sulle sue guance
non fa che aumentare.
Vorrebbe
poter rimanere ancorato per sempre alle labbra dell’uomo,
tuttavia ciò che gli è concesso non è
nient’altro che quel tocco leggero, eppure così
sorprendentemente e intimamente profondo, prima che Ray si separi da
lui.
«Forza»
mormora Dark, ancora a pochi centimetri di distanza dal ragazzo, le
fronti che si sfiorano soavemente «abbiamo alcuni affari di
cui occuparci».
Jude
vorrebbe fermare la mano di Ray sulla propria guancia, che sente venire
accarezzata con dolcezza, tuttavia non fa in tempo ad afferrarla che
anche quest’ultima si è già allontanata.
Ray si
avvia con ritrovato vigore lungo il corridoio, riprendendo a scendere
le scale, sebbene un velo di mestizia gli avvolga il cuore:
è chiaro che preferirebbe di gran lunga intrattenersi con il
ragazzo, tuttavia immagina che non ci vorrà molto prima che
quell’armata di combattenti di pietra invada anche
l’Hilton Hotel e non solo le vie circostanti. Piuttosto che
ritrovarsi incastrati e nell’incapacità di fuggire
da quel luogo successivamente, meglio agire subito e cercare una via di
salvezza – prima che sia troppo tardi.
Questa
volta Jude affianca l’adulto e decide di scendere le scale
insieme a lui, senza ricorrere allo stratagemma del corrimano. Mentre
una di gradini e gradini continua a scivolare davanti ai loro occhi,
così tanti che quasi sembrano essere infiniti, il ragazzo
lascia scivolare la propria mano in quella di Ray, simulando il gesto
con aria casuale, sperando che il suo ex allenatore non si accorga
della tensione e della paura che si nascondono dietro
quell’azione. Avrei
solo bisogno che tu mi rassicurassi, adesso…
Ray,
tuttavia, conosce fin troppo bene il suo ragazzo e sa cosa si nasconda
dietro ogni suo singolo movimento, figurarsi in una situazione del
genere. È fin troppo cosciente di star chiedendo molto a
Jude, anzi, forse addirittura troppo. E se ne dispiace, eppure spera di
star facendo la cosa giusta, almeno questa volta. Così
stringe con gentilezza quella mano, sperando – almeno in quel
modo – di riuscire a infondere un po’ di coraggio
al giovane.
Quando
ormai Jude comincia a credere che non vedrà mai la fine di
quelle rampe di scale, il ragazzo scorge in lontananza una luce tenue,
bluastra: ci mette qualche attimo a capire che si tratta della notte
eterna che imperversa all’esterno, di un color oltremare
lievemente più tenue rispetto al nero perenne del cielo.
In quel
lucore appena accennato, Jude deve stringere le palpebre, riducendo il
suo campo visivo a due fessure, pur di riuscire a intravedere qualcosa
di quel che accade all’esterno. Peccato che la scena che gli
si para davanti sia tutt’altro che incoraggiante.
Purtroppo
deve constatare che, quello che Ray gli aveva accennato poco prima,
corrispondeva alla verità: un esercito di giganti di pietra,
i ranghi serrati e le schiere perfettamente ordinate. Sono
lì, pronti ad attaccare, anche se forse la cosa
più inquietante è il fatto che quei guerrieri
impugnino, tra le loro mani granitiche, armi di ogni genere: spade,
asce, martelli e mazze chiodate, tutti rigorosamente formati da rocce.
«Oh
Dio» Jude s’arresta in fondo alle scale, fissando
attonito quelle statue «e questi da dove diavolo sono sbucati
fuori?»
«Non
ne ho la più pallida idea» ammette Ray, stringendo
il ragazzo a sé con aria protettiva
«però non possiamo restare più qui. Ce
ne sono a centinaia, non ci metteranno molto prima di sfondare il vetro
e invadere l’albergo».
Jude
deglutisce un po’ a fatica. Non ha paura, accidenti, solo che
per la prima volta in vita sua che si sentiva finalmente felice e al
sicuro, si ritrova nuovamente a dover fronteggiare una situazione
troppo grande di lui. Se
solo per una volta le cose fossero facili…
«Ehi»
Ray gli accarezza la testa, apprensivo «se hai paura puoi
restare qui, me ne occupo io».
«Non
se ne parla» Jude scuote il capo, discostandosi dal corpo
dell’uomo «non provare a fare l’eroe, te
l’ho già detto».
«Va
bene, ho capito» Dark annuisce, seguendo a pochi passi di
distanza il suo amato «e allora cosa pensi di fare?»
«Facile»
il giovane Sharp avanza con passo marziale – il che gli
ricorda in maniera inquietante il periodo in cui studiava ancora alla
Royal Academy – mentre raggiunge l’ingresso
dell’Hilton Hotel «li affrontiamo».
Questa
volta quello titubante sembra essere Ray, che per un momento tentenna
sul posto mentre domanda:«Eh? Sei serio, Jude?»
«Mai
stato così serio in vita mia» il sorriso sul volto
del ragazzo la dice lunga, mentre quest’ultimo pone le mani
ai lati delle porte «non ho intenzione di farmi accerchiare
da un esercito di giganti di pietra».
E,
ciò detto, spinge le porte di lato, che subito si aprono al
suo comando.
Non appena
lo schiocco secco delle porte riempie la via, le teste di tutti i
guerrieri di pietra ruotano in direzione dell’entrata
dell’hotel, le loro espressioni fredde e imperturbabili che
si specchiano in quella determinata di Jude.
«Qualora
ne avessimo bisogno, abbiamo appena ricevuto la conferma che questi
energumeni possiedono anche la capacità di
muoversi» sentenzia il giovane, lapidario.
«Beh,
te l’avevo detto» Ray sbuffa, indirizzando
l’improvviso getto d’aria verso una ciocca di
capelli, che proprio non ne vuole sapere di stare al suo posto,
continuando a cadergli in maniera irritante davanti al volto
«altrimenti come avrebbero fatto ad arrivare fin qui?
Materializzandosi dal nulla?»
«A
quanto pare, l’ironia non è il tuo
forte» replica Jude, seccato «ad ogni modo, non ho
la benché minima intenzione di rimanere qui con le mani in
mano».
«E
questo cosa vorrebbe dire?» domanda Dark, inarcando le
sopracciglia.
«Ovvio»
il ragazzo sogghigna appena, sa già esattamente quale
sarà la sua prossima mossa «li attacco per
primo».
Ray fa per
aprire la bocca, con tutte le intenzioni di ribattere – non
può certo lasciare che il suo ragazzo s’imbarchi
in un’impresa del genere – tuttavia non fa in tempo
a dire niente che Jude è già scattato in avanti.
Prendendo
una rincorsa poderosa il ragazzo scarta di lato, per poi spiccare un
balzo che lo fa atterrare direttamente sulle spalle di uno dei giganti
di pietra. Una volta lì, senza dare modo alla statua di
attuare un contromossa, colpisce con un calcio preciso la testa del
guerriero, che viene recisa di netto dal collo e il resto del corpo,
finendo per volare secondo una traiettoria orizzontale dritta davanti a
sé, colpendo e distruggendo i capi di altri tre combattenti.
«Bel
colpo!» esclama Ray, con un fischio di apprezzamento.
Jude
sorride soddisfatto, incrociando le braccia al petto.
«A
quanto pare, anni e anni di allenamenti hanno dato i loro
frutti» commenta, con estrema nonchalance.
A quel
punto, incoraggiato dai buoni risultati ottenuti dal giovane, anche Ray
decide di arrampicarsi su uno di quei lottatori. Certo, lui non
può contare sull’agilità e la
freschezza del ragazzo, tuttavia decide di non demordere lo stesso,
tirando fuori le unghie e scalando lentamente quell’ostacolo
terribile, inerpicandosi a forza lungo la schiena di un altro gigante.
Tuttavia,
il loro trionfo dura per poco.
A terra,
infatti, le teste troncate da Jude iniziano a vibrare, talmente forte
che di colpo l’intera strada è tutta un tremito e
Ray e il ragazzo devono fare appello a ogni briciolo della loro
determinazione – e anche alle scarse capacità di
equilibrismo che possiedono, certo – pur non perdere la
stabilità che faticosamente hanno acquisito e fare la figura
degli idioti, cadendo rovinosamente a terra.
