Crimson Shadows

di Tinkerbell92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Romanzi dell'orrore in una serata estiva ***
Capitolo 3: *** Jamie è a casa ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Crimson Shadows



- Derry, Settembre 1957 -


George Denbrough varcò la soglia della propria stanza, le piccole labbra dischiuse in un gran sorriso. Afferrò l’album di fotografie che aveva lasciato sul letto prima di uscire, lo posò sul pavimento della cameretta e si inginocchiò, passando con delicatezza quasi religiosa le minuscole dita sulla scritta dorata della copertina.   
“Le Mie Fotografie”.    
Poco più in basso, lui e la mamma avevano attaccato un foglietto con dello scotch, sul quale veniva rivendicata l’identità del proprietario dell’album: George Elmer Denbrough, 6 anni.
Si lasciò sfuggire un altro sorrisetto, mentre cominciava a girare lentamente le pagine, osservando per l’ennesima volta le vecchie fotografie regalate da amici e parenti: non si stancava mai di rimirare quella raccolta di cui si sentiva tanto fiero.
Chissà, magari da grande sarebbe diventato un fotografo o un critico d’arte, magari avrebbe raggiunto la fama internazionale e l’avrebbero contattato per qualche intervista. Si era già immaginato qualche volta una scena simile, nella quale una distinta versione adulta di sé stesso sedeva su una comoda poltroncina, mentre l’intervistatore (che nella sua mente somigliava a Richie Tozier, il ragazzino matto che ogni tanto frequentava suo fratello Bill) gli domandava da dove fosse nata la sua passione per la fotografia. A quel punto, il Georgie adulto tirava fuori dal nulla l’ormai vecchio album, un po’ ingrigito ma comunque tenuto con grande cura, e cominciava a sfogliarlo sotto gli occhi ammirati dell’intervistatore.  
Non appena si ritrovò dinnanzi ad una pagina ancora vuota, Georgie avanzò carponi verso il proprio zainetto, prendendo dello scotch, quindi estrasse con attenzione una vecchia fotografia in bianco e nero, riposta all’interno di un quaderno perché non si spiegazzasse.
Osservò l’immagine per qualche secondo: un ragazzo alto e robusto, con i capelli corti e la mascella squadrata, era leggermente chinato in avanti per sostenere la ragazza dalla chioma scura caricata sulla sua schiena. Entrambi ridevano, lo sguardo fisso verso l’obbiettivo.
Attaccò la foto nella parte superiore della pagina, facendo attenzione a non rovinarla. Mentre si soffermava nuovamente sui dettagli del volto grazioso della ragazza, tre piccoli colpi allo stipite della porta lo fecero scuotere bruscamente, riportandolo alla realtà.
- C-che stai facendo, G-Georgie?
Bill, suo fratello maggiore, era affetto da una pesante balbuzie sin dall’età di tre anni, da quando un’auto l’aveva accidentalmente investito. Era un ragazzino piuttosto alto per la sua età, magro come un grissino, con le braccia ricoperte di lentiggini ed una folta chioma biondo rame che ogni tanto gli scivolava davanti agli occhi azzurri.
George si scostò leggermente a destra, in modo da permettere al fratello di prendere posto accanto a sé: - Stavo attaccando una nuova foto.
- U-una nuova foto? – Bill gli scompigliò scherzosamente i capelli castani – E c-chi hai as-assillato questa v-volta?
- Non ho assillato nessuno! – protestò il bambino – Chiedi alla mamma! Me l’ha regalata la signora con la collana viola che abbiamo incontrato al parco!
- La s-signora c-con l-la c-collana viola? – ripeté il maggiore, aggrottando la fronte.
Georgie annuì convinto: - E’ la mamma di un ragazzo che viene a scuola con te. Non sorride mai e indossa sempre una collana con una pietra viola.
- Oh! – s’illuminò Bill – D-dev’essere l-la s-signora Criss.
- Sì, lei.
Il ragazzino più grande osservò la fotografia con fare pensieroso: - E p-perché t-ti ha r-regalato qu-questa foto?
Georgie diede un’alzata di spalle: - Ha detto che voleva sbarazzarsene da tanto tempo, ma non riusciva a buttarla via perché l’aveva scattata una persona a cui voleva bene. Mentre parlava con la mamma ha saputo del mio album e quindi me l’ha regalata.
- C-capito.
Bill si grattò la nuca con aria confusa: - P-perché v-voleva sb-sb… oh, insomma, p-perché v-voleva buttarla? – sputacchiò, cercando invano di nascondere la frustrazione che l’assaliva ogni qualvolta dovesse trovare sinonimi alle parole che non riusciva a pronunciare senza incartarsi.
I volti dei due ragazzi della foto gli ricordavano qualcosa, ma sebbene si sforzasse non riusciva a trovare un collegamento con persone conosciute in passato.
- Prima ha detto semplicemente che era roba vecchia – spiegò Georgie – Ma visto che la mamma pensava volesse darmela soltanto per farmi contento, ha aggiunto che le faceva venire in mente brutti ricordi. Un’amicizia perduta, mi sembra.
Bill osservò a lungo l’immagine, riflettendo. Era senza dubbio una foto molto vecchia, scattata venti o trent’anni prima.
- T-ti ha d-detto d-di che anno è?
Il minore annuì con forza, facendo ballare i morbidi ricci castani sulla piccola testa: - Estate 1930.




