Rianima la mia anima.

di _Teartheheart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Rianima la mia anima. 
Prologo. 
 
Cinque anni dalla mia morte, cinque anni da quando la mia vita si è spezzata, da quando ho attraversato quel vicolo cieco cercando di scappare da quel mostro, da dove sono rimasta immobile, aspettando che tutto finisca. 
Non è facile da spiegare ciò che ho passato, ricordo ancora le sue sudice mani su di me, mentre cercava di marchiarmi, ricordo le mie di mani che cercavo di scansarlo con tutta la forza che tenevo nel mio corpo, ricordo anche di aver pianto, tanto ma non urlavo, non ci  riuscivo. 
Ricordo di aver pensato che era finita che stesse per uccidermi, perché lo avevo visto in viso, pensavo che quando avesse finito il suo divertimento mi avrebbe uccisa, ma così non è stato, non è riuscito a finire il suo diverto e non h potuto nemmeno uccidermi, quando un passante ha sentito i mie gemiti e le parole forti del mostro si è fermato urlando verso di lui. 
«Che stai facendo?» diceva, ricordo solo questo, poi il buio. Mi ritrovai qualche ora dopo nella stanza di un ospedale, attorno a me i miei volti più cari, mia madre, mio padre e mio fratello, ricordo i loro pianti, mi fissavano, ero morta? Era la mia anima che li stava fissando? Contemplavo il loro dolore?
No. Erano solo afflitti da ciò che mi era accaduta, la guardavo, guardavo la donna che mi aveva messa al mondo, ed avevo vergogna, come ho potuto lasciare che tutto questo accadesse? Perché è successo? Era stata colpa mia? Perché ho attirato l'attenzione di quel mostro quel pomeriggio? 
Ricordo che mia madre fece per avvicinarsi, voleva abbracciarmi ma il mio istinto fu di allontanarmi, di non lasciare che qualcuno si avvicinasse al mio corpo, nessuno, nemmeno i dottori. Per quest'ultimi fu difficile, dovevo lasciarli fare ma non ci riuscivo, il suo avvertire qualcuno che volesse toccarmi mi metteva i brividi. Dovettero sedarmi, ed io li lasciai fare ... non sentire nulla era ciò che volevo. 
Il 6 Dicembre dell'anno 2010 io morì, non il mio corpo, ma la mia anima, cessò di vivere nello stesso istante che quel maligno mi ha marchiata. 

