In time

di _ A r i a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Time is running out ***
Capitolo 2: *** Falling away with you ***
Capitolo 3: *** Undisclosed desires ***
Capitolo 4: *** Follow me ***
Capitolo 5: *** Madness ***
Capitolo 6: *** Uprising ***
Capitolo 7: *** Resistance ***
Capitolo 8: *** Butterflies and hurricanes ***



Capitolo 1
*** Time is running out ***


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« Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre decidiamo che cosa farne »

-    Romano Battaglia –


» Londra, Gran Bretagna, 1782

Lavora, lavora, lavora, Joshua. Fa’ in fretta, fa’ prima che sia troppo tardi …
Nella bottega nel centro di Londra un abile artigiano lavora alla sua creazione. Anzi, alla sua ultima creazione.
Undici orologi a catena sono già disposti sul suo tavolo da lavoro in logoro legno di mogano, impolverato e ricolmo di trucioli delle precedenti lavorazioni.
Ingranaggi piccoli ma a dir poco portentosi sono racchiusi in quell’intreccio di acciaio e vetro, quest’ultimo inserito a protezione del prezioso quadrante.
L’ultima vite è inserita … ed ecco qui che il dodicesimo è pronto.
L’artigiano fissa soddisfatto l’esito del proprio operato, sorridendo appena.
Ancora non lo sa, tuttavia con l’alchimia che ha utilizzato per incantare il meccanismo dei suoi tanto preziosi orologi ha appena creato uno strumento per raggiungere l’immortalità.

» Parigi, Francia, 1778

È una di quelle giornate in cui, probabilmente, le persone con un minimo di buonsenso se ne rimarrebbero in casa, con una tazza fumante di chocolate chaude davanti.
Non per Ethan.
Lui … lui ha bisogno di fare qualcosa.
Non può accettare infatti che la sua persona possa passare inosservata per più di due minuti. Non può proprio.
Senza staccare la schiena dal tronco dell’albero a cui è appoggiato inizia a cantare, note fluide e ben scandite che scivolano via dalle sue labbra, diffondendosi nell’aria intorno a lui.
Subito i radi passanti rendono più lieve il loro passo, rallentando progressivamente nelle vicinanza di Ethan, fermandosi ad ascoltare le note arrochite in modo accattivante del giovane.
Forse perché è qualcosa di così lontano dal loro ideale:dopotutto, di lì a trent’anni apriranno i primi café chantant, quelle musiche riflessive e le voci profonde che quasi recitano parole cariche di significato … non c’è da stupirsi se quei luoghi fossero il centro d’incontro delle figure di spicco parigine nel campo della letteratura e della filosofia in quegli anni.
Ethan si passa una mano tra i capelli, sorridendo ammiccante in direzione di alcune ragazze che si trovano in prima fila, in quel piccolo capannello che si è riunito intorno a lui per ascoltare la sua musica. Quando le giovani sospirano sognanti non riesce a fare a meno di sentirsi appagato:adora essere al centro dell’attenzione, quasi alla stessa stregua di quanto ami trovarsi in quel luogo, pieno dell’arte e della musica che tanto ama.
Forse quelle persone sono pure attratte dal suo aspetto quantomeno singolare per gli ambienti della Parigi “bene”:le miriadi di orecchini che gli tartassano entrambe le orecchie, gli anelli argentei un po’ in stile gotico che gli adornano le dita ed i piercing sul labbro inferiore certamente contribuiscono a renderlo così dissonante dall’ambiente nel quale si trova, oltre agli appariscenti vestiti rossi e neri.
Il giovane si rigira tra due dita l’orologio che porta al collo … e pensare che, quando l’ha trovato, pensava si trattasse di un regalo di una fan –l’effetto di essere un apprezzato cantante heavy metal, o forse un accesso d’ego.
Ora invece, Ethan sa fin troppo bene che quello che porta al collo è tutto fuorché un normale orologio.
Altrimenti, come potrebbe trovarsi in un’epoca antecedente alla sua di quasi trecento anni?

» Amsterdam, Paesi Bassi, 2012

Amelia si tortura una ciocca dei suoi cortissimi capelli neri come la notte mentre continua a fissare l’acqua del fiume agitarsi nel canale sotto di lei.
Non è ancora arrivato.
E se gli fosse successo qualcosa? E se si fosse fatto male? E se …
I suoi ben poco allegri ragionamenti sono interrotti da due braccia forti che spuntano da dietro la sua schiena, stringendosi appena attorno al suo collo.
Per un momento Amelia non riesce a trattenersi dal sobbalzare, a dir poco presa alla sprovvista da quel gesto inatteso, tuttavia quando scorge un pacchetto rivestito di carta verdina e dal profumo ben noto non riesce ad astenersi dal sorridere.
«Sei in ritardo»apostrofa il proprio fidanzato, sebbene nella sua voce si percepisca chiaramente una nota dolce ed indulgente.
Darren fa il giro della panchina e si siede accanto ad Amelia, scoccandole un bacio dal sapore dolce sulle labbra.
«Perdonami»s’appresta a giustificarsi il giovane«è che … come al solito in pasticceria c’era una fila immensa …».
«Perdonato~»trilla lei, anche solo averlo accanto per quelle che già sa che saranno poche ore e non di più è un sollievo enorme.
Questo è quello che succede se finisci per innamorarti di un ragazzo appartenente ad un’epoca storica diversa dalla tua, si ricorda mestamente.
Sua madre avrebbe dovuto dirglielo, quando le aveva consegnato l’Orologio, gelosamente custodito dalla sua famiglia per intere generazioni.
Darren apre il pacchetto della pasticceria e da esso sale verso il cielo un odore dolcissimo:i poffertjes, dei dolcetti tipici olandesi simili a pancake, sono splendidi, come al solito.
Mentre gustano quelle prelibatezze Amelia non riesce a fare a meno di chiedersi come potrà mai funzionare:lei non appartiene all’epoca di Darren tanto quanto Darren non appartenga alla sua. Non potranno mai stare insieme per più tempo di quello che gli Orologi concedono loro.
Certo, Amelia può attraversare il continuum spazio-temporale ogni volta che vuole e raggiungere Darren per passare tutto il tempo del mondo, tuttavia non riesce a non pensare che prima o poi Darren crescerà, andrà avanti.
Lei potrà tornare da lui ogni volta che lo vorrà, saltellando da una parte all’altra del tempo … ma ne varrà la pena?
Sospira, facendosi beccare scioccamente dal ragazzo e rimproverandosi mentalmente per questo.
«Va tutto bene?»le chiede subito il ragazzo, apprensivo come al solito.
Amelia cerca di sorridere mentre ammette:«Sì, stavo solo pensando … al tempo che scorre, inesorabilmente».
Il ragazzo sembra soppesare per qualche breve istante le parole della giovane prima di domandarle nuovamente:«A proposito, quando devi ripartire?».
«Stasera»risponde perentoria Amelia, mordendosi l’attimo dopo un labbro mentre i suoi scuri occhi smeraldini sembrano incupirsi ancor di più.
Darren è infatti convinto che la giovane faccia la spola tra Amsterdam –dove Darren studia e sta per diplomarsi- e Londra, che gli ha raccontato essere la sua città natale.
Tutto abbastanza veritiero, con l’unica differenza che per vederlo Amelia deve viaggiare anche sette anni a ritroso nel tempo.
Il ragazzo sbuffa e brontola:«Uffa, di già? Ma perché per una volta non puoi trattenerti per un po’ di più?».
«Perché sono in piena sessione di esami, lo sai»replica lei, con aria pragmatica«tempus fugit, caro~».
«Che?!»
«È latino, Darren. Credevo lo studiaste, a scuola!».
Il giovane sbuffa nuovamente, sconfortato. Certo che, quando vuole, la sua ragazza sa proprio mettergli i piedi in testa, eccome.
Amelia invece torna a fissare l’acqua torbida del canale che scorre placida sotto di lei.
Come fa a spiegargli che, se non può fermarsi per più di poche ore con lui, è perché appartiene ad un altro tempo?

» New York, Stati Uniti d’America, 2120

Dal terrazzo dell’alto grattacielo può distinguere nitidamente la punta dell’Empire State Building, illuminata di luci sfavillanti nella notte.
Già, notte. Come se lì potesse esserci qualcosa di diverso.
Jude non ricorda come ci sia arrivato, vorrebbe tanto saperlo. Un momento prima era addormentato tra le calde coperte di casa sua e quello dopo … eccolo lì, in quella sorta di New York futuristica dove non sorgeva mai il sole.
Si era ritrovato perso in quel luogo a lui tanto sconosciuto, tuttavia non aveva avuto nemmeno qualcuno a cui chiedere informazioni.
Più di otto milioni di cittadini newyorkesi … svaniti nel nulla. Scomparsi. D’improvviso, sembravano essere divenuti evanescenti.
Impossibile.
A Jude ci erano volute parecchie ore, trascorse a vagare nella metropoli deserta, prima di realizzare di non essere affatto a New York.
O meglio, si trovava a New York … ma non la vera New York.
Non quella del suo universo.
Quel silenzio a volte diveniva assordante … invece lì, in quel momento, mentre lasciava dondolare i piedi nel vuoto, comodamente seduto su di una balconata al duecentesimo piano di un palazzo, lo sguardo perso il direzione dell’orizzonte, era stranamente confortante.
Serviva per rimettere le idee in ordine, quando invece quel caos continuava a vorticargli nella testa da … da …
Da quanto era lì, esattamente?
Oh, ormai aveva perfino perso la cognizione temporale. Niente di strano, in fondo, se si finisce –proprio malgrado- a vivere in una dimensione fuori dal continuum spazio-temporale.
Dei passi alle sue spalle lo fanno scattare sull’attenti, le mani che si stringono con decisione attorno alla balaustra.
Com’è possibile che ci sia qualcuno, lì?
Ah, già. Non è da solo.
Altrimenti dubita perfino che sarebbe riuscito a trovare un posto dove stare.
Ridicolo, la grande e potente New York si è ridotta ad avere due soli cittadini.
Una voce profonda e suadente lo raggiunse alle sue spalle, facendolo sorridere di malcelato sollievo.
«Jude, non riesci a dormire?».



* Aria’s corner *

Chi non muore si rivede ~
Sorpresa, sono tornata!
E con una nuova storia, per giunta … quindi non potete proprio lamentarvi, signori, no no.
Beh, d’accordo, forse anche perché volevo farmi perdonare il fatto che ho deciso di sospendere per un po’ la precedente long, ma dettagli.
Ammetto che la trama di primo acchito potrebbe non sembrare esattamente chiara, perciò cercherò di farvene un sunto per aiutarvi:

Ci troviamo in un futuro distopico, per l’esattezza nel 2059. Dodici ragazzi sono venuti in possesso, chi in un modo chi in un altro, di alcuni oggetti preziosissimi, gli Orologi. Questi permettono a chi li possiede di poter viaggiare a loro piacimento nello spazio e nel tempo

O meglio, questo è quanto accade fino a quando una terribile minaccia incombe su di loro … ma questa è un’altra storia~
Ovviamente i vostri oc saranno anche loro detentori di un orologio, don’t worry (?)
Vi dico da subito che con questa storia sarò molto più rigida su certi criteri, non ho intenzione di far colare a picco tutto un’altra volta.
Prima di passare alla parte delle direttive generali & co. ci tenevo a ringraziare la mia lovely _Myosotis (ciao dear~) per essersi imbarcata con me in questa storia –ma non solo- giacché Ethan Bailey è il suo oc. Amelia Greene è invece il mio personaggio, così come mi appartiene il banner che fa abbastanza schifo, lo so, ma chi s’accontenta gode ♪
Beh, lo so che non ci si capisce niente lo stesso e che –uhm- l’80% di voi si starà chiedendo che fine abbia fatto Yuuto and so on, però visto che sono una persona cattiva non ve lo dico e passo invece a tutte le informazioni per gli oc e bla, bla, bla.
  •  Parto subito col dirvi che gli aggiornamenti non saranno per niente regolari. O meglio, per i primi capitoli cercherò di fare del mio meglio ma non vi assicuro niente. Signori, il classico è quel che è.
  •  Non so quando compariranno i vostri oc, non vi assicuro niente manco di questo. Sarà tutto molto casuale, mi sa.
  •  Pure se in ritardo le iscrizioni si aprono oggi, venerdì 20 novembre, e si chiuderanno tra una settimana esatta, aka venerdì 27 novembre. Lo stesso vale per l’invio dell’oc. Non concederò proroghe, sorry, altrimenti il prossimo capitolo vi arriva come regalo di natale e giù tutti a lamentarsi.
  •  Sceglierò gli oc. Scusate ma non ci casco più :)
  •  E oh, sì:se non chiedo troppo vi pregherei di recensire tutti i capitoli. Non potete capire il senso di abbandono che si prova quando ci si ritrova con venti recensioni al prologo e poi, andando avanti coi capitoli, non ce ne sono manco la metà. Lo so che siete impegnati, io stessa lo sono in primis, perciò cerchiamo di venirci incontro a vicenda, uh?  

Aria says yes to:
  •    Oc originali;
  •    Oc coerenti con la loro nazionalità;
  •    Recensioni che non siano il sunto del sunto del sunto- avete capito;
  •    Qualsiasi tipo di relazione;
  •    Fidanzati di ie (non Genda, Kidou e Tachimukai, plss).
Aria says no to:
  •    Mary Sue/Gary Stu (ormai ho imparato l’antifona, gente);
  •    Oc non coerenti (obv);
  •    Oc inviati senza la mia autorizzazione tramite risposta alle recensioni;
  •    Oc partecipanti alla mia vecchia long (N.B.:per “oc” intendo i personaggi inseriti all’interno della storia, non i loro proprietari, ergo potete partecipare ma con personaggi nuovi da cima a fondo, chiaro?);
  •    Fidanzati di GO/CS/Galaxy –ciao, sono Capitan Ovvio.

Ordunque, senza ulteriori indugi, m’appropinquo a consegnarvi ciò che tutti voi attendevate trepidanti …  detto con altre parole, sotto trovate la scheda oc.

Nome:
Cognome:
Età (min 16 – max 19):
Nazionalità:
Aspetto fisico:
Carattere:
Paure/debolezze:
Interesse romantico (facoltativo):
Epoca storica nella quale preferisce viaggiare:
Come avete “trovato” l’orologio (ereditato dalla vostra famiglia, trovato in una vecchia bancarella, v’è piovuto dal cielo … siate creativi!):
Altro (se avete altro da aggiungere e non avete trovato posto nei punti precedenti):  

Basta, la chiudo qui, più che un capitolo questo è un papiro egizio.
Vi attendo numerosi!

A presto (spero)
Aria~

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Capitolo 2
*** Falling away with you ***


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«Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre decidiamo che cosa farne»

 Romano Battaglia –


» New York, Stati uniti d’America, 2120

«Jude, non riesci a dormire?».
Quella frase pare aleggiare nel cielo buio della metropoli nordamericana per istanti travestiti da eternità, mentre gli occhi cremisi di Jude continuano a perdersi ossessivamente tra le luci sfavillanti di quell’immenso deserto.
Sospira. C’è una risposta a quella domanda?, si chiede, con una certa punta di arrendevolezza dentro la sua testa.
«No»risponde infine amaramente, espirando nuovamente –se di noia o fastidio è impossibile definirlo– mentre continua a fissare quella realtà morente davanti ai suoi occhi, tutti i sensi all’erta. In attesa di cosa, poi, chi lo sa:di un miracolo, molto probabilmente.
Davanti ai suoi occhi non si muove nulla che possa fargli presagire la presenza di altre forme vitali oltre le loro, tuttavia l’udito estremamente sviluppato del giovane gli permette di percepire chiaramente i passi alle sue spalle aumentare nuovamente, muovendosi con estrema disinvoltura nella sua direzione, finché la figura arriva finalmente al suo fianco.
Appoggia le braccia alla balaustra, seguendo la direzione dello sguardo del ragazzo, perso nel vuoto.
«Da quanto tempo sono qui?»domanda Jude, nella sua voce c’è una nota d’impellenza impossibile da ignorare, per chiunque. Soprattutto se quel qualcuno è Ray Dark.
«È impossibile saperlo»ammette l’uomo, quasi rammaricandosi delle sue stesse parole. Detesta deludere Jude in questo modo«Il tempo qui scorre in modo diverso rispetto alla nostra dimensione. Sempre che scorra, ovviamente. È perennemente notte … quasi inquietante, non trovi? Da quando vi sono arrivato il sole non è mai sorto e dubito l’abbia mai fatto, in precedenza».
Gli è difficile smettere di parlare. Così a lungo si è ritrovato costretto al silenzio, non avendo nessuno con cui conversare. L’idea di parlare da soli è stata a lungo pressoché ritenuta impraticabile, dopotutto perché perdere pure l’ultimo briciolo di sanità mentale quando si potrebbe evitare?
Ma davvero si poteva evitare?
Ormai Ray non ne era nemmeno più così certo.
Era così importante, dopotutto?
In fondo, adesso c’era Jude.
Era tornato. Gliel’aveva detto, lui, che alla fine sarebbe tornato.
Certo, magari non come Ray se l’era immaginato, il tanto sospirato ritorno di quella creazione perfetta che ora era lì, a dondolare le sue gambe toniche da un balcone di un palazzo in cui nessuno dei due abitava in una città che non apparteneva né all’uno né all’altro.
Sempre che fosse stato possibile definire quel luogo una città.
Le mani di Jude tremano scompostamente attorno alla balaustra e cominciano a scivolare sul metallo lucido e freddo.
Perché ho le mani sudate?, si rimprovera mentalmente il ragazzino, perdendo l’equilibrio.
L’uomo dietro di lui lo afferra prontamente, prendendolo in braccio e stringendolo forte contro il suo petto mentre si avvia subito verso l’interno del grattacielo.
Jude chiude gli occhi con cautela ed una malcelata sensazione di debolezza che aleggia tra le sue membra mentre cede, abbandonandosi a quella stretta calda.
Le parole che pronuncia di lì a poco arrivano a Ray in un sussurro, talmente è incrinata la voce con cui il giovane le pronuncia.
«E t-tu? Tu da quanto sei qui? E p-perché?».
L’uomo vorrebbe poter rispondere a quella domanda … tuttavia dubita ancora una volta che esista una risposta. Dev’essere normale, specie quando scopri che quella in cui vivi non è l’unica realtà, come invece chiunque crede. Diventa tutto relativo.
«Sono giunto in questo luogo a dir poco surreale subito dopo la mia morte. Da allora non c’è stato più modo per me di muovermi da qui, né di vedere un’altra volta sorgere il sole».
Si rende conto di non aver risposto completamente alla domanda del suo ragazzo, tuttavia sa altrettanto bene di non avere a disposizione risposte migliori da potergli offrire.
Jude per un momento è scosso da un sobbalzo e freme appena tra le braccia dell’uomo, gli occhi che si velano di una strana patina fumosa.
Un brutto presentimento, intuisce l’uomo. È stato così a lungo suo insegnante che ormai Jude per lui è come un libro aperto.
Per una volta Ray avrebbe tanto preferito sbagliarsi. Peccato che le parole che escono dalle labbra di Jude di lì a poco non possono che confermare i suoi più reconditi timori.
«Ray … tu sei morto quattro anni fa …».

» Londra, Regno Unito, 2059

Amelia fissa cupamente le pareti del piccolo appartamento, nel cuore della moderna Londra.
È questa l’epoca a cui appartiene, non quella di Darren.
Quella sua stessa considerazione è così dolorosamente reale che adesso prenderebbe volentieri a calci il soggiorno della sua casa … ma alla fine decide di trattenersi, per non passare per una squilibrata più di quanto non lo sia già.
Ed i suoi problemi hanno incredibilmente inizio dall’Orologio che pende dal suo collo.
Amelia sospira pesantemente, scivolando lungo una parete e lasciandosi cadere seduta sul linoleum a terra, mentre rigira tra le sue dita quel bizzarro medaglione.
È evidente che abbia una storia antichissima:l’oro di cui risplende il metallo che forma quello strano oggetto sembra essere stato consumato dal tempo, ecco perché ora pare annerito.
Dopotutto, stando a quanto le ha detto sua madre quando le ha consegnato l’Orologio, quell’oggetto ha più di trecento anni.
Tre secoli.
Ora che Amelia possiede uno degli Orologi in un certo senso è una Custode del Tempo e, in quanto tale, sa che trecento anni non sono certo un giochetto da niente.
Accarezza con il pollice la superficie levigata dell’Orologio:il quadrante è protetto da un piccolo sportello, che si può aprire e chiudere a discrezione del proprietario mediante un pulsante posto sopra la rotellina per la regolazione dell’orario.
Ridicolo, un artefatto magico tanto potente da poterti far viaggiare tra le epoche della storia … che segna pure l’orario corretto. In qualsiasi epoca ci si trovi.
Sullo sportello dell’Orologio è incisa la raffigurazione di un corvo. Sua madre le ha raccontato che l’uomo che creò l’Orologio che ora porta al collo –con tutti gli oneri e gli onori che la situazione comporta- aveva realizzato in origine ben dodici Orologi, incantandoli con la magia che albergava il suo corpo:gli ingranaggi dell’Orologio possiedono infatti una dose necessaria di magia per permettere a chi ne possiede uno di poter viaggiare a proprio piacimento attraverso lo scorrere del tempo e dello spazio.
Tutti gli Orologi sono andati dispersi, in seguito ad un misterioso incidente, nelle più svariate parti del globo terrestre. Ogni Orologio è diverso dall’altro proprio per la rappresentazione che riporta sullo sportellino, la cui principale funzione è quella di proteggere il fondamentale meccanismo custodito al suo interno.
Il corvo inciso sulla superficie dell’Orologio di Amelia è il simbolo, sempre secondo sua madre, della saggezza, tuttavia è anche portatore di cattivi presagi.
Direi che non sarebbe potuta andarmi peggio, brontola Amelia tra sé, mentre si rimette in piedi, in quell’appartamento vuoto dove vive da sola ormai da troppo tempo.
Non riesce a fare a meno di chiedersi che cosa sia rappresentato sugli altri Orologi. Questo sua madre non gliel’ha mai detto. Per la verità, Amelia stessa dubita che la donna ne avesse la minima idea.
In realtà quel pensiero sfugge quasi all’istante dalla sua mente, con la stessa rapidità con cui s’era presentato, rimpiazzato da ben altre immagini.
Come al solito, a fare da padrone nella sua mente è il volto di Darren:solo pochi minuti prima ha dovuto salutarlo, dopo che il giovane l’aveva riaccompagnata all’aeroporto, convinto che la sua amata avrebbe ripreso il volo di ritorno per Londra e sarebbe così tornata a quegli studi a cui continuamente si professava dedita.
Peccato che Amelia non si sia dovuta imbarcare su nessun aereo per tornare nella sua Londra:dopotutto, nessun mezzo di trasporto umano può attraversare il tempo a proprio piacimento, come invece è proprio degli Orologi.
Amelia scuote la testa, i suoi corti capelli corvini che si muovono con lei:sarà meglio che si vada a fare una bella doccia calda. In fin dei conti, al momento ha solo bisogno di svuotare la mente da ogni tipo di pensiero e, ora come ora, non ha altre idee se non quella per far sì che ciò avvenga.

» Atene, Grecia, 450 a.C.

Ziva avanza tra la folla adunante, stringendosi per bene nel suo peplo dalle tonalità rossastre ed aranciate che le ricorda in modo alquanto realistico i colori del tramonto.
Davanti ai suoi grandi occhi scuri, l’immensa struttura in marmo pario del Partenone si staglia nel cielo azzurro di Atene, in tutta la sua imponenza.
Mette quasi soggezione. E forse, pensa Ziva, è questo uno dei fattori che porta da sempre gli uomini a rifugiarsi nella religione:il timore divino, di questo qualcosa più grande di noi, che ha potere decisionale sulla vita altrui. A propria discrezione se lasciar vivere o far morire un uomo.
Ziva non crede a tutto ciò, perlomeno non così visceralmente come le persone che la circondano, convinte che portando offerte al tempio o sacrificando animali votivi o chissà che cosa in onore di queste divinità … le sembra così esagerato. Non si tratta nemmeno di fanatismo religioso, forse … forse è solo questione di culture differenti, di sapere in continua evoluzione. Certo, con le conoscenze di cui l’uomo dispone nell’epoca in cui è abituata a vivere, il ventunesimo secolo, certe idee sembrano quanto di più improbabile possa esistere.
Ma è poi vero?, si chiede Ziva, siamo poi così diversi?
La giovane sospira silenziosamente per non gettare sospetti tra la folla che la circonda, non vorrebbe mai e poi mai passare per infedele, chissà cosa potrebbe capitarle, così si limita a procedere silenziosamente insieme alla grande adunanza, intonando, di tanto in tanto, qualche canto o invocazione agli dei, in sincrono con gli altri fedeli.

Άκούου εμὦν, ὦ Ζεῦ, θὦν θεὦν βασιλεῦ.1

Da sotto le vesti dai colori brillanti di Ziva dondola in avanti, fendendo l’aria a ritmo con i suoi passi giusto per qualche istante prima di tornare a sprofondare tra la stoffa un orologio dal colore dorato, sul cui sportellino è incisa una pergamena arrotolata.
La pergamena è il simbolo della storia.
Ziva prosegue la sua camminata insieme al popolo ellenico, mentre intona ancora una volta le note del canto votivo dedicato a Zeus, l’antico signore del cielo.
La giovane sorride, quando una vecchia nozione di mitologia greca le torna alla mente, ripescata da chissà quale meandro.
Zeus era figlio di Crono, Signore del Tempo, ricorda Ziva, sorridendo appena.
Che ironia della sorte. E dire che ora sono io ad essere una Custode del Tempo.

» New York, Stati uniti d’America, 2120

È notte. O forse giorno. Dopotutto, ormai chi può dirlo?
Ray si rigira senza meta tra le coperte da ore. Il buio è così soffocante che quel dover rimanere lì per delle ore, ostinarsi nel portare avanti quella sorta di farsa, dormire comunque con regolarità per un certo numero di ore ogni determinato quantitativo di tempo, gli sa tanto di artificioso.
Dopotutto, poi non è lui stesso il primo ad affermare che lì la concezione temporale non ha alcun valore, tanto da non esistere affatto?
Si tira su a sedere sul letto, fissando la stanza che lo circonda con aria alquanto apatica.
È tutto così buio …
La stanza, così come il letto dove si trova in questo momento, è interamente circolare, contornata in ogni punto da vetrate che offrono un’ampia visuale sulla città.
Lì scintillano alcune luci, tuttavia Ray sa fin troppo bene che si tratta di palazzi completamente disabitati.
È lì da così tanto tempo ormai che ha controllato quei palazzi uno ad uno.
Vuoti. Sono tutti terribilmente, miseramente vuoti.
Di colpo, le parole che Jude gli aveva rivolto prima, in terrazzo, diventano piene di nuovo significato.

«Ray … tu sei morto quattro anni fa …».

Quattro anni fa … Ray era già perfettamente conscio di essere morto, tuttavia non avrebbe mai e poi mai immaginato di esserlo da così tanto tempo.
Davvero sono qui da quattro anni?
A Ray pare impossibile … forse, a forza di vivere in quel posto a dir poco assurdo, ha finito davvero per perdere la cognizione temporale.
Per fortuna che ora con lui c’è Jude, almeno non correrà più il rischio di impazzire.
O forse finirà per impazzire del tutto.
Poco dopo infatti, ricordandosi della rassicurante presenza del giovane accanto a sé, si volta in direzione della parte opposta del letto, dove sa che il giovane sta riposando.
In effetti lo trova sul serio lì e Ray si ammonisce di non averci pensato prima, d’altronde è così rassicurante averlo al proprio fianco … perlomeno finché non si rende conto di quanto sia agitato il sonno del ragazzo.
L’uomo sobbalza appena nel vedere l’esile figura di Jude dimenarsi spasmodicamente tra le lenzuola purpuree, la fronte imperlata di sudore e le labbra socchiuse per l’affanno contratte in una smorfia di dolore, o forse solo sforzo fisico.
«Jude-»le parole muoiono sulle labbra dell’uomo, l’apprensione per le condizioni di salute del giovane troppo forte per poter essere ignorata.
Gli solleva appena il capo dal cuscino, ponendoselo in grembo e riempiendogli i capelli morbidi e le gote appena arrossate dallo sforzo fisico di carezze gentili, tante, pacate, da perdervi il conto.
Spera solo di riuscire a fare qualcosa per aiutarlo, in questo modo. Ridestarlo sarebbe la cosa migliore, tuttavia Ray non osa sperare tanto. In fondo, dopo tutti quegli anni, ha ormai compreso che la speranza è un lusso troppo grande per uno come lui.
«Ti prego …»sussurra l’uomo, la sua voce che si perde nella stanza vuota«non mi lasciare, non di nuovo …».
Mentre non riesce ad arrestare le carezze al capo del giovane gli occhi di Jude si aprono in un muto grido di terrore, le pupille ridotte a puntini neri piccolissimi in quel mare di rosso dilagante. Le labbra si schiudono ancor di più ma per un tempo che pare infinito non riescono ad uscire da esse nient’altro che suoni strozzati e sibilanti, che mettono ancor più in allarme Ray.
Quando finalmente Jude riesce nuovamente a pronunciare una frase di senso compiuto, mormora a voce appena udibile:«Ray … v-voglio tornare a casa …».
La voce del ragazzo è così flebile che sembra essere sul punto di spezzarsi. Per un attimo Ray non riesce nemmeno a capacitarsi che quello stesso ragazzo, che ora gli pare così piccolo ed indifeso, abbia già diciotto anni.
Gli occhi di Jude si velano nuovamente dei fumi del sonno, mentre ripiomba addormentato come se non fosse successo niente.
Ray gli risistema il capo tra i comodi cuscini, consumando le sue ultime carezze.
«Ti riporterò a casa, Jude»sussurra, certo che ormai il ragazzo non possa sentirlo«te lo prometto».




1 Dal greco, “Ascoltaci, oh Zeus, re degli dei”. Traduzione molto home made, spero di non aver toppato (sono al quarto anno di classico ma lungi da me l’idea di essere una professionista, dopotutto ho sei in greco e traduciamo dal greco all’italiano, non viceversa), se così fosse perdonatemi, altrimenti amen ^^”




* Aria’s corner *

Signori, abbiamo un problema.
Con calma.
Anzitutto, permettetemi di esultare perché per una volta in vita mia riesco ad essere puntuale nelle scadenze.
Io ve lo avevo detto che le iscrizioni chiudevano il 27 novembre e mentre vi scrivo è il 28.
Per la verità ho iniziato a scrivere il capitolo già qualche giorno fa e non perché mi sentissi particolarmente ispirata, anzi … il problema è che mi sono arrivati davvero pochi oc e tra questi solo tre si sono rivelati all’altezza delle mie aspettative. Non che sia colpa vostra, eh, solo che certe schede non erano adatte al genere di storia che ho in mente.
Perciò ho deciso di riaprire le iscrizioni!
Ora, parliamoci chiaro:mi servono sette oc, le modalità di scelta avverranno secondo gli stessi criteri che ho utilizzato in precedenza.
Suppongo che chi è stato scelto se lo immagini già. Ad ogni modo, la scheda potete trovarla nelle note del primo capitolo.
Partecipate, vi prego! Cercherò di non mangiarvi (però non garantisco niente, avendo finito di vedere di recente Tokyo ghoul. I feels aiuto)
A scanso di equivoci, l’oc presentato in questo capitolo, Ziva Shapira, è quello di Cari Chan. Mi è piaciuto tanto il tuo personaggio, davvero.
Non ho molto altro da dire, il capitolo è quello che è. In attesa di qualche altro personaggio, ho deciso di presentarvi un po’ meglio il meccanismo degli Orologi e i complessi mentali le problematiche che Jude è costretto ad affrontare dopo essere finito in una dimensione che non è la sua.
Basta, sono stanca, vado a dormire.
Vi voglio bene … se recensite vi regalo i biscotti alla cannella (Cristo, Aria, ti sei abbassata a dei livelli di corruzione assurdi ormai)

A presto (spero)
Aria~

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Capitolo 3
*** Undisclosed desires ***


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«Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre decidiamo che cosa farne»

 Romano Battaglia –


» Chicago, Stati Uniti d’America, 2059

Ethan fa la sua comparsa all’interno dell’ampio soggiorno della casa della sua famiglia. O meglio, all’interno del soggiorno deserto della casa della sua famiglia.
In effetti per lui parlare di “famiglia” è alquanto difficile:tutti i suoi familiari sono venuti a mancare … ormai c’è soltanto Ethan.
Ethan, con le foto di famiglia incorniciate, tutti sorridenti, sparse sui mobili del soggiorno.
Ethan, con la musica, unica vera compagna di vita, un vero e proprio linguaggio alternativo nel quale nascondersi, con le sue pause e i suoi silenzi, le sue note e le sue chiavi, come ad esempio la chiave di basso, rappresentata anche sul suo Orologio.
Ah, già. L’Orologio.
Proprio lui, la causa di non pochi problemi nella sua vita, ultimamente. A cominciare dal terribile mal di testa che ora lo attanaglia.
In effetti non tutti i salti nel tempo sono uguali:alcuni sono più lunghi, altri più brevi … in teoria, più si va indietro nel tempo peggio si sta, tuttavia questo dipende anche da altri fattori sia interni che esterni, come ad esempio condizioni psico-fisiche di chi compie il salto.
Si lascia cadere su una delle sedie intorno al tavolo al centro del soggiorno, sospirando appena.
C’è un certo non so che di sfacelo nell’aria, come un sapore acre e persistente che non riesce proprio ad abbandonare quelle quattro mura, arredate in perfetto stile moderno, il bianco che pare colare giù dalle pareti come acqua che scivola giù lungo il vetro di una finestra in un cupo pomeriggio di pioggia, neve al sole in un mondo impazzito.
Berrebbe volentieri qualcosa ma adesso è troppo stanco perfino per alzarsi da quella sedia, figurarsi per accendere i fornelli e scaldarsi un caffè o una tisana che sia.
O forse è solo troppo pigro per tutto ciò.
In fondo quella sorta di quiete apatica e senza rumore alcuno che pare essersi venuta a formare come cappa eternamente presente in quella casa non gli dispiace nemmeno così tanto:è bello ogni tanto riuscire a staccare la spina, anche solo per un paio di minuti, da quei rumori forti e contrastanti tra loro ai quali è ormai abituato e che sempre lo circondano.
Sospira pesantemente, Ethan, valuta che se proprio deve addormentarsi meglio allora che sia nel suo letto, tanto ormai stava letteralmente crollando sul tavolo del soggiorno. Così si tira in piedi, abbandonando la sedia e rendendosi conto di non aver mai trovato una di queste così comode, prima … devo essere messo proprio male, mormora tra sé, se sono finito a valutare la comodità di una sedia.
E quello non è che uno dei suoi problemi … in fondo, quanto può essere normale trovare un Orologio capace di viaggiare attraverso lo spazio ed il tempo?
Ben poco, ragiona in fretta Ethan, nonostante l’ormai generale intorpidimento della sua mente a causa della stanchezza.
Arriva in camera da letto con incedere lento ed affatto cadenzato, come si suol dire da vero e proprio elefante in una cristalleria, lasciandosi cadere sul materasso con tutto fuorché grazia.
Affonda il volto tra le piume morbide del cuscino e pensa che, ora come ora, rimarrebbe volentieri lì sul suo letto per il resto della sua vita.
Peccato che un ennesimo rumore improvviso arrivi ad interrompere i suoi piani di beato e meritato riposo.
Oh, rumore … a Ethan sembra che la sua vita non sia fatta d’altro che di questo …
Quando si è lasciato cadere sul letto infatti il suo cellulare deve essergli scivolato dalla tasca della giacca ed ora giace incustodito sul materasso.
Almeno finché non emette un trillo acuto.
Ethan si mette a sedere sul letto, cercando il telefono di ultima generazione tra le lenzuola color del mare.
Quando lo trova se lo avvicina subito al volto, esaminando attentamente il display dell’apparecchio, che pare essere ora illuminato da una vivace luce turchina.
In effetti quella luce segnala una notifica:gli è arrivato un messaggio ed Ethan non ha quasi bisogno di leggerlo per comprendere quale sia il testo contenuto in quest’ultimo.
Le prove della band. Merda.

» Parigi, Francia, 1789

Carcere de la Bastille, periferia orientale di Parigi, 14 luglio 1789. Già dalle prime luci dell’alba un certo fervore ha avvolto le grandi pietre squadrate di cui è costituito l’edificio.
Fino a quando quel fervore non è finito per divenire la scintilla di una rivoluzione.
I cittadini parigini sono affluiti lì da ogni angolo della città, attaccando la fortezza dove vengono detenuti i prigionieri di stato.
Le fiamme che hanno appiccato ormai da ore s’innalzano sempre più alte verso il cielo, con quel loro tetro colore vivo, così forte da credere che solo quel rosso potrebbe essere in grado di bruciare ogni cosa intorno a sé.
Da in cima ad una delle alte torri del carcere una figura estranea e totalmente distaccata da quegli eventi osserva con un certo cipiglio attento e curioso l’inizio di quella che poi, già lo sa, sarà la Rivoluzione francese.
A farle compagnia dalla sua postazione, le urla dei dannati prigionieri destinati alla morte in quell’inferno di calore e fuoco e l’odore acre, quasi dolciastro, delle fiamme e della cenere, di quello che è già stato bruciato e non esiste più ormai, dei morti che aumentano, uno dietro l’altro.
Margarita dondola le gambe nel vuoto, rimanendo seduta sulle pietre compatte della torre che ha scelto come punto d’osservazione.
Già, osservazione, perché in fondo è di questo che si tratta:l’attrazione, la curiosità di studiare le reazioni umane, in ogni loro minima sfaccettatura.
Per la verità, non si sente nemmeno così partecipe al dolore di quei morti. Non per niente, è solo che non è una persona particolarmente empatica.
Nonostante ciò osservare è sempre stata un’occupazione fonte d’interesse per lei, ecco perché in quel momento si trova lì:percepire quel miscuglio di emozioni che attanaglia ora quel folto gruppo di persone ha a dir poco dell’incredibile per lei.
Può infatti sentire nitidamente la rabbia, l’odio salire dallo sciame di cittadini che accorrono presso le carceri per uccidere quanti più uomini possibile ed il terrore e l’ansia che ora invadono i prigionieri, bloccati nelle segrete e nei vari piani dell’enorme edificio quale la Bastille è, le loro grida strazianti mentre il fuoco soffoca tutto, tutto quel dolore …
Rabbia, disperazione, un fiume in piena di emozioni e sensazioni impossibili da contrastare o da tenere a bada …
È così che comincia una rivoluzione.
Margarita sorride, sistemandosi con noncuranza una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio e sorride, come una bambina davanti ad una scoperta nuova ed ai suoi occhi interessantissima del mondo che ha appena visto con i suoi grandi occhi.
Il segreto sa nel sapersi stupire, si ricorda Margarita.
E forse lo stupore più grande che le sia mai capitato di provare è stato quando ha … trovato l’Orologio.
Credeva fosse solo un normalissimo cimelio, uno dei quei vecchi artefatti un po’ ampollosi che ormai si trovano solo in qualche bottega di artigianato o tra le bancarelle di qualche mercatino, con quel suo fascino un po’ retrò e la superficie dorata resa lucente dal tempo e dai ripetuti sfregamenti.
Forse l’elemento che maggiormente l’ha attratta di quel medaglione –dopo quella sorta di strana lucentezza s’intende, ovviamente- è il simbolo che è raffigurato sulla superficie metallica di esso, che avvolge completamente l’Orologio, proteggendo i suoi preziosi ingranaggi.
Sono due maschere, non due qualsiasi maschere, bensì il simbolo del teatro classico, la commedia con la maschera dall’espressione ilare e sorridente e la tragedia, con il volto contratto in una smorfia di dolore e disgusto.
Margarita non riesce a non pensare che quel simbolo sia piuttosto azzeccato.
Il mondo è diviso in molteplici sfumature, tuttavia la più grande risiede proprio in questa distinzione:bene o male, gioia o dolore.

» Il Cairo, Egitto, 1332 a. C.