***

Angolo dell’Autrice: Alla fine sono approdata anche in questo fandom. Ho letto It per la prima volta verso maggio e da allora sono entrata in fissa (e sì, immagino Bill con i capelli biondo rame e non rossi, pardon). Comunque, tutti coloro che seguono le mie storie non devono temere: la settimana prossima mi laureo, quindi non ho avuto tempo per scrivere in questi mesi, ma più o meno da metà Dicembre dovrei riprendere ad aggiornare.
Sono intanto riuscita a scrivere il prologo di questa storia, anche se il primo capitolo arriverà più avanti, essendo questa un’interattiva.
Come al solito, ribadisco che le interattive NON SONO VIETATE (le amministratrici hanno scritto un regolamento apposta) e che no, non significano “non ho voglia di inventare personaggi, lo facciano altri per me”.
Nella comunità facebook di cui faccio parte da anni siamo abituati a “scambiarci” i personaggi, visto che ci piace anche vederli muovere da una mente diversa dalla nostra.
Come ho spiegato nella presentazione, la storia sarà ambientata 27 anni prima degli eventi che accadono nel libro, quindi sarà incentrata sull’operato di It durante il ciclo precedente a quello del 1957-1958. Ho scelto di ambientare il prologo nel “futuro” per due motivi: primo perché mi piaceva l’idea di fare un riferimento alla storia originale (ed ero curiosa di scoprire come fosse scrivere dal punto di vista di Georgie e Bill), secondo perché la serie Doctor Who mi ha contagiata e amo le vicende che partono con enormi punti interrogativi per poi spiegare la situazione tramite un lungo flashback.
E per ora gli interrogativi sono questi: chi sono i ragazzi della foto? Che legame avevano con la signora Criss, alias la madre di Vic? (della quale, ebbene sì, scopriremo l’identità attraverso il flashback).
Ma soprattutto, quali oscure vicende si celano dietro ai dolorosi ricordi di un’amicizia perduta?
Grazie a chiunque vorrà leggere questa storia.
Tinkerbell92

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Capitolo 2
*** Romanzi dell'orrore in una serata estiva ***


CRIMSON SHADOWS




Derry, 19 Giugno 1930.



Anna Donovan detestava fortemente l’aroma della grossa candela che sua madre accendeva spesso in soggiorno.
Cannella. Dio, che tortura per le sue narici! Non ne aveva mai apprezzato il gusto, figurarsi l’odore.
Soffiò sulla fiammella con fare scocciato, per poi spalancare la finestra della sala, coprendosi il volto con un fazzoletto.
- Mi domando perché si ostini tanto a tenere accesa questa merda: le avrò ripetuto mille volte che non la sopporto!
- Lo sai che la mamma ha… problemi.
David fissò la sorella maggiore con fare rattristato, ricevendo in risposta un’occhiata torva.
- Vai a giocare in camera tua, Davey. Il salotto stasera serve a noi.
Il dodicenne alzò gli occhi al soffitto, ma si limitò a obbedire, mentre Anna invitava le due amiche ad accomodarsi.
Rose  Andersen rivolse un sorriso al ragazzino, mentre questi le passava accanto, poi spinse la sedia a rotelle su cui era adagiata Jackie Sullivan, posizionandola accanto al divano.
- Allora, Ninel – disse infine la bionda, prendendo posto sulla parte destra del sofà. – Che proposte hai per stasera?
- Aspetta – fece eco Jackie, portando una mano alla tempia e tendendo l’altra in avanti, agitando le dita come una strega che lancia un sortilegio. – Fammi indovinare… mmmh… tema Horror! Hai la faccia da Horror!
- Devo ancora capire esattamente in che modo la mia faccia si abbini ai generi che scelgo ogni volta – osservò Anna con un mezzo sorriso, mentre frugava all’interno della borsa che aveva poggiato sul tavolino poco prima. – Comunque… anche stavolta hai indovinato, razza di stronza!
Con un entusiasmo che soltanto pochi eletti le avevano visto manifestare in quasi diciotto anni, mostrò due libri rilegati con copertine di aspetto piuttosto datato.
- Frankenstein e Dracula! – annunciò. – Edizioni speciali! Queste meraviglie provengono dalle primissime ristampe.
- Ora tiro a indovinare io – s’intromise Rose. – Te li ha procurati la tua nuova fiamma.
- Nuova vecchia fiamma – ironizzò Jackie, ravvivandosi con fare civettuolo i ricci color rame. – La tua fiamma… quarantenne?
La primogenita di Rick Donovan rispose battendo vezzosa le lunghe ciglia: - Trentotto. Ne ha trentotto. Una persona di quell’età io non la definirei vecchia. E poi, non è nemmeno una “vera” fiamma, sa benissimo che la nostra relazione è soltanto fisica. Io amo e amerò una sola persona per il resto della mia vita e ho messo in chiaro questa cosa fin da subito.
- Ma sì, finché ci procura i libri che vogliamo, può avere tutti gli anni che vuole. Con cosa iniziamo?
Anna aprì la bocca per rispondere, quando un ticchettio di scarpe col tacco portò lei e le due ospiti a voltarsi verso l’ingresso del salotto.
Jamie Donovan sfoggiava con un certo orgoglio l’abitino rosso bordeaux che sua madre, a cui era appartenuto durante gli anni dell’adolescenza, aveva fatto rimodernare appositamente per lei.
Era una sedicenne dal volto radioso, completamente diversa dalla sorella maggiore: i suoi occhi erano grandi e azzurri, invece che scuri e leggermente a mandorla; i suoi capelli erano castani e lisci, invece che neri e mossi, ed era piuttosto bassa e dotata di piacevoli curve, invece che alta e allampanata.
Ma soprattutto, Jamie era calorosa e accogliente, come un piccolo raggio di sole.
- Annie – cominciò, tenendo le mani dietro la schiena. – Sai che le feste organizzate da Dot Fadden a fine anno scolastico sono sempre… piuttosto eleganti…
- Beh, che ti aspetti – replicò la maggiore, fingendo di non aspettarsi una richiesta imminente. – Sta a West Broadway, la zona dei ricconi.
- Ecco appunto… volevo chiederti… potresti prestarmi il tuo braccialetto?
Sporse appena il labbro inferiore in avanti, mentre mostrava il piccolo gioiello che aveva tenuto nascosto, fino a quel momento, dietro la schiena.
Era un bracciale di perle appartenente alla famiglia Donovan da generazioni, l’eredità fissa di ogni primogenita femmina. L’ultima a possederlo, prima di Anna, era stata nonna Kate.
Rose emise un fischio di sorpresa, mentre Jackie diede un’alzata di spalle, rivolgendosi poi all’amica dai capelli scuri: - Effettivamente, si abbina bene al suo vestito… e poi parliamo di una festa a West Broadway…
Annie alzò gli occhi al soffitto, per poi sospirare: - Sì, va bene, puoi prenderlo. Ma stai attenta a non perderlo!
La minore lanciò un gridolino di gioia, per poi fiondarsi ad abbracciare la sorella: - Graziegraziegrazie!
- Cerca di non tornare tardi – si raccomandò l’altra, fingendosi distaccata ma ricambiando l’abbraccio con un piccolo sorriso. – E soprattutto, telefona a casa, se nessuno può accompagnarti, vengo a prenderti io.
- Sì, sì, non preoccuparti – replicò spiccia Jamie, stampandole un bacio sulla guancia. – Sei la migliore. Oh, il campanello, dev’essere Bess! Ci vediamo domani. Ciao ragazze!
- Ciao, Jamie! – fecero eco Rose e Jackie, mentre Anna osservava la sorellina sfrecciare fuori dal salotto, un po’ barcollante per via dei tacchi.
Non appena il rumore della porta di casa annunciò che Jamie era uscita, la mora del trio prese posto sul divano, accanto all’amica, e poggiò uno dei libri prescelti sulle gambe: - Bene, stasera, se a lor signore compiace, comincerò con Dracula.



