Iree Iree

di zorrorosso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jake had a vision ***
Capitolo 2: *** Il primo appuntamento ***
Capitolo 3: *** La croce ***
Capitolo 4: *** Perdono ***



Capitolo 1
*** Jake had a vision ***


intro
Jake had a vision

 

La decisione era stata presa: avrebbe lasciato il lavoro l'indomani.

Non si puó certo contraddire la volontá divina.

"Let the good times roll" suonava antica sul suo giradischi, anche il piatto si era già un po’ piegato dal troppo uso. Intanto Jake sembrava aver finito con la sua noiosa romanza, non lo aveva neppure lasciato controbattere ed aveva definitivamente deciso chi avrebbe preso il letto quella notte e chi la sedia. Si strinse nella giacca, mentre le sue palpebre si appesantirono dal sonno e dalla stanchezza della giornata appena trascorsa, un giorno più lungo degli altri, un giorno che aspettava da anni: il giorno in cui Jake era finalmente uscito di prigione.

 

“Quando sali sul palco, di’ qualcosa!”- la voce di Jake ruppe il silenzio e, con ritrovata insistenza, riemerse all'improvviso dal suo assopimento.

“Mh...”- rispose lui, senza neanche voltarsi.

“Qualsiasi cosa va bene..."- Jake stiró le spalle con confidenza e rialzó brevemente la tesa del cappello calato sugli occhiali neri.

“Mh... Nah...”- continuó Elwood, non prestando veramente attenzione alle sue parole.

“È impossibile, con tutta la robaccia che leggi in continuazione... E non hai mai nulla da dire?”- incalzò lui.

“Che dici, posso cantare Rubber Bisquit? Come ai vecchi tempi?”- chiese di risposta, senza mostrare il minimo interesse.

“Nah, è roba trita! Il pubblico se lo aspetta! Qualche cosa che abbia un senso... Qualche cosa che è sempre sulla bocca di tutti, la ragione stessa della musica...”- le parole di Jake avrebbero dovuto animarlo della sua stessa insistente vitalitá, ritrovata proprio quel giorno, che fosse dettata da un desiderio, che andasse al di sopra della semplice volontá umana...

Elwood guardò in alto, verso il soffitto, la vernice si distaccava in grosse falde che mostravano i vari colori in cui era stata dipinta la sua stanza del Bond Hotel negli anni trascorsi, tra questi c’era anche il rosso scuro ed il babyblue, qualcuno aveva avuto la brillante idea di sostituire il babyblue al bourdeaux, forse per mascherare lo sporco... O le macchie di sangue incrostate alla parete. Un treno passò facendo tremare il toast dimenticato sul fornellino ormai spento. Non era lui ad aver visto la luce, ad aver avuto l'idea di rimettere insieme la banda. Riaprì gli occhi e guardó Jake, animato di emozioni che non riuscí a descrivere, ma non rispose.

“Perché siamo al mondo?”- disse Jake riportandolo a forza su quella conversazione che lui, evidentemente, non voleva portare avanti.

“Eh?”- chiese con distrazione.

“Perché sono qui? Perché sei qui?”- chiese Jake.

La sua voce riecheggiò tra le pareti strette, ma al posto della risposta di Elwood, Jake incontrò soltanto il silenzio ed alcuni rumori di sottofondo: qualcuno sulla strada stava commentando animatamente l’entrata del Bond Hotel, ridotta in macerie poco prima. Non se ne curò ed il silenzio del fratello non lo sorprese affatto.

Elwood strinse le braccia, anche se era soltanto fine estate, una fredda ventata lo colse con un brivido dietro la schiena. In quel breve soffio d’aria fredda, riemersero gli eventi di un dicembre di tanti anni prima. Di certo non poteva ricordare la notte in cui era venuto al mondo, il poliziotto che lo aveva trovato o una giovane Sorella Mary tenerlo tra le braccia mentre dormiva, la coperta in cui era stato avvolto, tantomeno la mattina ghiacciata o la brina sulla cassetta del giornalaio, ma era una storia che amava ascoltare tra le dolci parole di Curtis e quelle della Pinguina, allo stesso modo in cui ascoltava in silenzio la storia di Artesia e la nascita di Jake.

Storie che, da bambino, tante volte aveva preteso gli fossero ripetute; storie che, in un certo senso, aveva vissuto lui stesso il momento in cui, in un ricordo infantile che ora gli sembrava pocopiú di un sogno, un altro fagotto, avvolto da una coperta rosa, aveva varcato il portone di St.Helen tra le braccia della Pinguina.

 

Infine, la voce stanca di Elwood giunse in un rivolo di parole nasali, stanche, meccaniche e difensive.

“Non-non lo so... Per salvare St. Helen? Non-non credo che un percorso sulla filosofia esistenziale sia quello che voglia percorrere in quest..."- ma Jake non lo lasciò finire.

“Il sonno, la fame, la morte e l’amore... Non importa chi sei, cosa sei e quale sarà il tuo destino, sono queste le cose che ci rendono tutti uguali... Nessuno può resistere. Nemmeno tu!”- il tono di Jake si assopí di nuovo, ritornando apparentemente ubriaco e stanco, in procinto di addormentarsi. Era la veritá: chiunque, almeno una volta nella vita, aveva provato quei sentimenti, anche lui. Il fremito del pericolo di essere scoperto al volante di un’auto quando ancora non riusciva neppure ad arrivare al pedale della frizione, la voglia matta di raccontare a Jake delle sue avventure, un sorriso nascosto nella penombra del recinto di St.Helen, due occhi blu e il primo bacio, la musica, la cicatrice di un cuore spezzato da parole lontane, da un "no" detto al momento sbagliato, da un addio arido, doloroso.

Elwood sospirò.

"Dici che dovrei... Scriverle?"- disse a mezza voce, dando forse piú peso alle parole che non aveva ancora pronunciato.

Jake sbottó una mezza risata, non sapeva neppure lui cosa fosse successo quella sera di qualche anno prima, quando Il fratello lo raggiunse al volante dell'ennesima macchina rubata. Jake aveva soltanto notato le lacrime, asciugate sommariamente, mascherando la sua tristezza dietro gli occhiali scuri, ma non ci sarebbe voluto molto di piú per capire: Elwood sapeva di non poter nascondere nulla a Jake.

Probabilmente, non avendola vista con lui, forse Jake sospettava qualche cosa, ma prima di quel momento non gli aveva mai chiesto nulla.

"...Scriverle di..."- cercó di scandire timidamente parole che faceva fatica a pronunciare.

 

Anche se gli occhiali scuri mascheravano l’espressione spazientita, Jake alzò lo sguardo e sospirò profondamente.

“Che fine ha fatto?”- chiese veloce, come se quella domanda fosse stata estratta a forza e chiederla fosse stato praticamente inevitabile.

"C-Cosa?"- balbettò Elwood amareggiato.

