Guerriera

di _armida
(/viewuser.php?uid=877144)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La Città degli Umani ***
Capitolo 3: *** Le Schiere Infernali ***
Capitolo 4: *** Confidenze ***
Capitolo 5: *** La Festa, parte I ***
Capitolo 6: *** La festa, parte II ***
Capitolo 7: *** L'Incubo ***
Capitolo 8: *** Il Calore del Sole sulla Pelle ***
Capitolo 9: *** La profezia ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Monte Olimpo

La pesante porta in legno massello della camera nuziale si aprì e un'ancella fece la sua comparsa nel luminoso corridoio del palazzo di Zeus. Fece un profondo inchino al padrone di casa che, parecchio nervoso, non faceva altro che camminare avanti e indietro.
"E' una femmina", gli comunicò raggiante.
Il volto di Zeus perse immediatamente quell'aria tesa e si illuminò.
"La regina desidera vedervi al più presto", aggiunse l'ancella.
Senza farselo ripetere due volte, il re dell'Olimpo abbassò la maniglia della porta dalla quale la sua informatrice era da poco uscita ed entrò.

La camera nuziale era anch'essa molto luminosa e spaziosa e, al centro, troneggiava un grande letto a baldacchino. Demetra, la sua seconda moglie, aveva l'aria stanca ma, quando vide il suo sposo, le sue labbra si distesero in un largo sorriso. I suoi occhi, verdissimi, erano ridenti e brillavano dall'emozione. Teneva fra le braccia un piccolo fagotto rosa. Con un gesto gentile, ordinò alle ancelle e alle levatrici di uscire.
Zeus si sedette sul letto, di fianco a lei, osservando estasiato il piccolo faccino paffuto che faceva capolino da quella marea di stoffa.
Dai suoi occhi sfuggì una lacrima di gioia: ne aveva avuti tanti, di figli, eppure, ogni volta, era un'emozione immensa.
"E' bellissima", disse mentre, con estrema delicatezza, prendeva la bambina dalle braccia di Demetra. Ne osservò i lineamenti delicati: il nasino all'insù, gli occhietti chiusi e il colore rosato della pelle. La sua espressione si intenerì ancora di più, quando la piccola fece uno sbadiglio.
"Come desideri chiamarla, mia adorata?", chiese a sua moglie.
La dea dell'agricoltura ci pensò un po', prima di decidere. "Persefone"
"Vita..."
Era stato poco più che un sussurro trasportato dal vento eppure, esso bastò a far innervosire il re dell'Olimpo; passò velocemente la bambina nelle mani della moglie e si alzò dal letto, guardandosi intorno. Nella sua mano stretta a pugno, si formò una folgore.
"Vita..."
Di nuovo quel suono ma, questa volta, si sentì più distintamente. Allarmata, Demetra guardò Zeus, stringendo ancora più al petto la piccola Persefone.
Lentamente, nella stanza si sollevò una nebbiolina nera, prima sottile e poi, con lo scorrere del tempo, sempre più densa ed oscura. Sembrava concentrarsi tutta in punto preciso della stanza.
Istintivamente Zeus si mise davanti alla sua famiglia, in un gesto di pura protezione.
Dalla nebbia spuntarono tre figure, prima dai contorni sfocati, poi sempre più nitide. Erano tre donne, con le spalle curve e le membra raggrinzite.
Cloto, colei che filava il filo della vita.
Lachesi, colei che avvolgeva il filo della vita.
Ed infine Atropo, colei che recideva il filo della vita.
Le tre moire.
Zeus le osservò con circospezione. La folgore ancora al suo fianco, stretta nel pugno. "Cosa ci fate qui?". Il re dell'Olimpo non si ricordava di averle mai viste mettere piede fuori dagli Inferi.
"Persefone...", dissero in coro mentre si avvicinavano.
"Vita...", ripetè Cloto.
"Ma anche morte", concluse Atropo.
"Siamo qui per parlarvi della profezia, Divino Zeus", disse Lachesi.
"La profezia", ripeterono le altre due sorelle in coro.
Demetra guardò suo marito con il terrore negli occhi. Cosa volevano quelle donne dalla loro bambina?
Lachesi le si avvicinò e, istintivamente, la dea dell'agricoltura provò a ritrarsi ma, la mano ossuta della moira, riuscì comunque a raggiungere la neonata, che dormiva placidamente nelle braccia della madre. Le accarezzò una guancia.
"In queste vene scorre il potere", disse, stringendo il braccino della piccola. 
"Un potere immenso, Divino Zeus", ribattè Cloto.
"Un potere ben più forte del vostro", concluse Atropo.
"Un potere come non si era mai visto in questo mondo", dissero in coro. "Vita e morte. E la capacità di dare o l'una o l'altra, a tutto"
Zeus e Demetra si guardarono negli occhi a vicenda e, poi, tornarono a guardare le moire.
"Tuttavia..."
"Il potere ha sempre un prezzo"
"La perderete, Divino Zeus"
Quasi come se potesse comprendere le parole delle donne, la piccola Persefone si svegliò, cominciando a piangere.
Le tre moire fecero alcuni passi indietro, tornando nell'esatto punto di prima. "E quando ve ne accorgerete, sarà troppo tardi"
"Aspettate!", disse Demetra, mentre la fitta nebbia oscura ricominciava ad avvolgerle. "Come possiamo evitare tutto questo?"
Ma le tre anziane erano già scomparse.
"Non potete"
Era poco più di un sussurro, quello che i sovrani dell'Olimpo sentirono, mentre la nebbia si diradava e la luce tornò ad illuminare la stanza. Solo allora notarono una terza persona, all'interno dell'ampio ambiente, vicino alla porta: Ermes, il consigliere più fidato di Zeus.
"Va tutto bene", sussurrò flebile Demetra alla sua bambina, cullandola per farla smettere di piangere. Non ci credeva neanche lei, a quelle parole. I suoi occhi, del colore dei prati in primavera, si concentrarono su quelli azzurri del marito, mentre le lacrime cominciavano a bagnarle le guance. "Cosa possiamo fare, Zeus?"
Il re dell'Olimpo scosse la testa. Le moire erano state molto chiare. "Hai ascoltato tutto, Ermes?"
"Sono desolato, Vostra Altezza... non era mia intenzione ma..."
"Non importa", lo interruppe Zeus con un gesto secco. "Confido nella tua discrezione. Fanne parola con qualcuno e non esiterò a gettarti nel Tartaro"
"Non possiamo permetterle di usare i suoi poteri", disse Demetra, mentre stringeva ancora di più quella piccola creatura indifesa al proprio petto. "Lei non deve sapere nè di questo, nè della profezia"
"Mia regina, mi dispiace contraddirvi ma, prima o poi, essi si manifesteranno"
"No", ribattè Zeus, "Esiste una pietra in grado di annullare i poteri di una divinità. Trova quella pietra, Ermes, e poi consegnala a Efesto, che ci fabbrichi un bracciale". Tornò ad osservare sua figlia. "Confido nella discrezione di entrambi"
Ermes fece un profondo inchino e se ne andò.
Zeus si mise ad accarezzare delicatamente la testolina della piccola. "Sarai al sicuro, Persefone. Te lo prometto"

***
 
Poco dopo, nel Regno degli Inferi...

Ade, dall'alto del suo trono, osservò le tre anziane che gli stavano di fronte. Non era la prima volta che le moire si presentavano senza preavviso al suo cospetto. 
"E così Zeus ha avuto un'altra figlia", constatò con una voce senza colore, piatta. I pettegolezzi da corridoi non avevano mai fatto per lui. 
"C'è una profezia, Vostra Altezza", disse Lachesi.
"La profezia vi riguarda da vicino", continuò Cloto.
"I vostri fati sono destinati ad incontrarsi", concluse Atropo.
Il sovrano degli Inferi si fece più attento, assumendo una posa più rigida, sulla propria seduta.
"In quelle vene scorre un potere senza eguali..."
"E con Persefone al vostro fianco..."
"Potrete sconfiggere qualsiasi nemico"
Sul viso del re si formò un sorriso aguzzo. "Aspetterò con ansia quel
giorno"


Nda
Salve a tutti 
E così, questo è il mio ultimissimo esperimento. Spero di avervi incuriositi almeno un pochino 


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La Città degli Umani ***


Capitolo I: La Città degli Umani

18 anni dopo...

Persefone si stropicciò gli occhi ancora assonnati e si stiracchiò. Le pregiate lenzuola di seta, a contatto con il suo corpo, produssero un piacevole fruscio. Osservò la luce che si riversava nella sua stanza: era un po' troppa, a quell'ora, persino sull'Olimpo. Sicura di essersi svegliata all'alba? No, Persefone non ne era più convinta. Aveva dormito più del previsto, ecco spiegato il perchè.
Si alzò di scatto e andò verso l'ampia vetrata che conduceva sul proprio balcone: Helios doveva già essere in cielo da parecchio, con il suo carro solare. Aveva dormito troppo. Lo sapeva che non sarebbe dovuta rimanere sveglia fino a tardi ad ascoltare le storie che raccontavano Apollo e Dioniso intorno al falò, nei giardini. Non doveva lasciarsi convincere da quei due.
Si tolse in fretta la sottile camicia da notte in cotone che, come ogni volta, si impigliò nel bracciale d'oro che portava sempre al polso. Era un regalo dei suoi genitori, creato apposta per lei da Efesto; una sottile catena d'oro con, al centro, una pietra bianca dai riflessi dai mille colori. Opale, forse. 
Aprì l'armadio, alla disperata ricerca di qualcosa da mettere. Provava sempre un moto di disgusto, osservandone l'interno: abitini rosa, fucsia, color confetto... la maggior parte degli abiti sembravano fatti su misura per una bambina di nove anni. Peccato che Persefone, di anni, ne avesse il doppio. Perchè sua madre si ostinava a riempirle l'armadio di abiti da bambina? Perchè non riusciva a capire che sua figlia era ormai diventata adulta?
Persefone sbuffò mentre si faceva spazio tra tutti quei colori imbarazzanti. Alla fine, appallottolato sul fondo, trovò un peplo monospalla bianco, lungo fino al ginocchio. Lo aveva 'rubato' alla sua sorellastra Artemide parecchio tempo prima...
Non si curò minimamente di quanto fosse stropicciato e lo indossò; lo fermò in vita con una sottile cordicella di cuoio intrecciata e mise ai piedi dei sandali alla schiava. Raccolse i ricci capelli castani in una coda e prese la propria bisaccia e alcuni fogli, sparsi sulla scrivania.
Accostò l'orecchio alla porta, per captare eventuali segnali di vita nell'ampio salotto che condivideva con le sorellastre, ma non udì niente.
Artemide ed Atena si erano senz'altro svegliate all'alba, Ebe era in giro per il palazzo a controllare che tutto fosse in ordine e, Afrodite, che aveva fatto la sua comparsa la sera prima, casualmente poco dopo il ritorno di Ares da una delle sue campagne di guerra, non aveva di sicuro passato la notte nella propria stanza. Nè a casa, da suo marito. A Persefone faceva sempre un po' pena, Efesto che, nonostante i continui -e palesi- tradimenti della moglie, l'amava ogni giorno di più. Il comportamento della sua sorellastra, invece, la disgustava.
Abbassò lentamente la maniglia e, con passo felino, attraversò il grande salotto. Poi, con estrema cautela, aprì il portone che conduceva in uno dei numerosi corridoi del palazzo di suo padre; si guardò intorno, per controllare che non arrivasse nessuno e poi sgusciò fuori, diretta alle stalle.
Mentre camminava, si mise a studiare  i fogli che aveva con sè. Così concentrata, non si accorse della persona che veniva in direzione opposta. Ci andò a sbattere contro in pieno. I suoi appunti si sparsero per il pavimento marmoreo. "Scusami, Ermes", disse mortificata, mentre si chinava a raccogliere i fogli caduti. Arrossì notevolmente per l'imbarazzo, facendo per un attimo scomparire la miriade di lentiggini che le coprivano gli zigomi.
Il consigliere di Zeus sospirò e si abbassò, per aiutarla. "Non fa niente, Persefone. Ma la prossima volta fai più attenzione", le rispose, sorridendole con fare paterno. Le passò i fogli. 
"Grazie, Ermes"
Il messaggero degli dei fece per dire qualcos'altro, ma la giovane dea era già svanita. Scosse la testa, pensando che, qualche giorno, gli avrebbe fatto venire un infarto. Non si ricordava che fosse stato così difficile, tenere a bada le sue sorelle...

Persefone arrivò alle scuderie e si diresse velocemente verso il proprio cavallo alato, trovandolo già sellato. Sorrise, ben consapevole che prima o poi avrebbe dovuto rendere  il favore ad Apollo.
Prese le briglie e condusse il cavallo fuori. Gli saltò in groppa e gli diede il segnale per partire.
Le ampie ali cominciarono ad alzarsi e abbassarsi sempre più velocemente, mentre il suolo diventava sempre più lontano.
"Direzione: Atene", disse.

***

Atene era una città dinamica e florida; con il suo grande porto, meta obbligatoria per ogni mercante, con la sua agorà, dove le idee nascevano e si diffondevano, e con la sua acropoli che, una volta completata, sarebbe stata la più grande e maestosa di tutto il mondo conosciuto.
Persefone atterrò in un boschetto poco lontano dalle mura cittadine. Appena gli zoccoli del cavallo alato toccarono terra, le sue ali scomparvero, assumendo le sembianze di un qualsiasi cavallo utilizzato dagli umani. 
Si diresse a galoppo verso la grande porta che permetteva ai viandanti d'entrare in città. Rallentò, quando ci fu davanti.
Come di consuetudine, le guardie ai lati dell'entrata la lasciarono passare senza battere ciglio. Uno dei giovani soldati, le fece un amichevole gesto di saluto, con la mano. Ormai la conoscevano, visto che passava di lì quasi ogni giorno.
Persefone rispose al saluto con un cenno del capo. 
Nessuno sapeva che lei era una dea, la consideravano come una comune mortale e non come la dea della primavera. La dea della primavera era conosciuta come Kore, non come Persefone, fortunatamente. Ma poi, perchè la consideravano la dea della primavera? Questo lei non lo riusciva a capire: non aveva poteri o qualità speciali, come tutti gli altri dei... Forse, la consideravano tale in quanto figlia di Demetra. Questa era l'unica spiegazione plausibile.
Scosse la testa: era inutile scervellarsi a trovare risposte a domande che di risposte non ne avevano.
Una volta arrivata in corrispondenza del mercato cittadino, scese da cavallo; con tutta la gente che c'era, restare in sella, era rischioso. Le vie dove si svolgeva il mercato erano vicoli stretti già di loro e poi, con le bancarelle messe in fila su entrambi i lati, diventavano ancora più stretti.
Sorrise, ricordandosi la prima volta che era stata lì, la prima volta che un umano le aveva rivolto la parola: doveva averla presa per pazza, visto la faccia terrorizzata che aveva fatto. Poi, lentamente, si era abituata a loro. Adesso capiva perchè sua zia Estia aveva deciso di vivere tra di loro, invece che sul Monte Olimpo.
Lo stretto vicolo finalmente si allargò, aprendosi su un'enorme piazza di forma rettangolare, circondata su tre lati da un porticato: l'agorà. Qua e là, si potevano trovare filosofi e sapienti intenti a divulgare le loro idee, circondati dai loro discepoli  e allievi o da semplici curiosi.
L'attraversò, dirigendosi verso nord, dove un'alta scalinata in marmo, portava verso il fiore all'occhiello di Atene: la sua acropoli.

***

Legò il cavallo sotto ad un grande albero e si diresse velocemente verso il tempio principale del complesso, il Partenone, dedicato ad Atena, protettrice della città.
Lì il lavoro era frenetico, con operai che arrivavano da tutte le direzioni, scultori e pittori impegnati con le decorazioni e i sovrintendenti che strillavano ordini a destra e a manca.
Persefone sorrise: lì sì, che si sentiva pienamente a proprio agio. Neanche i prati verdi e rigogliosi, o i giochi con le ninfe, o le bravate con Apollo e Dioniso, la facevano sentire così viva.
"Fidia ti cerca"
La dea si voltò, per osservare il suo interlocutore. "Ciao, Agoracrito". Era l'allievo prediletto del brillante scultore.
"Sei in ritardo, piccola Persefone"
"Sono rimasta addormentata"
"Il maestro era parecchio nervoso, oggi", continuò, massaggiandosi una mano, dove aveva fatto la sua comparsa una vistosa linea violacea. 
La giovane dea cercò di smascherare un risatina -alquanto fuoriluogo- coprendosi la bocca con una mano. Non faticava di certo a capire il perchè Fidia fosse così nervoso: Agoracrito era un burlone, lo sapevano tutti, e di certo, doveva averne combinata una delle sue, che aveva fatto arrabbiare il maestro.
"Buona fortuna, Persefone. E' stato un piacere conoscerti", le disse divertito, dandole un'amichevole pacca sulla spalla. Doveva averla fatta davvero grossa, per essere così melodrammatico. Mentre si allontanava, le fece l'occhiolino.