Cinque anni dopo, dopo cinquanta psicologi e vari psicofarmaci, sono ancora qui con la mia mente ferita, e il mio corpo marchiato. 
Mi alzo, per la milionesima volta sono pronta ad andare dal mio nuovo psicologo, credo che tra poco qualsiasi collega di questi ultimi, metteranno il mio viso sulle bacheche con la scritta ''EVITATELA'' e come dargli torto, quando mi siedo sui loro divano, il mio silenzio si fa strada nel loro. 
Aspettano una mia reazione, ma io non ho mai parlato con nessuno di loro, mi limitavo ogni volta  a guardare la lancetta aspettando che questa passasse l'ora in cui sarei rimasta li. 
Non credo che qualcuno possa riportarmi in vita, sono morta, dentro. 
Nessuno può rianimare la mia anima, non esiste cura per la mia malattia. 
Guardo la mia stanza, diversa da quei lontani cinque anni, dopo essere uscita dall'ospedale decisi di cambiarla, rammento il mio urlo arrivata in camera mia, le mie mani contro i mobili lanciati sul pavimento, la carta da parati strappata, mio padre che cercava di calmarmi, ed io che lo respingevo, urlando ancora più forte. 
Sento bussare alla porta, sono seduta sul letto indecisa su quale calze indossare, come se qualcuno le notasse, opto per quelle nere. «Avanti» dico, mia madre entra con gran sorriso, le sorrido a mio volta, non è come il suo però, il mio è finto quello della mia dolce mamma ritrae qualcuno che ha ancora speranza contro la ragazza svampita che si ritrova davanti. 
Quando guardo mia madre mi rivedo io tra qualche anno, certo i suoi occhi sono blu come la notte, i miei occhi sono uguali a quelli di mio padre, neri come l'oscurità che mi attanaglia, i capelli rossi li ho presi da lei però, lei ha quel rosso naturale che tutti le invidiano, anch'io li avevo di quel colore, ma poi decisi che non mi bastava, così ho colorato i miei capelli di un rosso più scuro. 
Il naso è uguale, sottile e all'insù, le labbra carnose con una fossetta ai lati ogni volta che apriamo bocca. 
Si siede accanto a me, appoggiando la sua mano sulla mia spalla, non mi ritraggo, su una cosa ho fatto progresso, sul fatto di aver un contatto fisico con le persone, o almeno con la mia famiglia, di loro mi fido e li lascio abbracciarmi di tanto in tanto, mi aiuta. 
«Sei pronta ad andare dal nuovo psicologo?» mi chiese lei tutta entusiasta, ironicamente dissi: «Yeah, sono contentissima» lei sbuffa e un po sembra arrendersi ma si riprende immediatamente «Charlotte, prima o poi dovrai parlare con qualcuno di ciò che ti è accaduto, ti farà bene tesoro» stava continuando ma io mi alzò in segno di resa agitando le mani in aria
«Va bene, va bene, cinque minuti e andiamo» 
Mi ritrovo fuori dalla porta del mio nuovo e inutile psicologo, mi madre mi dice che tornerà fra un ora, la salito per poi entrare dentro lo studio, tra me e me sorrido, pensando a questo povero uomo che dovrà sopportare i miei infiniti silenzi. 
Mi siedo in sala di attesa, sono sola, nessuno tranne me occupa quella sala con tante sedie, mi soffermo sul tavolino al centro pieno di riviste con su titoli ''Ti aiuterò'' oppure ''Abbandona i tuoi demoni'' erano le stesse riviste, viste in ogni psicologo conosciuto da cinque lunghissimi anni, dovrò cercane alcune nuove per loro, almeno mi rendo utile. 
Dieci minuti dopo, un uomo sulla cinquantina esce, salutando il dottore dietro di lui, ringraziandolo ripetutamente, l'uomo sembrava felice, o forse no, ma comunque non m'interessava. 
Quando quest'ultimo andò via, una voce roca attirò la mia attenzione «Charlotte Graham?» chiede, io mi alzo prendendo un grosso respiro prima di entrare dentro la camera delle torture. 
«Piacere Charlotte» dice porgendomi la mano, io non ricambio il saluto mi limito a fare un cenno con la testa, non posso però ammirarlo, è giovane, non è il solito vecchio rimbambito o vecchia che mi ritrovo davanti. 
Il suo capelli sono castani leggermente ondulati e perfettamente curati, i suoi occhi verdi attirando la mia attenzione, sembra esserci il mondo dentro, le sue labbra sono sottili e di una forma perfetta, le sue spalle larghe attirerebbero chiunque in un abbraccio, ma io non posso, l'abbraccio scaturirebbe emozioni diverse dalla semplicità di un abbraccio, probabilmente urlerei. 
Ritrae la mano capendo il mio intendo di non salutarlo, mi volto guardando la stanza perfettamente a tempo di anni, attrezzata in stile moderno, il divano che occupa i pensieri dei suoi pazienti è invece una sedia sdraio, di pelle nera, una scrivani è nell'altro lato della camera, è scura anch'essa,  con un penna stilografica e piena di scartoffie, c'è anche un armadio nel perfetto stile della camera, la sua poltrono è bordeux, diversa dall'arredamento, è di stoffa, e sembra essere anche comoda. 
Con la sua voce roca dice «Siediti pure li» mi indica la sedia che poco prima ammiravo, annuisco andandomici a sdraiare, inizio a sospirare guardando il soffitto, lui si siede anche guardando la mia cartella clinica, un po lo guardo anche io, è molto bello, stare qui non mi renderà la cosa noiosa, avrò cosa ammirare almeno. 
«Allora Charlotte, mi racconti un po di te?» chiede, io rimango il silenzio, continuando a guardare il soffitto bianco, coperto di piccoli faretti invece di lampadari. 
«Cosa senti in questo momento?» continua, noia, vorrei rispondere, ma non lo faccio. 
Adesso sto guardando le lancette scorrere, e scorrere. Per tutta l'ora continuo a far scorrere il mio silenzio, mentre lui continua  a fare domande inutili alla quale non risponderò mai. 
Finalmente l'ora è passata, e il suo viso mi guarda contrariato quando mi alzo prendendo le mie cose, prima di aprire la porta mi ferma «Non puoi continuare a tenerti tutto dentro» dice, io apro la porta e vado via, certo che posso, posso tenere tutto dentro come ho sempre fatto, parlandone non farà cambiare niente, quel giorno nessuno h raccolto i miei cocci, anche se provassi a rimettere insieme quei pezzi, ne mancherebbe sempre qualcuno, piccole schegge essenziali per la mia vita. 
L'Audi di mia madre si ferma dinnanzi a me, mi fa segno di salire, non vedo l'ora di tornare a casa, entro in auto e la prima cosa che mi chiede è «Come è andata?» domanda sperando di trovare un entusiasmante risposta «Come al solito» rispondo. 

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Capitolo 2
*** 1. ***


1. 


