La bambola rotta

di bibersell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** One. ***
Capitolo 3: *** Two. ***
Capitolo 4: *** Three. ***
Capitolo 5: *** Four. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La
bambola
Rotta
 

Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so... Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe... Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.
-Lettera di addio al marito. Virginia Woolf 

Prologo.

 
Non permettete a nessuno di dirvi che l’adolescenza è il periodo più bello della vita. Non è vero. Chi lo dice non si ricorda com’è sentirsi inadatti, incompresi, inopportuni. Non accettati. Non se lo ricorda perché dopo è anche peggio. Gli impegni e le responsabilità ti opprimono fino a mozzarti il respiro. Ti strangolano torcendoti il collo e togliendoti ogni possibilità di sopravvivenza. È una continua e ripida scalata per arrivare a quella meta che ci sembra tanto deliziosa e ghiotta ma che in realtà non è come appare. Ognuno ha la propria montagna da scalare e il personale traguardo. Non so ancora quale sia il mio. E non sono sicura di volerlo conoscere.
C’è chi arriva alla vita cadendo dal cielo su morbide coperte di cashmere tra le braccia calde e premurose di una madre affettuosa e chi ci giunge nel pieno di una tempesta travolto dalle onde del mare con l’acqua alla gola, fin da subito in apnea.
Non è possibile appartenere ad entrambi i mondi, sono troppo distanti. Eppure c’è un momento in cui questi collidono, si toccano, e un po’ di sabbia sporca la morbida coperta e tutto va a rotoli. Nulla ha più senso.
Io sono venuta al mondo avvolta da lenzuola di seta bianche e quando la sabbia marrone talmente bagnata da sembrare fanghiglia ha macchiato la seta, la differenza era così abissale da non poter passare inosservata.
Io sono una bambola rotta. Un pezzo minuscolo ed insostituibile si è rotto. Gli ingranaggi faticano a muoversi e mi chiedo quando arrivi il momento in cui ogni cosa smetta di funzionare.

(Sul quaderno degli appunti di storia)


Mi alzai da terra pulendomi le mani sui jeans sporchi di fango che avevano visto sicuramente tempi migliori. Gettai la sigaretta a terra per poi calpestarla e spegnerla definitivamente con la suola consumata delle Vans nere. I raggi del sole timidamente filtravano tra le foglie della folta chioma della quercia. Sotto quei rami mi sentivo protetta da sguardi inquisitori e priva di ogni responsabilità. Non avvertivo il freddo del terreno o il trascorrere del tempo. Con la sigaretta tra le labbra e la stilografica tra le dita ero libera di viaggiare nei meandri più reconditi della mia mente.
Scrivere -scrivergli- lunghe lettere mi aiutava. Mettere i miei pensieri su carta mi aiutava. Scrivevo ovunque. Sulla corteccia degli alberi. Sulle carte delle caramelle. Sui muri. La città era disseminata di bigliettini volanti e scritti di mio pugno.
Posai la penna e il quaderno nella cartella e mi avviai verso scuola preparandomi a vivere un altro giorno. Un’altra giornata uguale alle altre. Più distanza mi costringevo a mettere tra me e il boschetto dietro la scuola e più il senso di oppressione si faceva sentire. Tenni la testa bassa cercando di evitare sguardi estranei. Fissavo le punte delle mie scarpe che lentamente e a piccoli passi si muovevano sull’asfalto producendo un rumore sordo. Il rimbalzare della cartella sulla schiena era rassicurante e mi ricordava quanto fossi normale e mortalmente viva. Cercai li liberare la mente dai pensieri, di lasciarla sgombra. Almeno per un po’. Giusto quel poco che mi permetteva di mantenere una certa sanità mentale.
La scuola era il mio inferno personale, ma non perché mi costringeva a svegliarmi presto ogni mattina e mi teneva impegnata tutto il giorno. Il vero motivo era un altro. In quel luogo c’erano troppi ricordi. Tra quelle mura viveva ancora la sua risata allegra e travolgente. Ovunque mi girassi vedevo il suo volto. Sentivo la sua voce chiamarmi e dirmi di smetterla. Di tornare a vivere. Ma io non potevo. Non potevo andare avanti senza di lui. Frequentare i nostri amici era troppo. All’inizio ci avevo provato, ma avevo fallito. Forse dovevo essere più testarda, ma tra i due lui era quello che non mollava mai.
Scossi la testa nel vano tentativo di far uscire quei dolorosi pensieri dalla mia mente. Varcai le porte del liceo e immediatamente il chiacchiericcio dei miei compagni mi inondò le orecchie. Nonostante il rumore fosse assordante non riusciva a riempire la voragine che avevo dentro. Né il rumore né la musica riuscivano nell’intento. Solo le parole. Le parole scritte riuscivano a farmi tornare a sentire. Era un momento, un momento in cui sentivo le punte delle dita fremere e capivo. Capivo che dovevo scrivere per gettare fuori tutto quello che avevo dentro. Ad ogni lettera impressa sentivo salire sempre più su quel nodo alla gola ma non riusciva mai ad arrivare talmente in altro da uscire fuori e sciogliersi. Era un nodo che si inglobava con nodi più piccoli lasciando solo devastazione e voragini al suo seguito.
Mi bloccai lungo il corridoio ed estrassi la carta lisa di un vecchio pacchetto di Vigorsol.

Cosa si nasconde dietro l’altra faccia della luna?

Scrissi e arrotolai velocemente il pezzo di carta e lo infilai nella tasca posteriore dei pantaloni. Una sensazione di pace si impossessò di me per un attimo, un solo minuscolo secondo. E poi svanì lasciandomi in compagnia della desolazione.


La mattinata trascorse come tutte le altre: apaticamente. Da quando lui se n’era andato nulla aveva più senso. La mia vita non aveva più senso. Il cuore pompava sangue alle arterie e mi permetteva di vivere. I polmoni gettavano aria al di fuori del mio corpo ma ogni singolo respiro era vuoto. Senza vita. I miei sospiri senza i suoi non erano degni di esistere. Se non c’era lui io non c’ero. Ed io non c’ero più da così tanto tempo che non ricordavo nemmeno più cosa volesse dire esserci.
Uscii da scuola e mi diressi verso l’autobus che mi avrebbe riportato a casa. I miei piedi si mossero ma non ci badai. Non sentivo nulla. Non percepivo i rumori che mi circondavano. Quel giorno avevo la testa vuota. Era peggio degli altri giorni. Era peggio perché in quella settimana c’era l’anniversario. Quei pensieri mi colpirono come cazzotti allo stomaco e mi portai istintivamente le mani al ventre. Non dovevo pensarci. Non dovevo. Salii sull’autobus come un automa e mi appoggiai can la spalla al palo vicino alle porte. Non provai nemmeno a vedere se ci fosse un posto libero tanto non mi sarei seduta. Mi sarei fatta mezz’ora di autobus impiedi e con lo zaino pesante pur di non sedermi.
Feci partire la musica. Le mie orecchie si riempirono delle grida e degli accordi rabbiosi dei Linkin Park. Mi sentivo intorpidita. Congelata da quelle emozioni delle quali non mi riuscivo a liberare. Era come in quei giochi di illusionismo quando il mago indossava la camicia di forza e in pochi secondi riusciva a liberarsi. Io ero quel mago ma io non sapevo quale fosse il trucco per liberarsi. Nessuno me l’aveva detto e adesso ogni secondo che passava mi sentivo sempre più costretta e soffocare da quelle emozioni e da quel passato che erano la mia camicia di forza.
L’autobus si fermò e io scesi lieta di poter respirare di nuovo aria pulita. Detestavo restare a lungo in posti chiusi. Mi dava un senso di impotenza che odiavo. Già una volta avevo sentito quel sentimento impossessarsi di me e farmi da padrone. Mi ero ripromessa che non sarebbe accaduto mai più. A piccoli passi mi avvicinai a quella che era la mia casa. Una bella casa bianca con le imposte scure e i fiori gialli e rossi sul davanzale. Il piccolo giardino d’avanti casa permetteva a mia madre di esercitare il suo pollice verde e mostrare ai vicini quanto fossero belle le sue petunie. In un quartiere residenziale e tranquillo come quello ci si poteva permettere di tenere un tavolo con delle sedie in bella mostra sul prato ben curato. Entrai in casa evitando appositamente di osservare due biciclette ancora legate tra loro e in disuso da così tanto tempo che le mie gambe non ricordavano più come si facesse a pedalare. O più semplicemente non volevano ricordare.
Sbattei la porta alle mie spalle e mi diressi al piano di sopra chiudendo la porta della camera dietro le mie spalle. In casa non c’era nessuno e questo lo sapevo bene. Mia madre era immersa nell’ennesimo turno di lavoro sfiancate e sarebbe tornata solo in tarda serata seguita dalla scia puzzolente di farmaci e malattie. Era impiegata all’ospedale come infermiera. Il lavoro era la sua vita. Passava più tempo tra quei corridori asettici che a casa nostra. Mio padre invece era partito la settimana prima per un viaggio di lavoro e ancora non era tornato. Tanto chi voleva prendere in giro, sapevamo –io e la mamma- che quei viaggi erano solo una scusa per evadere dalla realtà. La nostra -la mia- vita stava andando allo scatafascio e io non sapevo cosa fare per riprendermela in mano.
Mi stesi sul letto abbandonandomi al nulla lasciando che la solitudine e la depressione inondassero il mio corpo sperando di tornare a sentire. Ma non fu così. Presi a pizzicarmi una gamba ma nemmeno allora sentii dolore. Aspettai che l’ansia e l’angoscia si impossessassero di me. Attesi. Attesi il nulla che non arrivava. Presi a schiaffeggiarmi le cosce ma nemmeno quello parve farmi sentire nulla.
Con gli occhi appannati e la mente in pausa presi una manciata di monete del portafoglio e le infilai nelle tasche dei jeans. Afferrai il pacchetto di Marlboro e uscii di casa non sapendo bene dove fossi diretta. Sapevo solo che dovevo trovare un modo per ritornare a provare qualcosa.


