Destiny Odyssey - by whitemushroom

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Terra Branford ***
Capitolo 2: *** Garland ***
Capitolo 3: *** Tidus ***
Capitolo 4: *** Sephiroth ***
Capitolo 5: *** Firion ***
Capitolo 6: *** Kain Highwind ***
Capitolo 7: *** Prishe ***
Capitolo 8: *** Vaan ***
Capitolo 9: *** Cosmos ***
Capitolo 10: *** Nube Oscura ***
Capitolo 11: *** Kuja ***
Capitolo 12: *** Imperatore Mateus ***
Capitolo 13: *** Gabranth ***
Capitolo 14: *** Cavalier Cipolla ***
Capitolo 15: *** Shantotto ***
Capitolo 16: *** Kefka Palazzo ***



Capitolo 1
*** Terra Branford ***


Salve a tutti! Questa serie è l'inizio di un piccolo progetto di fanfiction brevi che prende spunto dalla serie "Baldur's Gate - Battle and Peace", basato sulla narrazione di storie brevi dedicate ai personaggi di un gioco. In questo caso io e Valozzo abbiamo pensato (o, forse è meglio dire, io ho trascinato valozzo) di dedicare qualche storia breve ai personaggi della serie Dissidia Final Fantasy. La particolarità è che ovviamente abbiamo scelto i personaggi a caso, e non avete idea della lista di personaggi - immondizia che mi ritrovo adesso sulla scrivania ... maledetto d20 ... Di conseguenza questa raccolta conterrà solo storie dedicate a metà dei personaggi, gli altri verranno narrati dal mio amico che presto si farà un account su efp -altrimenti rischia la vita-
Non ci sono molte regole:

- il rating ed il genere possono variare a piacere dell'autore
- la lunghezza sarà di circa 1000 parole (limite che ho ovviamente già sforato nella prima storia, ma prometto di contenermi)
- specificare il ciclo in cui avviene la vicenda (la storia di Dissidia si basa su 13 cicli, anche se si conoscono bene solo gli ultimi 2)
- si possono inserire anche personaggi di altri FF non mostrati in Dissidia purché ciò non faccia a cazzotti con la cronologia (quindi purché non compaiano negli ultimi 2 cicli). Questa regola è stata palesemente introdotta da white per inserire i personaggi che piacciono a lei e che per varie ingiustizie fanservice non sono comparsi



 

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Personaggio: Terra Branford
Genere: Introspettivo, Malinconico.
Rating: giallo
Avvertenze: mia personale rivisitazione di una scena abbozzata in Duodecim che avrebbe potuto avere diverse potenzialità. Il limite delle parole è già andato a farsi benedire.


Still a doll

XII ciclo

Io sono fuoco.
Crollano, il loro sangue è sui miei artigli. I cloni si afflosciano uno dopo l’altro, stupidi manichini senza vita in un mondo di predatori, la loro vita mi dà forza e io ne voglio altra, ancora, nonostante il loro potere sia effimero lo sento divampare per tutto il corpo riempiendolo di energia. L’ultimo mi punta la spada addosso; è patetico come tutti gli altri, muore senza emettere nemmeno un gemito quando la magia gli trapassa il petto e cade ai miei piedi. Ma loro sono soltanto bambole.
Patetiche. Vuote.
Niente più che un riscaldamento, così dice sempre padron Kefka.
La mia preda è un’altra. È già morta, ma ancora non lo sa. Io avrò il suo potere, e padron Kefka la sua testa. Il padrone è adirato, lo sento ancora, la corona che mi ha regalato mi porta la sua voce furiosa per l’umiliazione che ha subito e io lo renderò felice, e lui mi darà ancora magia, potere, magia e sangue fino alla fine del tempo.
Io sono morte.
Cammina e mi dà le spalle, lo sguardo fisso sulla luna. È troppo ingenuo per accorgersi di me, è stupido proprio come dice sempre padron Kefka, quando scivolo tra le rocce potrei scagliare dei ciottoli nella sua direzione e lui non se ne accorgerebbe nemmeno. Annuso, ha un potere meraviglioso, da solo sorpasserebbe le centinaia di burattini che ho ucciso prima di giungere da lui.
E lo voglio. Lo voglio come non ho mai voluto altro, la magia nel mio corpo è diventata un’unica fiamma.
Posso tuffarmi nel potere, mi immergo e non ne risalgo perché è mio. L’ondata corre lungo il mio corpo e alimenta la magia fino all’ultima fibra dei capelli, io la consumo, lei mi consuma, e siamo un’onda, una corrente che mira a quel collo bianchissimo che tra pochi istanti si tingerà di rosso. La preda si gira, ma ormai è mia. Mia. Mia. Tutto di lui è mio. Il suo palmo si carica di un incantesimo, ma anche quello è parte di me, del potere che il padrone mi ha donato, è mio e la voce del mio signore è felice attraverso l’oro della sua meravigliosa corona.
Ma in un istante le sue parole si spengono, e la mano della preda preme contro la mia fronte.
“Scacco matto”.

È faticoso respirare. Prova ad agguantare l’aria, ma qualcosa stringe intorno al suo collo. Schiude le labbra, ma non entra altro che un fiotto di sangue, e quando cerca di dimenarsi i suoi piedi non trovano altro che aria. Dopo un paio di calci le sue gambe si stancano; la magia tace.
“Ho sempre dubitato dell’intelligenza di Kefka, ma non credevo fosse così stupido …”
La voce che le parla sembra il suono di un flauto. È lenta, misurata. Potrebbe anche definirla gentile se non appartenesse alla stessa persona che in questo momento la sta tenendo sollevata per il collo con una sola mano. Per un attimo è sicura di vedere un guizzo color del sangue nei suoi occhi, ma in un battito di palpebre non c’è più nulla di scarlatto in quelle iridi azzurre. “Come se un uccellino come te potesse tenermi testa. Con quella Trance imperfetta, poi …”
Riesce a sentire le parole, ma qualcosa non va. Potrebbe parlare, gridare, pregare, ma tutto sembra suonato sotto un’enorme campana di bronzo, ogni sillaba suona così lontana che non riesce ad acchiapparla. Ha bisogno della corona.
Lui la appoggia a terra, e prima ancora di respirare lei porta le mani alla fronte. Non c’è più quella voce rassicurante, e quando apre davvero gli occhi la prima cosa che trova sono delle schegge dorate ai suoi piedi. Non c’è più nulla a trattenerle i capelli. Soltanto la sensazione di essere composta da nebbia, una nebbia così impalpabile che lo sguardo dell’altro potrebbe farla svanire alla luce della luna. Lui avvicina il piede ai frammenti del diadema, poi li calpesta fino a farli svanire nella sabbia. “Kefka ti ha costruita bene. I tuoi poteri sono interessanti. Mi vengono in mentre tre o quattro persone che sarebbero felicissime di usarti come una bambola”.
Non ha una risposta per questa frase.
Solo una domanda.
“Tu no …?”
Qualcosa lo deve divertire, perché si abbandona ad un sorriso. Un sorriso molto amaro, ma pur sempre un sorriso. Ha visto moltissime volte il suo viso dall’altra parte della capsula di nutrizione, insieme a quello degli altri padroni, ma lui non rideva mai. “Averti come strumento di morte al mio servizio potrebbe essere allettante, ma …” con leggerezza si allontana, fluttuando fino ad una roccia. Vi si siede, fissandola come un uccello rapace “… non ho mai giocato con le bambole, e non credo che inizierò oggi”.
Bambola …io … Quello che le riempie il petto non è più magia. Né forza. Né potere. È qualcosa che le fa battere il cuore all’impazzata e le martella le tempie, qualcosa che emerge nel suo corpo gridando e graffiando, come un essere nascosto per troppo tempo. Cade in ginocchio, perché quell’ondata che le preme dentro vuole uscire, e quando esce non è una sfera infuocata, una tempesta di ghiaccio o una cascata di stelle. Soltanto un urlo, lungo come non ne ha mai lanciati fino a quel momento. E si rende conto che quella è la sua vera voce.
Lui la guarda, e solo quando il deserto inghiotte il suo urlo si sporge verso di lei. “Prima che tu faccia qualcosa di incredibilmente stupido ho una storia da raccontarti”.
Non le interessa la storia. Eppure la voce di colui che doveva essere la sua vittima ha qualcosa di ipnotico, come se lentamente gli ordini del suo antico padrone scivolassero via.
“C’era una volta una creatura bellissima e aggraziata, proprio come te. Colui che le aveva dato la vita era un pazzo con un piano di distruzione tutto suo, intento a costruire bambole che lo adorassero e lo aiutassero nel suo grande disegno. Ma la creatura in questione era diversa, perché il suo potere magico era incredibile, e quando si trasformava perdeva ogni forma di controllo e diventava l’angelo della distruzione che il suo padrone tanto anelava. Ma era diversa anche perché era l’unica bambola ad avere dei sogni: adorava la luna, i colori, la vita, e non riusciva a smettere di incuriosirsi per quel mondo pieno di luce che era stata programmata per distruggere, e con il passare del tempo iniziò a voler essere qualcosa di più di un misero burattino”.
Fa freddo.
L’uomo sopra di lei parla di sogni, ma lei non ne ha. Per un attimo pensa perfino di correre a chiedere aiuto dal suo padrone, ma il pensiero si tinge di una sensazione così pungente che le inchioda i piedi a terra. Sa solo che ogni suo pensiero sembra indicibilmente sbagliato. E che tornare indietro sarebbe un terribile errore.
È all’apice di quella marea di pensieri quando si accorge che l’altro è piombato nel silenzio. Sta osservando la luna, come se si fosse dimenticato del racconto che sembrava aver tanta fretta di raccontare. Lei respira, qualcosa nei recessi della sua mente le dice che è vietato infastidire i suoi padroni, ma in quel momento, sotto quei raggi bianchissimi, le sembra di poter osare qualcosa di nuovo. Muove un piede davanti all’altro. “E … come finisce la storia?”
È pronta ad una palla di fuoco, ma il suo interlocutore la guarda distratto, più interessato a giocherellare con la punta dei suoi capelli. “Oh, questo non me lo ricordo!”
Cosa?
“Sono convinto che abbia incontrato qualcuno di molto importante, uno spirito libero sempre a caccia di avventure e tesori che diede alla sua vita qualcosa di nuovo … dovrebbe essere la parte più importante, ma purtroppo al momento non saprei narrarti il finale”.
Forse è lì la chiave di tutto, se ne accorge solo in quel momento. La paura ed il dolore ci sono ancora, ma c’è anche dell’altro. Tra un battito e l’altro del cuore c’è un filo argentato che scorre insieme a quelle parole pronunciate dalla voce melodica e sa che ci deve per forza essere qualcosa dall’altro capo di quel filo. “Ho capito” mormora. “Continuerò la storia, e magari quando ci rivedremo potrò raccontartelo io il finale”.
Lui ride. Stavolta davvero. “Ma che buffa situazione … sei proprio sicura che stessi parlando di te?”
Si alza in piedi, la guarda di nuovo e scuote la testa. L’attimo successivo è svanito, teletrasportato chissà dove, e l’ultima cosa che rimane è il luccichio della lunga piuma che porta tra i capelli.
Adesso è da sola, con una corona distrutta ai piedi ed una storia iniziata che non sa bene come continuare.
Guarda il cielo, e la luna è rossa.





 

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Capitolo 2
*** Garland ***


Garland Garland2



Personaggio: Garland
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments. Canon.
Rating: giallo
Avvertenze: sostanzialmente nessuna.


Sogni senza fine

I ciclo

Il trono è vuoto. I miasmi della lava riempiono la stanza impregnandola dei suoi vapori mentre le scintille schizzano verso l’alto ed erodono lentamente il pavimento; per qualunque altro il calore sarebbe insopportabile, ma non per me. O per lui.
“Garland …”
Non l’ho sentito arrivare, o forse è sempre stato lì, nascosto nell’ombra del mio mantello. I suoi occhi mi scrutano dal basso in alto, le iridi rosse riflettono il fuoco fino a tingere di cremisi le piccole ali che ormai non riesce più a nascondere sotto i vestiti. Parte del suo volto si è indurito per le squame, ma un lembo di pelle intorno all’occhio sinistro mantiene testardamente il suo colore chiaro e purissimo. Mi inginocchio, perché quello è il posto che mi compete. “Chaos, mio signore, cosa …?”
“Perché lo sta facendo, Garland?” prima che io riesca a fermarlo la sua voce si trasforma in un unico singhiozzo e le lacrime scendono sul suo viso, rotolando sulle guance ed evaporando prima di toccare terra. La lava risponde alla furia della sua magia pura e si solleva fino a lambire i nostri piedi. “Perché la mamma vuole uccidermi? Ho fatto tutto quello che volevano gli uomini di Onrac, non ho mai disubbidito, PERCHE LA MAMMA CE L’HA CON ME?”
Le colonne esplodono in un unico fragore; per istinto spingo indietro il mio signore, ma l’energia che sprigiona non ha limiti nonostante sia stata intaccata dal salto dimensionale; qualcosa mi colpisce e preme oltre l’armatura. L’istante successivo sono io sbattere contro il trono, incapace anche solo di afferrare la mia arma e respingere la magia grezza che cerca di schiacciare me, la lava, il trono e le colonne come la mano di un gigante; stringe sul petto, affondando il suo potere nei polmoni fin quasi a farmi soffocare. Opporre resistenza sarebbe inutile.
Infatti la tempesta si placa subito dopo. I resti della stanza svaniscono nella lava e lentamente mi rimetto in piedi, diretto verso la figura inginocchiata che piange senza alcuna vergogna, i piccoli pugni che lasciano il segno nel marmo del pavimento dove si abbattono pur di riversare su qualcosa la sua rabbia. La coda ancora sottile sferza l’aria a vuoto.
Potrei afferrare quelle quattro braccia sparute. Potrei permettergli di stringerle intorno a me e farsi raccontare una bella storia, magari una in cui una madre ed il suo unico figlio possono reincontrarsi dopo migliaia di anni di lotte e sofferenza. Dirgli che si tratta di una guerra senza alcun senso, un ciclo di sogni senza fine creato da due divinità che trascinano in battaglia uomini e donne di altri mondi pur di tornare a casa. Parlare con la Grande Volontà e Shinryu, cercare di far tornare gli orologi al momento in cui Chaos e la donna che nemmeno è sua madre sono giunti in questa landa desolata.
Perché so.
So cosa vuol dire la disperazione. I miei pugni si sono abbattuti a terra proprio come i suoi, i miei occhi si sono rivolti verso l’alto implorando aiuto proprio come quelli che adesso mi fissano in una pioggia di lacrime. L’uomo in armatura che si rispecchia nelle sue iridi è lo stesso dei miei ricordi, la figura a cui mi sarei aggrappato con tutta l’anima pur di uscire da quell’incubo.
Un abbraccio potrebbe cambiare tutto. Una carezza e i cicli di disperazione sparirebbero, o forse tutto diventerebbe una situazione di stallo insostenibile persino per la Grande Volontà. Il destino cammina sul filo di una lama appuntita, e se io sono qui è soltanto per impedire che esso cada dalla parte sbagliata. Gli ingranaggi mi fissano oltre il vuoto del tempo.
“Lei non vi ha mai amato, mio signore. Era solo l’ennesimo burattino di Onrac per convincervi a combattere. Non ha esitato un istante ad evocare dei guerrieri per uccidervi ed assicurarsi la vittoria …”
Scelgo le parole. Non esiste arma più devastante, perché dietro le lacrime c’è una piccola mente che ascolta ed assorbe tutto. “Mio signore, non avete spalancato le porte degli universi per puro caso. Il varco che avete creato vi ha condotto qui per plasmare un nuovo mondo, un regno dove voi e soltanto voi potrete scegliere il futuro. So che anelate ad un futuro senza guerre, pieno di tutte le persone che amate, ma …” mi chino di nuovo, perché perdere la sua attenzione porterebbe tutto al disastro. “Dovete prima fermare vostra madre. È lei che ha iniziato la battaglia. E non ci sarà nessuna pace finché il suo spirito non svanirà tra le dimensioni ed i suoi soldati non torneranno nei loro mondi. Ve ne prego, richiamate i guerrieri”.
Si rialza e si asciuga gli occhi, regalandomi uno sguardo che racchiude la paura ed il dolore più puri di questo mondo; stavolta il suo potere non mi colpisce, ma scivola intorno alla stanza come la coda di un drago che vuole avvolgere le colonne, il trono e se stesso in una maestosa spirale. La magia sale e scende fino al cuore del pianeta, e ruggisce dentro di me come se mi riconoscesse; il viaggio temporale ha indebolito i miei poteri, altrimenti mi unirei anch’io a questa bestia selvaggia che pulsa in tutte le direzioni e si proietta in ogni angolo del mondo il cui fulcro adesso è soltanto Chaos, il dio della distruzione. La lava ribolle, ma nessuno di noi si allontana da quel fuoco vivo che arde sulla sua guancia senza causargli alcun dolore; sopra di noi il fumo ha creato una cupola che nasconde persino le stelle, e la terra che trema copre per un istante il ruggito soddisfatto di Shinryu. Il patto è stato siglato. La guerra senza fine è iniziata.
“Hai i tuoi guerrieri, Garland”
Il suo corpo trema, stanco per l’energia sprigionata. Lento ma inesorabile si trascina fino al trono, l’unica cosa intatta in quella sala che non ha più nulla di regale; i teschi intagliati ci osservano, quasi ansiosi di bere il potere di cui adesso hanno avuto solo un assaggio, e persino a me sembrano ghignare soddisfatti quando il giovane dio si siede. Il sedile di pietra è così grande da inghiottirne la figura, ma abbiamo tutto il tempo del mondo per crescere e regnare. “Adesso voglio dormire, Garland. Non fare entrare nessuno fino al mio risveglio”.
Sì.
Devi riposare, Chaos.
Devi riposare perché il futuro ti appartiene, ma solo quando avrai cancellato ogni forma di umanità e compassione dal tuo petto riuscirai a risorgere come il sovrano della distruzione. E anche quando i tuoi sogni svaniranno, i tuoi ricordi diventeranno fragili bolle di sapone e il sorriso di quella donna non sarà altro che una luce accecante, io sarò al tuo fianco. Perché io sono te. E tu sei me.
E quando ti siederai di nuovo, contemplando l’universo ormai nelle tue mani, capirai quanto debole eri nel tuo corpo da bambino e quanto importante fosse l’avere una guida che non cedesse alla pietà o all’amore, ma ti spingesse verso la strada del potere. Allora manderai una parte di te indietro nel tempo carico di tutta la conoscenza di duemila anni, dando a quel bambino spaurito il potere di trasformare il conflitto degli dèi nella vera ed ultima fantasia finale.
Apro il varco dimensionale e loro sono lì. Si guardano col veleno negli occhi, pronti a uccidersi a vicenda, ma attendono tutti qualcosa, e sanno che saranno le mie labbra a spiegare il motivo per cui sono stati convocati qui; tutto procede come un copione già scritto.
Traditori.
Tutti quanti.
Nessuno di voi lo amerà. Lui perdonerà sempre i vostri errori e voi continuerete a ingannarlo, venderlo ed abbandonarlo, disobbedirete, tramerete e riderete fino al momento in cui io verrò a presentarvi il conto. Perché alla fine del tempo non avrò più bisogno di voi. Tollero la loro presenza mentre spiego loro l’accaduto, ma vorrei tanto spaccare la faccia all’arlecchino che si pulisce le orecchie durante il mio discorso.
“Molto bene” conclude l’Imperatore Mateus. “Combattere i nostri nemici, uccidere una dea ed estendere i nostri poteri senza alcun limite … interessante”.

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Capitolo 3
*** Tidus ***


Tidus1 Tidus2



Personaggio: Tidus
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments
Rating: giallo
Avvertenze: in questa one-shot comparirà un personaggio non canonico di Dissidia ma piuttosto verosimile. In realtà cercavo una qualsiasi scusa per inserirlo e Tidus capitava proprio a fagiolo. Ah, si nota che in Dissidia io non sopporti Tidus?


Uguali

VII ciclo

Ha ancora una trentina di secondi. Può farcela. Il thros si avventa su di lui con tutta la sua massa in un groviglio di tentacoli ed icore biancastro che fuoriesce dalla ferita; Tidus sente il petto bruciargli in cerca d’aria, ma non può risalire. Lui riuscirebbe a sconfiggere quel polpo troppo cresciuto, quindi non può essere da meno se vuole batterlo. Abbandona la spada senza nemmeno preoccuparsi di sapere dove cadrà, prende la palla e si prepara al lancio. Un tentacolo cerca di afferrargli la caviglia, ma con un guizzo scivola dietro una roccia e manda l’ammasso gelatinoso a schiantarsi, poi prende la mira ignorando la corrente.
Sopra di lui lo specchio d’acqua trema, mostrandogli l’immagine sfocata degli alberi che si protendono sul lago nella piena luce del giorno. La fame d’aria si trasforma si trasforma in un dolore lancinante, ma non può perdere. Non può perdere. Non può essere il numero due. Il suo corpo lo accontenta e le braccia lo spingono all’indietro finché la bocca mostruosa del thros non appare di nuovo ai suoi occhi. Tidus tira. Mira a lui.
Il suo piede ha appena toccato la palla quando si rende conto che qualcosa non va; la gamba sembra di marmo, lo tradisce, scivola in acqua dando al pallone una spinta così debole che sfiora il carapace sulla testa del thros senza far saltare nemmeno una squama. L’attimo dopo un velo di bolle copre tutto, e l’acqua del lago gli entra nei polmoni come una lancia; gli occhi pulsano al ritmo forsennato del cuore mentre la superficie si allontana e si annebbia, si annebbia e si oscura e si annebbia in un velo di rosso. Ciò che resta del suo ultimo respiro sembra una fanciulla che danza a piedi scalzi in riva al mare, e per un attimo il ricordo è lì, in un angolo della mente, ma prima che possa farlo suo qualcosa gli preme di nuovo i polmoni.
E non è acqua.
L’aria gli rientra nel petto con violenza ed il torace si espande come se gli artigli di una bestia lo stessero squarciando, ed il quell’istante Tidus si accorge di volare. La superficie del lago è almeno due metri sotto di lui, e si increspa con violenza quando anche il thros emerge, trascinato da una forza invisibile mentre ancora dibatte i tentacoli ed emette dei sibili confusi. “Certo che lo vedo, Venat, mi hai preso per un cieco?” grida qualcuno sotto di lui, poi una raffica secca di esplosioni trasforma il verso della bestia in un ruggito e quella crolla nell’acqua con un’onda di sangue, icore e qualcos’altro che Tidus non è affatto intenzionato a scoprire da vicino. Il corpo non è ancora affondato del tutto quando la mano invisibile che lo sta sollevando lo appoggia a terra accanto al suo salvatore che è immerso nell’acqua fino alle ginocchia e ripone la sua arma, quel mitraqualcosa che solo Yevon sa come possa funzionare. L’aria è tersa e pesante. “Dottor Cidolfus …”
“Ma cos’ha il nome Cid che non va? Dà meno possibilità a Kefka di storpiarlo …” dice emergendo dal lago a passi pesanti, palesemente insoddisfatto dell’acqua che ha trasformato i suoi eleganti stivali in delle bacinelle. Si sistema gli occhiali sul naso e guarda soddisfatto il corpo del thros. “Si può sapere cosa ci facevi lì sotto? Se al posto mio fossero passati Kefka o l’Imperatore a quest’ora saresti morto regalando loro anche un divertente spettacolino”.
Tidus sospira. Ha ricordato per quale motivo non sopporta il dottor Cid. Ed il vederlo davanti a lui, con le braccia incrociate e l’espressione di chi detiene la Verità per un attimo gli fa desiderare di essere di nuovo sott’acqua, solo contro il thros, nella loro partita per la vita. “Mi stavo allenando. E me la stavo cavando benissimo anche senza …”
“Per sconfiggere tuo padre, giusto? Quel tale Jecht che combatte per Cosmos, se non ricordo male …” lo interrompe. In realtà non lo ascolta nemmeno, e Tidus detesta questo tipo di persone. Detesta i loro consigli. Detesta i loro sguardi che lo fanno sembrare niente più che un poppante, una nullità da lasciare al parco giochi mentre i grandi parlano di Cose Importanti; e per quanto la nebbia continui a pesare sui suoi ricordi, quello sguardo pesante su di lui non lo ha mai dimenticato.
“Sì, proprio lui. Ho intenzione di dare una sonora lezione al mio vecchio!”
“Che stupidaggine”.
Il dottore dal vestito rosso si siede nel sottobosco, ma anche dal basso i suoi occhi nascosti dietro le lenti lo fissano. Chissà, forse si aspettano persino un ringraziamento, ma Tidus non ha intenzione di cedere. L’altro estrae dalla giacca un taccuino e fa scorrere una penna tra le dita. “Voi giovani siete tutti uguali”.
Lo sarebbero, se tutti fossero costretti a vivere nell’ombra, in quell’ombra lasciata da un uomo troppo grande che non vuole smettere di bloccare i raggi del sole; dal campione, dal numero uno. L’acqua gli riporta pigramente a riva il pallone, pulito come se il combattimento non vi fosse mai stato. È la stessa palla con cui giocava da bambino, sperando che quegli occhi duri si chinassero su di lui dicendogli che un giorno sarebbe diventato un vero asso, proprio come suo padre. E che adesso, proprio come allora, trasudano soltanto superiorità.
Ma lui non è più un bambino, e questo il suo vecchio non l’ha ancora capito.
“Siete voi ad essere tutti uguali, dottor Cid! Suo figlio è un guerriero di Cosmos, e posso immaginare benissimo perché non vi sopporti!” grida a pieni polmoni. “SIETE TUTTI UGUALI! TUTTI MALEDETTAMENTE UGUALI! TUTTI CON LA VOSTRA BRAVURA, LA VOSTRA INTELLIGENZA …. io… IO VI DETESTO!”
E sorride.
No, ride.
Ride il dottor Cid che non ride mai. E questo Tidus non può tollerarlo.
Si avventa su di lui senza pensarci, l’unico pensiero è il proprio pugno che fracasserà quegli occhiali e fermerà la risata che rimbomba anche dietro la testa, dentro gli occhi. Un colpo alla faccia ro raggiunge e brucia, e mentre atterra contro un albero la risata non si ferma, anche se forse adesso è soltanto dentro di lui. Il dottore non si è mosso ma Tidus è a terra, ed è sicuro che sulla guancia cinque dita stiano bruciando.
“Venat, sei sempre il solito esagerato …” borbotta tra sé lo scienziato, poi ripone nel vestito quello che aveva in mano e si alza. “Già. Siamo tutti maledettamente uguali. Siamo degli odiosi, giganteschi, insormontabili ostacoli piazzati proprio al centro del vostro bellissimo cammino verso il domani. Siamo tutto ciò che vi separa dal traguardo e non ci sposteremo, nemmeno se ce lo chiedeste in ginocchio o con un fucile carico in mano”.
Sorride, e lentamente i suoi piedi abbandonano terra. Levita, e per un istante l’aria intorno a lui si tinge di nero, come uno spettro che gli stia donando le sue ali.
“… altrimenti che gusto ci sarebbe a raggiungere la meta?”