Fidia, si trovava proprio davanti al Partenone, sotto il grande frontone di forma triangolare, intento a discutere con uno dei capicantiere. Appena la vide, congedò l'uomo.
"Salve, maestro", disse la dea, con una voce al metà tra l'incerto e il timoroso.
"Sei in ritardo", ribattè lui, severo.
"Sono mortificata, ma..."
"Quando mi hai implorata di concederti di diventare una dei miei allievi, mi hai rassicurato più volte sul fatto che non mi avresti creato nessun problema"
Persefone abbassò lo sguardo sui propri piedi, mortificata. Prese a torturarsi le mani. "Mi dispiace"
"Volevo mostrarti una cosa ma, ora, non sono più così certo di volerlo fare". Fidia era un insegnante severo, ma era il migliore sculture che il mondo avesse mai visto.
"Ho qui il progetto che mi avete affidato, finito", disse la dea, sperando così di imbonirlo un po'.
"La consegna è settimana prossima. Sei certa di volermelo consegnare ora?"
"Certissima", rispose lei con un sorriso. Forse ce la stava facendo.
Estrasse dalla sua bisacca i fogli che, quella mattina, quando si era scontrata con Ermes, si erano sparsi per il corridoio del palazzo. Li porse a Fidia.
Le sopracciglia dell'anziano scultore si aggrottarono, mentre si concentrava, mostrando un labirinto di rughe ben più intricato del solito. Si passò più volte la mano sulla folta barba bianca.
Persefone, nel frattempo, restò in rigoroso silenzio, impaziente. Continuava ad ondeggiare, postando il peso da un piede all'altro.
"Notevole", si lasciò sfuggire Fidia. 
La giovane dea sorrise: erano rare certe manifestazioni di apprezzamento, da parte del maestro. Ma per lei, aveva sempre avuto un occhio di riguardo. Forse perchè era una donna, l'unica donna in tutto il cantiere. 
"Hai fatto un buon lavoro, per essere il tuo primo progetto"
"Grazie, maestro", rispose lei, raggiante. Aveva un sorriso da parte a parte e, se avesse potuto, ora si sarebbe messa a saltellare qua e là, come una molla impazzita. Ma non lo fece, quello non era il comportamento adatto.
Fidia le ridiede indietro i fogli, su cui c'era rappresentato il suo primo progetto: un piccolo tempietto, destinato ad alcune divinità minori. Sarebbe sorto nella parte bassa dell'acropoli, in una posizione secondaria, lontano dai templi principali. Non un grande progetto ma, per incominciare, era sempre meglio di niente. Lei senz'altro aveva accolto l'idea con grande entusiasmo.
Quando si fu ripresa dalla felicità, notò che Fidia la stava osservando con un sorriso sulle labbra e uno sguardo che, a Persefone, ricordava tanto quello che un nonno rivolge ai propri nipotini.
"Sono perdonata?", chiese, implorando l'anziano mentore con i suoi grandi occhi verdi.
L'altro sospirò. "Non pensare che questo sia un trattamento di favore solo perchè sei una donna, bambina. Ritarda ancora una volta e non ci sarà niente, che ti eviterà una sonora bacchettata sulle mani. Ora vieni dentro, voglio mostrarti una cosa"

L'interno del Partenone era uno spettacolo per la vista: con quelle alte colonne in stile dorico, il pavimento marmoreo così lucido da riflettere la propria immagine, le statue e i fregi dalle forme perfette e i magnifici affreschi alle pareti.
Fidia condusse Persefone nella parte più interna del tempio, nella quale solo le alte sacerdotesse della dea Atena potevano entrare. Oltrepassarono un grande portone dorato, entrando nella sala più sacra di tutte, esattamente nel cuore del Partenone.
Osservò rapita l'imponente statua di Atena, alta dodici metri e scolpita da Fidia stesso nel marmo, con elementi dorati e avorio. 
"Sei senza parole, non è vero?", le disse l'anziano mentore. 
La ragazza si avvicinò timorosa alla statua, quasi come se rischiasse di rovinarla, con la sua sola presenza. Allungò una mano, sentendo sotto i propri polpastrelli la liscia e fredda consistenza del marmo. "L'avete ultimata"
Fidia annuì. "E tu sei la prima persona a cui la mostro, finalmente ultimata"
Persefone staccò per un attimo il proprio sguardo dalla statua della sorellastra, osservando il suo mentore. La teneva in grande considerazione, per riservarle un simile onore. "E' perfetta", riuscì solamente a dire.
"Volevo mostrarla anche a Agoracrito ma dopo lo scherzo di stamattina...". Fidia si interruppe bruscamente, zittito da uno strano rumore. Un rumore sordo, che sembrava avere origine da dentro il pavimento marmoreo.
Persefone guardò il suo mentore, spaventata. Provò a dire qualcosa ma, la terra sotto ai suoi piedi cominciò a tremare violentemente. 
La statua di Atena oscillava pericolosamente da una parte all'altra.
"Dobbiamo andarcene subito di qui", le urlò Fidia prendendola per un braccio e cominciano a correre fuori.
Dei calcinacci caddero vicino a loro. Corsero molto più veloce.
Una luce, l'uscita. Ancora pochi metri.
Tre, due, uno...
Persefone e Fidia tirarono un sospiro di sollievo, quando furono fuori.
Il terremoto continuò ancora per alcuni secondi, poi tutto tornò tranquillo.
La giovane dea si guardò in giro, ancora parecchio smarrita. Era ricoperta da capo a piedi di polvere, ma almeno era salva. 
Si sentì sollevata, quando vide Agoracrito correre verso lei  e Fidia. Grazie agli dei, era salvo anche lui.
"State bene", disse abbracciandola.
"Sì, fortunatamente stiamo...", Persefone non riuscì a terminare la frase. Si staccò da Agoracrito ed indicò con l'indice un punto alle loro spalle.
Gli altri due si girarono, sbiancando all'istante.
C'era un cono di luce oscura, all'orizzonte, che si stagliava minaccioso contro il cielo, sereno fino a pochi attimi prima. Sembrava avesse origine da un'ampia crepa nel suolo.


Nda
Bene, dopo un capitolo quasi del tutto descrittivo, si entra nel vivo della storia.
PS: visto che non farò in tempo a postare un nuovo capitolo prima di natale, vi faccio i miei più sinceri auguri :D

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Le Schiere Infernali ***


Capitolo II: Le Schiere Infernali

Persofone non credeva di aver mai spronato il suo cavallo alato ad andare così veloce, in vita sua.
Doveva raggiungere il Monte Olimpo il più in fretta possibile. 
Doveva capire cosa stava succedendo, sul mondo degli umani.
Si fermò proprio davanti al grande portale che permetteva l'entrata nel palazzo di Zeus. Incurante degli sguardi contrariati delle guardie alla vista delle sue condizioni, Persefone smontò da cavallo, dirigendosi di corsa verso la sala del trono, sperando con tutta sè stessa di trovarci suo padre.

Il trono era vuoto. Suo padre non era lì, in quel momento. Sospirò mentre riprendeva fiato: non era mai stata molto atletica.  
"Sorellina, ma cosa ti è successo?"
Persefone non si era accorta delle altre divinità presenti nel grande salone, concentrata com'era solo sul suo obbiettivo.
Osservò Apollo con aria confusa: l'essere stata quasi sepolta viva all'interno di un tempio, la paura provata e poi quella cosa in cielo, le avevano creato come un senso di stordimento.
"Persefone, stai bene?", chiese nuovamente il dio. L'inflessione della sua voce non era la solita, allegra e spensierata, ma appariva più seria e preoccupata.
Solo in quel momento la giovane dea si ricordò che era ricoperta da capo a piedi di polvere: probabilmente, anche i suoi riccioli, che raccoglievano al loro interno ogni possibile sfumatura del legno, erano diventati bianchi di sporcizia.
Starnutì, a causa di tutta la polvere respirata.
"Si... io credo di stare bene. Ho solo avuto un piccolo incidente, durante il terremoto"
Osservò le facce dei presenti: solitamente gli dei dell'Olimpo erano per la maggior parte affabili e sorridenti, ma quel giorno vide solo tensione e timore, nelle loro espressioni. Notò con crescente preoccupazione che anche Helios aveva abbandonato il proprio carro solare, per dirigersi in fretta e furia sul Monte Olimpo.
"Che cos'è quella cosa in cielo?", chiese Persefone, con un filo di voce.
Apollo sospirò, indeciso se spiegarle cos'era successo o lasciarlo fare a suo padre, appena fosse tornato.
"Ade ha disposto le schiere infernali al confine del proprio regno". La voce era quella di suo fratello Dioniso.
La giovane seguì il suono delle sue parole, trovandolo seduto sui gradini sotto al trono. Aveva la faccia torva e, per la prima volta in vita sua, non portava la sua otre ricolma di vino, sottobraccio. 
Ade.
Il dio del sottosuolo per lei era sempre stato una figura evanescente, accennata a malapena in qualche vecchia storia che il padre le raccontava da bambina prima di andare a dormire. Aveva incontrato molte divinità, ma non aveva mai visto Ade.
Si chiese quale aspetto potesse avere.
Se lo immaginò scuro, fatto della stessa tenebra che governava, con i denti aguzzi e gli occhi iniettati di sangue. 
Rabbrividì al solo pensiero.
Dioniso aveva parlato anche di qualcos'altro, delle schiere infernali.
"Cosa sono le schiere infernali?"
"L'esercito del signore dell'Averno", rispose prontamente Apollo. "Ma ora sarà meglio che tu vada a darti una ripulita,  parleremo più tardi di questo". La prese sotto braccio e, insieme a Dioniso, si diressero verso la camera di Persefone.
 
***

Una volta giunta nella propria stanza, la giovane dea cercò di ripulirsi il più velocemente possibile. Non fu facile, però, rimuovere tutta quella polvere, specialmente dai capelli. Il fatto che fossero ricci, poi, non aiutava di certo.
Si vestì in fretta, prendendo la prima cosa che le era capitata a tiro.  Non le importava, per una volta, di apparire come una bambina.
Con i capelli ancora gocciolanti, si diresse verso la porta, dove Apollo e Dioniso l'attendevano.

"Già fatto?", chiese il dio della musica.
"Non è che hai scambiato nostra sorella per Afrodite, vero?", scherzò il fratello, dandogli un amichevole pacca sulla schiena.
Persefone si coprì la bocca con una mano, per evitare di ridere. Lasciò che i due sfogassero il proprio nervosismo ridendo, poi si decise a parlare.
"Ditemi qualcosa sull'esercito di Ade"
"Io ne so quanto te", disse Dioniso.
Apollo, invece, sospirò. "Le schiere infernali sono composte da creature avernali, demoni sopratutto. Distruggono qualsiasi cosa ostacoli il loro cammino. Ma qui, le mie conoscenze si interrompono"
Persefone impallidì. "Vorresti dirmi che Ade ha in mente di distruggere il mondo degli umani?"
"Persefone, non lo so"
Tutti e tre si guardarono con timore e paura. Un brivido freddo attraversò le loro schiene, per tutta la loro lunghezza.
"Dov'è nostro padre? Devo parlargli al più presto", disse la giovane dea.
"E' in riunione insieme a tua madre, Ermes, Atena, Afrodite, Ares..."
"Sono persino arrivati Poseidone, Estia ed Era!", lo interruppe Dioniso.
La giovane dea strabuzzò gli occhi.
"Esatto, piccola Persi, Era è tornata sull'Olimpo! Non lo faceva, da parecchio", disse il dio del vino.
"Se la memoria non mi inganna, l'ultima volta che ha messo piede qui dentro, è stato quando ha costretto nostro padre a firmare le carte per il divorzio... Ricordi, fratello?"
Entrambi i due giovani dei scoppiarono a ridere.
"Il fatto che la dea del matrimonio sia divorziata, la dice lunga su di esso..."
Persefone li osservò, sorridendo impercettibilmente. In situazioni normali, si sarebbe lasciata contagiare anche lei dall'allegria dei suoi due fratelli preferiti, ma quel giorno non c'era proprio niente, per cui rallegrarsi.
Camminarono in silenzio, fino a quando il corridoio si divise in un bivio: a destra si ritornava verso la sala del trono, mentre a sinistra si aprivano numerose porte, utilizzate sopratutto per le questioni ufficiali.
"Io vado in biblioteca, magari riesco a trovare qualcosa di più su queste schiere infernali", disse la dea, imboccando il corridoio di sinistra.
"Ci vediamo più tardi, allora", la salutò Apollo.
"Tienici informati, se trovi qualcosa", fece Dioniso.
Persefone annuì, incamminandosi nella direzione scelta. Passò davanti alla sala del consiglio dove, intorno ad un lungo tavolo di legno massello, suo padre aveva convocato gli altri dei.
Li sentì discutere animatamente e fu molto tentata di accostare l'orecchio alla porta, per sentire ciò che avevano da dire, ma si impose con tutta sè stessa di non farlo: quello non era il comportamento adatto al momento. E poi se sua madre l'avesse scoperta, l'avrebbe messa in punizione a vita.
 
***

La biblioteca era un ampia stanza, suddivisa longitudinalmente da decine e decine di scaffali.
 Persefone capiva perchè Ebe fosse così di cattivo umore, quando si trattava di fare le pulizie di primavera là dentro.
Quella era la più grande biblioteca esistente. Neanche la biblioteca che gli umani avevano costruito ad Alessandria d'Egitto, era lontanamente paragonabile a quella.
Ci si poteva perdere e passare anni, senza riuscire a trovare niente.
Persefone si guardò in giro, pensando a dove incominciare la propria ricerca. Avrebbe dovuto chiedere ad Apollo e Dioniso di aiutarla!
Va bene che provavano una vera propria repulsione, verso i libri, ma per una volta non sarebbero di certo morti.
E poi erano degli immortali. Almeno di quello, non si sarebbero dovuti preoccupare.
Sbuffò.
Decise di incamminarsi verso il fondo della sala, dove erano contenuti i volumi più antichi. E dove vi era la zona proibita.
La zona proibita era una saletta molto più piccola, il cui accesso era consentito solo ad una ristrettissima cerchia di divinità.
Inutile dire che Persefone non ne facesse parte.
L'entrata era chiusa da un solido cancello, forgiato da Efesto in un metallo sconosciuto, indistruttibile.
La giovane dea si fermò proprio davanti, osservandone le complicate decorazioni floreali  e scrutandone l'interno: nei vuoti fra un motivo e l'altro, si potevano scorgere diversi scaffali, ricolmi di spessi volumi.
Chissà di che cosa parlavano, quei volumi, per essere stati messi la dentro. Persefone era curiosa.
Timorosa, si avvicinò ancora di più al cancello: non si era mai spinta così in profondità, nella biblioteca. Solitamente veniva fermata prima, da sua madre, Demetra, che quando era sull'Olimpo le stava con il fiato sul collo, o da Ermes che, casualmente, spuntava sempre sul più bello.
Ma quel giorno erano entrambi occupati, alla riunione.
La giovane dea sorrise tra sè e sè: quel giorno era completamente sola, nella grande biblioteca. E nessuno avrebbe potuto impedirle di toccare il freddo metallo di quel cancello.
Persefone non era una ragazzina ribelle, però era curiosa e la sua sete di conoscenza doveva essere soddisfatta, in qualche modo. Era così che aveva messo piede nella città degli umani.
Allungò la mano, sfiorandolo con i polpastrelli e sentendone la consistenza solida.
Non se lo sarebbe mai aspetta, eppure, sotto al suo tocco, la serratura del cancello scattò ed esso si aprì, producendo un cigolio sinistro.
Spaventata, ritrasse la mano e fece qualche passo indietro.
Ma la sua curiosità ebbe di nuovo la meglio e, seppur timorosa e con le gambe che le tremavano ad ogni passo, si fece forza ed entrò.
Immediatamente, il cancello si richiuse alle sue spalle.
In un certo senso, però, Persefone non si sentì in trappola. Era solo una sensazione, eppure lei si sentiva esattamente dove doveva essere.
Seguendo sempre quella strana sensazione, si diresse verso lo scaffale più lontano dall'entrata.
Osservò stupefatta i vari titoli, sulla scaffalatura: su ogni singolo volume era inciso in lettere dorate il nome di una divinità.
Cercò il suo, trovandolo proprio di fianco a quello del signore dell'Averno. 
'Ogni libro, in questa biblioteca, ha un posto preciso', le aveva detto una volta sua madre.
Si chiese perchè il suo si trovasse lì, accanto a quello di quel dio sconosciuto e spettrale.
Senza quasi rendersene conto, li prese entrambi dallo scaffale, disponendoli sul grande tavolo al centro dello stanzino.
Stava per iniziare a sfogliarli, quando sentì dei passi, farsi sempre più vicini, e delle voci concitate.
Sapeva benissimo a chi appartenevano.
I suoi genitori.
Presa dal panico, si nascose sotto il tavolo. Fortunatamente la tovaglia su di esso era lunga fino al pavimento.
Solo una volta là sotto, si rese conto che i libri erano ancora appoggiati su di esso e non al loro posto, tra gli altri libri.
Trattenne il fiato, quando sentì nuovamente il cancello cigolare, segno che stessero entrando in quel piccolo ambiente.

"Zeus, ci sarà una guerra!", urlò Demetra. "Ade è troppo forte per noi". Era sull'orlo di una crisi isterica.
"Demetra, calmati.", disse in tono pacato suo marito, prendendole entrambe le mani tra le sue, nel tentativo di tranquillizzarla. "Il fatto che ci abbia inviato un messaggero significa che c'è ancora una speranza"
"Se Ade decidesse di attaccarci, non ci sarà proprio niente che potremo fare", ribattè lei, mantenendo quel tono di voce ancora troppo alto.
A peggiorare il tutto ci si metteva anche il soffitto basso, a volta: la voce della dea dell'agricoltura rimbombava e veniva riflessa dalle spesse pareti.
"Aspettiamo domani sera e sentiamo cosa ha da dire, prima di arrivare a conclusioni affrettate"
"Dici che sarà una buona idea organizzare una festa domani sera? E se Ade decidesse di non venire?"
Zeus provò a sorridere. "Conoscendolo, non mancherebbe per nulla al mondo. Non si perderebbe mai la vista delle altre divinità tremare di paura di fronte a quello che il suo esercito potrebbe fare". La sua espressione si irrigidì. "Dannato figlio di cagna"
"Se il suo esercito decidesse di attaccare, prima di arrivare sull'Olimpo, dovrebbe passare per le terre degli umani e per loro potrebbe essere la fine", disse Demetra.
"Gli umani si estinguerebbero", concluse Zeus. "Ma confido nel fatto che neanche Ade arriverebbe mai a tanto: è già successo che schierasse il proprio esercito ai confini del proprio regno, a causa di qualche scaramuccia tra divinità". Si arrestò un attimo, guardando la moglie negli occhi. "Sono certo che anche questa volta riusciremo a risolvere la questione con un po' di pazienza e buona diplomazia"
Demetra, seppur ancora poco convinta, annuì.
"Domani sera, durante la festa, noi divinità della prima generazione ci assenteremo un po', per sentire quello che quell'esaltato di Ade avrà da dire". Le si avvicinò, abbracciandola e le baciò delicatamente una tempia. "Vedrai, dammi tempo 48 ore e sarà tutto risolto"
Sentirono dei rumori, da sotto il tavolo e solo allora notarono i due volumi fuori posto.
Con calma e in modo molto silenzioso, Zeus si piegò in basso. Con un gesto secco scostò la tovaglia, lasciando intravvedere ciò che c'era al di sotto.
L'intruso, spaventato, lanciò un piccolo urlo.
Demetra strabuzzò gli occhi. "Kore, cosa ci fai lì sotto?"
Persefone, già sull'orlo del pianto per quello che aveva appena sentito, lasciò che due grandi lacrimoni le scendessero lungo le guance.


Nda
Piccola precisazione: come so che avete già notato, non è detto che tutte le parentele del mito originale siano presenti anche qui. Come già detto, la mia storia è una versione un po' alternativa.
Fatemi sapere cosa ne pensate ;)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Confidenze ***


Capitolo III: Confidenze

Inutile dire che, dopo ciò che era successo nella zona proibita, Persefone si fosse presa una bella strigliata dai suoi genitori -da sua madre, in special modo-.
Ma, mentre li ascoltava -ascoltava sua madre, Zeus si limitava ad annuire alle parole della moglie-, la giovane dea della prima aveva captato qualcosa di strano: non era rabbia, o rimprovero, o delusione, quella  che traspariva dalle parole di Demetra, ma preoccupazione e timore. A Persefone sarebbe solo bastato capire di cosa sua madre avesse paura, per risolvere l'enigma. 
Impresa tutt'altro che facile.
Però la dea, forse, aveva capito di cosa si trattava. O, almeno, era convinta di essere sulla buona strada. C'era una domanda che le ronzava per la testa, da quando aveva messo piede in quella piccola stanza: com'era possibile che il cancello si fosse aperto, al suo tocco, quando tutti sapevano benissimo che a lei l'accesso non sarebbe dovuto essere consentito?
Aveva posto quella domanda a sua madre ma Demetra non le aveva risposto, congedandola malamente e intimandole di andare immediatamente nella sua stanza, in punizione. Per sicurezza, aveva pure pure incaricato la sua più fidata ancella, Leucippe, di seguirla ovunque.
Persefone aveva sbuffato e protestato: non voleva anche il fiato di quella ninfa dei boschi inacidita, sul collo.
Ovviamente era stato tutto inutile.
 
***

La mattina successiva...