My space..
Ed eccomi tornata con una nuova storia. Ho come l'impressione di essermi messa in un grosso guaio. Quanto può essere difficile scrivere una storia del genere? Tanto. Ci vuole di giusto umore (o sarebbe meglio dire l'adatto cattivo umore) per scrivere questa storia. 
Tuttavia sento il bisogno di dare vita a questi personaggi e non posso certo rifiutarmi. 
Per adesso non ho ancora nulla da dirvi sulla storia se non che spero vi sia piaciuta o quantomeno incuriosito.
Sono curiosa di sapere i vostri pareri e mi farebbe piacere ricevere consigli o critiche purché costruttive. 
Un bacio e alla prossima.
-B


 

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Capitolo 2
*** One. ***


La bambola
Rotta

"Colui che ama se stesso sopra ogni cosa non passa per la porta del regno dei cieli,
allo stesso modo il cui dito della sposa, se è ripiegato su se stesso,
non entra nell'anello offerto dallo sposo"
-Foscolo.

 


ONE.

Non avevo mai fatto nulla di simile. E questo certamente non mi avrebbe fermato.
La musica alta e rintonante del locale aveva richiamato la mia attenzione da metri di distanza. Musica, casino e gente era quello di cui avevo bisogno. Entrai nel locale bisognosa di emozioni. Qualsiasi cosa mi sarebbe andata bene. Tutto era pur sempre meglio di niente. Mi fiondai nel locale avvertendo immediatamente l’odore di cenere di sigaretta e puzza d’alcool. La tanfa di sudore non era certo da prendere sottogamba. Coi gomiti sollevati mi feci spazio tra la folla puntando direttamente al bar del locale.
Non pensare. Sciogliti.
Mi ripetevo queste parole come un mantra.
Aspettai qualche minuto, il tempo che il barista di turno si liberasse per poi chiederli di darmi qualcosa di forte. Mi porse un bicchiere contenente del liquido marrognolo che ingerii senza indugi. Era amaro. E decisamente forte. Ringraziai il barista per poi allontanarmi dal bancone e buttarmi nella mischia. Un numero abnorme di giovani si dimenava a ritmo della tecno ballando da soli, in coppia o in gruppo. Sembravano tutti divertirsi tantissimo. Invidiavo la loro spensieratezza.
Fino all’anno prima anch’io ero come loro. Andavo nei locali, mi sbronzavo coi miei amici con la consapevolezza che la mattina seguente avrei trovato lui al mio fianco pronto a raccogliermi i capelli mente vomitavo anche l’anima. Il mio Daniele.
Mi mancava come l’aria. Insieme a lui ero morta anch’io. Di me non restava altro che un involucro di una bambola rotta, sfregiata per sempre. Io e lui eravamo una cosa sola. Se lui non c’era non c’ero nemmeno io. Che senso aveva continuare a vivere senza farlo davvero?
Avvertii il famigliare fremito alle dita della mano. Non potevo evitare di assecondare la mia mente. Sapevo che per un attimo, un attimo solo, sarei tornata a respirare.
Mi diressi verso il bagno putrido del locale e una volta chiusa in quel mezzo metro quadrato cacciai il pennarello indelebile dalla borsa e scrissi sul muro del bagno.

Se non si è impegnati a vivere, si è impegnati a morire.

Ed era quello che stavo facendo io. Ed ero consapevole di star distruggendo quel poco che ancora rimaneva di me. Con la mia fine sarebbe scomparsa per sempre anche la memoria di Daniele.
E io non volevo che il suo ricordo morisse con me.
Mi lavai la mani e poi uscii dal bagno dirigendomi nuovamente al bar. Presi una birra e agitando i fianchi mi buttai tra la folla. Iniziai a ballare da sola sorseggiando lentamente l’Heineken.
I primi ragazzi ubriachi non ci misero molto ad avvicinarsi tentando un approccio ma non ci badai. Non ero andata lì per quello. Non volevo trovare un sostituto di Daniele volevo solo tornare a provare qualcosa. Qualsiasi cosa mi sarebbe andata bene.
E sapevo che l’alcol mi avrebbe dato quel senso di euforia momentanea. E a me andava bene anche quello. Buttai giù un altro sorso e finalmente la mente si sgombrò totalmente dai pensieri e sentii la sbronza iniziare a crescere maggiormente ad ogni sorso di birra.
Volevo così tanto tornare ad essere come prima, fare le stesse cose che fino ad un anno fa caratterizzavano le mie giornate e rendevano la mia vita normale e bella. Ma ogni volta che provavo a comportarmi come un tempo mi sentivo a disagio nel mio stesso corpo e nella mia stessa vita. Accettare il fatto che quella sera anch’io ero morta insieme a lui era stata dura. Ma ancora più dura è stata la rinascita. Ero tornata ad essere una neonata, però io sapevo già camminare, parlare, scrivere… Adesso dovevo imparare a conoscermi. A conoscere quella che era la nuova Eden. Un’ Eden senza Daniele.
Tuttavia, prima di tornare a risorgere dalle ceneri come la buon vecchia fenice dovevo tornare a sentire.
Buttai giù un’altra sorsata e scossi la testa a causa del saporaccio amaro di quella birra che nemmeno mi piaceva ma mi ricordava lui. Un altro sorso e un altro ricordo che volava via da me e si rifugiava nel punto più alto e luminoso del cielo.
La musica si fece più alta e l’aria diventò quasi soffocante. Mi lasciai schiacciare dall’orda di ragazzi e travolgere dalla loro energia e spensieratezza sperando che facessero breccia in me. Ondeggiai i fianchi in un movimento ben noto al mio corpo. Io potevo anche non sentirmi a mio agio in quell'ambiente ma il corpo ricordava bene le vecchie abitudini. Lasciai fare a loro, ai miei muscoli che parevano sapere meglio di me come comportarsi.
Per un attimo sperai che quella fosse la volta buona, che sarei ritornata a sentire qualcosa. Ma non lo era. Le ferite che mi portavo dietro erano troppo profonde per essere lenite da un po’ di musica e l’ennesima birra. Come se non lo sapessi, come se non ci avessi mai provato. Forse, pensai, quello che mi serviva era qualcosa di nuovo. Qualcosa che non apparteneva alla vecchia Eden ma che sarebbe bastato a quella nuova per tornare a vivere.
Senza nemmeno pensarci mollai tutto e me ne andai. Con la sola bottiglia di vetro tra le mani a tenermi compagnia uscii dal buio e rumoroso locale quasi correndo verso la porta. L’aria era abbastanza afosa per essere in settembre. Da quelle parti il caldo tardava sempre ad andarsene e settembre lo si poteva considerare a tutti gli effetti uno dei mesi estivi.
Mi strinsi nel mio giubbotto di jeans in un gesto più istintivo che necessario.
Risi a quel pensiero. Ormai lo avevo indossato così tante volte che stavo iniziando a considerarlo un mio capo di abbigliamento quando in realtà non era così. Quel giubbotto era di Daniele e a me non era mai piaciuto. Era talmente consumato che i polsini sfoggiavano piccoli buchetti nei quali mi divertivo a infilare le dita e allargare l’apertura. Il tessuto in corrispondenza del gomito era macchiato di grasso e nemmeno i solventi più costosi erano serviti a qualcosa. Non so quante volte avevo provato a convincerlo di buttare quella vecchia giacca fuori moda e comprare un chiodo in pelle nera che tanto piaceva alle ragazze. Lui si era sempre rifiutato di assecondarmi dicendo che non avrebbe mai gettato quella giacca.
Dopo l'incidente non avevo avuto cuore di darla via, così come il resto delle sue cose. Da quella tremenda notte la portavo sempre indosso. All’inizio il suo odore era ancor impresso nel tessuto. Era piacevole sentirlo di nuovo. Percepirlo su di me. Era come se, in un modo contorto, fossimo ancora insieme e nessuno avrebbe potuto separarci di nuovo. Non questa volta.
E poi il profumo era svanito sostituito dal mio. E avevo odiato così tanto il mio stesso profumo fino a desiderare che sparisse. Non mi era rimasto più nulla di lui.
Infilai i pollici nei buchi dei polsini e mi persi ad osservare le mie unghie corte ricoperte di uno strato di smalto nero mangiucchiato e tolto solo per metà.
Prima sarei inorridita davanti alla vista di quelle mani così rovinate ma adesso non mi faceva alcun effetto. Forse era un aspetto della nuova me o forse era solo l’ennesima prova della mia apatia.
 
***

Corsi lungo le strade deserte di una cittadina popolata, a quell’ora della notte, da soli ubriaconi e malintenzionati. Corsi battendo i piedi sull’asfalto concentrandomi sul rumore della suola a contatto col terreno per impedire ai miei pensieri di svilupparsi. Se mi fossi concentrata su altro avrei distolto l’attenzione da quello che stavo per fare. Forse, a mente lucida, non avrei nemmeno preso in considerazione una cosa del genere. Mi sarei data da sola della stupida se solo fossi stata in me. Ma non lo ero, non lo ero da quasi un anno.
Arrivai senza nemmeno accorgermene al ritrovo, al Buco Nero. Tutti in città chiamavano in quel modo il viale nel quale mi trovavo. Tutti sapevano dove si trovava e cosa si faceva ma nessuno diceva nulla.
In uno dei quartieri mono raccomandabili, il Buco Nero era in assoluto la zona più pericolosa e chi ci andava non aveva certo buone intenzioni. E in quel momento non le avevo nemmeno io.
Prima di voltare l’angolo e immettermi nel viale buio tirai un grosso respiro e mi concedetti un minuto per pensare. Daniele non avrebbe approvato quel comportamento. Quando tornavo dalle feste ubriaca persa mi guardava con occhi delusi e sguardo di rimprovero. Ripensai ai suoi bellissimi ed espressivi occhi verdi e mi sentii quasi freme sotto quel ricordo. Ma lui non c’era più. Non mi avrebbe guardato mai più in quel modo e io volevo solo una cosa; volevo semplicemente smettere di pensare. Anche solo per poche ore. Se non avessi spento la testa avrei rischiato seriamente di impazzire.

