Crimson Shadows di Tinkerbell92 (/viewuser.php?uid=236997)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Romanzi dell'orrore in una serata estiva ***
Capitolo 3: *** Jamie è a casa ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Crimson
Shadows
- Derry,
Settembre 1957 -
George Denbrough
varcò la soglia della propria stanza, le piccole labbra
dischiuse in un gran sorriso. Afferrò l’album di
fotografie che aveva lasciato sul letto prima di uscire, lo
posò sul pavimento della cameretta e si
inginocchiò, passando con delicatezza quasi religiosa le
minuscole dita sulla scritta dorata della copertina.
“Le Mie
Fotografie”.
Poco
più in basso, lui e la mamma avevano attaccato un foglietto
con dello scotch, sul quale veniva rivendicata
l’identità del proprietario dell’album: George Elmer Denbrough, 6 anni.
Si
lasciò sfuggire un altro sorrisetto, mentre cominciava a
girare lentamente le pagine, osservando per l’ennesima volta
le vecchie fotografie regalate da amici e parenti: non si stancava mai
di rimirare quella raccolta di cui si sentiva tanto fiero.
Chissà,
magari da grande sarebbe diventato un fotografo o un critico
d’arte, magari avrebbe raggiunto la fama internazionale e
l’avrebbero contattato per qualche intervista. Si era
già immaginato qualche volta una scena simile, nella quale
una distinta versione adulta di sé stesso sedeva su una
comoda poltroncina, mentre l’intervistatore (che nella sua
mente somigliava a Richie Tozier, il ragazzino matto che ogni tanto
frequentava suo fratello Bill) gli domandava da dove fosse nata la sua
passione per la fotografia. A quel punto, il Georgie adulto tirava
fuori dal nulla l’ormai vecchio album, un po’
ingrigito ma comunque tenuto con grande cura, e cominciava a sfogliarlo
sotto gli occhi ammirati dell’intervistatore.
Non appena
si ritrovò dinnanzi ad una pagina ancora vuota, Georgie
avanzò carponi verso il proprio zainetto, prendendo dello
scotch, quindi estrasse con attenzione una vecchia fotografia in bianco
e nero, riposta all’interno di un quaderno perché
non si spiegazzasse.
Osservò
l’immagine per qualche secondo: un ragazzo alto e robusto,
con i capelli corti e la mascella squadrata, era leggermente chinato in
avanti per sostenere la ragazza dalla chioma scura caricata sulla sua
schiena. Entrambi ridevano, lo sguardo fisso verso
l’obbiettivo.
Attaccò
la foto nella parte superiore della pagina, facendo attenzione a non
rovinarla. Mentre si soffermava nuovamente sui dettagli del volto
grazioso della ragazza, tre piccoli colpi allo stipite della porta lo
fecero scuotere bruscamente, riportandolo alla realtà.
- C-che
stai facendo, G-Georgie?
Bill, suo
fratello maggiore, era affetto da una pesante balbuzie sin
dall’età di tre anni, da quando un’auto
l’aveva accidentalmente investito. Era un ragazzino piuttosto
alto per la sua età, magro come un grissino, con le braccia
ricoperte di lentiggini ed una folta chioma biondo rame che ogni tanto
gli scivolava davanti agli occhi azzurri.
George si
scostò leggermente a destra, in modo da permettere al
fratello di prendere posto accanto a sé: - Stavo attaccando
una nuova foto.
- U-una
nuova foto? – Bill gli scompigliò scherzosamente i
capelli castani – E c-chi hai as-assillato questa v-volta?
- Non ho
assillato nessuno! – protestò il bambino
– Chiedi alla mamma! Me l’ha regalata la signora
con la collana viola che abbiamo incontrato al parco!
- La
s-signora c-con l-la c-collana viola? – ripeté il
maggiore, aggrottando la fronte.
Georgie
annuì convinto: - E’ la mamma di un ragazzo che
viene a scuola con te. Non sorride mai e indossa sempre una collana con
una pietra viola.
- Oh!
– s’illuminò Bill –
D-dev’essere l-la s-signora Criss.
-
Sì, lei.
Il
ragazzino più grande osservò la fotografia con
fare pensieroso: - E p-perché t-ti ha r-regalato qu-questa
foto?
Georgie
diede un’alzata di spalle: - Ha detto che voleva
sbarazzarsene da tanto tempo, ma non riusciva a buttarla via
perché l’aveva scattata una persona a cui voleva
bene. Mentre parlava con la mamma ha saputo del mio album e quindi me
l’ha regalata.
- C-capito.
Bill si
grattò la nuca con aria confusa: - P-perché
v-voleva sb-sb… oh, insomma, p-perché v-voleva
buttarla? – sputacchiò, cercando invano di
nascondere la frustrazione che l’assaliva ogni qualvolta
dovesse trovare sinonimi alle parole che non riusciva a pronunciare
senza incartarsi.
I volti dei
due ragazzi della foto gli ricordavano qualcosa, ma sebbene si
sforzasse non riusciva a trovare un collegamento con persone conosciute
in passato.
- Prima ha
detto semplicemente che era roba vecchia – spiegò
Georgie – Ma visto che la mamma pensava volesse darmela
soltanto per farmi contento, ha aggiunto che le faceva venire in mente
brutti ricordi. Un’amicizia perduta, mi sembra.
Bill
osservò a lungo l’immagine, riflettendo. Era senza
dubbio una foto molto vecchia, scattata venti o trent’anni
prima.
- T-ti ha
d-detto d-di che anno è?