La creatura strisciava furtiva tra le siepi che circondavano i grandi giardini delle abitazioni di West Broadway. Era rapida e silenziosa come un’ombra, i suoi movimenti erano tanto fluidi e leggeri da smuovere il fogliame in modo quasi impercettibile.
Evitava con cura le zone illuminate dai lampioni, fondendosi alla perfezione col buio della notte.
Si fermò nei pressi di una grande villa: le finestre aperte lasciavano fuoriuscire una musica piuttosto orecchiabile, mista a un concitato chiacchiericcio.
Una cinquantina abbondante di studenti pascolava per il cortile come un branco di succulente pecorelle, i sorrisi stampati in volto, gli abiti eleganti e le scarpe da ballo ai piedi.
Ce n’erano altri, all’interno della casa. Tutti felici, tutti presi dalla festa, tutti ignari.
La creatura si spostò sul retro, accovacciandosi nell’angolo più buio del giardino. E lì, attese.
Sapeva che, prima o poi, qualcuno di loro si sarebbe fatto un giretto da quelle parti. Matematico. Gli umani ormai erano meravigliosamente prevedibili per lei.
La sua intuizione non tardò a rivelarsi esatta: ne percepì la presenza prima ancora di vederlo. Sapeva già tutto di lui. Lei conosceva ogni cosa.
Brenton Reynold, diciotto anni, figlio di Brendan e Janette, ricco e viziato, terrorizzato dalle streghe. E, in quel momento, pesantemente ubriaco.
Lo guardò avvicinarsi, perfettamente nascosta tra le fronde della siepe. Riusciva a percepire il suo odore, il flusso del sangue all’interno delle sue vene…
Brenton si abbassò i pantaloni, barcollando, poi fu la volta delle mutande. Biascicò qualcosa di incomprensibile, mentre si afferrava il membro e cominciava a orinare.
Aveva un’espressione terribilmente stupida stampata in volto.
- Brenton…
La voce della creatura era femminile e suadente, ma allo tempo stesso gelida. Il ragazzo sussultò, schizzando un po’ di urina sui pantaloni.
Si guardò attorno, cercando di aguzzare la vista, poi balbettò: - Chi… chi c’è?
Un sorriso nel buio.
- Sono un’amica speciale, Brenton… un’amica molto speciale!
Brenton gridò, incespicando e cadendo dritto sul fondoschiena. Cercò di allontanarsi, muovendo freneticamente gambe e braccia, ma i calzoni abbassati e l’alcol in corpo gli ostacolavano ogni movimento.
La strega sbucò fuori dalla siepe, sghignazzando sguaiatamente. Dopodiché, si avventò su di lui.