Sono ferma, immobile contro il vicolo cieco, una sagoma scura si avvicina, sempre di più, voglio urlare ma la mia gola è bloccata, le lacrime invece invadono il mio viso di un bianco cadavere, immagino. 
Il mio respiro è affannoso, la sagoma si avvicina sempre di più «No, ti prego, non di nuovo» a quel punto ,spalanco gli occhi, lo stavo immaginando ad occhi aperti, infatti sono in sala d'attesa dallo psicologo, sento il sudore freddo sulla pelle. 
La vergogna mi assale nell'immediato quando davanti a me vedo un ragazzo, non lo avevo visto al mio arrivo, e non l'ho visto nemmeno dopo, mi guarda, il sorriso sghembo, ha la pelle abbronzata, gli occhi piccoli, indossa un maglione bordeux scuro, le sue labbra sono carnose ma non troppo, è una fossetta si fa spazio al centro del suo mento. 
Mi guarda ed anch'io lo faccio, dopo il silenzio imbarazzante dico: «Mi dispiace, pe-r per questo» dico io, lui sospira lasciando il sorriso stampato sul viso «Oh, non preoccuparti, succede anche a me, ogni notte, siamo qui per questo no?» dice, annuisco tornando a sedermi diritta sulla sedia. 
Dopo qualche minuto di silenzio, il paziente davanti a me si alza sedendomisi accanto, lo guardo, lui mi porge la sua mano robusta, io le nascondo «Oh, capisco. Il mio nome è Robert» dentro di me sorrido perché non ha chiesto il perché del ritrarre la mia mano. 
«Charlotte» rispondo, annuisce «Sono qui, perché dopo che i miei sono morti, mio fratello si è ucciso davanti ai miei occhi, stavo per farlo anch'io sai, ma ho resistito» mi racconta, come se fossimo amici da una vita, sospiro, perché quando penso a ciò che ha detto non posso che avere vergogna, quello che è accaduto a me sembra così insignificanti dinnanzi alla sua esperienza. 
«Mi dispiace» dico, fa un mezzo sorriso «Oh, non preoccuparti, sono cose che accadono» 
«Già» rispondo, facendo ancora un respiro profondo «Qual'è la tua storia?» dice, lo fulmino con lo sguardo, stava andando così bene, e adesso ecco li pronto a voler sapere tutto di me «Non ne voglio parlare» rispondo secca con un tono duro. 
«Lo capisco» dopo la risposta nessuno dei due continua  a parlare, anche lui si appoggia contro la spalliera, con le mani dietro la nuca, aspettando di entrare. 
Quando la porta si apre sono già passati venti interminabili minuti, una bambina di dieci anni esce, con un lecca lecca in mano, e un volto buio, i suoi ricci capelli color castagna sventolano di fronte al dottore che la invita ad aspettare la madre in sala d'attesa, e che si sarebbero rivisti la settimana successiva. 
Lei con disappunto sbuffa, andandosi a sedere di fronte a Robert, lui soccombe in suo aiuto, come ha fatto con me in realtà, sedendole accanto cercando di farla calmare. 
L'affascinante dottore poi si volta verso di me, ho un tuffo allo stomaco, quando con il capo mi fa segno di entrare, la sua bellezza è disarmante lo devo ammettere, ma non posso parlare con lui, non posso dire a nessuno ciò che sento. 
Mi siedo nella mia nuova poltrona, respiro a fondo, come ho fatto la prima volta, stavolta però mi guardo le mani e mi rigiro i pollici. 
«Non parlerai nemmeno oggi?» chiede, io mi volto verso di lui lanciandogli uno sguardo furtivo, lui sogghigna «Va bene» dio mio, che sorriso. 
La cosa si sussegue nell'altra seduta, e quella dopo ancora, e quella dopo, e ancora un'altra, poi un Venerdì mi sorprende quando a parlare è lui, io sono sempre in silenzio e a metà seduta inizia a parlare. 
«Mi chiamo Jeremy, faccio questo lavoro da cinque anni, si ho iniziato molto giovane, ho studiato duramente, facevo solo questo a dire il vero, ho raggiunto grandi risultati, ma i miei studi non sono ancora finiti» racconta lui attirando la mia attenzione, che senza rendermene conto sono ora messa su di un fianco, mentre lo guardo attentamente, studio il suo volto mentre parla. 
«I miei genitori volevano che facessi l'avvocato, ma io ho sempre voluto aiutare la gente, e non fisicamente, non ci riuscirei insomma vedere il sangue umano mi mette ribrezzo» dice lasciando che un sorriso mi scappi dal viso
«Oh, almeno so che sei viva» dice quando vede sorridermi, sentendo le guance arrossire ritorno alla mia mono espressione, sospiro incitandolo a continuare «Okay, be, mi piace la mente umana è piena di sfaccettature, belle e brutte, mi piace scovare dentro l'anima di ciascun essere umano e riportarla nel proprio corpo» mi dispiace Dott. Jeremy ma con me non puoi farlo, la mia anima è morta e sepolta. 
Mi dispiace deluderti, mi stai quasi simpatico, ma non posso aprirmi con te, non posso farlo con nessuno. 
«So che pensi che sia un idiota, dalle alte aspettative, ho ventisette anni potrei mollare questo studio e fare altro, sono giovani e non facile incaricarsi dei pensieri oscuri della gente, ma non posso farne almeno» l'orologio ha suonato, vuol dire che l'ora è passata, più velocemente delle altre sedute, mi aveva fatto piacere che avesse parlato, insomma è noioso rimanere in quella stanza, il silenzio di questa non è come quello della mia camera, nella mia posso riposare, pensare, senza che i miei incubi possano mettermi in imbarazzo come è successe settimane prima con Robert. 
Non l'ho più rivisto da quel giorno, viene raramente, forse è guarito, forse è andato via dalla città, non lo so, ma in qualche modo avrei voluto vederlo. 
«Alla prossima settimana Charlotte, spero che ti abbia fatto bene, parlare o almeno sentirmi parlare» indosso la mia giacca e sorrido «Mia madre non sarà contenta di sapere che si è invertito il ruolo» dico, le parole mi escono semplicemente, lui spalanca gli occhi 
«Oh, e sembra che tu abbia anche la voce, ho fatto progressi oggi, dovevo parlare prima» annuisco uscendo dalla stanza, lasciando ad una donna dai capelli neri corvino e gli occhi verdi, si introduca dentro la stanza, mi volto vedendo che avvolge le sue braccia intorno al collo del dottore, forse non è una paziente, sarà la sua ragazza, sono un po delusa
e non so perché o questo interesse nello scoprire, comunque vado via salendo nell'auto di mia madre. 
«Ciao Charlotte» ha smesso di chiedermi come vanno le sedute, perché sa già che le risponderò negativamente, adesso si limita a guidare, la guardo di profilo.
È così bella, e non more di una figlia verso la madre, lo penso davvero, vorrei somigliarle, non solo esteticamente ma mentalmente, è così positiva cosa che io non sono mai stata nemmeno prima. 
«Oh stasera verrà la zia Patty» dovrei essere felice? No, perché verrà tutta la famiglia, zia Patty, zio Sebastian, Arnold e Margaret i miei due cugini fantastici, che presto andranno all'università, con un futuro davanti a loro. 
Arnold ha 18 anni, studia Medicina, e presto farà tirocinio, ha una ragazza esce con gli amici e vive la sua vita. Margaret farà l'avvocato, è un giustiziere, è forte, socievole, bellissima, ed è fidanzata da tre anni con Edward anche lui avvocato, lui ha già concluso l'università, lei è al terzo anno. 