Il minore
annuì con forza, facendo ballare i morbidi ricci castani
sulla piccola testa: - Estate 1930.
***
Angolo
dell’Autrice: Alla fine
sono approdata anche in questo fandom. Ho letto It per la prima volta
verso maggio e da allora sono entrata in fissa (e sì,
immagino Bill con i capelli biondo rame e non rossi, pardon). Comunque,
tutti coloro che seguono le mie storie non devono temere: la settimana
prossima mi laureo, quindi non ho avuto tempo per scrivere in questi
mesi, ma più o meno da metà Dicembre dovrei
riprendere ad aggiornare.
Sono
intanto riuscita a scrivere il prologo di questa storia, anche se il
primo capitolo arriverà più avanti, essendo
questa un’interattiva.
Come
al solito, ribadisco che
le interattive NON SONO VIETATE (le amministratrici hanno
scritto un regolamento apposta) e che no, non significano
“non ho voglia di inventare personaggi, lo facciano altri per
me”.
Nella
comunità facebook di cui faccio parte da anni siamo abituati
a “scambiarci” i personaggi, visto che ci piace
anche vederli muovere da una mente diversa dalla nostra.
Come
ho spiegato nella presentazione, la storia sarà ambientata
27 anni prima degli eventi che accadono nel libro, quindi
sarà incentrata sull’operato di It durante il
ciclo precedente a quello del 1957-1958. Ho scelto di ambientare il
prologo nel “futuro” per due motivi: primo
perché mi piaceva l’idea di fare un riferimento
alla storia originale (ed ero curiosa di scoprire come fosse scrivere
dal punto di vista di Georgie e Bill), secondo perché la
serie Doctor Who mi ha contagiata e amo le vicende che partono con
enormi punti interrogativi per poi spiegare la situazione tramite un
lungo flashback.
E
per ora gli interrogativi sono questi: chi sono i ragazzi della foto?
Che legame avevano con la signora Criss, alias la madre di Vic? (della
quale, ebbene sì, scopriremo l’identità
attraverso il flashback).
Ma
soprattutto, quali oscure vicende si celano dietro ai dolorosi ricordi
di un’amicizia perduta?
Grazie
a chiunque vorrà leggere questa storia.
Tinkerbell92
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Capitolo 2 *** Romanzi dell'orrore in una serata estiva ***
Derry, 19
Giugno 1930.
Anna
Donovan detestava fortemente l’aroma della grossa candela che
sua madre accendeva spesso in soggiorno.
Cannella. Dio, che
tortura per le sue narici! Non ne aveva mai apprezzato il gusto,
figurarsi l’odore.
Soffiò
sulla fiammella con fare scocciato, per poi spalancare la finestra
della sala, coprendosi il volto con un fazzoletto.
- Mi domando
perché si ostini tanto a tenere accesa questa merda: le
avrò ripetuto mille volte che non la sopporto!
- Lo sai che la mamma
ha… problemi.
David fissò
la sorella maggiore con fare rattristato, ricevendo in risposta
un’occhiata torva.
- Vai a giocare in
camera tua, Davey. Il salotto stasera serve a noi.
Il dodicenne
alzò gli occhi al soffitto, ma si limitò a
obbedire, mentre Anna invitava le due amiche ad accomodarsi.
Rose
Andersen rivolse un sorriso al ragazzino, mentre questi le passava
accanto, poi spinse la sedia a rotelle su cui era adagiata Jackie
Sullivan, posizionandola accanto al divano.
- Allora, Ninel
– disse infine la bionda, prendendo posto sulla parte destra
del sofà. – Che proposte hai per stasera?
- Aspetta –
fece eco Jackie, portando una mano alla tempia e tendendo
l’altra in avanti, agitando le dita come una strega che
lancia un sortilegio. – Fammi indovinare…
mmmh… tema Horror! Hai la faccia da Horror!
- Devo ancora capire
esattamente in che modo la mia faccia si abbini ai generi che scelgo
ogni volta – osservò Anna con un mezzo sorriso,
mentre frugava all’interno della borsa che aveva poggiato sul
tavolino poco prima. – Comunque… anche stavolta
hai indovinato, razza di stronza!
Con un entusiasmo che
soltanto pochi eletti le avevano visto manifestare in quasi diciotto
anni, mostrò due libri rilegati con copertine di aspetto
piuttosto datato.
- Frankenstein e Dracula!
– annunciò. – Edizioni speciali! Queste
meraviglie provengono dalle primissime ristampe.
- Ora tiro a
indovinare io – s’intromise Rose. – Te li
ha procurati la tua nuova fiamma.
- Nuova vecchia fiamma
– ironizzò Jackie, ravvivandosi con fare
civettuolo i ricci color rame. – La tua fiamma…
quarantenne?
La primogenita di Rick
Donovan rispose battendo vezzosa le lunghe ciglia: - Trentotto. Ne ha
trentotto. Una persona di quell’età io non la
definirei vecchia. E poi, non è nemmeno una
“vera” fiamma, sa benissimo che la nostra relazione
è soltanto fisica. Io amo e amerò una sola
persona per il resto della mia vita e ho messo in chiaro questa cosa
fin da subito.
- Ma sì,
finché ci procura i libri che vogliamo, può avere
tutti gli anni che vuole. Con cosa iniziamo?
Anna aprì
la bocca per rispondere, quando un ticchettio di scarpe col tacco
portò lei e le due ospiti a voltarsi verso
l’ingresso del salotto.