- Ma lei non dorme, e fa come se neanche io ci fossi. Continuo a provare e a riprovare, fino che a un tratto ci ritroviamo, lei e anch’io, al buio; mi guardo intorno e vedo che intanto il sole è andato già. Madame Mina ride, e io mi volto a guardarla. Adesso è sveglia del tutto, e sembra che stia così bene come mai l’ho vista da quella notte a Carfax, quando siamo entrati per la prima volta in casa di…
Lo squillo del telefono interruppe l’appassionata lettura, strappando ad Anna una sonora imprecazione. Posò il libro aperto sulle gambe di Rose e, con passo stizzito, uscì dalla sala, raggiungendo l’apparecchio sistemato sul comodino all’ingresso.
- Chiunque tu sia, spero per te che sia importante… pronto?
- Ciao Annie, sei tu?
Una morsa allo stomaco. I lineamenti della ragazza si indurirono, mentre una sgradevole sensazione di oscurità cominciava a vorticarle nel petto.
- Ciao Butch. Che cosa vuoi?
- Ti sto disturbando?
Anna stritolò il filo del telefono con le dita della mano libera.
- A dire il vero sì. Ci sono Rose e Jackie, stiamo leggendo un libro.
- Ah, capito, allora cercherò di essere breve: immagino saprai della festa per i diplomati di quest’anno a casa di Tony Gordon…
- Sì, sono stata invitata. Perché ti interessa? Tu non sei un neo-diplomato…
- No, ma ho trovato il modo di imbucarmi! Mi sono offerto come rifornitore di vino!
- Ah… grandioso…
Alcuni istanti di silenzio, interrotti dai dieci rintocchi dell’orologio a pendolo.
- Sai Annie, stavo pensando – riprese infine Butch. – Dopo quest’estate ve ne andrete quasi tutti… immagino che anche tu vorrai allontanarti da Derry…
- Vorrei, sì – rispose lei, sulle spine. – Spero di riuscire. Con… con questa crisi non si possono avere certezze. Persino alcuni ragazzi di West Broadway stanno avendo delle difficoltà… senza contare il fatto che sono una donna…
- Beh, sì, certamente. Però ecco, mettiamo caso che riusciate ad andarvene: dopo quest’estate, sarò solo come un cane…
 “E di chi sarebbe la colpa?” pensò ironica la primogenita Donovan, mordendosi la lingua.
- … e perciò pensavo… potremmo approfittare della festa dai Gordon per fare una rimpatriata e poi uscire un po’ insieme, come ai vecchi tempi, divertirci, fare qualche scherzo in giro... ho già chiamato i ragazzi, che mi hanno detto di sì. Mi manca solo la tua risposta.  
- Io…
La morsa allo stomaco si fece più insistente.
- Io non lo so, Butch. Dopo quello che è successo cinque anni fa, io…
- Ma dai, Annie, non succederà niente di male, faremo giusto qualche scherzetto innocuo…
- Anche quello fatto a Warder doveva essere uno scherzetto innocuo, Butch – replicò Anna in tono tagliente.
Il ragazzo esitò per qualche secondo: - Sì, ma… ma questa volta sarà diverso! Suvvia, Annie, non abbiamo più tredici anni!
- No, infatti. Non abbiamo più tredici anni.
(E se a tredici anni siamo stati capaci di fare certe cose, pensa cosa potremmo combinare adesso…)
 Butch si schiarì la voce: - Beh, potresti almeno pensarci? In nome della nostra vecchia amicizia?
- Io…
- Mi manchi, Annie. La verità è questa. Mi manchi più di tutti gli altri. Sai che io non chiedo mai “per favore” a nessuno, a te invece chiedo, per favore, puoi almeno pensarci?
La ragazza dai capelli scuri sospirò, chiuse gli occhi e aggrottò la fronte.
- Ci penserò.
- Ottimo! Allora ci vediamo alla festa di Gordon?
Anna strinse la lingua tra i denti, un nodo alla gola le tolse quasi il respiro.
- Sì… ci vediamo alla festa di Gordon…
- Perfetto. Grazie Annie, salutami le ragazze! Buonanotte!
- Buonanotte.
Rimise la cornetta al proprio posto, quasi lasciandola cadere. La sensazione di oppressione scemò lentamente, lasciando spazio a un fastidioso senso di vuoto.
Tornò in salotto senza aprir bocca, il volto congelato in un’espressione gelida. Si rese conto a malapena del tragitto che la portò a sedersi nuovamente accanto a Rose.
La bionda le posò una mano sul ginocchio, richiamando la sua attenzione: - Ninel… stai bene?
- Anche stavolta la tua faccia parla chiaro – fece eco Jackie, cercando di assumere un tono
ironico per sdrammatizzare, ma trasparendo un certo disagio. – Bowers?
- Bowers – annuì Anna, stringendo i pugni.
Le due giovani ospiti si scambiarono un’occhiata tesa.
- Cosa voleva? – domandò quindi Rose.
Anna drizzò la schiena, sospirando: - Vorrebbe recuperare i rapporti con me e gli altri, passare del tempo insieme prima che ce ne andiamo dalla città. Ammesso che la crisi economica ce lo permetta, insomma. La Banda Bowers riunita per l’ultima volta.
Jackie serrò nervosamente le dita attorno ai manici della sedia a rotelle: - Che cosa gli hai risposto?
- Ho detto… - la morsa allo stomacò ricominciò a dare tormento. -  Ho detto che ci penserò.
Rose prese le mani della coetanea tra le proprie: - Non sei costretta a farlo, se non ti va, Ninel.
- Lo so… preferirei cambiare discorso – tagliò corto infine la mora, afferrando nuovamente il libro. – Siamo quasi alla fine. E sapete che vi dico? Io non capisco perché la gente veda qualcosa di romantico nel rapporto tra Dracula e Mina. Mi pare un concetto totalmente infondato! A me sembra palese che Mina sia innamorata di Lucy e ricambiata. E non so voi, ma per me Dracula è  piuttosto invaghito di Jonathan.  
Rose sorrise, mentre Jackie diede un’alzata di spalle: - È possibile, la figura del vampiro presenta senz’altro dei collegamenti con il mondo omosessuale. Un esempio esplicito è il romanzo Carmilla.  
- Vorrei leggerlo da tempo – disse Anna, passando distrattamente il dito indice sulle pagine del libro aperto. – Chiederò a chi sappiamo di procurarmelo. Bene, ora direi che possiamo andare avanti con il nostro caro conte .
Riprese il racconto come se nulla fosse, mantenendo viva l’attenzione delle compagne con un’ammirevole prova di lettura espressiva, ma dentro di sé continuava a macerare il senso di angoscia e disagio che le aveva provocato la conversazione avvenuta poco prima con il vecchio amico.
Lei e Butch Bowers erano stati a lungo inseparabili. Ricordava con chiarezza quel tempo in cui, spesso, bastava un semplice sguardo per capirsi a vicenda, quel tempo in cui finivano  insieme in punizione per aver infranto le regole, quel tempo in cui uscivano entrambi di casa di nascosto e si trovavano per comprare quanti più dolci possibili, da gustare rigorosamente seduti all’ombra degli alberi del parco cittadino.
Ricordava le corse in bici, le sfide di coraggio, le scorribande nei Barren.
Sì, talvolta Anna Donovan sorrideva pensando agli anni della propria infanzia e agli albori dell’adolescenza.
Ma il sorriso si spegneva subito quando un tipo diverso di memorie affiancava quelle spensierate e piacevoli: essere amica di Butch l’aveva portata a fare delle cose di cui si era pentita amaramente, cose di cui si vergognava ancora.
E poi… e poi c’era stato quel maledetto giorno di cinque anni prima, il giorno che l’aveva portata a rompere definitivamente i contatti con quello che era stato, fino a quel momento, il suo migliore amico.
(Questa volta sarà diverso!)
Lei gli aveva dato fin troppe occasioni. Si sentiva in colpa persino per questo.
(Non abbiamo più tredici anni!)
Butch non era mai stato in grado di capire quando fosse il momento di fermarsi. Non aveva mai imparato dai propri errori. Possibile che in quei cinque anni fosse cambiato?
(Mi manchi, Annie. Mi manchi più di tutti gli altri. Questa volta sarà diverso!)
No, non avevano più tredici anni. Ed era proprio questo a farle paura.