Leucippe aveva passato tutta la notte fuori dalla camera di Persefone. 
Quella ninfa dei boschi aveva il sonno tremendamente leggero, sfortunatamente. E Persefone doveva assolutamente andare ad Atene, per parlare con Fidia della situazione e per controllare che il terremoto non avesse causato troppi danni al Partenone.
La giovane dea della primavera sbuffò, cercando di trovare una soluzione per uscire dalla propria camera alla svelta, senza che l'ancella di sua madre la scoprisse.
Passare dalla porta d'entrata era decisamente fuori discussione, quindi restava solo la portafinestra che dava sul balcone: si sarebbe dovuta arrampicare, per poter raggiungere il proprio cavallo alato, nelle stalle.
Cercando di fare meno rumore possibile, abbassò timorosa la maniglia ed uscì all'aria fresca: anche sul Monte Olimpo, all'alba, la temperatura era frizzantina. Persefone istintivamente si raggomitolò nel sottile mantello che portava sulle spalle. 
Si avvicinò alla balconata, stringendola forte e guardando di sotto: fortunatamente la sua stanza era al primo piano; anche se fosse caduta non si sarebbe fatta poi così male... E poi era una dea, teoricamente sarebbe dovuta essere più resistente di un umano. E immortale.
Si avvicinò al muro, su cui cresceva un po' di edera e, stando molto attenta a non cadere, scavalcò la balconata.
"Che gli dei me la mandino buona", sussurrò mentre afferrava con entrambe le mani un ramo all'apparenza robusto.
Dovette mordersi la lingua, per non mettersi ad urlare. Eppure sembrava facile, quando vedeva Apollo e Dioniso farlo!
Scese lentamente. Un piede dopo l'altro, le mani artigliate ai rami d'edera e la testa che si riempiva di imprecazioni sempre più fantasiose. 
Mancava forse un metro, alla fine della scalata, quando scivolò, perdendo l'appiglio e cadendo rumorosamente sulla bassa siepe proprio lì sotto. Lanciò un piccolo urlo.
Si alzò a fatica, massaggiandosi il fondoschiena parecchio dolorante e poi si guardò intorno, sperando che nessuno l'avesse vista o sentita.
Tirò un sospiro di sollievo, quando si rese conto di essere completamente sola.
Con un'andatura che cercava di apparire il più normale possibile -nonostante la caduta tutt'altro che piacevole-, si diresse verso il piccolo boschetto al centro dell'ampio parco interno all'Olimpo: dal punto dove si trovava lei, passare per il boschetto era la via più veloce per raggiungere le stalle. E poi era una via coperta, dove nessuno l'avrebbe mai vista. 

Una volta arrivata nelle stalle, andò subito a prendere il proprio cavallo alato ma, a differenza delle altre mattine, non era sellato. Comprensibile, visto quello che stava accadendo. Apollo aveva senz'altro qualcos'altro a cui pensare, al posto del cavallo di sua sorella.
Stava sistemando la sella, quando qualcuno le giunse alle spalle.
"Non ti facevo così mattiniera". Era la voce di sua zia, Estia.
Persefone tirò nuovamente un sospiro di sollievo: aveva creduto che fosse Leucippe o, ancora peggio, sua madre. Sua zia invece era una delle poche persone sincere, con lei.
"Ho un impegno", rispose lei gentilmente.
"Così importante da rischiare un'altra scenata di tua madre?", ribattè Estia con l'espressione di chi la sapeva lunga.
Solo in quell'istante la giovane dea pensò alle possibili conseguenze che sarebbero avvenute quando Leucippe sarebbe andata a riferire a sua madre che in qualche modo era riuscita a scappare. Si porto una mano alla fronte. Che stupida che era stata! Possibile che non ci aveva pensato prima?
Nelle iridi color nocciola di Estia passò una punta di ironia, al vedere il comportamento della nipote. 
"Non preoccuparti, Persefone, ho lasciato un messaggio a tua madre nel quale l'avvisavo che oggi saresti stata un po' di tempo con me"
La giovane la guardò stupita. "Come facevi a sapere che sarei venuta qui?"
La dea del focolare le sorrise. "Perchè sarebbe esattamente lo stesso posto e la stessa ora a cui sarei venuta io, se volessi andarmene via e passare inosservata"
Persefone sorrise a sua volta: era più simile a sua zia di quanto credesse.
 
***
 
Atene...

Persefone ed Estia passeggiavano come due comunissime mortali tra la marea di gente che affollava gli stretti vicoli dove ogni giorno di svolgeva il mercato.
Era la prima volta, che le due passavano insieme tra gli umani. Anche quello le accomunava: l'amore smisurato che provavano per il genere umano. E la sensazione, che stare a contatto con quella magnifica razza dava: si sentivano entrambe più a casa tra loro, per gli stretti vicoli di Atene, che tra gli spaziosi saloni della reggia di Zeus, sul Monte Olimpo. 
Estia aveva finalmente trovato il proprio posto nell'Universo, decidendo di vivere tra gli umani; Persefone ancora no, ma era sulla buona strada.
"Come va la costruzione del Partenone?", chiese la dea del focolare.
Il viso di Persefone si illuminò: nessuno le aveva mai posto una simile domanda, prima. Chi sapeva di esso era o direttamente coinvolto -vedi Agoracrito-, oppure non gliene poteva importare una mazza -come ad Apollo e Dioniso-.
"Molto bene, è quasi ultimato", disse con un sorriso a trentadue denti. Il suo volto però si rabbuiò presto, al pensiero di quello che era successo il giorno precedente. "Sempre sperando che il terremoto di ieri non abbia fatto troppi danni"
Estia sospirò: segno che il problema con Ade la impensieriva. E non poco. 
Persefone le sorrise dolcemente, nel tentativo di farla stare un po' meglio.
"Papà ha detto che entro domani mattina la questione sarà risolta e che tutto tornerà a posto", disse per rassicurarla. La dea della primavera si fidava ciecamente di suo padre.
"Già...", ribattè Estia, pensierosa. Lei sapeva più di quanto dava a vedere, sulla questione. Ma per un motivo o per l'altro, non poteva assolutamente farne parola con nessuno. Men che meno con Persefone.
Restarono in silenzio per un po', ognuna immersa nei propri pensieri. Camminando e guardando con curiosità i vari banchi del mercato.
"Ho saputo che presto costruiranno un  tempio basato sui tuoi disegni", disse Estia.
"Sì!", confermò la dea della primavera pavoneggiandosi proprio come una bambina a cui è stato appena fatto un complimento.
Quel comportamento ancora così infantile e innocente fece sorridere sua zia.
"Cioè, non è proprio un tempio vero  e proprio... avrà dimensioni molto ridotte e sarà in una posizione secondaria ma..."
"Per iniziare non è affatto male", la interruppe Estia prima che si facesse venire qualche complesso di inferiorità: Persefone era una creatura molto dolce, ma anche molto fragile e insicura. Però, con un po' di duro lavoro, era riuscita a credere un po' di più in sè stessa.
La nipote la osservò, piena di gratitudine per la fiducia in sè stessa che la zia le aveva sempre infuso.

Camminarono ancora per un po', fino a quando giunsero nell'agorà che, nonostante l'ora, era già gremita di pensatori, filosofi e dei loro allievi.
"C'è un ragazzo che ci sta facendo dei gesti, là", disse Estia, puntando il dito verso la scalinata che portava all'acropoli.
Persefone aguzzò la vista, nel tentativo di capire  chi fosse. 
Sorrise, una volta messa a fuoco la figura.
"E' Agoracrito, uno degli aiutanti di Fidia", spiegò a sua zia. Si diresse in quella direzione ma, dopo alcuni passi, si fermò: aveva dimenticato qualcosa. Tornò verso Estia. "Vuoi venire anche tu? Così ti mostro come procedono i lavori"
La dea del focolare le sorrise con fare un po' materno. "Magari la prossima volta"
"Oh...ok". Persefone ci restò un po' delusa. "Allora ci vediamo stasera"
Ad un cenno di saluto di Estia, la giovane dea si voltò e a passo spedito si diresse verso Agoracrito, che pazientemente l'aspettava seduto su uno dei gradini.

***

"Chi era?", chiese curioso Agoracrito, mentre, insieme a Persefone, percorreva la lunga scalinata che portava all'acropoli.
"Chi?", ribattè la giovane, fingendo di non capire.
"La donna che era con te"
"Oh...ehm...", Persefone era sempre stata una pessima bugiarda. "...una mia zia". Dai, alla fine quella era la verità.
Agoracrito la fissò molto attentamente. La sua espressione concentrata aveva un chè di buffo, che fece ridere la ragazza.
"Si, si", disse, fingendosi offeso, "Ridi pure. Per ora"

In cima alla scalinata, ad attenderli, trovarono Fidia, con una faccia truce. Di sicuro non portava buone notizie, riguardo alle condizioni del Partenone.
Persefone e Agoracrito si guardarono, allarmati.
"E' ancora in piedi, vero?", chiese il giovane.
"Il Partenone ha resistito", disse il geniale scultore. "E' conciato maluccio ma ha resistito"
"Definisca il termine 'maluccio' "
"Agoracrito, invece di stare qui impalato, vai a vedere tu stesso", ribattè irritato.
"Signor sì, capitano", rispose il diretto interessato, mettendosi sull'attenti  e accennando un saluto militare. Poi corse via, verso la sua meta.
Fidia scosse la testa; sembrava sconsolato eppure, i suoi occhi azzurri, esprimevano un po' di divertimento. "Non crescerà mai", commentò.
Nel mentre, il suo sguardo fu rapito dal grande cono nero, che vorticava velocemente intorno a sè stesso, all'orizzonte.
Sospirò. "Per tutti gli dei... non ho mai visto niente di simile"
Persevone lo osservò, preoccupata. "Ade ha posizionato il suo esercito ai confini del proprio regno". 
Allo sguardo interessato dell'anziano mentore, si pentì subito di avere parlato; ma non lo aveva fatto apposta, le parole le erano uscite spontaneamente.
L'uomo la scrutò, con fare indagatorio: non sapeva assolutamente niente di quella giovane eppure, per qualche strana ragione, aveva fiducia in lei. Ma quell'informazione...
"Come fai a dire una cosa del genere, bambina mia?"
Già... e ora cosa avrebbe risposto Persefone? Sentiva il panico, crescerle dentro. "Ehm... lo dicevano in giro, stamattina al mercato"
"Non bisognerebbe nominare il signore dell'Averno in questo modo, ragazzina". La voce alle spalle della dea era dura e tremendamente seria. Si voltò, per vedere chi avesse parlato e si ritrovò faccia a faccia con la gransacerdotessa di Atena.
La donna la scrutò da capo a piedi, con quell'espressione fredda, da cui era impossibile percepire ogni emozione. 
Persefone si sentiva sempre un po' intimidita, da quella presenza, e il suo più grande timore era quello che, in quanto gransacerdotessa, avrebbe potuto scoprire chi fosse in realtà.
Stando comunque a debita distanza, li seguì mentre si dirigevano verso il Partenone.
L'edifico era stato rinforzato con diversi sostegni, ma sembrava ancora solido. L'unico punto veramente critico era il fregio del frontone triangolare, che giaceva sui gradini, ridotto in mille pezzi.
Persefone provò un moto di tristezza, nell'osservarlo.
Notò con dispiacere che anche alcune colonne portavano delle profonde crepe: sarebbero senz'altro state stuccate o, nei casi più gravi, sostituite con delle nuove copie.
"Che fai, ragazzina, non entri a dare un'occhiata?", chiese amichevolmente Fidia, vedendola là immobile, a contemplare i resti a terra.
Persefone non se lo fece ripetere due volte. Corse velocemente dietro al proprio Maestro.
"Dopo la forte scossa di ieri pomeriggio, se ne sono susseguite diverse altre", disse con tono amareggiato Fidia. "Fortunatamente di intensità minore. Dubito che il Partenone resisterebbe, ad un'altra scossa di quella intensità..."

***
 
Diverse ore più tardi...

L'interno del tempio non era messo così male, rispetto a all'idea che si era fatta Persefone. Era messo anche meglio dell'esterno. 
Sarebbero dovute essere sostituite giusto qualche colonna. E ovviamente c'era da rifare completamente l'intonaco. 
Fortunatamente era tutti interventi fattibili, che non avrebbero minato troppo la stabilità complessiva dell'edificio.
Persefone si sentì però sollevata, quando finalmente fu all'esterno, a respirare nuovamente l'aria fresca.
In un punto lontano del cantiere, vide Agoracrito discutere con qualcuno, ma non diede troppo peso alla cosa, presa com'era ad ascoltare Fidia dare ordini ai diversi operai in azione: a causa del terremoto del giorno prima e del lavoro extra che esso aveva causato, il numero degli uomini che lavoravano all'abbellimento dell'acropoli ateniese era aumentato.
Ad un certo punto, Agoracrito e l'uomo sconosciuto le si avvicinarono.
"Questo tizio dice di essere un tuo conoscente", disse il giovane, indicando la persona alla sua destra.
Persefone studiò l'uomo, cercando di capire chi fosse. Un ampio sorriso fece la sua comparsa sul suo volto. "Certo che lo conosco!". Nonostante l'aspetto non fosse il suo -per motivi più che ovvi-, era impossibile per la giovane dea non riconoscere Ermes. Lo abbracciò.
"Quindi posso lasciarvi soli e tornare alle mie mansioni?", chiese cauto Agoracrito. Nonostante facesse il buffone ogni qual volta gli era possibile, aveva un animo dolce e premuroso. Specialmente verso Persefone, che considerava 'la piccola del branco'.
La ragazza annuì.
"Persefone dobbiamo tornare immediatamente sul Monte Olimpo", le disse Ermes, una volta che Agoracrito fu lontano. "Siamo già in ritardo e tuo padre ha chiaramente espresso che vuole tutti in perfetto orario, questa sera alla festa".
Senza aggiungere altro, le prese delicatamente un polso e la condusse via.


Nda
Non credevo davvero di farcela a postare questo capitolo prima della fine dell'anno, però ci sono riuscita.
Nel prossimo capitolo farà la sua comparsa (finalmente) Ade. Ma aspettatevelo completamente diverso dal solito ahahahah ;)
Bene, per ultima cosa, volevo augurarvi buon anno. Auguri! :D

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La Festa, parte I ***


Capitolo IV: La Festa, parte I

"Io quello non lo metto!", urlò Persefone, una volta scoperto l'abito che sua madre avrebbe voluto farle indossare per quella sera. 
Era rosa. 
Tanto rosa. 
Troppo rosa. A stile impero, lungo fino a terra e con tanti merletti e pizzi. Per completare l'orribile opera poi, un grande fiocco, sul retro.
Afrodite, alle sue spalle, si mise a sghignazzare.
Le figlie di Zeus si trovavano tutte riunite nel grande salone su cui le loro camere affacciavano, intente a prepararsi per l'imminente festa.
Artemide, infastidita dal comportamento infantile della dea della bellezza, le tirò una gomitata tutt'altro che gentile nelle costole. Sorrise, quando la sentì genere per il dolore.
Atena, al suo fianco, fulminò la dea della caccia con lo sguardo. Poi osservò la sorella minore con compassione: non doveva essere per niente facile avere Demetra come madre.
"Piuttosto che indossare quello, vengo vestita così come sono", continuò ad urlare Persefone, ancora sconvolta alla vista di quell'abito. Neanche quando era una bambina, avrebbe mai indossato un abito simile di sua spontanea iniziativa, o con almeno un minimo di volontà propria.
"Non hai molta scelta...", disse Atena, con il solito tono di voce pacato. Non era saggio contraddire Demetra.
"Certo che ha scelta", ribattè Artemide, ignorando deliberatamente le occhiate di fuoco della dea della saggezza. "Può scegliere di indossare quell'abito ridicolo ed essere presa in giro a vita da tutti gli invitati...Oppure indossare un altro abito"
Atena alzò gli occhi al cielo mentre osservava Persefone guardare la sorella con pura ammirazione. "Oh certo, certo", borbottò tra sè e sè, "Infondi pure nella nostra sorellina un po' di ribellione, poi la sentiamo io e te sua madre"
"E' ora che Demetra capisca che sua figlia non è più una bambina", esclamò Artemide, esasperata.
Afrodite, che fino a quel momento era rimasta in disparte, a sghignazzare, si fece avanti. "Persefone, ora mi occupo io di te", disse, prendendola per mano e conducendola nelle proprie camere.
Atena e Artemide le guardarono allontanarsi. Mentre la seconda si limitò ad un alzata di spalle, la prima continuava a borbottare tra sè e sè. "La vestirà da prostituta, con uno dei suoi soliti abitini striminziti, ecco cosa farà!"
"Meglio così che da bambina", commentò la dea della caccia. Prese una mela dal portafrutta su uno dei bassi tavolini presenti al centro della sala e l'addentò. "Vado a tirare un po' con l'arco, ci vediamo dopo alla festa", disse con la bocca ancora piena.
"Ma hai appena indossato l'abito per la festa, non mi sembra il caso che tu vada ad allenarti, con il rischio di rovinarlo...", le urlò dietro Atena. Le sue parole però furono buttate al vento.
 
***

Un paio di ore più tardi...

La festa era già incominciata da un un po', quando Persefone e Afrodite misero piede nel grande salone addobbato a festa da Ebe.
Tutti gli invitati si girarono ad osservarle: per la prima volta, non guardavano solo la dea della bellezza con ammirazione, ma anche la figura più minuta al suo fianco.
La dea della primavera si stupì, sia per la reazione delle persone che vedeva scostarsi al suo passaggio e, poi, di sè stessa: non avrebbe mai immaginato di riuscire a gestire così bene lo sguardo di tanta gente. Camminava tra la folla, con il passo lento e misurato, in perfetta sincronia con quello della sorella, e teneva il mento alto e la schiena composta, come la principessa che sarebbe dovuta essere.
Afrodite le aveva fatto indossare un abito rosso, monospalla, che le lasciava completamente scoperto un braccio, mentre l'altro aveva la manica lunga, il corpetto era stretto e la gonna era particolare: fatta di stoffa spessa fino a metà coscia e poi sottile, di seta semitrasparente, quasi impalpabile, con un ampio spacco, che le lasciava scoperta quasi tutta la gamba destra, e  un breve strascico. Inoltre, per far risaltare meglio il suo sottile punto vita, era stata messa una sottile cintura d'oro, con dei ricami floreali. Afrodite aveva insistito per truccarla, applicando un po' di polvere di Cipro sulla sua pelle, stando attenta a non coprire troppo le lentiggini, poi le aveva messo un po' di ombretto nero e altre strane cose di cui la giovane dea non ricordava il nome, che le davano uno sguardo all'apparenza più grande e magnetico, e del rossetto rosso sulle labbra. Era perfino riuscita a districare i suoi riccioli ribelli, pettinandoli in una treccia a corona, in cui aveva inserito qua e là alcuni piccoli fiorellini di bosco.
Camminarono tra i vari invitati, facendo qua e là qualche cenno di saluto, e si diressero verso il trono, su cui sedevano Demetra e Zeus.
Se il re dell'Olimpo sorrise, al vedere la sua figlia minore finalmente valorizzata da ciò che indossava, la sua consorte fece una faccia truce.
Atena, in piedi di fianco al trono del padre, per un attimo credette di aver visto del fumo, uscirle dalle orecchie. Certa fu la ventata d'aria gelida che invase la sala, zittendo tutti gli invitati, che si girarono verso i sovrani.
"Vai a cambiarti e togliti quella roba dalla faccia", sibilò alla figlia.
"No, madre", ribattè la giovane dea della primavera con un tono sicuro e non da lei; quella era la prima volta che contraddiceva così apertamente la dea dei raccolti.
"Kore, vai", ripetè ancora, questa volta con un tono di voce decisamente più intimidatorio. Era incredibile come, anche in quel momento, la chiamasse con quell'odioso soprannome.
"Demetra, lasciala un po' in pace", sbottò Afrodite.
"Tu non osare..."
"Perchè? Cosa mi faresti se no? Tu non sei mia madre", urlò la dea della bellezza, al limite dell'esasperazione. Prese la sorella per mano, conducendola a lunghi passi lontana dal trono.
Demetra sospirò, sconfortata.
"Lasciala divertire un po'", le sussurrò dolcemente Zeus ad un orecchio. "Nostra figlia è ormai un'adulta, è in grado di badare a sè stessa"
Per un attimo, davanti agli occhi di Demetra, comparve un'immagine di molti anni prima, del giorno in cui la sua Kore era venuta alla luce. Rivide le moire, mentre davano la loro profezia. Sentì le loro infauste parole rimbombarle nelle orecchie.  "No, non lo è", disse semplicemente.