Jamie Donovan
sfoggiava con un certo orgoglio l’abitino rosso bordeaux che
sua madre, a cui era appartenuto durante gli anni
dell’adolescenza, aveva fatto rimodernare appositamente per
lei.
Era una sedicenne dal
volto radioso, completamente diversa dalla sorella maggiore: i suoi
occhi erano grandi e azzurri, invece che scuri e leggermente a
mandorla; i suoi capelli erano castani e lisci, invece che neri e
mossi, ed era piuttosto bassa e dotata di piacevoli curve, invece che
alta e allampanata.
Ma soprattutto, Jamie
era calorosa e accogliente, come un piccolo raggio di sole.
- Annie –
cominciò, tenendo le mani dietro la schiena. – Sai
che le feste organizzate da Dot Fadden a fine anno scolastico sono
sempre… piuttosto eleganti…
- Beh, che ti aspetti
– replicò la maggiore, fingendo di non aspettarsi
una richiesta imminente. – Sta a West Broadway, la zona dei
ricconi.
- Ecco
appunto… volevo chiederti… potresti prestarmi il
tuo braccialetto?
Sporse appena il
labbro inferiore in avanti, mentre mostrava il piccolo gioiello che
aveva tenuto nascosto, fino a quel momento, dietro la schiena.
Era un bracciale di
perle appartenente alla famiglia Donovan da generazioni,
l’eredità fissa di ogni primogenita femmina.
L’ultima a possederlo, prima di Anna, era stata nonna Kate.
Rose emise un fischio
di sorpresa, mentre Jackie diede un’alzata di spalle,
rivolgendosi poi all’amica dai capelli scuri: -
Effettivamente, si abbina bene al suo vestito… e poi
parliamo di una festa a West Broadway…
Annie alzò
gli occhi al soffitto, per poi sospirare: - Sì, va bene,
puoi prenderlo. Ma stai attenta a non perderlo!
La minore
lanciò un gridolino di gioia, per poi fiondarsi ad
abbracciare la sorella: - Graziegraziegrazie!
- Cerca di non tornare
tardi – si raccomandò l’altra,
fingendosi distaccata ma ricambiando l’abbraccio con un
piccolo sorriso. – E soprattutto, telefona a casa, se nessuno
può accompagnarti, vengo a prenderti io.
- Sì,
sì, non preoccuparti – replicò spiccia
Jamie, stampandole un bacio sulla guancia. – Sei la migliore.
Oh, il campanello, dev’essere Bess! Ci vediamo domani. Ciao
ragazze!
- Ciao, Jamie!
– fecero eco Rose e Jackie, mentre Anna osservava la
sorellina sfrecciare fuori dal salotto, un po’ barcollante
per via dei tacchi.
Non appena il rumore
della porta di casa annunciò che Jamie era uscita, la mora
del trio prese posto sul divano, accanto all’amica, e
poggiò uno dei libri prescelti sulle gambe: - Bene, stasera,
se a lor signore compiace, comincerò con Dracula.
La creatura strisciava
furtiva tra le siepi che circondavano i grandi giardini delle
abitazioni di West Broadway. Era rapida e silenziosa come
un’ombra, i suoi movimenti erano tanto fluidi e leggeri da
smuovere il fogliame in modo quasi impercettibile.
Evitava con cura le
zone illuminate dai lampioni, fondendosi alla perfezione col buio della
notte.
Si fermò
nei pressi di una grande villa: le finestre aperte lasciavano
fuoriuscire una musica piuttosto orecchiabile, mista a un concitato
chiacchiericcio.
Una cinquantina
abbondante di studenti pascolava per il cortile come un branco di
succulente pecorelle, i sorrisi stampati in volto, gli abiti eleganti e
le scarpe da ballo ai piedi.
Ce n’erano
altri, all’interno della casa. Tutti felici, tutti presi
dalla festa, tutti ignari.
La creatura si
spostò sul retro, accovacciandosi nell’angolo
più buio del giardino. E lì, attese.
Sapeva che, prima o
poi, qualcuno di loro si sarebbe fatto un giretto da quelle parti.
Matematico. Gli umani ormai erano meravigliosamente prevedibili per lei.
La sua intuizione non
tardò a rivelarsi esatta: ne percepì la presenza
prima ancora di vederlo. Sapeva già tutto di lui. Lei
conosceva ogni cosa.
Brenton Reynold,
diciotto anni, figlio di Brendan e Janette, ricco e viziato,
terrorizzato dalle streghe. E, in quel momento, pesantemente ubriaco.
Lo guardò
avvicinarsi, perfettamente nascosta tra le fronde della siepe. Riusciva
a percepire il suo odore, il flusso del sangue all’interno
delle sue vene…
Brenton si
abbassò i pantaloni, barcollando, poi fu la volta delle
mutande. Biascicò qualcosa di incomprensibile, mentre si
afferrava il membro e cominciava a orinare.
Aveva
un’espressione terribilmente stupida stampata in volto.
- Brenton…
La voce della creatura
era femminile e suadente, ma allo tempo stesso gelida. Il ragazzo
sussultò, schizzando un po’ di urina sui
pantaloni.
Si guardò
attorno, cercando di aguzzare la vista, poi balbettò: -
Chi… chi c’è?
Un sorriso nel buio.
- Sono
un’amica speciale, Brenton… un’amica
molto speciale!
Brenton
gridò, incespicando e cadendo dritto sul fondoschiena.
Cercò di allontanarsi, muovendo freneticamente gambe e
braccia, ma i calzoni abbassati e l’alcol in corpo gli
ostacolavano ogni movimento.