***
Angolo dell’Autrice: Ho deciso di continuare questa storia, anche se non come interattiva per questioni organizzative.
Spero che il primo capitolo risulti soddisfacente, che non ci siano incongruenze e che il testo sia scorrevole. Naturalmente, c'è un motivo se le protagoniste presentano una mentalità piuttosto aperta parlando di omosessualità, nonostante l'epoca in cui sono cresciute.
Grazie per aver letto, alla prossima!

Tinkerbell92

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Capitolo 3
*** Jamie è a casa ***


CRIMSON SHADOWS



Derry, 20 Giugno 1930



La strada buia e deserta donava un senso di pace interiore che Anna raramente riusciva a provare.
Pochi minuti prima, l’orologio a pendolo del salotto aveva emesso due flebili rintocchi.
Rose e Jackie se n’erano andate verso mezzanotte e mezza, più o meno nello stesso istante in cui i signori Donovan erano rincasati.
Neanche un’ora più tardi, Jamie aveva telefonato per avvertire che sarebbe andata a dormire da Bess.
Anna aveva atteso che i genitori si addormentassero, poi, lasciando un biglietto sul tavolo della cucina, aveva preso la propria patente e le chiavi della Renault grigia.
Le capitava spesso di avvertire l’irrefrenabile bisogno di guidare per le vie illuminate soltanto dalla luce irregolare dei lampioni, disabitate, silenti.
Dopo anni passati ad affrontare i problemi dell’insonnia, Anna aveva finalmente trovato un’attività che le donasse… beh, forse non gioia, ma di certo una singolare serenità.
Poche ragazze della sua età erano in grado di guidare, a Derry. Lei aveva insistito a lungo con suo padre, prima che lui si decidesse a insegnarle.
Non che Richard Donovan fosse un osso duro o un tradizionalista, anzi. Probabilmente, lui avrebbe acconsentito alla prima richiesta, se la moglie non si fosse messa in mezzo con le sue paranoie.
“Guidare è pericoloso, Annie. Perché vuoi metterti in pericolo da sola, Annie? Di solito le ragazze non guidano, Annie.”
Bah. Quante storie inutili.
Anna giunse all’incrocio di Kansas Street, rallentando gradualmente. Girando a sinistra, avrebbe proseguito fino a costeggiare la zona dei Barren; a destra, si sarebbe trovata ben presto in quello che considerava il centro della vita civile della città.
Per dove svoltare?
Alzando lo sguardo, oltre il parabrezza, notò l’enorme cartellone, ormai scolorito, che riportava al tempo delle elezioni cittadine: il sindaco Parker Boone sorrideva con aria beota, con il suo elegante completo gessato e la stempiatura accentuata.
Anna osservò l’immagine con un ghigno, colta da un’illuminazione.
Avviò nuovamente il motore, girando a destra.
C’era una sola persona a Derry capace di restare sul posto di lavoro fino a tarda notte, ben oltre l’orario di chiusura, dormendo poggiata alla scrivania pur di passare meno tempo possibile a casa.
La ragazza proseguì spedita, percorrendo quasi per intero Kansas Street, arrestando la corsa soltanto quando si trovò davanti alla grande biblioteca.
Parcheggiò con precisione millimetrica, in barba a ciò che diceva spesso il padre di Butch Bowers sulle abilità di guida delle donne.
(Questa volta sarà diverso, Annie!)
Si ravvivò leggermente i capelli, riflettendosi nello specchietto retrovisore, e, forse con un po’ troppo zelo, uscì dal mezzo, sigillando la portiera e raggiungendo con un paio di falcate la porta d’ingresso della Derry Public Library.