"Complimenti", disse Apollo, avvicinandosi alle due sorelle. Alle sue spalle, Dioniso si mise a battere le mani. Osservarono entrambi con sguardo curioso la sorella minore. "E questo splendore chi è?", chiese ironico, mentre si portava una sua mano alle labbra, per un lento baciamano.
Persefone arrossì, di fronte al comportamento del fratello. 
"Finalmente la piccola Persefone ha deciso di entrare nel mondo degli adulti", commentò divertito.
"E che entrata!", gli fece il verso Dioniso. "A proposito, i miei complimenti a entrambe per la spassosa scenetta a cui ci avete fatto assistere"
I due dei si prostrarono in un improvvisato inchino. Mossa studiata apposta per far ridere le due sorelle.
"Certo, certo...", disse Afrodite, liquidandoli con un gesto della mano, distratta: tutta la sua attenzione era focalizzata sull'avvenente dio della guerra, che la osserva con aria maliziosa, appoggiato ad una delle numerose colonne della sala. "Vi affido la piccola Persefone. Mi raccomando, non la voglio veder tornare sobria, stanotte". Ormai era si era già allontanata di qualche passo, si rigirò verso i fratelli. "Anzi, non voglio proprio vederla tornare nei propri alloggi". Li fece l'occhiolino, in un gesto d'intesa.
 Apollo si rigirò verso Persefone che aveva osservato la scena con la fronte aggrottata, non riuscendo a capire bene i sottointesi del discorso che quei tre si erano scambiati. Sospirò, guardandola con un sorriso furbetto sulle labbra. "Ah, beata innocenza", disse, prendendola sotto braccio. "Andiamo a prendere qualcosa da bere"
Stava per dirigersi verso il buffet, ma si fermò, soffocando una risatina sulla spalla della sua sorellina. "Dioniso!", urlò, facendo sobbalzare il dio del vino, immerso in pensieri tutt'altro che casti sulle giovani ridenti e in abiti succinti che gli danzavano davanti agli occhi. "Smettila di correre dietro alle sottane di qualche insulsa ninfetta. Per una volta accontentati della piccola Persefone". Apollo la guardò con attenzione e il suo sguardo attento scivolò lungo le forme della giovane dea. "Che poi accontentarsi è un termine decisamente troppo riduttivo"
"La nostra sorellina potrebbe fare invidia anche ad Afrodite", commentò Dioniso, ritornato con i piedi sull'Olimpo.
Il dio della musica gli tirò un'amichevole pacca sulla schiena. "Si, ma non dirlo a voce troppo alta: sai benissimo quanto Afrodite possa essere permalosa", disse ironico.
Persefone, qualche passo più indietro , osservò con aria divertita i due fratelli, che non facevano altro che tirarsi frecciatine.
Dioniso le si avvicinò, arpionandole la sottile vita con un braccio. "Sorellina, dopo la squisitezza che ti farò bere questa sera, schiferai persino l'ambrosia"

Sarà stato per il troppo vino, intervallato qua e là con qualche liquore -il tutto a stomaco vuoto- ma Persefone si sentiva davvero leggera, quella sera.
Non sembrava neanche un clima da guerra imminente, quello che si respirava nel salone.
Osservò Dioniso, intento a danzare con una mezza dozzina di ninfee, poco lontano da lei e, istintivamente, guardò Apollo con lo sguardo implorante: quanto le sarebbe piaciuto ballare un po' anche lei!
Il dio delle arti le sorrise, prendendole una mano e portandola al centro della grande pista da ballo. 
Quasi a volerlo fare apposta, i musici si misero ad intonare una musica lenta e dolce. 
Persefone arrossì, distogliendo lo sguardo da quello del fratello. "Forse sarà meglio rimandare a più tardi", mormorò imbarazzata.
Apollo rise. "Ormai è troppo tardi per tirarsi indietro"
Le cinse la vita con braccio stringendola a sè e con la mano libera strinse quella della sorella, che appoggiò la restante sulla sua spalla.
Il ritmo era lento e, di conseguenza, anche i loro movimenti lo erano.
"Come stai trovando la festa, sorellina?", le chiese ad un orecchio.
"Mi sto divertendo molto", rispose lei con un largo sorriso.
"Decisamente meglio che nascondersi sotto le sottane di Demetra o Atena", commentò il dio.
"Sai benissimo che non potevo fare altrimenti". Per un attimo il suo sguardo si staccò da quello del fratello, vagando pensieroso per la stanza. Sapeva benissimo che, anche senza notarlo, sua madre la stava tenendo d'occhio. Era certa che ci sarebbero state delle conseguenze, il giorno successivo.
La musica cambiò e il ritmo divenne leggermente più movimentato.
"Quando te lo dico, proviamo a fare un casquet", l'avvisò Apollo.
Persefone annuì, curiosa di provare nuovi passi.
Nessuno dei due sentì l'improvviso cambio di atmosfera, che fu simile ad una folata di vento gelido, o la musica che di colpo si interrompeva all'arrivo di quell'ospite tanto atteso. 
Il Signore degli Inferi fece il suo ingresso nella sala, provocando un silenzio tombale e una generale sensazione di inquietudine negli invitati.
"E casquet...", disse Apollo, ma il suo sguardo fu immediatamente catturato dalla figura che avanzava lentamente verso i due sovrani del Monte Olimpo. Si dimenticò perfino di Persefone, in precario equilibrio tra le sue braccia, lasciandola semplicemente andare.
La giovane dea della primavera aveva fatto tutto come il dio delle arti le aveva consigliato, ma non si aspettava assolutamente che, una volta cessata la musica, Apollo l'avrebbe semplicemente lasciata andare. 
Inevitabilmente, cadde a terra, sbattendo il fondoschiena in modo tutt'altro che delicato sul freddo -e duro- marmo bianco del salone. Le scappò un piccolo urlo di protesta.
Si guardò intorno, mentre le sue guance pallide si coloravano velocemente di rosso, al vedere lo sguardo di tutti gli invitati incollato alla propria figura. Fortunatamente, ripresero subito tutti a guardare qualcosa, poco lontano da lei.
Anche Persefone, istintivamente, si mise ad osservare in quella direzione: davanti a lei vi era una persona sconosciuta, con un viso pallido, decisamente più pallido del suo -e ce ne voleva per apparire più bianchi di lei-, lunghi capelli di un biondo talmente chiaro, da apparire quasi bianchi, raccolti in un'austera coda. Indossava una veste nera, lunga fino a terra e con le maniche lunghe, che lo faceva apparire ancora più smorto. Sul capo indossava una specie di corona d'oro, con alcune pietre incastonate, ma, nel complesso, relativamente semplice.
Lo vide avvicinarsi a lei ed osservarla con aria curiosa.
Solo una volta a terra, Persefone si rese conto che, forse, aveva un po' esagerato con il vino: la stanza le pareva che girasse e, se solo avesse provato ad alzarsi da sola, era certa che sarebbe caduta nuovamente. Meglio evitare una seconda figuraccia.
Inaspettatamente, lo sconosciuto le porse una mano mano per aiutarla ad alzarsi. Mentre una Persefone ancora decisamente incerta sulle proprie gambe accettava di buon grado l'aiuto che le veniva offerto, i propri occhi, colore dei verdi pascoli primaverili, si scontrarono con quelli del Signore dell'Averno, di un azzurro chiaro, quasi come se fossero fatti di ghiaccio.
Gli osservò attentamente, anche quando il dio, dopo averla aiutata a rimettersi in piedi, le fece un lento baciamano. 
La giovane dea sentì un brivido, simile ad una scossa, quando le fredde labbra del dio toccarono la della sua mano, soffice e vellutata.
"E' un piacere rivedervi, Ade". Fu Demetra, seguita da Zeus, ad interrompere quello strano momento.
Persefone sbattè più volte le palpebre, cercando di ritornare alla realtà. Distolse immediatamente il proprio sguardo da quello del dio, improvvisamente intimorita da lui. Le sue guance, nel frattempo, stavano assumendo un colore tendente al rosso vermiglio.
"Mi rincresce molto per la triste scena a cui avete dovuto assistere", continuò la dea, con un tono di voce che cercava di essere il più rammaricato possibile. "Ci saranno delle conseguenze, per quello che è successo". Osservò con aria truce la figlia.
"Non preoccupatevi, Demetra. E' stato un piacere poter aiutare vostra figlia Persefone". La voce aveva una tonalità molto bassa e le parole venivano scandite con lentezza, quasi con fare ammaliatore.
Persefone per un attimo lo guardò, chiedendosi come facesse a sapere il suo nome. Ma venne presto riportata alla realtà da Demetra, che, approfittando del breve scambio di convenevoli tra Zeus e Ade, le arpionò malamente un braccio, portandola via.
"Ora tu vai immediatamente in camera tua", le sibilò, furiosa.


Nda
Ammettetelo, un Ade così non ve lo immaginavate proprio ahahahahah. Avevo detto che era una versione un po' alternativa ;)
Ma, per questa descrizione, ho la scienza dalla mia parte: l'Averno è un luogo senza la luce del Sole e, nei luoghi con scarsità di luce, gli abitanti non presentano di certo caratteristiche fisiche dai colori scuri; prendete per esempio i paesi della Scandinavia: quei poveretti non vedono il Sole per quasi sei mesi all'anno e hanno tutti la pelle bianca, gli occhi azzurri e i capelli biondi. Ahahahah spero di avervi convinti.
Per l'outfit di Persefone avevo pensato ad un misto tra questi due abiti: abito1 e abito2

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La festa, parte II ***


Capitolo IV: La festa, parte II

Tanto per cambiare, la 'carceriera' della sfortuna Persefone era nuovamente quella ninfa dei boschi inacidita che seguiva sempre sua madre come un cagnolino segue il proprio padrone.
La giovane dea sbuffò un'altra volta mentre osservava Leucippe  non  distoglierle gli occhi di dosso. Questa volta, per sicurezza, invece di restare fuori dalla sua camera, aveva insistito a tutti i costi per entrare. Ed ora non smetteva un attimo di squadrarla, seduta sulla sedia dello scrittoio della dea.   
Persefone aveva prima pianto dalla frustrazione, poi aveva inveito verbalmente contro la ninfa e, ovviamente, contro sua madre e poi si era lasciata andare alla rassegnazione; camminava semplicemente avanti e indietro per la propria camera a passo svelto.
Ad un certo punto si mise sdraiata sul proprio letto, osservando il soffitto con aria distratta: non si sarebbe di certo addormentata con gli occhi della dama di compagnia di sua madre puntati addosso, ma non poteva neanche continuare a camminare per la stanza. E di altre opzioni non ce ne erano.
Osservava il soffitto a volta affrescato con dei sottili ricami floreali dalle tinte delicate quando una melodia conosciuta si diffuse per la stanza: Persefone conosceva fin troppo bene quel suono e, prontamente, si tappò le orecchie con le mani. Leucippe le lanciò un'occhiataccia; stava per chiederle cosa stesse facendo, ma le palpebre le si fecero di colpo pesanti e si addormentò.
La giovane dea della primavera dovette mettersi una mano davanti alla bocca per non scoppiare a ridere. Si guardò in giro, cercando con lo sguardo la cetra che aveva prodotto quel suono e, ovviamente, il suo proprietario: il dio delle arti.
Sentì un rumore alla finestra e proprio in quel momento vide un sasso sbattere contro il vetro, seguito immediatamente da un altro.
Aprì la portafinestra e si affacciò al balcone: sotto, con l'aria di chi ne aveva appena combinata una, vi erano Apollo e Dioniso.
Li guardò, scuotendo la testa con aria divertita.
"Che fai: resti lì o scendi?"
Persefone si guardò in giro, pensando ad un modo per scendere: con quel vestito era praticamente impossibile provare a scendere tenendosi per l'edera, come aveva fatto quella mattina.
Osservò il volto dei due fratelli e notò che su quello di Dioniso era comparso un sorriso furbetto. Apollo nel frattempo le indicò con il dito indice i piedi del dio del vino: portava delle strane scarpe con delle piccole ali sul tallone.
"Ma che...?"
La giovane dea della primavera non riuscì a finire la frase: Dioniso si era alzato in volo e, dopo aver percorso alcuni metri, cadde sul balcone, sbattendo in modo tutt'altro delicato il sedere a terra.
"Sembra più facile quando a farlo è Ermes", si lamentò il dio, massaggiandosi il fondoschiena. Guardò la sorella, che nel frattempo lo studiava con fare indagatore. "Bene, sorellina", le disse avvicinandosi "Ora ti porto giù"
Persefone, al vederlo avvicinarsi, fece alcuni passi indietro. Improvvisamente l'arrampicarsi sull'edera non era poi una così cattiva idea...  
Non fece in tempo a protestare che Dioniso le arpionò la vita e si vibrò in aria.
Forse fu a causa della dea, che non aveva alcuna intenzione di restare ferma, oppure fu a causa della totale mancanza di esperienza del dio del vino con i talari, o tutte e due le cose, ma, dopo un breve volo dritto, cadere entrambi al suolo: Persefone atterrò con tutto il suo dolce peso sul povero Dioniso che, suo malgrado, le attutì la caduta.
Si alzarono a fatica massaggiandosi, chi più e chi meno, le parti del corpo doloranti, sotto lo sguardo divertito di Apollo.
"La prossima volta faccio io", commentò.
"La prossima volta scendo da sola", ribattè Persefone, cercando di togliere la povere dall'elegante abito. Osservò attentamente i due fratelli. "Dove avete preso quei talari?". Le sembrava di fare la parte di Atena in quel momento, ma allo stesso tempo era curiosa di sapere.
I due fratelli si misero a sghignazzare. "Dalla camera di Ermes", fu la pronta risposta.
"Li avete rubati?!"
"Presi in prestito" biascicò Dioniso, mentre tentava goffamente di aprire il proprio fiaschetto del vino, che teneva appeso alla cintola.
"Ermes vi spellerà vivi"
"Solo se ci scopre", la corresse Apollo. Le si avvicinò, prendendola per mano. "E ora andiamo alla festa"
La giovane dea puntò i piedi a terra. "Io non posso tornare alla festa, se mia madre mi vedesse..."
I due fratelli si guardarono a vicenda, scoppiando a ridere. Dioniso le si avvicinò, dandole un'amichevole pacca sulla spalla.
"E chi ha parlato della festa nella sala del trono? Noi andremo ad un'altra"

L'altra festa, di cui Apollo e Dioniso parlavano tanto, non era altro che poco più di un raduno di giovani attorno ad un falò acceso nel parco, poco distante dall'ala nord del palazzo, in cui nessuno metteva mai piede.
Vi erano numerosi giovani che ballavano in cerchio, parlavano tra di loro e bevevano. Persefone riconobbe qualche giovane ninfa al sevizio della madre ed alcuni membri della guardia reale, probabilmente in pausa.
Osservò Dioniso intercettare subito una delle numerose bottiglie di vino che giravano; la prese in mano, dando immediatamente due avide sorsate.
La passò alla giovane dea che la osservò stizzita: quante persone avevano bevuto a canna da quella bottiglia? No, non avrebbe mai bevuto da lì.
Il dio alzò le spalle con fare indifferente, portandosi nuovamente il fiasco alla bocca.
Apollo, nel frattempo, si era seduto sul verde prato. Con un gesto della mano fece comparire magicamente la propria lira. Mentre le sue mani esperte ne pizzicavano le corde producendo una lenta melodia che aveva un chè di malinconico, venne attorniato da parecchie ninfe.
"Cagnette in calore", biascicò Dioniso, reggendosi alla sorella per non cadere.
"Non credi di aver esagerato un po' con il vino", gli disse Persefone, lasciandosi andare ad una risatina.
"Sono il dio del vino, se non mi lascio un po' andare io, chi altri può farlo?"
La giovane dea scosse la testa.
"Perchè non ti lasci andare un po' anche te, sorellina?"
Persefone avrebbe voluto rispondergli, ma il vedere il corridoio che attraversava longitudinalmente tutta l'ala nord del palazzo illuminarsi progressivamente, fece passare tutto in secondo piano.
Anche Apollo, alle sue spalle, smise di suonare. Si avvicinò ai fratelli.
"Cosa sta succedendo?", chiese retorico.
La dea della primavera ci pensò su un po', prima di rispondere. "Ieri, quando ero in biblioteca, ho sentito i miei genitori parlare di voler discutere con...", le suonava strano pronunciare il nome del Signore dell'Averno e, inspiegabilmente, ne era anche un po' intimorita. "...Ade, per negoziare una pace"
Dioniso osservò attentamente entrambi i fratelli: aveva un sorriso a trentadue denti che non prometteva niente di buono. "Perchè non andiamo a sentire cosa ha da dire?"
Persefone sbattè più volte le palpebre, per assicurarsi di aver sentito bene. "Credo che non sia una trattativa pubblica"
"Possiamo sempre origliare!", esclamò Apollo.
Lei scosse la testa.
"Troppo tardi", disse il dio, prendendola per un polso e trascinandola verso l'interno del palazzo. "Ora tu vieni con noi"

Si mimetizzarono nella bassa siepe che costeggiava tutto il perimetro del palazzo, alzando ogni tanto la testa e lanciando occhiate furtive nel corridoio, in attesa che tutto il corteo passasse.
"Ci sono proprio tutti", si lasciò sfuggire Apollo mentre Zeus e Demetra, in prima fila, gli sfilavano davanti. Dietro di loro vi era Ade, con un'espressione indecifrabile stampata in volto e che a Persefone ricordava molto un ghigno di vittoria. Poi vi erano Estia e Poseidone e, a chiudere il corteo, Era.
La situazione doveva essere davvero grave, per scomodare anche dalla sua sfarzosa dimora la dea del matrimonio.
Li videro scomparire in una delle numerose sale che si aprivano sul corridoio.
"Ora", disse il dio delle arti, scavalcando la finestra che, a causa della calura estiva, veniva lasciata leggermente socchiusa.
Una volta dentro, aiutò i suoi fratelli a fare il resto.
Si stavano dirigendo verso la porta, con tutta l'intenzione di origliare quel discorso così misterioso, quando vennero bloccati da una voce famigliare.
"Si può sapere, di grazia, cosa state facendo qui?". Era Ermes.
I tre si bloccarono all'istante, sospirando: c'erano andati così vicini...
"Potremmo fare la stessa domanda a te", ribattè Apollo.
Magari, se avessero giocato bene le loro carte, alla fine ce l'avrebbero comunque fatta.
Ermes guardò le tre divinità con sufficienza. "Sono il consigliere del re!", disse, più a sè stesso che ai suoi interlocutori, "Ho tutto il diritto di essere qui"
"Non mi pare che nostro padre ti abbia invitato..."
Il messaggero degli dei sbuffò infastidito, colto in flagrante.
Persefone si mise una mano davanti alla bocca, cercando con tutte le sue forze di non ridere.
Ermes allontanò il proprio sguardo da quello dei tre, puntando tutta la sua attenzione verso il basso. Spalancò gli occhi dalla sorpresa, mentre la vena sul suo collo cominciava a pulsare ad un ritmo insolitamente alto. "Ma quelli sono i miei talari!", urlò indignato.
"Shhh", gli fecero subito Persefone ed Apollo. Con quel volume di voce così alto, rischiavano davvero di essere scoperti.
"Mi avete rubato i talari!", ripetè, cercando di parlare a voce bassa.
"Tanto ne hai un armadio pieno", ribattè il dio delle arti, tentando di chiudere lì la faccenda.
"Avere rovistato nel mio armadio?!"
"Se no come facevamo a prenderli?", disse Dioniso.
Apollo e Persefone alzarono gli occhi al cielo, maledicendo l'ubriaco dio del vino. "Cosa ne dite se ne discutessimo dopo? Abbiamo una riunione segreta da origliare"
***

Si misero proprio davanti alla porta, con l'orecchio teso, in modo da riuscire a captare ogni singolo rumore dall'interno.
Da quello che sentivano, gli dei stavano ancora prendendo posto intorno al grande tavolo: si sentiva un parlottare sommesso e delle sedie che si muovevano.
Mentre si sedeva sul pavimento, a Dioniso scappò un rumoroso singhiozzo.
"Dioniso!", lo rimproverarono gli altri tre.
Prontamente, Persefone e Apollo gli tapparono la bocca con una mano; il dio del vino provò a ridere e a lasciarsi andare ad altri singhiozzi, ma non ci riuscì.
Il dio delle arti si guardò intorno, nervoso: se fosse stati scoperti o se qualche dio fosse casualmente uscito da quella stanza, loro si sarebbero dovuti mettere a correre velocemente. E dubitava che con Dioniso in quelle condizioni ce l'avrebbero fatta a correre velocemente.