Suonano alla porta, e sono già arrivati sono le sette del pomeriggio, mia madre mi ha chiesto di vestirmi bene, indossi un vestito che arriva alle ginocchia, i capelli raccolti in una coda liscia, un trucco semplici con labbra dal color nude, sono seduta sulla scrivania aspettando che mia madre mi chiami. 
Spero con tutta me stessa che non lo faccia, voglio evitare le soliti e tristi domande che tutti mi riservano, e vedrò mio padre, che mi guarda cercando di trovare la sua vecchia bambina. 
Dopo i tentativi mio padre non ci riprova più, anche se adesso di tanto in tanto mi lascio abbracciare, lo vedo distante quasi delusa, mi si stringe il cuore, vorrei tanto riavere quel vecchio rapporto con lui, mi manca. 
Ma non posso rispondere nemmeno a lui, troppe domande, troppi ricordi, troppi incubi. 
Vorrei scusarmi con lui, vorrei dirgli che non è colpa sua, ma non ci riesco. Per questo da cinque anni scrivo ogni giorno una lettera, la scrivo a lui, o a Josh mio fratello, così piccolo e indifeso cinque anni fa, si è ritrovato una sorella malata che ha tolto per un po l'attenzione che avrebbe dovuto essere su di lui. 
Sto scrivendo, ma non una lettera, adesso le mie mani stanno formando una ''m'' e poi una ''o'' e ancora una ''s'' seguita da una ''t'' una ''R'' e ancora una ''o'' Mostro: si perché quel mostro mi ha portato via tutto, me stessa, e la mia famiglia. 
Ricalco così forte la scritta del mostro che il foglio si strappa, sono intenta a piangere ma non lo faccio, mi alzo invece scendendo prima che mia madre mi chiami, non voglio rimanere ancora in camera. 
«Charlotte, stavo venendo su a chiamarti» dice mia madre sorridendo, c'è zia Patty dietro che la segue, che vedendomi si fionda su di me, abbracciandomi calorosamente. 
«Oh tesoro mio, mi sei mancata così tanto» l'abbracciando cercando di mostrare le stesse emozione, non è cattiva, ma il suo modo di ''accudirmi'' mi rende ancora più mortificata ed io odio quella sensazione. 
È la sorella di mia madre, ma non le somiglia dicono che sia uguale mio nonno, che non ho mai conosciuto, i suoi occhi sono verdi, come quelli di Jeremy, o adesso lo penso come se fosse mio amico, gli occhi di Jeremy però sono più profondei. 
I capelli di zia sono scuri, sul castano, delle rughe invadono il suo viso, e qualche capello bianco spunta fra i vertiginosi lunghi capelli che cadono sulla sua schiena arrivando al bacino. 
Siamo seduti a tavola, con mia sorpresa i miei cugini non sono arrivati, zio Sebastian ha spiegato che hanno un esame importante che non si sono potuti spostare, sono sollevata. 
Zio Sebastian è un tipo buono, è robusto, l'età inizia a vedersi nelle zampe di gallina intono agli occhi e i capelli che si stanno colorando di bianco vicino alle tempie. Sono seduta vicino a Josh, che mi tiene la mano come per dire: «Io ci sono» è protettivo verso di me, e sa che odio le cene di famiglia dove tutti ti puntano gli occhi addosso, lo ringrazio con un sorriso. 
La cena prosegue serenamente, mi è arrivata qualche domanda su ciò che ho in piano per il mio futuro, alla quale non avevo nessuno risposta, così Josh venuto in mio soccorso risponde per me, parlando di se, tutti sono d'accordo ed io continuo con il mio silenzio. 
Quella domanda poi la faccio a me stessa: ''Cosa farai in futuro Charlotte?'' ed anche li non so dare risposta, solo il vuoto. 
Prima dell'incidente ero indecisa tra l'accademia di Musica e quella di Belle Arti, ma adesso non lo so, non so se ritornò mai a fare quelle scelte, ho studiato a casa con i miei insegnanti a pagamento, e mi sento sempre più in dovere di far qualcosa verso i miei genitori, un giorno vorrei ripagarli di tutto ciò che hanno fatto e fanno per me. 
Ma al momento so solo che voglio smetterla di pensare. 
Quando tutti vanno via ed ho aiutato mia madre a riordinare, esco fuori, ho bisogno di prendere un po di aria fresca, mi siedo sull'altalena che mio padre aveva installato quando Josh aveva due anni per permetterci di giocare, inizio a dondolarmi mentre i piedi scalzi sfiorano la sabbia, che mi attraversa le dita, mi rilasso e chiudo gli occhi assaporandone la tranquillità. 
L'aria fredda sfiora il mio viso rendendolo gelido, ma non faccio caso a quando lo fa su i piedi, rimango li ugualmente. 
Dondolo avanti e indietro per venti minuti abbondanti, apro gli occhi quanto sento una voce familiare, ma non sono sicura che sia lui «Charlotte, ciao» dice, ma è proprio lui è Robert, che ci fa qui?
«Cosa ci fai qui?» chiedo, lui sorride «Abito qui, mi sono trasferito il mese scorso» mi guardo intorno, non riuscendo a capire come non mi sia accorta che qualcuno abbia da poco traslocato 
«Oh» dico, dal retro del piccolo cancello mi chiede se posso entrare, annuisco lasciandolo fare, si siede sull'altra altalena «Come stai?» domanda, questo ragazzo mi lascia senza parole, mi parla come se mi conoscesse da sempre, come la prima volta che l'ho visto 
«Può andare meglio» rispondo però, non lo incito ad andare lo faccio rimanere, non è da me. 
«Sicuramente sarà così, quindi abiti qui» 
«Quindi, anche tu» sorride «Per questo non sono venuto più, dovevo perlustrare casa mia, sai essendo da solo» lo guardo spostando leggermente il capo «Deve essere bello vivere da solo» dico pentendomene subito, che frase inadatta. 
Stupida, stupida, stupida. 
«Oh, si in realtà si è uno spasso» non mi ha mortificata anzi, se avesse detto qualcosa del genere a me, probabilmente lo avrei schiaffeggiato ma lui no. 