Entrai nel vicolo con l’unica priorità di sfogarmi e trovare qualcosa che mi permettesse di allontanarmi da quel mondo senza, tuttavia, lasciarlo definitivamente.  
La prima cosa che notai appena voltai l’angolo fu la scarsa, per non dire del tutto assente, illuminazione comunale. Se non fosse stata per la luce lunare e quella artificiale proveniente dai palazzi attigui non si sarebbe visto ad un palmo dal naso.
Percorsi il silenzioso viale sentendo l’unico rumore delle mie scarpette di tela risuonare e rimbalzare contro le pareti come un eco. Presi a giocherellare con la bottiglia di birra rigirandola tra le mani per stemperare l’atmosfera pesante che si era venuta a creare. Arrivata quasi alla fine del viale credetti di essermi sbagliata, lì non c’era nulla. Sbuffai in parte delusa. In minima percentuale dovevo ammettere di essere sollevata. Non ero sicura di quello che stavo per fare.
Tuttavia la delusione si fece sentire di più della ragione e quando vidi una piccola e flebile luce in lontananza seguita da un leggero mormorio non potei impedire alle mie labbra di stendersi in un sorriso.
Allungai il passo e giunsi alla fine del viale quasi fremendo. La strada terminava in un vicolo cieco sbarrato con una rete metallica di quasi cinque metri. Un lercio divano era appoggiato a ridosso della rete e sopra vi erano seduti un paio di ragazzi con i capi reclinati all’indietro e i corpi rilassati. Sembravano sedati.
Il passaggio era ostacolato da alcuni cassonetti della spazzatura che erano stati spostati dagli Streeter in modo da poter muoversi meglio per fare le scritte sui muri. Tuttavia la mia attenzione fu calamitata da un’ombra che si muoveva nell’oscurità.

«Ehi Dollar, guarda un po’ qui cos’abbiamo. Una pecorella sembra essersi persa» disse una voce maschile alle mie spalle. Mi voltai per vedere la faccia a cui apparteneva quella voce.
Un giovane ragazzo si stagliava nell’oscurità. Portava il cappuccio della felpa calato sul capo e non riuscivo a scrutare i suoi occhi nell'oscurità ma il sorrisetto derisorio era ben visibile.
«Stai parlando con me?» chiesi schiarendomi la gola e cercando di sembrare ferma e risoluta. Una vera tipa tosta.
«Io non vedo nessun altra pecorella smarrita. E tu, che ne dici Dollar?» chiese il ragazzo rivolgendosi a qualcuno alle mie spalle. Mi voltai leggermente e vidi qualcuno uscire dall’ambra. La stessa persona che prima avevo visto muoversi nell’oscurità.
«Amico se continui così mi farai perdere tutti i clienti» disse un altro ragazzo che immaginai si chiamasse Dollar. O meglio, quello era il suo nome all’interno del giro.
«Ma fammi il piacere» rise l’altro portandosi le mani alla pancia sballottando incerto sulle sue stesse gambe. Non aveva fatto nemmeno un passo eppure sembra faticare a reggersi in piedi. «Non crederai mica che questa qui centri qualcosa con questo posto»
«Diamole almeno la possibilità di parlare» rispose il secondo portandosi alla luce del viale e permettendomi di scrutarlo in volto. Anche lui aveva il cappuccio calato sul capo ma a differenza dell’altro questo portava un lungo cappotto nero che metteva ben in evidenza le ampie e virili spalle. A testa alta e sguardo serio mi fronteggiava torreggiando sulla mia figura che a confronto della sua sembrava così minuta. Con gli occhi mi incitò a parlare.
Mossi nervosamente la testa e dopo aver buttato giù un altro sorso di birra cominciai a parlare.
«Vorrei della roba. Roba forte» cominciai a dire cercando di esprimermi al meglio. Non sapevo come muovermi in una situazione del genere. Ero totalmente inesperta in quel campo. L’importante era non far capire al nemico le mie debolezze. «E so che voi l’avete»
«Ti do un consiglio, principessina. Vattene finché sei in tempo. Questo posto non fa per te» intervenne il primo ragazzo che a quelle parole ricevette un’occhiata di rimprovero da Dollar.
«Cosa ti serve?» parlò appunto quest’ultimo rivolgendosi direttamente a me. «Erba? Marijuana?»
«Dai Dollar, non puoi fare sul serio» si intromise l’altro. «E’ solo una bambina»
«La grana è grana, Mad» ribadì risoluto l’amico. «Se lei paga, io le do la roba»
«Sei proprio uno stronzo» rispose e se ne andò barcollando per poi lasciarsi andare sul divano sgangherato. Da lontano lo vidi cacciare qualcosa dalla tasca. Sembrava una bustina. Stese il contenuto sulla coscia di una ragazza seduta di fianco a lui e lo vidi inalare.
Distolsi lo sguardo richiamata da una voce maschile.
«Allora? Non possiamo mica stare qui tutta la sera» disse in tono scocciato.
«Mi va bene tutto. Voglio solo perdere la ragione per un po’. Non importa come» risposi più sincera che mai.
Sentii lo sguardo del ragazzo addosso e lo percepii squadrarmi. Alzò le sopracciglia e corrucciò il viso. Sembrava disapprovare.
Poi distolse gli occhi dalla mia figura e cacciò una bustina trasparente dalla tasca della giacca. All’interno c’era una pasticca. Era piccola e leggermente rosata.
«Questa dovrebbe andare bene. Non è troppo pesante per una prima volta»
Non mi chiesi nemmeno come facesse a sapere che era una prima volta, supposi direttamente che si capisse. Eppure non riuscivo a capire cosa mi avesse tradito. Forse era per il mi aspetto. Non tanto per i vestiti, quanto per il viso minuto che urlava le parole “Brava ragazza, fate attenzione”.
«Quant’è?» chiesi direttamente.
«Non vuoi sapere nemmeno cos’è?» chiese incuriosito il giovane facendo un passo verso di me. Io arretrai automaticamente.
«No, non mi interessa. L’importante è che funzioni». Aspettai che mi dicesse il prezzo e poi presi una banconota dalla tasca del giubbotto e gliela passai.
Non volevo sapere cosa fosse perché non volevo rischiare di sentirmi in colpa. Non volevo rischiare di risvegliare la razionalità e la ragione che avevo faticato così tanto per annichilire e che ormai erano assopite da tempo.
Mi girai e feci per andarmene, ma una mano mi afferrò il braccio arresando la mia camminata.
«É ecstacy» parlò con voce bassa ma ferma. «Non bisogna mai fidarsi di uno spacciatore e soprattutto» tacque attirandomi a lui con uno strattone «bisogna sempre rispettare le sue regole. E tu ne hai appena infranta una»
«E quale sarebbe?» replicai in un sussurro rendendomi conto solo in quel momento di aver trattenuto il fiato. 
«Mai lasciare che il pusher scelga per te» mi soffiò tra i capelli per poi lasciarmi andare. 
Uscii dal viale senza mai voltarmi indietro per paura di incontare quegli occhi che mi sentivo addosso. Quell'emozione non mi abbondonò nemmeno una volta arrivata a casa. Mi sentivo così strana e angosciata che arrivai a preferire l'apatia ai sentimenti. 
 

My space..
Devo ammettere che è passato un bel po' di tempo dall'ultima volta. Mi scuso ma sono stata impegnata e l'ispirazione sembrava essermi passata. 
Con l'arrivo della primavera è tornata la mia vena creativa e non vedo l'ora di scrivere questa storia e di condividerla con voi.
Spero che ci sia ancora qualcuno disposto a seguirla. Mi auguro di si.
Come sempre vi invito a farmi sapere cosa ne pensate. Ogni parere, critica o consiglio è sempre ben accetto.
Detto questo, vi saluto e vi auguro buona domenica.
Baci
-B

 
 
 

 

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Capitolo 3
*** Two. ***


 



La bambola
Rotta




Nella morte c'è un abbraccio.
-Virginia Woolf



 Two.

Caro Daniele,
una volta ho letto in un libro che il miglior modo per superare un lutto è parlarne. Non bisogna tenersi tutto dentro ma riversarlo all'esterno come un fiume in piena. Tu eri il mio confidente, il letto del mio fiume, la mia ancora. Tu eri tutto per me.
Ci hanno sempre detto che avevamo un rapporto speciale, che una complicità come la nostra era difficile da trovare. A noi non è mai sembrata una cosa impossibile o tanto rara. Forse perché ci siamo sempre stati l'uno per l'altra e non abbiamo mai fatto esperienza della lontananza. Ma adesso che non ci sei più capisco il vero significato di quelle parole. Solo adesso comprendo quanto quelle persone abbiamo avuto dannatamente ragione.
L'importanza di qualcosa si capisce solo quando la si perde. Ironico vero?
Quando sono tornata da scuola, mamma non c'era. Era in ospedale, impegnata in un altro estenuante turno lavorativo. Nostro padre è ancora fuori. Dice che sta concludendo un grosso affare. Certo, come se non lo sapessi che tornare in questa casa, in questa città, gli fa troppo male al cuore.
Quando sono entrata in casa, oggi, la prima cosa che ho visto è stato l'album delle fotografie. Eri ovunque. Dio, non puoi capire quanto si sono incrinati i pezzi già rotti del mio cuore. Mi mancava il fiato. Eri così bello. Non è ancora passato un anno e l'immagine di te già sta svanendo nella mia mente. E io non voglio. Non voglio che il tuo sorriso sbiadisca. Non voglio dimenticare il musicale tono della tua voce. E soprattutto non voglio dimenticare il calore e la rassicurazione che solo le tue braccia sapevano darmi.
Ti cerco ovunque, ma non ti trovo. Cerco il tuo nome in quello degli altri, la tua forza nei ragazzi della mia scuola. Ma tu non ci sei. Te ne sei andato. E questa volta per sempre. Non so più come andare avanti. Ti prego, pensaci tu angelo mio. La mia unica consolazione sta nel pensare che tu sia ancora al mio fianco e che mi guardi ovunque tu sia.



