Eventide ~ I Figli del Caos

di Cygnus_X1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: La caduta ***
Capitolo 2: *** L'apprendista ***
Capitolo 3: *** Buio ***
Capitolo 4: *** Preoccupazioni ***
Capitolo 5: *** Rabbia ***
Capitolo 6: *** Cambiamenti improvvisi ***



Capitolo 1
*** Prologo: La caduta ***


 
***†  Eventide   ***


I Figli del Caos






 


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Prologo

La caduta



 

I



suoi occhi erano lì, di fronte a lei, sconvolti e impossibili da ignorare.
Era il suo incubo. L’immagine che si incideva sempre più definita ogni volta, da quando ricordava. Quegli occhi, quel viso, quell’opprimente senso di colpa.
Solo ora se ne rendeva davvero conto, nonostante gli anni che aveva passato al suo fianco. Solo in quel momento, finalmente, ogni tessera andava al proprio posto.
«Perché?» le chiese. Era sfinito, solo una parola uscì dalle sue labbra, solo una delle innumerevoli che sicuramente si affastellavano nella sua mente – lo conosceva bene, ormai.
Ma bastò quell’unica parola.
«Qualcuno deve farlo, lo sappiamo da sempre» rispose. Quasi non si riconobbe, tanto era gelida la sua voce. Ironico, pensò. Anni fa, all’inizio di tutto, era normale per lei comportarsi così freddamente. E ora, di fronte alla fine, il cerchio sembrava chiudersi.
«Qualcuno non significa tu!» rispose lui. Gli occhi si erano fatti lucidi.
«E invece sono io. Sono sempre stata io, ogni volta. È stato così per Karla e per Atlas, e sarà così per me.» La sua stessa voce la tradì e si spezzò sull’ultima parola. Si sentiva come se davanti a lei ci fosse un abisso, e lei si stesse sporgendo giù.
Lei che mai aveva distolto lo sguardo scoprì insostenibile la vista del ragazzo che amava.
 


 
******
 


Qualcosa da qualche parte esplose.
Il contraccolpo la sbalzò in avanti, fu solo per un caso fortuito che non batté la testa contro la cloche.
Una luce rossa cominciò a lampeggiare rapidamente, mentre una sirena d’allarme risuonava fin troppo alta nell’abitacolo. Un forte odore di fumo penetrò all'interno della cabina e ammorbò l'aria già rarefatta, rendendola opaca e grigia in breve tempo.
La spia del motore destro baluginava frenetica. L’avevano colpita all’ala destra, non sarebbe rimasta in volo ancora per molto.
Tossì e tirò la cloche verso di sé, tentando di risollevarsi. I suoi occhi arrossati dal fumo saettavano da uno strumento all’altro. Venti chilometri per arrivare al tempio. Cinquecento metri di altitudine, in diminuzione rapida.
Troppo.
Non ce l’avrebbe fatta.
Si alzò dalla postazione del pilota e non poté impedire ai suoi occhi un’occhiata alla sua destra, al sedile del copilota, desolatamente vuoto.
Con forza strattonò la maniglia di ottone che sigillava la porta alla sua sinistra. Era bloccata, ma era l’unica via d’uscita dall’aeronave rimasta praticabile; non le era difficile immaginare la situazione in cui versava l’uscita principale, nel retro della cabina.
Nello spazio ristretto il fumo nerastro aveva formato una cappa. Stava trattenendo il respiro, ma ormai i polmoni bruciavano, gridando un frenetico bisogno di aria. La violenza con cui litigava contro la maniglia si fece disperata, gli occhi annebbiati di lacrime, irritati dal fumo acre.
Stava per schiantarsi.


 
******
 
 

Oro e cremisi. 
Ecco come appariva la Capitale ai suoi occhi esausti e arrossati, che si sporgevano, forse fin troppo incauti, da dietro le scarlatte tende semitrasparenti, fragili cortine che separavano lei dal mondo. Perché diamine stesse perdendo preziosi secondi là, a osservare pericolosamente lo scenario di distruzione che si spargeva oltre la sua finestra, quando da un momento all’altro poteva essere uccisa - e con lei la speranza di una rinascita - proprio non lo sapeva. 
Forse vedere spezzato il suo sogno, lo scopo della sua intera vita la aiutava a realizzare, ad accettare ciò che avrebbe dovuto fare ora. 
Il rombo lacerante di un caccia perforò la notte, la luce delle fiamme che lo avvolgevano ne squarciò il buio già violato; il propulsore singhiozzava lampi blu, le ali affusolate e divorate. Il velivolo spiraleggiò spento e annerito, precipitò poco lontano dalla sua vetrata. L’esplosione fece tremare i vetri; si unì al caos di mille altre esplosioni, si confuse in esse. La vibrazione si trasmise dalla finestra alla sua fronte, un’altra volta, l’ennesima. 
Le probabilità che un caccia nemico riuscisse ad oltrepassare la barriera di interferenza che circondava il palazzo in cui si trovava erano pressoché inesistenti; d’altro canto, le avevano detto che era altrettanto esigua la possibilità di un attacco alla Capitale, eppure di fronte a lei le fiamme voraci si espandevano sui grattacieli e tra le strade, fameliche e inarrestabili. Consumavano quel che restava delle sue speranze, lasciando dietro di loro solamente cenere. 


 
******
 

 

Si lanciò dalla nave dieci secondi prima che questa si schiantasse a terra. Avrebbe tanto voluto essere una maga del Vento e poter volare. Ma non lo era, e doveva accontentarsi di un paio di ali metalliche, pesanti, raggrinzite e costellate di ruggine, la cui imbragatura di cuoio rigido la stringeva sulle costole impedendole di respirare regolarmente.
L’aria di tempesta le strappava dal volto lacrime di rabbia. Se solo fosse stata più attenta. L’aveva sentito, l’aveva sognato, ma non era stata capace di ricostruire gli indizi. Non aveva voluto vedere quello che in realtà era davanti ai suoi occhi. Non aveva avuto la forza di accettarlo, non era riuscita a crederci.
E questo suo errore rischiava di rovinare tutto.
Solo per la sua dannata ostinazione a voler vedere sempre il buono nelle persone.
Quanto era stata stupida.
Si sforzò di avvertire sotto l’abito, a contatto con la pelle accaldata, il medaglione, la loro unica speranza. Poteva farcela ancora. Almeno lei poteva salvarsi. Certo, ormai gli altri erano morti a causa sua, ma se lei e il pendente si fossero salvati, tutto avrebbe potuto sistemarsi.
Sua figlia era al sicuro.
Eidart era al sicuro.
Loro tre e il medaglione avrebbero potuto sistemare le cose.
Planava sulla foresta, cercando di non farsi sballottare dal vento impetuoso che scuoteva le cime degli alberi con selvagge raffiche. La stanchezza però la tradì, le braccia non seppero mantenere aperte le ali meccaniche e cedettero poco distante dal suo obiettivo.
Cadde malamente con un’imprecazione smozzicata e sentì una forte fitta a una caviglia. Finì a terra con un fianco, ma subito cercò di rialzarsi, anche se a fatica a causa del peso delle ali; le mani le tremavano mentre slacciava le cinghie.
Lasciò cadere le ali e scattò di corsa alla massima velocità che le consentivano le gambe stremate.
Quella volta che aveva dato ascolto alla sua migliore amica! Lo sapeva che non avrebbe dovuto mettere un vestito. Dopo la riunione gli eventi erano precipitati e non aveva avuto modo di cambiarsi – ora la stoffa candida e leggera della gonna si impigliava ovunque nel sottobosco e tra i rami, intralciandola e strappandosi, mentre il corsetto la impacciava come una prigione.
Il tempio ora era dritto davanti a lei, in pietra bianca scurita dai secoli; se ne distingueva appena la sagoma sotto quei rari raggi di Kaheel e Mirva che erano capaci di trafiggere la volta plumbea. Le colonne spezzate fiancheggiavano il sentiero di fronte come seri guardiani dall’aria cupa.
Fu un attimo.
Un sibilo. Un lampo. Il calore improvviso di una bomba incendiaria che esplodeva davanti a lei, ergendosi, scarlatto e fiammeggiante, e togliendole ogni speranza.
E una voce.
Una risata che conosceva fin troppo bene, ma ormai priva di quell’allegria che un tempo la faceva sempre sorridere.


 
******
 
 

«Mia Regina...» 
La voce spezzata di Evelyne sembrò strapparla dalla trance. Ricordò improvvisamente il suo compito, e con quella consapevolezza il macigno sul suo cuore si fece ancora più gravoso. Tuttavia nonostante l’urgenza della sua dama di compagnia, non era capace di staccare gli occhi dalla danza apocalittica delle fiamme. 
Una bomba piovve dal cielo, lontana. Vide chiaramente la bianca vampata tagliente perforare l’oscurità, sbranare cemento, acciaio e vetro nella sua furia. Il contraccolpo fece barcollare pericolosamente il pavimento sopra cui camminavano, lei udì chiaramente il sussulto strozzato di Evelyne. Si controllava, cercava di non avere paura. Avrebbe voluto dirle che non c’era niente di male nell’essere intimorite, era più che giusto. Soltanto lei non avvertiva questo terrore, immersa com’era nell’indefinibile sensazione di caduta. 
«Mia Regina, ora dovremmo proprio andare...» 
Si riscosse nuovamente e sospirò. 
«Ti ho detto di chiamarmi semplicemente Karla» le ricordò dolcemente. Si voltò finalmente, allontanando il viso dalla finestra e rivolgendolo alla giovane davanti a lei. I suoi occhi scuri erano colmi di un mal celato terrore, che riemergeva ad ogni singulto della terra, a ogni nuovo boato. Guizzavano in ogni direzione, seguendo ogni movimento. La ragazza deglutì e torse il velluto porpora della gonna che indossava. 
«Karla, non possiamo restare qui. Il rituale...» 
La regina abbassò lo sguardo. Con la coda dell’occhio, nello spiraglio oltre la tenda, colse la traiettoria fiammeggiante di un’altra delle aeronavi - alleata o nemica, non lo seppe distinguere - incontrare la terra. 
Prese un respiro profondo e lasciò finalmente il lieve tessuto con un gesto lento e quasi esitante della mano. La cortina scese e velò di rosso il panorama. 
Karla si alzò in piedi di scatto. Lisciò la tunica di raso blu che indossava, l’abito più semplice che era riuscita a trovare; girò le spalle alla vetrata e fissò gli occhi su Evelyne. 
«Hai ragione, basta ripensamenti. Andiamo.» 
La mano corse al centro del petto. Era ormai diventata un’abitudine: nei momenti di crisi, il peso rassicurante del medaglione era una bussola, un’ancora.


 
******
 
 

«Ma guarda un po’! Non mi sarei mai aspettato di trovarti qui.»
Il sarcasmo e l’odio che spiravano da quelle parole le fecero perdere la testa.
«Sta’ zitto, bastardo!» urlò, e si gettò veloce contro di lui con il braccio teso e la mano chiusa a pugno, furiosa. Lui però non si fece cogliere di sorpresa; semplicemente si scansò appena e le sferrò un pugno allo stomaco che le strappò un grido e la piegò in due.
La donna si allontanò da lui, barcollante per il colpo subito. Guardò l’uomo che aveva davanti, facendo trasparire tutta la disperazione e la frustrazione che provava. Ora la rabbia se n’era andata, e restava solo quello: la disperazione di vederlo lì come un nemico, e la frustrazione per l’impotenza di sapere che non poteva fare niente per riportarlo indietro.
Proprio lui.
«Perché l’hai fatto, Sharlin?» sussurrò, sfiancata dai suoi stessi mesti pensieri.
Colse un moto d’ira nei suoi occhi cupi, un tempo così caldi e luminosi.
«Sharlin è morto, Aenwyn. Per sempre. Portandosi dietro tutte le sue debolezze. Ora sono Shaula. Forte come Sharlin non è mai stato.» Fece un passo avanti, tendendo la mano. «Dammi il medaglione, Aenwyn.»
Ma lei scosse piano la testa, sfiorando il gioiello attraverso la stoffa dell’abito. «Non lo farò. Sai che non lo farò mai. Sono stata la causa della nostra rovina perché non ho colto i segni, perché non ho voluto accettarli. Ma non farò un altro errore.» Sollevò la testa, guardando Sharlin negli occhi con tutta la sua dignità e fermezza. «Se vuoi il medaglione dovrai prima uccidermi, perché combatterò con tutta me stessa.»
L’uomo piegò la testa di lato, sempre guardandola, e un mezzo sogghigno stirò le sue labbra.
«Posizione interessante, la tua. Ma esaminiamo la situazione. Sei sola e disarmata in mezzo a un bosco, tutti i tuoi amici sono morti o impossibilitati per svariati motivi a soccorrerti. La tua unica salvezza è a tre metri da te, ma sei bloccata da un muro di fuoco. Hai abbandonato le ali da qualche parte, troppo lontane per esserti d’aiuto, e comunque non avresti la forza di manovrarle. Non sperare in un aiuto da Eljrinn, perché si dà il caso che sia, diciamo, bloccata. E io sono troppo potente ora perché tu possa sperare di battermi.» Il suo sorriso divenne un ghigno. «Direi che non hai molta scelta.»
Aenwyn sospirò. «Sai, Sharlin, hai sempre avuto questo problema, e noto con sollievo che nonostante tu abbia cancellato molto di quello che eri, comprese certe cosiddette “debolezze”, il tuo principale punto debole è rimasto.» Lo sguardo della giovane donna divenne d’acciaio, affilato come le lame che sapeva usare così bene. «Sottovalutare i nemici può risultare un grande problema. Ricordatelo, in futuro.»


