Cronache di inenarrabili eventi.

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scommessa. ***
Capitolo 2: *** Veleno. ***
Capitolo 3: *** Nome di famiglia. ***
Capitolo 4: *** Prima ancora dell'aria (Parte Prima). ***
Capitolo 5: *** Prima ancora dell'aria (Parte Seconda). ***
Capitolo 6: *** Dubbio. ***
Capitolo 7: *** Inferno. ***
Capitolo 8: *** Si mens non laeva fuisset (Parte Prima). ***
Capitolo 9: *** Si mens non laeva fuisset (Parte Seconda). ***
Capitolo 10: *** Concedi la pace ai nostri giorni. ***



Capitolo 1
*** Scommessa. ***


Cronache di inenarrabili eventi.


«Nonno, ci aiuti a leggere questa rivista?» cinguetta Gary eccitato, spingendogli sulle ginocchia un settimanale che reca il titolo I Superquattro della Lega Pokémon: gli imbattibili allenatori dell'Altopiano Blu e, poco sotto, il sottotitolo provocatorio: Sicuri di sapere tutto?

Deve averlo comprato Margi, Samuel ne è certo, ormai ha quasi undici anni e sta sviluppando una cotta per quel bel giovanotto di nome Lance. I suoi nipoti lo stanno guardando speranzosi, e anche se Margi è grande abbastanza da leggere per entrambi, Samuel sa che per loro leggere con il nonno è una tradizione immancabile la sera. Beh, non è una rivista per bambini, ma di certo non può contenere niente di inadatto a loro, e poi ci penserà lui a censurare il necessario, eventualmente. Perciò si siede sulla poltrona del salotto, con la rivista aperta sulle ginocchia in modo che i suoi nipotini possano guardare le fotografie, e domanda: «Da dove volete partire?»

«Da Bruno» esclama Gary, che nutre per quell'energumeno un'ammirazione senza pari – qualche volta Samuel ha paura che possa farsi male nei suoi tentativi di emularlo quando gioca, questo scricciolo di sei anni che peserà forse venti chili con tutti i vestiti addosso. A volte Gary è un po' irruento – un bambino vivace, era solito dire suo figlio, al contrario di Margi, così dolce e posata e casalinga, e Samuel teme che a volte possa metterle i piedi in testa. Perciò si volta verso sua nipote e dice: «Gary, lascia scegliere tua sorella, per una volta! Tu, Margi, di chi vorresti leggere?»

È così sicuro della risposta che sta già consultando l'indice per cercare le pagine che trattano di Lance, ma quando sua nipote gli risponde, con la sua vocina flebile che sembra non volersi fare udire, dice qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.

«Possiamo partire da Agatha, per favore?»

Samuel la guarda sorpreso. Margi è accomodata tranquillamente sul tappeto, col mento appoggiato sulle ginocchia reclinate, e attende che lui cominci.

«Beh, va bene. Non sapevo che ti piacesse Agatha» risponde in tono incerto, tornando a consultare l'indice.

«Da grande mi piacerebbe essere come lei» risponde la bambina, guardandolo dal basso coi grandi occhi castani. «Tu la conoscevi, vero, nonno? Sembra forte e coraggiosa e indipendente...»

Dolce, innocente Margi, così responsabile e premurosa verso il fratellino di cui si prende cura come un' affettuosa mamma di dieci anni. Da quando i loro genitori sono morti, lei è la piccola donna di casa, attenta e dimessa, e vive la sua infanzia appartata e sola. Samuel le ha detto più volte che, se volesse partire, potrebbe farlo: si occuperebbe lui di quella peste di suo fratello. Ma Margi è fatta così, il sacrificio le viene spontaneo e le riesce meno doloroso di un atto di egoismo, e anche se nei suoi occhi egli legge tutti i giorni il dolore di sentirsi orfana e sola e un desiderio inappagato di avventure e cose grandi, sa che preferisce rinunciarvi perché Gary possa goderne più appieno tra qualche anno.

Esiste forse una creatura più diversa da Agatha?

«Sì, la conoscevo» ammette Samuel. Tutto sommato, non può che dirsi contento che sua nipote voglia prendere a esempio una donna fiera e assoluta come Agatha, piuttosto che da un'oca superficiale e vanitosa come Lorelei, per esempio, coi suoi vestiti corti e oscenamente scollati – perché per quanto riguarda certe cose, come l'abbigliamento, Samuel Oak è un terribile tradizionalista ed è il primo ad ammetterlo. «È una validissima allenatrice, Margi, e probabilmente la donna più coraggiosa che io abbia mai conosciuto. Non può farti che bene prendere esempio da lei.»

A questo punto, Gary scoppia a ridere senza ritegno, di quella sua infantile risata sguaiata e irrefrenabile, e Margi lo fulmina con un'occhiataccia. «Zitto, Gary! Sei antipatico!»

«Cosa c'è da ridere?» chiede Samuel senza capire.

Ma ora anche Margi sta ridendo e Samuel sente di essersi perso qualche passaggio. «Su, bambini, ditemi che cosa c'è!»

«La nonna di Ash dice che da piccoli eravate fidanzati!» esclama Gary come se lo avesse appena colto in fallo. Samuel è sconvolto.

«La nonna di Ash?» ripete perplesso, guardando alternativamente entrambi i suoi nipoti. «Ma io non la conosco.»

«Dice che lei e Agatha hanno la stessa età e vivevano entrambe a Lavandonia da giovani» spiega Margi sorridendo deliziata, di quell'ingenuo sorriso che hanno le bambine che parlano d'amore. «Dice che avete viaggiato insieme e a quei tempi lo facevano solo i fidanzati.»

Samuel non potrebbe essere più esterrefatto di così. Tossisce discretamente, un po' irritato, e cerca di mettere le cose in chiaro. «Beh, la nonna di Ash dovrebbe sapere che non è gentile raccontare le faccende private degli altri. Comunque deve aver capito male: io e Agatha non eravamo fidanzati. Abbiamo viaggiato insieme per qualche tempo, anche se quei tempi era raro, ma questo è quanto.» Non è propriamente tutta la verità, ma non sta mentendo su quello che interessa ai suoi nipoti.

I due bambini si scambiano uno sguardo deluso e appoggiandosi alla sua poltrona Margi insiste: «Non vi siete mai neppure baciati?» Margi va matta per le storie d'amore in cui due innamorati si baciano, ma Samuel deve disilluderla di nuovo.

«No, Margi, a quei tempi i baci erano una cosa seria. Ci si baciava solo quando si era fidanzati.»

«Allora la nonna di Ash deve aver sbagliato» conclude Gary arrabbiato. Samuel vorrebbe dirgli che la nonna di Ash, evidentemente, è una gran pettegola e dovrebbe farsi gli affari propri, ma non vuole che suo nipote apprenda un linguaggio del genere, perciò si limita ad annuire.

Frattanto Margi sta sfogliando la rivista per cercare le pagine che parlano di Agatha. «Era bella da giovane, nonno?»

Questo, almeno, Samuel pensa di poterglielo concedere. «Beh, sì. Era una ragazza molto bella, anche se già allora aveva un suo caratterino.»

Dopo un po', Margi smette di girare le pagine e a Samuel fa quasi male vedere quella donna anziana dal profilo severo e lo sguado torvo – ma i suoi occhi sono ancora quelli di una volta sotto le palpebre pesanti, neri e profondi tanto da potervi sprofondare. Non si sono schiariti con la vecchiaia. Guarda le pagine con simulata indifferenza: c'è anche una foto d'epoca, di quelle che andavano tanto ai loro tempi, scattata per qualche occasione ufficiale. È in un nitido bianco e nero e un'Agatha di vent'anni è di tre quarti, coi capelli ordinati e raccolti come si usava allora per le fotografie – perché per quanto può ricordare i suoi capelli erano sempre onde scomposte e ribelli di riccioli turbinosi; il suo profilo è già severo e cupo, ma ancora armonico e giovanile, la sua bocca è come fatta di petali di rosa sovrapposti, ma nei suoi occhi c'è già quel dolore amaro e rancoroso, immedicabile, ch'egli ricorda anche troppo bene. La indica a Margi. «Ecco, puoi vederla da te.»

«Ooooh» esclama Margi, ammirata, e Samuel sorride.

Ma Gary sta guardando le altre foto, quelle più moderne, quelle di una donna dai capelli bianchi che si appoggia a un bastone. «Nonno, perché non ci parli tu di quando viaggiavate assieme? La rivista possiamo leggerla domani!»

«Oh, ti prego, ti prego!» soggiunge Margi, accogliendo l'idea del fratello e aggregandosi a lui quasi senza riflettere.

Stretto com'è tra due fuochi, Samuel non se la sente di rifiutare, e del resto, non ci sarebbe niente di male... almeno per quanto riguarda la parte del loro viaggio e delle loro piccole sfide. Al pensiero di come si è sciolta quella loro alleanza, della loro ultima avventura, Samuel sente un nodo stringersi alla bocca dello stomaco e un senso d'ansia che lo assale, ma dura solo un attimo. Sono passati quasi cinquant'anni da allora, ma ancora non è trascorso un solo giorno senza che lui abbia ripensato, anche per un minuto solamente, a quegli eventi. È un dolore che ha imparato a sopportare, a tollerare... chissà se Agatha, dalla cima di quell'Altopiano Blu dove ormai si è trasferita stabilmente, vi è riuscita anche lei, a modo suo, dopo tanto tempo.

Samuel non vuole sconvolgere i suoi nipotini proprio all'ora di andare a dormire – è già abbastanza difficile mettere a letto Gary in condizioni normali – ma dopotutto, lavorando un po' di fantasia, può raccontare loro qualche cosa, mitigando e alterando un po' gli avvenimenti più terribili.

«Va bene» accetta perciò, appoggiandosi più comodamente allo schienale della poltrona, e comincia a raccontare. I suoi nipoti non vi prestano attenzione, ma se guardassero sulle sue ginocchia, si accorgerebbero che non ha chiuso la rivista. Quella foto lo fa sentire come se Agatha fosse al suo fianco e lo aiutasse a rievocare e a descrivere la loro storia, risalente all'anno della prima Lega Pokémon.


Capitolo primo – Scommessa.


PRIMO TORNEO UFFICIALE DELLA LEGA POKEMON DELL'ALTOPIANO BLU

In occasione del cinquantesimo anniversario dalla sua fondazione, la Lega Pokémon che unifica le regioni di Kanto e di Johto ha indetto un torneo aperto a tutti gli allenatori maggiorenni che possiedano almeno un Pokémon sopra il livello cinquanta. Il Torneo si svolgerà il primo di giugno nella modernissima arena situata presso la Sede centrale della Lega Pokémon.

Ulteriori informazioni saranno disponibili su richiesta presso il Colosseo di ogni Centro Pokémon. Le iscrizioni saranno aperte dal primo al dieci di maggio presso la Sede centrale.

Fin dalla sua fondazione, la Lega si era sempre occupata di garantire la regolarità delle lotte tra allenatori e tutelare la sicurezza dei Pokémon tramite l'applicazione di ferree norme e restrizioni sulle mosse consentite in battaglia: era ormai diventata l'istituzione di riferimento per chiunque avesse fatto dei Pokémon il proprio mestiere. Un torneo ufficiale, aperto oltretutto agli allenatori di entrambe le regioni, sarebbe stato probabilmente uno dei più grandi eventi mai realizzati in quell'area.

Quando Samuel lesse questo annuncio, appeso in bella vista sulla bacheca degli avvisi del Centro Pokémon di Fucsiapoli, ebbe l'impressione di non avere atteso altro per tutta la vita.

Sin da quando si era messo in viaggio, ormai sei anni prima, Samuel aveva percorso in lungo e in largo sia la regione di Kanto che quella di Johto e la sua squadra, che, modestia a parte, era piuttosto notevole, aveva superato ormai da un pezzo il livello cinquanta. Quale occasione migliore di un torneo come quello per mettersi alla prova e trovare avversari del suo calibro?

Samuel aveva raggiunto Fucsiapoli quella sera dopo una giornata di viaggio sulla groppa del suo Gyarados: il giorno seguente aveva stabilito di trovarsi alla Zona Safari con un amico che aveva preferito prendere la via terra passando dal Ponte Silenzio. Aveva perciò davanti a sé tutta la notte per riposarsi e far rimettere in sesto i propri Pokémon e aveva deciso di trascorrerla al caldo e all'asciutto all'interno del Centro Pokémon.

Per quanto fosse stanco dopo aver navigato per ore attraverso le onde, quell'annuncio lo mise di buonumore. Era il venti di aprile: non mancava poi molto all'apertura delle iscrizioni e per quanto l'Altopiano Blu fosse difficoltoso da raggiungere – si era sempre chiesto cos'avesse spinto i suoi fondatori a scegliere come sede un fianco del Monte Argento – non sarebbe stata la prima volta che attraversava la Via Vittoria per recarvisi. Aveva tutto il tempo per organizzarsi, concluse tra sé accostandosi al bancone.

Affidò all'intermiera i suoi Pokémon stanchi e le chiese una stanza per trascorrere la notte. Appena la donna ebbe preso la sua scheda allenatore per compilare il registro ed ebbe letto il suo nome, levò gli occhi su di lui come a richiamare alla memoria un ricordo confuso.

«Lei è il signor Samuel Oak?»

«Per l'appunto» ribatté Samuel con rassegnazione. La donna non doveva essere particolarmente sveglia:aveva ancora in mano il suo documento e la foto era piuttosto recente. Doveva avere un aspetto orribile dopo aver viaggiato per ore su Gyarados, ma era convinto di non essere così stravolto da non ricordare il ragazzo ritratto sul documento.

«Credo che qualcuno abbia mandato un telegramma per lei. Se aspetta un momento glielo porto.»

In quei tempi privi di telefono cellulare, inviare telegrammi nei Centri Pokémon era l'unico modo che gli allenatori girovaghi avessero per comunicare tra loro. Il telegramma era del suo amico e portava la data del giorno prima: lo avvertiva che, a causa di un problema tra Celestopoli e Zafferanopoli, aveva dovuto prendere la via più lunga del Tunnelroccioso e lo pregava di volerlo aspettare a Fucsiapoli per un altro giorno, senza rimandare il loro Safari.

Un giorno di riposo non gli avrebbe certo fatto male, decise Samuel con filosofia. La donna terminò le formalità di registrazione e gli porse le chiavi della sua camera, informandolo in tono smorto che la mensa era già aperta.

Da diversi anni i Centri Pokémon si erano dotati di mense per gli allenatori girovaghi, dov'era possibile consumare un pasto caldo con poca spesa. Ovviamente la qualità variava di molto a seconda del Centro: nella fattispecie, quella di Fucsiapoli era piuttosto scadente che mediocre. Ma era pur sempre un pasto caldo, e Samuel si sentiva troppo affamato e troppo stanco per andare a cercare un ristorante, per non parlare del suo aspetto. Perciò la ringraziò e andò a cena senza neppure salire in camera: sentiva che se si fosse avvicinato a un letto sarebbe crollato immediatamente.

La sala era caotica e affollata: via via che s'inoltrava tra i tavoli, Samuel poteva sentire quasi fisicamente l'inusuale eccitazione dovuta alla prospettiva del Torneo. Quando trovò un posto vuoto a un tavolo e sedette davanti a un vassoio ricolmo di tutto ciò che la mensa poteva offrire – perché, per quanto scadente, era pur sempre cibo e Samuel era dotato di un appetito invidiabile – nel brusio confuso di voci attorno a lui non riuscì a sentire altro che le parole Lega Pokémon, Via Vittoria e Altopiano Blu.

Al tavolo alla sua destra, un gruppetto di allenatori stava discutendo animatamente su qualcosa che non riusciva a capire con precisione. Li ascoltò distrattamente mentre si avventava sulla sua cena con foga assai poco dignitosa: un ragazzo basso e tarchiato dalle spalle larghe e tozze gambe muscolose, in canottiera e pantaloni corti malgrado la stagione non fosse poi così avanzata, stava propugnando con ostinazione una qualche teoria ripetendo vigorosamente: «C'è scritto che è aperto a tutti gli allenatori, capisci? Gli allenatori!»

Per un po', Samuel non riuscì a capire quale fosse l'argomento di tale fervore: proprio in quel momento tutti gli altri allenatori del gruppo alzarono la voce in contemporanea, discutendo vivacemente, ed egli continuò a mangiare senza curarsene troppo. Ma dopo forse un paio di minuti, all'improvviso una ragazza che non aveva notato, coperta com'era dai suoi più ingombranti vicini di posto, si alzò in piedi e si protese in avanti sul tavolo, esclamando: «Come ti devo dire che allenatore è la definizione ufficiale della Lega per chi allena i Pokémon? Non c'entra niente col sesso!»

A parlare era stata una ragazza minuta con lunghi capelli castani attorti in una folta massa di riccioli, con un'espressione esasperata e accigliata, che scrutava spazientita il ragazzo che aveva parlato poco prima.

«Oh, andiamo! Anche se le donne possono partecipare, pensi davvero di farcela a superare la Via Vittoria?» ribatté quegli.

Per quanto piccola e sottile, la ragazza parve quasi gonfiarsi d'indignazione alle sue parole. Tutto attorno a loro, gli altri ragazzi scoppiarono a ridere.

«Sono pronta a sfidarvi anche adesso!» affermò quella, alterata.

«Dai, non c'è da arrabbiarsi» esclamò un terzo del gruppo, afferrandole un braccio per farla tornare a sedere accanto a sé. «Nessuno dice che non puoi partecipare, ma devi tenere presente che la Via Vittoria è lunga e pericolosa e che competeranno i migliori allenatori di Kanto e di Johto.»

«Allenatori come te?» lo rimbeccò la ragazza, aggrottando un ardito sopracciglio nero fortemente angolato.

Dunque quella era un'allenatrice. Per quanto la Lega Pokémon avesse riconosciuto ormai da quattro o cinque anni eguali diritti anche alle ragazze, esse continuavano a essere paurosamente rare, tanto che Samuel ricordava di averne incontrate a malapena una decina in tutti i suoi viaggi; ma quella, decisamente, piccola com'era, non gli sarebbe sembrata davvero una temibile avversaria. Tuttavia, quando la ragazza, anziché tornare a sedersi, si volse verso l'esterno del tavolo e vi si appoggiò, incrociando le braccia sotto il petto, Samuel notò che le sue gambe, lasciate scoperte dalla lunga gonna, erano scolpite e dai muscoli ben segnati sotto la pelle. Tutto sommato, pensò fugacemente, forse non era poi davvero una ragazzina alle prime armi.

«Come me, esatto!» esclamò il ragazzo divertito, allargando le braccia sulla sedia, con la chiara intenzione di provocarla. Aveva una corporatura snella e slanciata, ma a Samuel non piaceva la sua espressione da sbruffone. Aveva l'impressione che quella ragazza gli piacesse e che la indispettisse solo per farsene notare – atteggiamento piuttosto infantile per qualcuno che dimostrava più o meno vent'anni. «Suvvia, scherzi a parte, pensi davvero di poter arrivare sull'Altopiano Blu e competere con gli altri?»

«Vogliamo scommettere?» replicò la ragazza seccamente.

Per un solo attimo, i suoi interlocutori la fissarono sgomenti, colti alla sprovvista. Subito dopo, il ragazzo che l'aveva provocata si raddrizzò sulla sedia. «Che scommessa?»

«Su quello che vuoi. Per esempio, su chi di noi si piazzerà più in alto in classifica» affermò la ragazza con calma. «Una scommessa simbolica, s'intende. Che cosa ne dici?» concluse porgendogli la mano.

Il ragazzo scoppiò in una risata eccessiva e le afferrò la mano senza pensarci due volte. «Certo che sì!»

«Ehi, volete escludermi?» esclamò allora il ragazzo tarchiato dalle spalle larghe che Samuel aveva sentito parlare per primo.

«Accomodati» ribatté la giovane senza scomporsi.

L'idea della scommessa investì la sala come un'ondata, dilagò come una mania. Se la ragazza l'aveva proposta solo per mettere a tacere i suoi rumorosi interlocutori, non aveva fatto i conti con l'intraprendenza degli allenatori che frequantavano quel Centro Pokémon, evidentemente. Nei minuti successivi si scatenò un inferno: la voce circolò tra i tavoli, cominciarono a circolare fogli di firme e banconote...

Che iniziativa puerile. Samuel finì di mangiare con calma, andò a riporre ordinatamente il vassoio sul carrello diretto alle cucine e si avviò al bancone che fungeva da caffetteria vicino all'uscita. Aveva bisogno di un caffè caldo dopo quella cena– il cibo della mensa di Fucsiapoli non era migliorato affatto nell'ultimo periodo. Sentiva che avrebbe avuto diverse difficoltà a digerire quella notte e non dubitava affatto che, stanco com'era, sarebbe stato capace di dormire anche dopo due o tre tazze di caffè.

Il ragazzo tarchiato riuscì a intercettarlo a pochi metri dalla sua meta. «Ehi, amico, tu non vuoi partecipare alla scommessa?»

Il secco no che gli saliva spontaneamente alle labbra era un po' troppo rude. Samuel gli si rivolse pazientemente, con un sospiro profondo, e chiese: «Come funziona?»

«Siamo in tanti a partecipare» lo incoraggiò il ragazzo. «Versiamo tutti cinquecento pokédollari e li lasciamo in custodia a qualcuno che non partecipa: quello dei partecipanti che si piazza più in alto nella classifica della Lega Pokémon li usa per pagare da bere a chi ha perso. È meramente simbolica» concluse con un sorriso entusiasta.

A dire il vero, Samuel non era mai stato il tipo di persona da partecipare a una cosa del genere; tuttavia, non aveva voglia di discutere con quel tipo per una sciocchezza come quella cifra. Assentì con un sospiro profondo mentre prendeva il portafogli dalla tasca.

«Va bene, ci sto. Devo firmare da qualche parte?»

«Aspetta, il foglio ce l'ha Austin, adesso. Austin, vieni!» gridò rivolto al suo amico dall'altra parte della sala. Il ragazzo che per primo aveva accettato la scommessa, intento a far firmare qualcun altro, gli fece cenno di aver capito.

«Samuel Oak» si presentò nel frattempo Samuel, porgendogli la mano per mostrarsi educato per quanto la sua stanchezza glielo consentiva.

«Jake, Jake Waters.» Jake gli strinse la mano di una stretta forte e gioviale. «Ah, ecco Austin. Fallo firmare, Austin: anche Samuel è dei nostri.»

Samuel non poté che confermare la prima impressione negativa che gli aveva dato Austin: sembrava decisamente troppo arrogante e sicuro di sé. Firmò pazientemente e versò la sua quota: sul foglio c'era già quasi una ventina di nomi.

«La vostra amica ha avuto proprio un'idea di successo» commentò restituendogli il foglio.

«Agatha? Oh, non è nostra amica, l'abbiamo appena conosciuta» rispose Austin distrattamente. «Neppure noi due ci conoscevamo prima. Beh, grazie per la tua quota, Samuel» concluse alla svelta: era evidente che aveva fretta di andare a coinvolgere altra gente nell'iniziativa. «Ci vediamo sull'Altopiano Blu, eh?»

Non appena Jake e Austin si furono allontanati, Samuel poté finalmente ordinare il caffè che tanto bramava e sedersi per un attimo al bancone, gettando uno sguardo sulla sala. Molto probabilmente, neppure la metà di quegli allenatori che ora aderivano tanto allegramente alla sciocca scommessa sarebbe riuscita a superare la Via Vittoria – persino quell'Austin, pur con la sua aria saccente, gli sembrava decisamente troppo ordinato e benvestito per essere un allenatore serio.

Proprio mentre si alzava e pagava, scorse fugacemente la ragazza che Austin aveva chiamato Agatha mentre si avviava a lasciare la sala. Teneva le braccia conserte sul petto, stringendosi in un golfino blu, e gli passò accanto in una folata di lunghi riccioli castani.




Buongiorno e buona domenica a tutti!

Sono rimasta molto sorpresa quando mi sono resa conto che non riuscivo a trovare nemmeno una storia su questi due personaggi, che almeno a me sembrano molto interessanti, visti i pochissimi accenni al loro passato nel corso dei videogiochi; spero di riuscire a impiegarli in qualcosa di piacevole e degno di loro.

Ho cominciato a lavorare a questa storia nel mio tentativo di riutilizzare vecchie leggende metropolitane ormai trite e ritrite in modo innovativo e originale, senza cioè proporle passivamente come modelli ormai immutabili. Dunque sì, si parlerà di una leggenda metropolitana di prima generazione, per la precisione una di quelle che mi piacciono di meno: volevo cercare di riproporla innovandola quel tanto che basta a non riuscire ripetitiva e noiosa rispetto alle poképaste che vanno tanto di moda ultimamente, si trattava quasi di una sfida con me stessa.

Ciò detto, non posso che ringraziarvi per essere arrivati fin qui.

Al prossimo capitolo, se qualcuno dovesse decidere di proseguire!

Afaneia

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Capitolo 2
*** Veleno. ***


Capitolo secondo – Veleno.


L'Altopiano Blu aveva richiamato a sé più di un centinaio di allenatori già il primo giorno delle iscrizioni e affluenze ancora maggiori si prevedevano per quelli a venire. Samuel, che aveva raggiunto la Sede centrale molto presto nella mattinata, il primo di maggio, fu uno dei primi a iscriversi.

Quel giorno egli rivide anche la ragazza della scommessa di Fucsiapoli.

Aveva appena completato le varie formalità burocratiche dell'iscrizione – ridicolmente brevi in confronto al tempo necessario ad arrivare lassù – e stava attraversando l'androne verso la caffetteria per procurarsi qualcosa da mangiare quando all'improvviso, da un capannello di allenatori che chiacchieravano in un angolo, una nitida voce di donna lo folgorò quasi sul posto. «Sono pronta a sfidarvi anche adesso!»

Quella frase l'aveva già sentita. Samuel si fermò là dove si trovava e cercò di scrutare nel piccolo gruppo di persone che si era raccolto attorno a un paio di divanetti, un gruppetto di soli uomini disposti quasi a cerchio: al loro centro, una piccola ragazza dal lunghi capelli castani con le braccia conserte sul petto.

Se a Fucsiapoli Samuel era stato convinto, per chissà quale motivo, che fossero stati spontaneamente gli altri allenatori presenti a provocarla, ora non ne era più così sicuro. Quella ragazza doveva avere un gran caratteraccio, per litigare con tutti ovunque andasse, pensò mentre si avvicinava quasi senza accorgersene. A ogni modo, quella ragazza, ah!, Agatha ce l'aveva fatta: aveva raggiunto l'Altopiano Blu, e già il primo giorno. Davvero piuttosto notevole.

Era evidente che nessuno degli altri aveva intenzione di accettare la sfida: Samuel osservò i loro sguardi imbarazzati, i loro cenni impacciati mentre cercavano di trovare una scappatoia alle sue parole. Si collocò alle spalle di uno di loro per seguire la scena, suo malgrado incuriosito.