Zeus osservò attentamente gli altri dei mentre si disponevano intorno al grande tavolo rettangolare che occupava l'intera stanza. Si sedette al proprio posto, a capotavola. Esattamente di fronte ad Ade.
Lo studiò attentamente: aveva stampata in volto l'aria tipica di chi aveva già la vittoria in pugno. Di certo non prometteva niente di buono.
Si scrutarono attentamente per dei lunghi momenti.
"Pensate di dare inizio a questa riunione, Zeus?" chiese spazientito Poseidone.
Il sovrano dell'Olimpo annuì distratto, mettendosi seduto in una posizione più composta. "Lasciamo stare i convenevoli", disse diretto, "Quali sono le condizioni, Ade?"
Il signore dell'Averno incurvò le labbra in affilato sorriso. "Le condizioni di cosa, Zeus?". Aveva un modo di parlare lento e tonalmente basso che, se possibile, agli occhi degli altri dei lo rendeva ancora più irritante.
"Questi giochetti con me non funzionano", ribattè Zeus. Se lo scopo dell'altro era quello di farlo irritare più di quanto già non fosse, ci stava riuscendo in pieno.
"Come fate ad essere così certo che io abbia delle richieste per voi?"
"Non sareste venuto, altrimenti"
"Arguto", commentò sarcastico Ade.
"Ora parlate"
Il dio degli Inferi si lasciò scappare una risatina che aveva un chè di sinistro. Si sistemò meglio sulla propria seduta, appoggiando i gomiti sulla liscia superficie di legno del tavolo ed portandosi le mani sotto al mento. "Ho deciso di prendere moglie"
Poseidone scoppiò in una fragorosa risata. "Tutto questo scompiglio per metterci al corrente che presto prenderete moglie? E chi sarà la fortunata ninfetta avernale, se posso chiedere?"
Ade nemmeno lo aveva ascoltato. Osserva dritto negli occhi Zeus che, per nulla intimorito, ricambiava quello sguardo con aria di sfida. "Avevo pensato ad una delle vostre figlie, Zeus"
"Voi cosa...?!". Il re degli dei si era alzato di scatto dalla propria seduta, stringendo i pugni fin quasi a farsi sbiancare le nocche.
Improvvisamente, imponenti nuvoloni scuri si profilarono all'orizzonte, coprendo il cielo sopra al Monte Olimpo.
Si udirono alcuni tuoni in lontananza e un fulmine illuminò a giorno il parco su cui il palazzo si estendeva.
"Voglio vostra figlia Persefone"
Se Poseidone ed Estia non si fossero prontamente alzati, frapponendosi tra i due sovrani, probabilmente Zeus gli avrebbe fatto un occhio nero.
Anche Demetra si alzò di scatto.Gli occhi improvvisamente appannati. "Voi non la toccherete"
"Vi do tempo sette giorni per prendere una decisione: o vostra figlia o la guerra". Come se niente fosse, Ade si alzò e si diresse verso la porta. "Indipendentemente dalla vostra decisione, l'avrò comunque. Diciamo che con la prima opzione, potreste almeno risparmiare ai vostri preziosi umani una prematura fine", disse, prima di richiudersi la porta alle spalle.

Avevano udito tutto. Appoggiati alla grande porta di legno massello, con l'orecchio teso, Apollo, Ermes, Persefone e Dioniso avevano udito tutto il discorso.
E le condizioni per la pace.
Apollo e Dioniso strinsero forte la mano della sorella. Ermes invece la osservava con lo sguardo pieno di compassione.
Persefone sembrava avesse gli occhi fissi su un punto lontano, oltre quel corridoio, oltre la vetrata, fuori, in quella che aveva tutta l'aria di diventare da un momento all'altro una tempesta in piena regola. In realtà lei, in quel momento, non osservava niente. E anche i suoni, le giungevano alle orecchie ovattati.
Era strana la sensazione che provava in quel momento: era come se si trovasse in una grande bolla e vedesse tutto quello che le accadeva intorno al rallentatore; quasi non fosse lei la protagonista di tutto, ma solo una spettatrice passiva. Una spettatrice passiva intrappolata in una bolla con l'aria limitata. Talmente limitata che ora le mancava il respiro e la gola lentamente le si restringeva.
Annaspò in cerca d'aria, mentre i suoi occhi cominciarono ad appannarsi e, nonostante ci avesse messo tutte le sue forze per tentare di resistere, le lacrime cominciarono a scorrere impetuose.
La porta alle loro spalle si mosse, ma a loro in quel momento non importava assolutamente. Che senso aveva, in quel momento, farsi scoprire ad origliare? Le sorti del loro mondo e della dea della primavera erano più importanti.
Apollo osservò malinconico la sorella: Persefone si era un po' calmata. Appariva come una bambina cresciuta troppo in fretta che con quell'abito elegante, il trucco sbavato e  i capelli in disordine, cercava di portare emozioni più grandi di lei.
La strinse a sè, facendole appoggiare la testa sul suo petto.
Sulla soglia del salone un uomo di spalle disse qualcosa agli altri dei riuniti. Poi si girò, passando di fianco ai giovani: era Ade.
Persefone alzò appena la testa e, per un istante, i suoi occhi colore dei prati, si incrociarono con quelli color ghiaccio del re degli Inferi.
La giovane dea lo osservò mentre percorreva a passo lento il corridoio. Quando fu il momento di fare una svolta, però, scomparve in una densa nuvola nera.
"Se ne è andato", disse Ermes, più a sè stesso, che per confortare Persefone.
Quest'ultima rimase alcuni secondi ad osservare quella specie di nebbia oscura diradarsi lentamente, poi si alzò in piedi.
Le gambe non sembravano molto stabili, eppure lei sentiva il bisogno di andarsene, di scappare lontano. Lontano da quel posto, lontano da ogni altra possibile divinità.
Senza pensarci due volte, si staccò dalla stretta protettiva di Apollo, cominciando a correre per quello stesso corridoio che poco prima aveva percorso Ade.
Come poteva, quel dio presuntuoso, agire in quel modo? Perchè proprio lei? Cosa poteva avergli mai fatto per rovinarle la vita così?
Sentì delle voci, alle sue spalle. Riconobbe quella di sua madre che la chiamava per nome, ma non si fermò, nè tornò indietro. Continuò a correre.
*** 

Persefone non sapeva spiegarsi come aveva fatto ad arrivare fino alle stalle, eppure quando aprì d’impeto quel portone, la prima cosa che udì fu il nitrire dei cavalli alati. Si fermò, guardandosi intorno spaesata e con il respiro affannato da tutto quel correre.
La sua mente si mise in fretta all’opera, pensando a quale sarebbe stata la prossima mossa da fare; troppi pensieri però l’affollavano e le rendevano tutto troppo complicato. 
Doveva andarsene.
Quello era l’unico punto fisso. 
Doveva andarsene. 
E doveva farlo il prima possibile. Prima che a qualcuno venisse in mente di andare a cercarla.
Presa dalla foga dell’attimo, si diresse velocemente verso il proprio cavallo alato, che nitrì rumorosamente quando capì che erano diretti all’esterno, dove la tempesta ormai imperversava violentemente. 
“Calmati, calmati ti prego”, mormorò la giovane dea, mentre cercava con tutte le sue forze di evitare che il cavallo si imbizzarrisse.
Un fulmine cadde a pochi metri da loro, facendo tremare il terreno e spaventando ancora di più il povero animale; Persefone, invece, parve non accorgersene neanche, talmente era concentrata sui propri pensieri.
Montò in sella, spronando il cavallo ad aprire le proprie ali per spiccare il volo.
“Persefone!”
Era la voce di suo fratello Apollo.
Il dio le corse incontro, riuscendo ad afferrarla per un polso, prima che riuscisse a fuggire.
“Persefone, fermati!”, urlò, cercando di sovrastare il rumore della pioggia e dei tuoni.
“Apollo, lasciami”, ribattè lei. I suoi occhi erano rossi dal pianto e le pupille dilatate dal panico che cresceva dentro di lei.
In quelle condizioni, la giovane dea neanche si accorse di quello che fece... Apollo mollò di scatto la presa, terrorizzato da quello che era appena successo, osservando la propria mano, tremante. Era stato solo un attimo, eppure quella mano, che fino a poco prima era stretta intorno al sottile polso della sorella, era come se fosse stata privata della vita. L’aveva vista rinsecchirsi, fino a diventare null’altro che pelle secca e ossa, per poi tornare alla normalità una lasciata la presa.
La osservò attentamente mentre riprendeva un sano colorito roseo, leggermente abbronzato. Che cosa gli era successo?
Alzò gli occhi al cielo, cercando Persefone, ma ormai la tempesta l’aveva inghiottita...
Si voltò, sentendo una presenza alle proprie spalle: Zeus e Demetra si trovavano a pochi metri da lui; il signore dell’Olimpo teneva stretta al proprio petto la consorte, nel tentativo di consolarla.
Erano riusciti a vedere tutto, a vedere la loro preziosa figlia usare quella parte del proprio potere che avevano sempre tentato di tenerle nascosto.
Neanche quella strana pietra incastonata nel bracciale che Persefone portava sempre al polso, era riuscita a bloccare i suoi poteri. 
Demetra nascose il viso contro il petto del suo sposo. “L’abbiamo persa”, disse tra un singhiozzo e l’altro. “Le moire avevano ragione”


Nda
Buongiorno a tutti! Già, dopo un lungo esilio spontaneo (dannata università -.-), rieccomi con un nuovo capitolo. E che dire? Finalmente siamo entrati nella parte interessante della storia :D
Spero che questo Ade in stile famiglia Targaryen (sì, ultimamente mi sto appassionando al Trono di Spade) non vi abbia sconvolto troppo. E di quei due buffoni di Apollo e Dioniso? Io all'inizio ci ho provato a fare qualcosa di serio...ma senza qualche simpaticone e le sue buffonate non riesco a stare. Per la figura di Ermes invece mi sono largamente ispirata a Sebastian della Sirenetta (infanzia passata a film Disney e miti greci -cattiva combinazione, mi dispiace-) 
Spero di sentire presto i vostri pareri e alla prossima (sperando che non passi nuovamente un mese e più) ;) 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** L'Incubo ***


 Nda
Oggi ho deciso di mettere le note qua sopra :D
Innanzitutto vorrei scusarmi con voi per il moltissimo tempo che è passato dall'ultimo aggiornamento della storia (sono più di tre mesi). Mi dispiace davvero molto ma l'università non mi dà un attimo di tregua: non che avrei creduto che ingegneria fosse una facoltà semplice, ma qui si sta davvero esagerando! 
Bene, detto questo vi lascio al capitolo. Buona lettura e a presto (se sopravvivo alla sessione estiva)


Capitolo V: L’Incubo

La tempesta imperversava ancora ferocemente. Il rumore dell’acqua, che scrosciava senza sosta, e il riecheggiare dei tuoni in lontananza, coprivano ogni altro possibile suono.
Persefone si guardò intorno, chiedendosi come fosse finita a vagare per quegli stretti vicoli, in quello che aveva tutta l’aria di non essere uno dei quartieri più benestanti di Atene. Alzò il capo verso l’entrata di una di quelle umili dimore, riconoscendo immediatamente la casa. Inconsciamente, era andata dall’unica persona estranea a quella faccenda che conoscesse: era andata dal proprio maestro.
Timorosa, si avvicinò alla porta e bussò, sperando con tutta sè stessa che qualcuno la udisse.
Dopo alcuni istanti al piano superiore si accese una debole luce e, poco dopo, si sentì qualcuno scendere una scala.
La porta si aprì un minuto più tardi e sulla soglia fece la sua comparsa una donna anziana in camicia da notte, con i lunghi capelli bianchi sciolti che le ricadevano sulle spalle. Avvicinò la candela al viso di quell’ospite inaspettato, nel tentativo di riconoscerla.
“Persefone?”, disse infine Iphigenia, la moglie di Fidia, sorpresa.
La giovane dea accennò un lieve ‘sì’ con la testa.
“Mia cara, cosa ci fai qui tutta sola nel bel mezzo della notte? E poi con questo tempo...”. Si fece da parte, permettendo così alla ragazza di entrare, ma lei indugiò comunque sulla soglia. “Entra, cara, entra”, la spronò, passandole un braccio intorno alle spalle con un fare che aveva un chè di materno. 
Persefone le si strinse immediatamente addosso, bisognosa di affetto ed attirata dal piacevole calore prodotto da quel corpo.
“Poverina, starai congelando”, disse l’anziana, mentre avanzavano verso la semplice scala di pietra grezza che portava al piano di sopra. “Fidia, corri immediatamente giù! C’è qui la tua allieva”, chiamò il marito. Poi la propria attenzione fu nuovamente attirata dalla sua ospite, che riversava in condizioni a dir poco pietose. “Vado a prenderti qualcosa per scaldati”, si rivolse a lei. Ruppe quel piacevole abbraccio, dirigendosi in fretta verso un sobrio armadio di legno, dal quale estrasse alcune coperte, che posò poi sulle spalle di Persefone, riuscendo così in parte a calmare il tremolio del corpo della giovane.
Fidia scese le scale nel mentre, borbottando qualcosa tra sè e sè, apparentemente per nulla soddisfatto che qualcuno avesse disturbato il proprio sonno. Aggrottò le folte sopracciglia bianche, al constatare le condizioni in cui riversava la sua pupilla. “Persefone, si può sapere cosa ti è accaduto?”, chiese, lasciando per una volta trasparire tutta la propria preoccupazione. 
La giovane lo osservò con i suoi grandi occhi verdi. “Io...io...”, tentò di mormorare, ma un singhiozzo le mozzò la voce. Le lacrime che era riuscita a trattenere da quando era entrata in quella casa tornarono a scorrere impetuose sulle sue guance. 
“Va tutto bene, Persefone”, le sussurrò dolcemente Iphigenia ad un orecchio, mentre la stringeva forte a sè. La condusse in un’altra stanza, che probabilmente era la cucina e la fece sedere su una sedia di legno, anch’essa dalle linee essenziali. “Vado a prepararti un bagno caldo, nel mentre rimarrà Fidia qui con te”, le disse, tentennando comunque a lasciare le mani della giovane.

***

Alcune ore più tardi...

“Si è addormentata, finalmente”, disse Iphigenia, lasciandosi stancamente scivolare su una delle sedie della cucina, di fronte al marito. Poggiò l’abito che indossava la giovane sul tavolo. “L’ho aiutata a farsi un bagno e poi l’ho messa a letto”, ripetè. Prese le mani dell’uomo tra le proprie, sospirando. “Fidia, io non so cosa le sia capitato, ma è terrorizzata. Non riesce nemmeno a parlarne, poverina”
L’uomo scosse la testa: non sapeva niente della sua allieva; le sue origini, la sua famiglia, la sua provenienza...era sempre stato tutto avvolto dal mistero. Aveva provato alcune volte a chiederle informazioni, ma non appena accennava all’argomento la giovane si chiudeva a riccio e cercava in tutti i modi di cambiare discorso o di trovare una via di fuga; dai suoi modi di fare aveva dedotto che appartenesse a qualche ricca famiglia, una nobile, forse, ma niente di più. Nonostante questo, però, non aveva esitato ad accoglierla fra i suoi allievi, nè tanto meno invitarla un paio di volte a casa propria. 
“Credo sia una nobile, ma la mia è solo una deduzione”, disse.
La moglie lasciò le sue mani, riprendendo tra le dita l’abito con cui era arrivata Persefone. “Non ho mai toccato una stoffa del genere, nè visto un abito di simile fattura prima d’ora”. Iphigenia aveva fatto per anni la sarta, vestendo gran parte dell’alta società ateniese e non solo; aveva utilizzato le stoffe più pregiate provenienti da ogni parte del mondo conosciuto. “Indossava una gran quantità di oro che dire nobile mi sembra un termine riduttivo”
Fidia annuì: si fidava ciecamente del giudizio della moglie.
“Dovresti parlare con lei, Fidia”, continuò la donna, poggiando il vestito e tornando a cercare le mani dello scultore. “Sta scappando da qualcosa, di questo sono certa, e ha bisogno di qualcuno che le stia accanto”. Si alzò dalla seduta. “Ora però è il caso che andiamo a dormire pure noi, ci penseremo domani mattina”

***
Poco dopo...

L’aria era incandescente. Il fumo denso e scuro. 
Persefone tossì  e si guardò intorno, faticando a riconoscere il luogo dove si trovava. I resti di quella che doveva essere una colonna portante, riversa a terra, attirarono la sua attenzione: l’elaborato capitello, la meticolosa scanalatura, il diametro...doveva aver sostenuto un notevole peso ed appartenere quindi ad un edificio imponente.

Tentò un passo in quella direzione ma un’acuta fitta di dolore la costrinse a fermarsi e a portare lo sguardo verso il basso dove, poco sopra al ginocchio destro un’affilata scheggia di legno sporgeva di alcuni centimetri dalla carne.
Doveva estrarla. 
Il suo primo pensiero fu quello che doveva assolutamente estrarla.
Con la mano tremante, strinse tra le dita il frammento.
Uno...due...

Nonostante tutta la buona volontà, dalla sua bocca scappò un urlo di dolore. 
Cercò di restare in piedi ma le gambe non la ressero e cadde in ginocchio, mentre i sensi venivano meno. Serrò con forza gli occhi, concentrandosi solo sul dover restare sveglia e non lasciarsi andare a quell’invitante senso di torpore che rischiava di portarla verso l’oblio.
Prese alcuni lunghi respiri, cercando invano di calmarsi, e poi, con grande fatica, alzò nuovamente le palpebre: la spessa cortina di fumo, che fino ad un attimo prima le aveva impedito di scorgere ciò che c’era ad un palmo dal proprio naso, si era diradata.
Persefone si trovava in una posizione elevata, la cima di una collina probabilmente. Sotto di lei si estendeva quella che una volta doveva essere stata una città, ora ridotta ad un cumulo di macerie fumanti e fiamme, da cui si alzavano alti pennacchi di denso fumo nero. Le bastò poco per riconoscerla: Atene. La sua adorata Atene completamente distrutta. 