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Capitolo 4
*** Sephiroth ***


 

Sephiroth370




Personaggio: Sephiroth
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments. Canon.
Rating: Verde
Avvertenze: Sforati i limiti della decenza. E doveva essere ancora più lungo ... Ci sono personaggi che stanno zitti ed altri che tendono a sproloquiare.


Chain of Memories

Inizio del XIII ciclo

Jenova. Il cuore del pianeta. Cloud.
Hojo. La villa di Nibelheim. Cloud. Hojo. Cloud.
L’aria che gli riempiva i polmoni puzzava di zolfo. Dei tubi e delle grate correvano sopra di lui, e proprio quando aprì gli occhi un condotto quasi arrugginito vomitò un getto di vapore e fiamme. Si prese qualche secondo per riflettere, chiudendo di nuovo le palpebre per acchiappare quelle immagini e quei nomi che gli invadevano la mente come un fiume arginato per migliaia di anni.
Cloud. La patetica fioraia. SOLDIER. Cloud.
Tutti i tasselli erano finalmente nelle sue mani. Si passò una mano sul torace, proprio nel punto in cui aveva affondato la Masamune: come prevedibile, nemmeno un graffio. Ed anche se vi fossero rimaste mille o tremila cicatrici non avrebbe avuto importanza. Ne sarebbe valsa la pena. Aveva sfidato la sorte, ma aveva vinto.
Si mise lentamente a sedere, ma si alzò di scatto quando si accorse di non trovarsi in un luogo qualsiasi, bensì in uno di quei posti che aveva sempre cercato di evitare, e adesso che tutti i ricordi si stavano radunando come tasselli di un mosaico riusciva a capire il perché. I pezzi di macchinari disposti uno sull’altro per simulare delle scale rendevano metallico il suono dei suoi stessi passi mandandoli a rimbombare fino ai piani più alti della torre: per un attimo si preoccupò, poi decise che in fondo non aveva tanta voglia di passare inosservato agli occhi del padrone dell’edificio. Un viso si affacciò dalla capsula trasparente alla sua destra, un volto deforme, grottesco, una creatura che poteva esistere soltanto negli incubi, con una testa mostruosamente più grande del resto del corpo e due prolungamenti nel luogo dove vi sarebbero dovuti essere gli occhi. Accanto vi era un rettile giallastro che galleggiava nel suo liquido nutritivo. Girò lo sguardo, disgustato, solo per notare una figura vagamente umana agonizzante in un’altra capsula dalla parte opposta della stanza; l’essere si contorceva in preda a dolori indicibile, ma nemmeno un suono attraversava la sottile lamina di vetro.
L’unico rumore erano i suoi passi e il rombare della magia nei tubi di mantenimento.
Il volto del dottor Hojo per un attimo gli sorrise in un angolo della mente.
Se il signore di quel luogo non era ancora arrivato era molto probabile che lo stesse osservando da qualche parte, e se c’era una cosa che Sephiroth non sopportava era fungere da divertimento per chicchessia. Evocò la sua spada, sicuro che la mente dietro a quegli abomini sarebbe comparsa pur di evitare che le sue preziose bambole venissero danneggiate, ma un delicato luccicare d’argento catturò la sua attenzione.
La capsula era in bella vista, al centro di quel luogo dismesso, ma per qualche strano motivo i suoi occhi erano passati oltre senza indugiare sulla figura piegata su se stessa che galleggiava, la testa quasi nascosta nella chioma argentata che fluttuava e creava dei giochi di luce ipnotici con i fluidi ed il vetro. Le gambe erano raccolte contro il petto, e chiunque avrebbe potuto credere che dormisse. Chiunque ma non lui, ovviamente.
“Ma guarda, l’Angelo da un’Ala Sola è disceso dal cielo per mescolarsi con noi comuni mortali!”
Da dietro la colonna di vetro comparvero prima un braccio, poi una gamba ed infine la detestabile testa di Kefka. Purtroppo tutti e tre saldamente attaccati al busto. “Ce ne hai messo di tempo per risvegliarti! Temevo ti servisse il bacio del tuo principe azzurro … che attualmente è non è proprio reperibile, passami il termine!”
SOLDIER. Progetto Jenova. Cloud. Il sorriso di Genesis e il loro duello.
Una strana sensazione gli attraversò la schiena. “Dov’è Cloud?”
Si erano sempre risvegliati insieme. Alcune battaglie in quello strano mondo gli sfuggivano dalla memoria, ma c’era un particolare che accomunava quegli istanti congelati nel tempo da due bizzarre divinità: loro non erano mai stati soli. Avrebbe potuto perdere quei ricordi un’altra volta, ma la sua unica certezza era quella che sotto qualunque cielo lo avrebbe trovato alla propria destra. Tranne in quel momento
“Ehm … come spiegartelo … mentre TU hai avuto la brillante idea di ci sono stati dei piccoli … cambi del personale. Per farla breve, il tuo amichetto ha deciso di piantarTI in asso per una tizia CON UN PAIO DI TETTE GROSSE COSI!”. La cosa doveva sembrargli esilarante, perché per poco non si capovolse sui suoi stessi piedi. “Sono sicuro che nemmeno Exy avrebbe detto di no a tanta abbondanza …”
Non lo stava più ascoltando.
Cloud. I ricordi della sua vecchia vita erano ancora sparsi davanti ai suoi occhi, come i frammenti di un bicchiere di cristallo. Toccarli voleva dire ferirsi. Ma poteva sopportare qualche graffio. Era da quando aveva aperto gli occhi che il castello di carte era iniziato a crollare: aveva dimenticato chi fosse il ragazzo dai capelli appuntiti e la spada gigante, la stessa persona con cui si era ritrovato a combattere spalla a spalla contro gli ostinati guerrieri di Cosmos, l’unico con cui non c’era bisogno di parole. Se mai si stava delineando qualcosa di simile all’amicizia, quella era sparita nell’istante in cui i ricordi erano riaffiorati. Perché Cloud era la sua nemesi, la sua ombra. Colui che si era votato ad ucciderlo. Questo cambiava tutto. Tutto.
Anzi, forse rendeva la questione incredibilmente più semplice. Per avere indietro i ricordi del proprio passato, lui e Cloud avevano dovuto combattere con quella ragazza perché proveniva dal loro stesso mondo; ma i frammenti erano sempre troppo esigui, dunque aveva tentato la sorte conficcando la Masamune nel proprio petto. Non era riuscito a sfuggire ai cicli, ma adesso i tasselli erano tornati tutti nelle sue mani e per unirli aveva bisogno di un unico duello.
“Kefka … cosa sono i ricordi?”
“Oh, che bello, qualcuno si ricorda che IO sono l’esperto in materia!” disse, e Sephiroth quasi si pentì della domanda quando il pagliaccio improvvisò un balletto intorno alla sua preziosa capsula per poi picchiettare tutto soddisfatto sul vetro della creatura addormentata. “I ricordi sono solo una stupida catena. Credi di potertici aggrappare e poi … ZACK! Ti si stringe intorno al collo e ti trascina sul fondo dell’abisso … chiedilo a Kujie-coo, che per inseguire i suoi felici ricordi ha avuto un tragico incidente di percorso” disse facendo una linguaccia alla figura nella capsula. “Ma adesso, grazie al mio speciale trattamento, Kujie-coo sarà libero da tutte quelle idiozie sdolcinate come l’amicizia e si dedicherà con passione alla caccia alla scimmia che è certissimo di odiare. E la smetterà di canticchiare, una cosa su cui tutti siamo stati d’accordo. A proposito, non è che posso dare un’occhiatina ina ina alla tua memoria? Posso levarti un sacco di cose inutili che …”
La Masamune comparve prima ancora che potesse finire la frase. Kefka fece un salto all’indietro, e Sephiroth osservò che la lama non era mai stata così affilata. Nella luce del laboratorio sembrava una fiamma viva. I deboli ed i perdenti potevano benissimo marcire nella capsule del pagliaccio, ma non lui. Aveva pagato un carissimo prezzo per riavere la memoria, dunque aveva già vinto il gioco. Barando, ovviamente.
Dopotutto i giochi non gli erano mai piaciuti.
Prima che l’altro potesse ricorrere a qualche trucco avanzò rapidamente nella sua direzione e fermò la punta della spada ad un palmo dalla gola del buffone; quello mandò un secondo gridolino ed alzò subito le mani in aria. “Ok, ok, ok, ok, lo prendo per un no”.
Aspettò ancora qualche istante, sicuro che il silenzio facesse la sua parte. Con gente come Kefka le parole erano sprecate. Quando fece svanire la lama l’altro finalmente nascose il suo sorriso idiota ed appoggiò i piedi da terra. “Questa è la battaglia finale, Sephy. Non un ciclo qualsiasi, ma IL ciclo. Chi vince questo, vince tutto. Bye bye ai perdenti, bye bye agli dei, bye bye anche a te se ti metti dalla parte sbagliata!”
“Quello che è giusto o sbagliato …” l’odore di zolfo era diventato insopportabile. E non solo quello. “… lo decido io”.
Kefka esplose in un’esplosione di improperi, risate e frasi senza senso che non aveva più voglia di ascoltare. Le scale erano alla sua destra, e le scese senza voltarsi verso il pagliaccio e la sua collezione di esperimenti. Isolò un’ultima volta la mente, lasciando che a quella torre spettrale si sovrapponessero le immagini che aveva strappato all’oblio: quella storia era iniziata con Cloud, e con Cloud doveva finire. Era iniziata con uno scontro nel cuore del Pianeta, ed era solo con due lame incrociate che doveva giungere alla conclusione, indipendentemente da quella falsa amicizia che avevano creato nel corso dei cicli e che di certo il suo compagno aveva dimenticato dopo la sconfitta di Cosmos. Non aveva senso continuare a seguire una divinità debole come Chaos e le sue patetiche pedine.
Quando uscì da quella torre provò un senso di piacevole sollievo, accompagnato dalla brezza notturna. E anche da un inquietante silenzio.
Nessuno avrebbe più cantato alla luce della luna.

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Capitolo 5
*** Firion ***


Firionefp



Personaggio: Firion
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments. Canon.
Rating: giallo
Avvertenze: potrebbe non essere comprensibilissima se non si conosce bene la storia di Duodecim. Parto dal presupposto tutto mio (il gioco non specifica altrimenti) che dopo gli eventi di Dissidia i personaggi facciano ritorno al loro mondo senza ricordare nulla delle avventure trascorse nel gioco, ma potrebbe essere anche vero il contrario.


Entwined

Dopo la fine dei cicli

E’ una promessa.

“Tutto a posto, Firion?”
La mano di Maria scivola sul mio petto, calda come le coperte che ci nascondono al mondo; il respiro accanto all’orecchio mi riporta al suo fianco, scacciando le immagini che fino ad un istante prima mi affollavano la mente. Le lenzuola sono madide di sudore. L’ennesimo incubo.
Da oltre le finestre un lampo rosa rischiara la nostra stanza seguito dallo scoppiettare dei fuochi d’artificio della festa di Mahorona: probabilmente è da poco trascorsa la mezzanotte. Maria mi accarezza il viso e poi le mani, trascinando via gli ultimi frammenti del sogno con un bacio lento e delicato e costringendomi a voltarmi per raccogliere tutta la dolcezza di quel gesto.

E’ una promessa.

Due occhi azzurri mi fissano dal nulla, due iridi di donna che svaniscono in un turbinare di petali. Il bacio si rompe d’improvviso, come se un fulmine avesse attraversato i nostri volti; il suo sguardo viola si intravede appena nella penombra, ma non serve la luce per capire che l’ho spaventata. “Che ti succede, Firion?”
“Nulla, soltanto un …”

E’ una promessa.

La voce del mio incubo è lì, vicina come quella di Maria; i fuochi d’artificio esplodono al di fuori come una scarica, ma non riescono a cancellare quelle parole scandite come una richiesta. Quasi una preghiera.
Non so come, ma la rosa selvatica è tra le mie mani ed il cuore pulsa fin dentro le tempie, trasformandosi poi un sibilo basso. Maria cerca di venirmi vicino, di stringermi di nuovo per tenermi a sé, ma il petto mi batte come se volesse uscire da sotto la pelle e mi ritiro dalle sue bellissime mani. “Non avere paura. Soltanto un brutto sogno” sussurro, indeciso su chi io stia davvero cercando di convincere. “Ho solo bisogno di una boccata d’aria, non ti preoccupare …”
“Bugiardo” risponde lei, mettendosi a sedere sul letto e facendo passare lo sguardo dalla rosa selvatica a me; il suo corpo atletico lascia che le cicatrici scintillino alla luce della festa, come il simbolo delle battaglie che abbiamo combattuto insieme spalla a spalla fin nel palazzo dell’Imperatore, la prova della nostra complicità.
Non abbiamo mai avuto bisogno di domande. “Ti amo”.
Potrebbe chiedermi perché il mio fiore non appassisce, o perché il sole sorge ad est. Potrebbe chiedermi perché mi vesto nel cuore della notte, perché allaccio la cintura in tutta fretta, come se le dita non riconoscessero più la fibbia metallica. Potrebbe chiedermi cosa sono questi sogni che si tingono di rosa e poi di sangue, perché stasera i fuochi di Mahorona sono stati accesi nella Piazza della Repubblica e non in riva al mare, o perché non posso fare a meno di lei. Ma il suo “Lo so” riempie tutto il silenzio della stanza, cancellando i dubbi come parole scritte sulla sabbia.
Un ultimo bacio al sapore di nettare e poi le strade di Fynn mi trascinano prima che possa chiedere loro una spiegazione.

Non riesco ancora a credere che qui ci siano di nuovo strade, case, fontane, che la gente possa guardare il cielo senza temere la notte e coloro che vi camminano. L’aria è satura di salsedine, proprio come il giorno dell’invasione; ma quella sera il profumo della vita si era trasformato nel legno che bruciava sotto gli incantesimi dei maghi imperiali, nelle urla di coloro che non avevano scampo. Coloro che riuscivano a camminare sopra i propri cari erano accolti da lance e spade che guizzavano nel buio del fumo nero. Il campanile che proprio in questo istante segnala l’una di notte è in mattoni bianchi e ferro, ben diverso da quello che esplose durante l’assedio trascinando con sé i cittadini che si erano raccolti per pregare.
Per la gente sembrano passati centinaia di anni. Per me quelle fiamme sono vivide come se fosse ieri. La festa di Mahorona è l’ultimo anello che ci collega al passato, ideata per ricordare a tutti il giorno della caduta dell’Imperatore e l’avvento di una nuova era piena di luce; ma i fuochi d’artificio, la musica ed i giostrai sono soltanto una pagina del tempo, della memoria che lentamente verrà corrosa dal sale marino. Alcuni credono persino che se in questa notte vi sarà la luna piena nascerà un ponte tra il regno dei vivi e quello del morti … e forse sarà l’unica cosa che resterà di questa festa tra venti, cinquanta, cento anni, quando anche l’ultima statua dell’imperatore sarà stata abbattuta e trasformata in un masso per l’edera.
Ma in fondo … in fondo è meglio così.
Non siamo scesi nelle profondità del palazzo di Palamecia per torturare il futuro. Abbiamo affrontato la follia dell’Imperatore perché credevamo in un sogno, in quattro sogni, in migliaia di sogni di poter ricominciare di nuovo senza paura, perché nessun bambino ricordi mai quello che è successo a Fynn, Altair o Paloom. Perché tutto il continente potesse riempirsi di rose selvatiche ed annegare i piccoli dispiaceri di ogni giorno nel loro profumo; un sogno che è sbocciato quando Maria e Guy mi hanno ritrovato un mese dopo la battaglia contro l’Imperatore Mateus, svenuto nel basamento del palazzo con quel fiore tra le dita.
Non so perché sia uscito con la mia rosa in mano, ma quando respiro quella fragranza … è come tuffarsi con amici lontani.

E’ una promessa.

“Mi prenda un accidenti se non è il leggendario Firion in carne ed ossa!”
La sagoma di un uomo emerge da una stradina, un piccolo percorso che arriva fino al mare; potrei giurare che fino a quel momento la via fosse deserta, ma evidentemente quei pensieri e quegli strani occhi azzurri mi avevano trascinato troppo oltre. Un errore da non commettere una seconda volta. L’uomo si sbraccia nella mia direzione, poi corre e prima che possa prendere le distanze si ritrova con il fiatone a pochi passi da me. “Non pensavo che mi sarei imbattuto nell’eroe della Resistenza in una serata come questa!”
Riprende il respiro scostandosi i lunghi capelli neri dalla testa. I suoi occhi si posano sulla rosa selvatica, e prima che possa fare qualsiasi domanda la faccio sparire sotto il mantello. “Ci conosciamo?”
“Più o meno. Più meno che più, ad essere onesti! Con il mio lavoro è facile incontrare un sacco di gente!” risponde, e se il mio gesto infastidito lo ha colpito in qualche modo lo nasconde sotto un enorme sorriso. Mi tende una mano. “Laguna Loire, cronista di guerra. Penso di averti incontrato sul campo, ma forse non ti ricordi! Sai, è una vita che vorrei intervistarti, sei una ce-le-bri-tà, fattelo dire! Ti prego, ti prego, ti prego, ho una valanga di domande da …”
“Laguna, no! Tutto ma un’intervista NO! I miei timpani non reggeranno!” dice una seconda persona cogliendomi del tutto alla sprovvista. Un ragazzo dai capelli biondi compare alle mie spalle, con un cartoccio di ciambelle fumanti nella mano e la faccia di chi ne ha appena mangiate almeno un’altra dozzina. Il suo passo è così leggero che non solleva un granello della sabbia che riveste parte della strada. Mi fa un cenno di saluto, poi mette il suo prezioso bottino tra le mani dell’altro e lo trascina lontano ignorandone le proteste. “Scusa, amico, ma sono certo che tu non vuoi essere davvero intervisto da Laguna a meno che tu non sia completamente ubriaco! Adesso leviamo il disturbo e ti lasciamo andare … vero, Laguna?”
“Ma il mondo deve sape …”
I due si incamminano verso la spiaggia con difficoltà, uno tirando e l’altro spingendo, molto meno eterei di quando sono mi sono apparsi; l’uomo di nome Laguna minaccia di gettare le ciambelle nella sabbia e per tutta risposta l’altro gli tira una gomitata nelle costole, riempiendolo di insulti con il suo strano accento che ricorda quello parlato nella città di Bafsk. Anche i loro abiti sono strani, specie quello del biondino che non sembra essersi accorto che le notti di Fynn, a dispetto della presenza del mare, sono molto più fredde di quelle di Salamand. Forse è per questo che mi ritrovo a ripercorrere le loro orme, ipnotizzato dal veloce scambio di battute che miracolosamente non ha ancora svegliato nessuno.
Tre persone li stanno attendendo, seduti intorno ad un piccolo bivacco che resiste nonostante il vento della notte. Due ragazze ed un uomo in armatura nera si voltano verso i due rumorosi compagni, poi posano lo sguardo su di me. “Ragazzi, non indovinerete mai chi abbiamo incontrato alla festa. Lo stoico, incorruttibile, eroico, leggendario Firion! Poi non ditemi che questa non è la nostra serata fortunata! Coraggio, facciamogli un po’ di posto, così magari inganniamo l’attesa ascoltando le sue grandi gesta di guerra”
Il biondo alza gli occhi al cielo, poi mi fa sedere sulla sabbia calda e mi offre una ciambella. Una delle ragazze mi rivolge un sorriso accompagnato da un timido cenno della mano mentre l’altra –con una maglia bianca così aderente che devo fare uno sforzo notevole per non farmi venire strani pensieri- mi saluta con una stretta di mano. Una martellata sulle dita farebbe meno male.
Il guerriero mi guarda soltanto, poi esce dal cerchio ed osserva la luna piena come se il resto del mondo non esistesse.
Perdo qualche istante a massaggiarmi la mano, e questo ennesimo errore fatale consente a quel Laguna di prendere nuovamente il controllo della situazione superando le parole di tutto il gruppo con la sua voce; per un istante mi sembra davvero di averlo incontrato da qualche parte, anche se per quanto mi sforzi non riesco a ricordare il quale base possa aver scambiato qualche battuta con una persona simile che tutto sembra in grado di fare tranne che passare inosservato. Di certo non a Fynn. Né ad Altair. “Qui il vostro inviato Laguna Loire, per il Timber Maniacs. Dopo lo speciale dedicato alle Guerre di Vayne e ai segreti della Avalanche, mi ritrovo nella regione di Palamecia, più esattamente nell’accogliente città di Fynn, per raccogliere le testimonianze di uno degli eroi della Rosa Selvatica, il movimento di resistenza contro l’Imperatore Mateus che è riuscito ad impedire l’espandersi del regime tirannico in tutta la regione. Ma prima di dare la parola al nostro amico Firion permettetemi di mostrarvi qualche scatto di questa fantastica città per immergervi completamente nel …”
Grazie al cielo il discorso viene inghiottito dal suono della risacca. Laguna estrae da una sacca alcune illustrazioni e le mostra alla ragazza dai capelli neri, poi trascina tutti nelle sue parole come se fossimo in un vortice. Ma è un vortice piacevole, sereno, come il canto di un bardo interrotto soltanto dai grugniti del più giovane. Il vento si alza, eppure il fuoco del bivacco resiste; le sue fiamme si piegano, illuminando a sprazzi le sagome di questa combriccola singolare di una tinta scarlatta difficile da descrivere, così incantata che gli occhi della ragazza silenziosa sembrano essere di due colori diversi. Nonostante lo schiamazzo di Laguna in questo luogo regna il silenzio. O forse è il debole ticchettare delle lancette del tempo. Maria si sarà addormentata, questa notte sembra una coperta nera lontana dal mondo che dovrebbe proteggere.
“Scusate il ritardo, ragazzi!”
Una figura compare dal buio della riva, gli stivali che affondano leggermente nella sabbia umida. In un attimo tutte le stelle si radunano nel suo mantello scarlatto.