«Allora?» chiese Agatha con viva impazienza. Era evidente che era in viaggio da qualche giorno: i suoi capelli avevano un aspetto impolverato e opaco, raccolti in uno stretto nodo sulla sommità del capo. Quella pettinatura, per quanto castigata e poco elaborata, esaltava la forma regolare, proporzionata, della sua testa e donava in qualche modo ai suoi tratti.

«La mia squadra è stanca» borbottò un ragazzo che dimostrava forse diciassette anni. Agatha gli gettò un'occhiataccia, sollevando un poco il mento con aria di disprezzo.

«In tal caso mi farai il piacere di non criticare più la mia.»

Che tipino, pensò Samuel senza riuscire a trattenere un sorriso. Possibile che si mettesse nei guai ovunque andasse? Le iscrizioni non erano aperte che da due o tre ore e già quella ragazza era riuscita a mettersi contro una decina di allenatori. Decisamente... bellicosa.

Spinto da una curiosità irrefrenabile, Samuel mosse un passo in avanti e disse ad alta voce: «Se sei d'accordo, accetto io la tua sfida.»

La tensione si sciolse bruscamente mentre Agatha si voltava e lo cercava con lo sguardo. Alla sua vista, i suoi occhi si riempirono di perplessità: era chiaro che non capiva perché un perfetto sconosciuto che non l'aveva provocata volesse accettare la sua sfida. «Ci conosciamo?»

«Beh... io conosco te.» Samuel si strinse nelle spalle. «Ho scommesso assieme a te a Fucsiapoli.»

«Fucsiapoli?» A giudicare dalla sua espressione, la ragazza non doveva aver più pensato alla scommessa da quel giorno... esattamente come lui. Impiegò qualche istante a ricordare. «Oh... la scommessa.»

A questo punto, Samuel non aveva più intenzione di tirarsi indietro. Aveva parlato davanti a tutti e, perdipiù, era decisamente troppo curioso di scoprire se davvero Agatha fosse tanto forte come si reputava. «Allora... accetti?»

Davanti alla prospettiva della sfida, Agatha perse la benché minima traccia di dubbio. Gli sorrise di un sorriso che era sfida e soddisfazione e domandò: «Andiamo fuori?»


Il lastricato dell'accesso monumentale alla Sede era un campo di battaglia perfetto: attorno a loro si formò rapidamente un fitto cerchio di spettatori, richiamati dalla prospettiva di poter assistere a una sfida. Samuel li fissò con vago disprezzo, domandandosi perché non lottassero a loro volta anziché limitarsi a guardare chi aveva più spirito d'iniziativa di loro. Dal canto suo, Agatha non sembrava minimamente infastidita dalla loro presenza: il suo volto stanco era eccitato e preso dall'idea della lotta.

«Desideri porre qualche condizione particolare?» gli domandò dall'altra parte del piccolo cerchio: distavano l'uno dall'altra poco più di una decina di metri. Samuel scosse il capo.

«No, ma devo avvertirti che possiedo solo cinque Pokémon.»

«Non fa alcuna differenza» assicurò Agatha. «Io ne ho tre, ma valgono per sei.»

Un fischio si levò a queste parole, ma la ragazza non perse tempo a cercare nella folla chi l'avesse emesso: doveva già sapere bene quanto lui che non l'avrebbe trovato. Samuel si sentì fremere i polsi davanti a una vigliaccheria così gratuita: i ragazzi che l'avevano provocata apertamente, sia lì che a Fucsiapoli, avevano almeno avuto il coraggio di darle modo di replicare e difendersi. Pur sentendosi profondamente irritato, si sforzò di dominarsi quando le rispose: «In tal caso, ne userò tre anch'io.»

Colse il subitaneo mutamento di espressione di Agatha nel contrarsi delle sue labbra e nello stringersi dei suoi occhi. «Non c'è alcun bisogno che tu faccia il cavaliere.»

«Ti tratto come ho sempre trattato ogni mio avversario» garantì Samuel. Stava già riflettendo rapidamente su quali Pokémon usare: avrebbe fatto piacere a tutti sgranchirsi le zampe con una lotta, ma il suo senso dell'onore era troppo radicato e forte in lui per permettergli di utilizzare più Pokémon di quanti ne possedesse un rivale. Scelse accuratamente una Pokéball dalla cintura. «Cominciamo.»

Prima ancora che Agatha potesse dargli un solo cenno di assenso, una voce dai loro spettatori la invitò sarcasticamente a far vedere a tutti il suo grazioso Wigglytuff, o qualcosa del genere. Stavolta entrambi riuscirono a identificare chi aveva parlato: un ragazzo tarchiato e grassoccio piuttosto vicino ad Agatha, ma anche stavolta ella non replicò e si limitò a gettare sul terreno una sfera.

«Vai, Vileplume!»

Certo, a modo suo, Vileplume era un Pokémon molto carino, ma Samuel aveva smesso ormai da tempo di credere, come invece sembravano fare tutti gli astanti, che fosse inoffensivo solo perché somigliava a un fiore. Si levò dal loro pubblico uno sgradevole coro di fischi alla sua volta.

Del tutto inconsapevolmente, anche Samuel aveva scelto un tipo Erba: mandò in campo il suo Exeggutor. Molto spesso qualche avversario l'aveva criticato per aver scelto un Pokémon come quello e, in generale, per la sua scelta di preferire l'Erba all'Elettro; ma Samuel aveva sempre confidato nel suo aspetto apparentemente vacuo e distratto.

«Vileplume, Riduttore!»

Agatha era passata subito all'attacco senza dargli il tempo di elaborare una strategia. Mentre Vileplume si avventava su Exeggutor con un'aggressività che aveva ben poco di femminile o grazioso o indifeso, tutto ciò che Samuel fu in grado di ordinare fu: «Exeggutor, usa Riflesso!»

Quando Vileplume lo urtò pesantemente con tutto il peso del suo corpo, Exeggutor indietreggiò di vari passi nel tentativo di ammortizzare la forza d'urto del suo colpo, ma eccezionalmente non cadde, riuscendo ad abbassare il proprio baricentro abbastanza da ribilanciarsi e rimanere in piedi. Riflesso aveva funzionato, anche se Samuel gliel'aveva ordinato all'ultimo momento, e approfittando del breve attimo di sbilanciamento del suo avversario, egli ne approfittò per gridare ancora: «Attacco Pioggia!»

Fu ora il turno di Exeggutor di scagliarsi contro il suo avversario, scrollando rumorosamente le lunghe foglie che portava sul capo con un fruscio come di stormire di vento. Fu un attacco vigoroso e violento, che per qualche istante fece crollare Vileplume a terra sotto l'infierire dei suoi colpi; ma proprio quando Samuel pensava di essere già riuscito a sconfiggere quel Pokémon, Agatha gridò seccamente: «Velenpolvere!»

Mai avvicinarsi troppo a un Pokémon Veleno, questo Samuel aveva sempre cercato di tenerlo a mente, ma per qualche istante si era lasciato prendere dalla foga della battaglia. Exeggutor sovrastava il nemico in tutta la sua altezza, ma la posizione di sottomissione di Vileplume si rivelò drammaticamente ingannevole quando il Pokémon reclinò il capo in avanti e dal bulbo che portava gli soffiò un vaporoso getto di spore dritto sui tre volti.

Exeggutor emise tre strida brucianti di dolore e balzò indietro, scuotendosi e dimenandosi nel tentativo di liberarsi gli occhi e le nari dalla polvere velenosa che cominciava già a indebolirlo. Con un sorriso di trionfo, Agatha protese un braccio in avanti per ordinare: «Acido!»

«Exeggutor, attento!» gridò Samuel istintivamente, ma invano: il Pokémon teneva gli occhi chiusi per attenuare il bruciore e il getto nero e vischioso, maleodorante che Vileplume gli spruzzò addosso lo colpì in pieno sul torso d'albero e su due delle sue tre facce. Sbilanciato e quasi acciecato, Exeggutor cadde pesantemente seduto al suolo, gemendo di dolore ma, forse proprio perché Riflesso aveva aumentato le sue difese, non ancora del tutto sconfitto.

«Ancora Acido!» esclamò Agatha furiosamente.

Vileplume era già pronto ad attaccare di nuovo, il suo capo si stava reclinando in avanti, prendendo la mira verso l'avversario: no, Exeggutor non ce l'avrebbe fatta a resistere a un altro attacco, avvelenato e semicieco com'era. Confidando nei suoi riflessi, Samuel non poté fare altro che tentare un'ultima carta. «Exeggutor, Psichico!»

Il breve attimo necessario a Vileplume per preparare il suo fluido tossico fu sufficiente: volgendo il torso di lato, Exeggutor lo fronteggiò con l'unica delle sue facce che ancora non era stata colpita dall'Acido e gli sparò contro un violento raggio violaceo che lo colpì precisamente al centro dei suoi grandi petali.

Agatha vide crollare il suo Pokémon con una viva espressione di contrarietà e stupore dipinta in viso, tuttavia non proruppe in esclamazioni o proteste. Lo richiamò freddamente nella sua sfera e si limitò a riconoscere: «Stavolta hai vinto tu, lo riconosco.»

Samuel non aveva bisogno delle risate e delle grida di scherno del loro pubblico per innervosirsi ancor più nei loro confronti: si sforzò di dominarsi e concentrarsi sulla lotta. Sì, aveva sconfitto Vileplume, ma Exeggutor non era comunque più in condizioni di lottare. Lo sostituì a sua volta con il suo Arcanine prima ancora che Agatha mandasse in campo il suo prossimo Pokémon.

«Vai, Tentacruel!»

Samuel non aveva potuto prevedere che Agatha avrebbe mandato in campo un Pokémon d'Acqua, eppure ebbe l'impressione che non si sarebbe approfittata del vantaggio di tipo che aveva evidentemente su di lui: sembrava decisamente troppo orgogliosa per vincere a quel modo. Scelse comunque di optare per una strategia di difesa: «Cominciamo con Pazienza, Arcanine!»

Agatha arricciò il naso su quella scelta. «Pazienza? Tutto ciò che intendi fare è incassare i miei colpi?» Tuttavia Samuel non le prestò attenzione ed ella esclamò bruscamente: «Tentacruel, Limitazione!»

Quando Tentacruel abbatté su di lui un enorme tentacolo viscido, Arcanine divaricò le zampe per sostenersi meglio sul terreno. Il suo avversario lo colpì violentemente sul fianco destro, con un suono secco che rincoccò in aria come un colpo di frusta, ma Arcanine resistette strenuamente rivolgendogli solo un ringhio sommesso, cogli occhi socchiusi e il muso contratto.

«Ottimo, Arcanine! Resisti ancora» lo incoraggiò Samuel: aveva sempre avuto una grande fiducia in quella strategia. Ma subito Agatha alzò la voce dall'altra parte del piccolo campo di battaglia per ordinare: «Tentacruel, Supersuono!»

Questo lo colse impreparato. Il suono che Tentacruel emise subito dopo, in risposta a quell'ordine, era evidentemente troppo alto perché egli potesse udirlo, ma colpì le orecchie canine di Arcanine con una forza tale da sconvolgerlo e confonderlo. Poiché si era già chinato in avanti per resistere a Limitazione, Arcanine ora si sbilanciò paurosamente, cadendo al suolo con un uggiolato confuso, e per qualche istante parve non sapere più dove si trovasse.

«Ottimo! Ora usa Tossina» gridò Agatha, con una profonda vibrazione di compiacimento nella voce.

A quell'ordine Samuel ebbe un involontario gesto di preoccupazione: confuso e iperavvelenato, come avrebbe potuto il suo Pokémon proseguire la lotta?

Tentacruel schizzò addosso ad Arcanine un liquido nero e denso simile a inchiostro, ma quegli era tanto confuso e spaesato che parve non accorgersene neppure. I suoi occhi erano vacui e privi: cercò di rialzarsi, con un lungo guaito di dolore e paura, ma tutto ciò che fu in grado di fare fu barcollare paurosamente sulle zampe instabili e tremanti.

A questo punto, Samuel aveva già visto abbastanza: con un sospiro, levò il braccio e lo richiamò dentro la sfera, provocando un coro di proteste tutto attorno a loro e uno sguardo perplesso negli occhi di Agatha.

«Hai vinto tu, non è più in grado di lottare» disse soltanto. Si sentiva seccato e confuso, turbato per aver perso anche un solo round, colpevole verso Arcanine per le sue condizioni. Agatha gli fece cenno di aver capito e Samuel, ben consapevole che era la sua ultima carta, mandò in campo Tauros.

Era stato il primo Pokémon che avesse catturato alla Zona Safari, dopo ore di appostamenti nel fango putrescente di una zona palustre, e Samuel confidava molto in lui. Tauros mugghiò rumorosamente contro Tentacruel, percuotendosi più e più volte con le tre code i fianchi poderosi, e Agatha sorrise con aria di superiorità.

«Non hai niente di meglio? Tentacruel, usa Tossina!»

Ma la ragazza non aveva fatto i conti con la rapidità del proprio nemico: con uno scalpitare tonante di zoccoli, Tauros si scansò decisamente dalla traiettoria del veleno, che inzuppò le pietre del lastricato con uno sfrigolio sinistro. Davanti a quel fallimento, persino Agatha si lasciò sfuggire un gemito di stizza, stringendo i pugni, ma Samuel si mosse prima di darle il tempo di reagire.

«Tauros, usa Fulmine!»

Era la sua arma segreta, era la mossa che nessuno si aspettava mai da un Pokémon Normale: Samuel ebbe la soddisfazione di vedere la bocca della sua avversaria spalancarsi di sorpresa quando il folto pelo di Tauros si rizzò per l'accumularsi dell'energia statica e una sottile, rapida saetta colpì Tentacruel prima ancora che questi potesse allontanarsi.

L'elettricità avviluppò il suo corpo come una nube statica, attanagliando i suoi lunghi tentacoli: impossibilitato a muoversi e a tenersi in equilibrio, Tentacruel oscillò pesantemente più volte, lottando per non cadere, e finì per abbattersi pesantemente al suolo dove rimase immobile, come paralizzato.

«Tauros, Pestone! Finiscilo» ordinò Samuel, ma prima che Tauros potesse obbedirgli e precipitarsi su Tentacruel coi suoi zoccoli, un fascio di luce rossa lo ricatturò di nuovo all'interno della sua sfera. Quando Samuel alzò gli occhi, vide che Agatha aveva le labbra strette e la fronte accigliata.

«Non c'è bisogno di infierire» constatò semplicemente con voce cupa, mentre riponeva la Pokéball e ne estraeva un'altra. Ora a entrambi restava un unico Pokémon, ma subito la ragazza volle precisare: «Se vuoi usare un altro Pokémon, non mi lamenterò.»

«Tauros sarà sufficiente» ribatté Samuel. Del resto, erano alla pari.

«Come vuoi, io ti ho avvertito. Vai, Nidoking!»

L'esemplare che apparve davanti a loro era semplicemente gigantesco, il più grande che Samuel ricordasse di aver mai visto, a tal punto che Tauros arretrò di qualche passo, scalpitando nervosamente mentre continuava a percuotersi i fianchi: quello non era decisamente un Pokémon femminile.

«Buono, buono... è tutto a posto» mormorò Samuel a bassa voce, per quanto in realtà comprendesse anche troppo bene i suoi timori: quel Nidoking era spaventosamente grande... Agatha lo stava fissando compiaciuta con duri occhi neri e orgogliosi: persino i suoi detrattori sembravano ammutoliti di fronte a quel colosso di nerboruta prestanza fisica che attendeva con incredibile mansuetudine gli ordini di quella piccola ragazza.

«Rinnovo la mia offerta» ribadì Agatha. «Sei sicuro di non voler chiamare un quarto Pokémon?»

«Sicurissimo» sbottò Samuel spazientito, anche se non si sentiva più così sicuro riguardo all'esito di quello scontro. Tutto sommato, Agatha sapeva davvero il fatto suo.

«In tal caso... Nidoking, Doppiocalcio!»

Agatha era furore, era attacco fisico e aggressività immediata, impulsiva. La sua strategia era un attacco continuo, scoperto e palese – curioso che una ragazza del genere avesse scelto proprio i Pokémon di tipo Veleno, un tipo infido e sottile. In qualunque caso, la tecnica di Samuel era del tutto diversa, misurata e difensiva e calcolata, ed egli non poté che esclamare: «Pazienza!»

Quando Nidoking colpì Tauros in pieno, egli dovette imporsi quasi fisicamente di non distogliere lo sguardo. Il primo calcio si abbatté letteralmente sul suo petto con un suono orrendo, tanto forte che Samuel fu tentato di interrompere la lotta seduta stante e portare di corsa il suo Pokémon al centro Pokémon, ma contro ogni aspettativa, Tauros non cadde.

«È questa la tua strategia?» gridò beffardamente Agatha. Il secondo calcio raggunse Tauros con la stessa forza del primo: stavolta il Pokémon fu sollevato di qualche centimetro, oscillando, e arretrò sulle zampe posteriori, muggendo di dolore. «Continuare a incassare i miei colpi e sperare che prima o poi funzioni?»

Ignorando deliberatamente le sue provocazioni, Samuel si limitò a seguire con lo sguardo i movimenti nervosi e lenti di Tauros: era paurosamente indebolito, ma ancora in grado di lottare e attendeva i suoi ordini.

«Adesso, Tauros!»

Dopo aver incassato senza reagire quei formidabili colpi, Tauros accolse quest'ordine più volentieri di quanto Samuel stesso si sarebbe aspettato, scagliandosi contro Nidoking con furia di vendetta. Anche sollevandosi sule zampe posteriori, non raggiungeva a malapena che il petto del suo avversario, ma non si lasciò intimidire: lo colpì colle corna, cogli zoccoli, con tutto il proprio peso, troppo rapidamente perché Nidoking potesse scacciarlo colle tozze braccia robuste... la furia incalzante del suo attacco fu tale da sbilanciarlo e farlo indietreggiare verso Agatha, spazzando rabbiosamente il terreno con la lunga coda e tentando di appoggiarvisi per non cadere.

Quando finalmente Tauros abbandonò il suo attacco serrato e tornò sulle quattro zampe, era evidente che Nidoking aveva incassato il colpo dal modo in cui vacillava. Ruggì minacciosamente, ma di un ruggito fiacco e affaticato, e per un attimo piegò faticosamente un ginocchio per appoggiarsi al suolo.

Agatha era incupita e corrucciata: scrutava la battaglia col volto scuro e il respiro trattenuto.

«Nidoking, usa Tossina!»

«Ti piace proprio questa mossa, non è vero?» esclamò Samuel, parzialmente divertito: ora che Tauros pareva aver rimontato, si sentiva assai più disposto a scherzare.

Dalla bocca di Nidoking eruttò un fiotto di veleno scuro e repellente, ma Tauros riuscì ad allontanarsi di scatto dalla sua traiettoria e appena qualche spruzzo colpì i suoi zoccoli. Era il momento: Samuel sentiva ormai di avere la vittoria in pugno.

«Tauros, Terremoto!»

La terra cominciò a tremare sotto gli zoccoli di Tauros, tanto violentemente che persino Samuel, pur trovandosi a qualche metro da lui, ne sentì le vibrazioni sotto i piedi e Agatha, ben più vicina di lui ai due combattenti, parve vacillare.

Per un tempo che a Samuel parve interminabile, Nidoking lottò disperatamente per mantenersi in piedi, ruggendo di dolore e di sgomento e battendo al suolo la lunga coda nel tentativo di reagire a quelle scosse. Ma poi vi fu una vibrazione più forte, le sue zampe incespicarono: per un istante incredibilmente lungo, Nidoking oscillò su se stesso prima di cadere al suolo con un rombo secco che echeggiò contro le pareti delle montagne che li circondavano.

Al violento tremito di Nidoking che cadeva al suolo, Samuel strinse silenziosamente il pugno in un gesto di discreto trionfo. Dignitosamente contrariata, Agatha si limitò tuttavia a richiamare il suo Pokémon nella sfera senza una parola.

Un coro di esclamazioni di ammirazione e di scherno, non troppo chiaramente distinte tra loro, si levò rumorosamente dal loro pubblico, ma Samuel li ignorò come al solito. Si precipitò verso Tauros, che ancora rimaneva in piedi quasi per miracolo, e affondò affettuosamente le dita nella folta pelliccia scura che gli copriva il petto e le spalle.

«Sei stato bravissimo» mormorò al suo orecchio. Gli accarezzò il muso, là dove il crine era più corto e ruvido, e sentì che la sua pelle era madida di sudore. «Ti ringrazio, mio caro. Tutti voi siete stati bravissimi.»

Ma quando sollevò il capo per ringraziare la sua avversaria e farle i complimenti, all'improvviso si rese conto che Agatha era scomparsa.



«Posso sapere il tuo nome?» gli chiese senza preavviso una dura voce di donna, cogliendolo di sorpresa mentre stava leggendo il giornale.

Quando Samuel alzò lo sguardo, vide che Agatha lo stava fissando con sguardo accigliato, appoggiandosi al tavolo della caffetteria dove lui stava facendo colazione. I suoi capelli erano ora di nuovo puliti e sciolti, distesi in una massa voluminosa sulle spalle e la schiena. Era davvero carina, constatò Samuel chiudendo il giornale con un sospiro, malgrado il suo sguardo truce e l'arroganza con cui si appoggiava al bordo del tavolo.

Inutile dire che non si era aspettato di vederla quel giorno: per quanto l'avesse cercata per tutto il pianterreno, il giorno precedente, non gli era stato possibile trovarla da nessuna parte. Aveva cercato di ignorare un vago senso di rimpianto alla bocca dello stomaco e di non prendersela, ripetendosi che, dopotutto, le ragazze erano fatte così, ma ora che la vedeva, era evidente che proprio come lui anche Agatha doveva aver dormito lassù per far curare i propri Pokémon durante la notte: discendere dall'Altopiano Blu senza Pokémon in grado di lottare sarebbe stato semplicemente un suicidio. Egli stesso aveva dovuto rimandare la discesa per lo stesso motivo: Charizard e Gyarados da soli sarebbero stati probabilmente in grado di scortarlo fino a Smeraldopoli, ma in ogni caso era impensabile camminare per ore con Exeggutor e Arcanine in quelle condizioni, per quanto chiusi nelle sfere.

«Prego?» chiese Samuel abbassando lentamente il giornale per osservarla a proprio agio.

«Posso sapere il tuo nome?» ripeté Agatha spazientita, aumentando nervosamente la presa sul bordo del tavolo. Samuel sorrise appena, distogliendo per un attimo il volto da lei: come aveva supposto fin dal primo momento, quella ragazza doveva avere un bel caratterino.

«Samuel Oak» disse infine, porgendole la mano. «Mentre tu sei...?»

«Agatha» rispose la ragazza in tono di sufficienza, ricambiando la sua stretta. «Ti ringrazio.» Dopodiché si voltò e fece decisamente per andarsene, senza un'altra parola di commiato.

«Aspetta, aspetta» esclamò Samuel accennandole di fermarsi. «Ieri sei scappata in fretta e non ci siamo neppure presentati. Ora per quale motivo vuoi sapere il mio nome?»

«Sarei forse dovuta restare più a lungo assieme a quegli ignoranti?» replicò Agatha con alta voce alterata, trattenendosi accanto al tavolo quasi con disgusto. «In ogni caso, volevo solo avere la possibilità di poterti chiedere la rivincita, tra qualche tempo. Mi sembra ovvio.»

Tanto ovvio non era, a dire il vero: la maggior parte degli allenatori temeva troppo una seconda batosta per chiedere una rivincita a un avversario... ma ciò che colpì Samuel fu la prima parte della sua affermazione stizzosa e d'un tratto, ripensando al giorno precedente, gli dispiacque quasi di aver vinto. Certo, egli l'aveva trattata alla stregua di un qualsiasi avversario, e per la verità era ben consapevole di aver vinto con un margine decisamente ristretto e in buona parte grazie alla fortuna: se solo l'ultima Tossina di Nidoking fosse andata a buon segno o se il Terremoto di Tauros fosse stato appena un poco più debole, molto probabilmente egli avrebbe perso. Tuttavia, Agatha non doveva vederla allo stesso modo: tutta la sua bravura, la sua strategia non avevano alcun significato per quegli allenatori che l'avevano vista perdere come una ragazzina qualunque. A quel pensiero, Samuel si sentì un po' in colpa: aveva vissuto quella sfida come una delle tante e non avrebbe mai voluto umiliarla... sì, ma come dirglielo senza mortificare ancor più il suo orgoglio?

«Certo» rispose con una lieve esitazione. «Spero che ci incontreremo di nuovo alla Lega.»

«Splendido» concluse freddamente Agatha, allontanandosi con decisione dal tavolo.

Era la sua ultima, la sua unica occasione per chiederle scusa, in qualche modo. Quasi istintivamente Samuel balzò in piedi e la superò in poche ampie falcate, tagliandole la strada: la ragazza si fermò quasi esasperata. «Sì?»

«Volevo solo dirti che sei stata davvero brava» disse in fretta Samuel. «E anche che... insomma... per me non era nulla di personale, se questo può cambiare le cose tra noi. Spero che tu non ce l'abbia con me.»

«Nulla di personale?» ripeté Agatha incrociando le braccia. Ora che Samuel la vedeva da vicino, notò che i suoi occhi erano notevolmente grandi, neri e liquidi, con un taglio particolare che dava loro una sorprendente dolcezza malgrado l'espressione altera. «Cosa vuoi dire?»

«Voglio solo dire che non ti ho sfidata perché non credevo nella tua forza a causa del tuo sesso» spiegò. Si sentiva profondamente stupido, eppure sentiva di doverle almeno quelle parole. «Tutto qui. Per me è stata una bella sfida e vorrei che potessimo ricordarla senza rancore.»

Per qualche secondo, egli temette che Agatha lo avrebbe schiaffeggiato: l'espressione dei suoi occhi era imperscrutabile. Del resto, era trascorso molto tempo dall'ultima volta che aveva parlato con una ragazza e in questo genere di cose doveva confessarsi un po' impacciato: il mondo dell'allenamento era un mondo quasi interamente maschile, un mondo immediato e trasparente dove una pacca sulla spalla significava senza rancore, eh e un pugno in faccia esattamente l'opposto, mentre per quanto ne sapeva lui, con le ragazze la faccenda era più complicata – quando si parlava con una ragazza, chi poteva dire se voleva dire oppure no?

Finalmente, dopo un tempo che a lui parve infinito, l'espressione di Agatha parve alleggerirsi un poco e le sue dita bianche, che affondavano nella stoffa del suo golfino sulle braccia in modo quasi minaccioso, si rilassarono un po'. «Oh. Capisco.» Esitò un istante, vagando con lo sguardo tutto attorno come a cercare le parole, e disse con voce improvvisamente incerta, come se fosse la prima volta che diceva una cosa del genere: «No, non ce l'ho con te. Sei stato molto... uhm, molto bravo. Anche se personalmente non apprezzo le strategie passivo-difensive.»