Eppure, in
quel momento il loro problema è un altro: infatti, di colpo
le teste che Jude era riuscito a separare dai corpi dei giganti si
sollevano nell’aria, tornando a posarsi sulle spalle dei
guerrieri e ricongiungendosi saldamente ai loro colli.
«Oh,
no» mormora Dark, un’espressione funerea sul volto
«questa proprio non ci voleva».
Come a
voler confermare le sue parole, proprio in quel momento il gigante sul
quale l’uomo stava cercando di arrampicarsi colpisce con
decisione il marciapiede accanto a sé con la mazza in suo
possesso, sollevando una grossa nuvola di polvere e schegge di cemento
armato che volano da una parte all’altra della scena.
«Ray!»
grida Jude, il cuore in gola, una mano a coprirgli le labbra e la
disperazione dipinta negli occhi, alcune lacrime che già
fanno capolino. Lo sapeva, lanciarsi in una pazzia troppo grande, un
rischio che – ora come ora – non potevano
permettersi di correre, tuttavia lui si era lasciato convincere ed era
stato addirittura il primo a gettarsi a capofitto in una prova del
genere, mettendo a repentaglio anche la vita del suo compagno. Oh, Dio...
Lentamente
la polvere inizia a diradarsi, liberando il campo visivo e grazie al
cielo Jude può tirare un enorme sospiro di sollievo: Ray
è ancora lì, appollaiato sulle spalle del
gigante, tutto accoccolato per potersi proteggere da schegge e polveri
varie. Emette un profondo colpo di tosse, con ogni
probabilità deve aver respirato dell’aria
insalubre e carica di terra, per il resto però non sembra
aver riportato nessuna conseguenza fisica.
«Sto
bene» si affretta a comunicare, rincuorando infinitamente il
ragazzo «tuttavia non potremmo mai batterci alla pari contro
questi esseri. Anzitutto siamo in evidente svantaggio numerico
– saremo due contro duecento – inoltre hanno anche
uno sproposito di forza fisica: potremmo continuare a lottare con
questi cosi per quanto ci pare, però se loro continuano a
ricomporsi ogni volta che li colpiamo, allora le nostre chance di
vittoria sono sotto lo zero».
Il quadro
descritto da Ray è a dir poco desolante,
tant’è che Jude pesta per qualche secondo i piedi
nervosamente sulle spalle del suo combattente, cercando di ragionare.
Adesso gli farebbe tanto comodo una delle sue solite idee geniali,
peccato che ora come ora la sua mente sia un vero e proprio
vuoto cosmico.
«E
allora» riprende, turbato «come possiamo superare
un dispendio di forze del genere?»
«Beh,
non è poi così difficile» spiega Dark,
cercando di risultare pragmatico e preciso come al solito «di
affrontarli frontalmente non se ne parla, perciò ci
toccherà ricorrere alla nostra arma migliore:
l’astuzia»
«E
cioè?» lo incalza Jude, visibilmente impaziente.
«E
cioè» conclude Ray «non ci resta che
allontanarli».
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
Quando Amos
riesce finalmente a raggiungere Tower Bridge ha il fiato corto e il
volto arrossato dallo sforzo fisico. Deve poggiare le mani sulle
ginocchia e prendere delle profonde boccate d’aria per
tornare a respirare più o meno regolarmente – e
nonostante ciò non gli sembra ancora abbastanza.
Poco dopo
vede arrivare degli sconsolati e affaticati Thiago, Amelia e Andrea,
che purtroppo si presentano tristemente a mani vuote, la mestizia e
l’afflizione ben dipinte sui loro volti.
«Non
ditemi» inizia Amos, il fiato ancora altalenante
«che abbiamo fatto… tutta questa
strada… inutilmente».
«Beh,
inutilmente non direi proprio» replica Andrea in tono piatto,
mentre si sistema gli occhiali «considerando che quei
documenti erano per noi della massima importanza».
«Ma…?»
fa pressione su di loro Julie.
«Non
siamo riusciti a recuperarli» annuncia Thiago, seccamente.
In quel
momento, un crollo generale sembra imperversare tra i crononauti. Amos
si lascia sfuggire un mugolio di disperazione, tornando a valutare che
quello debba trattarsi di un ennesimo colpo di coda della sua perenne
sfortuna, mentre Claudine si affloscia letteralmente al suolo, esausta.
Atemu se ne rimane in disparte, deluso da quel risultato; quanto a
Julie, si limita a posare una mano sulla spalla della connazionale, nel
tentativo di rassicurarla.
«Non
fatevene un cruccio» cerca di rincuorarli la Dupont, un
sorriso solare nonostante i capelli color cioccolato siano in parte
sfuggiti alla sua elegante acconciatura, incollandosi alla fronte
imperlata di sudore per via della fatica «tutti noi abbiamo
dato il nostro meglio, dopotutto».
Margarita
muove passi lievi intorno all’atipico gruppetto, osservando
il paesaggio circostante. Sembra essere la meno affaticata, il respiro
perfettamente regolare e il volto ancora cereo – con ogni
probabilità, dev’essere abituata a grandi sforzi
fisici, considerando che appartiene alla vita di strada e si mantiene
con furti neanche troppo saltuari: bisogna saper correre via in fretta,
dopo aver commesso un reato, pur di non farsi beccare dalla polizia.
La giovane
lituana osserva attentamente il paesaggio che la circonda: dopo che la
nave ha attraversato il Tower Bridge, il ponte è stato
tirato di nuovo giù, così che il traffico delle
auto potesse tornare regolare. Il cielo sopra Londra è
grigio e tetro, alcuni cumuli di nubi che svolazzano qua e
là e una sottile nebbiolina che persiste
nell’aleggiare soavemente, anche se solo nelle zone limitrofe
al Tamigi. Un lungo viale alberato costeggia le rive del fiume, mentre
passanti di ogni genere scivolano lungo i lisci marciapiedi della
metropoli: ci sono uomini e donne di ogni età che praticano
jogging, dai giovani ventenni ai quarantenni con il callo per la forma
fisica, chi più affaticato e chi meno, quasi tutti con tute
in materiale sintetico un po’ troppo leggere per la stagione
e un paio di auricolari, musica rock a tutto volume che infonde loro
energia per l’attività sportiva; poi annovera nel
suo conteggio uomini d’affari, manager in carriera che
camminano con passo spedito, le giacche grigie infeltrite che arrivano
loro fino ai piedi mentre non riescono a staccare nemmeno per un
momento il cellulare di ultima generazione dall’orecchio
perché no,
il prezzo di mercato è ancora troppo alto, va ribassato;
infine turisti e abitanti della città, facilmente
distinguibili tra loro visto che i primi si guardano intorno con aria
frastornata e stupefatta, scattando foto a questo e quello –
finendo per immortalare anche scorci senza monumenti o comunque punti
d’interesse – con le loro reflex super costose, gli
altri cercano di farsi spazio tra tutta quella calca, imprecando tra i
denti mentre cercano di non arrivare in ritardo anche al prossimo
appuntamento di lavoro.
Oh,
Margarita ama così tanto analizzare quelle persone,
immaginare quale storia possano avere, resterebbe lì per
delle ore intere a ideare le sue supposizioni…
Amelia
tuttavia richiama d’improvviso l’attenzione dello
scapestrato gruppetto, tenendo un braccio alzato per catturare anche lo
sguardo di tutti i ragazzi.
«Torniamo
alla bottega» annuncia, la voce decisamente scoraggiata
«abbiamo ancora il foglio su cui stavamo
lavorando… speriamo che possa bastarci».
~♟~
Sulla via
del ritorno, Amelia rimane in fondo al gruppo, gli occhi bassi
sull’asfalto umido che percorre e la testa piena di mille
pensieri. Si sente terribilmente in colpa per essersi lasciata sfuggire
quel ladruncolo, inoltre potrebbe aver sottratto loro delle
informazioni importanti sugli Orologi… e tutto
perché lei non è riuscita ad acciuffarlo.