"Non te lo devo ricordare. L'avresti portata con te, saremmo dovuti partire insieme, lo sapevano tutti, ma quella sera arrivasti da solo. Che cosa é successo veramente quella sera di cinque anni fa? Che fine ha fatto Irene?"- domandò Jake, il suo sguardo abbandonó il volto intimidito del fratello, la bocca serrata in un’espressione mista tra dolore e rimorso; si posò indeciso sulla parete di mattoni attaccata alla sponda del letto, tra il poster di Playboy e quello di Aretha Franklin, come se tra le foto delle donne che Elwood teneva attaccate in camera sua ne mancasse una.

“Non lo so e non lo voglio sapere... Studia all’Università adesso, ha una vita rispettabile..."- spiegò lui, abbassando la testa, forse verso il pavimento o la tasca interna della sua giacca.

“Rispettabile..."- ripeté Jake con una smorfia.

-Un'auto?! Sei stato dentro sette mesi per rubare una macchina? Una Cadillac!- nel loro stanco silenzio, quella frase riaffioró limpida nei ricordi di Elwood. Vivida e tagliente, come appena ascoltata.

 

“Nel frattempo ce ne sono state altre, tante altre... Di Cadillac!"- mugugnó nel tentativo di scacciare via il suono della bella voce dai suoi ricordi, lo sguardo inquisitivo di una ragazza che si sentiva tradita.

“Certo, come no..."- lo riprese Jake distrattamente.

“Come, non ci credi? Scommettiamo cento dollari che riesco ad avere un appuntamento con un’altra ragazza in meno di due settimane..."- si difese lui in fretta, tradendosi.

Jake non disse nulla, allungò le mani verso il poster di Playboy, dove una bionda abbronzata e definitivamente poco vestita mostrava tutte le qualità estetiche di cui era dotata senza il bisogno di parlare. Troppe volte, in fatto di ragazze, i loro interessi avevano avuto la tendenza a coincidere e, quasi sempre, era Jake che a fine serata intratteneva entrambe le ragazze, mentre suo fratello era perso chissá dove, cantando ubriaco il suo “mojo”... L’ultima volta lo avevano persino trovato ammanettato al corrimano di un ascensore. Non che i due avessero mai litigato per qualche ragazza in particolare o suo fratello fosse sempre rimasto solo, ma in un tempo ormai lontano, prima di quel dannato tour che li aveva portati dov’erano adesso, il suo cuore batteva all’unisono con quello della persona giusta per lui. Per un po’, forse, aveva quasi invidiato quel loro modo di essere cresciuti insieme parte delle loro vite. Una cosa che lui, tra un riformatorio e l’altro, quasi neppure ricordava.

Jake controlló con sospetto i bordi attaccati sommariamente per poi alzare leggermente la schiena e voltarsi di nuovo verso Elwood che, distratto, stava rigirando tra le dita una vecchia foto di quando erano adolescenti. Tornò con il volto sul poster e poi di nuovo su di lui e la foto che suo fratello aveva tirato fuori così delicatamente dalla tasca della giacca. In realtà non aveva nulla di particolare, era un semplice scatto di loro due insieme, dieci anni prima o forse di più, in bianco e nero. Jake pensò in fretta: non erano gli anni trascorsi da quei tempi o tantomeno il soggetto a renderla speciale. Si voltò verso il poster ed alzò con sicurezza uno degli angoli.

Il pezzo di rivista, in realtà, copriva un’altra immagine: una foto a figura intera di una ragazza di fronte ad un drappo di raso azzurro, in un vestito elegante, fuori moda e leggermente troppo grande per lei. Era una di quelle foto che solitamente si scattano alle coppie durante i balli della scuola. Tuttavia, in quella, mancava l’accompagnatore. Elwood ripose nuovamente la foto che aveva tra le mani nella tasca della giacca, insieme ad una strategica fetta di pane e qualche altra chincaglieria che portava con se.

Jake riabbassò l’angolo del poster e si sdraiò nuovamente, facendo finta di non aver visto la fotografia nascosta.

“Come vuoi, ma non è questo che fa la differenza, non é il trovartene ancora un'altra se é lei la ragione del tuo blues..."- disse lentamente.

Elwood annuí in silenzio: non poteva nascondere nulla a Jake.

Lasciò passare qualche istante, prima di ricominciare a parlare.

"Come hai fatto tu, con Kay?"- chiese, quasi con la pretesa di essere confortato dalle parole sicure del fratello.

"Come fanno tutti, Elwood. Si va avanti, all'inizio si sopravvive, poi se ne fa una ragione. Il blues che porti dentro non sparirá, nessuno porterá via il suo ricordo, ma un giorno, qualcun'altra prenderá lo spazio che lei ha lasciato andandosene..."- Jake emise un sorspiro molto lungo ed una specie di grugnito nasale: allo stesso modo di come si era risvegliato dal suo assopimento, si riaddormentó.

***

Una volta passati i corridoi del Palace Hotel, Elwood ebbe come la sensazione di qualcuno che li stesse osservando. Non che ne fece troppo caso, era giá capitato diverse volte negli ultimi giorni, almeno da quando Jake era uscito di prigione, Mercier e Fiscus gli stavano alle calcagna da più di una settimana, una strana auto li seguiva ovunque e la polizia non aspettava altro che poterli mettere con le spalle al muro.

Casualmente, notó come Curtis sembrava guardare verso il pubblico e sorridere con entusiasmo a qualcuno, qualcuno probabilmente a lui familiare, che non riuscì a mettere veramente a fuoco tra tutti quegli agenti di polizia, si chiese brevemente chi fosse.

Non se ne curò che per qualche secondo, il ritmo era frenetico, la Banda era finalmente insieme come ai vecchi tempi, Jake ballava come non aveva mai fatto prima, fu solo un breve attimo, una pausa per riprendere fiato e mettere insieme due parole verso il pubblico, come Jake gli chiedeva spesso di fare, come gli aveva chiesto non più di una settimana prima, prima di ritornare a correre, suonare, ballare, prima di ritornare alla musica e alla Blumo.

...E quando trovate quel qualcuno particolare...

 

Jake had a vision. The other wasn’t all good, maybe ok, but this one was just plain bad, even worse. Eyes wide open in the darkness of his block.

It was so bad, he couldn't tell nobody, not even Elwood. He could hear how he was still asleep, so quiet he didn’t probably notice. Jake shrug those thoughts off quickly, at least he tried to, and rolled over the bottom half of his jail bunk bed.

 

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Capitolo 2
*** Il primo appuntamento ***


Capitolo 1
Il primo appuntamento

 

Quando si saluta qualcuno prima di un lungo viaggio, non sempre ci si aspetta di farlo per l'ultima volta. Si ha sempre la presunzione, seppure illusoria, di ritornare e ritrovare tutto esattamente nelle condizioni in cui si era lasciato andandosene.

Neppure Irene la pensava in maniera differente.

Con la stessa presunzione di chiunque altro, quella mattina aveva baciato George distrattamente ed aveva lasciato la sua auto per prendere la metro, lui sarebbe andato al suo solito campo da golf, lei al lavoro, una sessione piuttosto lunga, un divorzio la cui divisione dei beni avrebbe potuto prendere fino a sera inoltrata, lavoro, niente in cui lui stesso non si fosse potuto incagliare fino a non molto tempo prima.