In quel momento, a Samuel venne in mente che come lui non era molto abituato a parlare con delle ragazze, allo stesso modo ad Agatha poteva capitare assai di rado di parlare con degli allenatori, e in effetti, se tutti si comportavano come quelli che le aveva visto attorno fino ad allora, interessati solo a deriderla o a provarci o entrambe le cose, egli non poteva biasimarla... per quanto, evidentemente, col suo carattere ella non facesse nulla per rendersi le cose più facili. Ma a differenza sua, Samuel aveva ogni giorno la possibilità di confrontarsi con qualche allenatore del suo sesso, qualcuno con cui la comunicazione fosse facile e immediata e istintiva, mentre di certo Agatha non poteva aver incontrato molte allenatrici sul proprio cammino... con ogni probabilità, doveva essere una ragazza molto sola.

«Allora... senza rancore eh?» chiese porgendole la mano. «Dai, vieni a sederti con me. Visto che non è l'ora adatta per una birra ti offro un caffè, vuoi?»

Questa volta, Agatha studiò il suo gesto con occhi incerti e perplessi, prima di stringere la sua mano senza la benché minima convinzione. Sì, concluse Samuel con una fitta lievissima di dispiacere e, forse, di rimorso: doveva essere davvero piuttosto solitaria per non conoscere quell'usanza che era la prima e più spontanea degli scontri di Pokémon, quella di bere assieme a battaglia finita. Chissà fino a che punto era lei a evitare gli uomini e quanto invece gli uomini a scansare lei; fino a che punto il suo carattere acido fosse in lei naturale e quanto invece fosse una reazione alle derisioni e all'isolamento...

Pochi minuti dopo, davanti a una colazione calda ai due lati opposti del tavolo (per Samuel si trattava della seconda colazione, ma questo non costituiva di certo un problema), egli ebbe finalmente modo di osservarla a suo agio, discretamente, e intavolare una conversazione. A suo modo, Agatha lo incuriosiva terribilmente, forse proprio perché era a prima vera allenatrice che avesse mai conosciuto.

«Allora...» cominciò schiarendosi la voce. «Ti piace il tipo Veleno, eh?»

«L'hai notato?» chiese Agatha con un lieve moto di stupore, mescolando lentamente un caffè amaro. «Non molti ci fanno caso. Comunque, sì. È il mio tipo preferito.»

«I tipi dei Pokémon sono la mia specialità» disse Samuel, sperando di non apparire troppo presuntuoso. «In generale tutto ciò che li riguarda mi affascina, è una mia passione. Spero anche di farne un lavoro, un giorno.»

«Un lavoro?» ripeté Agatha sorpresa. Bevve un lento sorso di caffè. «Lo studio dei Pokémon?»

Samuel annuì. «Esattamente, ci sono moltissime cose ancora tutte da scoprire al riguardo, anche se non sembra. Come nascono, da dove vengono... cose del genere.»

Prima che Agatha facesse in tempo a rispondere alcunché, una forte voce maschile da qualche parte alle sue spalle tuonò: «Ehi, Agatha!»

Samuel si sollevò leggermente per cercare di vedere oltre la sua testa chi avesse parlato; davanti a lui, Agatha si voltò sulla sedia ed egli la sentì dire: «Oddio.» Solo dopo qualche istante, quando finalmente vide delinearsi tra la folla un fisico tarchiato e muscolare e un paio di spalle già ustionate dal sole della primavera appena iniziata, Samuel comprese il motivo del suo sconforto. Era Jake Waters, il ragazzo della scommessa di Fucsiapoli.

«Allora, Agatha» esclamò Jake, irrompendo letteralmente tra loro e appoggiandosi al tavolo quasi con tutto il proprio peso. Sembrava irradiare eccitazione da tutti i pori. Guardandolo, Samuel non poté fare a meno di chedersi se sul suo corpo il clima fosse diverso rispetto al resto della regione – non gli sembrava ancora così caldo da indossare solo pantaloni corti e canottiera, in particolar modo a quell'altitudine, e non capiva come potesse essersi provocato quegli arrossamenti sulle guance e sul naso. «Ce l'abbiamo fatta, eh? Siamo sull'Altopiano Blu!»

«Jake» disse Agatha a bassa voce. «Che sorpresa incantevole.» Il suo tono era tanto gelido che avrebbe ucciso l'entusiasmo di chiunque, ma il sorriso di Jake non si rimpicciolì minimamente. Parve accorgersi anche di lui in quel momento.

«Ehi, mi ricordo di te! A Fucsiapoli, la sera della scommessa. Barry, giusto?»

Infrangere la sua convinzione era quasi un peccato. «Beh... non proprio. Samuel.»

Jake schioccò le dita scoppiando a ridere. «Giusto, Samuel! Scusami, sai, ma con tutti quei nomi sulla lista...»

«Sei arrivato oggi?» chiese Samuel, sforzandosi di comportarsi civilmente. Agatha stava sorseggiando il suo caffè con sguardo tanto truce che chiunque, se avesse pensato di esserne la causa, si sarebbe defilato il più in fretta possibile, ma Jake non se n'era accorto o non gli importava.

«Giusto mezz'ora fa. Ho già completato le iscrizioni e ora mi sto riposando... e magari cerco qualcuno con cui fare un po' di riscaldamento. Qualcuno di voi è interessato?» s'informò rapidamente, volgendo lo sguardo su di loro.

Il silenzio scontroso di Agatha era quasi imbarazzante. Samuel decise di prendersi la libertà di rispondere anche per lei.

«Ti ringrazio, ma i nostri Pokémon sono a riposo adesso. Ieri abbiamo lottato.»

«Ah, allora siete voi i due che si sono sfidati, ieri!» esclamò Jake. Preso dalla conversazione – anche se a Samuel non sembrava che né lui né Agatha stessero facendo particolari sforzi per renderla viva e interessante- prese una sedia da un tavolo vuoto e l'accostò a sé per sedersi con loro. «Ho sentito dei ragazzi laggiù che ne parlavano. Beh, chi ha vinto?»

Questa volta, evidentemente scocciata, Agatha aprì la bocca per rispondere, ma Samuel la precedette istintivamente. «Una sorta di pareggio, direi.»

«Ah, capisco» rispose Jake, cui del resto sembrava non importare poi molto. Tamburellò con le dita sul tavolo. «Beh, se siete qui da ieri vi sarete già iscritti. Ora che progetti avete in attesa che inizi il Torneo?»

Per qualche strano motivo, Samuel e Agatha si scambiarono uno sguardo al di sopra del tavolo, probabilmente perché entrambi, dal tono che Jake aveva usato, avevano capito che egli pensava che avessero un progetto condiviso. Samuel non era sicuro di cosa fosse meglio rispondere o fargli credere: Jake non gli stava decisamente antipatico, dato che lo conosceva così poco, ma non voleva rischiare di trovarsi coinvolto in un qualche allenamento a tre.

«Nulla di preciso» rispose ruvidamente Agatha, con un tono tanto secco da rendere superflua qualsiasi altra risposta, e Samuel si limitò a unirsi a lei annuendo.

«Meglio così» esclamò Jake, come se non avesse atteso altro che quella risposta. «Io e altri ragazzi stavamo organizzando una settimana di allenamento intensivo alle Isole Spumarine in vista del Torneo, tanto per fare amicizia e studiare un po' di strategie alternative. Dal dodici al diciannove maggio. Che ne dite, eh? Siete dei nostri?»

Sul tavolo calò il silenzio. Samuel gettò un'occhiata ad Agatha e si sentì un poco rassicurato al ricevere da lei uno sguardo incredulo in risposta. Senza una parola, era certo che entrambi stessero pensando a quali e quante ridicoli iniziative quel ragazzo amasse organizzare.

«Sarei l'unica ragazza» disse in fretta Agatha, levando le mani in segno di resa. «Non starebbe bene.»

Jake parve colpito dall'idea solo in quel momento. Le scoccò uno sguardo dispiaciuto. «Hai ragione, in effetti. Sarebbe inappropriato» ammise, prima di rivolgersi di nuovo a Samuel con aria fiduciosa. «Beh, non ha altri impegni, vero? Sarai dei nostri?»

Samuel annaspò per qualche attimo alla ricerca di una buona scusa: sapeva che Jake glielo stava proponendo in buona fede e gli dispiaceva mortificare la sua offerta con un rifiuto immotivato. In mancanza di meglio, stava per affermare nel modo più convincente possibile che era troppo abituato ad allenarsi da solo, quando Agatha disse improvvisamente: «Samuel ha promesso di allenarsi con me. Non è vero?»

Samuel si augurò che Jake non notasse il sollievo che si era dipinto nei suoi occhi. Si affrettò ad annuire con un improvviso moto di gratitudine nei confronti di Agatha, guardando Jake con espressione profondamente rammaricata. «Esattamente... ho promesso, ormai. Mi dispiace.»

«Oh.. capisco» concluse Jake, prolungando tanto quell'oh e scrutandolo con tale fissità da rendere chiaro che aveva capito molto più di quanto ci fosse da capire. Gli gettò un sorriso ammiccante prima di alzarsi dalla sedia quasi bruscamente, come se all'improvviso la sentisse bruciare. «Beh, in tal caso, non vorrei disturbarvi. Se doveste decidere di unirvi a noi solo per una giornata, sapete dove trovarci, va bene?»

«Grazie, Jake» disse finalmente Agatha con un sorriso luminoso, evidentemente sollevata e impaziente all'idea di toglierselo di torno. «Se decideremo, verremo direttamente lì.»

Di fronte all'evidenza di quel congedo, persino l'insistente presenza di Jake finì per allontanarsi attraverso la mensa. Agatha attese che l'eco del suo passo pesante fosse ben lontana prima di chinarsi verso di lui sul tavolino, spingendo via la propria tazzina ormai vuota. I suoi capelli spiovvero attorno al suo volto, giunsero a sfiorare i dorsi delle sue mani bianche appoggiate sul piano. «Spero che non ti sia dispiaciuto. Mi sembravi... in difficoltà.»

«Ti dico una cosa.» Samuel si sporse a sua volta in avanti e accostò discretamente il volto al suo per parlarle all'orecchio con aria di segretezza. La ragazza s'irrigidì appena, ma non si allontanò da lui. «Mi hai salvato.»

Agatha rise.





Buonasera a tutti!

Questo capitolo è stato per me incredibilmente impegnativo, principalmente a causa della scena di lotta. Nelle mie precedenti fanfiction ho sempre evitato di descrivere le sfide di Pokémon, ma sto disperatamente cercando di migliorare sotto vari aspetti e, visto che questa storia dovrebbe essere più di avventura rispetto alle altre, ho deciso d'impegnarmi molto. Sono perfettamente consapevole che questa non è la squadra di Agatha nei videogiochi, ma non temete: col progredire dei capitoli tutto si chiarirà. La squadra di Samuel è invece quella che avrebbe dovuto avere il Professor Oak nei videogiochi se avessero inserito questa lotta – le mosse sono una mia scelta, ma spero che mi si possa perdonare questa libertà.

Sarei molto contenta di sapere che ne pensate della battaglia, proprio perché è la prima che descrivo. È troppo lunga, troppo noiosa? Semplicemente orrenda?

Un ringraziamento e un bacio enorme a Mad_Dragon e a crystal_93 per le loro recensioni, mi hanno fatto davvero piacere!

Afaneia




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Capitolo 3
*** Nome di famiglia. ***


Capitolo terzo – Nome di famiglia.


Cominciarono la discesa assieme, senza rendersene conto, appena mezz'ora dopo. I loro Pokémon stavano bene, l'infermiera aveva rassicurato entrambi, pur raccomandandosi di evitare loro sforzi eccessivi. Samuel si domandava quanto frustrante dovesse essere ripeterlo in continuazione a ogni allenatore, sapendo in anticipo di dover rimanere inascoltate: faceva parte della loro deontologia professionale avvertire gli allenatori di non pretendere troppo dai loro compagni, ma esse erano anche troppo consapevoli di quanto le lotte significassero per chi ne aveva fatto il proprio mestiere.

Se qualcuno avesse chiesto loro per quale motivo stavano lasciando assieme l'Altopiano Blu, molto probabilmente nessuno di loro avrebbe saputo trovare una risposta univoca: nella sua mente, Samuel dava per scontato che fosse semplicemente normale per due persone che andassero nello stesso posto andarci insieme, e che arrivati a Smeraldopoli, altrettanto naturalmente, si sarebbero divisi. Nel frattempo, tuttavia, avere compagnia non gli dispiaceva, per quanto silenziosa quella compagnia fosse: certo, non era molto facile portare avanti una conversazione discendendo attraverso gli intricati sentieri rocciosi della Via Vittoria – paradossalmente, quella strada era quasi più semplice da percorrere in salita, quando erano più ridotti i rischi di sbilanciarsi in avanti e scivolare sui crinali di roccia. A ogni modo, Agatha lo affiancava senza lamentarsi, né sembrava affaticata o in difficoltà più del normale.

«Non ci sono molti Pokémon selvatici, oggi» constatò semplicemente a un tratto, mentre scivolavano lentamente lungo un'angusta strettoia tra due pareti di roccia. Era una semplice affermazione, tuttavia ella levò lo sguardo su di lui come se si attendesse una risposta.

Era vero, in effetti: in lontananza Samuel aveva visto un paio di Graveler e dietro un masso aveva colto lo scattare guizzante della coda di un Onix, ma nessun Pokémon si era avvicinato troppo a loro o li aveva attaccati.

«Molto probabilmente l'afflusso di allenatori che è passato di qui in questi giorni li ha sconvolti.»

Agatha assentì appena col capo, poi s'inginocchiò al suolo per valutare l'altezza di un dislivello. «Prima che Jake c'interrompesse, hai detto che ti piacerebbe fare dello studio dei Pokémon il tuo

lavoro. Era questo che intendevi?»

«Beh... più o meno.» Samuel le fece cenno di aspettare e scese il dislivello con un piccolo balzo. «Non so ancora cosa m'interesserebbe di più: forse le evoluzioni, o le relazioni tra umani e Pokémon... il campo è talmente vasto. Mi affascinano vari argomenti.» Le porse la mano per aiutarla a scendere a sua volta e Agatha l'accettò senza esitazione: sembrava che al di fuori delle lotte gli atti di cavalleria non le dispiacessero.

«Vuoi dire che non continuerai ad allenare i Pokémon per sempre?» chiese con interesse.

«Beh... tu intendi farlo?»

«Certo. Perché no?» replicò Agatha quasi sorpresa, alzando le spalle.

«Io no» disse sinceramente Samuel. «Voglio dire, non è quello che intendo fare per tutta la vita.» Si prese un momento per gettare uno sguardo alla strada che si stendeva davanti a loro: la lunga grotta della Via Vittoria era parzialmente illuminata dal sole che filtrava attraverso profonde spaccature nella roccia. «Non fraintendermi, adoro viaggiare e allenarmi con i miei Pokémon: siamo in viaggio già da sei anni... ma non penso che sia quello che continuerò a fare tra qualche anno. Trovo che un uomo adulto abbia bisogno di un lavoro sicuro.»

«E che cosa farai? Ti fermerai e metterai su famiglia?» domandò Agatha con un sorriso ironico, come se l'idea la divertisse. Continuava a camminare lentamente, appoggiandosi al muro con la mano e saggiando cautamente col piede i punti incerti per non rischiare di scivolare. Sembrava cavarsela bene persino su quei passi di montagna. «È a questo che ti serve il lavoro sicuro?»

«Beh, sì» ammise Samuel, fermandosi un attimo. Non si era mai soffermato a riflettere molto su questo aspetto, a dire il vero: aveva sempre assunto con grande naturalezza dentro di sé l'idea di fermarsi, un giorno, e di costruire qualcosa di stabile – una casa e una famiglia, magari. Fare l'allenatore errrante per tutta la vita non rientrava nei suoi schemi, forse proprio perché aveva sempre guardato con un po' di pietà quegli eterni ragazzini di quaranta o cinquant'anni che vagavano senza neppure un vero scopo, fingendosi molto più giovani di quanto realmente fossero; forse perché suo padre...

Scacciò il pensiero di suo padre quasi con un gesto fisico di ripulsa e tornò a concentrarsi sul discorso. «Sì, mi piacerebbe avere una famiglia mia, un giorno. Inoltre... insomma, quando s'invecchia, viaggiare è più difficile, e anche i Pokémon si stancano e s'indeboliscono. Suppongo che faccia piacere anche a loro un po' di riposo, dopo tanti anni di lotte.»

«Davvero? Glielo hai mai chiesto?» lo rimbeccò Agatha alquanto severamente. Samuel sorrise tra sé in silenzio: quella ragazza era un demonio.

«Hai ragione, non l'ho mai fatto. Glielo chiederò appena ci fermiamo per il pranzo» promise, senza sapere neppure lui fino a che punto scherzasse e quanto invece fosse serio.

Per qualche tempo dovettero camminare in silenzio, concentrandosi su dove mettevano i piedi: stavano attraversando il tratto più difficile della Via Vittoria e nessuno dei due aveva intenzione di cadere e rotolare per metri sul duro terreno accidentato. Samuel si soffermò spesso ad aiutarla, nei punti più stretti o pericolosi, e di nuovo Agatha accettò con buona grazia la mano o il braccio che le venivano porti, ringraziandolo con semplici cenni del capo. Quando finalmente raggiunsero una zona vagamente più pianeggiante, o almeno meno ripida e pericolosa, Samuel le propose di fermarsi per mangiare: il suo fisico giovanile e robusto gli chiedeva a gran voce già da un po' un rifornimento di energie fresche ed egli si era trattenuto soprattutto per evitare di sconvolgerla col proprio appetito. Sedettero su una sporgenza di roccia per aprire un paio di latte di fagioli, ma proprio allora, come se non avesse fatto altro che riflettere su quella conversazione e l'avesse proseguita nella propria testa, Agatha la riprese: «Sai, non è che si debba per forza viaggiare per tutta la vita per continuare a fare l'allenatore.»

Samuel faticò un attimo a recuperare il filo del discorso. «A che cosa ti riferisci?»

Agatha si strinse nelle spalle. «Questo Torneo non rimarrà un unicum, se avrà anche solo la metà del successo che sembra destinato a riscuotere. Questa è solo la prima edizione, ma se diventerà a cadenza regolare, l'organizzazione si complicherà, si creeranno posti di lavoro... ce n'è bisogno dopo la guerra.»

Il suo ragionamento pragmatico e semplice lo colpì: Samuel rimescolò per qualche istante col cucchiaio all'interno della scatola di latta, producendo un tintinnio sonoro che parve rincorrersi echeggiando negli anditi oscuri. «Non l'avevo mai vista a questo modo. È questo che intendi fare tu, tra qualche anno?»

«Perché no? Non ho alcuna intenzione di trovarmi a fare la stenografa o la maestra o cose simili.» La sua voce suonava determinata e inflessibile, ma quando pronunciò quei mestieri suonò piuttosto altezzosa e sprezzante, come se li ritenesse troppo umili e inadatti a qualcuna come lei. «Questa è l'unica cosa che mi piace davvero fare. I miei Pokémon possono proteggermi e finché avrò loro, non avrò bisogno di nessun altro.»

Samuel scrutò il suo profilo nella semioscurità della caverna senza trovare nulla da rispondere alla sua veemenza: qualcosa nel suo volto altero, nel suo atteggiamento di superiorità gli diceva che c'era qualche motivo profondo alla sua solitudine e alla sua determinazione, qualche motivo che ovviamente mai egli avrebbe potuto scoprire, conoscendola tanto poco. Agatha non voleva aver bisogno di nessuno, Agatha voleva stare sola, ma perché? Sentiva che in quella ragazza c'era qualche mistero che a nessuno era dato conoscere, eppure non aveva idea di cosa potesse trattarsi.

Avrebbe voluto chiederle qualcosa, ottenere una qualche risposta che lo aiutasse a comprenderla almeno un poco, ma non voleva essere invadente. Le diede un pugno scherzoso sulla spalla.

«E tu come le sai queste cose?»

Agatha gli rivolse all'improvviso uno sguardo teso, come se si sentisse colta in fallo, e tornò rapidamente ad abbassare gli occhi sul suo pranzo. Scrollò le spalle con indifferenza. «Non so, le ho intuite. No?»

A un tratto ripose nervosamente la latta nello zaino, chiudendola con un coperchio, e avvolse il cucchiaio che aveva usato in un foglio di giornale. Si alzò in piedi sotto il suo sguardo perplesso. «Quando hai finito, andiamo. Ti va?»


Continuarono per tutto il pomeriggio la lunga discesa attraverso i cunicoli claustrofobici della grotta, e anche se non parlarono molto, il viaggio parve a Samuel meno noioso che all'andata con quella ragazza accanto. Se Agatha gli era parsa turbata all'inizio, per qualche motivo, quest'impressione svanì nelle ore seguenti: sembrava ora contenta e tranquilla, e quando parlavano la sua voce suonava squillante e serena. Decisamente le ragazze costituivano un mondo misterioso, concluse Samuel con profonda rassegnazione.

Uscirono finalmente dall'interminabile Via Vittoria quando già il tramonto tinteggiava il cielo di colori aranciati che si perdevano nel blu, ma fu solo al limitare di una notte limpida e tiepida che raggiunsero Smeraldopoli, in un vorticare di vento che s'insinuava tra le case. Anche stavolta, per un tacito accordo condiviso, si diressero assieme al Centro Pokémon senza realmente averlo deciso: probabilmente, pensò Samuel mentre le apriva cortesemente la porta, si sarebbero separati il mattino seguente. Non aveva ancora deciso dove sarebbe andato ad allenarsi nelle settimane che lo separavano dal Torneo, ma dubitava comunque che Agatha sarebbe andata proprio nel suo stesso luogo, ovunque questo fosse.

Richiesero due stanze alla reception, ma quando l'addetta prese il documento di Agatha, dopo un attimo di riflessione la informò che in mattinata era arrivato un telegramma per lei. «Vuole leggerlo subito o preferisce che terminiamo prima la registrazione?»

Agatha s'incupì prima ancora di avere il telegramma in mano. Samuel si allontanò discretamente di qualche passo mentre ella leggeva, fingendo indifferenza, ma non la perse di vista, continuando a scutarla con la coda dell'occhio: via via che leggeva, lo sguardo dela ragazza si faceva più scuro e alterato, finché con sua grande sorpresa ella appallottolò rabbiosamente il foglio nella mano e lo gettò nel cestino posto sotto al bancone. Il suo profilo era ora teso e quasi vibrante di rabbia. Sentendosi un poco preoccupato, Samuel l'avvicinò cautamente, quasi accostandosi a un fuoco troppo caldo che rischiasse di scoppiare da un momento all'altro.

«Ehi... tutto bene?» chiese piano. Collo sguardo nervosamente infisso sul legno del bancone, i pugni stretti, la ragazza non rispose. Schiarendosi appena la voce, Samuel ritentò: «Brutte notizie?»

Agatha si riscosse con uno scatto secco, scuotendo bruscamente il capo come per riaversi da un sogno. Volse gli occhi su di lui quasi con rabbia, erano occhi scuri e tempestosi profondamente turbati, e Samuel dovette resistere alla sciocca, infantile tentazione di ritrarsene di un passo. Rimase faticosamente immobile a poca distanza da lei, cercando di conservare un'espressione rassicurante.

«Sì... sì, tutto bene» disse Agatha. Vagò con gli occhi per la sala, come in cerca di una via di fuga, e sorrise di un sorriso nervoso. «Solo un telegramma da un vecchio amico.»

«Oh» disse Samuel senza capire, cercando di decidere se dovesse accontentarsi di quella risposta o se potesse invece permettersi d'insistere un poco: Agatha era decisamente troppo sconvolta per un semplice telegramma di una vecchia conoscenza. Ma prima che potesse risolversi a prendere un qualsiasi partito, Agatha si rivolse di nuovo all'infermiera e le chiese qualche moneta per il telefono: tutto il suo corpo snello sembrava vibrare d'indignazione. Strinse le monete nel pugno chiuso e gli passò accanto, diretta al telefono in fondo alla sala, mormorando: «Ti dispiace aspettarmi? Dopo possiamo salire insieme.»

«Certo» borbottò Samuel, sentendo come di parlare al niente: in quel momento, egli sapeva anche troppo bene che Agatha non lo stava ascoltando.

Il telefono era nell'angolo all'estrema destra della sala, poco oltre il Club Via Cavo. Samuel non voleva sentire qualunque cosa Agatha avesse da dire, neppure accidentalmente: sarebbe stato impensabile ascoltare la telefonata di una signorina, perciò rimase in piedi là dove si trovava, alla massima distanza consentitagli da quel telefono, e attese pazientemente, limitandosi a gettarle talora qualche occhiata perplessa. Anche da lontano, era impossibile non notare l'agitazione di Agatha: gesticolava convulsamente e si scostava i lunghi capelli ribelli dal volto quasi con stizza, come a volervisi sfogare. Pochi minuti dopo sbatteva già il telefono e tornava verso di lui a passi pesanti, con le braccia incrociate sul petto, in un gesto che Samuel aveva ormai imparato a interpretare da lei come una minaccia. La guardò inquietamente.

«Va tutto bene?» insisté con cautela.

Col volto assorto e gelido, gli occhi assenti, Agatha gli accennò di sì, ma stavolta non si premurò neppure di cercare di convincerlo. Si limitò a dirigersi lentamente verso le scale e a Samuel non rimase altra scelta che seguirla a sua volta.

Salirono le scale in un silenzio teso e angoscioso: Agatha era assorta e distratta. Le loro stanze erano entrambe allo stesso piano, aprendosi nel medesimo corridoio angusto dalla tappezzeria antiquata, con la moquette che odorava di polvere. In quel corridoio stretto, in quell'ambiente così casalingo e rassicurante, all'improvviso Samuel afferrò il polso di Agatha per fermarla. La ragazza si volse verso di lui con aria interrogativa.

«Agatha, non ti credo. È successo qualcosa di grave?»

Forse per prendere tempo, Agatha chinò lo sguardo sulla sua mano robusta che l'artigliava. Ritrasse pensierosamente il polso per scioglierlo dalla sua presa.

«Ti ringrazio, Samuel, ma non è davvero nulla di preccupante. Io e il mio amministratore abbiamo spesso da ridire su alcuni argomenti.»

