Behind these hazel eyes

di Greta Farnese
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Shame ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


LUCREZIA
Il riccolo ribelle sfuggì di nuovo dal velo nero dove mia madre l'aveva confinato, scivolandomi sulla fronte. Sospirai e decisi di lasciarlo fuori. Il velo e l'abito, anch'esso nero, risaltavano la mia pelle candida. Il nero: il colore del lutto, l'unico colore possibile per un funerale. Perché era ad una commemorazione funebre che mi stavo dirigendo, per ascoltare i canti che avrebbero accompagnato Pedro Luis, il mio cugino maggiore defunto pochi giorni prima, nel luogo dove la sua anima avrebbe riposato in eterno.
Non avevo mai incontrato Pedro Luis. D'altronde, quei miei primi tredici anni di vita li avevo trascorsi praticamente in casa di mia madre, senza mai avventurarmi fuori Roma, che non conoscevo nemmeno nella sua interezza. Pedro era figlio di mio zio, Rodrigo Borgia, Cancelliere di Santa Madre Chiesa, e di una cortigiana spagnola, e risiedeva in Spagna. Era compito dello zio spendere lacrime per quel lutto, e di mio fratello Juan, che aveva trascorso buona parte degli ultimi due anni con lui nella battaglia contro i Turchi. Il mio altro fratello, Cesare, l'aveva incontrato una sola volta, da bambini. Sospettavo che lui, a differenza mia, non avrebbe mormorato o formulato nemmeno una preghiera, per l'anima del giovane, tanto indifferente di fronte alla morte degli estranei quanto preoccupato per la sorte della sua famiglia.
In quel momento, udii due colpi alla porta, che si spalancò subito senza aspettare la mia conferma. Juan si considerava il padrone di tutto e tutti, per lui persino un semplice bussare era troppo. Credeva di essere sempre il benvenuto ovunque, e se non fosse stato così, beh, non gli sarebbe importato, e sarebbe entrato ugualmente.
- Cesare è arrivato. Scendi - mi intimò, sparendo l'attimo successivo. Non si poteva certo dire che il rapporto tra Juan e me fosse molto speciale. Ero invece felice che Cesare fosse tornato; anche se in occasione di un funerale.
Lanciai un'ultima occhiata alla mia immagine riflessa (non mi vedevo molto cambiata, sebbene il menarca mi avesse sorpresa solo due giorni prima, sancendo la mia trasformazione in donna vera e propria), e scesi le scale. Cesare era sotto la scalinata di legno, in un semplice completo nero, il colore che preferiva. Il volto era sbarbato e i capelli erano forse un po' più lunghi di quando l'avevo visto l'ultima volta, un anno e mezzo prima.
Presi una rincorsa e mi lanciai tra le sue braccia aperte. Profumava di corteccia, e di libri. Immaginai che aprisse molti libri all'università di Pisa. - Che bello vederti - mormorai, gli occhi chiusi, al suo collo.
MI scostò quel tanto che bastava per guardarmi in viso. - Sei cresciuta - disse, sfiorandomi uno zigomo con il pollice.
"Non sai quanto", avrei voluto dirgli, ma mi limitai a sorridere e ad abbracciarlo di nuovo.
- A proposito, - disse mio fratello dopo qualche istante, staccandosi da me e afferrandomi la mano, - ho portato un amico con me, che forse ricordi bene.
Effettivamente dietro Cesare c'era un giovane all'incirca della sua età. Anche lui portava le brache nere, ma sul petto aveva una camicia bianca. Aveva i capelli neri e gli occhi sulla variante del nocciola, che sembravano buoni, scrutatori e attenti.
Riconobbi subito anche lui. - Alessandro, che bello, non sapevo che saremmo stati onorati! - esclamai, quindi abbracciai anche lui, con l'entusiasmo e la spontaneità che solo la giovinezza sa dare.