 
******
 
 

La sua stanza non sembrava la stessa, illuminata dal rosso cremisi delle fiamme che filtravano attraverso la tenda. La luce della catastrofe si spargeva sul tappeto, sul letto a baldacchino sfatto, sulla porta. Le sembrava di trovarsi in un sogno, un terribile incubo dai colori falsati e l’inquietudine intessuta nelle immagini. 
Ma questo non era un incubo, era la realtà. 
Reali i fragori delle bombe e i fischi dei missili, reali le sagome affusolate delle aeronavi che sfrecciavano attraverso il cielo come pugnali, reale l’inferno che divorava la Capitale. 
Involontariamente strinse le dita sul medaglione. Gli intarsi antichi che abbracciavano lo smeraldo si conficcarono nella sua pelle con violenza. 
Il dolore sembrò infine risvegliarla. 
Sollevò la testa, finalmente risoluta. Senza dire un’altra parola, senza più guardarsi indietro, uscì dalla camera, la mano sempre stretta sul gioiello. 


 
******
 
 

Tese un braccio verso il cielo livido, stringendo il medaglione in mano sotto lo sguardo raggelato e confuso di quello che era stato suo amico.
«Cosa staresti cercando di fare?» disse lui, ma la sua sicurezza vacillava. Lei, sibillina, si limitò a rispondere con un sorriso cattivo e soddisfatto, da predatore. Sapeva di aver vinto. E lui sapeva di aver perso.
«Io invoco il sigillo di Naleion secondo la legge di Atlas. L’Equilibrio è un'altra volta spezzato, il nuovo Ciclo è iniziato, l’Eletta è giunta!»
Troppo tardi Sharlin capì cosa Aenwyn volesse fare. Sotto il comando della donna, lo smeraldo incastonato nel gioiello prese a brillare sempre più intensamente, finché un’esplosione di luce verdissima illuminò a giorno la foresta e accecò l’uomo. Quando infine il lampo si diradò e gli occhi di Sharlin si abituarono di nuovo alla plumbea oscurità di una burrascosa notte estiva, Aenwyn era stesa a terra, svenuta, le dita intrecciate alla catena d'argento del gioiello. A guardarla sembrava quasi un angelo caduto, con l’abito bianco strappato in più punti e le braccia nude graffiate dai rami, i capelli biondi sparsi morbidamente sul terreno e il viso atteggiato in un’espressione di sereno sollievo. Eppure Shaula non la degnò di un’altra occhiata, mentre si precipitava sul gioiello nuovamente spento e apparentemente innocuo, lo raccoglieva dal suolo e lo stringeva in mano con ira crescente. Lo scagliò a terra violentemente, mentre alzava il viso al cielo in un grido.
Il potere che aveva cercato per così tanto tempo era svanito nel nulla.


 
******
 
 

La Frontiera si innalzava celando l’orizzonte dietro un velo.
L’energia che emanava si avvertiva enorme, dirompente, la sentiva pervaderla interamente, scorrere dentro di lei e intorno a lei. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato ma niente avrebbe potuto prepararla.
Evitò il suo sguardo, concentrandosi sul compito imminente. Le sue mani tremavano vistosamente quando afferrò il medaglione e lo strinse come per farsi coraggio.
«Ti prego, non lo fare» riprese lui.
È uguale. È il mio incubo.
Aveva visto quella scena un milione di volte, senza ricordare. Sapeva cosa sarebbe successo ora, ma non per il sogno. Lo sapeva perché lo sentiva dentro.
Gli altri erano tutti pronti e ignari. Non poteva farli aspettare.
Mosse un passo avanti, sempre fissando il vuoto, non aveva il coraggio di guardare lui negli occhi.
«Devo.»
Si sentì cadere nel baratro.









 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Ciao a tutti!
Esatto, nuova storia. Ormai dovreste conoscermi, sapete che non so stare ferma. Ne cancello una e ne inizio un'altra -.-'
In realtà questa storia non l'ho cominciata random giusto per incasinarmi ulteriormente la vita. Questa storia ha una storia(?) parecchio travagliata. Ne ho ideato la prima atroce versione sei anni e mezzo fa, è stato il mio punto di partenza per quanto riguarda la scrittura. Poi è passata attraverso fin troppe riscritture, e ora spero di aver raggiunto la versione definitiva.
Credo sia la storia a cui tengo di più in assoluto, anche se batte la Guerra solo per "anzianità" visto che adoro anche lei :3
E basta, spero che vi piaccia, se vi va lasciatemi un commentino.
Avviso già che gli aggiornamenti saranno irregolari, causa le solite cose. Scusatemi :/
Alla prossima, gentaglia :3

Vy

P.S. Il titolo è provvisorio. Se mi verrà in mente qualcosa di migliore lo cambierò :3

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Capitolo 2
*** L'apprendista ***


***†  Eventide   ***


I Figli del Caos






 


*** Parte Prima ***

Eljrinn



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Capitolo 1

L'apprendista
 


15 Vejezel 771, ore 18:00
Regno di Eythsun
Andrèlle, valle del Baill, tenuta dell'ayra Leànyar Neja Talléran

L



a giornata sta finendo. Il glorioso cerchio incandescente di Kuna rosseggia sull’orizzonte, spargendo ovunque la sua ultima luce prima di lasciare spazio alla notte. I raggi infuocati trafiggono l’aria come frecce, spargendosi tra cielo e terra, tra oceano e montagne, illuminano d’oro e fiamme boschi, fiumi, pianure e città, regalano al mondo l’ultima luce d’estate.
Scorrono su castelli e torri, oltrepassano arcane vestigia dei tempi andati e profondità marine, si librano tra le nuvole e le stelle che cominciano ad apparire a est, dove l’oro del tramonto già stinge nel blu del crepuscolo, quando le ombre lasciano le loro dimore e inizia il tempo dei sogni.
Saettano tra monti e colline, nei luoghi più segreti, nelle valli più nascoste.
Da un estremo all’altro delle Frontiere, salutano Selaera prima di dileguarsi oltre l’orizzonte lasciando a Naleion il compito di vegliare la terra e le sue creature.
Sono quegli stessi raggi dell’ultimo sole d’estate che entrano nella tranquillità di una vallata boscosa tra alte montagne scintillanti di ghiaccio, abbracciano la torretta di una piccola tenuta tra gli alberi, cingono i merli sulle mura, risplendono sull’intonaco bianco, scivolano luminosi dentro le finestre e infilzano la volta irregolare delle chiome dei due aceri nel giardino, disegnando forme acuminate e dorate sul terreno e sulle persone di sotto.
Una decina scarsa di persone, tra servitori e guardie, occupa un lato del cortile. Siedono sulle radici ritorte del grande albero oppure sul bordo della vasca in marmo rosso della piccola fontana poco distante. Chènter, in piedi accanto al tronco dell’acero, si volta per un secondo verso il capitano con aria interrogativa – un lampo di bronzo riflesso sull'acqua lo acceca per un istante –, ma l'altro stira l’angolo della bocca in un sorriso appena accennato e gli indica di osservare. Il ragazzo solleva appena un sopracciglio, sinceramente dubbioso.
Al centro dello spiazzo di terra battuta tra i due vecchi alberi ci sono due persone una di fronte all’altra. Uno dei due è il padrone della tenuta: un uomo alto, giovane, dal fisico asciutto; i capelli castani lunghi fino a metà schiena sono trattenuti in una coda morbida che si riversa sulla camicia di cotone bianco. Nelle sue mani sta ben saldo uno spadone come quelli antichi, dalla lunga lama intaccata in tre punti e la semplice elsa crociata.
Il secondo contendente ha un aspetto molto meno minaccioso, ma tutti quelli che sono lì hanno detto e ripetuto al giovane che è molto più pericoloso. Tiene con sicurezza una spada lucida e chiara nella mano sinistra e aspetta, le gambe leggermente divaricate e piegate per restare in equilibrio.
Chènter non può fare a meno di scorrere lo sguardo tra uno e l’altro. Fin dalla prima volta in cui l’ha incontrato, Leànyar Talléran gli ha dato l’impressione di essere una persona particolare: non ha l’arroganza tipica dei suoi pari con cui il ragazzo ha lavorato in passato. Ora, vedendolo al centro del cortile con le maniche della camicia arrotolate oltre i gomiti, fasce di stoffa avvolte intorno alle mani e semplici stivali di pelle impolverati, nemmeno appare come un ayra. Pensandoci bene, però, che cosa ci faccia un Talléran come lui in una minuscola tenuta dispersa tra quelle montagne e dimenticata dal cielo, quando avrebbe a disposizione ville enormi sparse un po’ ovunque per Eythsun, è un mistero non indifferente.
Tipi strani, gli ayra, si dice Chènter tra sé.
I duellanti cominciano a muoversi in cerchio, lentamente. Si studiano a vicenda, occhi fissi negli occhi, ad aspettare come predatori. Il capitano gliel’ha detto: entrambi conoscono a memoria le mosse dell’altro, il suo modo di combattere; entrambi cercano qualcosa, un lampo degli occhi, lo scatto di una mano.
Questo segnale arriva, improvviso e indistinguibile. Chènter non può impedirsi di sussultare quando scattano entrambi contemporaneamente. Il lungo spadone di Leànyar ruota a destra, dove l’avversario, mancino, è più debole; ma quest’ultimo lo sa, e si sposta appena fuori dalla traiettoria, roteando la spada con un guizzo del polso.
Le due lame si incrociano con un alto clangore metallico e restano lì. Gli occhi di ciascun contendente sono fissi in quelli dell’altro.
Per un attimo tutto rimane immobile.
Per un solo, lunghissimo attimo.
Poi i duellanti riprendono a combattere, feroci e rapidissimi. Chènter non è in grado di distinguere nitidamente i colpi, solo qualche dettaglio si fissa nei suoi occhi.
Un guizzo di capelli neri.
Il lampo di fuoco della luce di Kuna su una lama.
Un pugnale danzante nell’aria stretto in una mano sottile.
 

 
******
 

 

Il combattimento si protrae per alcuni minuti, le lame si incrociano velocemente nell’aria della sera e i due contendenti sembrano eguagliarsi. Il giovane soldato assiste a quel combattimento sempre più incredulo, mentre al suo fianco il capitano ridacchia.
E alla fine un lungo spadone a due mani dalla lama intaccata cade a terra tintinnando sulla terra battuta.
La gragnola di fendenti si blocca di colpo, e Chènter vede Leànyar, i capelli sparsi per il volto arrossato, improvvisamente a mani vuote e con una spada sottile puntata alla gola.
«Leàr è così scarso da farsi disarmare da una ragazzina di neanche undici cicli!» grida una delle guardie, ridendo. Il ragazzo sbarra gli occhi inconsapevolmente. Undici cicli!
«Così pare!» risponde l’uomo, sorridente. Poi, rivolgendosi al suo avversario: «Perfetto, Sirya, complimenti.»
La ragazzina rinfodera le armi. Un lupo dalla pelliccia chiara si alza dall'angolo del cortile in cui era accoccolato e le si accosta – Chènter nemmeno l’aveva visto prima, tanto è silenzioso. La ragazzina saluta il maestro con un cenno, poi, sempre in silenzio, lascia il cortile sotto gli sguardi di tutti, seguita dal lupo. Il giovane si riscuote quando il capitano gli rivolge la parola, ma non può fare a meno di scoccare un’occhiata per un istante nella direzione in cui quella se n’è andata.
Ma che cosa è quella bambina?
 