La creatura non era ancora sazia. Strisciava tra le ombre, alla ricerca di nuove prede.
Finalmente, un ticchettio di passi sul marciapiede attirò la sua attenzione. Sogghignò, riducendo gli occhi a sottili fessure: erano due ragazze, carine e giovanissime.
Camminavano da sole nella viuzza scura e solitaria, rapide e guardinghe, venivano dritte verso di lei.
La creatura fiutò la tensione che attanagliava le loro adorabili menti fanciullesche. Temevano un agguato. Temevano gli aggressori.
Una di loro temeva i vampiri.
Si acquattò dietro un grosso albero. I suoi canini superiori cominciarono ad allungarsi.



Anna suonò il campanello un paio di volte. Abbozzò un sorrisetto quando vide un fascio di luce divampare attraverso una delle finestre del pianterreno e si lasciò sfuggire un ghigno quando una vocina insicura e lievemente assonnata domandò: - Chi è?
- Chi vuoi che sia, a quest’ora? – replicò la ragazza.
Tre giri di chiave.
La porta si aprì: oltre la soglia, c’era una donna dall’aria raffinata e sobria, longilinea, sulla quarantina. I suoi capelli, folti, lucenti, e tagliati all’altezza del mento, erano di un intenso castano dorato, mentre i suoi occhi oscillavano tra incerte sfumature di verde e marrone.
Un’espressione di piacevole sorpresa illuminava i suoi graziosi lineamenti.
- Annie – mormorò. – Cosa ci fai qui?
Miss Donovan replicò con un sorrisetto furbo, le mani nelle tasche dei pantaloni neri: - Soffro d’insonnia, dovresti saperlo, Daisy.
La bibliotecaria scosse la testa, le labbra piegate verso l’alto: - Entra.
Anna accettò l’invito senza troppe cerimonie. Attese che la donna mettesse in sicurezza la porta d’ingresso con i tre soliti giri di chiave, poi si lasciò condurre da lei fino al grande bancone in legno a cui, di giorno, ella sedeva lavorando incessantemente, segnando i prestiti, rispondendo con cortesia alle domande della gente e scorrendo elenchi infiniti.
- Anche oggi ti toccano gli straordinari, eh? – commentò la diciassettenne con ironia, leggiucchiando distrattamente alcune delle carte sparse sul tavolo da lavoro.
- Già – rispose Daisy, con la medesima punta di ilarità, mentre copriva le finestre con le spesse tende bordeaux. – Un’altra notte fuori casa.
- Al tuo maritino mancherai tantissimo – ridacchiò la più giovane.
- Oh, sicuro.
La donna fece una smorfia: - Tornare a casa per sentirmi ripetere ogni volta che quello che faccio è inutile, che lui può darmi una vita da regina, restando a casa tutto il giorno a farmi servire dai domestici, e io, invece, mi ostino con questo lavoro da ceto medio! Sono tutti…
- … capricci inutili, Daisy! – terminarono assieme, in una perfetta imitazione del simpatico marito riccone.
Entrambe scoppiarono a ridere.
Daisy scostò un ciuffo ribelle dal volto di Anna, scivolando poi con le dita sulla sua guancia pallida.
Ora che indossava i tacchi, riusciva più o meno a eguagliare la giovane in altezza.
Miss Donovan ridusse gli occhi scuri a due fessure, osservando la donna con fare malizioso e quasi inquisitorio: - Credo proprio che la mia insonnia mi torturerà ancora per qualche ora, Miss Doppler. O forse dovrei dire… Signora Boone?
Calcò di proposito le ultime due parole: Daisy si presentava sempre con il proprio cognome, mai con quello del marito. Era un concetto che lei stessa condivideva ampiamente.
- Sei terribile – mormorò la bibliotecaria.
- Oh, sì. Non hai idea di quanto!
Senza preavviso, premette con veemenza le labbra contro quelle della donna più vecchia, serrando una mano sul suo fianco sottile e l’altra sulla sua coscia.
Daisy emise un gemito di sorpresa, abbandonandosi però completamente a quel contatto poco casto, portando entrambe le mani sui lati del volto della ragazza.
Anna la sollevò con poco sforzo, facendola sedere sul bancone e portandola a intrecciare le gambe attorno alla propria vita.
Alcuni foglietti volarono sul pavimento.
Le labbra della diciassettenne si staccarono lentamente da quelle della bibliotecaria, scivolando lungo la pelle liscia della mascella, fino a raggiungere il collo sottile e profumato.
Non represse l’istinto di mordicchiare.
Daisy emise un gemito.
- Sono sicura che tuo marito non ti fa tutte queste cose carine che ti faccio io – mormorò sadica la giovane, risalendo con la punta della lingua fino al lobo dell’orecchio dell’amante, decorato con un piccolo orecchino perlato.
- Mmmh, ma figurati – soffiò l’altra, a occhi chiusi, la testa leggermente inclinata all’indietro. – Anche se sai che… tutto questo è sbagliato…
- Sbagliato – ripeté Anna, emettendo un suono simile alle fuse della propria gatta.
- Sei così… giovane… - gemette Miss Doppler, mentre le mani della ragazza cominciavano a sollevarle lentamente gli orli della gonna. – Non hai nemmeno diciotto anni…
- Li faccio a Novembre. Ma dentro sono una quarantenne.  
– Potresti essere… mia figlia…
- Già. Che brutta cosa. Siamo due laide peccatrici. Sicura di non provare alcun rimorso per il tuo caro maritino?
Daisy si scostò appena, rivolgendole uno sguardo volpino: - Chi se ne frega di quell’idiota!
Anna si avventò nuovamente sulle sue labbra con un ghigno. Le scoprì del tutto le gambe snelle, spostando le dita sull’orlo delle mutandine bianche.
Cominciò a sfilarle con lentezza esasperante.
- Lo sai – mormorò contro la bocca della donna. – Puoi sempre fermarmi, se vuoi.
Daisy non la fermò.