ALESSANDRO
Me la ritrovai con le sue braccia attorno al mio collo, il suo respiro nelle orecchie, il suo mento sulla mia spalla, prima che potessi pensare qualunque cosa. Cercai di impormi di ricambiare l'abbraccio e di uscire dallo stato di trance che era entrato in me quando i miei  occhi avevano incontrato i suoi.
Conoscevo già Lucrezia, la sorella del mio migliore amico Cesare. L'avevo già vista due volte, la seconda della quale un anno e mezzo prima. Era cambiata parecchio in quel breve lasso di tempo. I capelli erano più lunghi, di un rosso caldo che alcuni momenti sembrava biondo. Gli occhi erano più luminosi, era più alta e slanciata, aggraziata ma decisa. Mi sembrava impossibile riconoscere in lei la ragazzina con la quale io e Cesare avevamo giocato a palla e a nascondino.
L'abbraccio fu breve, anche troppo, per i miei gusti. A quel punto però pensai che dovessi dire qualcosa di intelligente, così parlai, anche se non dissi nessuna delle frasi brillanti che stupivano tanto il professore di filosofia: - Ho pensato che la famiglia avesse bisogno di quanto più conforto possibile. Condoglianze, comunque.
Mi morsi la lingua subito dopo che la "e" di "comunque" uscì dalle mie labbra, ma Lucrezia alzò le spalle come se stessimo andando in campagna, non ad un funerale. Come era stato per Cesare, evidentemente anche per lei la scomparsa di Pedro Luis non significava molto. Dopotutto, non l'aveva mai incontrato prima. Juan forse avrebbe anche potuto fare lo sforzo di sembrare dispiaciuto, invece se ne stava lì, appoggiato alla colonna, come se a morire fosse stato il figlio del panettiere e non il giovane che era stato al suo fianco per gli ultimi due anni.
La voce di Vannozza dei Cattanei mi riscosse dai miei pensieri. - Forse è il caso che vi avviate - osservò. Lei non sarebbe stata presente al rito funebre. Dopotutto, cos'era Pedro Luis per lei? Nulla, assolutamente nulla. E anche se l'avesse conosciuto, anche se fosse stata legata a lui o gli avesse voluto bene, non avrebbe fatto differenza. Sarebbe rimasta a casa comunque, esclusa come sempre da tutte le celebrazioni, liete o nefaste che fossero, che riguardavano la famiglia Borgia. Mi domandai cosa ne pensasse Lucrezia, e subito dopo perché avessi pensato a lei.
Notai che mi stava guardando di sottecchi (senza dubbio perché mi reputava più intelligente di così). Stavo riflettendo sul se fosse meglio parlare, sorriderle o muovermi, quando Juan abbaiò: - Muovetevi, o faremo tardi!
Uscimmo così dalla casa. Juan marciava in testa, noi arrancavamo dietro di lui. 
- Quando dovrete ritornare a Pisa? - sentii che Lucrezia chiedeva. "Dovrete", aveva detto "dovrete". Si era riferita anche a me. Cesare anticipò la mia risposta. - Se fosse per me, non ci tornerei mai - sbuffò, dando un calcio ad una pietra che colpì un'anatra che razzolava nella piazza, che si afflosciò a terra.
Le imprecazioni del proprietario seguirono i nostri passi. - Francamente, Roma getta su di te uno strano incantesimo - risi. Lucrezia abbozzò un sorriso.

LUCREZIA
Ero davvero contenta di rivedere anche Alessandro. Io, lui e Cesare ci trovavamo bene assieme, da piccoli. Speravo che il rapporto non si fosse rotto, adesso che eravamo cresciuti (io più di tutti), ma non capivo per quale motivo avesse reagito così quando mi aveva vista. Pareva... Imbarazzato. Forse avrebbe voluto mandarmi delle lettere, ma se n'era scordato? Era possibile, ma non era solo quello. Sembrava distante, con me in particolare. Però forse era solo una sensazione, dopotutto era appena arrivato. Decisi però di sondare il terreno, e rivolsi la parola a lui in persona.
- Ti fermi a cena con noi, vero? 
Non era proprio quello che avevo pensato di chiedergli, ma le parole mi erano uscite di bocca da sole. Lui quasi incespicò in un sassolino.
- Naturalmente, -mormorò. 
Non riuscii a strappargli di più perché eravamo arrivati sul sagrato della Chiesa. Lo guardai mentre entravamo, finché i suoi occhi nocciola incontrarono i miei. Mi sorrise. Debolmente, ricambiai.