 
******
 

 

Chiunque in quel castello isolato dal mondo si fa domande su quella strana ragazza. Leàr – così tutti alla tenuta hanno soprannominato Leànyar – non è mai stato prodigo di dettagli quando gli si chiede chi diavolo sia e da dove venga, e quindi, di riflesso, le storie assurde e incredibili si sprecano. E siccome né il padrone del castello né la diretta interessata si preoccupano di smentire questo o quel dettaglio inverosimile, niente impedisce che le ipotesi e gli aneddoti rimbalzino tra le persone e si ingigantiscano a dismisura.
D’altronde è chiaro che un personaggio come quella ragazzina alimenti le dicerie. È strana, e questo è evidente a chiunque.
Non è normale che una ragazza di neanche undici cicli si comporti in quel modo. Sempre silenziosa, fredda come il ghiaccio. Non gioca mai, non parla con nessuno, se si escludono il suo lupo e Leàr. Probabilmente si possono contare sulle dita di una mano le persone che l’hanno sentita dire più di una frase alla volta; e anche tra i servitori che lavorano lì da sempre non ce n’è uno che ricordi di averla vista ridere. In generale, tutti  evitano accuratamente il suo animale e lei, e cercano di non incrociare mai i suoi gelidi occhi verdi, taglienti come le sue lame. Il fatto, poi, che combatta come una furia, apparentemente in contatto telepatico con il lupo, non aiuta certo a renderla più umana.
Con le armi è semplicemente impareggiabile.
È nota a tutti una vecchia storia, sussurrata timorosamente sottovoce tra le cuoche e i paggi e i soldati. Si racconta che una volta, quando lei aveva sei o sette cicli, un servitore curioso è entrato nella sua stanza di notte. Girano varie versioni di quella storia, ma secondo la più comune, appena il servitore ha messo piede nella camera, lei ha lanciato tre pugnali in un colpo, che, senza nemmeno ferirlo, l’hanno inchiodato alla porta per i vestiti. L’abilità di lanciatrice di pugnali di quella ragazza è nota quasi quanto la sua bravura pressoché irreale con la spada, ma il dettaglio che rende quella storia sconvolgente per chiunque è che la ragazza ha lanciato i coltelli con una precisione da cecchino senza accendere la luce. Completamente al buio.
Di qui la diceria che la ragazza possieda una qualche magia ignota e misteriosa. Infatti, nessuno dei sei elementi dà la capacità di vedere anche nelle ombre più fitte. Un potere come quello non esiste.
Tranne che in quella ragazza.
Altra questione di cui si parla molto è la sua origine. Leàr ha sempre detto solamente che è la figlia di una sua vecchia amica scomparsa. Prima di svanire nel nulla, questa fantomatica donna avrebbe affidato sua figlia di neanche un ciclo a lui, con la richiesta che fosse addestrata nel combattimento fin da piccola. Per quanto riguarda l’addestramento, sembra che nessuno possa avere da ridire, dato che è evidente che quella ragazza abbia imparato a tirare di spada come ha saputo stare in piedi. Ma è il resto della storia il problema. Quale madre lascerebbe la figlia per poi sparire di colpo, e non rifarsi viva mai una volta in dieci cicli?
Ma soprattutto insospettisce tutti il modo che ha Leàr di comportarsi quando si tratta di lei. Ha proibito categoricamente a chiunque di raccontare in giro dell’esistenza della ragazza, e quando arrivano persone a fargli visita lei sparisce in camera. Da questi fatti sono nate un sacco di storie secondo cui la ragazza sia, alternativamente, la figlia illegittima di Leàr, l’erede al trono di Eythsun, o chissà che altro.
Se poi si ascoltano le stravaganti teorie che orbitano intorno al suo animale domestico, un lupo di Zeya che la segue dovunque come se fosse la sua ombra, nessuno può dormire sonni tranquilli sapendo di vivere sotto lo stesso tetto di una pericolosa strega proveniente da oltre le Frontiere.
Che cosa sia vero e che cosa no di tutta questa matassa di dicerie, tutte intrecciate e discordanti, non lo sa nessuno, a parte lo stesso Leàr.
L’unica cosa su cui tutti sembrano concordare è che Sirya è strana.
 

 
******
 

 

La porta si apre con un lieve sospiro e si richiude alle sue spalle. Le ampie finestre lasciano entrare gli ultimi, incandescenti raggi di Kuna nella stanza, illuminandone ogni dettaglio. Adh è entrato con lei e si va subito ad accoccolare tra le coperte della sua cuccia – una sorta di ampio cesto di legno intrecciato, posto accanto al letto di Sirya.
La luce del tramonto inoltrato inonda la stanza, distorcendone i colori. La carta da parati verde chiaro appare infuocata, la vernice lucida dei mobili è percorsa da riflessi arroventati.
Sirya attraversa la camera fino a raggiungere la finestra, che si affaccia sul cortile con un davanzale di pietra chiara. La ragazzina spalanca i vetri e si sporge oltre il bordo: i lunghi capelli ondeggiano nel vuoto, attraversati e sfiorati dalla brezza leggera.
Fa forza sulle braccia appoggiate alla pietra, con una mossa agile si arrampica e si ritrova seduta sul davanzale. Con la coda dell'occhio vede Adh, all'interno della stanza, sollevare appena la testa e guardarla per qualche secondo. Ormai è abituato alle strampalate abitudini della sua padrona.
Sirya si sposta, lasciando penzolare le gambe all'esterno. Si trova al primo piano, a quasi sei metri da terra. Sotto di lei, il cortile interno: un giardino rettangolare circondato su tre lati dalla tenuta e chiuso, in fondo di fronte a lei, da un muro alto tre metri, intonacato di recente, sul quale la luce si riflette e si spande ancora più intensa, quasi dolorosa per i suoi occhi. La familiare confusione di piante ornamentali, arbusti e alberelli appena ingialliti che il giardiniere tenta invano di domare imperversa nelle vaste aiuole; mentre al centro spicca la fontana ellittica, dal cui centro un rivo zampilla ininterrotto e si riversa dalla vasca più piccola, in alto, nella sottostante.
Sirya si alza in piedi sul davanzale. Il cornicione del piano superiore corre poco sopra la sua finestra, ed è abbastanza sporgente da permetterle di camminare. Si arrampica sopra l'arco della finestra, stando in punta di piedi sullo spessore, allunga le mani e afferra il cornicione.
In piedi sulla sottile striscia sporgente, guarda per qualche istante di sotto. Si trova a tre piani da terra, e non ha la possibilità di volare o di planare, né di attutire l'eventuale caduta in qualche modo. Molti sarebbero spaventati, primo fra tutti, evidentemente, quel ragazzo che la sta fissando sconvolto dal cortile, il soldato nuovo che Leàr ha assunto di recente.
Sirya non ha affatto paura, conosce a memoria come muoversi. Solo una volta ha rischiato di cadere, ed è successo tre anni prima, quando si arrampicava lassù da poco e non aveva ancora imparato a mantenere l'equilibrio: è scivolata mentre saliva sull'arco della finestra, ma all'ultimo istante si è aggrappata con tutte le sue forze al bordo del davanzale. Non dimenticherà mai il terrore che l'ha presa quando ha sentito il vuoto aprirsi sotto di lei.
Cammina lateralmente sul passaggio sottile, tenendosi aderente al muro dietro la sua schiena. Raggiunge il condotto per lo scolo dell'acqua, pochi passi a destra: lì la falda è più bassa e la ragazzina, facendo forza sulle braccia, in pochi attimi si trova sul tetto.
Le tegole, rese ancora più rosse dal tramonto di Kuna, sono lisce e leggermente scivolose. Sirya cammina leggera fino a raggiungere uno dei camini, quello più a sud. Si siede a gambe incrociate appoggiando la schiena alla parete.
Leàr non vorrebbe che lei passeggiasse sul tetto. Però non gliel'ha mai impedito. Lei ne è felice: si sente bene lassù.
La ragazzina chiude gli occhi per un attimo, assorta. Quando li riapre, le immagini le appaiono ancora più vivide. Segue con gli occhi il profilo frastagliato e aguzzo dei massicci montuosi che abbracciano la valle con la loro mole di roccia e ghiaccio, scorre sulle foreste ancora verdi ed estive che abbracciano come un velo le aspre pendici sovrastanti la piccola magione. Il silenzio è interrotto solamente dai suoni della casa, e da qualche sporadico richiamo dei rapaci.
Il cielo si tinge dei colori del crepuscolo inoltrato: viola e bronzo e ottone e blu. Sotto di lei, la stretta vallata converge verso il letto serpentino del Baill, già in ombra insieme al resto del fondovalle. Lo smeraldo sfuma nell'ossidiana, Kuna incendia i ghiacciai dei picchi a destra di Sirya.
I suoi occhi scorrono sempre più lontano, là dove la valle si apre nella pianura di Eythsun e i contorni si fanno sfumati. La curiosità è sempre più forte.
Non è mai uscita dalla valle. Leàr gliel'ha sempre proibito chiaramente, ma lei non sa perché. C'entra con qualcosa che ha fatto sua madre – solo questa misera informazione è riuscita a strappargli.
Ma lei vorrebbe vederla, la pianura. Le grandi città dorate, le aeronavi che riempiono il cielo, e poi il mare. Chissà com'è. Ha studiato, ha visto immagini, ma vorrebbe sapere cos'è davvero.
Chissà se sua madre ha visto il mare.
Kuna scompare sotto le montagne, la luce diventa sempre più flebile. L'aria si fa pungente e affilata, un brivido scuote le spalle della ragazzina.
Si alza e ripercorre indietro il percorso, come quasi ogni giorno. Tempo fa saliva raramente, ora quasi sempre. Si sorprende a pensare a come dev'essere vivere là, fuori dalla valle.
Scuote la testa per scacciare quei pensieri. Leàr sa perché, e lei si fida.
Prima di rientrare, come ogni volta, volge lo sguardo al cielo un'ultima volta: Naleion rifulge rassicurante e azzurra nel cielo scuro, e quella luce ha il potere di calmare i suoi dubbi.











