Blasphemy

di Coffee_Time
(/viewuser.php?uid=584197)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


Salve, colgo l’occasione per farvi gli auguri di Natale e per l’anno appena iniziato – aggiungo gli auguri a Bob per il suo compleanno e a tutte le altre persone che per qualche settimana avranno problemi a ricordarsi la propria età.

Questa fanfiction è divisa in due parti, perché sarebbe stata troppo lunga altrimenti.
Il titolo è quasi casuale, come la citazione.
Ogni tanto ci sono piccoli spazi temporali.

Trattandosi di una fanfiction gli argomenti sono tutti fittizi, non mi sono ispirata a nessuna storia realmente accaduta, e non conosco né possiedo i personaggi.
Sono mie solo le parole. Per modo di dire.

Vi auguro una serena lettura.

 

 

 

 

 

Blasphemy

 

 

Why explore the universe
When we don’t know ourselves?
There’s an emptiness inside our heads
That no one dares to dwell

Hospital for souls, Bring Me The Horizon

 

 

 

Odio le formalità.
Odio le unioni civili, militari, religiose. Che magari neanche esistono, ma le odio.
Diamine.
Odio mio cugina, e odio il suo ragazzo. E la mia ex ragazza.
No. Non è vero. Non odio niente di ciò che ho appena citato. Odiare è un verbo troppo potente, non me la sento di usarlo, non me la sento proprio.
Diciamo che non sopporto queste cose, o queste persone, che mi provocano disagi interiori e talvolta mi destabilizzano, mi fanno perdere fiducia in qualcosa o mi infastidiscono semplicemente.
Ricominciamo.
Non sopporto le formalità.
Non sopporto le unioni civili e tutte quelle altre cose che mi rompono i coglioni.
Già meglio.
E oggi, se devo essere sincero, le sopporto ancora di meno perché tra una settimana –che dico, ormai sono sei giorni e tredici ore – quell’inetta di mia cugina e quel nonnulla del suo ragazzo si uniranno in un’unione civile. Il problema, posto così, non sembra tale, giusto? Perché ancora non ho detto che, ovviamente, trattandosi di mia cugina, anch’io dovrò andare al suo matrimonio – di cui non me ne frega niente, ma dovrebbe essersi capito – e trattandosi di un matrimonio organizzato mesi fa, le prenotazioni sono state fatte mesi fa. Mesi fa avevo una ragazza, e i promessi sposi sotto alla prenotazione di Frank A. T. Iero III avevano aggiunto il nome di Jamia Nestor. Neanche così sembra un problema, giusto? Qualche interazione sociale indesiderata, un pranzo gratis, vino gratis, sorrisi forzati e promesse di matrimonio vacillanti. Tutto nella norma, sopportabile.
Ma prima ho accennato ad una ex ragazza, vero? Questo perché Jamia Nestor era la mia fidanzata. Fino a due giorni fa.
Fino a due giorni fa doveva anche accompagnarmi allo stupido matrimonio della mia stupida cugina. Andarci da solo sarebbe un affronto – un vero e proprio affronto – a mia cugina, perché Frank! Abbiamo prenotato mesi fa, non puoi dirci adesso che vieni solo tu! E non ti vergogni a venire da solo bla bla bla
Poi, detto come va detto, di andare ad un noiosissimo e felicissimo matrimonio da solo non se ne parla.
Di portare Jamia, come amica, non se ne parla. Non voglio vederla, e lei non accetterebbe. Mi ha lasciato a causa di sospetti infondati, dando prova di scarsa fiducia e buon senso. La credevo una persona diversa, mi ha deluso.
Per questo non voglio vederla. Magari tra qualche anno. Del tipo che la incontro per strada e il mio cagnolino – avrò sicuramente un cagnolino – scodinzolerà curioso, poi lei dirà una cosa simile a: “Che sorpresa! Frank, come stai?” e io le risponderò: “Ti ricordi di quella volta in cui eravamo fidanzati ma dopo un attacco di paranoia mi hai lasciato, abbandonandomi scomodamente prima di un grande evento sociale?”
Ora sono da solo, su una panchina, con una sigaretta. Ho la forte tentazione di fermare tutte le persone che vedo passare per fare loro proposte come: “Ciao sconosciuto! Vuoi pranzare gratuitamente in un ristorante niente male? Tra meno di una settimana ti passo a prendere, vestiti un po’ elegante però, che prima dobbiamo sorbirci la messa.” ma non penso che lo farò, sono sicuro che non accetterebbe nessuno.
Ho pensato di invitare i miei amici, ma alcuni non possono, altri non verrebbero neanche minacciati, e i rimanenti si sono giustificati con motivi che neanche ricordo.
Potrei fare finta di essere malato, almeno. No? No. Perché ho già abusato troppo di questa scusa, in passato (merito della mia pessima salute); ha smesso di funzionare quando ho quasi minacciato mia mamma pur di andare ad un concerto che attendevo da mesi, pur avendo la febbre e molti germi in circolo. Mi ero messo una scatola di Tachipirina in tasca, come ad usarla come amuleto magico.
Anche se mi ammalassi sul serio, mia madre troverebbe il modo di farmi andare alla cerimonia – a costo di attaccarmi ad una bomboletta di ossigeno.
Dare Jamia per malata non avrebbe senso, perché come ho già detto mi suiciderei piuttosto che andarci da solo.
Ecco! Trovato. Il suicidio.
Sono sicuro che mia madre porterebbe le ceneri in chiesa, poi farebbe ballare le ceneri con mia cugina. Poi infilerebbe un pezzo di torta tra le ceneri.
Però niente suicidio, non voglio morire.
Ma non voglio neanche andarci da solo.
Ora devo anche buttare il filtro della sigaretta, non posso inquinare questo terreno deturpato dalla presenza di pochi fili verdognoli d’erba.
Mentre calpesto questo triste prato, a testa bassa, mi rigiro ciò che rimane della sigaretta ed osservo la macchia gialla di sostanze cancerogene intrappolate nel soffice materiale del filtro. Per fortuna che almeno quelle sono rimaste lì. Chissà cosa mi è arrivato ai polmoni.
Dovrei trovarmi vizi rilassanti meno pericolosi.
Ho buttato il mozzicone in un cestino con il coperchio posacenere. Cosa ci fa vicino alla chiesa? E che ne so io. Perché sono nel piazzale davanti alla chiesa da quasi un’ora? Bella domanda. Non so rispondere neanche a questa.
È un piazzale molto triste. In pratica, davanti alla porta della chiesa ci sono due scalini, e davanti agli scalini c’è una piccola strada che dopo poche decine di metri si mescola ad una strada vera. Ai lati della strada ci sono delle panchine e un po’ ovunque l’erba prova a crescere.
Sulla panchina dov’ero prima è comparsa una signora dall’aria poco sveglia, che grazie al cielo si è seduta da un lato lasciandomi abbastanza spazio.
Sulle altre panchine ci sono altre persone anziane. Un paio credo di conoscerle, anche.
No, non ci credo. Di fronte a me c’è un ragazzo.
Che cazzo ci fai qui?
Glielo vorrei chiedere, ma penso che eviterò. Forse è qui per il mio stesso motivo. Sarebbe fantastico! Potrei andare al matrimonio a cui deve andare lui, e lui potrebbe venire con me a quello di mia cugina. Due pranzi gratis.
Cazzo, lo sto fissando. Dissimula.
Dissimulo.
Uh, interessante la mia mano destra.
Perfetto, pensare guardandomi le mani è molto meno imbarazzante di fissare uno sconosciuto. Era molto bello, quello sconosciuto, comunque. Quasi quasi gli chiedo di venire solo per poter avere la possibilità di guardarlo spesso; potremmo anche conversare durante il pranzo, guardandoci in faccia. Sicuramente avrà anche degli occhi irrealmente belli.
Ho alzato lo sguardo con la disinvoltura di un cameriere che versa un ottimo vino del ’73 al Presidente della Polonia, solo per ammirare il suo pallido profilo. È davvero pallido. Non prova neanche a nasconderlo, coperto com’è da abiti esclusivamente neri.
Un po’ inquietante.
Non sembra il tipo di persona che va a messa.
Lo immaginerei mentre… brucia una chiesa, piuttosto. Oh, no. E se fosse qui per studiare i movimenti del parroco per capire quale sia il momento più opportuno per bruciare la chiesa? Ciò significherebbe che non è qui per il motivo che ha portato qui me. Insomma, bruciare una chiesa per non andare ad un matrimonio sarebbe un po’ eccessivo.
Sento il bisogno di parlargli. Per sapere che cazzo ci fa qui.
Devo solo riformulare la domanda, e posporla a qualche goffo saluto. Dopo essere andato fino lì.
Lo sto guardando di nuovo, e ho notato un blocco da disegno appoggiato sulle sue gambe. Sta muovendo una mano, ma non sta scrivendo. Quindi sta disegnando. Risolto il mistero.
Mi sento irrecuperabilmente idiota, di sicuro stava disegnando anche prima ma ero troppo concentrato ad immaginarlo mentre dava fuoco ad un edificio religioso a caso.
Non penso di poter biasimare la mia vecchia prof., che ad ogni colloquio ripeteva a mia madre quanto la mia testa amasse farsi viaggi tra le nuvole e talvolta capitava che un aereo mi arrivasse in fronte.
Se continuassi a fissare quel ragazzo si accorgerebbe di me? Probabilmente sì.
Adesso che so perché è qui non ho più bisogno di parlargli.
Però non è vero, continuo a sentire questo bisogno. In qualche modo continuo a sentirlo simile a me.
Potrebbe aiutarmi. A trovare qualcuno da portare al matrimonio, dico. Potrebbe venire lui.
E se non volesse? Cloroformio. Lo porto a casa mia e lo faccio svegliare davanti ad una bella tazza di caffè, poi mi inchino ai suoi piedi e lo supplico di accompagnarmi. Potrei farlo anche qui, è vero. Ma non ho il caffè e mettersi qui a pregare qualcuno che non è Dio potrebbe sembrare sconveniente. E imbarazzante.
Analizzando per bene la situazione, si evincerebbe che comunque sia in un’ora non ho fatto nessun tipo di progresso, e il massimo che potrò guadagnarmi sarà una risposta sgarbata e una figura di merda. Niente di sconvolgente.
Mi sono alzato senza accorgermene. Sto camminando, benissimo. Mi sembra di essere un robot. Grande. Per fortuna non mi ha ancora visto.
Mi siedo a circa venti centimetri da lui, per non farlo sentire oppresso.
L’ho visto esitare per un attimo, quasi certamente avrà notato la mia presenza. Ora che ho la sua attenzione devo parlare.
«Ciao.» Come inizio non c’è male. Un po’ banale, ma nella norma.
Il ragazzo si gira pianissimo e mi guarda e con un po’ di soddisfazione ho la conferma al fatto che i suoi occhi siano bellissimi. Hanno un po’ tutti i colori da iride, e in un certo modo sembrano magnetici. Neanche la forma è male.
O ho una faccia molto interessante o prima era tanto immerso nel suo mondo di grafite che vedere qualcosa di pelle e organi l’ha turbato alquanto.
«Ciao.» Anche lui punta sul semplice. L’ha detto con un tono sconvolto, incuriosito.
Che cazzo gli dico ora? Non posso cominciare con una supplica. «Bella chiesa, eh.» Dovrei iniziare a portarmi una boccetta di cloroformio in giro, oltre alla Tachipirina.
Lui è ancora più sconvolto di prima. «…Sì, hm. Bella… Bella chiesa…» Ha concluso la frase con un perfetto tono interrogativo nascosto.
Buttati, ormai non hai niente da perdere. «Personalmente non la trovo così bella, in realtà. L’ho detto perché se la stai disegnando ci sarà un motivo.»
«Oh. Be’» la guarda, poi guarda me «è un compito. Ha a che fare con le sue caratteristiche architettoniche.»
«Un compito, giusto. Mi stavo chiedendo per quale c- motivo un ragazzo così…» bello e dalle presunte tendenze piromani «cioè, un ragazzo fosse qui da solo a non fare niente. Poi ho visto il blocco ma continuavo a non capire.» Ho rischiato molto.
«Tu perché sei qui?»
«Ero qui… da solo. A, hm. A pensare…»
«Un po’ strano, non credi?» Che fa? Mi prende in giro? Però ha ragione, sono stupido. Spero che ridere non mi faccia sembrare ancora più deficiente, ho una risata imbarazzante. Ho solo sorriso un po’, per fortuna.
«Già. Come ti chiami? Io sono Frank.» Finalmente una domanda sensata, c’è ancora speranza.
«Gerard.» La sua voce è perfetta per pronunciare il suo nome. L’ho notato solo ora, ma è bello ascoltarlo. Ha detto poche frasi ed è già riuscito a dimostrarmi di avere una bella voce. Impressionante. Potrebbe aver fatto un patto col diavolo, magari la chiesa la vuole bruciare davvero. «Frank. Ehm-» Giusto. Che ci faccio qui? Perché sto conversando con uno sconosciuto? Che vergogna. Ora me ne vado.
«Oh, perdonami.» Mi alzo. Mi sta guardando sorpreso. Forse sto agendo troppo impulsivamente. Non che questa situazione sia scaturita da un’accurata analisi razionale delle circostanze. «Scusa se ti ho disturbato, volevo chiederti una cosa ma mi sono reso conto adesso che è troppo stupida. Ciao.»
«Aspetta, cosa- Non scusarti. Cosa volevi chiedermi?»
«Sul serio? Cavolo.» Eppure avevo iniziato bene… «Speravo che potessi aiutarmi, ecco.»
«A fare cosa?»
«È complicato da spiegare. Conosci qualcuno disposto ad attenersi a stupidi obblighi sociali in cambio di un pranzo gratis, sabato?»
«Penso che molte persone accetterebbero.» Ha lo sguardo corrucciato, è perplesso. Provo a spiegarmi meglio.
«Sabato mia cugina si sposa, e sto cercando qualcuno con cui andare al matrimonio. Sono così disperato che quando ti ho visto ho pensato di chiederti aiuto. Non so come potresti aiutarmi, però. Scusami, davvero, dovrei andarmene.»
«Volevi chiedermi di venire con te?» Ah. Diretto. Ha la faccia di uno che sta per ridere.
Solo ora mi accorgo di un dettaglio. Piccolo immenso dettaglio.
Non è che andarci con uno semisconosciuto sarà peggio che andare da solo?
Ma no, sarà divertente.
«Ecco, i-» Sarà imbarazzante ed insensato, altroché «ehm no. Cioè, conosco solo il tuo nome. Sarebbe inappropriato chiederti una cosa del genere…» Ora gli sorrido, per rassicurarlo – forse. «Devo andare, davvero. Ciao, Gerard.»
Mi sono girato, bene, spero di averlo spiazzato abbastanza da non indurlo a fermarmi proprio ora. Nel dubbio inizio a correre.

Che figura, prima, con quel Gerard.
Spero di non incontrarlo mai più, o rischierei di cadere dal ridere.
Almeno adesso non sono più preoccupato per sabato. Mentre correvo in questo bar – quello sotto “casa” mia – ho ideato il piano perfetto: dirò a tutti che Jamia mi ha lasciato la notte di venerdì, quello prima del matrimonio. Dovrò andarci da solo e sarà orribile, ma almeno non mi sorbirò i rimproveri di due donne stizzite.

 

 

΅΅΅

 

Ahia.
La sveglia. Sta suonando.
Ma io mi sono appena addormentato, lo giuro.
Oppure… No.
È stata una di quelle notti. Fantastico.
Sta ancora suonando.
Grazie, braccio, per esserti mosso, da solo non ci sarei riuscito.
Ho una strana sensazione, mi sfuggono più cose del solito. Ad esempio, il motivo della mia esistenza, la mia collocazione geografica, il mese corrente, e più in generale il motivo per cui ho bisogno di essere sveglio così presto.
Mi siedo, e un dolorante momento di lucidità mi fa sospirare rumorosamente.
Il matrimonio.
È oggi. Evviva.
Pensa al cibo, Frank. Puoi sopravvivere alla messa. Il prete omofobo che ti sta sul cazzo è in un’altra città.
Il mio mantra sta per diventare cibo gratis, cibo gratis…
Noto ora che la mia camera è quasi ben illuminata, nonostante non abbia acceso niente. Allora guardo la finestra, che lascia passare l’unica fonte di luce.
Il cielo è impressionante, ci sono dei palazzi che sembrano completamente neri contornati da un’accesa luce rossa, come se stessero andando a fuoco, mentre il resto del cielo ignora quell’incendio e continua ad essere cielo. Oh mio dio quelle sono fiamme! Quel ragazzo ha dato davvero fuoco alla chiesa. Devo chiamare i pompier- ma la chiesa è da quella parte?
Il tempo di mettere meglio a fuoco l’immagine e mi accorgo che in realtà non sta bruciando niente (a parte i miei neuroni), è solamente il cielo che ha deciso di optare per colori meno azzurri.
Sospiro, piantandomi una mano in faccia e strascicandola come se fosse incollata.
Che situazione ironica. Andare ad un matrimonio – simbolo di amore e altre cose, probabilmente – dopo che la tua ragazza ti ha lasciato. Dovrò passare un’intera giornata a vedere mia cugina ed il suo neo-marito sorridersi e parlottare, gli altri parenti che fanno lo stesso.
Sarà difficile non sentire la mancanza di Jamia. Okay, non che voglia pensare a lei ora, ma ha fatto parte della mia vita ed è strano non avere più niente a che fare con lei. Non sono arrabbiato con lei, però. Forse perché non la sentivo più vicina come prima, forse non l’ho mai sentita vicina. Ha fatto bene a lasciarmi, più ci penso e più la nostra storia perde senso.
Devo prepararmi, non posso perdere tempo.
Sarà una lunga giornata.
…cibo gratis…

Dio benedica le cinture fatte bene.
Questi scomodissimi pantaloni, almeno, stanno fermi.