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Capitolo 2
*** Shame ***


ALESSANDRO
La cena di quella sera fu la più brutta della mia vita.
Riuniti attorno al tavolo rotondo dell'umile cucina di Vannozza c'eravamo, oltre alla padrona di casa, solo io, Cesare e Lucrezia. Le pietanze erano numerose e tutte gustose, e il vino scorreva a fiotti, ma l'atmosfera era cupa e imabarazzata, tanto che in più di un momento avevo desiderato che Juan tornasse dal bordello o che Goffredo o persino il piccolo Ottaviano venissero in cucina, magari per reclamare qualcosa da mangiare.
Cesare era di umore assai cupo, parlava poco e quando lo faceva cacciava di bocca le sue frasi deprimenti; sapevo per esperienza che era meglio lasciarlo in pace quando si sentiva così. Intanto lui se la stava prendendo con la carne, mangiandola senza posate e strappando bocconi coi denti con la stessa foga di un leone affamato da settimane.
Io non potevo certo dire di apparire meglio, anzi. Tutta la mia eloquenza sembrava svanita, e tutto ciò che ero in grado di fare si riduceva al rimanere ora in silenzio, di tanto in tanto facendo qualche complimento a Vannozza per la cucina. Mi sentivo la mente come annebbiata, e non era certo colpa del vino. Lucrezia era silenziosa, e ogni tanto mi sentivo i suoi occhi puntati addosso, che non cercavo mai di incrociare. Per qualche strana ragione, sospettavo che fosse proprio la sua presenza la causa della mia inquietudine.
Perciò alla fine fu la povera Vannozza a sforzarsi di fare conversazione, sebbene fosse piuttosto difficile, con tre adolescenti muti e imbronciati che mangiavano quasi senza commentare. Quando finimmo l'ultima portata della cena, ovverossia una fetta di crostata ai lamponi, temevo che quell'atmosfera imbarazzante sarebbe proseguita, magari durante il gioco a carte del dopocena, ma proprio in quel momento con tempismo perfetto sopraggiunse Juan, che invitò me e Cesare a fare un giro fuori con lui e ad andare a bere qualcosa. 
Inutile dire che accolsi la proposta con molta gioia; in quel momento non c'era niente che desiderassi di più che lasciare quella cucina.

LUCREZIA
Nonostante la cena fosse stata probabilmente una delle cose più imbarazzanti che avessi dovuto affrontare durante quella prima parte di vita, fui dispiaciuta quando Juan sopraggiunse. Non riuscii a comprendere appieno il perché; avrei dovuto essere felice che quella tortura forsse terminata. 
Per timore di essere osservata, iniziai a portare i piatti dal tavolo al lavabo, e intanto sentii mia madre dire a Juan di non far fare troppo tardi ai due più piccoli e di riportarli direttamente alla Cancelleria. Alla Cancelleria veramente ci sarei dovuta tornare anch'io, per la notte, sebbene quella prospettiva non mi facesse fare propriamente i salti di gioia.
- Lucrezia, saluta - sentii intimarmi mia madre.
Mi voltai e stampai due baci sulle guance di Cesare. - Sorridi, che non è morto nessuno - gli sussurrai, poi mi resi conto che effettivamente qualcuno era morto, e quel qualcuno rispondeva al nome di Pedro Luis. Mi morsi il labbro, ma lui non parve farci caso, né a quel gesto né alle mie parole.
Si limitò ad annuire, poi si infilò il cappuccio nero sul capo. A quel punto avrei dovuto salutare Alessandro; e mi sentii di colpo imbarazzata. Sospettavo fosse lui la causa del mio imbarazzo generale, durante quella cena, dopotutto, al silenzio ombroso di Cesare ero più che abituata.
Ero molto indecisa sul come salutarlo, poi, per una volta, decisi di lasciare a lui l'onere. Dopotutto, io mi ero già sbilanciata quella mattina abbracciandolo. Ma sbilanciata per cosa, mi chiesi? Alessandro era un amico di famiglia, che conoscevo dall'infanzia, tutto qui.
- Buonanotte, Lucrezia - mi disse, poi mi baciò sulla guancia. 
- Spero che la cena sia stata di tuo gradimento - gli urlai dietro.
- Per "cena" intendi il pasto o la compagnia? - mi domandò mentre si infilava a sua volta il cappuccio. Per fortuna Juan abbaiò loro di muoversi; non avrei trovato il coraggio di rispondergli, timorosa com'ero che la compagnia gli fosse dispiaciuta, e come dargli torto? Quella cena era stata un mortorio.
Mentre la porta si chiudeva, mi preparai per tornare alla Cancelleria. Il marito di mia madre, Carlo Canale, mi avrebbe dato uno strappo con la sua malridotta carrozza fino al palazzo.