Amministratore? Per quanto ne sapeva lui, un amministratore si occupava di grandi patrimoni, o cose del genere. Per la prima volta scrutò Agatha con occhi nuovi: cosa se ne faceva di un amministratore? La ragazza parve cogliere i suoi dubbi e gli spiegò pazientemente: «Il signor Firefly si occupa dei miei beni immobili e di una parte di quelli mobili bloccata in investimenti. È stato anche il mio tutore, fino a sei mesi fa» soggiunse a voce appena più bassa, con tono amaro. «Il problema è che pensa di poter continuare a darmi ordini.»

Per avere un tutore, Agatha doveva essere orfana di entrambi i genitori, comprese all'improvviso Samuel con una fitta di dispiacere. Dunque vi era già qualcosa, di quel mistero che gli era parso avvilupparla all'interno della grotta, che si stava svelando a poco a poco... Agatha non gli aveva ancora detto niente di particolare, tuttavia, per qualche motivo, egli sentì che era il momento giusto per chiederle, ma non perché volesse sapere. In quel momento, semplicemente, Samuel sentiva che quella ragazza era in difficoltà e voleva aiutarla.

«Dunque qualche cosa è successa» mormorò. «Mi sbaglio?»

Finalmente, come se le sue difese fossero crollate, Agatha diede in un sospiro profondo. Scosse la testa.

«Non è mai stato d'accordo a che io intraprendessi questa carriera, ma non me l'ha mai impedito... probabilmente perché sono molto più facile da sopportare quando sono lontana. Ma ora ha saputo della mia iscrizione al Torneo ed è assolutamente contrario. Dice che potrei danneggiare il nome di famiglia o cose del genere.»

Dunque Agatha doveva appartenere davvero a una famiglia piuttosto importante, per avere un nome di famiglia da danneggiare. D'un tratto alcuni elementi del suo carattere che gli erano parsi semplicemente particolari assunsero ai suoi occhi un diverso significato: l'aria di superiorità, i vezzi da capricciosa, l'apprezzamento per la cavalleria... A questo punto avrebbe voluto chiederle il suo nome, ma non era il momento giusto e lo sapeva anche troppo bene: cercò di fare ordine tra le domande che gli affollavano la mente.

«Ma come può averlo saputo? Ti fa seguire?»

«Oh, no, non proprio. Ha molte conoscenze all'Altopiano Blu, è uno dei loro consulenti o amministratori... non l'ho mai capito molto bene.»

«Va bene.» Samuel annuì, più per dimostrare a se stesso di aver capito, che per altro. «Ma qual è il problema? Insomma, può lamentarsi quanto vuole, ma tu ora sei maggiorenne. Non può impedirti di partecipare.»

«All'inizio mi ha minacciato di farlo.» Agatha chinò lo sguardo sui propri piedi con aria stanca. «Tuttavia...»

«Tuttavia?» chiese Samuel ansiosamente. Quell'ingiustizia gli bruciava addosso come se l'avesse subita lui stesso. Agatha ebbe all'improvviso un guizzo, un sorriso malizioso, per quanto amaro.

«Gli ho ricordato che nel caso fossi estromessa ingiustamente dal Torneo, il mio avvocato sarebbe pronto a far causa a lui e all'intera Lega.»

Proprio come i suoi Pokémon, Agatha era dunque molto meno indifesa e sprovveduta di quanto poteva sembrare: ben nascosti, ella aveva i suoi artigli ed erano avvelenati. In modo del tutto irragionevole eppure irresistibile, Samuel se ne sentì compiaciuto. Quella ragazza gli piaceva sempre di più, ma tornò a cercare di concentrarsi sul problema. «Non puoi cambiare amministratore?»

«No. Beh, potrei, ovviamente, ma non saprei a chi rivolgermi e non voglio mettermi in mani sbagliate. Il signor Firefly era l'amministratore di mio padre ed è comunque molto bravo per le questioni amministrative: finora, sotto questo aspetto, non ho mai potuto lamentarmi.»

Alla luce di tutte queste rivelazioni, Agatha era sola al mondo e affidata a uno stuolo di burocrati e legali. Tutto sommato, il suo caratterino e la sua solitudine sembravano aver assunto ai suoi occhi già ragioni più profonde.

La ragazza levò il capo verso di lui ed ebbe un pallido sorriso stanco. «Ti ringrazio, Samuel, ma so come difendermi, e comunque non è nulla di grave. Il signor Firefly minaccia sempre più di quanto sia effettivamente disposto a fare.»

No, Agatha non aveva bisogno di essere protetta e difesa, questo era appurato, ma in quelle condizioni, dopo ciò che di lei egli aveva scoperto, Samuel non se la sentiva proprio di abbandonarla. Non sapeva bene come trattare con le ragazze, perciò si risolse ad agire come avrebbe fatto con un amico, a costo di compiere qualche errore imperdonabile, e le diede una pacca sulla spalla.

«Sembra proprio un gran bastardo, il tuo amministratore» disse. «Pensi che potremmo farlo infuriare un po' di più allenandoci insieme per qualche giorno? Chissà... magari qualche spia potrebbe riferirglielo e causargli un colpo apoplettico.»

La ragazza parve un poco risollevata alle sue parole. Rise appena. «Già... sono certa che gli verrebbe.»

«Guarda che ero serio.» Per sottolineare le proprie parole, Samuel le porse gravemente la mano. «Affare fatto, signorina?»

Levando su di lui occhi neri e profondi come abissi, Agatha afferrò la sua mano e la strinse.


Samuel non aveva pensato che a due o tre giorni di allenamento condiviso, ma quel periodo cominciò a protrarsi a dismisura senza che nessuno dei due manifestasse la benché minima intenzione di porvi fine.

Non era mai stato il tipo di allenatore da viaggiare con qualcun altro, condividere il proprio spazio, accettare di sottostare ai bisogni e ai tempi di un'altra persona, ma non aveva neppure mai avuto niente in contrario: semplicemente, non ci aveva mai provato.

Certo, Agatha aveva talora atteggiamenti imperiosi e arroganti, ma Samuel non li trovava particolarmente difficili da tollerare: nel suo profondo li trovava interessanti, forse perché ella differiva di molto dall'idea di donna che aveva sempre avuto e disprezzato nella propria testa, quella di una creatura sottomessa e bisognosa, immatura e incapace di difendersi. Pur nei suoi piccoli atti da capricciosa, ella non aveva alcunché d'infantile. Era testarda, certo, e assolutamente irremovibile dalle proprie decisioni, ma proprio questa sua grande capacità di decidere per se stessa, di aggrapparsi alle proprie idee e opporsi strenuamente a chiunque le fosse contrario, gli sembravano piuttosto qualità che non difetti. Per contro, anche Samuel reputava di esserle simpatico: non poteva esserne certo, ma era convinto che se così non fosse stato, Agatha non avrebbe esitato a mandarlo al diavolo.

Tutto sommato, allenarsi con lei non gli dispiaceva dunque, per quanto più di uno gettasse loro sguardi strani o mezze parole di sospetto: era ancora troppo insolito che un ragazzo e una ragazza viaggiassero insieme, ma Agatha era decisamente troppo superba per darvi peso e a Samuel, semplicemente, non importava. Si spostarono gradualmente più a nord a partire da Smeraldopoli: per quanto Samuel conoscesse quei percorsi ormai come le proprie tasche, si rese conto in fretta che percorrerli al fianco di Agatha dava loro un aspetto nuovo. Viaggiare con lei era piacevole: era incappare in un temporale estivo, inaspettato e travolgente, e correre spontaneamente, senza averlo stabilto, a ripararsi dalla grandine nelle voragini profonde della Grotta Diglett e trascorrere il pomeriggio seduti nell'ombra, senza vedersi se non quando un lampo improvviso squarcava l'aria illuminando i loro volti, e parlare a bassa voce senza bisogno di guardarsi. Era attraversare il Bosco Smeraldo, camminando adagio sul sottobosco fangoso e sotto i giochi luminescenti che il sole, filtrando attraverso le foglie, disegnava sui loro volti, alterando i loro tratti in strane tonalità gioiose e virenti. Era dormire sotto le stelle, in un prato ancora umido e profumato di vita e di terra, distanti ma consapevoli l'uno della presenza dell'altra persino tra il sonno; era inseguirsi sui pendii montani e dentro le grotte del Monteluna, raggiungendosi e distanziandosi in un gioco di risate echeggianti attraverso le pareti gocciolanti; era parlare a lungo nella notte che calava, attorno a un fuoco fin oltre l'ora di dormire, e vedere la luna riflettersi in grandi occhi neri e insospettabilmente melanconici che erano come specchi di cielo notturno privi di altre luci.

Come sospettava, Agatha apparteneva davvero a una famiglia molto importante, proveniente da Lavandonia: quando Samuel riuscì a scoprire il suo cognome, rimase tanto sopreso da farla ridere. «Non l'avresti mai detto, vero?»

«Non so.» Samuel disegnò distrattamente con un bastone incerti disegni nella cenere del loro fuoco. Si erano accampati per la notte poco a est di Celestopoli, in una zona molto amata per i campeggi. «Solo, non me l'aspettavo, ecco. Non pensavo che una ragazza di buona famiglia come te facesse l'allenatrice.»

Agatha si rigirò tra le mani la tazza del loro tè insipido. «Beh, non c'era molto altro che potessi fare... a parte vivere di rendita. Ma visto che è il signor Firefly a occuparsi di tutto il mio patrimonio, neppure quello era molto interessante.»

«Suppongo di no» riconobbe Samuel. «Torni spesso a casa? A Lavandonia, insomma.»

«Ogni due o tre mesi, per discutere col signor Firefly e mettere qualche firma. Non ho mai voluto concedergli la mia delega plenaria, perciò ha ancora bisogno di tutti i miei consensi per intraprendere un investimento o cose del genere.» Agatha scosse un poco la tazza, osservando il volgersi degli archi di liquido sulle pareti. «E tu? Torni mai a casa? Ah, che sciocca» soggiunse ridendo appena. «Non ti ho neppure chiesto da dove vieni.»

Samuel si appoggiò alla parete di roccia che pendeva a picco dietro il loro piccolo accampamento, allungando le gambe verso il fuoco, e levò pensierosamente gli occhi verso le stelle. Qualche nuvola dall'aspetto poco rassicurante si stava affacciando attorno alla sua visuale, mascherando a tratti uno spicchio di luna calante. «Non è nulla di che.»

«Su, dimmelo» insisté Agatha, protendendosi verso di lui. «Non hai l'accento di Johto, dunque devi essere di Kanto, ma di dove precisamente?»

Al suo confronto, quello di una ragazza di una delle famiglie più importanti e antiche di Lavandonia, Samuel sapeva anche troppo bene di non avere alcunché d'interessante da dirle. Si prese qualche istante di silenzio, continuando a osservare le stelle, ma all'improvviso un oggetto duro e angolato lo colpì inaspettatamente alla fronte, strappandogli un'esclamazione dispresa. Afferrò l'oggetto prima che cadesse, accostandosi in fretta al fuoco per vederlo alla luce: era una pigna.

«Agatha, sei impazzita? Mi hai tirato una pigna addosso!»

«Ovviamente» sbottò Agatha stizzita. «Da dove vieni, insomma?» Gli mostrò il pugno chiuso, le dita appena allargate a trattenere qualcosa. «Se non mi rispondi, stavolta ti tiro addosso un sasso.»

«Sei proprio un demonio» sbuffò Samuel scuotendo la testa, ma del tutto incapace di arrabbiarsi con lei. «Ti avverto che rimarrai delusa. Vengo da Biancavilla, contenta?»

«Biancavilla?» ripeté Agatha, con lo stesso tono che avrebbe usato se lui le avesse detto: Vengo dall'asteroide B612.* «E dov'è?»

Samuel dovette trattenersi dal tirarle a sua volta la pigna addosso. Non si picchiano le ragazze... anche se a volte quella ragazza in particolare sembrava non chiedere altro che una buona scrollata. «A sud di Smeraldopoli, sulla costa, più o meno alla stessa longitudine dell'Isola Cannella. Valeva la pena di tirarmi una pigna addosso per un villaggio di quattro o cinque case?»

«Quante storie per una pigna!» sbuffò Agatha. «Beh, non c'è nulla di male. Anche Lavandonia è un paese molto piccolo. Abbiamo solo la Torre, e ti garantisco che non ha nulla d'interessante.»

Rimasero in silenzio per qualche istante, era un silenzio quieto e rilassato di crepitare del fuoco e di membra stanche e contratte per il troppo camminare. Samuel tirò pensierosamente la pigna tra le fiamme, dove essa crepitò e diede un piccolo scoppio per l'eccessivo calore.

«Non sono più tornato a casa da quando sono partito» disse. Parlava rivolto alle fiamme, eppure lo stava dicendo solo per lei. Sentì che Agatha si sistemava meglio accanto al fuoco, si tendeva verso di lui con tutta la propria attenzione. «Mia madre si è risposata quando avevo quattordici anni e suo marito... non so, non mi è mai piaciuto. Eppure è un brav'uomo, sai.»

«Per questo non sei più tornato?» chiese Agatha a bassa voce. Samuel assentì semplicemente. Non c'era davvero nulla da dire al riguardo. «Il tuo papà è morto?»

Un ciocco di legno scivolò verso il basso tra le fiamme, levando una nuvola di scintille. «No. Se n'è andato.»

Agatha colse al volo il senso profondo delle sue parole. Gli si accostò maggiormente, scivolando verso di lui. «Era un allenatore?»

«Sì.» Dopo lunghi secondi, Samuel si decise finalmente a guardarla direttamente. Il suo volto era arrossato per il calore, la sua pelle brillava di toni aranciati. «Suppongo che per lui fare l'allenatore fosse molto più importante che avere una famiglia. È per questo che io non intendo continuare a fare l'allenatore per tutta la vita, come lui... voglio fermarmi da qualche parte, costruire una casa, sposarmi e veder crescere i miei figli. Una cosa del genere, insomma. So che la riterrai un'idea stupida» soggiunse con una mezza risata imbarazzata. «Forse lo è, ma per me la famiglia è importante e io ne voglio una mia. Ora ridi pure.»

Ma il volto di Agatha, molle di fuoco e di luna, era serio e immobile. Solo i suoi occhi liquidi guizzavano nella notte, scrutandolo fissamente.

«Non c'è nulla da ridere» mormorò invece con voce strana. «La famiglia è... beh, non importa. Su, prepariamoci per la notte» concluse poi all'improvviso, in modo decisamente troppo brusco, alzandosi in piedi; ma a Samuel non dispiaceva cambiare argomento e non si oppose. Non pensava mai a suo padre, se poteva evitarlo, anche se non lo aveva infastidito parlarne ad Agatha. Si alzò a sua volta e si stiracchiò.

«Sai che non ti perdonerò mai per quella pigna, vero?» chiese sforzandosi di essere serio, ma sentendosi suo malgrado più divertito che irritato. Continuava a stupirsi di quanto si sentisse profondamente incapace di arrabbiarsi con lei.

Volgendosi appena verso di lui, Agatha gli gettò un'occhiata di superiorità. Persino quei suoi sguardi altezzosi da aristocratica erano diversi, quando li riservava a lui, o almeno Samuel di questo era convinto.

«Smettila di lamentarti. Piuttosto, dove andiamo domani?»

«Beh, ora siamo piuttosto a nord.» Con un sospiro, Samuel mise da parte la storia della pigna: sapeva già che con Agatha era impossibile spuntarla, dopotutto. «Possiamo andare a sud, non so... Azzurropoli?»

«Un po' snob, ma perché no?» Agatha prese il proprio sacco a pelo e lo distese ordinatamente al suolo a poca distanza dal fuoco. Sollevò gli occhi su di lui. «Ti dispiace, Samuel?»

Ti dispiace?, nella lingua di Agatha, voleva dire semplicemente: posso avere qualche minuto di privacy? Samuel si era ormai rassegnato al suo lungo rituale di preparazione per la notte, che le richiedeva una decina di minuti ogni sera, e aveva imparato fin dal primo giorno che era suo preciso compito allontanarsi per quel lasso di tempo per permetterle di sistemarsi in pace.

Trascorse perciò il quarto d'ora seguente aggirandosi a un centinaio di metri dal loro accampamento: il percorso era vuoto e silenzioso, la notte era nera e limpida. Quando tornò, trovò Agatha avvolta in una nube di coperte, coi capelli intrecciati e gli occhi già chiusi. Probabilmente stava già dormendo. Samuel gettò sul fuoco un po' di cenere e s'infilò a sua volta nel proprio sacco a pelo, voltandosi dall'altra parte sul terreno duro.

Oltre che di un appetito formidabile, il suo corpo era naturalmente dotato anche di una straordinaria capacità di addormentarsi quasi immediatamente ovunque si trovasse. Qualche minuto dopo, perciò, quando era già ormai sprofondato nello stato di pesante dormiveglia che precedeva immediatamente il sonno, non riuscì a determinare subito se la nitida voce di donna che gli giunse all'orecchio, lontana e assieme vicinissima, fosse un sogno o invece reale.

«Samuel...»

«Mmh?» riuscì appena a borbottare, cercando di compiere lo sforzo sovrumano di sollevare le palpebre ormai divenute grevi come macigni. Dopotutto non valeva veramente la pena di farlo, probabilmente: era sicuro che Agatha stesse già dormendo, perciò doveva trattarsi di un sogno.

«Scusa per la pigna.»

Sì, decisamente era un sogno: evidentemente stava già dormendo anch'egli. Samuel si concesse di sorridere tra sé tra il sonno, o di sognare di sorridere, e fece sogni strani e confusi in cui si chiedeva se una persona potesse vederne un'altra sorridere al buio.



*Piccolo omaggio a Il piccolo principe, che ho riletto pochi giorni prima di scrivere questa scena. Ah, e prima che me ne dimentichi, il nome dell'amministratore di Agatha è invece ispirato al meraviglioso protagonista de La guerra lampo dei Fratelli Marx, uno dei miei film preferiti, anche se non ha nulla da condividere con quel personaggio.




Buonasera a tutti!

Un capitolo di passaggio, ma fondamentale per i prossimi sviluppi: spero che non risulti noioso o pesante. Il prossimo sta venendo smisuratamente lungo, almeno per ora, quindi temo che si farà un poco aspettare, ma vi prego di voler avere pazienza.

Che dire di questa parte? Decisamente, l'Agatha dei giochi mi dà l'impressione di una vecchietta aristocratica, di quelle vecchie famiglie decadute... ho voluto rendere anche questo aspetto in questa storia e suppongo che se ne capirà più avanti il significato.

Un bacio e un abbraccio di cuore a crystal_93 e a Mad_Dragon per le loro recensioni: grazie infinite, come al solito, e alla prossima!

Afaneia

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Capitolo 4
*** Prima ancora dell'aria (Parte Prima). ***


Eccomi di nuovo qua!

Questo capitolo era venuto davvero, davvero lunghissimo rispetto alla media, e mi sembrava francamente un brano troppo lungo per leggerlo tutto in una volta, perciò ho deciso di dividerlo in due parti; tuttavia, per mantenere un minimo di logicità, ho dovuto dividerle in modo un po' disomogeneo. La prossima parte, molto più breve, sarà online tra pochissimi giorni, o almeno spero, impegni accademici permettendo!

Come al solito, tengo a fare i miei ringraziamenti: un grazie di cuore a crystal_93, a Mad_Dragon e a Bankotsu90 per le loro recensioni e, ovviamente, un grande abbraccio a tutti!

Afaneia


Capitolo quarto – Prima ancora dell'aria.


Discesero verso Azzurropoli passando per la colossale Zafferanopoli, ma vi si fermarono solo una notte. Qui Agatha insistette per dormire in albergo, affermando che non ne poteva più delle stanze claustrofobiche e squallide dei Centri Pokémon, e Samuel non si oppose: in effetti, il Centro di Azzurropoli sorgeva in un edificio assai poco moderno, risalente probabilmente alla fine del secolo precedente, e dopotutto non gli dispiaceva concedersi qualche comodità, per una volta. La receptionist dell'hotel, dopo aver appurato che non erano sposati e in luna di miele, né fidanzati venuti a sposarsi di nascosto e no, neppure amanti in fuga d'amore, si mostrò fin da subito un po' troppo cordiale verso di lui, a tal punto che Agatha, qualche minuto dopo, gli chiese maliziosamente se gli capitasse spesso.

«Direi di no» replicò Samuel divertito, anche se non era propriamente vero – era capitato più di una volta che qualche barista gli avesse offerto il caffè o che qualche infermiera si fosse casualmente fatta scappare l'ora a cui terminava il turno al Centro Pokémon. Non ne era certo, ma quel lampo di velato fastidio che gli era parso saettare fugacemente negli occhi di Agatha gli faceva pensare che, per qualche motivo, non sarebbe stato gentile raccontarglielo. E poi, scherzosamente, le scompigliò i capelli, gesto pericoloso più o meno quanto infilare la mano nella bocca di un leone, con Agatha, soggiungendo: «L'ultima ragazza che ho conosciuto mi ha tirato una pigna in testa.»

«E ha fatto bene» lo rimbeccò Agatha con la massima calma, allontanandogli la mano. «Di sicuro te lo meritavi. Quella ragazza ha tutta la mia stima.»

«Beh, glielo dirò se la incontrerò di nuovo» promise Samuel.

Fecero qualche acquisto strategico al centro commerciale prima di proseguire verso sud il giorno seguente. Si vociferava di un colossale progetto di costruire una pista ciclabile sul mare per unire Azzurropoli a Fucsiapoli, ma per ora non era stato installato neppure un cantiere, e l'unica via terra possibile rimaneva quella di una stretta strada scoscesa lungo la scogliera, umida e disagevole da percorrere anche con la bassa marea. Questo, tuttavia, non aveva mai scoraggiato nessun vero allenatore: nel giro di un giorno e mezzo, erano a Fucsiapoli.

Avevano continuato a vagare senza un vero motivo, né tantomeno una meta, per più di una settimana dal giorno del loro scontro sull'Altopiano Blu, ma quando finalmente raggiunsero la città nella quale per la prima volta si erano incontrati, anche se in modo un po' insolito e indiretto, finalmente parvero entrambi rendersi conto del loro girare a vuoto.

Quel pomeriggio, poco dopo il loro arrivo, si riversò un temporale sferzante cui assisterono da dietro le finestre del Centro Pokémon, dove avevano fatto appena in tempo a rifugiarsi alle prime gocce di pioggia. Era troppo tardi per il pranzo, ma la caffetteria era aperta: quando Samuel si avvicinò al tavolo dove Agatha era seduta ad aspettarlo, portando galantemente un paio di caffè, la trovò cupamente seduta vicino alla finestra, con lo sguardo infisso nel cielo plumbeo e tempestoso al di fuori.

«La pioggia ti rende malinconica?» domandò poggiando le tazze sul tavolo. Si sentiva inspiegabilmente di buon umore. Al suono della sua voce, o forse delle tazze che tintinnavano sul piano, Agatha parve riscuotersi e levò lo sguardo su di lui.

«Grazie.» Attirò a sé la tazza più vicina. I suoi occhi erano cupi e pensierosi: temendo di averla urtata, Samuel sedette in silenzio dal lato opposto del tavolo. «Stavo solo pesando a cosa potremmo fare. Sai, mancano ancora diversi giorni alla Lega.»

Si trattava davvero solo di questo? Eppure Agatha gli sembrava un po' troppo triste per quel solo motivo, pensò Samuel mentre mescolava lentamente il proprio caffè. Continuò a guardarlo, sentendosi un po' preoccupato, ma decise di non contraddirla – non ancora, quantomeno.

«Non saprei, io non ho progetti precisi. C'è qualche posto che ti interesserebbe particolarmente?»

Agatha rimase in silenzio per un po', un silenzio teso e innervosito, e passò lentamente le dita sul bordo della tazzina. Anche quel giorno aveva i capelli raccolti in un modo che esaltava i tratti armonici del suo volto.

«Vuoi continuare a viaggiare con me?»

Questa domanda lo colse decisamente impreparato: Samuel spalancò quasi la bocca per lo stupore. Certo, non era una domanda immotivata, ma ormai quella situazione gli sembrava tanto naturale, tanto spontanea e, perché no?, tanto gradevole, da non aver più bisogno di conferme... tuttavia, in effetti, forse era sbagliato dare per scontato che per Agatha valesse lo stesso.

«Beh, io... tu non vuoi?»

Agatha aggrottò un sopracciglio scuro in un'espressione di fastidio. Tamburellò con le dita sul tavolo. «Non rigirare la domanda contro di me, per favore. Rispondi: vuoi continuare a viaggiare con me o no?»

Era una richiesta diretta, inevitabile, da cui Samuel continuava a sentirsi spiazzato. Forse comprendendo la sua perplessità, Agatha spiegò sbrigativamente: «Mi avevi proposto di allenarci insieme per qualche giorno. È passata più di una settimana e non ci siamo neppure allenati, dunque ora ho bisogno di sapere che cosa intendi fare.»

Va bene. Davanti a una tale energica inquisitoria, stavolta Samuel prese un respiro profondo: non capiva il motivo di quella domanda improvvisa e proprio per questo sapeva di non poterle dire che la verità.

«Sì, a me farebbe molto piacere. Ma che mi dici di te?»

Agatha ricevette la sua risposta soltanto annuendo gravemente, senza guardarlo. A quel punto, Samuel ebbe l'impressone di aver intuito cosa non andava.

«Il tuo amministratore ti ha mandato qualche altro telegramma?»

Vide le guance di Agatha sollevarsi appena in un principio di sorriso. «No, non ancora. Anche se me ne aspetto uno nei prossimi giorni, conoscendolo.»

«A meno che non abbia davvero avuto quel colpo apoplettico di cui parlavamo» suggerì Samuel. Sapeva che era una battuta idiota e di pessimo gusto, ma sperava che potesse bastare a strapparle almeno un accenno di risata. Non funzionò, ma Agatha lo guardò più serenamente.

«Non stavo pensando al signor Firefly, a dire il vero. Sei stato molto gentile ad accompagnarmi per tutti questi giorni, ma non vorrei diventare un peso per te... so bene cosa pensa la gente quando ci vede assieme. Un ragazzo e una ragazza... non sta bene.»

«Giusto» convenne Samuel con voce sorda. Il suo caffè si stava raffreddando rapidamente: si decise a berne almeno un sorso, ma all'improvviso gli parve più amaro del solito. Lo spinse via seccamente con un sospiro profondo. «Dunque a te importa?»

Agatha sbatté le palpebre più volte. «M'importa di cosa?»

«Di ciò che dice la gente.» Senza accorgersene, Samuel si stava alterando: se ne rese conto quando notò che stava battendo nervosamente il piede a terra. «Dopo tutte quelle sfide, quei sono pronta a lottare anche adesso... Ora all'improvviso t'importa di cosa pensano gli altri di te, di noi?»

Aveva alzato la voce, ma per fortuna la caffetteria era quasi vuota. Agatha parve turbarsi un po'.

«Samuel, aspetta.» La sua voce, al contrario, era calma e lucida: sembrava non capire a cosa si riferisse. «Mi hai fraintesa, non intendevo questo. Io mi preoccupavo solo per te.»