 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Ok, è un primo capitolo pieno di cose e sostanzialmente lento. Spero di non avervi annoiato...
Il fatto è che vorrei introdurre un po' dell'ambientazione prima che succedano i casini. Mi auguro che nonostante la differenza con il prologo e i continui cambi di POV si capisca qualcosa ^^

Vy

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Capitolo 3
*** Buio ***


***†  Eventide   ***


I Figli del Caos



 


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Capitolo 2

Buio


16 Vejezel 771, ore 7:45
Regno di Eythsun
Arcénelly, Programma

D



ove si trova? Non lo sa. Non riesce a vedere molto dell’ambiente circostante.
A destra e a sinistra pareti di mattoni sbeccati e polverosi; a intervalli regolari, colonne spuntano a metà dal muro e si innalzano a sostenere una volta invisibile nell’oscurità. Il pavimento è di pietra, irregolare e consumata.
Si guarda intorno confuso. Ovunque è solo tenebra. Dietro e davanti a lui, e sopra la sua testa, pareti, pavimento e soffitto sono inghiottiti dal buio. Un buio troppo fitto per essere quello della notte: deve trovarsi in un corridoio sotterraneo.
L’unica luce proviene da una sfera violetta che galleggia sopra la sua testa. La sfiora con una mano. È un incantesimo della Luce. È stato lui a evocarlo?
L’odore di chiuso, di terra e polvere, è molto forte. Una strana energia pervade l’aria, le pareti, il pavimento. La sente scorrere sotto di lui, come una corrente, una vibrazione bassa al limite dell’udibile. È magia, magia molto potente, ancestrale.
Che cosa ci fa lì? E soprattutto, dove si trova? Non riconosce il luogo, non ci è mai stato, ne è sicuro.
Si rende improvvisamente conto che quelli che ha addosso non sono i suoi vestiti. Invece della solita divisa grigia stropicciata, indossa un cappotto nero sgualcito e anfibi slacciati. Sul petto, sulle gambe e sulle braccia, indumenti protettivi di cuoio.
Sorride. Muove un passo in avanti, incuriosito. Vuole sapere dov’è, vuole capire. Gli abiti di cuoio scricchiolano debolmente, il suono si spegne nell'oscurità ovattata.
Cammina per qualche minuto. Il corridoio sotterraneo prosegue sempre uguale, non sembra avvicinarsi una fine. Prosegue sempre più perplesso e incerto, mentre il cunicolo sembra allungarsi all'infinito.
Infine, all’improvviso, qualcosa cambia. In lontananza, un puntino di luce.
La speranza si riaccende in lui. Comincia a correre, sempre più veloce, raggiungendo una velocità quasi innaturale. Il puntino di luce si ingrandisce mano a mano che lui si avvicina, in pochi secondi invade l'intero suo campo visivo. Prende la forma di un alto arco affilato; fuori, la luce del giorno.
L’arco sembra oscurarsi per un istante. Sullo stipite, ora, si disegna una figura longilinea, i contorni indefinibili a causa della luce intensa. La figura si avvicina, diventando sempre più nitida a ogni passo. Infine, si ferma davanti a lui.
È una ragazzina, undici o dodici cicli al massimo. È alta e snella, dal fisico slanciato e sottile. Lunghissimi capelli neri scompigliati incorniciano il suo viso affilato e serio, troppo forse per una ragazza di quell’età. Naso dritto, mento sfuggente, fronte aggrottata come da una qualche pesante inquietudine. Grandi occhi color smeraldo spiccano sulla pelle chiara, sporca di fuliggine, e lo fissano imperscrutabili, colmi di un’ombra di tristezza.
Il suo corpo magro è fasciato in una tuta nera da pilota, ma strappata e sgualcita in più punti. Da dietro la sua spalla occhieggia l’elsa argentea di una lunga spada sottile.
La ragazzina lo fissa, impassibile, a lungo. Lui sente il suo cuore battere forsennato sotto le sue costole, come se volesse romperle e liberarsi. Si scopre a sorridere, rassicurato ed euforico, anche se ancora confuso. Poi lei socchiude appena la bocca, come per parlare.
«Mizar!»
Quella voce... è un suono noto che punzecchia la sua mente lasciandolo perplesso. Tutte le emozioni precedenti sono scoppiate nel nulla, e ora rimane solo un sottile disagio.
Di chi è quella voce? Non è stata la ragazza a parlare, ne è sicuro. Poi capisce.
In quel momento, la ragazzina di fronte a lui e tutto quello che ha intorno sfuma in un bianco abbagliante.
No, maledizione!
Niente da fare. Il sogno è andato. Per quanto lui vi si aggrappi con tutte le sue forze, il sogno scivola via tra le sue dita come sabbia impalpabile. Il ragazzino sospira e apre gli occhi alla luce del giorno.
La prima cosa che vede è un volto rugoso, teso in un’inequivocabile espressione di riprovazione, e due occhi neri irritati che lo fissano da dietro un paio di occhiali tondi dalla montatura di bronzo.
«Finalmente ti sei svegliato! Stavo per andare a prendere un secchio d’acqua gelida» minaccia la proprietaria di quel volto con voce intimidatoria.
Mizar si alza a sedere poco convinto.
«Ma... che ore sono?» sbadiglia, la mente ancora lenta dal sonno.
«Sono le otto meno dieci! Dovevi essere pronto mezz’ora fa!»
«Scusa, Hilda» sospira Mizar, ravviandosi i capelli troppo lunghi che gli ricadono sugli occhi. All’Istruttore Jéan non vanno proprio a genio quei capelli così lunghi: l'ha minacciato già numerose volte di tagliarglieli nel sonno. È esattamente per questo motivo che si ostina a lasciarli crescere; Mizar non ha mai sopportato le regole, e questo gli rende la vita al Programma non certo facile.
Ma d’altronde, non è stato lui a scegliere di studiare proprio lì.
«Mizar! Sono già stata troppo indulgente, con te. Non farmene pentire!» lo rimbrotta nuovamente Hilda quando si rende conto che si è perso ancora nei suoi pensieri. La governante lo fissa con aria truce, le braccia conserte.
«E va bene» sbuffa lui alzandosi infine dal letto. Corre a lavarsi velocemente, rinunciando ad un bagno per recuperare il tempo speso tra le propaggini del sogno, si veste in fretta e, saltando la colazione, si dirige di corsa al simulatore di volo con la bionda chioma scomposta ancora arruffata e grondante.
Si fionda dentro un attimo prima che la porta ermetica si chiuda. Prende posto come sempre in fondo all'aula, accanto a Julien, che gli scocca un’occhiata divertita.
«Tu vuoi seriamente farti espellere» ridacchia l’altro ragazzo. Esile, occhi sottili che sorridono sempre furbescamente come se complottasse qualcosa di continuo, una massa di riccioli castani da cui spuntano gli occhiali di precisione che porta sempre con sé: il suo migliore amico da una vita.
«Non sarebbe male» valuta Mizar, annuendo.
«Ma cosa stai dicendo? Sei troppo bravo per essere cacciato, lo sai.»
Quella volta, però, Mizar non ricambia il sorriso.
«Non volevo essere qui, Julien» si intestardisce lui. «Mi hanno costretto. Odio questo posto.»
«Ancora questa storia» si arrende il ragazzo castano. «Sei uno dei migliori in Combattimento e in Magia, nelle altre materie sei appena sufficiente solo perché non ti interessano... è ovvio che ti abbiano scelto.»
«Non m’importa» ribatte Mizar, duro. «Nessuno mi ha chiesto cosa volessi fare. I miei zii hanno pensato che sarebbe stato carino se avessi fatto come i miei genitori, e mi hanno mandato qui appena hanno potuto. Io non volevo.»
«Zoral e Angstorm, là in fondo, smettetela!» sbraita l’Istruttore Morras. I due ragazzi si zittiscono all’istante. Mizar si rassegna a seguire l’ennesima lezione su aeronavi e parti meccaniche e modalità di atterraggio.
 

 
******
 

 

Tante sono le cose di Selaera che lo spirito ribelle e sognatore di Mizar ritiene inutili, come per esempio il terrore atavico che gli abitanti dei sette regni nutrono nei confronti dell'Altrove. Un’altra di queste sono certe regole assurde che al Programma sembrano spuntare in ogni dove, e che lui puntualmente fa in modo di infrangere in tutte le occasioni che gli sono concesse.
Da questa sua ostinata decisione derivano caratteristiche del suo aspetto fisico come i capelli lunghi fino alle spalle e la divisa perennemente stropicciata che non fanno che guadagnargli occhiatacce da parte dell'intero corpo insegnante.
È evidente, e naturale anche, che a questo punto, dopo un intero ciclo di ribellioni e frustrazione, in molti si chiedano cosa diamine quel ragazzino testardo ci stia a fare proprio lì. È risaputo che è stato iscritto al Programma, nonostante non volesse saperne, dai suoi zii nonché tutori dopo la morte dei genitori, avvenuta durante un incidente dalle parti di Nashar. Si è tentato di convincere questi zii che il ragazzo in quella scuola non ci vuole proprio stare, ma loro non hanno ascoltato, ribadendo che prima o poi avrebbe accettato la loro decisione e si sarebbe rassegnato, e che al ragazzo avrebbe fatto bene un po' di "disciplina come si deve".
Il problema è che Mizar non l’ha fatto. Anzi, più il tempo passa e più si accanisce a fare l’esatto opposto di quello che gli viene ordinato. Come risultato si è fatto sospendere e mettere in punizione per ben due volte nell’ultimo trimestre del ciclo precedente, e ora che ha iniziato il secondo – il secondo di otto, se ci pensa si sente soffocare – ha tutta l’intenzione di continuare con quel ritmo.
Nessuno quindi si stupisce che, dopo il sedicesimo ritardo in venti giorni di scuola, il dirigente del Programma lo mandi a chiamare e lo tenga nel suo ufficio per un monologo di tre quarti d’ora; discorso a cui il ragazzo assiste con la testa bassa ma l’espressione dura, annuendo ma senza dire nemmeno una parola. Con gli occhi coperti dal ciuffo disordinato, in poco tempo si distrae a fissare le linee del legno di cui è fatta la scrivania: riesce a distinguere la sagoma di un eroe enorme con in mano una spada, di un'aeronave e di una teiera.
Quando esce è infuriato. Non è riuscito a isolarsi del tutto dalle declamazioni del preside. Non gli importa proprio per niente della reputazione, del prestigio del collegio, del grande futuro che lo attende fuori di lì. Lo stanno imprigionando, incatenandolo a qualcosa che non ha mai voluto.
È la sua vita, maledizione.
Si incammina a testa bassa verso la camerata del secondo ciclo con i pensieri che gli si agitano dentro in una tempesta. I fregi geometrici sul pavimento si affastellano uno sull'altro in una nebbia indistinta.
«Già dal dirigente, Angstorm?» ride una voce stridente alle sue spalle.
Il ragazzo continua a camminare, tentando di nascondere l’irritazione. Sa a chi appartiene ed è l'ultima persona che avrebbe voluto incontrare in un momento come quello.
«Non cominciare, Lèsha» intima, in un tono che avrebbe voluto neutro, ma che risulta inequivocabilmente colmo di rabbia. L’altro ragazzo capta all’istante la debolezza di Mizar come un falcone delle Andrèlle e ci si fionda sopra. Gli si para davanti al centro del corridoio, ghignando e costringendolo a posare lo sguardo su di lui. È un ragazzo del terzo ciclo, alto ma smilzo e sproporzionato come i ragazzi che ancora devono crescere ed assestarsi. Magro e spigoloso com'è, lottare con lui non può che portare lividi e dolori. Senza considerare che, nonostante lui stesso a volte sembri ignorarlo per il semplice piacere di azzuffarsi anche con i larsti, lui è un ayra.
«Altrimenti?» lo deride Lèsha. «Mi picchi? Non vorrai certo finire dal dirigente di nuovo. Due volte nello stesso pomeriggio sarebbe un record anche per te!»
Mizar non raccoglie la provocazione. Cerca dentro di sé tutto l’autocontrollo di cui è capace e non si ferma, ignorando il ragazzo, girandogli intorno e continuando imperterrito per la sua strada.
Lui è un ayra. Non posso picchiare un ayra. Si ripete queste frasi per calmarsi, ma non ne è capace. La voglia di togliergli quello schifoso sorrisetto resta lì, pulsante.
«Che cosa c’è, Angstorm, hai paura di lottare contro un ayra? Hai paura di essere sconfitto?»
Il ragazzo non regge anche l’ultimo scherno. La sua rabbia esplode e prende il controllo: Mizar si volta, scatta avanti e con un movimento preciso e fulmineo gli sferra un pugno dritto in faccia; Lèsha incespica e finisce a terra con un grido strozzato di sorpresa.
«Bastardo di un larsta!»
Solo in quel momento Mizar si rende conto di quello che ha appena fatto. Il terrore monta come un’onda dentro di lui e lo sommerge. Fissa sgomento il suo pugno chiuso, le nocche che pulsano dal dolore dell’impatto, mentre la scia di sangue che il labbro spaccato del compagno gli ha lasciato sulla pelle sfuma nelle lacrime.
Se le strappa con rabbia dagli occhi e corre via.











 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Salve, gente :3
Riemergo dalle fangose paludi dell'esame di maturità per una toccata e fuga, e poi mi riimmergerò nelle derivate e negli integrali in attesa della disfatta di domani (sigh...!)
Chi ha letto una qualsiasi delle mie long fantasy precedenti probabilmente noterà qualche somiglianza tra questa e le altre, soprattutto all'inizio. Il fatto è che la Guerra è nata come esercizio da una vecchissima versione di questa storia, mentre Aleestrya è nata come side-project della Guerra, un po' come le matrioske e devo ancora riuscire a cambiare un paio di cosette per differenziare gli incipit.
Intanto, giusto due cosette che avrei dovuto scrivere già nelle note dello scorso capitolo ma di cui mi ero dimenticata. Di solito sono contraria alle note che spiegano l'ambientazione prima che il lettore capisca da solo certe cose, ma in questa storia è necessario che lo faccia, dato che pubblicandola a capitoli altrimenti non si capisce niente.