Con l'ultima lacrima caduta sul foglio sigillai la lettera e la riposi nella scatola dei pensieri vicino a tutte le altre lettere che gli avevo scritto. Non erano moltissime, la maggior parte risalivano a qualche mese fa. Nella scatola c'erano anche delle diapositive mai sviluppate e delle foto. Daniele aveva la passione per la fotografia, fin da piccolo aveva subito mostrato questa sua particolare attitudine.
Amava stare dietro l'obbiettivo e scattare a ripetizione fino a farsi uscire i calli sulle dita. Era capace di passare giornate intere nella camera a luci rossi perdendo completamente la cognizione del tempo. Aveva ereditato questa passione da nostro padre ma lui l’aveva abbandonata per gettarsi nel mondo dell'imprenditoria, mentre aveva lasciato il suo unico figlio maschio a coltivare il talento di famiglia. Col tempo e con l'esperienza Daniele aveva maturato le sue idee. Lui amava i rullini e le diapositive, sosteneva che sviluppando le foto queste perdevano di colore e di luce e tutta loro essenza svaniva. Nostro padre, invece, era un sostenitore del digitale e delle nuove tecniche di sviluppo. "Il digitale è il futuro, figli miei" diceva mio padre. Daniele non era d'accordo. Lui era un sentimentale, era per le cose vecchio stile. Era il classico ragazzo che portava le rose alla propria fidanzata il giorno di San Valentino e la strapazzava di baci e coccole. Daniele era perfetto. Dopo la sua morte, la camera rossa è stata chiusa secondo un tacito accordo. Non ci entrava più nessuno da quasi un anno. Non ne avevamo avuto la forza.
Dio quanto mi manca quel ragazzo. Lui non era solo mio fratello, lui era il mio gemello. Avevamo condiviso ogni cosa già prima di venire al mondo. Eravamo una sola cellula che poi si era divisa e senza di lui mi sentivo morta. Ero ben consapevole di dover fare qualcosa. Eppure non sapevo cosa. Avevo provato di tutto. Ero andata in terapia ma non era servito a nulla. Forse perché non ci avevo provato veramente.
Avevo cercato di tornare alla vecchia vita ma questo mi aveva fatto ancora più male. Avevo urlato, pianto, buttato all'aria tutto quello che mi capitava sottomano. Ma non era servito a nulla. Eppure c'era ancora una cosa da poter fare. Due sera prima mi ero recata al Buco Nero per comprare della droga ma poi non avevo avuto il coraggio di prenderla. Stringere quella bustina tra le dita mi aveva dato una tale d'energia ed un senso d’onnipotenza che in quel momento mi erano bastati. Ho pensato "Ci sei riuscita Eden. Era questa la botta che cercavi. Non c'è bisogno di prendere veramente la pasticca".
Poi l'adrenalina era scomparsa e al momento l'unica cosa che poteva procurarmela era proprio quella maledetta pasticca rosa. Ero talmente dipendente dalle forti emozioni che non mi importava nemmeno cosa servisse a farmi tornare a sentire. L'importante era tornare a farlo. Senza pensarci maggiormente e con ancora i lacrimoni agli occhi cacciai la bustina in plastica dalla tasca del giubbotto. Estrassi la pasticca e la soppesai. Era di un bel rosa chiaro. Sembrava quasi innocua. Così delicata eppure sapevo benissimo i rischi che correvo. E questa era la cosa che mi affascinava di più: rischiare.
Mi portai la mano alla bocca ed ingoiai. Tossii leggermente per lo sforzo seguito dalla deglutizione e poi aspettai.
Tutto come prima. Non mi sentivo affatto diversa. Ero sempre io con i miei problemi e i miei pensieri malinconici. Chissà cosa mi aspettavo.
Mi alzai dal letto sul quale mi ero stesa e scesi in cucina a prendere dell'acqua. Bevvi diversi sorsi e poi decisi di risalire in camera. Mi tolsi la tuta ed infilai un paio di comodi leggings al ginocchio e una maglietta a maniche corte. Allacciai le converse, presi la giacca di jeans, la borsa ed usci pronta a tornare al buco nero per chiedere spiegazioni. Il sole era tramontato da un po' ma il cielo non era ancora diventato blu. Aveva assunto quella meravigliosa tonalità di cobalto con mille sfumature di rosso e rosa. Era bellissimo.
Camminai per le strade della città osservando i lavoratori far ritorno alla loro cose e i ragazzini prendere il gelato e godersi le ultime giornata estive. Ormai l'autunno era alle porte e stava cominciando ad imporre la sua presenza con quel vento vorticoso che si alzava alla sera. Mi strinsi nella giacca e allungai il passo dirigendomi al Buco Nero cercando di non sbagliare strada.
Quando arrivai il viale era deserto, non riuscivo a vedere nessuno. Mi appoggiai di peso al muro portandomi una mano alla testa mentre un giramento improvviso mi colpiva. La vista cominciò ad appannarsi e il cuore aumentò i suoi battiti. Provai per una frazione di secondo il panico da preoccupazione ma poi svanì tutto. Il senso di euforia che mi pervase era talmente forte da non avere eguali e battere qualsiasi cosa. Ebbi la sensazione che le mie gambe e le mie braccia fossero diventate immensamente lunghe e forti. Se avessi voluto sarei arrivata al cielo in un sol salto. In quel momento credevo di esser capace di poter fare tutto. Anche sollevare una macchina. Iniziai ad urlare di gioia e a girare su me stessa con le braccia aperte e la testa reclinata all’indietro. Ad occhi estranei sarei sembrata una povera pazza in uno squallido vico al crepuscolo. Mi sarei derisa da sola se solo avessi avuto un minimo di percezione della realtà. Ma in quel momento non mi importava di nulla, finalmente ero riuscita a sgomberare la mia mente. Mi sentivo leggera, potente, fluttuante, onnipotente, autosufficiente e un sacco di altre cose che non ero da parecchio e che non avevo mai provato in una vita intera.
«Ehi bellezza, ci si rivede» una voce allegra almeno quanto mi sentivo io in quel momento richiamò la mia attenzione. Mi voltai con uno sfacciato sorriso sulle labbra e sbattei le palpebre diverse volte osservando il ragazzo davanti ai miei occhi. Era molto alto, ad occhio e croce direi quasi un metro e novante e quella sua altezza sproporzionata lo faceva sembrare ancora più magro. Portava una maglietta a maniche lunghe che gli cadeva larga e dallo scollo sul petto erano visibile le clavicole. Erano così spigolose che sembrava che potessero perforare la pelle e fuoriuscire da un momento all’altro.
Lui rise e quel suono riportò la mia attenzione sul suo viso.
«Che ci ridi?» domandai sentendo la mia voce stridula e malferma. Mi parve di vedere una luce provenire dalle spalle del ragazzo ma non ci badai e mi concentrai sul suo viso. Aveva una forma ovale con una mascella molto pronunciata e un naso sottile ed appuntito che facevano sembrare il suo viso ancora più lungo. I capelli biondissimi, quasi bianchi, erano portati lunghi fino alle spalle ed erano talmente sporchi che i solchi procurati dalle cinque dita erano ancora visibili nella zona della cute. Ma l’attenzione era catturata da quei due occhi cerulei talmente chiari da potercisi specchiare. Dovevano essere bellissimi un tempo, adesso erano solo vuoti. Sembravano un cumulo di vetri rotti che ormai non riuscivano a riflettere più nulla. Quel ragazzo dava l’impressione di un corpo senz’anima.
«Tu mi fai ridere» disse mostrando la sua dentatura. Vidi che gli mancava un dente. Non era uno di quelli davanti, ma quando parlava si notava. «Quando sei venuta l’altra sera non avrei mai pensato che l’avresti fatto veramente. E invece guardati adesso, ti stai sballando per la prima volta». Scosse debolmente la testa e i suoi capelli ondeggiarono coprendogli il viso.
«Già» farfugliai allegra. Mi sentivo addosso ancora quella sensazione di potere che mi faceva camminare a sette metri da terra. «Aspetta..» mi bloccai riflettendo sulle sue parole «Come f-fai a sapere che sono venuta qui l’altra sera?» mi incespicai con le mie stesse parole mentre facevo qualche passo indietro.
«Sono l’amico di quello che ti ha venduto la roba» rispose tranquillo grattandosi le braccia. «Puoi chiamarmi Mad». Sbattei le palpebre scavando nella memoria. Ma certo, lui era quello che due sere prima mi aveva deriso dandomi della pecorella smarrita.
Mi rilassai leggermente e cominciai a camminare all’indietro sorridendo e indicandomi. «Io sono Eden». Gettai la testa all’indietro e risi sguaiatamente come se avessi detto la cosa più divertente di questo mondo. La risata di Mad seguì la mia. «Credo di essermi sbagliata su di te. Non sei poi così male» dissi girandomi e prendendo a camminare normalmente. Quando arrivai al divano mi ci gettai sopra senza nemmeno badare alle macchie di sangue raffermo che vi erano sopra. Non notai nemmeno le siringhe usate gettate lì vicino e i diversi cucchiai da cucina con la punta scurita dal fuoco. Non vidi nulla, ero in una dimensione opposta e vedevo solo quello che volevo vedere. Ai miei occhi sotto l’effetto dell’ecstacy, quello era il divano più bello che avessi mai visto.
«Da fatti tutto sembra migliore» ribadì Mad sedendosi al mio fianco.
«E’ tutta un’illusione, vero?» guardai in alto e pronunciai quelle parole lentamente. Non ebbi bisogno di vederlo annuire per avere la conferma.
«Cosa vedi?» mi chiese prendendo a grattarsi le gambe. Continuava a farlo sempre con più forza fino a consumarsi le unghie a sangue.
«Solo cose belle» girai la testa verso sinistra, verso la sua. «Gli uccellini stanno cantando anche se è sera. Ci sono fasci di luce ovunque. Sembrano le vie per il paradiso, come nel film Ghost».
«Tipico» farfuglio portandosi l’orologio vicino agli occhi. «Ma quanto cazzo ci mette ad arrivare».
Mi chiesi a chi si riferisse ma poi pensai che non mi interessava veramente. Mi alzai e presi a camminare in quella che ai miei occhi sembrava una delle vie più belle e pulite che avessi mai visto. Piena di luce e speranza.
Ad un tratto scorsi un bagliore bluastro alla fine dal viale.
«Finalmente» disse Mad esultando e ancora una volta non ci badai. Quel bagliore si fece ancora più intenso fino a diventare quasi accecante. Mi portai una mano davanti agli occhi e li coprii con le dita.
E poi la sentii, sentii la sua voce.