Ormai il golf era diventato la sua unica passione ora che, stanco dei quarant'anni di lavoro dedicati al suo studio legale, e quasi cinquanta alla pratica, aveva finalmente deciso di lasciare.

Eppure era rimasto diverso tempo con lei, in ufficio, anche dopo essere andato in pensione, aveva prolungato il suo impiego per qualche anno ed avrebbe continuato, almeno prima che i Social Media inquinassero il lato oscuro della loro pratica professionale. Era quasi diventato obbligatorio avere un assistente altamente esperto di IT e abbastanza familiare, a volte anche con l’utilizzo illegale del deep-web, per documentare ed eventualmente sabotare tutte le procedure, le pratiche e i referti di una burocrazia informatica che da dieci anni a questa parte andava solo aumentando.

La maggior parte delle indagini e delle documentazioni ormai avveniva solo tramite vie informatiche, tutto era computerizzato e bisognava continuamente anticipare il passo sui giornalisti sempre più accaniti, pronti a divulgare notizie false ricevute a tempo di record, procurate con tutti i mezzi disponibili, molto prima della stessa polizia e sicuramente ben prima di loro, senza poi curarsi di smentirle.

Giurie troppo impressionabili  continuavano ad incolpare innocenti basandosi solo sulla loro cattiva fama o pregiudizi di razza, oppure difendere colpevoli basandosi su ideali di gran lunga traditi, un profilo impeccabile da Social Media ed il beneficio del dubbio. Una pagina web di troppo, un profilo online compilato in modo inadeguato, una foto inopportuna pubblicata al momento sbagliato, un video sospetto e apparentemente di natura privata, valevano più di mille testimoni, sia per l’accusa, che per la difesa.

 

Il mondo stava cambiando ed il loro lavoro non faceva che aumentare e richiedere uno sforzo ancora piú estremo,   non sono nel campo informatico, ma soprattutto in quello della morale sociale: un nuovo mondo era nato negli ultimi vent’anni ed alla soglia degli ottan’tanni, cominciava ad essere dura, per George, risalire di nuovo la china. Lo aveva sempre fatto in passato, ma ora si faceva sentire la stanchezza di una lunga vita da avvocato penalista.

Irene non lo biasimava, era un veterano del Vietnam, aveva superato traumi ben più gravi, ma era difficile stare dietro a tutto, in un mondo che adesso sembrava evolvere nel giro di poche ore.

Lei veniva da tutt’altro ambiente e generazione, eppure tante esperienze li accomunavano: lui aveva da poco aperto lo studio legale quando Irene aveva appena cominciato la facoltá di giurisprudenza, conoscersi fu una semplice casualitá, l'amore indiscusso che entrambi avevano per lo stesso genere di musica. A tenerli insieme proprio la voglia di perseguire il sogno mai raggiunto di una giustizia fattibile. L'etá e la classe sociale, tuttavia, non furono mai argomenti rilevanti tra di loro.

 

Si era sempre detta che nemmeno la famiglia piú apprensiva avrebbe mai potuto niente contro il suo fascino, cosí che anche la sua trovó subito le migliori approvazioni al loro fidanzamento, piú di trent'anni prima. Seppure per quasi dieci anni la famiglia adottiva di Irene aveva cercato di tenerla lontana dalle "cattive compagnie", incrociando lo sguardo di un uomo distinto come George, aveva finalmente ceduto.

Quasi vent'anni di differenza. Quando si é giovani non si pensa a queste cose e l'amore arrivó a tempo debito, per entrambi.

Di sicuro il loro primo appuntamento non fu certo l'esordio dei loro veri sentimenti.

Irene ricordó come entrambi si incrociarono di fronte ad un baracchino improvvisato da alcuni orfani dell’orfanotrofio di St.Helen.

 

Lei controlló accuratamente tutti i piccoli volti dei bambini, alla ricerca di qualche cosa, qualcuno, senza quasi considerare il fatto che nel frattempo fosse cresciuto e diventato adulto, controlló un'ultima volta la locandina con un’espressione difficile da decifrare, contenta, meravigliata, una meraviglia muta, venata di altri sentimenti. Cercó il vecchio Curtis, senza trovarlo, e si preparó lentamente in fila, per comprare il biglietto. Non era piú in contatto con i suoi amici di St.Helen da quando... La sua mente si annebbió di colpo.

Forse avrei dovuto...- pensó tra se in un sospiro, fissando nei suoi ricordi la locandina colorata.

Fu in quel momento che George la trovó, era l’apprendista di un suo collega e la invitó, per quanto avessero comprato i biglietti separatamente e quello secondo lei non era un vero e proprio appuntamento.

Al contrario di Irene, le motivazioni di George per essere in fila a quel baracchino furono presto giustificate: c'erano un sacco di pezzi grossi della sua musica preferita, non poteva mancare.

I pensieri della donna divagarono poi su un evento accaduto proprio quella sera...

...Ad esempio, che cosa sarebbe successo se, al Palace Hotel, fosse uscita dal bagno e li avesse seguiti fino alle quinte? Era certa che avrebbe avuto finalmente l’occasione di scusarsi. Avrebbe spiegato le sue ragioni si sarebbero potuti finalmente chiarire e lei, ormai adulta, avrebbe potuto di certo decidere del suo destino, con il senno di poi, avrebbe potuto finalmente accettare? George, per certo, non l'avrebbe piú cercata, ma... Erano passati giá cinque anni, Delaney non l'aveva piú cercata... E come avrebbe potuto?

Ricordó ascoltare attentamente il suono, attutito da qualcosa, del vetro della finestra del bagno rompersi, i lunghi passi poco calcati, che ricordava bene, seguiti da quelli corti e decisi, che ricordava allo stesso modo, le grida di alcune signore, due giovani uomini in nero che cercavano di scusarsi, senza notarla, mentre le passavano proprio di fronte. Sgranó gli occhi e deglutí lentamente: erano quasi famosi allora, avrebbero quasi potuto farcela.

Prese fiato.

Se in quel preciso momento non avesse urlato i loro nomi a voce alta o non li avesse fermati, non si sarebbero mai accorti di lei, forse non l'avrebbero mai neanche ricordata.

Si lavó le mani lentamente, mentre con la coda dell’occhio li guardó uscire tra lo scompiglio di alcune altre signore.

Soltanto quando la punta delle dita di uno di loro due lasció andare la molla della porta, soltanto allora, fulmineo, il pensiero che quel preciso secondo fosse stato anche l'ultimo in cui li avrebbe potuti vedere cosí da vicino, oltrepassó la sua mente. Non era abituata a pensare cosí dei due Ravens, li aveva sempre avuti abbastanza vicini, a non piú di qualche isolato, anche dopo essersi trasferita. Bastava una telefonata o un giro nel quartiere sbagliato per incrociarli, ma le cose non stavano giá piú cosí, come se le ricordava, qualche cosa era successo qualche anno prima e da quella sera erano soltanto destinate a cambiare di nuovo.