Atemu passeggia tra le sabbie dorate e rossastre della sua terra d’origine, il terreno fino e morbido che si alza in piccoli sbuffi vaporosi, sollevato dai suoi passi, svariati granelli colorati che rimangono poggiati sulla punta dei suoi stivali scuri.
Attorno a lui può osservare i ferventi lavori di costruzione di imponenti monumenti, piramidi, sfingi, lo splendore della culla della società in tutta la sua regale magnificenza.
È questo, il potere dell’Orologio? Può riportarlo in quei luoghi e in quei tempi tanto lontani?
Avvicina le dita all’oggetto che tiene appeso al suo collo, tastandone la superficie fredda e liscissima.
Quando suo padre gliel’aveva consegnato aveva ritenuto con evidente erroneità che non fosse altro se non un altro pezzo da aggiungere alla sua collezione di strani e rarissimi orologi provenienti da tutto il mondo.
Eppure, già osservandolo meglio, si era reso conto di non trovarsi davanti ad un comunissimo orologio.
Ne aveva visti a bizzeffe nella sua vita e quello non sembrava assomigliare a nessun altro degli orologi presenti nella sua collezione. Non avrebbe neppure saputo dire il perché se mai glielo avessero chiesto:era strano, non aveva mai visto niente del genere.
Non sembrava più antico di altri quadranti che possedeva … eppure, pareva in grado di racchiudere in se stesso molta più storia rispetto a qualsiasi orologio esistente.
Inoltre aveva quel certo non so che … che lo rendeva estremamente affascinante, come se intorno ad esso ronzasse una sorta di strana energia magica sotto la forma di una nube evanescente appena visibile, a cominciare dalla raffigurazione che spiccava in rilievo sul metallo che racchiudeva il quadrante dell’orologio e tutti i suoi ingranaggi.
Era la rappresentazione della mappa del globo terrestre, tanto accurata d sembrare quasi inquietante.
Atemu vi passa sopra il pollice, come una sorta di leggera scarica di energia elettrica pare attraversare tutto il suo corpo.
Non aveva individuato subito la vera funzionalità dell’Orologio, gli era servito del tempo per comprendere quale fosse la sua vera utilità e pure allora, quando si era reso conto di quanto potere trattenesse ora tra le sue mani, era successo quasi per caso.
Stava osservando per l’ennesima volta quello strano oggetto che suo padre gli aveva consegnato, qualche tempo prima e, mentre passava un dito sopra il piccolo pulsante in cima all’orologio, gli era capitato inavvertitamente di premerlo, ritrovandosi così a vagare nel tempo e nello spazio fino a giungere in epoche remote e luoghi lontani rispetto alla quotidianità a cui era abituato.
Affascinato da quei meccanismi tanto da volerne imparare tutti i segreti cominciò a viaggiare spesso a ritroso nel tempo, tornando per quanto più gli fosse possibile proprio lì, nell’antico Egitto, dove avvertiva le proprie radici più forti che mai.
Atemu non riesce infatti ad immaginare raffigurazione più azzeccata sul proprio Orologio:il mondo, quel mondo tra il quale è in parte conteso, le sue radici lì in Egitto, così lontane dall’Inghilterra, luogo in cui ora vive.
Il giovane avanza tra lo splendore dell’antico Egitto, mentre un’altra grossa pietra viene inserita alla base di una piramide.
Simbolicamente, riflette tra sé Atemu, quelle pietre gettano la base anche della nostra odierna società.

» New York, Stati Uniti d’America, 2120

Jude si risveglia pacatamente tra le lenzuola di quel letto che, da un periodo a quella parte, è ormai solito considerare il suo letto.
Ancora intorpidito dal sonno, allunga una mano tra le coperte purpuree, tastando il materasso accanto a sé.
Sorprendentemente, lo trova vuoto e, soprattutto, freddo.
Balza repentinamente a sedere, guardandosi attorno con aria piuttosto spaesata.
Sa bene che l’uomo con cui, ormai già da qualche tempo, condivide il letto non è solito rimanere tra quelle coperte per più del tempo necessario di un buon riposo.
Jude finisce per darsi dello stupido quando si rende conto di essere quasi dispiaciuto che non sia lì al suo fianco … a volte è successo.
Di svegliarsi e di ritrovarlo già sveglio lì nel letto con lui. Gli è capitato.
Per quanto possa trovare confortante l’idea di ritrovare quella presenza accanto a sé al risveglio in quel mondo arido e deserto non può che darsi dello stupido se si permette di sperare che pure per Ray valga la stessa cosa.
In fondo sono due individui differenti, con diverse necessità. Lo sono sempre stati …
… No.
No, questo non è vero:non sono sempre stati due individui diversi.
C’è stato un tempo, infatti, in cui le loro menti lavoravano all’unisono, i loro pensieri e le loro decisioni viaggiavano nella stessa direzione, come se a formularli fosse stata una sola persona.
Troppo tardi, tuttavia, era stato comprensibile ad entrambi che non era così.
Jude sgattaiola fuori dalla camera da letto, i piedi nudi che percorrono il pavimento freddo mentre tutto intorno a lui continua ad esserci quella persistente penombra.
È questa forse la cosa che meno riesce a mandar giù:in quel luogo può comunque trovare delle attività da fare per dilettarsi … tuttavia, anche se mangia, anche se dorme, anche se respira ormai non sa mai quanto tempo sia trascorso mentre faceva quell’azione.
È … destabilizzante, senza dubbio.
Camminando in punta di piedi arriva fino in cucina, dove nonostante sospettasse già di trovare Ray rimane per qualche momento sorpreso e spiazzato dalla presenza dell’alta figura dell’uomo, seduto su uno degli sgabelli, intento a fissare l’oscurità che avvolge tetramente i palazzi davanti ai loro occhi.
«Buongiorno?»domanda con tono beffardo l’uomo mentre continua a rimanere seduto sul proprio sgabello, agitando appena una mano nell’aria.
«Stavo per chiedertelo io»replica Jude, affatto scoraggiato dall’inflessione leggermente impertinente dell’uomo , quindi prende posto a sua volta su uno degli sgabelli presenti nella cucina.
«Ma immagino che, come al solito, mi avresti risposto dicendomi che qui è impossibile calcolare il tempo, giusto?»riprende poco dopo, certo di averci azzeccato.
Ray scrolla le spalle, quasi con noncuranza:«Può darsi, chi può dirlo …»
Jude prende un biscotto dalla scatola che Ray ha aperto sul tavolo, masticandolo lentamente. In quel luogo estraneo allo scorrere del tempo gli oggetti non invecchiano, tanto che risultano gradevoli al palato perfino biscotti vecchi di … meglio non pensarci, valuta in fretta il ragazzo.
Dopotutto è pure comprensibile:quella è l’unica colazione che hanno a disposizione, meglio non sprecarla.
Entrambi rimangono in silenzio per un tempo tanto lungo che pare infinito. Eppure di cose da dirsi ce ne sarebbero, e tante oltretutto.
Solo che forse quel silenzio è molto più conforme al loro, al loro modo di pensare, ai loro spiriti affini.
Ray sospira pesantemente e prende coraggio –sempre se coraggio possa essere definito- mentre spiega:«Non so se te lo ricordi ma stanotte … hai avuto un incubo. Quando ti sei risvegliato, tu … hai detto una cosa …».
Jude si mette subito sull’attenti, circospetto. Sa bene infatti quanto possa essere importante qualsiasi dettaglio in una situazione come la loro, perfino quelli sciocchi come i suoi incubi notturni, che in una qualsiasi altra occasione avrebbe ben volentieri ignorato, considerandoli futili ed insensati, privi di significato.
«E sentiamo, cosa avrei detto?»domanda, il tono che tradisce una certa indifferenza, sebbene a questo punto della conversazione sia piuttosto interessato al loro discorso.
«Che vuoi tornare a casa»ammette Ray, quasi freddamente.
Per un momento Jude indugia, la bocca socchiusa e le parole bloccate a metà strada nella gola, tuttavia l’attimo subito successivo cerca di dissimulare una sicurezza che non ha nell’affermare:«E allora? Mi sembrerebbe anche comprensibile, non trovi? Sono in una dimensione che non è la mia, non posso mica rimanerci in eterno!».
D’un tratto una scintilla d’ira attraversa i piccoli occhi neri di Ray, tuttavia il cambiamento è così breve, giacché con la stessa rapidità con cui è apparso scompare nuovamente, lasciando il posto alla consueta espressione imperturbabile sul volto dell’uomo, che Jude effettivamente non ha nemmeno il tempo materiale per rendersene conto.
«Ah, sì?»domanda l’uomo, visibilmente irritato, lo sguardo basso«e così ti dà così fastidio essere in mia compagnia, non è vero?».
Jude resta nuovamente a bocca aperta. Non era certo quello che intendeva, dannazione, tuttavia come potrebbe ora spiegarlo a Ray senza essere nuovamente frainteso da lui?
«Tu non capisci …»fa per sbottare il ragazzo, tuttavia è nuovamente interrotto dalla voce profonda dell’uomo.
«Beh, ovvio che non capisco»ribatte infatti, gli occhi velati da astio che nemmeno tenta di celare«dopotutto io non capisco mai , non è vero, Jude?».
«I-io …»il ragazzo cerca di ribattere, tuttavia sente d’improvviso i suoi occhi velarsi di lacrime.
Perché riesce sempre ad essere così vulnerabile al momento sbagliato?
Balza in piedi, assestando un forte colpo contro il piano della cucina. Ora è così tremendamente infuriato, con Ray, con se stesso, con il resto del mondo che ragionare lucidamente gli suona tanto come un’utopia.
«Io ti odio, Ray!»scoppia, fuggendosene poi via dalla cucina, correndo a rifugiarsi nella camera da letto, chiudendo attentamente la porta a chiave per poi scivolare seduto a terra lungo di essa, gli occhi lucidi.
Perché ha detto una cosa del genere, se non ci crede minimamente?



* Aria’s corner *

I-io … io non volevo scrivere quella brutta cosa, lo giuro …
Buhuhah, i miei dolci tesssoriii--
Okay, la pianto.
Anzitutto mi scuso se non ho potuto pubblicare ieri ma in questi giorni non sto affatto bene (dannata influenza) e pertanto non garantisco poi molto sul contenuto di questo capitolo.
{soprattutto sull’ultima parte. Che immane tristezza, signori}
In compenso assistiamo al ritorno in scena di Ethan (*nota di servizio per la mia stalker personale aka _Myosotis:non avevo inserito Ethan nel chap precedente non perché non avessi recensito ma piuttosto perché avevo preferito utilizzare il capitolo successivo per spiegare un po’ a tutti la situazione in cui ci troviamo, perciò tranqui dear~*) ed alla presentazione di ben due nuovi personaggi!
In questo capitolo infatti conosciamo Margarita Rimšaitė, l’oc della mia cara chion e Atemu McKinley, l’oc della mia altrettanto cara black dalia.
Ho preso una decisione importante riguardo agli oc ma per ora non vi dico niente perché sono sadica~
Ammetto di averci messo un po’ per la stesura di questo capitolo, vuoi per l’influenza, vuoi per l’ispirazione che viene e che va, vuoi per lo stalkeraggio ma alla fine … yo, ce l’ho fatta!
In realtà sono in quella fase in cui la vita mi fa schifo ma non ho nessuno a cui dirlo, perciò mi taccio.
Anche stavolta non ho molto da dire (non ho mai molto da dire) perciò credo la chiuderò qui per non tediarvi oltre.
Ci si sente in recensione~

A presto (spero)
Aria~

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Capitolo 4
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«Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre decidiamo che cosa farne»

 Romano Battaglia –

» Londra, Regno Unito, 2059



L’acqua scivola lentamente sul corpo di Amelia, donandole quella sensazione di piacevole beneficio che la appaga infinitamente.
La ragazza chiude gli occhi e lascia che i vapori della doccia le portino via il sapone con cui ha ricoperto il suo corpo.
Sospira: aveva proprio ragione, una bella doccia era proprio quello che ci voleva per svuotare completamente la mente.
Chiude piano l’acqua e resta per un momento, forse fin troppo lungo, a fissare le piastrelle levigate e dal colore avana opaco, che rivestono le pareti del bagno e della doccia stessa.
Inspira, espira. Inspira, espira.
A volte Amelia deve ricordarsi come si respira, per non lasciarsi sprofondare del tutto nelle sue paure.
Alla fine espira per un’ultima volta e si convince ad aprire la doccia e ad uscire da questa, facendo scorrere di lato lo sportello e recuperando dal gancio metallico lì a lato un grosso telo, con cui avvolge il proprio corpo.
Arriva davanti al lavabo e scruta la sua immagine riflessa nel lungo specchio disposto orizzontalmente sulla parete davanti a lei.
Si passa una mano tra i corti e scarmigliati capelli corvini, cercando di donare loro una certa vitalità; con l’altro palmo invece continua a tenere ben fermo l’asciugamano all’altezza del seno, dove l’ha fermato.
Arresta la mano, smettendo di frizionarsi la cute ed osservandosi, forse per la prima volta da quando si è posta davanti a quello specchio.
Gli occhi blu oltremare paiono risplendere di una luce fredda ed incantevole, come due laghi di qualche regione nordica, immensi e profondissimi.
Amelia poggia la mano sulla pelle candida del volto, proprio sotto la palpebra inferiore dell’occhio, tastandola quasi come incuriosita e trovandola morbida, liscia, elastica.
Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, in quelli di Amelia si possono leggere un’infinità di informazioni, tutti quei piccoli spezzoni di vita che trascorre e che, spesso e volentieri, non le capita di rivelare a nessuno.
Chissà cosa leggerebbe qualcuno nei miei occhi, se solo mi osservasse davvero, si chiede Amelia quasi con aria di rammarico.
Poco dopo si sente sopraffare da un’ondata di malinconia del tutto improvvisa, mentre le torna in mente il volto dolce e rassicurante di sua madre, quando le sorrideva con quella sua infinita tenerezza.
Amelia era ancora una bambina in fasce, eppure le sembra di ricordare quei momenti con una nitidezza che ha dell’incredibile.
Fin da quando era piccola chiunque, parenti o amici che fossero, non aveva potuto far altro che mettere in evidenza la spiccata somiglianza tra lei e sua madre, dalla quale aveva ereditato la carnagione lattea, i capelli neri e quegli occhi scintillanti.
Sua madre … quanto le manca …
Amelia scuote la testa con decisione, come se quel gesto possa dissipare i suoi mille pensieri.
Percorre la morbida moquette beige con i piedi scalzi e l’asciugamano ancora ben stretto intorno alla sua esile figura fino alla propria camera da letto.
S’infila un vecchio maglione di lana verde pastello e dei jeans scuri ben attillati, mentre lascia i piedi vagare liberi nei calzini a fantasia.
Giusto in tempo:proprio in quel momento infatti sente il bollitore fischiare.
La ragazza si precipita in cucina e spegne repentinamente il fornello, facendo poi ben attenzione mentre versa l’acqua bollente in una tazza di lucida ceramica bianca.
Mischia con calma, sedendosi direttamente sulla penisola della cucina moderna, mentre lascia che l’infuso alla rosa canina faccia l’effetto desiderato.
Respira a fondo, constatando che l’odore delicato ed al tempo stesso pungente della tisana si sta già diffondendo soffusamente nel suo appartamento.
Amelia si passa una mano tra i capelli, sistemandosi una piccola ciocca dietro all’orecchio, mentre prende a bere l’infuso.
È delizioso.
Il cielo di Londra è bigio e fumoso, mentre piccole gocce di pioggia cristallina continuano ad infrangersi piano contro la finestra della cucina.
La solita Londra, la solita pioggia …
… o forse no.
Solo in quel momento infatti la giovane pare accorgersi di un bagliore azzurrino, proveniente dal soggiorno lì accanto.
Amelia balza giù dal tavolo, preoccupata, riponendo la tazza sulla superficie lignea ed avvicinandosi guardinga alla soglia della cucina.
Da lì sbircia con cautela oltre essa, restando non poco sorpresa quando si rende conto di quale sia la fonte di quello strano luccichio.
Prima di andare a fare la doccia infatti aveva riposto l’Orologio sul divano del soggiorno ed ora il medaglione ha preso a scintillare di quell’intensa luce bluastra.




» Chicago, Stati Uniti d’America, 2059



Ethan attraversa la città correndo a perdifiato, sebbene tra i marciapiedi affollatissimi sia praticamente costretto a prendere a spallate la gente pur di proseguire.
“Perché capitano tutte a me? ” brontola il ragazzo dentro di sé.
Quando finalmente arriva allo studio di registrazione, quasi non gli par vero di avercela fatta, così si lascia sfuggire un piccolo sospiro di sollievo.
Giusto il tempo di un paio di profonde boccate d’aria ed il ragazzo si è nuovamente lanciato verso le porte di vetro del palazzo, che spinge con decisione.
Quando attraversa in fretta e furia la reception della casa discografica parecchie paia di occhi si voltano nella sua direzione, ad osservare quell’uragano di vestiti dai colori accesi e grintosi e borchie che non è altro, tuttavia nessuno osa dire qualsiasi cosa per fermarlo.
Tutti conoscono Ethan là dentro e tutti lo rispettano … forse c’è addirittura qualcuno che lo teme.
“ Che immane mucchio di sciocchezze” sentenzia lapidario il giovane.
Si ferma davanti ad una fila di ascensori e ne prenota uno:sebbene l’idea di rimanere in attesa per del tempo decisamente considerevole non lo alletti più di tanto, di certo preferisce perdere quei due o tre minuti piuttosto che farsi cento e più piani di scale a piedi.
Anche la fretta ha i suoi limiti, dopotutto.
L’ascensore arriva con un monotono trillare ad annunciarlo ed Ethan ci salta letteralmente dentro, non appena le porte si sono sufficientemente schiuse da permettere il passaggio della sua figura.
Prenota il suo piano premendo l’apposito pulsante e l’ascensore si chiude senza che nessun altro salga con lui, come volevasi dimostrare.
L’ascesa verso i piani alti del palazzo della sua etichetta discografica è un lento incedere accompagnato da un motivetto sconosciuto ed anche piuttosto irritante, di cui Ethan farebbe volentieri a meno.
Tuttavia si trattiene dal procurare un danno piuttosto considerevole all’impianto audio di quel luogo, ricordandosi di quanti danni d’immagine si sia già procurato nel corso del tempo, a cominciare dalla sua vita alquanto mondana per arrivare a … quelle notizie.
È ovvio che è a causa di quello che nessuno è salito con lui sull’ascensore.
Per un momento l’espressione sfrontata scompare dal volto di Ethan, rimpiazzata da una tesa, contrita.
Quasi non si accorge che l’ascensore sta per arrivare al suo piano.
“Davvero è colpa mia?”
L’ascensore trilla nuovamente, segno che finalmente ha raggiunto il piano dello studio di registrazione. Ethan pare risvegliarsi da quella sorta di sonno catatonico in cui era finito e si risveglia, tornando in sé ed uscendo dalle porte dell’ascensore giusto il momento prima che si richiudano nuovamente.
Non ha alcuna intenzione di farsi riportare giù.
Si decide a riprendere la sua affannosa avanzata e si slancia lungo il corridoio, alla ricerca della stanza che sta cercando.
Evita parecchi impiegati, segretarie in eleganti tailleur in gonna e tacchi a spillo che piroettano su se stesse pur di non cadere a causa del frettoloso incedere del ragazzo, addirittura qualche uomo con un grosso faldone di documenti in mano gli lancia dietro qualche improperio … Eppure lui non se ne cura.
Già … Deve solo pensare alla musica.
È questo l’importante, lui e la sua musica, basta. Il resto non conta.
Il ragazzo non si ferma fino a quando non compare davanti a lui una porta, su cui campeggia una targhetta metallica con sopra l’incisione “Sala prove”.
Ethan torna a sorridere, soddisfatto e sfrontato, mentre abbassa la maniglia e lascia che la porta si apra con studiata e teatrale lentezza.



» Tokyo, Giappone, 2059




Shiba continua a camminare lungo le strade della città, affrettandosi verso casa sua, il cappuccio rosso della felpa tirato su a coprire la zazzera di capelli biondi.
Il ragazzo continua a tenere gli occhi bassi sul videogame che tiene tra le mani, concentratissimo nel suo intento di vincere anche quella partita.
Salta. Salta. Spara. Schiva.
Le persone lungo i marciapiedi devono compiere una sorta di slalom tutt’intorno al ragazzo per evitare di andare a sbattergli contro, tanto il giovane è concentrato sul videogame da non accorgersi del mondo vero che lo circonda.
Così, in un certo senso, il videogioco si ambienta anche nella vita reale.
Ancora una raffica di colpi di mitra … boom, vinta anche quella partita!
Shiba alza lo sguardo dalla console portatile, sentendosi estremamente vittorioso; dondola appena la testa, gli occhi che si illuminano di un luccichio frizzante mentre ripone le “armi” nella tracolla di scuola.
Si guarda intorno con aria leggermente confusa e stralunata: ci impiega qualche secondo a realizzare che quelli che lo circondano sono esseri umani in carne ed ossa, non altri personaggi di un nuovo gioco, da evitare o uccidere.
Avverte un lieve capogiro … E si dice che è strano, dopotutto ormai sono anni che trascorre il suo tempo passando da una console all’altra e non gli era mai capitato prima di avere dei simili malori …
… Poi però fa mente locale e si rende conto che deve trattarsi ancora di quello strano oggetto.
Già, probabilmente si trascina ancora dietro i postumi della botta in testa che ha preso giorni prima.
Stupido oggetto.
Riesce a sentirlo anche adesso, sotto strati e strati di vestiti che ricoprono il suo corpo: la felpa, l’uniforme scolastica … E poi c’è quel coso assurdo, che gli rimbalza sul petto pallido come un secondo cuore.
Un cuore … A Shiba il paragone pare ben poco credibile.
L’oggetto che penzola appeso al suo collo di un cuore non ha quasi niente, forse solo quella cadenza ritmica e ben precisa, che riprende, con una precisione che ha dell’incredibile, i suoi passi svelti sull’asfalto umido di Tokyo.
Per il resto è totalmente dissimile dal muscolo cardiaco: entrambi hanno un peso, tuttavia quello che ora Shiba avverte più distintamente contro la sua pelle ha una forma circolare estremamente regolare ed è di un metallo così freddo...
Non può fare a meno di pensare a quanto sia inquietante.
È comparso letteralmente dal nulla e gli ha procurato quel bernoccolo in testa, piovendogli sul capo dal cielo.
Già.
Ha cercato di liberarsene, tuttavia, nonostante i suoi innumerevoli tentativi, quel medaglione continua ad apparirgli accanto, come se volesse prendersi beffa di lui.
“Che cosa ridicola” valuta piuttosto in fretta Shiba.
Il ragazzo infila piano le dita sotto i suoi vestiti, frugando finché non individua con i polpastrelli, levigati dagli anni di pratica con i vari videogiochi, il medaglione che rimbalza quieto contro la sua pelle.
Shiba estrae l’Orologio, perdendosi per qualche attimo ad osservarlo, pieno d’interesse.
Continua a portare verso quell’oggetto una sorta di timore reverenziale, sebbene ormai una certa rassegnazione si sia impossessata di lui: ecco perché ha cominciato a tenerlo sempre con sé.
Non può di certo negare che quello strambo aggeggio possieda in sé un fascino affatto trascurabile, a cominciare dalla superficie dorata fino al simbolo scalfito sul suo dorso.
Degli ingranaggi.
Per un momento Shiba non può fare a meno di valutare quanto quella coincidenza sia quasi inverosimile: lui, tanto amante della tecnologia, che si ritrova d’improvviso in possesso di uno strumento che raffigura delle ruote dentate che, all’inizio dei recenti sviluppi delle scienze tecniche, erano proprio alla base di queste ultime.
Il ragazzo sorride con un certo compiacimento: non è poi così certo che si tratti solo di una coincidenza.



» New York, Stati Uniti d’America, 2120



“Stupido.
Sei davvero uno stupido, Jude Sharp.”
Probabilmente in questo momento prenderebbe volentieri a testate la parete davanti a sé.
O quella accanto a sé.
Oppure una di quelle intorno a sé.
Ah, gli svantaggi di essersi rinchiusi di propria volontà tra quelle quattro mura.
Per la verità sarebbero tre mura, l’ultima è completamente occupata dalla vetrata che offre un incantevole scorcio sulla città perennemente buia di New York.
Sì, insomma … quella New York.
Perché deve essere sempre tutto così complicato?
Non che rimanere rannicchiati in quella posizione, stringendo forte le ginocchia al petto con le braccia ed affondando il volto in quella sorta di strano involucro, sia una soluzione ai suoi problemi, ovviamente.
Però, in un certo qual senso, è perfino rassicurante.
Starsene lì, rintanati, lontano da tutto e da tutti …
Poi però si ricorda che non ci sono né un tuttodei tutti da cui scappare, in quella realtà distorta.
Ed è allora che nasce, nel silenzio di quella camera, una vaga sensazione di paura che non fa altro che salire, piano –e per questo è ancor più terrificante–, in un crescendo che aumenta sempre di più, fino a diventare assolutamente terrorizzante ed ad avvolgere ogni cosa, con il suo senso di opprimente mestizia.
Quel genere di paura che ti fa venir voglia di piangere gridando, mentre metti a soqquadro qualsiasi cosa ti capiti sottomano.
Peccato non poterlo fare, perché si è stati educati fin da piccoli a reprimere le proprie emozioni, a non lasciarle venire a galla.
È per questo che adesso Jude non può far altro che rimanere lì, rannicchiato su se stesso, mentre sente il cuore continuare a martellargli fortissimo ed impietoso nel petto.
“Stupido. Stupido. Stupido. Stupido. Stupido.”
Se lo ripete nella testa come una cantilena, quelle lacrime cristalline che non hanno desistito e sono ancora lì, a luccicare agli angoli delle sue cornee, come a ricordare quanto sono pericolose, che potrebbero scendere da un momento all’altro lungo il suo volto.
È così concentrato a valutare quanto sia pietoso lo stato in cui si trova ora, che nemmeno si accorge di un altro peso che comincia a gravare dall’altro lato della porta.
O forse lo sa fin troppo bene che adesso, in corrispondenza della sua schiena, c’è quella di Ray; a distanziarlo da lui solo lo strato ligneo della porta,
Riesce quasi a vederlo in maniera distinta nella sua mente: una gamba distesa, l’altra piegata, le braccia distese orizzontalmente e le mani che penzolano mollemente oltre il ginocchio.
Nella sua testa combatte, indeciso se urlargli di andarsene o chiedergli di rimanere con lui, sebbene sia perfettamente cosciente che la seconda sia ciò che lui desidera, la prima quello che entrambi sono tenuti a recitare da anni, secondo quel loro copione non scritto che si ostinano a portare avanti.
Così finisce prevedibilmente per rimanere in silenzio, in attesa forse di un qualche miracolo.
Sente l’uomo dall’altra parte della porta schiarirsi la voce e si rimprovera per tante cose.
Per essere così vile, per esempio, tanto da aver lasciato, con il suo silenzio, la parola a lui, che ora come ora colpe non ne ha.
Può essersi macchiato dei peggiori scempi in passato, questo è vero senza dubbio … Tuttavia ormai ha davvero così importanza?
Sono finiti in un mondo che non è possibile definire tale e lottano insieme per la sopravvivenza, non gli pare proprio il momento di interrogarsi su fatti che risalgono a quattro anni prima.
O forse questo sarebbe proprio il momento giusto per parlare, per chiarirsi una volta per tutte, finalmente.
Eppure ci sono ancora così tante questioni in sospeso che preoccuparsi del passato sembra qualcosa di così irreale… Oppure la base dei loro mille discorsi.
Ad ogni modo, chi può mai dirlo, ormai?
È questa una delle cose che Jude odia di più di quella dimensione: aver perso tutte le sue certezze ed essere così in balìa degli eventi in divenire.
Non che fosse così legato a quelle cose, solo che non avere delle basi da cui partire … E’ destabilizzante, sul serio.
Vorrebbe solo ritrovare un equilibrio …
“Ti prego, Ray, tu che puoi, aiutami a ritrovare il mio equilibrio …”
«Jude»
Quando l’uomo inizia a parlare il ragazzo è colto alla sprovvista e per poco non si prende un coccolone dallo spavento.
Il suo nome, pronunciato così semplicemente dalla voce profonda e secca dell’uomo, pare fluire dalle sue labbra in maniera melodiosa, senza tuttavia troppi fronzoli.
“Oh, Ray …”
«Perdonami per quello che è successo poco fa»
“Non hai nulla da farti perdonare.”
«So che sei spaventato»
“Lo siamo entrambi.”
«Il fatto è che vorrei aiutarti ad essere più tranquillo, invece non faccio che farti stare peggio …»
“Non dire così.
Non devi fingere di star bene con me, lo sai. Ti conosco meglio di qualsiasi altra persona al mondo, ho avuto molti anni per studiarti, ormai so che sei proprio come me, che soffri come me, che ci stai male come me …
È umano, Ray, e va bene così. Davvero.”
Jude vorrebbe riuscire a dire veramente quelle cose all’uomo oltre la porta, non solo pensarle dentro la sua testa, invece non riesce a far altro che rimanersene lì, in silenzio.
«È per questo che ho preso una decisione»
“Aspetta …”
«Ti aiuterò concretamente a tornare a casa»
“Come?”
Per poco il ragazzo non finisce per strozzarsi con il suo stesso respiro, muovendosi inquieto sul posto per la prima volta da quando si è rintanato in quella stanza.
«Jude?»domanda preoccupato Ray, ignaro della fonte di quel trambusto.
Se solo non ci fosse quella porta a dividerli …
Per questo non può che sorprendersi quando, poco dopo, vede proprio quella porta aprirsi davanti ai suoi occhi, a dir poco increduli.
Ne emerge la figura un po’ tremante del ragazzino, che pare riuscire a tenersi in piedi per miracolo, tenendosi stretto alla porta, gli occhi ancora un po’ umidi di lacrime.
«Cosa … cosa intendi?»




* Angolo autrice *

D’accordo, sono in ritardo.
Ora ne parliamo.
Anzitutto … buon anno a tutti!
Spero che questo nuovo anno possa essere per tutti voi simbolo di nuove fantastiche esperienze ed auguro a tutti voi che state leggendo un sacco di cose meravigliose~
Io in teoria non potrei lamentarmi, quest’anno diventerò maggiorenne (sempre che io arrivi viva a giugno, intendiamoci) e poi mi attendono dei viaggi fantastici –ed io adoro viaggiare, tuttavia credo che questo lo si possa capire comunque molto bene anche da questa ff.
A parte questo … il ritardo. Lo so, lo so.
È stato un brutto periodo, la voglia di scrivere se n’è andata di nuovo ed ho cominciato a dubitare delle mie capacità.
Non è stata affatto una cosa gradevole, diciamo così.
Alla fine però mi sono convinta ad andare avanti:anzitutto perché lo devo a voi, e poi perché un po’ è anche per me stessa.
Haters gonna hate. È così che gira il mondo.
Per carità, senza rancore per nessuno, eh~
Comunque, ringrazio Sissy per aver preso in betaggio questa storia –mentre sto scrivendo quest’angolino non le ho ancora inviato niente, in compenso però le ho comunicato di aver concluso il capitolo, quindi in un certo senso va bene lo stesso, non?~ -, sebbene di recente sia piena di cose da fare. Non ti ringrazierò mai abbastanza per tutto quello che stai facendo per me.
In questo capitolo abbiamo conosciuto il penultimo oc, Shiba Orubo di _AliHeichou_.
Penultimo? WTF?
Eh già, signori, nel prossimo capitolo apparirà l’ultimo oc che ho scelto;approfittando di tale fatto ho deciso di pubblicare qui di seguito la lista dei personaggi selezionati ed i loro rispettivi simboli.


Amelia Greene ~ corvo
Ethan Bailey ~ chiave di basso
Ziva Shapira ~ pergamena
Margarita Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Atemu McKinley ~ mondo
Shiba Orubo ~ ingranaggi
Andrea Cervini ~ scheggia di vetro


Aww, ma che belli che siamo!~
Avete un personaggio preferito? Devo dire che a me piacciono tutti davvero troppo –altrimenti non li avrei scelti, ah ah– però sono curiosa di sentire i vostri pareri in merito.
Mi dispiace per chi non è stato scelto:purtroppo non tutti i personaggi erano congeniali alla trama ma … ehi, sarà per un’altra volta~
Parlando di questo capitolo, ammetto di essermi accorta solo dopo aver finito di scriverlo che, escluso il pezzo ambientato nella dimensione del futuro, tutte e tre le altre narrazioni sono ambientate nell’epoca alla quale i ragazzi appartengono, vale a dire il 2059.
Vorrei dirvi che nel prossimo capitolo ci sarà qualche salto temporale … ma dubito che potrà essere così. È già un capitolo in cui succederanno un sacco di cose (per esempio devo presentare l’ultima oc e … gnn … io non so come dirvelo ma … succederanno delle cose e … okay, non vi dico niente. Lo sapete che sono una brutta persona, per cui … no. No, non vi dico niente) perciò … temo che vi toccherà aspettare ancora per un po’~
Tornando a questo capitolo beh, che dire … Amelia si fa sommergere dai suoi complessi mentali (a proposito, senza che vi scervelliate più di tanto vi dico già da subito che il bagliore del suo Orologio è legato all’ultimo personaggio che presenterò nel prossimo capitolo, vale a dire quello di Andrea), Ethan corre come un forsennato, Shiba rischia di andare a sbattere contro un palo e Jude si deprime … insomma, tutto nella norma, no?
Ah, già, avete notato che, seppur lievemente, ho modificato il banner? Vi piace? Mi ero dimenticata di chiedervelo, lo so.
Ringrazio chiunque sia arrivato fino a questo punto e … beh … io me ne andrei.

A presto, spero
Aria~

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Capitolo 5
*** Madness ***


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«Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre decidiamo che cosa farne»

 Romano Battaglia –


» Milano, Italia, 2059


Le guglie gotiche del Duomo si stagliano alte, in tutto il loro bianco, marmoreo splendore, nel grigiore mattutino del cielo milanese.
Sono così visibili che da tutte le finestre delle abitazioni circostanti è pressoché impossibile avere un panorama differente.
In effetti un lieve scorcio della cattedrale lo si riesce ad avere anche da dietro le tende di organza azzurrina della camera di Andrea.
Eppure lei, apparentemente, è concentrata su tutt’altro per accorgersi di quello spettacolo, oggi.
Seduta sul letto a gambe incrociate, il suo sguardo si muove continuamente dal portatile aperto davanti ai suoi occhi all’oggetto che ha adagiato tra le lenzuola fresche di bucato.
Nella stanza aleggia un’armonia di profumi a dir poco deliziosi e forse è anche questo che concilia così tanto la mente, aiutandola a concentrarsi naturalmente anche sulle questioni più complesse.
Carta nuova, nei fogli poggiati sopra la scrivania di legno stagionato, lavanda, nei sacchetti con cui sua madre le riempiva i cassetti e l’armadio, per evitare che prendessero uno sgradevole odore di stantio, infine tè alla vaniglia, un paio di dita di quella bevanda ancora riempiono la tazza di ceramica bianca, residui di quanto ne aveva bevuto la sera precedente, prima di andare a dormire.
“Dormire per modo di dire” si maledice la giovane tra sé.
Mordicchia distrattamente l’impugnatura della matita che tiene tra le dita, mentre i suoi occhi stanchi esaminano centinaia di linee di testo.
Prende un appunto, la matita che traccia precisa i contorni delle lettere mentre segna un paio d’annotazioni su un taccuino, poggiato anche questo a poca distanza da lei.
Sospira stancamente, la tentazione di gettarsi all’indietro sul letto e crollare addormentata tra i morbidi cuscini è forte, troppo forte …
Però non può arrendersi adesso, si ricorda ancora una volta; non può vanificare gli sforzi di una notte passata in bianco così, crollare adesso, dopo tutti quegli sforzi non è contemplabile …
Scuote la testa. No no, non può proprio.
Prende il taccuino in mano, cercando di dare un senso logico a quello che ha appreso, in tutti quegli svariati tentativi di ricerca.
Da quello che ha scoperto dovrebbe trovarsi nel pieno dell’Illuminismo.
Già, il Settecento, “il secolo dei lumi”.
Questo, tuttavia, non le giustifica il motivo della presenza di un oggetto del genere in quell’epoca.
Era anche il principio del Romanticismo e questo fa pensare ad Andrea che potrebbe trattarsi di un regalo, fatto da qualche galantuomo alla sua dama.
Eppure, nemmeno in questo caso, riuscirebbe a spiegarsi tutti i misteri che aleggiano intorno a quell’oggetto.
Per esempio … perché proprio un regalo del genere?
Andrea lo afferra cautamente tra le dita, quasi come se portasse verso di esso una sorta di timore reverenziale, dunque lo osserva, ancora una volta.
Da quando l’ha ottenuto non le pare di far altro.
Sfiora con ricercata attenzione la superficie levigata e lucida: dita esperte devono esserci passate sopra svariate volte, probabilmente alla ricerca di qualcosa.
La vera domanda è: cos’è che cercavano?
Si fa scorrere la catena non troppo spessa, dal quale pende il medaglione, attorno al collo, lasciandola ricadere giù.
Recupera il ciondolo e se lo porta davanti agli occhi.
Le sue grandi iridi nere percorrono senza sosta l’ottone levigato, che ha ormai preso una sfumatura ramata.
La parte frontale è occupata quasi interamente dal quadrante dell’orologio che, nonostante l’inevitabile scorrere degli anni, ha comunque mantenuto il suo colore biancastro; sopra di esso si staglia una sorta di gabbia metallica, che riveste l’orologio e lo protegge da eventuali urti e consente al tempo stesso di intravedere l’orario sottostante.
Il retro, invece, è ancora una volta dominato dal metallo, in questo caso lavorato al fine di lasciare un’incisione su di esso.
Andrea ci passa il pollice con voluta calma.
È una scheggia di vetro.
Una semplice, comunissima, scheggia di vetro.
Non sembrerebbe niente di speciale, considerando anche le sue modeste dimensioni.
Eppure, Andrea non si lascia mai ingannare tanto facilmente dai dettagli.
Un momento.
Dettagli.
Una perfezionista, abituata a notare perfino il minimo particolare, perfino quelli appartenenti al mondo dell’infinitesimale, del minuscolo, del piccolo …
… come una scheggia di vetro.
La trasparenza, la lucidità … possibile che non ci abbia pensato prima?
Quell’orologio sembra quasi avere un legame con lei.
Però non è possibile: stando alle sue ricerche quell’ottone, quel determinato tipo di lavorazione del ferro risale a circa trecento anni prima.
Allora come diamine è possibile che lei e quell’oggetto siano legati?
Non lo sa, come non sa perché le sia capitato di poter viaggiare nel tempo da quando ne è entrata in possesso.
Come non sa perché adesso abbia preso a scintillare.
Stavolta ci casca eccome all’indietro sul letto, trattenendosi appena dallo strepitare solo perché l’ultimo briciolo di sanità mentale che le è rimasto le ricorda che si trova in un condominio abitato anche da altre persone e che è ancora mattina presto, molto probabilmente la maggior parte di loro starà ancora dormendo.
Però sa perfettamente che un oggetto di fine Settecento non dovrebbe emettere quella lucina azzurra.
Ma che diavolo …?
La luce non fa che aumentare sempre di più e Andrea è tentata svariate volte di sfilarsi l’Orologio dal collo e di nasconderlo sotto un cuscino, in attesa che smetta di emanare quella luce blu, tuttavia è come se quei bagliori l’attirassero, catalizzassero il suo sguardo sulla superficie del medaglione.
Quando ormai il ripetersi degli scatti luminosi è diventato rapidissimo e il colore è più tendente ad un celeste biancastro, Andrea si trova costretta a distogliere lo sguardo per non essere accecata.
Poco dopo infatti la luce dell’Orologio pare esplodere e tutto nella stanza diventa bianco.
Andrea è costretta a soffocare un gridolino di sorpresa contro il suo braccio per non mettere in allarme tutto il vicinato.
Neanche qualche minuto dopo la luce pare affievolirsi, fino a sparire del tutto, gradualmente.
L’unica cosa che si solleva ancora dall’Orologio è una lieve colonna di fumo, che si disperde piano nella stanza, amalgamandosi all’odore di carta e di lavanda.
Non ha la più pallida idea di cosa sia successo e di dettagli che non tornano ce ne sono a valanghe.
Anche se, obiettivamente, la cosa più curiosa resterà senza dubbio il volto che Andrea ha visto nell’Orologio, poco prima dell’esplosione di luce.
Il volto di una ragazza, di all’incirca la sua età, incorniciato da dei corti capelli corvini.