“Ehi, sorellina”

Mi venne da piangere, e forse piansi veramente, non lo so. «Daniele sei tu?» sentii la mia voce uscire incerta e tremolante.

“Ma come ti sei ridotta. Perché mi fai questo? Non mi vuoi bene?”

Sentii ancora la sua splendida voce risuonarmi nelle orecchie. «No, io ti voglio bene» risposi d’istinto. «E’ solo che..non so come andare avanti senza di te» presi a singhiozzare «ti prego aiutami, dimmi come devo fare. Ti prego» lo supplicai cadendo in ginocchio davanti a quella luce che era diventata di un bianco brillante. Sembrava un faro a led.

“Devi cavartela da sola, questa volta. L’ultima volta sono morto per aiutarti”

«No, ti prego, non dire così. Io non sapevo che sarebbe successo» piansi sulle mie stesse gambe come una bambina capricciosa. «Mi dispiace, io non pensavo che..» i singhiozzi mi spezzarono la voce. L’unica cosa che sapevo fare era piangere.

“É colpa tua. É stata solo colpa tua”

«No, non dire così» mi alzai di scatto e corsi verso la luce. Mi gettai nel bagliore. E fu lì che lo vidi. Daniele, era il mio Daniele. Era proprio lui eppure era così diverso. Aveva il viso pieno di sangue e la maglietta stracciata. Sul sopracciglio aveva un profondo taglio dal quale non smetteva di uscire sangue che gli imbrattava tutta la faccia e mi impediva di vedere i suoi occhi. I suoi bellissimi occhi verdi che erano sempre sorridenti e gentili con tutti.
Mio fratello non era così, quello che avevo davanti era un demonio. Il mio Daniele non era così.
Gli gettai le braccia al collo e lo percepii irrigidirsi. Le sue mani corsero ai miei fianchi e tentarono di allontanarmi ma io mi arpionai a lui con tutte le mie forze. Con un balzo gli circondai i fianchi con le gambe e mi strinsi ancora di più a lui. Riuscivo a sentire il calore di un altro corpo umano, vivo, pervadere il mio. Ma i suo profumo era diverso da quello del mio gemello. Quello a cui ero abituata era dolce e gentile, sapeva di casa. Questo, invece, era tagliente e forte. Si imprimeva nella narici con prepotenza.
«No, tu non sei così Daniele. Dov’è il mio Daniele?» piansi sulla sua spalla disparandomi.

“Io non ci sono più sorellina, adesso c’è lui”

«Daniele!» urlai con tutte le mie forze.

“Adesso c’è lui” 

E poi finì tutto. Semplicemente scomparve. E con lui scomparve anche il senso di onnipotenza. Mi sentii catapultata in un attimo sotto terra e l’unica cosa a farmi sentire ancora viva era quel maledettissimo dolore lancinante che avevo alla testa. Lentamente aprii gli occhi e allontanai il mio viso da una spalla maschile fino ad incontrare due paia d’occhi talmente neri che era quasi impossibile distinguerli dall’oscurità della notte.
La testa prese a girarmi pesantemente. Non riuscivo a capire dove mi trovassi o chi fosse il ragazzo sul quale mi ero gettata. «Finalmente» sentii la voce di Mad e mi rilassai leggermente. Non lo conoscevo nemmeno eppure la sua presenza mi tranquillizzava.
«Dove cazzo eri finito?» continuò «Questo non mi pare proprio il momento per perdere tempo a limonare con una ragazza, Dollar» rise.
«Non fare lo stronzo e aiutami a togliermela di dosso» ruggì con fervore il ragazzo che era diventato il mio sostegno da qualche minuto.
Non riuscii nemmeno a collegare i fatti, la mia mente era troppo andata. Svenni tra le sue braccia come una bambina tra le braccia del suo eroe.
Il nome che avevo appena pronunciato Mad era lo stesso di quello che mi aveva venduto la roba due sere prima.



My space..
Vi chiedo scusa, avete ragione. Non pubblico da una vita, ma come ho detto l'altra volta questa è una storia alquanto impegnativa. Per non parlare del carattere dei personaggi. Impersonificarmi in loro, nelle loro storie e riuscire a pensare come farebbero loro non è affatto un gioco da ragazzi. 
Tuttavia spero che il mio lavoro venga apprezzato. Io mi diverto a scirivere, mi piace. Lo faccio per passione, e come tutte le passioni ha bisogno del momento giusto.
Ma adesso bando alle ciance e ciance alle bande, cosa ne pensate di questo capitolo? Nel prossimo capitolo le cose inizieranno a muoversi, la storia prenderà forma e dinamicità un pò alla volta. 
Finalmente abbiamo scoperto il legame che c'è tra Eden e Daniele. Sono gemelli.
Immedesimarmi in Eden è difficile, non oso immaginare il dolore che si provi nella perdita di un familiare così caro. 
Come sempre vi invito a recensire la storia e a darmi tanti consigli che non bastano mai. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che tornerete per leggere il prossimo capitolo.
Un bacio e alla prossima,
-B

 

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Capitolo 4
*** Three. ***


La bambola
Rotta



La bellezza del mondo ha due tagli,
uno di gioia, l'altro d'angoscia,
e taglia in due il cuore.

-V.Woolf



Three.

A soli diciotto anni potevo vantare di una certa esperienza in fatto di sbronze. Quando andavo alle feste dopo le partite di football della mia scuola ne approfittavo e bevevo. A volte solo qualche bicchiere, quel poco che bastava per divertirsi senza inibizioni, mentre a volte ci andavo giù pesante e questo faceva incavolare a morte Daniele. In tutta onestà lo adoravo. Adoravo il modo in cui chiudeva gli occhi e sospirava spazientito, il modo in cui mi puntava due dita contro facendomi segno di tenermi d’occhio. Io ridevo e bevevo ancora. Tanto ero al sicuro, lui era lì con me.
Quella sensazione di protezione era così tanto tempo che non la provavo.
Ubriacarmi dopo la sua morte non era servito a nulla. Sembrava che l’alcool avesse perso tutto il suo sapore. Non era più divertente. Senza il mio gemello nulla era più lo stesso. Forse era per questo che prendere quella pasticca mi era piaciuto così tanto. Non avevo mai preso sostanze stupefacenti prima, quella era un’esperienza tutta mia. Daniele non c’era e non potevo sapere come sarebbe stato con lui ancora in vita. Probabilmente non avrei mai fatto uso di droghe. Mai.
Seppure vantavo di tante esperienze alcoliche e dei tanti “giorni dopo” che sapevo gestire, il dolore che provavo il quel momento era senza precedenti.
La testa che pulsava era l’ultimo dei problemi, era il più sopportabile tra tutti gli altri. La cosa peggiore era quel senso di piccolezza, impotenza, totalmente opposto a quello che avevo provato solo qualche ora prima. Mi sentivo veramente come se qualche essere spregevole mi avesse spedito all’inferno con un biglietto di sola andata. Mi dolevano le ossa del corpo, anche solo pensare di muovermi mi faceva male.
A differenze dei dopo sbornia non avevo il senso di nausea, ma avrei preferito quello al dolore di tutto il corpo. Non tentai nemmeno di alzarmi, tanto lo sapevo che le cose potevano solo peggiorare. Meglio rimanere ferma dov’ero. Una fitta mi colpì allo stomacò con tale forza da poter ridurre le mie interiora in pezzettini. Mi rannicchiai su me stessa portandomi le ginocchia il più vicino possibile al petto. D’istinto strinsi tra le dita un lembo del lenzuolo cercando di darmi forza e di fare brevi respiri per calmarmi.
Solo quando il dolore e le fitte si placarono riuscii a pensare con lucidità. Mi resi conto di star stringendo delle ruvide lenzuola bianche di pessima qualità. Spalancai gli occhi guardandomi attorno. Ero stesa su un letto singolo da una piazza e mezza addossato alla parete. I muri erano spogli, di colore chiaro, eccetto per uno specchio che si sviluppava in lunghezza appeso alla parete adiacente a quella del letto. Due comodini bassi di colore scuro, probabilmente nero, dal taglio moderno erano addossati alla parete. L’altro muro era coperto da una tenda di tessuto fine dalla quale si intravedevano dei raggi di sole filtrare dalle imposte di ferro.
Mi chiesi dove mi trovassi, di chi era quella camera da letto, chi mi ci aveva portata, che ora fosse e da quanto tempo mi trovavo lì. Cercai di fare mente locale. L’ultima cosa che ricordavo erano gli occhi scuri come la pece appartenenti a Dollar. Gli ero svenuta tra le braccia e molto probabilmente era stato proprio lui a portarmi in quell’appartamento che, sempre molto probabilmente, era il suo.
Lentamente mi mossi e con grande sforzo riuscii al alzarmi dal letto. Appoggiandomi alla parete arrivai alla sedia poco distante dal letto sulla quale era poggiata la mia borsetta, le scarpe ed il giubbotto. Frugai nella borsa alla ricerca del cellulare e quando lo trovai quasi urlai dalla gioia. Feci per sbloccarlo ma il display non si illuminò. Provai di nuovo. Niente. La batteria era morta e non avevo il caricatore con me.
Mi appoggiai alla parete con la schiena cercando di non farmi prendere dall’ansia e di pensare lucidamente. A chiunque appartenesse quella casa, doveva pur avere un telefono o un caricabatterie da qualche parte. Mi guardai attorno, pensando dove poter mettere un caricatore. Io lo tenevo nel comodino vicino al letto in modo da poter caricare il cellulare prima di andare a dormire. A piccoli passi mi avvicinai al comodino, mi chinai e presi a frugare al suo interno.
Bingo. Dentro quel mobiletto d’arredo c’era proprio quello che cercavo. Misi il cellulare in carica ed aspettai qualche minuto prima di accenderlo. Cercai nella rubrica il numero di Daniele e quando lo trovai pigiai sul suo nome aspettando di sentire la sua voce.
Quando alle mie orecchie arrivò il suono della voce metallica che mi informava che il numero da me selezionato era disattivato e non la calda voce assonnata del mio gemello mi resi conto dello sbaglio. A volte mi capitava. Capitava che mi dimenticavo che non c’era più. Che era morto, che se lo erano portato via da me con le unghie. Tutte le volte che ritornavo alla realtà, la verità faceva ancora più male. Come in quel momento. I dolori fisici che mi sembravano insopportabili erano solo una dolce carezza a confronto con quel lacerante strappo che avevo al cuore e che proprio non voleva saperne di chiudersi.
Caddi per terra e scoppiai in un pianto senza fine. Piansi ancora una volta per Daniele, per la sua morte ingiusta e piansi per me. Per la prima volta in quasi un anno versai delle lacrime per me. Ero io quella ancora viva, ed ero sempre io quella che doveva andare avanti ma non sapevo come fare. Piansi per la disperazione, piansi per mio padre che ci mentiva da mesi. Piansi per mia madre. Lei aveva perso un figlio, una parte del suo essere. La morte di Daniele non si era solo portata via la gioia dai nostri cuori, ma aveva anche privato nostra madre del suo amore, di suo marito. Un matrimonio, un’intera famiglia erano andati distrutti e tutto per colpa di uno stupido incidente causato da me. Piansi perché mi sentivo in colpa, piansi per i troppi “se” e “ma” che mi ero posta da quel maledetto giorno. Piansi perché mi sentivo un disastro, un fallimento. Piansi finché non finirono le lacrime. E anche dopo continuai a singhiozzare aspettando che il tremore del corpo passasse.