Ah. Samuel si sentì piuttosto stupido per aver male interpretato le sue parole e non poté non chiedersi cosa gli era preso. Afferrò la tazza ancora piena a metà e bevve con un senso di agitazione e imbarazzo, per quanto ormai fosse quasi freddo e comunque non fosse mai stato un granché.

«A me non importa» borbottò solamente.

Finalmente Agatha sorrise. Scosse il capo ridendo. «Non temere, Samuel, nemmeno a me. Volevo solo essere sicura che valesse lo stesso per te. In tal caso» proseguì, decisamente più sollevata «Dovremmo decidere cosa fare domani.»

Il suo volto si era rischiarato come un cielo, ora era disteso, sereno. Samuel continuava a sentirsi un po' stupido per averla fraintesa a tal punto, ma tutto sommato era contento di aver chiarito quell'argomento, anche solo per averla tranquillizzata. Si appoggiò allo schienale della propria sedia. «Abbiamo diverso tempo davanti a noi. Potremmo allenarci un po' in questa zona e poi... beh, possiamo sempre andare a trovare Jake e i suoi amici» concluse scherzosamente.

Era ovvio che non aveva parlato sul serio, ma in modo del tutto inaspettato, l'interesse di Agatha si risvegliò. Batté le mani come una bambina: «Perché no?»

Per la seconda volta in pochi minuti, Samuel rimase sbalordito. «Stai scherzando? Tu odi Jake!»

«Non lo odio affatto!» Agatha agitò una mano come a scacciare quell'idea. «Come ti è venuta in mente una cosa del genere? Semplicemente non avevo alcuna intenzione di trascorrere una settimana con lui e i suoi amici folli su un'isola in mezzo al mare. Lo trovo un po' eccessivo e i suoi amici non potevano essere da meno.»

Forse Samuel non era abbastanza aristocratico, o abbastanza femminile, per vedere la differenza, ma nel dubbio rimase in silenzio mentre Agatha proseguiva: «Pensavo solo che un giorno non potrà ucciderci e che come ha detto lui stesso, potremmo studiare qualche strategia alternativa. Che ne dici?»

«Beh...» Tutto sommato, un giorno non sarebbe stata una tragedia, e avrebbe comunque portato dei vantaggi. Samuel si sforzò di concentrarsi su queste motivazioni, piuttosto che sulla tendenza ad acconsentire ad Agatha e a qualunque suo capriccio. «Perché no, dopotutto?»


Si allenarono sulla spiaggia per qualche giorno, ma senza metterci poi troppo impegno, o almeno Samuel aveva quest'impressione. Dopo il temporale, le giornate si fecero calde di sole e quasi torride nelle ore centrali: il dodici maggio era tanto caldo che fecero il bagno in mare e rimasero a lungo in ammollo nell'acqua bassa, parlando piano, e giocarono a inseguirsi sui fondali sabbiosi.

Quando decisero di andare a trovare Jake, era ormai il quindici di maggio. Per quanto entrambi sapessero nuotare, le Spumarine non erano decisamente un luogo dove andare a nuoto, in particolar modo per chi non era molto esperto, ed essi scelsero perciò di viaggiare sui loro Pokémon.

Già quando giunsero in vista delle isole entrambi colsero la profonda eccitazione che le pervadeva: vi si distingueva un frenetico movimento di sagome tutte diverse sulla spiaggia e sulle alture retrostanti e Samuel mormorò: «Il tuo amico è riuscito a raccogliere un bel po' di gente.»

«Non è il mio amico» protestò Agatha, fulminandolo con lo sguardo dal dorso del suo Tentacruel. «Sei stato tu ad aderire alla scommessa, devo ricordartelo?»

«Beh, sei tu ad averla proposta, e inoltre sei tu ad aver insistito per venire qui» disse Samuel.

«Non ti ho sentito di certo piangere e lamentarti. Zitto, ora» ordinò a bassa voce, con lo sguardo infisso sull'isola. «Siamo abbastanza vicini e il vento potrebbe portar loro le nostre parole.»

Samuel le diede silenziosamente ragione in cuor suo, perché via via che si avvicinavano, sembrava che sull'isola sempre più ragazzi si stessero accorgendo di loro: qualche braccio si sollevava a indicarli, qualcuno si parava gli occhi dal sole con le mani per vederli meglio.

Quando approdarono sulla spiaggia biancheggiante di sole, davanti a loro si era raccolta un'abbondante ventina di persone, ma ad accoglierli, quasi come il sovrano di quella piccola comunità, fu ovviamente Jake.

Era abbronzato in modo quasi abominevole per essere maggio – la sua pelle doveva contenere una quantità anormale di melanina – e nel suo volto cotto dal sole il suo sorriso brillava di un bianco quasi accecante. Li accolse stagliato sulla spiaggia come un capovillaggio di una qualche isola esotica, a gambe larghe e colle mani sui fianchi.

«Samuel, Agatha! Che sorpresa! Vi unite a noi, alla fine?»

Samuel balzò agilmente giù dalla groppa di Gyarados e aiutò Agatha a scendere dal dorso di Tentacruel sollevandola per la vita. «Buongiorno, Jake... se non vi dispiace, ci uniremmo volentieri a voi per qualche ora.»

«Se ci dispiace? Siete i benvenuti!» tuonò Jake. «Ragazzi, vi presento un paio di amici, Samuel e Agatha... Agatha è la ragazza che ha lanciato la scommessa» spiegò con visibile orgoglio.

Dunque almeno una parte di quei ragazzi aveva aderito alla scommessa di Fucsiapoli, o quantomeno Jake doveva averne parlato diffusamente. Depositando Agatha sulla spiaggia, Samuel ne approfittò per gettarle uno sguardo significativo che voleva dire hai combinato un bel guaio, ed ella per tutta risposta gli tirò un discreto scappellotto sul braccio, fingendo di aggrapparsi a lui.

Non c'era bisogno di possedere doti soprannaturali per percepire la molteplicità di sguardi interessati che si appuntarono su Agatha, mentre essi si avvicinavano a Jake per salutarlo meglio. Samuel avvertì una lieve fitta d'indignazione a quegli sguardi: sapeva bene che quei ragazzi erano in completo isolamento sulle Spumarine già da qualche giorno, e che in generale la maggior parte di loro, probabilmente, vedeva una ragazza solo al bancone e alla mensa di un Centro Pokémon, ma non gli sembrava comunque educato riservare occhiate del genere a una signorina. A ogni modo Agatha non parve darvi peso: stavolta strinse benevolmente la mano a Jake, ringraziandolo del suo invito e dell'accoglienza con un sorriso luminoso. Che lunatica, pensò Samuel con ironica rassegnazione: solo poco tempo prima, sull'Altopiano Blu, l'aveva quasi cacciato via... Ma le ragazze erano fatte così, e Agatha era la più lunatica di tutte.

«Come sta andando il vostro allenamento?» s'informò quando Jake gli riservò una poderosa manata sulla spalla.

«Fantastico, assolutamente fantastico» si esaltò Jake. Appariva sinceramente entusiasta. «Ci divertiamo un sacco e stiamo migliorando tantissimo... ve ne renderete conto se oggi vi unirete a noi per una lotta. Allora, ragazzi» propose poi a voce ancora più alta «Facciamo un giro di presentazione? Samuel e Agatha si fermeranno con noi solo oggi, quindi non perdiamo tempo!»

Le ore seguenti trascorsero in modo quasi surreale. Vi furono rapide presentazioni, al termine delle quali Samuel non aveva recepito nessun nome, ma aveva visto bene in quale misura tutti quei ragazzi erano contenti di avere un'allenatrice tra loro. La maggior parte di loro aveva circa vent'anni o poco più, proprio come lui e Jake, mentre gli altri si aggiravano intorno ai diciotto; i più giovani fissavano Agatha come un'apparizione divina. Quattro o cinque ragazzi, spiegò Jake mentre si spostavano lentamente verso il centro dell'isola, proprio quel mattino erano andati in esplorazione verso nord, ma sarebbero tornati per l'ora di pranzo.

«Siete arrivati giusto in tempo» commentò vivacemente. «Stavamo proprio per fare il nostro streching di gruppo mattutino.»

Per quanto Samuel non capisse cosa c'entrasse questo con i Pokémon, partecipò con infinita pazienza allo streching mattutino in cerchio, piuttosto simile a una seduta di yoga, gettando continue occhiate di rimprovero alla volta di Agatha, che sembrava mordersi le labbra per non ridere. Quell'allenamento isolato gli ricordava decisamente di più una setta di fanatici, ma, pur ripromettendosi di chiedere ad Agatha per quale motivo l'avesse trascinato fin lì, lo trovò quasi divertente.

Dopo lo stretching, i ragazzi si divisero in varie coppie estratte a sorte per una piccola sfida e Jake propose che lui e Agatha si separassero per lottare ciascuno con uno degli altri allenatori.

«Con qualcuno dei più giovani bisogna andarci piano» gli confidò a bassa voce, traendolo lievemente in disparte dagli altri. «Non tutti sono esattamente all'altezza, ma... cerchiamo di non scoraggiarli, okay?»

«Non devi dirlo a me» gli sussurrò Samuel in risposta, a una prudente distanza da Agatha. «Dubito che la signorina sia capace di trattenersi.»

«Ah, con lei me la vedo io» lo rassicurò Jake, chiaramente elettrizzato. «Ho proprio voglia di scoprire se è davvero brava come affermava a Fucsiapoli!»

Nella sua curiosità quasi morbosa, Samuel faticò per un attimo a riconoscere ciò che egli stesso aveva pensato ormai un paio di settimane prima, quella mattina ventosa sull'Altopiano Blu. Era trascorso tanto tempo?, pensò fugacemente mentre si specchiava negli occhi limpidi e privi di esitazione di Jake. Gli sembrava passata una vita intera da quando aveva sfidato Agatha, l'aveva sconfitta, le aveva chiesto scusa, una vita intera da quando viaggiava da solo coi suoi Pokémon... all'improvviso gli parve che, prima di quel giorno, la sua esistenza fosse stata molto vuota.

«Divertiti» disse a Jake con una pacca sulle spalle. «È un osso duro, ti avverto.»

«È una ragazza» rispose Jake con semplicità, e Samuel comprese che con quelle parole non intendeva sminuirla, ma che si riferiva a quella grande imprevedibilità che le ragazze hanno e che egli stesso aveva imparato a conoscere... sorrise tra sé mentre Jake gli sfrecciava accanto gridando: «Ehi Agatha, ci vieni in coppia con me?»

Jake possedeva un Hitmonlee, un Lickitung e un Golem: non erano niente male, considerò Samuel mentre li osservava lottare, seduto sull'erba con gli altri ragazzi, e quell'allenatore, tutto sommato, sapeva il fatto suo, ma neppure una volta egli si sentì preoccupato per Agatha. Ormai conosceva bene la sua strategia aggressiva e furiosa, ma ben calibrata sulle sue reali forze, che rimaneva valida anche senza l'uso del veleno – perché ovviamente, per dimostrare la sua reale bravura, Agatha non avrebbe potuto tollerare di servirsi d'altro che dell'aperta e brutale forza fisica. Dall'espressione rilassata dei suoi occhi neri, egli sapeva che stava giocando senza troppo impegno, ma in ogni caso la sua superiorità emerse con evidenza schiacciante: gli attacchi di Jake erano lanciati con sicurezza, ma scoordinati e irresoluti, sembravano non arrivare mai al momento giusto, egli non sapeva approfittare del vantaggio acquisito...

Ma anche quando parve chiaro che, in una battaglia seria, Agatha avrebbe vinto senz'altro, Jake non si scoraggiò: si limitò a scoppiare a ridere rumorosamente, richiamando il suo Golem dal campo di battaglia, e a dare segno di resa alzando le braccia.

«Mi arrendo, Agatha, mi arrendo! Sei fortissima. Vedo con piacere che non mentivi a Fucsiapoli!»

Agatha avrebbe potuto gioire della sua piccola vittoria in moltissimi modi diversi, ma in quel momento, soddisfatta e compiaciuta delle parole di Jake, ella si voltò e guardò direttamente verso di lui, sorridendo di un largo sorriso felice che le illuminava gli occhi, quasi a renderlo partecipe della sua vittoria. E in qualche modo, anche se non avrebbe mai saputo dirne la ragione, Samuel si sentì davvero orgoglioso come ad aver combattuto lui stesso.

A sua volta, Samuel combatté poi con un ragazzo di un paio d'anni più di lui che possedeva solo un Schyther, ma eccezionalmente forte: per sconfiggerlo, egli ebbe bisogno di chiamare sia il suo Tauros che il suo Arcanine in successione. Quando si voltò per tornare a sedere sull'erba, dopo aver ricevuto i complimenti del suo avversario, vide che Agatha teneva gli occhi fissi su di lui e che ancora portava sul viso il suo sorriso felice.

Si succedette una lunga serie di lotte di quello stampo di cui Samuel perse ben presto il conto, ma poiché il livello fu in generale di gran lunga inferiore al loro, fu grato di essere riuscito a evitare una settimana di allenamenti inutili come quelli e dalle occhiate di sottecchi che gli gettò Agatha, continuando a mordersi le labbra, ebbe l'impressione di non essere il solo a pensarla così.

Intorno a mezzogiorno, come previsto, il gruppetto di allenatori che si era allontanato in esplorazione fece ritorno: Samuel se ne accorse quando Jake balzò in piedi e corse incontro a quattro figure indistinte che si avvicinavano in lontananza. «Ehi, Austin, com'è andata? Venite a vedere chi è venuto a trovarci!»

«Austin!»

Seduta al suo fianco, Agatha gli afferrò improvvisamente la mano con tanta violenza da affondarvi quasi le unghie. Samuel si voltò di soprassalto, quasi spaventato da quella reazione improvvisa: gli occhi di Agatha si erano riempiti d'ansia. Samuel strappò la mano dalla sua stretta.

«Che ti prende?»

«Austin!» ripeté Agatha a mezza voce. Qualcuno attorno a loro si alzò per andare incontro ai ragazzi che stavano tornando; approfittando del movimento, Agatha si chinò verso di lui per parlargli a bassa voce. «Non ti ricordi di lui? Il ragazzo della scommessa!»

Samuel non ebbe bisogno di frugare troppo nella propria memoria per capire a cosa si stesse riferendo: certo, il ragazzo presuntuoso e arrogante del Centro Pokémon di Fucsiapoli... Agatha gli scrollò il braccio fissandolo con urgenza. «Non voglio vederlo, andiamo via!»

«Ma Agatha... siamo appena arrivati!»

«Samuel, per favore!» sibilò ansiosamente Agatha.

«Ma come facciamo a...»

«Vieni, andiamo!»

Il gruppo di allenatori appena apparso si stava facendo più vicino, ora Samuel era quasi convinto di distinguere chiaramente i tratti duri di Austin; tutti gli allenatori attorno a loro erano ormai in piedi. Agatha gli diede un ultimo strattone intenso, insistendo con gli occhi, e con un sospiro profondo Samuel si alzò in piedi e la seguì silenziosamente nella direzione opposta a quella che stavano prendendo tutti.

Scivolarono in fretta lungo la spiaggia, correndo in silenzio sulla sabbia; Samuel non poté che augurarsi che i dislivelli e le dune potessero nascondere la loro fuga almeno per qualche decina di metri. Si sforzò di affiancare Agatha nella sua corsa e di afferrarle il braccio per obbligarla ad ascoltarlo.

«Mi spieghi che ti prende? Cosa penseranno tutti?»

«Sht! Zitto» ordinò seccamente Agatha, voltandosi appena verso di lui per posarsi un dito sulle labbra.

Proseguirono in silenzio per un paio di minuti, sgusciando tra gli sterpi secchi sulla spiaggia biancheggiante di calore: ben presto Samuel capì dov'era che Agatha si stava dirigendo tanto in fretta. La strattonò ancora. «Stai scherzando? Vuoi nasconderti nella grotta?»

Il silenzio di Agatha era anche troppo eloquente: con stizzita rassegnazione Samuel la seguì all'interno della stretta imboccatura nera della caverna, inoltrandovisi per qualche metro. Solo allora, finalmente, Agatha accennò a fermarsi e a girarsi verso di lui: nell'oscurità della grotta, i suoi occhi lampeggiavano dei raggi di sole che penetravano a malapena. Samuel si scoprì ad ansimare dopo la corsa.

«Sei ammattita? Ora mi spieghi perché siamo scappati come...»

«Non voglio vedere Austin» sbottò Agatha. La sua voce aveva un accento amaro e rancoroso.

«Ma cos'hai contro di lui?» protestò Samuel. Sentiva di star cominciando ad alterarsi seriamente, per la prima volta da quando la conosceva: aveva accettato di aggregarsi a Jake solo per farle piacere, e ora...

«Lo odio» ribatté Agatha freddamente. «Non avrei mai immaginato che Jake avrebbe contattato anche lui... non erano amici, in fin dei conti. Si erano solo appassionati insieme alla storia della scommessa.»

«Sei incredibile!» esclamò Samuel esasperato. «Hai voluto venire fin qui, e ora... A Fucsiapoli ti hanno provocata entrambi, che cos'ha Austin peggio di Jake?»

Dopo un attimo di silenzio, Agatha disse infine con calma glaciale: «Non mi piacevano le sue attenzioni. Questa è una risposta sufficiente?»

«Oh» disse Samuel, e per un po' non seppe trovare niente di più intelligente da dire. Il suo pensiero tornò per l'ennesima volta a quella sera, ai due ragazzi che l'avevano coinvolto nella scommessa, alle loro provocazioni... Si passò una mano tra i capelli. «Oh.»

«È tutto ciò che hai da dire?» chiese Agatha acidamente. Ora che i suoi occhi si stavano abituando alla penombra della grotta, Samuel riusciva a vedere nitidamente la sua figura appoggiata alle pareti di roccia con le braccia conserte sul petto. Sbuffò. «Il giorno dopo la scommessa mi è venuto dietro per ore, insistendo che dovevamo allenarci assieme, che mi avrebbe accompagnata sull'Altopiano Blu, che voleva cenare con me... non sembra, ma è incredibilmente appiccicoso e non voleva proprio capire l'antifona. Ora hai qualcosa di serio da dire?»

Anche se oh era comunque la risposta che gli veniva più spontanea, Samuel s'impegnò a trovare qualcosa di più serio. «Capisco.»

«Bene» disse Agatha bruscamente. «Mi fa piacere che tu capisca.»

Nei giorni precedenti, Samuel l'aveva vista alterata sino a quel punto solo a causa del suo amministratore e anche se non riusciva a immaginare quanto realmente potesse essere stato fastidioso Austin – ma in fondo, che speranze poteva avere di comprenderlo, essendo un uomo? - suppose che dovesse averla fatta arrabbiare davvero tanto. Sentendosi un poco dispiaciuto per averla aggredita, ebbe la tentazione di protendere la mano, darle una pacca sulla spalla, stabilire un contatto, ma si trattenne temendo che Agatha potesse fraintendere il suo gesto.

«Scusami, io... non lo sapevo.»

Persino nell'oscurità, egli sentì che il contegno di Agatha si ammorbidiva. «Non potevi saperlo, ma grazie per essere venuto con me. So che non eri d'accordo. Comunque, se vuoi tornare là, puoi farlo. Dì pure che abbiamo litigato o quello che vuoi.»

«Scherzi?» esclamò Samuel. «Non ci tengo a tornare a lottare contro quei ragazzini... Jake e il ragazzo contro cui ho combattuto io sembravano davvero gli unici allenatori decenti di quella masnada.»

Agatha emise una bassa risata che parve vibrare tra le pareti anguste che li racchiudevano. «Qualcuno dovrebbe dire a Jake che non è tenuto a far loro da maestro e che farebbe bene ad allenarsi da solo per la Lega.»

«Beh, se sono contenti così...» Samuel scrollò le spalle. «In ogni caso, siamo venuti qui insieme ed è insieme che ce ne andremo. E comunque Austin non mi è molto più simpatico che a te.» A dire il vero, in quel momento non pensava che potesse esistere al mondo una persona capace di odiare cordialmente Austin più di lui, sebbene non riuscisse a focalizzarne con precisione il motivo. Le fece cenno di avviarsi verso le profondità della grotta. «Forza, andiamo. Se non ricordo male, ci dev'essere un'altra uscita da questo posto... così potremo allontanarci senza dover dare spiegazioni.»

Agatha non si mosse. Samuel sentì il suo respiro rallentare nel buio, farsi incerto ed esitante. «Grazie, Samuel. Sei un buon amico.»


Camminarono a lungo nell'oscurità, l'uno accanto all'altra con le mani che scorrevano sulle pareti per mantenere l'orientamento, in silenzio. Era un silenzio quieto e rilassato, privo di ogni tensione: Samuel sapeva, con una piccola parte di sé, che avrebbe dovuto essere almeno un po' arrabbiato con lei per i suoi capricci, per averlo trascinato su quell'isola ed essersene voluta scappare dopo appena poche ore, eppure, per quanto frugasse nel proprio animo alla ricerca di sentimenti d'irritazione o di fastidio, non riusciva a trovare niente. La verità, si sorprese a pensare, era che si trovava tanto naturalmente, spontaneamente d'accordo con lei su così tante cose, anche sull'antipatia per Austin, sebbene in modo diverso, che nessuno dei suoi atteggiamenti riusciva a contrariarlo. Come quella mattina, egli ripensò di nuovo a ciò che era stata la sua vita prima di conoscere Agatha e di nuovo, inspiegabilmente, gli parve incredibilmente vuota... eppure non era passato poi tanto tempo.

«Hai sentito?» chiese Agatha improvvisamente, fermandosi. Samuel la imitò senza rispondere, tendendo l'orecchio. «Acqua» sussurrò Agatha nell'oscurità, e finalmente l'udì anch'egli: era uno scrosciare sonoro e indistinto, di cui non riusciva a percepire l'origine.

«Siamo vicini» constatò. «Quando avremo trovato l'acqua, ci basterà risalire la corrente per capire da che punto il mare entra nella grotta.»

Proseguirono ancora, ma più lentamente: il terreno cominciò a declinare, si fece sdrucciolevole e umido e la roccia calcarea di cui era costituito rese il cammino sempre più difficile. A poco a poco il rumore si fece più forte e intenso e dopo qualche minuto entrambi si fermarono quando sentirno l'acqua lambire i loro piedi.

Samuel non era mai stato all'interno di quella grotta, ma aveva sentito parlare più volte delle correnti violente che la percorrevano: in effetti, l'eco della risacca che risuonava tra le pareti ricurve era forte e fragorosa. Agatha stava probabilmente pensando la stessa cosa, perché disse: «È meglio se saliamo entrambi sul mio Tentacruel. È forte abbastanza da portarci e non rischieremo di separarci al buio.»

A questa proposta il suo orgoglio virile ebbe un moto di protesta: cavalcare il Pokémon della sua compagna non gli sembrava molto da gentiluomo. Tuttavia sapeva che Agatha aveva ragione: la grotta era buia, le correnti troppo forti... quanto bastava per doversi cercare per ore dopo una distrazione di pochi secondi.

«Va bene» disse perciò dopo pochi secondi, sentendosi un po' impacciato.

Salirono alla cieca sul dorso di Tentacruel, più volte rischiando di scivolare sulla sua schiena viscida e untosa; quando si furono sistemati, tuttavia, Samuel trovò che non era poi disagevole come aveva pensato in un primo momento.

Quando Tentacruel si staccò dal bordo del bacino, Samuel dovette reprimere il mascolino impulso di protezione che gli suggeriva di stringere Agatha per evitare che cadesse; del resto, dal modo in cui ella si chinava in avanti per suggerire a bassa voce a Tentacruel come seguire le correnti, era evidente quanto abile fosse già. A volte era difficile tenere a mente che quella ragazzina non aveva nulla da invidiargli in fatto di esperienza.

Tentacruel navigò in silenzio per qualche minuto, fendendo l'acqua coi lunghi tentacoli in grandi tonfi sordi e interrotti: Samuel si sentiva sul viso i capelli vaporosi di Agatha, via via che ella spostava il capo per cercare di vedere nel buio dove stessero andando.

«Ci siamo» la sentì mormorare. «Tentacruel, penso proprio che...»

Ma da quel momento in poi, tutto accadde molto rapidamente.

Tentacruel ebbe uno scarto inatteso e sprofondò di un paio di metri, gettando uno strido acuto che rimbombò nell'aria; con un'esclamazione soffocata, Agatha scivolò paurosamente di lato e Samuel l'afferrò appena prima che un nuovo violento scrollone la sbalzasse in acqua, tra le onde fattesi all'improvviso alte e impetuose e turbinose.

«Tentacruel, attento!»

Tra le cosce Samuel sentiva tutti i muscoli di Tentacruel che si tendevano, si contraevano, s'irrigidivano nel tentativo di resistere alla forza violenta e irresistibile di quelle correnti, udiva le sue strida angosciate e i suoi gemiti mentre si sforzava disperatamente di mantenersi in equilibrio tra le onde che lo trascinavano; istintivamente egli strinse maggiormente la vita di Agatha, attirandola a sé.

Dunque quelle erano le correnti delle Spumarine! Ora Tentacruel veniva trascinato nelle acque scure senza potersi opporre, in completa balia di quella fiumana irrefrenabile, ma poi a un tratto vi fu uno scrollone ancora più forte, un'inclinazione paurosa, e Samuel si sentì precipitare mentre una forza avversa lo strappava ad Agatha...


Quando Samuel riemerse dopo una lunga lotta dalle acque gelide e soffocanti, il nome di Agatha riempì la sua bocca prima ancora dell'aria. Si trovava al centro di un vasto bacino nero, sovrastato da una cupola di roccia solcata da profonde spaccature: il sole filtrava attraverso di esse e i barbagli dorati dei flutti cangianti si riflettevano sulle pareti in liquide evanescenze. La corrente doveva dunque averlo condotto in un punto sollevato rispetto al livello del mare.

«Agatha!» tuonò con voce stentorea che echeggiò ripetendosi sull'acqua e contro la roccia. Si sentiva le membra fiacche e intorpidite, ma si rigirò furiosamente nell'acqua, ruggendo come una belva. Dov'era Agatha? Stava bene, era ferita, aveva bisogno di lui? «Agatha!»

«Samuel! Sono qui.»

La sua voce sembrava vibrare di sollievo, ma in quel momento Samuel realizzò che mai nessuna persona vivente avrebbe potuto sentirsi più sollevata di lui all'udire quella voce. Gli parve che il sollievo lo coprisse e lo annegasse, lo avvolgesse più ancora dell'acqua. La voce di Agatha veniva dalle sue spalle: quando si voltò, egli la vide a pochi metri da sé, sulla sponda che risaliva lentamente di quel piccolo bacino. Sembrava smarrita e stravolta: i suoi capelli erano ora divenuti una massa enorme che le ricadeva sul petto e sulle spalle, avvinghiandosi in sottili serpenti scuri attorno al collo, mentre i suoi abiti erano divenuti rigidi veli aderenti sul suo corpo. Fendendo l'acqua con tutta la rapidità che le sue membra spossate gli consentivano, Samuel nuotò verso di lei.