Troppo tardi.

Lasciandoli deliberatamente andare senza farsi avanti, senza porgere loro neppure un saluto, aveva involontariamente giá preso una decisione irreversibile sui loro destini.

Quella sera indimenticabile, in veritá, fu anche il primo appuntamento con George.

 

Lei aveva accettato l'offerta con apparente indifferenza, il posto era talmente grande e l'invito talmente improvvisato che non sembrava neppure un vero appuntamento. Con tutta quella gente era sicura che non avrebbe mai avuto l’occasione di incrociarli veramente da vicino ed era curiosa di sapere come se la stavano cavando, che fine avevano fatto, dopo aver lasciato St.Helen, dopo la fine della scuola. La curiositá e la nostalgia avevano ormai preso il posto della rabbia provata.

Seduta con George al Palace Hotel, quella sera, cambió bruscamente idea e decise tra se che avrebbe trovato il modo di stare loro lontana: alcune cose mantegono il loro fascino solo se guardate da una certa distanza.

E loro  erano una di quelle, ma doveva andare in bagno prima che lo spettacolo cominciasse. L'ironia della sorte aveva voluto che i due fratelli entrassero proprio dalla finestra di quel bagno, rompessero quel vetro che, nelle sue memorie, li avrebbe tenuti distanti. Chissá cosa avevano combinato. Tre anni, era scritto sulla locandina. Si ricordava di quel tour che erano in procinto di fare quando lei era partita, chissá cos'era successo davvero.

 

Ricordava molto di quella serata. Quando il vecchio Curtis cominció a cantare, il suo cuore sussultó. Non si erano scritti da troppo tempo, ma avrebbe voluto comunque parlargli in quel momento!

 

Fu proprio George a trascinarla dietro le quinte alla fine del concerto, imbracciando un vecchio vinile e fin troppo entusiasmo. Lui quelle canzoni se le ricordava tutte, di primo orecchio, le ascoltava nei club, da ragazzino, aveva assistito a qualche concerto, anche quando combatteva nel 'Nam.

Passó il disco ad alcuni membri della Band ed incominció a discutere con entusiasmo, non aveva neanche idea di chi fossero i cantanti principali, era lí per la musica, per la Band; mentre lei cercó il vecchio signore con lo sguardo: era anche lei curiosa di sapere come avevano fatto ad andare a finire lí, ma i ragazzi non la riconobbero subito, alcuni erano nuovi, come il batterista dalla visiera strana, il tipo alle tastiere o il distinto signore che aveva preso il suo posto agli ottoni e ci sapeva fare di gran lunga meglio di lei. Curtis l'abbracció e lei ricambió la stretta con lo stesso affetto.

"Sapevo che non saresti potuta mancare!”- esclamó lui con un sorriso. Anche se si era promessa troppe volte di passare da St.Helen, non si vedevano da troppo tempo.

"Io... Beh, veramente...”- disse lei con leggero imbarazzo.

“Come stai? Come vanno i tuoi studi?”- chiese con un bel sorriso.

Gli ultimi due anni erano stati impegnativi, l’universitá andava vagamente a rilento, lasciandola nel limbo del praticandato e la scuola di legge forse per un altro anno o due prima di prendere il titolo, ma Curtis forse voleva un altro tipo di risposta.

“Sto bene, va tutto bene!”- disse brevemente.

L’anziano signore annuí. Poi, come se le avesse letto nella mente, disse a voce alta:

“Vuoi sapere che fine hanno fatto i ragazzi?”- chiese quasi con orgoglio.

Irene abbassó lo sguardo e scosse la testa, in una negazione silenziosa.

"Se temi che abbiano fatto qualche cosa delle loro anche questa volta...Sbagli! Vedi, non ti ho mai menzionato di come St.Helen...-”

“Cosa?”- disse lei interrompendolo.

“Hanno organizzato questo concerto per aiutare l'orfanotrofio..."- Irene ricordó quel dettaglio con malinconia, essendo riuscita anche lei a ripagare parte di alcune di quelle tasse successivamente tramite una serie di collette, motivata proprio dal loro nobile gesto, almeno fino alla sua definitiva demolizione, qualche anno dopo.

"Davvero? Senza ricorrere a... Alle loro solite trovate? Wow!"- Irene parve vagamente sorpresa. L'idea che avrebbe dovuto fermarli e salutarli cominció nuovamente a farsi avanti.

"Se mi dici dove posso trovarli vorrei..."- ma Curtis scosse la testa: i due avevano giá abbandonato le quinte.

Casualmente, non riveló a George di conoscere Curtis, non ne trovó il modo, al loro primo appuntamento. Dopo averlo salutato, ritornó da lui ancora intento a congratularsi con i membri della band. Una band vera, come diceva Jake, come avevano sempre sognato di mettere insieme i due Ravens. Ricordava averne fatto parte, quanto era stata dura all’inizio, ma come il tempo li aveva resi così uniti... Come aveva fatto ad abbandonare anche loro? Ritrovarli fu in un certo senso imbarazzante, si salutarono e le raccontarono una storia che ai tempi aveva dell’incredibile: i due Ravens erano riusciti nella loro missione. Avrebbe dovuto smettere giá da allora di chiamarli in quel modo, loro non si facevano chiamare piú cosí da tanto tempo ormai.

 

Quella sera cominciata a ritmo di musica, divenne presto silenziosa quando lei e George fecero una lunga passeggiata sul lago. Strane luci all'orizzonte, si poteva ancora scorgere la luce arancio di un incendio domato malamente, riflettere le onde del lago e le sirene di troppe auto della polizia in lontananza.

Poco sapeva Irene di come il primo appuntamento con George fosse stato anche il loro ultimo concerto in libertá.

L'uomo ruppe il silenzio. Ai tempi, George sapeva come rigirare la sua giuria. Credeva che lo stesso sistema poteva essere usato anche con le ragazze. Aprí le sue avances quasi allo stesso modo con cui si apre un'arringa.

"Vedi?" -disse con un tono mesto, catturando comunque la sua attenzione- "Come cantava quel ragazzo..."

Irene guardó la sagoma del volto di George, illuminato soltanto dal riflesso dei fari e le sirene bluastre che si allontanavano. Involontariamente arrossí e distolse lo sguardo, lui non poté notare quel gesto, non era dedicato a lui.

"Quando trovate questo qualcuno particolare, tenetevelo stretto..."- disse l'uomo avvicinandosi.

Non c'era bisogno che George ripetesse ogni singola parola, ricordava fin troppo bene quello che Elwood aveva detto sul palco: a chi erano destinati quei versi? A chi erano destinate veramente quelle parole? Il solo pensiero la faceva ribollire sottopelle di gelosia. Anche se da allora erano passati ben cinque anni, aveva cambiato tre appartamenti, finito gli studi fino alla scuola di legge ed aveva persino acquistato una macchina sua... Tuttavia qualche cosa in lei non era ancora cambiato: non lo aveva ancora veramente perdonato per tutto quello che le aveva fatto.