Chissà
cosa avrebbe pensato sua madre, se sarebbe stata fiera di
lei… ne dubitava. Anche se adesso Elizabeth Greene non
c’era più, continuava a darle dispiaceri
– Amelia sperava vivamente che non si stesse ribellando nella
tomba. Era sempre stata quel genere di “figlia
modello” che tutti i genitori desidererebbero: studiosa,
disciplinata, impegnata in mille attività, scolastiche e
non. Aiuto bibliotecaria alla London Library, iscritta al club di
atletica e a quello di dizione, spesso in prima linea in alcune
manifestazioni pubbliche… insomma, una ragazza perfetta.
Beh, almeno all’apparenza.
Amelia
infatti aveva imparato in fretta che il peso delle proprie
responsabilità finiva sempre per schiacciarti, se non
riuscivi a star dietro a queste ultimi. E la giovane, in effetti,
arrivata ad un certo punto della sua vita, non era riuscita
più a seguire ogni cosa come un tempo. Si era sentita
schiacciare dal peso opprimente di tutte quelle incombenze, un macigno
pesantissimo sul cuore che le impediva di respirare. Era stato proprio
per questo motivo se, di colpo, aveva iniziato a saltare sempre
più lezioni o ad abbandonare buona parte delle sue
attività pomeridiane. Si era richiusa sempre di
più in se stessa, passando interi pomeriggi rinchiusa in
camera sua e uscendo agli orari più improbabili della sera,
smettendo di frequentare i suoi vecchi amici e trovandosene di nuovi,
che la trascinavano nei vicoli più oscuri di Londra,
introducendola in una spirale viziosa di alcool e fumo dal quale era
impossibile sottrarsi. Se non ti omologavi alla massa, non eri degna di
entrare a far parte del gruppo. Era diventata sempre più
schiva e aggressiva, rispondeva spesso male anche ai suoi genitori e
sgattaiolava fuori casa agli orari più improbabili della
notte, tornando solo alle prime luci dell’alba, nonostante
suo padre e sua madre gliel’avessero vietato – era
diventata molto brava a scivolare di sottecchi su e giù
dalla scala antincendio fuori dalla finestra della sua stanza.
Con la
morte della madre, tuttavia, qualcosa in lei era cambiato, come se una
parte della sua anima si fosse spezzata definitivamente. Aveva
abbandonato le sue cattive frequentazioni ed era tornata a stare vicina
al padre, cercando di consolarlo – riteneva infatti che
portare un peso del genere in due fosse più facile che da
soli. Era tornata a scuola, finendo l’ultimo anno di liceo e
iscrivendosi all’università presso la
facoltà di giornalismo, il lavoro che aveva sempre sognato
di fare – e che un tempo era stato anche quello di sua madre
– conseguendo per altro degli ottimi risultati. Oltre a
gettarsi a capofitto nello studio, aveva anche cercato un lavoretto,
così da sostentare sia se stessa che suo padre, raggiungendo
una certa indipendenza economica: era stata commessa presso un negozio
di abbigliamento, barista, per un periodo aveva perfino consegnato i
quotidiani a domicilio e ricevendo uno stipendio miserrimo. Aveva
conosciuto – soprattutto all’università
– nuovi amici, persone dagli animi splendidi, sempre
così solari, gentili e disponibili, che con la loro
sensibilità e comprensione l’avevano accettata e
aiutata a riprendersi dopo quel brutto periodo.
Suo padre
era partito, trasferendosi in un’altra città
– Atlanta, in Georgia, uno stato americano – per
praticare ancora la sua professione di medico. Aveva detto ad Amelia
che restare ancora a Londra era diventato per lui impossibile, vivere
in quella casa una tortura che ogni giorno gli riportava crudelmente
alla mente i ricordi della moglie che aveva tanto amato e che adesso
invece aveva perso per sempre. Amelia aveva trovato la scelta di suo
padre estremamente ipocrita e non gliel’aveva mai perdonata,
sebbene da una parte riuscisse anche a capirlo. Anche per lei era dura
continuare a vivere lì, resistere ogni giorno
all’impulso di correre in camera sua e aprire
l’armadio, infilare il naso tra i vestiti della donna e
cercare, ancora una volta, perfino la più minima traccia di
quel profumo inconfondibile di acqua alle rose, che aveva sempre
associato a sua madre fin da quand’era una bambina,
illudendosi che lei fosse ancora lì. L’aveva fatto
spessissimo, i primi mesi dopo la sua scomparsa… ora invece
cercava di evitarlo, perché sapeva che se fosse tornata
lì probabilmente non sarebbe più riuscita ad
uscirne.
Per lunghi
mesi aveva temuto di essere lei la causa del suicidio di sua madre: le
aveva dato troppi dispiaceri, fino a che la donna era giunta al punto
in cui sopportare ancora fosse impossibile e per questo si era tolta la
vita. Quel rimorso le aveva roso lo stomaco per giorni e tolto il sonno
notti intere, perlomeno fino all’apertura del testamento.
Amelia era rimasta sorpresa di quella convocazione, non pensava che sua
madre avesse lasciato qualcosa in eredità – o
perlomeno, non si aspettava di essere lei una degli
eredi. Dopo tutti i “ti odio” che le aveva urlato
in faccia negli ultimi mesi – sebbene non ci credesse davvero
in quelle parole, certo, peccato che se ne fosse resa conto solo quando
lei ormai non c’era più – non credeva
che sua madre tenesse ancora a lei. In fondo l’avrebbe
capita, se avesse preferito estrometterla dal testamento, sarebbe stata
una scelta ben più sensata, tant’è che
nemmeno Amelia stessa sapeva che il suo nome fosse scritto
lì… l’unico altro erede era suo padre,
l’uomo che era stato accanto ad Elizabeth Greene fino
all’ultimo dei suoi giorni e questa era una decisione che
Amelia comprendeva già molto di più. Ma
lei…?
All’apertura
del testamento, suo padre non si era presentato, dichiarandosi troppo
impegnato con il suo nuovo lavoro ad Atlanta. Ennesimo punto a suo
sfavore, perlomeno a dire di Amelia. All’uomo era toccata la
maggior parte dei beni di sua madre, comprensivi di gioielli,
utilitaria e la vecchia villa di famiglia al mare. Era passato per la
riscossione qualche mese prima, senza nemmeno avvisarla del fatto che
fosse in città. Con ogni probabilità anche lui
riteneva Amelia responsabile della morte della donna, pertanto se
poteva evitare di vedere quella figlia che tanto a lungo si era
sottratta al suo controllo di genitore, lo faceva ben più
che volentieri. Quanto ad Amelia, invece, era toccato proprio
l’Orologio.
All’inizio
aveva pensato che si trattasse di un cimelio da niente, il genere di
rivincita personale che i genitori si prendono dopo che i figli si sono
comportati così tanto a lungo scorrettamente nei loro
confronti. Quando invece aveva scoperto che l’Orologio era in
grado di viaggiare nello spazio e nel tempo e che sua madre era morta
per difendere quell’oggetto, aveva pensato che si trattasse
di una punizione, che la incatenava crudelmente a patire lo stesso
destino della donna. Infine, nel momento in cui aveva conosciuto Darren
proprio viaggiando con quell’Orologio, le era balenato in
mente il sospetto che quello fosse l’ultimo regalo che
Elizabeth Greene aveva deciso di lasciarle. Già, ma
perché?
Quando
aveva ritrovato la lettera in cui le scriveva che era stato per via
dell’Orologio che era morta, uccisa da qualcuno che voleva
quell’oggetto e non suicidandosi, si era sentita immensamente
sollevata – allora
sua madre non si era tolta la vita a causa sua! Forse non ce
l’aveva poi così tanto con lei!
– ma al tempo stesso incredibilmente terrorizzata: se
qualcuno era arrivato ad uccidere sua madre pur di impossessarsi di
quell’artefatto, evidentemente senza riuscirci, allora forse
sarebbe potuto arrivare a cercare di far fuori anche lei.
Di una cosa
Amelia era assolutamente certa: se mai avesse incontrato
l’assassino di sua madre, gliel’avrebbe fatta
pagare, a qualsiasi costo.
«Amelia?»
di colpo la ragazza si sente ridestare dai suoi impenetrabili pensieri,
tratta via da quella matassa intricata da due braccia forti. La giovane
scuote lievemente il capo, cercando di risvegliarsi da quella sorta di
trance: si guarda a destra e a sinistra, nel tentativo di individuare
la fonte di quel richiamo.