Rimaniamo poi li in giardino per qualche ora, non diciamo niente, c'è solo il vento contro gli alberi, la sabbia che sfiora i nostri piedi, e la notte che si fa sempre più vicina, è piacevole. 
Chissà se ci fosse stato il Dott. Jeremy qui. 


 
____________________________________________________
Siamo al primo capitolo. 
Volevo sapere le vostre impressioni, se avete dei dubbi, se vi piacciono già i personaggi, se la trama vi invoglia a continuare. Aspetto le vostre dritte. 
Alla prossima. 
Teartheheart

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Capitolo 3
*** 2. ***


 
2. 

Le giornate stanno passando veloci, e rieccomi di nuovo seduta nella mia poltrona del Dott. Jeremy, mi fa strano chiamarlo Dottore, ha più o meno la mia età, mi ha raccontato poi nelle scorse sedute che suo Nonno è un medico, e per questo ha già uno studio suo, tramite delle conoscenze. 
Fui sollevata del chiarimento, la mia mente aveva fatto mille supposizioni sul  perché quel giovane ragazzo si ritrovasse a strizzare il cervello a tutti quei malti, come me. 
Lo guardo, e il suo sguardo è diverso dagli altri giorni, sembra arrabbiato, amareggiato, voglio chiederglielo, ma continuo  a guardarlo, anche lui lo fa di tanto in tanto, sguardi sfuggiti, il mio è diverso, lo scruto, mi immergo nel suo viso, memorizzo nella mia mente tutti i lineamenti che trovo perfetti, dalla fossetta ai lati dal viso, agli occhi che si stringono quand'essa mi grazia di un sorriso. 
E cerco, scavo, per trovare qualcosa di così meraviglioso nascosto tra i miei ricordo, e non ve ne trovo, i ricordi belli sono svaniti, non esistono più. 
«Sta bene?» mi scappa dopo un interminabile silenzio logorante, alzo di poco la schiena per mettermi diritta, guardandolo bene, indossa un maglione scuro, colori autunnali che lasciano scoperta la clavicola, mostrando le linee muscolose che poi scendono giù verso l'addome, immagino un colpo scolpito, lo si vede attraverso i vestiti, la cosa mi incuriosisce, non ricordo in questi anni di aver avuto questi pensieri verso l'altro sesso, ma eccomi qui dinnanzi ad uno psicologo, con il quale sento un certo aggancio, o qualcosa di simile. 
«Dimmelo tu, Charlotte» dice lui alzando lo sguardo dai fogli che poco prima stava leggendo, deglutisco «Non lo so, pensavo che tu» faccio una pausa scuotendo il capo «Lei, mi avesse dato la risposta»  con mia sorpresa vedo un ghigno spuntare sul suo viso, poi sospira «Puoi darmi del tu, come hai già fatto, e comunque non ho niente, sono solo arrabbiato» 
«È arrabbiato, quindi ha qualcosa, ma dice di non avere niente, mi sento confusa» 
«Pensa quanto lo sia io, pensavo che spostarsi su un argomento che non fosse la tua storia, ti avrebbe aiutato ad aprirti, con me ... invece» 