«Stai bene?» chiese affannosamente. Quella domanda si ripeté in una strana eco un po' troppo rimbombante, e solo dopo un attimo Samuel si rese conto che Agatha gli aveva chiesto la medesima cosa. Vide un sorriso fugace attraversarle il volto e si concesse di sorridere a sua volta: erano ancora insieme, dopotutto. In qualche modo sarebbero usciti da quella piccola disavventura.

Si issò faticosamente sulla riva: forse comprendendo che sarebbe stato troppo umiliante per lui, Agatha non tentò di aiutarlo, ma si limitò a inginocchiarsi al suo fianco. Vedendo finalmente da vicino il suo pallido volto accorato, Samuel notò per la prima volta il sottile graffio che le attraversava la tempia come una linea rossa. Glielo accennò col capo. «Ti fa male?»

«Macché... è solo un graffio.» Se non si fosse sentito ancora troppo turbato, Samuel avrebbe scosso il capo.

«Diresti lo stesso anche se ti strappassero un arto.»

La sua battuta le strappò un nuovo sorriso ed ella ammise: «Probabile.» E subito dopo: «Tu, invece? Sei ferito? Puoi camminare?»

«Certo che posso camminare» ribatté Samuel con decisione, per quanto non ne fosse poi tanto sicuro. Tuttavia, non provava dolore, se non un senso d'intorpidimento ai muscoli per aver dovuto lottare contro la corrente che minacciava di annegarlo, perciò era ragionevolmente certo di non essere ferito.

«Voi maschi dite sempre così» lo rimbeccò Agatha, ma finalmente la sua fronte si rasserenò un poco. Si alzò in piedi, sfiorandogli appena la spalla con la mano in qualcosa che Samuel avrebbe chiamato una carezza se non fosse venuta proprio da lei, e si guardò attorno. Un declivio di roccia piuttosto ripido, ma con ogni probabilità affrontabile, si stendeva dietro di loro risalendo di pochi metri. «Bene, visto che puoi camminare come un vero uomo, perché non trovi un modo per portarci fuori di qui?»

«Ehi, genio» sbuffò Samuel, levando gli occhi su di lei. «Devo ricordarti chi è che ha avuto la brillante idea d'infilarsi in questa grotta?»

Non vi fu risposta, ma Samuel non poteva sinceramente dire di essersela aspettata. Si decise ad alzarsi in piedi a fatica, cercando di sgranchire le membra contratte e intorpidite, e una folata d'aria più fresca che sembrava provenire proprio dalla sommità della parete di roccia lo fece rabbrividire, rapprendendogli addosso gli abiti bagnati.

«Beh, direi che abbiamo già scoperto come fare» borbottò. «Sembra proprio che dobbiamo

arrampicarci.»

«La fai facile» constatò Agatha a bassa voce, ma si avvicinò alla parete di roccia e prese a passeggiare nervosamente davanti, studiandola con attenzione. Samuel le si accostò a sua volta, osservando il pendio alla magra luce del sole che filtrava attraverso la grotta. Era scoscesa, ma sembrava declinare gradualmente e presentare molteplici appigli a una scalata... volgendo lo sguardo verso di lei, colse nei suoi occhi arrossati dal sale uno sguardo d'intesa.

«Te la senti?» chiese cautamente, ma per tutta risposta ella si avvicinò al pendio e appoggiò le mani sulla pietra, saggiando i primi appigli.

«Te la senti, tu?» replicò maliziosamente.

Niente di cui sorprendersi, si disse Samuel scuotendo la testa: non riusciva proprio a immaginare un'Agatha che rinunciasse a una sfida... anche se quella sfida le veniva da qualcosa d'inanimato come una parete di roccia. Ma Samuel non era assolutamente disposto a permetterle di andare per prima, perciò, per evitare di stimolare ancor più la sua competitività, la scostò gentilmente col braccio e mormorò: «Vado prima io. Salire dopo una ragazza... non sta bene.»

«Oh» borbottò Agatha, allontanandosi di scatto dalla parete con un movimento che parve all'improvviso imbarazzato.

Sentendosi curiosamente consapevole del suo sguardo nero puntato su di sé, Samuel si apprestò a dare la scalata. La luce che proveniva dalla sommità della grotta era scarsa e disomogenea, ma sembrava sufficiente a vedere gli appigli che il pendio offriva: con un sospiro profondo, Samuel cominciò a salire.

Non era mai stato molto abile con quel genere di cose: solo di rado, all'interno di qualche caverna, aveva risalito pochi metri alla ricerca di Pokémon rari, ma aveva sempre preferito non correre rischi: si sentiva troppo responsabile nei confronti della propria squadra per permettersi di metterla in pericolo senza un valido motivo. In quel frangente, tuttavia, quella di aver evitato le scalate non poté non sembrargli una pessima idea. Tutto ciò che sapeva in merito era che era fondamentale assicurarsi di essere stabil sui piedi prima di cercare appigli per le mani... o qualcosa del genere. Davvero non molto, pensò mentre il duro bordo di pietra gli affondava nella carne delle mani.

«Sei in difficoltà, Oak?» esclamò Agatha, da un paio di metri appena sotto di lui. Samuel dovette reprimere l'istinto di chinare il capo per gettarle un'occhiataccia: in quel momento, rischiare di sbilanciarsi sembrava una pessima idea, oltre che molto umiliante.

«Fammi vedere come te la cavi, signorina» ribatté, sperando che la sua voce non lasciasse troppo chiaramente trasparire lo sforzo di quel momento.

«Mi piacciono le sfide, lo sai.»

Ora che Samuel era salito a sufficienza, Agatha cominciò a sua volta la scalata. Via via che procedeva, Samuel cercava di indicarle gli appigli di cui lui stesso si era servito, reclinando impercettibilmente il capo per seguire i suoi movimenti con la coda dell'occhio: il pensiero di saperla aggrappata a una parete di roccia lo riempiva, se possibile, ancor più di panico. Ma ovviamente, come al solito, si stava preoccupando troppo: Agatha riusciva a seguire puntalmente le sue istruzioni, pur trovandosi talora in difficoltà a causa della sua statura minuta, e sembrava nell'insieme piuttosto bilanciata.

Ringraziando il cielo, la salita fu più breve di quanto Samuel aveva temuto, e a ogni modo sempre meno ripida via via che salivano, tanto che a un tratto divenne quasi possibile avanzare gattonando. Prima ancora di arrivare a vedere oltre il crinale di roccia, egli sentì sul volto il soffio d'aria fredda, mobile del giorno; quando si sollevò, egli si aspettava già di veder occhieggiare una qualche finestra d'azzurro...

Ma fu un altro l'azzurro che vide.

Rimase immobile, incredulo, rischiando quasi di vacillare davanti all'enorme corpo dal piumaggio d'aspetto vellutato, bianco e azzurro e blu, che riposava statuario al centro della grotta, raggiungendo quasi col capo la sua sommità. Fu un'apparizione, un'epifania: boccheggiando davanti all'innegabilità di quella presenza, tutto ciò che Samuel fu in quel momento in grado di fare fu afferrare la mano di Agatha, che lo stava raggiungendo, e implorarla con lo sguardo di fare piano.

«Dio, Agatha... guarda!» sussurrò, attirandola a sé verso l'alto.

Quando videro, gli occhi di Agatha si fecero se possibile più grandi. Si posò una mano sulla bocca quasi a trattenere un grido, si voltò verso di lui...

È Articuno! sillabò muovendo appena le labbra, e Samuel annuì. Si sentiva il cuore battere in petto con violenza sconcertante, emozionante, e se il polso di Agatha non mentiva, anche il suo cuore aveva accelerato.

Rimasero immobili per un tempo incredibilmente lungo. Articuno dormiva. In quel momento dava loro le spalle: era apppollaiato sulla roccia nuda, colla lunga coda stesa al suolo, il capo infossato tra le ali possenti che parevano gonfiarsi impercettibilmente al ritmo gelido del suo respiro... era ammaliante, era perturbante.

Quando Samuel riuscì a riscuotersi da quell'incantesimo, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, ma di certo la luce che filtrava attraverso il soffitto si era fatta più smorta e livida. Quante ore potevano essere trascorse da quel mezzogiorno che ora sembrava così lontano?

Se fosse calato il buio, avrebbero dovuto trascorrere la notte nella caverna. A malincuore, Samuel si voltò verso Agatha per richiamarla. Aveva continuato a trattenere la sua mano per tutto quel tempo, si rese conto con un moto improvviso d'imbarazzo, ma ella non sembrava darvi peso: Samuel osservò nella magra luce il suo profilo rapito, estatico. Tutto il suo volto sembrava come trasfigurato dall'emozione, irresistibilmente attratto verso quella creatura mitica e meravigliosa, primordiale e selvaggia, che ora dormiva: i suoi occhi erano spalancati e fissi, le labbra dischiuse...

Sentendosi ancora un po' a disagio, Samuel strinse con delicatezza la sua mano. Contrariamente a quanto egli si era aspettato, Agatha si volse subito verso di lui, ricambiando rapidamente la sua stretta prima di sfilare la mano dalla sua, ma senza fretta o imbarazzo o dissimulazione.

«Andiamo» mormorò Samuel, accennandole un punto alla loro destra, là dove la corrente d'aria sembrava farsi più intensa e ventilata, ma meno fredda, poiché non condizionata dalla gelida corporeità di Articuno. «Si sta facendo buio.»

Un lampo di rimpianto attraversò lo sguardo nero di Agatha, eppure ella annuì: bagnati e infangati com'erano, doveva essere consapevole quanto lui che non era pensabile rimanere là dentro per tutta la notte. Gettò un ultimo sguardo di desiderio verso Articuno, prima di cominciare a strisciare lentamente incontro all'aria che soffiava.


Quando uscirono finalmente dalla grotta nel sole che declinava fiammeggiando verso l'orizzonte, Agatha sembrava non riusciva a smettere di ridere. Era eccitata, contenta come una bambina: si scostò dal viso i lunghi capelli sporchi, che si erano rappresi piuttosto che asciugati, e lo guardò scalpitando d'irrequietezza.

«Dio, Samuel, Articuno! Non credevo neppure che esistesse davvero!»

«Nemmeno io» ammise Samuel, anche se non riusciva a star dietro alla sua gioia: in qualche modo, tutto il suo entusiasmo lo lasciava perplesso, forse perché non l'aveva mai vista così felice, e quella vista non gli dispiaceva. La gioia donava ai suoi tratti assai più della sua compostezza signorile e una parte della sua mente si ritrovò a sperare di vederla più spesso così, d'ora in poi.

«Era... meraviglioso» esclamò Agatha, e parve che con quella parola si sforzasse di esprimere tutta la sua emozione.

Il cielo cominciava a ingrigire e l'aria attorno a loro sembrava farsi via via più fredda e ventosa; sulla costa dell'isola gemella, dove incredibilmente si erano trovati appena poche ore prima, rosseggiavano già i primi fuochi degli allenatori in isolamento.

L'entusiasmo di Agatha non li abbandonò per tutto il viaggio di ritorno, era contagioso, coinvolgente; irradiava dai suoi occhi, dalla sua voce vibrante, dalla sua risata liberatoria... era travolgente. Parlarono di ciò che avevano visto per tutta la traversata fino all'Isola Cannella, che ospitava il Centro Pokémon più vicino; dopo l'accettazione e un rapido bagno nelle loro camere, continuarono a parlarne per tutta la cena al ristorante di pesce sulla costa, durante la passeggiata sulla spiaggia buia e fresca bagnata di luna...

Quella notte, quando Samuel, ormai in pigiama, si stava già infilando sotto le coperte - dopo quella giornata infinita, il suo corpo era seplicemente esausto – una serie di colpi alla porta lo strappò al suo riposo. Con un sospiro, egli si rassegnò ad andare ad aprire.

Agatha fece irruzione come una piccola tempesta: indossava già la camicia da notte e i suoi lunghi capelli vaporosi, lavati di fresco, le scendevano in una morbida treccia rigonfia sulla spalla destra. Alla sua vista, Samuel ebbe un tuffo al cuore e si sentì avvampare.

«Agatha! Sei ammattita? Se ci vedesse qualcuno...»

Agatha respinse le sue obiezioni agitando la mano. «Non essere sciocco, starò qui solo un minuto.»

«Beh, fai in fretta, allora» borbottò Samuel, terribilmente a disagio, accostando la porta senza chiuderla, solo per evitare che qualcuno che attraversasse il corridoio potesse vederli nella stessa stanza. Si mantenne a una prudente distanza da lei, stringendosi nervosamente le braccia attorno al petto, e Agatha si accigliò.

«Santo cielo, Samuel... dormiamo sempre a pochi metri l'uno dall'altra» disse. «Sei più pudico di una donna.»

«Qui siamo al chiuso» disse Samuel seccato: quella situazione lo stava turbando sinceramente e non vedeva l'ora che Agatha se ne andasse. «Ora vuoi dirmi che cosa c'è di tanto urgente?»

«Sei terribile» disse Agatha, ma finalmente si decise a rispondergli. Sul volto le saettò di nuovo un lampo d'eccitazione. «Tu sai bene che Articuno non è l'unico Pokémon del suo genere qui a Kanto.»

«Dove vuoi arrivare?» chiese Samuel con impazienza. Possibile che Agatha lo costringesse ad allontanarsi per quasi un quarto d'ora ogni sera e che ora piombasse in camera sua di notte? Davvero le ragazze erano incomprensibili e quella lo era in particolar modo. Agatha colse di nuovo il suo disagio, ma stavolta si limitò a stringere le labbra e a fare finta di nulla. Fronteggiandolo con aria di sfida, ma mantenendo rispettosamente le distanze da lui, incrociò le braccia sul petto e lo scrutò fieramente.

«Sei mai stato alla vecchia Centrale Elettrica?»

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Capitolo 5
*** Prima ancora dell'aria (Parte Seconda). ***


Eccomi di nuovo qui!

Avrei voluto postare questa seconda parte un po' prima, ma sono stata letteralmente investita da una serie di impegni e solo stasera ho trovato il tempo di mettermi con calma a ricopiarla.

Suppongo di poter dire che qui si conclude la prima parte della storia e che, col prossimo capitolo che è stato anche il primo a essere ideato, si giungerà finalmente alla principale. Nel frattempo, non posso davvero che ringraziare di cuore Bankotsu90, crystal_93 e Mad_Dragon per le loro recensioni e anche solo per aver continuato a leggere fin qui: mi fate davvero tanto, tanto piacere!

Per la questione dei Pokémon leggendari mi rendo conto di non essere stata troppo chiara nel capitolo precedente e me ne scuso molto, ma credo che in questa parte si capirà tutto molto meglio, o almeno me lo auguro.

Vi lascio alla lettura: come al solito, un abbraccio e un bacio a tutti!

Afaneia



Capitolo quinto – Prima ancora dell'aria (Parte Seconda).


Sgusciare, attraverso la vecchia finestra rotta, nell'enorme salone pieno di ragnatele e di rifiuti, di detriti e di sporcizia della Centrale Elettrica fatiscente, e strisciare lungo i corridoi stipati di oggetti scassati e macchinari fuori uso. La puzza asfissiante, la sporcizia e la polvere che si rapprendono sui capelli e sul volto e sui vestiti: respirare appena, via via che s'inoltrano nell'edificio pericolante, scendendo lentamente le interminabili rampe di scale. Le mani allacciate per non perdersi mentre si muovono nel buio, il crepitare dell'energia statica tutta attorno a loro che cresce via via che s'inoltrano in profondità; le strida minacciose del leggendario risvegliato e affamato, le ore di attesa nell'oscurità, acquattati dentro un vecchio armadio dalle ante arrugginite, con la schiena di Agatha involontariamente premuta contro il suo petto e il profumo dei suoi capelli nelle narici per tutto il tempo... e poi, avvicinarsi a Zapdos dormiente al centro del suo impero di devastazione e rovina, nella dimora di solitudine e decadenza che esso stesso si è eletto, e ammirare il suo corpo vibrante e solido, la possenza divina delle sue ali saettanti... Per poi sgusciare via di nuovo, ripercorrere a ritroso l'infinito cammino della Centrale in una corsa eccitata che si fa irrefrenabile, coi passi che echeggiano amplificati sulle scale di ferro, e infine uscire, uscire nella notte fresca e ventosa del Percorso Dieci, nell'aria incredibilmente pulita fuori da quell'edificio chiuso, e abbandonarsi ridendo sul prato, cogli occhi ancora pieni di quella magia e incantesimo che è Zapdos.

Mentre si godeva un lungo bagno nella piccola stanza del Centro Pokémon del Percorso Dieci, che sorgeva poche centinaia di metri più a nord della Centrale, Samuel si domandò se avrebbe mai potuto dimenticare tutte quelle sensazioni. Solo un mese prima, a Fucsiapoli, chi l'avrebbe creduto mai che quella ragazzina arrogante l'avrebbe trascinato sotto le Spumarine e nella Centrale Elettrica, e chissà dove altro...? Eppure in quel momento, immerso nell'acqua calda che gli scioglieva i muscoli contratti e lavava via la repellente polvere della Centrale sporca, dopo aver visto quei Pokémon della cui esistenza ormai quasi nessuno parlava più, non riusciva a smettere di pensare a quanto più appassionante fosse la sua vita con lei.

Avevano raggiunto il Centro a notte ormai alta che quasi volgeva al mattino, a un orario tanto inusuale e sconveniente, per un ragazzo e una ragazza, che l'anziana infermiera ne era rimasta scandalizzata e aveva tirato un sospiro di sollievo quasi plateale, quando avevano detto di essersi persi e le avevano chiesto due camere separate. Samuel avrebbe potuto giurare che, se solo non si fosse trattato di uno dei Centri più piccoli della regione, dotato di sole quattro camere disponibili, l'infermiera avrebbe fatto in modo di sistemarli a due piani diversi per tenerli alla massima distanza possibile, e aveva avuto l'impressione di leggere lo stesso pensiero nello sguardo che Agatha gli aveva gettato sulle scale.

Erano arrivati decisamente troppo tardi perché valesse la pena di dormire: prima di separarsi nelle rispettive camere, lui e Agatha avevano convenuto di trovarsi a colazione all'apertura della caffetteria per decidere cosa fare. Quando Samuel si decise finalmente a uscire dall'acqua, che stava diventando troppo fredda per i suoi gusti, erano le sei e mezza: si vestì perciò con la massima calma, cercò di dare ai propri capelli, che si stavano allungando un po' troppo, una parvenza d'ordine, e scese al piano di sotto alle sette in punto.

Come al solito, Agatha si decise a raggiungerlo in caffetteria con un'abbondante decina di minuti di ritardo e l'espressione più radiosa che Samuel ricordasse di averle mai visto. Dirle qualcosa del ritardo sarebbe stato più che inutile, e tutto sommato neppure gli interessava: Agatha lo salutò mentre gli passava accanto in silenzio, limitandosi ad appoggiargli familiarmente una mano fresca sulla schiena.

«Buongiorno, Samuel. Sei stanco?»

«No» rispose Samuel dopo un istante, ed era sorprendentemente la verità. Il suo corpo era solito esprimere i suoi bisogni con grande intensità e, a dire il vero, sebbene quella non fosse stata di certo la sua prima notte trascorsa in bianco, era di sicuro la prima volta che non provava il bisogno di dormire per tre giorni di fila. Forse era ancora l'emozione provata a mantenerlo sveglio, pensò, o forse era semplicemente la gioiosa presenza di Agatha a metterlo di buonumore. La realtà era che non si era sentito mai così vivo.

Agatha sorrise. «Questa è proprio la risposta che volevo, perché avevo intenzione di proporti di partire per Smeraldopoli oggi stesso.»

Senza bisogno di spiegarlo, il suo piano era già abbastanza evidente: raggiungere Smeraldopoli in due o tre giorni e dirigersi di nuovo verso la Via Vittoria... la tana del terzo leggendario, almeno stando alle leggende. Tuttavia, in quel momento Samuel era decisamente troppo preso dalla colazione, che aveva rimandato a sufficienza, per poter pensare a qualcosa che non avesse immediatamente a che fare col cibo. Inoltre, aveva notato che nei momenti di particolare agitazione Agatha tendeva a trascurare i pasti e poiché, almeno secondo i suoi standard, quella ragazza mangiava già come un uccellino, non intendeva permetterle di rimanere oltre a stomaco vuoto. La lasciò perciò esporre il suo progetto solo quando ebbe procurato dal bancone della caffetteria, che andava rapidamente riempiendosi, un vassoio dignitosamente colmo di cibo e le ebbe messo tra le mani una tazza di caffè. Agatha lo ringraziò con un sorriso prima di proseguire.

«Abbiamo ancora quasi dieci giorni davanti a noi prima dell'inizio del Torneo. Sono più che sufficienti per esplorare come si deve la Via Vittoria e cercare Moltres.»

Samuel assentì pensierosamente. «Credi che sarà facile? La Via Vittoria è molto transitata, rispetto alle Spumarine e alla Centrale, specialmente ora; eppure nessuno è mai riuscito a vederlo o a trovare tracce della sua presenza.»

«Nessuno l'ha mai esplorata a dovere» replicò Agatha, come se proprio quello fosse il punto focale del suo piano ed ella non avesse atteso che quella obiezione per esporlo. «Non nell'ultimo cinquantennio, quantomeno, da quando è stato scavato il tunnel per salire sull'Altopiano.»

Non aveva tutti i torti: dopotutto, la Via Vittoria era stata scavata nei fianchi del Monte Argento e non doveva essere difficile, seguendo le condutture secondarie che erano state costruite per i lavori e poi abbandonate, penetrare nelle profondità delle grotte. Samuel annuì, sospingendole cautamente in mano, quasi senza farsene accorgere, la metà già imburrata di un panino. «E dove nessuno è mai andato in esplorazione, Moltres ha un sacco di spazio per nascondersi. Ragionevole.»

Agatha assentì con soddisfazione, gli occhi che ardevano di una luce di eccitazione e aspettativa. «Sono sicura che insieme lo troveremo, Samuel. Che cosa ne dici?»

Insieme l'avrebbero trovato. Tutta quella storia aveva dell'incredibile: percorrere grotte ed edifici abbandonati, trascinato senza sosta da quella scontrosa ragazza dagli occhi neri e tempestosi, solo per vedere per qualche istante la maestosità senza pari degli uccelli leggendari... certo, era assurdo e quasi ridicolo, eppure egli non desiderava altro che continuare a lasciarsene trascinare. Se qualcuno gli avesse chiesto per quale motivo stesse facendo tutto ciò, arrancare e cercare e strisciare nel buio per godere per solo qualche istante della vista di Pokémon che neppure gli interessava catturare, Samuel si sarebbe trovato piuttosto in difficoltà. Avrebbe avuto mai il coraggio di dire ad alta voce, quando non riusciva ad ammetterlo neppure a se stesso, che in fondo l'unico vero motivo che avesse era Agatha? Certo, una parte di lui, una parte virile e razionale che ancora si sforzava di mantenere un minimo di dignità, gli diceva che la ragione delle sue riceche era raccogliere informazioni su quei Pokémon tanto rari e introvabili; ma era una parte che veniva messa a tacere assai presto, quando egli si rendeva conto di non aver mai neppure provato a guardare quelle creature con gli occhi della scienza. No, le sue ricerche non c'entravano proprio niente: anzi, ripensando alla notte appena trascorsa, alla polvere e all'armadio e al profumo dei capelli di Agatha... non poteva non convincersi che se non fosse stato per lei non avrebbe goduto affatto di nessuna di quelle emozioni.

Perciò, quando finalmente la vide con soddisfazione mandar giù qualche boccone del panino che con tanta discrezione le aveva preparato, Samuel si decise a risponderle. «Hai ragione. Sono certo che insieme lo troveremo.»

Trascorsero il resto della colazione progettando i loro movimenti dei giorni seguenti, mentre la caffetteria continuava a riempirsi: si trattava perlopiù di campeggiatori che avevano pernottato lungo il percorso, ma che approfittavano del Centro per godere di una colazione calda in quelle mattine che si rivelavano ancora fredde, nonostante la primavera ormai inoltrata. Dopo aver prolungato con le più assurde scuse la conversazione, Samuel acconsentì a porvi fine e ad alzarsi dal tavolo solo quando gli parve che Agatha avesse mangiato a sufficienza. Andò a riporre sul carrello delle stoviglie sporche il loro vassoio – perché per quanto non potesse che approvare pienamente la piena eguaglianza tra uomini e donne, non si sarebbe mai sentito a suo agio a lasciarlo fare a lei e preferiva di gran lunga comportarsi da gentiluomo, per quanto era nelle sue possibilità – ma quando tornò a voltarsi verso di lei, Agatha non era dove l'aveva lasciata.

Il suo smarrimento durò poco: guardandosi attorno, Samuel non fece fatica a trovarla vicino a un tavolo occupato da tre o quattro campeggiatori – perché tali sembravano essere, almeno a giudicare dagli enormi zaini che avevano appoggiato al suolo – mentre stava chiedendo: «Ho sentito senza volere che parlavate di Lavandonia e volevo sapere...»

I ragazzi la fissavano sorridendo, che era all'incirca la reazione più comune che Samuel avesse notato quando Agatha si approcciava al genere maschile, ma ai suoi occhi i loro sorrisi apparvero untuosi e viscidi, quasi perversi, ed egli, semplicemente, scattò come una belva.

Si ritrovò al fianco di Agatha quasi senza accorgersene, sovrastandola da vicino con la sua mascolina prestanza fisica, proprio mentre i campeggiatori stavano per presentarsi; levando gli occhi su di lui, Agatha gli sorrise, per nulla infastidita dalla sua intromissione, e tornò a rivolgersi ai ragazzi: «Ah! Lui è Samuel, il mio compagno di viaggio, e io sono Agatha.»

In qualche modo, per motivi totalmente irrazionali, Samuel si sentì stupidamente rassicurato quando Agatha lo presentò, e questo lo fece sentire ancora più idiota di quanto già non stesse facendo. Cosa l'aveva spinto a precipitarsi accanto a lei come un marito geloso? Agatha era libera e indipendente e poteva parlare con chi più le piaceva, dopotutto, e per di più, ora che era più vicino, i sorrisi dei ragazzi che lo accoglievano con cenni di saluto non sembravano aver più nulla di vile o malizioso: erano solo quattro campeggiatori allegri e amichevoli, che almeno a prima vista si aggiravano tra i venticinque e i ventisette anni.