Si
sorprende non poco quando si rende conto che la voce proveniva da
Thiago, che ora cammina al suo fianco. Il ragazzo le sorride
dolcemente, dimostrandole un briciolo di comprensione.
«Tutto
bene?» riprende, una nota interrogativa nella voce e nello
sguardo «Saranno tre o quattro volte che ti chiamo.»
«Cielo,
perdonami» mormora Amelia, passandosi con imbarazzo una mano
tra i capelli «ho la testa piena di
pensieri…»
«A
tal proposito» Thiago la anticipa, cogliendola in contropiede
«mi dispiace se non siamo riusciti a fermare quel ladro,
prima. So che per te questa questione è molto importante,
magari quel che ha rubato poteva esserci utile. Se solo fossi riuscito
a correre più in fretta…»
«No,
ha ragione Julie» Amelia sospira, scuotendo appena la testa
«è inutile adesso stare qui a parlare con i se e
con i ma, Thiago. Abbiamo fatto tutto quel che potevamo e non
è bastato, semplicemente. Per fortuna, abbiamo ancora il
foglio con le rappresentazioni di tutti gli Orologi. Non dobbiamo far
altro che tornare alla bottega e rimetterci a lavoro su quello; e poi
non credo che non ci siano altri documenti sugli Orologi, sparsi in
giro per il laboratorio…»
Thiago
sorride di compiacimento, incrociando con nonchalance le braccia dietro
alla schiena.
«Sei
una che non si da mai per vinta, eh?» commenta, lo sguardo
intenso e magnetico posato sull’esile figura di Amelia.
«Diciamo
che ho imparato a rinascere dalle mie ceneri, un po’ come una
fenice» replica lei, con fare pragmatico e allo stesso tempo
enigmatico, le guance lievemente arrossate per la sensazione di
soggezione che prova ogni volta che il ragazzo la osserva. Non
è fastidio, affatto… forse il punto è
che non riesce proprio a capire quale emozione provi, ogni volta che la
guarda.
«Già,
in merito a questo» riprende lui, distogliendo lo sguardo
dalla ragazza e puntandolo nuovamente sulla strada davanti a
sé «mi dispiace davvero. Per tua madre,
intendo.»
Nel sentire
quella frase, Amelia si sente come trafitta da una pugnalata in pieno
petto, sebbene cerchi di non darlo a vedere. Tiene la testa e lo
sguardo basso, puntati sulla strada che percorre – sono
finalmente tornati nel vialetto pieno di ciottoli dove si trova la
bottega. In un certo senso, se l’è cercata,
dopotutto era stata proprio lei a raccontare agli altri di sua madre.
Odiava la
compassione che trovava negli occhi e nella voce delle altre persone,
quando rivelava loro la verità sulla donna: i loro
“mi dispiace” suonavano incredibilmente falsi, alle
orecchie della giovane, mentre quegli sguardi si riempivano di una
comprensione così mendace. Cosa volevano comprendere,
dopotutto? Erano stati forse uccisi anche i loro genitori, a causa di
quell’assurda guerra magica?
Con Thiago
invece è diverso: lui almeno ha già in comune con
lei qualcosa, quel peso incredibilmente gravoso che entrambi sono
costretti a portare che altro non sono se non le
responsabilità che derivano dal possesso di un Orologio.
È
bello sapere che, almeno qualcuno sulla faccia della Terra, non la
giudicasse.
«Grazie»
mormora Amelia, riconoscente.
In quel
momento, i ragazzi in cima al gruppo rifluiscono nuovamente nel
negozio, scendendo lentamente lungo i gradini di legno, come se
stessero varcando la soglia di un luogo sacro e arcano – in
effetti, in parte è proprio così.
Gli ultimi
ad entrare sono proprio Thiago e Amelia, un tantino più
trafelati del dovuto. La ragazza si ferma sul primo gradino
d’ingresso, osservando attentamente gli altri ragazzi che si
dispongono all’interno. Sembra che stiano aspettando un
ordine dalla ragazza, che tuttavia esita. Quando ancora si trovavano
nei pressi del Tamigi ha dato prova di essere decisa e dal polso fermo,
indirizzando tutti di nuovo verso la bottega; ora che sono di nuovo
qui, tuttavia, non sa bene cosa fare: dove potrebbero cercare?
C’è una soluzione giusta o una sbagliata?
«Dunque»
esordisce, torturandosi le mani dietro lo schiena «dobbiamo
guardare ovunque, a costo di mettere ancor più a soqquadro
questo posto. Deve esserci qualcosa che possa farci capire quale strada
prendere…»
Atemu,
Amos, Andrea, Claudine, Margarita e Julie annuiscono, per poi
cominciare a rovistare un po’ ovunque, dividendosi in coppie
o piccoli gruppetti. Thiago scende invece un paio di gradini,
portandosi di fronte ad Amelia.
«Che
ne dici se io e te diamo un’occhiata insieme?» le
propone, allungando una mano nella sua direzione.
La giovane
acconsente, ponendo il proprio palmo pallido e minuto in quello forte e
abbronzato del ragazzo. A quel punto Thiago la conduce gentilmente
giù lungo le scale, ad ogni suo passo ne corrisponde uno di
Amelia.
I due
tornano al tavolo da lavoro su cui, poco prima, avevano lasciato il
foglio che stavano analizzando insieme agli altri crononauti, troppo
presi dall’inseguimento del ladro per potersene occupare
ancora.
Adesso che
si trovano di nuovo lì, tutti quei disegni e lettere
arzigogolate sembrano incredibilmente senza significato per Amelia,
tanto che la ragazza li vede vorticare in maniera confusa davanti ai
suoi occhi e nella sua mente, gettandola in una terribile caos. Si
porta una mano alla testa, d’improvviso le sembra di
avvertire una forte emicrania e per un momento i sensi le vengono meno,
tanto che rischia di cadere al suolo svenuta.
Fortunatamente,
Thiago riesce ad afferrarla proprio all’ultimo secondo, un
istante prima che le ginocchia della giovane impattino dolorosamente al
suolo.
«Ehi»
la richiama il ragazzo, tenendola sollevata con le mani poste sotto le
sue ascelle «a quanto pare la corsa ti ha stancata
più del dovuto.»
«Già»
ammette Amelia, sebbene non sia totalmente d’accordo con lui.
Si rimette faticosamente in piedi, reggendosi al bancone con i palmi
delle mani ben piantati su di esso.
La
verità è che è tutta
quell’intera giornata ad essere stancante, solo che Amelia si
rifiuta di ammetterlo a se stessa e agli altri, per paura che poi
qualcuno possa costringerla ad andare a casa a riposarsi. E lei non ha
alcuna intenzione di tornarsene a casa sua, assolutamente, almeno
finché non avranno risolto quella storia.
«Aspetta»
mormora Thiago, allontanandosi dalla ragazza solo quando è
certo che riuscirà a reggersi in piedi da sola, perlomeno
per qualche altro secondo. Poco dopo, infatti, se ne ritorna con uno
sgabello – lo stesso che Amos aveva fatto cadere a terra,
quando si erano resi conto della presenza del ladro nella bottega.
Amelia, seppur riluttante, si accomoda su di esso.
«Allora»
riprende il ragazzo, una volta tornato nuovamente al suo fianco
«io direi di ripartire da qui. Dopotutto, prima
dell’incursione del ladro, stavamo ispezionando questo
foglio.»
Amelia
annuisce, concorde, così Thiago prosegue:«Bene.
Allora, qui sono rappresentati sedici Orologi, tra cui gli otto in
nostro possesso – rispettivamente quelli con i simboli di
corvo, ragno, libellula, pavone, maschere, mondo, scheggia di vetro e
ingranaggi. Poi ce ne sono altri otto e il problema è qui:
io ero a conoscenza del fatto che esistessero dodici Orologi, non
sedici. Come sai ho studiato a lungo ogni cosa in merito a questo
argomento e, se non mi ricordo male, mi pare che una volta su un antico
manoscritto avessi letto che tra i dodici Orologi originariamente
costruiti da Joshua ci fossero – oltre ai nostri otto
– anche altri quattro che riportavano rispettivamente le
effigi del Sole, della Luna, di una freccia e infine una clessidra.