» Londra, Regno Unito, 2059


Atemu appare nei pressi del London Eye e ringrazia il cielo che sia notte fonda, sarebbe stato problematico altrimenti giustificare alla marea di turisti ed abitanti che generalmente bazzica il lungofiume del Tamigi la sua improvvisa comparsa.
Anche perché dubita che, sebbene sia la verità, qualcuno gli crederebbe se spiegasse di essere appena tornato da un salto temporale.
Un salto temporale piuttosto lungo, per l’esattezza.
La testa gli gira e deve appoggiarsi al muretto di pietra che corre lungo tutto il fiume per non cadere giù.
Anche vomitare è un’opzione che tiene in considerazione, tuttavia dubita che sarebbe una situazione decorosa; così, con le ultime forze che gli sono rimaste in corpo, si costringe a combattere l’impulso di rimettere.
Si gira nuovamente verso la strada e tira un sospiro profondo, asciugandosi con il dorso della mano la fronte imperlata di sudore.
I salti a lunga distanza lo sfiniscono, dovrebbe averlo imparato ormai.
Si guarda intorno: il Big Ben segna mezzanotte e quarantacinque.
Grazie al cielo Londra è un metropoli ultraevoluta ed i trasporti pubblici funzionano anche a quell’ora, altrimenti sarebbe stato nei guai fino al collo.
La stazione degli autobus è a pochi passi da lì, così ci si avvia subito. Adesso non prende neanche in considerazione il viaggio in metro: già si sente male, oltretutto di certo muoversi sottoterra non gli gioverebbe affatto.
L’unica soluzione che gli rimane è l’autobus: di certo a piedi potrebbe muoversi, tuttavia ora come ora è estremamente debole, inoltre gli ci vorrebbe fin troppo per raggiungere la sua meta. E non sa quanto ancora riuscirà a resistere, prima di svenire.
Per fortuna l’autobus sta sopraggiungendo proprio in quel momento: Atemu riesce ad arrivare davanti al segnale del bus quando questo si ferma, facendo scorrere le sue ampie e rosse portiere proprio di fronte a lui.
Sale, oblitera l’abbonamento –non ha ben chiaro il meccanismo per cui, nonostante il salto, si ritrovi ancora il portafoglio con all’interno i soldi e l’abbonamento del pullman- quindi si va subito a sedere nel primo posto libero che trova.
Impresa piuttosto semplice, considerando che a quell’ora solo pochi lavoratori notturni sono in giro.
Durante tutto il viaggio rimane con la fronte appoggiata al finestrino freddo, traendo una sorta di beneficio da esso.
Pare rinvenire lievemente solo quando, una mezz’oretta dopo, intravede il cartello della fermata di Hyde Park sfilargli accanto.
Si avvia all’uscita, barcollando leggermente, tanto che, quando l’autista frena bruscamente, rischia di cadere a faccia in avanti sugli scalini dell’autobus.
L’uomo alla guida si astiene dal far commenti, forse per pietà, forse semplicemente perché, nella sua lunga carriera, deve averne viste di molto peggio.
Atemu scende e l’autobus riparte, metafora dell’immensa metropoli, impietosa nei confronti dei suoi abitanti.
Sospira ancora, stancamente, per poi ricominciare a muoversi, stavolta a piedi.
L’unica nota di sollievo che riesce a trovare è che sarà un tragitto breve: dopo neppure un paio di minuti di camminata si ritrova ai piedi di alcuni scalini, che conducono al portone d’ingresso.
Il giovane li percorre stancamente, quasi trascinando gambe e braccia lungo di essi.
Quando si ritrova davanti al citofono, preme senza indecisioni l’interno corretto.
Non conosce altre persone che sarebbero ancora sveglie, a quell’ora.
Per alcuni momenti non succede niente e Atemu ha il terribile presentimento di aver appena fatto un terribile buco nell’acqua, tuttavia di lì a poco sente una voce rispondergli dall’altra parte e non può trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo.
«Se ve lo state chiedendo sì, è qui la festa!~»sente infatti esultare dall’altro capo del citofono da una voce piuttosto squillante.
«Hurley …»mormora invece Atemu, senza energie.
«Atemu?»sente domandare Hurley, improvvisamente pare più serio «Ma … che ci fai qui? E a quest’ora, poi? Per non parlare della tua voce …».
Atemu è colto da un altro improvviso conato di vomito ed è costretto a tirare un forte colpo con il pugno contro la parete per continuare a resistere.
«Apri, idiota …»sussurra ancora, la sua voce sembra sul punto di spezzarsi.
«Oh, sì, certo!»Hurley pare essere colto da un’illuminazione fulminante e di lì a poco Atemu sente il portone scattare e aprirsi.
Subito s’infila nella palazzina, correndo –per quanto gli sia possibile, nello stato in cui è ridotto adesso- verso l’ascensore.
A quanto pare stasera qualche dio deve averlo preso in simpatia, poiché l’ascensore è già al pianterreno, quindi non gli rimane altro da fare che salirci e premere il tasto del quarto piano.
Mentre sale, si lascia cadere seduto a terra, esausto.
In effetti, per quant’è stanco, gli pare che l’ascensore ci metta ben meno del solito per arrivare... Alla fine si alza ed esce, quasi barcollando.
Hurley lo attende sulla soglia di casa; le luci dell’interno s’infrangono sulla sua pelle bronzea, ad Atemu sembra una divinità, al che si chiede se non sia proprio lui, il dio che l’ha aiutato, quella sera.
Il ragazzo dai capelli rosati osserva il nuovo venuto con aria quasi ilare mentre commenta:«Ehi, amico? Troppo esausto per reggere fino all’after o …-».
Fa per dire qualcos’altro, tuttavia vedendo il corpo di Atemu che barcolla in avanti fino quasi a cadere si tace subito e accorre in direzione dell’amico, prendendolo proprio prima che cada di faccia.
Lo afferra, circondandogli il bacino con un braccio e costringendolo a stare in piedi, in qualche modo.
«Atemu …»cerca di richiamarlo di nuovo Hurley, stavolta in apprensione.
«Ho b-bisogno di un bagno …»biascica l’interpellato, confuso.
«Certo, certo ...»Hurley si chiude alle spalle la porta e trascina letteralmente di peso l’altro lungo il breve corridoio d’ingresso, conducendolo fino in bagno.
Una volta lì Atemu gli chiude letteralmente la porta in faccia: non vuole che l’amico assista a quello spettacolo impietoso.
Si accascia sul lavandino, rimettendo pure l’anima.
Non credeva di essere ridotto così male...
Sente la porta del bagno schiudersi e allunga istintivamente una mano verso di essa, come a voler impedire la visuale, implorando:«Ti prego, non guardare!».
Poco dopo sente dei morbidi asciugamani poggiarsi accanto a lui e una mano gli stringe forte la spalla.
«Coraggio, Atemu …»sente sussurrare Hurley, accanto a sé.
A quelle parole il giovane riverso sul lavabo si volta in direzione della doccia e, poco prima di cadere in ginocchio, riesce ad aprire l’acqua.
Il getto gli colpisce in pieno il volto, che si sfrega energicamente con le mani per un paio di minuti.
Poco dopo Hurley gli passa uno degli asciugamani, quindi si asciuga la faccia, spossato.
A lavoro ultimato Atemu si sente sollevare; nonostante un iniziale momento d’imbarazzo si rende conto di essere ormai troppo esausto per potersi opporre all’amico, che l’ha preso in braccio.
Hurley lo conduce ancora una volta attraverso il suo appartamento, fino a ritrovarsi in una camera da letto libera, per gli ospiti.
Una volta lì distende Atemu nell’unico letto presente nella stanza e lo copre piano con la trapunta.
«Hurley …»cerca di mormorare il giovane, stremato.
L’altro però lo zittisce, mettendogli un dito sulle labbra.
«Shh~»sussurra, ponendogli un fazzoletto umido d’acqua fresca sulla fronte, madida di sudore«Ne parleremo domani. Ora riposa».
Il giovane annuisce, docilmente; forse vorrebbe ancora dire qualcosa all’amico, probabilmente solo ringraziarlo, tuttavia nemmeno un momento dopo un velo d’oscurità cala sui suoi occhi, mentre precipita nell’oblio del sonno.


» Chicago, Stati Uniti d’America, 2059


Ethan esce dall’alto palazzo dello studio di registrazione quando il mondo è già caduto vittima delle tenebre della sera, che circondano ed avvolgono qualsiasi cosa capiti loro a tiro.
Estrae l’Orologio, che ancora porta appeso al collo, da sotto la camicia vermiglia con un gesto svogliato, quasi senza pensarci più di tanto.
Perché continua a meravigliarsi ogni volta che si rende conto che quello stramaledetto coso segni l’ora esatta … nonostante tutto?
Quando si rende conto che sul quadrante le lancette segnano le ventuno passate contrae le labbra, in un’espressione impensierita.
Non si era accorto che fosse così tardi.
Sta quasi per avviarsi attraverso la lunga via, tutta diritta, dello studio di registrazione, via da quel luogo, anche stavolta …
Via dall’unico posto che lo fa stare bene, che non lo fa pensare, almeno ancora per qualche altra ora …
Ovviamente non è questione di vigliaccheria, ci mancherebbe altro, o almeno questo è ciò che continua a ripetersi Ethan, mentre percorre adagio e con portamento a dir poco carismatico il marciapiede.
Codardo.
«Ehi, Ethan!»esclama qualcuno, alle sue spalle.
Il ragazzo riflette che sono poche le persone che ancora lo chiamano per nome, ancora meno di quelle che si rivolgono a lui.
Forse è questo il fattore che lo fa voltare, una certa sensazione di sorpresa.
Ad attenderlo, gli sguardi sereni e ridenti degli altri componenti della sua band.
«Che ne dici di andarci a prendere qualcosa da bere insieme?»propone il batterista, con una certa aria strafottente che Ethan non riesce proprio a giustificarsi.
In un altro momento molto probabilmente avrebbe rifiutato senza pensarci due volte, preferendo la riservatezza e il silenzio del suo appartamento vuoto al caos e alla musica sparata a tutto volume di una delle bettole frequentate dai suoi amici.
Poi però sembra ripensarci e mettersi a riflettere su quell’ipotesi, che ora non gli sembra nemmeno più così lontana … in fondo ormai cos’ha da perdere?
“Di certo qualche bicchiere non mi farà male” mormora una vocina dentro di sé, forse mettendoci dentro una malizia e un senso di perdizione che altrimenti nemmeno lo stesso Ethan avrebbe infuso nelle proprie parole.
Com’è che dicono alcuni? Ah, già: bere per dimenticare.
Ed Ethan ne avrebbe, di cose da dimenticare.
Non sa davvero se alla fine sia stato davvero questo a convincerlo o semplicemente una follia del momento –se si esclude la possibilità di un desiderio non espresso.
Fatto sta che dopo quell’unico e solo tentativo cede, annuendo bonariamente in direzione dei suoi amici.
«E va bene»acconsente, con uno sguardo strano, che agli altri ragazzi pare quasi essere perso nel vuoto«In fondo che male può farmi?».

Non ci ha visto poi così lontano, quando ha immaginato che lo avrebbero portato in una bettola.
Diciamo che forse quel luogo è un po’ migliore rispetto alle sue aspettative … ma nemmeno di tanto.
Cameriere in abiti succinti si aggirano tra i tavoli occupati da avventori dall’aspetto piuttosto rozzo e nerboruto.
Ethan osserva la scena con aria alquanto incuriosita, anche se già al secondo bicchiere di superalcolici ha cominciato a sentire la testa pesante e la vista un po’ annebbiata.
È seduto con i ragazzi della band al bancone del locale, davanti a sé il quarto bicchiere di pampero.
O il quinto? No, aspetta … forse era il sesto … ah, non lo sa più.
Dopotutto, forse è anche meglio così.
Gli piace quella sorta di sensazione di annullamento che prova quando assume dell’alcool … è più o meno le stesso principio che lo porta a stare tanto bene quando canta.
Sente la propria mente altrove, lontana … come se si staccasse dal suo corpo e volasse via.
Questo lo porta a non pensare più a niente, perlomeno per qualche ora.
E questo gli piace. Eccome, se gli piace.
Per quel tempo si può perfino illudere di non avere più nemmeno un problema.
Che meraviglia …
Una cameriera gli si avvicina, osservando il suo bicchiere ancora pieno.
«Non lo bevi, quello?»gli domanda, con una voce un po’ troppo stucchevole.
Ethan muove lo sguardo velocemente –per quello che può, intontito com’è dall’alcool– dal bicchiere ancora pieno davanti a sé sul bancone alla cameriera che ora si staglia davanti a lui.
Capelli biondo cenere lunghi fino alle spalle, un po’ crespi e con un lieve accenno di boccoli all’altezza delle punte, labbra tinte di un rossetto rosso piuttosto intenso.
Nonostante questo forse il dettaglio che colpisce maggiormente l’attenzione di Ethan sono i suoi occhi: taglio e grandezza regolari, di un marrone comunissimo.
Forse è proprio quella canonicità ad attrarre tanto Ethan: i suoi occhi, grigi e tumultuosi come nuvole in tempesta, non potrebbero desiderare altro.
Lancia uno sguardo leggermente ammiccante alla ragazza –che avrà all’incirca una ventina d’anni, proprio come lui– quindi commenta:«Beh … e io che volevo bere qualcosa di tutt’altro genere».
Partono risolini imbarazzanti lungo tutta la fila del bancone, tuttavia la ragazza non pare esserne particolarmente colpita.
Che stia veramente al gioco?
«Senti un po’»continua, rivolgendosi ancora alla cameriera«ti andrebbe di vedere qualcosa di bello?~».
Si alzano nuovi risolini, eppure nemmeno stavolta la ragazza pare avere una qualsivoglia reazione.
“Deve essere priva del senso del pudore” valuta Ethan, nell’ultimo angolino sobrio della sua mente.
«D’accordo»concede lei, con espressione del tutto imparziale.
C’è da chiedersi cosa sia passato nel cervello di tutti e due, in quei precisi istanti:Ethan è assolutamente certo che la ragazza non possa aver frainteso le sue parole, dopotutto ormai deve aver raggiunto l’età del consenso già da un po’, inoltre i doppi sensi malcelati nelle sue parole e tutti quei risolini sono piuttosto inequivocabili.
D’altro canto, l’espressione algida della ragazza non era mutata minimamente da quando avevano cominciato quella conversazione.
Ethan si alza dallo sgabello, sul quale era rimasto seduto fino a quel momento, circondando i fianchi della giovane con un braccio.
«Come ti chiami?»le chiede, fissandola dritto negli occhi, senza gentilezze o pietà.
«Kate»risponde lei con voce schietta, monocorde.
«Kate …»ripete, facendo rotolare ogni singola lettera in modo piuttosto seducente lungo il proprio palato«gran bel nome ~».
Si avvia lungo il locale, tenendo ancora un braccio stretto intorno alla sua vita, mentre diversi fischi di approvazione e alcune risate grevi e battute di pessimo gusto accompagnano il loro incedere, forse un po’ troppo traballante a causa della quantità di alcool decisamente eccessiva presente nel corpo di Ethan.

Si appartano nel retrobottega piuttosto scadente del locale, nell’oscurità più assoluta e tra la polvere e la sporcizia di alcuni vecchi scaffali di legno marcescente.
Ethan fa sedere la giovane su un vecchio barile vuoto di rum, di cui a quanto pare nessuno di loro due saprebbe ricondurne l’appartenenza.
Le slaccia subito la camicetta, senza metterci una particolare dose di grazia o gentilezza, solo colto da un improvviso desiderio di farlo.
Lascia cadere lentamente l’indumento a terra, sembra un gabbiano che plana sull’oceano.
Kate reclina la testa all’indietro, lasciando la gola candida e morbida alla completa mercé di Ethan, che subito ne approfitta per andargliela a riempire di baci famelici, umidi di saliva.
Anche questo è un ottimo modo per non pensare a niente.
Nel frattempo il giovane le sospinge con calcolata lentezza le mani sul corpo, andandole a palpare i glutei e i seni bianchi.
Potrebbe anche toglierle il reggiseno, in effetti.
Sfiora il tessuto in nero pizzo ricamato, niente di esaltante in fin dei conti.
Ethan lo stringe un po’ di più tra le proprie dita tiepide e affusolate, facendo gemere la ragazza di inaspettato piacere.
A quella reazione il ragazzo non resiste oltre e le va a baciare entrambi i seni, con le labbra che sembrano ancora una volta estremamente affamate e desiderose di lei.
A quel nuovo contatto gemiti sempre più accaldati sfuggono dalle labbra di quella perfetta sconosciuta, favorita anche dai palmi grandi e caldi di Ethan, che ora sono scivolati sotto la sua minigonna cortissima e le palpano i glutei con un filo alquanto spesso d’indecenza.
Osservare quel volto cereo imporporarsi e perdere quell’espressione impassibile, per acquisirne una stupita e sconvolta dal piacere, è qualcosa che possiede un certo fascino, per Ethan.
Sente che potrebbe andare avanti, spingersi oltre, di più, molto di più … oh, eccome se lo farebbe, con quale immenso piacere si concederebbe a quella venere …
Quando tuttavia sta effettivamente per andare oltre, un rumore improvviso li fa sobbalzare entrambi per la paura.
Si guardano subito intorno, cercando di localizzare la fonte da cui è provenuto quel rumore.
Inutile dire che le loro espressioni risultano piuttosto sconcertate quando si rendono conto che ad interromperli è stato un topolino, che subito fugge via, sgattaiolando nell’oscurità fino a scomparirvi.


» Londra, Regno Unito, 2059


È piuttosto singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a quanto pare, è proprio così.
Amelia ricontrolla l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio, piuttosto sgualcito.
L’inchiostro nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di essere nel posto sbagliato … in effetti ha paura che qualche strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento all’altro… se non fosse per la piccola bottega di legno che si trova ora davanti agli occhi.
È un posto piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è anche un’insegna in alto, solo che è parecchio in alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue –scarse- abilità di equilibrista nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al lato per controllare il nome di quel posto.
“No, preferirei tardare la mia morte almeno per un altro po’ ” valuta tra sé.
Si avvicina alla porta con incedere lento: quando la raggiunge valuta che né i cardini né la serratura sono stati divelti.
Apparentemente quel luogo è decisamente impenetrabile.
Non riesce a intravedere l’interno della bottega, pure il vetro della porta è ridotto alquanto male a polvere, il che fa supporre ad Amelia che neppure il locale stesso debba essere messo bene.
Ancora una volta la ragazza si ritrova a chiedersi perché sia andata fino in quel luogo desolato, alla ricerca di chissà quale tesoro segreto.
Per poi ricordarsi, puntualmente, della lettera.
Si morde il labbro inferiore, cercando di trattenere le lacrime.
Avrebbe voluto trovare quella lettera molto tempo prima … Di certo non sarebbe cambiato poi molto, tuttavia si tratta pur sempre di un pezzo della vita di sua madre. Quella vita, inesistente adesso, che Amelia desidererebbe sondare, capire… per saperne trarre conforto. Fa parte del suo passato, ma non può tornare indietro, non può starle accanto, abbracciarla forte, donarle carezze.
Ecco perché si trova qui. Dopo che l’Orologio aveva emanato quella luce azzurrognola tanto forte, si era subito messa alla ricerca di una plausibile spiegazione per quell’assurdo fenomeno.
Aveva cercato in tutti i libri del vecchio studio di suo padre, sperando che sua madre le avesse lasciato una qualche forma d’indicazione almeno lì.
Niente, nessuna traccia.
Mentre tuttavia rimetteva a posto quei vecchi tomi polverosi –per frugare al loro interno li aveva sparsi tutti sul pavimento dello studio, dando vita a un vero e proprio marasma- un foglio accuratamente ripiegato era scivolato fuori da uno dei libri, cadendo con leggiadria sul pavimento.
Amelia l’aveva recuperato subito, aprendolo ed osservando per un tempo indefinibilmente lungo la scrittura piccola e ordinata, che non poteva essere di nessuno se non di sua madre.
Le dita le tremavano per l’emozione mentre leggeva e rileggeva quelle parole.
Era venuta a mancare diversi mesi prima, fino a quel momento non aveva più avuto l’immenso piacere di entrare in contatto con qualcosa che le appartenesse.
Beh, tranne per l’Orologio.
Le era stato consegnato proprio dalla donna, pochi giorni dalla morte –o suicidio che qualsivoglia dire– senza grandi cerimonie.
Adesso toccava a lei portare avanti quel “tesoro di famiglia” dei Greene.
Nella lettera erano contenute le ultime parole di sua madre per lei e per suo padre.
Inoltre, tra le pieghe di quel foglio, l’indirizzo stropicciato che ora l’ha portata lì.
Per questo deve entrare là dentro, a qualsiasi costo.
Poggia la mano sul pomo dorato della porta, cercando di farlo ruotare, in modo da far scattare la serratura.
Niente.
Inizia a spazientirsi, non si è fatta quasi mandare a quel paese da un tassista per un buco nell’acqua.
Sta quasi per desistere, quando avverte un lieve clangore metallico sotto la propria mano.
Osserva la porta con un’espressione a dir poco sbigottita mentre la spinge lentamente in avanti, lasciando che si apra davanti al suo volto attonito.
La pesante porta in legno di noce della bottega si dischiude con un cigolio piuttosto tetro mentre dona lentamente ad Amelia una visuale sull’interno di quel luogo.
Inizialmente Amelia elabora due considerazioni, anche piuttosto sciocche se si vuole: la prima è che là dentro c’è così tanta polvere che, con ogni probabilità, qualcuno non vi entra da parecchi anni; la seconda è che pare essere scoppiata una bomba.
Ci sono fogli sparsi in ogni dove, oggetti praticamente buttati all’aria … niente là dentro è nel posto in cui si dovrebbe trovare.
Francamente, Amelia non ha la più pallida idea del perché il suo Orologio dovrebbe venire da un posto del genere, tuttavia si fidava di sua madre –e si fida ancora di lei, nonostante ormai non ci sia più– il che vuol dire che, se le ha lasciato quell’indirizzo non è di certo per farsi beffa di lei, bensì per aiutarla in qualche modo.
Che Amelia non abbia ancora la più pallida idea di quale sia questo modo sono solo dettagli, ovviamente.
Scende i due gradini d’ingresso del locale –anche questi in legno– e si ritrova in quello che deve essere un atrio piuttosto spazioso.
La porta si chiude alle sue spalle con un cigolio piuttosto inquietante, Amelia non può fare a meno di trovarlo spettrale.
Eppure … le sembra come che in quel luogo ci sia qualcosa che non vada.
Ripensa istintivamente a sua madre, a quanto fosse precisa, ordinata, quindi sposta nuovamente lo sguardo tra il disordine della bottega.
Amelia non ha mai creduto all’ipotesi della polizia, secondo la quale quello di sua madre sarebbe stato un suicidio.
Elizabeth Greene era una donna solare, aveva sempre il sorriso sulle labbra e, che la figlia ricordasse, nemmeno un problema ad affliggere la sua vita.
Avrebbe potuto nascondere il dolore dietro a quel suo sorriso … tuttavia Amelia non riusciva a darsela a bere, conosceva sua madre e sapeva che non era capace di raccontarle una bugia, figurarsi nasconderle qualcosa; inoltre, perché mai avrebbe dovuto mentirle?
Certo, i motivi sarebbero potuti essere tanti, Amelia lo sapeva perfettamente … tuttavia sua madre era morta qualche mese fa, lei non era più una bambina, se ci fosse stato un problema nella vita di sua madre se ne sarebbe dovuta accorgere … no?
Non aveva mai creduto che si fosse buttata spontaneamente da quella scogliera; piuttosto, riteneva molto più probabile che qualcuno l’avesse spinta giù da questa.
Però … chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? E, soprattutto, perché?
Da un periodo a quella parte aveva cominciato a credere che la chiave di tutto fosse proprio quell’Orologio:prima quella strana luce, adesso questa bottega assurda …
Se solo fosse riuscita a capire quale fosse la chiave che collegava tutti quegli eventi …
Si avvicina ad uno dei lunghi tavoli da lavoro che corrono verticalmente attraverso tutto il locale: sono pieni di scartoffie di ogni genere, dai progetti per come sistemare delle lenti in un cannocchiale ad altri di cui Amelia non ha la più pallida idea di cosa siano, non le pare di aver mai visto qualcosa del genere in vita sua.
Dopo diversi minuti che i suoi occhi vagano a vuoto in quel caos senza via d’uscita scorge qualcosa che le risulta stranamente familiare.
Allunga una mano verso un foglio non troppo distante, meravigliandosi non poco quando si rende conto di star osservando una rappresentazione incredibilmente realistica di un Orologio molto simile al suo.
In realtà il formato del foglio è piuttosto ampio –e l’aspetto piuttosto antico, quel foglio pare essere di secoli fa– e su di esso sono rappresentati ben dodici Orologi.
Sono tutti piuttosto simili tra loro, a cambiare è solamente il disegno raffigurato sul retro:c’è il corvo di Amelia, un frammento di vetro, una chiave di basso –sua madre era una musicista, suonava il pianoforte e le aveva insegnato a riconoscere alcuni simboli musicali, oltre che a riprodurre qualche semplice motivetto–, una pergamena, delle maschere teatrali, degli ingranaggi meccanici, una freccia, il sole, la luna e, infine, addirittura la rappresentazione del mondo intero.
Quello che colpisce maggiormente l’attenzione di Amelia, tuttavia –nemmeno lei sa perché– è quello che riporta sul dorso l’effige di una clessidra.
Sembra un po’ la chiave di lettura di tutti quegli Orologi, quelli che li lega tutti.
Solo che Amelia non ha la più pallida idea del perché.
Le pare di avvertire un rumore improvviso, che le fa alzare la testa di scatto.
Strano, non le pare che nel locale sia cambiato qualcosa … tuttavia lei quel rumore non se lo è immaginato, ne è certa.
È allora che le viene in mente: si guarda intorno, lo sguardo che ancora una volta naviga tra quella confusione immensa.
E davvero si chiede se sia la prima ad entrare in quella bottega dopo quasi due secoli o se qualcuno l’abbia preceduta, alla ricerca di chissà che cosa.


» New York, Stati Uniti d’America, 2120


Non ha ancora ben chiaro perché l’ha fatto.
Dubita sia stato desiderio di andarsene da quel luogo … inoltre nutre anche un timore non indifferente nei confronti di quel mondo sterile all’esterno della “campana di vetro” dentro cui è rimasto per così tanto tempo.
Allora perché ha accettato?
Forse la risposta è che sarebbe sembrato strano il contrario, tuttavia non riesce a giustificarsi il perché debba sempre ricorrere a quella sorta di logica contorta per poter motivare le proprie decisioni.
Lancia uno sguardo fugace alla persona al suo fianco, che avanza con una certa sicurezza attraverso le strade buie e deserte di quella New York.
Jude si stringe nella giacca, rimedio di fortuna che hanno trovato per un puro caso, mentre si chiede quale possa essere la dimestichezza del suo accompagnatore con le strade di quella versione piuttosto inverosimile di una della metropoli americane per antonomasia.
È vero che Ray procede nel suo cammino con una certa disinvoltura, eppure non può fare a meno di chiedersi quando mai sia andato a farsi un giro di ricognizione in quel luogo surreale.
Non glielo chiede, ovviamente: teme che potrebbe risultare scortese, inoltre non vorrebbe mai rievocargli alla mente dei ricordi spiacevoli.
Sa infatti che Ray è rimasto in quel luogo per molto più tempo di lui, peraltro senza nessuno accanto a fargli compagnia … per questo a Jude non serve certo un indovino per capire quanto possa essersi sentito solo, in tutto quel tempo.
Deve aver rischiato di impazzire …
E ora che non è più da solo che cosa succede? L’unica persona che vede dopo una quantità di tempo piuttosto allucinante gli chiede un modo per andarsene di lì.
Senza menzionarlo minimamente, ovvio.
Jude si sente piuttosto egoista:la verità è che non ha pensato a lui, al fatto che avrebbe potuto cercare di portarlo con sé, a come si doveva essere sentito dopo che gli aveva rivolto quelle parole …
“Okay, ho ragione io: sono davvero uno stupido” rimugina tra sé, decidendo però di non tramutare i propri pensieri in parole: non crede infatti che Ray sarebbe poi così d’accordo con lui.
Piuttosto, preferisce chiedergli ben altro.
«Si può sapere dove stiamo andando?»domanda infatti, convincendosi a parlare mentre butta fuori una discreta quantità di fiato.
Per tutta risposta riceve uno sguardo interrogativo, dopodiché quei piccoli occhi neri tornano a guardare davanti a sé.
Come sempre, dopotutto.
Jude è convinto che non lo sentirà proferire parola oltre.
Tuttavia, sorprenderlo è sempre stata una dote di quell’uomo.
«Certo che si può sapere. Dunque, avevo pensato di iniziare la ricerca da un grattacielo: credo che, se andassimo in alto per quanto più ci è concesso, potremmo avere un’ottima visuale. E chissà che magari da lassù non scopriremo qualcosa di interessante…~»lo sente in effetti risponde.
Per un momento Jude rimane a bocca aperta, interdetto se chiedere altro o meno.
Tuttavia la soluzione al suo dilemma gli arriva neanche troppo tempo dopo, poiché l’uomo si arresta di colpo, dinanzi ad un palazzo dall’altezza piuttosto considerevole.
All’inizio cerca quasi di trattenersi, mordendosi la lingua e tentando invano di frenarla, tuttavia ovviamente tutti i suoi sforzi si rivelano inutili.
«Dobbiamo entrare là dentro?»domanda, una nota dubbiosa ben percepibile nella voce.
Sa che è una richiesta piuttosto superflua, dopotutto nemmeno dieci secondi prima -erano dieci secondi prima? Ahh, i soliti problemi con la percezione temporale- gli ha detto che sarebbero dovuti andare in alto per vedere qualcosa.
Però ormai gliel’ha chiesto lo stesso, alla ricerca di chissà quale conferma: comincia a sospettare che, in un mondo dove non ha la neppur minima certezza, aggrapparsi a delle piccole certezze, come se siano delle ancore di salvezza in un mare burrascoso e in tempesta, sia l’unico modo in suo possesso per riuscire a sopravvivere.
Ray si volta subito nella sua direzione non appena lo sente parlare, osservandolo intensamente. Non sembra intenzionato a parlare, quello no.
Jude percepisce che deve aver intuito il suo stato d’animo, non sa nemmeno lui come, evidentemente deve avere una sorta di strana espressione dipinta in volto -e di cui, a quanto pare, non riesce proprio a liberarsi- e forse ha compreso quel suo bisogno irrazionale di ricevere aiuto, qualcosa a cui aggrapparsi.
Ecco perché, poco dopo, lo sente rispondergli.
«Beh, direi di sì»commenta infatti, cercando di risultare quanto più semplice e comprensibile nel proferire la frase, non vorrebbe confondere il ragazzo più del dovuto.
Deve ammettere che l’idea di entrare in un grattacielo vuoto e abbandonato non rientri esattamente tra i suoi sogni segreti.
E ancora si ritrova a chiedersi quanto valga la pena entrare là dentro e fare tutte quelle cose, se poi è lui stesso il primo ad avere dei dubbi sulle possibilità concrete che hanno di andarsene da quel luogo.
«Ma non è illegale? Voglio dire, non dovrebbe trattarsi di effrazione o qualcosa del genere?»obietta Jude, inarcando le sopracciglia.
Ray scuote la testa, sospirando mestamente mentre replica:«Siamo in un luogo disabitato, davvero credi che possa esistere un eventuale qualcuno che avrebbe qualcosa da ridire se entriamo in un palazzo di proprietà di nessuno?».
Jude scuote prontamente la testa, il che fa sorgere un ghignetto divertito sulle labbra dell’uomo.
«Dì la verità, Jude, hai paura di trovarci dentro qualche zombie affamato di cervella umane, vero?~»lo schernisce infatti, piuttosto divertito da quella situazione.
Il ragazzo decide di ignorare bellamente quella provocazione, scuotendo il capo con decisione mentre inizia a salire i gradini che portano all’ingresso del palazzo, quasi con una punta di risentimento.
«Certo, come no»borbotta infatti poco dopo« Adesso che ne dici di fare qualcosa di veramente utile ed entrare qui dentro, anziché continuare a girarti invano i pollici?».
Ray sale in fretta gli scalini dietro al ragazzo, precedendolo nell’aprirgli la porta del grattacielo ed invitandolo a entrare prima di lui con un gesto galante.
Jude non sembra farci troppo caso, entra con disinvoltura, quasi come se non si fosse accorto di Dark al suo fianco, come se fosse stato intenzionato fin dall’inizio a fare ingresso in quel luogo prima di lui … cosa che, in effetti, corrisponde al vero.
L’interno dell’edificio è piuttosto malridotto - dall’esterno non si sarebbe intuito così facilmente- fuori infatti sembra tutto in un ottimo stato, il palazzo mantiene una certa parvenza d’ordine, le ampie vetrate che si affacciano sul mondo sono lucide e riflettono l’inquietante oscurità di quel mondo con una veridicità impressionante; dentro invece le stanze sembrano essere state attraversate da dei monsoni.
Si trovano in quella che, all’apparenza, risulta essere la hall di una qualche multinazionale, tuttavia non sembra esserci nemmeno una cosa al posto che le spetti.
Quadri da raddrizzare, poltroncine d’attesa completamente ribaltate, fogli di fotocopiatrice sparsi in ogni dove.
Jude si stringe le braccia intorno al corpo, rabbrividendo appena: quel luogo non gli piace affatto, ha un non so che di spettrale, non si meraviglierebbe se, da un momento all’altro, sbucasse davvero uno zombie completamente dal nulla, tutto benintenzionato a nutrirsi del suo cervello.
Ray invece osserva il luogo con aria decisamente più distaccata ed imparziale, quasi asettica: proprio per questo individua quasi subito una grande rampa di scale, ad una cinquantina di metri dalla scrivania in fondo alla stanza che domina un po’ tutto il pianterreno, se così si possa definire il posto dove ora si trovano.
Tocca con pacatezza la spalla del giovane, indicandogli le scale, che paiono avvilupparsi intorno alla struttura di vetro e ferro di un ascensore.
Quel luogo è indubbiamente moderno, non c’è che dire, come del resto tutta quella sorta di sub-città.
Questo non nega che ci siano dei problemi anche lì: come nel resto di quella surreale New York, non c’è elettricità in alcun modo, inoltre come se non bastasse i cavi dell’elevatore sembrano essere stati trinciati di netto.
La domanda ovviamente è come sia possibile tutto ciò: se nessuno vive lì, chi mai può aver tagliato le linee guida di un ascensore che non sarebbe riuscito a funzionare comunque, considerata anche e soprattutto la generale mancanza di elettricità diffusa in tutta la città?
Jude sente che in quel luogo c’è qualcosa che non va, lo ha percepito prima ancora di metterci piede, questo tuttavia non l’autorizza a darsela a gambe levate come invece desidererebbe così tanto, anzi arrivato a quel punto è cosciente che non può farlo, già entrando lì ha fatto molto, inoltre non ha la neppur minima intenzione di buttare all’aria tutti gli sforzi fatti sino a quel momento per una paura stupida ed insensata.
«Non dirmi che dobbiamo salire tutte quelle scale...»mormora, quasi implorando l’uomo.
«Abbiamo detto che abbiamo bisogno di una buona visuale, ricordi?»gli riporta alla mente l’uomo, con un tono piuttosto pragmatico.
Jude sbuffa, piuttosto insoddisfatto, tuttavia alla fine si arrende all’evidenza ed al fatto che, volente o nolente, dovrà davvero farsi tutta quella scarpinata.
Alla fine sospira ancora una volta e comincia ad arrampicarsi su per quelle scale, a passi piuttosto svogliati, seguito a breve distanza dall’uomo.
L’ascesa si rivela essere piuttosto tediosa, inframezzata unicamente dai passi ritmici dei due e dai loro battiti e respiri appena accelerati a causa dello sforzo fisico.
Jude non ha idea di quanto ci mettano ad arrivare fino in cima al palazzo, non esistono orologi in grado di definire una cosa simile, tuttavia è piuttosto certo che siano trascorsi parecchi minuti quando finalmente giungono all’ultimo piano.
L’aspetto sembra quello di un ufficio dirigenziale, con diverse scrivanie e poltrone rivestite di pelle rossa e nera.
Il buio domina in gran parte anche quel luogo, non c’è fonte di luce che possa rischiararlo, sebbene sia presente anche qui una vetrata che corre lungo tutto il piano.
A differenza del pianterreno, quel luogo sembra aver mantenuto un certo ordine, probabile che loro due siano stati gli unici due a farsi tutte quelle scale per… per cosa, poi?
Ma cosa sta dicendo? “Gli unici”? Come se mai potesse esserci qualcun altro oltre loro due in quel luogo, certo.
Però… però per la prima volta un dubbio insorge nel ragazzo.
Si muove intorno con una certa cautela, osservando quel nuovo mondo che ora lo circonda.
Nota quasi subito di un dettaglio piuttosto bizzarro, che gli salta all’occhio con prepotenza.
Si avvicina alla scrivania più prossima a sé e si china davanti ad essa, osservando sbigottito ciò che ora vede ai suoi piedi.
Sono fogli, anzi no, non esattamente, sarebbe più corretto definirle pagine di calendario, evidentemente strappate e lasciate cadere a terra con la stessa grazia di petali di fiori.
Ne prende alcune tra le mani, facendole girare e rigirare tra le dita con delicatezza, quasi come se avesse il timore che possano sgretolarsi da un momento all’altro.
Non se ne accorge subito, tuttavia quando lo vede ci manca poco che gli venga un colpo: su quel calendario, infatti, la data riportata è il 2100.
“Aspetta un momento…”mormora tra sé il ragazzo, mentre i suoi occhi si dilatano a dismisura, prendendo delle vivide e ancor più intense del solito sfumature cremisi.
Si rimette in piedi, le mani che adesso gli tremano in modo incontrollato.
“Com’è possibile…?”si chiede, nello sguardo terrore misto a disorientamento.
Avanza fino a ritrovarsi di fronte alla vetrate, le mani vi si appoggiano sopra, ancora tremanti.
Sente alcuni passi alle sue spalle, tuttavia non si oppone ad essi in nessun modo, per quanto sia duro ammetterlo a se stesso ciò che vorrebbe adesso non è nient’altro che un po’ di conforto.
Per questo non rifiuta le braccia dell’uomo che poco dopo si stringono intorno al suo corpo, avvolgendolo nella sua interezza, rincuorandolo con delicate accortezze.
È incredibilmente piacevole, tutto sommato, sentirlo presente. Come se non fosse lui a pensare, Jude si accorge che stare vicini è davvero l’unica che cosa che possono fare, adesso.
Perciò non oppone alcuna resistenza a quel tocco gentile che ora l’aiuta a voltarsi verso di sé.
Così si ritrovano uno di fronte all’altro, a guardarsi intensamente. Chissà cosa vogliono dirsi, quegli occhi… qualcosa che non è comprensibile a nessuno, se non a quello stesso gioco di sguardi, il rosso che s’incrocia con il nero e che affoga all’interno di quest’ultimo, come a trovare finalmente pace.
Ecco perché non può far altro che abbandonarsi alle labbra che ora premono piano sulle proprie, ponendo fine ad un dolore trascinato dietro per fin troppo tempo.
Jude chiude gli occhi, lentamente:ora non è quello il senso che gli serve.



* Angolo autrice *

{OTP OTP OTP Jesus Christ OTP}
Ignorate lo sclera là sopra, vi prego.
{OTP!}
Okay, basta, la smetto, giuro.