Sto passeggiando, sento il vento sfiorarmi il viso e per la prima volta non mi guardo indietro ogni momento, i miei pensieri sono rivolti al Dott. Jeremy, non ho risposto a quella domanda la scorsa seduta, ma una parte di me avrebbe voluto. 
Lo so, lo so, lui è un Dottore cerca solo di fare il suo lavoro, sarebbe inutile parlarne, insomma non ha interesse nei miei confronti, se non quello da dottore a paziente, e la cosa mi fa arrabbiare, vorrei fidarmi, lo vorrei davvero. 
Nei mesi successivi al mio ritorno dall'ospedale, ricordo che non parlavo con nessuno, la mia unica amica era la solitudine, in qualche modo stare da sola mi permetteva di allontanare quelle domande che mi scalfivano ancor di più. 
Nessuno può capire il mio dolore, sono migliorata da allora è vero, lo dico sempre, o almeno cerco di dirlo spesso, perché voglio che sia vero, ma quando ritornano gli incubi come quelli di questo pomeriggio, prima della mia passeggiata, credo davvero che migliorare non fa al caso mio. 
Sono in quarantena, attendo solo che qualcuno mi dica che anche il mio corpo ha cessato di vivere, e poi sarò libera.
Immersa dai miei pensieri non sento il rumore che mi viene alle spalle, qualcuno sta venendo verso di me, il cuore inizia a battere, veloce, il vento gelido che sfiora la pelle si trasforma in fuoco per me, sento il corpo tremare, no, ti prego, fa che non sia qualcuno che  voglia farmi del male, ti prego. 
Mi chiudo come una conchiglia, come per schifare qualcosa, gli occhi sono serrati, le mani chiudono le mie orecchie, ed il viso, le gambe strette e il corpo completamente rigido. 
Urlo quando delle mani si posano sulle mie spalle «Charlotte, sono io» conosco quella voce, è Robert, lo guardo ancora spaesata «Non toccarmi» lo ammonisco, lui fa un passo indietro, mortificato «Scusa» dice. 
Ansimo, prendo fiato, cerco di rilassarmi «Mi stavi seguendo?» chiedo io, acciglia la fronte avvicinandosi ma io faccio ancora un passo indietro, premendo la schiena contro un lampione «No, certo che no» ovviamente rimane deluso dalla mia accusa, e continua a guardarmi. 
«Mi dispiace, io ... scusa» e poi lo lascio li, andando via, cammino velocemente tornando indietro. 
Le lacrime scorrono sul mio viso, tremo, i ricordi si fanno spazio nella mia mente, voglio gridare ma mi limito a respirare a fondo, sento le luride mani di quel mostro su di me, mi ripeto: Non c'è più, è sparito, non c'è più. 
Quando entro in casa corro subito in camera mia, mi svesto lasciando il mio corpo nudo, entro nel bagno della mia camera aprendo l'acqua calda, prima di immergermi nella doccia guardo il mio riflesso allo specchio. 
Tra le lacrime dico «Cosa c'è che non va in me?» abbasso il capo lasciando che le lacrime adesso cadano sui miei piedi, toccando la mia pelle, se fosse come nei cartoni il mio corpo guarirebbe, anch'io guarirei, la mia mente, il mio cuore. 
Ma la vita reale è questa. Entro dentro la doccia, l'acqua scorre su di me,  ferocemente, chiudo gli occhi singhiozzando, le mia mani 'intrecciano sul petto per poi toccare le spalle, e ritorna quel disgusto. 
Le mani dell'assassino di anime, che mi tocca, dalle gambe sino al viso, cerco di cacciare via le sue mani, lo faccio dandomi degli schiaffi sul corpo, forse così  il ricordo scompare, lo faccio ancora. 
Poi sbatto una mano contro le piastrelle nere della doccia, cadendo dentro essa, porto le ginocchia contro il petto, l'acqua scorre ed io rimango li, senza muovermi, come un cadavere, quale sono. 

Sono in piedi, dinnanzi alla grande finestra finta, che mostra un paesaggio dell'Alaska nello studio del Dottor. Jeremy, per la prima volta cammino su quelle restanti piastrelle, evitando la poltrona per la prima volta, lui non dice niente mi lascia fare. 
Guardo questo paesaggio mozzafiato, i colori freddi, la lunga distesa dell'erba verde, che s'intravede nel bianco colore della neve, e m'immagino li senza pensieri con l'aria gelida che blocca tutti i miei pensieri. 
Faccio un respiro profondo intrecciando le mani al petto, riscaldate dal golf rosso scuro, mentre decido di parlare, voglio provare, provare a fidarmi e a capire cosa si prova. 
«Era pomeriggio» dico, rimanendo fissa sull'immagina dell'Alaska, lui non dice niente, sento i suoi occhi puntati addosso però «Stavo passeggiando tranquillamente, come facevo sempre, mi rilassava, ricordo che quel pomeriggio mia madre mi aveva chiesto di non andare per il freddo gelido, ma io cocciuta com'ero mi rifiutai» un lieve sorriso malinconico spunta sul mio viso, rammentando la vecchia me, quella normale e spensierata. 
«Ricordo che ho sentito quelle parole, quella voce roca e bassa ''Ehi dolcezza'' diceva, ma io come i miei mi avevano insegnato, decisi di ignorare la voce, pensando ingenuamente che avendolo fatto, quest'ultimo mi avesse lasciato in pace, ricordo poi la sua presa, violenta ricordo il mio corpo spinto contro il suo, mi dimenai» a quel ricordo chiudo gli occhi, inizio a tremare ancora, sento il Dottore alzarsi ma lo fermo con un gesto della mano, o ora o mai più mi dico. 
«Riuscì a scappare, correvo, correvo guardandomi indietro» le lacrime si fanno spazio sul mio viso ancora «Mi sono ritrovata in un vicolo cieco, da cui non potevo scappare, ricordo di aver visto la sua sagoma avanzare, non ricordo il suo viso, solo gli occhi neri che mi fissano, quello sguardo lo riconoscere a miglia di distanza» singhiozzo «Le sue mani, cercavano di spogliarmi, s'introducevano sotto la maglia, sui fianchi cercando di sfilarmi i pantaloni, mi baciava e non riuscivo a far niente, pensavo che fosse la fine per me, il rumore della sua cintura slacciarsi, e il ricordo più brutto, quello che mi fa venire di vomitare, stava quasi per farlo, stavi quasi per farlo e poi» il mio pianto li, non mi permette più di continuare, mi accascio sul pavimento, voglio urlare. 
Sento le mani di Jeremy, del Dottor Jeremy sulle mie spalle, mi rassicura, e lo lascio fare, non sento di volerlo cacciare via, sento che ho bisogno di quel tocco. 
Il mio viso adesso è poggiato contro il suo petto, il suo cuore adesso richiama il mio udito. 
Poi però mi alzo scansandolo «Adesso hai la tua storia, la mia squallida storia, adesso sai come sono morta, qual'è la tua diagnosi?» chiedo io, adesso arrabbiata, il mio umore è cambiato di minuto in minuto, adesso vorrei andarmene, ma aspetto prima la risposta. 
«La mia diagnosi?» chiede più a se stesso che a me, fa una pausa poi deglutisce «Sei spezzata, la tua anima lo è ... ma ti prometto non come dottore, ma come essere umano, come amico se vuoi, che la riporterò indietro» 