La strega
sbucò fuori dalla siepe, sghignazzando sguaiatamente.
Dopodiché, si avventò su di lui.
- Ma lei non dorme, e
fa come se neanche io ci fossi. Continuo a provare e a riprovare, fino
che a un tratto ci ritroviamo, lei e anch’io, al buio; mi
guardo intorno e vedo che intanto il sole è andato
già. Madame Mina ride, e io mi volto a guardarla. Adesso
è sveglia del tutto, e sembra che stia così bene
come mai l’ho vista da quella notte a Carfax, quando siamo
entrati per la prima volta in casa di…
Lo squillo del
telefono interruppe l’appassionata lettura, strappando ad
Anna una sonora imprecazione. Posò il libro aperto sulle
gambe di Rose e, con passo stizzito, uscì dalla sala,
raggiungendo l’apparecchio sistemato sul comodino
all’ingresso.
- Chiunque tu sia,
spero per te che sia importante… pronto?
- Ciao Annie, sei tu?
Una morsa allo
stomaco. I lineamenti della ragazza si indurirono, mentre una
sgradevole sensazione di oscurità cominciava a vorticarle
nel petto.
- Ciao Butch. Che cosa
vuoi?
- Ti sto disturbando?
Anna
stritolò il filo del telefono con le dita della mano libera.
- A dire il vero
sì. Ci sono Rose e Jackie, stiamo leggendo un libro.
- Ah, capito, allora
cercherò di essere breve: immagino saprai della festa per i
diplomati di quest’anno a casa di Tony Gordon…
- Sì, sono
stata invitata. Perché ti interessa? Tu non sei un
neo-diplomato…
- No, ma ho trovato il
modo di imbucarmi! Mi sono offerto come rifornitore di vino!
- Ah…
grandioso…
Alcuni istanti di
silenzio, interrotti dai dieci rintocchi dell’orologio a
pendolo.
- Sai Annie, stavo
pensando – riprese infine Butch. – Dopo
quest’estate ve ne andrete quasi tutti… immagino
che anche tu vorrai allontanarti da Derry…
- Vorrei,
sì – rispose lei, sulle spine. – Spero
di riuscire. Con… con questa crisi non si possono avere
certezze. Persino alcuni ragazzi di West Broadway stanno avendo delle
difficoltà… senza contare il fatto che sono una
donna…
- Beh, sì,
certamente. Però ecco, mettiamo caso che riusciate ad
andarvene: dopo quest’estate, sarò solo come un
cane…
“E di chi
sarebbe la colpa?” pensò ironica la
primogenita Donovan, mordendosi la lingua.
- … e
perciò pensavo… potremmo approfittare della festa
dai Gordon per fare una rimpatriata e poi uscire un po’
insieme, come ai vecchi tempi, divertirci, fare qualche scherzo in
giro... ho già chiamato i ragazzi, che mi hanno detto di
sì. Mi manca solo la tua risposta.
- Io…
La morsa allo stomaco
si fece più insistente.
- Io non lo so, Butch.
Dopo quello che è successo cinque anni fa, io…
- Ma dai, Annie, non
succederà niente di male, faremo giusto qualche scherzetto
innocuo…
- Anche quello fatto a
Warder doveva essere uno scherzetto innocuo, Butch –
replicò Anna in tono tagliente.
Il ragazzo
esitò per qualche secondo: - Sì, ma…
ma questa volta sarà diverso! Suvvia, Annie, non abbiamo
più tredici anni!
- No, infatti. Non
abbiamo più tredici anni.
(E
se a tredici anni siamo stati capaci di fare certe cose, pensa cosa
potremmo combinare adesso…)
Butch si
schiarì la voce: - Beh, potresti almeno pensarci? In nome
della nostra vecchia amicizia?
- Io…
- Mi manchi, Annie. La
verità è questa. Mi manchi più di
tutti gli altri. Sai che io non chiedo mai “per
favore” a nessuno, a te invece chiedo, per favore, puoi
almeno pensarci?
La ragazza dai capelli
scuri sospirò, chiuse gli occhi e aggrottò la
fronte.
- Ci
penserò.
- Ottimo! Allora ci
vediamo alla festa di Gordon?
Anna strinse la lingua
tra i denti, un nodo alla gola le tolse quasi il respiro.
-
Sì… ci vediamo alla festa di Gordon…
- Perfetto. Grazie
Annie, salutami le ragazze! Buonanotte!
- Buonanotte.
Rimise la cornetta al
proprio posto, quasi lasciandola cadere. La sensazione di oppressione
scemò lentamente, lasciando spazio a un fastidioso senso di
vuoto.
Tornò in
salotto senza aprir bocca, il volto congelato in
un’espressione gelida. Si rese conto a malapena del tragitto
che la portò a sedersi nuovamente accanto a Rose.
La bionda le
posò una mano sul ginocchio, richiamando la sua attenzione:
- Ninel… stai bene?
- Anche stavolta la
tua faccia parla chiaro – fece eco Jackie, cercando di
assumere un tono
ironico per
sdrammatizzare, ma trasparendo un certo disagio. – Bowers?
- Bowers –
annuì Anna, stringendo i pugni.
Le due giovani ospiti
si scambiarono un’occhiata tesa.
- Cosa voleva?
– domandò quindi Rose.
Anna drizzò
la schiena, sospirando: - Vorrebbe recuperare i rapporti con me e gli
altri, passare del tempo insieme prima che ce ne andiamo dalla
città. Ammesso che la crisi economica ce lo permetta,
insomma. La Banda Bowers riunita per l’ultima volta.