«Frankie, finalmente. Dov’è la tua ragazza?» Ho sempre trovato rassicurante il fatto che mia mamma fosse più bassa di me. In un certo senso quando le parlo capisco il punto di vista di quasi tutte le persone che parlano con me.
«Non lo so, ma tanto non è più la mia ragazza.»
«Cosa?! L’hai lasciata?»
«No, mamma, mi ha lasciato lei, ieri sera. Ha detto che non sono io il problema quindi dovranno essere problemi suoi, non ho approfondito.» No, ha detto che il problema sono ipotetici atteggiamenti miei, per questo sono solo suoi problemi.
«Oh, mi dispiace.» Cosa fa? Vuole abbracciarmi? Non mi abbraccia da anni, forse gli ormoni da matrimonio la stanno rendendo sentimentale. Devo scappare. Mi guardo intorno, velocemente. Vedo le panchine, i parenti. Ancora panchine, ancora parenti. La chiesa. Una persona che sembra un’ombra, di fianco ad un albero.
Completamente vestito di nero, con una cravatta a righe.
Gerard.
«Aspetta, mamma.»
Mi sto avvicinando a lui, ma non so per quale motivo. È come se non l’avessi deciso io, mi è venuto automatico e basta. Come la prima volta.
«Gerard? Che ci fai qui?» Gli chiedo, sorprendentemente stupito. Non vorrà bruciare la chiesa proprio oggi.
Anzi sì, ti prego, fallo.
«Frank, ciao. Hm. Sei riuscito a trovare qualcuno con cui andare al matrimonio?» Mi guardo intorno, sembra che stia cercando il mio presunto accompagnatore. Non c’è nessuno, no. Solo parenti e panchine.
«No, mi sono rassegnato. Meglio da solo, almeno non costringerò altri a sorbirsi questa roba.» Ha ancora dei begli occhi.
Che fa mia mamma? Si sta avvicinando a noi? Spero non voglia abbracciare anche Gerard.
«Tu chi sei?»
«Si chiama Gerard, è un mio amico.» Rispondo subito, sperando che se ne vada presto. Sto provando a capire la situazione, accidenti.
Amico?
«Sì, prendo il posto della sua ex ragazza, almeno gli faccio compagnia.»
Cosa?
«Perché hai bisogno di compagnia, Frank? C’è quasi metà della tua famiglia, qui.»
«Mamma, non iniziare. Lo sai che vado d’accordo con al massimo cinque di queste persone…»
«Come vuoi, caro, vado a salutare la zia. Ciao, hm, G…erard.» Si sta allontanando. Almeno.
Ora devo solo capire il motivo per cui Gerard è qui. È comparso dal nulla, in pratica, e si è quasi proclamato la mia ragazza. Non che abbia troppo da ridire, non rifiuto i maschi – uno dei motivi per cui non vado d’accordo con molte persone con cui condivido parti di sangue o DNA o quello che è –, però prima di arrivare ad un punto di una relazione gradirei come minimo iniziare la relazione. Prima come amici, poi ci si incontra in qualche appuntamento, poi si vede.
Non si possono saltare troppe tappe. Non si possono saltare tutte le tappe.
«Che ci fai qui?»
«Hm,» è imbarazzato. Bene. Anch’io «quando mi avevi parlato di un matrimonio, hai anche detto che sarebbe stato sabato. E avevi bisogno di aiuto quindi ho pensato di venire qui perché mi è sembrata la chiesa più probabile in cui, hm, poter andare. Vanno bene questi vestiti?» Non gliel’avevo chiesto seriamente! – credo. Era stata la disperazione.
Oh, che pensiero gentile. E carino. Come lui in questo momento – lo sto pensando solo perché mi ha chiesto un parere su qui vestiti e quindi li sto guardando, e di conseguenza sto notando il suo fisico affascinante. Camicia bianca, pantaloni neri, cravatta bianca e nera. Gilet nero. Pacchetto di sigarette nella taschina, odore di caffè che gli aleggia intorno.
Sembra la crittografica descrizione di un artista probabilmente gay.
E so già che è un artista, o che è sulla corretta via per diventare tale.
E se fosse gay. Cazzo, spiegherebbe molte cose. No, solo una: perché sembra interessato a conoscermi. Va bene, in realtà potrebbe essere interessato a me anche per altri motivi (potrebbe credere che sia bravo a procurarmi la benzina. Per incendiare le cose).
Non sono pronto per una nuova relazione, per tutti i numi! Lasciatemi libero un altro po’. Ora glielo dico, non vorrei che si facesse strani pensieri.
«Ehi G-» ma che faccio? Sono solo problemi miei, mentali. I vestiti, già… «Gerard, vanno benissimo.» Forse non è proprio un abbigliamento da matrimonio ma sto zitto. Io, il prossimamente uomo con la camicia bianca e la cravatta rossa. «Voglio dire, guarda me.»
Fa come gli ordino sarcasticamente, e mi guarda. Sorride per sbaglio, solo da un lato. Sembra mi stia prendendo in giro.
«E quindi? Stai benissimo.» Oh, non vorrà flirtare.
Non sono bravo in queste cose. Cristo, spero di non essere arrossito.
Mi guardo le scarpe, le altre cose che indosso, la giacca che pende dal braccio sinistro, la cui mano è nella tasca dei pantaloni. «Grazie, se lo dici tu.»

Una bella chiesa, davvero. Anche da dentro.
Un Gesù morto di fronte, Gesù che porta la croce ai lati, Maria un po’ qui e là. Un prete basso che parla, delle candele, gli sposi e i testimoni vicini a lui.
Un ateo nella nona fila, vicino ad uno semisconosciuto.
Tra qualche ora potrei definirlo potenziale amico, mentre aspettavamo di poter assistere a questa coinvolgente cerimonia abbiamo conversato.
Ad ogni parola che ha detto mi è sembrato più interessante. A volte usa un modo di esprimersi particolare, o ride da solo prima di esporre un pensiero o un’esperienza che spesso solo lui trova divertente.
Ha un sacco di passioni nerd, più di me. E ascolta molta musica. Poi ha un fratello.
Non ha mai capito l’esistenza dei mercoledì, e non ha mai accarezzato una mucca.
Non voglio neanche provare a ripensare ai collegamenti che abbiamo fatto per arrivare a queste conclusioni, in meno di mezz’ora.
Lo sto guardando.
E non so se sia a causa della diversa illuminazione, ma sicuramente i suoi occhi – o solo quello sinistro – hanno un colore differente da prima. Dovrei smetterla di osservarlo. Senza una buona ragione, poi…
«Tu credi in Dio?» Sussurra. Ho fatto un piccolo balzo perché mi ha spaventato.
«Nah, ho smesso di interessarmi a lui.» Sembra una di quelle domande che i bambini fanno agli adulti, sperando in risposte che anche gli adulti desiderano ottenere. «Tu?»
«Stessa cosa. E poi, non credo di stargli molto simpatico.»
«Perché?»
«Faccio un po’ di cose che non gli piacciono…» Mi rivolge il solito sorrisino sghembo. Che tra l’altro lo fa apparire leggermente stronzo. O rassegnato, alla vita.
«Ah, sì. Capisco.» Forse è gay davvero.
Comunque sia, se Dio esiste e la Bibbia va presa proprio alla lettera, l’Inferno sembra piuttosto pieno (di persone interessanti, tra l’altro).
A tredici anni ho avuto una crisi spirituale, conclusa con il mio desiderio di diventare buddista.
Non lo sono.
Con il passare degli anni ho semplicemente deciso di essere una buona persona, in generale. Non glielo dico, però.
Ora c’è un silenzio un po’ pesante – non so perché, ma di solito nei luoghi “sacri” è sempre pesante. Probabilmente è il senso di colpa nei confronti di una presunta entità minacciosa, per cose che potremmo solo aver pensato di fare.

Ci sono i quasi sposi, seduti sui cuscini di due sgabelli apparentemente solenni. Il prete continua a blaterare riguardo all’amore. Lui, che non è sposato. Lui, che non ha figli. Lui, che rappresenta una religione che accetta solo alcuni aspetti dell’amore e condanna altri tipi di amore. Lui, che dovrebbe amare tutti e tutto allo stesso modo. Lui, che professa solo l’amore per la fede.
Lui, che di amore non sa poi così tanto.
«Gerard, tu pensi che ti sposerai, prima o poi?» Evidentemente mi sembrava il momento adatto per fare domande sconvenienti.
«Non sono interessato a queste cose…» Sta fissando la sciarpa della signora di fronte a lui. «Se mai dovessi trovarmi nelle condizioni di volerlo fare, probabilmente sarebbe con un maschio, comunque.» Lo sapevo! È gay! «Quindi no, non penso che mi sposerò mai.»
«Già, non si può mai sapere. Alla vita piace far succedere eventi a caso, di tanto in tanto.»

Siamo quasi blasfemi, io e lui, a qualche metro da una sacra promessa eterna.
Lo voglio.
Io e lui, a parlare educatamente di omosessualità in uno degli alloggi estivi di Dio.
Adesso mia cugina e suo marito hanno un nodo al dito che ricorderà loro per sempre il giorno in cui si sono vincolati agli occhi di una divinità e un paio di centinaia di persone.
Contenti loro.

Un po’ di aria fresca, l’odore dell’inquinamento. I rumori delle ruote che girano e delle persone che vivono.
«Non è stato troppo terribile.» Perché c’eri tu, Gerard. Fossi stato da solo mi sarei affogato nell’acqua santa. Perché altri tipi di acqua lì non c’erano.
«Hai notato anche tu che il prete non ha mai guardato verso di noi? Secondo me percepiva in noi una sorta di presenza demoniaca.» Ride per qualche momento, prima di rispondere.
«Sinceramente non l’ho notato. Ah, Frank. Ora cosa facciamo?» Boh.
Non glielo dico, provo a rassicurarlo con un “Seguimi”, come farebbe un agente dell’FBI che salva un gruppo di civili. Cerco qualcuno da seguire, ad esempio mia mamma.
Individuata.
Gerard è al mio fianco, mia mamma qualche metro davanti.
Si stanno avviando tutti verso le macchine, chissà dov’è il ristorante.
«Aspettami un attimo qui.» Gli dico.
Raggiungo mia mamma, le chiedo quale sia la meta precisa. Non capisco il nom- ah, è quel ristorante. Percorro velocemente la strada che dovrò fare, annuisco per confermare a me stesso, poi mi giro e ad un metro da Gerard gli sorrido e gli faccio capire di seguirmi.
Devo ammetterlo. Mi piace la sua presenza. Mi tranquillizza, in un certo senso.
Ed è strano perché in pratica non lo conosco.
Forse perché siamo stati molto tempo in una chiesa, ma anche se non abbiamo parlato troppo i momenti di silenzio più che imbarazzarmi mi hanno fatto sentire a mio agio.
Siamo arrivati di fronte alla mia macchina. Sicuramente sarà abituato a qualche cartaccia sui tappetini ed all’odore che permane di fumo, se è uno studente sfigato quanto me.
Siamo seduti, e lo sento dire: «Ehi, hm, come facciamo per il regalo?»
«Quale?»
«Per… gli sposi.»
«Ah, ha fatto tutto mia mamma. Non preoccuparti.» Che strana domanda, come gli sarà venuto in mente…
Accendo lo stereo consapevole che la musica gli piacerà, se quando prima abbiamo parlato di musica abbiamo capito di avere gusti pressoché identici, sicuramente gli piaceranno anche i Soundgarden.
Infatti, girando un attimo la testa mentre giro anche la chiave per accendere il motore, lo noto sorridere.
Benissimo.
Sono in macchina, sto andando in un ristorante molto carino a mangiare cibo molto costoso che non pagherò. Accanto a me c’è un ragazzo altrettanto carino, che non ho motivo di pagare.
Conosco questo ragazzo da meno di una settimana, e abbiamo parlato al massimo un’ora in totale. Lui è nella mia macchina e io lo sto portando in un luogo che forse non conosce, in mezzo a persone che sicuramente non conosce.
Lo guardo.
Non sembra spaventato.
Come?
Potrei essere un assassino, un serial killer che escogita piani inutilmente contorti. Potrei avere l’intenzione di derubarlo, o stuprarlo (molto poco verosimilmente, non ne avrei la forza), o deriderlo.
E lui è qui, tranquillo, che si batte le dita sulla coscia.
E io sono qui, con le mani sudate, che penso che le sue, di mani, siano stupende.
Che situazione assurda. Due sconosciuti e un matrimonio. Eccolo, lo vedo. Il film-commedia che non fa ridere in arrivo in tutti i cinema, con il titolo in un orribile grassetto. Io e Gerard con le braccia incrociate, schiena contro schiena, con una chiesa che va a fuoco alle nostre spalle. Due sconosciuti e un matrimonio, che schifo.
Stavo dicendo, che situazione assurda. Non ci conosciamo quasi eppure passeremo gran parte della giornata insieme. Perché? Non si sa.
Potrei chiederglielo, ma ho l’impressione che la risposta sarà imbarazzante.
«Gerard, come mai sei venuto a quest…a cosa?» Come sempre, dovrei stare attento a ciò che penso.
«Non lo so. Mi andava.»
Ho deciso che l’accetterò come risposta, annuisco con la serietà di un bambino che conferma i gusti di gelato che vuole nella propria cialda.

Il tempo passa, la strada cresce dietro di noi.

Il nostro tavolo è tondo. Siamo in sette. Io, (Gerard,) e gli altri cugini di mia cugina. Ma non ho voglia di pensare a loro, penso che continuerò il discorso che stavo facendo con Gerard in macchina, prima.
«Quindi ci sei andato, in Italia?» Ha detto che sua nonna è italiana, io gli avevo detto che il mio è italiano.
«No, non ancora. Non abbiamo mai avuto un rapporto stretto con quella parte della famiglia. Tu?»
Mi torna in mente il cielo rosso che vedevo in Italia, ogni sera. Toccava l’orizzonte e salendo si incupiva, diventando di un nero opaco. L’orizzonte era piatto, solo ad ovest delineava qualche collina. Avevo passato un paio di settimane in campagna, i miei parenti abitano in un paese piccolo, da qualche parte.
Oltre a quello e a qualche altro sopito ricordo non mi è rimasto molto.
«Sì, una volta. Mia mamma dice che quel viaggio è la causa del mio amore per i cani.»
Continuiamo a parlare tranquillamente, come due compagni di scuola che da tre anni sopportano lo stesso ambiente.
Ma non andiamo nella stessa scuola.
E non c’è nessun ambiente.
Siamo due giovani uomini che non si sono mai visti prima di pochi giorni fa.
Più parliamo, più penso che sia simpatico ed adorabile. Ci troviamo in una situazione decisamente insolita e la cosa mi diverte.
Un dubbio.
Eccolo, il dubbio.
Non poteva mancare.
Alla fine di questa giornata, cosa succederà?
È una persona decisamente interessante, vorrei conoscerlo ancora meglio, diventare suo amico, festeggiare con lui il suo compleanno ed il mio, conoscere i suoi amici – saranno simpatici anche loro. Da quello che mi ha detto prima, il suo compleanno è stato poche settimane fa, quindi per ora mi limiterò ad aspirare ad averlo vicino durante il mio.
E se lui fosse qui solo per il pranzo gratis?
E se mi stesse parlando per cortesia?
Forse gli sto antipatico. Mi fermo. La forchetta riposa, creando un ponte tra il piatto ed il tavolo.
Gerard si accorge dell’assenza dei miei movimenti e mi guarda, perplesso.
«Ti senti bene?» Mi chiede. Ma non gli interessa davvero, lui mi odia.
Annuisco, rassegnato. Lui mi guarda quasi preoccupato, forse non mi odia. «Okay.»
Continuo a mangiare confuso.
«Stavo solo pensando.» Gli dico, e forse aprendo la bocca per sbaglio ha l’istinto di chiedermi: “A cosa?”, ma non ne sente il diritto, dopotutto ci conosciamo da così poco.
Dunque, gli piacerebbe affezionarsi a me? Come piacerebbe a me?
Anche lui sente che siamo simili?
Sentirà il bisogno di sentire la mia presenza?
Glielo potrei chiedere – cosa farà (faremo?) dopo oggi. No, chiedergli se ha le mie stesse sensazioni ed ambizioni sarebbe troppo strano, persino in una situazione assurda come questa.
Non gli chiederò neanche cos’ha intenzione di fare, lo scoprirò.

Ci sono un po’ di uomini senza giacca, perciò mi sento autorizzato a togliere la mia. Alla fine mi è servita solo come riparo dal freddo rigore religioso in chiesa.
Ora che ho tolto la giacca, però, mi pare di sentirmi un’altra cosa addosso: lo sguardo di Gerard.
Probabilmente sono solo impressioni.
«Vado ad appoggiare la macch- la giacca in macchina.» Con tutta la confusione che queste persone – i miei parenti – stanno facendo non riesco neanche a parlare.
«Allora vengo anch’io, appoggio questo.» Mi dice, sfilandosi il gilet e venendomi incontro.
La macchina non è lontana. Camminiamo fianco a fianco, senza parlare, io mi sto godendo il casino che pian piano viene smorzato da ogni passo. C’è quasi silenzio.
Apro lo sportello posteriore della macchina, allungo una mano verso Gerard per chiedergli il gilet e lo appoggio sui sedili insieme alla mia giacca. Chiudo la porta.
Ho voglia di fumare, così mi appoggio alla mia macchina e prego affinché il pacchetto di sigarette sia nella tasca dei pantaloni e non della giacca.
Lo tiro fuori, prendo due sigarette e quella che non infilo in bocca la porgo a Gerard.
«Grazie ma-» inizia ad avvicinarsi le mani nella zona del cuore, poi si guarda il petto e si interrompe. Fa un passo verso di me e prende la sigaretta, con un’aria strana. Non avevo mai toccato le sue mani, prima, ma le sue dita sembrano soffici. «Grazie.»
Gli allungo anche l’accendino.
Mi ritrovo ad osservarlo: chiude gli occhi, come se stesse per baciare qualcuno, l’accendino gli è sempre più vicino, come il viso di qualcuno che lo sta per baciare, che si ferma troppo presto però. Poi, l’ultima parte della sigaretta diventa arancione, e nera, il fumo esce.
Spero di sembrare disinvolto, mentre mi riprendo l’accendino ed accendo la mia sigaretta.
«Si sta bene, non credi?»
«Sì, sono piacevoli i luoghi silenziosi.» Risponde, le sue parole inciampano sulla sigaretta ed escono impacciate.
È buffo.
Sto sorridendo a metà.
«Potremmo scappare.» Propongo, in un momento di pigra speranza. Chi si accorgerebbe della nostra mancanza? Potremmo fare un giro, fermarci in un bar, bruciare qualche chiesa, se gli va.
Lo vedo ponderare l’idea «E perderci il dolce?»
«Cazzo, no.» Non mangiare la torta ad un matrimonio è immorale. Nonostante ciò, non mi sento pronto ad abbandonare questo parcheggio tranquillo.
«Frank,» lo guardo «prima di andare, devo chiederti una cosa.» Getto solennemente la sigaretta, e con la punta della scarpa la faccio aderire ancora più solennemente all’asfalto.
Sicuramente ha catturato la mia attenzione. Vuole la mia anima? La mia fetta di torta?
«Vedi, possiamo dire che mi devi un favore? Visto che ti ho evitato una giornata vuota.»
Non avrà la mia fetta di torta. «Sì, potremmo, in effetti. Forse.» Per merito mio, però, ha pranzato in un bel ristorante gratis… ma non glielo dico.
«Ecco. Quindi saresti disposto a ri- hm, a ricambiare il favore?»
«Cosa vuoi che faccia?» Spero che non sia illegale, sono troppo giovane per andare in prigione.
Anzi, sono abbastanza grande per andarci, è questo il problema.
«Tra un mese, più o meno, si sposa mio fratello e anche se sarà una cerimonia con molta meno gente di questa ha insistito nel prenotare un posto ad un’inesistente persona che sarebbe venuta con me. Forse sperava che mi fidanzassi.» Si ferma, e l’idea che mi trasmette è quella di aver avuto l’intenzione di aggiungere: “o che trovassi qualche amico”, ma di aver trovato quel pensiero troppo triste per essere espresso nel momento sbagliato. «Frank, i pochi amici che ho vanno già al matrimonio perché sono amici anche di Mikey – mio fratello –, sei l’unico che potrei invitare.»
Questo significa che vuole rivedermi, e che forse è qui solo perché sperava gli ricambiassi il favore. Ma no, è qui perché gli andava, ora mi sta proponendo questa cosa perché si fida di me, o qualcosa del genere. Tutte quelle cose sul diventare amici magari le condivide anche lui.
Sembra in attesa, dovrei confortarlo con una risposta.
«Vuoi che… venga con te?» annuisce lentamente, guardandomi di sfuggita «Certo! Sarà divertente, non pensi?»
Ed eccoci qui: due sconosciuti e due matrimoni. Ora il titolo è cambiato, e gli sconosciuti sono diventati quasi sconosciuti. Quel quasi mi trasmette più speranza di quanto dovrebbe, implica una probabile trasformazione di “sconosciuti” in “amici”, il che mi rende sereno.
Lo guardo, mentre le sue pupille si contraggono sotto il potere del sole e ammiro la bellezza del complesso dei suoi occhi. Dal taglio, alle ciglia, al bianco latteo del bulbo ed ai mille colori – non che li abbia contati – racchiusi dal collaretto scuro. «Allora, andiamo a prendere il dolce e poi scappiamo?»
«Okay.» Risponde, ignaro della luce quasi fastidiosa che mi sta riflettendo in faccia.
Ci incamminiamo, io osservo la mia ombra deforme mentre il sole ci copre le spalle.