L’Orologio con quest’ultima immagine sarebbe, a
quanto pare, il più potente, una sorta di tramite tra tutti
gli altri. Il problema è che non ho la più
pallida idea di cosa diavolo siano questi quattro nuovi
Ori…»
Con
ciò, Thiago indica ad Amelia gli Orologi in questione sul
progetto: sono diversi da tutti gli altri, poiché i dorsi di
questi ultimi o sono più decorati o non lo sono affatto.
«C’è
scritto qualcosa accanto?» domanda Amelia, dubbiosa.
Thiago si
piega in avanti, osservando attentamente la vecchia scrittura raffinata
e piena di ghirigori. Ma
che lingua è, cirillico?
«Oro
del Bene, Oro del Male, Oro della Luce, Oro delle Tenebre. La cosa non
mi piace, sembra molto in stile fantasy medievale o qualcosa del
genere» annuncia Thiago, storcendo un po’ il naso.
«Non
posso darti torto» si associa la ragazza, che spia il
documento affacciandosi oltre le spalle del giovane.
Di colpo un
rumore improvviso raggiunge le orecchie dei due ragazzi, che subito si
voltano verso la fonte di quel trambusto. Amelia non si stupisce troppo
quando vede Julie lanciare un gridolino piuttosto acuto, gettando in
preda al panico le braccia attorno al collo di una Claudine
dall’aria alquanta apatica, come se non fosse affatto turbata
da un gesto del genere. In un primo momento la giovane dai corti
capelli corvini crede che si tratti di un inconveniente come quello di
prima – un altro ratto, oppure un ragno tutto intento a
correre lungo le travi di legno incassate nel soffitto del negozio
– quando tuttavia poco dopo si rende conto che non
è di questo che si tratta, subito si mette
sull’attenti.
Per un
lungo, terribile istante crede perfino che possa trattarsi nuovamente
di quel ladruncolo da strapazzo, eppure non è nemmeno di
questo che si tratta, così, una volta fatto il giro intorno
al ligneo tavolo da lavoro, affianca Claudine e Julie, seguita a ruota
da tutti gli altri crononauti.
Una volta
lì, la questione le è ancora meno chiara di prima.
A terra,
infatti, si trova una strano macchinario – piuttosto moderno,
soprattutto se si considera che quella bottega dovrebbe essere ferma
agli anni di fine ‘700 – che vibra rumorosamente e
brilla di una luce chiara e intensa.
Come
diavolo è possibile che un marchingegno del genere sia
arrivato in quel locale, rimasto chiuso per molti anni e inaccessibile
a chiunque? Lo ha forse portato il tipo di poco prima? No, impossibile.
Eppure Amelia è abbastanza certa di non averlo visto, al suo
ingresso lì.
Una cosa
del genere non dovrebbe passare inosservata, no?
Tutti i
crononauti sembrano essersi immobilizzati sul posto, troppo spaventati
al pensiero di dover prendere quel coso in mano. E se dovesse esplodere di colpo?
«È
c-caduto all’improvviso da là sopra»
spiega finalmente Julie, dopo diversi minuti in cui il silenzio
più assoluto aveva regnato sul locale «io e
Claudine stavamo dando un’occhiata qua in giro e lui bum!, è
piombato giù dall’armadio.»
Mentre
Julie non sembra ancora essersi ripresa del tutto dallo spavento,
Amelia invece non riesce a staccare lo sguardo da
quell’oggetto misterioso.
«Forse
non dovremmo toccarlo. Potrebbe essere
pericoloso…» la mette in guardia Atemu, le braccia
conserte strette al petto e un’espressione dura a solcargli
il volto.
Amelia non
sembra nemmeno sentire le parole del ragazzo,
tant’è che poco dopo si china in avanti e afferra
l’attrezzo non identificato tra le mani, tenendolo ben
stretto tra le mani.
Quando la
giovane drizza nuovamente la schiena, tutti i crononauti –
tranne Andrea e Thiago – fanno un balzo
all’indietro, impauriti. Amos, piuttosto terrorizzato, si
aggrappa alla camicia di Atemu, che viene allontanato a sua volta,
sebbene apparentemente contro la propria volontà –
probabile che Amos tema l’incombere dell’ennesimo
colpo di sfortuna e tenti di proteggersi come meglio può
– mentre Julie e Claudine sono ancora strette l’una
all’altra e procedono insieme verso l’interno del
negozio.
«A
me questa faccenda sembra proprio bruttabruttabrutta--»
commenta timoroso Amos, facendo capolino da dietro la spalla di Atemu,
gli occhi inquieti che saettano da una parte all’altra,
mentre sembra incapace di smettere di tremare.
«Riesci
a non tremare? Non credevo che fossi un idromassaggio»
replica Atemu, inarcando un sopracciglio folto e scuro mentre fulmina
con lo sguardo il ragazzo ucraino.
Amelia si
volta di scatto e quasi tutti gli altri ragazzi sobbalzano, chi per la
sorpresa e chi per la paura. La giovane prosegue dritta davanti a
sé, dirigendosi verso i tavoli da lavoro e al suo passaggio
i compagni crononauti le fanno ala, terrorizzati dal macchinario
sconosciuto che tiene tra le mani. Gli unici che la seguono senza
esitazioni, come al solito, sono Andrea e Thiago, imperturbabili.
La ragazza
poggia quell’affare sul tavolo e subito tutti gli altri le si
affollano attorno, alcuni stavolta però si tengono un
po’ più a distanza di sicurezza, spaventati da
ciò che quell’attrezzo misterioso potrebbe
provocare.
«Potrebbe
essere pericoloso, è vero» replica Amelia,
decidendosi finalmente a rispondere alle parole di Atemu di poco prima
«però non possiamo saperlo. Potrebbe anche
aiutarci a scoprire qualcosa in più su tutta questa storia,
forse, solo che non possiamo andare avanti con tutti questi mille
dubbi. Se non ci proviamo, non sapremo mai quale sia la
verità.»
Thiago,
Margarita, Julie, Claudine e Andrea annuiscono, convinti. Gli unici a
risultare un po’ più restii o dubbiosi sembrano
essere Amos e Atemu; il giovane dalla pelle color caffellatte si volta
in direzione del ragazzo dall’incarnato perlaceo, ancora
ancorato alle sue spalle. Pare piuttosto spaventato, tuttavia non
rivolge né parole né gesti o tantomeno cenni
– del capo così come di qualsiasi altra parte del
corpo – all’altro. Si limitano a guardarsi a lungo
negli occhi, per degli attimi travestiti da ore.
Quando
Atemu si decide finalmente a voltarsi di nuovo verso Amelia, le lascia
un unico cenno di assenso col capo, senza aggiungere altro. A quel
punto la giovano torna a focalizzare tutta la sua attenzione
sull’oggetto davanti a sé, analizzandolo
attentamente.
Le fattezze
sono piuttosto simili a quelle di un lettore cd – un pezzo
d’antiquariato, ormai, nel 2059 – quindi basso, di
base circolare e piatta, solo che un po’ più
grande; la superficie è liscia e lucida, probabilmente di un
materiale plastico o metallico. È in maggioranza di un
colore argenteo, anche se alcune rifiniture possiedono invece delle
sfumature bluastre. Infine, sul bordo che corre tutto intorno
all’oggetto, sembrano esserci dei pezzi in
rilievo… tasti, forse?
Amelia
avvicina con timidezza e riverenza – oltre forse ad un
pizzico di timore – la punta delle dita a quei pulsanti,
facendo ben attenzione ad essere quanto più delicata
possibile. Esercita una lieve pressione su quello centrale, fino a che
un violento fascio di luce azzurrognola si dirada a partire dalla
superficie di metallo di quello strano oggetto. Ma che diavolo…?
Al centro
di quell’alone luminoso compare la riproduzione del
mezzobusto di un uomo, probabilmente sulla sessantina. È
piuttosto basso, i capelli che gli rimangono sono bianchi e radi,
disposti ai lati della nuca come sparuti ciuffi d’erba in un
prato inaridito, mentre al centro il cranio è rivestito solo
da lembi di pelle chiara e lucidissima – una sorta di
acconciatura monastica – in uno stato di calvizie ormai
già palesemente avanzato. Ha occhi piccoli e scuri, sul naso
pende un paio di occhiali dalle lenti tondeggianti e microscopiche. I
suoi tratti sono gentili, tuttavia ogni cosa in lui ispira vecchiaia,
compreso il suo abbigliamento, a cominciare dalla camicia bianca con le
maniche arrotolate fino ad arrivare al vecchio camice da laboratorio,
ormai logoro e consunto. Nonostante la statura ridotta, la sua
è una figura magra, esile e minuta.