Un rumore di chiavi mi fece alzare di scatto come un felino sulla difensiva. Il mio istinto di sopravvivenza si attivò insieme a tutti i miei sensi e mi guardai attorno come un animale in gabbia cercando qualcosa per difendermi. La cosa più pesante e simile ad un’arma che i miei occhi notarono fu la lampada sul comodino, ma non potevo mica staccarla dalla parete. Lentamente mi avvicinai alla porta e l’aprii, giusto quel poco che mi avrebbe permesso di guardare fuori.
Davanti a me si apriva un luminoso spazio quadrangolare. Le pareti erano di un bianco immacolato con un televisore al plasma appeso alla parete di fronte a me. Davanti era posizionato un divano di un grigio molto scuro alquanto orrendo. Non avrei mai comprato un sofà così brutto ma dovevo ammettere che nel complesso non era male. La stanza era molto moderna ma spoglia. Tipico arredamento da uomo. Quella stanza non dava calore, trasmetteva un immenso senso di vuoto e tristezza.
Girai la testa verso sinistra e notai una piccola cucina ben attrezzata con un’isola tipica delle cucine americane. Lo spazio non era molto, ma aveva tutto quello che bastava per vivere con tutti i comfort.
Il rumore metallico della serratura che scattava attirò la mia attenzione, arretrai leggermente nascondendomi dietro la porta. Sentii un tonfo, poi il rumore di una porta che veniva chiusa ed infine di chiavi posate probabilmente sul mobiletto all’ingresso.
La curiosità di sapere chi fosse entrato fu tale che mi sporsi per vedere. Nel muovermi il mio piede urtò contro il battiscopa e un lieve ed impercettibile gemito di dolore uscì dalle mie labbra.
Sicura che non mi avesse sentito mi sporsi e vidi un corpo chiaramente maschile bassiccio ed allungato di spalle intento a posare un lungo impermeabile nero sul gancio della parete. Era metodico in ogni suo movimento, riservava attenzione ad ogni piega del soprabito lisciandolo e riposandolo con cura.
«Lo so che mi stai spiando. La porta non ti farà diventare trasparente». La sua voce giovanile risuonò nella stanza fino ad arrivare alle mie orecchie. Era proprio come la ricordavo. Grossa ma non come quella dell’orco cattivo che ti spaventa quando sei bambina, no. Quella era protettiva anche se fredda. Era la voce di Dollor, uno spacciatore che mi aveva venduto la mia prima pasticca di ecstacy in assoluto. 
Mi schiarii la gola ed uscii allo scoperto. «Io non..ecco insomma..» temporeggiai guardandomi i piedi e facendo giocare i due pollici. «Io non mi stavo nascondendo»
«Sicuro» rispose lui voltandosi verso di me con un leggero sorriso sghembo sul viso. «Non hai mica dormito in casa di uno spacciatore, no?» fece dell’ironia e il suo tono saccente mi diede profondamente fastidio.
Alzai il voto e lo guardai dritto negli occhi. Seppur distanti per un momento mi persi nei suoi occhi scuri, di un marrone talmente intenso da sembrare neri. Vacillai.
Aveva le guance arrossate, forse aveva corso, e i capelli leggermente bagnati. Erano scuri e li portava rasati ai lati, solo al centro erano lunghi e lisci e gli cadevano in ciuffi da entrambi i lati incorniciandogli il volto. Quel taglio di capelli metteva ancora più in risalto la mascella squadrata e il collo largo dal quale pendeva una corda nera alla quale era appeso un ciondolo che non riuscivo a vedere a quella distanza.
Aveva lineamenti duri e severi che gli davano un’aria da vero ragazzaccio di strada. Ero consapevole di non potermi fidare di lui per mille motivi. L’unica cosa che sapevo di lui doveva bastarmi per farmi scappare a gambe levate eppure non lo feci. Stare da sola con lui in quella stanza né mi spaventava né mi inquietava, almeno non più di come aveva fatto il soggiorno di casa mia il giorno del funerale di Daniele. Mi sentivo meglio in quella casa fredda e asettica che nella mia.
«Grazie» gracchiai imbarazzandomi del mio stesso tono di voce gracile e spezzato. Il suo sguardo interrogativo mi spronò a continuare. «Per avermi portata a casa tua, intendo»
«Non farlo» rispose seccamente muovendosi con passo fermo e sicuro verso la cucina. «Non ringraziarmi, non ho fatto nulla. É stato Mad ad insistere, fosse stato per me ti avrei lasciata al Buco Nero».
Accusai malamente il colpo. Non mi aspettavo una tale risposta sgarbata. Che cafone.
«Già, dovevo proprio aspettarmelo. La dimostrazione dell’altra sera doveva bastarmi per farmi capire che razza di stronzo sei». In pochi lunghi passi mi portai vicino a lui.
«A mammina e a papino non piacerebbe sentirti parlare in questo modo. Non è degno di una principessina come te». Rispose facendomi il verso e prendendomi in giro.
Mi aspettavo una risposta più aggressiva e non di certo quel tono sarcastico.
«Non sono una principessina!» affermai risoluta. Lui in tutta risposa alzò le spalle noncurante e aprì lo sportello del frigo. Si attaccò al cartone del latte e lo tracannò con avidità. Quella scena mi procurò un certo languorino. Da quanto non toccavo cibo? Nemmeno lo ricordavo.
«Oltre che uno stronzo sei pure un cafone maleducato» dissi muovendomi verso di lui ed appoggiandomi subito dopo al lavello non appena avvertii un giramento. I dolori del corpo non erano ancora svaniti ma cercavo di non pensarci.
Dollar si voltò verso di me con le sopracciglia alzate. Mi venne da ridere. Aveva i baffi di latte. Non gli donava affatto quell’aria da bambino innocente, stonava sul suo viso da duro.
«Che vuoi?» chiese in tono scorbutico.
«Sei sporco di latte» sghignazzai come una bambina che l’aveva spuntata col suo compagno di giochi.
Infastidito si portò una mano alla bocca e si pulì. Aprì uno stipetto e ne cacciò una scatolina verde. «Queste dovrebbero aiutarti» disse in tono basso, quasi intimidito.
E se ne andò. Lasciò la stanza entrando in quello che credetti fosse il bagno.
Afferrai la scatola di medicine e l’aprii. Le compresse erano grandi ma non molto. Non sarebbe stato un problema buttarle giù. Prima, però, dovevo mangiare.
«E la colazione?» urlai ma in risposta mi arrivò il suono dell’acqua che scorreva. «Stronzo» digrignai a denti stretti.
Presi a curiosare negli stipetti e nel frigo. Niente caffè, niente cacao, niente biscotti. Nulla. In frigo, oltre a confezioni intere di birra e un cartone del latte ora vuoto, c’era solo un limone, acqua e pizze surgelate. Mi chiesi come facesse ad essere così magro se andava avanti a pizze e alcol.
Mi preparai una limonata con tanti, ma tanti cucchiai di zucchero per renderla bevibile. In un cassetto trovai un pacchetto di patatine aperto. Mi accontentai. Le divorai in un attimo. Dopo aver mangiato mi sentivo ancora peggio di prima. Il dolore allo stomaco non aveva fatto che aumentare.
Presi due compresse e le buttai giù in un attimo sperando che facessero effetto il prima possibile. Con le mani in mano mi sedetti sulla sedia acconto all’isola e aspettai.
Un paio di minuti dopo la serratura del bagno scattò e mi voltai. Un Dollar avvolto in un accappatoio blu scuro e con uno asciugamano in mano entrò in cucina lasciando dietro di sé una nuvola di vapore acqueo.
«Devo andare in città per fare un servizio. Preparati che ti porto a casa». Disse mentre frizionava i capelli.
Io annuii più volte. «Va bene»
Mi lanciò un occhiata e poi entrò nella camera in cui mi ero svegliata e si chiuse la porta alle spalle.
Mi sentivo destabilizzata. Non mi aspettavo un passaggio a casa, non da parte sua almeno. Quel ragazzo era davvero imprevedibile, era inutile applicarsi.
Senza pensarci oltre mi alzai dallo sgabello e andai alla porta della sua camera. Bussai. «Devo entrare per prendere la mia roba» dissi per giustificare la mia azione.
Dollar non rispose ma in compenso aprì la porta. Lui stava a testa china impegnato ad abbottonarsi i pantaloni. Stava a piedi scalzi e petto nudo. Non c’è che dire, non stava messo niente male a fisico. La mia parte femminile nel pieno della gioventù e della tempesta ormonale non poteva far a meno di guardare ed ammirare il suo fisico asciutto e slanciato. Per di più aveva la cosiddetta “forma a v” sul basso ventre che io adoravo.
Cercai di non badare a lui e, soprattutto, al suo corpo e lo superai andandomi a sedere sulla sedia per allacciarmi le scarpe. E fu allora che me ne resi conto.
«Non ho i calzini» dissi a bassa voce riferendomi più a me stessa che al ragazzo nella stanza. «Dove sono i miei calzini?» chiesi alzando la testa e puntando i miei occhi sulla sua figura.
Lui si girò verso di me dopo essersi infilato una maglia grigia sui jeans neri completamente stracciati sulle ginocchia e sulle gambe. «Dici a me?» dissi con voce interrogativa.
«Secondo te?» ribadii sarcastica alzandomi dalla sedia e cercando per la stanza. «Sono sicura che ieri li avevo. Devono stare qui».
Lui non badò a me. Continuò a vestirsi con tutta tranquillità.
«Devono essermi caduti mentre dormivo. A volte mi capita» continuai a ragionare ad alta voce. Saltai sul letto e buttai a terra la coperta e il lenzuolo.
«Che diavolo stai facendo?» sbraitò con poca galanteria Dollar. Fu il mio turno di ignorarlo. Mi stesi di pancia sul letto allungando le braccia e cercando i miei fantasmini bianchi.
«Trovati!» esclamai vittoriosa stringendo in un pugno i miei amati calzini. Quando li indossai mi sentii molto meglio.
«Lo sai vero che questa non è una cosa normale?» chiese lui scostandosi i capelli all’indietro.
Faci spallucce. «Io volevo solo i miei calzini»
Infilai le mie converse nere e mi alzai dal letto. Presi la giacca e la annodai in vita per poi posizionarmi la borsa sulla spalla. Quando guardai verso la porta della camera vidi Dollar vestito di tutto punto appoggiato alla parete che faceva girare le chiavi intorno all’indice.
«Andiamo?» chiese spazientito. Lo superai sbattendo conto la sua spalla di proposito.
«Allacciati le scarpe che caschi» dissi indicango i suoi anfibi. Risi ma mi guardai bene dal non farmi scoprire.
«Il tuo atteggiamento comincia a darmi sui nervi. Fortuna che dopo oggi non ti vedrò più» si lamentò venendomi dietro. Uscimmo di casa senza dire altro.
Scendemmo le scale del suo appartamento che a dirla tutta non aveva un ottimo aspetto. Era uno di quei condomini in uno squallido quartiere per poveracci con le scale che puzzavano di piscio e il corrimano arrugginito. Eppure dall’arredamento dell’appartamento mi sarei aspettata un bel condominio in una zona residenziale.
Uscimmo dal portone principale e girammo a destra incamminandoci lungo il marciapiede sempre senza fiatare. Dopo un paio di minuti lui si fermò vicino ad una macchina nera vecchio stile. Non ne capivo molto di auto, non saprei indicarne il modello, ma era bassa, con quattro sportelli, dei fari enormi come non ne facevano più e una carrozzeria che aveva bisogno di una tinteggiata.
«Ti facevo più un tipo da motocicletta super sexy» commentai aprendo la portiera.
«Zitta e sali»
Quella fu l’ultima cosa che disse. Ci mettemmo in macchina e io gli dissi dove abitavo, dopo di che mise della strana musica rock e non parlammo per l’intero tragitto che fu veramente lungo e che il silenzio non fece altro che rendere ancora più pesante.