Jackie
serrò nervosamente le dita attorno ai manici della sedia a
rotelle: - Che cosa gli hai risposto?
- Ho detto…
- la morsa allo stomacò ricominciò a dare
tormento. - Ho detto che ci penserò.
Rose prese le mani
della coetanea tra le proprie: - Non sei costretta a farlo, se non ti
va, Ninel.
- Lo so…
preferirei cambiare discorso – tagliò corto infine
la mora, afferrando nuovamente il libro. – Siamo quasi alla
fine. E sapete che vi dico? Io non capisco perché la gente
veda qualcosa di romantico nel rapporto tra Dracula e Mina. Mi pare un
concetto totalmente infondato! A me sembra palese che Mina sia
innamorata di Lucy e ricambiata. E non so voi, ma per me Dracula
è piuttosto invaghito di Jonathan.
Rose sorrise, mentre
Jackie diede un’alzata di spalle: - È possibile,
la figura del vampiro presenta senz’altro dei collegamenti
con il mondo omosessuale. Un esempio esplicito è il romanzo Carmilla.
- Vorrei leggerlo da
tempo – disse Anna, passando distrattamente il dito indice
sulle pagine del libro aperto. – Chiederò a chi
sappiamo di procurarmelo. Bene, ora direi che possiamo andare avanti
con il nostro caro conte .
Riprese il racconto
come se nulla fosse, mantenendo viva l’attenzione delle
compagne con un’ammirevole prova di lettura espressiva, ma
dentro di sé continuava a macerare il senso di angoscia e
disagio che le aveva provocato la conversazione avvenuta poco prima con
il vecchio amico.
Lei e Butch Bowers
erano stati a lungo inseparabili. Ricordava con chiarezza quel tempo in
cui, spesso, bastava un semplice sguardo per capirsi a vicenda, quel
tempo in cui finivano insieme in punizione per aver infranto
le regole, quel tempo in cui uscivano entrambi di casa di nascosto e si
trovavano per comprare quanti più dolci possibili, da
gustare rigorosamente seduti all’ombra degli alberi del parco
cittadino.
Ricordava le corse in
bici, le sfide di coraggio, le scorribande nei Barren.
Sì,
talvolta Anna Donovan sorrideva pensando agli anni della propria
infanzia e agli albori dell’adolescenza.
Ma il sorriso si
spegneva subito quando un tipo diverso di memorie affiancava quelle
spensierate e piacevoli: essere amica di Butch l’aveva
portata a fare delle cose di cui si era pentita amaramente, cose di cui
si vergognava ancora.
E poi… e
poi c’era stato quel maledetto giorno di cinque anni prima,
il giorno che l’aveva portata a rompere definitivamente i
contatti con quello che era stato, fino a quel momento, il suo migliore
amico.
(Questa
volta sarà diverso!)
Lei gli aveva dato fin
troppe occasioni. Si sentiva in colpa persino per questo.
(Non
abbiamo più tredici anni!)
Butch non era mai
stato in grado di capire quando fosse il momento di fermarsi. Non aveva
mai imparato dai propri errori. Possibile che in quei cinque anni fosse
cambiato?
(Mi
manchi, Annie. Mi manchi più di tutti gli altri. Questa
volta sarà diverso!)
No, non avevano
più tredici anni. Ed era proprio questo a farle paura.
***
Angolo
dell’Autrice: Ho deciso di continuare questa
storia, anche se non come interattiva per questioni organizzative.
Spero che il primo
capitolo risulti soddisfacente, che non ci siano incongruenze e che il
testo sia scorrevole. Naturalmente, c'è un motivo se le
protagoniste presentano una mentalità piuttosto aperta
parlando di omosessualità, nonostante l'epoca in cui sono
cresciute.
Grazie per aver letto,
alla prossima!
Tinkerbell92
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Capitolo 3 *** Jamie è a casa ***
CRIMSON
SHADOWS
Derry, 20 Giugno 1930
La strada buia e deserta donava un senso di pace interiore che Anna
raramente riusciva a provare.
Pochi minuti prima, l’orologio a pendolo del salotto aveva
emesso due flebili rintocchi.
Rose e Jackie se n’erano andate verso mezzanotte e mezza,
più o meno nello stesso istante in cui i signori Donovan
erano rincasati.
Neanche un’ora più tardi, Jamie aveva telefonato
per avvertire che sarebbe andata a dormire da Bess.
Anna aveva atteso che i genitori si addormentassero, poi, lasciando un
biglietto sul tavolo della cucina, aveva preso la propria patente e le
chiavi della Renault grigia.
Le capitava spesso di avvertire l’irrefrenabile bisogno di
guidare per le vie illuminate soltanto dalla luce irregolare dei
lampioni, disabitate, silenti.
Dopo anni passati ad affrontare i problemi dell’insonnia,
Anna aveva finalmente trovato un’attività che le
donasse… beh, forse non gioia, ma di certo una singolare
serenità.
Poche ragazze della sua età erano in grado di guidare, a
Derry. Lei aveva insistito a lungo con suo padre, prima che lui si
decidesse a insegnarle.
Non che Richard Donovan fosse un osso duro o un tradizionalista, anzi.
Probabilmente, lui avrebbe acconsentito alla prima richiesta, se la
moglie non si fosse messa in mezzo con le sue paranoie.