 

 

 

 

 

Ho deciso di tagliare qui la narrazione per lasciare un episodio divertente nella prossima parte.
Non l’ho ancora conclusa, quindi non so quando la pubblicherò.
Potrei, conoscendomi, decidere di dare un titolo a questi “capitoli”, o addirittura di non limitarmi alla pubblicazione di una seconda parte. Tutto dipende da dove mi porterà la mente e- credo di aver parlato troppo, torno ad ascoltare canzoni di Halloween.

 

xoxo Coffee_Time

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


Ehi, ciao!
Sono… lenta, sì.
Non sto neanche a sprecare tempo per scuse varie (:

 

 

 

 

 

Our lives dictated by tradition, superstition, false religion

Innuendo, Queen

 

 

 

Le parole e le risate acquisiscono sempre più spazio nella mia mente, e da un semplice brusio tutto è immagini.
Nel prato vicino all’ingresso del ristorante vedo un tavolo che sostiene la possente torta nuziale – nel pieno stile di mia cugina. Le persone si addensano da quelle parti e nelle zone circostanti, alcune con piattini o bicchieri tra le dita.
Non abbiamo assistito al taglio della torta. Che peccato.
Ottenute le torte continuiamo a camminare in questo luogo circoscritto. La torta è molto buona, con la crema al mascarpone dentro ed altre cose sul bianco di cui più che l’identità mi interessa il sapore.
«Potremmo ubriacarci.» Propongo. «Tanto qui non c’è niente da fare…»
La prima idea malsana che dai neuroni mi è balzata direttamente fuori dalle labbra, sicuramente. Ne è conferma lo sguardo confuso di Gerard.
«Non credo sia la cosa più appropriata da fare.» Con il naso e le labbra fa una mossa da coniglio involontaria, molto tenera, per esprimere la scarsa convinzione.
Ci penso qualche attimo, guardando i fili d’erba che subito vengono coperti dalla mia scarpa. «Già, forse h-»
Sento un rumore stranissimo, e mi sento come uno di quei famosi corpi che viene disturbato dal proprio stato di movimento dall’intervento di una forza esterna – o quello che è. Un principio della dinamica, o dell’inerzia?
Mi ritrovo dei fiori sulla torta, e occhi truccati su gran parte del corpo.
Una ventina – ma forse di più, chi vuole saperlo? – di donne mi guardano chiedendosi come agire.
Guardo il mio piatto, pensando che tutti questi fiori vivaci non potranno avere il sapore della torta.
Oltre le risate di Gerard sento le parole di mia cugina avvicinarsi: «Scusami Frank, devo averlo lanciato troppo storto.»
Guardo ancora il bouquet, sporco di torta.
«No, scusami tu, ero in mezzo.» Le porgo i fiori, rattristato per la sorte della mia fottuta torta, e mi sforzo di farle un sorriso cortese per dimostrarmi gentile, almeno oggi che – in teoria – dovrebbe essere una data per lei memorabile.
Sicuramente lo sarà per me. Sono stato aggredito da un fottuto bouquet.
Il gruppo di scapole le zampetta fiduciosamente dietro, ma interrompo il mio interesse per quelle vane azioni e torno a dispiacermi per il buon cibo che dovrà essere gettato via.
Lo punzecchio con la forchetta, rassegnato. «Ma porca tr
«Puoi prendere la mia fetta, se vuoi.»
Spero non stia sottovalutando il proprio gesto.
Devo chiedere ad Elisabetta – o qualsiasi sia il nome della regina attuale – di investirlo come cavaliere.
«Non posso, davvero…» Gli riavvicino il piatto ed indietreggio, diretto al tavolo della torta. Che in realtà è pieno anche di frutti e dolcetti assortiti, ma quelli non mi interessano.
Presa una nuova, intatta, fetta, torno da Gerard e gli dico subito di allontanarci per evitare spiacevoli incidenti.
«Non credi sia un’usanza da disperati?»
«Parli del matrimonio o del lancio del bouquet?» Ovviamente intendeva il lancio, ma ho voluto dire una cosa divertente nella speranza di vederlo sorridere, come infatti sta facendo.
«Il lancio del bouquet. Tutte quelle tizie dovrebbero aspirare a qualcos’altro, oppure trovare altri modi per conseguire i propri scopi.»
«Hai ragione. Ma non credo che lo facciano tutte nella speranza di sposarsi, voglio dire, non c’è un cazzo da fare qui, almeno quello è un modo per divertirsi.» Anche per questo odio le cerimonie, troppo formali, troppe cose inutili e noiose.
Mi guarda e dopo un paio di secondi di ragionamento annuisce.
«Frank, l’hai preso tu il bouquet, quindi?»
«No, è stato lui a prendere me.»
«Allora possiamo iniziare una nuova tradizione: chi viene colpito dal bouquet, invece di sposarsi, partecipa ad un matrimonio.»
Lo guardo, e rido.

 

 

΅΅΅

 

Pare che la credenza inventata da Gerard sia corretta: alla fine – non che sia strano da credere – ho confermato il fatto che andrò al matrimonio di Micheal con lui. Così si chiama il fratello, forse ha anche un altro nome ma al momento non lo rammento.
Il secondo di Gerard invece sì: Arthur.
Non so che paio di genitori eccentrici abbiamo deciso di chiamare il proprio primogenito Gerard Arthur, per poi optare per un più semplice “Michael” seguito da qualcosa di altrettanto semplice.
Potrei chiedere a Gerard di parlarmi delle origini del suo nome e di quelle del fratello, se ne ha voglia.
Già, il matrimonio è stato tre giorni fa e oggi io e Gerard ci incontriamo per pranzo.
Senza validi motivi, ci siamo accordati per passare un paio d’ore insieme dal momento che saremmo stati liberi entrambi.
Dovrebbe arrivare a minuti – secondi.
Ho deciso che non gli chiederò niente riguardo al nome. Perché sento che io e lui diventeremo amici e quindi avrò ancora molto tempo per scoprirlo, magari per caso. E se dovessimo allontanarci, sento anche che farò tutto ciò in mio potere affinché non accada.
Questo posto è abbastanza pieno di persone, alcune mi guardano e anch’io ogni tanto guardo qualcuno. Chissà cosa pensano di me. Un ragazzo con una felpa verde scuro, una mezza cresta storta in testa, e lo sguardo vago.
Io, ad esempio, quando vedo qualcuno mi limito a sperare che non abbia una vita patetica.
Tutte queste vibrazioni dell’aria mi urtano il corpo e mi entrano dentro, creando un po’ di confusione dove capita. Chiudo gli occhi per estraniarmi, un minimo, da questo luogo destabilizzante.
Tutto diventa brusio, quasi un sottofondo che mi rilassa e pian piano disperde il mal di testa.
Quando il brusio inizia ad affievolirsi, apro gli occhi.
Gerard è a due metri da me. Io sono seduto, lui è in piedi. Lui sembra confuso, io sono spaventato. È un mago, in pratica.
«C-Ciao Gerard.» Perfetto. Balbetta pure, Frank.
Intanto si è avvicinato, e le luci aranciate che si gettano su di lui lo fanno quasi sembrare vivo. Trovo molto affascinante la sua pelle candida e liscissima, come se la pubertà non gliel’avesse mai intaccata.
«Ehi Frank. Tutto bene?» Si siede, direzionando subito il proprio sguardo verso i miei occhi.
«Sì, avevo un po’ di mal di testa e -» no, non posso parlargli del brusio «niente. Prendi qualcosa, ti aspetto.» Cambio argomento, poi rimango fermo come il panino che mi sta davanti.
Annuisce, poi si alza – e la sedia non stride contro il pavimento, grazie ad un’altra magia – e dopo essersi girato va nella zona della cassa.
La giacca nera che indossa è attillata al punto giusto, facendogli sembrare la schiena una bella schiena. Sono sicuro che chiunque, in questo bar, gli veda la schiena abbia la voglia di appoggiarvici sopra la mano, di farla scorrere verso il collo e appena sotto le scapole. Se ce l’hanno tutti, ce l’ho anch’io. Un semplicissimo sillogismo per non farmi sembrare un maniaco.
Il mio panino è caldo, ma non brucia, lo so perché l’ho appena toccato.
Rimango con le braccia timidamente sotto il tavolo per qualche minuto e quando Gerard arriva le uso per prendere il panino.
Mentre mastico provo a non osservarlo, il che sembra più facile di quello che sembra, perché non lo vedo da tanto tempo ed è proprio di fronte a me. Troppo tempo? Tre giorni al massimo. Zittisco la ragionevole vocina nella mia testa.
Dopo aver inghiottito il primo morso, gli dico: «Ehm, allora… parlami di tuo fratello.»
Mi guarda, sorride, furbamente. Con tono altrettanto furbo dice: «Pensandoci bene, forse sarebbe meglio se non ti dicessi niente su di lui.»
«Okay, fai come vuoi.» Addento il panino. Non ho la minima intenzione di dargli corda. Ora chi è che sorride furbamente, eh? Ha!
«Ha gli occhiali,» afferma, come se stesse lanciando una sfida. Faccio un cenno disinteressato e aggiunge: «sono neri.»
«Ho capito, Gerard, se vuoi che rimanga una sorpresa cambiamo argomento, non è così importante.» Ed è quello che penso, l’idea del fratello sorpresa mi sembra carina.
Mi sto immaginando Gerard con gli occhiali: dalla montatura semplice, nera, lenti non troppo grandi, magari rettangolari. Con i bordi arrotondati, ovviamente, ma al punto giusto. Lo vedo, con gli occhiali, che scruta un menù. La luce che si abbatte sulle lenti provocando luccichii.
No, non mi va bene: i luccichii comprometterebbero l’immagine che noi poveri mortali possiamo osservare dei suoi occhi.
Si sarà capito, ma tengo ai suoi occhi.
Un po’ perché li ho sempre trovati una parte del corpo interessante, un po’ perché tra le tante cose che sento, sento anche che i suoi sguardi siano capaci di comunicare molte cose, e in momenti di silenzio questo risulterà fondamentale.
In generale, Gerard con gli occhiali mi sembra una visione comica.
Comunque sia, lui è davanti a me e per fortuna non indossa nessun tipo di occhiali. Per un attimo, breve, gli guardo gli occhi; me li ricorderò a lungo.
Mangiamo i nostri panini, per un po’ in silenzio. Se non contiamo i vari rumori provenienti dal resto del bar, come il ronzio dei frigoriferi, gli arrivederci del ragazzo alla cassa, e i mille discorsi vani delle persone sedute, come me e Gerard, ai tavoli.
Probabilmente tra circa un minuto uno dei due romperà il tranquillo silenzio che ci separa, ed unisce. Ciò significa che ho più o meno cinquantasei secondi per studiare il suo modo di mangiare: ha preso il panino con entrambe le mani, ma lo tiene usando solo le punte (le sue mani sono… non ha le dita tozze, il che le rende eleganti, in un certo senso. Tuttavia hanno qualcosa di strano, non sembrano uniformi. Potrei passare diverse ore ad analizzarle, ad immaginare di toccargli le vene sporgenti sul dorso) e oltre ad avvicinare il panino alla bocca, avvicina anche la bocca al panino. I morsi sono normali, al contrario di quelli con cui molti fanno fuori un terzo del panino.
Nel complesso, direi che non ha un modo particolarmente inusuale di mangiare i panini.
Non so perché lo faccio – parlo della mia abitudine di studiare le persone –, se per noia o per qualche disturbo mentale mio. Potrei essere uno psicopatico, potrei diventarlo. Magari ho già ucciso qualcuno ma non me lo ricordo. Magari Gerard non esiste ma sono schizofrenico.
O, più verosimilmente, dovrei farmi meno paranoie.
Almeno per evitare di perdere secondi preziosi di studio minuzioso.
I secondi passano. O almeno, questo è quello che la mia percezione del tempo mi comunica. Non ho idea di cosa sia il tempo, una convenzione?
I secondi – qualsiasi cosa siano – passano e il minuto sta per scadere.
«Mi piace la tua maglietta.» Gli dico, perché ha una bella maglietta, nera, con forme rosse e bianche che formano il viso di Freddie Mercury.
Potrebbe essere stato un errore, nel caso gli abbia ricordato un ragazzo sfacciato senza fantasia che prova a fare colpo su una ragazza facendole i complimenti per la scelta del vestito, selezionato con attenzione.
Ma io non ci sto provando, Gerard non è una ragazza – penso –, e non è stato due ore a scartare magliette e pantaloni dal proprio armadio – penso.
«Ehm, grazie,» risponde a bocca quasi vuota «anche la tua è bella.» Conclude in un semi-stato di imbarazzo, accennando alla mia felpa dei Blues Brothers.
Ora che il silenzio sembra volersi impossessare della nostra conversazione, sarebbe banale continuare con le citazioni alludendo al famoso discorso sul silenzio fatto in Pulp Fiction.
Tagliandola corta, comunque, penso che i silenzi con Gerard non saranno mai imbarazzanti. Chissà perché, non lo trovo difficile da credere: è da quando lo conosco che non faccio altro che dargli punti amicizia.
I punti amicizia li ho appena inventati, non è difficile capire cosa siano.
Ho capito che i punti amicizia sono una gran cretinata, hanno un brutto nome, il concetto alla base è debole.
Niente punti amicizia.
Mi limiterò ad apprezzarlo e ad enumerare le caratteristiche che più mi piacciono del suo carattere, del suo corpo e del suo modo di pensare. Forse, più avanti, di qualcos’altro. Ora non mi viene altro in mente.
I silenzi con lui non saranno mai imbarazzanti? No. Non lo saranno.
Cosa sarà imbarazzante? Fare questi pensieri mentre nessuno dei due parla.

 

 

΅΅΅

 

Da quando sono stato al matrimonio, ho pensato sempre meno a Jamia.
Non mi sorprende: a parte qualche occasionale piacevole ricordo, mi ha lasciato un senso di vuoto.
Il senso di vuoto è positivo, dirà qualcuno, significa che quella persona è stata talmente tanto importante per me da aver lasciato una voragine, quasi incolmabile. Che l’amore è stupendo e quando ne veniamo privati ci sentiamo destinati alla morte, alla fine, al decadimento. Che… boh, altri cliché simili.
No, il vuoto che sento è una sensazione di inutilità.
Proprio come quella che si prova dopo aver letto un libro brutto – per noi.
Si è combattuti tra il presentimento di aver sprecato del tempo e la voglia di fare – o leggere – qualcosa di migliore.
È così che mi sono sentito quando è uscita dalla mia vita, più o meno.
Inutile. Un po’ sollevato. Confuso.
Anche arrabbiato, ma quello passa molto presto.
Dovrei sentirmi una cattiva persona a pensare queste cose? Non mi interessa, sinceramente, non per queste cose.
I sentimenti più duraturi, per quanto mi riguarda, sono quelli che consumano lentamente. Il senso di inutilità è un buco che piano piano ti mangia, da dentro.
Bisogna combatterlo, basta non rimanere fermi.
Per questo motivo penso che Gerard mi abbia aiutato molto, senza fare nulla di speciale. Sto bene in sua presenza, tutto qui.
Mi sento sereno, dimentico il senso di inutilità e cazzi vari.
Ogni volta che penso a come ci siamo conosciuti, rimango perplesso per almeno un minuto intero.
Davanti ad una chiesa.
Gli ho parlato per gioco, quasi.
Abbiamo passato una giornata insieme perché ci andava.
Non abbiamo mai combinato nulla di sensato, gli eventi hanno continuato ad avvenire senza chiederci il permesso di coinvolgerci.
Abbiamo agito come due masse in un sistema dinamico, che si muovono ma non sanno il perché. Solo il fisico conosce – e prevede, magicamente – i loro movimenti, e il principio a cui sono soggetti.
Io e Gerard siamo le masse. O, in alternativa, gli alunni che prendono una bella E.
In tutto questo, la mia sveglia intelligente non ha ancora capito che non ho voglia di alzarmi.
È domenica. Il mio giorno di libertà. Come osa trillare ogni cinque minuti da un quarto d’ora, dico.