Non parlerò neanche del fatto che sono in ritardo perché da una parte ehi!, è proprio così, sono in ritardo, dall’altra invece per la prima volta in vita mia ho deciso di fare un ragionamento sensato e ne emerso il fatto che la scrittura per me è, in primo luogo, una grande passione, pertanto credo che quando una passione si tramuta in un’obbligazione il piacere che c’era nello svolgerla venga un po’ a mancare.
E questa non è una bella cosa. Mai.
Così ho preferito prendermi più tempo per la stesura di questo capitolo che alla fine, nonostante si sia fatto attendere per un bel po’, però adesso è qui, nella sua magnificenza di ben venti pagine di word. Pertanto gioite.
Spero possa soddisfare almeno un po’ tutta questa attesa:voglio dire, essendomi presa tutto questo tempo per prepararlo dovrebbe essere perlomeno decente, no?
Non so quanto quello scritto sopra abbia senso, perciò ignorate e andate avanti.
Parliamo un po’ del capitolo:devo ammettere che mi ha messo un po’ in crisi, specie per quanto riguarda gli ultimi tre point of view. Anzi, in effetti mi reputo piuttosto fortunata, i primi due si sono scritti praticamente da soli.
Dunque, anzitutto abbiamo finalmente visto introdotto l’ultimo personaggio che mancava all’appello, vale a dire quello di Andrea (e qui ne approfitto per ringraziare Marina Swift, con la quale mi sono sentita spesso nel periodo pre - pubblicazione e che diciamo mi è stata molto vicina in questo senso). Se non si fosse capito, l’episodio della luce luminosa è legato a quello di Amelia dello scorso (?) capitolo –vale a dire che è lo stesso. Ciao, sono Capitan Ovvio parte due.
Diciamo che questo capitolo è stato rinominato “Il capitolo delle ship” perché giuro che me ne partiva una ogni dieci secondi. Dai, ammettiamolo che Hurley e Atemu insieme sono due piccoli cutie … o meglio, loro non stanno ancora insieme ma io già li shippo, pace e bene fratelli (?)
Ops. Spoiler.
Si è notato che non so essere imparziale? D’altronde però questa è la mia storia, quindi perché mai dovrei esserlo? u.u
Poi (dimentico niente?) abbiamo Ethan e devo ammettere che quando ho deciso il suo pov in questo capitolo ero molto “Ethan ma what the f**k-”. Credo però che questo avvenga perché io so tante belle cose –che a voi ovviamente non posso dire, perché altrimenti che gusto ci sarebbe?- e quindi boh, staremo a vedere.
Amelia invece ha trovato una bottega –per chi se lo sta chiedendo:sì, ovviamente è quella bottega- e ci ha dato un indizio interessante:come dissi nel prologo di questa storia gli Orologi sono dodici, di fatto però gli oc che ho ritenuto adeguati alla storia erano solo otto, quindi mi sono dovuta inventare una fine plausibile per gli altri quattro.
Inoltre abbiamo anche scoperto qualcosa in più sul suo conto, vogliamo mettere? So che qualcuno di voi attendeva con ansia questo momento (ciao chion ...)
E io una fine plausibile me la sono inventata, solo che … non so, comprende morte e sofferenza …
Il che la rende perfetta, yu-uh!
Quindi arriviamo finalmente all’ultima parte di questo capitolo, sulla quale mi sono bloccata a lungo e sono riuscita a sbrogliarmene solo ieri pomeriggio grazie all’aiuto di mia moglie Sissy, che a proposito ringrazio come al solito per avermi betato il qui presente panfleu e per avermi aiutata nella stesura dell’ultima parte del capitolo, dove mi stavo fermando nuovamente. Ahh, come farei senza di te? Non vedo l’ora di abbracciarti tra poco più di un mese, yup yup~❤
E nnno, niente {OTP- ma non avevamo detto basta? owo} è che … su questa ultima parte non riesco proprio ad essere imparziale, perciò penso che non la commenterò oltre.
Ci terrei piuttosto a fare una constatazione:questo capitolo arriva in ritardo rispetto al precedente di quasi due mesi –per motivi miei personali che non credo sia questo né il luogo né il momento adatto per stare a discernere questi ultimi– ma sta di fatto che in questi due mesi solo tre persone si sono degnate di recensire lo scorso capitolo. Ora, io capisco tutto, di fatto sono io stessa a postare i capitoli ogni due ere geologiche ed è chiaro che, come io posso aver avuto dei problemi anche voi ne abbiate, però mi farebbe davvero piacere sentirvi, specie per quanto riguarda Cari Chan e _AliHeichou_ che mi sono un po’ sparite dalla circolazione.
Anche perché, sia chiaro:se non vi fate più sentire non mi riterrò responsabile se al vostro personaggio verrà amputato un braccio o peggio ...
Ripeto, capisco tutto e so che, da un certo punto di vista sono io stessa la prima ad essere in ritardo, però che ne dite di venirci un po’ incontro a vicenda, mh?
{Per Sissy:moglie, scusa se insisto ma anche le tue recensioni mi mancano all’appello. Lo so che sei impegnata, però quando vuoi mi fai un fischio …}
Quindi, per piacere, recensite. Altrimenti vi vengo a cercare (con affetto ❤)
Un’ultima cosa:dal prossimo capitolo entreremo (credo) nella seconda parte della storia, e per la verità pure nel vivo di questa. Preparatevi a qualsiasi tipo di colpo di scena –ci sarà pure un nuovo banner- ma per il resto non vi anticipo altro, perché altrimenti non sarei io.
Bene, direi che è arrivato il momento di togliere le tende. Ringrazio chiunque continuerà a seguire questa storia e chiunque (nessuno) sia arrivato alla fine di questo space (nessuno). E recensite, umpf.

Aria

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Capitolo 6
*** Uprising ***


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« Non è vero che abbiamo poco tempo:
la verità è che ne perdiamo molto »    
– Seneca –
 
Chapter five
Uprising


♟» Londra, Regno Unito, 2059


Le tende color panna ondeggiano lievemente in quell’ambiente accogliente, mosse da un alito di vento proveniente dalla finestra, lasciata socchiusa.
In effetti, tutto in quel luogo ispira uno spiccato senso di familiarità, a partire dai raggi del sole che filtrano tenui all’interno della stanza, atterrando con la fioca mansuetudine del pulviscolo fin sulla moquette beige a terra, creando soffici macchie di luce, per arrivare poi al bianco delle pareti.
Non è una tinta inospitale, di quelle tanto asettiche che ti fanno sentire quasi come se fossi rinchiuso in un ospedale, bensì anch’essa trasmette una certa aria di vissuto.
La camera è inoltre ricolma di una bizzarra quanto stranamente piacevole unione di profumi, tutti immancabilmente differenti tra loro: un vago sentore di alcool, forse tequila, rimasto a fluttuare lì dalla sera precedente – e chissà da quante altre prima ancora – dell’immancabile polvere, probabilmente attribuibile in gran parte ai mobili in legno presenti in quel luogo, un poco di fumo di sigaretta e diversi altri odori penetrati dalla finestra socchiusa.
L’acqua umida e inquinata del Tamigi, che scorre poco distante da lì, lo smog dei mezzi di trasporto, l’aroma dei caffè di prima mattina che proviene direttamente dai bar.
Atemu ha ancora gli occhi chiusi, li strizza leggermente per via del sole, che lo colpisce in pieno volto.
Se si concentra meglio, riesce a percepire anche altri due odori.
Il primo gli ricorda in modo incredibile quello delle crespelle dolci che adora, tuttavia si convince piuttosto in fretta che deve trattarsi di un’allucinazione influenzata dal suo subconscio – e soprattutto dal suo stomaco, che attualmente non sembra essere affatto intenzionato a smettere di borbottare per via della fame.
L’altro invade letteralmente tutta la stanza: è un misto di sale, vitalità e desiderio di avventura, un miscuglio alquanto peculiare che Atemu non ha mai esitato ad attribuire ad Hurley.
Atemu apre subito gli occhi, osservandosi rapidamente intorno. Non riesce a riconoscere il luogo in cui si trova, tuttavia ha la pessima sensazione di essere a casa di Hurley.
Il che non sarebbe neanche un problema, certo, se solo riuscisse a ricordarsi come diavolo sia finito lì.
Della casa di Hurley conosce davvero solo poche stanze, ossia quelle che ha visitato nelle rare volte in cui si è recato presso l’appartamento del suo amico: la cucina, il piccolo soggiorno e basta, oserebbe dire. È una casa piuttosto piccola, sebbene questo non escluda quella sensazione di confidenza che tutto lì trasmette.
Atemu si mette dapprima a sedere sul letto, per poi cercare di alzarsi: il tutto lo fa con una certa lentezza, cercando di non incappare in movimenti troppo bruschi per il timore che il male alla testa torni a tormentarlo.
Ha ricordi piuttosto offuscati della notte precedente, quindi non è esattamente cosciente di come sia arrivato fin lì – e soprattutto del perché si sia recato a casa dell’amico piuttosto che nella propria abitazione.
Deve aver fatto un salto con l’Orologio, perché ricorda abbastanza nitidamente di essere andato in Egitto – pardon, l’antico Egitto – nelle scorse ventiquattr’ore, perciò considerando la sua scarsa soglia di sopportazione di quegli assurdi sbalzi spazio-temporali.
A volte continua a ripetersi che dovrebbe proprio smetterla, con quei salti… peccato che la cultura e tutto ciò che è antico abbiano un simile richiamo su di lui che pensare di doversi privare di tutte quelle gli sembra davvero un peccato, oltre che impossibile.
Si rinfila gli scarponcini, piegandosi per allacciarli non sente la testa vorticare – e questo, a suo dire, è davvero un gran bel segno.
S’incammina a passi lievi attraverso la stanza, la moquette sotto i suoi piedi attutisce i movimenti, così da non fare davvero alcun rumore mentre si avvia verso la porta.
Aveva proprio bisogno di un buon sonno ristoratore, in effetti: ora si sente molto più leggero, ogni cosa gli sembra essere tornata a posto; perfino l’Orologio, che mentre cammina sente rimbalzare appena sul proprio petto, sotto la camicia di lino bianco che ancora conserva un po’ di decenza, gli pare decisamente più leggero e fresco rispetto alla notte precedente.
Eh, già: dopo ogni salto, l’Orologio tende a surriscaldarsi e ad appesantirsi, probabilmente per via della considerevole distorsione dello spazio-tempo che si viene a formare quando lo si usa.
In effetti, non ci si può di certo augurare di viaggiare in luoghi ed epoche differenti e non creare nemmeno una minima modificazione nel luogo e nell’epoca in cui ci si trova, sarebbe sciocco – oltre che piuttosto impossibile – sperare in qualcosa di diverso.
Se ci si mette anche ad interagire con persone provenienti da periodi storici differenti dal proprio, poi, non ne parliamo: si finirebbe per parlare o peggio relazionarsi con gente appartenente ad un mondo totalmente diverso dal proprio e, una volta ripartito, distorcerebbe la matassa temporale al punto che gli altri conserverebbero un ricordo deformato di un incontro che, di norma, non sarebbe mai dovuto avvenire.
Ahh, la difficile vita di un Crononauta…
Atemu apre la porta, ritrovandosi nello stretto corridoio dell’appartamento di Hurley: altra buona notizia, almeno quello lo riconosce.
Percorre a passi piccoli e silenziosi la strada che, gli pare di ricordare, dovrebbe condurre fino alla cucina, anche se per una buona parte si affida al proprio olfatto, seguendo l’odore di crespelle appena cotte è impossibile finire in una stanza differente.
Trova Hurley ancora ai fornelli, la padella in mano e un’altra crespella in via di preparazione, intenta ad ondeggiare nell’arnese tenuto abilmente sospeso sopra i fuochi dal ragazzo dai capelli rosa.
Non appena il surfista si accorge che l’amico l’ha raggiunto in cucina gli riserva un sorriso a trentadue denti, agitando appena una mano nella sua direzione in un caloroso cenno di saluto.
«Ehilà! Vedo che ti sei ripreso» commenta subito il padrone di casa, senza riuscire a perdere il suo ampio sorriso.
«Eh già…» Atemu, fermo sulla soglia della stanza e con la schiena poggiata contro lo stipite della porta gli rivolge un lieve sorriso, mentre ancora indugia sul da farsi.
Hurley, notando l’amico temporeggiare, si lascia sfuggire una risata soffusa mentre aggiunge:«Prego, accomodati pure».
Mentre si limita a rispondere con un “grazie” sussurrato a bassa voce, Atemu prende posto al vitreo tavolo circolare che Hurley gli sta indicando con un braccio.
Il tavolo è situato davanti ad una finestra piuttosto alta, che a partire da pochi centimetri prima del soffitto arriva fin giù al pavimento, donando un’ampia visuale sull’esterno.
Da lì infatti Atemu riesce a distinguere piuttosto nitidamente i viali di Hyde Park, appena avvolti nella nebbia mattutina che sempre caratterizza Londra.
Poco dopo, mentre Atemu è ancora perso nella contemplazione del panorama esterno, Hurley lo raggiunge, portando con sé le crespelle appena tirate fuori dalla padella e diverse bevande, tra cui del caffè, il latte – ancora riposto nelle taniche in plastica nelle quali viene commerciato in Inghilterra – ed una caraffa contenente un’abbondante quantità di spremuta d’arancia.
«Ecco fatto» annuncia Hurley, con un sorriso trionfante «spero che la colazione possa essere di tuo gradimento».
«Lo è, alquanto» si affretta ad assicurare Atemu, racimolando un po’ dell’entusiasmo perduto la sera precedente, per via della stanchezza «ti ringrazio, non dovevi disturbarti tanto, specie dopo tutti i problemi che ti ho causato nel giro di così poche ore…».
L’altro si passa una mano davanti al volto, sminuendosi, per poi interromperlo:«Ti sbagli, Atemu: dopo che sei arrivato qui così malridotto, stanotte, non avrei potuto far altro che aiutarti. Sei mio amico, dopotutto, ti sembro il tipo da lasciarti fuori la porta?».
Il diretto interessato non sembra intenzionato a rispondere, mentre si passa le dita tra i lunghi capelli neri raccolti in una coda bassa si è già irrimediabilmente perso ad osservare l’amico… e dubita che la sua distrazione sia dovuta ai postumi della sera precedente.
Hurley approfitta del silenzio dell’amico per passargli una delle crespelle, apostrofandolo senza cattiveria:«Tieni, mangia: hai bisogno di rimetterti in forze».
Atemu annuisce, condiscendente, ringraziando sommessamente il rosa mentre recupera le posate ed inizia a mangiucchiare piano.
Di lì a poco anche Hurley lo imita sebbene, a differenza di Atemu, si metta ad addentare le crespelle con una certa voracità.
Hurley non è stato mai un tipo abituato a fare grandi complimenti o cerimonie e ad Atemu la cosa non ha mai dato particolarmente fastidio, anzi se ne è sempre sentito piuttosto sollevato, non avendo mai particolarmente apprezzato le persone troppo cerimoniose.
Forse però è anche vero che Atemu è piuttosto di parte, considerando che ormai si è reso conto già da un bel po’ di essersi innamorato di Hurley.
L’altro non ha mai dato segno di ricambiare i suoi sentimenti – o perlomeno di provare per lui qualcosa di simile – così Atemu si è sempre limitato a tacere la verità ad Hurley, per paura di perdere il proprio migliore – e unico – amico per via di una cosa del genere.
Certo, ha sempre sperato in un cambiamento, magari notare un giorno nello sguardo di Hurley un modo diverso di guardarlo, tuttavia per ora non si è mai accorto di niente, perciò è sempre rimasto in silenzio, ad aspettare.
C’erano giorni in cui l’attesa diventava logorante, asfissiante, nei quali il giovane dai capelli neri avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di essere notato e fare così in modo che l’altro si rendesse finalmente conto di ciò che provava realmente per lui.
Perfino baciarlo…
Poi però ogni volta Atemu tornava in sé, ricordando a se stesso che non erano quelli i pensieri che gli erano concessi, che era di altro che doveva occuparsi, non certo di quello…
Come se fosse facile…
No, lui doveva aspettare: la sua volontà era stata ferrea fino a quel momento, non poteva certo smettere di impegnarsi proprio adesso e mandare così all’aria tutti gli sforzi che aveva fatto per tutto quel tempo.
Si era di nuovo perso nei suoi pensieri, il che sarebbe stato decisamente imbarazzante se non avesse avuto ben altri problemi di cui preoccuparsi.
Solo allora infatti si rende conto che, sotto la sua camicia, l’Orologio ha preso a scaldarsi nuovamente, senza che lui l’abbia toccato.
Il che è decisamente un ennesimo avvenimento da aggiungere alla sua ormai infinita lista di stranezze che sono cominciate a capitargli, da quando ha trovato quell’assurdo orologio.
Atemu cerca di non dare a vedere la sua crescente preoccupazione ad Hurley, tuttavia con l’Orologio che si scalda sempre di più contro la pelle bronzea del suo petto gli è impossibile non agitarsi, accavallando appena le gambe sotto il tavolo e muovendosi irrequieto sulla sedia.
Nonostante tutte le sue premure, ad Hurley non passa certo inosservata l’inquietudine del ragazzo, che va mano a mano aumentando ogni secondo di più, così non riesce a trattenersi dal chiedergli:«Ehi, amico, va tutto bene?».
Atemu si sforza di sorridere mentre risponde, forse con un tono di voce più acuto del solito:«Oh, sì, va tutto benissimo, ti ringrazio…!».
L’altro, per niente convinto dalla sua risposta, cerca di insistere:«Sicuro? Magari posso offrirti…».
Le parole di Hurley, tuttavia, rimangono sospese a mezz’aria.
Poco dopo, infatti, una luce intensa e di un giallo vivace si sprigiona da Atemu – o meglio, dall’Orologio sotto la sua camicia – avvolgendo interamente la figura del ragazzo.
Quando la luce arriva al massimo del suo splendore sembra quasi esplodere, inondando l’intera cucina di scintillii dorati; non appena i bagliori iniziano a diradarsi, Hurley comincia a riaprire nuovamente gli occhi – non si era nemmeno accorto di averli chiusi, in effetti.
Ci mette un po’ a riadattare la vista all’ambiente intorno a sé, cercando di focalizzare per bene ogni dettaglio.
La prima cosa che, sfortunatamente, nota è il fatto che Atemu è letteralmente scomparso dal suo appartamento.
Di certo, Hurley non può negare a se stesso di essere alquanto sorpreso e sbigottito.
«…un sorso della spremuta d’arancia»conclude tra sé, lasciando che le parole aleggino nella stanza che ormai occupa nuovamente da solo.


♟» Chicago, Stati Uniti d’America, 2059


I lampioni cominciano a spegnersi lentamente, uno dietro l’altro, in contemporanea con il sorgere delle prime luci dell’alba.
Man a mano che Ethan, arrancando faticosamente sul marciapiedi, vede quelle stesse luci affievolirsi ogni volta proprio nel momento in cui le raggiunge, non riesce a fare a meno di pensare che perfino quei bagliori si stiano spegnendo con lui.
O forse è solo l’alcool che ha in corpo che lo fa ragionare – o, per meglio dire, sragionare – in un tal modo.
Quel che è certo è che almeno non sta camminando completamente al buio: infatti, con la venuta del nuovo giorno i primi raggi del sole riescono a raggiungere le strade fredde di Chicago, rendendole almeno un po’ più ospitali, sebbene sia ancora mattino presto e non ci sia assolutamente nessuno in giro.
Il che fa sentire Ethan ancor più solo.
Tira un calcio ad una lattina, osservandola rimbalzare prima sul cemento del marciapiede e poi su quello della strada accanto a sé.
Perché non c’è in giro una macchina nemmeno a quell’ora? Non pensava che una grande metropoli come Chicago potesse spegnersi, dopotutto…
In realtà i pensieri che Ethan sta soppesando in quel momento sono proprio altri.
I suoi occhi grigi sono ancora persi nella lattina che, lentamente, rotola lungo la strada fino a che, finalmente, non si ferma.
Da musicista quale è, Ethan non ha potuto fare a meno di essere attirato da quel tintinnio metallico, così assurdamente regolare, fino al punto di chiedersi se lui non si trovi nella stessa situazione di quella lattina.
D’altronde, anche lui sta rotolando, in balìa del corso degli eventi.
Come se fosse un sasso trascinato via dalla tumultuosa corrente di un torrente, così ora si sente Ethan, come quella sua incolore routine lo stesse trascinando via, sempre più verso l’autodistruzione…
Tuttavia d’un tratto, letteralmente dal nulla, sente una voce giungere da dietro le sue spalle e richiamarlo, con una calma sorprendente.
«Ethan Bailey?»
Ah, allora non era poi così deserto, quel luogo…
Ethan pensa – erroneamente – che si tratti di uno dei soliti fan, ecco perché indugia nel voltarsi; è stanco, adesso vorrebbe solo poter andare a casa a riposarsi, non certo incappare nell’ennesima trafila di selfie e autografi per ragazzine troppo piccole per lui.
Forse è troppo perso in pensieri di quel genere, tanto da non accorgersi del pugnale dalla lama lunga una trentina di centimetri che gli trapassa l’addome fin quando non inizia ad avvertire un dolore intenso, bruciante, lacerante alla parte colpita, la lama che gratta volontariamente conto le costole.
Sente l’aria essere risucchiata via dai suoi polmoni, tanto che nel giro di poco tempo rimane a corto di fiato, mentre un fiotto violento di sangue scarlatto gli macchia la camicia candida, piena di volant sul petto.
Ethan si porta le mani sul ventre, solo che non riesce a capire… qualcuno l’ha ferito? E perché mai sarebbe dovuta succedere, una cosa del genere?
Le gambe gli cedono, così si ritrova ben presto con le ginocchia a terra sul selciato, la bocca socchiusa contratta in una smorfia di dolore.
Arriva un altro colpo, stavolta all’altezza delle spalle e forse è solo suggestione, eppure a Ethan sembra quasi di sentire la lama raschiare lo sterno.
“Per pochi centimetri non ha colpito i polmoni…” valuta il ragazzo tra sé. Forse il suo aguzzino l’ha fatto apposta, per prolungare ancora di più quella sorta di perversa ed efferata violenza.
Ethan vorrebbe poter chiamare aiuto, solo che in quel momento tanto critico la sua così preziosa voce stenta a far capolino, beffardo gioco della vita. D’altronde, senza aria in corpo è difficile cantare, figurarsi gridare per chiedere aiuto, non è forse vero, Ethan? Te l’hanno sempre detto tutti: i tuoi produttori discografici, i maestri di canto di cui dicevi di non aver bisogno… non hai mai dato loro ascolto, Ethan. Così, ecco come ti ritrovi adesso: sangue che macchia il cemento a terra e bocca dischiusa nel vano tentativo di chiedere aiuto, che non riesci a portare a termine. Perché sei debole, Ethan Bailey. Ti sei fatto fregare come un povero sciocco da… da chi, poi?
Un ladruncolo qualunque, incontrato per strada a causa della mala sorte? Qualcuno che ha bevuto più di te, stanotte e non è ancora riuscito ac smaltire la sbronza?
Comunque, forse gridare sarebbe inutile: hai già appurato che non c’è nessuno, oltre te e il tuo assassino, nel giro di diversi isolati. Forse a questo punto dovrebbe subentrare l’amara consapevolezza d’aver fallito, Ethan: dopotutto, per quanto ti atteggiassi e quante arie ti dessi, non sei certo un Dio, bensì un comune, misero – se non addirittura miserrimo – essere umano, parassita venuto fuori dai bassifondi, che ha eretto la propria carriera lucrando sulle sventure altrui, cavalcando l’onda del gossip quando ce n’era bisogno. Ogni settimana con una ragazza nuova, feste, eventi, alcol, droga. Una vita d’eccessi, la tua, proprio come quella di ogni rockstar che si rispetti.
Anche quando i giornali parlavano male, dicendo che la tua musica istigava al suicidio, non hai fatto altro che fiondarti ancora di più in quel progetto, non importava che il costo fossero delle vite umane.
Le palpebre si fanno pesanti e calano sugli occhi, mentre il corpo cade in avanti, facendolo ritrovare supino a terra, la faccia premuta contro il marciapiede. Sono tracce di sassi, quelle che sente nella propria bocca? Che schifo.
A quanto pare, tuttavia, il tizio sopra di sé non ha ancora finito di divertirsi con lui. Ethan inizia a pensare che sia il padre o il fratello di una delle sue vittime, quelle persone che si sono suicidate a causa della sua musica. Magari hanno dato troppo retta a quelle cazzate scritte sul giornale e hanno deciso di dargli il benservito. Gli pare un’ipotesi ben più plausibile, in effetti.
Gli viene rifilato un poderoso calcio sul fianco destro e se potesse Ethan si piegherebbe ben volentieri su se stesso, cercando di attenuare il dolore, solo che le ferite che ha nella pancia e tra le spalle glielo impediscono, perciò non può far altro che ruotare fino a ritrovarsi prono, non senza trattenere un rantolo per il dolore.
Sputa, del sangue coagulato si rapprende sulle sue labbra e non volendo finisce per schizzarsi tutta la faccia. La bocca vellutata e il suo intero volto sono ridotti in uno stato assai pietoso, decide tuttavia che quello è davvero il male minore.
L’aguzzino si piega su di lui, posando le ginocchia ai lati del corpo abbandonato di Ethan. Ci manca lo stupro in pubblico, e poi la sua collezione di esperienze tremende sarà finalmente completa.
Passa la lama imbrattata di sangue lungo la mascella prominente del giovane, con un cipiglio impensierito. Ethan non ha la più pallida idea di che cos’altro gli farà, adesso. Sinceramente, non gli è ancora bastato averlo ridotto in fin di vita.
Poi succede una cosa strana, che mai Ethan si sarebbe aspettato. Il suo assassino si mette a parlare.
«Sai, detesto i tipi come te» ammette infatti, la punta di disprezzo ben percepibile nella voce «quelli che nella vita hanno tutto, insomma. Successo, fortuna, amore, soldi. Ahimé, a me non è toccato nulla del genere, così adesso mi tocca sfacchinare in giro per il mondo a causa di un vecchio borioso. Odio la mia vita».
“Non sai quanto io detesti la mia, di vita” vorrebbe replicare Ethan, peccato solo che ormai abbia finito già da un bel po’ il fiato che aveva in gola.
Una domanda, tuttavia, continua a ronzargli prepotentemente nella testa, senza lasciargli tregua.
Chi diavolo è quel tipo?
Alla fine, con le ultime forze che gli rimangono, Ethan si costringe a sollevare le palpebre. E la visione che gli si para davanti è a dir poco sconvolgente.
È abbastanza sicuro di non averlo mai visto prima, in vita sua. Pelle diafana, occhi verde-grigiastri, capelli castani acconciati in una maniera talmente improponibili che farebbero ridere persino i polli. Anche in punto di morte, è difficile non notare certi particolari, per uno che tiene tanto alla moda come Ethan.
Per un attimo crede che quel tipo possa essere interessato all’Orologio, tuttavia ben presto è costretto a smentire nella sua testa anche quella ipotesi, poiché soprattutto per lui è impossibile non notare la catena che scende dal collo del giovane, terminando in un Orologio in tutto e per tutto identico al suo, tranne per il retro, decorato da tanti e fitti microscopici puntini. È abbastanza certo di non aver mai visto niente del genere. Che diavolo è quella roba?
Continua a chiedersi chi diavolo sia questo ‘vecchio borioso’ che quel ragazzo ha nominato, solo che non ha il tempo materiale per poter trovare una risposta a quella domanda.
«Oh, beh» riprende il ragazzo, con voce fredda e impassibile, melliflua, calcolatrice «sono qui per portare a termine un lavoro. Vediamo di finirlo nel migliore dei modi».
Ciò detto, Ethan sente ancora la lama trafiggerlo. Solo che, questa volta, ad essere colpito è il cuore. E il buio cala davanti ai suoi occhi mente Ethan Bailey, inesorabilmente, muore da solo, in una via deserta del centro di Chicago.

Riemergere da quella specie di visione è come prendere una profonda boccata d’aria, dopo interminabili minuti d’apnea.
Thiago sbatte un paio di volte le palpebre, decisamente confuso.
Il musicista Ethan Bailey è morto nella notte tra il venti e il ventun novembre, brutalmente assassinato da un uomo senza nome e senza volto. Le ipotesi sul suo omicidio sono state tante – vendetta personale, rapina finita male, semplice incidente umano – eppure, dopo quasi un mese dall’accaduto, gli inquirenti sembrano non riuscire ancora a darsi una risposta.
Più che altro, le prove dell’omicidio – tra le tante, l’arma del delitto – sembrano essersi letteralmente volatilizzate nel nulla.
Ora, però, la situazione sembra essersi ribaltata.
Dopo aver sentito parlare di quell’artefatto, per mesi e mesi Thiago l’ha cercato in lungo e in largo, fino a quando non è incappato in quell’articolo di giornale sulla morte di Ethan, in cui si faceva cenno al misterioso medaglione che il ragazzo aveva indosso, quando era stato ritrovato riverso in una pozza di sangue.
Si era pensato che fosse stato quello l’obiettivo dell’aggressore, tuttavia non era riuscito a portarglielo via. Forse per mancanza di tempo?
In realtà, in quel momento Thiago può tranquillamente affermare che non era all’Orologio che quel tipo mirava, bensì a Ethan stesso.
Non per faida personale, non spinto dalla foga dei giornali scandalistici o quant’altro… no, il punto era un altro.
Qualcuno aveva spinto quel ragazzo a compiere un gesto così efferato. Un ‘vecchio borioso’, stando a quella ricostruzione. Thiago non può fare a meno di porsi la stessa domanda che è riecheggiata nella mente di Ethan, in punto di morte: chi diavolo sarebbe questo vecchio di cui il ragazzo parlava?
Per anni, Thiago ha rincorso quell’orologio, sulla scia di miti e leggende. Aveva sentito parlarne per la prima volta tanti anni addietro, in uno dei suoi numerosi viaggi di lavoro. Da allora non aveva mai smesso di cercarlo, correndo dietro alle più disparate piste, da quelle più giuste ad altre, decisamente sbagliate ed altamente improbabili.
E poi era incappato in quel trafiletto, su un giornale di seconda mano, in cui si faceva riferimento alla morte di un giovane musicista ventenne, sepolto con il suo strano orologio.
Da qualche parte – una biografia di Ethan, uscita in seguito alla sua prematura scomparsa – aveva letto che uno dei sogni del ragazzo era morire a ventisette anni, possibilmente di morte violenta, così da poter essere ricordato nel Club 27, ossia gli artisti principalmente statunitensi morti proprio a quell’età.
Vedere il proprio nome comparire insieme a quelli di Kurt Cobain, Jimi Hendrix ed altri artisti di tale calibro gli avrebbe conferito gloria e fama eterne.
Non sa quante di quelle dicerie corrispondano alla realtà, tuttavia Thiago preferisce pensare che Ethan volesse avere successo nella vita con la sua musica, non certo per essere morto alla stessa età di Jim Morrison.
Comunque, a quanto pare Ethan non è riuscito nel suo intento di diventare “indimenticabile” nella memoria della gente e Thiago dubita che sia perché è morto con sette od otto anni d’anticipo rispetto a Brian Jones, quanto piuttosto per quel che ha fatto in vita. Ethan Bailey era infatti un narcisista, cinico, insensibile musicista, disposto a lucrare sulla morte altrui pur di costruire il proprio successo.
In un certo senso, Thiago si sente simile a lui: certo, non ha mai pensato di passare sulle vite altrui pur di raggiungere i suoi scopi, però non può negare a se stesso di essere anche lui, almeno un poco, arrivista.
Ha investito tutta la sua vita nel lavoro e nella ricerca di quell’Orologio, ecco perché adesso è lì.
Meglio non pensare a quanto ha dovuto pagare i becchini per far disseppellire loro quella bara e, chiaramente, per assicurarsi che tengano la bocca chiusa sull’argomento. Per lo scopo che si è prefissato, è disposto a questo ed altro.
Tornando alle dicerie sull’Orologio, una di queste era che, al momento del passaggio non concordato tra il vecchio possessore e quello nuovo, quest’ultimo rivedesse nella propria mente gli ultimi momenti di vita del vecchio proprietario.
Beh, inutile dire che Thiago ha appena accertato la veridicità di quelle parole – per quanto non fosse di certo favorevole a ricevere gli ultimi stralci di vita di un ragazzo spocchioso e pieno di sé morto assassinato, certo.
La visione era stata incredibilmente realistica, gli sembrava di poter sentire ancora l’odore acre del sangue e il pugnale conficcarsi nelle proprie carni, anziché in quelle di Ethan.
Thiago rabbrividisce, nel freddo pungente di dicembre. È passato quasi un mese dal funerale di Ethan – niente di troppo formale o pomposo, una semplice cerimonia privata riservata solo agli amici e ai pochi famigliari – e le corone di fiori poste sul cumulo della bara sono pressoché appassite, tra i primi fiocchi di neve.
Nessuno si reca a far visita a quel tempio, nemmeno i fan. Neppure un nuovo omaggio ad ornare la terra fredda che ha accolto la salma senza vita di quel giovane uomo.
Thiago se l’aspettava, perciò ha avuto il buonsenso di portare un unico fiore, una rosa bianca. Non che fosse un ammiratore della musica di Ethan, è abbastanza certo di non aver mai sentito niente di suo, perlomeno fino a dopo la sua morte, quando qualche radio locale si è degnata di passare alcuni suoi pezzi. Aveva una gran bella voce, Ethan. Roca, sofferta, accattivante.
Cantava d’amore, a volte di dolore. Qualche ANSA di nicchia deve aver sparso la notizia che Ethan fosse innamorato di un suo amico, un certo Joseph King. Ecco perché gli ha portato quella rosa: una volta, una fiorista in Portogallo – la sua patria – gli ha detto che, nel linguaggio vittoriano dei fiori, la rosa bianca significava “un cuore che non conosce l’amore”. La definizione gli è parsa adatta ad Ethan, poiché a quanto pare non ha mai avuto il coraggio – o forse, più semplicemente, il tempo – necessario per poter confidare il suo amore a questo Joseph.
Quanto all’Orologio, Thiago ha cercato di ricostruire un filo di verità intorno a quell’oggetto. Parrebbe trattarsi di un artefatto magico, costruito anni addietro da un alchimista di Londra, un certo Joshua Parrish, che per molto tempo si è spacciato per un semplice artigiano, lavorando presso la sua bottega.
Pare che, nel 1782, Joshua avesse costruito dodici Orologi, dei congegni che, grazie all’alchimia che scorreva nei loro ingranaggi, fossero in grado di viaggiare tra le varie pieghe del tempo, passate o future.
Peccato che qualcuno avesse scoperto le reali intenzioni dell’artigiano-alchimista, così da decidere di ostacolarlo. Chi fosse stato in possesso di tutti gli Orologi, infatti, sarebbe stato un vero e proprio Signore del Tempo, capace di dominare ogni epoca a proprio piacimento.
A quel punto, un uomo crudele e senza scrupoli tentò, dopo aver ucciso Joshua, di impossessarsi di tutti gli Orologi, tuttavia l’alchimista era stato più furbo: infatti, aveva già disposto ogni cosa in modo da far sì che, alla sua morte, avvenisse quella che comunemente viene denominata la “diaspora degli Orologi”, vale a dire la dispersione degli artefatti magici in giro per tutto il mondo.
Da allora, al succedersi di ogni nuova generazione, una dozzina di nuovi ragazzi entra in possesso ciascuno di un Orologio e il loro compito è quello di non far cadere gli artefatti in mano del loro nemico e, dunque, sconfiggerlo.
Quanto a chi sia quest’uomo, beh, nessuno lo sa per certo: è senza dubbio una persona assetata di sangue, pronto a qualsiasi cosa pur di ottenere quel potere che agogna da quasi due secoli e mezzo. Già, chi entra in possesso di un Orologio – comunemente abbreviato in Oro – perde la capacità di invecchiare, fino a che non se ne separa, per volontà propria o costretto da altri che sia.
Probabilmente, ragiona Thiago, quello che ha visto nei ricordi dell’Oro di Ethan doveva essere un emissario del nemico, visto che al collo portava l’Oro del male – sì, gli Oro si distinguono in base ai simboli raffigurati sul retro e cambiano in base a chi li possiede.
La cosa strana è che Thiago è abbastanza sicuro di non aver mai visto quell’effige, prima di allora.
L’Oro tra le sue mani brilla di una luce turchese scuro, mentre sente il retro di esso farsi di una temperatura insostenibilmente calda. Malgrado ciò, Thiago si costringe a tenere l’Oro ancora ben stretto nella sua mano, fino a che la luce non si attenua e il calore smette di diffondersi.
Adesso, sul retro dell’Oro, è rappresentato un ragno, simbolo dello zelo e dell’operosità: gli aracnidi, infatti, sono noti per la loro pazienza nel tessere le tele, dove poi attirano le loro prede, per catturarle e mangiarle in tutta calma, mentre queste si dibattono tra quei fili da cui non riusciranno a liberarsi e che causeranno loro la morte.
Ecco, Thiago non è certo un ragno in questo senso, tuttavia sa di essere provvisto di quel giusto pizzico di zelo – e, talvolta, sprovvedutezza, certo – che gli consentono di avere sempre la meglio su tutti i suoi avversari. Anche stavolta ce l’ha fatta, sebbene sopraffare qualcuno che è già in una bara non sia poi così difficile.
A tal proposito, continuare ad osservare la salma grigiastra di Ethan non gli sarà certo di beneficio. Ormai il passaggio dell’Oro è avvenuto e senza intoppi, pertanto non ha più senso fissare quel corpo dalla pelle mortalmente diafana.
«Potete rimetterla giù» comunica agli inservienti del cimitero, che chiudono la bara e cominciano a calarla nuovamente sottoterra. Non sa perché, eppure ha come l’impressione che questo gli costerà degli altri soldi.
Ora anche Thiago è finalmente un Crononauta e ha tutte le intenzioni di rimanerlo per un po’, non certo di farsi portare via la vita tanto facilmente come è successo ad Ethan. Ripensa tuttavia all’emissario del nemico che gli è apparso nella visione, con quello strano Oro mai visto da nessun’altra parte e sa già che sarà una missione tutt’altro che semplice.