ALESSANDRO
Quella sera fu ricordata in seguito in tutta Roma, o perlomeno, in tutte le sue taverne. Quella fu la sera in cui Cesare Borgia tagliò letteralmente il terzo dito della mano di Marcantonio, rampollo della casa dei Colonna, nemici giurati dei Borgia.
Non chiedetemi come avvenne. Io ero lì fisicamente, ma non lentamente. Volevo solo tornare alla Cancelleria. La coscienza dentro me mi rimordeva; avrei dovuto preoccuparmi di quello che stava succedendo. Il taglio del dito avrebbe avuto conseguenze politiche anche gravi, poteva forse persino compromettere qualcosa, e io pensavo ad andarmene.
Se non altro, il gesto di Cesare ci diede l'impulso di andarcene. Insieme a noi, oltre a Juan, c'era anche Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e compagno di università mio e di Cesare, appena fatto cardinale. Non riuscii a capire l'utilità della sua presenza. Non avevo voglia di chiacchierare, e nemmeno di bere, stranamente, volevo solo farmi un bagno e riprendere in mano i miei libri di diritto. La notte era uno dei momenti migliori per leggere e studiare. Purtroppo, sospettavo che ci avrebbe attesi una sonora lavata di capo del vicecancelliere.
La lavata di capo ci fu, in effetti, ma non fu tanto terribile quanto l'avevo prospettata. Il cardinale ci limitò a ripeterci cose che già sapevamo, vale a dire che questo era un periodo di grande importanza per noi, per Roma, e per il mondo, che dovevamo essere pronti e tenere con noi le armi "anche quando andavamo a messa". Forse la ramanzina se la sarebbe beccata Cesare il mattino seguente.
Io non augurai la buonanotte a nessuno, filai nella camera che mi era stata assegnata, mi feci ill bagno e dopodiché mi addormentai sui miei amati testi di diritto.

LUCREZIA
Il mattino seguente iniziò già male.
Mi ero raffreddata, la gola mi bruciava e il naso era chiuso. Nulla di grave, per fortuna, era una semplice infreddatura che mi era già venuta altre volte. A colazione, lo comunicai alla domestica che mi diede una tisana al miele. Dovetti sorbirmi il "discorsetto" di Giulia Farnese, la concubina di mio zio, sul fatto che ero una sgradevole, stupida ragazzina che non aveva nemmeno la testa per mettersi uno scialle intorno alle spalle quando uscivo la sera. In pratica, mi ero meritata il raffreddore.
Mi consolai pensando che probabilmente anche Cesare si stava sorbendo un discorsetto, da nostro zio, e riflettei che era molto peggio essere rimproverati dall'unico parente che ci era rimasto che da una concubina la cui volgarità sprizzava da tutti i pori.
- Mio fratello è già sveglio? - chiese poi ad Adriana, la cugina di nostro zio, che era la mia tutrice ufficiale. Aveva cresciuto tutti noi Borgia, e io non la sopportavo. Era falsa e cinica, mi detestava e spesso era in combutta con Giulia contro di me, naturalmente. Quasi non vedevo l'ora di sposarmi, così non l'avrei rivista mai più.
- Fratello? - chiesi a Giulia, dimenticando il mio consueto proposito di non rivolgerle mai la parola, mentre intingevo il biscotto d'avena nel latte di mucca.
- Sei davvero una stupida - ripeté lei. - Come se non lo sapessi, che mio fratello è il migliore amico del tuo.
Quasi il biscotto mi andò di traverso. Alessandro era il fratello di Giulia, ma certo! Era buffo, ma non ci avevo mai pensato. Questo mi demoralizzò parecchio. Lei non mi sopportava, e... E cosa? Certo che mi frullavano strani pensieri nella mente, ultimamente. Alessandro era un mio amico, tutto qui. E Giulia non era la sua tutrice.
Intanto le risposi come al solito a tono: - Come è possibile che tuo fratello sia così dolce e affettuoso e tu sia una simile arpia?
- Suppongo che sia perché lei è quella che ha trascorso più tempo con nostra madre - disse una voce ben nota alle mie spalle.
Sarei voluta sprofondare. Avrei desiderato che la terra aprisse una voragine e mi inghiottisse. Certo che ero proprio fortunata, ultimamente. Insomma, quante possibilità c'erano che tra tutti quelli che abitavano e lavoravano alla Cancelleria sarebbe entrato proprio Alessandro Farnese, e proprio nell'istante in cui facevo un complimento a lui denigrando la sorella?