My space..
Ehilà gente, sono tornata e questa volta non in ritardo e con un capitolo più lungo del solito.
Come sempre spero che la storia vi piaccia, che non vi annoi ma che vi strappi un sorriso ogni tanto anche se la trama non è una delle più allegre e simpatiche. Se sono riuscita in questo, allora, posso dirmi soddisfatta. Almeno in parte.
In questo capitolo ho alternato momenti tristi a momenti di ilarità.
Alla fine la storia è questo, un’alternanza tra passato e futuro. La nostra bella Eden ha un pesante bagaglio di tristezza sulle sue spalle ma grazie agli incontri che farà nella sua “nuova vita” senza Daniele riuscirà a superare anche questo.
Non vi dico altro, altrimenti che ragione avreste di leggere la storia, vi pare?
Come sempre vi invito a recensite, a lasciarmi pareri, critiche e consigli. Chi mi conosce sa che sono aperta a tutto.
Per qualsiasi richiesta o chiarimento potete contattarmi in privato.
E ricordare: RECENSITEEE. Anche una breve frase per me è importante.
Allo stesso modo ringrazio chi segue la storia e chi legge.
Alla prossima, notte
-B

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Capitolo 5
*** Four. ***


La
bambola
Rotta


C’è una saggezza che è dolore, ma c’è un dolore che è follia.
-Mody Dick


Four.


Febbraio 2014

«No, devi prendere prima del sale» mi ammonì Daniele allontanando il bicchiere di tequila dalle mie labbra.
«Non ho tempo per questi dettagli. Ho bisogno di bere, adesso» mi lamentai con le lacrime agli occhi. Avevo sedici anni e il mio primo amore mi aveva appena lasciata. Avevo sedici anni come Daniele e quel dolore che provavo al petto sembrava il peggiore di sempre. Credevo che il mio cuore si fosse spezzato definitivamente e che non avrei mai trovato un altro amore. Credevo che senza Jamie non sarei più riuscita ad andare avanti. Quanto mi sbagliavo.
L’avevo incontrato al progetto di scienze. Mi era piaciuto fin da subito. Ci eravamo seduti vicino, avevamo parlato della scuola, dei professori, dei nostri compagni di classe, di football e alla fine dell’ora ci eravamo scambiati i numeri di telefono. La sera già avevamo iniziato a messaggiarci.
Jamie Watson è stata la mia prima cotta, il mio primo appuntamento, il primo bacio, il primo toccarsi, il primo battito d’ali nello stomaco, ed era stato il mio primo vero pianto disperato da cuore infranto. Era stato lui a lasciarmi per un’altra. Mi sentivo uno schifo. L’unica cosa che volevo fare era buttarmi sul letto e non alzarmi mai più. Volevo piangere fino a consumarmi. Ma Daniele non me lo permise costringendomi ad uscire.
Non ricordo le parole che usò e di questo mi spiace, mi sarebbe piaciuto annotarle su un taccuino e rileggerle fino ad impararle a memoria. Ma all’epoca non sapevo che tra poco più di un anno sarebbe morto. Quella sera Daniele mi portò in un bar. In un vero bar per soli adulti e non quei localetti per ragazzi pieni di studenti e musica in voga. Ci sedemmo ad un tavolino appartato, un separé in legno ci nascondeva da sguardi estranei.
Un amico di Daniele lavorava al bancone come barrista e non ci creò problemi con l’età, ma ad ogni modo le nostre carte d’identità false erano al sicuro nei nostri portafogli e pronte per essere usate.
«Se non butti giù un po’ di sale prima di bere, ti brucerà lo stomaco» mi ammonì con sguardo serio. Fece per prendere il sale ma io fui più veloce nell’afferrare il bicchiere pieno di tequila e tracannarlo in un’unica sorsata.
Un’espressione di puro disgusto si diffuse sul mio volto. Dire che mi bruciava la gola era poco.
«Che ti avevo detto?» rincarò Daniele. Odiavo quando diceva così. Sapevo che aveva ragione, lui ce l’aveva sempre, e non avevo bisogno che me lo ricordasse.
«Sta zitto e passami il sale» sbraitai esausta e stufa di quel battibecco inutile. Senza aspettare che mi passasse l’oggetto da me nominato, lo sfilai sgarbatamente dalle sue dita affusolate. Buttai giù una manciata di sale sperando di attutire il bruciore. Non fu così.
«Quello va preso prima, non dopo» disse Danny, mio fratello.
Guardandolo dritto negli occhi tracannai un altro bicchiere. «Dicevi?» alzai un sopracciglio mentre rovesciavo in bicchierino di vetro armai vuoto.
Lui rise scuotendo la testa e arrendendosi. Dopo altri tre bicchieri Daniele decise che avevo bevuto abbastanza ed ero fin troppo ubriaca. Biascicando gli risposi che non era vero, che stavo benissimo, ma la mia andatura per nulla equilibrata mi tradiva.
Quella sera mi portò in una discoteca e ballammo tutta la notte. Tornammo a casa all’alba e ci dimenticammo di avvertire. Finimmo in punizione per un mese intero nonostante Daniele si fosse preso tutta la colpa.
Quella mattina mi ero svegliata normalmente, ma durante la giornata il mio cuore si era spezzato e avevo passato il peggior pomeriggio della mia vita per poi trascorrere una delle nottate più belle in assoluto.
Non mi ero mai divertita così tanto.



Oggi.