Non era abbastanza concentrato per ascoltare con attenzione i loro nomi ma, finite le presentazioni, il ragazzo più vicino ad Agatha, che aveva una nube di capelli rossi e un volto aperto e gioviale asperso di lentiggini, domandò: «Ci stavi chiedendo di Lavandonia, giusto?»

Agatha annuì in segno di attesa. I quattro ragazzi si scambiarono uno sguardo, come a raccogliere le idee e a decidere tacitamente chi tra loro dovesse parlare, e subito dopo un secondo, un ragazzo alto e moro dagli zigomi alti, si protese in avanti sul tavolo.

«A dire il vero, non ne sappiamo molto» disse. «Perlopiù sappiamo quel poco che abbiamo sentito al Centro Pokémon quando ci siamo passati, due giorni fa: dicono che ci sia uno strano Pokémon all'interno della Torre.»

Quasi istintivamente, Agatha si voltò e levò un rapido sguardo verso di lui; Samuel le diede una breve stretta al braccio in risposta, provando un'improvvisa fitta di preoccupazione. Parlare di Pokémon misteriosi, con Agatha, doveva essere più o meno come pronunciare una formula magica... e questo, per la prima volta, lo inquietava.

«Che tipo di Pokémon?» chiese per lei con simulata indifferenza.

Il ragazzo che aveva appena parlato si strinse nelle spalle, sorridendo come a scusarsi di non saperlo; al suo posto rispose invece il suo vicino, un piccoletto dai capelli color di stoppa e le orecchie a sventola, che parlò con voce sorprendentemente grave per la sua taglia. «Non lo sanno, non riescono a capirlo, o almeno non dicono niente. Pare che algi ultimi piani abbiano trovato tombe scoperchiate, pezzi di...» Interrompendosi, gettò ad Agatha uno sguardo impacciato, come se temesse di aver detto troppo, e tacque bruscamente.

«Pezzi di cadaveri?» completò ella in sua vece, incrociando le braccia sul petto in un gesto che Samuel conosceva ormai anche troppo bene. «Sono di Lavandonia, non mi sconvolgo per così poco. Ma non è nulla di strano, sono cose che capitano ogni tanto» constatò poi. «Sono i Pokémon Spettro, ogni tanto fanno questo genere di dispetti... a volte anche i Cubone, ma non è nulla di preoccupante.»

«Sei di Lavandonia?» domandò all'improvviso il ragazzo che fino ad allora era rimasto in silenzio, protendendosi in avanti. Per essere un campeggiatore, era molto pallido, notò Samuel osservandolo per la prima volta, e i suoi occhi azzurri e slavati si erano affissi su Agatha con attenzione quasi malsana. A ogni modo, Agatha annuì. «Vengo anch'io da lì, ma non ti ho mai vista. Di che zona sei?»

Anche senza toccarla, Samuel riuscì a percepire il modo in cui i muscoli di Agatha si contrassero nervosamente: benché non capisse bene perché, sapeva quanto poco le piacesse parlare della sua infanzia.

«Devo avere quasi dieci anni meno di te» rispose in modo elusivo, ma sforzandosi di sorridere. «Non puoi ricordarti di me.»

«Giusto» riconobbe il ragazzo senza insistere oltre, ma continuò a scrutarla fissamente negli occhi. «Comunque, se vieni da Lavandonia dovresti sapere cosa si dice veramente a proposito di questo genere di cose.»

«Oh, ma per favore!» sbottò Agatha allargando bruscamente le braccia, e quasi simultaneamente anche gli altri campeggiatori emisero esclamazioni esasperate, come se quella non fosse affatto la prima volta che il loro amico sosteneva una simile tesi.

«È da due giorni che ripete questa storia» le disse infatti il ragazzo con le orecchie a sventola, come a volerle suggerire di non dargli retta.

In quell'universalità di reazioni condivise, Samuel si trovò non poco confuso.

«Che cos'è che si dice?» chiese perplesso, sentendosi piuttosto indietro rispetto a loro.

«Nulla d'importante, te lo garantisco» affermò Agatha, volgendosi verso di lui con aria seccata. «Una città con un cimitero monumentale è molto superstiziosa, ma questa è la leggenda più stupida di tutte.»

«Non mi aspetterei di sentirlo dire proprio da qualcuno che viene da Lavandonia!» la rimproverò il ragazzo pallido in tono amaro. Agatha gli gettò un'occhiataccia che avrebbe ammutolito chiunque, prima di tornare a rivolgersi verso di lui.

«La leggenda di cui parla sostiene che ci sia un sepolto vivo all'ultimo piano della Torre, tutto qui. Lavandonia è una città superstiziosa, non dargli retta» concluse con un altro sguardo gelido. «Non siamo tutti così.»

«No, certo» balbettò Samuel, guadagnandosi per questo un'occhiataccia da parte del ragazzo pallido. A dire il vero, non sapeva cosa potesse essere più inquietante tra un uomo sepolto vivo all'interno di un gigantesco cimitero e dei Pokémon Spettro che si divertissero a disseppellire pezzi di cadaveri – perché per quanto Agatha la considerasse una cosa normale, a lui sembrava semplicemente grottesca e ripugnante e fu grato di non essere nato a Lavandonia.

«Beh, se non volete, non siete tenuti a credermi» borbottò infine il ragazzo, con aria evidentemente contrariata e offesa , ma non protestò oltre.

Scuotendo la testa, Agatha tornò a rivolgersi agli altri tre. «È solo di questo che stavate parlando, dunque?»

«Solo di questo» confermò il ragazzo dai capelli rossi con un sorriso gentile. «Ci dispiace non saperti dire di più, ma stavamo solo discutendo se potesse trattarsi degli scherzi di qualche Gengar o di qualche Pokémon più raro, visto che sono stati trovati segni di graffi e cose del genere.»

«Capisco» disse Agatha, e con suo grande stupore Samuel si rese conto che dalla sua voce non traspariva alcuna traccia di delusione. La sua testolina incostante stava macchinando qualcosa, realizzò immediatamente, e quest'idea non gli fece piacere.

Declinarono in fretta la loro cortese proposta di unirsi a loro per fare colazione e si limitarono a ringraziarli per le informazioni: era evidente che Agatha scalpitava d'impazienza, per qualche strano progetto che le frullava in testa...

Samuel scoprì di aver indovinato non appena uscirono dalla caffetteria passando da una porta secondaria che dava direttamente sull'esterno. L'aria era fredda e umida, vicini com'erano al fiume, e Agatha gli si rivolse entusiasta presso un angolo appartato dell'edificio.

«Dobbiamo andarci, Samuel!»

Come aspettarsi altro da lei? Scrutando i suoi occhi brillanti d'eccitazione, Samuel emise un sospiro di rassegnazione.

«Senti, Agatha... non mi sembra una buona idea» disse in tono ragionevole. «Sono solo voci assurde e hai detto tu stessa che probabilmente si tratta solo di Pokémon Spettro che...»

Agatha scosse il capo in un vortice di ciocche vaporose. «È quello che pensavo all'inizio, tutto suggeriva questo: le tombe scoperchiate, i cadaveri... sono cose che è in loro potere fare. Ma quei graffi...»

Ma certo: i graffi erano una cosa un po' troppo insolita per dei Pokémon che, per loro propria natura, non disponevano di un corpo. Samuel sentì di star perdendo terreno su di lei, ma si sforzò di mantenere il controllo. «Dunque di cosa pensi che si tratti? La leggenda di cui parlava quel ragazzo...»

«Che c'è, Oak? Hai paura degli zombie?» esclamò Agatha ridendo. «Non dire sciocchezze, nessuno ci crede... ma pensa invece se ci fosse veramente un Pokémon raro!»

Per la prima volta, Samuel temette che quella storia dei Pokémon rari fosse andata troppo in là. La soppesò cautamente con lo sguardo, passandosi una mano sul collo per prendere tempo: Agatha era eccitata come una bambina, come quando avevano visto Articuno e ora lo guardava con occhi carichi di aspettativa, di sicura attesa del suo consenso.

«Pensaci, Samuel!» insisté congiungendo le mani, ma di certo non per pregarlo. «Poremmo essere i primi a vedere questo Pokémon misterioso!»

«Io... beh, anzitutto, si può entrare nella Torre?» balbettò infine. Non riusciva a trovare nessun altro motivo da opporre al suo entusiasmo: dopotutto, se avevano trovato Zapdos e Articuno basandosi su delle leggende, non c'era alcuna ragione logica per cui non fare lo stesso con quel Pokémon misterioso, sempre ammesso che esistesse. Non le avrebbe mai detto il vero motivo per cui non se ne sentiva affatto convinto, e cioè che c'era qualcosa, in tutta quella storia, che gli dava un pessimo presentimento. Sarebbe stato incredibilmente semplice da dire, ma come al solito c'era una parte di lui, quella parte imperiosa che non riusciva ad arrabbiarsi con Agatha e a cui piaceva vederla sorridere, che non poteva tollerare di sentirle dire che era un codardo.

Agatha scrollò le spalle come se la cosa non la riguardasse minimamente. «Perché no? Certo, non si potrebbe, ma tutti i bambini giocano e si sfidano a entrare nella Torre, dopo il tramonto. È una cosa comune, l'abbiamo fatto tutti almeno una volta.»

«Anche tu?» chiese Samuel prima di riuscire a trattenersi. Chissà perché, aveva sempre avuto l'idea che Agatha fosse stata una bambina molto sola.

«Certo, anch'io.» Agatha lo guardò con perplessità da sotto le sopracciglia aggrottate, ma non parve darvi troppo peso. «C'è una porticina secondaria che non è mai ben chiusa, te la farò vedere quando ci andremo.» Gli porse una mano vibrante d'eccitazione. «Allora, Samuel, sei d'accordo? Un Pokémon misterioso!»

«Aspetta, Agatha» disse Samuel lentamente. Non avrebbe saputo dire cosa, né perché, ma qualcosa riguardo a quella storia lo stava inquietando maledettamente: in modo del tutto irrazionale, saprva di non doverci andare. «Non penso che sia una buona idea.»

La mano che Agatha gli stava porgendo non vacillò affatto. «Che c'è, Oak? Hai paura di qualche spettro?» chiese causticamente, ma con le labbra piegate nell'anticipazione di una risata. Continuò a tendergli la mano con maggiore insistenza. «Allora?»

«Non è questo, è che...» E poi, la risposta gli salì alle labbra spontaneamente, senza bisogno di cercarla più oltre. «Se dobbiamo entrare di nascosto, non penso che dovremmo farlo.»

Si aggrappò a questa spiegazione come alla verità stessa, mentre la sua mente lavorava angosciosamente per convincersi che lo fosse. E del resto, perché non avrebbe dovuto essere quello il problema? Era sempre stato una persona rispettosa e attenta alle regole, dopotutto, e non soltanto a quelle scritte... perché stare con Agatha avrebbe dovuto cambiare le cose? Perché accettare e lasciarsene convincere a infrangere le regole? Si sentì più risoluto e deciso mentre nella sua testa stabiliva che sì, era quella la verità, che era inquieto solo perché ciò che Agatha gli proponeva era sbagliato.

«Stai scherzando?»

Il volto di Agatha si fece all'improvviso di una durezza che solo di rado Samuel ricordava di aver visto. Allontanò la mano, ma senza ritrarla del tutto, come sperando di aver capito male, e ripeté: «Stai scherzando, non è vero?»

Samuel sospirò. Sapeva di non poter nulla contro la rabbia che stava per scatenarglisi addosso come una tempesta e allora, semplicemente, vi si arrese. «No, non sto scherzando.»

«Non verrai lassù solo perché pensi che sia sbagliato?» esclamò Agatha con voce spezzata, ritirando ora la mano con uno scatto secco. Indietreggiò di un passo: tutto il suo piccolo corpo contratto sembrava scosso dalla rabbia.

«Agatha...»

«No! Sei un bugiardo!» gridò Agatha, ritraendosi ancora quasi con disgusto. Sembrava ferita, ferita in un modo eccessivo e spropositato per un rifiuto, e per un attimo Samuel temette che sarebbe scoppiata in lacrime, ma questo, ovviamente, non accadde. Ma per quale motivo stava reagendo così? Samuel avrebbe voluto avanzare, toccarla, cercare di spiegarsi e difendersi e giustificarsi, ma come avvicinarsi a quel furore ferino e sconvolgente? Tornò ad aggredirlo rabbiosamente: «Perché non ammetti che hai paura e che non volevi dirmelo? Sembreresti molto meno patetico!»

Se qualcuno fosse uscito dal Centro in quel momento, o vi si fosse avvicinato, chissà che cos'avrebbe potuto pensare di loro. Ma per fortuna il percorso si stendeva vuoto e silenzioso sotto la luce limpida del primo mattino e le sue parole rimbombavano inudite contro le pendici dei monti.

«Non ho paura, Agatha» disse Samuel stancamente. Non c'era nulla che potesse dire o fare per convincerla e sapeva già in anticipo che ella non gli avrebbe mai creduto, qualunque cosa avesse detto; perciò, a che alzare la voce inutilmente?

«Va bene, Samuel» disse infine Agatha, a voce più bassa, dopo qualche attimo di silenzio. Gli rivolse uno sguardo ferito da sotto le lunghe ciglia scure, scostandosi dal volto i lunghi capelli ribelli, e Samuel ebbe una fitta atroce di rimorso, di... ma non poteva tirarsi indietro adesso! «Va bene, Samuel. Fa' come ti pare. Non ho bisogno di te. Se tu non vuoi venire, ci andrò da sola.»

Era la sua ultima sfida, la sua estrema provocazione alla sua innata protettività virile, Samuel lo sapeva e sapeva che se avesse ceduto, se avesse acconsentito solo per non lasciarla andare da sola, avrebbe perduto tutto il terreno che aveva guadagnato fino ad allora. Agatha attendeva una sua risposta con le braccia conserte, sembrava già in procinto di voltarsi per andarsene, bisognava prendere una decisione...

«Agatha, non posso permetterti di farlo.»

Ma quando Samuel si rese conto di aver detto la cosa sbagliata, era troppo tardi.

Non volevo dire questo, non fraintendermi, lasciami spiegare. Mentre qualcosa si spezzava negli occhi di Agatha che si spalancavano per lo stupore, egli avrebbe voluto dirle tutte queste cose, urlargliele, chiederle scusa, ma quando aprì la bocca per parlare si ritrovò senza fiato, ammutolito dal suo stesso orrore per ciò che aveva detto.

«Sei... sei uno...»

L'umiliazione di Agatha gli si riversò addosso come una piena: come quando combatteva, ora Agatha era furore, era impulsività e rabbia e voglia di ferire.

«Io non ti ho mai dato il diritto di decidere per me!»

Le sue parole echeggiarono tra le montagne che li circondavano, si rifransero sull'acqua, penetrarono nella sua carne. «Sei come tutti gli altri, non è vero? Tutti voi uomini che pensate di poter decidere e comandare e condannarci solo perché vi sentite più forti!»

«Agatha, non volevo dire che...» Ma le sue parole erano come una diga di sterpi davanti alla violenza del fiume in piena: Samuel arretrò verso il muro mentre Agatha lo incalzava, lo aggrediva.

«Stai zitto! Sai una cosa, Samuel? Tu non sei il mio fidanzato e neppure mio padre e non sei nessuno, nessuno per decidere per me, hai capito bene?»

In quel momento, Samuel seppe con precisione incalcolabile che una ferita che gli scavasse nella carne non avrebbe potuto essere più dolorosa di quella parola. Nessuno. Si appoggiò alla parete alle sue spalle con gli occhi che all'improvviso bruciavano e la testa che pulsava, le gambe che sembravano divenute incapaci di reggere il suo peso...

«È questo che sono per te?»

Avrebbe voluto urlare e piangere, afferrarla e scuoterla e costringerla a dire che non era vero, che aveva mentito solo per ferirlo, che era una bugiarda e che in realtà teneva a lui quanto egli stesso teneva a lei... ma non era più sicuro che fosse vero. Agatha si morse le labbra e Samuel avrebbe voluto credere che fosse pentita, che non lo pensasse davvero, che gli avrebbe chiesto scusa, ma illudersene gli avrebbe fatto troppo male e neppure per un istante permise a se stesso di crederlo.

«Dopo tutti questi giorni, tutto quello che... non sono proprio nessuno per preoccuparmi per te? È questo che sono per te, nessuno

Se solo Agatha avesse detto una sola parola che negasse quanto aveva appena detto, se solo nei suoi occhi egli avesse letto una minima traccia d'esitazione o di rimorso, Samuel l'avrebbe perdonata come aveva sempre fatto con ogni suo capriccio. Ma Agatha era orgogliosa, era testarda e altera e incrociando le braccia sul petto lo fissò severamente, immobile sull'erba umida a pochi passi da lui.

«Che c'è, Oak? Non ti sarai veramente illuso che potessimo diventare qualcosa di più?»

Non lo pensava veramente, di questo Samuel era certo, il tremito rancoroso della sua voce era rivolto verso lei stessa piuttosto che verso di lui; eppure l'aveva detto, aveva pronunciato quelle parole con tanta fredda convinzione, con tale acredine da non lasciare adito a dubbi. Forse non era ciò che pensava, ma era ciò che voleva: tenerlo lontano, rinnegare quegli ultimi giorni, negare prima di tutto a se stessa che quella loro amicizia potesse mai, un giorno...

«Lascia stare, Agatha» disse. Aveva l'impressione che a parlare fosse l'enorme baratro d'abisso che si stava scavando nel suo petto, un vuoto immane che soffriva e voleva farla soffrire a sua volta e farle provare quel senso di solitudine e tradimento e dolore che provava egli stesso... «Perché mai avrei dovuto voler costruire qualcosa con te?»

Non vi furono lacrime o grida o recriminazioni. Agatha accolse quest'orribile, vergognosa frase in un gelido silenzio distante: egli avrebbe potuto credere che le sue parole non l'avessero toccata, se solo non l'avesse conosciuta anche troppo bene.

«Hai ragione, Samuel» disse dopo qualche istante, con voce sorda ma sicura e decisa, priva di qualsiasi vibrazione. «Nessuno vorrebbe restare con me.»

Non disse nient'altro. Con le braccia ancora conserte sul petto, Agatha si voltò e si avviò a grandi passi verso l'ingresso del Centro in una folata di lunghi capelli castani, come la prima volta che gli era passata accanto, una vita prima, a Fucsiapoli. Samuel rimase immobile contro il muro, col respiro trattenuto e ansimante mentre per l'ultima volta vedeva la figura snella di Agatha che si allontanava e si perdeva.

Si passò una mano sulla fronte. Era veramente finita? Ma che cosa era accaduto? Possibile che avessero litigato a quel modo quando appena mezz'ora prima Agatha gli aveva accarezzato la schiena e gli aveva sorriso...?

Ma poi, che cos'era finito? Che cosa erano stati in quella strana inusuale alleanza? In quel momento Samuel si sentiva la testa piena di domande e di dubbi e di urla mute e gli occhi pieni di lacrime brucianti e umilianti. Il suo corpo ora fremeva e scalpitava, il suo sangue ribolliva e turbinava: Samuel voleva correre, voleva urlare, voleva fuggire il più lontano possibile da quel luogo dove ancora le parole di Agatha perduravano e lo pungevano e lo assordavano...

A pochi metri da lui il fiume ruggiva rifrangendosi in cascate col suo grido fragoroso. Samuel avanzò quasi ciecamente: sotto i suoi piedi la terra divenne molle e fangosa, l'acqua si levò in spruzzi gelidi sul suo viso ed egli ne fu grato, perché non voleva rendersi conto di stare piangendo.

L'acqua scorreva e turbinava in onde fluttuanti che s'increspavano e riflettevano la luce in spume dorate che attraevano il suo sguardo. Senza neppure sapere perché, Samuel fece uscire il suo Gyarados e udì, senza realmente ascoltarlo, il suo ruggito vigoroso, socchiudendo gli occhi. Nella voce del suo Pokémon c'era una nota interrogativa: Samuel sapeva che cosa voleva dire: che cos'hai? Dov'è Agatha?, o forse queste erano soltanto le domande che stavano affollando la sua mente...

«Se n'è andata.»

Riaprendo gli occhi, Samuel cercò disperatamente di infiggere lo sguardo in quelli di Gyarados, di sostenerlo, eppure scoprì di non esserne in grado, che gli occhi gli bruciavano troppo e lacrimavano e che il dolore diventava insopportabile...

«Agatha se n'è andata!»

Gyarados sapeva di cos'aveva bisogno. Samuel si aggrappò al suo dorso e pregò di sprofondare mentre esso s'immergeva nel fiume, e disperatamente sperò di non riemergere mai più e di annegare e di non pensare, non dover affrontare il vuoto immenso che gli aveva lasciato Agatha.




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Capitolo 6
*** Dubbio. ***


Capitolo VI – Dubbio.


Trascorsero giorni ardenti e intorpiditi, avvolti nelle spire brucianti di una febbre che era l'assenza di Agatha.

Gli sembrava non esservi luogo in tutta Kanto che non gli parlasse di lei, e non soltanto perché vi fossero stati insieme. Semplicemente gli sembrava di vivere in un mondo nel quale i suoi occhi lo scrutavano dal cielo nero che lo ricopriva di notte, nel quale i suoi ribelli capelli castani parevano flettersi al vento nelle spighe dorate dei campi di grano. Agatha gli mancava e il suo cuore la cercava ovunque, e questo lo umiliava e lo adirava perché era arrabbiato, era furioso con lei. Agatha l'aveva cacciato, aveva rinnegato tutto ciò che erano e che avrebbero potuto essere, allora perché avrebbe voluto ritrovarla?

Si allenò svogliatamente in solitudine, scegliendo i luoghi dove reputava assai meno probabile che si recasse anche lei, ma senza convinzione o entusiasmo. Persino la prospettiva del Torneo gli sembrava aver perso ogni possibile attrattiva ed egli continuava a dedicarvisi solo per non avere altre idee: dopo la Lega, pensava, si sarebbe recato a Johto per qualche mese. In quella regione avrebbe forse potuto sperare di scordarsi di lei.

Il primo di giugno sorse su un Altopiano Blu soleggiato e spazzato dal vento. L'androne era gremito, l'aria quasi irrespirabile mentre gli addetti si occupavano delle operazioni di riconoscimento dei partecipanti. C'erano iscritti di tutte le età, che parlavano tra loro mescolandosi e scontrandosi in un brusio indistinto di accenti e voci diverse: sembrava proprio l'occasione adatta per fare conoscenza e stringere nuove amicizie, ma in quel momento, sentendosi profondamente lontano da tutti coloro che lo circondavano, Samuel non era in grado di fare altro che sedere in silenzio in un angolo della sala, cogli occhi inquietamente infissi sulla porta principale.

Aspettava Agatha sin dalla mattina.

Non le avrebbe parlato, ovviamente, questo era ben chiaro nella sua mente sin da quando per la prima volta, pochi giorni prima, aveva affrontato il problema del loro probabile incontro al Torneo; no, non l'avrebbe neppure salutata, per evitare l'imbarazzante mortificazione di veder rifiutato il proprio saluto. Ma di non vederla no, non ce n'era bisogno, ed egli aveva saputo fin dal primo momento che, del resto, non gli sarebbe stato possibile trattenersi dal cercarla, sapendola tanto vicina. Come del resto avrebbe potuto, quando i suoi occhi l'avevano cercata persino nelle campagne assolate, nelle distese scure del mare notturno?

Le operazioni di riconoscimento e accettazione dovevano concludersi alle tredici del pomeriggio, ma già intorno a mezzogiorno la maggior parte dei presenti aveva già completato le ultime formalità. A mezzogiorno e mezzo, tutti erano ormai stati registrati e attendevano con vaga impazienza l'inizio del Torneo.

A mezzogiorno e quarantacinque, Samuel non aveva ancora visto Agatha.

Lo riempì un senso greve d'angoscia. Era stato tra i primi ad arrivare sull'Altopiano, quella mattina, assieme a una manciata di altri ragazzi: se Agatha fosse stata tra loro, l'avrebbe vista sicuramente nel salone quasi vuoto. Nelle ore seguenti, egli aveva sorvegliato la porta quasi ininterrottamente, aveva tenuto d'occhio la lunga fila che si stendeva dal bancone dell'accettazione, aveva scorso distrattamente con lo sguardo la folla chiassosa di allenatori che lo circondava e non poteva non esserne certo: semplicemente, Agatha non era venuta.

Quella conclusione lo sprofondò nella confusione. L'idea che Agatha decidesse di non partecipare al Torneo non l'aveva mai neppure sfiorato, e come sarebbe stato possibile? Rifiutò d'istinto il pensiero che avesse potuto rinunciare per non incontrarlo: no, Agatha, l'orgogliosa Agatha con i suoi atteggiamenti di superiorità sarebbe venuta apposta per poterlo affrontare e potergli dimostrare che non aveva bisogno di lui, che era forte e indipendente e che non necessitava del suo permesso – cosa di cui Samuel non aveva mai dubitato, malgrado ciò che le aveva detto.

Si alzò lentamente in piedi dall'angolo che aveva occupato per tutto quel tempo e attraversò a grandi passi la sala, guardandosi attorno con grande attenzione per esaminare con lo sguardo i vari gruppetti che si erano formati, alla ricerca di una massa di morbidi capelli castani, di un paio di neri occhi profondi sovrastati da scure sopracciglia dal taglio duro e altero... ma proprio come aveva in fin dei conti sempre saputo, Agatha non si trovava. Ma se non si era tirata indietro all'ultimo momento – e questa possibilità Samuel non riusciva nemmeno volendolo a prenderla in considerazione – allora l'unica ipotesi che rimaneva era più inquietante e angosciante ancora della prima e cioè che qualcosa doveva averla trattenuta. Ma cosa?

La Torre Pokémon, gli disse una voce nella sua testa, ma egli respinse anche quest'idea con un brivido. E perché no? Una ragazza sola, di notte, in quell'edificio abbandonato... No, Agatha c'era stata altre volte, persino da bambina, gliel'aveva detto lei stessa; aveva una forte squadra in grado di difenderla... È stata ai primi piani, ma stavolta voleva salire fino agli ultimi.

Basta! Non poteva più non sapere. Continuò a percorrere ansiosamente la sala, mancavano solo pochi minuti all'inizio del Torneo: cosa doveva fare?

«Ehi, Samuel! Allora, sei pronto?»

Si voltò di scatto, col cuore che balzava di aspettativa e poi subito tornava a rallentare i suoi battiti: eppure era Jake, Jake col suo fisico robusto e ben piantato e gli occhi luccicanti di eccitazione e compiacimento! Gli fu addosso in un istante, sentendosi come di fronte a un araldo del destino: non poteva essere un caso incontrarlo lì, tra tutti, in quel preciso istante in cui egli tra loro cercava Agatha.

«Jake! Jake, hai visto Agatha?»