 

 

΅΅΅

 

Siamo abbastanza vicini, e vedo una linea azzurra o verde risalirgli per il collo, tra la pallida cute, che poi scompare. È pieno di quelle linee, ma io posso vederne solo alcune, e non mi rimane che pensare al sangue in continuo movimento che le occupa, e scorre sempre nello stesso verso. Arriva al cuore, viene ossigenato, trasporta i globuli, ci permette di vivere. In qualche modo, siamo vivi.
Siamo carne, siamo cartilagine, ossa, tendini che ci permettono di rimanere attaccati, siamo sangue, siamo cellule. E mi chiedo come un essere formato da due terzi di sola acqua sia in grado di fare tutti questi pensieri.
Dai pensieri nascono le domande, e mi chiedo se questo è perché abbiamo un’anima. Oppure, il pensiero è un qualcosa che abbiamo sviluppato in migliaia di anni di evoluzione. La verità è che non credo di possedere le capacità per capire veramente come le cose funzionino. Mi sento un filosofo complessato ad arrivare a conclusioni – conclusioni, proprio – simili.
Comunque sia, l’idea di avere un’anima mi ha sempre rassicurato. La vedo come un fantasmino che mi anima, e che costituisce il mio vero me. Poi, i fantasmi sono fighi. Ammettiamolo.
E il sangue continua a scorrere, e noi a correre.
E io ho ancora lo sguardo sul suo collo, soffermandomici sopra noto il suo aspetto liscio. Adesso ho una fortissima voglia di toccarlo, grandioso.
Che poi perché proviamo interesse per ciò che è liscio e morbido? È una specie di ricerca inconscia della perfezione? Boh. E perché associamo la perfezione alle cose senza buchi o escrezioni o simili?
Se proprio volessi rovinarmi la giornata, potrei stare qui a pensare a come i sensi dell’uomo funzionino. Ad esempio la vista, il tatto. È tutta questione di neuroni, recettori, riflessione della luce, retine… cose che non mi hanno mai convinto.
Smettila Frank.
A proposito di sensi, non senti che Gerard sta parlando?
«Frank, allora?»
Lo guardo. Negli occhi, intendo. Nei suoi bei bulbi oculari per cui ho una strana fissazione.
Allora? Faccio un verso per fargli capire che, mi dispiace, non ho sentito proprio un cazzo di quello che hai detto.
«Ti va di alzarci e prendere un gelato?» Chiede, e i capillari sulle sue gote si ingrossano un pochino, e lui sembra quasi imbarazzato. Frank, smettila con la biologia.
Cos’è, Gerard, hai una cotta per me?
«Uhm, certo!» Adoro i gelati.

Siamo davanti ad un chiosco, in questo triste parco.
Non c’è fila, allora gli faccio un veloce sorriso di incoraggiamento, come quelli che sono sicuro i padri rivolgano ai figli prima del saggio di danza – sono quei sorrisi che dicono: “Dai, su, ti ho portato a prendere lezioni due volte a settimana rinunciando a Top Gear, lo so che ballerai benissimo.”
Gerard compra con successo un gelato a caffè, gusto giallo e gusto bianco. Chi è quello sfigato drogato (di caffè) che assume caffeina anche tramite i gelati?
Io mi prendo un cono ipercalorico.
Decidiamo di tornare sulla panchina, su sua richiesta. Dice di trovare complicato mangiare un gelato mentre cammina, è un processo che richiede concentrazione. Gli do ragione.
«Ehi, ma… la tua ex? L’hai più risentita?» Dice, guardandomi di fuggita poco prima di metà della frase.
Gerard, stai provando a confermare le mie assurde tesi? Mi leggi nel pensiero? Hai sul serio una cotta per me?
Non voglio ragionarci su. Non c’è niente da ragionare, ovviamente non ha una cotta per me.
«Jamia? Hm. No.» Mi viene, per un attimo, in mente lei. Il sorriso, i capelli, la parlantina. «Una volta, mi aveva chiesto se sarei andato ad una festa – il compleanno di una nostra amica. Non ne avevo voglia e non sono andato. Cioè, non che non avessi voglia di vedere lei, volevo solo stare in casa e così ho fatto. Le voglio bene, non ho motivo di evitarla.» Ed è così. La inviterei a bere una birra da qualche parte, un giorno, se non trovassi il pensiero un po’ bizzarro.
«E ti manca?»
«Nah.» Guardo davanti a me, il niente. «E tu, Gerard? Niente ragazze?» Dico girandomi verso di lui.
Alza le spalle.
«Ragazzi?» Alza le spalle di nuovo, sorridendo.
Mi stiracchio, perché negli ultimi mesi la vita è stata un po’ faticosa da gestire e ogni tanto il mio corpo me lo ricorda.
Mi alzo, chiedendogli in silenzio di passarmi il suo tovagliolino, lo prendo e lo butto con il mio nel cestino a pochi metri dalla panchina.
Quando mi risiedo, chiedo: «Gee, posso dormirti sulla spalla? Sto morendo di sonno.»
«Ascoltiamo un po’ di musica?»
Annuisco, già appoggiato a lui. Mi porge una cuffietta, la prendo senza vederla e il veloce contatto mi informa sulla fredda temperatura delle sue dita.
Con una mano mi accarezza i capelli due volte, e mi sento un bambino.
Partono i The Smiths, appoggia la testa sulla mia e per prendermi in giro mi dice qualcosa simile a “Buona notte, piccolo Frankie”, che mi fa sentire ancora più bambino.
Il tempo non si muove, perché non so cosa sia, mentre le canzoni si susseguono.
Mi ritrovo a sorridere alla brezza.
Conosco Gerard da qualche settimana e non ha ancora fatto niente per confermare l’ipotesi del piromane posseduto da Satana. Farei meglio ad accantonare quell’ipotesi.
Nel buio delle mie palpebre lo immagino ancora più pallido, con occhi follemente rossi. Devo ammettere che la cosa mi disturba meno di quello che una persona standard penserebbe. Prima o poi glielo dirò, di questa mia strana idea. Potrebbe considerarla divertente anche lui e farmi un bel disegno, visto che ne è capace.
Ma per quanto possa sembrare carino in versione demoniaca, preferisco il Gerard che in queste settimane si è dimostrato essere; con gli occhi particolari e tutto il resto.
Dev’essere davvero figo nascere con le iridi rosse.
Dev’essere davvero figo anche dal punto di vista medico.
Allarmante, persino.
La brezza continua a spostarmi i capelli.
Mi sono stancato di stare qui a poltrire, la musica mi sta infondendo il bisogno di agire, al contrario di quello che mi ero aspettato.
Tocco un fianco di Gerard, con un dito, come se fosse un panino di cui devo controllare la temperatura. Sento la mia testa alleggerirsi, poi la alzo.
La sua faccia. Un po’ mi era mancata, in questi minuti. La sua espressione interrogativa.
«Gee,» la canzone finisce, mi tolgo la cuffietta «ti va di fare una passeggiata?»
Sbatte le palpebre un paio di volte, guarda l’ambiente alberato e scarsamente affollato che ci circonda – o il vuoto e basta – e annuisce, arrotola le cuffie, le mette in tasca, si alza.

 

 

΅΅΅

 

La sua macchina è come lui.
Non molto grande, nera, carina. Infonde fiducia. Così simile a lui che temo l’alimenti a caffè . Neanche a pensarlo, dentro c’è odore di caffè.
È avvolgente, come la presenza di Gerard – sarà legato alla fiducia che infonde.
Guida cautamente, ma per fortuna ad una velocità superiore a quella dei vecchietti. Cioè, non che mi dispiaccia stare in macchina con lui, ma le mamme con tanto di passeggini che ci superano preferirei evitarle.
Quando guido provo sempre a concentrarmi sulla strada rendendo le mie azioni automatiche, se divago tra i miei pensieri mi viene il terrore di sbagliare qualche manovra e causare un incidente.
Proprio come quando gioco a biliardino: appena mi distraggo mi rendo conto di essermi distratto, e nel momento in cui mi concentro di nuovo sul gioco, perdo. La differenza è che guidando rischio di perdere la vita.
Ora mi posso permettere tutti questi vagheggiamenti, perché la mia incolumità è nelle mani di Gerard.
E, ribadisco, mi fido di lui.
Sono leggermente girato verso sinistra, e sto fissando le pieghe con cui la sua camicia prova a colmare lo spazio non occupato dal suo braccio. La manica è ben abbottonata e aderisce al polso, mentre il resto della manica sembra più un sacchettino (senza cadere nel ridicolo, solo nel carino).
Vaneggiare fa passare molto tempo, spero non si sia sentito osservato.
Nel dubbio guardo la strada anch’io.
Socchiudendo gli occhi vedo qualcosa di riconducibile ad un quadro impressionista. Le luci che perforano, l’asfalto che fende e le macchine tagliate.

Sospiro sollevato, sperando che nessuno se ne sia accorto.
Suo fratello non è una fotocopia occhialuta di Gerard. Sono molto diversi, in effetti. Non eccessivamente, c’è qualcosa che rende plausibile credere che siano fratelli, però per molti aspetti sono diversi.
Prima di tutto, Michael è più alto, e più biondo.
E cosa più importante, vederlo con gli occhiali non mi sembra buffo.
O almeno penso che sia lui suo fratello, tra le poche persone che vedo sembra l’unica con cui Gerard possa condividere parte del patrimonio genetico.
Seguo Gerard, che si ferma davanti al ragazzo che ho identificato come Michael.
«James, lui è Anthony.» Mi ha chiamato con il mio secondo nome? Lo sa che lo detesto. Io e l’altro lo guardiamo male in contemporanea, al che Gerard sorride colpevole e finge di sbuffare «Okay, Mikey, ti presento Frank. Frank, Mikey.» Ci indica un po’ a caso e ci ritroviamo a guardarci più o meno imbarazzati in questo parcheggio. Come dei pesci morti che si fissano vacuamente.
«Ehm, ciao.» Azzardo. Azzardo.
«Gee mi ha parlato abbastanza di te.» Dice, forse per imbarazzarmi.
Rido, perché di lui io invece non sapevo un cazzo «Di te invece non mi ha detto niente, quel coglione.»
«Tipico.»
«La smettete di parlare alle mie spalle quando vi ho di fronte?»
Approfitta del momento di smarrimento per dare qualche colpetto alla spalla del fratello.
«Su, fratellino, tra poco ti sposi.»
«Già. A proposito, andiamo dentro. Mancavi solo tu.»
Seguo i due fratelli sul prato, non sono mai stato in questa zona della città.
Vedo qualche persona sparsa seduta sulle due schiere di sedie.
«Frank, siediti qui.» mi dice Gerard toccando un posto nella prima fila. Mi avvicino, un po’ a disagio, chiedendomi per la prima volta dopo tanto tempo, seriamente, cosa stia facendo. Quindi Gerard si era sentito così al matrimonio di mia cugina? Come mi ero sentito la prima volta che gli ho parlato, più o meno. «Io devo stare vicino a Mikey perché sono il suo testimone.»
Mi sento abbandonato.
Mi lasci così, in balia di me stesso? A ben un metro da te? Per un’intera cerimonia?
Traditore.
«Okay.» Rispondo, freddamente.
«Tranquillo, sarà una cerimonia molto veloce» Sarà, ma rimani un traditore.
Mi siedo, in prima fila, a disagio – conosco solo una persona, e non le potrò neanche parlare per una cosa come… quindici minuti.
Sono nel posto più esterno, e ho appoggiato i piedi sul prato. È sofficissimo, devo toccarlo.
Allungo una mano verso i fili con disinvoltura, intanto guardo Gerard parlare con suo fratello; quest’erba è davvero fantastica, mi ci sdraierei sopra.
Continuo ad accarezzarla, Gerard saluta un ragazzo più alto, dai capelli ondeggianti. Mi è familiare, stacco un paio di fili e mi siedo compostamente. Chissà dove l’ho visto…
La gente intanto inizia ad arrivare, e noto che nessuno si siede perché parlottano tutti vicino all’altare – se posso chiamare così quel... qualcosa – o formano gruppi da altre parti. Sembrano tutti dei ragazzi usciti da un concerto punk o, almeno, rock, presi e messi in abiti eleganti. Probabilmente l’età media non supera i trent’anni, l’apparente formalità che mi circonda sembra quasi il frutto di una festa satirica. Come se fossero tutti qui a fingere di essere persone a cui frega qualcosa di avere certi comportamenti appropriati, ma non avrebbero avuto problemi a venire in pigiama.
Sì, sono l’unico seduto. Sembro un manichino.
Che cazzo ci fa un manichino ad un matrimonio?
«Frank, ehi.»
Alzo la testa spaventato, e mi imbatto nel divertimento di Gerard. Lo guardo con aria di sufficienza. Rimane un traditore.
«Lei è mia mamma, Donna.» Vedo ora la donna che gli è accanto, mi alzo scattante e dico: «Ciao.»
Ciao. Molto formale. Ora mi prenderà per un adolescente incivile qualsiasi. Oh be’.
Gerard è ancora divertito. «Mamma, puoi sederti, vicino a Frank. Mikey dice che tra poco iniziano.»
Grazie, amico. Ora dovrò passare minuti della mia vita a dimostrare implicitamente alla mamma di Gerard di essere una persona civile, rispettosa, e degna di rispetto.
Le sorrido, dando inizio al processo di implicita dimostrazione di educazione.
Non posso evitare di non guardare la persona che qui conosco meglio. Sta parlando con suo fratello, cioè… lo osserva mentre lui gli parla. Ora si è girato e ha indicato una sedia ad un tizio, poi si è seduta su quella di fianco come a dare l’esempio.
È il tizio di prima, che mi sembrava di avere già visto, più che altro mi sembra di aver già visto i suoi capelli: sono tanti, sono ricci, e non sono corti. Ondeggiano ogni volta che compie il minimo movimento o appena la brezza ci raggiunge.
Sì, l’ho già visto.
Raddrizzo di poco la schiena con lo sguardo fisso su di lui, praticamente di fronte a me.
Cazzo, ho capito! L’ho visto ad un paio di concerti. Non abbiamo mai parlato.
«Frank?»
Ma è possibile che ogni volta, ogni singola volta, Gerard debba cogliermi con la testa tra le nuvole? Dirà mai il mio nome senza quell’aria divertita sfottente?
Lo guardo per concedergli la mia attenzione.
Si avvicina un po’, sporgendosi. Mi avvicino anch’io per inerzia. Sussurra: «Perché fissi Ray
Sono abbastanza sicuro di essere arrossito, ma non tanto. Ray sarà quel ragazzo riccioluto. «Non volevo fissarlo. Mi era familiare e mi sono accorto di averlo visto a dei concerti.»
«Ray? Be’ è molto probabile, lui ci vive ai concerti.»
Sono sempre più convinto che adorerò i suoi amici.
Dove sono stati tutto questo tempo? Dov’è stato Gerard tutto questo tempo?
«Mi sta già simpatico, quel Ray
Sorride. «Ray è molto simpatico, sì. Ciao.» E si gira.
Ciao. Va be’.
Traditore.
Spero seriamente che sua madre non mi parli per tutta la cerimonia, sarebbe decisamente imbarazzante. Come se fosse probabile… vorrà assistere al matrimonio del figlio.

L’atmosfera qui è migliore di quella al matrimonio di mia cugina, sarà per il minor numero di ospiti che permette una certa intimità, la brezza che compare ogni tanto o l’assenza del rigore religioso, del peso di legarsi a qualcuno sotto gli occhi della Chiesa. Lì potevo parlare con Gerard, ma ora oltre a non averne bisogno posso comunque percepirne la presenza.
Sugellano le promesse appena fatte in un casto bacio, e mi unisco all’applauso come fossi un loro vecchio amico.
Gerard si alza per abbracciare il fratello, e sento una gioia innaturale nel vedere l’affetto reciproco che li lega. A volte vorrei avere anch’io un fratello o una sorella, la complicità di vivere sotto lo stesso tetto, giocare e confidarsi, o solo fidarsi di qualcuno.
Poi si separano, Gerard gli dà un buffetto sulla spalla e mi raggiunge, mentre gli invitati si alzano per complimentarsi. «Vieni, Frankie. Prima di andare a mangiare voglio farti vedere una cosa.» Mi porge una mano per aiutarmi ad alzarmi, anche se non ne ho bisogno; la prendo e continuo ad averla nella mia, quando sono in piedi. È rassicurante, Gerard, è rassicurante la sua mano, la sua presenza, il suo sorriso. È rassicurante anche quando inizia a camminare e smetto di tenergli la mano.
In pratica ci troviamo in un prato immenso, con altre cose intorno. «Ti ricordi di quando ti ho parlato del ponte –»
«Quello è il ponte su cui ti fermavi a disegnare da bambino?» Lo interrompo, indicando un piccolo ponte di legno, che invece di coprire un torrente o qualsiasi altro tipo di corso d’acqua, sovrasta dei fiori. È un ponte fottutamente inutile, ormai è solo una panchina alternativa. Mi ha raccontato che spesso sua nonna li portava qui, a stare in pace, a disegnare; è morta poco più di un anno fa e abbiamo parlato di lei solo una volta.
Ho notato che parla di lei con una certa titubanza, come se volesse cambiare argomento per non riportare alla luce alcuni ricordi – probabilmente un po’ vividi; anche quando la nomina, non lo fa mai a voce troppo alta. E la nomina il meno possibile.
Mi avvicino a lui e gli avvolgo un braccio intorno alle spalle, appoggiando la testa su di lui. Spero che abbia capito che mi sono ricordato cosa significhi per lui questo luogo, e che per questo stia provando a comunicargli che, per quanto possa contare, sono con lui.
Mi sfiora la mano, quella che gli penzola dalla spalla, forse ha capito.
Ci avviciniamo al ponte-panchina, il calore del sole diventa progressivamente la fresca ombra di un antro floreale.
«Sai, Frankie, sei la prima persona con cui vengo qui che non sia Mikey, me stesso o-» si interrompe. Sento un senso di vuoto, il prato scompare.
Sento qualcosa di morbido su tutta la faccia, e umidità sotto al mio corpo.
Cos-
Mi sollevo con il braccio destro, rendendomi conto del nostro stato. Pietoso.
Esatto, siamo caduti. Tutti quei stupidi fiori e l’erba – ancora più stupida – non ci hanno permesso di notare il dislivello. Anche Gerard si è un po’ sollevato e appena i nostri sguardi si incrociano, inevitabilmente, scoppiamo in una risata ancora più stupida della flora che ci ha ingannati.
Un’altra risata, diversa sia dalla mia sia da quella di Gerard, ci raggiunge e girandomi scopro che è Mikey. Piegato su se stesso molto poco elegantemente. Gerard smette di ridere e si rivolge al fratello: «Smettila di ridere, tu!» poi si siede.
Mikey ormai ci ha raggiunti, e ancora sobbalzando per le risate dice: «Scusate, stavo venendo a-» altre risate «poi siete… Oddio ma come avete fatto?» Dopo qualche secondo riesce a ricomporsi. Guarda Gerard, seduto tra i fiori con l’innocenza di un bambino; poi me, ancora accasciato sul prato, in una posizione innaturale a causa delle risate.
Sorride e ci dice che tra poco si inizierà il pranzo.
Mi siedo di fianco a Gerard, e nel giro di tre secondi ci ritroviamo a ridere come prima. Mikey si gira per un attimo, poi continua a camminare scuotendo la testa con disappunto. Vedendolo, un nuovo attacco isterico mi colpisce e mi attacco alla spalla di Gerard per non crollare a terra.