I giorni passavano e il mio umore non faceva altro che peggiorare. Dopo quel giorno, quello in cui avevo fatto uso di stupefacenti per la prima volta, sembrava che le cose stessero andando un po’ meglio. Mi ero rintanata nelle parole di Daniele, in quelle che la mia mente aveva riprodotto, e avevo provato per la prima volta da quando era morto mio fratello ad andare avanti.
Ci avevo provato sul serio. In quella casa, con Dollar, avevo provato qualcosa, dei sentimenti di cui mi era ancora ignara la natura ma che tuttavia mi avevano fatto dimenticare la parola morte.
In quelle poche ore sembrava che quel grigiore non sorvolasse più su di me e che un po’ di sole fosse tornato a splendere. Così avevo deciso di ricominciare da capo.
Ero andata dal parrucchiere. Sembrava una cosa stupida fa fare e mi sentivo quasi impacciata e fuori luogo in quel salone di bellezza ma ero rimasta ugualmente. Ero rimasta perché volevo rinascere e come prima cosa volevo cambiare il mio aspetto. Quando mi vedevo allo specchio vedevo la vecchia Eden, la gemella dolce e un po’ ribelle di Daniele. La tenera ragazzina dai lunghi capelli castani così diversi da quelli del fratello e gentilmente ereditati dalla nostra –ormai solo mia- madre. Il colore degli occhi –che era lo stesso di Daniele- me lo sarei dovuto tenere. Quel verde scuro mi avrebbe sempre ricordato lui, ma per i capelli potevo fare qualcosa. Decisi di lasciarli lunghi e aggiustare solo la scalatura. Cambiai colore. Mi feci bionda. Un color platino talmente chiaro da sembrare bianco.
Mi ci volle un po’ per abituarmi a quel colore così chiaro. Non ero nemmeno sicura che mi stesse bene. Ero di carnagione molto chiara e quel colore quasi assente non faceva altro che accentuare il mio pallore.
Mia madre a stento se ne accorse. Una sera mi chiese se avessi fatto qualcosa al volto, disse che mi vedeva diversa. Io le risposi che mi ero tinta i capelli e lei aveva solo fatto un cenno con la testa. Non commentò. Un tempo ne avrebbe fatto una questione di stato o, come minimo, sarei stata in punizione a vita, ma adesso era tutto diverso.
Un tempo non avrei mai preso nemmeno in considerazione l’idea di tingermi i capelli.

Mi sforzai e chiamai Rosie, la mia migliore amica. O meglio, quella che lo era stata fino ad un anno prima. Uscimmo insieme, e in classe cominciammo a riprendere a sederci vicine. Ogni tanto sorrisi. Non perché volessi farlo veramente ma perché dovevo farlo, mi dovevo sforzare. Ci provai sul serio. Accettai addirittura di uscire con loro quel sabato.
Rosie mi disse che sarebbe venuto anche Jordan, il mio ex fidanzato. Ero stata io a lasciarlo. Il giorno del funerale di Daniele. A detta della mia migliore amica era ancora preso da me e che non era più stato fidanzato. Io non le credetti e lei se ne accorse. Si corresse e disse che era stato con qualcuna, ma nulla di serio. Io capii quello che voleva dire. Non mi interessava.
Nonostante tutto volevo che quel sabato sera le cose andassero bene, volevo tornare a far parte di un gruppo. Lo desideravo.
E poi arrivò venerdì sera e la notte portò con sé una lettera dell’avvocato che faceva le feci di mio padre.
Era un avvocato divorzista.

Quel sabato sera non uscii. E nemmeno quello successivo. Quella sera sentii mia madre piangere di nuovo. Misi le cuffiette. Sparai la musica preferita di Daniele a tutto volume nelle mie orecchie. Non la sentivo più, ma quel rumore devastante si era insidiato talmente a fondo nel mio cuore che non c’era bisogno di sentirlo veramente, io lo sentivo lo stesso. Quel rumore continuava a rimbombarmi nelle orecchie e nella testa nonostante la musica. Non dormii.
Il giorno dopo, la voce del professore di matematica era coperta da quel suono tanto simile ad uno squarcio. Lo squarcio del cuore di mia madre, del mio.
Lo squarcio della nostra famiglia che cadeva in pezzi e riproduceva lo stesso frastuono di piatti sbattuti a terra con violenza.
Lo squarcio della morte di Daniele che tornava a ripresentarsi nei nostri cuori giorno dopo giorno, sempre con maggior veemenza. Cercai di trattenermi ma non ce la feci. E alla fine cedetti. Tornai al Buco Nero.

Quel sabato sera uscii con le migliori intenzioni. Dovevo trovare un modo per sbollire, dimenticare, sballarmi, perdermi. Con i miei pantaloncini logori di una vecchia tuta grigia e l’immancabile giubbotto di jeans –ormai mio- uscii di casa senza nemmeno avvertire mia madre. Inutile dirlo: era a lavoro e quando sarebbe tornata sarebbe stata talmente stanca e presa del suo dolore da non rendersi conto della mia assenza. E se pure se ne fosse accorta si sarebbe limitata ad un cenno di testa il mattino successivo. Come aveva fatto con i miei capelli, con i brutti voti, con le lamentele dei professori, e con tutto il resto. Che lei ci fosse o meno non faceva molta differenza.
Con la Malboro tra le labbra aspiravo freneticamente. Da quando ero uscita avevo fumato già cinque sigarette. Di seguito. Se non mi fossi data una calmata avrei finito il pacchetto nel giro di poche ore. Ad ogni passo sentivo i soldi tintinnare nelle tasche e quel suono mi istigava e tentava ad andare al Buco Nero. Ma sapevo di non dover andarci. Se ci fossi riandata, quello della settimana prima non sarebbe più stato un caso isolato ma solo il primo di una lunga serie. E io non volevo entrare in quel giro. Sapevo fin troppo bene che una volta entrata a far parte di quel mondo uscirne non sarebbe stato facile. Così mi allontanai da quella zona malfamata della città e mi avviai verso un parco pubblico.
Camminai e fumai nascosta nel buio, sotto un albero. Così rannicchiata nell’oscurità e a contatto con il freddo terreno riuscii a calmarmi e presi a fumare con più calma godendomi il sapore nella nicotina. Cacciai il cellulare e feci quello che facevo tutti i giorni, più volte al giorno. Entrai su facebook e cercai Daniele.
Quel gesto così banale era capace di acquietarmi e donarmi serenità. Normalità. Quando scorrevo la sua bacheca e leggevo quei post ormai triti e ritriti e che sapevo a memoria mi sentivo più giovane di un anno e in fondo, molto in fondo, in una parte del mio essere che avrei faticato ad ammettere, speravo ancora di trovare un nuovo post, un messaggio scherzoso, gioioso e carico di ironia tipica di Daniele. Una frase del tipo: “Sorellina, davvero credevi che ti saresti liberata così facilmente del tuo fratellone tanto adorato?”. E io gli avrei ricordato che aravamo gemellini e non importava chi fosse nato prima e chi dopo, avevamo la stessa età e non poteva chiamarmi sorellina.
Ricordai i nostri battibecchi continui, le nostre scherzose litigate e il nostro modo amorevole di fare pace. Qualche lacrima calda mi bagnò le labbra entrandomi in bocca. Sorrisi a quei teneri ma ormai lontani ricordi. Avevo bisogno di leggere qualche suo post, non importava che fossero datati l’anno precedente.
Necessitavo di leggere il suo ultimo post. Sapevo che l’ultima cosa che aveva postato era un video di noi due. Al concerto della mia band preferita. I Nickelback erano in città quel fine settimana e Daniele si era acciuffato i biglietti sei mesi prima. Fuori l’arena avevamo comprato due magliette uguali. Entrambe nere con il nome della band in bianco. Lui aveva preso anche una fascia per me.
A fine concerto Daniele aveva fatto un video e lo aveva postato descrivendolo come la serata più folle della sua vita. Nel video lui guardava nella telecamera con i suoi profondi occhi verdi che sprizzavano allegria e urlava sopra le altre voci per farsi sentire: “La migliore serata di sempre, ragazzi. Che concerto. Questa si che è vera musica. Dai Ed, cantaci un pezzettino di If today was your last day”.
E io lo feci, cantai per lui come se quello fosse l’ultimo giorno senza sapere che lo sarebbe stato per davvero.

If today was your last day
And tomorrow was too late
Could you say goodbay to yesterday?

Cantai a squarcia gola senza guardare l’obbiettivo, col sorriso sulle labbra convinta che nulla al mondo potesse frapporsi tra me, mio fratello e la nostra felicità. Beh, mi sbagliavo. Almeno in parte, la parte che riguardava me.
Abbandonai i ricordi lasciando che i miei occhi guardassero quel video. Cliccai sul profilo di Daniele aspettando di veder spuntare il suo faccione sorridente, e invece tutto quello che mi si presentò davanti fu un messaggio degli amministratori del social.

Siamo spiacenti, ma la pagina da lei caricata è inesistente.

Avevano cancellato la sua pagina. Annullata.
Adesso era scomparsa anche l’ultima parte che mi era rimasta di lui: quella virtuale.
Persi la testa.
Mi alzai e feci quello che mi ero ripromessa di non fare. Andai al Buco Nero.



My space..
Sono tornata, non so quanti mesi sono passati ma sono ancora qui. Viva e vegeta!
Chiedo venia per il mio tremendo ritarno. Onestamente non so nemmeno se ci sia ancora qualcuno che legge il delirio che è questa storia. Io mi auguro vivamente di si!
Come avrete visto, in questo capitolo non succede molto, più che altro si capisce meglio il legame che c'era tra Eden e suo fratello Daniele.
Spero di pubblicare il prossimo capitolo il prima possimile. E' già pronto sul mio pc, aspetta solo di essere rivisionato e pubblicto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi lasciate una recensione, anche piccola. Mi piacerebbe davvero tanto sapere il vostro pensiero in merito alla storia. 
Anche un piccolo commento fa sempre piacere ed incita per al continnuo della storia.
Come avrete capito, ho bisogno di un umore "adatto", per scrivere la storia di Eden, non è affatto facile immedesimarsi nel suo personaggio. Ma ho intenzione di portare a termine il progetto e condurre a conclusione anche questa storia.
Un bacio,
non vedo l'ora di "leggervi".
Grazie,
-B

 

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