“Guidare
è pericoloso, Annie. Perché vuoi metterti in
pericolo da sola, Annie? Di solito le ragazze non guidano,
Annie.”
Bah. Quante storie inutili.
Anna giunse all’incrocio di Kansas Street, rallentando
gradualmente. Girando a sinistra, avrebbe proseguito fino a costeggiare
la zona dei Barren; a destra, si sarebbe trovata ben presto in quello
che considerava il centro della vita civile della città.
Per dove svoltare?
Alzando lo sguardo, oltre il parabrezza, notò
l’enorme cartellone, ormai scolorito, che riportava al tempo
delle elezioni cittadine: il sindaco Parker Boone sorrideva con aria
beota, con il suo elegante completo gessato e la stempiatura
accentuata.
Anna osservò l’immagine con un ghigno, colta da
un’illuminazione.
Avviò nuovamente il motore, girando a destra.
C’era una sola persona a Derry capace di restare sul posto di
lavoro fino a tarda notte, ben oltre l’orario di chiusura,
dormendo poggiata alla scrivania pur di passare meno tempo possibile a
casa.
La ragazza proseguì spedita, percorrendo quasi per intero
Kansas Street, arrestando la corsa soltanto quando si trovò
davanti alla grande biblioteca.
Parcheggiò con precisione millimetrica, in barba a
ciò che diceva spesso il padre di Butch Bowers sulle
abilità di guida delle donne.
(Questa volta
sarà diverso, Annie!)
Si ravvivò leggermente i capelli, riflettendosi nello
specchietto retrovisore, e, forse con un po’ troppo zelo,
uscì dal mezzo, sigillando la portiera e raggiungendo con un
paio di falcate la porta d’ingresso della Derry Public
Library.
La creatura non era ancora sazia. Strisciava tra le ombre, alla ricerca
di nuove prede.
Finalmente, un ticchettio di passi sul marciapiede attirò la
sua attenzione. Sogghignò, riducendo gli occhi a sottili
fessure: erano due ragazze, carine e giovanissime.
Camminavano da sole nella viuzza scura e solitaria, rapide e
guardinghe, venivano dritte verso di lei.
La creatura fiutò la tensione che attanagliava le loro
adorabili menti fanciullesche. Temevano un agguato. Temevano gli
aggressori.
Una di loro temeva i vampiri.
Si acquattò dietro un grosso albero. I suoi canini superiori
cominciarono ad allungarsi.
Anna suonò il campanello un paio di volte.
Abbozzò un sorrisetto quando vide un fascio di luce
divampare attraverso una delle finestre del pianterreno e si
lasciò sfuggire un ghigno quando una vocina insicura e
lievemente assonnata domandò: - Chi è?
- Chi vuoi che sia, a quest’ora? –
replicò la ragazza.
Tre giri di chiave.
La porta si aprì: oltre la soglia, c’era una donna
dall’aria raffinata e sobria, longilinea, sulla quarantina. I
suoi capelli, folti, lucenti, e tagliati all’altezza del
mento, erano di un intenso castano dorato, mentre i suoi occhi
oscillavano tra incerte sfumature di verde e marrone.
Un’espressione di piacevole sorpresa illuminava i suoi
graziosi lineamenti.
- Annie – mormorò. – Cosa ci fai qui?
Miss Donovan replicò con un sorrisetto furbo, le mani nelle
tasche dei pantaloni neri: - Soffro d’insonnia, dovresti
saperlo, Daisy.
La bibliotecaria scosse la testa, le labbra piegate verso
l’alto: - Entra.
Anna accettò l’invito senza troppe cerimonie.
Attese che la donna mettesse in sicurezza la porta d’ingresso
con i tre soliti giri di chiave, poi si lasciò condurre da
lei fino al grande bancone in legno a cui, di giorno, ella sedeva
lavorando incessantemente, segnando i prestiti, rispondendo con
cortesia alle domande della gente e scorrendo elenchi infiniti.
- Anche oggi ti toccano gli straordinari, eh? –
commentò la diciassettenne con ironia, leggiucchiando
distrattamente alcune delle carte sparse sul tavolo da lavoro.
- Già – rispose Daisy, con la medesima punta di
ilarità, mentre copriva le finestre con le spesse tende
bordeaux. – Un’altra notte fuori casa.
- Al tuo maritino mancherai tantissimo – ridacchiò
la più giovane.
- Oh, sicuro.
La donna fece una smorfia: - Tornare a casa per sentirmi ripetere ogni
volta che quello che faccio è inutile, che lui
può darmi una vita da regina, restando a casa tutto il
giorno a farmi servire dai domestici, e io, invece, mi ostino con
questo lavoro da ceto medio! Sono tutti…
- … capricci inutili, Daisy! – terminarono
assieme, in una perfetta imitazione del simpatico marito riccone.
Entrambe scoppiarono a ridere.
Daisy scostò un ciuffo ribelle dal volto di Anna, scivolando
poi con le dita sulla sua guancia pallida.
Ora che indossava i tacchi, riusciva più o meno a eguagliare
la giovane in altezza.
Miss Donovan ridusse gli occhi scuri a due fessure, osservando la donna
con fare malizioso e quasi inquisitorio: - Credo proprio che la mia
insonnia mi torturerà ancora per qualche ora, Miss Doppler.
O forse dovrei dire… Signora Boone?
Calcò di proposito le ultime due parole: Daisy si presentava
sempre con il proprio cognome, mai con quello del marito. Era un
concetto che lei stessa condivideva ampiamente.
- Sei terribile – mormorò la bibliotecaria.