L’aria è piacevole, mi sento meno infiltrato di quello che sono. Meno di come mi sentivo al matrimonio di mia cugina, e sembra paradossale dal momento che non ho idea di chi siano queste persone.
Nell’eleganza simulata di questo posto, io e Gerard non possiamo che essere a nostro agio. I nostri abiti sono umidi, pieni di piccole macchie verdi o colorate.
Lo seguo, convinto che mangiare in un tavolo di gente che sicuramente non ci guarderà male si rivelerà una piacevole avventura.

Siamo tornati vicino al ponte-panchina, io e Gerard. Più o meno sdraiati, come prima, ’ché tanto ci siamo già sputtanati i vestiti.
Tutta l’erba sotto di me emana una specie di fresco che sembra, tra l’altro, facilitarmi la respirazione. Abbiamo il ponte-panchina una decina di centimetri dietro di noi, e in avanti il prato sembra una spiaggia verde scura, frastagliata, che si affaccia su un mare di un verde quasi luminoso.
Chissà i proprietari di questo posto quanta acqua consumano per innaffiare il prato.
Mi sento un po’ pieno, abbiamo mangiato davvero tanto – più che altro, abituato come sono ai tristi pasti che mi preparo pigramente, non ero preparato. Sorrido ricordando tutte le persone interessanti che ho conosciuto, e che probabilmente incontrerò al concerto a cui mi ha invitato Ger-
«Ascoltiamo un po’ di musica?» Interrompe i miei vaneggiamenti, come sempre.
Annuisco, e dopo poco ci ritroviamo immersi in una canzone dei The Smiths. Sembra quella che avevamo ascoltato anche al parco, settimane fa. Quando avevamo parlato di gelati e relazioni. In effetti, quel giorno quando tornai a casa pensai a quanto fosse strano che una persona gentile e carina come Gerard non avesse neanche un mezzo fidanzato.
Avranno tutti paura delle sue manie da piromane? Andiamo, ragazzi, non sono neanche teorie dimostrate, e probabilmente sono l’unico ad averle ipotizzate. Anche se, a pensarci bene, Mikey ha avuto l’accortezza – chiamiamola così – di sposarsi non in chiesa.
«Frankie. Sei proprio fantastico, lo sai?» Mi arriva la sua voce, e tutti i pensieri si accartocciano, svaniscono.
Stava pensando a me? Come io stavo pensando a lui?
Be’ forse non pensava a me come piromane, ma stava pensando a me.
«Certo.» Gli sorrido, tanto per sembrare un po’ più idiota. E forse, forse, rassicurante. «Anche tu lo sei.» Aggiungo, per rassicurarlo ulteriormente.
Trattiene una risata ridendo, e, davvero, non posso evitare di guardarlo negli occhi. Sarà per il debole che ho per quelle iridi, pupille, e tutto quello che le circonda – compresa la persona. Sarà che anche nell’ombra di questo posto riescono a brillare.
È appena iniziata una canzone di cui al momento non mi viene in mente il titolo, dopo devo controllare. Non ricordo neanche le parole, ma è orecchiabile.
Nana na nana…
Forse sto ancora fissando Gerard, i capelli che continueranno a coprirgli la faccia in eterno, non importa quanto tenti di portarli dietro l’orecchio.
Nana…
Sono appoggiato al prato solo su un braccio, però per qualche ragione mi sento al sicuro, ed in equilibrio.
Nana na
Ci avviciniamo, ad ogni millimetro in meno mi sento più leggero.
Cosa stiamo facendo?

 

 

 

 

 

Avevo detto che la storia era divisa in due parti? Be’, potrei aver mentito.
Ebbene sì, potrei avere la tentazione di continuarla. In futuro.
Per ora accontentatevi di questa… questo… finale.
Dico che la storia è conclusa, ma se tra qualche mese vedrete di nuovo il titolo sotto alla sezione My Chemical Romance non spaventatevi, sono solo io che ho ritrovato stupidaggini da far vivere al povero Frankie.

Spero di avervi quantomeno divertito – non tanto, giusto un pochino. Il minimo per non sentirmi inutile.
Se vi va, scrivetemi pure.
Vado a continuare i miei altri mille progetti.

 

xoxo Coffee_Time

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


     
 

You fell asleep in my car, I drove the whole time
But that's ok, I'll just avoid the holes so you sleep fine
I’m driving here I sit, cursing my government
For not using my taxes to fill holes with more cement

 

Tear in my heart, Twenty One Pilots

 

 

 

 

 

 

 

Gerard mi avvicina una mano al viso.
Non mi vorrà baciare, Cristo. (No, Gesù, non era una domanda rivolta a te.)
«Hai…»mi sfiora sotto l’occhio e appena sento il suo dito, un’esplosione ci destabilizza facendoci separare di quasi un metro.
Eccolo, il familiare sapore dell’erba in bocca.
Un’esplosione? A quest’ora del sabato? Guardo Gerard, sentendo il forte battito del mio cuore anche nelle orecchie, e anche lui mi sta guardando. Abbiamo gli occhi spalancati, e lo sguardo vigile; mi giro in cerca di funghi atomici o palazzi in fiamme, ma il mondo sembra essere imperturbato.
«Cosa…» Prova a dire, poi scuote la testa e si alza, mi porge una mano. Le sue frasi sembrano essere più sospese nello spazio fra tre puntini che nell’aria tra di noi, non sarà mica diventato propenso alla reticenza.
Alzo la mano e la vedo tremare impercettibilmente, poi prendo la sua e mi alzo intenzionato a non lasciargliela. In momenti traumatici il contatto fisico può aiutare.
Senza parlare, decidiamo di andare dagli altri nella speranza di scoprire qualcosa. Sempre senza parlare, camminiamo e sfruttiamo il tempo della breve camminata per normalizzare i battiti cardiaci. Pian piano le nostre dita si rilassano.
Gli invitati sono un po’ scombussolati, ma non sembrano preoccupati. Gerard ci porta da suo fratello, e lo vediamo intento a parlare con un ragazzo.
Decide di immettersi nella conversazione tra i due: «Ehi, Mik, hai sentito anche tu quel… hm-» e Mikey lo interrompe, quasi sbrigativo. «Questo i- il tecnico del suono, a quanto pare, ha voluto testare il volume o qualcosa del genere e ha giustamente pensato di usare la registrazione di una fottuta bomba.» Ha le braccia incrociate, e senza muoverle accenna con la testa ad un ragazzo alla sua destra, che alza una mano in segno di saluto e scuse; è biondo, dall’aria simpatica, alto, un piccolo gigante gentile.
«Te l’ho detto, l’esplMikey rifiuta le sue spiegazioni con un teatrale gesto della mano. «No. Ne abbiamo già parlato.»
«Alicia? Dov’è?» Decide di dire Gerard. Anch’io pensavo che i matrimoni implicassero la continua copresenza dei due neosposini, uno di fianco all’altro, dalla prima messa all’ultima cena.
«Uhm, sarà a bere con le sue amiche da queste parti. Voi, dov’erav-» i suoi occhi si abbassano alle nostre mani «oh, ho capito.»
Tolgo la mano da quella di Gerard e fisso il prato in imbarazzo. Accidenti. No, Mikey, non hai capito…
«Mik, non è com-» Il fratello lo interrompe per la seconda volta, e Gerard apre la bocca incredulo. Con ancora la mascella a terra, segue con lo sguardo Mikey liquidatosi con un professionale: «Vado a cercare mia moglie.»
«Credevo che ai matrimoni quelle schizzate fossero le mogli, e ai mariti spettasse la parte dell’alcolizzato.» Gli dico.
Il ragazzo ride, anche Gerard. Ci scambiamo i nomi perché evidentemente le nostre ultime interazioni hanno comportato il passo successivo della nostra neo-amicizia; si chiama Bob.
«Allora, hm… voi state insieme?»
Gerard diventa un peperoncino, e prontamente risponde: «Non- No.»
Insieme. Oddio, siamo insieme, ma non stiamo insieme. Non- No. Proprio come ha detto Gerard.
«Cosa te l’ha fatto pensare?» gli chiedo io.
Ci guarda, guarda sia me sia Gerard nello stesso momento, come se fossimo un’unica cosa. Non so come ci riesca. «Sembrate una bella coppia.»
«…di amici.» puntualizza Gerard, valorizzando lo scetticismo con un sopracciglio espressivo.
«Chi può dirlo?» detto questo, ammicca e scompare tra i suoi cavi e fili. Perché ha ammiccato? Non stava flirtando con noi. Insomma, secondo la sua logica dovremmo flirtare io e Gerard; forse spera in un qualche processo a specchio, in un’induzione passiva.
«Noi?» dice Gerard, perplesso, rivolto all’aria che ora sta dove prima era Bob.
«Sembra simpatico questo Bob» è più un pensiero ad alta voce il mio.
Inaspettatamente, un amplificatore mi risponde: «Grazie.» Mi sta decisamente simpatico.
«Non parlavo con te, Marshall»
Al mio pessimo senso dell’umorismo segue una serie di risate e starnazzi pietosi; non credevo di conoscere persone tanto imbecilli. Mi allontano da questi suoni strani, e dopo qualche passo mi sembra di sentire un borbotto da Gerard: “inizio a provare dei sentimenti per te”.
Non ha senso.
Per prima cosa, non ha senso. In secondo luogo, be’, perché inizia? Credevo mi volesse già bene, almeno un minimo. Terzo, che significa?
Per fortuna mi stavo già allontanando quando ha parlato – sempre se ha parlato davvero –, mi sarei allontanato in qualsiasi caso, probabilmente, a disagio.
Dei sentimenti.
Di odio? Ecco, lo sapevo. Tutto è cominciato con un favore, e tutto per arrivare a quest’altro favore. Non voleva fare pena a sua madre, e si è trovato un falso amico da illudere, e ora si è persino reso conto che faccio schifo come essere umano quindi mi odia. Almeno ha avuto la decenza di dirlo. Oppure sta solo aspettando il momento giusto per sacrificarmi a Satana.
Mi siedo, tanto qui c’è solo erba, morbida.
Dovrei andare da lui, a salutarlo per sempre, poi me ne andrò a casa a piedi – potrei fare l’autostop. Sì, è la soluzione miglior- no, non sono neanche sicuro di quello che ha detto. Per quanto ne so, è stata un’allucinazione acustica o qualcosa di altrettanto banale. Per quanto ne so, mi vuole bene. Per quanto ne so, mi ama. Per quanto ne so… brucia chiese. Di solito non sono uno che giudica, se brucia chiese possiamo rimanere amici. È solo illegale, credo, ma non lo dirò a nessuno.
Un’ombra si espande al mio fianco, e scopro che tra il prato ed il sole si è infilato l’oggetto dei miei pensieri – non le chiese bruciate. Ha due piattini di torta in mano.
Ora, forse, sono io a provare sentimenti. Sentimenti forti.
Oh, cielo. C’è anche il cioccolato.
«Diavolo, ma c’è anche il cioccolato!» afferro un piattino «Grazie Gee
Si siede di fianco a me.
«Ed è un problema?»
«Al contrario. Ormai anche la scienza ha confermato che le torte con anche solo minime tracce di cioccolato non possono non essere buone.»
Ci sorridiamo, e iniziamo a mangiare.
E la torta è buona.

 

Questo matrimonio in pratica si sta trasformando in un rave senza droghe. Siamo quasi tutti “intorno” al palco, e stanno suonando quattro degli invitati, ogni tanto qualcuno sale e suona un pezzo di canzone o disturba qualcuno poi salta giù. Anche quel Bob ha suonato la batteria, ad un certo punto. Ed era anche bravo – inoltre, non so perché, è uno dei pochi di cui ricordi il nome. Una persona su quattro ha una bottiglia di vino in mano, e tre persone su quattro aspettano di poter tenere una bottiglia di vino. Qui più che altro c’è la parte degli amici degli sposi, i loro parenti credo siano quasi tutti intorno a dei tavoli lì in fondo.
Ho paura che Gerard possa ricordarsi che suono la chitarra e mi chieda di andare a suonare.
Una ragazza mi è caduta addosso, o si è buttata contro di me. La guardo perplesso. Forse vuole ballare con me; o peggio, una sveltina.
Le sfilo la bottiglia dalle mani e mi allontano. Il cielo è giallo, e arancione, anche grigio, un po’ come il cielo la mattina del matrimonio di mia cugina. Intorno agli alberi è in evidenza un brillante alone, tanto simile ad un “arrivederci” espresso dal Sole stesso.
Ho sempre trovato divertente il fatto che il tramonto e l’alba si assomiglino tanto – un tramonto, poi, è l’alba in un’altra parte del mondo –, pur essendo l’opposto l’uno dell’altro.
«Ehi, Gerard.» gli dico, appena lo ritrovo. «Tieni» gli porgo la bottiglia. Se beve abbastanza può dimenticarsi di farmi suonare la chitarra, o comunque non potrebbe avere abbastanza forze per costringermi a farlo, sarebbe più facile da distrarre. In assenza di cloroformio, il vino rimane tra le opzioni più convenienti.
La prende, mi guarda scettico.
«Hai ragione» dico, riprendo la bottiglia e vado verso la gente che si agita vicino al palco. Preferisco non rischiare di prendermi strane malattie infettive: regalo la bottiglia alla prima persona che vedo e correndo piano arrivo ai tavoli dei parenti. Non si curano della mia presenza, credo stiano facendo un torneo a un qualche gioco con le carte. Prendo le bottiglie più piene che vedo e vado via con nonchalance, sorridendo educatamente al signore che mi guarda interrogativo.
«Ecco, tieni.» Prendo un sorso io poi do la bottiglia a Gerard, per fargli vedere che può fidarsi. Le sue mani toccano il collo, dove c’è anche la mia mano, e nello scambio le nostre dita si intrecciano disgiungendosi subito. Non so, mi ricordano l’alba.
Le sue sopracciglia sono aggrottate, quando mi guarda. «Non te l’avevo chiesto.»
«No. Pensavo ti piacesse il vino.»
«Sì, certo. È che-» beve un po’, poi si siede sull’erba.
«Non vuoi andare dagli altri?»
Mi guarda, vedere il suo viso da qui, con questa luce fiammeggiante, è molto rilassante. La sua presenza lo è. «Nah. Stare troppo tra le persone mi rende nervoso.» dice «Ma se vuoi, puoi andare.»
«Nah» e mi siedo di fianco a lui.
Ora che mi sono seduto, non so se riuscirò ad alzarmi. La stanchezza accumulata durante tutta questa giornata si è impossessata delle mie membra e le ha trasformate in pietra.
Stiamo così, a sorseggiare vino e guardare il rosso prevalere sulle altre sfumature in cielo, senza parlare.
Qualche anno fa il prof. di scienze ci aveva spiegato qualcosa sulla causa dei diversi colori del cielo, ma, davvero, ogni volta che provo a ricordarmelo mi si apre un buco nero nel cervello che ingurgita tutti i concetti vicini, che avrebbero potuto aiutarmi. E dimentico anche quelli.
Siamo abbastanza vicini alla periferia della città, anche se questa zona è relativamente tranquilla, mi domando se la notte da qui si vedano le stelle… Lo scoprirò oggi? Su questo prato, con una persona che senza preavviso diventa per me più importante ogni giorno che vivo. Ha lo sguardo assente, è bellissimo, a volte lo guardo e, semplicemente, sorrido dentro; mi sento in dovere di proteggerlo, di sapere che sta bene, dirgli cosa mi passa per la testa. Quelle cose che provo quando voglio bene a qualcuno.
Ciò che trovo curioso, e che mi piace, delle stelle, è che sono sempre nel “cielo” ma noi riusciamo a vederle solo di notte, perché è buio. Noi le vediamo perché è buio. Più è buio più sono belle, si nutrono della notte, la possiedono. Bruciano anche di giorno, invisibili. È curioso, perché siamo abituati a pensare che la luce sia necessaria per vedere meglio qualcosa, mentre la luce per essere vista meglio necessita di oscurità.
Sono lì, eppure non le vedo. Chissà quante altre cose non riesco a vedere.
È curioso anche il fatto che incutano un senso di impotenza in noi, pur sembrando così piccole e vicine tra loro; ma appunto, è questo che ci fa sentire polvere… sono troppo grandi, troppo lontane, troppe, nell’Universo. Troppo, così tanto che non riusciamo ad immaginarlo, polvere senza validi metri di giudizio, esperienze limitate, capacità irraggiungibili.
Siamo solo uomini, cosa potremmo mai raggiungere? E le stelle, che potere hanno?
Faccio una smorfia delusa quando prendo la bottiglia e la sento troppo leggera, senza liquidi dentro che facciano alcun tipo di rumore lieve. La lascio distendersi sul prato e mi appoggio sconsolato a Gerard, che è nella stessa posizione da fin troppo tempo: o ha finito anche lui, o non è arrivato neanche a metà. Mi sostengo sulla sua spalla per sollevarmi e noto a qualche centimetro dalla sua coscia la bottiglia, adagiata tra i fili d’erba. Mi sfugge un lamento e Gerard mi guarda con un punto interrogativo in faccia.
«Abbiamo finito il vino.» Sorride, probabilmente perché gli sono sembrato patetico, e lo sento spostare il peso su un solo braccio per potermi accarezzare i capelli e consolare.
«Non vorrai ubriacarti, Frankie.»
«È dal matrimonio di mia cugina che volevamo farlo…» Gli dico, senza sapere come mi sia venuto in mente questo ricordo. «Pensi che riusciremo mai ad alzarci da qui?»
«Perché, vuoi andare dagli altri?» Mi domanda, quasi preoccupato.
Da qui si sente la musica che stanno suonando, lontana, e sopra di noi il cielo sembra aver finalmente deciso di puntare a colori tendenti al notturno.
Nego con la testa, e ridacchia come se gli avessi fatto il solletico. In effetti, forse i miei movimenti gli hanno fatto un po’ di solletico.
«Sei proprio carino, Frankie.» Ah, se prima era il turno del cielo di essere arrossato, ora è il mio. Non ho mai saputo reagire dignitosamente ai complimenti. «Non fraintendere, sei carino nel senso più innocuo del termine; fai venire voglia di abbracciarti.» Una cosa che mi piace, e mi diverte, di Gerard è che di tanto in tanto sembra flirtare con chi parla, inconsapevole. Stai attento, Gee, qualcuno potrebbe prenderti sul serio.
Sorrido contro al suo braccio e gli dico: «Allora anche tu sei carino. È bello abbracciarti.» In realtà, oltre ad essere carino è anche molto bello, ai miei occhi. Gli abbraccio la vita per provare la frase che gli ho appena detto, le mie mani si stringono sul suo fianco.
Restiamo praticamente fermi per qualche minuto, a contemplare l’ambiente in cui siamo e, nel mio caso, a venire avvolti dal suo profumo.
Ho la bocca un po’ asciutta, e con tracce del sapore del vino. Mi manca il vino.
«Anche se,» inizio, e lo sento uscire da qualsiasi fosse il suo mondo e girarsi un po’ verso di me «mi manca il vino.»
«Lo sai che nessuno di noi due si alzerà per ancora molto tempo.» Risponde lui, sfoggiando razionalità inconsueta.
Ha ragione, però. «Sì, lo so.»
Torniamo nel nostro stato contemplativo.
Divinità, se esisti, chiunque tu sia, fammi un piccolo favore. Lo so che non lavori così di solito, sei abituata a ricevere richieste di chi non dubita la tua esistenza; fai un’eccezione, per piacere, riesci a fare in modo ch- vedo una figura stagliarsi contro il tramonto, un uomo nero diventare sempre più grande e… nero.
Sembra stia arrancando, mi dimentico della mia strana preghiera e fisso l’uomo arrancare verso me e Gerard.
«Ehi» Sussultiamo entrambi.
Bob.
«Siete sicuri di non essere fidanzati?» Mi stacco subito dalla spalla di Gerard, su cui in effetti ero spalmato. Che sciocchezze, che fantasticherie.
Mentre la mia testa inizia ad abituarsi al cambio di posizione, Gerard risponde: «Certo Bob.»
Bob fa qualche altro passo verso di noi, e vedo due bottiglie di birra tra le sue dita, due bottiglie grandi.
Ce le porge, le prendiamo. «Come volete.» Poi si inchina di fronte alle nostre facce confuse e va via, così.
Fisso la bottiglia, c’è troppa poca luce per distinguere la marca, ma non mi interessa; anche se avrei preferito del vino avvicino il collo alle labbra, la bottiglia sembra ancora piena ma già senza tappo. Bene.