Si premette entrambe le mani alla bocca. Il respiro bloccato improvvisamente in gola. 
Scosse la testa: quello era un incubo, solo un incubo. E doveva trovare un modo per uscirne. 
A fatica riuscì a rimettersi in piedi e si guardò nuovamente intorno: alle sue spalle, le rovine di quello che sarebbe dovuto essere l’edificio più imponente del mondo conosciuto si ergevano spettrali, circondati da una sottile cortina i fumo grigio. Zoppicò verso di esse, ma si bloccò quasi immediatamente a causa di un inatteso rumore, sospetto in quel surreale silenzio in cui era immersa l’acropoli.
Dei fruscii, seguiti da sibili si facevano sempre più vicini. 
Strano come certi ricordi tornino in mente nei momenti meno adatti, eppure in quell’istante  Persefone pensò alle storie che Apollo e Dioniso raccontavano intorno al falò, durante le calde notti estive: uno di questi narrava di tre  
sorelle con delle serpi al posto dei capelli e con il potere di tramutare in pietra chiunque le guardasse negli occhi.  Probabilmente le loro serpi producevano un sibilo molto simile a quello che stava udendo ora...
Serrò nuovamente le palpebre. Il sangue che gelava nelle vene e la paura che aumentava mano a mano che quelle creature si facevano sempre più vicine.
Sentì le loro lingue fendere l’aria e la loro pelle viscida sfiorarle le caviglie. Dalle sue labbra sfuggì un gemito quando una di queste cominciò a risalirle una gamba , per poi continuare la risalita fino ad attorcigliarsi intono al suo sottile collo.
Persefone aprì lentamente gli occhi, ritrovandosi la testa del serpente a pochi centimetri da volto. Restarono per alcuni istanti a fissarsi, poi l’essere spalancò le proprie fauci, mostrando una lunga fila di acuminati denti, ancora sporchi del sangue di qualche vittima.
La dea della primavera urlò e serrò nuovamente gli occhi. 


Si sarebbe aspettata dolore, tanto dolore, mentre i denti di quella creatura affondavano nella sua carne, ma non avvenne niente di tutto quello.
Passarono diversi secondi, diversi interminabili secondi in cui tutto sembrava essere ritornato immerso in quel surreale silenzio. 
Persefone, nonostante il terrore che ancora le paralizzava le membra, aprì timidamente gli occhi, ritrovandosi nella più totale oscurità. Le tenebre erano così dense che pareva si potessero quasi tagliare con un coltello.
Si guardò intorno, aguzzando la vista per cercare di scorgere anche la più tenue traccia di luce, ma non c’era niente, solo opprimente buio.
“È quello che accadrà” 

La giovane si voltò nella direzione da cui quella voce proveniva, trovando però solo altra tenebra. Prese un respiro, tentando di farsi coraggio per l’ennesima volta. “Chi c’è?”, chiese con voce tremante.
Dall’oscurità giunse un lieve sogghigno.
“Moriranno tutti”
Persefone fece un paio di timidi passi in avanti. “Chi sei? Mostrati”, disse di nuovo.
“Moriranno tutti, tutti i tuoi amati umani periranno”
Per l’ennesima volta quella misteriosa voce cercava di intimorirla. “Facile parlare nascosto nell’oscurità”, disse la dea della primavera, ostentando un’inusuale sicurezza.
Dalle tenebre provenne una risata.
“Solitamente nel mio regno non permetto che mi si parli in questo modo”, sussurrò la voce, vicinissima al suo orecchio. 

Persefone si voltò di scatto e fece alcuni passi indietro, il respiro corto e il cuore che batteva all’impazzata dalla paura. Si concesse un istante per riprendere fiato e poi alzò lo sguardo: davanti a lei, il Signore dell’Averno la osservava con una punta di ironia ad illuminargli gli occhi color del ghiaccio; indossava la stessa veste di poche ore prima, ma la corona era sparita e i lunghi capelli argentati gli ricadevano liberi sulle ampie spalle.
“Voi...”, commentò la dea, con odio.
“Già..io...”, le fece eco Ade, sarcastico. Provò a fare un passo in direzione di Persefone e le sue labbra assunsero una piega ironica quando la vide arretrare nuovamente.
“Cosa volete da me?”, chiese la dea.
“Mi complimento con te, Persefone: divinità ben più anziane se la sarebbero fatta sotto dopo tutto quello che hai visto, invece tu hai ancora il coraggio di rispondermi a tono” 

Vi ho fatto una domanda, l’educazione impone che mi si risponda”, ribattè lei.
“È quello che sto per fare, infatti”, disse il dio, facendo un altro passo nella direzione della giovane che tentò nuovamente di arretrare, ma che fu bloccata con le spalle muro da un ostacolo che era certa non ci fosse un istante prima. Ade le prese il mento tra le dita, avvicinando il proprio viso al suo; il suo sguardo passò dagli occhi verdi della giovane alle sue labbra vermiglie. “Volevo mostrarti a cosa porterebbero eventuali scelte sbagliate”, continuò, abbassando volutamente il tono di voce. Dopodiché lasciò la presa e diede le spalle alla dea, facendo alcuni passi nell’oscurità.
Persefone prese un paio di lunghi respiri. “Perchè state facendo tutto questo?”, mormorò.
Il Signore dell’Averno alzò le spalle, noncurante. “È solo una questione di potere...e di possedere le armi giuste”
“E io a cosa vi servo, allora?”, chiese la giovane, confusa.

“L’arma sei tu, Persefone”, disse il dio, girandosi nella sua direzione e tornando ad avvicinarsi a lei. “Ma questo non è il luogo adatto per parlarne”
La dea della primavera lo guardò spiazzata; fece per aprire bocca ma Ade riprese a parlare.
“Ci rivedremo tra qualche ora, nel bosco appena fuori la vostra amata città di umani. Risponderò alle vostre domande e, chissà, magari potremo anche trattare i termini della resa”
Osservò Persefone con un ghigno sprezzante, poi schioccò le dita. 

“A più tardi” 

Persefone aprì di scatto gli occhi. La fronte madida di sudore e il cuore che batteva ad un ritmo insolitamente sospetto. Aprì la bocca, cercando di prendere aria, ma per quanto si sforzasse, l’ossigeno le sembrava sempre troppo poco.
“Calmati, Persefone”, disse una voce famigliare con dolcezza materna. Iphigenia le strinse una mano e con l’altra prese ad accarezzarle i capelli. “Va tutto bene, bambina mia”, aggiunse.
La giovane la osservò con gli occhioni verdi velati di lacrime, ancora incapace di parlare. Il suo sguardo prese a vagare per la stanza, fermandosi infine sul proprio maestro, appoggiato alla porta, che fissava il vuoto con aria torva.
Iphigenia seguì lo sguardo della giovane fino al marito; sospirò, come se cercasse di scacciare così il nervosismo. “Vi lascio soli”, disse. Diede un buffetto sulla guancia di Persefone e lasciò la stanza.
Nel piccolo camera dove la giovane era stata messa a riposare calò il silenzio.
“Prendi questo”, disse Fidia dopo alcuni minuti, lanciandole un mantello. 
La dea osservò il proprio maestro perplessa.
“Andiamo a fare una camminata”, aggiunse l’uomo, voltandosi ed avviandosi verso l’uscita.
 
***
Poco dopo... 

In quel momento la giovane si trovava seduta nell’esatto punto in cui nell’incubo quel serpente le si era attorcigliato intorno al corpo; sotto di lei, la città si stava poco a poco svegliando e il Sole mostrava i suoi primi timidi raggi. Dopo quello che aveva visto, che Ade le aveva fatto vedere, era stata sollevata nel constatare che Atene era ancora la stessa, che aveva passato la notte illesa. Prese in mano alcuni sassolini, cominciando a lanciarli distrattamente sul sentiero. La mente che non ne voleva sapere di essere lì con lei ora, ma che continuamente tornava a ciò che Ade le aveva detto.
“L’arma sei tu, Persefone” 
Quella frase non voleva saperne di lasciarla in pace.
Un’arma? Lei?
La giovane dea della primavera scosse la testa: il Signore dell’Averno doveva averla scambiata per qualcun’altra, lei era innocua. Completamente innocua...e inutile. Non aveva nessun potere, non era come suo padre, che sapeva controllare i fulmini, o sua madre, che riusciva a cambiare le stagioni solo con uno schiocco di dita, lei era poco più che un umana; aveva solo l’immortalità in più di loro.
Talmente presa dai suoi pensieri, non si accorse nemmeno che il proprio maestro le si era seduto affianco, mettendosi a studiarla attentamente.
“Dovresti parlarne con qualcuno di questi tuoi problemi”, disse, interrompendo così il prolungato silenzio che era regnato tra loro per tutto quel tempo.
Persefone si voltò verso di lui: in quel momento i suoi occhi colore dei verdi prati primaverili apparivano simili a quelli di un cucciolo smarrito.
“Non so come funzioni dalle tue parti, ma qui ad Atene quando qualcuno si offre di ascoltare i tuoi problemi, si inizia a parlare”, continuò Fidia, riuscendo a strappare un debole sorriso alla sua pupilla.
“Non...non saprei da dove iniziare”, mormorò lei, con un filo di voce.
L’anziano le prese una mano tra le proprie, in un rarissimo gesto d’affetto. “Potresti dirmi chi sei veramente, tanto per incominciare”
La giovane chiuse un attimo gli occhi e prese un lungo respiro. “Qui...voi mi conoscete con un altro nome. Persefone è il mio vero nome ma...ma voi mi conoscete con il nomignolo che mi ha dato mia madre”
Fidia aggrottò le sopracciglia, perplesso.
“Kore”, mormorò lei. “Kore, la dea della primavera, figlia di Zeus e Demetra”
L’espressione del maestro si fece da prima pensierosa, poi stupita ed infine preoccupata; portò una mano alla fronte dell’allieva, per controllarne la temperatura.
Persefone non potè fare a meno di ridere. “Ero certa che mi avreste presa per matta, ma posso assicurarvi che è tutto vero”
“Non hai la febbre”, commentò Fidia tra sè e sè. Stava per dire che sì, la credeva impazzita, ma poi gli tornò alla mente il discorso della notte prima, circa il modo in cui era agghindata: la parte meno razionale del proprio cervello aveva incominciato a credere alle sue parole.
“Ti credo”, disse dopo alcuni secondi passati a pensare.
Persefone tirò un sospiro di sollievo. “Grazie”, mormorò.
“Non c’è niente di cui ringraziarmi. Sappi solo che non ti riserverò un trattamento d’eccezione solo perchè sei una dea, bambina”, ironizzò.
“Voglio essere trattata come tutti gli altri, infatti”, ribattè la dea, con un ampio sorriso.
“Ottimo. Ora continua pure con il tuo racconto”
L’espressione della giovane tornò a rabbuiarsi. “Andava tutto bene prima...prima che quel...quel vortice si formasse”, disse, non potendo fare a meno di rivolere il suo sguardo all’oscuro cono che dominava l’orizzonte.
“Hai detto che è stato il Signore dell’Averno a crearlo...ti è sfuggita un’informazione riguardo ad un esercito ieri”
Persefone annuì. “C’è...c’è stata una specie di trattativa, la notte scorsa...Ade...lui...lui è stato molto chiaro sulla condizioni per la pace”.  Si costrinse a fare una pausa, per ricacciare indietro le lacrime che premevano con troppa forza per uscire. “Mio...mio padre ha una settimana per decidere. Se...se decidesse di non accettare le conseguenze potrebbero essere terribili: le...le vostre città sarebbero rase al suolo e...e di voi umani non resterebbe più nulla”
“Quali sono le condizioni per la pace?”, chiese Fidia, il volto ancora più serio ed austero del solito.
“Io...”, mormorò con un filo di voce la giovane, lasciandosi alla fine sfuggire un singhiozzo. 
L’anziano non ci pensò due volte e la strinse forte a sè, permettendole di piangere le proprie lacrime sulla sua tunica. Quando non sentì più la giovane tremare tra le proprie braccia, le prese il viso tra le mani, per poterla guardare negli occhi. “Persefone, ascoltami: il futuro è il tuo, non quello di tuo padre. Devi essere tu a decidere, non devi permettere a nessun altro di farlo”
La ragazza annuì, asciugandosi poi le ultime lacrime con il dorso della mano. “Lui...Ade..stanotte abbiamo parlato”
“L’incubo...”, la interruppe il maestro, soprappensiero. 
“Esatto. Ma non era solo un sogno era...era qualcos’altro. Mi...mi ha detto di incontrarci poco lontano da qui...lui...ha detto che risponderà a qualsiasi mia domanda”
“Ci andrai?”
Persefone annuì nuovamente.
Fidia le appoggiò una mano sulla spalla, in un gesto di incoraggiamento. “So che qualsiasi decisione prenderai, sarà quella giusta”.     

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Il Calore del Sole sulla Pelle ***


Nda
Ehilà! Lo so che non ci speravate più visto che è un anno che non aggiorno questa storia, ma eccomi di nuovo qui. Questo è stato un anno di grandssimi cambiamenti per me e me ne sono successe di tutti i colori; non ho avuto davvero tempo di scrivere nulla. Però questo non mi ha impedito di pensare anche a questa storia: nella mia testa ha preso ormai completamente forma. 
In attesa del prossimo aggiornamento (non voglio far passare nuovamente un anno questa volta), vi auguro buona lettura.
Fatemi sapere cosa ne pensate! 