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


ALESSANDRO
Notai che Lucrezia era rimasta spaventata dalla mia entrata improvvisa, e ancor di più dallo scoprire che avevo sentito la sua ultima frase. Potrete ora pensare che stessi origliando, ma sareste in torto. Non avrei avuto motivi per farlo, ma scendendo le scale ed entrando, avevo sentito l'ultima parte della conversazione.
A dire il vero la battuta che avevo fatto esordendo non me la sarei aspettata nemmeno io. Io e Giulia eravamo molto legati, e in genere la difendevo da qualsiasi offesa o insulto, seppur minimale. Ma quella volta scattò in me qualcosa, come se sentissi che in quel momento era Lucrezia ad aver ragione e mia sorella torto. Sapevo che questa uscita non mi sarebbe stata perdonata da Giulia con facilità, ma in quel momento il mio cuore aveva vinto sulla mia testa.
Oh, ma cosa stavo dicendo? Cuore? Lucrezia era la sorella del mio migliore amico, mi ripetei per la millesima volta in nemmeno due giorni. Solo la sorella del mio migliore amico.
- Non avrei voluto spaventarvi - trovai la forza per continuare. Giulia mi stava già guardando storto, così come Adriana da Mila, la terribile cugina del cardinale Borgia. Le guance di Lucrezia, invece, erano diventate dello stesso colore dei suoi capelli e non riusciva a dissimulare il suo profondo imbarazzo.
- Mi dispiace, io... Non volevo, è solo che... - balbettò.
- Non è nulla, so per esperienza personale che mia sorella molte volte è davvero insopportabile - cercai di calmarla prendendo un bicchiere e servendomi del caffè senza nemmeno sedersi. Ciò mi sorprese nuovamente, poi ricordai che Lucrezia, prima di "insultare" Giulia, aveva prima detto che io ero amabile... 
Questo pensiero mi imbaldanzì. - Grazie per il complimento, comunque - sorrisi poi, accostando le labbra alla tazzina di caffè.
Mi dispiacque constatare di aver solo aumentato il suo imbarazzo con quest'ultima affermazione.
- Posso garantirti, Lucrezia, che mio fratello non sa nemmeno cosa sia l'amabilità - intervenne Giulia. Mi stava rendendo pan per focaccia, si capiva alquanto bene. - Per certi versi siamo più simili di quanto possa apparire.
- Detesto contraddirti, ma dissento, cara sorella - la fermai con un sorriso glaciale, sebbene sapessi che un po' me lo meritavo.
Speravo di aver dissimulato l'imbarazzo di Lucrezia, e in effetti le sue guance erano meno rosse, sebbene ora rivolgesse tutta la sua attenzione alla fetta di torta che aveva davanti.
Adriana mi rimbeccò, interrompendo il flusso di pensieri. - Giovanotto, se volete restare a conversare con noi signore e a fare colazione dovete sedervi. Non sta bene che ve ne stiate lì in piedi guardandoci dall'alto in basso.
Prima che potessi rispondere, Lucrezia posò sulla tavola il tovagliolo che aveva in grembo e si alzò. - Perdonatemi, cugina, ma l'aria viziata non fa che aumentare il mio mal di testa. Mi ritiro nelle mie stanze.
Da degna Borgia, si allontanò senza nemmeno aspettare la sua risposta.
- Non resto, cugina Adriana, grazie ugualmente. Ho... Ecco, devo assolutamente... Rivedere un testo per l'università.
Avevo improvvisato totalmente, e come Lucrezia, uscì dalla stanza senza salutare né lei, né mia sorella.