♟» New York, Stati Uniti d’America, 2120

Quando l’ossigeno torna a fluire nei suoi polmoni, Jude quasi non se ne accorge.
Ha gli occhi chiusi, sente le guance in fiamme e il cuore martellargli ad un ritmo folle nel petto. Le labbra gli fremono ancora, mentre tutto il mondo sembra essersi ristretto ad un pugno di centimetri.
Sa di non essersi sognato tutto – ed è ben lieto del fatto che non sia così – eppure gli appare tutto in modo così incredibile che crederci gli sembra folle.
Sa tuttavia che non sta immaginando le mani che ora gli stringono piano il volto, così come la fronte che si poggia alla sua, o lo sbuffo di fiato leggero che gli colpisce il viso, riportandolo di colpo alla realtà.
È in una dimensione che non è la sua.
Parla da tempo indefinito con una persona che credeva morta da quattro anni.
Quella persona – che altri non è se non Ray Dark – lo ha appena baciato.
No, un momento.
Ray Dark l’ha appena baciato.
Oddiooddiooddiooddio.
Jude deve ripeterselo nel cervello circa un centinaio di volte, prima di cominciare a rendersi conto dell’effettiva realtà dei fatti.
“Calmo. Sta calmo, Jude. Ragiona lucidamente, ti prego, non andare nel panico…”
Oh, andiamo, a chi voleva darla a bere, ormai era già innegabilmente nel panico più totale da cinque minuti buoni. Lui, quello sempre padrone di sé e delle proprie emozioni—
Oh, al diavolo.
«Jude»
La voce dell’uomo sembra risvegliarlo da una letargia secolare; non appena solleva le palpebre ed incrocia lo sguardo affranto e colpevole dell’altro, Jude sente il cuore riprendere a battere con una frequenza insostenibile, mentre un nodo in gola si stringe, ad ostruirgli il respiro.
«Ti prego, perdonami» lo sente riprendere, di lì a poco «ho fatto una cosa terribile, lo so. Io—»
Jude, tuttavia, non gli lascia il tempo per finire la frase.
Poggia l’indice sulle sue labbra, intimandogli il silenzio, mentre percepisce il corpo di Ray sobbalzare per quel gesto improvviso, inatteso.
«Ti stai scusando per avermi baciato?» domanda Jude, la voce piatta e monocorde che si rivela stranamente minacciosa.
«B-beh… sì, a dir la verità…» cerca di spiegare l’altro, avvertendo la voce pericolosamente incerta.
«Mi è piaciuto»
«Cosa?»
«Come ‘cosa’?» Jude sospira, facendo roteare gli occhi per l’esasperazione «Parlo del bacio, Ray, a cos’altro diavolo dovrei rif—»
«Ti è piaciuto?» Ray sembra incredulo, non pensava che avrebbe mai sentito dire quelle parole a Jude Sharp.
«È quello che ho appena detto» replica il diretto interessato, gli pare di star parlando con uno stupido – cosa che Ray Dark non è, affatto. Può attribuire un sacco di aggettivi negativi a quell’uomo – megalomane, folle, cinico, prepotente e via dicendo – di certo tuttavia non può dargli dello stupido. Ha visto con i suoi occhi quello che è in grado di fare e per quanto il più delle volte si tratti di cose malvagie su cui Jude non è affatto d’accordo,  sa che dietro ogni suo gesto si cela una grande dose di raziocinio.
«Davvero?» rincara l’altro, sembra letteralmente incredulo.
«Certamente» gli assicura il giovane, rivolgendogli un lieve sorriso.
«Oh, allora è così, mh?» Dark sembra essersi ripreso dallo shock della rivelazione, mentre stringe la vita del ragazzo e lo trascina con sé «Beh, in tal caso potrebbe anche saltarmi in mente di fare una cosa».
«Che genere di cosa?» si azzarda a chiedere il giovane, tenendo le braccia strette attorno al collo dell’ex allenatore e lasciandosi trascinare lentamente.
«Direi… questa» si appresta a rispondere l’uomo, sorridendo furbescamente.
Neanche un secondo dopo, le sue labbra tornano su quelle del ragazzo, riempiendole con una miriade di piccoli baci.
Jude arrossisce, senza tuttavia accennare all’intenzione di allontanarlo da sé.
In fondo, finirebbe per mentire a se stesso se dicesse che tutto ciò non gli stia dannatamente piacendo.
«Ti amo» sente mormorare Ray, tra un bacio e l’altro «ti amo, ti amo, ti amo…»
«E-ehi…» lo richiama poco dopo Jude, carezzandogli una guancia mentre si distacca piano da lui, appoggiando la fronte contro la sua «e perché te ne vieni fuori con una cosa del genere solo adesso?»
Ray sembra sorpreso da quella domanda, tanto che per un attimo le sue iridi sembrano dilatarsi, puntini neri d’inchiostro che si espandono lungo un mare di carta bianca.
«Beh, ecco, io…» balbetta l’uomo, poco dolo, apparentemente spiazzato «…n-non sapevo se dirtelo. Avevo paura di spaventarti, non volevo che mi odiassi ancora di più…»
«Ray» Jude sospira, ha l’impressione di rivolgersi ad un bambino «io non ti odio. Ti ho perdonato tanto tempo fa, ricordi?»
«M-ma» dopo quelle parole, Ray sembra essere ancora più confuso «tu l’altro giorno hai detto che mi odi…»
«Oh, insomma» Jude sbuffa, esasperato, deve fare uno sforzo immenso per non mettersi ad urlare «mi dispiace per quello che ho detto. Credevo sapessi però che non lo penso sul serio, in quel momento ho sbraitato così solo perché ero infuriato con te».
«Sul serio?»
Jude sospira di nuovo prima di replicare ancora una volta:«Dio, Ray, certo che sì. E smettila di tremare in questo modo, dov’è il Comandante spavaldo e sicuro di sé che amo?»
«Che il cielo sia lodato!» gli occhi dell’uomo sembrano illuminarsi, mentre si lancia nuovamente a baciare quelle labbra giovani e tanto amate «Hai detto che mi ami, Jude, hai detto che mi ami~»
«E-ehm… sì, l’ho detto. Ray, adesso potresti smetterla di—»
«Hai detto che mi ami!»
«Ray, se non la pianti immediatamente di interrompermi giuro che mi rimangio ogni singola parola che ho detto» lo minaccia subito il ragazzo, senza indugiare oltre.
«Oh» l’uomo si ferma all’istante sul posto, congelato al pensiero di quella possibilità «sì, giusto, hai ragione. Ti chiedo scusa, Jude».
Il giovane Sharp sogghigna soddisfatto: sono poche le volte in cui Ray Dark l’abbia lasciato spuntarla, durante un dibattito.
«Molto bene» Jude gli carezza il capo, con sguardo malizioso «e adesso che si fa?»
Ray ghigna immediatamente, ricambiando l’occhiata lasciva del giovane.
«Oh, io una mezza idea ce l’avrei…~» ammette infatti poco dopo, prendendo colui che ora, a maggior ragione, può finalmente definire il suo ragazzo, per mano.
«Vieni con me» aggiunge ancora, la voce carica d’aspettativa.
«Anche in capo al mondo» s’affretta a replicare il ragazzo, un sorriso gentile che gli fa capolino sul volto.
Ed è lo stesso sorriso che, poco dopo, incurva le labbra dell’uomo, solitamente piegate nel consueto ghigno arcigno, mentre inizia a correre attraverso l’ufficio in cui si trovano, e poi giù, giù, giù, lungo rampe e rampe di scale.
Jude ride cristallino, lasciandosi trascinare con piena condiscendenza. Per un istante la tentazione di ricordare a Ray – sebbene sia abbastanza sicuro che l’uomo lo sappia già – che non avrebbero dovuto baciarsi, oltre al fatto che nessuno di loro due dovrebbe provare dei sentimenti del genere verso l’altro. Però alla fine decide di non farlo, non vuole rovinare quel momento così perfetto con le sue solite stupidi ed inutili paranoie.
Dal canto suo, anche Ray ha preferito omettere qualcosa al suo ragazzo: mentre correvano via da quell’ufficio, infatti, ha intravisto uno strano bagliore purpureo, attraverso la lunga vetrata.
Non gliene ha parlato, perché quella risata limpida e quegli occhi rossi che scintillano solo per lui valgono decisamente molto di più di una luce che potrebbe benissimo essersi sognato.
Non turberebbe mai e poi mai la tranquillità di Jude, non in un momento del genere, ora che il ragazzo ha ripreso a sorridergli e a fidarsi di lui dopo così tanto tempo.
Ray, però, ancora non sa che quel bagliore potrebbe essere ben più importante di quello che crede…


♟» Nel frattempo, in un luogo non meglio definito…


Spire di fumo si uniscono in ipnotici movimenti circolari, ricreando una superficie speculare, attraverso la quale appaiono, nitidi e ben visibili, Jude Sharp e Ray Dark, intenti a correre giù lungo ampie rampe di scale, tra risolini entusiasti ed occhi scintillanti.
“Che scena al limite del patetico” si limita a commentare tra sé l’uomo seduto sul trono dorato, con la solita espressione impassibile.
«Non era così che dovevano andare i piani» sente sbottare qualcuno, in fondo alla sala immersa nelle tenebre.
L’altro rotea gli occhi, esasperato. Possibile che, tra tutti i servitori esistenti al mondo, proprio a lui dovesse toccare un moccioso spocchioso e amante delle insubordinazioni?
«Ah, buonasera» l’uomo si volta in direzione del nuovo arrivato, con un’espressione di biasimo «andato bene il viaggio? Per tua fortuna ti sei risparmiato la parte in cui si dichiarano amore eterno e via discorrendo—»
«Non mi racconti cazzate» sbotta il giovane, sputando a terra, disgustato «dovevamo farli fuori tempo fa, quando ne avevamo la possibilità. Quei due sono una minaccia bella e buona per i nostri progetti…»
«I miei progetti, vorrai dire» il sorriso scompare dal volto dell’uomo, tramutandosi ben presto in un ghigno che gli è più congeniale «non prenderti meriti che non ti appartengono, Stonewall. Se non fosse stato per me, tu saresti ancora da qualche pare a commiserare la tua patetica figura, nel 2059. Suvvia, porta rispetto… e modera il linguaggio, soprattutto».
Fosse per Caleb, adesso salterebbe ben volentieri alla gola di quel vecchio aguzzino senza scrupoli. Un attimo prima che possa farlo, tuttavia, si ricorda che l’uomo per cui lavora ha così tanto potere da poterlo uccidere in un istante, se solo lo desiderasse.
«Vorrei ricordarti inoltre – visto che forse te ne sei scordato – che sei dentro questa storia fino alla punta dei capelli, pardon, mi correggo, fino alla punta di quell’orrendo ciuffo che ti ritrovi in testa. Hai forse dimenticato di essere stato tu ad uccidere Ethan Bailey, lo scorso novembre?» puntualizza il vecchio, con voce arcigna e calcolatrice.
E merda, sì, quel tizio ha fottutamente ragione. Si è macchiato le mani del sangue di qualcun altro per lui, solo perché era d’intralcio per i piani. ‘Una minaccia troppo grande’ l’aveva definito il vecchio, prima di mandare Caleb ad ucciderlo. Minaccia per cosa, poi, il ragazzo non l’aveva capito.
Cazzo, aveva ammazzato Ethan senza nemmeno saperne il perché. Se quell’uomo gli avesse detto di buttarsi da un ponte, probabilmente l’avrebbe fatto senza battere ciglio, pur continuando a non capirne il motivo.
«Piuttosto» lo richiama il vecchio, massaggiandosi distrattamente una tempia «ti sei occupato di quelle ‘faccende’ che ti avevo detto?»
«Certamente, Signore» risponde meccanicamente Caleb, non senza una smorfia di disgusto «ho rifilato una botta in testa a Ziva Shapira, per poi iniettarle la sostanza – che Lei mi ha consegnato, Signore – mentre era ancora svenuta. Sono abbastanza certo che, una volta risvegliata, non ricordasse un bel niente di Orologi e quant’altro. Comunque, adesso a quanto pare l’Oro del Tempo – quello con il simbolo della pergamena, per capirci – sarebbe caduto nelle mani di una certa Claudine Blanchard, cambiando il simbolo in una rondine, quindi l’Oro della Libertà. Per quanto riguarda Shiba Orubo, è stato più semplice del previsto: quel tipo ha sempre la testa in culo al mondo, mi è bastato spingerlo giù oltre il reticolo spazio-temporale durante uno dei suoi viaggi e il gioco è fatto. Adesso ad essere in possesso dell’Oro dell’Ingegnosità sarebbe Amos Akolzin, chi diavolo sia nessuno lo sa. Infine, quanto all’Oro della Musica di Ethan Bailey che, come Lei ha ricordato, sono stato io stesso ad uccidere…»
«…ora appartiene, proprio come io avevo previsto, a Thiago Joel Ferreira dos Reis, arrivato in America direttamente dal Portogallo, come Oro dell’Ambizione. Possiamo rilassarci, Caleb. Tutto procede secondo i nostri piani. E ti avevo detto di moderare il linguaggio, cosa che tu non hai fatto, tuttavia adesso queste non sono che inezie, dinanzi alla magnificenza di ciò che si sta costruendo sotto ai nostri occhi» conclude l’uomo, pieno di un preoccupante fervore.
«Sì» cerca di riprendere Caleb, ben più ancorato alla realtà dei fatti «ma per quel che riguarda Jude Sharp e Ray Dark…»
«Oh, Caleb, dunque è questa la tua preoccupazione?» chiosa l’uomo, quasi prendendolo in giro con quelle sue stesse parole «Di questo non dobbiamo preoccuparci, mio fedele servitore. Lasciali pure ardere in questa passione: vedrai che, a conti fatti, di loro non resteranno che ceneri, mentre a trionfare saremo noi».
E, detto ciò, quell’essere viscido e perfido scoppia in una roca risata malvagia, mentre Caleb serra la mascella, fissando il suo migliore amico e il suo ex allenatore correre e ridere attraverso quelle strade deserte, diretti verso l’Hillton Hotel.


                               
   
*Angolo autrice*
Oddio, non ci credo, sono riuscita a finire questo capitolo.
Probabilmente adesso, in qualche remota parte del mondo, a Marina sarà venuto un infarto
Sono molto felice di potervi lasciare questo nuovo capitolo e Ange è contenta di poterlo finalmente leggere
Comunque, ammetto di essere in ritardo stratosferico, visto che l’ultimo capitolo risale a sei mesi fa e al tempo stesso di essere invece abbastanza in tempo, perché le nuove iscrizioni si sono chiuse tre giorni fa.
Ebbene sì, abbiamo un nuovo assetto dei Crononauti, che qui di seguito vi andrò ad elencare, con rispettivi colore della luce dell’Orologio durante il salto spazio-temporale e simbolo sul retro dell’artefatto


Amelia Greene ~ corvo
Thiago Joel Ferreira dos Reis ~ ragno
Claudine Blanchard ~ rondine
Margarita Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Atemu McKinley ~ mondo
Amos Akolzin ~ ingranaggi
Andrea Cervini ~ scheggia di vetro


Ed eccoli qua, i nostri prescelti :3
Mi spiace per chi è stato eliminato ma… in un certo senso, ve la siete cercata voi.
Parlando del capitolo… come vi avevo promesso, abbiamo un nuovo banner. Probabilmente l’altro era più carino, sappiate però che per il terzo ed ultimo arco narrativo ce ne sarà uno ancora diverso (alla faccia della pigrizia).
Ammetto che la parte di Atemu – e un pochino di quella di Ethan – avevo cominciato a scriverla già da maggio, solo che poi, tra un problema e l’altro, sono rimasta lontana dalla scrittura per un bel po’. Ora però ho tutte le intenzioni di recuperare il tempo perduto.
Mi dispiace di aver ucciso Ethan? No, affatto. È stato anzi una sorta di esercizio per sfogare tutta la rabbia repressa che avevo dentro, ecco perché – almeno a me – sembra una narrazione incredibilmente realistica. E poi andiamo, Thiago è un personaggio centomila volte migliore di Ethan, questa cosa non si discute.
(Se mi venite a dire via recensione che vi dispiace che io abbia ucciso Ethan giuro che vi mangio la testa)
Quello che mi premeva fare è un ragguaglio sulle situazioni temporali: tutta la storia è ambientata nel 2059, mentre gli eventi della premiata coppia KageKi avvengono in una dimensione parallela atemporale, dove il tempo si sarebbe ipoteticamente fermato nel 2100 dopo una grave catastrofe. Ieri sono stata tipo tutto il giorno sul computer per poter far quadrare ogni cosa, inoltre ho corretto tutti i vari errori di punteggiatura e tempi verbali disconnessi che avevo disseminato  in giro per il testo. Giuro che appena trovo dieci secondi di tempo posto anche i capitoli revisionati e corretti.
A proposito di questi ultimi, ci sono state delle modifiche sostanziali nelle parti di Amelia: le vicende di lei e Darren si svolgono comunque nel 2059 e non nel (cos’era) 2012, inoltre la paura di Amelia quanto a ciò che non può confidare a Darren è relativa al fatto che sia una Crononauta, non certo perché venga da un’epoca diversa – perché per l’appunto no, le loro epoche non sono più diverse.
Un’altra cosa importante: gli eventi di Amelia nel capitolo precedente e di Atemu e Thiago in questo si svolgono nel dicembre 2059, mentre tutti gli altri archi narrativi – all’infuori dei salti temporali – si ambientano a novembre 2059. Questo succede perché mi dovevo far quadrare i conti, in qualche modo dal prossimo capitolo in poi la narrazione sarà stabilmente ambientata a dicembre 2059, tranne per i salti spazio-temporali.
Dovevo aggiungere a questo capitolo anche una parte in cui Amelia richiama gli altri sette Crononauti alla bottega, solo che ormai il chap mi era venuto decisamente troppo lungo – circa 7.150 parole e 20 pagine di Word – perciò ho preferito spostarlo nel prossimo capitolo, che se tutto va bene uscirà i primi di settembre (scusate ma attualmente sono alle prese con una one shot molto impegnativa, pertanto ho preferito lasciarvi questo capitolo oggi in modo da potermi concentrare poi sull’altra storia e riprendere la long più avanti, quando sarò un po’ meno oberata di impegni).
Ho anche modificato l’ordine dei capitoli, quindi questo è il quinto, mentre il prossimo sarà il sesto. E anche lì, aspettatevi colpi di scena a go go: conosceremo anzitutto i due nuovi personaggi, Claudine e Amos, inoltre avremo la prima vera e propria riunione dei Crononauti e… oh, finalmente un po’ di azione!
Dunque, con questo credo di aver detto tutto. Mi dispiace di non aver pubblicato prima ma, davvero, è stato forse il periodo peggiore di tutta la mia vita. Adesso però sono qui, lo giuro, e m’impegno solennemente a portare avanti questa storia.

A presto
Del       


Next stop .:: Chapter six  —Resistance

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Capitolo 7
*** Resistance ***


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« Non è vero che abbiamo poco tempo:
la verità è che ne perdiamo molto »    
– Seneca –
 
Chapter six
Resistance

♟» Londra, Regno Unito, 2059

Amos si appoggia al muro di mattoni alle sue spalle, gli occhi chiusi e la fronte imperlata di sudore, mentre prende ampie boccate d’ossigeno, cercando di scacciare la sensazione di nausea.
È incredibile come l’inizio di tutti i suoi guai sia esattamente riconducibile al momento in cui si è imbattuto in quell’Orologio. Maledizione a lui e alla sua passione per l’antichità, insomma.
Quello stano oggetto ancora arde e pulsa di energia pura, sotto i vari strati di vestiti che quel giorno indossa. È dicembre inoltrato, il clima ucraino è rigido e impietoso come al solito.
O meglio, lui si è preparato in modo consono a trascorrere un’ennesima giornata esposto al gelo invernale delle pianure della sua terra, anche se è abbastanza certo che ora non si trovi più presso le sue regioni natie.
All’improvviso l’Orologio si è acceso di un’intensa luce grigiastra, assumendo un calore ben poco rassicurante. Col passare dei minuti, né la temperatura né il bagliore avevano dato segni di diminuzione, al contrario continuando ad aumentare sempre di più, fino a quando entrambe erano culminate in una sorta di esplosione intensa.
Un attimo prima era assolutamente certo di trovarsi in Ucraina… e quello dopo eccolo lì, in una stradina laterale. Di che città, esattamente?
Due anziane passano lì accanto, mormorando qualcosa di ben poco rassicurante in un inglese rapidissimo e fluido, mentre continuano a tirare dritto lungo la via principale, fissando Amos con sguardi di biasimo.
Il ragazzo corruga la fronte: non credeva di aver commesso qualcosa di tanto sbagliato. Beh, suvvia, da quando in qua apparire dal nulla nel bel mezzo di una città era vietato? Specie se tutto ciò – chiaramente – accadeva contro la propria volontà.
Perché, va specificato, Amos non ha fatto proprio un bel niente per cacciarsi in quel danno, giacché, a quanto gli risulta, essere affascinati da un orologio notato per caso in un negozio di antiquariato non è ancora un reato. Stava camminando tranquillamente e civilmente, quando è successo… beh, tutto.
Sposta lo sguardo di lato, concordando con il proprio inconscio che la cosa migliore da fare in quel momento sia cercare di capire dove si trovi, così da poter chiedere aiuto ed eventualmente trovare il modo per tornare a casa, qualora non ci si trovi – e ad Amos pare essere abbastanza palese che non sia cosi.       
 Il fatto che le due anziane di poco prima parlassero inglese non lo aiuta poi molto, dopotutto l’inglese è la lingua più parlata del mondo, anche se crede che se fosse stato ancora in Ucraina due signore di quell’età avrebbero parlato la loro lingua, non certo l’inglese.
Lo scorcio che i suoi occhi catturano è quello di un ampio viale, le strade asfaltate costellate di platani, scivolano via leggere, mentre la luce grigiastra del mattino accompagna il placido scorrere di un fiume, poco distante da lì.
«È il Tamigi» sente affermare qualcuno alle sue spalle, la voce roca e affaticata.
Amos si volta, in un impeto di curiosità, forse con troppa avventatezza. La testa gli vortica nuovamente, attentando alla sua già precaria situazione eretta.
Si ritrova a fissare un ragazzo – avrà all’incirca la sua età – dai lunghi capelli neri raccolti in una coda e la pelle ambrata, che sembra aver assunto una colorazione malaticcia.
Niente a che vedere con la sua carnagione pallida e la zazzera di capelli castani, tenuti sempre rigorosamente ordinati sulla testa.
«Uhm, okay» commenta Amos, sistemandosi gli occhiali con un gesto quasi meccanico «il punto è che sarebbe carino capire come io ci sia arrivato qui, visto che sono piuttosto certo sul fatto che, fino a pochi istanti fa, mi trovassi a—»
Non fa in tempo a finire la frase, perché – da dietro le lenti d’occhiale – i suoi occhi hanno appena notato un particolare non irrilevante: il ragazzo davanti a sé, infatti, ha un orologio proprio come il suo, che pende dal collo, in parte nascosto tra la sciarpa di seta verdina e la giacca di pelle da esploratore.
«M-ma quello è…» tenta di esclamare Amos, tuttavia è fin troppo sbigottito per riuscire a terminare la frase, così si limita a puntare l’indice verso l’orologio dell’altro.
Il tizio davanti a lui sposta lo sguardo sul proprio orologio, per poi portarlo nuovamente su quello strano ragazzo, ripetendo l’azione diverse volte.
Lui, l’altro, lui, l’altro, lui, l’altro.
Il giovane dalla pelle ambrata si lascia sfuggire una risatina leggermente nervosa, passandosi una mano tra i capelli.
«Ma che razza di storia è mai questa?» domanda, inarcando le sopracciglia.
«Credimi, vorrei saperlo anch’io» ammette Amos, sfoggiando un perfetto inglese «un momento prima stavo camminando per andare al lavoro, verso il ristorante dove mi hanno assunto come cameriere, e quello dopo eccomi qui, a… Londra? Come diavolo ci sono finito, qui? Io vivo in Ucraina».
«Non dirlo a me» il giovane scuote la testa, incredulo «un attimo fa stavo facendo colazione con dei pancake, comodamente seduto nella cucina di un appartamento qui sul lungofiume».
«Aspetta, tu vivi qui?» Amos è sempre più esterrefatto, deve sbattere le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto che non sta sognando.
«Sì, anche se al momento ero a casa di un amico. Comunque, questo adesso non importa» replica prontamente l’altro ragazzo, affrettandosi a cambiare argomento.
«Ad ogni modo, tu chi sei?» le parole sgorgano fuori dalle labbra di Amos prima che lui se ne possa rendere conto, non ha il tempo materiale per poterle fermare.
Il giovane dalla pelle ambrata sospira pesantemente prima di rispondere:«Mi chiamo Atemu McKinley, sono nato in Egitto ma vivo ormai a Londra da parecchi anni. E si dà il caso che potrei farti esattamente la stessa domanda».
«Amos Akolzin, piacere» si presenta in fretta il nuovo arrivato, allungando la mano verso Atemu.
In un primo momento l’inglese sembra indugiare, poco dopo però stringe lo stesso la mano di Amos, non senza un certo cipiglio dubbioso ben visibile sul volto.
«E così sei ucraino, mh?» Atemu si concentra sul colore della pelle delle loro mani stette, il suo caffelatte contro l’alabastro del nuovo venuto.
«Già, una roba da non crederci» Amos sembra scalpitare sul posto, per quanto quella situazione gli suona così nuova e strana, piena zeppa di nuovi dettagli tutti da scoprire «ti dispiace se do un’occhiata a quello? Non ne avevo mai visto un altro».
«Sì, certo» Atemu osserva confuso il nuovo ragazzo, mentre lo sente armeggiare con il suo Orologio.
Amos lascia scorrere le dita lungo la superficie levigata dal tempo di quel manufatto, perdendosi nei dettagli d’ottone. A quanto pare, anche stavolta la sua fascinazione per l’antichità non stenta a farsi sentire.
«È diverso dal mio» esclama di lì a poco il giovane ucraino, i suoi polpastrelli esperti che hanno già scoperto l’arcano.
«In che senso?» gli domanda Atemu, anche lui ormai non riesce più a tenere a freno la curiosità.
Subito Amos volta i loro due Orologi, mostrandone il retro al ragazzo appena conosciuto.
«Vedi?» lo interroga l’ucraino, certo di avere assolutamente ragione «sul mio ci sono delle ruote dentate, mentre sul tuo la rappresentazione del mondo – che, a proposito, è proprio una gran figata. Però si vede che a realizzarli è stato lo stesso artigiano, perché i dettagli, le tacche, i tratti incisi a mano sono stati visibilmente realizzati dalla stessa persona, lo stile è proprio quello!»   
«L’hai trovato in un negozio d’antiquariato come me?» si sente domandare ancora subito dopo, un fiume di parole che per un momento fa temere ad Atemu di finire del tutto in confusione.
«No» riesce a rispondere infine, una volta riacquisito un minimo di polso fermo necessario «a dir la verità è stato mio padre a consegnarmelo, conoscendo la mia passione per gli orologi…»
«Io invece sì» sentono invece ribattere da una terza voce, proveniente dalle loro spalle.
Subito i due ragazzi si voltano, ritrovandosi ad osservare la figura di una giovane, tutta intenta a spolverarsi la gonna – probabilmente dopo essere caduta a terra.
«Mon dieu» borbotta la ragazza, con un palese accento francese «nemmeno un secondo prima stavo passeggiando nel centro di Nizza, mangiucchiando un croque-monsieur… et maintenant, dove sono?»
«A Londra» rispondono contemporaneamente Amos e Atemu.
La giovane li fissa con aria stralunata, limitandosi a roteare gli occhi.
«Questo dannato coso tout à coup ha iniziato a lampeggiare di un bagliore rose…» spiega lei, con tono concitato, mentre fa dondolare un medaglione davanti a sé «…et voilà, je suis ici».
«È capitato lo stesso anche a noi» ammette Atemu, con un sospiro sconsolato.
«Ah, oui?» s’informa la francese, palesemente incuriosita «je suis désolé, mon ami».
Amos fa fatica a star dietro alla rapida e perfetta parlantina francese della ragazza, tuttavia cerca comunque di richiamare la sua attenzione, facendo affidamento su tutte le sue – fiacche – attitudini da chevalier charmant.
«E con chi ho il piacere di parlare, mademoiselle?» le chiede infatti, col tono più mellifluo che, in quella situazione, riesce a tirare fuori.
La ragazza francese lo fissa a lungo, con aria piuttosto stralunata, tanto che per un tempo che gli pare infinito Amos teme di aver fatto uno dei suoi soliti strafalcioni, in una lingua peraltro che non è nemmeno la sua.
«Claudine» risponde infine la ragazza, senza nascondere un certo cipiglio divertito «se dovete rivolgervi a me, allora sappiate che mi chiamo Claudine. E ora scusate, devo mettere a posto queste plisses sulla mia gonna».
Ciò detto, una cascata di boccoli biondi si riversa in avanti, mani intente ad assestare colpi precisi al tessuto morbido della gonna mentre una nuova sfilza di insulti in francese si susseguono costantemente, una dietro l’altra.
Amos ed Atemu si fissano dubbiosi, senza tuttavia aggiungere altro – forse perché, sebbene siano in due, avranno capito sì e no la metà delle parole di Claudine, a causa dei termini incomprensibili in francese sparsi un po’ ovunque.
Peccato che i due ragazzi non abbiano neanche il tempo di riprendere fiato che nuovi bagliori di luci colorate ed intense, rumori confusi e una serie di imprecazioni in diverse lingue non tardano ad arrivare.
Una ragazza dai capelli castani e con un grazioso paio di occhiali poggiati sul naso sta probabilmente ringraziando tutti i santi che conosce, perché per soli pochi centimetri non è finita in una botte piena d’acqua – e di chissà quali altre schifezze, ugh.   
Gli altri due sono rispettivamente un ragazzo e una ragazza: il primo ha la schiena appoggiata al muro e sta riprendendo fiato – anche se non sembra essere in uno stato di drastica difficoltà respiratoria, al contrario è forse solo un po’ affaticato – mentre la seconda si sta divertendo a dar sfoggio alle sue abilità di equilibrista, visto che è perfettamente in bilico su una pericolante pila di casse di legno.
«Ehm, uh—» borbotta Amos «questo vicolo sta cominciando a diventare decisamente affollato».
«Non ha tutti i torti» ammette la ragazza appollaiata sulle casse, che proprio in quel momento spicca un balzo leggero, atterrando a terra con eleganza felina.
La giovane in questione si stringe nei propri abiti sbarazzini, fissando tutti i presenti, gli occhi che saettano entusiasti e curiosi su ciascuno di loro, come se d’improvviso si trovasse dinanzi a una nuova scoperta estremamente affascinante.
«Come ti chiami?» le domanda Atemu, in un riflesso incondizionato – e pentendosene subito dopo.
«Margarita» risponde lei, che in un battito di ciglia si è avvicinata al ragazzo ed ora tiene tra le dita il suo medaglione «e ho un Orologio, proprio come te».
«Sì, beh—» comincia Atemu, lievemente a disagio.
Non fa in tempo però a terminare la frase, visto che la sua interlocutrice scompare improvvisamente dal suo campo visivo.
E, con lei, anche il suo Orologio.
Un nuovo rumore improvviso fa voltare ben quattro paia di teste in un’unica direzione, dove in effetti ritrovano Margarita, con tanto di Orologio di Atemu.
«Ehi!» sbotta il ragazzo, leggermente irritato «quello è il mio Orologio».
«Ma certo~» conviene Margarita, che subito glielo rilancia al volo, senza perdere nemmeno per un secondo l’equilibrio.
Già, perché si trova nuovamente su un punto d’appoggio piuttosto instabile, visto che i suoi piedi sono ai lati dell’apertura della botte colma d’acqua.
Se prima c’era il rischio che cadendo potesse farsi male, adesso qualora dovesse perdere l’equilibrio finirebbe inevitabilmente per bagnare la ragazza ancora seduta lì accanto, anche se quest’ultima non sembra essere affatto preoccupata dalla cosa – tanto che è l’unica a non aver spostato lo sguardo verso Margarita.
Nel frattempo Atemu afferra l’Orologio a mezz’aria e Margarita spiega:«Volevo solo mostrare a te e a tutti voi quanto sarebbe facile per me sfilarvi da sotto il naso uno di questi Orologi a cui tenete tanto. Ovviamente però non ho nessun motivo sensato per farlo, visto che anche io ne ho uno tutto mio».
E, ciò detto, non indugia oltre per far dondolare nello spazio davanti a loro il proprio medaglione, con tanto di effige delle maschere del teatro.
Claudine solleva per un istante lo sguardo dalle pieghe della sua gonna, osservando prima l’Orologio di Margarita e poi il proprio, notando quanto i due simboli siano diversi – su quello della giovane francese c’è infatti una libellula.
Atemu reprime una smorfia di fastidio, per poi rinfilarsi l’Orologio. Nel frattempo Amos porge una mano della ragazza ancora seduta a terra, sorridendole incoraggiante.
«Tutto bene?» si affretta a domandarle, cortese.
«Ce la faccio da sola» replica lei, con aria altera, rimettendosi in piedi senza afferrare la mano di Amos – il che lascia il ragazzo abbastanza sorpreso e perplesso, immobile sul posto.
Una volta di nuovo in posizione eretta, non perde occasione per sistemarsi gli occhiali sul naso, quindi recupera un elastico che ha attorcigliato intorno al polso e lo adopera per legarsi i capelli in una comoda coda di cavallo.
Come sua consuetudine, la prima cosa che viene spontanea da fare ad Andrea è quella di analizzare razionalmente l’assurda situazione nella quale ora si ritrova.
Neanche una settimana prima il suo Orologio aveva preso a baluginare in quel modo assurdo, culminando poi in quell’esplosione, nella quale aveva visto apparire il volto di una giovane dai corti capelli corvini.
E adesso, a distanza di nemmeno una settimana, questo.
Certo che, se mai Andrea avesse pensato che ci fosse un limite alle stranezze, di recente purtroppo aveva dovuto tristemente ricredersi.
Come a voler confermare quel suo ultimo pensiero, tuttavia non finisce nemmeno di ideare quelle parole nella sua mente che subito le viene data un’altra riprova.
Un baluginio dalle sfumature aranciate infiamma il vicolo, mentre un gridolino stridulo annuncia l’arrivo di una nuova persona nel vicolo – e per questo Andrea vorrebbe sospirare di esasperazione, tuttavia all’ultimo finisce per trattenersi, interrotta da un urlo più virile e un tonfo sordo a terra.
Stavolta tutti si voltano a guardare Amos – Andrea ne è quasi lieta, considerando che questa volta i suoi occhi non dovranno nemmeno fare molta strada, visto che il ragazzo dai capelli castani è ancora a pochi centimetri di distanza da lei.
Con l’unica differenza che adesso è sdraiato prono a terra, schiacciato sotto il peso di un’ennesima nuova arrivata.
«La mia solita sfortuna» borbotta Amos, accompagnando le sue parole con una serie di brontolii sconnessi.
«Ahh, una pantegana!» grida la ragazza seduta sul dorso dell’ucraino, indicando disgustata un ratto, mentre quest’ultimo si allontana in tutta fretta, spaventato dal baccano del vicolo, infilandosi in un tombino e correndo lungo le tubature, con ogni probabilità verso il fiume.
Amos sospira pesantemente, per poi affermare debolmente:«Ehm… io non vorrei dire niente di male, eh, però mi starebbe sinceramente facendo un attimo male la schiena…»
«Oh, cielo!» la ragazza dai lunghi capelli castani balza immediatamente in piedi, con un’espressione desolata ben dipinta sul suo volto «perdonami, non era mia intenzione—»
«Tranquilla, ormai ci sono abituato» Amos scuote il capo, arrendevolmente «comunque, dall’accento mi è parso di capire che anche tu sei francese».
«Già!» trilla lei, esibendosi in una lieve piroetta e lasciando volteggiare con sé l’abito che indossa, il tessuto dorato e l’ampia gonna che si muovono a tempo con lei «perché, non sono l’unica? Tu di certo non lo sei, non hai per niente l’accento francese».
«Oh, io sono francese~» esclama Claudine, incredibilmente ben lieta di aver trovato una sua connazionale in mezzo a quel trambusto.
«Per favore» Andrea inspira ed espira a fondo per un paio di volte, cercando di mantenere la calma e i nervi saldi che sempre la caratterizzano «possiamo cercare di concentrarci e capire tutti insieme come sia possibile che sette adolescenti siano apparsi di colpo in un vicolo a Londra?»
L’attenzione di tutti si catalizza all’istante sulla giovane italiana, che tuttavia non sembra essere messa affatto in soggezione, mentre continua al contrario ad ostentare calma e lucidità lodabili.
«Non possiamo prima sapere il nome dei nuovi arrivati?» le propone Claudine, in tono lezioso e bonario.
«No» sentenzia Andrea, lapidaria.
Ovviamente, tutti gli altri decidono di ignorarla bellamente.
«Io sono Julie Dupont, piacere» si presenta l’ultima arrivata, stringendo cordialmente la mano a Claudine – a dirla tutta, anche lei è lieta di aver incontrato un’altra francese lì.
«Ohh, Claudine Blanchard, heureuse de faire ta connaissance» conviene l’altra, sorridendo come se si trovasse davanti in una pasticceria, davanti al bancone dei dolciumi.
Margarita, invece, saltella da una parte all’altra della via, fino a raggiungere l’unico ragazzo che, fino a quel momento, è rimasto in silenzio.
«E questo bel tenebroso qui chi è, invece?» gli domanda, non appena ci si ritrova davanti, dondolandosi lievemente avanti e indietro mentre lo osserva attentamente.
«Oh» il giovane in disparte dischiude finalmente gli occhi, osservando attentamente la giovane davanti a sé «chiamami pure Thiago. Tu invece devi essere Margarita, giusto?»
«Esatto!» replica lei, in un trillo divertito, per poi lasciarsi sfuggire una lieve risata cristallina quando il ragazzo più grande le scompiglia appena i capelli.
Andrea è francamente frustrata da quella situazione, tuttavia non è decisamente nelle sue abitudini dare a vedere sensazioni del genere.
Deve trovare un modo di catalizzare l’attenzione di tutti su di sé, adesso.
«Immagino che anche voi siate arrivati qui in seguito all’intensa emissione di luce colorata da parte del vostro Orologio, giusto?» decide di domandare allora, certa che così qualcuno la starà senza dubbio a sentire.
Sei paia di occhi si voltano a guardarla, in men che non si dica, attenti ed incuriositi, mentre nel vicolo torna a calare un’opprimente cappa di silenzio. In questo modo, Andrea è assolutamente certa di aver catturato l’attenzione di tutti.
«Non ci hai ancora detto come ti chiami, però» obietta Claudine, gli occhi che scintillano di mille diverse sfaccettature di colore.
«Oh, quisquilie» sbotta Andrea, accompagnando le parole con un rapido gesto stizzito della mano «francamente, quel che mi preme realmente di sapere adesso è come sia possibile che sette persone siano comparse contemporaneamente nello stesso posto».
Prima che chiunque altro possa provare ad aggiungere qualsiasi cosa, il vicolo è riempito da un rumore, un cigolio profondo.
Tutti e sette i ragazzi si voltano ancora una volta, dividendosi in quelli dallo sguardo particolarmente incuriosito, tra cui Julie, Amos, Margarita e Claudine e gli altri che invece sono più disinteressati al riguardo, in particolare Atemu e Thiago – il primo poiché probabilmente preferirebbe di gran lunga tornare a mangiare pancake nel caldo ed accogliente appartamento del suo amico, l’altro perché invece sembra sapere esattamente quello che sta succedendo. Nel limbo, come al solito, Andrea, che sebbene sia a sua volta incuriosita cerca di non darlo troppo a vedere.
All’apparenza, il rumore ha avuto origine proprio dalla bottega alle loro spalle, infatti osservando meglio i sette si accorgono che la porta, che fino a pochi secondi fa sembrava essere irrimediabilmente chiusa, adesso si è leggermente spalancata, facendo intravedere la figura di una ragazza dai corti capelli corvini che fa capolino da dietro di essa.
«Beh, forse questo posso dirvelo io» ammette la giovane, in tono conciliante.

                                                              ~~

All’invito della ragazza dai capelli corvini, tutti e otto scivolano insieme all’interno della piccola bottega, sistemandosi alla bell’e meglio nei pochi posti liberi che trovano in giro, sparsi qua e là all’interno del locale.