E’ una promessa.

Il tempo gira, si muove, si intreccia come se un drago stia scuotendo la terra con un ruggito senza suono. La sua coda si avvolge intorno alla luce mentre sale al cielo, il cielo racchiuso in quegli occhi azzurri che mi fissano dal lato oscuro dei miei incubi. Stiamo in piedi e la guardo, mi guarda, la guardo e lei respira, ci troviamo sulla riva del mare e su una torre diroccata a centinaia di metri dal mondo, le sue gambe perse nel vuoto. Il sole dell’ultimo pomeriggio invade la notte, ma per quanto mi sforzi di unire la voce a quel coro silenzioso la mia lingua è incollata al palato, incapace anche del più piccolo movimento. Mi ritrovo con la rosa selvatica in mano senza alcuna ragione al mondo, a parte che il fatto che i capelli della donna immobile davanti a me sono una cascata di petali chiari. “Ma guarda chi si rivede dopo tanto tempo … non sei cambiato affatto …”
Il tempo non è una ruota. È una scala. Una scala su cui si può solo salire, senza fermarsi. Perché se ci si ferma si guarda nell’abisso azzurro dove il drago ha creato il suo regno, divorando gli scalini di una strana guerra che adesso inizia a martellare, a bruciare il tempo fin nelle sue fondamenta; c’è un giardino lì sotto, e Laguna ha trovato qualcosa. Se cadessi non morirei; potremmo esplodere insieme in un turbinare di petali e cercare di raggiungere l’alba sul soffio della belva immortale.
“Grazie per essere venuto. Credevo te ne fossi dimenticato” mormora, sciogliendo il fiore dalla mia presa. Sta bene tra le sue dita. È il suo posto, dopotutto. Da quassù la città è soltanto un ammasso di rovine davanti a cui prometterci qualcosa prima il drago torni di nuovo a soffiare, in attesa della nostra attesa. Che adesso so essere finita. “Sapevo che non l’avresti persa. Era il tuo sogno, dopotutto”.
Non era un sogno.
Era una fantasia.
Ritorna il mare, e l’acqua calda ci bagna i piedi; i ricordi sono soltanto bugie, un dipinto per chi sogna. “Grazie, Firion. Sii felice”.
Non è il bisogno d’aria a farmi aprire la bocca, ma qualcosa di pericoloso, come il tempo si fosse deciso a correre una seconda volta, più veloce di prima, battendo insieme al mio cuore. “Come … come ti chiami?”
“Non credo che la cosa abbia molta importanza, ormai. Ma ti do un indizio”.
Il suo viso è triste, ma adesso la rosa selvatica può fiorire in eterno. E la scala crolla. “… inizia per L”.
C’erano due dei in una lotta senza fine. Una lotta che non capivamo, o non volevamo capire, o in fondo trovavamo quasi affascinante; l’Imperatore non era morto, ma poteva morire di nuovo. Il mio sogno era un campo pieno di rose selvatiche, dove la gente potesse appoggiare le armi e lasciarle sprofondare nella terra, creando nuovi fiori. Il suo non l’ho mai saputo, ma anche lei amava le rose. Qualcuno sognava di tornare a casa, qualcuno di tuffarsi e diventare tutt’uno con il lago davanti al castello. Lei odiava gli dèi. Io soltanto uno. Forse anche loro hanno salito la scala del drago. E quando trovo il suo nome fa soltanto freddo.
Il fuoco del bivacco è spento, c’è solo qualche ciocco di legna annerita. Non c’è nessuno, nemmeno un’orma sulla sabbia o una ciambella lasciata a metà. Soltanto io ed il mare. Potrei voltarmi e chiamare i loro nomi uno ad uno, ma so che sarebbe soltanto l’ennesimo gesto privo di senso; piangere in ginocchio lo è già abbastanza.
Un unico petalo galleggia sull’acqua, reso ancora più chiaro dal riflesso luna piena.

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Per i non addetti ai lavori potrebbe essere utile guardare questa brevissima clip del gioco (assolutamente non spoiler)

https://www.youtube.com/watch?v=n6cMY03voOs

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Capitolo 6
*** Kain Highwind ***



Kain




Personaggio: Kain Highwind
Rating: mi sa che è arancione
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing moments. Canon.
Avvertenze: come al solito il dialogo mi è venuto lunghissimo, ma per speigare i delicati meccanismi di Dissidia serve tanto spazio, affetto e una grande dose di immaginazione. Questa storia mi è venuta in mente rivedendo un trailer di uno dei miei film preferiti (Lisaralin, so che lo beccherai subito).


I cavalieri della luna

XII ciclo

I cloni camminavano senza meta. Si muovevano avanti e indietro nella gola, una massa caotica che calpestava i propri simili senza emettere un suono o un lamento, la pelle sfaccettata quasi come fosse composta da minuscoli cristalli. Kain era pronto a scommettere che non provassero nemmeno dolore.
Qualcuno di loro aveva persino la sua faccia. Si sporse dalla roccia per vedere quegli esseri cerulei armati di lancia muoversi nella massa, cercando di trovare qualcosa che potesse distinguerli gli uni dagli altri, fossero anche frammenti di quelle armature arrugginite che indossavano chissà per quale strano motivo. I cloni di Gidan erano i più irrequieti e saltavano tra una roccia e l’altra come dei forsennati, assalendo persino qualcuno degli altri; per un attimo uno di loro si voltò nella sua direzione e Kain si irrigidì, appiattendosi dietro la collina e allontanandosi dalla luce della luna. La creatura annusò l’aria per qualche istante, poi si buttò nella massa trafiggendo un clone di cui non riuscì a riconoscere le sembianze. Persino il rumore dei loro passi aveva qualcosa di ovattato, e per un istante ebbe l’orribile sensazione che l’unico suono in quella landa desolata fosse il proprio respiro.
“Sei venuto. Non ci contavo più di tanto”.
L’enorme sagoma di Golbez oscurò la luce bianca, e lentamente fluttuò fino a fermarsi proprio davanti a lui. Il suo mantello cadeva fino a terra, immobile nell’aria ferma di quella strana notte; la voce era di qualcuno che non aveva timore di essere udito. Per un attimo a Kain parve di sentire un delicato canto in lontananza, ma la voce argentata svanì al suono dei piedi armati dello stregone dalle braccia incrociate. “So che non sei più quello di un tempo, Golbez. E in questo mondo sei l’unico che … sa”.
“E Cecil?”
“Ancora nulla. A malapena si ricorda di noi due. Il nome di Rosa non gli fa nemmeno sollevare la testa…” mormorò, lo sguardo fisso sulla lunga ombra del suo interlocutore. Non riusciva ancora a cancellare il suono della voce di Golbez nelle sue orecchie, le parole degli arcidiavoli che gli sfioravano la pelle, lo chiamavano e lo avviluppavano nell’oblio; ma i tempi della guerra erano stati cancellati dal tempo e lentamente aveva accettato la voce del cavaliere oscuro con un altro tono, le parole di chi, come lui, strisciava nelle tenebre con la mano e gli occhi rivolti verso la luce. “E lo stesso vale per gli altri. A volte mi chiedo perché soltanto a noi due è concesso ricordare il passato”.
“Non siamo soli, Kain. Qualcosa si sta agitando tra le fila di Chaos …”
Sospirò, osservando la massa arcobaleno. Sotto di loro gli esseri colorati iniziarono a muoversi in maniera più organizzata, ed anche quelli che erano stati atterrati si rialzarono, sollevarono la schiena e mossero un passo dopo l’altro. Erano diretti verso nord, ed il loro disorganizzato movimento riempiva tutto il canalone fino a perdita d’occhio. La geografia di quello strano mondo cambiava ogni volta, ma un brivido lungo la schiena fece capire a Kain dove fossero diretti. Tutti gli esseri disperati cercavano la luce. E questo lo sapeva molto bene.
“Cosa … cosa sono quelle creature? Hanno i nostri ed i vostri volti, ma non li ho mai visti nei cicli precedenti”.
“Non li hai mai visti perché erano rinchiusi nella Crepa. Exdeath ne ha spezzato il sigillo, e adesso sono liberi. Possono duplicarsi ad una velocità incredibile”. Golbez fluttuò di oltre un braccio in aria, fissando il punto in cui l’esercito lentamente andava convergendo. Non aveva alcun timore di mostrarsi a loro, ma quelle creature adesso marciavano verso la loro meta senza curarsi di altro, apparentemente senza un padrone. “Non ho idea di dove vengano. Vorrei interrogare Chaos, ma Garland non lascia che nessuno si avvicini al suo santuario. Il problema è che … non sono certo che sia stato Chaos a crearli. Obbediscono ai nostri comandi, ma c’è qualcosa di strano in loro”.
“Non mi avresti convocato qui se quei cloni non ti preoccupassero, Golbez”
Erano deboli e fragili, nient’altro che carne con un barlume di coscienza a malapena necessario per alzarsi ed attaccare; ne aveva uccisi cinque che gli avevano teso un’imboscata per raggiungere quel posto, e per quanto mimassero i poteri dei suoi compagni non c’era forza in quelle piccole braccia, sfaccettate come il cristallo ed altrettanto trasparenti. Certo, un’ondata avrebbe potuto avere la meglio su qualcuno di loro, ma Kain non riusciva a capire cosa avesse spinto il cavaliere dell’altra faccia della luna a rivolgersi proprio a lui.
“Questi cloni posso uccidere, Kain. E non come facciamo noi. Possono risucchiare l’energia vitale di coloro con cui vengono a contatto, impedendogli di rinascere nel ciclo successivo …”
Kain si accorse di stringere la lancia con più forza del normale, mordendosi il labbro realizzando l’implicazione di quelle parole. Il cuore iniziò a battergli fin nelle lamine dell’armatura. Lo stregone gli venne vicino, chinando il capo. “… chi viene toccato da quelle creature morirà, e tutte le speranze di tornare a casa saranno vane”.
Cecil …
“Non puoi fermarli in qualche modo? Non puoi comandare loro di …?”
“È Chaos ad animarli. Il comando di quell’armata è stato affidato a Kefka e Exdeath. Ho cercato di convincere Garland ad assegnarmi almeno qualche unità, ma si è rifiutato. Immagino sospetti di me”.
“E gli altri non sanno nulla …”
Scagliò un pugno contro una roccia, osservando i frammenti chiari che si sgretolavano sotto il suo colpo, maledicendo quella dannata situazione, quella guerra, quei cloni e soprattutto quella sensazione odiosa, quel velo bianco che copriva i ricordi ed il cervello dei suoi compagni. Nessuno, nemmeno Cecil si era reso conto di trovarsi in un vortice di morte e rinascita senza fine, e ad ogni ciclo doveva osservarli fare conoscenza e stringersi la mano, porsi domande idiote ed inginocchiarsi davanti all’enigmatica dea bianca nel santuario sull’acqua. Aveva provato a spiegarlo, aveva provato a …
Il vento sollevò la polvere che aveva creato, mandandola scintillare per un attimo davanti alla luna piena. Detestava essere impotente. Detestava vedere Cecil e gli altri guerrieri muoversi come pupazzi ignari su un palcoscenico polveroso, con soltanto se stesso e Golbez come spettatori. Detestava non riuscire a capire dove fosse il burattinaio. Quando aveva tranciato i propri fili affondando la lancia nel sangue di Bahamut Lunare si era ripromesso di impedire a qualunque costo che le persone che amava potessero scendere nell’abisso in cui lui era precipitato. Aveva giurato che si sarebbe preso cura del suo migliore amico. Una promessa che lo aveva unito allo stregone una seconda volta, sotto quella stessa luna, il giorno in cui si erano ritrovati in quel mondo.
La promessa delle Ali Rosse.
“Dobbiamo proteggerli, Golbez. Dobbiamo trovare un modo per …”
“Un modo c’è. E sono sicuro che in cuor tuo sai anche cosa dobbiamo fare”.
Il pensiero gli attraversò la testa come un lampo. “… non vorrai …?”
“Hai capito perché ho scelto te?”
Certo.
Certo che lo capiva.
Cecil … Cecil si sarebbe rifiutato di fare una cosa simile. E anche l’intransigente Guerriero della Luce, l’impeccabile Firion, la dolce Yuna. Lightning con la sua boria insopportabile avrebbe gridato ai quattro venti che quel piano sbozzato sarebbe stato una follia ma non avrebbe proposto nessuna alternativa concreta. Non che Kain ne avesse una, dopotutto. Inghiottì due volte, cercando di ignorare il sorriso radioso di Bartz che gli implorava di insegnargli qualcuna delle sue tecniche di Dragone. Ma gli occhi azzurri del ragazzo non volevano andarsene. “Immagino di sì”.
Per un attimo la risata fresca di Barbariccia gli risuonò nelle orecchie, i suoi occhi verdi intenti a divorarlo mentre si contorceva nel gelo di quello che lo aspettava. “Pensavo di aver chiuso con l’oscurità …”
“Ti daranno del traditore, lo sai?”
“Mpf. A quello ci sono abituato”. Avrebbe preferito non farlo, ma poteva convivere con l’odio degli altri. Era un cibo amaro, ma aveva imparato negli anni dell’oscurità a farlo suo; poteva trovare delle energie anche in quel sapore pungente, ed in quel momento aveva bisogno di forza. Forza per sé. Forza per i suoi amici. Forza per Rosa. Ma in fondo nemmeno lei avrebbe capito. Golbez lo squadrava, la singola luce della feritoia del suo elmo fissa su di lui, proteggendo il suo padrone dal mostrare al mondo alcuna emozione; eppure la voce che scaturì dal cavaliere oscuro non aveva più la potenza di qualche istante prima. “Ti giuro che farò di tutto per fermare quei cloni, Kain. Ma tu devi … fare ciò che va fatto. Non esitare. Non avere pietà”.
“In una cosa non sei cambiato, amico mio …”
Nessuna esitazione. Nessuna pietà.
“… il lavoro sporco lo lasci sempre a me”.

“Perdonami”
Appoggiò il corpo di Cecil con delicatezza, chiudendogli gli occhi. Forse era un gesto inutile, ma gli incrociò le braccia sul petto, proprio nel punto in cui il sangue ancora continuava ad uscire, tingendo di rosso l’armatura bianca. Lo squarcio causato dalla sua arma lo fissava con uno sguardo d’accusa, lo stesso sguardo che il suo migliore amico doveva aver avuto quando la lancia lo aveva trafitto alle spalle, caduta dall’alto spezzandogli la vita con estrema precisione. Con il Cavalier Cipolla non aveva avuto altrettanta fortuna: il colpo lo aveva lasciato agonizzante ma cosciente, e quando il ragazzo gli aveva gridato contro, implorando una spiegazione, non aveva trovato altra risposta che stringergli le mani intorno al minuscolo collo, attendendo che il corpo lentamente smettesse di agitarsi, i piedi di scalciare.
Ma Cecil non aveva sofferto. Raccolse la spada che era caduta a terra, ancora riposta nel fodero. La luce della luna, la loro luna rese la lama ancora più bianca, illuminando quello che aveva appena fatto. La rimise nel fodero, quasi infastidito, e la appoggiò sul petto del cavaliere intrecciandone le dita irrigidite. “Ci rivedremo nel prossimo ciclo, amico mio”.
L’aria gli portò l’odore dei cloni. Si erano mossi più velocemente di quanto avesse pensato, e imprecò tra i denti nel sentire un grido di guerra lontano, troppo lontano. Si chinò, abbracciando il corpo di Cecil, poi maledicendo la luna, il destino e tutto ciò che li aveva spinti a questo impugnò la lancia e riprese a saltare, correndo verso il frastuono che si faceva sempre più forte.
Se davvero Firion aveva ingaggiato battaglia doveva sbrigarsi.
Doveva raggiungerlo prima dei cloni.
Doveva ucciderlo prima di loro.

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Capitolo 7
*** Prishe ***


Prishe_Dissidia




Personaggio: Prishe
Genere: Introspettivo, Comico, Demenziale.
Rating: verde diventato poi giallo a causa di qualche battuta infelice
Avvertenze: lo stile leggero non mi appartiene, men che mai inventare qualcosa che faccia ridere. Come dire, io ci ho provato, godetevi questa breve storia perché ...


It's playtime with Prishe!

II ciclo

“Uff, eddaaaaaaaai, rispondi alla mia domanda! Doc mi ammazza se non compilo tutto il questionario …”
“Ma che domanda è quante volte al giorno vai al bagno?”
“E che ne so io? Non sono mica il cervellone, qui dentro!”
Santo cielo, che stress! Si era illusa che catturare il Mithra sarebbe stata la parte difficile, invece era andato tutto sorprendentemente liscio –dopotutto nessuno preparava buche nel sottobosco bene come lei, specie con uno scrigno gigante sopra. Non aveva però calcolato la sua insopportabile mancanza di collaborazione. Cosa diamine gli costava rispondere a due domande?
Proprio non potevano farsi scappare un’occasione simile. Un Mithra maschio nasceva solo ogni cento o duecento anni, e Doc non si sarebbe fatta sfuggire l’occasione di scrivere almeno un trattato sull’argomento. Anche se in questo strano mondo nessuno lo avrebbe letto, Doc era convintissima che prima o poi sarebbero tornate indietro, ed allora doveva essere pronta a ricevere tutta la gloria. Non che Prishe sapesse cosa farsene della gloria –tanto Doc aveva già messo in chiaro che non avrebbe messo il suo nome tra gli autori, nemmeno a caratteri infinitesimali- ma almeno catturare il rarissimo Mithra era un compito alla sua portata. Certo, non è che sembrasse proprio un Mithra al cento per cento: le orecchie erano normalissime, ed era … beh … proprio bassino
Doc sosteneva che si potesse trattare di un cucciolo o comunque un maschio al massimo adolescente, però parlava come un umano adulto. Il particolare che non ricordasse il proprio mondo d’origine complicava le cose, come il fatto che non si fosse posto affatto il problema di essere l’unico lì dentro ad avere una vistosa coda gialla.
“Oddio, ma cos’ha di strano la mia coda? C’è un tizio che gira con una cipolla gigante sulla testa, vai ad infastidire lui!”
“Perché quello non è un Mithra, è solo un idiota! E Doc non vuole scrivere un libro sugli idioti!”
Il piccoletto –Gidan, così si chiamava, ma oltre a quello non era riuscita ad estorcergli altro- tentò per l’ennesima volta di risalire dalla buca, ma in risposta Prishe gli regalò una linguaccia. Ci si era messa d’impegno, l’aveva scavata ben profonda proprio immaginando le gambe corte della sua preda e aveva lasciato le superfici liscissime per non dargli nemmeno un appiglio. Doc si era raccomandata di non farselo scappare e beh, se dovevano giocare a guardie e ladri nessuno sfuggiva alla sorveglianza della vigile Prishe!
“Senti, facciamo così …” disse Gidan il Mithra, sedendosi sul fondo. “Io rispondo a tutte le tue stupide domande e tu mi lasci andare, va bene? Se non esco subito Bartz e Vaan troveranno il tesoro prima di me!”
“Temo proprio di no! Doc … cioè, la grandissima dottoressa Shantotto vuole studiarti!”
“Mah, qui dentro siete proprio strani! Allora cambio di programma: io rispondo a tutte le tue domande e tu rispondi ad una delle mie, ci stai?”
Beh, in fondo sembrava una cosa innocua. Doc si raccomandava sempre di non rivelare quella cosa dei cicli e della memoria agli altri, che non dovevano sospettare nulla sul fatto che loro due ricordassero bene Vana’diel ed il proprio passato. Ma finché si trattava di una semplice domanda poteva andar bene, qualunque cosa pur di far parlare il Mithra e completare quel gigantesco questionario. “Affare fatto!”
Gidan era alto un metro e quarantasette centimetri, camminava su due gambe e non ricordava di essersi mai pesato in vita sua. Andava al bagno piuttosto regolarmente -una volta al giorno, meglio se di mattina- e mangiava di tutto, a parte ciò che passava per la cucina di Laguna. Non fumava, non aveva problemi di respiro, le ferite guarivano alla perfezione, non soffriva di cuore, di stomaco, di fegato, di occhi, di orecchie e non aveva i trigliceridi alti (qualunque cosa fossero …). Aveva tutti i denti, non ricordava di essere mai andato da un dottore e soprattutto non aveva delle medicine da assumere ogni giorno, quindi tutto sommato compilare la scheda non le richiese più di dieci minuti e quando osservò soddisfatta il foglio tutti i campi ed i quadratini erano stati riempiti alla perfezione. Lui tirò un sospiro di sollievo, poi la guardò dal basso con aria di sfida. “Adesso tocca a te rispondere!”
“E va bene, spara!”
“Ce l’hai il ragazzo?”
Ok, quella era un pessima domanda.
Una terribile domanda.
In effetti era la peggiore domanda quella scimmia cresciuta a metà potesse farle. Detestava quando si arrivava all’argomento “ragazzi” perché si ritrovava proprio senza niente da dire; al Rifugio tutti, assolutamente tutti la evitavano. Va bene, forse aveva esagerato quando aveva spaccato il braccio ad Ageneau perché le aveva toccato il sedere o quando aveva fatto crollare la stalla dove Lothaire si era appartato con la sua “migliore amica”, ma insomma, da lì a dire che era un mostro … E non era assolutamente, minimamente vero che non amava i bei vestiti di trine, solo che si strappavano sempre durante le risse, mica era colpa sua! Purtroppo nemmeno la carta de “la ragazza intelligente ed affabile” non era mai stata nel suo mazzo, se qualcuno cercava una donna superextracervellona alla fine andava sempre da Doc. E lei invece li rifiutava tutti con disprezzo, uno dopo l’altro.
Il problema era che su Vana’diel qualunque cosa facesse non andava mai bene. Anche quando indossava un vestito di trine.
“Dal silenzio mi sa che ho fatto centro?”
“Stai bene a sentire, stupido Mithra tascabile …” cielo, era davvero insopportabile! “Io … io sono pienissima di ragazzi! Ri-chie-stis-si-ma! Non so dove metterli, sai? E anche quaggiù non scherzo mica! Sai, giusto stamattina il Guerriero della Luce mi ha sorriso!”
“Capirai, un sorriso del Guerriero della Luce … quello lì se pensa ancora un altro po’ alla nostra adorabile dea ci rimane cieco. Niente di più … concreto?”
Non scendeva a prenderlo a pugni solo e soltanto perché Doc lo voleva tutto intero, ma quell’affarino peloso stava veramente oltrepassando la misura. Una volta finito lo avrebbe annodato a dovere e lo avrebbe usato come palla per farsi insegnare da Jecht il suo leggendario tiro da vero asso del blitzball. Solo che adesso doveva per forza rispondere alla domanda, maledizione a lei e a quando aveva fatto quella promessa. “Oh, vuoi qualcosa di più concreto? Allora sappi, scemo di un Mithra, che Cecil tutte le volte che viene nel laboratorio di Doc mi fa un baciamano. Un baciamano, hai capito?”
“Chi, Cecil Harvey La Luna Splende? Cielo, cosa ci trovate tutte voi in quello lì? Persino Light quando c’è lui nei paraggi rompe meno le palle!”
“Beh, di sicuro è alto” rispose, scandendo con attenzione la parola.
E carino. Cecil era così dannatamente carino. E galante, cavalleresco, gentile, luminoso, coraggioso, spiritoso, leggiadro e carino, carino, carino. Lui mica prendeva in giro le ragazze perché non sapevano indossare un vestito di trine. Con le altre aveva messo subito in chiaro che lo aveva visto prima lei: a Yuna tanto non poteva avvicinarsi nessun ragazzo senza l’autorizzazione di Jecht, Tifa non aveva occhi che per quel biondino che combatteva per Chaos –nemmeno quello era niente male, però cielo quanto era serio!- e Lightning … mah, Lightning la scansava in continuazione, Prishe non era nemmeno sicura di averle detto di girare al largo dal suo paladino. Doveva solo aspettare l’occasione propizia: prima o poi avrebbe trovato Cecil senza Kain tra i piedi, si sarebbe fatta avanti, avrebbero combattuto uno al fianco dell’altra –perché non era mica una maghetta bianca deboluccia, no no, no- ed una volta finita la battaglia avrebbe finto uno svenimento e lui l’avrebbe portata tra le sue braccia avvolto nel suo luminoso mantello bianco! Ed in quel momento persino Doc si sarebbe mangiata le unghie, parola di Prishe!
In ogni caso il nanerottolo non sembrava impressionato. “Le gambe lunghe sono sopravvalutate, fidati. E poi Cecil a me non la conta tanto giusta …” disse agitando la coda. “… secondo me quello lì preferisce di gran lunga la lancia di Kain”.
“Guarda che Cecil non ha bisogno di una lancia, sa usare benissimo la sua spada”.
“Mi sa che io e te non stiamo parlando della stessa cosa …”
Ma quanto ci metteva Doc ad arrivare? Stava cominciando ad irritarsi sul serio, e quando si irritava aveva bisogno di qualcuno su cui sfogare i suoi pugni.
“Comunque, riprendendo il discorso, mi pare di aver capito che non hai il fidanzato! Bene, questo semplifica le cose!”
Fu un attimo, e prima che Prishe avesse modo di insultarlo a dovere se lo ritrovò davanti, accovacciato sull’orlo della fossa con quel suo perenne sorrisetto come se aver appena saltato di almeno tre metri non fosse altro che un gioco. “Ti va di essere la mia ragazza?”
Che cosa????
“Tu sei scemo, oltre che basso!”
“No, non sono scemo. Solo che non mi capita spesso di essere catturato da una ragazza tanto carina!”
“TORNA SUBITO NELLA BUCA!”
“Guarda che esco lo stesso, ci vuole ben altro per tenermi fermo. Dai, manda al diavolo tutti quei fogli e vieni a darmi una mano, o davvero Vaan e Bartz me la faranno sotto al naso!” rispose, lanciando un paio di occhiate nel sottobosco alla loro destra. Con una rapidità che non aveva assolutamente messo in conto le acchiappò il polso e, per quanto cercasse di levarselo di dosso, il Mithra evitò un suo calcio senza mollare la presa. “Balthier lo dice sempre che un ladro di successo deve avere al fianco una bellissima ragazza! E poi se è vero che dal mondo in cui veniamo sono l’unico maschio in mezzo a centinaia di donne vuol dire che certe cose le saprò pur far bene, no? Meglio di certi paladini luminosi, poco ma sicuro!”
Prishe oppose resistenza con il braccio, ma si accorse dell’errore fatale solo quando il piccoletto allentò la presa e lei per tutta risposta cadde all’indietro come una pivella; soltanto che invece di finire distesa sul terreno si ritrovò a cadere tra le braccia del Mithra che in un solo istante si era portato alle sue spalle. “Sei ancora più carina quando fai la difficile!”
“METTIMI GIU O I TUOI DENTI NON TROVERANNO COSI CARINO IL MIO SUPERPUGNO SEGRETO!”
Da quella posizione cercò di tirargli la coda, ma quello gliela allontanò per dispetto e con un solo salto si portò sul ramo più basso dell’albero dietro di loro, atterrandovi sopra senza perdere nemmeno l’equilibrio o smuovere una foglia. L’idea di tirargli una ginocchiata dove gli avrebbe fatto davvero male era molto, molto invitante, ma il pensiero di cadere di sotto nella sua fantastica buca le trattenne il ginocchio. “Cavolo, quanto pesi …”
“MALEDUCATO!”
“Lo so, un paladino non direbbe mai una cosa del genere! Adesso stringiti a me e tieniti pronta per una vera caccia al tesoro!” esclamò, poi si sporse per atterrare su un altro albero, e poi su un altro ancora. Prishe mandò un gridolino quando il questionario le cadde di mano ed atterrò dritto dritto in una pozzanghera.
Questa è la volta buona che Doc mi ammazza …