- Oh, sì. Non hai idea di quanto!
Senza preavviso, premette con veemenza le labbra contro quelle della
donna più vecchia, serrando una mano sul suo fianco sottile
e l’altra sulla sua coscia.
Daisy emise un gemito di sorpresa, abbandonandosi però
completamente a quel contatto poco casto, portando entrambe le mani sui
lati del volto della ragazza.
Anna la sollevò con poco sforzo, facendola sedere sul
bancone e portandola a intrecciare le gambe attorno alla propria vita.
Alcuni foglietti volarono sul pavimento.
Le labbra della diciassettenne si staccarono lentamente da quelle della
bibliotecaria, scivolando lungo la pelle liscia della mascella, fino a
raggiungere il collo sottile e profumato.
Non represse l’istinto di mordicchiare.
Daisy emise un gemito.
- Sono sicura che tuo marito non ti fa tutte queste cose carine che ti
faccio io – mormorò sadica la giovane, risalendo
con la punta della lingua fino al lobo dell’orecchio
dell’amante, decorato con un piccolo orecchino perlato.
- Mmmh, ma figurati – soffiò l’altra, a
occhi chiusi, la testa leggermente inclinata all’indietro.
– Anche se sai che… tutto questo è
sbagliato…
- Sbagliato – ripeté Anna, emettendo un suono
simile alle fuse della propria gatta.
- Sei così… giovane… - gemette Miss
Doppler, mentre le mani della ragazza cominciavano a sollevarle
lentamente gli orli della gonna. – Non hai nemmeno diciotto
anni…
- Li faccio a Novembre. Ma dentro sono una quarantenne.
– Potresti essere… mia figlia…
- Già. Che brutta cosa. Siamo due laide peccatrici. Sicura
di non provare alcun rimorso per il tuo caro maritino?
Daisy si scostò appena, rivolgendole uno sguardo volpino: -
Chi se ne frega di quell’idiota!
Anna si avventò nuovamente sulle sue labbra con un ghigno.
Le scoprì del tutto le gambe snelle, spostando le dita
sull’orlo delle mutandine bianche.
Cominciò a sfilarle con lentezza esasperante.
- Lo sai – mormorò contro la bocca della donna.
– Puoi sempre fermarmi, se vuoi.
Daisy non la fermò.
Otto rintocchi.
La pressione di quattro zampette famigliari che si spostavano qua e
là sulla sua schiena.
Anna sollevò pigramente il volto dal cuscino, strofinandosi
con una mano gli occhi solcati da profonde occhiaie scure.
Era tornata a casa alle quattro del mattino, ma il sonno era
sopraggiunto soltanto un’ora dopo.
Tysha balzò sul cuscino, cominciando a strusciarsi contro il
mento della ragazza. Era un grazioso felino dal manto nero, che viveva
con la famiglia Donovan da cinque anni e aveva stretto un legame quasi
simbiotico con la maggiore dei tre fratelli.
Non amava gli sconosciuti e tendeva a mostrarsi piuttosto schiva, ma
chiunque fosse riuscito a entrare nelle sue grazie avrebbe guadagnato
di certo un sacco di fusa e plateali manifestazioni
d’affetto.
Anna rispose alle effusioni della gatta con una serie di grattini sul
pelo folto, poi le diede un bacio sulla testa e si alzò dal
letto di malavoglia.
Si trascinò fino allo specchio, cercando di assumere una
parvenza vagamente umana, poi, spalancò le finestre, si
avvolse in una vestaglia leggera e uscì dalla stanza.
Tysha la seguì, strusciandosi contro le sue caviglie nude.
- Sei andata a caccia, stanotte? – domandò la
diciassettenne, prendendo in braccio il piccolo felino non appena
cominciò a scendere le scale. – Mi è
sembrato di notare delle macchie di sangue sul vialetto, quando sono
tornata. Mi auguro tu non abbia portato i resti delle tue vittime
dentro casa. Ci manca solo che alla mamma venga un’altra
delle sue crisi isteriche.
Il suo tono, solitamente duro e distaccato, assumeva tinte mielose ogni
volta che si rivolgeva all’adorata gatta.
Raggiunsero insieme il piano di sotto: David e sua madre stavano
chiacchierando in cucina, suo padre, invece, si aggirava per il salotto
con una tazza di caffè in mano e una calcolatrice
nell’altra.
Ogni tanto si fermava, mormorava qualcosa tra sé, poi
eseguiva un rapido calcolo e annuiva soddisfatto.
- Buongiorno, tesoro – disse, non appena la figlia maggiore
passò davanti alla soglia della sala. – Sei
riuscita a dormire, stanotte?
- Tre ore circa – rispose la ragazza, raggiungendo la porta
d’ingresso e cominciando a girare la chiave nella serratura.
– Faccio uscire Tysha, poi vado a mangiare qualcosa. Jaime
non è ancora tornata?
- No – rispose l’ingegnere, prendendo un sorso di
caffè e immergendosi nuovamente nei propri calcoli.
– Lei e Bess saranno andate a dormire tardi. Avremo
loro notizie forse tra un paio d’ore – aggiunse
infine, con un mezzo sorrisetto.
Anna posò la micia nera a terra, poi aprì la
porta, permettendole di sgusciare all’esterno.
Stava già per richiudere, quando qualcosa sullo zerbino, una
grossa accozzaglia di macchie bianche e bordeaux, intravista la coda
dell’occhio, attirò la sua attenzione.
Guardò in basso. Mise a fuoco. Batté le palpebre,
in un attimo di confusione iniziale.