 

Ora sono abbastanza ubriaco, e anche lui. Anche se si ricordasse che suono la chitarra, non potrei suonare perché sicuramente sbaglierei tre note su cinque. O peggio, farei cadere la chitarra. A pensarci bene, avrei potuto fermarmi prima e in caso di emergenza fingermi ubriaco. Tutte le idee migliori mi vengono troppo tardi, accidenti.
Tanto, ora non posso di certo tornare indietro.
Mi stendo sul prato, mentre Gerard al contrario si alza.
«Devo fare la pipì.» Asserisce.
«Mh.» Mi giro, e lo vedo guardarsi intorno alla ricerca dell’albero più vicino e buio da poter marcare. Si avvicina poco convinto ad uno, probabilmente a caso.
«Stai attento a non farti staccare il pene da nessuno gnomo della foresta.»
Sembra trasalire, e gira la testa verso di me «Di-Dici che ci sono gli gnomi?»
Chiudo gli occhi e annuisco, forse anch’io devo fare la pipì.
In qualche modo mi alzo, e vado verso l’albero di Gerard.
«Che ci fai ancora qui?» Noto che ha qualcosa tra le mani. Mh, probabilmente è il suo pene.
«Ho paura…» fissa il vuoto, preoccupato. Poi sussurra: «Degli gnomi.»
Oh. Be’. Lo capisco.
«Anch’io, Gee.» Anche se… ma certo! «Gerard, gli gnomi ora si sono tutti nascosti, c’è troppo casino qui questa sera. Se avessero voluto, ci avrebbero assaliti tutti molto prima.» Convinto del mio ragionamento, mi calo i pantaloni per svuotarmi la vescica.
Gerard sorride. E facciamo la pipì a un metro di distanza uno dall’altro, nel buio di un boschetto, con una canzone post-hardcore amatoriale in sottofondo.
«Ora dovremmo lavarci le mani.»
Ci sistemiamo e, in silenzio, ci incamminiamo verso i parenti più anziani, che giocano a carte e bevono vino.
Non vedo più Gerard, dov’è? Satana l’ha reclamato? Brucia chiese per attirare la sua att- ah, è lì, ha solo girato a destra. Boh, lo seguo.
Si ferma davanti ad una fontanella sotto qualche albero. Ah. E chi l’aveva vista?
Gerard.
Grazie, vocina interiore, a volte sottovaluto la tua importanza…
Bella mossa, comunque, abbiamo risparmiato tempo e interazioni sociali. Mi trovo dinanzi ad un grande amico.
Gerard mi guarda confuso, dovrei smetterla di pensare così tanto in compagnia.
Ci laviamo le mani e ci asciughiamo sulle nostre eleganti camicie, che tanto i nostri abiti saranno già pieni di erba e terra quindi chissenefrega, giusto?
Ci guardiamo pieni di aspettative, cioè, aspettando – che qualcuno dica o faccia qualcosa, perché ormai abbiamo finito le missioni da compiere e non essendo personaggi di videogiochi non abbiamo la possibilità di cliccare pulsanti e leggere dove andare o chi uccidere. Probabilmente non dovremmo uccidere nessuno in alcun caso, ma non si sa mai.
Almeno, io non lo so.
Continuiamo a guardarci, e ad un certo punto annuiamo lentamente, forse l’alcool sta iniziando a friggerci. O ci ha già fritti. Ma ancora una volta, chissenefrega.
Mi giro e penso di vedere tutti gli altri seduti o accasciati vicini al piccolo palco, gli strumenti abbandonati e una playlist per sostituirli; ora sento una canzone di Bowie, o, boh, qualcosa che parla di alieni.
Mi siedo per terra cadendo sul prato, e Gerard mi cade accanto, riuscendo a conservare più grazia e fluidità di me. Gli altri sono un po’ lontani, gli chiedo se vuole avvicinarsi ma mi risponde che essere troppo sociale gli provoca uno strano malessere. Meglio così, non penso di avere la forza per alzarmi da qui nei prossimi minuti.
Lo guardo. Ormai è buio e della sua figura rimane il profilo, scuro, come gli skyline delle città nei puzzle. Uno skyline regolare, con due bagliori in cima che mi fissano vacui.
Devo dire che io e Gerard dovremo essere degli sfigati pazzeschi. Voglio dire, siamo entrambi piuttosto carini ma non abbiamo neanche l’ombra di una ragazza o qualcosa del genere – oddio, io l’ombra di una ragazza l’avrei, giusto il suo ricordo, ecco.
Quella traditrice…
Non perché mi avesse tradito come tradizionalmente si fa tra fidanzati, ma… oh, be’, sono troppo stanco per fare questi discorsi, mi appoggerò a Gerard. E, hm, si sta molto meglio ad occhi chiusi. Se non stiamo attenti potremmo rischiare di addormentarci, l’ho detto io che quest’erba è innaturalmente morbida.
«Frank,» mi arriva un sussurro da destra, e faccio un verso «parliamo, altrimenti potrei addormentarmi.» Oh, ottima idea. Mi appoggio più comodamente alla sua spalla, odoriamo un po’ di vino entrambi.
Finalmente. Posso chiedergli quello che mi sono sempre chiesto.
«Hai mai bruciato una c-» No Frank, aspetta, parti da una domanda più generale. «qualcosa?»
«Ho mai baciato cosa?» mormora.
«No, hai mai bruciato qualcosa?»
Dopo averci riflettuto, dice: «Non credo… bruciato qualcosa tipo cosa?»
«Edifici... tipo, scuole, fienili, chiese…»
«Non mi ricordo, ma sono abbastanza sicuro di no. Una volta, però, era la vigilia di Natale e stavo andando in sala a mangiare i biscotti per Babbo Natale – i miei genitori mi avevano chiesto di farlo… perché Mik credeva ancora nella sua esistenza – e il presepe stava bruciando, allora ho, hm, svegliato i miei genitori e abbiamo spento tutto. Mikey ha continuato a dormire e quel Natale ha scoperto la verità su Babbo Natale.» Interrompe il lento discorso, sta iniziando a biascicare. «Ma ci fece poco caso, era felice perché ho salvato la famiglia.» Uno sgradevole senso di nausea mi inghiotte gli organi interni, Gerard ha rischiato di morire. Grazie vocina utile, davvero. Non l’avrei mai conosciuto, sarei stato da solo al matrimonio di mia cugina… e ora Alice non avrebbe appena finito di festeggiare il proprio.
«Anch’io sono felice che voi siate vivi.»
A questo punto conversiamo in sussurri, le nostre labbra sono pigre e non c’è bisogno di parlare ad alta voce.
«Quindi non hai mai bruciato chiese?»
Mi guarda.
«No.» Dovrei sentirmi sollevato? Deluso?
Avevo ragione, ma avevo anche torto. Fantastico.
Mi aggrappo a Gerard, alla sua nuca, le nostre labbra finiscono per aderire e il suo braccio mi circonda la schiena.
Wow, non ha senso.
Gli sto schiacciando il petto, e non stiamo facendo molto. Stiamo qui, ci muoviamo ogni tanto, ma come prima le labbra sono pigre e non si aprono eccessivamente. Però mi sento così bene…
Il mio orecchio si riempie d’erba e mi ritrovo con due mani appoggiate alle spalle, io e Gerard continuiamo il bacio, lento, e forse stiamo baciando anche un po’ d’erba. È tutto così delicato, surreale, che sembra un ricordo lontano, ma sempre più vivido. Come se fossimo anime gemelle che tentano di ricongiungersi in ogni vita, o come se fossimo due ragazzi confusi troppo brilli che si baciano.
Piano piano ci fermiamo, e rimaniamo incastrati sul prato. Ho un braccio attorno al suo collo, e la mano tiene lì la sua testa. Con la bocca gli sfioro la guancia, e rimaniamo così.
Mente e corpo assenti, rimane solo un senso di nausea che spero non sia causato dal vino. Non vorrei vomitargli addosso adesso.
Wow, chi l’avrebbe immaginato? Io no, neanche lui… e la dice lunga, visto che è stata un po’ un’idea di entrambi. Strano, davvero, poco fa eravamo grandi amiconi.
Mi arriva un respiro di vino e: «Perché dovrei baciare una chiesa?»
Poi, non lo so, ci addormentiamo.

 

«Gerard, Gerard!»
Mi sento oscillare, e la mia testa cade su qualcosa – morbido.
«Gerard!»
Non sto più oscillando, ma il nome di Gerard continuo a sentirlo.
Sento anche dei versi, sembrano di Gerard.
«Gerard, Frank, alzatevi dai.»
Apro gli occhi, e una luce mi investe per meno di un secondo «Porca troia.»
«Scusa» dice Bob, ridacchiando, poi la luce si sposta su Gerard e alzandomi sui gomiti mi accorgo della torcia , di Bob, e di Mikey. Gerard sta guardando il fratello, confuso.
Bob mi porge una mano, e mi alzo più o meno nello stesso momento in cui si alza Gerard.
«Allora, ora siete una coppia?» inizia Bob, con fare cospiratorio. «Sai, di solito gli amici non dormono così vicini.» Lo fisso in cagnesco, troppo rincoglionito per articolare una frase.
Sono intorpidito. E – oh. Io e Gerard ci siamo baciati, prima. Sarà meglio scriverlo, domani potrei non ricordarmelo. E non ha mai bruciato una chiesa, scriverò anche quello.
«Hai un foglio?» Abbiamo iniziato a camminare verso ciò che rimane del piccolo rave senza droghe.
Bob tira fuori una penna. «Ho solo questa.»
Mi rivolgo verso i fratelli Way: «Avete un foglio?»
Ottengo un paio di sopracciglia inarcate in risposta, e basta.
Prendo la penna e mi arrotolo la manica. Dopo aver scritto la tiro giù e spero che Bob non abbia sbirciato.
Alcuni ci salutano e ricambiamo, poi torniamo a buttarci sul prato (provando a non cadere su nessuno), solo che questa volta rimaniamo seduti. Bob e Mikey si siedono nello spazio dove siamo io e Gerard, formando una specie di cerchio; vedo le persone intorno a noi ma non mi interesso a ciò che fanno.
Mikey tira fuori, dal nulla – ve lo giuro, dal nulla – un mazzo di carte, e con altrettante capacità illusionistiche Bob tira fuori una bottiglia di – boh, alcool.
«Vi va di fare una partita?» Chiede Mikey, distribuendo le carte.
«Ci avete svegliati per questo?» Chiede Gerard.
I due alzano le spalle, e Bob ci passa la bottiglia.

 

 

 

Percepisco la luce, e il caldo.
Ah, che sofferenza.
Piego il collo e mi sfuggono versi di dolore mescolati ad uno sbadiglio. Mi stropiccio gli occhi, e quando li apro mi accorgo di essere in un parcheggio, sul sedile di una macchina – uhm, della macchina di Gerard. Lui?
Continuo a sbadigliare e – cos-?
MICEY BARA A CAPTE, trovo scritto sulla mia mano sinistra. È la mia scrittura, l’ho scritto io. L’interpretazione più verosimile credo che sia “Mikey bara a carte”, anche se non so come mi possa essere utile saperlo. Conoscendomi, e a giudicare dalla consistenza strana della mia testa, direi che ieri mi sono leggermente ubriacato e ho deciso di scrivermi le cose più importanti perché, conoscendomi, le avrei dimenticate.
Infatti, di ieri ricordo che – hm. Mikey si è sposato, abbiamo mangiato e io e Gerard abbiamo parlato sul prato, e… i suoi amici sono simpatici e ascoltano bella musica, e andrò ad un concerto con loro e Ray. E Bob, Bob e io diventeremo grandi amici – no. Io e Bob lo siamo già, di sicuro. Ha la mia simpatia da quando ha fatto esplodere una bomba immaginaria.
La macchina dice che è mattina, e anche il Sole. La mia pancia pure, reclama la colazione. Gerard sta dormendo, ancora; non dà segni di voler aprire gli occhi e affrontare il mondo.  È un po’ buffo, accartocciato come un gattino e con la bocca socchiusa. Certo, non è buffo quanto sarebbe se avesse gli occhiali.
Anche se è la sua macchina sono sicuro che mi autorizzerebbe a guidarla, e anche se ho un po’ di mal di testa per ieri, sono in grado di guidare la sua macchina. Poi ho fame, e non voglio girare qui a piedi come un cretino – lasciandolo in macchina per giunta – per cercare del cibo. Quindi ho deciso, guido io e lo lascio dormire. Non so se accendere lo stereo, non mi ricordo che CD e a che volume stessimo ascoltando ieri, ma farei meglio a non rischiare.
Rimane l’invitante idea di accendere e alzare il volume per svegliarlo da veri amici. Frank interiore, non ti credevo sadico.
Prima di partire dovrei mettere la cintura anche a lui, sì. Mi giro e guardandolo meglio è anche più buffo di quanto credessi. Ha la schiena piegata da una parte e non sembra essere proprio in equilibrio, sicuramente gli farà male il collo – come a me – in effetti devo ancora capire perché abbiamo dormito qui. Probabilmente eravamo troppo stanchi per tornare a casa. Dovrò informarmi. Ma prima metto la cintura a Gerard (e mangio).
Esco dalla macchina, è fresco qui fuori, bene. Apro la portiera più lontana da lui poi mi siedo e gli avvolgo un fianco con il braccio, e devo dire che trovo il suo calore confortevole, poi in qualche modo, molto lentamente, lo alzo un po’ e mi stacco. La sua testa penzola, in pratica, allora la prendo gentilmente e la appoggio al finestrino. È bellissimo. Frank, perché ci tieni a farmi notare la dolcezza con cui respira? Ho fame.
Metto in moto e esco dal parcheggio, prima di tutto, perché anche se non ho idea di dove siamo sembra l’idea più ragionevole. Proverò a guidare piano per non fargli sbattere la testa contro al vetro, i movimenti bruschi sono da evitare, potrebbe farsi male. Il comune dovrebbe riparare tutti quei buchi. Stupido Jersey.