«Cosa…—»
cerca di domandare Julie, prima che la voce di
quell’ologramma interrompa le sue parole.
«Salve,
forestieri» comincia, una certa nota concitata nella voce
«se avete trovato questo messaggio, allora vuol dire che per
me ormai non c’è più speranza. Il mio
nome è Joshua Parrish e sono l’ideatore degli
artefatti che pendono al vostro collo, gli Orologi.»
Nell’udire
quella frase, tutti i crononauti sobbalzano, allibiti.
«Com’è
possibile?» mormora Thiago, confuso.
«Ci
sarebbero molte cose che vorrei spiegarvi, purtroppo tuttavia un
terribile nemico è sulle mie tracce e devo sbrigarmi e
fuggire via da qui il prima possibile, altrimenti per me
sarà la fine. Per più di duecento anni sono
riuscito a sostentarmi grazie alla magia degli Orologi, arrivando quasi
fino ai giorni vostri: chiunque sia in possesso di tutte le copie
presenti, infatti, potrà considerarsi il Signore del Tempo.
Credo che
vi sarete accorti che, grazie ai vostri artefatti, non solo siete
perfettamente in grado di viaggiare attraverso lo spazio-tempo a vostro
piacimento, ma anche che, per tutto il tempo in cui continuerete a
usufruire dei vostri Ori, vi sarà impossibile invecchiare.
Tuttavia, ahimé, c’è anche qualcun
altro che vorrebbe ottenere questo elisir di lunga vita, ossia colui
che sta per uccidermi. Se costui dovesse riuscire ad impossessarsi di
tutti gli Orologi presenti sulla Terra, per il mondo così
come lo conoscete sarebbe la fine: non ci penserebbe due volte infatti
a dare il via ad una serie infinita di carneficine ed altri abomini di
questo genere.
Per
scongiurare questo rischio, tuttavia, ho ideato il processo della
diaspora degli Orologi: è una sorta di protocollo di
emergenza, una misura di prevenzione che avevo apportato al momento
della creazione dei vostri artefatti. In poche parole, alla mia morte
ho fatto sì che tutti gli Orologi esistenti andassero
dispersi nelle più disparate aree del mondo. Se siete qui,
oggi, significa che voi fate parte dei fortunati che, fino a questo
momento, sono riusciti a ritrovarne uno. Sono così certo e
fiducioso del fatto che siate voi e non degli impostori o magari alcuni
degli emissari del mio nemico, poiché questo marchingegno
è incantato: l’ho reso visibile solo a quelli che
considero i miei eredi legittimi, coloro che si sono guadagnati il
proprio Oro per merito e necessità. Se non foste stati voi i
veri destinatari di questo messaggio, l’ologramma non si
sarebbe visualizzato affatto.
Tornando
a noi, ho una missione molto importante da affidarvi. So che non sono
nessuno per chiedervi di affrontare qualcosa del genere, tuttavia non
è per un mio eventuale tornaconto personale che vi chiedo di
lanciarvi in un’impresa simile, quanto piuttosto per
scongiurare la fine del mondo di cui vi ho parlato. Immagino che
nessuno di noi trarrebbe beneficio da una situazione del genere,
inoltre in caso di vittoria del nostro nemico comune, probabilmente
sareste i primi che verrebbe a cercare, pur di togliervi personalmente
dalla circolazione. Fate molta attenzione, è un uomo crudele
e senza scrupoli.
Quanto alla
missione, è presto detto: ci sono quattro Orologi, la cui
posizione è ignota per l’aspirante Signore del
tempo. Sono stati occultati in luoghi irreperibili e possono essere
conquistati solo superando delle prove specifiche. Si trovano
esattamente ai quattro angoli del globo e dopo questo messaggio vi
lascerò le indicazioni sulle varie località. Non
posso dirvi esattamente dove si trovano o che prove dovrete affrontare
per ottenerli, ho paura che in questo momento ci possa essere qualcuno
che mi stia ascoltando e non posso dare più informazioni del
dovuto, sarebbe fin troppo rischioso per tutti noi, credetemi
– le notizie che ho divulgato fino ad ora sono anche
eccessive, infatti quando avrò finito il messaggio si
distruggerà automaticamente, tramite una pioggia di
inchiostro che comprometterà irrimediabilmente gli
ingranaggi del riproduttore.
Sento che
il Nemico sta per giungere; per me è ora di andare. Vi
auguro buona fortuna, crononauti: il destino
dell’umanità è in mano
vostra.»
Ciò
detto, l’immagine di Joshua scompare, lasciando il posto
all’ologramma di un planisfero. Su di esso sono segnati
quatto punti luminosi, che scintillano di una luce rossastra secondo
un’intermittenza regolare. Mentre Amelia si avvicina per
osservarli, Andrea ha già segnato tutto su un taccuino, con
indiscutibile efficienza.
«Ecco
qui» commenta, allungando il block notes in mezzo al tavolo,
così che tutti possano vederlo «i punti segnati
sono Roma, Città del Capo, Pechino e la montagna di Uluru,
nell’outback australiano.»
Sguardi
accigliati osservano la scrittura precisa e ordinata di Andrea, non
tanto perché non riescano a leggerla –
è talmente chiara che riuscirebbe a comprenderla anche un
bambino di cinque anni – quanto piuttosto perché
comprendono di trovarsi di fronte ad un bivio: dovrebbero gettarsi a
capofitto in quell’impresa senza certezze? Oppure farebbero
meglio a temporeggiare, cercare di capire se si trovino davanti ad un
grande bluff?
«Dobbiamo
partire» sentenzia Amelia, in tono impetuoso. È
vero, anche se non si direbbe lei è una persona molto
impulsiva, si lancerebbe senza indugi anche nella più
sciocca delle abitudini. Eppure stavolta c’è in
gioco qualcosa di diverso, se non accettassero la missione affidata
loro da Joshua rischierebbero di andare incontro ad una fine orrenda,
tutti, nessuno escluso.
Lo scotto
da pagare sarebbe troppo alto, insomma.
Julie
inarca le sopracciglia, dubbiosa.
«Ma…
possiamo davvero fidarci di un messaggio del genere?» domanda
infatti, l’incertezza ben percepibile nella voce.
«Potrebbe
essere un falso» fa notare loro Atemu, in tono pragmatico
«dopotutto, non mi risulta che esistessero riproduttori di
ologrammi, sul finire del 1700.»
«Ma
ha detto che, grazie al potere degli Orologi, è riuscito ad
arrivare quasi fino ai giorni nostri, ecco dove si è
procurato un oggetto del genere» obietta Claudine, con un
certo senso di fierezza per essere giunta ad una conclusione del genere?
«Già,
ma ripeto: come fai a sapere che non fosse un falso? Della serie: non
abbiamo prove certe che quello dell’ologramma fosse il vero
Joshua Parrish. Magari era solo un buontempone che voleva tirarci uno
scherzo di pessimo gusto. In fondo, insomma, non abbiamo mai visto il
vero volto di quest’uomo, non sappiamo come sia fatto in
realtà.»
Quello
sollevato da Atemu è un dubbio lecito: dopotutto, come
potrebbero scongiurare una simile evenienza.
«Io
lo so» li informa Thiago, il petto che si gonfia di
soddisfazione per quella consapevolezza.
«Ah,
sì? E come fai ad esserne così certo?»
s’informa Margarita, i gomiti puntellati sul tavolaccio di
legno e il mento premuto sulle mani.
«Beh,
facile» Thiago scrolla le spalle, con nonchalance
«perché nel video ha detto una cosa che solo il
vero Joshua Parrish poteva conoscere.»
«La
diaspora degli Orologi» esclama Amelia, la prima ad arrivarci
«nessuno a parte lui era a conoscenza del meccanismo di
difesa ideato per mettere in salvo gli Ori!»
«Esatto~»
conviene Thiago, ammiccando lievemente in direzione di Amelia,
soddisfatto che qualcun altro oltre lui sia arrivato alla sua stessa
conclusione senza bisogno di doverglielo spiegare.