Non appena entra, per poco Claudine non cade a terra, incespicando sui gradini – e lanciandosi diversi improperi per questo. Fortunatamente, Thiago l’afferra al volo per un braccio, assicurandola per bene in piedi e permettendole così di continuare a scendere in tutta tranquillità.
«Merci» lo ringrazia lei, a mezza voce.
Lui si limita a scrollare le spalle, al momento concentrato su ben altro.
Ha sentito a lungo parlare della bottega di Joshua Parrish, l’alchimista che ha incantato il suo Orologio, donandogli così la capacità di viaggiare attraverso il reticolo dello spazio e del tempo.
Come fa ad essere così sicuro di trovarsi nel luogo giusto? Beh, facile: insieme a lui ci sono ben altre sette persone e tutte loro possiedono un Orologio simile al suo ma non uguale.
Già, simile: come ben sa, ogni Orologio porta la rappresentazione del carattere di chi lo porta e come lui possiede il simbolo del ragno, in quella stanza c’è anche chi ha una libellula, o un pavone, addirittura perfino un dettaglio così minimale quale una scheggia di vetro.
Se il ragno è l’emblema dell’operosità – Thiago sta ancora ringraziando il cielo che non gli sia capitata un’ape, sarebbe stata abbastanza ridicola come effige altrimenti – allora tutti gli altri simboli devono essere indizi sui possessori dei rispettivi Orologi.
Thiago sta quasi per mettersi a lavorare sulle varie congetture che al momento gli ronzano per la testa, quando una nuova voce lo distoglie dai suoi pensieri.
«E così sei… uhm, spagnolo?» si sente infatti domandare da una voce, a pochi passi da sé.
«Portoghese» la corregge automaticamente lui, voltandosi lentamente verso la sua interlocutrice.
«Figo~» commenta Margarita, balzando agilmente a sedere su uno dei tavoli da lavoro del laboratorio artigianale «devo ammettere che sei un tipo piuttosto affascinante».
«È un modo carino per dirmi che ti piaccio?» commenta lui, ammiccando lievemente nella sua direzione.
«È un modo carino per dire che emani charme da ogni poro del tuo corpo» replica lei, facendo schioccare la lingua contro il palato «tuttavia mi spiace dover deludere il tuo smisurato ed incommensurabile ego ma ahimè devo dirti che no, non mi piaci affatto. Soddisfatto?»
«Però!» commenta lui, con uno sguardo divertito «A quanto pare tu invece sei un tipetto piuttosto complicato con cui avere a che fare, eh?»
«Così mi dicono» si limita a convenire la ragazza, mettendosi a giocherellare con alcuni trucioli di legno che trova sul ripiano.
Andrea, invece, sembra essersi persa nell’osservazione di quel luogo tutto nuovo, mentre la sua memoria fotografica non smette di lavorare un momento, saettando da una parte all’altra del locale, imprimendo a fuoco nella sua mente istantanee della bottega.
Gli spessi stati di polvere che avevano invaso prepotentemente ogni centimetro del pavimento, lavorazioni in legno iniziate e mai concluse, ampie finestre in vetro piombato, che probabilmente un tempo donavano luce ed ariosità a quell’ambiente ristretto – rendendolo forse anche più ampio agli occhi degli inesperti visitatori – tuttavia ora sono orrendamente sporche, ben lontane dal lustro di un tempo e anche la luce filtra col contagocce.
Sembra terribilmente concentrata, come se niente al mondo possa distrarla, in quel momento.
Non è detto tutto tuttavia che qualcuno non possa farlo.
«Non mi hai ancora detto come ti chiami» chiosa infatti Claudine, alle sue spalle, con voce angelica.
Andrea deve sforzarsi per non trasalire, di certo non si aspettava un agguato del genere.
«Senti» sospira Andrea, esasperata «possibile che il mio nome sia così importante per te? Cosa ti cambia saperlo o meno? Di certo non ti è indispensabile per la sopravvivenza».
«Ma io sono curiosa!» obietta Claudine, in uno strepitio lieve, un cinguettio che suona piuttosto come un uggiolato.
«Oh, e va bene» le concede infine la giovane italiana, assecondandola, mentre sulle labbra di Claudine sboccia un sorriso raggiante «il mio nome è—».
Non fa tuttavia in tempo a terminare la frase che una nuova voce sta già sovrastando la sua, riempiendo completamente tutta la stanza – seppur con un tono di voce basso, soffice, lieve.
«Posso avere la vostra attenzione?» domanda infatti la giovane dai gradini, in piedi ancora sui gradini d’ingresso, così da occupare una posizione sopraelevata rispetto a tutti gli altri.
La sua voce non ha niente di particolare, non è estremamente carismatica o evocatoria, non è carica di pathos o chissà cos’altro, eppure attraverso quelle semplicissime parole riesce ad attirare su di sé la mente e lo sguardo di tutti i ragazzi.
È come se, per loro, possedesse una qualche magia, un magnetismo che attira la concentrazione di ciascuno di loro verso la sua figura minuta, come falene attratte inevitabilmente dalla luce, senza possibilità alcuna di sottrarsi.
Per Amelia quella è una sensazione stranissima e del tutto nuova. Non le piace essere al centro dell’attenzione, la infastidisce notevolmente e le regala uno sgraditissimo formicolio sottocute, come se tutti i nervi del suo corpo si tendessero all’unisono. Orrendo.
Però comprende anche lo smarrimento di quei ragazzi e sa perfettamente di dover loro delle spiegazioni.
«Io… io ti conosco» mormora all’improvviso Andrea, lasciando di stucco ben sei ragazzi nel laboratorio.
Amelia invece non sembra essere particolarmente colpita, quasi come se si aspettasse un’affermazione del genere. Inclina il capo di lato, con una guancia riesce quasi a sfiorarsi la spalla, tuttavia non aggiunge altro: resta lì, impassibile, un lieve sorriso dipinto sulle labbra e fissa attentamente la ragazza davanti a sé, come se fosse in attesa di qualcosa.
Andrea non sa bene cosa stia aspettando quella misteriosa ragazza, tuttavia ora che ha iniziato a parlare sembra non riuscire più a smettere – stranamente per lei, che è sempre così lapidaria ed incisiva – le parole che scivolano fuori dalle sue labbra una dietro l’altra, come un fiume in piena.
«Mi chiamo Andrea Cervini» esordisce – e a quelle parole Claudine sorride di sottecchi, con un grande sospiro, finalmente soddisfatta «e sono originaria dell’Italia. Per la precisione, vengo da Milano. Prima della grande esplosione di stamattina, che mi ha condotta fino a qui, il mio Orologio aveva emesso luce violentemente già un’altra volta, un paio di settimane fa. Ebbene, quando il bagliore era giunto al suo culmine, per un momento mi era sembrato di vedere il volto di una giovane dai capelli corvini riflessa sulla superficie del mio Orologio. Fino ad ora non avevo la più pallida idea di chi potesse essere… poi però ora ti ho vista e ho capito: quella ragazza eri tu».
Nel locale cala nuovamente il silenzio per diversi, interminabili secondi, seguito poi da un brusio sempre crescente. I ragazzi parlottano tra loro, confrontandosi con chi hanno vicino, chiedendosi quale sia il senso di tutti quegli strani avvenimenti e perché stiano capitando proprio a loro e in quel determinato momento.
Amos sta giustappunto valutando con Atemu che deve trattarsi della sua solita sfortuna che, come al solito, lo perseguita, quando la ragazza dai capelli corvini prende di nuovo parola.
«Oh, beh» commenta infatti, estraendo da sotto la camicetta bianca decorata da fini linee blu una collana piuttosto lunga, la catenina sottile di metallo da cui pende un altro Orologio «in effetti è successa anche a me una cosa del genere».
Esclamazioni di stupore si susseguono lungo tutta la stanza, mentre i sette osservano con aria esterrefatta l’Orologio della ragazza, il corvo raffigurato sul retro che li occhieggia con un’espressione vagamente arcigna.
«Ma tu… chi sei?» domanda d’impulso Amos, rendendosi conto solo dopo delle parole che ha pronunciato – e desiderando ardentemente seppellirsi per questo.
«Domanda lecita» concede la giovane, smorzando almeno in parte l’imbarazzo generale che adesso è inesorabilmente calato tra tutti i presenti «vedete, il mio nome è Amelia. Vivo qui a Londra fin dalla nascita. Anche io sono dentro questa storia tanto quanto voi, fin sopra la testa. Mi scuso se i vostri Orologi in queste settimane hanno avuto qualche anomalia – degli sfarfallii luminosi sporadici – ma di questi non sono responsabile, ne sono capitati alcuni anche a me. Tuttavia, a convocarvi tutti qui oggi sono stata proprio io».
«Come?!» strepitano all’unisono Julie, Amos e Claudine, a dir poco sbalorditi. Gli occhi di Margarita continuano a rimbalzare curiosi da una persona ad un’altra, mentre Thiago è rimasto immobile al suo fianco, mentre scruta imperturbabile la situazione, nascondendo perfettamente l’interesse dietro una maschera di apparente indifferenza, o perlomeno d’indolenza. La verità è che è forse il più informato sul funzionamento degli Orologi tra tutti i presenti, perciò al momento non sta sentendo niente di particolarmente nuovo.
Anche Atemu è terribilmente affascinato da tutta quella faccenda, sebbene stia cercando di conservare almeno un vago sentore di decoro, poiché non ci tiene affatto ad apparire ridicolo agli occhi di sette perfetti sconosciuti. Andrea infine è totalmente concentrata, la mente che scatta a valutare ogni possibile scenario, desiderando non apparire impreparata qualsiasi occorrenza debba fronteggiare.
«Così» replica Amelia, scendendo gli scalini e cominciando a camminare tra i lunghi tavoli da lavoro. I ragazzi la seguono con lo sguardo mentre sfila davanti a loro, per poi affrettarsi a seguirla – Thiago che è il primo a partire, seguito subito da Andrea e da Amos, mentre tutti gli altri sono giusto qualche passo dietro di loro.
La giovane londinese si arresta più o meno a metà della stanza, accostandosi ad un tavolo alla sua destra. I crononauti fanno un piccolo capannello intorno a lei, cercando di vedere e riuscendoci all’incirca tutti, chi più e chi meno, quelli alti sbirciando da sopra le spalle del compagno che hanno davanti, i bassi invece devono ahimè farsi spazio cercando di svicolare tra i vari corpi ammassati.
«Ecco» inizia a spiegare Amelia, lasciando srotolare il lungo foglio di un progetto davanti a sé «questo è il foglio con tutte le rappresentazioni degli Orologi. C’è il mio, quello con il corvo e poi un sacco di altri tipi, che suppongo siano i vostri. La cosa strana è che alcuni dei disegni mi sono cambiati davanti agli occhi, mentre osservavo il foglio…»
«Beh, in realtà non è poi così strano» s’intromette Thiago, appoggiandosi sensualmente con entrambi i palmi delle mani al bancone sotto di sé «i simboli degli Orologi sono indici del carattere del crononauta che li possiede, quindi se cambia il possessore, cambia anche il simbolo».
«E tu questo come fai a saperlo?» domanda Julie, osservando il ragazzo con uno strano cipiglio incuriosito a segnarle il volto.
«Per anni ho fatto ricerche sugli Orologi» ammette Thiago, con una vigorosa scrollata di spalle «pare che l’artigiano che lavorava in questa bottega, un certo Joshua Parrish, fosse in realtà un alchimista ed avesse incantato gli ingranaggi degli Orologi con un po’ del suo potere, ecco perché possono viaggiare nello spazio e nel tempo».
Gli occhi di Amelia saettano da una parte all’altra della stanza, inquieti. Continua ad avere l’allarmante percezione di essere osservata e convincersi che siano gli occhi dei sette crononauti a trafiggergli la schiena gli risulta davvero impossibile. No, c’è qualcosa che non va, se lo sente.
«Ad ogni modo» riprende Amelia, cercando di recuperare il bandolo della matassa «mentre stavo osservando il foglio, ho tenuto inavvertitamente premuto il pulsante sopra il mio Orologio e… non so, di colpo si è sprigionata tutta quella luce e l’attimo dopo ho sentito il trambusto qua fuori. Mi sono affacciata un momento e c’eravate voi. Mi dispiace, non era mia intenzione trasportarvi qui. Ora che ci siamo, tuttavia, credo che per correttezza dovremmo almeno cercare di capire quello che ci sta succedendo. Lo dobbiamo a noi stessi, così come a tutti gli altri che sono coinvolti. Dopotutto, è il minimo che possa fare, dopo avervi richiamati qui».
«Aspetta, aspetta» prorompe Julie, la testa appoggiata alla spalla di Claudine – che non sembra essere estremamente lieta di questo «tu come hai fatto ad avere quell’Orologio? E che vorrebbe dire che ci hai ‘richiamati qui’?»
Amelia sospira lievemente mentre spiega:«L’Orologio… beh, mi è stato lasciato in eredità da mia madre, che è venuta a mancare pochi mesi fa. Quanto al ‘richiamo’, è scritto qui, in una nota a piè di pagina. Vedete?»
Mentre parla di sua madre, gli occhi di Amelia si velano di lacrime e subito Thiago ha la premura di accarezzare lentamente la schiena della ragazza, cercando di rincuorarla almeno in quel modo. Per quanto possa essere ambizioso e spesso disposto a passare sopra i sentimenti della gente pur di raggiungere i suoi scopi, riconosce che il dolore per la perdita di un genitore è immenso, non lo augurerebbe mai a nessuna persona al mondo.
Nel frattempo, Amelia indica una scritta in fondo al foglio del progetto, dove viene in effetti spiegato il funzionamento del ‘richiamo degli Orologi’.
«C’è scritto che è un procedimento che tutti i possessori di Orologi possono adottare» spiega Andrea, che è già china a leggere sul progetto «e che gli Orologi vengono attratti naturalmente verso chi li richiama solo nel momento del bisogno. Quindi probabilmente adesso, per quanto strano ci possa apparire, siamo nel posto giusto al momento giusto».
Tutti gli altri si chinano ad osservare le parole scrutate da Andrea, sussurrando parole di assenso tra loro, mentre la giovane ti tiene gli occhiali ben fermi pinzati sul naso.
«Però ci sono anche altri simboli» obietta Atemu, perplesso.
La risposta ai suoi dilemmi giunge poco dopo, da parte di Thiago.
«Certo» spiega infatti, scrupoloso «Joshua aveva realizzato ben dodici Orologi, otto dei quali sono oggi qui, nelle nostre mani. Tutti gli artefatti sono andati dispersi in giro per il mondo in seguito alla morte dell’alchimista, avvenuta in circostanze misteriose e piuttosto sospette. Probabilmente i quattro Orologi che mancano ancora all’appello sono ancora dispersi, in qualche remota parte del mondo. Quello che non capisco è come mai qui siano rappresentati sedici Orologi, anziché dodici. Che in giro per il globo ci siano altri—»
Il giovane portoghese non fa in tempo a concludere in suo discorso che un rumore improvviso lo interrompe, come di cianfrusaglie che franano rovinosamente a terra. Ne segue un borbottio incomprensibile, probabilmente improperi, mentre le teste degli otto crononauti si voltano in direzione della fonte di quella confusione.
Quello che i loro occhi inquadrano è il corpo di un ragazzo, voltato di spalle e con il cappuccio grigio della felpa che indossa a coprirgli la testa, mentre cerca di sgusciare fuori dal mare di scatoloni che gli è caduto addosso.
«Ehi!» esclamano in coro Amelia e Andrea, seccate.
Per una frazione di secondo il misterioso sconosciuto si volta verso di loro, attento a non mostrare il volto. E in quell’istante sospeso si fissano a vicenda, i crononauti che osservano l’intruso, lo sconosciuto che li scruta di rimando.
Nessuno però fa in tempo a dire qualcosa, neppure un’esclamazione di sorpresa, che il ceffo misterioso è già scattato, prendendo la direzione della porta.
«Sta scappando!» sbotta Amos, indignato, balzando in piedi, mentre lo sgabello sul quale si era accomodato casca al suolo con un ennesimo fragore.
«Ha trafugato un documento» fa notare Andrea, indicando lo scampolo di un foglio che il tipo tiene in mano scomparire oltre la soglia dell’ingresso.
«Non sono arrivata fin qui per farmi sfilare le informazioni da sotto il naso» mormora Amelia, furente, i corti capelli corvini che fluttuano ed ondeggiando insieme a lei mentre il suo corpo si protende in avanti, già pronto e partito all’inseguimento dell’oscuro figuro.
I ragazzi restano a fissare la compagna mentre sparisce oltre l’uscita della bottega, per alcuni interminabili secondi incapaci di fare qualsiasi cosa, resi immobili come statue di pietra dallo sgomento.
Il primo a riprendersi rispetto agli altri è Thiago che, dopo aver scosso con vigore la testa, si avvia subito verso la porta.
«Che diavolo stiamo facendo ancora qui?» domanda, esterrefatto «Forza, muoviamoci! Andiamo a darle una mano».
Ciò detto, anche lui si fionda fuori dal locale.
Con la scomparsa di Thiago, anche i sei crononauti, ora rimasti soli, si decidono a partire a razzo, tutti alla rincorsa del ladro.
Intanto, Amelia è già più avanti rispetto a tutti gli altri. I suoi piedi battono veloci sul selciato, mentre la giovane maledice i suoi scarponcini da trekking, che per quanto possano essere decisamente adatti alla corsa, non sono il massimo in quanto ad attutimento dei colpi presi, tanto che deve stringere i denti per non mettersi ad urlare, visto quant’è lancinante il dolore che di riflesso avverte alle piante dei piedi.
Sente l’adrenalina pulsargli dentro, il sangue che viene spinto in circolo nelle vene ad una velocità sempre più forte mentre i polpacci tirano per lo sforzo, acido lattico in circolo e il sudore algido dell’emozione che si forma sulla sua pelle, piccole gocce che le imperlano la fronte e le fanno rimanere i capelli attaccati al volto.
Non può perdere di vista quel tipo, non deve, non se lo concede. Sua madre è morta perché era in possesso di quell’Orologio, adesso non permetterà a nessuno di trafugare dei documenti che potrebbero aiutarla a non deluderla, ovunque si trovi…
Sente dei passi dietro di sé e lanciando un rapido sguardo alle sue spalle nota che alcuni dei ragazzi di poco prima l’hanno raggiunta: il giovane ed avvenente uomo dai tratti ispanici e l’italiana che aveva intravisto nel proprio medaglione, tempo prima. Sembrano essere molto meno affaticati di lei, mentre invece Amelia avverte già l’inesorabile avvento del fiato corto calare sempre più rapidamente su di sé. Non per questo, tuttavia, è meno motivata degli altri a riacciuffare il fuggitivo, anzi, tra tutti è senza dubbio la più determinata.
«Ci sono anche gli altri, dietro» le comunica ad alta voce Andrea, mentre cercano di farsi spazio e procedere agilmente tra i marciapiedi fin troppo affollati – come al solito, d’altronde – di Londra «non lo lasceremo scappare, vedrai».
La ragazza con gli occhiali rivolge un sorriso incoraggiante ad Amelia; quest’ultima cerca di ricambiare, tuttavia il meglio che riesce a tirar fuori è un’espressione contorta. Ora come ora, impegnata nell’inseguimento com’è, questo è davvero il massimo che possa riuscire a fare.
Subito i tre si rituffano al massimo delle loro capacità nella corsa, corpi sempre più affaticati mentre fanno slalom tra la gente, distribuendo centinaia di ‘scusi’ mentre avanzano nel loro percorso e per sbaglio incappano in qualche passante, schiacciando un piede o due, costringendo qualche anziana signora a piroettare su se stessa per non cadere rovinosamente a terra.
Qualcuno lancia anche contro di loro diversi improperi, tuttavia i ragazzi nemmeno se ne preoccupano più di tanto, considerando che l’obiettivo che si sono prefissati di raggiungere è ben altro.
Intanto la strada di ciottoli della zona antica e borghese di Londra ha lasciato il posto a lastre di basalto lisce e morbide e a colate di cemento armato, eleganti, lussuosi e ben rasati. Il che è decisamente un sollievo per i piedi ormai martoriati di Amelia, sebbene anche adesso qualche brutto contraccolpo sia costretta a subirlo.
Quando capisce tuttavia verso quale zona della città si stiano dirigendo è ormai troppo tardi.
«Il fiume» grida, così che Thiago e Andrea possano sentirla nitidamente «si sta dirigendo verso il fiume!»
Per un attimo i ragazzi sembrano non comprenderla, quando però spostando il loro sguardo e da Amelia tornano a fissare davanti a sé, tutto si fa improvvisamente molto più chiaro per loro.
Sono infatti ormai giunti nei pressi di Tower Bridge, tant’è che l’imponente costruzione si erge ora in tutta la sua magnificenza davanti ai loro occhi. Le nuvole sembrano essersi addensate sopra le teste dei londinesi ancor più di prima, cupe e bigie minacciano pioggia da un momento all’altro.
«Guardate!» Thiago richiama l’attenzione delle due ragazze, indicando una nave che si sta avvicinando sempre di più al ponte.
«Tra poco tireranno su le sponde del ponte» spiega Amelia, l’angoscia nella voce «e questo vuol dire che se non ci sbrighiamo potremmo anche perdere il nostro fuggitivo».
«Allora ci toccherà sbrigarci» annuncia Andrea, funerea «perché in effetti stanno proprio cominciando a sollevarlo».
A quelle parole, i tre ragazzi aumentano ancor di più la velocità della loro corsa, ormai allo strenuo delle forze, dando ciascuno il proprio massimo.
Il traffico viene bloccato, le auto non passano più mentre i pedoni affollano in maniera insolitamente ricca strade e marciapiedi, rendendo difficoltoso ai ragazzi il proseguimento dell’inseguimento.
Il ceffo misterioso, nel frattempo, si sta arrampicando con un’agilità a dir poco sorprendente su uno dei due bracci del ponte, ormai terribilmente inclinato in un’angolatura impossibile da scalare per qualsiasi essere umano che si rispetti. Proprio quando è ormai giunto nel punto più alto, spicca un balzo fenomenale e, accompagnato da uno scuro bagliore color fango, scompare nel nulla, con un altro baluginio.
Non ne è certa, eppure, per un istante ad Amelia è quasi sembrato di aver visto ciondolare un Orologio al collo del ragazzo.
Ed è così che il loro inseguimento fallisce miseramente.
 

♟» New York, Stati Uniti d’America, 2120


Il New York Hilton Hotel risplende nella notte eterna di quel mondo distorto, al pari della stella polare che nell’antichità guidava i marinai lungo le loro rotte, come una sorta di scherzo del destino.
La facciata frontale è nient’altro che una lunga scia di vetri lustri, bordati dalla struttura esterna in resistente acciaio chiaro e scintillante. Sembra di osservare un gigantesco diamante, perfettamente incastonato nel dedalo di ampie vie e viali della Grande Mela, progettata per quei suoi grandi traffici che la contraddistinguono in tutto il mondo.
In realtà l’edificio sorprende, perché ad un’occhiata superficiale sembrerebbe quasi che – in maniera del tutto atipica – sia sviluppato su un unico piano orizzontale e non si slanci verso il cielo. Tuttavia un buon osservatore saprà certo notare che il palazzo prende ben presto una direzione verticale a partire da quel primo piano dalla pianta rettangolare irregolare, ergendosi con un grattacielo degno delle costruzioni che lo circondano.
Nella parte sviluppata verso l’alto sono stipate le varie, lussuosissime camere del famigerato hotel, mentre al pianterreno una hall di tutto rispetto è stata progettata per accogliere turisti da ogni parte del mondo. In un certo senso ora quel luogo mastodontico quasi spaventa, immerso nell’oscurità senza fine e con nessun passante o yellow cab a girargli intorno. Perfino l’insegna, posta sulla facciata principale e che in origine doveva brillare di un costante azzurro vivido, ora è spenta, i neon abbandonati al loro destino.
Una desolazione del genere scoraggerebbe chiunque dal pensiero di mettere piede là dentro. Tuttavia, a quanto pare, quando si perde la testa certi dogmi pesano meno di una piuma.
«Dici che si aprono?» Jude osserva con cipiglio impensierito le vitree porte scorrevoli che dovrebbero permettere l’accesso alla clientela. Già, dovrebbero, perché in un mondo senza corrente elettrica Jude non si stupirebbe se l’entrata dell’Hilton Hotel decidesse di marciare contro di loro e i loro propositi.
«O si aprono o si aprono» borbotta in fretta Ray, continuando a spingere una delle due ante dalla parte opposta «non ho intenzione di rinunciare, dopo tutta la fatica che ho fatto e che sto facendo, ad entrare qua dentro. Ti sembro il tipo che si arrende davanti ad una sciocchezza del genere, Jude?»
«Touché» replica poco dopo il ragazzo dagli occhi rubizzi. Aiuterebbe ben volentieri il suo ex allenatore, se solo quest’ultimo gli permettesse di farlo. Lui ha anche cercato di chiederglielo, solo che Dark s’è impuntato con fermezza, brontolando che deve riuscirci da solo, perché “voglio dimostrarti che per te posso impegnarmi e riuscire in qualsiasi cosa, Jude”.
Ahh, se solo ogni tanto lasciasse a casa l’orgoglio e si impegnasse affinché tutti e due riescano a stare bene insieme, per una volta…
Finalmente l’anta scorrevole giunge dalla parte opposta, i cardini che si fissano a terra schioccando con un sonoro ‘clack’. Ray non prende in considerazione nemmeno per un momento la possibilità di sfacchinare per la successiva mezz’ora – sempre in relazione al contorto scorrere del tempo di quel luogo, certo – per aprire anche l’altra anta, così senza indugiare oltre prende per mano Jude e lo trascina con se all’interno della lussuosa e affascinante hall dell’hotel.
Jude resta subito colpito e affascinato dall’atrio, soprattutto perché – a differenza di buona parte degli edifici di New York che ha visitato finora – non sembra essere stato soggetto allo scorrere degli anni, senza possedere quindi segni di degrado quali polvere o sporcizia, bensì conservando i fasti splendenti di un tempo.
L’androne è rivestito interamente di pregiati marmi bianchi e lucidi, probabilmente originari di Carrara. Il bancone della reception, invece, è in legno d’acero, solido e resistente. Per un attimo Jude s’immagina quegli ambienti, sotto le luci calde e sfavillanti delle lampade sparse un po’ in ogni dove nella stanza e soprattutto dell’immenso lampadario di cristallo che scende giù dal soffitto e troneggia un po’ tutta la scena. Devono essere stati meravigliosi, senza dubbio.  
Ray si sta già dirigendo proprio verso quest’ultimo, sul suo volto fa di nuovo capolino il sogghigno furbo di quando un’idea geniale ha preso a ronzargli per la mente.
«Buonasera» lo sente introdursi, poco dopo «io e il mio giovane ospite avremmo bisogno di una camera presso la vostra struttura. No, non avevamo prenotato: diciamo che ci piace presentarci di più così, senza preavviso… non lo trova anche lei molto più altolocato e degno delle nostre persone? Quale stanza desideriamo, dice? Oh, ma che domante: la vostra Suite Deluxe sarà perfetta, senza dubbio!»
Ray è così preso nella sua recita che, per una frazione di secondo, Jude non può fare a meno di chiedersi se stia veramente parlando con qualcuno che d’improvviso si è materializzato lì e adesso consegnerà loro le chiavi della più prestigiosa suite di quell’hotel, senza nemmeno pretendere in cambio pagamenti o qualcosa del genere.
“Magari non siamo poi così soli” sussurra speranzoso Jude, dentro di sé.
Poco dopo però si rende conto che chiaramente Ray sta scherzando. È così bravo da riuscire perfino a portare avanti da solo quella farsa e risultare pur sempre convincente. Jude ormai non ha neanche più parole adatte per poterlo descrivere.
Ad ogni modo, non riesce comunque a trattenersi dal chiedergli:«Ma con chi diavolo stai parlando?»
«Da solo, ovviamente» risponde subito Ray, come se fosse la cosa più scontata del mondo «ti sembra che ci sia qualcun altro in circolazione, qui?»
Jude rotea gli occhi, senza aggiungere altro. Certo che non sa proprio risparmiarsi brutte figure, eh?
Ray, nel frattempo, poggia entrambe le mani sul bancone ligneo della reception, balzando agilmente dall’altra parte. E dire che non credeva di avere i riflessi necessari per fare una cosa del genere, alla sua età, specie dopo l’incidente.
Neanche un secondo dopo e le mani dell’uomo sono già intente a frugare in vari cassetti, alla ricerca della tessera elettromagnetica della suite desiderata. Jude nel frattempo si appoggia con i gomiti sul bancone, lo sguardo perso ancora tra quelle mille meraviglie. Ma chi lo segue il bon ton, quando vivi in una dimensione parallela disabitata?
«Trovata ~» gli comunica poco dopo Ray, con tono vagamente lascivo, mentre gli sventola una card turchina sotto gli occhi.
«Uh, bene!» Jude scuote la testa, colto alla sprovvista «E sai anche a che piano dobbiamo salire?»
«Ma certo» Dark si volta alla svelta, ruotando su se stesso di centottanta gradi, fino a ritrovarsi con il volto a pochi centimetri da un foglio di carta bianca e linda, appeso in una piccola bacheca che occupa parte della parete.
Quando Ray si gira di nuovo verso il ragazzo, sembra essere notevolmente sbiancato.
«Non dirmi che è occupata» ironizza Jude, cercando di smorzare la tensione.
«Vuoi davvero sapere a che piano si trova, Jude?» si sente domandare di rimando, con tono mortalmente serio.
«È parecchio in alto, mh?» intuisce il giovane, mentre in volto gli compare un’espressione mesta.
Ray annuisce, e a Jude non rimane che lasciarsi sfuggire un sospiro sconsolato.
«Mi dispiace» si affretta a scusarsi Ray, mortificato «avrei dovuto pensare a qualcosa di più fattibile. Posso provare a cercare una camera al primo piano, volendo…»
«Ma no, ma no… va bene così, sul serio» lo rassicura il ragazzo, sorridendogli lievemente. Non poteva saperlo, in fondo…
Certo che è una scocciatura, vivere in un mondo senza elettricità. Buona parte delle azioni che si compiono abitualmente sono inevitabilmente compromesse, tra cui la possibilità di prendere un ascensore al posto di farsi tutti quei piani di scale, che per quanti anni di allenamenti sportivi tu possa avere alle spalle non sono certo alla portata di un comune essere umano.
«Aspetta, ho avuto un’idea!» Jude sembra illuminarsi, saltellando appena sul posto.
 «Sarebbe a dire?» s’informa Ray, sporgendosi verso di lui oltre il bancone, tutto incuriosito dall’improvviso cambio di prospettiva.
«Credo che da qualche parte debba esserci un montacarichi, di quelli vecchi a motore, che funzionano anche senza elettricità» spiega il ragazzino, tutto orgoglioso per aver avuto quella trovata geniale «Mi pare che si usino proprio durante i guasti, i blackout o problematiche di questo genere. Almeno, anche se manca la corrente, il mondo non è costretto a fermarsi».
«Mi sembra un’intuizione meravigliosa» si congratula Ray «solo che non potevi averla prima? Magari ci saremmo potuti risparmiare tutte quelle scale, prima, al Rockfeller Center…»
«Ah, era il Rockfeller Center, quello?»
«Già»
«Oh, ma pensa, non lo sapevo…»
«Jude, non cercare di cambiare argomento. Lo sai che con me non funziona, signorino».
«Non sto cercando di cambiare argomento» si affretta ad assicurargli il giovane, con aria scaltra «ci tenevo solo a precisare che non sapevo che quello fosse il Rockfeller Center, sul serio…~»
Ray sospira, stremato. Certo che avrebbe dovuto impartire un po’ meno caparbietà, al suo ragazzo.
«Comunque» riprende Jude, deciso a non mollare la spugna «avresti potuto pensarci benissimo anche tu, caro. Dopotutto, non sei sempre il primo che ci tiene a puntualizzare che tutto quello che so mi è noto solo perché sei stato tu a insegnarmelo?»
«Va bene» acconsente infine Dark, la mente al momento occupata da ben altre preoccupazioni mentre fa il giro per sgusciare finalmente fuori da dietro quel bancone, stavolta senza salti strabilianti o acrobazie del genere – dubita infatti che il suo corpo potrebbe sostenerlo in un salto simile per una seconda volta «Adesso vuoi darmi una mano a cercare questo montacarichi o preferisci rimanertene qua da solo, al buio, in questa hall abbandonata?»
«Opto per la prima» gongola il ragazzo, mettendosi in punta di piedi per potergli scoccare un bacio leggero a fior di labbra.
«Ottimo» sentenzia l’uomo, accarezzandogli i capelli «allora, visto che la mia giovane creazione ha avuto un’idea tanto brillante, a lei toccherà il compito di guidarci verso questo benedetto montacarichi, mh?»
«D’accordo» concede Jude, mettendosi a saltellare attraverso l’elegante hall, dirigendosi strategicamente verso l’area “riservata al personale autorizzato”.
Neanche qualche minuto di traversata lungo gli immensi corridoi dell’hotel che un piccolo montacarichi si para davanti ai loro occhi.
«Non avevi detto che sarebbe stato così piccolo» protesta Ray, imbronciato.
«Beh, se è per questo tu non hai neanche dato segno di volerlo sapere» replica Jude, la solita aria furba ad illuminargli il volto.
Poco dopo, Ray si ritrova ad armeggiare con l’inferriata metallica che ostruisce l’ingresso al montacarichi, il che gli fa sfuggire un grugnito.
“Io ti ho trovato il montacarichi perché l’idea di usarlo è stata mia, adesso però lo metti in funzione te, visto che sei tu quello che è voluto venire qui” gli aveva infatti comunicato Jude qualche minuto prima, non senza una buona dose di sarcasmo.
In fondo, se lo amava così tanto era anche per questo, no?
Lo spazio all’interno del montacarichi, in effetti, è sorprendentemente ristretto, tanto che per entrarci Jude è costretto a mettersi seduto in un angolo, mentre Ray deve rimanere in piedi, per non occupare troppo spazio.
«Ma non potevi proprio cercare una camera da letto un po’ più alla mano?» obietta Jude, sbuffando sonoramente, mentre il montacarichi comincia a salire.
«No» risponde secco Ray, non senza un sogghigno adatto all’occasione.
Per il resto, il viaggio in montacarichi trascorre abbastanza in silenzio, fatta eccezione per gli sporadici brontolii di lamentela di Jude e le carezze che Ray gli distribuisce di tanto in tanto sul capo, chinandosi su di lui per poterlo rassicurare.
Una volta arrivati al piano giusto, Ray deve far di nuovo pressione affinché la grata si apra e Jude non aspetta neanche che l’altro lo inviti ad uscire per primo con un gesto galante, gettandosi piuttosto in corridoio di sua spontanea volontà, adottando di nuovo il passo saltellato come in precedenza.
Ray sospira, affrettandosi tuttavia a seguirlo.
Man mano che passano lungo il corridoio, percorso da due file parallele e densamente fitte di porte, Jude non perde occasione per bussare a ciascun ingresso, ridacchiando soavemente.
«Jude, smettila di importunare la clientela dell’hotel, per favore» lo riprende Ray, seppur con tono estremamente bonario.
Il ragazzo ride ancor di più a quell’affermazione, voltandosi verso l’altro e mettendosi a camminare all’indietro pur di poterlo osservare in volto nel frattempo.
«Non hai più paura degli zombie affamati di cervelli?» rincara l’uomo «E cammina come si deve, se cadrai non verrò certo a tirarti su».
«Oh, lo farai eccome, invece!» lo sbeffeggia Jude, fingendo di inciampare all’indietro sulla moquette rossa decorata dai simboli di alcuni gigli dorati, venendo prontamente afferrato da Dark «E no, non ho paura di zombie o chissà cosa. Tanto adesso ci sei tu che mi proteggi, no?»
«Ma io ti proteggo sempre, sciocchino ~» lo rimbrotta Ray, carezzandogli suadentemente il mento con due dita, mentre lo aiuta a rimettersi per bene in piedi.
Jude avvampa vistosamente al contatto delle dita di Ray con il suo volto, tuttavia cerca di non farglielo notare, tornando a voltarsi e incamminandosi nuovamente lungo il corridoio.
Ray lo segue pedissequamente, a pochi passi di distanza dalla sua schiena.
Quando arrivano davanti alla suite, per poco Jude crede di esserselo sognato. Stanno camminando da diversi minuti lungo quel corridoio che gli pare infinito, mani rasenti al muro per non perdere l’orientamento in quell’oscurità accecante, rischiarata parzialmente solo dalle rade luci presenti all’esterno, che filtrano nell’hotel attraverso le finestre che di tanto in tanto incrociano sul loro cammino.
«Credo che ci sia un altro problema» annuncia Jude, rimproverandosi per essersene reso conto soltanto adesso.
«Sarebbe a dire?» domanda Ray, perplesso.
«Beh» ammette il ragazzo, con un sospiro affranto «senza corrente elettrica è tecnicamente impossibile che il meccanismo della tessera magnetica funzioni. Servirebbe una chiave o qualcosa del—»
Nemmeno un secondo dopo, Ray sta già facendo dondolare un paio di scintillanti chiavi d’ottone davanti agli occhi meravigliati del ragazzo.
«Diciamo pure che ci avevo già pensato» replica Ray, ghignando soddisfatto.
«E questa cos’è, una sorta di rivincita? Io ho avuto l’idea geniale del montacarichi e tu quella delle chiavi? Oh, okay, va bene» brontola Jude, facendosi prendere da un moto d’irritazione.
«Suvvia, non imbronciarti» Ray lo abbraccia di slancio, mentre sta già infilando la chiave nella serratura «godiamoci questo momento e basta, okay?»
«Mh, okay» concede il ragazzo, strofinando appena il capo contro il petto dell’ex allenatore.
La chiave scatta nella serratura e Ray spinge delicatamente la porta, che si dischiude piano davanti ai loro occhi, rivelando il suo interno con un certo velo ammaliante.
Il buio non permette una visuale completa e certo la fioca luce che entra dalle due finestre non aiuta granché. I tendaggi sono stati lasciati aperti, per quanto però possano essere in alto adesso tutto quello che riescono a scorgere da lì non sono altro che i soliti, monotoni grattacieli – e Jude è abbastanza certo di cominciare ad essere stanco, di quel panorama. A terra c’è una moquette scura, con dei ricami bianchi appena visibili, decisamente moderna rispetto a quella in corridoio; la mobilia in legno d’acero è distribuita un po’ ovunque, a partire dalla scrivania alla destra dell’entrata, con la sedia girevole rivestita con morbidi cuscini, passando per la cassettiera discreta, che ben si fonde con l’ambiente e che ospita un invitante televisore al plasma – che ovviamente non funzionerà, sempre per via dell’assenza di corrente elettrica. Contro la parete opposta spiccano un divano e una poltrona, che devono essere decisamente morbidi, sormontati da un elegante dipinto ad olio. Nella stanza sono inoltre presenti ben cinque lampade, due abat-jour sui rispettivi comodini, posti ai lati del letto e tre paralumi, per illuminare a giorno la camera – ma ahimé, di nuovo, non c’è modo che queste possano funzionare, in quella dimensione distorta.
In fondo c’è una porta bianca, che condurrà senza dubbio alla toilette super equipaggiata, completa di lavabo regale, vasca con idromassaggio e box doccia, oltre a tutti gli altri vari comfort che non possono mai mancare nel bagno di un hotel di lusso. La cabina armadio è immensa ed occupa quasi interamente la parete su cui compare la porta d’ingresso – e peccato non avere dei vestiti da riporvi, insomma.
Il vero e proprio elemento chic della stanza è tuttavia, ovviamente, il letto matrimoniale, che occupa una posizione centrale. Un talamo nuziale in piena regola, lenzuola bianche immacolate in raso, testiera imbottita, cuscini e materasso soffici come piume e una struttura lignea che giunge fino a toccare il soffitto.
Jude è rimasto a bocca aperta, lo sguardo che non smette di saettare da un centimetro all’altro di quella camera dalle pareti tinteggiate di bianco – non un bianco opprimente come quello degli ospedali, quanto piuttosto un panna che rende tutto così incredibilmente accogliente, rassicurante, rilassante – troppo rapito da tutti quei nuovi dettagli.
«Non sarà… troppo, per noi?» si azzarda a domandare, una punta di timore nella voce.
Ray chiude la porta con nonchalance, sorridendo entusiasta nell’avvertire il dubbio e l’incertezza nella voce del suo ragazzo. Sarà un bel gioco, Jude, vedrai…
«Desidero solo il meglio per te, Jude. Dovresti saperlo, ormai, dopotutto ci conosciamo da tanti di quegli anni…» commenta solennemente Dark, incrociando le braccia al petto e restando ad osservare il ragazzo con un cipiglio sorprendentemente interessato.
«E posso fare qualsiasi cosa, adesso che sono qui?»
«Assolutamente, qualsiasi cosa, ragazzo mio»
«Davvero? Qualsiasi qualsiasi?» insiste Jude, sbigottito.
«Qualsiasi qualsiasi» rincara Ray, scompigliandogli appena i capelli.
Ottenuta la conferma desiderata, Jude non indugia oltre prima di lanciarsi sul maestoso letto matrimoniale. Ogni volta che suo padre l’ha portato con sé, in uno dei suoi numerosi viaggi d’affari in giro per il mondo, il ragazzo si era dovuto trattenere da esternazioni di gioia del genere di fronte a un comodo giaciglio d’hotel, certo che l’uomo non avrebbe accettato. Invece con Dark, adesso, la musica è ben diversa: non essendo apparentemente quella la vera New York, non avrebbe comportato danni di alcun genere e nessuno sarebbe andato da lui a contestare per quel che aveva fatto. E poi Ray gliel’avrebbe permesso a prescindere, si vede da chilometri di distanza che è perdutamente innamorato di lui, gli concederebbe di fare qualsiasi cosa.
La cosa buffa è che la sua mente ha dovuto compiere uno sforzo non indifferente per riportare a galla i ricordi di lui e suo padre – anche sommariamente recenti, peraltro – il che è decisamente preoccupante. Forse dovrebbe parlarne con Ray, solo che quel momento è così esaltante che non gli sembra proprio il caso di rovinarlo con le sue solite paranoie.
Jude non si accorge neanche del momento in cui ha cominciato a saltare sul letto, sa solo che un attimo prima non ne era cosciente, occhi chiusi e mente altrove, invece l’istante successivo, non appena solleva nuovamente le palpebre, percepisce lo sguardo stralunato di Ray su di sé, mentre sente il proprio corpo alzarsi di qualche centimetro in aria per poi tornare con i piedi poggiati sul materasso, poi di nuovo su, andando avanti così, di continuo, senza riuscire a fermarsi.
«Oh cielo» borbotta imbarazzatissimo, le guance che hanno ormai preso una poco rassicurante sfumatura purpure «scusa, scusa, scusa, non mi sarei dovuto mettere a saltare così—»
«Ma no, tranquillo» Ray si avvicina al letto, quasi scivolando nelle tenebre della notte «dopotutto, è bello vederti così spensierato. Mi fa scoppiare il cuore di gioia».
Quando l’uomo è ormai giunto ai piedi del talamo, Jude è riuscito finalmente a smettere di saltellare. Anche se adesso è più in alto rispetto all’altro, contando il materasso e tutta la struttura del letto, Ray continua a sovrastarlo, pur con i piedi ancora a terra.
Il ragazzo sente il cuore martellargli nel petto, mentre uno strano rossore gli ha invaso di nuovo le gote. È strano percepire Dark così vicino a sé… a Jude sembra di sentire il suo respiro caldo sfiorare la propria pelle, che invece ora gli pare così incredibilmente fredda.
Non credeva che averlo così vicino lo avrebbe fatto sentire così… così come? Jude non sa nemmeno definire quella nuova sensazione, che d’improvviso lo ha avvolto completamente.
«Ehm, ecco—» cerca di mormorare qualcosa di intelligente – o quantomeno sensato – tuttavia le parole in quel momento sembrano avercela con lui, dato che pare non vogliano uscire fuori dalle sue labbra per nessuna ragione al mondo.
«Non preoccuparti» lo incoraggia Ray, una mano che si perde tra i capelli del ragazzo, mentre l’altra si è già persa lungo la sua schiena candida, sotto strati e stati di vestiti «penso a tutto io adesso, mh?»
«M-ma io—» Jude si morde il labbro inferiore, fino a che non sente il sapore ferroso del sangue sgorgare nella bocca, invadendola del tutto.
«Shh~» Ray continua a riempirgli la schiena di carezze bollenti, che corrono lungo tutta la linea della colonna vertebrale, mentre così facendo lo induce a distendersi sui cuscini morbidi del letto «Devo forse ricordarti che ci troviamo in un paese in cui la maggiore età si raggiunge legalmente a sedici anni e tu ne hai già ben diciotto?»
Il ragazzo sobbalza, il rossore sulle sue guance che sembra aumentare ancora di più, mentre trattiene a stento un gemito quando le labbra dell’uomo si posano sulle sue, languide e possessive.
«Bravo. Lasciati andare. Così» lo esorta ancora, spingendo il proprio petto contro quello del giovane, le mani che hanno già cominciato a slacciare sapientemente la camicia del più piccolo, bottone dopo bottone.
Jude chiude gli occhi, rapito dai fremiti che lo comprendono completamente, come onde che si riversano sugli scogli, in un giorno di alta marea.
E forse è solo allora che comprende cosa voglia dire abbandonarsi davvero alle proprie emozioni.