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Capitolo 8
*** Vaan ***


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Personaggio: Vaan
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments. Canon.
Rating: giallo
Avvertenze: a parte la scarsa originalità non credo ci siano avvertenze. Mi rendo conto solo adesso che per quanto io adori FF XII non ho mai scritto nemmeno una minuscola fanfic su questo videogioco.


Pensando a te, ovunque tu sia

XII ciclo


Pensando a te, ovunque tu sia.

Forse questo sarà il mio ultimo pensiero. Sai, mi stavo chiedendo cosa si provasse ad andare incontro alla morte così, con la spada in pugno, davanti ad un fiume di nemici di cui non si vede la fine. Nemici senza volto e con migliaia di volti. Alcuni con il mio.
Altri come il tuo.
Quelli non credo che riuscirò a colpirli. Forse sarà uno di loro a farmi volare via per sempre, scagliando un incantesimo che mi ridurrà in cenere. Sono tuoi cloni, possono farlo, giusto?
L’importante è che non si tratti di te. Qualunque cosa succeda quaggiù, ti prego, non venire. Nasconditi come ti ho detto, non cercarmi, non immergerti in questa oscurità da cui non si torna più indietro; cerca la luce, cerca Cosmos, e vivi felice. Il prossimo ciclo sarà l’ultimo … so che queste parole non ti arriveranno, ma se puoi rimani vicino ai miei compagni, soprattutto al Cavalier Cipolla. E’ un po’ testardo, lo so, e si crede chissà chi, nemmeno fosse un Magister. Ma sai, mi ricorda casa. Quei pochi frammenti di memoria del mio mondo tornano sempre quando mi guarda dal basso in alto, come un simpatico fratellino che non ho mai avuto e che avrei sempre sognato.
Ti piacerebbe Ivalice. Dico sul serio.
Lightning sta gridando qualcosa, cerca di incoraggiarci a caricare, ma ho paura.
Non ho avuto il tempo di dirtelo, ma la mia città si chiama Rabanastre. È stato proprio quando ho combattuto contro di te che l’ho vista, quando i tuoi incantesimi hanno aperto una breccia nelle mie difese i miei ricordi hanno risposto. Il cielo è sempre azzurro. Non come in questo mondo, assolutamente no.
È l’azzurro dell’acqua delle cascate, delle migliori gemme preziose. Se avessi conosciuto Light ti avrei detto che è il colore dei suoi occhi.
Il cielo di Rabanastre è fatto per volare. Un ponte sotto i piedi, una cloche truccata e dei motori raffinati a negalite possono farti raggiungere ogni posto e spingerti fino al cuore di quell’azzurro che può persino uccidere quando ti trovi nel deserto con centinaia di dune di sabbia tra te e casa. Non hai idea di quanto mi sarebbe piaciuto avere un aereonave per farti vedere cosa intendo per volare: è quella sensazione di non strisciare a terra, di dimenticarti di tutto, di non vedere più guerra, fame e sofferenza. Volare vuol dire essere soltanto te stesso e l’azzurro, vuol dire non avere padroni e guardare Chaos ed i suoi tirapiedi sbraitare e ruggire mentre tu spieghi le ali e raggiungi posti lontani che attendono solo te, magari con un fantastico tesoro. Insultarli da lassù e poi accelerare fino a trasformarti in un punto luminoso. Dai, prova ad immaginare per un secondo la faccia di quel Kefka!
Io la vedo anche adesso in quei cloni. Ti confesso che se proprio devo morire avrò la soddisfazione di spaccare la faccia ad almeno una decina di quelle marionette. Gli darò qualche cazzotto anche per te, stanne certa. Anche se … non lo so.
Non sono un eroe. Va bene, ti ho salvata, ho persino fatto ingoiare a quel pagliaccio inquietante un po’ delle sue magie, ma di certo non sono un eroe. Sì, non ho mai avuto il coraggio di dirtelo di persona, ma non me la sentivo di deluderti. Non c’erano veri paladini a tirarti fuori di lì e quindi ho improvvisato. Infatti se fossi un vero eroe non me ne starei con i piedi piantati a terra mentre Kain con un salto è al centro dell’orda, lancia in mano, mentre Tifa fa esplodere quattro cloni in fila con un pugno micidiale e Lightning da sola combatte con la forza di cento Magister. Un vero eroe non rimarrebbe impalato a fissare Yuna che evoca mostri, ma correrebbe spada alla mano davanti a lei per coprirla. Io e Laguna qui dietro ci guardiamo, l’unica consolazione in tutto questo è che siamo almeno in due ad indietreggiare, di certo Cosmos quando chiamato noi due aveva proprio finito ogni altra alternativa. Sai, ricordo che nel mio mondo c’era un grandissimo guerriero, uno che per la sua terra ed il suo re aveva compiuto gesta straordinarie, sopravvivendo al tempo e ad ogni forma di umiliazione per far sì che un giorno il regno da lui amato tornasse alla luce del sole con il capo sollevato, cacciando via gli invasori. Mi chiedo perché Cosmos non abbia scelto uno come lui.
Io sono un aviopirata, e niente più. E questi sono i momenti in cui vorrei una bella aereonave per battermela a gambe nel meno eroico degli stili.
Ah, sono anche un ladruncolo, di quelli che scippano persino i propri compagni durante le riunioni. È stato divertente alleggerire Firion dei suoi pugnali, se quel Kefka avesse avuto qualcosina di valore gliel’avrei presa e ce la saremmo rivenduta insieme a quel Moguri peloso che ti piace tanto! Beh … sempre che non ti dia fastidio la cosa. Mi sa che sei il tipo di persona che mi sgriderebbe tutto il santo giorno per dirmi che dovrei smetterla di rubacchiare e trovare un lavoro onesto … e io ti direi di sì, poi riprenderei i miei furti, tu mi verresti a prendere, io ti chiederei scusa e ricominceremmo di nuovo da capo. Sono curioso di sapere come sei quando ridi.
Laguna estrae la sua arma e spara. Brutto segno.
Non ci rivedremo mai più. Ma ti prego, ridi. Non dire mai più quelle cose orribili, non chiedere di voler morire, non odiare te stessa fino a questo punto. Se non ce la fai a combattere scappa. E se proprio non puoi fuggire … va bene, combatti, ma fallo solo per chi ami. Troverai anche tu qualcuno da proteggere, e se si tratterà di un ragazzo posso dire già che sarà molto, molto fortunato. A Ivalice qualcuno mi ha detto che il potere non serve a niente se non puoi usarlo per difendere chi ami, per impedire che viva nella polvere, che soffra l’umiliazione di vedere il proprio mondo calpestato. Ricordati questo, perché nel prossimo ciclo non avrai alcuna memoria di me.
Sai, credevo sarebbe stato più frustrante, invece no. Mi basta sapere che tu sia sana e salva insieme ai miei amici, Terra. Puoi fidarti del Cavalier Cipolla.
Anche perché adesso è il mio momento. Ho passato troppo tempo a guardare gli altri.
Se non posso volare posso sempre combattere.
Augurami buona fortuna.

“Tutto bene, Terra?”. Il Cavalier Cipolla si volta verso la ragazza. In effetti sono tre ore che girovagano in quel labirinto senza trovare l’uscita, e la cosa non gli piace. Di solito il trucco di percorrerlo appoggiando la mano destra alla parete funziona sempre, eppure è certo che in quell’angolo sono già passati. Terra si appoggia alla parete. “Sei stanca? Già, forse dovremmo fare una pausa”.
“No, non sono stanca …” mormora lei, rimettendosi in piedi. “Stavo pensando a una cosa …”
“Pensare fa sempre bene! Qualche idea per uscire di qui?”
“No. Stavo solo pensando che sono proprio fortunata ad aver scelto di stare con te! Sei così coraggioso …”
Coraggioso non è il primo aggettivo con cui il Cavalier Cipolla parlerebbe di sé. Intelligente, scaltro, geniale, ma coraggioso proprio no; non è il suo stile cercar guai. Però non può certo deludere le speranze di Terra, che tra tanti guerrieri “coraggiosi” come il Guerriero della Luce, Firion o Cloud ha deciso di mettersi in viaggio alla ricerca del proprio cristallo proprio con lui che a malapena le arriva alla spalla e non intimidisce certo i nemici con un’occhiata come fa Squall. La ragazza si spaventa anche quando vede un clone, quindi deve trovare un po’ di coraggio e spavalderia anche per lei. Terra gli viene vicino e gli passa avanti, come a mostrargli che non è affatto stanca per la marcia. “Sai, all’inizio proprio non sapevo con chi andare, sembravano tutti fortissimi … ma quando ho visto te, non so … è stato come se una mano mi spingesse nella tua direzione”.
Ha i modi gentili, Terra. “Credi che sia stato il mio angelo custode?”

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Capitolo 9
*** Cosmos ***


Cosmosrender




Personaggio: Cosmos
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments. Canon.
Rating: giallo andante sull'arancione.
Avvertenze: a causa di spoiler le avvertenze ed i commenti fuori canto verranno posticipati alla fine di questa storia che è decisamente più lunga della media a causa di particolari che poi aggiungerò. Sono contenta delle prime due parti, molto meno dell'ultima, ma non si può volere tutto dalla vita e più di così la trama non riusciva a prendere forma. Con l'accompagnamento del tema di Cosmos dovrebbe essere tutto pronto.


Blooming White Sky

Prima dei cicli

 

The Spirit is over town, waiting for me to hit the floor
Blooming white sky for the voice of one calling tonight.


(“The Messenger”, Your Favourite Enemies)


Il portellone si chiude senza il minimo rumore. L’unico suono è il ronzio dei sigilli che bloccano di nuovo l’ingresso, e dopo qualche istante la luce sul fianco sinistro ritorna rossa cancellando l’unico segno della nostra presenza.
Mi fa male la testa. Forse è la pressione.
Il sensore al braccio indica che la riserva d’ossigeno è quasi terminata; spero si ricarichi, o non basterà per il ritorno. Il canale depressurizzato per il trasferimento dell’energia quantica ha seriamente assorbito tutte le mie energie, ma una volta che quel portello si richiuderà alle nostre spalle una seconda volta … solo allora potremo riposare.
La mappa olografica illumina il corridoio coprendo il simbolo di Onrac mentre il casco di Cid lentamente si abbassa facendo svanire la sottile patina di vapore che gli ha coperto il viso per tutto il viaggio. Le sue dita mi scivolano lungo la tuta e finalmente anche il mio casco svanisce. L’aria non ha mai avuto un sapore migliore, parola mia. Regolo immediatamente il sistema di aspirazione ed i filtri lungo la schiena iniziano il loro lavoro; Cid fa altrettanto con la propria tuta, poi modifica la luminosità della mappa fino a renderla quasi evanescente. I suoi occhi chiari la scorrono rapidamente , poi la spegne ed indica un corridoio alla nostra destra. “Gli elevatori sono da quella parte. Andiamo”.
Ci vogliono alcuni minuti per adattarsi alla gravità leggermente aumentata di questo posto, ma i nostri piedi scivolano sul corridoio e nessun altro suono interrompe il nostro passaggio.
Nella mia testa avevo sempre immaginato il complesso 99K come un luogo freddo e impersonale, pieno di soldati in divisa con lo sguardo impassibile ed i gradi in bella mostra. Sui soldati mi sbagliavo. Sul posto no.
Nel nostro laboratorio di ricerca tutto è luminoso. Certo, i vetri antigranata e gli scudi elettromagnetici impediscono di vedere ad oltre dieci metri dalle finestre, ma il nostro piccolo mondo ha i termoregolatori al massimo e nonostante il grugno truce di Mav che si lamenta degli orari massacranti e degli escrementi delle cavie è sempre pieno di vita. Ad ogni pausa Reus propone a tutti un giro di caffè, e quando arrivano i dolci preparati dalla moglie di Ark –mica quelle torte proteiche precotte che ci rifilano a mensa- buttiamo tutte le provette dove capita e ci litighiamo fino all’ultima briciola. Perfino Miria, l’assistente che va avanti a barrette integrali, manda al diavolo i menu da fame del suo dottore e si fa largo con i suoi gomiti sottili pur di afferrare una seconda fetta. Non lo dice, ma so che i dolci le ricordano il suo ragazzo. La sua pasticceria è solo uno dei tanti edifici che sono svaniti quando il raggio laser di Omega si è abbattuto su Melmond trasformando quasi tutta la città in un inferno di fuoco.
Omega.
Mio figlio non sarà un secondo Omega, parola mia.
Qualunque cosa accada, nel nostro laboratorio non torneremo mai più. Un amico che deve più di un favore a Cid ci ha garantito tre lasciapassare per Lufenia ed un passaggio clandestino attraverso lo stretto di Mars. Ma se qualcuno dovesse scoprirci prima di allora … non ci sono vie d’uscita all’accusa di alto tradimento.
In lontananza, a destra, si sentono i motori dei velivoli in accensione e le sirene che annunciano l’atterraggio di qualcosa. Qualcosa di piuttosto grande, almeno a giudicare dal rombo crescente che sta infrangendo il nostro silenzio. 99K è il più grande complesso militare del continente, quel posto misterioso da cui giungevano i fondi per le nostre ricerche e che tutti ci domandavano cosa vi fosse nascosto oltre i cento strati di scudi elettromagnetici e le torri di vedetta. Solo adesso capisco che non c’è niente di meraviglioso in questi corridoi di acciaio splendente, né in quegli ufficiali dalla divisa impeccabile che venivano ad osservare i prodotti del nostro lavoro. Gli stessi che hanno portato via il mio bambino.
“Sbrigati” sussurra Cid, poi con un braccio mi spinge dentro l’elevatore chiudendo i pannelli alle nostre spalle. Agita il pass che ha rubato ad un ignaro soldato e lo passa davanti al lettore. Lo schermo mostra il caricamento in corso, poi la spia verde s’illumina ed un portello si apre, invitandoci a selezionare il piano a cui vogliamo salire. Cid preme il settimo tasto, poi il portello si richiude e l’elevatore inizia a salire. Troppo lento.
Troppo lento.
“Il pass dovrebbe funzionare anche per accedere ai suoi alloggi. Non appena il distorsore entrerà in azione, tu entra e prendi il bambino. Io terrò attivo il distorsore ed impedirò alle guardie di entrare”.
“Come?”
“Con l’unico modo possibile”. Dalla fondina della tuta estrae un fulminatore e con un lieve movimento del pollice ne attiva le cariche. “Se senti sparare vuol dire che il tempo è scaduto”.
Vorrei rispondergli che non sa sparare e che ai tempi della leva ha sempre ottenuto il peggior punteggio, ma non penso sia il momento giusto. Siamo due ricercatori, non due soldati o due tiratori scelti. Ed è quello che penso anche quando stringe un secondo fulminatore nel mio palmo. “In caso di emergenza …”
“In caso di emergenza” mormoro, ed in quel momento le porte dell’elevatore si aprono. Il livello è tranquillo, se abbiamo calcolato bene i tempi non passerà alcuna guardia umana nei prossimi diciassette minuti e tutti i droidi di sorveglianza saranno allontanati dal distorsore. Cid attacca lo strumento alla parete e digita il codice di attivazione del segnale. L’elevatore si chiude alle nostre spalle e scende. “Diciassette minuti. Adesso vai” sussurra. Poi abbandona per un istante la strumentazione e mi stringe tra le braccia. “Ti amo”.
Non l’ho mai baciato con così tanta fretta. Ma è solo una promessa di quello che ci concederemo quando saremo lontani da qui. Felici. E vivi. “Anche io ti amo”.
Non credo serva altro. Perché non ha bisogno di altre parole. Ed anche perché non ne ha mai avuto bisogno, specie quando ha letto nei miei occhi il desiderio di riprenderci il bambino ad ogni costo, contro qualsiasi legge di Onrac. Non abbiamo mai avuto bisogno di parole, di regali, di promozioni o viaggi strani, soltanto di stringerci l’uno all’altro quando il vento sembra troppo forte per rimanere ancorati alla vita. È per questo che l’ho sposato.

Chaos è il nostro orgoglio. Abbiamo ricevuto una promozione per la sua realizzazione, e sul mio conto bancario sono stati versati più guil di quanti potrei mai guadagnare in un ventennio da ricercatrice militare. Sono venuti tutti ad ammirarlo: generali, ammiragli, persino tre membri del Consiglio di Sicurezza sono comparsi all’ologramma per complimentarsi con noi e portarci i saluti della Presidentessa Elmore. All’epoca credevo di aver toccato il cielo con un dito: la gestazione era durata soltanto cinque mesi, il parto era stato coordinato e gestito dai migliori droidi ostetrici di tutta Onrac e nemmeno dieci giorni da quando il bambino era uscito dal mio ventre non c’era sito scientifico che non parlasse di me e Cid, i sicuri vincitori del prossimo premio annuale per la genetica. I salvatori della patria.
Cosa abbiamo salvato, questo non saprei dirlo.
O forse un’idea ce l’ho.
Coordinare le conoscenze lufeniane di mio marito con la pragmatica realtà della scienza era stata la cosa più problematica. I più anziani della città la chiamavano alchimia, altri magia. Credo che non sarei mai venuta a conoscenza di tutto questo se non fosse stato per Cid e per i libri ritrovati nella casa di suo zio il giorno della spartizione dell’eredità. Era spiegato come creare corpi inanimati, copie di ciò che più si desiderava a partire da manciate di carbonio ed altri sali, ma nulla che avrei mai ritenuto più interessante se non per qualche scherzo al vecchio Mav. Ma mio marito aveva il genio. Ed il suo sangue lufeniano ha fatto il resto.
La chiave è l’elettricità. Per quanto bassa possa essere l’intensità, un flusso di corrente elettrica genera delle alterazioni a livello molecolare per la maggior parte delle volte con esiti distruttivi; le cellule umane contengono una quantità di acqua sufficiente a stimolare la propagazione della corrente elettrica in tutte le dimensioni, causando una cascata di scissioni enzimatiche in pratica incompatibili con la vita. Il nostro errore è sempre stato quello di voler alterare le componenti primarie della cellula umana sintetizzando proteine clonate da campioni di DNA alterato secondo le nostre esigenze, e forse è stato proprio questo modo di pensare che ha rallentato per anni i risultati del nostro dipartimento militare votato alla creazione di nuovi modelli di soldati. Volevamo adattare il nostro corpo agli stimoli esterni. Non avevamo pensato a cambiare quegli stimoli.
Nelle cellule lufeniane è presente una concentrazione incredibile di fluoro. La sua elettronegativa abnorme, di base perfino mortale, è in grado di deviare leggermente il flusso di elettroni ed in parte di assorbirlo, riducendo i danni e garantendo la stabilità dei ponti a idrogeno che sono la prima difesa per la stabilità del patrimonio genetico. Abbiamo studiato per oltre dieci mesi le diverse modalità di dispersione di corrente nei tessuti di Cid ed abbiamo sequenziato i diversi passaggi fino a renderli ripetibili anche nei liquidi organici. Quando l’embrione attecchì nel mio ventre Cid si occupò di tutto, sottoponendomi alla nuova sequenza di corrente e preparandomi di persona pasti appositi per favorire lo sviluppo della creatura e dandole allo stesso tempo questa nuova forma di energia per plasmarlo a nostro piacimento. Nel momento in cui vidi le piccole ali brune dispiegarsi lungo la sua schiena mentre ancora si dibatteva nel cordone ombelicale provai un senso di orgoglio smisurato. O forse era superbia mascherata così bene da quei vagiti da sembrare orgoglio.
I suoi poteri si manifestarono sin da subito, ma ci fu concesso di tenerlo nel nostro centro di ricerca per seguirne i parametri vitali e preparare delle relazioni per il Congresso della Difesa. Oltre all’evidente velocità di crescita dimostrava innate doti pirocinetiche ed una capacità di rigenerazione superiore a qualunque essere vivente. Una sera riuscimmo a sedarlo per sezionargli un mignolo e valutare le tempistiche di turnover osseo, e quando il dito si riformò sotto i nostri occhi capimmo che avevamo il soldato perfetto. Ma in fondo non vi fu nemmeno bisogno di sottolinearlo nella nostra relazione, perché Chaos aveva un dono che superava qualunque immaginazione: aveva il dono della vita.
I corpi inanimati che i lufeniani creavano disegnando cerchi a terra diventarono un ricordo, così come quei cloni realizzati in laboratorio che richiedevano una spesa incredibile per essere portati subito a maturazione. Chaos non aveva bisogno di disegnare, di toccare o pronunciare parola. Gli bastava volere.
Qualunque materiale avesse sotto lo sguardo prendeva forma. La prima volta che vedemmo dieci Ark camminare nel giardino credemmo di avere un’allucinazione collettiva. Non avevano volontà propria come i cloni standard, ma si dimostrarono senzienti; Chaos sembrava davvero divertito da quelle bambole che si muovevano al suo comando, e per la prima volta ci accorgemmo che poteva persino ridere, ridere con quella risata genuina di un neonato a cui anche la luce arcobaleno di un prisma sembra un miracolo divino. Poi capimmo che, nonostante la lingua bifida, poteva imparare a parlare.
Mi chiamò “mamma”.
Venti giorni dopo me lo portarono via.