Irene voltó le spalle all’uomo per asciugare una lacrima veloce e proseguire la passeggiata.

Certo, la vita era andata avanti, altri ragazzi l'avevano invitata al ballo della scuola ed alcuni di loro erano stati cacciati via da lei con il suo stesso disappunto ed altri l'avevano lasciata...

George pensó di essere stato molto romantico rievocando quella bella frase, senza sapere di stare invece rovinando l'atmosfera con la scelta della sfortunata citazione.

La serata si concluse malamente, il loro primo appuntamento, senza il loro primo bacio.

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Capitolo 3
*** La croce ***


Volevo ricordare che anche questo capitolo è pronto da diversi mesi e pubblicandolo ora non voglio mancare di rispetto alla mia vita privata.
Le storie descritte non sono riferite ad eventi reali.


 
La Croce

A volte Irene si chiedeva che cosa avrebbe fatto una volta in pensione, ormai mancava solo qualche anno. Sperava di spenderla guidando un golf-cart in un verdissimo campo, scozzese d’estate o australiano in inverno, un bel posto assolato, ma non troppo, tanti bei locali e cittá in giro per il mondo con il suo adorato George.
Pioveva. 
Samuel, Sam, si strinse nel cappotto nero, continuando a piangere.
Era una sensazione particolare ricordarlo piccolo, neonato. Ricordare la sua testa tonda, priva di capelli, la possibilità di essere tenuto soltanto con un braccio ed i suoi occhi grandi, di un colore più scuro. Non avrebbe mai potuto descrivere quella sensazione a qualcun altro, per fortuna, in più di trent’anni, nessuno le aveva mai chiesto di questo genere di cose e non ne aveva mai avuto il bisogno.
La donna piegò l’ombrello aperto sul suo volto invecchiato, senza la volontà di avvicinarsi a suo figlio. Voleva rimanere sola, non aveva piú voglia di piangere e ricordare.
Quando cose del genere accadono così in fretta, in realtà non ci si rende mai del tutto conto di cosa stia succedendo. La vita comincia e finisce con troppo poco preavviso.
Irene guardò il terreno ancora fresco, mentre l’immagine della bara di mogano che scendeva lentamente nella fossa rimaneva indelebile nei suoi pensieri. Avrebbe volentieri voluto dimenticarla. Ricordare i viaggi, il tanto atteso primo bacio, ricordare i bei momenti con lui, non quello. 
Si voltò in direzione dell’auto. Sarebbe voluta tornare in ufficio, ma qualche cosa la fece desistere: il pensiero di dover ripercorrere un’ultima volta a parole quello che era appena successo, descrivere accuratamente ad un altro amico, parente, collega o sconosciuto, quello che le era appena capitato, rivivere quei ricordi ancora freschi e sanguinanti nella sua memoria.
Sam la guardò allontanarsi lentamente, ma non la seguì. Fu fermato da alcuni dei tanti altri parenti accorsi al funerale e portò avanti quel discorso che fuoriusciva così graziosamente dalle sue giovani labbra, aride e pallide dalla stanchezza e dal dolore e mai cambiava. 
La gente lo accerchiava con diletto e lo lasciava volentieri finire, incantata dalla bella pronuncia e quelle parole così sensibili, così curate. 
Diventare il nuovo erede dello studio legale sarebbe stato così facile per lui e i suoi bei discorsi, ma George, stanco e ormai anziano per prendere le decisioni di un padre, aveva lasciato Sam completamente libero di scegliere la carriera che più avrebbe preferito. 
Per più di un decennio le cose erano andate abbastanza bene, era tuttavia un ragazzo indipendente ed autonomo, ma come per molti suoi coetanei di quella generazione, niente era ancora stabile, niente sembrava rimanere negli anni e portarlo ad una definitiva carriera. Era qualche cosa che né lei e né George avevano mai vissuto in gioventù. 
Durante i loro anni, certi subbugli economici, l’obbligo di dover avanzare di molti livelli professionali prima di avere uno stipendio con il quale vivere decentemente, l’urgenza di dover spendere più soldi di quelli che si potevano materialmente guadagnare in una o due vite, solo per garantirsi uno status ed aumentare professionalmente di livello erano cose spuntate fuori soltanto negli ultimi anni. 
Neppure Irene era del tutto immune al nuovo sistema e capiva, seppur in parte, ció che Sam stava passando in quei momenti. La concorrenza era sleale ed usava i trucchi piú disonesti: non era piú la semplice questione di alleggerire un po' il trucco in presenza di un giudice donna, voleva dire ingaggiare una ventenne con la messa in piega e la gonna vistosamente al di sopra del ginocchio in una giuria di maggioranza maschile, voleva dire essere messa in disparte e scartata dal suo stesso studio quando il cliente voleva un avvocato giovane ed attraente, anche se dall'intelligenza ed esperienze a dir poco discutibili.

Solo dopo alcuni passi, qualche cosa colse la sua attenzione, una lapide anonima, dai toni verdastri del muschio che vi era cresciuto sopra, sulla quale giacevano poco piú di una ventina di pietre, tutte simili ed allineate ordinatamente. Osservó la tomba con attenzione, alla ricerca di un nome, una dedica o una data che non trovó.
"Forse é di una persona importante, magari la conosciamo..."- commentò una voce femminile, non troppo distante da lei e si fece avanti dalla direzione da cui lei stessa veniva.
Non vedeva Jeaqueline almeno da prima che Sam nascesse, non sapeva neppure se darle del Lei, la ricordava vagamente fare parte del suo stesso club musicale all’Università ed avere un discreto talento, ricordava di come aveva fatto del praticandato nello studio di George ai tempi del loro fidanzamento, ma essere poi finita con lo scegliere in ultimo la musica alla carriera legale.
Era una signora solo di qualche anno più giovane, ma gli anni erano trascorsi su di lei con la stessa identica, inesorabile, severità. Aveva abbandonato il suo abbigliamento colorato e suggestivo, per colori più tristi e sobri, forse soltanto in occasione di quel funerale: per qualche ragione sapeva cos’era successo, forse qualcuno glie lo aveva detto... Forse George...
Jeaqueline scosse la testa lentamente. 
“Ci sono passata anch’io, so cosa si prova”- disse con una lunga pausa.
Irene la guardò con sospetto. Il suo dolore era incolmabile, ma sapeva di non essere la sola a provarlo. Con egoismo, in quelle ore, continuava a pensare come nessuno potesse provare gli stessi sentimenti con la stessa intensità, neppure lo stesso Sam, ma la verità era sempre stata davanti ai suoi occhi senza che lei avesse voluto vederla: come l’amore, anche quello è un dolore che provano tutti, almeno una volta nella vita.