Otto rintocchi.
La pressione di quattro zampette famigliari che si spostavano qua e là sulla sua schiena.
Anna sollevò pigramente il volto dal cuscino, strofinandosi con una mano gli occhi solcati da profonde occhiaie scure.
Era tornata a casa alle quattro del mattino, ma il sonno era sopraggiunto soltanto un’ora dopo.
Tysha balzò sul cuscino, cominciando a strusciarsi contro il mento della ragazza. Era un grazioso felino dal manto nero, che viveva con la famiglia Donovan da cinque anni e aveva stretto un legame quasi simbiotico con la maggiore dei tre fratelli.
Non amava gli sconosciuti e tendeva a mostrarsi piuttosto schiva, ma chiunque fosse riuscito a entrare nelle sue grazie avrebbe guadagnato di certo un sacco di fusa e plateali manifestazioni d’affetto.
Anna rispose alle effusioni della gatta con una serie di grattini sul pelo folto, poi le diede un bacio sulla testa e si alzò dal letto di malavoglia.
Si trascinò fino allo specchio, cercando di assumere una parvenza vagamente umana, poi, spalancò le finestre, si avvolse in una vestaglia leggera e uscì dalla stanza.
Tysha la seguì, strusciandosi contro le sue caviglie nude.
- Sei andata a caccia, stanotte? – domandò la diciassettenne, prendendo in braccio il piccolo felino non appena cominciò a scendere le scale. – Mi è sembrato di notare delle macchie di sangue sul vialetto, quando sono tornata. Mi auguro tu non abbia portato i resti delle tue vittime dentro casa. Ci manca solo che alla mamma venga un’altra delle sue crisi isteriche.
Il suo tono, solitamente duro e distaccato, assumeva tinte mielose ogni volta che si rivolgeva all’adorata gatta.
Raggiunsero insieme il piano di sotto: David e sua madre stavano chiacchierando in cucina, suo padre, invece, si aggirava per il salotto con una tazza di caffè in mano e una calcolatrice nell’altra.
Ogni tanto si fermava, mormorava qualcosa tra sé, poi eseguiva un rapido calcolo e annuiva soddisfatto.
- Buongiorno, tesoro – disse, non appena la figlia maggiore passò davanti alla soglia della sala. – Sei riuscita a dormire, stanotte?
- Tre ore circa – rispose la ragazza, raggiungendo la porta d’ingresso e cominciando a girare la chiave nella serratura. – Faccio uscire Tysha, poi vado a mangiare qualcosa. Jaime non è ancora tornata?
- No – rispose l’ingegnere, prendendo un sorso di caffè e immergendosi nuovamente nei propri calcoli. – Lei e Bess  saranno andate a dormire tardi. Avremo loro notizie forse tra un paio d’ore – aggiunse infine, con un mezzo sorrisetto.
Anna posò la micia nera a terra, poi aprì la porta, permettendole di sgusciare all’esterno.
Stava già per richiudere, quando qualcosa sullo zerbino, una grossa accozzaglia di macchie bianche e bordeaux, intravista la coda dell’occhio, attirò la sua attenzione.
Guardò in basso. Mise a fuoco. Batté le palpebre, in un attimo di confusione iniziale.
E poi l’aria attorno a lei divenne gelida, densa e opprimente.
Una morsa di ghiaccio le serrò la gola, mentre le sue gambe, lunghe e forti, divennero all’improvviso fiacche, prive di forza. Dovette aggrapparsi al portone, sostenersi con le braccia per impedirsi di cadere.
Jamie era tornata a casa. O meglio, qualcuno l’aveva portata lì. Lasciandola sullo zerbino, accasciata a terra in una posa contorta e innaturale, bianca come un lenzuolo, gli occhi chiari sbarrati e vitrei, la gola sudicia di sangue ormai rappreso.
Tysha si muoveva inquieta attorno al suo corpo, annusando, toccandole di tanto in tanto la pelle fredda con una zampetta, confusa.
Anna si rese conto di aver smesso di respirare da un pezzo soltanto quando avvertì un fastidioso capogiro.
Emise un sibilo strozzato, afferrando spasmodicamente la maniglia della porta, quasi a cercare un qualsiasi appiglio che la tenesse ancorata alla realtà.