Dunque questa è la sua stanza.
Il visore fa emergere un mobile enorme proprio alla mia destra traboccante di cilindri di vetro di cui non sono intenzionata a conoscere il contenuto; il letto appare oltre proprio davanti a me ed i segnali rossi individuano subito quella forma potente di energia che è il suo corpo. L’interruttore compare proprio sotto i miei polpastrelli risparmiandomi la fatica di cercarlo.
Sedici minuti.
Più che sufficienti.
“Chaos …”
Sta bene.
Sta bene.
E questa è l’unica cosa importante.
Non l’ho mai stretto così tanto. Non per afferrarlo, non per sedarlo, non per costringerlo a sottostare ai miei test infiniti senza uscire per giorni dal laboratorio, non per allontanarlo dai quaderni di Miria. È rigido, è appena svegliato, le ali si aprono quasi di scatto non appena mi incontrano e sentono le mie mani che gli accarezzano le corna come se fosse il più bello dei bambini. E lo è, perché semplicemente lo è. “Stai tranquillo, amore mio … va tutto bene, adesso io e papà ti portiamo via di qui!”
“Mamma?”
È cresciuto ancora, ma non abbastanza da impedirmi di prenderlo in braccio e di sentire le sue squame premere contro la tuta mentre le ali mi avvolgono nel suo unico modo di dirmi che mi vuole vicino. Qualunque cosa lo abbiano costretto a fare, oggi finirà. “Mamma?”
Solo in questo momento mi accorgo che sta guardando qualcosa, qualcosa oltre le mie spalle che in un istante lo irrigidisce e gli fa volgere lo sguardo rosso verso di me.
“Lascia mio figlio”.
Ed è a quelle parole che mi volto, perché non è un soldato, un drone, o un qualsiasi inserviente. La voce l’ho sentita troppe volte per non riconoscerla.
Lei mi guarda, meravigliosa come una dea. Si staglia tra noi e la porta, il cielo solo sa come vi sia arrivata o se già si trovasse lì. I suoi occhi azzurri si posano su mio figlio e d’istinto lo copro con un braccio per impedire a quello sguardo di andare oltre, di sfiorarlo, di contaminarlo col bianco che emana tutta la sua figura diafana. L’abito dello stesso colore ricorda quello delle principesse dei racconti, così perfetto ed innaturale che sembra muoversi nell’aria anche senza che nessun condizionatore sia acceso; i gioielli che la rivestono non sono nulla rispetto alla luce dorata dei suoi lunghissimi capelli che ondeggiano come raggi di sole intrappolati in un corpo mortale.
Vorrei fare un passo indietro.
Vorrei farne dieci, cento, e allontanarmi da quello sguardo. Scappare da quella sensazione che non ha nulla a che fare con la bellezza, la potenza, il candore, qualunque cosa possieda quella donna immobile che riempie di luce la stanza con la sua semplice presenza. Il rilevatore termico inizia a lampeggiare, ma non è calore quello che viene dalla figura, non è elettricità, ma qualunque cosa sia questa sensazione non è altro che una manciata di problemi di fronte all’orrore di questa bellezza senza fine.
Perché quegli occhi azzurri sono gli stessi che mi salutano ogni mattina, che mi guardano stanca riflettendosi sul vetro della finestra del mio studio, gli stessi che scintillano di gioia quando si uniscono a quelli di Cid. Sono gli stessi che leggono i rapporti ogni mattina e che lanciano lunghi sguardi di disapprovazione a Chaos quando manda le sue strane copie a distruggere la mensa perché non gli piacciono quei pasti sintetici. Gli stessi che in questo momento trattengono tutte le lacrime perché non possono vacillare davanti a tutta questa luce indesiderata. La copia, la mia copia, quella bellissima copia non si sposta.
Vorrei davvero solo poter fare un passo indietro. Ma la porta è davanti.
Mancano dieci minuti.
“Restituiscimi mio figlio e non ti sarà fatto alcun male” dice lei. Simula anche piuttosto bene lo sguardo dispiaciuto.
“Te lo restituirei … se fosse tuo. Scansati, pupazzo!”
“Non sono un pupazzo. Io mi chiamo Cosmos” dice con la sua voce alta. “E quello è MIO figlio!”
Chaos si agita. I suoi occhi vanno da me a lei e stringe la mano sulla tuta fino a lacerarla. Non dice nulla, ma non ho bisogno di parole per capire la sua confusione. Il solo pensiero che in questi giorni gli abbiano affiancato una mia copia solo per confonderlo, solo per controllarlo, mi fa tremare un braccio; e forse non è un caso che in questo movimento impercettibile io trovi l’unica chiave per uscire da questa situazione, l’ultima che avrei mai pensato di usare. L’unico alito di esitazione sparisce all’idea che questo clone abbia stretto il mio bambino tra le sue braccia spacciandosi per me. Che lo abbia confortato con delle parole cantate dal Ministero della Difesa per piegare i suoi poteri meravigliosi e trasformarli in fili con cui muoverlo a piacere. “Te lo ripeto, non è tuo figlio. E la sai una cosa …?”
Era questa l’emergenza di cui parlavi, Cid? “…. i tuoi creatori si sono dimenticati di clonare le rughe!”
Ma quello che segue non è uno sparo. O almeno, non quello del mio fulminatore. No, quello cade a terra, tradito dalla mano che trema.
La porta alle sue spalle si apre, e Cid cade riverso a terra davanti a degli uomini armati.
La donna bianca si scansa di lato, e gli uomini la superano diretti verso di me, sopra Cid, oltre Cid, senza curarsi di Cid e verso di me e Chaos come una marea. “Fuoco!”


Cid.




Questo buio è il nostro sogno.








“La donna è ancora viva, Lady Cosmos”.
“La sua accusa è di alto tradimento. Ha cercato di portar via la nostra arma segreta …”

La sua voce è così bianca.

“… conoscete la procedura”.




















“Cosa sta facendo il bambino?”
“SEDATELO, IDIOTI!”



“TUTTI A TERRA!”







Questo buio è bianco. Si mescola con le stelle, perché quelle sono stelle, vero? Sboccia, come un fiore in attesa che qualcuno lo raccolga gridando il suo nome nella notte.
È un mantello luminoso, una stoffa strana che brucia con tutta la sua forza fino a creare una fiamma candida. È il mio corpo, questa fiamma? O è il mondo? O è Cid, perché sta gridando qualcosa oltre il bianco, è così lontano da stringermi le dita e tanto vicino da dover gridare, deve venire dall’alto, però.
Si sta aprendo qualcosa.
Suppongo sia energia.
Il bianco si frantuma e con un’esplosione di schegge si trasforma nel Tutto, quel Tutto spaventoso fatto soltanto di un’oscurità abbagliante dove cadono strani frammenti, pezzi di mondi, del mio mondo, di ogni mondo, scivolano in questa cascata dove la luce è soltanto un ricordo privo di consistenza e la voce di Cid è un ruggito potente come questa caduta senza fine che trascina con sé tutto, assolutamente Tutto, il laboratorio, la stanza, l’ascensore, la tuta, il fulminatore, Cid, Ark e Mav. Tutto cade e l’universo guarda, questa forza magnifica è come un paio di ali spiegate che trascinano il mondo nel volo con due corna a cui aggrapparsi per non diventare tutt’uno in questa spirale nera che ha divorato tutto il bianco come una belva affamata. La sua furia ha una forma, ed ha il colore del sangue. Se quello sotto di me è un mondo, suppongo che cadrò.





Un drago che tutto custodisce.














“MAMMA!”




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N.d.W: innanzitutto una calorosa stretta di mano a tutti quelli che sono arrivati alla fine di questa molto poco simpatica mazzata sulle gengive. Sì, suppongo che l'abbiate trovata pesante e soprattutto piena di scene inutili (il secondo paragrafo poteva benissimo essere omesso, lo so), ma il punto è che ho usato questa storia per riassumere comprimere una lunga fanfic che avevo in cantiere da un po' ed avevo abbandonato sia per assenza di tempo sia per eccesso di progetti concomitanti tutti più importanti. Volevo scrivere qualcosa dedicato proprio a questa donna senza nome che funge da matrice per Cosmos, citata soltanto nei diari e su cui avrebbero potuto sprecarsi a fare qualche cutscene, almeno quella in cui muore nella sparatoria. I personaggi che vengono citati rapidamente li avevo abbozzati un pochino, così come le loro storie personali, dunque mi sembrava carino usare questa storia come scusa per farli apparire almeno una volta e dare loro un po' di giustizia. So benissimo che sono inutili, ma volevo omaggiarli con un minuscolo cameo.
Per il resto l'incontro tra la donna senza nome (il vantaggio di fare una One-shot è che posso non inventarlo, cosa non fattibile in una fanfic più lunga) e Cosmos non mi è piaciuto gran che, ma è oltre una settimana che ci sto girando intorno senza riuscire a migliorarlo, quindi ve lo siete beccato così com'è. Sull'ambientazione quasi futuristica mi sono ispirata al fatto che il mondo d'origine di Chaos e dei suoi genitori possedesse armi tecnologiche come Omega e disponesse di tecniche di clonazioni, quindi mi sono permessa questo slancio quasi fantascientifico anche per variare un pochino l'atmosfera.

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Capitolo 10
*** Nube Oscura ***


 

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Personaggio: Nube Oscura
Genere: Introspettivo, Missing Moments. Canon.
Rating: verde
Avvertenze: Nube Oscura fa parte del mefitico trio "Lo diciamo strano". In italiano parla di sé tranquillamente al femminile singolare, mentre in inglese ed in giapponese si riferisce a se stessa con il "noi" in quanto è un'entità trina, i suoi stessi serpenti sono coscienti e vivi anche se poi la porzione del corpo che parla è quella femminile. Ho preferito farla parlare al plurale perché mi sembrava più fedele all'originale.


Avvento

II ciclo

Noi siamo. Quindi esistiamo. E ciò è sbagliato.
Il Nulla attende l’Avvento, ma la nostra stessa esistenza è segno che tutto ciò che è ancora non ha raggiunto il fine ultimo a cui esso spontaneamente tenderebbe; la nostra reclusione in questo posto assume un significato solo partendo dall’inconsistente ipotesi che la nostra conoscenza possegga assenze strutturali che richiedono di essere completate prima che il Nulla abbia il sopravvento.
L’albero sfiora la verità, ma la sua immanenza gli impedisce di cogliere la grandezza della natura trascendente del Nulla: dove lui vede l’entropia, noi vediamo l’assoluto.
Dove lui vede vita, noi sappiamo che esiste il riposo.
Credevamo che la vita potesse solo iniziare e finire. Ogni vita, ogni luogo.
Errato.
Questa guerra si è già ripetuta. E si ripeterà, se le teorie della strega del tempo sono esatte. Rimarremo rinchiusi in questo mondo non spegnendoci come stelle, ma rialzandoci come fantocci sollevati dai fili di un burattinaio che con la sua mera esistenza ritarda l’Avvento. Questo burattinaio trascende la nostra esistenza, non pensato ma pensante. E noi dobbiamo trovare questo pensiero astrale ed aprire tutto ciò che di lui è immanente alla pienezza del Nulla. Perché il Nulla tutto cancella. Il Nulla è armonia.
Un cosmo ordinato e benefico è solo una costruzione della mente degli umani, realizzata al fine di sopportare la durezza dell’esistenza, così come la pace transitoria di cui parla la dea bianca: una realtà costellata di esseri viventi è per sua stessa natura caotica ed instabile, perché credere che gli esseri umani possano annullare coscientemente loro stessi per amalgamarsi alle microscopiche altrui realtà non ha alcuna base razionale per esistere. Siamo andati ad esporre la Verità alla signora del Santuario dell’Ordine, ma il suo pensiero discorda a priori con il nostro perché assume come fine ultimo la sopravvivenza di tutte le forme di vita esistenti.
Una contraddizione in termini, considerato che tutto ciò che respira è destinato comunque all’annullamento.
Ci aspettavamo maggiore raziocinio da un essere del suo livello, ma è evidente che anche questo nostro assioma sia errato alle fondamenta.
Noi esistiamo. E questo è un segno della nostra incompletezza.
Una figura si avvicina. Ci stava osservando da prima, sin dal momento in cui abbiamo chiesto udienza al Santuario dell’Ordine; sceglie questo preciso istante per uscire allo scoperto, comparendo tra le rocce come a trovarsi lì per caso. Un altro troverebbe irritante questa messinscena, ma non noi: dopotutto anche questa forma di vita farà parte del Nulla.
“Siamo pensierose stasera, mia cara …”
“I nostri pensieri ti sono noti da tempo, Imperatore. È chiaro che le tue orecchie non accettano di sentirli”.
“Non c’è nulla che non vada nelle mie orecchie, te lo assicuro …”
Continua a camminare, volutamente intralciando il nostro percorso; ci guarda, ci osserva, ci scruta in tutta la nostra apparenza appoggiando tra noi il suo bastone nero. Ignoriamo il perché di quell’oggetto quando è manifesta l’assenza di problemi alle sue gambe, ma sono migliaia di anni che abbiamo smesso di meravigliarci delle abitudini umane. Sono solo minuscole variazioni, infimi gesti davanti al Nulla. Non è per noi iniziare una discussione priva di senso. “Anzi, alle mie orecchie giungono fin troppe voci. Alcune mi hanno fatto notare che uno di noi, un compagno sotto il vessillo di Chaos, ha scambiato parole con la dama splendente contro cui dovremmo invece batterci”.
“Noi non siamo compagni, Imperatore. Né Chaos è il nostro vessillo” ribadiamo. Le nostre intenzioni sono manifeste perché solo gli umani hanno bisogno di mentire. Nascondere la verità è per chi si ritiene in torto, e noi non lo siamo mai. “Il nostro pensiero non ti concerne”.
“Mia cara, tutto ciò che si trova in questo mondo mi concerne. Vedi …”
Non sappiamo se quella spaccatura nella roccia fosse già lì al nostro arrivo, ma l’umano sembra trovarla di suo gradimento. Vi si siede, sollevando il mantello senza scostare gli occhi dalla nostra forma. Abbiamo imparato che questo gesto segna l’inizio della caccia, l’osservazione della preda prima di sfiancarla con le parole e schiacciarla con la magia.
Irrilevante.
“… si dia il caso che nessuno di noi sia soddisfatto della nostra attuale situazione. Troppe sconfitte, troppi segreti, nessuno si diverte ad obbedire agli ordini di Garland e ad un dio che non ci è concesso di incontrare. L’esperienza mi ha insegnato che quando qualcosa non va il problema è alla radice, non pensi?”
La sua tela è composta solo di parole. Proprio come Xande crede che in esse vi sia il potere, ma dove vi è una voce vi è anche una gola che può essere soffocata per sempre. “Dunque mi chiedevo se non fosse il caso di organizzare un piccolo … cambio al vertice nella nostra organizzazione. Volevo sentire la tua opinione in merito e giustappunto sapere le tue … preferenze di schieramento. Mi sembra di aver intuito che offrire la tua millenaria esistenza al servizio di Chaos non ti renda felice, o sbaglio?”
“La felicità è un concetto che non ci appartiene, Imperatore. È un vostro mero stimolo agli avvenimenti che vi sono favorevoli, nulla che valga la pena di ricercare. Noi siamo eterni, ed in eterno potrò dimostrarti che la ricerca della felicità non è altro che una chimera che gli esseri umani hanno creato per non soccombere allo schiacciante potere del Nulla, una barriera contro un’immensità che la mente non può concepire senza annullarsi”.
La nostra è una risposta vera, ed in quanto vera non permette all’uomo di controbattere. “Le tue macchinazioni non ci riguardano, Imperatore. Tutto ciò che si trova tra la nostra esistenza ed il Nulla avverrà, camminerà e si consumerà fino al giorno dell’Avvento. Se ritieni che in questa tua vita carnale ti sarà di vantaggio uccidere Chaos, percorri quella strada senza chiedere il nostro intervento. Noi faremo ciò che riterremo opportuno”.
“Mpf. Vuoi dunque erigerti come unica signora di un mondo annegato in questo tuo Nulla?”
Non ci sono signori. Non ci sono padroni. Ma questo l’umano non può capirlo. Nella sua mente c’è solo una patetica ossessione di potere che lo rende cieco e vulnerabile; potremmo colpirlo in questo momento, così vicini alle sue difese, distruggerlo e consegnarlo alla prossima vita. Ma non avrebbe alcun senso. E noi non abbiamo intenzione di svolgere azioni senza senso.
Lui non può capire. Nessuno può. “Il Nulla non ha signori. Accoglie tutti tra le sua braccia, senza distinzioni. È nella non esistenza del Nulla che anche noi …”
Non è opportuno che senta; e non lo farà, perché la sua mente non è pronta ad aprirsi. Si è già alzato, sollevando le spalle in modo sdegnoso mentre scivola verso nord. Forse è un bene, perché per un attimo abbiamo sentito il bisogno di trattenere le parole, di non liberare nell’aria il nostro più prezioso pensiero. Ma le sue orecchie sono lontane, e la luna può ascoltare e nascondere.
Forse anche cancellare.
“… potremmo un giorno essere felici”.

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Capitolo 11
*** Kuja ***


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Personaggio: Kuja
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments.
Rating: verde
Avvertenze: non adatta ai fan / alle fan di Sephiroth


Questione d'estetica

XI ciclo

Delle grandi ali bianche, dalle soffici piume screziate d’azzurro.
Kuja estende il braccio per sfiorarle, per sentirne la morbidezza e poi affondarvi tutta la mano; è piacevole, sembra una carezza. Lo sfiorano lungo le guance ed il collo, lo rassicurano e gli sussurrano che quella notte la luna sarà piena: guardare Alexandria e la sua torre di cristallo sotto la luce bianca è uno spettacolo che non intende perdere.
“Muoviti”.
Il suo compagno di viaggio ha un pessimo tempismo. Kuja esce dal sogno ad occhi aperti come se una mano lo avesse agguantato per il collo per trascinarlo di nuovo lì, in mezzo a quella foresta triste ed umida; si chiede se per caso anche al grandioso Angelo Da Un’Ala Sola sia mai capitato di distrarsi, di immaginare qualcos’altro che non siano sangue, morte e la sua Masamune. Probabilmente no.
“Io penso allo scimmione” abbaia senza nemmeno di degnarsi di guardarlo in faccia. “Tu occupati della ragazza, persino uno come te può farcela. E ricorda …”
“Uff, prendo l’Evocagemma. Sì, lo so, lo so!”
“Mpf”.
Con il suo loquace commento che cala il sipario su quel fantastico e movimentato primo atto, l’onnisciente, onnipotente, onnipresente, glorioso, superiore, epico, divino generale nero gli volta le spalle –anzi, ad essere precisi non si è mai voltato nella sua direzione sin dall’inizio della missione- e svanisce tra gli alberi azzurri degnandosi finalmente di lasciargli la scena.
L’aria è tersa, satura di umidità e di magia.
In fondo a Kuja non dispiace troppo andare in missione con Sephiroth: è efficiente, perfetto, svolge il lavoro pesante altrui senza che nessuno glielo chieda e prova anche un certo piacere nell’uccidere i guerrieri di Cosmos. Tende ad essere sempre alla ribalta, ma il suo copione è meravigliosamente povero di battute: un altro viaggio in compagnia di Exdeath e Kuja è sicuro che il Nulla attecchirà nelle sue orecchie a furia di ascoltare quei monologhi sull’annullamento di ogni forma di vita senziente che sembrano scritti da un imbrattacarte ubriaco. Certo, non può pretendere che la gente sappia citare Lord Avon come lui, però …
Ci sono strane luci in aria. Tante, non riesce nemmeno a contarle ma sbocciano dalla nebbia come occhi di folletti dispettosi e gli scivolano intorno illuminando i tronchi degli alberi di rosa, giallo e verde. Contro qualunque cosa alluna la mano per sfiorarle e queste giocano con le sue dita, nascondendosi tra queste per poi comparire di nuovo. Non sono né fredde né calde, ma rispondono alla magia spostandosi lungo il flusso, in basso ed in alto come imprigionate nella sua stessa rete.
È quando distoglie lo sguardo dalle luci che la vede.