“Non... Non so dire. Non so cosa dire in questi casi... George non mi ha mai neppure accennato di lei, di te, in tutti questi anni... Io non mi sono mai accorta di... Forse ero davvero troppo presa dal lavoro!”- balbettò lei all’improvviso, senza imbarazzo, in quell’attimo tutti i sentimenti estranei erano attutiti, anestetizzati da quell’invadente dolore, il dolore di un’eterna assenza, così incolmabile da non riuscire neppure a provare rabbia o ulteriore sconfrorto.
“Oh! No!”- si giustificó subito, con imbarazzo -”Lavoro per lo studio Newton adesso! Siamo in contatto con lo studio Villiers da diverso tempo, per l’assegnazione di avvocati d’ufficio, volontari...”- ribatté Jeaqueline, sbottando una risata fredda all’idea di essere fraintesa.
“Capisco..."- Irene si ricompose velocemente.
“A proposito, so che forse non é il momento opportuno, ma ci sarebbe la necessitá di qualcuno con poco lavoro al momento, disposto a mettersi in contatto con il Distretto. Facciamo di tutto per l’immagine aziendale"- disse sbottando in una risata nervosa, senza fare troppo caso alla situazione, le consegnò un biglietto da visita del suo studio, con dietro il nominativo di un agente di polizia. Irene lo fece scivolare distrattamente nell'agenda, senza ascoltarla e senza guardarlo.

Martedí.
Non ricordava di quale mese, non festeggiava piú il suo compleanno da tempo e non ricordava se quel giorno di fine estate era giá passato o meno. Tuttavia faceva ancora caldo e non aveva ancora cambiato il letto.
Ricordó Sam bussare la porta, dire qualche cosa ed andare via, non ricordava cosa. 
Irene si guardò allo specchio assonnata, senza riconoscersi. Anni passati a nascondersi dietro un trucco leggero, capelli legati ed un vestito sobrio. Forse in quel momento qualche cosa scattó in lei, decidendo proprio allora di ritornare allo studio. 
Aveva peró sottovalutato come l’ufficio legale di cui ora era l'erede titolare e dove aveva lavorato per tutti quegli anni, si era completamente dimenticato della sua esistenza. I suoi casi erano stati velocemente passati in mano ad altri legali e praticamente tutti chiusi, il lavoro e le fatiche di tanti anni, gettati immediatamente alle ortiche. 
L'avvocato di pratica, colui che aveva preso in mano l'intero gruppo legale per lo studio Villiers, era ora un certo Roger Millers, guardacaso un uomo, che sembrava superarla di gran lunga in titoli, anche se veniva da soli pochi anni di esperienza al Newton... Newton, quel nome non le era nuovo. 
Guardó con assenza l'ufficio in cui lei si sarebbe dovuta sedere e di cui invece ammirava ancora trasognante la porta, esitando ad entrare, per presentarsi al nuovo arrivato e congratularsi della recente assegnazione. Persisteva la realtá dei fatti: tra qualche anno lei sarebbe andata in comunque in pensione, mentre il signor Millers aveva davanti a se un brillante futuro. 
Che fine aveva fatto la sua vita, allora? Tutti quegli anni le erano scivolati tra le dita senza lasciarle nulla, anzi, togliendole energie preziose e persone care.

Abbandonó lo studio nell'indifferenza dei colleghi indaffarati, per ritornare ancora una volta sulla lapide di George. 
Che fine avevano fatto i fiori? Che fine aveva fatto la gente che visitava e piangeva la sua morte? I tanti clienti che aveva assistito per quasi mezzo secolo? La sua lapide era vuota e spoglia, al pari di quella senza nome, pochi passi piú avanti. Accorse presto con un mazzo di rose rosse, come se quel gesto avesse potuto cambiare immediatamente la sua condizione. Non credeva piú in Dio da troppi anni, ma da bambina le era stato insegnato che le lapidi spoglie sono quelle della gente dimenticata e lei non si era certo dimenticata di lui. In un senso di vaga pietá, tolse una delle rose dal mazzo e la pose sulla lapide senza nome.
Forse i tuoi cari non ti possono assistere- pensó con un vago senso di innocenza. 
Mentre si chinava per appoggiare la rosa, la borsa aperta, che aveva in spalla, si rovesció quasi completamente, riversando tutto il suo contenuto a terra. Irene sbuffó irritata e si chinó a raccogliere velocemente i suoi averi, quando, graffiato malamente sull'angolo della lapide misteriosa, notó un simbolo della sua gioventú che ricordava abbastanza bene: la croce dalle tre lacrime.

"Lo vedi questo?"- la voce orgigliosa di Jake, pocopiú che un ragazzino, riverberó nelle sue orecchie come se quarant’anni non fossero mai passati e mostró con fierezza il suo tatuaggio verso Elwood, lui di risposta arricció le labbra ed annuí con entusiasmo -"Adesso faccio parte di una gang latina! Non torneró mai piú in galera! Nessuno ci puó toccare!"- esclamó festoso, come se avesse veramente compiuto qualche cosa di cui andare particolarmente fiero. I due gioirono del loro ritrovato incontro, all'uscita della scuola, ma una giovane Irene assistí a quella scena e li superó, al principio, con falsa indifferenza. Anche lei avrebbe voluto chiedergli come stava, che fine aveva fatto e dargli il benvenuto nella societá civile, ma lui le era passato di fronte quasi senza notarla ed ancor peggio, andava fiero di essere diventato un criminale!
"Iree"- fu tutto quello che Jake riuscí a pronunciare verso di lei, prima di essere travolto da un discorso fiume sulla giustizia, sulla legalitá e sul fatto che quel tatuaggio non lo avrebbe affatto tolto di prigione, ma lo avrebbe fatto marcire, in galera. Parole che Irene gridó con impeto, ma che Jake non ascoltó, scambiandole per l'ennesima cantilena della Pinguina e a cui rispose distrattamente:
"Ci sono nato, in galera, ci potrei anche morire!"- seguite da un'alzata di spalle. 
"Se ci tieni cosí tanto a diventare come la Pinguina, potresti mangiare un po' di piú e farti suora, no?!"- commentó Elwood istintivamente in difesa di Jake.
Tuttavia, Irene non era la Pinguina, allora avrá avuto forse quindici anni, non li avrebbe mai rincorsi per prenderli con un righello e fargli rimangiare a sberle quello che le avevano appena detto, anche se in quel momento remoto avrebbe voluto, non avrebbe mai fatto nulla di piú che dissociarsi dal loro comportamento e correre via ferita, piangendo in silenzio. 
Fu sopraffatta da quei sentimenti lontani, dolore antico ora mischiato a sentimenti nuovi, nuovo dolore. 
Ricordava di Sorella Mary come una figura che per un lungo periodo di tempo aveva fatto parte della sua infanzia, prima di essere adottata, la lunga tonaca nera e le ginocchia ossute sulle quali aveva sbattuto spesso la testa da bambina, contrastavano con il fisico robusto, frutto di anni di lavoro manuale e preghiere. Trovava altrettanto strano come l’insofferente gentilezza nei suoi confronti contrastasse diametralmenre la vemenza con la quale si affannava contro i due fratelli di sangue. Non sapeva se essere grata per non essere l’oggetto delle sue ire o gelosa di quelle attenzioni.
Il pensiero di quei primi anni di vita la oltrepassó come un ricordo troppo lontano che non poteva rievocare, se non percepire fisicamente. L’immagine offuscata di una notte senza luna, trovarsi forse in un posto sbagliato al momento sbagliato... O forse no. Erano tempi piú semplici, dove tutto si risolveva ancora con una parola ed un abbraccio, dove non aveva ancora il bisogno di allontanarsi in lacrime, impotente.
Un giorno, Jake ed Elwood le chiesero scusa per il comportamento che avevano tenuto quel giorno, tutto si sistemó con relativa facilitá, ignorando come quello fu solo il mónito di un futuro che li avrebbe divisi davvero.