Capitolo VI: Il Calore del Sole sulla Pelle 

Con un nodo a stringerle lo stomaco e il passo incerto Persefone era montata sul proprio cavallo.  
Aveva lasciato Atene che il Sole era ormai alto nel cielo e si era diretta fuori città, dove Ade l’attendeva.  
Mentre attraversava il bosco, il suo sguardo non potè non cadere sulle proprie mani che stringevano nervosamente le briglie: tremavano. Rallentò l’andatura del proprio destriero e chiuse gli occhi, imponendosi poi di prendere dei lunghi respiri per calmarsi. Intorno a lei il sottobosco era più vivo che mai, con i suoi rumori e i suoi odori: un qualche piccolo animale, forse un volatile in cerca del pranzo per i propri piccoli, rovistava tra le foglie cadute, mentre un odore dolciastro e il continuo ronzare delle api indicava la presenza di un alveare nelle vicinanze. Nel mentre, in lontananza, dei colpi cadenzati indicavano la presenza di qualche uomo intento a fare la legna. 
Sarebbe ancora stato così? Oppure quel pacifico e fragile equilibrio era destinato a rompersi per i capricci di un dio presuntuoso? 
“So che qualsiasi decisione prenderai, sarà quella giusta”, le aveva detto il suo maestro quella stessa mattina.  
Sarebbe dovuta essere una rassicurazione, eppure in quelle parole, in quel volto, in quegli occhi che la osservavano attentamente, non aveva scorto un porto sicuro su cui fare affidamento, ma solo paura. 
“Gli uomini si fidano ciecamente di noi dei, fanno affidamento sulla nostra protezione”, pensò. Se solo quegli stessi uomini avessero saputo quanta considerazione alcuni dei aveva di loro, forse avrebbero cambiato idea: quando Ade aveva schierato il proprio esercito, erano state ben poche le divintà a pensare prima a quelle fragili creature che a sé stesse.  
C’era una cosa, però, che gli uomini possedevano ma gli dei no: gli umani avevano un proprio ciclo vitale. C’era la vita e dopo di essa c’era la morte. Sapevano dare un valore al poco tempo che avevano a disposizione sulla terra.  
Gli dei no, loro erano immortali. Il pensiero della morte nemmeno li sfiorava.  
Ammirava gli esseri umani e il loro istinto di sopravvivenza, quel loro instancabile lottare contro l’inevitabile, quella battaglia già persa in partenza, che però non potevano non combattere.  
Quel loro continuo tentativo di rimandare la fine era un gesto che poteva fin apparire egoistico, eppure intrinseco nella loro natura. Lo aveva potuto notare quella stessa mattina, nello sguardo di Fidia: anche se ammetterlo faceva male, persino nella sua mente doveva essere passato un “Salvaci”. La sua espressione non era stata in grado di dissimulare completamente quel pensiero, però apprezzava quel tentativo di incoraggiamento;  era stato detto a fatica, ma senz’altro veniva dal cuore.  
Si guardò nuovamente in giro alla ricerca di un segnale, di un qualcosa che le indicasse di essere sulla strada giusta: Ade non le aveva dato appuntamento in un luogo preciso e il bosco si estendeva su di un vasto territorio. 
La logica le suggeriva che avrebbe dovuto inoltrarsi il più possibile all’interno, seguire i sentieri poco battuti o non seguirli affatto e addentrarsi alla cieca tra il folto fogliame e rovi, eppure una strana sensazione -paura di incontrarlo faccia a faccia, soli, forse?- le imponeva di restare sui percorsi più frequentati. 
Ebbe un sussulto di paura quando da dietro un albero vide delle figure muoversi, fortunatamente si trattava solo un uomo e di un bambino. Al loro seguito un vecchio mulo trasportava i loro pochi averi; doveva trattarsi di contadini in fuga verso Atene. In caso di attacchi le città erano solitamente sempre più sicure delle campagne. Ma in questo caso lo sarebbero state?  
No, molto probabilmente se ci fosse stata veramente una guerra tra Superfice e Sottosuolo sarebbero periti comunque.  
Persefone rivolse un timido cenno di saluto, per poi abbassare immediatamente il capo, il cuore stretto in una morsa dolorosa.  
Fu proprio in quel momento, mentre cercava di ricacciare indietro le lacrime che le rendevano gli occhi lucidi che vide qualcosa di anomalo: tra la terra scura, battuta dal continuo passare dei viaggiatori, dove nessuna pianta avrebbe mai potuto crescere, ecco un fiore. Bianco e vigoroso, sfidava le leggi della vita.  
La giovane dea sapeva perfettamente di cosa si trattava: un asfodelo, la pianta degli Inferi. 
Pensò che fosse un caso, ma appena rialzò lo sguardo ne vide un altro e poi un altro ancora; parevano indicare una via da seguire.  
Una fitta alla stomaco la fece vacillare e rischiare di perdere l’equilibrio, ma si constrinse a prendere alcuni lunghi respiri per calmarsi. Smontò da cavallo, lasciando che il suo destriero si allontanasse a brucare l’erba ai margini della strada e seguì a piedi la traccia di asfodeli.  
Essa usciva dai sentieri battuti, proseguendo tra gli alberi e la fitta boscaglia.  
Più si allontanava, più essi parevano aumentare.  
Intorno a lei i suoni del bosco si facevano sempre più indistinti, lasciandola infine immersa in un surreale silenzio.  
Comparve infine in una piccola radura: al centro di essa, delle betulle formavano un cerchio perfetto  e all’inteno di esso gli asfodeli erano più rigolgiosi che mai. Centinaia, forse migliaia, ricopriamo il terreno, tanto che esso era impossibile da scorgere tra tutto quel bianco.  
A parte quei fiori, la vita pareva finire al limitare della radura: anche le betulle erano secche, con i loro rami spogli che si stagliavano contro il cielo plumbeo. Una strana nebbia, talmente fitta da non permettere al sole di penetrare in quel luogo, aleggiava sopra ad essi. 
Tutto era immobile, nemmeno una leggera brezza a smuovere i fiori. E gelo, tanto gelo che pareva penetrare fin nelle ossa.  
Ma non era una questione di temperatura, quanto di sensazioni che quel luogo spettrale suscitava.  
Persefone si strinse istintivamente ancora di più nel proprio mantello, prima di muovere qualche passo incerto in direzione del cerchio di betulle.  
Del Signore degl Inferi pareva non esserci traccia, eppure la sua presenza la giovane dea poteva avvertirla sulla propria pelle, in quel momento scossa da brividi.  
Sfiorò la candida corteccia di una delle piante, guardandosi attorno tentando di scorgere il dio, ma ottenne come unico risultato una scossa intensa di gelo sulle dita, che la portò ad allontanare quasi istantanenamente la mano e riportarla sotto al mantello, al caldo.  
Si portò nel centro del cerchio, con gli asfodeli che le solleticano le caviglie; quei piccoli fiori bianchi erano l’unico conforto in quella distesa di gelo e di morte.  
Tornò a studiare l’ambiente intorno a lei: era vero, non riusciva a scorgerlo,  ma come nel sogno di quella notte, era certa che lui la stesse tenendo sott’occhio. 
Era stanca di quei giochetti. 
 “Mostratevi, Ade”, disse con un tono di voce che cercava di essere sicuro, di non tradire insicurezza, ma che non sarebbe comunque riuscito ad ingannare un’orecchio esperto.  
Ci fu un leggero fruscio tra gli asfodeli e l’aria intorno a Persefone si mosse appena ed eccolo il Signore dell’Averno comparire affianco ad una delle betulle.  
Si tolse dal capo il proprio elmo, la kunèe. Tutti, bambini e adulti, uomini e dei, conoscevano come Ade era riuscito grazie a quell’elmo che lo rendeva invisibile ad ingannare Crono, permettendo a Zeus di colpirlo e imprigionarlo nel Tartaro.  
I lunghi capelli argentati gli ricaddero sulle ampie spalle, liscissimi. Come nel sogno, non portava alcuna corona, ma la lunga veste era stata sostituita da una semplice tunica che gli arrivava sopra le ginocchia. Il colore scuro dell’abito, blu notte, rendeva la sua carnagione ancora più pallida di quando già era. 
Fece alcuni passi in direzione della giovane dea. “Buongiorno anche a te, Persefone”, disse a sua volta, piegando le labbra in un sorriso sarcastico. “E così la curiosità ha vinto ancora una volta sulla paura, continui a stupirmi piccola dea. Passato una bella nottata?”, aggiunse.  
La dea lo fulminò con lo sguardo, un muto avvertimento prima di fare alcuni passi indietro per allontanarsi da quel dio di cui non si fidava. “Avete detto che avreste risposto ad ogni mia domanda”. A differenza sua, non avrebbe perso tempo in giri di parole: prima quell’incontro sarebbe finito, meglio sarebbe stato. 
Ade annuì. “Proprio così. Hai qualche dubbio da chiarire?”, chiese.  
“Perché proprio io?”, domandò lei a sua volta. 
Per la prima volta da quando si era rivelato, il Sovrano degli Inferi ruppe il contatto visivo tra di loro. “Creatura crudele il Fato”  
E Persefone non capì se in quell’istante il marcato sarcasmo del dio fosse d’ironia o celasse amarezza. Forse era uno scudo per mimetizzare la seconda. 
Quando i suoi penetranti occhi color del ghiaccio tornarono a specchiarsi nei suoi, avrebbe detto di aver visto del rimorso in essi.  
“Voi siete crudele”, si affrettò però a ribattere con le mani strette a pugno sotto al proprio mantello. No, non si sarebbe lasciata andare alla compassione.  
Il dio contrasse per un istante la mascella, come se quell’ultimo commento lo avesse irritato, ma un istante più tardi era già tornato ad indossare la sua maschera fatta di sarcasmo. “Solitamente esigo che mi si parli con più rispetto, qualità a te del tutto sconosciuta a quanto pare”, le fece notare. Era già la seconda volta che quella piccola impertinente gli mancava di rispetto. Avrebbe dovuto punirla, infondo aveva punito per molto meno, ma qualcosa in lei lo stuzzicava, rendendo quelle parole fin divertenti alle sue orecchie. Sulle sue labbra si formò un sorriso da presa in giro. 
Persefone invece non doveva trovare il tutto così spiritoso. Il suo corpo era rigido, il verde intenso dei suoi occhi pareva dardeggiare e il volto era livido di rabbia.  
“Non avete fatto proprio nulla per guadagnarvi il mio rispetto, anzi! E non siete nemmeno un dio di parola dal momento che avete lasciato la mia domanda senza risposta”, sbottò, urlando.  
Ade ebbe il buon senso di trattenere una risata. Gli appariva tutto fin troppo facile: la provocava e lei reagiva esattamente come avrebbe voluto. 
Si fece improvvisamente serio e avanzò verso di lei che, istintivamente, cercò di indietreggiare per mantenere immutata la distanza tra di loro. Ma non aveva fatto i conti con il fitto cerchio di betulle intorno a loro.  
Come nell’incubo della notte prima, finì con la schiena contro al tronco di una di esse. Il corpo del Signore dell’Avrno vicinissimo al suo. Le sue braccia ai lati del suo viso, per bloccarle ogni tentativo di fuga. 
Il dio la sovrastava di diversi centimetri e dietro il suo corpo atletico, quello gracile della dea pareva quasi scomparire. 
Ade si chinò sul suo volto, quasi volesse sfiorarglielo con il proprio. “Lo sentì il sole sulla tua pelle, Persefone?”, soffiò sulle sue labbra. Un gesto elegante della mano e la nebbia sopra le loro teste si diradò, permettendo così ad un raggio di sole di penetrare all’interno del cerchio, finendo a lambire le loro due figure.  
Ade parve giocare con la calda luce che gli sfiorava delicatamente una mano: sembrava volesse afferrarla con le dita pallide, per modellarla a proprio piacere. Ma essa apparteneva alla Suprficie e su di lei non poteva avere alcun potere. Un sorriso amaro comparve sul suo volto, prima di riprendere a parlare. “Il bell’Apollo, il tuo caro Dioniso, loro parlano del sole, del suo calore sulla pelle, ma tu ti limiti a sorridere ed annuire, fingendo di sapere di cosa  parlano ma in realtà non lo sai. Senti solo un leggero torpore, niente a che fare con la sensazione divorante che provano loro. La pelle delle divinità che conosci si scurisce e diventa ambrata, la tua rimane invece sempre pallida. Ti sei mai chiesta il perché di tutto questo?” 
Parlava davvero di lei? Oppure c’era anche un pochettino di sé stesso in quelle parole?   
“Io e te non siamo poi così diversi”, disse alla fine. Lui avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire per un’ultima volta il calore del sole sulla propria pelle.  
“Io non sono come te”, sibilò invece Persefone, come se essere paragonata al Signore dell’Averno fosse il peggiore degli insulti. Forse lo era proprio perché aveva colto nel segno la verità.  
Come poteva quel dio che l’aveva appena intravista la sera prima conoscerla così a fondo? Aveva paura. Paura di lui.    
“Hai ragione, solo una parte di te è simile a me. Ma questa parte è celata, costretta a mischiarsi con l’altra tua natura. Saresti dovuta essere una dea in bilico tra due mondi, ma Zeus e Demetra hanno deciso altrimenti. Forse anche loro temono i tuoi poteri”, proseguì lui, imperterrito nonostante lo sguardo terrorizzato di lei e il suo respiro sempre più concitato.  
 “Io non ho poteri”.  
E dal suo tono di voce quella sembrava essere l’unica certezza a cui ancorarsi, l’unica verità su cui Ade si sbagliava, per questo preziosa, anche se ammetterlo la rendeva inutile rispetto a tutte le altre divinità.  
Ade la osservò con un sorrisetto sfrontato. Nei suoi occhi però brillava una strana luce, della compassione che non riusciva del tutto a nascondere. Con gesti lenti aprì il mantello di lei, prendendo la sua mano destra nella propria. Tornò con lo sguardo in quello di Persefone, che lo osservava ad occhi sgranati, pietrificata.  
In quel surreale silenzio il respiro affannoso della dea era l’unico suono udibile.  
Con un movimento fluido, sganciò la catenella del bracciale che lei teneva al polso. Lo prese tra le mani, quasi con fare da studioso, prendendo tempo ed aspettando ciò che era certo da lì a poco sarebbe successo.  
Un’aria diversa pervase quel luogo: un fruscio di foglie mosse dal vento e il suono di animali irrequieti era indice di qualcosa di nuovo; il terreno era scosso invece da un leggero tremito. 
E poi, improvvise, delle radici spuntarono fuori dalla terra. Parevano come aver preso vita mentre si muovevano confuse nello spazio. Forse si sentivano smarrite in quell’ambiente così diverso da quello in cui erano abituate a vivere, ma non appena presero coscienza del motivo per cui erano state chiamate in superficie si avventarono sul dio dell’Oltretomba.  
Una di esse riuscì ad attorcigliarsi intorno al suo polso prima di sgretolarsi e diventare polvere trasportata dal vento.  
Lui era morte e tutto quello che la morte toccava moriva. 
Mentre la vita tentava vanamente di invadere quella bolla di morte, un qualcos’altro, una furia cieca, fece avvizzire tutti gli asfodeli presenti all’interno del cerchio.  
Ade guardò Persefone con un sorriso compiaciuto. Incurante di ciò che tentava di attaccarlo, si chinò nuovamente su di lei. “La morte è una conseguenza della vita”, le sussurrò suadente ad orecchio. “I tuoi poteri possono poco contro di me, tuttavia sarei uno sciocco a sottovalutarti” 
La giovane dea quasi non lo udì, talmente presa dal macabro scenario alle spalle del dio: poteva sentire l’agitazione della natura intorno a sé, il desiderio del verde che la circondava di proteggerla, il dolore degli alberi le cui radici cercavano invano di allontanare quel dio dalle cattive intenzioni da lei. Aveva udito anche l’agonia degli asfodeli, eppure da essa aveva tratto solo piacere; una piccola rivincita su quel dio arrogante sempre un passo avanti a lei. Tutti quei sentimenti, quei suoni, persino delle grida, erano nella sua testa.  
Davvero era lei a causare tutto quello?  
Osservò Ade dritto nei suoi occhi di ghiaccio: con lo sguardo lui le stava lanciando una sfida.  
“Prova ad avere il controllo, piccola dea. Vediamo se ci riesci”, era come se gli dicesse. Forse lo stava pensando per davvero.  
Chiuse gli occhi, concentrandosi su quel confuso ammasso di sensazioni. Doveva fare un po’ di ordine. Pensò alla terra umida sotto ai propri piedi e, lentamente, avvertì la natura intorno a lei calmarsi. Immaginò di essere anche lei una radice e di affondare nuovamente nel terreno caldo ed accogliente. Le pareva veramente di affondare mentre le radici lo facevano per davvero.  
Quando le sue iridi colore dei prati estivi rividero nuovamente la luce, tutto era tornato calmo e sotto ai suoi piedi dei timidi germogli indicavano il nascere di nuovi asfodeli.   
Ade non disse nulla, limitandosi a rimetterle il bracciale al polso ed indugiando sulla sua pelle vellutata con le dita.  
Una volta riposizionata la pietra, i sensi della giovane dea parvero farsi ovattati: la natura aveva improvvisamente smesso di parlarle, lasciandola nuovamente immersa nel silenzio. Perfino il calore del sole, che aveva sentito scottarle la pelle pallida ora era niente di più che un lieve torpore. Non abbastanza per quel luogo freddo.  
Osservò il suo interlocutore. Lo sguardo fatto nuovamente ostile e il respiro concitato. 
“Che cosa volte da me?”, chiese al dio degli Inferi, soffiando alla stregua di un gatto.  
O di un topo. 
“Anche un topo mostra i denti quando sa che sta per morire” 
Ad Ade sembrava proprio questo: un topino messo alle strette da un gatto affamato.  
E il gatto era proprio lui. 
“Che tu scenda nell’Averno con me”, ripose con il proprio tono di voce volutamente basso e lento.  
Osservò compiaciuto la piccola dea ritrarsi e appiattirsi completamente contro il tronco dell’albero alle sue spalle. Fece un passo avanti, azzerando quella poca distanza che c’era tra i loro corpi. “Chiederlo a Zeus con le buone maniere è stata solo una perdita di tempo”, aggiunse. Poggiò le mani sulle sue spalle, scendendo poi lentamente ad accarezzarle le braccia. 
Persefone restò per un attimo immobile, forse stordita da quel gesto, prima di prendere la parola. “Chiederlo con le buone maniere?!”, tuonò. Con un gesto che il dio decisamente non si aspettava, lo spinse via, riuscendo a sgusciare lontano da quello stretto spazio tra il tronco e il corpo di Ade. Fece alcuni passi per portarsi verso il centro del cerchio. “Minacciare di distruggere l’umanità significa chiedere usando le buone maniere?”, ripetè rabbiosa, tornando a voltarsi verso di lui.  
“Quegli esseri umani mi apparterranno comunque, sia che la loro sia una morte violenta o di vecchiaia nel caldo del proprio letto”, ribattè il signore dell’Averno con tono ovvio. I lineamenti del suo volto tornarono però presto a farsi seri. “Come tu”, aggiunse. 
Se fosse stato un essere umano e uno sguardo avesse potuto uccidere, sarebbe senz’altro perito in quel momento. Persefone lo raggiunse a passo di marcia, puntandogli il dito contro. “Io non sono di nessuno! Ne di mio padre, ne tanto meno vostra. Nessuno a parte me può decidere il mio destino”, urlò nuovamente. 
Avrebbe dovuto incutergli timore, invece al dio apparve buffa mentre lo osservava dal basso verso l’alto per via della differenza di altezza. Si sarebbe aspettato di vederla mettersi sulle punte pur di tentare di arrivare al suo stesso livello.  
“Così piccola e fragile eppure con quel caratterino” 
Le ripropose l’ennesimo sorriso di scherno prima di parlare a sua volta. “Per questo ora sono qui a proporre a te le mie condizioni”. Ancora una volta era lui ad essere un passo avanti a lei.  
Persefone non riuscì a celare un’espressione sorpresa a quelle parole: nessuno prima di allora aveva considerato importanti le sue decisioni. Lei era ancora una Kore, non un’adulta con cui si poteva parlamentare.  
“Accetta di diventare regina degli Inferi e io ritirerò il mio esercito”. Ade interruppe il flusso dei suoi pensieri con le proprie condizioni. Ed esse erano tutt’altro che leggere. 
Persefone sperava che nel frattempo avesse cambiato idea e che ciò che aveva detto di volere a Zeus non fosse più valido.  
Scrutò il suo volto impenetrabile alla ricerca di una via di fuga. Ma di vie di fuga non ce ne erano: Ade rimaneva fisso su quell’idea. 
“E se io non volessi accettare?”, gli chiese in un mormorio. 
“Ti considero molto meno sciocca di quell’esaltato di Zeus e sono certo che prenderai la decisione giusta”  
“La decisione giusta nei confronti di chi?”, venne da pensare alla dea, che però si trattenne dal dirlo apertamente: bastava già l’espressione del suo volto a trasmettere quella muta domanda. Ed era certa che lui l’avesse scorta; sapeva leggere alla perfezione il suo viso. 
“Ci rivedremo qui tra cinque giorni”, disse invece. Aveva deciso di ignorare quella domanda. 
Il signore degli Inferi aprì il palmo della mano e con un lieve sbuffo di fumo nero, in essa si formò una semplice campanella in argento. “Per qualsiasi altro chiarimento o curiosità torna qui e suona questa campanella, io comparirò subito dopo”, le spiegò. Gliela passò, sfiorandole in modo tutt’altro che casuale le dita della mano. Fece per avvicinarsi nuovamente al suo viso, ma non appena vide lo sguardo terrorizzato di lei, desistette.  
Fece un passo indietro. 
“A presto, Persefone”, disse. 
Dopodiché scomparve in una nuvola di fumo nero. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La profezia ***


Capitolo VII: La profezia

Appena la nuvola di fumo si fu diradata, appena fu certa che Ade non fosse più lì, Persefone si lasciò cadere a terra, bocconi. Non avrebbe mai dato a quel dio arrogante la soddisfazione di vederla crollare davanti a lui, ma in quel momento, finalmente certa di essere sola, la giovane dea non riuscì a trattenere il mare di emozioni che pareva travolgerla e schiacciarla dall’interno: sul suo petto era come se fosse calato un peso, un enorme macigno che le impediva di respirare.
Il forte dolore alla gola, invece, era sintomo dei singhiozzi che da lì a poco non sarebbe più riuscita a trattenere.
Si piegò su sé stessa, come un giunco sferzato dal vento, mentre le ginocchia affondavano nel soffice terreno, simili a radici.
Ade le aveva mostrato chi era veramente: lei non era semplicemente la figlia di Zeus e Demetra, una divinità minore che viveva all’ombra dei due potenti genitori. Lei non era semplicemente un’immortale.
Se solo lui si fosse limitato alle parole non avrebbe esitato a bollare il tutto come una bugia, ma quel tutto era corredato da prove, prove più che convincenti: il Dio degli Inferi le aveva mostrato il suo vero potenziale. Quando le aveva tolto quel bracciale, in quella manciata di secondi Persefone si era sentita finalmente completa. Aveva sentito il Sole scottarle la pelle e la natura le aveva parlato, le aveva ubbidito senza battere ciglio, come se si fosse trattata della loro divinità.
Era avvenuto allo stesso modo in cui suo madre richiamava le messi durante il periodo del raccolto, oppure come suo padre creava fulmini e tempeste.
Guardò a terra, affondando le mani nel terreno umido ed accogliente: i germogli di asfodelo crescevano rigogliosi proprio come…. a primavera.
“Sì”, si disse, probabilmente in Superfice lei sarebbe potuta essere la dea della Primavera.
A quel pensiero però ne seguì un secondo e le parole di Ade le tornarono nuovamente alla mente.

“Saresti dovuta essere una dea in bilico tra due mondi”

Mentre il suo ruolo in Superfice le appariva più chiaro, quale sarebbe dovuto essere il suo ruolo nel Sottosuolo?
Pensò ancora a lui e a quell’ossessione per lei in apparenza così inconsueta dal momento che prima di quel ballo non si erano mai incontrati; eppure l’idea di reclamarla in moglie al Signore dell’Averno doveva essere venuta in mente molto tempo prima di quella fatale sera.
Sarebbe stato dunque quello il suo ruolo? Essere regina di un regno oscuro e sconosciuto ai più?
Osservò la campanella a terra, sporca di terriccio: nemmeno si era accorta che le fosse scivolata di mano. La raccolse, togliendole di dosso lo sporco dalla superfice brillante.
Si rese conto di avere diverse domande da fargli.
E di non essere sazia delle sensazioni che aveva provato prima: nonostante si trovasse al Sole, ora avvertiva solo gelo. Provò a stringersi di più addosso il proprio mantello, ma fu tutto inutile.
C’era il silenzio, un assordante silenzio che pareva volerla portare alla pazzia: era stata così bella quella manciata di secondi, con quell’esplosione di suoni nuovi nella testa!
In un impeto di rabbia cercò in tutti i modi di togliersi di dosso il proprio bracciale. Cercò di aprire il meccanismo di chiusura. Era stato in apparenza così facile per Ade farlo, perché ora a lei sembrava bloccato?
Abbandonata l’impresa, tentò allora di sfilarselo, ma esso finì solamente per graffiarle la pelle sensibile del polso.
Urlò spazientita quando all’ennesimo tentativo alcuni riccioli le ricaddero sul viso, impedendole di vedere cosa stesse facendo. Si lasciò cadere all’indietro sul terreno soffice, senza fiato per lo sforzo.
Perché Zeus e Demetra, perché i suoi genitori, avevano scelto un simile supplizio - sentirsi incompleta, inutile, come fuoriposto - per lei? Nessun genitore avrebbe mai scelto volontariamente di far soffrire i propri figli.
Improvvisamente quella solitudine che tanto aveva bramato mentre era in compagnia di Ade le parve insostenibile. Avrebbe accolto con sollievo persino una nuova entrata in scena del Dio degli Inferi. Forse.
L’unico modo che il suo corpo le suggerì per alleviare quel senso di gelo alla bocca dello stomaco fu quello di mettersi in posizione fetale.
Si rese conto che nonostante non fosse via da casa da nemmeno un giorno, la sua famiglia le mancava moltissimo: avrebbe dato ogni cosa pur di avvertire la presa rassicurante con cui Apollo l’abbracciava, oppure Dioniso che in gesto scherzoso le scompigliava i capelli; sarebbe stata felice persino di ascoltare i pettegolezzi che Afrodite ed Ebe si scambiavano sottovoce nel loro salotto.
Sollevò appena il capo da terra quando udì un rumore di zoccoli, seguiti immediatamente da un acuto nitrito: il suo  fedele cavallo alato si trovava appena al di fuori del cerchio di betulle secche, con le ali spiegate, pronto a prendere il volo.
Quello della creatura pezzata pareva essere un chiaro invito sulla prossima mossa da fare.
 