«Faresti meglio a riposarti, adesso»
«Cosa? Riposarmi? E io che non vedevo l’ora di ricominciare tutto da capo…»
«Non prendermi in giro, sarai stanco»
«I-io non sono affatto stan—»
Jude non aveva fatto in tempo a terminare la frase che si era addormentato placidamente, il volto premuto appena contro il petto dell’uomo.
Uscendo dalla doccia, Ray non riesce a far a meno di riportare alla mente gli stralci della conversazione – o meglio, di quell’accenno di dialogo – avuti poco prima con Jude, negli istanti che avevano preceduto l’addormentamento del ragazzo.
È stato tutto così… perfetto. Non immaginava neanche lontanamente di poter sfiorare apici di piacere tanto alti… beh, forse se lo sarebbe dovuto aspettare, visto che tra le sue braccia c’era proprio lui.
L’essere perfetto, la prima, meravigliosa creazione.
Ray Dark riemerge dalla toilette, un asciugamano annodato in vita e i capelli tamponati appena con i teli generosamente offerti dall’Hilton Hotel ancora umidi che gocciolano un poco sull’elegante moquette. Lo shampoo gli ha lasciato stille di profumo alla vaniglia, nonostante il sentore di stantio emerso dai flaconi subito dopo averli aperti, per essere rimasti chiusi così a lungo – secoli, letteralmente.
È assurdo che, in un mondo senza elettricità, le docce siano ancora perfettamente funzionanti. Non puoi mangiare cibi freschi né riscaldarli, non hai possibilità di riscaldarti dal gelo ma almeno puoi farti trovare perfettamente pulito e profumato durante l’apocalisse. Certo.
Ovviamente l’acqua calda non si trova neanche a pagarla – senza corrente è impossibile che boiler, scaldabagni e caldaie varie funzionino – ma almeno l’acqua c’è. Che poi a Ray quello sembra un paradosso bello e buono: come fanno ad averla, se le centrali idriche non funzionano? Perché, parliamoci chiaro, è impossibile che si riesca ad ottenere un fabbisogno d’acqua necessario a soddisfare una megalopoli come New York, senza centrali idriche.
Forse il governo americano aveva stipulato un fondo per le emergenze, così che, anche in caso di un blackout generale, l’immensa megalopoli che è New York non rimanesse a corto di un bene tanto prezioso quale l’acqua. Ray s’informerebbe ben volentieri, se solo i computer o la rete wifi funzionassero, peccato che sia di nuovo da capo a dodici – niente elettricità, niente computer e quindi niente accesso ad internet. Avrebbe dovuto pensarci, a quanto sia importante la corrente elettrica nel mondo moderno, perlomeno prima di finire in una dimensione priva di essa.
Anche perché, a quel punto, non dovrebbe esistere un piano d’emergenza nazionale anche per l’elettricità? No, no, questa faccenda continua a non quadrargli.
Ray, in effetti, ha sempre avuto il sospetto che, dietro a quel loro soggiorno lì, ci fosse qualcuno, capace di macchinare e architettare un piano del genere, fornendo loro solo ciò di cui avevano bisogno nel momento esatto in cui ne percepissero la necessità, ovunque si trovassero. Solo che questo a Jude non l’ha mai detto, una prospettiva del genere basta ad inquietare se stesso, meglio non mettere ulteriori pesi sulle spalle del suo adorato ragazzo, soprattutto non dopo tutto quello che ha dovuto soffrire, negli ultimi tempi.
A proposito di Jude, tornando nella camera da letto Ray lo trova ancora profondamente addormentato: è disteso nel letto a pancia in giù, tutto il lato sinistro del volto premuto contro il cuscino, la bocca socchiusa e il corpo abbandonato in una posizione piuttosto innaturale – le braccia aperte, una gamba più sollevata rispetto all’altra. È crollato esattamente così, poco prima.
Ray non fatica a trovarlo adorabile: gli appare estremamente puro, innocente. Quasi si sente in colpa, perché in tutti quegli anni – e soprattutto dopo quello che è successo poco prima – non gli sembra d’aver fatto altro che deturpare l’immacolata perfezione di quel ragazzo.
Adesso, tuttavia, è troppo tardi per essere colti dai rimorsi. Quel che è fatto ormai è fatto, inutile pentirsene.
Inoltre… perché mai pentirsi di cotanta perfezione?
Le dita affusolate di Ray accarezzano quel che il lenzuolo lascia scoperto della schiena di Jude, candida e vellutata: ne percorre la colonna vertebrale, sogghignando di soddisfazione nel constatare che il ragazzo non dà segno di risvegliarsi, nonostante quel contatto.
Non mentirmi, Jude: tu ti fidi ancora di me, nonostante tutto, oltre lo scorrere del tempo che mai è stato clemente con noi.
Con un sospiro stanco, l’uomo lascia il giovane al suo meritato riposo, recuperando i propri vestiti – sparsi alla rinfusa sul materasso – e rivestendosi in tutta calma.
Un velo di pace sembra essersi posato tra di loro, su quella camera, su quell’intera città di fantasmi e Ray si sente finalmente in pace con se stesso, così come non gli capitava da anni.
Magnifico.
Dark è un tutt’uno con le ombre della stanza mentre muove passi felpati su quella moquette morbidissima in direzione di una delle due finestre, che sembra non essere stata minimamente toccata dallo scorrere del tempo.
Il mondo esterno gli appare così come l’ha lasciato, prima di addentrarsi nel nugolo di corridoi dell’Hilton Hotel, insieme al suo adorato Jude: un mondo freddo, arcigno, crudele, abbandonato al degrado della solitudine e al silenzio eterno, immerso in quel mare di tenebre.
In passato, forse, non gli sarebbe nemmeno sembrato un posto tanto inospitale, considerata l’oscurità che albergava – o meglio, quella che voleva che gli altri credessero che albergasse – all’interno del suo cuore. Ora invece, tutto quel buio gli pare così opprimente, tanto che a volte quasi teme di non riuscire più a respirare.
Ray ruota piano la maniglia della finestra, facendo attenzione affinché scattando produca meno rumore possibile – tutto, pur di non turbare in alcun modo la tranquillità del suo ragazzo.
Dischiudendo le ante, ovviamente è ancora una volta il silenzio tombale ad accoglierlo, tanto che Ray non si meraviglierebbe di sentire i grilli cominciare a frinire da un momento all’altro, come nelle sere di tranquillità in campagna.
E in effetti se alza lo sguardo in cielo può facilmente scorgere una notte stellata in piena regola, Orione che gli strizza l’occhiolino con fare insensibile.
Già, come se nemmeno le stelle si curassero del loro dolore – e forse è proprio così.
È una notte senza luna come ogni altro istante che ha trascorso in quell’oscurità senza fine, il che rende tutto ancora più tetro, palazzi perfettamente conservati sembrano ruderi senza porte e finestre, i loro unici inquilini spettri di tenebre, che s’affaccendano mentre aleggiano tra quei corridoi, albergando quelle stanze come nere certezze.
Il paesaggio è ostruito dai grattacieli vuoti e disabitati, la visuale è ampiamente ridotta. Ray è assolutamente certo di essere incapace di vedere pochi metri oltre il suo naso.
Tutto sommato, quella tranquillità – per quanto artificiosa possa essere – è piacevole, immergersi nel silenzio aiuta a sciogliere i nervi, indubbiamente.
Un refolo di vento attraversa silenziosamente l’atmosfera immobile e immutabile, un alito fresco che sfiora la pelle di Ray dopo un tempo che gli è parso infinito.
No, un momento.
In quel mondo che di reale ha ben poco, Ray si rende nitidamente conto che non c’è mai stato un singolo istante, da quando è giunto in quella dimensione distorta, in cui ha sentito il vento soffiare.
E quello, per l’uomo, è un campanello d’allarme fin troppo chiaro.
È un attimo prima che accada l’inevitabile.
Dapprima è un sentore leggero, quasi impossibile da percepire, troppo lontano perché l’orecchio o qualsiasi altro senso umano possa captarlo. Ben presto, tuttavia, quel rumore ovattato si fa sempre più vicino, acquistando nitidezza.
Sembrano pulsazioni ritmiche, quasi come quelle di un cuore. Tu tum, tu tum. Tu tum, tu tum.
La terra trema sotto i suoi piedi, le pareti vibranti sembrano d’improvviso fogli di carta macerati dall’acqua per quanto fragili e impotenti si rivelino alla necessità di proteggerli.
“Il terremoto” è il primo pensiero dell’uomo, nell’avvertire quei rumori sospetti. In tutti quegli anni, Dark non si è mai ritrovato dinanzi ad una prospettiva così tragica, ecco perché all’idea che i suoi sospetti possano essere fondati resta per un attimo eterno impietrito, senza avere la più pallida idea di cosa fare.
Per un attimo Ray crede – anzi, forse addirittura spera – di essersi immaginato tutto, che i quattro interminabili anni trascorsi lì l’abbiano condotto del tutto alla pazzia e che quelle vibrazioni che ha sentito non siano altro che il frutto della sua mente distrutta.
Peccato che dopo tutto il tempo passato in quella riproduzione di New York, in cui è notte in ogni momento della giornata e i secondi di sabbia non scorrono nelle clessidre, ha ormai compreso che dove si trova nulla accade per caso.
I colpi pesanti si rimarcano sul terreno, tanto che Ray sente quasi di riconoscerli con il rumore di passi. Solo che dei normalissimi calpestii non creerebbero tutto quel fragore, lo sa fin troppo bene.
E Ray ne ha la conferma, quando vede la via dell’Hilton Hotel inondarsi di giganti di pietra.

                                                                ~~

«Oh, sei tornato, finalmente».
Caleb fa il suo ingresso nella stanza a passo nervoso e spedito, ricordando quasi l’incedere furente di un cavallo al trotto. Getta a terra una felpa grigia dall’aspetto piuttosto malandato mentre tra le mani tiene un lungo foglio, tutto arrotolato su se stesso.
«Sì, beh, bello schifo, insomma» sbotta, le parole che sembrano quasi essere sputate «per poco non mi prendevano, quegli pseudo crononauti. Mi hanno inseguito per mezza Londra e mi sono dovuto inventare l’impossibile per seminarli. Solo trasportarmi via con l’Oro all’ultimo momento, dopo essermi arrampicato fin in cima al Tower Bridge sollevato ha funzionato, pensi un po’…»
«Tutto molto interessante» commenta l’uomo, con un tono che sembra essere tutto, fuorché incuriosito dalle gesta del ragazzo «ma almeno hai recuperato quello che ci serve?»
«Ne dubitava?» Caleb raggiunge il suo interlocutore, in piedi davanti alla vetrata, che dona un’incantevole scorcio sulla città di New York, immersa nel suo buio perenne. Passa il foglio all’uomo, che subito lo srotola, iniziando ad osservarlo attentamente.
«Eccellente» commenta, soddisfatto «ora siamo a conoscenza degli Orologi mancanti. Riposati, figliolo, questa volta hai compiuto il tuo lavoro egregiamente».
«Eh, certo, stavolta. Come no» Caleb sbuffa, irritato «comunque, quanto ai nostri “ospiti”?»
L’uomo si volta, per la prima volta da quando è giunto nella stanza, in direzione del ragazzo, con in volto un’espressione stupita.
«Oh, Jude Sharp e Ray Dark, dici? Non preoccuparti» si passa una mano davanti al volto, ghignando malevolmente «ho preparato una “sorpresa” tutta per loro. Accomodati pure, Caleb: lo spettacolo sta per cominciare».





* Angolo autrice *


Yee, ce l’ho fattaaa! *suona trombetta*

Scusate, sono io stessa la prima ad essere incredula: non credevo che alla fine sarei riuscita a pubblicare oggi, per quanto mi stessi impegnando a finire il capitolo. Ad ogni modo, ce l’ho fatta: siete contenti?
Mi sono tipo slogata un polso per finire di scriverlo tutto, perché – parliamoci chiaro – la parte dei crononauti è lunga sedici pagine e quella ambientata a New York dodici. Voglio troppo morire, ahahah, ventotto pagine, chi me l’ha fatto fare—
In realtà la parte di Amelia (che ebbene sì, è ricomparsa ed è ancora qui tra noi – beh, più o meno), Thiago & co. doveva venire molto più breve, tuttavia alla fine ho deciso di allungarla e di lasciarvi col cliffhanger finale del ladro perché sì. Perché sono una persona malvagia, ecco.
Comunque, per la prima volta in vita mia svelo un cliffhanger nello stesso capitolo in cui compare. Il ladro è ovviamente Caleb, che trafuga le raffigurazioni degli Orologi perché almeno così sarà più facile trovarli. Oh no, i cattivi adesso sono un passo avanti ai nostri eroi. Però dai, diciamoci la verità: a chi piacciono le cose semplici? A me.
Non so se avete notato ma rispetto alla lista dei personaggi che vi avevo lasciato nel capitolo precedente è apparso un nuovo oc che non avevo segnato: ebbene, si tratta di Julie Dupont, oc di Michy_66. Ho scelto di integrare Julie nella trama perché praticamente, se non lo avessi fatto, mi sarebbe rimasto un posto vuoto tra i crononauti, giacché fin dal progetto iniziale dovevano essere otto. A proposito, finalmente i nostri ragazzi si sono incontrati! Che ne dite, li ho fatti interagire bene tra loro?
Qui sotto vi lascio nuovamente la lista degli oc con l’aggiunta di Julie, indicando come al solito colore della luce sprigionata durante i viaggi e simbolo dell’Oro.


Julie Dupont ~ pavone
Atemu McKinley ~ mondo
Amelia Greene ~ corvo
Andrea Cervini ~ scheggia di vetro
Thiago Joel Ferreira dos Reis ~ ragno
Margarita Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Claudine Blanchard ~ rondine
Amos Akolzin ~ ingranaggi


Ad ogni modo, vi lascio una piccola anticipazione sul prossimo capitolo: i nostri ragazzi dovranno andare alla ricerca degli Orologi perduti, quindi inizieranno i primi viaggi in giro per il mondo! Ho già deciso quali saranno le destinazioni in cui si recheranno, perciò, visto che stasera mi sento estremamente magnanima, ho deciso di lasciarvi anche lo schemino delle coppie e di chi andrà con chi. Sono proprio buona oggi, eh?


Andrea/Claudine – Roma, Italia
Atemu/Amos – Città del Capo, Sudafrica
Amelia/Thiago – Ayers Rock, Uluru, Australia (Outback australiano)
Margarita/Julie – Beijing, Cina


Ecco fatto! Vi piacciono le coppie? E le destinazioni?

Bene, con questo credo che per stavolta sia decisamente tutto. Vi lascio l’appuntamento al prossimo mese per il nuovo capitolo (sì, cercherò di aggiornare almeno una volta al mese, sperando di rientrarci con le tempistiche) e spero di sentirvi presto, magari nelle recensioni, chi lo sa!
Ci vediamo domani, con l'ultimo chap di Mar (viva Ange!)


                                                                                                                                                                    Aria


Next stop .:: Chapter seven  —Butterflies and hurricanes

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Capitolo 8
*** Butterflies and hurricanes ***


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« Non è vero che abbiamo poco tempo:
la verità è che ne perdiamo molto »    
– Seneca –
 
Chapter seven
Butterflies and hurricanes

♟» New York, Stati Uniti d’America, 2120

«Spero vivamente che tutto ciò non sia che uno scherzo di pessimo gusto».
Jude scivola rapidamente lungo in corrimano polveroso delle scale dell’Hilton Hotel, le mani che litigano furentemente con un bottone della camicia che proprio non vuole saperne d’infilarsi nell’asola, mentre i lembi della felpa continuano a sbatacchiare contro il suo corpo, a causa della cerniera lampo slacciata sul davanti e dell’aria sferzante che s’è formata attorno al suo corpo, a forza di andare a quella velocità insostenibile.
«Credimi, anche io vorrei che lo fosse» Ray sospira di frustrazione, stare dietro al ragazzo in quelle condizioni è piuttosto difficoltoso, soprattutto considerando il fatto che si deve fare tutte le scale a piedi e di corsa, mentre Jude può filare via tranquillamente seduto su quel pezzo di legno.
Dark non c’è potuto salire perché, chiaramente, con ogni probabilità il corrimano non avrebbe retto il suo peso.
«Anche perché» riprende l’uomo, passandosi nervosamente una mano tra i capelli «che diavolo di giovamento potrei trarre dal guastarmi da solo l’unico momento della mia vita in cui finalmente mi sono sentito bene
Jude termina una rampa di scale, saltando giù dal corrimano con una capriola a mezz’aria ed atterrando in piedi senza difficoltà, percorrendo di corsa il pianerottolo per poi rituffarsi sulla scivolata successiva. Solo quando è sceso già di un altro piano accenna finalmente a rallentare, arrestandosi sul posto, come se fosse riuscito a comprendere solo allora le parole dell’ex Comandante.
Quando riesce a raggiungerlo, Ray ha il fiato corto, tanto che per riacquistarne un po’ è costretto a piegarsi su se stesso, le mani poggiate sulle ginocchia.
«Aspetta» commenta Jude, osservando con cipiglio incuriosito l’uomo «hai forse detto di essere stato bene con me?»
«Beh» l’uomo si tira nuovamente su, drizzando per bene la schiena «e te ne stai meravigliando?»
Un accenno di rossore fa capolino sulle guance del ragazzo, che tuttavia si appresta a nasconderlo, troppo orgoglioso per mostrare i propri sentimenti perfino in un momento del genere.
«Piuttosto» borbotta Jude, ostinandosi testardamente a tenere la testa china verso il basso «perché non mi hai svegliato prima, se avevi già visto quei cosi invadere la strada?»
«Potrei dirti che osservarti mentre dormi è così affascinante che anche solo il lontano pensiero di doverti svegliare mi è sembrato incredibilmente doloroso» ammette l’altro, sollevandogli il volto con due dita, in modo da costringerlo a guardarlo negli occhi mentre gli parla «o che ho valutato la possibilità di scendere senza dirti niente, poiché non volevo metterti in pericolo. E non dubitare di me se adesso ti dico che non saprei quale tra queste affermazioni sia la più vera, Jude Sharp».
Per un momento Jude teme di essersi dimenticato come si respira, per poi costringersi a distogliere lo sguardo dall’uomo, mascherando il proprio imbarazzo.
«Vedi di non fare l’eroe, Ray Dark» lo riprende seccamente, nel borbottio di voce più convincente che riesce a tirare fuori «ti ricordo che in questa faccenda ci siamo dentro entrambi fin sopra la testa».
«Certamente» replica Ray, per poi chinarsi lievemente sul ragazzo, sfiorando le sue labbra con le proprie. Jude è scosso da un fremito che gli attraversa il corpo da capo a piedi, mentre il rossore sulle sue guance non fa che aumentare.
Vorrebbe poter rimanere ancorato per sempre alle labbra dell’uomo, tuttavia ciò che gli è concesso non è nient’altro che quel tocco leggero, eppure così sorprendentemente e intimamente profondo, prima che Ray si separi da lui.
«Forza» mormora Dark, ancora a pochi centimetri di distanza dal ragazzo, le fronti che si sfiorano soavemente «abbiamo alcuni affari di cui occuparci».
Jude vorrebbe fermare la mano di Ray sulla propria guancia, che sente venire accarezzata con dolcezza, tuttavia non fa in tempo ad afferrarla che anche quest’ultima si è già allontanata.
Ray si avvia con ritrovato vigore lungo il corridoio, riprendendo a scendere le scale, sebbene un velo di mestizia gli avvolga il cuore: è chiaro che preferirebbe di gran lunga intrattenersi con il ragazzo, tuttavia immagina che non ci vorrà molto prima che quell’armata di combattenti di pietra invada anche l’Hilton Hotel e non solo le vie circostanti. Piuttosto che ritrovarsi incastrati e nell’incapacità di fuggire da quel luogo successivamente, meglio agire subito e cercare una via di salvezza – prima che sia troppo tardi.
Questa volta Jude affianca l’adulto e decide di scendere le scale insieme a lui, senza ricorrere allo stratagemma del corrimano. Mentre una di gradini e gradini continua a scivolare davanti ai loro occhi, così tanti che quasi sembrano essere infiniti, il ragazzo lascia scivolare la propria mano in quella di Ray, simulando il gesto con aria casuale, sperando che il suo ex allenatore non si accorga della tensione e della paura che si nascondono dietro quell’azione. Avrei solo bisogno che tu mi rassicurassi, adesso…
Ray, tuttavia, conosce fin troppo bene il suo ragazzo e sa cosa si nasconda dietro ogni suo singolo movimento, figurarsi in una situazione del genere. È fin troppo cosciente di star chiedendo molto a Jude, anzi, forse addirittura troppo. E se ne dispiace, eppure spera di star facendo la cosa giusta, almeno questa volta. Così stringe con gentilezza quella mano, sperando – almeno in quel modo – di riuscire a infondere un po’ di coraggio al giovane.
Quando ormai Jude comincia a credere che non vedrà mai la fine di quelle rampe di scale, il ragazzo scorge in lontananza una luce tenue, bluastra: ci mette qualche attimo a capire che si tratta della notte eterna che imperversa all’esterno, di un color oltremare lievemente più tenue rispetto al nero perenne del cielo.
In quel lucore appena accennato, Jude deve stringere le palpebre, riducendo il suo campo visivo a due fessure, pur di riuscire a intravedere qualcosa di quel che accade all’esterno. Peccato che la scena che gli si para davanti sia tutt’altro che incoraggiante.
Purtroppo deve constatare che, quello che Ray gli aveva accennato poco prima, corrispondeva alla verità: un esercito di giganti di pietra, i ranghi serrati e le schiere perfettamente ordinate. Sono lì, pronti ad attaccare, anche se forse la cosa più inquietante è il fatto che quei guerrieri impugnino, tra le loro mani granitiche, armi di ogni genere: spade, asce, martelli e mazze chiodate, tutti rigorosamente formati da rocce.
«Oh Dio» Jude s’arresta in fondo alle scale, fissando attonito quelle statue «e questi da dove diavolo sono sbucati fuori?»
«Non ne ho la più pallida idea» ammette Ray, stringendo il ragazzo a sé con aria protettiva «però non possiamo restare più qui. Ce ne sono a centinaia, non ci metteranno molto prima di sfondare il vetro e invadere l’albergo».
Jude deglutisce un po’ a fatica. Non ha paura, accidenti, solo che per la prima volta in vita sua che si sentiva finalmente felice e al sicuro, si ritrova nuovamente a dover fronteggiare una situazione troppo grande di lui. Se solo per una volta le cose fossero facili…
«Ehi» Ray gli accarezza la testa, apprensivo «se hai paura puoi restare qui, me ne occupo io».
«Non se ne parla» Jude scuote il capo, discostandosi dal corpo dell’uomo «non provare a fare l’eroe, te l’ho già detto».
«Va bene, ho capito» Dark annuisce, seguendo a pochi passi di distanza il suo amato «e allora cosa pensi di fare?»
«Facile» il giovane Sharp avanza con passo marziale – il che gli ricorda in maniera inquietante il periodo in cui studiava ancora alla Royal Academy – mentre raggiunge l’ingresso dell’Hilton Hotel «li affrontiamo».
Questa volta quello titubante sembra essere Ray, che per un momento tentenna sul posto mentre domanda:«Eh? Sei serio, Jude?»
«Mai stato così serio in vita mia» il sorriso sul volto del ragazzo la dice lunga, mentre quest’ultimo pone le mani ai lati delle porte «non ho intenzione di farmi accerchiare da un esercito di giganti di pietra».
E, ciò detto, spinge le porte di lato, che subito si aprono al suo comando.
Non appena lo schiocco secco delle porte riempie la via, le teste di tutti i guerrieri di pietra ruotano in direzione dell’entrata dell’hotel, le loro espressioni fredde e imperturbabili che si specchiano in quella determinata di Jude.
«Qualora ne avessimo bisogno, abbiamo appena ricevuto la conferma che questi energumeni possiedono anche la capacità di muoversi» sentenzia il giovane, lapidario.
«Beh, te l’avevo detto» Ray sbuffa, indirizzando l’improvviso getto d’aria verso una ciocca di capelli, che proprio non ne vuole sapere di stare al suo posto, continuando a cadergli in maniera irritante davanti al volto «altrimenti come avrebbero fatto ad arrivare fin qui? Materializzandosi dal nulla?»
«A quanto pare, l’ironia non è il tuo forte» replica Jude, seccato «ad ogni modo, non ho la benché minima intenzione di rimanere qui con le mani in mano».
«E questo cosa vorrebbe dire?» domanda Dark, inarcando le sopracciglia.
«Ovvio» il ragazzo sogghigna appena, sa già esattamente quale sarà la sua prossima mossa «li attacco per primo».
Ray fa per aprire la bocca, con tutte le intenzioni di ribattere – non può certo lasciare che il suo ragazzo s’imbarchi in un’impresa del genere – tuttavia non fa in tempo a dire niente che Jude è già scattato in avanti.
Prendendo una rincorsa poderosa il ragazzo scarta di lato, per poi spiccare un balzo che lo fa atterrare direttamente sulle spalle di uno dei giganti di pietra. Una volta lì, senza dare modo alla statua di attuare un contromossa, colpisce con un calcio preciso la testa del guerriero, che viene recisa di netto dal collo e il resto del corpo, finendo per volare secondo una traiettoria orizzontale dritta davanti a sé, colpendo e distruggendo i capi di altri tre combattenti.
«Bel colpo!» esclama Ray, con un fischio di apprezzamento.
Jude sorride soddisfatto, incrociando le braccia al petto.
«A quanto pare, anni e anni di allenamenti hanno dato i loro frutti» commenta, con estrema nonchalance.
A quel punto, incoraggiato dai buoni risultati ottenuti dal giovane, anche Ray decide di arrampicarsi su uno di quei lottatori. Certo, lui non può contare sull’agilità e la freschezza del ragazzo, tuttavia decide di non demordere lo stesso, tirando fuori le unghie e scalando lentamente quell’ostacolo terribile, inerpicandosi a forza lungo la schiena di un altro gigante.
Tuttavia, il loro trionfo dura per poco.
A terra, infatti, le teste troncate da Jude iniziano a vibrare, talmente forte che di colpo l’intera strada è tutta un tremito e Ray e il ragazzo devono fare appello a ogni briciolo della loro determinazione – e anche alle scarse capacità di equilibrismo che possiedono, certo – pur non perdere la stabilità che faticosamente hanno acquisito e fare la figura degli idioti, cadendo rovinosamente a terra.
Eppure, in quel momento il loro problema è un altro: infatti, di colpo le teste che Jude era riuscito a separare dai corpi dei giganti si sollevano nell’aria, tornando a posarsi sulle spalle dei guerrieri e ricongiungendosi saldamente ai loro colli.
«Oh, no» mormora Dark, un’espressione funerea sul volto «questa proprio non ci voleva».
Come a voler confermare le sue parole, proprio in quel momento il gigante sul quale l’uomo stava cercando di arrampicarsi colpisce con decisione il marciapiede accanto a sé con la mazza in suo possesso, sollevando una grossa nuvola di polvere e schegge di cemento armato che volano da una parte all’altra della scena.
«Ray!» grida Jude, il cuore in gola, una mano a coprirgli le labbra e la disperazione dipinta negli occhi, alcune lacrime che già fanno capolino. Lo sapeva, lanciarsi in una pazzia troppo grande, un rischio che – ora come ora – non potevano permettersi di correre, tuttavia lui si era lasciato convincere ed era stato addirittura il primo a gettarsi a capofitto in una prova del genere, mettendo a repentaglio anche la vita del suo compagno. Oh, Dio...
Lentamente la polvere inizia a diradarsi, liberando il campo visivo e grazie al cielo Jude può tirare un enorme sospiro di sollievo: Ray è ancora lì, appollaiato sulle spalle del gigante, tutto accoccolato per potersi proteggere da schegge e polveri varie. Emette un profondo colpo di tosse, con ogni probabilità deve aver respirato dell’aria insalubre e carica di terra, per il resto però non sembra aver riportato nessuna conseguenza fisica.
«Sto bene» si affretta a comunicare, rincuorando infinitamente il ragazzo «tuttavia non potremmo mai batterci alla pari contro questi esseri. Anzitutto siamo in evidente svantaggio numerico – saremo due contro duecento – inoltre hanno anche uno sproposito di forza fisica: potremmo continuare a lottare con questi cosi per quanto ci pare, però se loro continuano a ricomporsi ogni volta che li colpiamo, allora le nostre chance di vittoria sono sotto lo zero».
Il quadro descritto da Ray è a dir poco desolante, tant’è che Jude pesta per qualche secondo i piedi nervosamente sulle spalle del suo combattente, cercando di ragionare. Adesso gli farebbe tanto comodo una delle sue solite idee geniali, peccato che ora come ora  la sua mente sia un vero e proprio vuoto cosmico.
«E allora» riprende, turbato «come possiamo superare un dispendio di forze del genere?»
«Beh, non è poi così difficile» spiega Dark, cercando di risultare pragmatico e preciso come al solito «di affrontarli frontalmente non se ne parla, perciò ci toccherà ricorrere alla nostra arma migliore: l’astuzia»
«E cioè?» lo incalza Jude, visibilmente impaziente.
«E cioè» conclude Ray «non ci resta che allontanarli».

♟» Londra, Regno Unito, 2059

Quando Amos riesce finalmente a raggiungere Tower Bridge ha il fiato corto e il volto arrossato dallo sforzo fisico. Deve poggiare le mani sulle ginocchia e prendere delle profonde boccate d’aria per tornare a respirare più o meno regolarmente – e nonostante ciò non gli sembra ancora abbastanza.
Poco dopo vede arrivare degli sconsolati e affaticati Thiago, Amelia e Andrea, che purtroppo si presentano tristemente a mani vuote, la mestizia e l’afflizione ben dipinte sui loro volti.
«Non ditemi» inizia Amos, il fiato ancora altalenante «che abbiamo fatto… tutta questa strada… inutilmente».
«Beh, inutilmente non direi proprio» replica Andrea in tono piatto, mentre si sistema gli occhiali «considerando che quei documenti erano per noi della massima importanza».
«Ma…?» fa pressione su di loro Julie.
«Non siamo riusciti a recuperarli» annuncia Thiago, seccamente.
In quel momento, un crollo generale sembra imperversare tra i crononauti. Amos si lascia sfuggire un mugolio di disperazione, tornando a valutare che quello debba trattarsi di un ennesimo colpo di coda della sua perenne sfortuna, mentre Claudine si affloscia letteralmente al suolo, esausta. Atemu se ne rimane in disparte, deluso da quel risultato; quanto a Julie, si limita a posare una mano sulla spalla della connazionale, nel tentativo di rassicurarla.
«Non fatevene un cruccio» cerca di rincuorarli la Dupont, un sorriso solare nonostante i capelli color cioccolato siano in parte sfuggiti alla sua elegante acconciatura, incollandosi alla fronte imperlata di sudore per via della fatica «tutti noi abbiamo dato il nostro meglio, dopotutto».
Margarita muove passi lievi intorno all’atipico gruppetto, osservando il paesaggio circostante. Sembra essere la meno affaticata, il respiro perfettamente regolare e il volto ancora cereo – con ogni probabilità, dev’essere abituata a grandi sforzi fisici, considerando che appartiene alla vita di strada e si mantiene con furti neanche troppo saltuari: bisogna saper correre via in fretta, dopo aver commesso un reato, pur di non farsi beccare dalla polizia.
La giovane lituana osserva attentamente il paesaggio che la circonda: dopo che la nave ha attraversato il Tower Bridge, il ponte è stato tirato di nuovo giù, così che il traffico delle auto potesse tornare regolare. Il cielo sopra Londra è grigio e tetro, alcuni cumuli di nubi che svolazzano qua e là e una sottile nebbiolina che persiste nell’aleggiare soavemente, anche se solo nelle zone limitrofe al Tamigi. Un lungo viale alberato costeggia le rive del fiume, mentre passanti di ogni genere scivolano lungo i lisci marciapiedi della metropoli: ci sono uomini e donne di ogni età che praticano jogging, dai giovani ventenni ai quarantenni con il callo per la forma fisica, chi più affaticato e chi meno, quasi tutti con tute in materiale sintetico un po’ troppo leggere per la stagione e un paio di auricolari, musica rock a tutto volume che infonde loro energia per l’attività sportiva; poi annovera nel suo conteggio uomini d’affari, manager in carriera che camminano con passo spedito, le giacche grigie infeltrite che arrivano loro fino ai piedi mentre non riescono a staccare nemmeno per un momento il cellulare di ultima generazione dall’orecchio perché no, il prezzo di mercato è ancora troppo alto, va ribassato; infine turisti e abitanti della città, facilmente distinguibili tra loro visto che i primi si guardano intorno con aria frastornata e stupefatta, scattando foto a questo e quello – finendo per immortalare anche scorci senza monumenti o comunque punti d’interesse – con le loro reflex super costose, gli altri cercano di farsi spazio tra tutta quella calca, imprecando tra i denti mentre cercano di non arrivare in ritardo anche al prossimo appuntamento di lavoro.
Oh, Margarita ama così tanto analizzare quelle persone, immaginare quale storia possano avere, resterebbe lì per delle ore intere a ideare le sue supposizioni…
Amelia tuttavia richiama d’improvviso l’attenzione dello scapestrato gruppetto, tenendo un braccio alzato per catturare anche lo sguardo di tutti i ragazzi.
«Torniamo alla bottega» annuncia, la voce decisamente scoraggiata «abbiamo ancora il foglio su cui stavamo lavorando… speriamo che possa bastarci».