La croce dalle tre lacrime: col tempo e nonostante le sue ideologie cosí rigide, ne aveva difesi alcuni di quella gang, a volte aveva anche vinto, tenendo degli emeriti colpevoli fuori dal carcere. Jake non era mai stato tra quelli. Forse le sue parole avevano finalmente colpito nel segno, seppure in ritardo, facendolo finalmente ravvedere? Oppure ne aveva combinata una piú grossa delle altre? Il biglietto da visita dello studio Newton spuntó dall'agenda semi aperta che aveva appena raccolto. Agente, Comandante, Chamberlain.
 
***
Elwood guardó l'orologio con impazienza, ore 12:30. Controlló il calendario: il giorno dell'udienza era finalmente arrivato, Cab aveva fatto tutto il possibile per fargli avere a disposizione uno dei migliori studi legali al miglior prezzo, ovvero gratuito. Tuttavia lui rimaneva sospettoso su chi gli fosse stato assegnato: lo studio sarebbe anche potuto essere uno dei migliori, ma di avvocati abbastanza validi, tra quelli che si offrivano volontari per quel tipo di servizi civili, ce n'erano ben pochi.
"É una vergogna che, di questi tempi, sia cosí difficile trovare un buon aiuto legale, onesto"- bisbiglió a se stesso, le sue parole rimbalzarono sulle pareti bianche e verdi della cella vuota.
...Vedete, il problema di mio fratello, e il mio, é che siamo dei recidivi, criminali, delinquenti abituali. Nessun avvocato vuole avere a che fare con noi. Devo trovargli un avvocato, non so cosa possa fare...
Ricordó quella frase con rimpianto, se Perry Mason fosse davvero esistito, forse Jake... Nah. Negli ultimi diciotto anni aveva guardato forse troppa TV e letto troppo poco, il suo volume poco rovinato di Fisica Quantistica per Pregiudicati era ancora aperto su una delle prime pagine, non lo avrebbe finito certo in tempo per il colloquio, forse era il caso di riconsegnarlo in biblioteca. 

By the year 2006, the music known today as the blues will exist only in the classical records  department of your local library.
Diversi anni erano ormai passati da quel 2006 che lui stesso cantava, ormai aveva scontato la sua pena ingiusta e si augurava finalmente di poter invecchiare in pace. Con un senso di timore e curiositá, controlló la sezione musicale e notó un paio di buoni classici, gli stessi che ascoltava Curtis, ma non tutti. La prese come un segno del destino, il fatto che ormai anche lui faceva quasi parte del passato, tuttavia era ancora vivo e poteva godere di un nuovo futuro dipanarsi di fronte a lui. Anche se per certi aspetti non era proprio come se lo sarebbe aspettato, forse l’opportunitá di essere di nuovo libero sarebbe arrivata alla fine di quest’ultimo processo d’appello d’appello.
Ormai l’ora era arrivata ed il suo nuovo legale lo stava aspettando in ufficio per un primo colloquio.

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Capitolo 4
*** Perdono ***


Devo essere sincera, avevo questo capitolo mezzo pronto in memoria da diverso tempo, l'ho riletto diverse volte e ho riletto tutta la fic e non sono più convinta in questa storia, tantomeno lo sviluppo centrale che avevo in mente (soprattutto quando ho scritto il cap  1) che avrebbe portato almeno un altro capitolone ed una superarringa finale, quindi al momento questo è l'ultimo capitolo che pubblicherò, anche se rimarrà aperta nel caso cambiassi idea in futuro...
 

Perdono

Nell’aprire la porta dello studio, la figura di una signora abbastanza alta, non piú giovane, piegata sulla scrivania ed i capelli grigi sul volto, si presentó di fronte a lui, quasi senza muoversi e senza parlare.

Solo dopo aver ascoltato i suoi passi, evitando ancora il suo sguardo, si alzó in piedi per pochi secondi e gli porse la mano, nel tentativo distratto di stringere la sua, tenendo gli occhi fissi sullo schermo del computer. Ancora pochi attimi prima che tutto, nel suo atteggiamento, cambiasse repentinamente. Non poteva notare ancora il suo volto nella sua interezza, ma qualche cosa agli angoli della bocca rese la sua espressione da indifferente, a interessata, a sbalordita ed infine terrorizzata. Cosí la donna serró le labbra, le coprí con la punta delle dita sbiancate, come testimone di qualche cosa di indescrivibile.

Nel corso degli anni che lo avevano allontanato dal concerto piú bello che potesse ricordare, Elwood aveva giá visto troppi sguardi scandalizzati dalla lunga fedina penale, niente di nuovo, ma qualche cosa in quella signora era terribilmente familiare, una coperta rosa tra le braccia della Pinguina, la ragazzina sul ciglio della finestra con un libro sulle ginocchia, la ragazza vestita a festa per il ballo della scuola. Era un giorno di fine estate, ma faceva ancora caldo.

Elwood allentó il nodo alla cravatta e rimase in silenzio, inspirando profondamente.

“Si sieda”- disse lei, il tono della voce, combaciò con la sua ultima espressione di sgomento.

Alzò lo sguardo, due occhi azzurri che si erano fatti beffe del tempo trascorso, rimanendo sempre gli stessi, e mostró una modernissima sedia ergonomica proprio di fronte a lui. Elwood non esitò ed adagió la schiena sul morbido velluto con un attimo di soddisfazione, l’ultimo, prima di ritornare sugli occhi sconvolti della donna.

Lei deglutí, mentre il suo volto si contrasse nel tentativo di assumere un’espressione seria, ma gradevole. Lui, per quanto cercasse di rimanere confidente, si meraviglió al punto da non riuscire a chiudere la bocca. I loro sguardi si incrociarono e i due si riconobbero dal profondo degli oltre tre decenni che li avevano separati.

Irene smise di respirare per un attimo, interdetta sul da farsi: avrebbe dovuto continuare, pretendendo di non conoscerlo, evitando la procedura sul conflitto d’interessi? Avrebbe dovuto tendergli le braccia, come se stesse parlando ad un amico che non vedeva da troppo tempo? Ricordó il loro ultimo ultimo bacio, il loro addio, il suo no di risposta ed il lungo sospiro che seguí lo sportello della Caddy chiudersi con un cigolio quasi doloroso.

In un primo momento fece finta di non riconoscerlo. Chiunque poteva vestirsi di nero e portare un paio di occhiali scuri.

“Ehm, signor Blues...”- disse lei, rileggendo i verbali.