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Capitolo 4
*** 3. ***


3.

''La riporterò indietro'' come? Come avrebbe fatto questo povero uomo a farlo? No, no, nessuno può; ho smesso di crederci tanto tempo fa, al decimo psicologo, non è plausibile, non guarirò mai del tutto. 
Una parte di me sarà sempre un incompleta. 
Questa settimana ho saltato la visita, mia madre ha cercato di convincermi ma non mi va di ascoltare ancora queste stronzate, ho bisogno di rimanere in silenzio, a spegnermi, a scrivere, tutto tranne che ascoltare quelle stronzate. 
La mia mano è su di un foglio bianco, dovrei scrivere, vorrei farlo ma non mi escono le parole, oggi la mia mente non ha spazio per scrivere scuse su mio padre. 
Sto pensando a Robert, dopo il mio comportamento non l'ho più rivisto ne gli ho parlato, mi sento un verme, non avrei dovuto avere quella reazione voleva solo parlarmi, ed io mi sono sentita come se volesse aggredirmi. 
Respiro profondamente, e pensando a lui le parole escono, sinceramente. 
"Caro Robert" scrivo, ma le cancello immediatamente, troppo teatrale. 
"Ciao Robert" e ancora faccio un taglio, troppo amichevole, penserà ''Da dove salta fuori questa confidenza?" No, meglio ricominciare. 
"Robert, so che il tuo ultimo ricordo, verso questa svampita ragazza che ha milioni di problemi è da dimenticare, in realtà spero che tu già l'abbia fatto. 
Ti scrivo queste poche righe, per scusarmi. Scusa se ho avuto quella stupida reazione di cui me ne vergogno profondamente, mi scuso per non essere rimasta, per non averti dato nell'immediato le mie scuse. 
Ma comprendimi, la mi anima è scomparsa, tanto tempo fa, non posso dirti il motivo, e per questo ti chiedo ancora scusa, ma non posso, semplicemente non voglio ricordare ancora quell'episodio. 
Voglio rimuoverlo, cancellarlo come un disegno riprovevole fatto alle elementari, con una gomma, si vorrei farlo. 
Quindi, questa sincera ragazza, ti chiede scusa, sperando che tu, si tu Robert, possa perdonarla. 
Con le miei più sincere scuse, Charlotte'' 