Gli sguardi
degli altri sei crononauti si puntano all’istante su Amelia e
Thiago, che sembrano essersi resi conto solo in quel momento di quanto
siano eccessivamente
vicini.
«Dobbiamo
partire» ribadisce Amelia, lo sguardo fermo e adesso ancor
più deciso.
«Okay,
potreste anche aver ragione» s’intromette Andrea,
rimasta imparziale fino a quel momento «però
adesso cosa avreste intenzione di fare?»
«Niente
di più semplice» risponde Amelia, balzando in
piedi e mettendosi a camminare – ha troppa adrenalina in
circolo, impossibile pensare che possa stare ferma – lungo la
bottega «ci sono quattro destinazioni segnate su quella
mappa, no? Bene, noi siamo otto: non dovremo far altro che dividerci
in quattro coppie diverse e recarci nelle località
indicate.»
«E
in base a quale criterio dovremmo dividerci?» azzarda
Claudine, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Beh»
s’intromette Thiago, con fare quasi involontario
«Andrea, tu hai detto di essere di origini italiane, giusto?
Una delle destinazioni è proprio in Italia, potresti andarci
tu.»
La ragazza
sembra sorpresa, tant’è che alza di colpo la testa
dal suo amato e inseparabile tablet, sul quale stava già
digitando comandi ad una velocità insostenibile.
«Uhm?
Oh, beh, non è così male come idea»
ammette, piegando appena la testa di lato.
«Potrei
venire io con te» si offre Claudine, alzando una mano con
entusiasmo «amo l’Italia, inoltre ci sono anche
stata un paio di volte. Sempre che per te vada bene,
certo…»
«È
indifferente» replica Andrea, con una rapida scrollata di
spalle.
«Bene,
e la prima coppia è sistemata» commenta Thiago,
soddisfatto «poi, vediamo: c’è la
Cina…»
«Oh,
io ho dei contatti in Cina!» trilla Julie, gli occhi che
d’improvviso le si illuminano di gioia.
«Ottimo»
riprende il portoghese, sorridendo appagato «con te potrebbe
andare—»
«Vado
io!» si offre Margarita, raggiante «potrebbe essere
un’esperienza estremamente…
interessante~»
«E
siamo a metà del lavoro» annuncia ancora il
portoghese, il sorriso sul suo volto che va via via sempre
più allargandosi «a questo punto mancano solo le
ultime due destinazioni: Africa ed Oceania…»
«Se
proprio dobbiamo ricorrere a questa follia di piano, allora io opto per
l’Africa» sentenzia Atemu, lo sguardo duro come la
pietra «almeno, essendo le mie origini riconducibili a questo
continente, spero di potermela cavare al meglio.»
«Penso
che andrò con lui» comunica Amos, mentre continua
a torturarsi nervosamente le mani in grembo «rispetto
all’Australia, è un viaggio decisamente molto
più breve. Se posso evitarmi una fatica del genere, lo
faccio ben più che volentieri.»
«Perfetto»
conclude Thiago, tirando le fila del discorso «in questo modo
a me e ad Amelia rimane l’Oceania. Siamo fortunati, mi
è capitato di recarmi lì una volta, in passato,
durante uno dei miei tanti viaggi. Direi che tutte le coppie sono
ufficialmente formate.»
«Bene»
conviene Amelia, annuendo con vigore «adesso non ci rimane
altro da fare che partire…»
«Ma…
siamo sicuri che questa sia la scelta giusta? Insomma, a me sembra
tutto così affrettato…» obietta Amos,
ancora una volta timoroso.
«Sentite»
Amelia sospira pesantemente, le sembra di essere invecchiata di colpo
di almeno dieci anni «mia madre ha pagato con la vita il caro
prezzo di dover difendere quest’Orologio. Se
c’è qualcuno intenzionato a distruggere il nostro
mondo e che potrebbe essere potenzialmente la stessa persona che
l’ha uccisa, io non ho la benché minima intenzione
di restarmene qui con le mani in mano mentre ogni mia certezza viene
rasa al suolo. Lotterò con tutte le mie forze per far
sì che mia madre sia fiera di me e se mai dovessi incontrare
chi le ha fatto del male… beh, non vi assicuro di riuscire a
trattenermi dal fargli molto ma molto male. Detto questo, per riuscire
a renderle giustizia io ho bisogno della collaborazione di tutti voi,
senza nessuna esclusione. Se ci arrendiamo a prescindere, non facendo
neanche una prova, allora siamo già vinti in
partenza.»
Segue un
silenzio che pare essere eterno, durante il quale i vari crononauti si
guardano tra loro, cercando di decidere quale sia la via più
giusta da percorrere. Nei loro sguardi sono ben visibili i mille dubbi
che li attanagliano in quel momento, ma anche consapevolezza del loro
compito e desiderio di dimostrare le proprie capacità.
Alla fine
di quel muto dialogo, tutti i ragazzi tornano a voltarsi verso Amelia
ed è Andrea a comunicare la loro decisione.
«Siamo
tutti d’accordo» annuncia, solenne
«affronteremo questa missione.»
Amelia
sorride, sollevata, mentre i tratti del suo volto si distendono, ora
non più in tensione.
«Bene»
comunica, con determinazione «tra i vari documenti sugli
Orologi di Joshua ho letto anche che, quando due persone devono
spostarsi nello stesso luogo, può bastare anche solo un
Orologio: infatti, essendo la catena che li sostiene piuttosto lunga,
se riescono ad infilarsela contemporaneamente due crononauti il viaggio
si può compiere tranquillamente.»
Poco dopo,
neanche si accorge di quando la catena sottile dell’Orologio
di Thiago le avvolge il collo. Il ragazzo, essendo di diversi
centimetri più alto di lei, ne approfitta per passarle una
mano tra i capelli, in maniera bonaria. Quel gesto fa arrossire
leggermente Amelia, che tuttavia cerca di nasconderlo, spostando lo
sguardo da un’altra parte.
Anche gli
altri si sono già approntati per il viaggio: Andrea ha
legato a sé una Claudine piuttosto impegnata a sistemare le
pieghe della sua gonna, Atemu ha condiviso di malavoglia la propria
collana con Amos e Margarita ha incatenato se stessa a Julie.
«Tutti
pronti?» domanda Thiago, in tono austere.
Le teste di
altri sei viaggiatori annuiscono, in contemporanea. Per avere il
consenso di Amelia, invece, gli basta guardarla negli occhi: il suo
sguardo arde così tanto di determinazione che è
praticamente impossibile aspettarsi da lei una risposta che non sia un
“sì”.
«Molto
bene» conclude il portoghese «ci rivediamo tra
cinque giorni alle Azzorre. Fate in modo che, per allora, abbiate
assolto tutti i vostri compiti.»
Dopodiché,
la stanza viene avvolta da quattro fasci luminosi di colori differenti:
blu, giallo, viola ed azzurro.
L’istante
successivo, la bottega è tornata ad essere deserta.
♟»
Roma,
Italia, 2059
Quando il
raggio traente si dirada e la luce azzurrognola comincia a dissiparsi
– come nebbia alle prime luci dell’alba –
Andrea si convince a riaprire gli occhi, certa che ormai
l’emissione luminosa violenta sia pressoché
scemata.
La prima
cosa che riesce ad appurare, ancora un po’ frastornata,
è che si trova in una grande piazza, a terra una distesa di
sampietrini sembra essere estesa come un mare. Davanti a lei
c’è un’enorme gradinata, che si innalza
maestosa ed imponente apparentemente verso il cielo; a metà
strada si biforca, due rampe semicircolari che procedono secondo
direzioni differenti, per poi ricongiungersi sulla cima. In alto, ha il
suo posto d’onore su una terrazza panoramica un maestoso
obelisco, mentre in fondo alla scalinata fanno la loro comparsa alcune
colonnine, sulla sommità delle quali vengono riprese delle
forme sferiche.
«Piazza
di Spagna» commenta Andrea, mormorando lievemente tra
sé.