LUCREZIA
Uscii dalla sala più imbarazzata che mai. Avevo solo voglia di riaddormentarmi e di dimenticare la figuraccia che avevo fatto con Alessandro. Appena mi richiusi la porta alle spalle, mi allontanai velocemente, ma essa si raprì e richiuse poco dopo. Sperando che fosse un semplice servitore che entrava o usciva, non mi voltai e continuai a incamminarmi verso le scale.
- Lucrezia! Aspetta! 
Alessandro. La voce di Alessandro. Non mi sarei voluta voltare, ma era come una calamita, e mi girai quasi avidamente, avida di raggiungere quella voce, di risentirla nuovamente. Me lo trovai di fronte, e come al solito, non mi venne nulla di brillante da dire.
- Volevo scusami per averti messa in imbarazzo - proseguì.
Com'era dolce e carino! Si scusava lui con me, quando sarebbe dovuto essere il contrario. Decisa ad essere me stessa, gli risposi proprio con queste parole: - Dovrebbe essere il contrario, Alessandro. Sono io ad essere dispiaciuta, per tutto, e se potessi tornare indietro, lo farei senza esitare.
Sorrise furbescamente. - E perché? Non parlavi male di me, in ogni caso.
Chinai il capo, probabilmente per nascondergli il rossore che rischiava di nuovo di colorarmi le guance.
- Allora... - mormorai, decisa ad andarmene.
- Hai detto che l'aria viziata aumenta il tuo mal di testa, cos'hai? - mi interruppe Alessandro, poggiandomi una mano sul braccio. 
Mi sono chiesta spesso in seguito se non fosse stato quel tocco a far cambiare tutto. Non mi ero resa conto fino a quel momento di quanto la mia pelle urlasse per ottenere un contatto con lui. Un semplice, insignifcante gesto mi aveva già messa ko. Il giovane, affascinante Farnese era davvero solo un amico, per me?
- Nulla di grave - bisbigliai, sebbene non volessi farlo. - Mi sono solo svegliata con una lieve infreddatura.
Sorrise, allora, togliendo la mano dal mio braccio. Il suo sorriso mi piacque, il fatto che avesse tolto la mano invece no. - Non c'è nulla di meglio in questi casi di una passeggiata, fidati, lo so per esperienza personale. Permettimi di accompagnarti.
Un'eccitazione iniziò a salirmi nel petto. - Con molto piacere - riuscì a rispondere, sebbene avrei voluto mostrare il mio assenso con un abbraccio o un bacio sulla guancia.