Il mondo si fece ovattato e silenzioso, impedendole di udire la sua stessa voce, mentre chiamava il padre, ripetutamente.
Non udì i passi di lui che si avvicinarono. Non udì lo schianto della tazza sul pavimento. Non udì le sue urla, mentre si accasciava sul corpo della secondogenita.
Rimase immobile, congelata in un oblio di incredulità.
Nel giro di poco, anche sua madre era china su Jamie, urlando, piangendo, graffiandosi il volto.
Era tutto assurdo. Tutto surreale.
- … qualcuno, Annie!
Ah… i suoni tornarono, confusi ma non abbastanza da impedirle di decifrarli.
- Annie!
La voce di suo padre.
- Chiama qualcuno, Annie!
Chiamare qualcuno. Sì.
Anna si voltò, il viso paralizzato in un’espressione di inquietante neutralità. Si scontrò con David, che, chissà da quanto, aveva osservato la scena appostato dietro di lei.
- Vai in camera tua, Davey – gli disse.
Si avviò verso il telefono con la sensazione di essere immersa in una grossa bolla. Sollevò la cornetta. Compose un numero automaticamente.
Una voce femminile rispose dopo pochi istanti, gracchiante, fastidiosa.
- Dipartimento di Polizia di Derry, qual è la Sua emergenza?
- Emergenza…
(Quale emergenza?)
- Signora? Signorina? È ancora lì?
- Sono Anna Donovan. Chiamo dal numero 15 di Jackson Street.
(Jamie è a casa).
- Qualcuno ha ucciso mia sorella.
(Jamie è tornata a casa dalla festa).
- Abbiamo appena trovato il suo corpo davanti alla porta di casa. Sullo zerbino.
Non attese la risposta. Riagganciò, per poi sollevare di nuovo la cornetta e chiamare l’ospedale, nonostante fosse inutile.
Parlò in tono piatto, privo di emozioni. Era come se fosse qualcun altro a parlare al posto suo.
Le sembrò quasi di osservare la scena dall’esterno, vedere una ragazza allampanata con i capelli neri e il volto di porcellana quasi pietrificato che metteva insieme delle frasi in modo automatico.
Infine, fece una terza chiamata.
- Ninel? Ninel che succede?
La voce di Rose portò uno strano senso di tepore, che cominciò a irradiarsi in tutto il suo corpo, sciogliendolo dalla paralisi di ghiaccio.
E insieme alle membra intorpidite, anche le emozioni iniziarono a sbloccarsi lentamente.
- Jamie… qualcuno ha ucciso Jamie…
- Cosa? Che stai dicendo? Cos’è successo?
- L’abbiamo trovata sullo zerbino appena adesso… dissanguata…
Alcuni istanti di silenzio. Il respiro di Rose cominciò a farsi affannoso.
- Ninel… oddio… oh cielo…
- Puoi chiamare tu Jackie?
- Sì… sì chiamo Jackie, poi vengo lì. Vengo da te. Tra poco sono lì, Ninel.
Riagganciarono quasi in contemporanea. E fu allora che la paralisi fisica ed emotiva si sbloccò completamente.
Anna cadde sulle ginocchia, il respiro mozzato, lacrime calde le rigarono le guance.
Poi urlò. Urlò fino a quando non provò la sensazione di avere una bolgia infernale all’interno della gola.





***
Angolo dell’autrice: Bene, ecco il nuovo capitolo.
Spero sia stato di vostro gradimento, è forse più corto del precedente e molto centrato su un singolo personaggio, ma mi auguro non sia stato noioso o brutto.
Entriamo nel vivo della storia con una specie di parallelismo tra Anna e Bill, a distanza di ventisette anni. Georgie e Jamie erano due raggi di sole ç_ç
Naturalmente, la mia protagonista ha un carattere completamente diverso dal leader dei Perdenti, è un personaggio molto grigio, non sempre piacevole (probabilmente a qualcuno starà pure antipatica) che porta una maschera di ghiaccio per celare emozioni molto forti.
Mi auguro che la storia tra lei e la bibliotecaria non abbia turbato nessuno.
Dal prossimo capitolo cominceranno ad avere maggior peso anche gli altri personaggi, alcuni li avete già conosciuti, altri verranno introdotti.
Grazie per aver letto, alla prossima!

Tinkerbell92

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