***

Sull’Olimpo, nel frattempo…

“Le fucine di Efesto funzionano a pieno regime, presto saremo in grado di armare la maggior parte dell’esercito prima che la battaglia abbia inizio”, disse Zeus in un tono deciso, sovrastando il brusio di fondo che aveva invaso la stanza da ancora prima che quel concilio avesse inizio.
Si trovavano nell’ampio salone delle conferenze. Dei, semidei e qualsiasi altra creatura che avesse deciso di dare il proprio appoggio al Re dell’Olimpo era presente in quella sala, riuniti intorno ad un immenso tavolo dalla superficie d’ambra.
Il chiacchiericcio in sottofondo si fece più intenso, sintomo di una generale disapprovazione.
“Dovremmo aumentare i ranghi del nostro esercito se vogliamo avere la superiorità numerica. Se necessario dovranno combattere anche gli umani che hanno consacrato le loro città a noi”, proseguì.
Erano ormai ore che sproloquiava sull’avere la vittoria in pugno e sull’avere una strategia per sconfiggere Ade e il suo esercito.
Atena si massaggiò le tempie, stanca.
La verità che nessuno in quella sala voleva ammettere ma che tutti sapevano? Non c’era alcuna speranza di vincere la guerra che si prospettava davanti a loro. Zeus era accecato dalla rabbia e dall’orgoglio, fomentati anche da Demetra, la quale avrebbe dato in pasto alle Arpie ognuno di loro senza alcun rimpianto pur di salvare la sua unica figlia.
Li osservò entrambi, seduti su comodi scranni a capotavola. Due illusi, ecco cosa la dea della sapienza vedeva. Tre, se si contava anche Poseidone, seduto alla loro destra; il dio del mare era sempre stato un animo irrequieto, incapace di restare con le mani in mano, e aveva preso l’affronto di Ade nei confronti di Zeus come proprio.
Da verso il fondo del grande tavolo si udì lo stridere dei piedi di una sedia sul marmo candido del pavimento: Ares si era alzato, chiedendo il permesso di parola. Indossava la propria armatura, come se la battaglia dovesse essere combattuta da un momento all’altro. Tanto fiero e possente sul campo, tra i corpi e il sangue dei caduti, ora appariva fin intimorito a parlare davanti a tutte quelle facce che lo osservavano curiose. Forse era così, o forse era per la spinosa domanda che intendeva chiedere al dio del tuono.
“Come possiamo condannare a morte certa i mortali che hanno consacrato la loro vita a noi?”, chiese.
“Gli spartani sono un popolo valoroso a cui piace fare la guerra, a loro basti sapere che scenderanno su di un campo di battaglia”, fu la pronta risposta di Demetra.
“Questo è un inganno!”, urlò indignata Artemide, alzandosi di scatto dalla propria seduta.
Atena sospirò, ben consapevole di ciò, ma anche cosciente che a suo padre – e a Demetra, soprattutto - non sarebbe importato. Osservò tutte le facce presenti, leggendo disappunto e timore; solo una dea presente nella sala era in apparenza tranquilla: Estia se ne stava seduta in disparte, come se trovasse tutti quei discorsi inutili. Non aveva mai preso la parola da quando si trovava lì.
I loro sguardi si incrociarono.

“Atena”

Fu poco più di un sussurro quello che la dea della sapienza udì. Si voltò improvvisamente alla ricerca di chi l’avesse chiamata, ma nessuno in quella stanza pareva averlo fatto.
Tornò a massaggiarsi le tempie: quello che all’inizio era parso come un leggero mal di testa dovuto alla stanchezza, si stava ora trasformando in un’emicrania dalle dimensioni inaudite.

“Atena”

Fantastico, ora dal gran male di testa sentiva pure le voci.

“Atena”

Ora basta, però.
“Atena, hai sentito la mia domanda?”
La dea della sapienza si voltò verso il padre, osservandolo con un’espressione stralunata: no che non aveva ascoltato la sua domanda, troppo distratta dal quell’emicrania. Nemmeno si accorse di essersi alzata in piedi. “Padre, ho bisogno di una boccata d’aria. Nike risponderà ad ogni tua domanda durante la mia assenza”
La dea alata della vittoria, nonché sua assistente, impallidì di colpo per essere stata chiamata in causa, lei, troppo abituata a fare da ombra e con nessuna dimestichezza nel parlare di fronte a una tale moltitudine di divinità. Cercò un poco di sostegno in Atena, ma quest’ultima aveva lasciato la sala a passo spedito, senza mai voltarsi.

L’aria fuori da quell’affollato salone era più pura, meno viziata, e la fece stare per qualche istante subito meglio. Si concesse qualche secondo immobile, ad occhi chiusi mentre le voci concitate provenienti da oltre il pesante portale diventavano solo un lontano brusio. Pensò di dirigersi verso i giardini, dove il silenzio e la tranquillità avrebbero senz’altro calmato l’emicrania. Imboccò il corridoio che l’avrebbe portata direttamente all’oliveto, dove crescevano le sue piante predilette.

“Atena”

Questa volta non si era trattato di un semplice sussurro, aveva sentito chiaramente una voce chiamarla. Si voltò di scatto alla propria destra, da dove le pareva che il rumore provenisse.
Ma al suo fianco non vi era nulla a parte un lungo corridoio deserto e poco illuminato: le imposte erano tutte serrate e le tende completamente tirare, non lasciando aperto nemmeno uno spiraglio di luce.
Se di primo acchito non le sembrò di notare nulla di strano, osservandolo meglio dovette ricredersi: era pieno giorno, perchè quel corridoio era stato lasciato completamente al buio? Si mosse per scostare una delle tende, ma non appena la sfiorò dovette ritrarre la mano: essa emanava freddo, ma non era la classica sensazione di gelo che si poteva avvertire ad esempio in alta montagna. No, essa aveva più a che fare con il freddo... della morte.

“Atena”

Una mano di Atena corse fulminea alla propria cintura, dove solitamente teneva la propria daga, ma essa non si trovava lì: non l'aveva indossata quel giorno, pensando che avrebbe solamente dovuto partecipare ad un lungo concilio tra divinità. Cercò allora una delle torce appese alle pareti, ma i loro sostegni erano stranamente vuoti.
Se prima l'idea che qualcosa non andasse per il verso giusto era solo una sensazione, ora essa era diventata una certezza.
La scelta più logica – da Dea della Sapienza – sarebbe stata quella di correre a cercare le guardie e lasciare a loro il compito di indagare, ma per una volta la curiosità ebbe la meglio su di lei e dopo un lungo respiro si incamminò in quelle tenebre che parevano farsi ad ogni passo più fitte.
Alla sua sinistra vi era un susseguirsi di stanze, ma esse erano tutte chiuse a chiave.
Stava quasi per tornare indietro, quando notò che da sotto uno stipite proveniva un flebile spiraglio di una luce quasi azzurrina, spettrale.
Si avvicinò quasi non credendo che avrebbe trovato la porta aperta. Non potè non apparire stupita quando la maniglia si abbassò.
All'interno, esattamente al centro della stanza, era situato un braciere. Ma il fuoco all'interno di esso non irradiava calore, bensì la sua luce azzurrina emanava gelo. Un gelo talmente intenso che portò la dea a pentirsi di non avere portato con sé uno scialle per coprirsi.
Erano tanti i gesti di quel giorno di cui si stava pentendo.
Non esistevano fuochi di quel genere nell'Olimpo, di questo era certa. Ma negli Inferi sì.
Osservò la tenebra agli angoli della stanza: essa pareva essere intrisa nelle pareti stesse che, ormai sazie, la rigurgitavano sul pavimento. L'oscurità sembrava viva, pulsante.
Solo la luce di quel tenue braciere sembrava tenerla alla lontana dalla dea.
Tutto quel nero così intenso pareva lentamente prendere una forma umana: dapprima appariva simile ad un'ombra gettata dal sole su di un muro, poi i contorni di tre teste e altrettanti arti si fecero sempre più nitidi, fino a che tre esseri comparvero alla vista di Atena: le membra erano raggrinzite, gli arti nient'altro che ossa ricoperte di pelle cascante e rugosa e dei lunghi capelli bianchissi ricadevano sul viso, coperto da un usurata cappa nera ormai ridotta a stracci.
Si trattava di tre anziane.
Le divinità forse più temute dagli dei stessi. Senz'altro le più rispettate.
Atena cadde istintivamente in ginocchio, con il capo chino ad osservare il pavimento in segno di riverenza.
“Somme moire". Parlò con tono solenne.
“Divina Atena", risposero loro tre in coro.
La moira al centro, Cloto, allungò una mano ossuta verso la dea.  “Alzati, la tua saggezza ti rende nostra degna pari", le disse.
“Le vostre parole mi onorano”, ribattè Atena, facendo ciò che le era stato ordinato. Il suo sguardo vagò per la stanza, lanciando brevi occhiate alle tre anziane ed evitando di guardarle troppo a lungo. Pochi dei potevano vantare il privilegio di trovarsi al cospetto delle moire dal momento che esse non lasciavano mai gli Inferi... anche se in quel momento l'avevano fatto. La domanda le sorse naturale.  “Cosa vi porta sul monte Olimpo?"
Non aveva mai sentito che le tre anziane si fossero recate sull'Olimpo, eppure...
“Già una volta le nostre parole non furono ascoltate tra queste mura”, rivelò Cloto.
“Il tempo è ormai giunto", le fece eco Atropo in tono misterioso.
“Non possiamo più attendere", concluse Lachesi.
 La dea le osservò confusa e stava quasi per farfugliare qualcosa, ma le tre moire ripresero la parola.
“Ci sarà una guerra, divina Atena”
“Una guerra come non se ne sono mai viste su questo mondo"   
“Lasciate la pietà ai morti. I vivi non ne dovranno avere se vogliono sopravvivere"
Una guerra... che stessero parlando della guerra ormai imminente? La loro casa era l'Averno ed Ade era il loro re, perchè mai avrebbero dovuto farlo?
“Un compito di vitale importanza affidiamo a te", dissero in coro, facendo poi una pausa per amplificare le loro successive parole. “Se Persefone non sarà al fianco di Ade, tutti noi saremo perduti"   
Atena stava ancora cercando di elaborare quelle parole. Avrebbe voluto chiedere altro ma loro scomparvero in una nuvola di fumo nero. Il braciere tornò ad irradiare una luce rossastra, piacevolmente calda e dall'esterno la luce del sole inondava di nuovo il lungo corridoio.
Delle tre donne e degli effetti della loro permanenza non era rimasta traccia.
Anche la sua emicrania era scomparsa.
La Dea della Saggezza restò immobile alcuni istanti con lo sguardo apparentemente fisso sulle fiamme scoppiettanti all'interno del braciere. La realtà era che la sua mente era lontana, ancora ferma alle parole delle moire: c'erano troppi punti oscuri nella loro profezia.
Lei doveva saperne di più.
E c'era solo una persona che poteva darle delle risposte.
Cominciò a correre a perdifiato.

***

“La merce non è in vendita, fratellino”, disse Afrodite, senza alzare gli occhi dall'unghia della mano che stava limando. “Almeno che tu non voglia avere a che fare con il mio focoso Dio della Guerra”, aggiunse maliziosa.
Dioniso, seduto sulla cima dello schienale del medesimo divano della Dea della Bellezza, distolse per un istante lo sguardo dallo spacco dell'abito di lei, che gli lasciava interamente scoperta una coscia... ma esso finì sul profondo scollo a V sul seno che, da quell'angolatura lasciava ben poco spazio all’immaginazione.
Apollo, seduto di fronte a loro, sbuffò irritato: era loro sorella, dannazione! Non che i legami di sangue fossero mai importati molti: c'era stato un tempo, millenni e millenni prima, in cui si diceva che Zeus, Era, Poseidone, Estia, Demetra e Ade fossero stati fratelli e sorelle. Ma la memoria di ciò si era poi persa, facendo diventare alcuni di loro estranei, nemici persino. Sarebbe successo anche a loro giovani dei prima o poi?
Il pensiero corse in fretta alla sua sorellina, alla piccola Persefone: Helios e Selene ne avevano perse le tracce quella stessa mattina, non appena aveva messo piede in una foresta nelle vicinanze della città consacrata ad Atena.
Sospirò e quel suono angosciato non passò di certo inosservato alla Dea della Bellezza.
“Cosa c'è Apollo? Qualche ninfetta dei boschi ti ha mandato in bianco questa notte? Se vuoi posso insegnarti qualche trucchetto che sono certa la farebbe impazzire”, disse, osservando poi il Dio delle Arti con malizia.
Questo scosse la testa, abbassando poi lo sguardo sul basso tavolino al centro del salotto. Non si sarebbero dovuti trovare lì, lui e Dioniso: c'erano regole precise nella casa di Zeus e una di queste vietava alle divinità maschili di entrare negli ambienti dedicati alle loro sorelle. Il salotto su cui davano le loro camere era uno di questi. Ma quello era anche il luogo in cui Persefone si sarebbe diretta non appena fosse tornata a casa. Non poteva andarsene.
“Si tratta di Persefone”, mormorò alla fine.
I movimenti della lima che Afrodite teneva tra le mani si fecero più nervosi e Apollo si rese conto di quanto anche lei fosse preoccupata per la sorte della sorella.
Osservò Dioniso prendere dalla propria cintura il fiaschetto del vino ed aprirlo. Lo annusò e con un'espressione nauseata lo richiuse, lanciandolo poi sul basso tavolino. Ciò dava da intendere che anche il suo stato d'animo era simile a quello dei fratelli.
Seguirono dei lunghi minuti di silenzio e poi essi furono interrotti dallo sbattere della porta d'ingresso. Si alzarono tutti e tre all'unisono e si voltarono verso di essa, sperando in cuor loro che si trattasse di Persefone. Ma sulla soglia con il vestito fuori posto, i capelli in disordine e il volto pallido vi era Atena. Un leggero strato di sudore le imperlava la fronte.
Afrodite alzò un sopracciglio, perplessa dalle condizioni in cui la sorella versava. “Che ti è successo? Hai forse incontrato un satiro troppo voglioso?”
La Dea della Saggezza non la degnò nemmeno di uno sguardo, troppo presa a scandagliare la stanza, come se fosse alla ricerca di qualcosa... o di qualcuno.
“Dove è Persefone?”, chiese alla fine.
“Non è ancora tornata”, rispose con rammarico Apollo.
“Devo parlarle al più presto”, ribattè lei.
“Vostra sorella farà presto ritorno”
Si voltarono tutti verso il corridoio, da cui quella voce era arrivata: Artemide ed Estia si trovavano a pochi passi; era stata la Dea del Focolare a parlare. Il concilio divino doveva essere finito e Zeus doveva aver congedato tutti.
“E tu come fai a saperlo?”, chiese Atena.
“Ho fiducia nel fato”, rispose la zia. “E rispetto le parole delle moire”, aggiunse.
Lei e Artemide entrarono nella stanza, chiudendo l'uscio alle spalle. I nipoti la guardarono nel frattempo confusi. Tutti tranne la Dea della Saggezza, che spalancò gli occhi dallo stupore.
“Tu lo sapevi?”, domandò.
Annuì. “Un fuoco avernale non può accendersi sull'Olimpo senza che io ne sappia nulla, credevo che tu, Dea della Sapienza, fossi a conoscenza di questo”
Sì, probabilmente se Atena avesse usato un po' più di razionalità ci sarebbe arrivata. Ma era stata troppo sconvolta per farlo.
Le prime parole pronunciate dalle moire le tornarono alla mente: loro avevano parlato di essere state sull'Olimpo già una volta, ma lei di questo non sapeva nulla...che Estia ne fosse invece a conoscenza?
“Le moire hanno accennato ad una loro visita passata sull'Olimpo, tu ne sai qualcosa?”
La zia annuì. “Avvenne il giorno in Persefone venne alla luce. Le moire predissero che lei non era destinata a vivere per sempre tra queste mura”. Si fermò, scrutando il volto della nipote per sondare le sue reazioni: non vi era stupore in lei. “Deduco dalla tua espressione che ciò che ti hanno detto oggi non diverga molto da quelle loro prime parole”
“Aspettate...”. Il viso di Apollo era corrucciato, come se non afferrasse a pieno il discorso delle due dee. “Le moire sono state qui?”
Ottenne poco più che un'occhiata sbrigativa e un cenno di conferma con il capo.
“Hanno parlato di una guerra”, riprese a dire Atena, il suo volto pareva titubante. “Ma non credo intendessero quella che Zeus si sta apprestando a combattere perchè...”
“...tutti noi saremo perduti”
“...hanno parlato come se fossero in pericolo anche loro. Dalla guerra che arriva non dovrebbero temere nulla come suddite dell’Averno”, ragionò.
“Ade non è nostro nemico, i nemici sono ben altri”, disse Estia. “Forse si riferiscono ad eventi futuri”
“Se qualcun altro deciderà di attaccarci, secondo le moire la nostra unica speranza sono Persefone e Ade”. La Dea della Sapienza fece una pausa per prendere un lungo respiro. “E perchè ciò avvenga dobbiamo sottostare alle sue condizioni”, aggiunse con rammarico.
In quell'istante la porta si spalancò nuovamente, sbattendo contro al muro.
Persefone era sulla soglia: anche i suoi capelli erano in disordine, con foglie secche e rametti incastrati tra i riccioli castani, la veste bianca che portava – chiaramente non sua – era stracciata e ricoperta di terra, proprio come il volto.
Afrodite alzò gli occhi al cielo. “Per Zeus, anche tu con l'aria da scappata di casa!”.
Ma nel dire quelle parole le labbra della Dea della Bellezza erano piegate in un sorriso.


Nda 
Eccomi di nuovo qui (Così presto? Eh già!) 
Da questo capitolo direi che possiamo intuire alcune cose:
- Demetra fa la dominatrice (e non mi stupirei se tenesse un frustino nascosto nell'armadio)
- quel poveretto di Zeus è il sottomesso
- Ares ha un problema  a parlare in pubblico (ma guai a toccargli Afrodite!)
- Apollo è in fase orsacchiotto abbraccia tutti
- Persefone è in piena crisi adolescenziale 
- Estia ne sa sempre una più di tutti. 
E Ade in tutto questo? Lui è negli Inferi che se la ghigna! 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3333625