Kuna e Naleion.
Come spero si sia capito, il pianeta su cui si trova Selaera orbita intorno a una stella gialla (come il Sole) che si chiama Kuna. Questa stella fa parte di un sistema binario in coppia con Naleion, che invece è una stella blu molto calda ma molto distante.
Il pianeta di Selaera possiede anche cinque lune, piccole, irregolari e più simili ad asteroidi che a lune vere e proprie.

Tempo.
L'anno (ciclo) di Selaera è formato da 406 giorni divisi in 14 mesi da 29 giorni ciascuno. Un mese è formato da un giro intero della luna più lenta intorno al pianeta.

I sette regni.
Selaera è divisa in sette regni e circondata da barriere magiche che non si possono oltrepassare. In questi sette regni la società è divisa in caste molto rigide: i nobili (ayra) e la gente del popolo (larsti). Sono stata vaga e non dirò nient'altro perché le dinamiche tra i vari regni e le due caste dovrebbero intuirsi con il tempo, semmai aggiungerò qualche nota poi :3

In realtà non so se davvero tutto ciò interessa a qualcuno ma vabbè.
Ho detto tutto, torno a disperarmi, ciau!

Vy

P.S. Passerò anche a rispondere a tutti, sorry! Ho apprezzato moltissimo le recensioni, non vi sto ignorando... appena finsco gli scritti rispondo a tutti, I promise! :3
P. P. S. Mi stavo per dimenticare! Qui c'è la mia pagina di fb dove avviso quando aggiorno etc. Mipiacciatela se vi va :3

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Capitolo 4
*** Preoccupazioni ***


***†  Eventide   ***


I Figli del Caos



 


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Capitolo 3

Preoccupazioni


19 Vejezel 771, ore 15:30
Regno di Eythsun
Andrèlle, valle del Baill, tenuta dell'ayra Leànyar Neja Talléran
 

I



l tonfo sordo che i suoi colpi provocano quando raggiungono i manichini di sabbia risuona per l’intero cortile altrimenti silenzioso. Il contraccolpo le riverbera lungo le ossa a ogni impatto, dalle nocche fino ai polsi, lungo le tibie e sulle caviglie, come a scandire il ritmo dei suoi movimenti; il sudore impregna i suoi abiti. Sirya si muove rapida e precisa, al centro del quadrato di terra battuta, circondata da quattro bersagli dalla forma vagamente umana; diretti, calci circolari, ganci e frontali si alternano in rapide sequenze e la ragazzina rotea fulminea tra un manichino e l’altro senza nemmeno pensare: è così tanto tempo che esegue esercizi come quelli che ormai ne ha automatizzato i movimenti.
Adh la segue di corsa, scatta, devia, corre da tutte le parti, inseguendola come un fulmine chiaro. Sono sempre così, perfettamente sincronizzati: dovunque Sirya vada, lui c’è. Adh è l’ombra, il guardiano, il protettore della ragazzina fin da quando, l’inverno prima, lei l’ha trovato vivo in mezzo a quattro lupetti morti nel bosco, tra la neve.

Sirya era stata portata nella valle da Leàr per studiare gli antichi alberi che popolano le zone più remote dei boschi e là, per chissà quale caso fortuito, si era imbattuta in quei cinque minuscoli cuccioli bianchi tra la neve bianca, di cui solo uno era sopravvissuto al freddo. Lei l’aveva avvolto nel suo mantello e portato a casa, si era occupata di lui e l’aveva addestrato. Ha deciso di dargli quel nome, Adh, perché nell’antica lingua di Zeya significa “silenzioso”.
Leàr entra nel cortile. La ragazzina non si lascia distrarre: sa che è venuto lì per guardarla compiere gli esercizi, quindi non si interrompe e completa la sequenza. Nel momento in cui si ferma qualche secondo per riprendere fiato prima di cominciare la serie successiva, però, la voce dell’uomo attraversa l’aria e la raggiunge.
«Sirya, basta così per oggi. Vai pure, riordino io i fantocci.»
La ragazzina solleva gli occhi al cielo. Kuna è ancora alto, probabilmente non sono nemmeno le quattro. Avrebbe ancora un'ora di allenamento, ma se Leàr l'ha interrotta quasi sicuramente sta per arrivare un visitatore.
E lei non deve essere vista.
Senza fare domande, annuisce all'uomo di fronte a lei e lascia il cortile, seguita dalla presenza quieta di Adh.
La frescura dei portici, dove i raggi di Kuna non battono, le procura un brivido sulla schiena sudata. Indossa solo una camicia leggera e un paio di pantaloni larghi infilati negli stivali ormai opachi per la terra; i lunghi capelli corvini fermati da un nastro. Di fronte a lei, incastonata nella penombra del portico contro la parete di fondo, sta una casetta di assi di legno con la vernice azzurra scrostata qua e là. La porta scricchiola quando Sirya la tira verso di sé, permettendo alla luce del giorno di penetrare il buio dell'interno e riflettersi sul metallo di spade, pugnali, lance e mazze delle più disparate fogge e dimensioni. La ragazzina si chiude la porta alle spalle e resta al buio.
Ai suoi occhi occorre qualche istante per abituarsi, lei batte le palpebre un paio di volte e infine le sagome cominciano a disegnarsi di fronte a lei, affiorando dalle tenebre. Dei colori non resta che un accenno, e le forme piatte le ricordano certe fredde mattine d'autunno inoltrato, quando la luce filtrata dalla spessa coltre di nubi si posa grigia sulle cose.
In un angolo della rastrelliera sono appesi una camicia pulita, dei pantaloni aderenti color terra e un semplice gilet di velluto verde cupo, mentre appoggiato a un brocchiere c'è un paio di stivali. Nadine, la governante, ha minacciato più volte di farle lavare i pavimenti dell'intero castello se l'avesse sorpresa là dentro con gli abiti da allenamento sporchi di terra, e già Leàr ha dovuto combattere a lungo con lei perché accettasse la presenza di Adh... Sirya non vuole causare altri guai.
Una volta cambiata esce dalla capanna e si trova davanti Adh – da quando partecipa ai suoi allenamenti ha preso l'abitudine di accoccolarsi davanti alla porta e aspettarla. La ragazzina lo accarezza sulla testa, passando le dita tra la folta pelliccia candida, e poi si incammina costeggiando il cortile esterno, fino a raggiungere l'ingresso principale della tenuta. Il portone è accostato; nell'anticamera, in fondo alla quale si apre la porta che dà sul salone, c'è solo una giovane abbigliata con un vestito blu e un grembiule che, straccio alla mano, sta lucidando il corrimano della scalinata di sinistra. La cameriera solleva lo sguardo su di lei, sentendo chiudersi il portone, ma si affretta a riportarlo sul suo lavoro come sempre. La ragazzina percorre la scalinata di destra e oltrepassa la porta, trovandosi sul ballatoio che si affaccia sul salone a pianterreno. Il sole disegna chiazze quadrate sui marmi lucidi su cui corrono, indaffarate, altre donne della servitù. Al centro esatto, ritta come un generale, Nadine dispensa ordini a destra e a manca.
«Ragazzina!» tuona, non appena la nota, «Che ci fai ancora in giro? Fila in camera a lavarti e non intralciare i lavori.»
Sirya annuisce e si avvia, quando la voce della governante la raggiunge ancora: «E non farti vedere! Avremo ospiti a breve.»


 
******
 

 
La ragazzina chiude il libro con un lieve sbuffo e lo posa sulla scrivania. Non le è mai piaciuto starsene relegata in camera, ma almeno di solito ha molti libri con sé. Se solo non si fosse dimenticata di chiedere a Leàr l'approfondimento sulla storia antica... ma ormai è troppo tardi, l'ospite, chiunque sia, è arrivato – ha sentito il rombo dell'aeronave che atterrava in cortile proprio venti minuti prima – e, da quello che le ha detto Nadine, si prospetta una faccenda piuttosto lunga.
Sirya si alza dalla sedia. Mentre finiva la sua lettura i capelli le si sono asciugati e Kuna è sceso sull'orizzonte, e lei non può uscire ad ammirare il tramonto. Muove qualche passo per la stanza, scorre i titoli dei libri che possiede con lo sguardo, si siede sul letto.
Balza in piedi subito dopo, un'idea che le frulla per la testa.
E se andasse a cercare il libro in biblioteca?
Non sarebbe così rischioso. La sua destinazione è a poca distanza dalla camera, e lei sa come non farsi vedere.
Adh guaisce piano. Si è alzato dalla sua cesta e la guarda come volesse dissuaderla.
«Su, Adh» sospira lei, «sarebbero solo due minuti. Vado, trovo il libro e torno qua. Leàr non va mai in biblioteca con gli ospiti.»
Il lupo, però, continua a lamentarsi.
«E va bene.»
Non serve che gli ripeta di fare attenzione. Sirya si avvicina alla porta, il cuore accelerato. Sta per infrangere un ordine diretto di Leàr, e anche se sa che andrà tutto bene, avverte un po' di timore.
Chiude gli occhi per concentrarsi. L'ha fatto mille volte durante gli allenamenti, però ora è diverso. Lascia scorrere il potere e gli dà forma con la sua mente, plasma un velo d'ombra intorno a sé e a Adh. Poi apre la porta con cautela, ritrovandosi nel corridoio.
Fa del suo meglio per mantenere il ritmo del respiro normale, ma già è affaticata: lo sforzo di trattenere il velo d'ombra intorno a entrambi è più gravoso del previsto, devono fare in fretta.
A passo svelto si incammina verso la biblioteca. Deve passare sul ballatoio, ma non è un problema né per lei né per il suo lupo – entrambi sanno come camminare senza produrre un rumore, e i folti tappeti stesi a terra li aiutano. La ragazzina prende il primo corridoio che si diparte a sinistra, corre fino in fondo e apre gli alti battenti ormai con il fiato corto. Un lampo bianco, avvolto dalle fuggevoli volute color smeraldo del velo d'ombra, la supera e si fionda dentro.
Sirya chiude la porta dietro di sé, scioglie la magia e riprende fiato. «Visto? Non è successo nulla» sussurra al lupo. I suoi occhi gialli sono fissi al volto della ragazza ma la coda si agita inquieta, come a ricordarle che non è ancora finita.
Lei solleva lo sguardo. Trovandosi verso est, la biblioteca non è raggiunta dalla luce del tramonto, ed è immersa in un'atmosfera di penombra blu. Rispetto alle proporzioni del maniero, è molto vasta: si articola su due piani e contiene così tanti volumi che Sirya non riesce a quantificarne il numero. Chissà quanti di quei libri Leàr ha letto, si chiede da sempre.
Al centro del corridoio principale, che si sviluppa in altezza per tutti e due i piani ed è fiancheggiato da alte colonne e due file di scaffali, c'è un piedistallo con una gigantesca sfera di vetro, sulla cui superficie sono dipinte a colori vivaci le costellazioni; il lampadario che pende dal soffitto è, come sempre, spento. Colonne slanciate sostengono la volta, mentre tende impalpabili celano le ampie vetrate e filtrano la già scarsa luce della sera. L'aria della biblioteca sa di polvere e pergamena, un profumo che Sirya ha sempre amato; il silenzio che pervade il luogo le sembra quasi sacro. Per un istante quasi dimentica il motivo che l'ha spinta fin lì, contravvenendo agli ordini.
Il muso di Adh le picchietta sulla gamba e lei si riscuote. È venuta a cercare il libro di storia antica di cui Leàr le aveva parlato; deve trovarlo in fretta e tornare in camera prima che qualcuno si accorga della sua assenza.
Si avvia circospetta lungo il corridoio. I libri di storia si trovano tutti al secondo piano, a destra, nella zona dove Leàr ha fatto disporre alcune poltrone e un tavolo su cui lei va spesso a studiare.
Si trova a metà della scalinata quando Adh all'improvviso le prende una manica con i denti e la tira indietro. Lei non ha bisogno di chiedersi la ragione di tale comportamento, l'ha sentito: voci discutono tra loro e sembrano trovarsi proprio dove lei è diretta. Il suo cuore ha un balzo.
Si volta verso il lupo e gli fa cenno di stare in silenzio. Lui abbassa le orecchie, visibilmente turbato, ma non protesta. La ragazzina, se possibile ancora più cauta, facendo attenzione a essere coperta dagli scaffali che occupano il piano rialzato, riprende a salire, un gradino alla volta, il cuore in gola.
La luce di una lampada si spande nel buio sempre più fitto. Ora Sirya può distinguere meglio le voci: una, sconosciuta, appartiene a un giovane uomo ed è sicura e brillante anche nella conversazione sommessa; l'altra, invece, è la voce di Leàr. La ragazza oltrepassa un altro scaffale e si ferma – non osa avvicinarsi di più –, ma poi la curiosità ha il sopravvento e, il viso nascosto dietro un velo d'ombra, si sporge a guardare.
Leàr occupa una delle poltrone di broccato color porpora e tiene tra le mani una tazza di tè, della quale pare aver dimenticato la presenza. Indossa una redingote blu con i bottoni dorati e stivali lucidi; il volto, alla luce calda della lanterna, appare teso. Le ombre danzano sulle lievi rughe che gli segnano la fronte, gli occhi fissano il vassoio posato sul tavolo senza vederlo: Sirya l'ha notato raramente così cupo. Qualsiasi cosa il suo interlocutore stia dicendo, non sono buone notizie.
Quest'ultimo è seduto sulla sedia di fronte. A giudicare dagli abiti di velluto pregiato e dai capelli scuri tagliati alla perfezione è un ayra, e anche molto ricco. Sta composto sulla sedia, ma una mano mescola il tè con un po' troppa energia e gli occhi sono irrequieti, non fanno che saettare in ogni direzione – Sirya trattiene un singulto quando, per un istante, si posano dove lei è nascosta; ma l'attimo dopo sono tornati a concentrarsi su Leàr e lei si tranquillizza.
«Non se ne parla» sta dicendo Leàr.
«E se Aenwyn avesse avuto ragione?» ribatte l'altro.
L'uomo scuote per un istante la testa. «Non se ne parla, Gwenaël. È troppo presto.»
L'ayra chiamato Gwenaël si muove inquieto sulla poltrona. Posa sul vassoio la tazza di tè che stava tormentando fino a quel momento e passa la mano tra i capelli ricci.
«Non posso tenere la faccenda nascosta ancora a lungo, lo sai. Clairël pretenderà spiegazioni non appena trapeleranno anche i minimi dettagli...»
«Non farli trapelare, allora!» sbotta Leàr. Sirya, suo malgrado, sussulta. È sempre così posato, cosa sta succedendo ora? Anche Gwenaël sembra basito.
«Faccio del mio meglio, ma una scoperta di questa portata non può essere passata sotto silenzio, nemmeno volendo.»
«Dannazione!» Leàr appoggia la tazzina con veemenza, tanto che il suo contenuto ormai freddo straripa e si spande sul vassoio. Si alza in piedi e misura lo spazio a grandi passi, respirando profondamente. Infine si ferma, passa la mano sul volto come per liberarsi di un peso e si volta.
«Scusami» sospira.
«So che deve essere difficile» dice Gwenaël, gli occhi bassi e le labbra tese in un sorriso triste. «Non è ancora pronta, vero?»
«Oh no, dal punto di vista strettamente dell'addestramento è almeno tre volte più preparata di quanto non fossimo noi all'epoca» risponde l'uomo. «Ma per Ellyria, Gwenaël, non ha nemmeno undici cicli
Undici cicli.
Il peso di quelle due misere parole le si riversa di colpo sulle spalle. Si ritrae dietro lo scaffale, il respiro, per chissà quale ragione, affannoso.
Cosa sta succedendo di così grave, nell'intera Selaera, da preoccupare Leàr in quel modo?
Ma soprattutto, perché ha la sensazione, come un pungolo fastidioso in un angolo del cervello, che, qualsiasi cosa sia la funesta notizia, in qualche modo i due uomini stiano parlando di lei?


