Kuja adora le persone speciali. Non re o regine, principi o principesse, dee ed eroi.
L’importante è che siano speciali.
Ama quelle persone che non si può fare a meno di guardare dal basso in alto trattenendo il fiato, coloro che comandano attenzione; in realtà non riesce a capire bene cosa renda “speciale” qualcuno, ma forse è proprio questo che lo affascina: scoprirlo sarebbe come conoscere le regole, i segreti che permettono ad una musica di rubare l’anima.
“Speciale” è il sorriso di Gidan.
Ogni persona ha una musica. Per Sephiroth Kuja immagina una marcia roboante, qualcosa di rumoroso, eclatante e fastidioso che annuncia solo distruzione e dolore. Per Gidan senza dubbio uno scherzo in chiave di sol.
Per quei piedi invece immagina un lento, ma preso molte ottave più in alto proprio come gli spruzzi d’acqua che si sollevano quando le caviglie bianche si alzano e si abbassano per poi scivolare nella loro danza senza note. Il riflesso della ragazza si infrange sul velo d’acqua quando la punta del suo lungo bastone azzurro ne sfiora la superficie come a dipingere una tela di cui solo quei piedi conoscono il significato; si appoggiano sull’acqua bassa come fosse di cristallo, affondando nel più totale silenzio. Proprio davanti a lei, sospesa in aria, l’Evocagemma costringe il lago a riflettere la sua luce rossastra, ma Kuja si accorge di non poter distogliere lo sguardo dalla ragazza.
E di non volerlo fare. Da qualche parte oltre quel piccolo frammento di universo giunge una serie di suoni, di grida di battaglia, ma il silenzio si è cristallizzato e lui trattiene il respiro per non incrinare quell’istante lontano da qualunque prigione del tempo.
Le piccole luci abbandonano gli alberi, attratte dalla danza; iniziano a giocare con lei, a mescolarsi tra i capelli chiari e le lunghe maniche, a rincorrersi tra una piega e l’altra della sua gonna fino a sparire tra gli schizzi che per un attimo la celano ai suoi occhi e poi si piegano un’ultima volta come lacrime di stelle. Il caleidoscopio si accende di nuovo per posarsi sulla gemma scarlatta: un ultimo lampo di luce, forte e violento, sferza l’aria in tutte le direzioni e Kuja non è abbastanza rapido da chiudere gli occhi in tempo. L’Evocagemma brilla più di un sole, poi discende nel palmo della sua mano.
Non c’è soffio d’aria che non si chini davanti a lei. Alle loro spalle, oltre la foresta, qualcosa esplode facendo tremare la terra, ma ai suoi occhi non è altro che un applauso a quello spettacolo, un modo come un altro per chiedere il bis ad una danzatrice speciale. Giusto, applaudire sarebbe il meritato tributo.
“Puoi avvicinarti, se ti va”.
La sua voce lo coglie alla sprovvista. Chaos solo sa se si è lasciato sfuggire un rumore, lui che è in grado di scivolare su un velo di polvere senza lasciar traccia o di camminare tra i ghiacci confondendosi tra i riflessi della neve. Per un attimo immagina che sia rivolta ad un altro spettatore, ma i suoi occhi –strano, sembrano essere di due colori diversi- sono fissi nella sua direzione. Adesso che è immobile, in piedi sulla riva, ha la certezza che sia la più bella creatura che abbia mai visto –a parte se stesso, s’intende, ma lui ha dedicato tutta la propria vita ad essere perfetto. Per quanto non tutti i suoi ricordi siano tornati al proprio posto Kuja è convinto che nessuna principessa, nessuna regina, nessuna granduchessa dei grandi palazzi possegga un gioiello in grado di competere con quelle iridi o un vestito così raffinato da oscurare l’arcobaleno dei suoi abiti adagiato su quella tunica bianca.
Non è vero che non gli piacciano le donne –chiacchiera che senza ombra di dubbio è partita da quella lingua lunga di Gidan il giorno in cui Kuja aveva espresso tutto il proprio disinteresse per quella guerriera di Cosmos tutta sudata e dal seno così disgustosamente sproporzionato. Il punto è che non tutte le donne sono uguali: è una questione d’estetica, ma ormai ha smesso di pretendere che Gidan capisca qualcosa che non siano avventure, amici, donne e tesori.
Le luci le ruotano intorno, ed il bagliore scarlatto dell’Evocagemma gli ricorda il motivo per cui si trova lì. Se aveva mai avuto una qualunque forma di effetto sorpresa ormai è acqua passata, quindi esce allo scoperto fino a raggiungere la sabbia.
Ed è in quel momento che al più grande attore che il mondo abbia mai avuto l’onore di applaudire la lingua si trasforma in una massa informe e pesante, attaccandosi a bella posta sul palato lasciandosi senza una battuta, senza un copione; ha la fastidiosa sensazione che qualcuno lo abbia trascinato lì per assegnargli il ruolo tutt’al più da comprimario, che le luci della ribalta non siano per lui. Non possono recitare su quel palcoscenico allo stesso livello, gli applausi e gli sguardi adoranti andrebbero altrove. Ed il copione continua ad essere bianco, anche quando quell’occhio azzurro e quell’occhio verde lo esortano a parlare, fosse anche un canovaccio, una bozza non preparata. Forse è per quel motivo che, quando la bocca riesce a riprendersi, si ritrova a dire solo “L’Evocagemma. Dammela”.
“Ah …”
È delusa, ovviamente. E anche Kuja lo è, ma le parole al sapore di nettare che aveva in mente per lei gli sono scivolate in gola; ne è rimasto solo il retrogusto amaro, quello che sosta sempre nel suo petto quando si trova con le persone speciali che tanto adora, queste che illuminano il mondo con una luce che lui proprio non riesce a sprigionare e che senza dubbio le designa come paladini di Cosmos. Lo stesso retrogusto che si ritrova sulle labbra quando Gidan non può vederlo. “… va bene. Ti prenderai cura di lui?”
La verità è che la magia è già sulle sue dita, pronta alla furia dell’attacco, quando realizza il senso delle sue parole. “Forse non ti sei accorta che non siamo dalla stessa parte …”
“Non è un problema. Bahamut combatte solo per chi gli piace, e tu gli piaci abbastanza!” Gli si avvicina lentamente, un piede bianco dopo l’altro, ma è troppo intento ad osservare le mosse di quest’attrice per accorgersi che in realtà è lì, davanti a lui, con la pietra rossa a portata di mano.
“Sai parlare con gli Esper?”
“Più o meno, è … è complicato. Ma posso capire come si sentono, e quando ballo loro si tranquillizzano. Anche loro sono come noi, sai? Sono qui per la guerra, ma vorrebbero solo tornare a casa, sono stanchi di tutto questo. E anche io.” Gli mette la gemma tra le mani, ma il potere ardente della creatura per Kuja non è altro che un suono ovattato. “Non abbiamo alcun motivo per cui combattere, non è questo in cui credo. Sono stanca di vedere i miei amici ed anche i miei nemici solo perché qualcuno si diverte a chiuderci qui ed a farci del male. Non credi?”
“Potrei essere uno di quelli che provano piacere ad uccidere il prossimo, non trovi?” O al mio posto potrebbe esserci Kefka …
“Impossibile”.
Anche il suo sorriso è speciale.
“Hai gli occhi buoni”.
No, non è un angelo. Gli angeli sono crudeli e feroci: cadono dall’alto con la loro spada, uccidono e distruggono, giudicano e comandano. Possono far esplodere montagne e seccare oceani, far piovere stelle e germogliare fuoco, ma non possono danzare sulle rive di un lago né sanno uscire di scena così, tra luce ed ombra, lasciando agli altri il compito di chiudere in bellezza l’ultimo atto. “Se fossi in te andrei a dare una mano al tuo amico. Sephiroth non è il tipo da risparmiare qualcuno”.
“Oh, io non credo proprio!” dice, rivolgendogli un saluto mentre si dirige proprio dove i rumori della battaglia volgono al tramonto. “Nessuno può battere Sir Jecht!”
Non è necessario saperne il nome. Basta una parola, un pensiero, un’idea. Lei non è un angelo: è la regina delle fate vestita d’acqua, di luce e di magia. È la signora del riflesso delle acque, di tutte quelle immagini che si creano sulle rive dei laghi e scompaiono per tornare a lei, al suo bastone, a circondarla anche quando il sipario è calato, le luci sono spente, il pubblico si è alzato. Lei dorme nei fiori immortali delle parole, quelli di puro inchiostro, nei libri che si possono sfogliare anche quando il teatro crolla, consumato dal tempo. Il suo nome è Titania, lo spirito leggiadro che racconta di una sogno di una notte di mezza estate.
Sogno che puntualmente si infrange quando due stivali neri si abbattono sul sottobosco giustiziando quei pochi ramoscelli che si erano salvati all’andata. Non c’è bisogno che l’orchestra attacchi l’inno cacofonico dell’Angelo da un’Ala Sola per sapere che è lì per controllare se ha svolto a dovere la sua parte da brava pedina di Chaos. Solo che lo sguardo rapace è meno brillante del solito, e quando Kuja decide di osservarlo con più attenzione nota che l’occhio sinistro è quasi scomparso sotto la palpebra pesante e gonfia, dove un livido violaceo grande quanto la sua mano non riesce a nascondersi nemmeno sotto l’angelica chioma. Quello si volta, ma così facendo gli permette di accorgersi che il piumaggio corvino, Timore degli Eroi, Messaggero di Disgrazia, Sospiro delle Donzelle, Incarnazione di Potere Assoluto è stato ridimensionato a qualche penna stropicciata attaccata al resto dell’ala solo per una fortunata coincidenza.
Ed in effetti il Passo Che Fa Tremare Il Mondo è un po’ più traballante di quando sono partiti.
“Tutto bene? Lo scimmione ha intrapreso il lungo viaggio verso il prossimo ciclo?”
“Mpf. Non ti riguarda” risponde con la sua innata dolcezza. “L’importante è il risultato: hai l’Evocagemma?”
“Certo”,
“E la ragazza?”
Lei sta danzando con la luce della luna, e solo coloro che sono davvero speciali possono salire sul palcoscenico senza offuscarne la bellezza. I tuoi stivali insozzerebbero il tutto di fango e sangue. “Come hai detto tu … l’importante è il risultato”.
Sì, è decisamente una fortuna che la parte di Sephiroth sia quella di un noioso e stereotipato antagonista che una volta terminato il copione può solo rivolgergli un’occhiataccia Non Più Così Tanto Angelica per ordinargli di seguirlo e tornare indietro. Kuja si trattiene dal canticchiare qualcosa, ma è felice che per una volta non sarà lui l’oggetto dell’ira di Garland.
Inoltre ha imparato due cose importanti: la prima è che la regina delle fate esiste, proprio come nelle opere di Lord Avon. Non a tutti gli uomini è dato di vederla, a controprova del fatto che lui, in fondo, è davvero speciale.
La seconda, molto più importante, è che d’ora in avanti dovrà ricordarsi di non far mai infuriare questo tale Sir Jecht.




N.d.W: nella mia testa ero arrivata alla quinta storia da dedicare a Kuja ed alla fine ho preso il coraggio a quattro mani e ne ho scelta una. Ho scelto questa perché mi sembrava leggera, anche un po' frivola, giusto per staccare da quelle tre o quattro mattonate scritte nei capitoli precedenti. Inoltre mi ha permesso di esplorare un lato di Kuja che nella serie "Non un Jenoma" non credo di riuscire ad espandere, ovvero il suo lato da esteta un po' capriccioso. E per un esteta quale esperienza può essere migliore dell'incontrare l'assoluta incarnazione della grazia e della bellezza di tutti i FF? (e non sto parlando di Sephiroth ...)

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Capitolo 12
*** Imperatore Mateus ***


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Personaggio: Imperatore Mateus
Genere: Introspettivo, Missing Moments.
Rating: giallo
Avvertenze: questa storia si completerà nella prossima.


I due imperi

I ciclo

“Una mossa ardita …”
In effetti lo è, almeno per lui. Il suo alfiere è proprio davanti alla regina bianca, nemmeno una casella li separa. Prende il pedone che ha appena divorato e lo appoggia lungo il lato della scacchiera osservando compiaciuto la pila. Ha perso molti pedoni, più di quelli del suo avversario, ma la vittoria sta prendendo forma. Ha aperto appositamente un corridoio verso il proprio re, e l’alfiere è l’unico soldato dell’esercito nero a frapporsi tra la regina bianca e la sua preda. Un’occasione così dolce che il suo avversario non può lasciarsi sfuggire: ed è lì che scatterà la trappola.
L’uomo davanti a lui non è così male. Dice di conoscere alcuni passatempi simili nel suo mondo, ma è la prima volta che si siede ad un tavolo di scacchi e si dimostra un giocatore mediocre, un insetto da umiliare un po’ nei tempi vuoti tra una battaglia e l’altra. Dopotutto è importante ricordargli che non possono esistere due imperatori.
“Oh, ho solo deciso di movimentare un po’ la partita. Che gusto c’è in un gioco se non ci si diverte un po’?”
“Tu non giochi per divertirti, Mateus”.
Tamburella un po’ le dita sul tavolino di cristallo, poi le poggia sulla regina e ne sfiora i contorni. “D’altronde nemmeno io”.
Trova incredibilmente snervante il fatto che l’altro gli si rivolga senza il giusto titolo: persino Garland, il superiore Garland, il presupponente Garland gli si rivolge come si conviene. Un nome indica il passato, un titolo il futuro. E nel passato vi sono solo uomini normali, per cui un nome o l’altro non fa poi tanta differenza; ha sempre trovato disgustosa l’idea che in qualche angolo del mondo via sia un soldato morente o peggio, un insulso contadino ignorante con il nome Mateus. “Imperatore” … ha un suono unico.
“Non ti avrei chiesto di intrattenermi, Vayne, se non avessimo qualcosa in comune”.
“Finalmente sei arrivato al punto”.
Con la regina divorerà l’alfiere; con la stessa mossa si porterà in salvo dal cavallo nero e ne sarà ancora più contento. Il turno successivo sarà il suo, ma non si lancerà all’inseguimento della dama, non chiuderà lo spazio vuoto con i suoi ultimi tre pedoni: la sfiderà ad andare, a cercare l’esca ed il fascino del re nero. Lui ha occhi solo per la pedina color ebano che rimane ferma in un angolo della scacchiera invitando la regina nemica a cercare il fatidico scacco matto. Nemmeno poggia lo sguardo sulla torre nera, non l’ha lasciata in disparte dall’inizio della partita senza un motivo. Sa che il suo avversario scruta persino il movimento delle sue pupille per indovinarne i piani, ma quel gioco di sguardi lo sta annoiando. Gli uomini devono stare a testa china davanti al vincitore. “Questa storia sta durando anche troppo, Vayne. Ed un paio di voci mi hanno suggerito che anche tu sia dello stesso parere. Un sovrano che non si fa vedere, ordini discutibili, compagni così stupidi da non vedere l’universo di possibilità che si estende giusto oltre il loro naso …”
Sospira e schiocca le dita facendo apparire due calici di cristallo pieni di vino. Un incantesimo semplice, ma che fa sempre un certo effetto su chi non lo possiede. “Pagliacci disgustosi, nuvole confuse, angeli presupponenti e persino alberi parlanti. Un quadro piuttosto desolante per gente del nostro livello”.
Nostro? Mateus, da quando in qua metti qualcuno al tuo stesso livello?”
L’affermazione lo fa ribollire come se avesse appena toccato del fuoco. L’altro solleva il calice, piega il capo mimando un ipocrita cenno di augurio e lo vuota; riesce a vedere il suo sorriso anche oltre il vetro ed il liquido chiaro. La trappola dell’adulazione non ha funzionato ed il suo avversario si è spostato prima del tempo: eppure la sia regina avanza di nuovo, divorando la seconda esca proprio come aveva previsto. La sua torre bianca potrebbe fermarlo, ma gli occhi di quel Vayne sono soltanto per il profumo della vittoria. L’altro appoggia il calice e lo fissa, l’occhio destro che quasi sparisce sotto i capelli scuri. “Evita di blandirmi, Mateus, non esiste alcun noi. Solo un io ed un te” mormora mentre con la mano gli fa cenno di continuare il gioco. La sua voce si riduce ad un sussurro. “Ma questo non vuol dire che io non sia interessato ad un’eventuale … collaborazione”.
“Molto bene. Il tuo desiderio è sempre tornare a casa, giusto?”
“Non ho mai chiesto altro”.
Ed anche quella pedina è posizionata. Sono tutti lì, in piedi sulla sua scacchiera ed il temibile Chaos, il re nero a cui tutti danno la caccia o che forse dovrebbero proteggere, chi lo sa, è immobile in attesa del suo scacco matto. La strega si muove, il pagliaccio divora le pedine e persino lo stregone nero gioca sulla sua scacchiera, immobile in un angolo in attesa che il bianco alfiere della luna faccia un passo nella sua direzione. L’angelo ed il suo cagnolino sono avanti a tutti. Ama quel gioco, ama quei pedoni senza volto e quelle vite così piccole che bruciano sotto di lui. Vayne ed il suo servitore sono solo nuovi pezzi in attesa della giusta collocazione e quando sarà il momento farà scontrare Luce ed Oscurità, amici e fratelli, giocherà a suo piacimento e poi cancellerà tutto con un gesto della mano mentre le pedine cadranno in pezzi in un cimitero bianco e nero: sarà l’unica, vera vittoria possibile. Una vittoria che il drago gli ha conferito sin dal primo giorno che lo ha posto sul campo di battaglia. “Alleati a me. Chaos ci ha trascinati tutti qui. Questo implica che … se qualcuno avesse i suoi poteri potrebbe benissimo far tornare indietro gli altri”.
“E questo qualcuno saresti tu?”
“Si capisce”.
Due mosse. La regina bianca divorerà il suo pedone e la torre nera calerà su di lei ponendo fino al suo sogno di gloria ed a quel sorriso presupponente che lo sta irritando quasi come le risate di Kefka. Ora che il cane da guardia in armatura non è presente sarebbe tentato di incenerirlo per puro piacere, con calma, un arto alla volta; è debole, non resisterebbe a lungo ma almeno imparerebbe la lezione. È debole come il suo unico, pietoso desiderio. Ma preferisce trattare con i deboli: basta la giusta esca e non c’è niente di più immediato di promesse che non ha intenzione di mantenere.
Vayne si crede intelligente. E, in virtù di questa intelligenza, annuisce: “Solo una domanda, allora …”
La voce cambia. Non saprebbe dire in che modo, ma cambia e per un istante l’Imperatore si ritrae. “Cosa ti attira tanto di quel trono? Un trono solitario in un mondo vuoto … senza sudditi che ti acclamano, senza gente che gridi il tuo nome con gli stendardi alzati, senza uomini e donne che combattono per raccogliere le briciole che cadono dal tuo piatto. Solo cloni e terre deserte. Che senso ha circondarsi di rovine e cadaveri senza che nessuno possa gioire delle tue azioni? Un impero del genere …” la sua mano torna sulla scacchiera “… non è ciò che io ho in mente”.
“Ciò che tu hai in mente, Vayne …”
È il potere ciò che conta. Quel potere puro che quel patetico umano non può sentire, perché non è sceso fino all’Inferno per bere direttamente dal cuore della magia: non ha bisogno di essere idolatrato, né di essere adulato. Quello non è potere.
Non gli interessano simili illusioni, non è così piccolo. Essere un Imperatore vuol dire poter schiacciare tutto ciò che lo contrasta. Chi piega il ginocchio per lealtà non offre il potere di chi lo piega per sottomissione, di chi trema sapendo che il singolo respiro del sovrano può porre fine alla propria esistenza. La gente che forse innalza quel patetico Vayne sarà la stessa che un giorno lo condannerà alla rovina, perché l’amore e la devozione sono sentimenti superficiali che non durano per sempre. Ed il suo non sarà un impero disabitato: lo riempirà solo di coloro che piegheranno la testa, perché quando il trono di Chaos sarà suo anche i guerrieri della luce riconosceranno la sua potenza. Ma se nessuno cederà allora sarà pronto ad accettare un mondo vuoto, perché anche lì potrà sentire il potere della distruzione vibrare in lui fino ad esplodere, fino ad estendere la sua natura superiore oltre i confini di quel limbo chiuso, sempre più oltre, sempre più avanti.
È inutile mantenere quanti più pedoni sulla scacchiera se poi non si riesce a vincere la partita. “… è solo una patetica illusione generata dal tuo autocompiacimento. Hai ancora molto da imparare prima di poterti definire un Imperatore”.
“Oh, come desiderate, Vostra Maestà!”
La regina bianca non divora l’esca. La mano di Vayne si poggia sulla sua corona solo per un istante, ma prima di sollevarla dalla scacchiera si sposta sulla sinistra: la torre bianca si fa avanti dalla casella in cui persino lui stesso l’aveva dimenticata e con un’unica mossa divora la sua gemella oscura. Il sorriso che Vayne gli riporta non è nulla in confronto al gesto con cui rimuove la pedina nera dal campo con finta noncuranza. La trappola si è sgretolata ed il suo re attende una risposta.
Schiacciare quell’insetto fastidioso è l’unico pensiero cosciente, ma deve trattenerlo. Ancora per un po’. “Uff, questa partita mi è venuta a noia” dice, e ad un suo comando la scacchiera sparisce. Ma, purtroppo, non il sorriso sulla faccia del suo avversario.
“Possiamo considerare concluso il nostro accordo, Vayne?”
“Assolutamente sì, Vostra Maestà. E forse ho anche la pedina che fa al caso vostro. Una che potrebbe riuscire a sconfiggere Chaos con le giuste … motivazioni”.
Non gli sfugge il tono con cui divora il suo titolo. Ma ha imparato a lasciar scivolare anche quello. Il potere spesso passa per vie strette e buie, e lui è colui che è disceso fino all’Inferno. Ha sempre trovato il modo di restituire ogni “favore” e di pagarlo con la giusta moneta. Stringe la mano di quell’irritante moscerino, immaginando il momento in cui quello si contorcerà per il dolore davanti al suo trono, straziato dalla testa ai piedi quando vedrà il suo sogno di tornare a casa svanire per sempre. E quando il suo potere sarà al massimo raggiungerà anche quel mondo e lo piegherà, perché il suo impero sarà assoluto e tutti poggeranno la fronte a terra davanti a lui. Ha solo bisogno di tempo. Ma di quello Shinryu gliene ha fornito in abbondanza. “Allora abbiamo un accordo”.
Il patetico umano si allontana, perso nei suoi sogni.
Peccato che sarà morto quando il suo mondo brucerà e sprofonderà nelle fiamme infernali.
Fa per pulirsi la mano da quel tocco di un essere inferiore, ma quando apre le dita si accorge che qualcosa è caduto a terra, proprio nel punto dove Vayne Carunas Solidor era seduto un istante prima.
Il re nero lo fissa, e per un attimo Mateus riesce a sentire altri occhi, due occhi di fuoco chini su di lui. Ma è solo un istante, e quando la pedina si trasforma in polvere sotto i suoi stivali si lascia andare alla consapevolezza che tra poco quel mondo sarà soltanto suo.

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Capitolo 13
*** Gabranth ***


 

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Personaggio: Gabranth
Genere: Introspettivo, Malinconico
Rating: giallo
Avvertenze: questa storia rappresenta la conclusione della one-shot dedicata a Mateus nel capitolo precedente. Sono stata molto in crisi perché il Gabranth in Dissidia è molto più noioso ed inespressivo di quello originale, quindi ho cercato di far collimare le due interpretazioni sperando di non aver fatto una schifezza.