Generalmente
quel luogo è uno dei fulcri del turismo della capitale
d’Italia, tuttavia quel giorno sembra essere deserto in
maniera desolante: di certo il clima non aiuta, visto che sono a
metà dicembre e il cielo è terribilmente plumbeo,
minacciando pioggia da un momento all’altro. Ci sono giusto
un paio di turisti, tutti intenti ad osservare i sontuosi gradini,
mentre la zona al momento sembra piuttosto un crocevia per uomini
d’affari, che corrono da una parte all’altra della
piazza, stringendosi i mongomeri pesanti al corpo e continuando a
parlottare nervosamente al telefono – smartphone di ultima
generazione – di questo o quell’altro argomento, in
un italiano rapido e fluidissimo.
Andrea
lancia un rapido sguardo al cielo, notando che alcune piccole e sottili
gocce di pioggia hanno cominciato a cadere al suolo, cerchietti scuri
sui sampietrini.
«Voglio
un ombrello» sussurra qualcuno, al suo fianco.
Andrea si
volta e sembra ricordarsi solo in quel momento sembra ricordarsi della
presenza di Claudine.
«Andiamo,
solo soltanto due gocce» ribatte Andrea, scuotendo lievemente
la testa.
«Sì,
ma potrebbero diventare ben più di due!» insiste
Claudine, pestando i piedi per terra in maniera un po’
infantile.
Andrea alza
gli occhi al cielo, sospirando lievemente. Ma chi gliel’ha
fatto fare?
«Comunque»
cerca di riprendere le fila del discorso la ragazza italiana
«a quanto pare il viaggio in Oro condiviso di cui ha parlato
Amelia ha funzionato: adesso siamo a Roma, dovremmo cominciare a
cercare il posto in cui potrebbe essere l’Orologio. Magari un
monumento famoso, come il Colosseo, oppure—»
«Oppure
potremmo andare a fare shopping!» la interrompe la francese,
tutta su di giri.
«Ma
se siamo qui è perché dobbiamo trovare
l’Orologio, no?» le rammenta Andrea, piuttosto
scettica.
«Zut alors!1»
sbotta Claudine, con una leggera punta di esasperazione
«Thiago ha detto che abbiamo cinque giorni di tempo per
trovare l’Orologio, no? Se per un pomeriggio non cominciamo
subito a cercarlo non morirà certo nessuno.»
A quel
punto Andrea apre la bocca per cercare di ribattere, tuttavia non fa in
tempo a dire niente che Claudine ha già cominciato a
trascinarla verso le centralissime vie dello shopping romane.
«Vedrai,
ci sarà da divertirsi~» conclude la francesina,
già eccitata al pensiero di immergersi in negozi pieni di
abiti all’ultima moda e griffati, una boutique dietro
l’altra, mentre la faccia di Andrea è quanto di
più vicino si possa immaginare alla rappresentazione vivente
della mestizia.
Sarà proprio un
pomeriggio indimenticabile, sì.
1 “Sciocchezze!” in francese
* Angolo autrice *
{In time
è ufficialmente la storia più lunga che abbia mai
pubblicato su Efp, yay!}
Vi giuro
che sono commossa. Sul serio, non immaginavo di riuscire a rispettare
la tabella di marcia che mi ero prefissata, soprattutto visto che lo ammetto
in questi trenta giorni ho bighellonato molto e scritto poco.
Praticamente mi sono messa d’impegno per finire questo
capitolo solo negli ultimi tre giorni ma oh!, alla fine chi
se ne importa: quello che conta è riuscire a portare a casa
il risultato, d’altronde, no? E beh, direi che anche questa
volta ci siamo riusciti alla grande.
Sì,
dico “siamo” e non “sono”,
perché ormai ritengo che questa di In time sia diventata una
grande famiglia, dove un po’ tutti cerchiamo di aiutarci come
meglio possiamo: io scrivo e poi chi può mi commenta il
nuovo capitolo direttamente qui in recensione, altrimenti bene o male
le altre riesco a sentire per via messaggistica, sia su Efp che
altrove. Insomma, ho capito che lamentarmi per il fatto che lo scorso
capitolo sia stato recensito solamente da due persone sarebbe un
po’ inutile, in fondo ho ricevuto più o meno
– in un modo o nell’altro – i pareri di
tutte voi in merito. Certo, sarei ancora più felice se
riusciste a recensire tutti i capitoli, solo che mi rendo conto da sola
di quanto sarebbe “gravoso”, tra scuola e tutti gli
altri vari impegni della real
life. E questo, fondamentalmente, è il motivo
per cui ho deciso di non fare richiami o altro.
Comunque, se recensite vi
voglio bene.
Volevo fare
ancora tanti auguri a Bea,
che ho sentito via MP. Lei è un po’
l’assente giustificata di questo periodo— no, non
faccio preferenze e no, Ange,
l’ho detto prima io che me la sarei portata
all’altare, adesso tu non puoi rubarmi la sposa--
ma sappiate tuttavia che è l’unica a cui concedo
(e per cause di forza maggiore) questo lusso, tutti gli altri sappiate
che dovrete comunque farmi avere un qualche genere di vostre notizie,
altrimenti sapete che fine fanno i vostri personaggi– quella
di Ethan Bailey, LOL.
Ah ehm,
torniamo a noi. Adesso gli aggiornamenti dovrebbero essere sempre
regolari (come avrete potuto ben notare e come mi avevo già
accennato nelle note d’autrice dello scorso capitolo) una
volta al mese, quindi sempre il 27. Ho notato che riesco (per ora) a
mantenere costanti gli aggiornamenti se continuo con questo genere di
“regolarità”, perciò per ora
il metodo adottato dovrebbe essere questo. Siete felici? Io parecchio.
Allora,
come vi avevo accennato i nostri crononauti hanno scoperto la loro
missione e finalmente sono partiti alla volta delle quattro
destinazioni che vi avevo accennato. Scopriamo qualche notizia in
più sul passato di Amelia, anche se c’è
ancora qualcosa di cui non vi ho parlato… e che scoprirete
tra qualche capitolo~ quanto mi piace tenervi sulle spine, ahahahahah
Piccole
info sul prossimo capitolo: i più rilevanti sviluppi di
trama saranno quelli sulle prove per recuperare gli Orologi delle
coppie Andrea/Claudine (di cui vi ho lasciato un assaggio alla fine di
questo chap) e Atemu/Amos. Preparatevi ad ogni genere di colpo di
scena, anche se con me ormai ci dovreste essere abituati.
Quanto alla
ormai conclamata e confermata coppia Kageyama/Kidou (altresì
nota come Kageki): eh, per le novità sulla loro vicenda vi
toccherà aspettare fino a dicembre-gennaio e sappiate che
saranno delle bombe! Della serie: possibile che non abbiate ancora
capito chi sia il cattivo di questa storia? Beh, certo, se non
avete letto quella trilogia…
Alcune
rettifiche a livello di trama: Darren vive davvero nel 2012
(è un AU, ergo i personaggi di IE me li spalmo un
po’ a mio piacimento attraverso tutti i vari secoli) e quindi
Amelia ha paura di rivelargli la verità sul suo conto
proprio perché è una crononauta, mentre la dolce Maricchan mi fa
notare – riguardo alla sua Claudine – che, mentre
nella lista dei pg ho segnato come simbolo del suo Oro una rondine, nel
capitolo ho scritto che è una libellula.
Comunque, il simbolo giusto è la libellula, giusto
perché lo sappiate, eh.
Bene,
dovrebbe essere tutto. Io vi lascio come al solito appuntamento al 27
novembre e mi auguro di potervi risentire presto. Sappiate che ho tutte
le intenzioni di concludere questa storia: i capitoli totali dovrebbero
essere circa sedici, di questo tuttavia non sono ancora sicura. Ho
invece forti certezze su quello che voglio scrivere in ciascun
capitolo: la trama c’è, ce l’ho ben
chiara nella mia mente. Fidatevi, qualsiasi cosa cercherà di
mettersi in mezzo tra me e la conclusione di questa fic, io lo
supererò, perché so che accanto a me ho delle
persone fantastiche che mi aiuteranno sempre, qualsiasi cosa accada.
Per il resto se volete con chi può ci incontriamo domenica
30 ottobre al LCG, che ci siamo io e Maricchan che vi lanciamo i bacini
e io devo
commettere un omicidio ma shh, non ditelo in giro.
A presto
(spero)
Aria
Next stop
.:: Chapter eight ♟ —Supermassive
black hole
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