 
******* Famigerato Angolino Buio *******
...
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...
Va bene, va bene, giù quelle asce danesi/katane/cinquedee(?)/zweihänder. In effetti non so se mi vogliate picchiare più per i *tossisce* mesi passati dal capitolo due o per il finale di questo - forse i cliffhanger mi stanno un po' sfuggendo di mano?
Comunque! Finalmente, dopo un'ora di dura lotta nel fango contro l'html sono riuscita ad aggiornare!
Accenni di qualcosa sul punto di accadere, accenni a Sirya e a qualcosa riguardante Aenwyn. Per cosa Leàr la ritiene troppo giovane? Chi è questo Gwenaël che arriva così all'improvviso a sconvolgere tutti? Che accidenti ha combinato Aenwyn in passato? L'ordine di grandezza del numero di neuroni che mi sono rimasti è superiore a 1?
Intanto che vi macerate nei dubbi(?) torno a studiare un po' di matematica. Adieu!

*evoca un lupo bianco e fugge*

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Capitolo 5
*** Rabbia ***


***†  Eventide   ***


I Figli del Caos


 


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Capitolo 4

Rabbia


21 Vejezel 771, ore 15:50
Regno di Eythsun
Arcénelly, Programma
 

C



hiuso al Programma fino alla fine di Vejezel, con l'unica concessione di uscire per la durata delle eventuali gite previste dagli istruttori, e solo perché ha spaccato il labbro a un ayra.

E perché è lui, è un ribelle e lo puniscono più di quanto non farebbero con Julien.
Non che Mizar sia abituato a uscire molto. In ogni caso lui e l'amico passano la maggior parte del loro tempo libero al simulatore di volo a sfidarsi, quando possono, oppure in cortile ad arrampicarsi sugli alberi più alti; solo raramente fanno un giro ad Arcénelly come molti dei loro compagni. Perdere tempo in città non ha mai avuto nessuna attrattiva particolare per il ragazzino, ma essere rinchiuso a scuola gli brucia non poco, per principio.
Tutto soltanto perché non è stato capace di ignorare gli insulti di quell'idiota di Ethaën Méilly Lèsha.
Arrabbiato, dà uno strattone alla cloche che tiene tra le mani e il simulatore si inclina di colpo. Terra e cielo del fondale oltre il suo schermo sbandano e si invertono, l'altimetro – e una spia rossa lampeggiante sul quadro dei comandi – gli segnala che si sta avvicinando troppo al terreno. Il ragazzino sbuffa, allunga la mano sui comandi alla sua destra e tira la leva dei propulsori di emergenza. Se fosse stato su un'aeronave vera si sarebbero accese di colpo le due eliche ausiliarie, mentre le ali si sarebbero inclinate leggermente all'indietro. Lì, invece, con una salva di scatti e fruscii, la sfera di metallo e vetro che simula la cabina si gira, e con il movimento le lampadine rosse d'allarme si spengono.
Mizar riprende il controllo del simulatore. Gli piacerebbe pilotare un'aeronave vera, una volta, e non soltanto una palla che ruota. Avere come limite soltanto le Barriere... e, naturalmente, potersene andare dal Programma per non tornare mai più.
Un campanello trilla nella cabina, e il simulatore si spegne. È finito il turno.
Il ragazzo si alza dal sedile, alla sua sinistra si trova la maniglia d'ottone che ferma lo sportello dell'uscita. La afferra e la spinge verso il basso di scatto, sfogando la propria frustrazione in quel movimento.
«Non sei andato molto bene oggi» lo accoglie con uno sguardo indecifrabile Julien, appena sceso da una delle altre cabine. Mizar non risponde; infila le mani nelle tasche della divisa e si avvia ad ampie falcate verso la porta, il ciuffo caduto a coprirgli la vista, inseguito dai passi rapidi dell'amico.
Qualcosa gli urta la spalla, sbilanciandolo. Sente alcune risate attorno a sé e quando solleva lo sguardo gli si parano di fronte i ghigni di tre ayra del terzo ciclo. Uno di essi Mizar lo conosce fin troppo bene: si tratta di Vincent Kører Harnssen, un ragazzo di Zeya biondo, alto un metro e ottanta e con il viso spruzzato di lentiggini, ed è stato il suo più accanito rivale nella sfida a punti al simulatore che ogni ciclo gli istruttori organizzano tra i migliori di ogni corso. Alla finale della prima categoria – gli anni dal primo al quarto – lui e Vincent si sono fronteggiati per quasi un'ora e il ragazzo, nonostante la vittoria, non ha mai sopportato l'idea che un larsta di un anno più giovane gli avesse tenuto testa per così tanto tempo.
Mizar rivolge a Vincent un'occhiataccia, ma non ribatte. Questa volta non darà a un ayra la soddisfazione di farsi punire a causa sua.
Un istruttore strepita e richiama i tre ragazzi all'ordine, ma prima di andarsene Harnssen assesta un pugno alla spalla di Mizar, con troppa veemenza perché possa essere interpretato come amichevole. Il ragazzino incassa e ancora una volta tace, ma non può trattenersi e si irrigidisce, contraendo le labbra, mentre ricambia l'occhiata dell'altro.
«Ci si rivede, Angstorm» dice il giovane ayra, scoccandogli uno sguardo di ghiaccio mentre si allontana.
D'istinto, Mizar solleva il volto di scatto, pronto a replicare a tono, ma una mano lo afferra per un braccio e perentoria lo trascina fuori.
«Lo fanno apposta a sfidarti» inizia Julien, prevenendo qualsiasi protesta. «Smettila di ascoltarli.»
«Li odio» sputa il ragazzino. I capelli scomposti gli ricoprono il viso, ma non ha voglia di sistemarli e li lascia dove sono; intanto, le sue gambe sembrano muoversi come in automatico verso il cortile esterno. Non si ferma nemmeno di fronte ai battenti di legno della porta: li spalanca d'impeto ed esce.
Per un istante resta accecato dalla luce del pomeriggio, intensa e quasi dolorosa per i suoi occhi abituati alla penombra, ma in un attimo la sensazione spiacevole svanisce. I raggi di Kuna sulla pelle del volto sono ancora caldi, ma non furiosi come in estate; con un sospiro, Mizar chiude gli occhi per qualche secondo e ha l'impressione che la rabbia che l'ha animato si sia affievolita. Il suo respiro si è calmato, la tensione che provava nel trattenersi dal reagire alle provocazioni di Vincent si è ritirata da qualche parte lasciandolo, per ora, libero.
È nel suo elemento. È l'unico momento in cui tutta la rabbia se ne va, e per qualche attimo si sente a casa. Quella casa che non ha più da quando Jan Angstorm e Tarja Kåbsen sono morti, e con loro Lyda, che ancora non era nata. La sua famiglia è stata spazzata via in un battito di ciglia, ed è rimasto solo lui.
Qualcosa gli picchietta la spalla e Mizar non ha bisogno di voltarsi per sapere che si tratta della mano di Julien. Il ragazzino riapre gli occhi nell'oro del pomeriggio assolato, trovandoli sospettosamente appannati, e li stropiccia con le mani. Chissà cosa direbbe Lèsha se lo vedesse piangere – non che Mizar debba sforzarsi molto per figurarselo: gli renderebbe la vita ancora peggiore.
Per fortuna, però, c'è Julien. Mizar si gira verso l'amico, accennando un sorriso; ma questo si fa avanti con un ghigno sulle labbra e gli occhi luminosi. Prima che il ragazzino possa chiedergli spiegazioni, stupito, Julien si sistema gli occhiali tra i capelli e gli si avvicina con un sorriso furbo.
«Sbaglio o hai perso la sfida, al simulatore?» sogghigna.
«Ho fatto... centoquattordici punti» risponde dopo un istante di esitazione, in cui cerca di ricordare il suo risultato.
«Beh. Io ne ho fatti centotrentatré» ribatte Julien, soddisfatto.
«Non montarti la testa, però! Di solito vinco io» si difende Mizar, però, malgrado i pensieri cupi, sta sorridendo.