 

Seguendo le frecce di alcuni cartelli con nomi familiari, credo di essere arrivato alla periferia della città, riconosco alcuni edifici – spero.
Ecco, tra poche decine di metri dovrebbe iniziare la zona popolata da Starbucks.
Non ne vedo. Okay, chissenefrega, ho visto un bar che non sembra abbandonato. Siamo in uno di quei posti vuoti, anche in città, siamo in una zona più o meno abitata ma non malfamata. Solo… tranquilla, piatta.
Davanti al bar ci sono un po’ di parcheggi liberi, perfetto.
Gerard continua a dormire.
Mi annoio.
Scendo dalla macchina, ma questa volta apro la portiera dalla sua parte e, per questo, gli impedisco di cadere tenendolo con un braccio.
Lo scuoto. «Gee
Niente.
«Gee.» un altro scossone.
Un sospiro.
«Gee.» Lo scuoto. «Gerard.»
Un grugnito.
Bene, è praticamente sveglio.
«Gerard, vuoi fare colazione?»
Un altro grugnito. «Caffè?» Mi dice con la voce di un corvo che presagisce morte, ma speranzoso.
«Sì, se vuoi.»
Apre un occhio, geme. (Un occhio molto bello.)
«Non pensavo di essere così brutto», scherzo.
«No è che -» si sgranchisce il collo, che emette rumori tipo zombie che escono da bare con un po’ di difficoltà. «mi fa male il collo.»
«Anche a me. Hai dormito che sembravi un manichino rotto dopo un crash test.»
Ora ha tutti e due gli occhi aperti.
Non mi ricordavo che vederlo sorridere fosse tanto contagioso.
Si guarda il petto e asserisce: «Mi hai messo la cintura.»
«Non volevo che morissi.»
E tra lievi risate, io che gli consegno le chiavi di sua proprietà, mi sembra anche di aver vissuto un piccolo déjà-vu.
Entriamo e gli dico di sedersi, poi ordino due caffè e due muffin. Uno al cioccolato e uno ai mirtilli, almeno uno gli andrà bene. Porto i muffin al tavolo. «Prendi quello che vuoi.» Allunga una mano, con la vitalità di un robot prossimo alla rottamazione. Meglio dargli il suo primo caffè quotidiano.
Porto anche i caffè al nostro tavolino, e Gerard ha in mano il muffin al cioccolato. Ma quello ai mirtilli ha qualcosa che prima non aveva; o meglio, non ha qualcosa che prima aveva – un pezzo di se stesso, per intenderci. Qualcuno l’ha morso.
Guardo Gerard. Mi ha deluso. Mi ha tradito. Come tutti, del resto. Frank, non diventare melodrammatico, per favore. «Non credevo fossi quel tipo di persona.»
«Quale?» Sputacchia involontariamente, e il suo viso è per metà coperto dalla mano e dal muffin, sembra una strana versione umana del Gatto con gli Stivali, lo sguardo è molto simile.
«Il tipo stronzo insensibile.» Mi siedo il più teatralmente possibile, poi afferro il mio muffin mutilato e mi arrotolo le maniche senza accorgermene. «Perché l’hai morso?»
«Credevo fossero gocce di cioccolato. È stata colpa sua, mi ha mentito.»
La situazione è più grave di quanto mi aspettassi. «Bevi il tuo caffè, per tutti i cavoli.» Glielo avvicino anche.
Afferro il mio bicchiere, e con l’altra mano mordicchio il mio dolcetto mutilato. Non riesco a capire la regola che vieta di appoggiare i gomiti sul tavolo, sarei morto, perderei l’equilibrio e non riuscirei a fare colazione se non lo facessi. Gerard intanto si è buttato sul caffè come Jack Sparrow berrebbe le ultime gocce di rum rimaste. Stiamo ancora indossando i nostri vestiti “eleganti”, ma più che altro sembriamo due avvocati che hanno passato la notte prima di un processo a fare sesso al parco, o che hanno deciso di rotolare giù da qualche collina; siamo sporchi e spettinati, che proviamo a ritrovare il senso delle nostre azioni.
Ho anche mal di testa, ma il torcicollo non me lo fa notare. E ora che il mal di testa sta passando, temo che il torcicollo mi colpirà con ancora meno pietà.
«Sei sporco lì.» Mi dice.
«Certo che sono sporco, ieri abbiamo passato almeno metà del nostro tempo a cadere sul prato.» Gli rispondo, forse troppo irritato per qualcuno che sta mangiando un muffin.
«No. Dico,» continua a tenere il bicchiere con una mano, con l’altra mi indica il braccio «lì. È nero. Anche sulla mano.»
La mia mano ha la scritta sulle carte e Mikey; il braccio, uhm. Ci sono delle scritte anche lì. Lo alzo.
GERAD NON HA MAI BACIATO CHIESE
E T HA BRUCIATO
Cosa?
Deve aver notato la mia confusione, mi sta guardando interrogativo.
«Non lo so, c’è scritto qualcosa.» Continuo a fissare quelle parole, tremolanti e sconnesse, che sicuramente ho scritto io.
Forse, forse… No. Dovrebbe essere “Gerard non ha mai bruciato chiese e ti ha baciato”? No.
Ho svelato il mistero senza ricordarmene. E…
Io e Gerard siamo amici, io non… e neanche lui… Io, ecco…
Si alza.
No, no, no, no… No, per favore, no.
Mi alzo anch’io. «Vado un attimo in bagno.»
Quasi corro via, a destra, mi accorgo che qui non c’è nessuna porta. Dannazione. Mi giro, e ripassando davanti al nostro tavolo sorrido a Gerard per dimostrare che ho la mia vita sotto controllo. E finalmente vedo la porta con due persone stilizzate appiccicate sopra.
Entro, e chiudo a chiave.
Porca troia.
Riguardo il braccio. Il messaggio è evidente: ci siamo baciati, e lui non è uno psicopatico (probabilmente). Perché cazzo non ricordo quasi niente, fottuto alcool. Io… merda.
Pensa, Frank. Ehi, quello è il tuo lavoro, non posso fare tutto da solo! Giuro che non sono schizofrenico. Sbatto la testa contro al muro. Mi lavo le mani e le passo sul viso.
Non laverò via la scritta, la farò vedere a Gerard; solo, non adesso…
Copro il braccio, abbottono il polsino.
Se avessi del cloroformio potrei fargli perdere conoscenza e trovare il modo di fargli credere di avermi immaginato e basta. Potrei scomparire dalla sua vita. Sarebbe tutto molto più semplice. Se mia cugina si fosse dimenticata di invitarmi…
Mi sento così caldo, guardandomi allo specchio noto il rossore sulle guance. Perfetto, adesso devo anche sperare di tornare normale prima di uscire, o potrebbe pensare che sia venuto qui a farmi una sega o cos’altro…
Sono passati un po’ di minuti, e forse sono riuscito a finire l’imbarazzo.
Esco.
Gerard mi guarda, un sorriso beffardo sotto al bicchiere di caffè.
«Cosa c’era scritto?» Mi chiede.
Devo dissimulare. Assolutamente.
«Hm? Non mi ricordo, niente di importante.» Lascio il braccio sul tavolo, per far vedere che non ho bisogno di nascondere niente. «Hai finito il caffè? Io penso che finirò il mio in macchina.» Mi viene naturale porgergli una mano per aiutarlo ad alzarsi, ma evito perché è meglio così. Prendo il muffin e mi butto ciò che rimane in bocca, poi butto l’involucro – qualsiasi sia il suo nome vero – e saluto il barista con un cenno della mano.

 

Gerard che guida riesce sempre ad essere bellissimo, anche con un abito sgualcito, i capelli storti, l’espressione di chi ha bisogno di un letto su cui riposare per qualche decade, scintille nello sguardo da caffeinomane. Scintille che, chissà come, mi riscaldano come se fossero realmente in grado di accendere qualcosa… Mi sento bene guardandolo.
Dopo dovrò dirgli del braccio, del bacio, delle chiese. Okay, forse delle chiese no.
Sono stato uno stupido avventato a credere di doverlo drogare e sperare mi dimenticasse. Sul serio. E odio il leggero senso di colpa che inizia a sgranocchiarmi l’intestino.
Come a causa di una strana sorta di empatia, il suo sorriso è triste.
Che schifo, e quell’ipocrita del Sole entra anche dal finestrino come se niente fosse, tutto allegro e sfavillante. Gerard è triste e le nuvole non vengono neanche qui a preoccuparsi. Sono indignato.
Forse dovrei tenergli la mano, è quello che si fa quando qualcuno è turbato, no? Non posso abbracciarlo, e non ho voglia di parlare. Ma è un gesto da amici? Forse, ma… Mi tratterrò, alla fine manca poco a casa mia.

 

La macchina rallenta, e si ferma più o meno all’interno delle linee del parcheggio.
Devo dirglielo.
Esco dalla macchina, mentre lui è ancora dentro e mi fissa. Non ci siamo ancora detti niente, ma penso di essere stato troppo assorto per accorgermi del silenzio.
Lo invito a venire qui, sul marciapiede, con lo sguardo.
Appena mi raggiunge, rispondo ai suoi occhi confusi con: «Grazie, mi sono divertito in- hm, nelle ultime ore. Salutami gli altri quando li vedi, soprattutto Mikey e Alicia.»
Annuisce, e fa un sorriso un po’ forzato. Si comporta in modo strano. Mi dice: «Grazie anche a te Frankie. Per la colazione e, be’, essere venuto.» Si sta girando, lento.
Va bene. È il momento.
«Io, Gee- Ho trovato una cosa.» mi slaccio il bottone e tiro su la manica, poi gli porgo il braccio. Lui torna a guardarmi e lo prende per osservarlo, e se non fosse per gli impulsi elettrici che per qualche motivo arrivano ogni volta che mi sfiora, scambierei le sue dita per la brezza estiva.
«In pratica, c’è scritto che non hai mai bruciato chiese. Ecco, io… è una lunga storia, non è importante che te la racconti. E sotto c’è scritto che, be’, noi-»
Ora guarda me. «Ci siamo baciati, lo so.»
Lo sa.
Come, lo sa? Cosa? Lo sapeva?
Sarà difficile non balbettare «I-io, Gee, in che s-senso?» Appunto.
«C’ero anch’io, sai? Sarebbe strano se non lo sapessi.» Ride, nervoso. «Tu non lo sapevi?»
Come risposta, gli bastano i miei occhi terrorizzati, spalancati.
Li spalanca anche lui. «Non lo ricordavi?»
Abbasso la testa. Che vergogna, sono ciò che rimane del legame tra scimmia e uomo. «No… Credo di aver bevuto troppo e in quei momenti è come se sognassi e, be’, di solito la mattina non ricordo i sogni. Però lo sapevo, per questo l’ho scritto, forse non volevo dimenticare. Vedi? Ho scritto anche che Mikey bara a carte, sono previdente. Ogni tanto.»
«Tutti sanno che Mikey bara a carte.» Sorride. Poi strizza gli occhi. E singhiozza.
E il mondo mi travolge, non ero pronto. Sta piangendo, ma… non sento odore di cipolle, quindi è triste, no?
«Gee, cosa fai?» Mi avvicino, devo proteggerlo, giusto? Da se stesso, dalla tristezza.
«Sono- sono solo stupido. Avrei dovuto saperlo. Lo dicono anche i film, che baciare qualcuno quando si è dubbiamente coscienti è una pessima idea, un’idea considerevolmente idiota. È stato un sogno, hai detto, praticamente. Scusa, non dovrei-» si alza un po’, si asciuga le guance con le mani e se le passa tra i capelli, per sciogliere qualche nodo. Non è un pianto disperato, al contrario, piuttosto contenuto, sebbene nervoso. Rimango immobile, sono scosso, sono travolto, se mi muovessi cadrei in mille pezzi e finirei nel tombino, me lo sento. «Sono stanco, Frank. Ho bevuto poco caffè- Devo solo dormire, dimentica tutto.» Conclude così, con un sorriso più amaro del cacao, mi bacia una guancia e sale in macchina, vola via.
Cos’è successo?
Non lo so. Davvero, non lo so. A volte la vita non ce la fa a lasciarti in pace per ventiquattro ore di seguito.

 

 

 

 

 

Fin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EEEEEEEEEEhi. Eccomi.
Come al solito, non ho idea del perché abbia scritto ciò che ho scritto. Sono loro che decidono cosa fare, alla fine; neanch’io so cosa succederà, non credevo che Gerard fosse tanto emotivo.
Non è la fine, lo sembra a causa di un impeto francese.

 

Spero che abbiate commenti da riferirmi, io non ho altro da dire… Sto ancora pensando che mettere dei titoli ai vari capitoli potrebbe rivelarsi una decisione sensata. Però la storia potrebbe finire in qualsiasi momento, anche adesso… Devo rifletterci ancora molto.

 

Goodbye.

 

xoxo

 
   

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


Sono viva! Evviva!

Ho una buona notizia e una cattiva notizia.

Quella cattiva è che la storia che sto traducendo (Masterpiece) molto molto probabilmente verrà pubblicata in ritardo (parafrasato: non domani); la notizia buona è che per non lasciarvi a mani vuote (si dice così, no?) vi lascio l’ultimo capitolo di questa bella storia – che ho concluso ieri invece di finire di tradurre… l’ironia.

Poi, lo so, per chi si era affezionato anche la buona notizia sarà una cattiva notizia. Sento già i vostri pianti. I vostri struggenti pianti.

Va be’, la taglio qui. Ringrazio con tanto affetto la mia amica che ieri ha realmente pianto ed espresso strane fantasie quando ha letto in anteprima la storia, e in generali tutti quanti.

Mi sono divertita,
Coffee_Time

 

 

 

 

 

And I thought you might be mine
In a small world on an exceptionally rainy
Tuesday night
In the right place and time

Knee socks, Arctic Monkeys

 

 

 

Mi sfioro la guancia.
Dimentica tutto
.
Ma porca puttana, Gee, ho già dimenticato tutto ciò che non avrei dovuto dimenticare. Non posso dimenticare anche di averlo dimenticato, sarebbe troppo. Sarebbe come non averlo mai fatto. Come puoi chiedermi una cosa tanto idiota?
No, io lo voglio ricordare.
Però Gerard è già via.
Devo corrergli dietro? Con la macchina, magari. Però le chiavi sono in casa, non farei in tempo, non sono sicuro che stia andando a casa sua.
Che fare?
Non ho voglia di correre. È presto.
Hm, forse dovrei dormire. Sì, potrei dormire e poi vedere Gerard, e sperare che stia bene – sento un vuoto, dove c’è il cuore, una sensazione fugace che scompare subito. Non voglio che stia male.
Gli occhi iniziano a bruciare e la mia voglia di tenerli aperti piano piano scompare. Li serro, e appena li riapro cade solo una lacrima.
È davvero successo? Ci siamo baciati, e non me lo ricordo. Io e Gerard… Mi avvicino due dita alle labbra. Non può essere… Sfioro le mie labbra. Non succede nulla, sono normali, giusto un po’ secche per l’alcol e la dormita in macchina. Due labbra normali. E Gerard dice di averle baciate. E io non me lo ricordo.
Ma porca troia.
Devo dormire.