Piego il foglio poco prima immacolato, posandolo dentro una busta bianca che ho accanto a me, vi scrivo sopra il nome di Robert, e senza pensarci esco per bucarla nella sua buca, non so che reazione aspettarmi, magari la strapperà, volendosi dimenticare di me, perché sono un idiota, forse mi cercherà per ridermi in faccia. 
Nessuna delle miei opzioni però, è positiva, penso che non lo sarà. 
È l'ora di cena, sono già seduta a tavola mentre mia madre è in cucina a rifinire i preparativi, guardo i posti a tavolo e con mia sorpresa ne vedo uno in più, vorrei chiedere, ma non lo faccio. 
Mio padre sembra nervoso, non ne so la ragione, mia madre invece passa posando il contorno di piselli e carote, con un sorriso smagliante, la guardo e la sua silhouette è coperta da vestiti eleganti, e quando mi guardo attorno, noto che anche mio padre veste di un vestito da cerimonia. 
Chi starà mai venendo? Il Papa? E finalmente suonano alla porta, sospiro attendendo con ansia il volto che siederà di fronte  a me, nessuno si alza, e con tanto di lamentela, mi alzo sapendo che toccherà a me. 
Chi mi ritroverò davanti? I miei nonno? Di nuovo mia zia? I miei brillanti cugini, forse? Ma no, mi ritrovo l'ultima persona che vorrei vedere, quella che ho evitato dopo quella frase fatta che tutti ti dicono, quando vedono quando sei spezzata. 
Jeremy, il mio psicologo, cenerà con me questa sera. 
«Cosa ci fa lei ...» faccio una pausa, correggendomi ricordando che quest'ultimo mi ha dato via libera, e che possa dargli sempre del tu e non solo nella mia mente «Che ci fai qui?» riformulo la domanda, tenendo una mano stretta alla porta, e adesso capisco il nervosismo di mio padre, la felicità di mia madre e l'eleganza di questa sera. 
Con un mazzo di fiori di pesco, e uno di rose entra sorridendo, mostrando il suo sorriso smagliante. Il mazzo di fiori di pesco lo porge a me, sono i miei fiori preferiti, aspirandone l'odore chiede: «Come sapevi che..» ma arriva mia madre da dietro, che con gran voce saluta Jeremy, prendendo con sé le rose e ringraziandolo più e più volte. 
«Charlotte, mi daresti i tuoi fiori?» chiede, io la fermo «No, adesso li ripongo io mamma, grazie, potresti lasciarci un attimo soli?» domando io, ma è più un ordine che una domanda, almeno questo potrà concedermela no? 
Lei si allontana con un espressione imbarazzata, sa che ce l'ho con lei adesso, e niente mi farà cambiare idea, invitarlo per una seduta a cui io non ho voluto partecipare?  Che colpo basso. 
Che ne sa lei delle mie reazioni? A cosa ho provato raccontando di me? Di come sono morta? Lei non sa niente è questo il fatto.
«Ho chiesto io di poter venire a cena» dice il ragazzo davanti a me, che adesso guardo meglio, indossa un vestito elegante, con camicia bianca e pantaloni di un nero opaco, insieme alle scarpe lucide e invece di una giacca un cappotto lungo sino alle ginocchia. 
Lo guardo, e per un attimo rimango a farlo, è così affascinata, in qualche modo smuove qualcosa dentro di me, i suoi occhi lo fanno. 
«Perché?» domando io, tenendo i fiori tra le mani «Non prendere la mia visita come se fossi il tuo dottore» 
«''COME UN AMICO''» imito le sue parole, quando quel giorno dopo avermi confortato mi dice che lui per me è un amico «Come se non lo dicessi a tutti i tuo pazienti» dico io sbuffando. 
Lui mi guarda con i suoi occhi verdi, si avvicina e il mio cuore batte più forte e sussurrando dice: «No, non lo faccio» deglutendo, gli sbatto i fiori bellissimi contro il petto, non posso accettarli e non voglio, non voglio che mi si regalino dei fiori solo perché sono una causa persa. 
«Mi dispiace, non li voglio» e poi vado a sedermi a tavola, al mio solito posto, mio padre mi guarda, sento il suo sguardo addosso, di rimprovero e mi fa male, almeno tu CAPISCIMI!
Mia madre, ancora chissà perché contenta divide il cibo con porzioni tutti uguali, tranne per l'ospite d'onore, lui ha il piatto più pieno. Tanto che mio padre storce il naso quando se ne rende conto, mi scappa un sorriso, dopo tutto amo quando si sente ''escluso''. 
«Allora dottor Jeremy, come le sta andando il lavoro?» chiede mia madre guardandolo con occhi imploranti, io non ho fame mi limito a pasticciare il cibo che ho nel piatto «Oh va bene, signora davvero» lui sorride con il sorriso più bello che possa sfoggiare, finto? Chissà, ma pur sempre convincente. 
«E ...» fa una pausa «Ci sono progressi? Con Charlotte?» PRONTO? SONO QUI?  MI VEDI? Quella donna è incredibile, passo dal volerla proteggere, perché so che mi adora a volerla schiaffeggiare. 
Mi alzo, spostando la sedia in modo che tutti possano sentire, mio padre mi fissa chiamandomi, ma non gli do ascolto, sbatto nervosamente il tovagliolo sul tavolo e poi salgo in camera mia. 
Sono buttata sul mio letto, guardo il soffitto e ancora una volta vorrei scomparire, non voglio rimanere più in questa casa, sono maggiorenne potrei andarmene anche adesso. Ma dove? Con quali soldi? 
Non voglio più essere l'animaletto da curare, non voglio più essere questo. 
1,2,3 respira, puoi farcela. 1,2,3 respira ancora una volta, passerà tutto. 
«Questo ti rilassa?» sobbalzo quando voltandomi vedo Jeremy alla porta, con un vaso e i fiori che poco prima avevo rifiutato malamente, ritorno a guardare il soffitto rendendomi conto di star pensando a voce alta 
«Ci provo» dico io, si avvicina posando il vaso cristallino sul mio comò, con dentro quegli splendidi fiori che mi ha portato. 
«Fallo ancora» dice, aggrotto la fronte guardandolo «Cosa?» chiedo 
«Conta i respiri, rilassati e fallo ancora» mi incita con la mano, non capisco cosa voglia fare, ma acconsento lo stesso, prendo un respiro profondo «1,2,3,4,5 Respira, pensa, passerà tutto questo, ti rialzerai» dico io
Sento il suo ghigno «Visto?» dice soddisfatto, lo guardo e poi continua «Non è così difficile darmi ascolto» 
«Già»
«Fidati di me, Charlotte» 
«Io sono solo una diagnosi, un altro caso da archiviare» 

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