 
******
 

 
Gli pare che il suono del suo respiro leggermente affrettato riempia la palestra immersa nel silenzio. Immobile sulle gambe divaricate e pronte a scattare, sonda con lo sguardo in ogni direzione, teso a cogliere anche il più lieve movimento. Lo scudo che tiene assicurato al braccio sinistro – un arnese piuttosto pesante e ormai ammaccato, dalla forma a mandorla, in legno rinforzato da borchie di bronzo – comincia a gravargli sulla spalla, i muscoli bruciano già da un po', le cinghie di cuoio gli incidono la pelle oltre la camicia da allenamento; i capelli ribelli si frappongono tra i suoi occhi e la stanza, ma ormai lui è così abituato che non ci dà più peso.
Irja Leino, istruttrice di Magia, è in piedi di fronte a lui, dall'altra parte della palestra. È molto giovane, per essere un'insegnante – a spanne Mizar non le darebbe più di venticinque cicli –; è molto alta e magra come un lampione e, immobile contro la parete bianca nella divisa nera e grigia degli istruttori, appare ancora più secca. I suoi occhi neri sono fissi in quelli di Mizar, gelidi.
Senza alcun preavviso, uno dei bastoni che sono sparsi per tutto il pavimento tra i due balza in aria e si scaglia contro il ragazzino. Lui lo vede arrivare, gli basta muovere un passo a destra e l'arma nemmeno lo sfiora. Subito, dall'altra parte, altri due bastoni si animano e mulinano in aria come impugnati da guerrieri invisibili; Mizar scatta e li schiva senza problemi abbassandosi sulle gambe. Para i successivi fendenti riparandosi dietro il suo scudo, ma gli impatti gli strappano un gemito. Stringe i denti, continuando a schivare un colpo dopo l'altro, sempre più rapido.
Altre due armi si uniscono al combattimento, e Mizar si trova circondato. Nonostante i suoi sforzi, riceve un colpo di striscio sulla coscia che lo fa vacillare, e l'istante dopo, a causa della perdita di equilibrio, non riesce a parare correttamente e viene raggiunto alla spalla. Nemmeno un lamento sfugge alle sue labbra, ma i colpi pulsano dolorosi a ritmo con il suo sangue e riverberano ogni volta che posa la gamba a terra o i bastoni impattano contro il suo scudo. Se continua così, uscirà dalla palestra coperto di lividi.
Si sforza di normalizzare il respiro, senza smettere di difendersi dai bastoni mossi dall'istruttrice Leino. È di nuovo lucido, ma rimedia un'altra bastonata al braccio; infine, con la coda dell'occhio, vede un varco.
Il tempo sembra rallentare per un istante, e Mizar sfrutta quell'unica breccia dal cerchio di bastoni vorticanti. Si tuffa alla sua destra, rotola e si rialza in piedi, ben piantato sulle gambe, lo scudo a coprirgli il fianco minacciato.
«Perfetto, Angstorm, basta così.»
È Irja. La sua voce sembra una staffilata attraverso l'aria, nonostante l'accento di Nashar sia dolce e rotondo. L'istruttrice gli si avvicina, mentre con un gesto riporta i bastoni sul pavimento. I lineamenti del suo volto appaiono ancora più taglienti a causa dei capelli castani cortissimi, tagliati a spazzola. Lo sta fissando negli occhi e il ragazzo cerca di respirare normalmente e di stare dritto anche se è esausto.
«Lo ammetto: ho visto raramente in un allievo della tua età un contatto così profondo con il proprio elemento. Anzi, molti studenti non lo raggiungono nemmeno al quarto ciclo.»
Mizar fatica a tenere per sé il proprio sgomento. Irja è nota per essere una maschera di ghiaccio, che non esterna mai un'emozione, e tantomeno si complimenta con un allievo.
«Il modo in cui hai usato i poteri della Luce per accelerare i tuoi movimenti e i tuoi riflessi in questo test è stato stupefacente; ho dovuto concentrarmi molto per colpirti o metterti in difficoltà. Sei migliorato incredibilmente rispetto allo scorso ciclo, e mi hai incuriosita. Non posso fare a meno di chiedermi che cosa saresti in grado di fare se ti spingessi al limite delle tue capacità.»
«Ne sono onorato» balbetta Mizar, senza sapere bene cosa rispondere, e si sente irrimediabilmente stupido.
«Parlerò oggi stesso con il dirigente. Se sarà d'accordo, ti assegnerò alcuni testi di magia più avanzati su cui potrai approfondire lo studio.»
Senza aspettare una risposta, l'istruttrice Leino si volta e lascia la stanza. Il ragazzo è ancora scombussolato dalle parole della donna, e impiega qualche secondo per assimilarle.
Irja si è complimentata con lui. Irja Leino.
Non sa cosa pensare se non che dev'esserci stato un errore. Gli istruttori lo detestano, non sopportano la sua ostinazione nell'infrangere le regole. E ora Irja parlerà con De Lériet, parlerà bene di lui?
Non riesce a capacitarsene.









 
******* Famigerato Angolino Buio *******

*fuochi d'artificio (viola) e musica epica (suonata da un'orchestra vestita di viola)*
*luci (viola) si accendono su un palco (viola)*
*appare Vy (vestita di verde)*
Intanto, buona
 festa pagana della rinascita buon Natale a tutti ^^
Ho un po' di cosine da dire. Mi scuso per il capitolo piuttosto breve, all'inizio sarà così per l'alternarsi dei PoV di Sirya e Mizar... e comunque ancora non stanno succedendo grandi cose, per cui credo che se sproloquiassi per millemila parole sulla giornata tipo dei due protagonisti mi sparereste - e avreste tutte le ragioni :3
Altra cosa importante: l'avrete notato, all'inizio del capitolo ho messo un paio di coordinate - data, ora e luogo - e ho aggiunto queste cose anche nei capitoli precedenti. Forse all'inizio possono confondere dato che sono un sacco di nomi strani, ma ho pensato che potrebbero essere utili, dato che comunque l'ambientazione è un po' strana(?). Boh, in caso aggiungessero solo casino al casino le toglierò :3
Ultimo appunto e poi vi lascio alla parte più importante di questo F.A.B.: l'immagine all'inizio raffigura Ravnica (Magic), ne sono praticamente sicura, però ha la stessa atmosfera con cui mi immagino Arcénelly, la città in cui si trova Mizar e che ancora non è stata descritta... e boh, mi piaceva l'immagine u.u
E ora... (spero si capisca perché non so proprio spiegare T_T)



Note sulla pronuncia dei nomi – regno di Eythsun.
é: e chiusa, come in italiano.
ë: e aperta, l'equivalente di “è”: “Dalië” si legge “Daliè”.
In genere si accenta sempre l'ultima sillaba, a meno che non ci siano accenti – diversi dai due sopracitati – in altri punti della parola: “Leànyar” si accenta sulla prima a, non sulla seconda; “Talléran” invece è accentato sull'ultima a e si legge quindi “Talleràn”. In “Lèsha” la e accentata non ha un suono particolare ma indica che la parola non si pronuncia accentando la a finale.
La y si legge i, la c se precede una e, i o y si legge s: “Arcénelly” si legge “Arsenellì".
“Ch”, “sh” e “th” si leggono come in inglese.
Å e ø sono lettere nella lingua del regno di Zeya, per cui ne parlerò più avanti per non incasinare tutto... per il resto credo di aver detto tutto, se mi sono dimenticata qualcosa aggiungerò ^^

Parlando della storia: ok, per ora è lenta, ma ci sono cose in agguato... per cui non disperate u.u tutto a suo tempo!
*sparge suspence a piene mani*
Ciau, alla prossima!


Vy

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Capitolo 6
*** Cambiamenti improvvisi ***


***†  Eventide   ***


I Figli del Caos



 


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Capitolo 5

Cambiamenti improvvisi


22 Vejezel 771, ore 06:30
Regno di Eythsun
Andrèlle, valle del Baill, tenuta dell'ayra Leànyar Neja Talléran
 

S



irya chiude la porta, furtiva. La mano che stringe la maniglia appare avvolta dalla consueta foschia verdastra che si avviluppa in lente volute attorno a lei, emanazione del velo d'ombra. Chissà come appare dall'esterno, si chiede sempre. È davvero invisibile o quella sfumatura verde si spande nell'aria?
Un passo dopo l'altro, con tutta la leggerezza di cui è capace, si affretta verso la biblioteca. Forse, finalmente, dopo due interminabili giorni di frustrazione in cui è rimasta chiusa nelle sue stanze ad aspettare che passassero le ore, può andare a prendersi i libri promessile da Leàr. L'uomo e il suo ospite, Gwenaël, trascorrono tutto il loro tempo a confabulare in biblioteca – così ha detto la cameriera che il giorno prima le ha portato la cena – e alla ragazzina non è rimasto altro che attendere di andarci una mattina, prima che fosse servita la colazione.
Non potrebbe sopportare altri cinque giorni reclusa senza libri.
A quell'ora Kuna si libra ancora basso sull'orizzonte, distorto; il cielo si dipinge di tutte le sfumature dal rosso al blu e solo una lieve luce filtra oltre le tende e risveglia corridoi e sale. I servitori sono già indaffarati, animano i corridoi della tenuta, ma per Sirya è facile passare inosservata grazie al velo d'ombra. Una volta chiusi dietro di sé i battenti la ragazzina può tirare un sospiro di sollievo e lasciar andare la magia; nonostante il profondo contatto che ha con l'Oscurità ancora fatica a padroneggiare i suoi poteri e a manipolare le ombre. Dovrà assolutamente chiedere a Leàr di aiutarla a migliorare.
L'immensa sala è deserta e immersa nel silenzio, ma lei non abbassa la guardia e cammina con passo felpato alla luce azzurra del mattino, che trapela oltre le tende e aumenta gradualmente d'intensità. Scorre la mano sul liscio corrimano di marmo, si inoltra tra le schiere di libri fino al tavolo.
Le lampade sono spente e le poltrone vuote, ma sul piano di olmo spicca un libro aperto. Una sequela di lettere, disegnate con cura in inchiostro bluastro, si snoda, divisa in tre colonne per pagina, sulla pergamena pesante. Con estremo stupore, la ragazzina allunga una mano e sfiora l'angolo di una pagina e lo solleva timorosa. Un lieve scricchiolio si propaga in aria, e a Sirya quel suono nel silenzio appare più rumoroso del rombo di un'aeronave. Deglutisce, il cuore in gola, e, con il terrore di rovinare il volume lascia all'istante la pergamena, che si adagia nuovamente nella sua posizione.
Non ha mai visto un libro come quello, ma intuisce subito che dev'essere antichissimo. Le pagine sono fitte di parole vergate in una calligrafia curata, a mano, e cucite a una copertina spessa di cuoio indurito che emana odore di polvere. Deve aver passato molto tempo chiuso sullo scaffale, perché le pagine restano arcuate l'una sull'altra.
Si avvicina di un passo, trattenendo il respiro, e si scopre in soggezione. Si allunga, curiosa, per decifrare i caratteri arzigogolati e tentare di capire l'argomento del libro.
“... vrenn Mørken tor Lyssen, pår erindsen fodsa bjølnirg øsvarne...”
Non può credere a ciò che sta leggendo. Ha sempre saputo che le antiche lingue di Selaera sono perdute ormai da secoli, eppure, ne è sicura, quello che sta scorrendo sotto i suoi occhi è zeyir. Ne conosce solo qualche parola, imparata attraverso le antiche leggende – come il nome del suo lupo, Adh – ma, è evidente, Leàr o Gwenaël ne sanno abbastanza da poter comprendere quel libro.
Affascinata, scorre le pagine una dopo l'altra, cogliendo qualche frase qua e là e facendola rotolare nella sua mente, assaporandone i suoni.
“... bjkke pirtå ør yttelrig tor hesså røddeke. Ver skyrigg køra fjoll, Mørken sergøn tor kvanderen..."
Un movimento, all'angolo del suo campo visivo. La ragazzina scatta all'indietro, il cuore che batte all'impazzata.
L'hanno trovata?
È solo un brandello di carta, caduto dalle pagine, che ora biancheggia sul pavimento. Sirya si china, lo raccoglie e lo apre con un crepitio di carta spiegata. Ne resta delusa: sembra nulla più che un intrico di linee irregolari e disordinate, e non è certo affascinante quanto il volume in cui era conservato. Eppure, esita a piegarlo e infilarlo di nuovo tra le pagine; in qualche modo, quelle forme non le sono ignote. Aggrotta la fronte mentre cerca di scavare nella sua memoria; gira e rigira il foglio per guardarlo da ogni angolazione.
All'improvviso ricorda.
La linea frastagliata in basso a sinistra le è nota, è la costa est di Darnis, ma il disegno si estende fin troppo. Ci dev'essere un errore: là, in basso al centro del foglio, è tratteggiato il Golfo di Anastra, e le Barriere dovrebbero essere segnate poco oltre l'ultimo promontorio; invece la linea di costa continua ininterrotta, e, più in alto nel foglio, campeggiano rappresentazioni stilizzate di catene montuose, fiumi, addirittura una città che non dovrebbero esistere.
Che stupida, deve aver confuso il disegno. Quella non può essere la costa di Darnis, perché i luoghi segnati a destra dovrebbero trovarsi oltre le Barriere, e questo non è possibile. Eppure, anche se lì è segnato con parole incomprensibili – “Tawyl-shei Maerle”, è scritto – la sua forma sembra davvero quella del Golfo di Anastra. E, se guarda bene, quella che è segnata lì come Hyllerae assomiglia in modo sorprendente alla catena montuosa che si erge proprio a nord di Anastra...
Un tonfo distante.
Sirya sussulta; è rimasta troppo lì, incantata, a esaminare il libro, e ora è in trappola. Sente distinamente dei passi e due voci echeggiare, provenienti dall'ingresso della biblioteca e per il momento lontane. Non avrebbe mai dovuto disobbedire agli ordini di Leàr.
Deve andarsene, in qualche modo, prima che i due ayra la trovino lì. Ripiega il foglio con la mappa, infilandolo dentro il tomo a casaccio, e in fretta scorre indietro fino alla pagina in cui ha trovato aperto il libro; senza indugiare un istante si infila tra gli scaffali, a debita distanza dalle finestre, avvolgendosi nel velo d'ombra e confidando che la luce ancora scarsa del mattino la protegga.
Non riesce a stare calma, le sembra di essere schiacciata e non riuscire a respirare; è così affannata che è certa che Leàr e Gwenaël la troveranno ascoltando il suono dei suoi ansiti. Chiude gli occhi e si fa più piccola che può contro la parete gelida di pietra. Deve aspettare che gli uomini la oltrepassino, andando a occupare lo studiolo, così poi potrà uscire senza rischiare di incrociarli. Chissà cosa succederebbe se la scoprissero.
Stringe gli occhi più che può, come se questo potesse farla sparire. Non vuole sapere cosa direbbe Leàr trovandola lì.
Sono sempre più vicini. Il suo cuore ormai sembra sul punto di impazzire.
«Non importa.» Sono così vicini che può distinguere le parole di Leàr oltre il rombo del suo stesso sangue. «Entro l'inizio di Mirvel la porterò da Jèssa. Credo di averla tenuta rinchiusa qui anche troppo.»
L'uomo sembra stanco, Sirya, malgrado la paura, è curiosa.
«Non pensi che potrebbe essere in difficoltà?» risponde Gwenaël. Sirya trattiene un singulto: le stanno passando accanto in questo istante. Leàr si volta verso l'altro, scorrendo con gli occhi il luogo in cui si nasconde lei. La ragazzina smette di respirare.
«Jèssa l'aiuterà.»
Finalmente l'hanno oltrepassata, e non è successo nulla. Sirya aspetta di sentire le poltrone strisciare sul marmo, poi, sfruttando al massimo le sue capacità, striscia fuori dal suo nascondiglio e si allontana, colma di confusione e terrore.