Elwood non poté fare a meno di contrarre le labbra in una smorfia, lo aveva sempre chiamato Delaney, anche se lui aveva assicurato fin troppe volte che quello non era più il suo nome. Era la prima volta che lo chiamava cosí.

“Avvocato... Summer?”- domandó lui ricordando il suo cognome da nubile perfettamente.

“No, Villiers”- corresse lei senza guardarlo, aggiustando gli occhiali sul naso, per leggere meglio.

“Irene, Villiers?”- domandó lui richiudendo subito la bocca, fattasi improvvisamente arida.

Lei alzó lo sguardo ed indicó veloce la targhetta dorata di fronte a lui, come per evidenziare che chiunque avrebbe potuto leggerlo, poi lo riabbassó attenta sulle sue letture.

“I-Irene?”- mormoró lui, piú indeciso.

“Ci conosciamo?”- disse lei, evitando ancora una volta di incrociare direttamente il suo volto. Come se gli anni non fossero mai passati, lo ricordó, com’era a vent’anni. Amava osservare il suo sguardo attento su una rivista di motori, i suoi occhi di un blu profondo, seguire attentamente tutti i dettagli tecnici, numeri e specifiche, non fare quasi caso a lei o alla lieve carezza sulla guancia che gli aveva appena dato, riaggiustando gli occhiali ed affondare di nuovo tra le sue braccia, in silenzio, ascoltare stanca il ritmo regolare del suo cuore.

“Irene!”- ripeté lui, con voce piú alta, ma vagamente spezzata.

“N-nah...”- ribatté lei veloce, sperando per qualche strana ragione, che St.Helen non spuntasse mai tra i documenti dell’accusa.

Ed invece ritornó con gli occhi sullo schermo, la denuncia, le pratiche. Tutta la sezione riguardante il rapimento di minori era partita da una Madre Superiora in un istituto cattolico... Sorella Mary Stigmata: la Pinguina?! Irene deglutí sonoramente, lasciandosi travolgere da tutta un’altra serie di problematiche, mentre l’uomo dondoló sullo schienale per ritornare con le braccia sulla scrivania, quasi rimbalzando, ed abbozzó un sorriso goffo, inarcando le sopracciglia.

Irene si alzó all’improvviso dalla scrivania e si allontanó per qualche istante, senza scusarsi o senza lascarlo parlare.

“Direi che non posso fare molto per le accuse di furto aggravato, e, ehm, santi numi, sicuramente quei ventiquattro milioni di dollari saranno ormai quintuplicati, ma vorrei provare a sollevare le accuse sul rapimento di minore, oramai sarà sicuramente maggiorenne e potrà testimoniare per se stesso..."- calcolò a voce alta raggiungendo la porta dell'ufficio e chiudendola veloce dietro di se. Il mezzo sorriso di Elwood si incrinò fino a spegnersi, mentre i ricordi lasciarono spazio ad un silenzioso presente.

 

"Vieni con me."- vent'anni si vivono una volta sola, ma ad Elwood non importava troppo quello che pensavano gli altri.
"Dove sei stato?"- la voce cristallina di Irene si era fatta un po' più grave con gli anni. L
a donna, allora giovane aggiustó veloce il collo del vestito, senza rispondere.
"Vieni via con me, con noi, partiamo stanotte!"- ribatté lui con insistenza.

Irene cercó nervosamente le chiavi dell’auto che il signor Summer le aveva prestato ed aprí lo sportello, quasi non voleva ascoltarlo per il timore di cedere.

“Mi dispiace, non volevo fare tardi anche questa volta, c’é stata la consegna dei diplomi e Jake...”- Elwood, frugó qualche secondo nelle tasche della giacca, nel tentativo di trovare qualche cosa di andato perduto nella breve corsa. A quel gesto, la ragazza si spazientí e voltó lo sguardo per qualche secondo.

“E dove? In un’altra delle tue trovate? O in una di quelle di Jake?”- quelle scuse vane la irritarono piú di quanto non lo fece la sua assenza di un anno.

“No, questa volta partiamo sul serio, abbiamo trovato un sacco di musicisti, abbiamo una banda seria... Potresti venire con noi e io... Ecco...”- Elwood arrossí, ma le parole mancarono. Neanche l’oggetto che stava cercando rinvenne dalle sue ricerche.

"Io non vengo da nessuna parte con te! Mi hai lasciato qui, te ne sei andato via! Tieni questa è la foto di noi due insieme al ballo!"

La ragazza gli scaraventò una foto di lei sola, vestita a festa davanti ad una tenda azzurra.

“Facciamo una bella coppia, non ti pare?”- aggiunse con ironia.

Elwood scosse la testa.

“Non farlo per me...”- la sua voce si soffocó: la musica era tutto quello che era rimasto, tutto quello che avevano.

Irene pianse in silenzio. I suoi occhi sbarrati e colmi di lacrime lo fissarono. La sua testa si inclinó in uno sguardo che gli ricordó come, anni prima, aveva scrutato la fierezza dei due giovani Ravens presentarsi al cortile di St.Helen, in cappello e occhiali da sole. Senza pensarci, Elwood tentò di prenderle le spalle, ma lei si ritrasse quasi subito.

“No. Addio. Ovunque tu voglia andare, io non ci sarò”.

***

“Asbestos...”- Elwood sbottò una breve risata, mentre il capo si chinò dalla stanchezza, il suo respiro si fece profondo, addormentandosi. Lou mosse lo sguardo su di lui per qualche secondo ed alzò le spalle con indifferenza, per poi allungare le gambe sulla parte del divanetto rimasta libera. Era di nuovo nella band, tutto come ai vecchi tempi o quasi, mancava ancora qualcuno.

Anche Jake si sarebbe disteso di lì a poco, ma prima di addormentarsi allungó le mani sulla bottiglietta di cocacola, due sorsi per ritornare in sesto ed esprimere due frasi di senso compiuto.  Aprí la finestrella della guardiola ed osservó le mura grezze di un edificio che, insieme agli altri, avrebbe fatto parte del nuovo quartiere popolare. Case e cemento avrebbero sostituito la periferia un tempo fatta solo di industrie dismesse, ma in quel momento di grazia era ancora il deserto apparente degli scavi delle fondamenta ed il fango della terra fresca mista alla pioggia sul cantiere: molto probabilmente a lavori finiti sarebbero arrivati gli yuppies, ma senza la loro presenza, il mondo sembrava non cambiare. Sopra di lui il cielo stellato, pensó a Curtis, non si possono avere incertezze e ripensamenti quando ormai tutto é stato deciso, quando il motore é partito e non c’é modo di frenare. Avrebbero affondato il Bismark, fosse l’ultima cosa che avessero mai fatto.

Continuó a bere dalla bottiglia, nel fitto di quei pensieri troppo pesanti da sopportare da solo, quando lo sguardo si fermó su quel dannato tatuaggio, una croce latina che il suo compagno di cella gli aveva inciso parecchi anni prima. Un’idea stupida, quanto stupido era stato difenderla

“Mi dispiace”- disse a voce alta - “forse un giorno ci perdonerai...”

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