~~

Sulla via del ritorno, Amelia rimane in fondo al gruppo, gli occhi bassi sull’asfalto umido che percorre e la testa piena di mille pensieri. Si sente terribilmente in colpa per essersi lasciata sfuggire quel ladruncolo, inoltre potrebbe aver sottratto loro delle informazioni importanti sugli Orologi… e tutto perché lei non è riuscita ad acciuffarlo.
Chissà cosa avrebbe pensato sua madre, se sarebbe stata fiera di lei… ne dubitava. Anche se adesso Elizabeth Greene non c’era più, continuava a darle dispiaceri – Amelia sperava vivamente che non si stesse ribellando nella tomba. Era sempre stata quel genere di “figlia modello” che tutti i genitori desidererebbero: studiosa, disciplinata, impegnata in mille attività, scolastiche e non. Aiuto bibliotecaria alla London Library, iscritta al club di atletica e a quello di dizione, spesso in prima linea in alcune manifestazioni pubbliche… insomma, una ragazza perfetta. Beh, almeno all’apparenza.
Amelia infatti aveva imparato in fretta che il peso delle proprie responsabilità finiva sempre per schiacciarti, se non riuscivi a star dietro a queste ultimi. E la giovane, in effetti, arrivata ad un certo punto della sua vita, non era riuscita più a seguire ogni cosa come un tempo. Si era sentita schiacciare dal peso opprimente di tutte quelle incombenze, un macigno pesantissimo sul cuore che le impediva di respirare. Era stato proprio per questo motivo se, di colpo, aveva iniziato a saltare sempre più lezioni o ad abbandonare buona parte delle sue attività pomeridiane. Si era richiusa sempre di più in se stessa, passando interi pomeriggi rinchiusa in camera sua e uscendo agli orari più improbabili della sera, smettendo di frequentare i suoi vecchi amici e trovandosene di nuovi, che la trascinavano nei vicoli più oscuri di Londra, introducendola in una spirale viziosa di alcool e fumo dal quale era impossibile sottrarsi. Se non ti omologavi alla massa, non eri degna di entrare a far parte del gruppo. Era diventata sempre più schiva e aggressiva, rispondeva spesso male anche ai suoi genitori e sgattaiolava fuori casa agli orari più improbabili della notte, tornando solo alle prime luci dell’alba, nonostante suo padre e sua madre gliel’avessero vietato – era diventata molto brava a scivolare di sottecchi su e giù dalla scala antincendio fuori dalla finestra della sua stanza.
Con la morte della madre, tuttavia, qualcosa in lei era cambiato, come se una parte della sua anima si fosse spezzata definitivamente. Aveva abbandonato le sue cattive frequentazioni ed era tornata a stare vicina al padre, cercando di consolarlo – riteneva infatti che portare un peso del genere in due fosse più facile che da soli. Era tornata a scuola, finendo l’ultimo anno di liceo e iscrivendosi all’università presso la facoltà di giornalismo, il lavoro che aveva sempre sognato di fare – e che un tempo era stato anche quello di sua madre – conseguendo per altro degli ottimi risultati. Oltre a gettarsi a capofitto nello studio, aveva anche cercato un lavoretto, così da sostentare sia se stessa che suo padre, raggiungendo una certa indipendenza economica: era stata commessa presso un negozio di abbigliamento, barista, per un periodo aveva perfino consegnato i quotidiani a domicilio e ricevendo uno stipendio miserrimo. Aveva conosciuto – soprattutto all’università – nuovi amici, persone dagli animi splendidi, sempre così solari, gentili e disponibili, che con la loro sensibilità e comprensione l’avevano accettata e aiutata a riprendersi dopo quel brutto periodo.
Suo padre era partito, trasferendosi in un’altra città – Atlanta, in Georgia, uno stato americano – per praticare ancora la sua professione di medico. Aveva detto ad Amelia che restare ancora a Londra era diventato per lui impossibile, vivere in quella casa una tortura che ogni giorno gli riportava crudelmente alla mente i ricordi della moglie che aveva tanto amato e che adesso invece aveva perso per sempre. Amelia aveva trovato la scelta di suo padre estremamente ipocrita e non gliel’aveva mai perdonata, sebbene da una parte riuscisse anche a capirlo. Anche per lei era dura continuare a vivere lì, resistere ogni giorno all’impulso di correre in camera sua e aprire l’armadio, infilare il naso tra i vestiti della donna e cercare, ancora una volta, perfino la più minima traccia di quel profumo inconfondibile di acqua alle rose, che aveva sempre associato a sua madre fin da quand’era una bambina, illudendosi che lei fosse ancora lì. L’aveva fatto spessissimo, i primi mesi dopo la sua scomparsa… ora invece cercava di evitarlo, perché sapeva che se fosse tornata lì probabilmente non sarebbe più riuscita ad uscirne.
Per lunghi mesi aveva temuto di essere lei la causa del suicidio di sua madre: le aveva dato troppi dispiaceri, fino a che la donna era giunta al punto in cui sopportare ancora fosse impossibile e per questo si era tolta la vita. Quel rimorso le aveva roso lo stomaco per giorni e tolto il sonno notti intere, perlomeno fino all’apertura del testamento. Amelia era rimasta sorpresa di quella convocazione, non pensava che sua madre avesse lasciato qualcosa in eredità – o perlomeno, non si aspettava di essere lei una degli eredi. Dopo tutti i “ti odio” che le aveva urlato in faccia negli ultimi mesi – sebbene non ci credesse davvero in quelle parole, certo, peccato che se ne fosse resa conto solo quando lei ormai non c’era più – non credeva che sua madre tenesse ancora a lei. In fondo l’avrebbe capita, se avesse preferito estrometterla dal testamento, sarebbe stata una scelta ben più sensata, tant’è che nemmeno Amelia stessa sapeva che il suo nome fosse scritto lì… l’unico altro erede era suo padre, l’uomo che era stato accanto ad Elizabeth Greene fino all’ultimo dei suoi giorni e questa era una decisione che Amelia comprendeva già molto di più. Ma lei…?
All’apertura del testamento, suo padre non si era presentato, dichiarandosi troppo impegnato con il suo nuovo lavoro ad Atlanta. Ennesimo punto a suo sfavore, perlomeno a dire di Amelia. All’uomo era toccata la maggior parte dei beni di sua madre, comprensivi di gioielli, utilitaria e la vecchia villa di famiglia al mare. Era passato per la riscossione qualche mese prima, senza nemmeno avvisarla del fatto che fosse in città. Con ogni probabilità anche lui riteneva Amelia responsabile della morte della donna, pertanto se poteva evitare di vedere quella figlia che tanto a lungo si era sottratta al suo controllo di genitore, lo faceva ben più che volentieri. Quanto ad Amelia, invece, era toccato proprio l’Orologio.
All’inizio aveva pensato che si trattasse di un cimelio da niente, il genere di rivincita personale che i genitori si prendono dopo che i figli si sono comportati così tanto a lungo scorrettamente nei loro confronti. Quando invece aveva scoperto che l’Orologio era in grado di viaggiare nello spazio e nel tempo e che sua madre era morta per difendere quell’oggetto, aveva pensato che si trattasse di una punizione, che la incatenava crudelmente a patire lo stesso destino della donna. Infine, nel momento in cui aveva conosciuto Darren proprio viaggiando con quell’Orologio, le era balenato in mente il sospetto che quello fosse l’ultimo regalo che Elizabeth Greene aveva deciso di lasciarle. Già, ma perché?
Quando aveva ritrovato la lettera in cui le scriveva che era stato per via dell’Orologio che era morta, uccisa da qualcuno che voleva quell’oggetto e non suicidandosi, si era sentita immensamente sollevata – allora sua madre non si era tolta la vita a causa sua! Forse non ce l’aveva poi così tanto con lei! – ma al tempo stesso incredibilmente terrorizzata: se qualcuno era arrivato ad uccidere sua madre pur di impossessarsi di quell’artefatto, evidentemente senza riuscirci, allora forse sarebbe potuto arrivare a cercare di far fuori anche lei.
Di una cosa Amelia era assolutamente certa: se mai avesse incontrato l’assassino di sua madre, gliel’avrebbe fatta pagare, a qualsiasi costo.
«Amelia?» di colpo la ragazza si sente ridestare dai suoi impenetrabili pensieri, tratta via da quella matassa intricata da due braccia forti. La giovane scuote lievemente il capo, cercando di risvegliarsi da quella sorta di trance: si guarda a destra e a sinistra, nel tentativo di individuare la fonte di quel richiamo.
Si sorprende non poco quando si rende conto che la voce proveniva da Thiago, che ora  cammina al suo fianco. Il ragazzo le sorride dolcemente, dimostrandole un briciolo di comprensione.
«Tutto bene?» riprende, una nota interrogativa nella voce e nello sguardo «Saranno tre o quattro volte che ti chiamo.»
«Cielo, perdonami» mormora Amelia, passandosi con imbarazzo una mano tra i capelli «ho la testa piena di pensieri…»
«A tal proposito» Thiago la anticipa, cogliendola in contropiede «mi dispiace se non siamo riusciti a fermare quel ladro, prima. So che per te questa questione è molto importante, magari quel che ha rubato poteva esserci utile. Se solo fossi riuscito a correre più in fretta…»
«No, ha ragione Julie» Amelia sospira, scuotendo appena la testa «è inutile adesso stare qui a parlare con i se e con i ma, Thiago. Abbiamo fatto tutto quel che potevamo e non è bastato, semplicemente. Per fortuna, abbiamo ancora il foglio con le rappresentazioni di tutti gli Orologi. Non dobbiamo far altro che tornare alla bottega e rimetterci a lavoro su quello; e poi non credo che non ci siano altri documenti sugli Orologi, sparsi in giro per il laboratorio…»
Thiago sorride di compiacimento, incrociando con nonchalance le braccia dietro alla schiena.
«Sei una che non si da mai per vinta, eh?» commenta, lo sguardo intenso e magnetico posato sull’esile figura di Amelia.
«Diciamo che ho imparato a rinascere dalle mie ceneri, un po’ come una fenice» replica lei, con fare pragmatico e allo stesso tempo enigmatico, le guance lievemente arrossate per la sensazione di soggezione che prova ogni volta che il ragazzo la osserva. Non è fastidio, affatto… forse il punto è che non riesce proprio a capire quale emozione provi, ogni volta che la guarda.
«Già, in merito a questo» riprende lui, distogliendo lo sguardo dalla ragazza e puntandolo nuovamente sulla strada davanti a sé «mi dispiace davvero. Per tua madre, intendo.»
Nel sentire quella frase, Amelia si sente come trafitta da una pugnalata in pieno petto, sebbene cerchi di non darlo a vedere. Tiene la testa e lo sguardo basso, puntati sulla strada che percorre – sono finalmente tornati nel vialetto pieno di ciottoli dove si trova la bottega. In un certo senso, se l’è cercata, dopotutto era stata proprio lei a raccontare agli altri di sua madre.
Odiava la compassione che trovava negli occhi e nella voce delle altre persone, quando rivelava loro la verità sulla donna: i loro “mi dispiace” suonavano incredibilmente falsi, alle orecchie della giovane, mentre quegli sguardi si riempivano di una comprensione così mendace. Cosa volevano comprendere, dopotutto? Erano stati forse uccisi anche i loro genitori, a causa di quell’assurda guerra magica?
Con Thiago invece è diverso: lui almeno ha già in comune con lei qualcosa, quel peso incredibilmente gravoso che entrambi sono costretti a portare che altro non sono se non le responsabilità che derivano dal possesso di un Orologio.
È bello sapere che, almeno qualcuno sulla faccia della Terra, non la giudicasse.
«Grazie» mormora Amelia, riconoscente.
In quel momento, i ragazzi in cima al gruppo rifluiscono nuovamente nel negozio, scendendo lentamente lungo i gradini di legno, come se stessero varcando la soglia di un luogo sacro e arcano – in effetti, in parte è proprio così.
Gli ultimi ad entrare sono proprio Thiago e Amelia, un tantino più trafelati del dovuto. La ragazza si ferma sul primo gradino d’ingresso, osservando attentamente gli altri ragazzi che si dispongono all’interno. Sembra che stiano aspettando un ordine dalla ragazza, che tuttavia esita. Quando ancora si trovavano nei pressi del Tamigi ha dato prova di essere decisa e dal polso fermo, indirizzando tutti di nuovo verso la bottega; ora che sono di nuovo qui, tuttavia, non sa bene cosa fare: dove potrebbero cercare? C’è una soluzione giusta o una sbagliata?
«Dunque» esordisce, torturandosi le mani dietro lo schiena «dobbiamo guardare ovunque, a costo di mettere ancor più a soqquadro questo posto. Deve esserci qualcosa che possa farci capire quale strada prendere…»
Atemu, Amos, Andrea, Claudine, Margarita e Julie annuiscono, per poi cominciare a rovistare un po’ ovunque, dividendosi in coppie o piccoli gruppetti. Thiago scende invece un paio di gradini, portandosi di fronte ad Amelia.
«Che ne dici se io e te diamo un’occhiata insieme?» le propone, allungando una mano nella sua direzione.
La giovane acconsente, ponendo il proprio palmo pallido e minuto in quello forte e abbronzato del ragazzo. A quel punto Thiago la conduce gentilmente giù lungo le scale, ad ogni suo passo ne corrisponde uno di Amelia.
I due tornano al tavolo da lavoro su cui, poco prima, avevano lasciato il foglio che stavano analizzando insieme agli altri crononauti, troppo presi dall’inseguimento del ladro per potersene occupare ancora.
Adesso che si trovano di nuovo lì, tutti quei disegni e lettere arzigogolate sembrano incredibilmente senza significato per Amelia, tanto che la ragazza li vede vorticare in maniera confusa davanti ai suoi occhi e nella sua mente, gettandola in una terribile caos. Si porta una mano alla testa, d’improvviso le sembra di avvertire una forte emicrania e per un momento i sensi le vengono meno, tanto che rischia di cadere al suolo svenuta.
Fortunatamente, Thiago riesce ad afferrarla proprio all’ultimo secondo, un istante prima che le ginocchia della giovane impattino dolorosamente al suolo.
«Ehi» la richiama il ragazzo, tenendola sollevata con le mani poste sotto le sue ascelle «a quanto pare la corsa ti ha stancata più del dovuto.»
«Già» ammette Amelia, sebbene non sia totalmente d’accordo con lui. Si rimette faticosamente in piedi, reggendosi al bancone con i palmi delle mani ben piantati su di esso.
La verità è che è tutta quell’intera giornata ad essere stancante, solo che Amelia si rifiuta di ammetterlo a se stessa e agli altri, per paura che poi qualcuno possa costringerla ad andare a casa a riposarsi. E lei non ha alcuna intenzione di tornarsene a casa sua, assolutamente, almeno finché non avranno risolto quella storia.
«Aspetta» mormora Thiago, allontanandosi dalla ragazza solo quando è certo che riuscirà a reggersi in piedi da sola, perlomeno per qualche altro secondo. Poco dopo, infatti, se ne ritorna con uno sgabello – lo stesso che Amos aveva fatto cadere a terra, quando si erano resi conto della presenza del ladro nella bottega. Amelia, seppur riluttante, si accomoda su di esso.
«Allora» riprende il ragazzo, una volta tornato nuovamente al suo fianco «io direi di ripartire da qui. Dopotutto, prima dell’incursione del ladro, stavamo ispezionando questo foglio.»
Amelia annuisce, concorde, così Thiago prosegue:«Bene. Allora, qui sono rappresentati sedici Orologi, tra cui gli otto in nostro possesso – rispettivamente quelli con i simboli di corvo, ragno, libellula, pavone, maschere, mondo, scheggia di vetro e ingranaggi. Poi ce ne sono altri otto e il problema è qui: io ero a conoscenza del fatto che esistessero dodici Orologi, non sedici. Come sai ho studiato a lungo ogni cosa in merito a questo argomento e, se non mi ricordo male, mi pare che una volta su un antico manoscritto avessi letto che tra i dodici Orologi originariamente costruiti da Joshua ci fossero – oltre ai nostri otto – anche altri quattro che riportavano rispettivamente le effigi del Sole, della Luna, di una freccia e infine una clessidra. L’Orologio con quest’ultima immagine sarebbe, a quanto pare, il più potente, una sorta di tramite tra tutti gli altri. Il problema è che non ho la più pallida idea di cosa diavolo siano questi quattro nuovi Ori…»
Con ciò, Thiago indica ad Amelia gli Orologi in questione sul progetto: sono diversi da tutti gli altri, poiché i dorsi di questi ultimi o sono più decorati o non lo sono affatto.
«C’è scritto qualcosa accanto?» domanda Amelia, dubbiosa.
Thiago si piega in avanti, osservando attentamente la vecchia scrittura raffinata e piena di ghirigori. Ma che lingua è, cirillico?
«Oro del Bene, Oro del Male, Oro della Luce, Oro delle Tenebre. La cosa non mi piace, sembra molto in stile fantasy medievale o qualcosa del genere» annuncia Thiago, storcendo un po’ il naso.
«Non posso darti torto» si associa la ragazza, che spia il documento affacciandosi oltre le spalle del giovane.
Di colpo un rumore improvviso raggiunge le orecchie dei due ragazzi, che subito si voltano verso la fonte di quel trambusto. Amelia non si stupisce troppo quando vede Julie lanciare un gridolino piuttosto acuto, gettando in preda al panico le braccia attorno al collo di una Claudine dall’aria alquanta apatica, come se non fosse affatto turbata da un gesto del genere. In un primo momento la giovane dai corti capelli corvini crede che si tratti di un inconveniente come quello di prima – un altro ratto, oppure un ragno tutto intento a correre lungo le travi di legno incassate nel soffitto del negozio – quando tuttavia poco dopo si rende conto che non è di questo che si tratta, subito si mette sull’attenti.
Per un lungo, terribile istante crede perfino che possa trattarsi nuovamente di quel ladruncolo da strapazzo, eppure non è nemmeno di questo che si tratta, così, una volta fatto il giro intorno al ligneo tavolo da lavoro, affianca Claudine e Julie, seguita a ruota da tutti gli altri crononauti.
Una volta lì, la questione le è ancora meno chiara di prima.
A terra, infatti, si trova una strano macchinario – piuttosto moderno, soprattutto se si considera che quella bottega dovrebbe essere ferma agli anni di fine ‘700 – che vibra rumorosamente e brilla di una luce chiara e intensa.
Come diavolo è possibile che un marchingegno del genere sia arrivato in quel locale, rimasto chiuso per molti anni e inaccessibile a chiunque? Lo ha forse portato il tipo di poco prima? No, impossibile. Eppure Amelia è abbastanza certa di non averlo visto, al suo ingresso lì.
Una cosa del genere non dovrebbe passare inosservata, no?
Tutti i crononauti sembrano essersi immobilizzati sul posto, troppo spaventati al pensiero di dover prendere quel coso in mano. E se dovesse esplodere di colpo?
«È c-caduto all’improvviso da là sopra» spiega finalmente Julie, dopo diversi minuti in cui il silenzio più assoluto aveva regnato sul locale «io e Claudine stavamo dando un’occhiata qua in giro e lui bum!, è piombato giù dall’armadio.»
Mentre Julie non sembra ancora essersi ripresa del tutto dallo spavento, Amelia invece non riesce a staccare lo sguardo da quell’oggetto misterioso.
«Forse non dovremmo toccarlo. Potrebbe essere pericoloso…» la mette in guardia Atemu, le braccia conserte strette al petto e un’espressione dura a solcargli il volto.
Amelia non sembra nemmeno sentire le parole del ragazzo, tant’è che poco dopo si china in avanti e afferra l’attrezzo non identificato tra le mani, tenendolo ben stretto tra le mani.
Quando la giovane drizza nuovamente la schiena, tutti i crononauti – tranne Andrea e Thiago – fanno un balzo all’indietro, impauriti. Amos, piuttosto terrorizzato, si aggrappa alla camicia di Atemu, che viene allontanato a sua volta, sebbene apparentemente contro la propria volontà – probabile che Amos tema l’incombere dell’ennesimo colpo di sfortuna e tenti di proteggersi come meglio può – mentre Julie e Claudine sono ancora strette l’una all’altra e procedono insieme verso l’interno del negozio.
«A me questa faccenda sembra proprio bruttabruttabrutta--» commenta timoroso Amos, facendo capolino da dietro la spalla di Atemu, gli occhi inquieti che saettano da una parte all’altra, mentre sembra incapace di smettere di tremare.
«Riesci a non tremare? Non credevo che fossi un idromassaggio» replica Atemu, inarcando un sopracciglio folto e scuro mentre fulmina con lo sguardo il ragazzo ucraino.
Amelia si volta di scatto e quasi tutti gli altri ragazzi sobbalzano, chi per la sorpresa e chi per la paura. La giovane prosegue dritta davanti a sé, dirigendosi verso i tavoli da lavoro e al suo passaggio i compagni crononauti le fanno ala, terrorizzati dal macchinario sconosciuto che tiene tra le mani. Gli unici che la seguono senza esitazioni, come al solito, sono Andrea e Thiago, imperturbabili.
La ragazza poggia quell’affare sul tavolo e subito tutti gli altri le si affollano attorno, alcuni stavolta però si tengono un po’ più a distanza di sicurezza, spaventati da ciò che quell’attrezzo misterioso potrebbe provocare.
«Potrebbe essere pericoloso, è vero» replica Amelia, decidendosi finalmente a rispondere alle parole di Atemu di poco prima «però non possiamo saperlo. Potrebbe anche aiutarci a scoprire qualcosa in più su tutta questa storia, forse, solo che non possiamo andare avanti con tutti questi mille dubbi. Se non ci proviamo, non sapremo mai quale sia la verità.»
Thiago, Margarita, Julie, Claudine e Andrea annuiscono, convinti. Gli unici a risultare un po’ più restii o dubbiosi sembrano essere Amos e Atemu; il giovane dalla pelle color caffellatte si volta in direzione del ragazzo dall’incarnato perlaceo, ancora ancorato alle sue spalle. Pare piuttosto spaventato, tuttavia non rivolge né parole né gesti o tantomeno cenni – del capo così come di qualsiasi altra parte del corpo – all’altro. Si limitano a guardarsi a lungo negli occhi, per degli attimi travestiti da ore.
Quando Atemu si decide finalmente a voltarsi di nuovo verso Amelia, le lascia un unico cenno di assenso col capo, senza aggiungere altro. A quel punto la giovano torna a focalizzare tutta la sua attenzione sull’oggetto davanti a sé, analizzandolo attentamente.
Le fattezze sono piuttosto simili a quelle di un lettore cd – un pezzo d’antiquariato, ormai, nel 2059 – quindi basso, di base circolare e piatta, solo che un po’ più grande; la superficie è liscia e lucida, probabilmente di un materiale plastico o metallico. È in maggioranza di un colore argenteo, anche se alcune rifiniture possiedono invece delle sfumature bluastre. Infine, sul bordo che corre tutto intorno all’oggetto, sembrano esserci dei pezzi in rilievo… tasti, forse?
Amelia avvicina con timidezza e riverenza – oltre forse ad un pizzico di timore – la punta delle dita a quei pulsanti, facendo ben attenzione ad essere quanto più delicata possibile. Esercita una lieve pressione su quello centrale, fino a che un violento fascio di luce azzurrognola si dirada a partire dalla superficie di metallo di quello strano oggetto. Ma che diavolo…?
Al centro di quell’alone luminoso compare la riproduzione del mezzobusto di un uomo, probabilmente sulla sessantina. È piuttosto basso, i capelli che gli rimangono sono bianchi e radi, disposti ai lati della nuca come sparuti ciuffi d’erba in un prato inaridito, mentre al centro il cranio è rivestito solo da lembi di pelle chiara e lucidissima – una sorta di acconciatura monastica – in uno stato di calvizie ormai già palesemente avanzato. Ha occhi piccoli e scuri, sul naso pende un paio di occhiali dalle lenti tondeggianti e microscopiche. I suoi tratti sono gentili, tuttavia ogni cosa in lui ispira vecchiaia, compreso il suo abbigliamento, a cominciare dalla camicia bianca con le maniche arrotolate fino ad arrivare al vecchio camice da laboratorio, ormai logoro e consunto. Nonostante la statura ridotta, la sua è una figura magra, esile e minuta.
«Cosa…—» cerca di domandare Julie, prima che la voce di quell’ologramma interrompa le sue parole.
«Salve, forestieri» comincia, una certa nota concitata nella voce «se avete trovato questo messaggio, allora vuol dire che per me ormai non c’è più speranza. Il mio nome è Joshua Parrish e sono l’ideatore degli artefatti che pendono al vostro collo, gli Orologi.»
Nell’udire quella frase, tutti i crononauti sobbalzano, allibiti.
«Com’è possibile?» mormora Thiago, confuso.
«Ci sarebbero molte cose che vorrei spiegarvi, purtroppo tuttavia un terribile nemico è sulle mie tracce e devo sbrigarmi e fuggire via da qui il prima possibile, altrimenti per me sarà la fine. Per più di duecento anni sono riuscito a sostentarmi grazie alla magia degli Orologi, arrivando quasi fino ai giorni vostri: chiunque sia in possesso di tutte le copie presenti, infatti, potrà considerarsi il Signore del Tempo.
Credo che vi sarete accorti che, grazie ai vostri artefatti, non solo siete perfettamente in grado di viaggiare attraverso lo spazio-tempo a vostro piacimento, ma anche che, per tutto il tempo in cui continuerete a usufruire dei vostri Ori, vi sarà impossibile invecchiare. Tuttavia, ahimé, c’è anche qualcun altro che vorrebbe ottenere questo elisir di lunga vita, ossia colui che sta per uccidermi. Se costui dovesse riuscire ad impossessarsi di tutti gli Orologi presenti sulla Terra, per il mondo così come lo conoscete sarebbe la fine: non ci penserebbe due volte infatti a dare il via ad una serie infinita di carneficine ed altri abomini di questo genere.
Per scongiurare questo rischio, tuttavia, ho ideato il processo della diaspora degli Orologi: è una sorta di protocollo di emergenza, una misura di prevenzione che avevo apportato al momento della creazione dei vostri artefatti. In poche parole, alla mia morte ho fatto sì che tutti gli Orologi esistenti andassero dispersi nelle più disparate aree del mondo. Se siete qui, oggi, significa che voi fate parte dei fortunati che, fino a questo momento, sono riusciti a ritrovarne uno. Sono così certo e fiducioso del fatto che siate voi e non degli impostori o magari alcuni degli emissari del mio nemico, poiché questo marchingegno è incantato: l’ho reso visibile solo a quelli che considero i miei eredi legittimi, coloro che si sono guadagnati il proprio Oro per merito e necessità. Se non foste stati voi i veri destinatari di questo messaggio, l’ologramma non si sarebbe visualizzato affatto.
 Tornando a noi, ho una missione molto importante da affidarvi. So che non sono nessuno per chiedervi di affrontare qualcosa del genere, tuttavia non è per un mio eventuale tornaconto personale che vi chiedo di lanciarvi in un’impresa simile, quanto piuttosto per scongiurare la fine del mondo di cui vi ho parlato. Immagino che nessuno di noi trarrebbe beneficio da una situazione del genere, inoltre in caso di vittoria del nostro nemico comune, probabilmente sareste i primi che verrebbe a cercare, pur di togliervi personalmente dalla circolazione. Fate molta attenzione, è un uomo crudele e senza scrupoli.
Quanto alla missione, è presto detto: ci sono quattro Orologi, la cui posizione è ignota per l’aspirante Signore del tempo. Sono stati occultati in luoghi irreperibili e possono essere conquistati solo superando delle prove specifiche. Si trovano esattamente ai quattro angoli del globo e dopo questo messaggio vi lascerò le indicazioni sulle varie località. Non posso dirvi esattamente dove si trovano o che prove dovrete affrontare per ottenerli, ho paura che in questo momento ci possa essere qualcuno che mi stia ascoltando e non posso dare più informazioni del dovuto, sarebbe fin troppo rischioso per tutti noi, credetemi – le notizie che ho divulgato fino ad ora sono anche eccessive, infatti quando avrò finito il messaggio si distruggerà automaticamente, tramite una pioggia di inchiostro che comprometterà irrimediabilmente gli ingranaggi del riproduttore.
Sento che il Nemico sta per giungere; per me è ora di andare. Vi auguro buona fortuna, crononauti: il destino dell’umanità è in mano vostra.»
Ciò detto, l’immagine di Joshua scompare, lasciando il posto all’ologramma di un planisfero. Su di esso sono segnati quatto punti luminosi, che scintillano di una luce rossastra secondo un’intermittenza regolare. Mentre Amelia si avvicina per osservarli, Andrea ha già segnato tutto su un taccuino, con indiscutibile efficienza.
«Ecco qui» commenta, allungando il block notes in mezzo al tavolo, così che tutti possano vederlo «i punti segnati sono Roma, Città del Capo, Pechino e la montagna di Uluru, nell’outback australiano.»
Sguardi accigliati osservano la scrittura precisa e ordinata di Andrea, non tanto perché non riescano a leggerla – è talmente chiara che riuscirebbe a comprenderla anche un bambino di cinque anni – quanto piuttosto perché comprendono di trovarsi di fronte ad un bivio: dovrebbero gettarsi a capofitto in quell’impresa senza certezze? Oppure farebbero meglio a temporeggiare, cercare di capire se si trovino davanti ad un grande bluff?
«Dobbiamo partire» sentenzia Amelia, in tono impetuoso. È vero, anche se non si direbbe lei è una persona molto impulsiva, si lancerebbe senza indugi anche nella più sciocca delle abitudini. Eppure stavolta c’è in gioco qualcosa di diverso, se non accettassero la missione affidata loro da Joshua rischierebbero di andare incontro ad una fine orrenda, tutti, nessuno escluso.
Lo scotto da pagare sarebbe troppo alto, insomma.
Julie inarca le sopracciglia, dubbiosa.
«Ma… possiamo davvero fidarci di un messaggio del genere?» domanda infatti, l’incertezza ben percepibile nella voce.
«Potrebbe essere un falso» fa notare loro Atemu, in tono pragmatico «dopotutto, non mi risulta che esistessero riproduttori di ologrammi, sul finire del 1700.»
«Ma ha detto che, grazie al potere degli Orologi, è riuscito ad arrivare quasi fino ai giorni nostri, ecco dove si è procurato un oggetto del genere» obietta Claudine, con un certo senso di fierezza per essere giunta ad una conclusione del genere?
«Già, ma ripeto: come fai a sapere che non fosse un falso? Della serie: non abbiamo prove certe che quello dell’ologramma fosse il vero Joshua Parrish. Magari era solo un buontempone che voleva tirarci uno scherzo di pessimo gusto. In fondo, insomma, non abbiamo mai visto il vero volto di quest’uomo, non sappiamo come sia fatto in realtà.»
Quello sollevato da Atemu è un dubbio lecito: dopotutto, come potrebbero scongiurare una simile evenienza.
«Io lo so» li informa Thiago, il petto che si gonfia di soddisfazione per quella consapevolezza.
«Ah, sì? E come fai ad esserne così certo?» s’informa Margarita, i gomiti puntellati sul tavolaccio di legno e il mento premuto sulle mani.
«Beh, facile» Thiago scrolla le spalle, con nonchalance «perché nel video ha detto una cosa che solo il vero Joshua Parrish poteva conoscere.»
«La diaspora degli Orologi» esclama Amelia, la prima ad arrivarci «nessuno a parte lui era a conoscenza del meccanismo di difesa ideato per mettere in salvo gli Ori!»
«Esatto~» conviene Thiago, ammiccando lievemente in direzione di Amelia, soddisfatto che qualcun altro oltre lui sia arrivato alla sua stessa conclusione senza bisogno di doverglielo spiegare.
Gli sguardi degli altri sei crononauti si puntano all’istante su Amelia e Thiago, che sembrano essersi resi conto solo in quel momento di quanto siano eccessivamente vicini.
«Dobbiamo partire» ribadisce Amelia, lo sguardo fermo e adesso ancor più deciso.
«Okay, potreste anche aver ragione» s’intromette Andrea, rimasta imparziale fino a quel momento «però adesso cosa avreste intenzione di fare?»
«Niente di più semplice» risponde Amelia, balzando in piedi e mettendosi a camminare – ha troppa adrenalina in circolo, impossibile pensare che possa stare ferma – lungo la bottega «ci sono quattro destinazioni segnate su quella mappa, no? Bene, noi siamo otto: non dovremo far altro che dividerci in quattro coppie diverse e recarci nelle località indicate.»
«E in base a quale criterio dovremmo dividerci?» azzarda Claudine, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Beh» s’intromette Thiago, con fare quasi involontario «Andrea, tu hai detto di essere di origini italiane, giusto? Una delle destinazioni è proprio in Italia, potresti andarci tu.»
La ragazza sembra sorpresa, tant’è che alza di colpo la testa dal suo amato e inseparabile tablet, sul quale stava già digitando comandi ad una velocità insostenibile.
«Uhm? Oh, beh, non è così male come idea» ammette, piegando appena la testa di lato.
«Potrei venire io con te» si offre Claudine, alzando una mano con entusiasmo «amo l’Italia, inoltre ci sono anche stata un paio di volte. Sempre che per te vada bene, certo…»
«È indifferente» replica Andrea, con una rapida scrollata di spalle.
«Bene, e la prima coppia è sistemata» commenta Thiago, soddisfatto «poi, vediamo: c’è la Cina…»
«Oh, io ho dei contatti in Cina!» trilla Julie, gli occhi che d’improvviso le si illuminano di gioia.
«Ottimo» riprende il portoghese, sorridendo appagato «con te potrebbe andare—»
«Vado io!» si offre Margarita, raggiante «potrebbe essere un’esperienza estremamente… interessante~»
«E siamo a metà del lavoro» annuncia ancora il portoghese, il sorriso sul suo volto che va via via sempre più allargandosi «a questo punto mancano solo le ultime due destinazioni: Africa ed Oceania…»
«Se proprio dobbiamo ricorrere a questa follia di piano, allora io opto per l’Africa» sentenzia Atemu, lo sguardo duro come la pietra «almeno, essendo le mie origini riconducibili a questo continente, spero di potermela cavare al meglio.»
«Penso che andrò con lui» comunica Amos, mentre continua a torturarsi nervosamente le mani in grembo «rispetto all’Australia, è un viaggio decisamente molto più breve. Se posso evitarmi una fatica del genere, lo faccio ben più che volentieri.»
«Perfetto» conclude Thiago, tirando le fila del discorso «in questo modo a me e ad Amelia rimane l’Oceania. Siamo fortunati, mi è capitato di recarmi lì una volta, in passato, durante uno dei miei tanti viaggi. Direi che tutte le coppie sono ufficialmente formate.»
«Bene» conviene Amelia, annuendo con vigore «adesso non ci rimane altro da fare che partire…»
«Ma… siamo sicuri che questa sia la scelta giusta? Insomma, a me sembra tutto così affrettato…» obietta Amos, ancora una volta timoroso.
«Sentite» Amelia sospira pesantemente, le sembra di essere invecchiata di colpo di almeno dieci anni «mia madre ha pagato con la vita il caro prezzo di dover difendere quest’Orologio. Se c’è qualcuno intenzionato a distruggere il nostro mondo e che potrebbe essere potenzialmente la stessa persona che l’ha uccisa, io non ho la benché minima intenzione di restarmene qui con le mani in mano mentre ogni mia certezza viene rasa al suolo. Lotterò con tutte le mie forze per far sì che mia madre sia fiera di me e se mai dovessi incontrare chi le ha fatto del male… beh, non vi assicuro di riuscire a trattenermi dal fargli molto ma molto male. Detto questo, per riuscire a renderle giustizia io ho bisogno della collaborazione di tutti voi, senza nessuna esclusione. Se ci arrendiamo a prescindere, non facendo neanche una prova, allora siamo già vinti in partenza.»
Segue un silenzio che pare essere eterno, durante il quale i vari crononauti si guardano tra loro, cercando di decidere quale sia la via più giusta da percorrere. Nei loro sguardi sono ben visibili i mille dubbi che li attanagliano in quel momento, ma anche consapevolezza del loro compito e desiderio di dimostrare le proprie capacità.
Alla fine di quel muto dialogo, tutti i ragazzi tornano a voltarsi verso Amelia ed è Andrea a comunicare la loro decisione.
«Siamo tutti d’accordo» annuncia, solenne «affronteremo questa missione.»
Amelia sorride, sollevata, mentre i tratti del suo volto si distendono, ora non più in tensione.
«Bene» comunica, con determinazione «tra i vari documenti sugli Orologi di Joshua ho letto anche che, quando due persone devono spostarsi nello stesso luogo, può bastare anche solo un Orologio: infatti, essendo la catena che li sostiene piuttosto lunga, se riescono ad infilarsela contemporaneamente due crononauti il viaggio si può compiere tranquillamente.»
Poco dopo, neanche si accorge di quando la catena sottile dell’Orologio di Thiago le avvolge il collo. Il ragazzo, essendo di diversi centimetri più alto di lei, ne approfitta per passarle una mano tra i capelli, in maniera bonaria. Quel gesto fa arrossire leggermente Amelia, che tuttavia cerca di nasconderlo, spostando lo sguardo da un’altra parte.
Anche gli altri si sono già approntati per il viaggio: Andrea ha legato a sé una Claudine piuttosto impegnata a sistemare le pieghe della sua gonna, Atemu ha condiviso di malavoglia la propria collana con Amos e Margarita ha incatenato se stessa a Julie.
«Tutti pronti?» domanda Thiago, in tono austere.
Le teste di altri sei viaggiatori annuiscono, in contemporanea. Per avere il consenso di Amelia, invece, gli basta guardarla negli occhi: il suo sguardo arde così tanto di determinazione che è praticamente impossibile aspettarsi da lei una risposta che non sia un “sì”.
«Molto bene» conclude il portoghese «ci rivediamo tra cinque giorni alle Azzorre. Fate in modo che, per allora, abbiate assolto tutti i vostri compiti.»
Dopodiché, la stanza viene avvolta da quattro fasci luminosi di colori differenti: blu, giallo, viola ed azzurro.
L’istante successivo, la bottega è tornata ad essere deserta.

♟» Roma, Italia, 2059

Quando il raggio traente si dirada e la luce azzurrognola comincia a dissiparsi – come nebbia alle prime luci dell’alba – Andrea si convince a riaprire gli occhi, certa che ormai l’emissione luminosa violenta sia pressoché scemata.
La prima cosa che riesce ad appurare, ancora un po’ frastornata, è che si trova in una grande piazza, a terra una distesa di sampietrini sembra essere estesa come un mare. Davanti a lei c’è un’enorme gradinata, che si innalza maestosa ed imponente apparentemente verso il cielo; a metà strada si biforca, due rampe semicircolari che procedono secondo direzioni differenti, per poi ricongiungersi sulla cima. In alto, ha il suo posto d’onore su una terrazza panoramica un maestoso obelisco, mentre in fondo alla scalinata fanno la loro comparsa alcune colonnine, sulla sommità delle quali vengono riprese delle forme sferiche.
«Piazza di Spagna» commenta Andrea, mormorando lievemente tra sé.
Generalmente quel luogo è uno dei fulcri del turismo della capitale d’Italia, tuttavia quel giorno sembra essere deserto in maniera desolante: di certo il clima non aiuta, visto che sono a metà dicembre e il cielo è terribilmente plumbeo, minacciando pioggia da un momento all’altro. Ci sono giusto un paio di turisti, tutti intenti ad osservare i sontuosi gradini, mentre la zona al momento sembra piuttosto un crocevia per uomini d’affari, che corrono da una parte all’altra della piazza, stringendosi i mongomeri pesanti al corpo e continuando a parlottare nervosamente al telefono – smartphone di ultima generazione – di questo o quell’altro argomento, in un italiano rapido e fluidissimo.
Andrea lancia un rapido sguardo al cielo, notando che alcune piccole e sottili gocce di pioggia hanno cominciato a cadere al suolo, cerchietti scuri sui sampietrini.
«Voglio un ombrello» sussurra qualcuno, al suo fianco.
Andrea si volta e sembra ricordarsi solo in quel momento sembra ricordarsi della presenza di Claudine.
«Andiamo, solo soltanto due gocce» ribatte Andrea, scuotendo lievemente la testa.
«Sì, ma potrebbero diventare ben più di due!» insiste Claudine, pestando i piedi per terra in maniera un po’ infantile.
Andrea alza gli occhi al cielo, sospirando lievemente. Ma chi gliel’ha fatto fare?
«Comunque» cerca di riprendere le fila del discorso la ragazza italiana «a quanto pare il viaggio in Oro condiviso di cui ha parlato Amelia ha funzionato: adesso siamo a Roma, dovremmo cominciare a cercare il posto in cui potrebbe essere l’Orologio. Magari un monumento famoso, come il Colosseo, oppure—»
«Oppure potremmo andare a fare shopping!» la interrompe la francese, tutta su di giri.
«Ma se siamo qui è perché dobbiamo trovare l’Orologio, no?» le rammenta Andrea, piuttosto scettica.
«Zut alors!1» sbotta Claudine, con una leggera punta di esasperazione «Thiago ha detto che abbiamo cinque giorni di tempo per trovare l’Orologio, no? Se per un pomeriggio non cominciamo subito a cercarlo non morirà certo nessuno.»
A quel punto Andrea apre la bocca per cercare di ribattere, tuttavia non fa in tempo a dire niente che Claudine ha già cominciato a trascinarla verso le centralissime vie dello shopping romane.
«Vedrai, ci sarà da divertirsi~» conclude la francesina, già eccitata al pensiero di immergersi in negozi pieni di abiti all’ultima moda e griffati, una boutique dietro l’altra, mentre la faccia di Andrea è quanto di più vicino si possa immaginare alla rappresentazione vivente della mestizia.
Sarà proprio un pomeriggio indimenticabile, sì.







1
“Sciocchezze!” in francese






* Angolo autrice *
{In time è ufficialmente la storia più lunga che abbia mai pubblicato su Efp, yay!}
Vi giuro che sono commossa. Sul serio, non immaginavo di riuscire a rispettare la tabella di marcia che mi ero prefissata, soprattutto visto che lo ammetto in questi trenta giorni ho bighellonato molto e scritto poco. Praticamente mi sono messa d’impegno per finire questo capitolo solo negli ultimi tre giorni ma oh!, alla fine chi se ne importa: quello che conta è riuscire a portare a casa il risultato, d’altronde, no? E beh, direi che anche questa volta ci siamo riusciti alla grande.
Sì, dico “siamo” e non “sono”, perché ormai ritengo che questa di In time sia diventata una grande famiglia, dove un po’ tutti cerchiamo di aiutarci come meglio possiamo: io scrivo e poi chi può mi commenta il nuovo capitolo direttamente qui in recensione, altrimenti bene o male le altre riesco a sentire per via messaggistica, sia su Efp che altrove. Insomma, ho capito che lamentarmi per il fatto che lo scorso capitolo sia stato recensito solamente da due persone sarebbe un po’ inutile, in fondo ho ricevuto più o meno – in un modo o nell’altro – i pareri di tutte voi in merito. Certo, sarei ancora più felice se riusciste a recensire tutti i capitoli, solo che mi rendo conto da sola di quanto sarebbe “gravoso”, tra scuola e tutti gli altri vari impegni della real life. E questo, fondamentalmente, è il motivo per cui ho deciso di non fare richiami o altro.
Comunque, se recensite vi voglio bene.
Volevo fare ancora tanti auguri a Bea, che ho sentito via MP. Lei è un po’ l’assente giustificata di questo periodo— no, non faccio preferenze e no, Ange, l’ho detto prima io che me la sarei portata all’altare, adesso tu non puoi rubarmi la sposa-- ma sappiate tuttavia che è l’unica a cui concedo (e per cause di forza maggiore) questo lusso, tutti gli altri sappiate che dovrete comunque farmi avere un qualche genere di vostre notizie, altrimenti sapete che fine fanno i vostri personaggi– quella di Ethan Bailey, LOL.  
Ah ehm, torniamo a noi. Adesso gli aggiornamenti dovrebbero essere sempre regolari (come avrete potuto ben notare e come mi avevo già accennato nelle note d’autrice dello scorso capitolo) una volta al mese, quindi sempre il 27. Ho notato che riesco (per ora) a mantenere costanti gli aggiornamenti se continuo con questo genere di “regolarità”, perciò per ora il metodo adottato dovrebbe essere questo. Siete felici? Io parecchio.
Allora, come vi avevo accennato i nostri crononauti hanno scoperto la loro missione e finalmente sono partiti alla volta delle quattro destinazioni che vi avevo accennato. Scopriamo qualche notizia in più sul passato di Amelia, anche se c’è ancora qualcosa di cui non vi ho parlato… e che scoprirete tra qualche capitolo~ quanto mi piace tenervi sulle spine, ahahahahah
Piccole info sul prossimo capitolo: i più rilevanti sviluppi di trama saranno quelli sulle prove per recuperare gli Orologi delle coppie Andrea/Claudine (di cui vi ho lasciato un assaggio alla fine di questo chap) e Atemu/Amos. Preparatevi ad ogni genere di colpo di scena, anche se con me ormai ci dovreste essere abituati.
Quanto alla ormai conclamata e confermata coppia Kageyama/Kidou (altresì nota come Kageki): eh, per le novità sulla loro vicenda vi toccherà aspettare fino a dicembre-gennaio e sappiate che saranno delle bombe! Della serie: possibile che non abbiate ancora capito chi sia il cattivo di questa storia? Beh, certo, se non avete letto quella trilogia…
Alcune rettifiche a livello di trama: Darren vive davvero nel 2012 (è un AU, ergo i personaggi di IE me li spalmo un po’ a mio piacimento attraverso tutti i vari secoli) e quindi Amelia ha paura di rivelargli la verità sul suo conto proprio perché è una crononauta, mentre la dolce Maricchan mi fa notare – riguardo alla sua Claudine – che, mentre nella lista dei pg ho segnato come simbolo del suo Oro una rondine, nel capitolo ho scritto che è una libellula. Comunque, il simbolo giusto è la libellula, giusto perché lo sappiate, eh.
Bene, dovrebbe essere tutto. Io vi lascio come al solito appuntamento al 27 novembre e mi auguro di potervi risentire presto. Sappiate che ho tutte le intenzioni di concludere questa storia: i capitoli totali dovrebbero essere circa sedici, di questo tuttavia non sono ancora sicura. Ho invece forti certezze su quello che voglio scrivere in ciascun capitolo: la trama c’è, ce l’ho ben chiara nella mia mente. Fidatevi, qualsiasi cosa cercherà di mettersi in mezzo tra me e la conclusione di questa fic, io lo supererò, perché so che accanto a me ho delle persone fantastiche che mi aiuteranno sempre, qualsiasi cosa accada. Per il resto se volete con chi può ci incontriamo domenica 30 ottobre al LCG, che ci siamo io e Maricchan che vi lanciamo i bacini e io devo commettere un omicidio ma shh, non ditelo in giro.

A presto (spero)

Aria


Next stop .:: Chapter eight —Supermassive black hole

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