Giudizio

I ciclo

Non gli interessavano i ricordi, non era il tipo da perdere tempo cercando di afferrare qualcosa chiaramente oltre la sua portata o da lamentarsi dell’assenza di qualunque memoria di “casa”.
Guardò alla sua destra: l’Imperatore Mateus mosse la mano ed un portale oscuro si aprì davanti a loro. “Dopo di te”.
Non gli piaceva quell’uomo. Non avrebbe mai creduto che l’Imperatore Vayne potesse allearsi con una figura simile, ma i giochi di potere erano qualcosa che lasciava volentieri al suo signore: chiunque fosse stato nella sua vita passata, al proprio risveglio aveva trovato solo un’armatura ed una spada. E questo gli bastava.
Vi era l’Imperatore Vayne nei ricordi di Gabranth von Ronsenburg. Lui e qualche figura nebulosa a cui non riusciva a dare una forma o un senso. Nessun altro. Una volta il suo sovrano gli aveva chiesto se quel vuoto nella mente e nel petto facesse male: gli aveva risposto che era piuttosto difficile sentire la mancanza di qualcosa o qualcuno che nemmeno ricordava.
Attraversò l’incantesimo di teletrasporto, e la prima cosa che lo colpì fu il calore insopportabile.
Una volta uscito dal portale i suoi piedi atterrarono su un marmo nero la cui stessa superficie tremolava per la luce ed il vapore che nascevano dalle pozze di lava intorno a lui. Quel fuoco liquido ardeva furioso, e se non fosse stato per la sua armatura probabilmente un braccio sarebbe stato incenerito dall’esplosione di una bolla di gas e dai suoi lapilli. Mise un piede davanti all’altro, ma i suoi occhi erano fissi in avanti.
La sagoma sul trono nero, intagliato di teschi ed altre figure mostruose, era l’unica cosa che dominasse il minuscolo Santuario della Discordia. E, seduto su quel trono, lo fissavano due occhi rossi colmi di tutto il tempo del mondo. Occhi che era venuto a cercare.
E a giudicare.
Aveva già visto un’altra persona. Su un altro trono. Il ricordo gli venne accanto quasi a pizzicargli il retro della testa: cercò di mettere a fuoco l’immagine quasi certo che si trattasse dell’Imperatore Vayne, ma la scena si trasformò in un lampo di luce davanti a quello sguardo scarlatto che comandava attenzione con il suo semplice silenzio. Le sue ali scure lo avvolgevano come un mantello, incrociandosi in alto fino a nasconderne le spalle. Una parte del viso del signore della Discordia era deformato in una pelle raggrinzita, violacea, come se avesse immerso se stesso dentro le fiamme del suo regno. Ma l’altra, un sottile lembo di pelle intorno all’occhio sinistro, rivelava qualcosa che senza dubbio era, o era stata, umana. Le dita erano incrociate sulle ginocchia, la schiena dritta quasi a voler riempire con la sua forma quel trono immenso che lo inghiottiva nell’ombra.
Perché il loro signore, la creatura onnipotente che parlava solo per bocca di Garland, sembrava molto più un bambino che un dio. Un bambino strano, deforme, ma nulla più di un bambino.
Si accorse di star stringendo la sua spada, il suo strumento di giudizio, con più forza di prima.
“Tu sei Gabranth von Ronsenburg, il Giudice di Arcadia. Garland mi ha parlato molto di te”.
La voce aveva un timbro infantile, ma alle sue orecchie appariva distorta come se da quelle stesse labbra nascessero un ruggito, un grido, ed un urlo imbevuto d’oscurità. Si inginocchiò al suo cospetto, grato che l’enorme elmo nascondesse il suo sguardo alla creatura, perché lui stesso non era certo di ciò che questa avrebbe potuto leggervi.
“Sei venuto fin qui per uccidermi, vero?”
Lo sa.
“E allora cosa stai aspettando?”
La consapevolezza non lo colpì. Si accorse di non provare nulla all’idea che colui che era stato mandato ad uccidere conoscesse il suo piano. Si sentiva vuoto, vuoto come sempre era stato sin dal momento del suo risveglio. Nessuna paura, la mano non tremava, nonostante il flusso di magia di quel minuscolo posto stesse aumentando con potenza disorientante sentiva il proprio respiro fermo, il petto intatto. L’unica strana sensazione che riusciva a riempirgli la mente era che qualcosa non fosse al posto giusto. O forse no.
Forse non era solo quello. Sì, era disagio quello che provava, come se l’immagine del dio bambino seduto sul trono gli avesse ricordato qualcosa, un minuscolo frammento del passato in un mosaico di cui, fino a qualche istante prima, credeva di aver perso le tessere. Cercò di mettere a fuoco l’immagine, di afferrare i contorni di un viso sfocato, ma quelli che vide furono solo gli occhi color sangue di colui che era stato mandato ad uccidere; gli parve di intravedere un sorriso felice in mezzo alla nebbia, ma quello svanì in una bocca deforme in grado di affondare nel suo petto senza alcuna difficoltà. Si impose di scacciare quel ricordo, di immobilizzare la mente solo sul dio che li aveva condannati a questa lotta senza fine.
“Giudice Gabranth von Ronsenburg” disse. La sua mano rossa si stese verso di lui. “Ti ho scelto come mio guerriero perché la tua disperazione è giunta fino a me. Hai fallito nel giudicare, e questo ha scagliato nel tuo cuore un’ombra che non sei riuscito a soffocare. La tua spada si è levata contro la persona sbagliata, e quella spada ti ha condotto in questo mondo per combattere fino a quando i tuoi errori non saranno espiati dal tempo, dalla morte … e da me”.
“Cosa sai del mio passato?”
“So quello che mi occorre. So che non sei l’uomo perfetto che pretendi di essere. L’Imperatore Vayne ti ha chiesto di uccidermi per riaprire le porte dei mondi, ma credi davvero che ciò sia … giusto? O che dia i risultati che speri? Sei davvero convinto di poter giudicare il mondo, Giudice Magister?”
Sì che lo era. Era il compito che gli aveva assegnato il suo Imperatore. Era quello che aveva sempre fatto da quando quella guerra senza ricordi era iniziata, aveva guardato negli occhi i guerrieri di Cosmos e li aveva giudicati per quelli che erano, senza distinzioni. Nemici o amici. Nemici dell’unico sovrano che avesse. Suoi alleati, ma anche si quelli doveva diffidare. Il suo compito era guardargli le spalle, accompagnarlo nella lunga via che li avrebbe riportati a casa. Se non fosse stato in grado di distinguere i nemici dagli alleati avrebbe distrutto tutto quello che sosteneva la loro esistenza. Quindi come poteva aver sbagliato in passato?
Si accorse di star mordendo le labbra.
Un errore.
Il sovrano della Discordia era a portata della sua lama. “Quale è stato il mio errore?”
“Combatti e scoprilo da te”.
Il dio scese dal trono. Gli si avvicinò, e la punta delle ali sfiorava il marmo lastricato. Si accorse solo in quell’istante della coda simile ad un serpente, così lunga e chiara da fungergli da manto. Si posava in mezzo alla lava, ma nessun segno compariva lungo di essa. Poteva quasi sentire il suo potere, qualcosa che era ben distante dalla magia, dalla potenza, dalla forza di qualunque altra creatura: un vento furioso che ardeva, che trasformava in cenere l’aria fin dentro le narici, un mosaico in pezzi che si erano raccolti in quella figura esile che avrebbe potuto tagliare in due senza alcuno sforzo. Le quattro braccia rosse si mossero, invitando il suo sguardo a seguirle. Un portale oscuro si aprì accanto a loro e Gabranth respirò l’aria pura, piena di vita che esso emanava. “Torna quando sarai davvero te stesso, Giudice Gabranth. Punta la tua spada contro di me quando avrai ricordato contro chi l’hai già rivolta in passato e quale vita hai preso in nome della tua legge. Vieni a reclamare la mia vita quando sarai davvero il Giudice di Arcadia, e non una pedina su una scacchiera”.
Strinse le dita, e in quell’istante notò che aveva abbandonato la presa sulla spada. Vi appoggiò subito il palmo, quasi come un antico riflesso, ma le dita non si chiusero sull’elsa e rimasero ad assaporare il calore del metallo, quasi a cercare dentro l’enorme lama la risposta che il minuscolo sovrano si era rifiutato di dargli. Cercò ancora la forza, ancora la giustizia, ancora le parole che lo spingevano a rimuovere gli ostacoli sul loro sentiero. Ma davanti a lui c’era solo il re nero, e la sua bocca stranamente meno disgustosa, una sottile linea che, in mezzo al vapore scuro, avrebbe potuto sembrare un tiepido sorriso. “Hai qualcuno che ti sta aspettando nel tuo mondo. Recupera i tuoi ricordi e torna per porre fine a questa guerra una volta per tutte. Ma torna come te stesso …”
Gabranth si alzò. Cercò ancora una risposta, ma le sue gambe lo trascinarono verso il portale.
Stava dando le spalle al bersaglio che il suo signore gli aveva indicato.
“… non lo deludere di nuovo, Giudice Magister”.

Non era sollievo quello che provarono i suoi piedi quando si poggiarono di nuovo nel salone abbandonato, nella stanza distrutta dal tempo in cui si riunivano per discutere i nuovi attacchi al Santuario dell’Ordine. Forse non erano nemmeno suoi quei piedi che strisciavano lungo il tappeto consunto. Il portale era sparito non appena l’ultimo filo di stoffa del suo mantello lo aveva attraversato. Si levò l’elmo e respirò a pieni polmoni.
Il soffitto distrutto svelava il cielo viola e terso, gonfio di oscurità e di nuvole che non avevano mai versato una sola goccia in quel luogo silenzioso. Per la prima volta dall’inizio della guerra chiuse gli occhi e cercò di ricordare il cielo di Arcadia, se vi fosse mai stato un tramonto, una nuvola, qualcuno con cui alzare il viso in alto per ammirare insieme il firmamento. Ordinò al tempo di congelarsi e al suo cuore di tacere. Il vuoto nella sua memoria mordeva.
Faceva male.
Si tuffò nella nebbia ignorando ogni suono intorno a lui. Provò a partire dall’immagine dell’Imperatore Vayne, a gettare quanta più luce possibile sul vuoto intorno alla sua figura alla ricerca di un viso, un posto o semplicemente una frase che potessero aiutarlo a cercare quell’errore. Perché sapeva leggere nelle bugie di tutti coloro che gli si paravano davanti, ma nelle iridi del dio bambino aveva trovato una verità implacabile, stranamente più ardente di qualunque menzogna; e quegli occhi sembravano inseguirlo anche lì, quasi a spingerlo verso la verità che aveva perduto e verso quella persona che lo stava aspettando dall’altra parte. Si sforzò di capire chi potesse attendere un uomo come lui. Un Giudice che aveva fallito, e che in quel momento non sapeva nemmeno perché. Doveva parlare con l’Imperatore Vayne: avrebbe fronteggiato il suo disprezzo per aver abbandonato la missione, ma il bisogno di sapere che fino a quell’istante non aveva mai ascoltato iniziò a premergli sul fondo della gola quasi come un assetato in una spasmodica ricerca d’acqua. Doveva correre da lui e chiedergli chi fosse la persona che aveva ucciso.
Il dolore gli esplose al centro del petto.
Si ritrovò a cadere a terra, il sapore del sangue gli invadeva le labbra. Cercò di rialzarsi mentre le mani andavano alle armi, ma un secondo colpo impattò lungo il ginocchio sinistro e sentì l’armatura cedere sotto quella violenza. Qualcosa lo strattonò lungo la caviglia destra e rovinò a terra in tempo per vedere l’enorme figura calare su di lui; provò a rotolarsi su un fianco, ma la ferita glielo impedì e qualcosa di massiccio lo colpì al viso e tutta la testa iniziò a riempirsi di sangue, ricordi ed altro sangue. “Questo è quello che attende coloro che provano a rivolgere la spada contro il sommo Chaos”.
“Te l’avevo detto, Garland …”
Avrebbe riconosciuto la voce tra mille, il tono ed il frusciare della seta che accompagnava quelle parole. Provò a voltarsi nella sua direzione, ma la fitta alla base del collo divorò qualsiasi suo pensiero cosciente. Il cielo sopra di lui iniziò a sprofondare nella nebbia che nasceva agli angoli dei suoi occhi, sembrava ancora più nero. “… era chiaro che quel Vayne stesse complottando qualcosa. Come al solito io dico le cose e tutti pensiate che vi stia ingannando!”
“Risparmiami le tue lamentele, Imperatore Mateus. Questa volta sei stato utile, ma nulla di più”.
Gabranth provò a dire qualcosa, ma la voce si trasformò in un gorgoglio informe. Fece appello a tutta la forza che aveva in corpo per voltarsi verso il viscido doppiogiochista, e quello che vide fu un sorriso che lo trafisse. Poi qualcosa lo sollevò, e con un calcio Garland fece volare lontano le sue armi, l’elmo e parte dell’armatura che si era infranta: l’enorme braccio lo sollevò, ma quando cercò di guardare il volto del primo paladino di Chaos tutta la vista fu invasa da un campo scarlatto.
Vi era solo la voce del traditore ed il pensiero improvviso che non avrebbe mai più riavuto i suoi ricordi indietro. “Ho finalmente l’autorizzazione a cancellare per sempre quel Vayne dalla faccia del mondo? Un simile traditore merita una punizione esemplare, non trovi?”
“Imperatore, non è da te tutto questo zelo …”
Gabranth si divincolò e cercò di sfuggire alla stretta. Si ritrovò in piedi una seconda volta, cercando di estendere la mano verso il punto da cui veniva la voce dell’ingannatore per colpirlo, ma in un istante la catena del suo nemico guizzò in mezzo a lui e lo strinse alle gambe, alle braccia ed al petto. Si impose di spezzarle, di scappare o anche solo di raccogliere le sue armi, ma per quanto cercasse di muoversi quelle lo stringevano, e la vista appannata non gli permise di evitare un ultimo, violento pugno metallico che lo colpì al mento. Ripensò alle domande che doveva chiedere al suo signore ed ai nemici che doveva affrontare per scavare nei frammenti delle proprie memorie. “… ma un tradimento non può passare sotto silenzio. Vai, occupati di lui e fai in modo che tutti sappiano cosa succede a chi osa sfidare il potere di un dio”.
“E del cane da guardia?”
“A lui ci penserò io” disse, e Gabranth si sentì ancora più leggero. Il freddo lo permeava nel punto in cui la lama di Garland aveva fatto breccia nel metallo e nella carne. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto rivelare l’inganno, avrebbe voluto dire all’uomo che lo stava afferrando che il signore della Discordia gli aveva lasciato un compito, ma quella che usciva dalle sue labbra ormai non assomigliava nemmeno più ad una voce e lentamente il mondo iniziava a vorticare e sparire. Sempre più veloce.
Sempre più forte.
Il suo avversario lo sollevò, abbandonandoselo lungo le spalle. “Ucciderlo sarebbe troppo misericordioso, si risveglierebbe comunque nel prossimo ciclo. La Crepa invece … mi sembra un posto molto più adatto a lui!”.

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Capitolo 14
*** Cavalier Cipolla ***


Onion%20Fanfic




Personaggio: Cavalier Cipolla
Genere: Introspettivo, Comico (o almeno ci ho provato)
Rating: Verde
Avvertenze: nessuna, a parte il fatto che non è tutto questo gran che.


L'importante è il risultato

V ciclo

“Non capisco il perché della cipolla! Non era meglio un pomodoro? I pomodori non fanno piangere e non ti distruggono l’alito!”
Il Cavalier Cipolla contò fino a cinque. Poi fino a dieci. Per sicurezza anche fino a trenta. Si trattenne dal voltarsi e sommergere il suo rumoroso compagno con una raffica di insulti solo perché, in fin dei conti, l’idea era stata sua. Gli altri l’avevano approvata all’unanimità –era stata l’unica volta dall’inizio della guerra che Lightning e Kain erano stati d’accordo su qualcosa- e ne era stato non poco orgoglioso, ma l’attuale situazione stava superando il suo fin troppo alto livello di sopportazione.
Laguna andava diviso equamente: un giorno in missione con uno, un giorno in missione con un altro. Dopo tre giorni in sua compagnia nelle rovine di Palamecia Squall gli aveva messo le mani al collo e probabilmente lo avrebbe davvero ucciso se non fossero intervenuti i grandi occhi dolci di Yuna a placare gli animi. Da quell’episodio avevano deciso di dividere l’onere, ma erano soltanto le prime ore della sera e già sentiva la necessità che spuntasse il sole per smollare quell’anello mancante tra l’uomo ed il cataclisma al prossimo del turno. Cecil o Kain, se non ricordava male.
“Insomma, perché Cavalier Cipolla? Dunque vuol dire che da dove vieni magari c’è anche un Sir Carota? Un Mago Cetriolo? Un Cavalier Pomodoro? Una Lady Lattuga? Tutti insieme fate l’Esercito del Minestr…
“Laguna, attento!”
Corse contro il primo dei cloni e gli piantò la spada nella coscia prima che potesse raggiungere la schiena di Laguna. Il mostro cristallino si piegò su se stesso senza emettere un grido, e questo permise al Cavalier Cipolla di far esplodere un Firaga in direzione della collina proprio nel punto in cui una dozzina di quelle copie inanimate si stava facendo strada. In situazioni normali si sarebbe complimentato con se stesso per la velocità e la precisione dell’incantesimo, ma qualunque pensiero fu interrotto da un “Mollami!” di Laguna proprio alle sue spalle.
Il clone che aveva colpito giusto un istante prima strisciava sul proprio petto ma entrambe le mani erano aggrappate alla caviglia del suo compagno. Quello gli scaricò addosso qualche colpo con il fucile, ma la creatura resistette il tempo sufficiente per fargli perdere l’equilibrio e trascinarlo a terra. Il Cavalier Cipolla corse verso i due costringendosi ad ignorare l’ennesima schiera di cloni che stava risalendo il canalone, stavolta tutti con la faccia arcigna di Lightning che preparavano i loro colpi. Affondò la spada nella schiena cristallina del pupazzo e quello rimase immobile, senza emettere un grido o un lamento; la scansò con il piede, poi aiutò il suo compagno a rialzarsi. “Laguna, fai quel tuo scudo elettromagnatico e andiamocene da qui!”
“Innanzitutto è uno scudo elettromagnetico, non elettromagnatico” rispose cercando di rimettere nello zaino tutte le cianfrusaglie sparpagliate tra le rocce. Il Cavalier Cipolla decise che la cosa più intelligente da fare sarebbe stata trascinarlo con forza, dunque lo afferrò per la camicia ed iniziò a spingerlo verso nord maledicendo quelle sue inutilissime armi ed il loro peso. “E poi mica posso farlo dal nulla, sai? Il generatore è scarico … e mi sembrava proprio brutto chiedere a Cosmos di evocare per me un pacchetto di pile. Dubito che Light mi presterebbe il suo caricabatteria, ma anche se riuscissi a muoverla a compassione … hai per caso visto una presa di corrente al Santuario dell’Ordine?”
“LAGUNA, SEI INUTILE!”
Si sarebbe voluto buttare per terra per la disperazione. Oppure prendere quella testa dal sorriso sornione, lanciarla contro i cloni ed attendere che la sua stupidità facesse il resto come l’aria velenosa delle paludi. In fondo cosa poteva aspettarsi da una persona che pretendeva di vincere usando delle macchine?
Ma si impose di pensare. Pensare. Pensare.
Era la cosa migliore di lui, dopotutto. Non poteva battere nessun nemico senza ragionare … e con il suo geniale cervello aveva battuto persino quel borioso dell’Imperatore, figuriamoci una schiera di cloni senza cervello. Bastava pensare.
Ed iniziare dal territorio, quella era sempre un’ottima chiave. Certo, lo spazio in cui si trovavano era pessimo: poca luce, nessuna stella che conoscesse ed un’inutilissima luna nuova che si divertiva a nascondergli i sassi sotto i piedi; aveva letto in lungo ed in largo la mappa di quel canalone prima di partire ed aveva studiato tutte le vie di fuga in caso di attacco –prima di pensare a come battere un nemico è sempre meglio pensare a come fuggirgli, e quel suo principio gli aveva sempre salvato la vita- ma questo prima di scoprire che Laguna fosse l’autore della mappa e che l’avesse disegnata durante chissà quale fasulla narrazione delle sue epiche gesta … trasformando la cartina in un pezzo di carta utile tutt’al più in caso di un fuoco da campo. I cloni che aveva visto si stavano radunando lungo il versante sud occupando totalmente l’ingresso da cui erano venuti, dunque quella strada era impraticabile specie se tra i nemici vi fossero state delle copie di Kain o Vaan, in grado di attaccarli anche dalla sommità rocciosa. E, se aveva visto bene, un piccolo gruppo era in arrivo dalle colline a est: da solo sarebbe anche riuscito a sgattaiolare, complice la scarsa visibilità, ma con quella zavorra chiassosa di Laguna sarebbe stato più semplice pretendere di riuscire a svuotare le tasche di Gidan. Il che lasciava solo la poco piacevole alternativa di avanzare in quel sentiero annegato nel buio, lanciare un fulmine e sperare che quello illuminasse la strada abbastanza a lungo da permettergli di trovare la fine del canalone e correre verso il Santuario … questo ovviamente sperando che la luce non attirasse su di loro –e su eventuali salvatori- anche tutti i cloni che li stavano lentamente accerchiando. Un piano con troppo scarse possibilità di riuscita.
Doveva imporsi di pensare di più. Era evidente che gli mancava qualche tassello, non aveva mai elaborato un piano che avesse meno di nove possibilità su dieci di riuscita, dunque … “Ehi, se continui così ti esce il fumo dalle orecchie!”
“Laguna …” sospirò, riproponendosi di chiedere a Cosmos se conoscesse qualche incantesimo per insonorizzare la gente. “… sto pensando. Tu limitati a camminare!”
“Lo so che stai pensando. Il punto è che dovresti rilassarti un po’, prendere un attimo di fiato!”
“In caso tu non te ne sia accorto i cloni ci stanno circondando!”
“Appunto! Pensare consuma un sacco di energia. In questi casi …” disse, e liberandosi dalla sua presa con uno strattone si mise a gambe incrociate per terra. A gambe incrociate per terra.
A gambe incrociate per terra.
Svuotando sui ciottoli il contenuto nel suo zaino che avevano appena riempito nemmeno un minuto prima. Pensò con nemmeno troppo malcelato piacere che in quel momento Yuna era tra i ghiacci delle isole settentrionali con Firion e Tifa, dunque nessuno si sarebbe interposto tra lui ed il divertimento di usare quel perfetto imbecille come esca per i cloni mentre lui se la dava a gambe. Soprattutto in quel momento, mentre lo osservava come se fosse lui il povero idiota in grado di non capire la gravità della situazione “… bisogna fare un bel respiro e sgomberare la testa. Ai tuoi genitori non piacerebbe vederti così preoccupato!”
“Senti … tu adesso ti alzi o io ti …”
“Dico sul serio, ma non ti stanchi mai? Non solo di pensare, dico … di tutto! Non ti andrebbe mai una volta di giocare ad acchiapparella? Con i soldatini? Con le macchinine telecomandate, giochi così … O con la palla, quale bambino non ama giocare a palla?”
Da quell’accozzaglia di pezzi di metallo di colore diverso usciti dal suo zaino ne scelse un paio, poi si mise ad osservarli come se fossero qualcosa di diverso da due stupidi pezzi di metallo: iniziò ad avvicinarli e ne raccolse altri, poi dalle tasche dei pantaloni estrasse un filo tutto nero e lo attaccò a qualunque cosa stesse cercando di fare. Il tutto guardandolo come se fosse un poppante che non capisce nulla delle Cose dei Grandi. “Sul serio, quanti anni hai? Fattelo dire, ma i tuoi genitori sono degli irresponsabili: mandare un bambino così carino come te a combattere è davvero una cattiveria, alla tua età io stavo ancora giocando con il trenino ed i soldatini!”
“Laguna, ti sembra il momento di pensare ai miei genitori?”
“Oh, certo che sì!”
Il numero di oggetti nelle sue mani adesso era aumentato a dismisura, ma qualunque cosa stesse cercando di creare con quella spazzatura era inevitabilmente destinato a fallire. Come tutte le sue strampalate idee. E la cosa orribile che lui era ancora lì cercando di convincere con la logica ed il buonsenso un perfetto imbecille che Cosmos aveva chiaramente richiamato in un momento di noia, follia o un’esplosiva combinazione di entrambe le situazioni. E poi cosa gliene importa dei miei genitori?
Non li ricordava, dunque non aveva senso pensarci su. Ed anche se fosse riuscito a ricordarne i nomi era certo che sarebbero stati orgogliosi di lui: era il Cavalier Cipolla, dopotutto. Un titolo leggendario. Non aveva memoria del perché, ma era certo che rappresentasse qualcosa, qualcosa di molto importante che aveva ricevuto per il suo valore e per il suo indiscutibile genio. Di certo i bambini del mondo di Laguna non avrebbero mai potuto vantarsi di questo onore, non si diventava Cavalier Cipolla giocando con la palla o le macchinine telecomandate (qualunque cosa fossero …).
Ecco, la cosa odiosa era che stava davvero dando ascolto a quel pazzo scriteriato invece di pensare ad una via di fuga … specie quando dall’ingresso del canalone una cortina di fulmini iniziò ad illuminare il terreno, simbolo che le copie di Light erano passate all’azione. E qualunque cosa Laguna stesse facendo non prometteva assolutamente nulla di buono, specie perché lo stesso creatore stava continuando ad inserire delle viti a destra ed a sinistra con sul viso la chiara espressione di qualcuno che non ha la più pallida idea di come il tutto andrà a finire. “Laguna, lascia perdere tutto e andiamocene da qui!”
“Tranquillo, ho tutto sotto controllo! Sempre che il cavo rosso vada nella spina A e non nella B …”
Appunto …
“I bambini non dovrebbero combattere. Mettiti seduto e lascia fare allo zio Laguna!”
Poi il misterioso oggetto emise uno sbuffo di fumo nero.
Poi un secondo. Ed un terzo.
Sulla punta –se era una punta- comparve una strana luce rossa ed una serie di suoni velocissimi e forti rimbombarono quasi come un segnale d’allarme. Senza nemmeno chiedersi cosa stesse facendo il Cavalier Cipolla corse in avanti ed afferrò Laguna per la giacca, puntando i piedi per controbilanciare il suo peso e poi lo scaraventò più lontano possibile insieme a sé, rotolando lungo i sassi appuntiti l’attimo prima che tutto il mondo fosse sommerso da un lampo di luce rossa, una folata di fumo ed infine un boato la cui eco venne amplificata, raddoppiata dalle pareti rocciose tutt’intorno a loro. Inghiottì una quantità enorme di terriccio, ma quando tentò di sputarla un odore amaro e pungente lo travolse causandogli conati di vomito che mandarono all’aria qualunque piano di fuga il suo cervello stesse tentando di elaborare. Maledicendo le macchine, il metallo e Laguna cercò di alzarsi in piedi non appena si accorse che il fumo si era diradato e che il boato di prima si era trasformato in un fastidioso ma comunque tollerabile ronzio; senza pensare strinse la mano sull’elsa della spada, puntandola in avanti sapendo che da un istante all’altro i cloni sarebbero emersi dal pulviscolo e si sarebbero gettati su di loro come un branco di lupi furiosi. Concentrò le poche energie rimaste sulla mano libera, caricandola del potere del fuoco.
Ma da oltre la foschia non venne alcun suono, nemmeno il rumore di passi sul terreno, l’unico che in effetti i cloni fossero in grado di emettere. Trattenne il respiro, gli occhi puntati in avanti pronto a saltare non appena il familiare baluginare del cristallo sotto la luce fosse comparso; l’unico rumore erano i borbottii di quel grandissimo imbecille del suo compagno di viaggio.
Fu quando un’improvvisa folata di vento portò via ciò che rimaneva dell’esplosione che si accorse di non trovarsi più in un canalone. O, per essere precisi, l’unico segno dell’esistenza di una gola erano due picchi rocciosi alle sue spalle su cui sembrava che si fosse abbattuto il pugno di Titano.
Davanti a lui, a nemmeno tre braccia di distanza, l’unica cosa visibile era un’enorme conca nel terreno che occupava tutto il panorama notturno fino alle paludi, quasi come se Atomos avesse deciso di risvegliarsi dal sonno e divorare qualunque cosa trovasse a tiro. La roccia era diventata nera e debole, e quando cercò di fissare oltre la spaccatura sentì il terreno franargli sotto i piedi, fragile. L’unica traccia dei cloni erano piccole schegge annerite che mandavano suoni ovattati sotto gli stivali, quasi camminare su dei frammenti di specchio. Si voltò sconcertato, osservando il macchinario di Laguna emettere un ultimo sbuffo maleodorante e poi andare in pezzi sotto lo sguardo dubbioso del suo padrone. “Mmm … mi sa che il cavo rosso andava nella spina B … Ma è venuto comunque un KABOOM notevole. L’importante è il risultato, dico sempre io!”
Evitò di fargli notare che il suo risultato li aveva quasi uccisi e che qualunque cosa avesse usato per sconfiggere i cloni era ormai inservibile.
“Il buon vecchio Cannone Ragnarok 35.01 non tradisce mai! Ma suppongo che dovrò chiedere a Cosmos di evocarmelo di nuovo con annesso il libretto delle istruzioni. Senti, ti va se le chiedo anche una macchinina telecomandata per te? Non ho idea di quando sia il tuo compleanno, ma non esiste che lo zio Laguna permetta che un bambino lo trascorra senza nemmeno un regalo!”
“LAGUNA, IO TI …”
Beh, in effetti non sapeva quando fosse il suo compleanno. Non lo sapeva nessuno, ma in effetti in quel mondo era impossibile sapere con certezza in che giorno si trovassero. E da qualche parte, in un piccolo spiraglio tra i suoi ricordi avvolti nella foschia, c’era qualcuno con le braccia unite dietro la schiena che gli chiedeva di chiudere bene gli occhi, di aprire le mani e di essere felice. “… io ti ringrazio. Ma niente macchinine, grazie!”
Dopotutto ciò che piace a Laguna o fa fotografie o esplode.