ALESSANDRO
Avevamo tempo, tempo davanti a noi. Tempo per stare soli, io, lei e nessun altro. Mentre uscivamo dalla porta sul retro, mi ripromisi di comportarmi come sempre e di non cadere nello stato semi-balbuziente del giorno precedente.
- Raccontami di te, Alessandro - fu lei ad iniziare la conversazione, a mia sorpresa. - Cos'hai fatto in quest'anno?
- Ho frequentato l'università e... - feci una pausa, di certo non potevo proseguire con ciò che avevo intenzione di dire.
- E...? - mi incoraggiò.
Stavolta arrossii io. - Non credo proprio vorreste sentirlo.
Parve intristirsi. - E' una cosa tanto brutta?
- Troppo - risposi abbassando la testa. Ma cosa mi era venuto in mente? Già partivo male.
- Se non me la dici, torno dentro! - si inalberò allora Lucrezia, fermandosi e incrociando le braccia al petto.
Cesare mi aveva detto di quanto sua sorella fosse brava a lasciar parlare la gente, ma non immaginavo che fosse a questi livelli. Pareva davvero interessata a ciò che dovevi dire, come se non fosse animata da semplice curiosità, ma come se la sua vita dipendesse dal sapere quel piccolo segreto. E tu ti trovavi a cedere, pur di non vederla dispiacersi.
- Ahhh! - mugugnai apposta, per farla ridere, e ottenni l'effetto sperato. - E va bene - dissi poi. - Ma ti avverto che tutta la buona opinione che sembri avere di me crollerà.
Avvicinai le labbra al suo orecchio e parve irrigidirsi. Scacciai il pensiero e proseguii. - Ho frequentato l'università e... Qualche bordello di troppo - ammisi.
Scoppiò in una sonora risata. - Tutto qui?

LUCREZIA
Mi ero immaginata qualcosa di molto peggio. Forse si era dimenticato che stava parlando con una Borgia, una che aveva uno zio cardinale ben provvisto di amante, una madre che i bordelli li gestiva, un fratello maggiore che aveva fatto dei postriboli la sua seconda casa e uno minore che aveva messo incinta una prostituta di Pisa.
Continuai a ridere guardando l'espressione stupita di Alessandro. - So molto di bordelli, sebbene di esperienze non ne abbia alcuna.
Parve sollevarsi. - Ci sarebbe mancato altro! 
A quel punto lo guardai. - Ma sono promessa in sposa a un certo don Gaspare da Procida! Un damerino che non è affatto adatto a me, o alla mia illustre famiglia.
- A te forse no, ma alla tua famiglia sì. Deve aver offerto a tuo zio qualcosa di grosso, o non l'avrebbe tenuto in considerazione nemmeno per lustrarti le scarpe, Lucrezia - mi disse.
Le sue parole suonarono nuove al mio orecchio. - Cosa intendi?
- Non lo sai? - mi chiese, sinceramente stupito.
- Dipende da cosa credi che tu non sappia.
Mi piaceva il nostro modo di conversare, e mi piaceva di potermi aprire con lui. Mi piaceva davvero tanto.
- I matrimoni sono quasi sempre un fatto politico. E' come una specie di... - si interruppe, forse per trovare la parola giusta. - Accordo, tra i due capi-famiglia. Lo sposo riceve non solo una moglie ma una dote, cospicua se la famiglia di provenienza è fiorente. La parte della sposa, invece, riceve quasi sempre un tornaconto maggiore. Nella maggior parte dei casi un'alleanza, oppure un feudo, cavalieri, o anche titoli, nomine. In un contratto nuziale vengono poste molte condizioni. Ora, più le casate sono nobili e importanti, più esse sono elevate. Per tuo zio tu sei un'arma. Sei più importante di Cesare, Giovanni e Goffredo messi insieme. E lo sai perché? Perché se si gioca bene le carte, da un tuo matrimonio potrà ottenere in una volta sola un'alleanza, un appoggio incodizionato per ottenere il papato o qualche altro mezzo. Non ti avrebbe mai promessa a qualcuno che non soddisfi le esigenze della tua famiglia, di questo puoi star certa. Può non piacere a te, ma a lui deve, e molto, anche.
Alessandro era la prima persona a spiegarmi il mio ruolo. Un ruolo da pedina, che avrei ricoperto per tutta la vita. - Grazie, Alessandro - trovai la forza di mormorare.
Non potè rispondermi nulla, perché sopraggiunse Cesare.
- Il Papa, prostrato dalla febbre, affronta le sue ultime ore di vita! - ci informò gridando. - Lo zio ha predisposto indicazioni precise. Lucrezia, vai nella tua stanza, dove ti aspettano Adriana e Giulia. Fai tutto ciò che nostra cugina ti dirà. Alessandro, tu e io dobbiamo occuparci di una faccenda di protezione. 
Era quello, era quello, ne sono sicura, l'istante in cui il corso della mia vita mutò completamente.

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