 
******
 

 
Adh guaisce. Il suo lamento interrompe i pensieri di Sirya, e con essi lo scorrere del carboncino sulla carta. La ragazzina sospira e si volta; ancora una volta si è distratta dai suoi esercizi di matematica per ripensare alla mappa appena abbozzata, la mappa che raffigurava l'Altrove. Appena è tornata in camera – e si è ripresa dallo spavento – ha riprodotto a memoria il disegno e l'ha confrontato con la mappa di Darnis che ha trovato in un atlante e, per quanto potesse essere impossibile l'esistenza di una rappresentazione dell'Altrove, è stata costretta a convincersene: le linee coincidevano.
Il lupo si è alzato in piedi e ora gira irrequieto per la stanza, guaendo e fissandola. Sembra preoccupato come Sirya non l'ha mai visto.
«Adh, che succede?» mormora la ragazzina. Lui uggiola ancora, sommesso; Sirya si alza dalla sua sedia per raggiungerlo e accarezzarlo, passando le mani nel pelo morbido, ma Adh scuote la testa e riprende il suo lamento. Sirya trasalisce, turbata.
Cosa sta succedendo?
Poi li sente.
Passi che si avvicinano alla sua porta. Come prima, in biblioteca, le monta dentro un'ondata di terrore; quando Leàr ha ospiti gli unici momenti in cui qualcuno le fa visita sono i pasti, quando le cameriere le portano il cibo, e ora è decisamente troppo presto per la cena. Cerca di non pensare alla possibilità che abbiano scoperto, in qualche modo, la sua sortita di quella mattina, ma le è impossibile. Ritorna alla scrivania; deve eliminare qualsiasi cosa non c'entri con gli esercizi di matematica. Afferra l'atlante e lo ripone in fretta e furia sullo scaffale, accartoccia il suo scarabocchio e, non trovando dove nasconderlo con un'occhiata frenetica alla camera lo tiene in mano e continua a tormentarlo. Adh ritorna ad accoccolarsi nella sua cesta uggiolando piano, e Sirya gli fa cenno di fare silenzio. Infine, preso un respiro profondo, si prepara ad accogliere chiunque ci sia oltre il battente.
Il qualcuno bussa.
Sirya deglutisce e va ad aprire, e nello spiraglio della porta si trova di fronte Leàr.
Adh, dalla sua cuccia, guaisce; Sirya si sforza di celare le proprie emozioni come ha imparato da sempre a fare.
«Sirya, dovrei parlarti» le dice Leàr, con tono cupo. Il suo viso è adombrato; la ragazzina percepisce una tempesta in arrivo.
L'ha scoperta, è chiaro.
Annuisce e si scosta, l'uomo entra e si siede sulla sedia che fino a prima era occupata da lei, Sirya allora si siede sul bordo del letto, il foglio stropicciato ancora tra le mani.
Leàr sospira. Appare provato, appesantito da chissà cosa.
«Ti ho tenuta nascosta per tutto questo tempo perché tua madre mi ha ordinato di fare così» dice, stanco. «E ho realizzato solo ora che non conosci nemmeno il suo nome.»
Sirya è confusa. La paura è scesa quando ha realizzato che Leàr non è lì perché sa cos'ha combinato, e ora non può che domandarsi che cosa significhi tutto ciò. Lei sa come si chiamava sua madre, gliel'aveva detto lui stesso ancora chissà quanto tempo prima; sua madre si chiamava...
«Non si chiamava Eyhildur Airë, come ti ho sempre detto. O meglio, non soltanto così. Il suo primo nome era Aenwyn.»
Aenwyn.
La persona di cui Leàr e Gwenaël parlavano quella volta! Sirya spalanca gli occhi.
Leàr sorride, fraintendendo il suo stupore. «Mi dispiace non avertelo detto prima, è stato un po' per abitudine. Lei stessa ometteva quasi sempre il suo primo nome e si faceva chiamare soltanto Eyhildur. Ma non è certo di questo che sono venuto a parlarti.»
La ragazzina fatica a restare impassibile, ora. Sta davvero accadendo qualcosa; qualcosa che è collegato a Gwenaël, alle notizie che ha portato e che così tanto hanno turbato Leàr, collegato a sua madre, al libro scritto in zeyir, alla mappa dell'Altrove. E in qualche modo, collegato a lei.
«Finora solo poche persone fidate sono al corrente della tua esistenza; una di queste è l'ospite arrivato tre giorni fa, Gwenaël Lérei Alissien.»
Dove vuole andare a parare Leàr con quel discorso?
«Un'altra di queste persone è mia sorella, Jèssemin Avandine Talléran. Lei abita poco distante da qui, ad Arcénelly, ed è stata una cara amica di tua madre. So che hai sempre voluto vedere altri luoghi, per cui ho pensato che ti farebbe piacere partire con me e Gwenaël, il primo di Mirvel, per incontrarla.»
Non c'è più traccia di paura, ora, solo esaltazione. La porteranno in città, come ha sempre sognato! Non vede l'ora. Deve aspettare solo altri sette giorni, un tempo che le pare interminabile, e poi vedrà Arcénelly. La città, le persone, il mare. Volerà su un'aeronave! Quasi non può crederci.
«Mi piacerebbe moltissimo» sussurra in risposta, gli occhi grandi dalla sorpresa.
L'uomo di fronte a lei sorride.
«E poi credo che ti farebbe bene restare con lei.»
Quelle parole le si abbattono addosso una dopo l'altra e tutto il suo entusiasmo si smorza. Come sarebbe a dire, restare con lei? Leàr la sta abbandonando, in un luogo che non conosce, con persone che non ha mai visto?
«Non devi preoccuparti» dice lui, e il suo sorriso si allarga «Jèssa ti farà sentire a casa. Non vorrai stare qui da sola, chiusa in questo castello? Sicuramente sentirai la mancanza di qualche amico, che non sia io o Adh.»
Il lupo, sentito il suo nome, guaisce ancora; Sirya non risponde, come paralizzata.
Amici. Non ha mai preso in considerazione sul serio l'idea, visto che non ha mai avuto la certezza di poter andare in città – o in un qualsiasi luogo in cui ci fossero tante persone. Tutti quei cambiamenti, così di colpo, le danno le vertigini, come se all'improvviso le mancasse il terreno sotto i piedi. La morsa che le stringe lo stomaco, il respiro affannoso e il cuore impazzito le ricordano quella volta in cui è scivolata dal cornicione, arrampicandosi sul tetto. La sensazione è la stessa.
«Andrà tutto bene.» Nonostante si fidi di Leàr, la sua sicurezza non la tranquillizza. «Jèssa ha una figlia, che ha circa la tua età. Sarà facile, vedrai.»
Lei non risponde.
«Intanto, vuoi scendere a cena con noi? Così ti presento Gwenaël.»
Sirya resta in silenzio per qualche attimo, ancora scombussolata. Poi annuisce: Gwenaël le pare gentile.
Leàr allora si alza, le sorride ancora e le si avvicina. Le posa una mano sulla spalla; la ragazzina avverte il suo calore attraverso la camicia e il peso che la schiacciava si scioglie almeno in parte. Lui non la lascerà sola.
L'uomo è ormai fuori dalla porta quando, in un lampo, un pensiero si fa strada nella mente di Sirya. Esce anche lei nel corridoio e lo insegue per qualche passo.
«Aspetta!»
Leàr si volta.
«Se mia madre aveva due nomi ed era un'ayra, lo sono anche io.»
Lui annuisce. Sirya esita.
«Qual è il mio vero nome?» mormora poi.
Il volto di Leàr resta impassibile, ma i suoi occhi luccicano e non ricambiano il suo sguardo; fissano un punto indefinito sopra di lei.
«Sirya Mørken Airë.»
















 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Tan tan taaaaan!
L'avevo detto che sarebbero capitate cose.
Dunque, ricapitolando: Sirya non riesce di nuovo a prendersi il suo fantomatico libro, in compenso ne trova un altro scritto in un incomprensibile pseudo-norvegese una lingua che doveva essere scomparsa, scopre una mappa che raffigura un luogo che non dovrebbe esistere, viene a sapere di essere un'ayra nonché la figlia di una persona che deve averne passate non poche e infine viene cacciata di casa affidata alla sorella di Leàr.
Ci sarà un collegamento tra il libro in zeyir e il secondo nome di Sirya? Perché Leàr cambia idea così di colpo, che c'entra Aenwyn in tutto questo? Spero di avervi incuriositi con questo capitolo *-*
Altra minuscola nota sull'ambientazione. Probabilmente si è capito, ma io lo dico lo stesso: gli ayra si distinguono dai larsti perché hanno due nomi ^^
Passando alle cose serie, ho fatto qualche conto e ho realizzato che questa storia sarà molto lunga. Probabilmente la dividerò in due o in tre, ma succederà sicuramente tra molti capitoli. Ultimamente sto aggiornando molto, voglio approfittare delle vacanze, ma ora mi immergerò nel vasto e insidioso mondo della chimica nello studio per cui sicuramente rallenterò - non ci metterò comunque mesi e mesi per il prossimo, non disperate.
Nient'altro da dichiarare, per cui adieu, ci si sente!

*sparisce in un buco nero appena evocato*

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