Quando apro gli occhi i colori della mia camera sono diversi dal solito, più gialli, come per effetto di un filtro. Sospiro, stare sotto le coperte è davvero confortevole, sono tiepide grazie al calore del mio stesso corpo.
La schiena aderisce al materasso, e dopo aver intrecciato le mani sulla pancia guardo in alto.
E mi sovviene che ieri io e Gerard ci siamo baciati, ma non mi ricordo un cazzo di come è successo. E questa mattina ha pianto, e l’ho lasciato andare.
Adesso mi vesto, mi preparo e vado da lui. Sì.
Vorrei solo sapere da quando le cose sono state così complicate; voglio dire, eravamo amici, stavamo bene insieme. E ora Gerard è lì a fare il criptico e piange e io sono qui con degli scarabocchi sul braccio. Forse dovrei lavarmi il braccio prima di andare da- no, dovrei fare la doccia, ho ancora i capelli pieni di materiali organici. Anzi, meglio, vado da Gerard così. Chissenefrega, no?
Proprio così, chissenefrega.
Rotolo giù dal letto, ma il pensiero di poter finalmente chiarire una questione che con il sonno ho provato ad evitare mi mette una strana fretta e mi precipito in bagno.
Mi scrollo i capelli velocemente, con una rapida occhiata allo specchio che mi è di fronte decido che non è fondamentale pettinarli. Però mi devo lavare la faccia, e i denti.
Dopo essermi lavato mi tolgo la maglietta, e corro in camera, dove ne afferro una a caso e mentre la sto ancora infilando mi metto i jeans, poi salto nelle scarpe e dove cazzo sono le chiavi della macchina? Cazzo. Alzo la testa e scannerizzo la stanza e- ha iniziato a piovere. Cazzo. Dal nulla, giuro.
Prendo una felpa, guardo per terra e vedo delle chiavi, sono quelle di casa. Bene, mi serviranno. Le metto in tasca poi continuo la ricerca. Dovrebbero essere in cucina.
Come previsto sono vicino ai fornelli, le prendo e metto una mano in tasca sperando ci sia il portafoglio. C’è. Benissimo, esco e mentre esco prendo l’ombrello abbandonato a fianco allo zerbino, infine chiudo la porta.
Poi inizio a correre, giù per le scale, arrivato in strada continuo a correre e sento la pioggia che mi sbatte addosso, usare l’ombrello risulterebbe utile, perciò lo apro.
Il ticchettio costante mi rilassa, e rallento il passo – è da tanto che corro. Inspiro, espiro.
Non so bene cosa stia facendo, cosa voglia dire a Gerard, cosa abbia provato nelle ore passate e, accidenti a me, non ho idea di cosa sia successo di preciso ieri. A pensarci bene, l’unica cosa di cui possa ritenermi certo è che ho uno strano bisogno di parlare con lui, e per questo aumento la frequenza dei miei passi.
Riconosco un semaforo – casa di Gerard è poco lontana da qui.
Merda, la macchina. Ho le chiavi della macchina, ma non ho preso la macchina, sono un cretino. Mi giro e constato che la macchina è ormai parecchio lontana, della serie che neanche la vedo. E a dirla tutta non ricordo neanche dove l’ho parcheggiata. Mi rigiro e corro un po’.
Sto evitando di pensare a Gerard, e ogni volta che mi balena in testa o mi accorgo di essergli sempre più vicino, il mio cuore sparisce per una frazione di secondo.
Che abbia anche lui deciso di dormire?
Le strade sono pressoché vuote, ci sono un po’ di persone con ombrelli, altre che corrono. Noto una signora, davanti a me, che prova a pararsi con una borsa in modo un po’ goffo, e da quella posizione goffa ne deriva un’andatura leggermente impacciata. Sembra in difficoltà.
Mi avvicino alla signora, anche perché è molto più lenta di me e stiamo andando nella stessa direzione, prima o poi l’avrei raggiunta. «Buon giorno, ha bisogno di aiuto?»
Si gira e mi guarda per un secondo, gli occhi socchiusi. Intanto ho già provveduto a coprirla con l’ombrello.
«Che giovanotto gentile, grazie mille.» Dice, e inizia il nostro viaggio.
Parla, parla dei suoi figli e di suo marito, che secondo le sue parole ha occhi simili ai miei. In pratica, in un minuto è riuscita a raccontarmi la storia del suo matrimonio. E abbiamo fatto più o meno dieci metri. Cazzo.
Non arriverò mai a casa di Gerard. E poi dove deve andare questa signora?
Devo scappare, devo- «Mi scusi, devo assolutamente andare. Si può tenere l’ombrello, signora…»
«Meredith.» Risponde lei.
Annuisco, e le abbandono l’ombrello tra le mani. «Ciao Meredith, io sono Frank, tenga l’ombrello, non si preoccupi. E buona giornata.» Ormai sono sotto la pioggia, e Meredith mi guarda confusa. Velocizzo il passo e mi metto il cappuccio.
Alle mie spalle sento dire: «Grazie mille giovanotto!»
Ormai sono lontano, e alle mie spalle urlo: «Si figuri! Mi saluti Will!» sperando che mi senta oltre allo scroscio dell’acqua. Poi corro via.
Continuo a correre, sempre più freddo, bagnato, e con sempre più impazienza. Sento che l’acqua sta attraversando la felpa e mi sta bagnando anche i capelli, ma allo stesso momento mi sento quasi incorporeo; è strano da spiegare, e da provare in prima persona.
Sono vicino. Solo cento, forse trecento metri.
Al rumore della pioggia si aggiungono i miei passi che fanno guizzare l’acqua che è in strada o sui marciapiedi. Il piede destro è il più freddo, ma non mi interessa. Devo andare da Gerard e sapere che sta bene, semplicemente. È tutto quello che ora importa.
Rallento, recupero un po’ di fiato e torno a correre, forse più veloce di prima – oppure così è quello che voglio credere.
Vedo la sua porta, mi ci fermo davanti e suono il campanello vicino al nome dei fratelli Way. Il bip prolungato mi ricorda la mia incessante fuga dal temp- «Sì?»
È sveglio.
«Ger-Gerard… posso venire s-su?» Cavolo, non mi ero accorto di avere freddo.
Silenzio.
Poi il suono del segnale elettrico che mi concede di accedere alla sua dimora.
Le scale non le faccio correndo, non proprio. Diciamo di fretta, ma senza palesarlo troppo. Quando arrivo al piano del suo appartamento noto una porta socchiusa, quindi la apro e mi ci infilo dentro.
Gerard è qui, di fronte a me. Sguardo basso, una mano sul braccio e un braccio lasciato cadere. Mi scaglio contro di lui e lo cingo in un abbraccio particolarmente sentito. Lui è mio amico, non deve soffrire. E soprattutto, non per un bacio.
«Gee… Non devi piangere.» Gli sussurro, dopo qualche ora, anche se ora non sta piangendo. Mi abbraccia anche lui, annuisce – penso – mentre io continuo a cercare il suo orecchio per parlargli. «Hai bevuto un altro caffè?» Annuisce di nuovo.
Sussurra il mio nome, e io posso solo stringerlo un po’ di più.
«Scusa.» Dice, staccandosi e guardandomi negli occhi con il coraggio che a me manca. Sì, ecco, sono ancora in imbarazzo per il fatto di non ricordarmi gli avvenimenti di ieri… be’, il bacio. E poi chi vorrebbe baciare qualcuno che si dimentica così facilmente cose tanto importanti?
Non mi rimane che parlare con il pavimento: «No, sei tu che mi devi perdonare…»
Lo guardo meno di un attimo, è molto vicino, stranamente serio, e per una volta non ha i capelli a coprirgli quasi del tutto la testa – motivo per cui i nostri sguardi si sono incrociati, per quel corto attimo. «Gee, dimmi… Quindi, ieri ti sei divertito? Cioè, cos’è- Quando ci-» Mi interrompo. Cosa gli voglio chiedere? Se è stato un bel bacio? Se vuole riviverlo? Voleva solo portarmi a letto ma ci ha rinunciato perché ero troppo ubriaco e sarebbe stato eticamente scorretto? Se si è sbagliato? O chi ha iniziato?
«Ho passato una serata magnifica, sì, grazie. Volevo dirti che mi dispiace di essere scappato, prima, dal nulla.»
«Non preoccuparti, ci sei solo rimasto male perché probabilmente mi avevi sopravvalutato… Forse non credevi potessi essere tanto cretino.»
Seriamente, Frank, la prossima volta che tocchi qualcosa di alcolico ricordati di non fare cose rilavanti, come, ad esempio, baciare Gerard. Che cazzo, cos’hai in testa? Magari è stato lui… Allora avresti dovuto avvertirlo.
Che palle.
Mi poggia una mano sulla spalla. «Non sei cretino. Più che altro avrei voluto parlarne e poi… mi dispiace che tu non abbia un ricordo così, insomma per me è stato bello» noto uno spasmo, quasi un sorriso «e scommetto che non ti ricordi neanche della ragazza che ha vomitato di fronte a Mikey.»
Scoppio a ridere, ma in effetti non ricordo nulla del genere.
«No, non ricordo nulla del genere. Ti va di raccontarmi ciò che mi sono perso?» L’atmosfera adesso è notevolmente migliorata, questione di un paio di secondi. E Gerard alza le spalle, si siede sul divano e lo seguo. E mi racconta di Bob, che gli ha puntato una torcia quasi al cervello, delle infinite partite e delle persone che man mano si aggiungevano e aiutavano Mikey a barare, di Ray che ha improvvisato una canzone sulla piega degenerata che aveva preso la festa e di me che sono corso ad abbracciarlo perché, a quanto pare, suonava molto bene. Scopro che la ragazza che ha vomitato in faccia a Mikey è stata poi accompagnata a casa da Ray, e che quando tutti gli invitati hanno iniziato ad andarsene io ero fermamente convinto di voler rimanere a dormire sul prato.
Poi si interrompe e guarda nel vuoto. Si gira verso di me e mi fissa qualche attimo, contemplativo.
E cambia argomento: «Sai, Frank… Non sono ancora abituato a questa storia del bacio- cioè, al fatto che tu non te lo ricordi- è che, non so come continuerà il nostro rapporto, se sarà meglio che lo dimentichi anch’io, se per te non è stato importante… O se-»
Spalanco gli occhi, e gli fermo le braccia perché ha iniziato a gesticolare quasi convulsamente e a spostarsi i capelli dal viso ogni tre secondi. «Gee, no, lo è stato… Immagino. Insomma me lo sono scritto sul braccio. Vedi? Quando sono ubriaco sarò anche ubriaco, ma non stupido. Sapevo di dovermene ricordare e l'ho scritto, significa che per me era importante. Vedi?» Mi scopro il braccio e glielo mostro per bene, lui lo sfiora e ad ogni lettera che traccia con il polpastrello il sorriso diventa più evidente sul suo viso. Sento gli occhi inumidirsi. «Mi dispiace un casino, vorrei ricordarmi tutto anch’io.»
Cosa fare? Lo bacerei anche adesso, ma non penso sarebbe giusto.
Allora lo guardo, gli rimetto le mani sulle braccia anche se non c’è bisogno di fermarlo, mi lascio cadere verso di lui e cingo il suo corpo. Adesso vedo solo il suo collo e molti dei suoi capelli, che gli coprono l’orecchio.
«Gee, che ne dici di uscire? Non dico di dimenticare cos'è successo, o che è successo, solo... potremmo andare avanti. Ti va di uscire con me? Tipo, un appuntamento non da amici. Se vuoi ti passo a prendere io e ti regalo dei fiori, anche. O cioccolatini, accendini. Che ne dici Gee, vuoi uscire con me?»
Mi sento più compresso dalle sue braccia, e un sussurro mi dice: «Certo, Frankie… Ti ringrazio così tanto.»
«Per…ché?» Siamo ancora coinvolti nello stesso abbraccio, ma molto più rilassati. Come se ci stessimo appoggiando l’uno all’altro.
«Di preciso non so per cosa, ma solo la tua presenza è straordinariamente rassicurante. Rimanimi accanto.»
Sento qualcosa di caldo che mi inonda le viscere e sorrido, con gli occhi, le labbra, e tutto me stesso. Noi due siamo estremamente simili, è quello che mi sta dicendo e confermando. E non sta mentendo. Non può.
«Dammi uno schiaffo Gee, per favore.» Gli domando.
Si spinge via, e allarmato e confuso cerca l’ironia nei miei occhi; solo che in questo momento non la può trovare, sono completamente serio. Voglio che mi dia uno schiaffo, per essermi permesso di creare un ricordo che non potrò rivivere e condividere con lui.
«Sei serio? E perché dovrei?»
«Perché me lo merito. Per essere stato così stupidamente incauto da aver creato un ricordo che non potrò più condividere con te, che tu sarai costretto a tenere per te. E per averti fatto stare male questa mattina.»
Sorride, divertito. «Non essere sciocco… Non è colpa di nessuno.» Sospira «Però so che sei testardo, quindi ti accontenterò o mi farai perdere la testa.»
Quest’ultima affermazione mi sorprende, però gli do ragione. Lo guardo, in attesa.
Alza la mano destra e me la porta sulla guancia, colpendola piano, producendo un suono leggerissimo, poi mi fa una carezza.
Sbuffo.
«Ho capito, mi schiaffeggerò da solo a casa.» Dopotutto anche lui è un gran testardo. Per dargliela parzialmente vinta accenno ad un piccolo broncio.
Continua a sorridere e ad accarezzarmi, si ferma e aiutandosi con la mano fa in modo che le nostre fronti si tocchino. Fa anche in modo che i nostri nasi si sfiorino. I suoi occhi sono vicinissimi ai miei e sono chiusi, mi balena in mente un’immagine simile, meno luminosa… Una specie di déjà-vu. Vogliamo baciarci entrambi. Io forse più di lui, perché per me è come il primo, qualcosa di nuovo, l’essere umano è curioso per natura; oppure lui più di me, perché l’ha già provato e non vede l’ora di riviverlo.
La situazione è statica. Il sangue mi circola in corpo impazzito, e non vedo niente ma sento cose che non credo di aver mai sentito. Inclino un po’ la testa per avvicinare le labbra, ma il tempo di arrivare a sfiorare le sue e mi stacco.
Con lentezza mi allontano.
Non qui, non così.
Mi guarda con una confusione tale, un dispiacere, tutto in un misero secondo di occhi spalancati; si ravvede, annuisce con un leggero cenno. Poi sorride, perché ha capito.
Intanto, il mio cuore si rifiuta di placarsi.

 

 

΅΅΅

 

L’ho invitato a casa mia, non so per quale cazzo di motivo, però.
Merda.
Cazzo.
Perché.
Ho, diciamo, ancora un’ora e quaranta minuti per rendere me e il mio appartamento presentabili. Le cose stanno così. Ho faticosamente percorso centinaia di scivolosi metri per arrivare alla macchina, ho trovato il primo alimentari aperto, sono tornato in casa e abbandonato la spesa sul tavolo. E dopo due ore passate a lanciare vestiti nell’armadio, impilare libri e, in generale, fare il necessario per permettere a qualsiasi turista di vedere pavimenti e pareti delle stanze posso guardarmi intorno rassicurato. Sono riuscito a far trasparire una parvenza di vita civilizzata.
Quindi, ricapitolando, mi rimane da spazzare, preparare la pasta che ho promesso a Gerard, togliermi questi vestiti lerci e, finalmente, farmi la doccia.
Corro in bagno, mi svesto e getto tutto in terra. Sarà divertente pulire il pavimento.
Mentre mi lavo l’acqua arriva allo scarico marrone, poi scende solo schiuma, infine acqua quasi limpida.
Esco. Arriverà Mussolini a bonificarmi la doccia. La doccia e il bagno, ci sono ancora le zolle che mi sono tolto dai capelli e adesso ci sto perdendo sopra molta acqua. Potrei chiudere il bagno a chiave e dire che è fuori servizio, per evitare di pulirlo. È un peccato a volte non essere un Walmart.
Mi avvio in cucina, prendendo sul serio la mia ultima proposta.
Automaticamente tiro fuori una pentola e la riempio d’acqua, come mi hanno insegnato i miei orgogliosi parenti; sostengono di saper cucinare la pasta come la fanno gli italiani, io prendo per buona la loro parola.
Metto il tagliere sul tavolo.
Fisso il legno. Gerard. Le mani, appoggiate al piano, si irrigidiscono e impallidiscono. Che accadrà? Non voglio che il clima tra noi cambi, mi sono sempre sentito inspiegabilmente a mio agio in sua presenza.
Mi ritrovo con un coltello in mano, a tagliare cibo. È indecente. Cadere in uno stato confusionale tanto profondo solo perché Gerard sta per arrivare, e probabilmente mi toccherà parlare di cosa io abbia voglia di fare, di cosa vuole lui, quindi del futuro, è indecente. Indecente, cavolo.
Come se non bastasse non ho cloroformio, nessun piano B.
Buttarsi dalla finestra potrebbe essere un piano B interessante.
Mi serve un piano C, meno rischioso del B. E l’A quale sarebbe? Resistere? Andata.
Allora il piano C sarà urlare fino alla porta, uscire e correre giù urlando, arrivare in strada e urlare, con le mani tra i capelli.
L’addome reclama attenzioni, fa finta di scomparire, si nasconde, il pensiero che probabilmente ci baceremo mi disorienta.
Intanto continuo a preparare la cena, immerso in me stesso; dalla padella mi raggiungono promettenti crepitii.
Me lo immagino già, dietro alla porta, con il suo bel sorrisino, la bocca che asimmetrica mi chiede di entrare, e le sue mani che non sanno dove stare e si consumano a vicenda e- ahia!
Sangue, bruciore. Mi sono tagliato.
Accidenti alla mia testa fluttuante. Mi lecco via un po’ di sangue dall’indice, ma sembra voler fuggire dal mio corpo e glielo impedisco con un primo rudimentale bendaggio fatto con un tovagliolo.
Una volta in bagno, apro la cassetta di pronto soccorso – un simpatico regalo donatomi dai miei genitori, che effettivamente è nella lista delle cinque cose più utili in casa mia – e pesco un buffo cerotto verde fosforescente con disegni casuali di animali. Mi bagno il dito, lo asciugo poco accuratamente con il tovagliolo, che poi lascio cadere per terra, tanto devo ancora pulire – merda – e ci appiccico il cerotto.
Dicono che le prime impressioni siano importanti. Per fortuna mi conosce.

Ha qualcosa in mano; un regalo.
Un regalo?!
Cazzo, mi ero dimenticato del dettaglio appuntamento. È un appuntamento, un fottuto appuntamento. Con Gerard. Oddio.
Ha del vino. Del vino! Vuole portarmi a letto, ecco, cazzo.
Nel mio letto, poi! Che cosa poco galante.
Povero me.
Non mi vuole bene, vuole il mio corpo.
Frank, svegliati, reagisci! Ti sei incantato come al solito.
«Ehi Gee! Ciao. » Sto sorridendo. La bottiglia, Frank. Nei film fanno così, no? Prendono la bottiglia e la appoggiano sul tavolo e poi la bevono e si ubriacano e scopano. Io però non sono in un film. Prendo la bottiglia. «Non importava prendere il vino, anch’io ho da bere. Però grazie.»
Gerard struscia i piedi sullo zerbino, con il suo sorriso storto e tutto il resto. «Lo so, ma Mikey l’ha definito un “obbligo sociale”, mi pare. E sono sicuro che ti piacerà, è una delle bottiglie che era al matrimonio.»
«Cazzo, hai ragione.» La prendo per esaminarla, ma l’istinto mi ferma a metà. Ho troppa voglia di aprirla. «Vieni Gee, metti la giacca dove vuoi.» Mi guardo intorno, mentre gli faccio strada. Per poco non vedo i brilluccichii da cartone animato, questo appartamento non è mai stato tanto pulito.
In cucina, accendo il fuoco sotto alla pentola dell’acqua e cerco il cavatappi. Gerard mi sta osservando dall’altra parte della stanza, sorriso nello sguardo, mano una nell’altra, il solito dolce Gee.
Apro il cassetto e tiro fuori il cavatappi rubato a mio padre, il finto metallo si oppone, fa qualche verso, e appena libero il collo della bottiglia dispiego i gingilli del cavatappi, infilo, ruoto, ottengo il tappo e uno schiocco. Assaggio il vino. Come un barbone, sì, dalla bottiglia.
È davvero buono, e mi ricorda il prato di ieri.
Verso questo strano succo nei bicchieri, abituati a bevande gasate e acqua del rubinetto. Non ho proprio dei calici da vino. Non ho neanche dei calici, figuriamoci.
Lui ha già raggiunto me e i bicchieri, e ne prende uno.
Brindiamo ai prati, all’ombra, agli gnomi, ai nostri sorrisi; brindiamo ai tombini dove finiscono le illusioni quando si rompono, al caffè, al caso, alle nuvole rosse e agli abbagli del sole, brindiamo alla solitudine, brindiamo alla salvezza, e alla speranza.
Lui dice: «Alla vita?»
Io alzo le spalle, avvicino il bicchiere, e un leggero tin suggella il tutto.
Mi sento come quel tin, quando sono con Gerard.

Ha apprezzato molto la mia pasta, come mi aspettavo. Nei piatti non è rimasto nulla, la bottiglia invece è piena fino a poco sotto la metà. Non c’è fretta.
E poi cazzo quel vino è buonissimo, bisogna preservarlo un minimo.
«Ti va una sigaretta?» Mi chiede, con già l’accendino in mano.
Con questa sua agilità nel tirare fuori oggetti infiammanti forse mi converrebbe tornare alle mie vecchie teorie che lo vedevano piromane. Ma forse no.
«Cazzo, sì. Tu vai di là, io di solito fumo davanti alla finestra perché è grande e ha una vista decente. Io metto in ordine qui, ma ci metto poco.»
«Allora ti aspetto. Anzi no, vuoi che ti aiuti?»
«Ma scherzi? Vai di là a vedere quanto mi sono impegnato per pulire, e non essere ridicolo. Puoi anche iniziare a fumare.»
«Sicuro?»
Alzo fintamente scocciato gli occhi al cielo, lo sento ridacchiare. Si alza, mi accarezza i capelli ed esce. Io inclino un po’ la sedia e mi guardo la pancia soddisfatto. Mi alzo e metto tutto nel lavandino. Adesso con il cazzo che mi metto a lavare i piatti.
Prendo la bottiglia, che tanto la finiremo oggi.
Ha l’etichetta rovinata, un po’ a sinistra del nome del vino, curioso; la tocco, ci sono delle linee- la avvicino. Quelle sono delle lettere, porco cane.
La avvicino ancora.
F + G
La G sembra più una mezza picca, ma è una G. Sorrido. Non le avevo notate… Mi chiedo se sia stato Gerard o quello strambo di suo fratello. Chiunque l’abbia fatto, comunque, non mi interessa, non è importante. Ormai tanto è palese che siamo interessati uno all’altro, la cena è stata un lungo flirt.
È appoggiato al davanzale. Il cielo nero, inquinato dalle luci della città, è deturpato dal fumo.
Gli arrivo accanto, appoggio la bottiglia davanti a me, lui continua come se non si fosse accorto di niente.
Gli chiedo una sigaretta senza parlare, perché qui le luci di casa mia non servono, solo dalla cucina arriva un bagliore che ci tocca i piedi, e questo è uno di quei momenti da vivere in silenzio. Questo è uno di quei momenti in cui sarebbe ideale baciarsi, anche.
Mi passa la sigaretta, me l’accende lui, io mi fisso qualche attimo in quegli occhi perfetti.
Aspiro, sputo il fumo, chiudo gli occhi, appoggiato al davanzale.
In questo istante non esiste niente. C’è Gerard, ci sono io, c’è la città, e da qualche parte anche tutto il mondo, c’è la mia casa e del passato c’è solo quello che voglio salvare. Il futuro non esiste, non importa.
Il passato mi permea.
Sento un peso sulla spalla, Gerard che finisce la sigaretta.
Il peso scompare, invece di aspirare mi giro, con la mani sul davanzale. Mi raddrizzo di poco.
Si avvicina, la bocca vicina alla mia, io immobile, e contrae lentamente il diaframma. Schiudo la bocca, accolgo lo schifo che dalla sigaretta è arrivato ai suoi polmoni, il catrame e la nicotina evaporati, il tempo di raccoglierli che li sto subito esalando via, mentre mi avvicino a lui.
E così, avvolti dal fumo ci baciamo per la prima volta.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3350971