E poi l’aria attorno a lei divenne gelida, densa e
opprimente.
Una morsa di ghiaccio le serrò la gola, mentre le sue gambe,
lunghe e forti, divennero all’improvviso fiacche, prive di
forza. Dovette aggrapparsi al portone, sostenersi con le braccia per
impedirsi di cadere.
Jamie era tornata a casa. O meglio, qualcuno l’aveva portata
lì. Lasciandola sullo zerbino, accasciata a terra in una
posa contorta e innaturale, bianca come un lenzuolo, gli occhi chiari
sbarrati e vitrei, la gola sudicia di sangue ormai rappreso.
Tysha si muoveva inquieta attorno al suo corpo, annusando, toccandole
di tanto in tanto la pelle fredda con una zampetta, confusa.
Anna si rese conto di aver smesso di respirare da un pezzo soltanto
quando avvertì un fastidioso capogiro.
Emise un sibilo strozzato, afferrando spasmodicamente la maniglia della
porta, quasi a cercare un qualsiasi appiglio che la tenesse ancorata
alla realtà.
Il mondo si fece ovattato e silenzioso, impedendole di udire la sua
stessa voce, mentre chiamava il padre, ripetutamente.
Non udì i passi di lui che si avvicinarono. Non
udì lo schianto della tazza sul pavimento. Non
udì le sue urla, mentre si accasciava sul corpo della
secondogenita.
Rimase immobile, congelata in un oblio di incredulità.
Nel giro di poco, anche sua madre era china su Jamie, urlando,
piangendo, graffiandosi il volto.
Era tutto assurdo. Tutto surreale.
- … qualcuno, Annie!
Ah… i suoni tornarono, confusi ma non abbastanza da
impedirle di decifrarli.
- Annie!
La voce di suo padre.
- Chiama qualcuno, Annie!
Chiamare qualcuno. Sì.
Anna si voltò, il viso paralizzato in
un’espressione di inquietante neutralità. Si
scontrò con David, che, chissà da quanto, aveva
osservato la scena appostato dietro di lei.
- Vai in camera tua, Davey – gli disse.
Si avviò verso il telefono con la sensazione di essere
immersa in una grossa bolla. Sollevò la cornetta. Compose un
numero automaticamente.
Una voce femminile rispose dopo pochi istanti, gracchiante, fastidiosa.
- Dipartimento di Polizia di Derry, qual è la Sua emergenza?
- Emergenza…
(Quale emergenza?)
- Signora? Signorina? È ancora lì?
- Sono Anna Donovan. Chiamo dal numero 15 di Jackson Street.
(Jamie è a
casa).
- Qualcuno ha ucciso mia sorella.
(Jamie è
tornata a casa dalla festa).
- Abbiamo appena trovato il suo corpo davanti alla porta di casa. Sullo
zerbino.
Non attese la risposta. Riagganciò, per poi sollevare di
nuovo la cornetta e chiamare l’ospedale, nonostante fosse
inutile.
Parlò in tono piatto, privo di emozioni. Era come se fosse
qualcun altro a parlare al posto suo.
Le sembrò quasi di osservare la scena
dall’esterno, vedere una ragazza allampanata con i capelli
neri e il volto di porcellana quasi pietrificato che metteva insieme
delle frasi in modo automatico.
Infine, fece una terza chiamata.
- Ninel? Ninel che succede?
La voce di Rose portò uno strano senso di tepore, che
cominciò a irradiarsi in tutto il suo corpo, sciogliendolo
dalla paralisi di ghiaccio.
E insieme alle membra intorpidite, anche le emozioni iniziarono a
sbloccarsi lentamente.
- Jamie… qualcuno ha ucciso Jamie…
- Cosa? Che stai dicendo? Cos’è successo?
- L’abbiamo trovata sullo zerbino appena adesso…
dissanguata…
Alcuni istanti di silenzio. Il respiro di Rose cominciò a
farsi affannoso.
- Ninel… oddio… oh cielo…
- Puoi chiamare tu Jackie?
- Sì… sì chiamo Jackie, poi vengo
lì. Vengo da te. Tra poco sono lì, Ninel.
Riagganciarono quasi in contemporanea. E fu allora che la paralisi
fisica ed emotiva si sbloccò completamente.
Anna cadde sulle ginocchia, il respiro mozzato, lacrime calde le
rigarono le guance.
Poi urlò. Urlò fino a quando non provò
la sensazione di avere una bolgia infernale all’interno della
gola.
***
Angolo
dell’autrice: Bene, ecco il nuovo capitolo.
Spero sia stato di vostro gradimento, è forse più
corto del precedente e molto centrato su un singolo personaggio, ma mi
auguro non sia stato noioso o brutto.
Entriamo nel vivo della storia con una specie di parallelismo tra Anna
e Bill, a distanza di ventisette anni. Georgie e Jamie erano due raggi
di sole ç_ç
Naturalmente, la mia protagonista ha un carattere completamente diverso
dal leader dei Perdenti, è un personaggio molto grigio, non
sempre piacevole (probabilmente a qualcuno starà pure
antipatica) che porta una maschera di ghiaccio per celare emozioni
molto forti.
Mi auguro che la storia tra lei e la bibliotecaria non abbia turbato
nessuno.
Dal prossimo capitolo cominceranno ad avere maggior peso anche gli
altri personaggi, alcuni li avete già conosciuti, altri
verranno introdotti.
Grazie per aver letto, alla prossima!
Tinkerbell92
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