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Capitolo 15
*** Shantotto ***


ShantottoDissidia




Personaggio: Shantotto
Genere: Introspettivo, Missing Moments
Rating: suppongo arancione
Avvertenze: temevo che questa versione di Shantotto fosse leggermente Out of Character, ma la wiki mi ha confermato che nei combattimenti tende ad essere piuttosto brutale e quando diventa furiosa non conosce limiti morali. Ah, indovinate perché è una scena di combattimento? Perché in una scena di combattimento ci sono pochi dialoghi ...


Failure

I ciclo

“Benvenuto all’ultima difesa. Avresti mai creduto di trovarvi una sorpresa?”
Il bamboccio la fissa con i suoi occhi blu: brillano in maniera strana, c’è magia nell’aria nonostante lo sguardo inespressivo, silenzioso e vuoto di quello sguardo senza dubbio poco umano. In fondo ha sempre dubitato della qualità degli scagnozzi di Chaos in quanto a materia grigia, ed il ragazzo che adesso sta portando l’enorme spada in avanti, pronto a caricare, conferma in pieno la sua teoria.
Lo ridurrà come il suo compagno, l’Angelo Senza Più l’Ala che adesso giace rantolando nel cuore del Santuario dell’Ordine sotto lo sguardo di Cosmos.
Lo ridurrà come ha fatto con tutti gli altri che sono arrivati lì, come la strega, l’imperatore, ed il guerriero in armatura.
Li ucciderà tutti. Il bamboccio biondo lo ha solo tenuto per ultimo ed è una questione personale, la guerra non c’entra nulla: in fondo Cosmos l’ha già vinta il giorno in cui ha richiamato lei, la più grande maga esistente, tra le sue fila.

Ma la più grande maga esistente ha fallito per la prima volta.

Il giovane soldato decide di fare la prima mossa: corre verso di lei, già mulinando la spada, riempiendo con la lama tutto lo spazio davanti e intorno a lui. Salta ed i suoi stivali atterrano nell’acqua bassa del Santuario, Shantotto è in grado persino di vederne gli schizzi, di sentire l’aria che il nemico sposta quando salta oltre i cadaveri dei suoi stessi compagni mirando a lei come un Mamool Ja selvaggio. Pura potenza senza controllo, un fulmine incontrollabile.
Le sue magie sono quasi sprecate per quel bruto, ma chiaramente non ha compreso la lezione.
Si sposta proprio quando lo spadone sta per atterrare su di lei, lo schiva e scivola proprio sotto le braccia del nemico; quello solleva velocemente l’arma –forse un po’ troppo velocemente per le sue aspettative- ma ormai è entrata nel suo spazio vitale ed ha vinto. Farlo esplodere come un bel fuoco d’artificio con un Flare (magari proprio in quel punto dove gli uomini sono sensibili) è un’idea, ma non è questo quello che vuole. Sono rimasti soltanto loro due, la paladina di Cosmos ed il cane di Chaos, quindi può prendersi tempo e dare a quel barbaro la punizione che merita.
Lui prova ad afferrarla per i capelli, ma per farlo la mano sinistra allenta la presa sulla spada e le apre un secondo spazio accanto alla coscia, scoprendo il fianco: a lei basta aprire la mano e riversare contro quegli occhi luminosi l’incantesimo che l’ha resa la docente più famosa dell’Orasterio.
Il biondo ritrae la testa, ma la nube verde è già entrata nelle sue narici.
Con un salto Shantotto si ritira. Il nemico manda un grido e si porta la mano destra alla gola, la pelle che già inizia ad arrossarsi e riempirsi di piaghe. La guarda trafiggendola con puro odio. “Oh, santo cielo, che sbadata! Non volevo, quella Bio mi è scappata!”
E, come previsto, il soldato la attacca di nuovo.
Fende l’aria con l’arma, la insegue con l’unico pensiero di fracassarle il cranio; lei si limita a scivolare e fuggire, scivolare e rotolare con l’unico pensiero di allontanare quel bestione senza più alcun cervello da Cosmos. Lui prova a tirarle un calcio, ma ad ogni passo i suoi movimenti si fanno sempre più scoordinati, il sangue gli esce dalle narici ed inizia a colargli sul viso. Si ferma per piegarsi e sputare altro sangue dalla bocca, lei non ha fretta di finirlo. Gli si avvicina anche, poi si ritrae, osservando quella furia da battaglia continuare a menare colpi come un ossesso. Un solo impatto con quella spada le staccherebbe la testa di netto, non lo mette in dubbio, ma da quel bruto non ha nulla da temere. Ne ha sconfitti cento e più nell’assedio al Castello di Zvahl.
“Oh oh, andiamo, non riesci proprio a colpirmi?”
È allo stremo delle forze. “Che peccato, e io che credevo che un SOLDIER potesse quantomeno stupirmi!”
Lui avanza ancora, ma la gamba sinistra non gli regge. Prova ad allungarsi con un ultimo salto nella sua direzione ma gli manca la spinta e si ritrova a terra, strisciante, con la mano destra allungata nella sua direzione come se tentasse disperatamente di afferrarla. Lei aspetta, prende tempo, fa solo un passo indietro lasciando solo un palmo di distanza tra quelle dita cariche di istinto omicida e la sua caviglia; lo vuole vedere strisciare come un verme annegato nello stesso sangue che continua a rigettare e che lo accoglie come un lago. Lui alza la testa, ed il bagliore nei suoi occhi è l’unica cosa che lo distingua da un automata di Aht Urhgan. Vuole vederlo strisciare come lui ha fatto con la piccola Prishe, quando l’ha tagliata a metà mentre era ferita a terra, incapace anche di rialzarsi.
Le aveva promesso che l’avrebbe riportata su Vana’diel, perché non c’era nulla che la sua potente magia e la sua intelligenza superiore non potessero fare.
E adesso non c’è più nessuno da riportare a casa. Sono rimaste solo lei e Cosmos. Le più potenti, ma solo loro due.
“Allora, com’è la sensazione di lasciare questo mondo? Non ti metto fretta, voglio proprio vederti toccare il f …”
Una luce abbagliante esplode alle sue spalle, un enorme raggio di un bianco bruciante. Si porta con un altro salto ancora più lontana dal soldato agonizzante e prepara nel palmo un blocco di ghiaccio da scagliare, ma quello che vede nel momento in cui le forme del Santuario dell’Ordine ritornano visibili le paralizza persino le dita.
Cosmos è in piedi davanti al trono, una lunga lama le attraversa il petto poggiando l’elsa proprio a livello del cuore. La dea crolla in avanti, ancora splendente nella sua luce, mentre l’Angelo che fino a qualche istante prima stava esalando l’ultimo respiro ritrae l’arma dalla figura chiara senza curarsi del sangue che adesso scivola sul sottile manto d’acqua del Santuario ed inizia a bagnarlo. Si volta verso di lei, sfidandola con i suoi occhi verdi, ma l’incantesimo di gelo che le scaturisce dalle mani si disperde nel nulla.
Una seconda luce, più potente di quella emanata dall’ultimo respiro di Cosmos, esplode in alto. Sottili venature scarlatte iniziano a riempire l’aria: Shantotto lancia un secondo incantesimo, poi un terzo, e quando la magia nell’aria diventa satura scaglia anche il proprio scettro in avanti ma anche quello si disgrega in aria. La figura della dea si alza verso il cielo e persino l’Angelo la guarda con dubbio mentre la forma umana scompare nel vento, quasi come se un mantello invisibile fosse stato lanciato sul suo corpo. Un verso immondo attraversa l’aria il Santuario, solleva le acque bianche sporche di sangue e tutti i corpi che vi sono ammassati: qualcosa si muove nell’aria e Shantotto stringe i denti, rimane immobile scrutando una forma allungata stagliarsi tra le venature rosse ed il fumo grigio che è sceso dal cielo. La magia dentro di lei vibra e si agita come un animale alla vista del predatore e si sforza di non muovere un muscolo quando la figura del soldato biondo ormai allo stremo delle forze svanisce, avvolta in una nuvola nera. Si volta quando vede anche l’Angelo dai capelli chiari scomparire, ed in quell’istante sente chiaramente il respiro di una creatura enorme su di sé e su ciò che resta del posto in cui hanno appena combattuto.
Una creatura potente. Antica.
Un essere come non lo sono nemmeno le divinità di Vana’diel.
Respira a fondo quando sente la figura di quel drago primordiale la sfiora, pensando che in un altro momento sarebbe anche stata felice di confrontare i suoi poteri con un essere del genere.
Ma non adesso. Non quando ha un pensiero così forte nella testa da mozzarle il fiato, così odioso che deve sforzarsi per trattenere delle lacrime di rabbia.

La più grande maga esistente ha fallito una seconda volta.

“… e quindi non posso che affidarmi a voi. Andate, miei guerrieri, e portate l’Armonia in questo mondo dilaniato dalla Discordia”.
Sono tutti lì. Si inginocchiano davanti alla loro sovrana come un solo uomo, scintillanti nelle loro armature, perfetti nel loro sorriso. Il Dragone è il primo ad andarsene, volta le spalle al resto del gruppo e si prepara ad uscire dal Santuario. Si allontanano lentamente, chi da solo e chi in gruppo, il Mithra è l’ultimo ad andarsene e si esibisce in un baciamano alla dea. Shantotto trattiene il respiro ed osserva i guerrieri andarsene, gli stessi paladini che ha visto distesi a terra, massacrati come bestie. I suoi occhi vanno su Cosmos, bellissima ed eterna, e sull’abito candido non c’è alcuna traccia della ferita infertale dalla spada del loro nemico. Neppure una goccia di sangue.
“Mia cara, sei l’unica a non esserti presentata. Ho richiamato la tua anima valorosa attraverso le pieghe dei mondi, ma non conosco il tuo nome. Ti prego, non rimanere in disparte. Come ti chiami?”
Ha sempre trovato difficile leggere attraverso lo sguardo inespressivo della dea bianca, ma per quanto continui a scrutarlo non le sembra di vedere tracce di menzogna o inganno: gli occhi chiari come il cielo continuano a scrutarla dall’alto in basso, e Shantotto non può che essere convinta che, almeno su questo, la sua signora non ricordi. Non ricorda nessuno. Ed è pronta a scommettere la testa del suo futuro marito che la battaglia, il sangue, gli occhi azzurri, il cielo ed il drago non siano frutto di un suo sogno: il verso della bestia è ancora lì, reale, e se chiude gli occhi ancora può sentirlo ringhiare nella testa mentre il Santuario dell’Ordine ed il resto di quel mondo confuso spariscono come tasselli di un mosaico lanciati alla rinfusa. Deve trovare una spiegazione all’accaduto, e per farlo deve mettere subito in moto il suo geniale cervello. “Il mio nome è Shantotto, dell’Orasterio somma maestra. Gioisci, dea inesperta, i tuoi nemici subiranno la mia ira funesta. Non chiedere il come, non chiedere il perché, ma con il mio aiuto la vittoria arriderà solo a te!”
“EHI, DOC, FINALMENTE TI HO TROVATA!”
Già, si era dimenticata di lei.
Esce fuori da chissà dove, tutta sudata e con il fiato corto. Non era insieme agli altri guerrieri, senza dubbio persa a vagabondare di qua e di là in quel posto gigantesco. Arriva con uno scatto per poi inciampare in mezzo alle pozze d’acqua, poi si rialza senza nemmeno degnare di un inchino la dea. “Accidenti, non puoi capire cosa mi è successo! Ho fatto un sogno orribile, erano tutti morti, non so cosa ho mangiato ieri sera ma ti assicuro che è stato …”
No, forse non proprio tutti hanno dimenticato.
E questo è già un altro dato interessante. Una strana idea inizia a formarsi nella sua mente, ma preferisce rimanere in silenzio. Ha bisogno di più dati, di più esperimenti, di più campioni: lo sguardo curioso e perso di Cosmos è un buon inizio, ma prima di essere davvero certa di ciò che sta accadendo deve osservare ed avere pazienza, i sani principi della scienza e della magia che ha sempre insegnato ai suoi studenti. Il respiro del drago ancora le batte nel petto, ma decide di zittirlo con una serie di domande a cui intende trovare una risposta.
Osserva Prishe ancora per terra mentre cerca di strizzarsi i capelli, e pensa che ci sono ancora possibilità di tornare insieme nel loro mondo. La battaglia al Santuario in fondo non è stata un fallimento completo.




Ok, qui so già che Devilangel mi ucciderà per come ho pestato Cloud, ma avevo bisogno di un nemico guerriero che parlasse poco (l'obiettivo era limitare i dialoghi di Shantotto), quindi la scelta era inevitabile!
In generale devo dire che sono partita molto prevenuta con i personaggi di FF XI perché in Dissidia hanno un ruolo infimo, ma informandomi su di loro per scrivere queste storie devo dire che sono piuttosto convincenti e Shantotto la trovo a momenti anche simpatica!

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Capitolo 16
*** Kefka Palazzo ***


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Personaggio: Kefka Palazzo
Genere: Comico, Demenziale
Rating: verde
Avvertenze: il demenziale non è il mio genere. Ma con kefka non si poteva ambire a molto di più. Spero risulti almeno comprensibile.


Quando Kefka si annoia

Cicli vari

{Forse non è il caso di presentarsi alla riunione in questo stato}
Kuja sbuffò.
Anche entrando in Trance la situazione non migliorava.
Non avrebbe dovuto accettare il brindisi proposto da Kefka per la vittoria su Cosmos, ma visto che tutti gli altri avevano bevuto aveva erroneamente supposto che, per una volta, si trattasse solo di innocuo vino di pessima annata. E invece si era risvegliato con un pesante cerchio alla testa ed una spiacevole sensazione di freddo sulle spalle … spiacevole sensazione che si era trasformata in atroce certezza quando si era guardato allo specchio ed aveva fissato la sua meravigliosa chioma mutilata proprio all’altezza delle orecchie.
E Chaos li aveva convocati proprio quel pomeriggio, quindi iniziò a rovistare nell’armadio alla ricerca di un cappello decente con cui nascondere l’onta. Era ancora indeciso tra quello pervinca e quello argentato quando la porta si aprì di scatto e l’imponente ombra dell’Angelo da un’Ala Sola si stagliò nella stanza con la mano stretta sulla Masamune.
“Kuja, hai visto Kefka?”
“Oh, ho intenzione di parlargli molto presto …” sorrise.
In fondo non poteva lamentarsi.
Almeno sulla sua testa qualche capello era rimasto. Il capo del suo furibondo compagno invece brillava alla luce del giorno più liscio e glabro della pelle di un neonato. “… che c’è, Sephiroth, ti serve un cappellino?”


{Se pensano che firmerò quel contratto … STANNO FRESCHI!”}
“Signorina Yuna, siamo orgogliosi di annunciarle che la sua richiesta di partecipare al nostro nuovo gioco, Dissidia Duodecim, è stata accettata e lei adesso è un membro ufficiale del cast!”
“Oh, sono davvero felice, signor Nomura. Anche se pensavo avreste assunto il signor Seymour, da quello che sapevo si era posizionato primo nella graduatoria di Final Fantasy X”
“Ehm … come dire …”
Beh, in effetti il signor Seymour era stata la loro prima scelta.
Certo, non avevano ancora firmato il contratto, ma avevano già iniziato a lavorare sulla sua musica ed avevano persino preparato una bozza della nuova ambientazione a Guadosalam con tanto di artwork ufficiale. E stava andando tutto perfettamente, tanto che il signor Seymour aveva accettato un invito al bar con un suo futuro collega della squadra della Discordia, ovvero il celebre Kefka Palazzo.
Il giorno dopo Nomura aveva trovato una lettera di dimissioni sulla sua scrivania accompagnata da una serie di frasi in antico Guado che non era sicuro di voler tradurre … il tutto ovviamente a sole due settimane dall’uscita giapponese del videogioco.
Nomura controllò che nessun pagliaccio fosse nei paraggi. “… mettiamola così, la nostra azienda ha deciso di aumentare i personaggi da iscrivere nella nuova versione. Mi fa una firmetta qui, per favore?” Sbrighiamoci prima che ci ripensi … o peggio, prima che quel pazzo ce la faccia scappare!


{Quel pagliaccio è un genio. Un maledettissimo genio.}
“Gidan … non credi che dovremmo fare qualcosa?”
In tutta la sua carriera di ladro non aveva mai visto una trappola simile. Era riuscito a disinnescare alcune trappole incantate create dall’Imperatore Mateus in persona, qualcuna gli era esplosa addosso, ma non gliene era mai capitata una con simili effetti. Né era particolarmente desideroso di incapparvi.
Lui e Bartz si stavano giocando a dadi chi avrebbe fatto il primo turno di guardia quando avevano udito delle urla. Dall’altro capo del lago la figura di Tifa si era sollevata in aria, la caviglia stretta da una corda attaccata al ramo di un salice; l’istante dopo una nuvola violastra l’aveva avvolta e non era stato necessario il suo affinato udito da ladro per riconoscere la risata di un pagliaccio piuttosto familiare. E, quando i fumi si erano diradati, la loro compagna era ancora appesa all’albero … con soltanto la biancheria intima addosso.
Uno spettacolo di una bellezza ed una abbondanza che Gidan non aveva mai visto. E che chiaramente nemmeno il suo compagno di viaggio aveva mai contemplato, visto che la faccia di Bartz stava rapidamente andando da un colorito rossastro ad un viola prugna piuttosto intenso. “Forse dovremmo … che ne so … andare ad aiutarla …?”
Certe volte il suo amico non sapeva godere delle gioie della vita. “Eddai, Bartz … ancora cinque minuti …”


{Ma chi me lo ha fatto fare?}
“ … danni incalcolabili al nostro quartier generale, chiaro odore di peti durante le riunioni, effetti personali degli altri Guerrieri sparsi in giro per i mondi, trappole puntualmente posizionate nel percorso degli alleati, prodotti di scarto nasali lasciati sui MIEI ordini ufficiali, doni esplosivi alla Vostra persona da ME disinnescati, malcontento dei nostri già malcontenti sottoposti. Devo continuare?”
Chaos si portò una mano alla testa. Un vero dio del male avrebbe dovuto ordinare a Garland di tacere e risolvere tutti questi problemi in qualità di suo araldo e braccio destro, ma la verità era che il signore della Discordia non era un vero dio del male e forse non lo sarebbe mai stato. Aveva provato migliaia di volte ad assumere il piglio marziale che il leggendario Lord Voldemort incuteva ai suoi Mangiamorte, ma i risultati non erano mai stati nemmeno lontanamente soddisfacenti.
Aveva la terribile sensazione che i suoi sottoposti fossero decisamente più Cattivi di lui.
“Mio signore, dovrebbe fare qualcosa per quel pagliaccio. Sephiroth minaccia di passare alla fazione di Cosmos e non possiamo permettere una cosa simile”.
“Ho provato a rimandarlo indietro, dico sul serio …”
“Con tutto il rispetto, mio signore, forse non si è impegnato abbastanza!”
Il sovrano del male sospirò, lambiccandosi il cervello. Ne avrebbe fatto volentieri a meno di tutta quella guerra, tutti quei problemi, tutti quei servitori che (ne era certo) complottavano di rovesciarlo dal trono un giorno sì e l’altro pure. Va bene, senza dubbio evocando quel Kefka aveva commesso un errore piuttosto grossolano (Lord Voldemort non lo avrebbe mai fatto), ma il problema serio era che i suoi poteri erano del tutto insufficienti per rispedire quella mina vagante nel proprio mondo e chiudere i passaggi tra gli universi in modo da impedirgli di tornare anche se lo avesse voluto.
“Senti, Garland, ho un’idea migliore … ma se lo spedissimo da Cosmos?”





Ok, ok, mi auguro che non siate scappati traumatizzati. Di solito non scrivo né comico né demenziale, ma smaniavo all'idea di levarmi questa storia e dunque ne è venuta fuori una serie di scenette strampalate che mi auguro perdonerete. Cosa non si fa per cliccare sulla casellina "Completa" ...
Allora it's ringraziamenti time. Ovviamente il primo e principale va al buon Valyx (Chainblack su efp), che è il mio grande partner in questa impresa. Senza di lui non avrei mai avuto il coraggio di buttarmi nella mischia, anche perché scrivere una one-shot su tutti i personaggi di Dissidia avrebbe eroso totalmente le mie forze. Un grande progetto insieme, socio! A nuove e più durature collaborazioni!
Devo fare però un gigantesco ringraziamento all'utente Devilangel: ci siamo conosciute proprio così, con lei che ha recensito la primissima storia su Terra (ed io con gli occhi sgranati perché ormai consideravo la sezione Dissidia pressoché disabitata) ed ormai siamo diventate una lettrice delle storie dell'altra nonché compagne di scleri su tutti i vari FF. Quindi penso che si meriti un salutone speciale soprattutto per l'entusiasmo che mi ha trasmesso. E poi ovviamente un salutone a tutto il rinato gruppo di scrittori di Dissidia, che in un anno ha letteralmente resuscitato la sezione: DanieldervUniverse, Atra, Arok_e_Ninde, Final Sophie Fantasy e tutta la squadra che mi ha supportato. E wolf, io lo so che prima o poi ti butterai nella mischia.
Ed ovviamente (last but not least, frase magica che ti permette di salvarti da qualunque figuraccia) un grande ringraziamento a Lisaralin che mi ha seguita e supportata in tutto questo percorso leggendo con gentilezza anche cose che magari non le interesserebbero gran che. Un saluto speciale alla mia primissima ed insostituibile socia.


E infine il mio piantarello .... aiutate una povera autrice a raggiungere le 100 recensioni!!!!! Grazie a tutti!!!!

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