«Agatha?» Jake scosse la testa senza la minima esitazione; il suo viso entusiasta, luminoso, non ebbe alcuna perplessità. «No, ma mi piacerebbe salutarla. L'hai persa di vista tra la folla?»

Quell'ultima, minuscola speranza che gli rimaneva si spense nel suo petto: Samuel si sentì proiettare a una distanza incolmabile, insuperabile da quella sala affollata, in uno spazio interstellare e silenzioso nel quale gli mancava l'aria e non riusciva a pensare. Non rispose.

Al suo silenzio, Jake ebbe finalmente un lampo di dubbio. «Non è venuta qui con te?» chiese cautamente. «Pensavo che foste fidanzati, voi due.»

Samuel riuscì appena a scuotere la testa, guardando altrove. Si sentiva mancare la voce, e solo con un notevole sforzo di volontà riuscì a mormorare: «Abbiamo litigato.» Non sapeva in quale senso Jake avrebbe interpretato queste parole e francamente non gli interessava neppure.

«Oh... accidenti.» Jake assunse un'aria impacciata, come se temesse di aver fatto una gaffe imperdonabile, ma parve sinceramente dispiaciuto. «Mi dispiace un sacco, ma farete pace, vedrai» esclamò in tono conciliante. «Si vede che siete fatti l'uno per l'altra.»

Samuel sarebbe altrove arrossito, avrebbe protestato che lui non era affatto innamorato di Agatha, che la vedeva solo come un'amica, ma dopo aver ignorato e rintuzzato per settimane qualsiasi ombra di questi sentimenti in un angolo remoto e appartato della propria mente, non si sarebbe di certo soffermato a riflettervi o a discuterne in quei momenti d'urgenza. Tutto ciò che contava era la salute di Agatha.

«Dev'esserle successo qualcosa, Jake» disse ansiosamente. Non sapeva neppure perché gliene stesse parlando, visto che Jake non poteva avere idea di cosa fosse accaduto tra loro, e neppure di quanto complicata e incostante Agatha fosse, eppure provava un bisogno quasi fisico di parlarne a qualcuno, di esprimere ad alta voce quel dubbio inquietante che lo stava consumando, di renderlo reale e razionale e poterne discuterne.

«Oh, Samuel!» Jake scosse enfaticamente la testa, sorridendo di lui quasi con compassione. «L'amore non ti fa ragionare, eh? Ma sono certo che non è successo assolutamente niente. Agatha non è venuta perché non voleva incontrarti, tutto qui.»

Ma certo, era ovvio che Jake non potesse capire: non conosceva Agatha, coi suoi difetti e il suo ego, il suo orgoglio e la sua attitudine alla sfida. Per lui, tutte le ragazze non erano che una massa indistinta di creature vezzose e incostanti, irrazionali e fragili e in ogni caso incomprensibili; ma in quell'idea che Samuel stesso aveva sempre condiviso del mondo delle donne, in quella massa imprecisata di vestiti e voci squillanti, egli sapeva che Agatha si stagliav a su un piano più elevato, si differenziava per la sua alterigia e il suo coraggio e la sua incrollabile determinazione. Egli sapeva perfettamente di non avere alcuna prova concreta per temere veramente per lei, eppure una voce continuava a mormorare da qualche parte in fondo alla sua mente: Ti aveva chiesto di andare con lei.

In quel momento un gong rintoccò all'altoparlante e una voce di donna annunciò che le operazioni si erano ufficialmente concluse e che tutti gli allenatori erano pregati di recarsi nell'arena fuoristante. Jake parve dimenticarsi istantaneamente dell'argomento della loro conversazione.

«Ah! Si comincia» esclamò in tono eccitato. «Vieni, Samuel, andiamo. Non ci pensare, eh? Risolverete tutto dopo il Torneo, ne sono sicuro.»

Sì, tutti gli allenatori che li circondavano si stavano alzando, raccoglievano le loro cose, si avviavano verso l'arena. Sentendosi perduto all'interno di quella fiumana di gente che lo urtava, Samuel sentì come di star nuotando controcorrente in un fiume che lo affogava. Sarebbe stato semplice abbandonarsi a quella corrente, seguire gli altri allenatori, raggiungere l'arena e pensare ad Agatha solo più tardi, a Torneo finito: quella era l'occasione della sua vita e non doveva niente a quella ragazza, non era suo padre o suo fratello o il suo fidanzato, come ella gli aveva tanto amaramente ricordato, era solo un amico (e forse nemmeno più quello!) che lei non aveva voluto ascoltare quando avrebbe potuto. Aveva fatto di testa sua, come al solito, ed egli non aveva nessuna responsabilità. Ma in quel fiume di eventi che lo trascinava, Samuel continuò a dare bracciate furiose e sfiancanti e udì la propria voce vacua dire: «Vado a cercarla.»

«Stai scherzando, vero? Sta iniziando il Torneo!»

Samuel scosse la testa. «Vai tu e divertiti. Vinci anche per me. Io non posso.»

«Tu sei pazzo.» Jake lo scosse per le spalle, fissandolo incredulo. «Samuel, tu sei qui ora. Puoi andare a cercarla domani. Di sicuro avrà cambiato idea.»

«Tu non capisci, Jake... Agatha non l'avrebbe mai fatto.»

Forse Jake lesse la sua determinazione nei suoi occhi, comprese quanto forte fosse in lui il bisogno di accertarsi che Agatha stesse bene. In ogni caso lo lasciò e proseguì a bassa voce, ma con aria profondamente delusa: «Come vuoi, allora. Spero che tu non debba pentirtene.»

Samuel sorrise appena in risposta. «Buona fortuna, Jake. Ricordatevi anche di noi quando berrete coi soldi della scommessa.»

Pochi minuti dopo, egli fendeva il cielo sul dorso di Charizard, diretto verso est.


Era stato di rado a Lavandonia, ma non era una città nella quale fosse molto difficile orientarsi, pur conoscendola appena: anche trovare la casa di Agatha, che era l'ostacolo che maggiormente aveva paventato venendo lì, non si rivelò particolarmente difficile: la famiglia di Agatha era una delle più importanti della città ed egli non ebbe problemi a farsene indicare la casa.

Non aveva idea di cosa si era aspettato di trovare. Era una villa modesta, che avrebbe fatto pensare piuttosto a una famiglia benestante che aristocratica, e tuttavia il suo aspetto squadrato, maschio, imponente gli trasmetteva un senso di autorevolezza e minaccia. Agatha non poteva che essere cresciuta in una villa del genere, pensò, sola e senza i suoi genitori. Il cancello era chiuso: aldilà di esso, tutto era immobile e silenzioso. La casa avrebbe potuto benissimo essere disabitata da mesi, con le sue imposte chiuse, eppure egli sentiva, egli sapeva che Agatha era lì, era vicina, raggiungibile...

Il cancello era alto a dir molto un paio di metri. Samuel non aveva mai fatto nulla del genere in vita sua, ma aveva un corpo forte e atletico di vent'anni e dopo tanti viaggi, dopo aver scalato la grotta delle Spumarine – quanto dolorosamente ora gli tornava alla memoria quel ricordo! - un cancello di ferro battuto non rappresentava di certo un problema.

Si guardò nervosamente attorno, ma non ce n'era bisogno: la strada era deserta, la casa isolata. Si caricò meglio sulle spalle il peso dello zaino, si aggrappò alle robuste sbarre scurite e cominciò a salire.

Nel giro di un minuto aveva raggiunto il portone e vi si era letteralmente scagliato contro. Se avesse potuto, l'avrebbe abbattuto, ma dovette accontentarsi di tempestarlo di pugni e di grida.

«Agatha! Sono io, sono Samuel. Stai bene?»

«Ti prego, Agatha, aprimi! Voglio solo parlarti.»

«So che sei arrabbiata, ma ti prego, voglio solo sapere se stai bene!»

«So che sei qua dentro, Agatha!»

Perché egli lo sapeva, lo sentiva che Agatha era a pochi metri da lui, e non importava che non fosse in grado di spiegare perché: semplicemente, egli ne era certo, ed era altrettanto certo che non lo stava ignorando soltanto perché era arrabbiata. Agatha aveva bisogno di lui.

Doveva entrare in quella casa a qualsiasi costo. Percorse a grandi passi il lato frontale dell'edificio, si avvicinò alla prima finestra chiusa: le imposte erano serrate, ma piuttosto vecchie, e chinandosi, torcendosi, sbirciando, Samuel riuscì a scorgere con grande fatica qualcosa dell'interno: era un salottino d'ingresso accogliente ma semibuio, con larghe pozze di tenebra ai margini del suo campo visivo e, proprio sul divano, una magra silhouette di donna dai lunghi capelli scuri...

Non poteva più aspettare. Agatha non lo stava ignorando, di questo egli era certo, e ora doveva aiutarla. Tornò di corsa al portone, col respiro che si faceva affannato e ansimante e nervoso, e vi abbatté disperatamente l'ultima definitiva scarica di pugni.

«Agatha! Aprimi, o butterò giù la porta.»

Non vi fu risposta, e di certo Samuel non se ne era aspettata una: riusciva quasi a vederla fisicamente, nella sua mente, seduta all'interno di quella casa silente colle braccia incrociate e gli occhi infissi sulla porta, in una tacita, ansiosa sfida alla sua volta, in attesa di scoprire se avrebbe davvero fatto qualcosa di così sbagliato...

Ma in quel momento, neppure se l'avesse voluto Samuel avrebbe potuto trattenersi: nella sua mente ottenebrata dalla paura per Agatha, i valori morali e le regole scritte non trovavano più alcuno spazio che valesse la pena d'essere preso in considerazione.

La porta era ovviamente troppo spessa e robusta per poter anche solo pensare di riuscire ad abbatterla con le sue forze. Samuel gettò al suolo una Pokéball, liberando di nuovo nell'ampio giardino il suo Charizard.

«Charizard, aiutami! Dobbiamo buttare giù la porta!»

Non occorreva possedere lo stesso numero di muscoli facciali di un essere umano per esprimere stupore: sul suo duro volto squamoso, gli occhi di rettile di Charizard si strinsero scrutandolo fissamente. Ma Samuel lo guardò con disperazione crescente, accennandogli la porta con gesto di preghiera.

«Ti prego, Charizard! È per Agatha.»

Questo fu sufficiente a fargli intendere quanto importante e urgente quel compito fosse per lui. Charizard lo scostò semplicemente dalla porta con un braccio robusto: con un moto di profonda gratitudine nei suoi confronti, Samuel si fece obbedientemente da parte mentre il suo Pokémon si scagliava in avanti.

L'impeto di Charizard fu tale da sollevare la porta dai cardini e rovesciarla al suolo in una nube di polvere e schegge di legno. Samuel entrò come una fiumana irrefrenabile, ma una fredda voce femminile ordinò: «Fermati.»

Agatha era seduta immobile al tavolo davanti a lui, coi lunghi capelli sciolti e spettinati che scendevano in cascate disordinate sulle sue spalle, incorniciando un bianco volto stravolto e smagrito, con grandi occhiaie sotto gli occhi divenuti spettralmente enormi. Indossava ancora gli abiti che Samuel le aveva visto addosso qualche giorno prima, quando si era diretta a Lavandonia, ma non fu questo a sconvolgerlo.

C'era una pistola appoggiata sul tavolo davanti a lei, e la sua pallida mano esile riposava, priva di forza e di decisione, accanto alla sua impugnatura.

«Agatha...»

«L'ho visto, Samuel. Ho visto quell'uomo. È tutto vero...»

I secondi gocciolarono tra loro come acqua, increspandosi tra le pareti di quella stanza.


In quel tempo smisuratamente dilatato, Samuel mosse un passo in avanti con lentezza innaturale e grottesca e udì la propria voce lontana dire: «Agatha, no.»

«Fermati, Samuel.»

«Agatha, ti prego...»

«Se fai ancora un passo, sparo prima a te e poi a me.»

Samuel s'immobilizzò bruscamente davanti alla canna della pistola che lo scrutava inappellabilmente, mentre il tempo ricominciava a scorrere e pareva rifrangersi come onde sulle pareti intorno a loro. Quando aveva alzato la pistola?

«Agatha, che cosa è successo?»

Gli occhi della ragazza erano folli ma incrollabilmente determinati. Con la massima lentezza, spostò lentamente la pistola verso la propria tempia. La sua mano non tremava.

«Avevano ragione loro, Samuel. Lassù, al sesto piano... ho visto una cosa orribile.»

La bocca della pistola era appoggiata contro la sua tempia pallida, tra le folte onde di capelli: Samuel la vide con tanta vividezza da immaginarne la sensazione di gelo sulla pelle. Il dito di Agatha sul grilletto tremava leggermente, Samuel lo vide dal riflesso vibrante della luce sulle sue unghie a confetto, eppure sapeva che quella lieve manifestazione d'incertezza non sarebbe stata sufficiente a fermarla. La sua mente vagliò freneticamente una serie di possibilità: poteva cercare di balzarle addosso per strapparle l'arma di mano, ma ammesso che Agatha non si fosse sparata al suo primo movimento, ci sarebbe comunque stata una colluttazione. Poteva cercare di convincerla a posare la pistola, ma conoscendola sapeva che questo l'avrebbe agitata di più.

«Parlamene, Agatha» disse allora. «Raccontalo anche a me. Che cos'hai visto?»

La mano di Agatha conobbe un tremito improvviso: per la prima volta da quando egli la conosceva, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Allontanò dalla tempia la canna della pistola.

«Non vuoi saperlo, Samuel. Nessuno deve saperlo.»

«Dimmi perché, Agatha» insisté Samuel, con voce forzatamente calma e controllata quando invece avrebbe voluto urlare. «Ti prego, dimmelo. Ti prometto... ti prometto che quando me lo avrai raccontato non farò niente per impedirti di...»

«Non sono pazza, Samuel!» esclamò la ragazza, riavvicinando furiosamente la pistola alla propria tempia con un lampo folle negli occhi. La sua voce aveva un accento disperato che Samuel non avrebbe mai potuto immaginare da lei: ebbe un fremito involontario, ma Agatha non lo notò. «Ti giuro che è la verità!»

«So che non sei pazza» disse. Ora era la sua voce a tremare. Socchiuse per un attimo gli occhi e, con sforzo indicibile, proseguì. «Per questo voglio che tu me lo dica.»

«Esiste davvero, Samuel» sussurrò Agatha, spalancando ancor più gli occhi già innaturalmente grandi. «Te lo giuro. Quello che chiamano il sepolto vivo.»


Non era possibile, era assurdo. Quelle parole, sepolto vivo, si rifransero contro le sue orecchie incredule senza riuscire a penetrare realmente le difese della sua mente, erano incredibili, irripetibili.

Sepolto vivo. Poteva davvero Agatha, la razionale, scettica Agatha aver realmente pronunciato quelle parole? No, era assurdo, era...

«Vattene, Samuel» disse Agatha. I suoi occhi erano ancora seri e disperati. «Hai promesso. Ora devi andartene.»

Certo, aveva promesso, ma nella sua mente la promessa non aveva alcun valore, perché egli sapeva che proprio quando lo cacciava da sé Agatha aveva più bisogno di lui, e che proprio ordinargli di andarsene era l'unico modo che il suo orgoglio conoscesse per gridargli di aiutarla. Si sentiva ancora incredibilmente lontano da lei, a una distanza infinita dal divano dal quale Agatha lo stava minacciando e inconsciamente implorando, eppure doveva aiutarla.

Avanzò.

«Fermati!»

Ora la pistola era nuovamente puntata su di lui, puntata in un modo tremante e incerto, e Agatha era terrorizzata. Si ritrasse sul divano.

Samuel non aveva davvero idea di cosa stesse facendo, ma questo non aveva importanza. Sapeva di non poterla disarmare con la forza, perciò non gli restava che credere alla sua richiesta d'aiuto, a quella parte di lei che in quel momento – egli lo sapeva, ne era certo – voleva davvero soltanto ch'egli le credesse e la salvasse da se stessa. Mosse ancora un passo avanti.

«Se fai ancora un passo...!» esclamò Agatha con ansia crescente, annaspando sul grilletto, ma Samuel la interruppe prima che potesse finire.

«Lo so. Spari prima a me e poi a te.»

Non si sentiva affatto coraggioso e neppure aveva un piano. Agatha non era in sé: era sconvolta, era pazza, aveva bisogno di aiuto ed egli era quasi certo che avrebbe sparato, eppure non aveva alternative: se voleva aiutarla, doveva farlo così. Socchiuse per un istante gli occhi di fronte all'ineluttabilità dell'arma puntata su di lui e follemente pregò che Agatha mantenesse la parola e sparasse davvero prima a lui prima di rivolgere la pistola verso se stessa, perché che senso avrebbe avuto vivere in un mondo privo di lei?

Ora le mani di Agatha tremavano incontrollabilmente, ma Samuel non approfittò neppure di quel momento per tentare di disarmarla fisicamente. Aspettò con la massima calma, ma senza sapere neppure cosa con precisione, con gli occhi infissi in quelli di Agatha che erano lucidi e arrossati, esageratamente grandi e gonfi.

«Samuel, per favore...»

Ma poi la sua preghiera scemò in un silenzio attonito e stupefatto. All'improvviso le braccia di Agatha le ricaddero pesantemente contro i fianchi, la pistola rotolò da qualche parte sul tappeto, sotto il tavolo, ed ella, semplicemente, fece per alzarsi e si accasciò al suolo.

Finalmente quello strano incantesimo parve spezzarsi, il tempo smise di scorrere troppo lentamente: Samuel balzò in avanti, scavalcando il tavolino, e sollevò stringendola quella magra figura esausta che lo scrutava come una bestia ferita. Sotto le sue mani, attraverso gli abiti divenuti troppo larghi, egli sentì che le sue costole sporgevano esageratamente. Da quanto tempo non mangiava?

«Agatha!»

Agatha si agitò appena tra le sua braccia, ma non fece niente per respingerlo, e i suoi occhi ora dicevano con sufficiente eloquenza ciò che la sua bocca voleva tacere. Gli appoggiò una mano sul braccio con aria terribilmente confusa.

«Samuel... mi credi, mi credi, non è vero?»

La sua bocca lo implorava, lo supplicava. Agatha aveva bisogno di lui e della sua fiducia, aveva bisogno che egli le credesse, e come si poteva non crederle? Samuel sentiva di crederle come a un bambino svegliatosi da un incubo lungo e tormentoso: le credeva come avrebbe creduto a quel bambino, al vero e sincero orrore suscitatogli da quel sogno, e nulla di più, perché certo lo spavento di Agatha era concreto e reale e innegabile. Perciò, stringendola appena a sé, mormorò contro il suo orecchio: «Ma certo che ti credo.»

Agatha serrò maggiormente la mano attorno al suo braccio in un gesto che era riconoscenza e bisogno di lui. Trasse un respiro profondo. «Grazie, Samuel, io... se tu non mi avessi creduto, avrei pensato di...»

Temendo che finisse per agitarsi di nuovo, Samuel le fece cenno di tacere poggiandole un dito sulle labbra fredde. Sapeva già anche troppo bene, senza bisogno che lo dicesse, cos'avrebbe pensato, e all'ipotesi che fosse pazza, ora, era bene non credere. Doveva occuparsi di lei e aveva bisogno di concentrarsi interamente su quel compito.

«Non importa, Agatha. Va tutto bene ora. Vieni...»

La sollevò da terra senza curasi delle sue reazioni, ed era un corpo minuscolo e tiepido che si strinse a lui involontariamente come in cerca di protezione.

No, quella non era Agatha, Samuel ne era certo e la sua consapevolezza si rafforzava ogni istante di più mentre scrutava il suo volto esangue e languido, reclinato sulla sua spalla. La vera Agatha, la sua Agatha mai gli avrebbe permesso di sollevarla così come una bambina, mai si sarebbe arresa a lui in modo tanto incondizionato e stremato. Provò una fitta di rabbia verso quella creatura mansueta e bisognosa che in tutto e per tutto ricordava Agatha, ma che non era, assolutamente non poteva essere lei e che in quel momento stava celando ai suoi occhi quella vera...

E tuttavia Agatha era lì, era nascosta da qualche parte nella ragazza affranta e spezzata che portava tra le braccia, il suo sguardo altero ardeva ancora in fondo a quei placidi occhi bovini, ed egli a qualsiasi costo l'avrebbe ritrovata.


Trascorse il pomeriggio sforzandosi di non pensare, di non riflettere: sentiva che se si fosse soffermato anche per un istante soltanto a chiedersi se Agatha fosse sincera o pazza, se gli avesse detto la verità o gli avesse piuttosto raccontato un incubo, non sarebbe stato in grado di prendersi cura di lei come doveva.

Quando Agatha si fu finalmente ritirata nella stanza da bagno al piano di sopra, Samuel richiamò ancora il suo Charizard e se ne fece aiutare a sistemare alla meglio la porta d'ingresso: il risultato non era certo un granché, ma avrebbe resistito finché non ci fosse stato il tempo di chiamare un fabbro.

Ripensò alla pistola solo nel momento in cui fece per muoversi verso la cucina e la vide sul tappeto, là dove Agatha l'aveva lasciata cadere. Gli salì un rinnovato senso d'angoscia: doveva fare in modo che Agatha non la trovasse. Alle spalle del divano, dirimpetto alla porta, c'era un'ampia credenza dalle cui ante occhieggiava verso di lui un servizio di piatti d'aspetto antico. La chiave era inserita nella serratura. Samuel sapeva anche troppo bene che era un nascondiglio ridicolo e pericoloso, ma non conosceva quella casa abbastanza bene da cercarne uno migliore: aprendo le ante con grande lentezza per evitare che tintinnassero, nascose accuratamente la pistola dietro una pila di piatti e pregò che Agatha non fosse solita osservare quella vetrina con troppa attenzione.

I piatti gli diedero un nuovo pensiero, assai più urgente, tanto che Samuel si sorprese di non avervi pensato prima: da quanti giorni Agatha non mangiava? Represse furiosamente il pensiero assillante di cosa potesse averla ridotta in quello stato, poiché non poteva, no, assolutamente non poteva permettersi di pensarvi.

La cucina era sorprendentemente moderna, ma quando Samuel provò ad aprire il grande frigorifero all'americana, lo trovò pietosamente vuoto. Era ovvio, si disse con rabbia, sbattendo con forza la porta per richiuderla: era stato assurdo anche solo credere che vi avrebbe trovato dentro qualcosa. Aprì una dopo l'altra le varie dispense, sentendosi drammaticamente smarrito dalla quantità di pentole e posate e piatti che gli sembravano decisamente sovrabbondanti anche per una famiglia numerosa, per non parlare di una ragazza sola.

Proprio la penuria di viveri contribuì a fargli ricordare che uno stomaco vuoto da molto tempo può rifiutare il cibo. Non ricordava dove avesse letto o sentito quest'informazione, ma gli parve particolarmente preziosa quando riuscì finalmente a recuperare, da qualche parte in fondo all'ennesima dispensa, una piccola scorta di scatole di zuppa instantanea, dalle etichette un po' fuori moda, ma le cui scandenze erano ancora da venire.

Quando Agatha lo raggiunse, una ventina di minuti dopo, con l'espressione di qualcuno che lo avesse cercato per un po' in casa, i capelli le scendevano ora sulle spalle in quella massa districata e luminosa, vaporosa e spettinata ch'egli aveva conosciuto nel mese precedente, ancora vagamente umidi: attorniato da quella nube gonfia e ariosa, il pallore del suo volto smagrito sembrava risaltare in modo ancora più inquietante, ma Samuel si sforzò di sorriderle come se nulla di terribile e assurdo fosse mai avvenuto tra di loro, come avrebbe fatto se l'avesse vista scendere dalla sua camera in una delle loro tante mattinate trascorse in un Centro Pokémon, o come di certo aveva fatto al vederla svegliarsi dopo uno dei loro accampamenti notturni.

Trattenendosi sulla soglia della cucina, Agatha non gli sorrise in risposta, ma Samuel vide i suoi occhi illuminarsi un poco al di sopra delle profonde occhiaie scure. Sentì che una morsa di dolore gli stringeva le viscere a quella vista: possibile che potesse esistere al mondo qualcosa, anche solo un'allucinazione in grado di ridurla così?

Dopo lunghi secondi, Agatha parlò. Disse: «Perdonami, Samuel. Sai bene che l'ultima cosa che avrei voluto è esserti di peso.»

Come dirle che egli non voleva altro che essere lì, di più: che non avrebbe potuto trovarsi in nessun altro luogo senza che il suo cuore la bramasse e la cercasse e avesse bisogno d'esser certo di dove si trovasse; che avrebbe avuto decine di giustificazioni per rimanere sull'Altopiano Blu, ma che non aveva avuto bisogno che di una sola per andarsene? Eppure si trattenne. Per la prima volta in quel momento gli attraversò la mente il fugace pensiero che Agatha poteva non avere idea di che giorno fosse e che proprio per quel motivo, forse, non si era rpesentata al Torneo quel mattino. Informarla bruscamente non poteva essere una buona idea e decise di affrontre con calma quell'argomento.

Le accennò col capo al tavolo della cucina: non aveva realmente apparecchiato, ma confidava che dopo anni di pranzi all'aperto Agatha non avrebbe fatto problemi. Si sentiva un po' impacciata. «Ho pensato che avessi fame.»

«Grazie.» Accostandosi al tavolo, Agatha fissò in silenzio per un istante la scodella di zuppa precotta, ma ancora fumante. Teneva le braccia conserte sul petto e in quel gesto che le era tanto naturale Samuel notò con una fitta di dolore quanto gli abiti che indossava le stessero larghi.

«Non vuoi tenermi compagnia?» domandò a bassa voce levando gli occhi su di lui. Si sforzava di sorridere, ma le sue labbra erano pallide e i suoi occhi soffusi di una languida foschia.

«Non ho fame» disse Samuel nervosamente, e per una volta in vita sua non era una bugia. Sentiva che se avesse mangiato qualcosa avrebbe vomitato.

Le spostò la sedia per farla sedere, proprio come tante volte aveva fatto nel mese precedente, e sedette accanto a lei. Agatha cominciò a mangiare lentamente, in silenzio, e Samuel dovette complimentarsi con se stesso: era evidente che persino sorbire cibi liquidi doveva costarle un'immensa fatica. Si fermò a riprendere fiato dopo poche cucchiaiate, poggiandosi una mano sullo stomaco come se si sentisse già gonfia. Poggiò il cucchiaio contro il bordo della scodella con un tintinnio sonoro,

«Perché sei venuto a cercarmi?» chiese direttamente, guardandolo negli occhi. Samuel non poté tratenere un sospiro: non poteva proprio evitare di dirle che giorno era. Sostenne con forza il suo sguardo.

«Ero convinto che ti avrei incontrata questa mattina sull'Altopiano Blu, ma quano non ti ho vista ho capito subito che doveva esserti successo qualcosa.»

Rimase a fissare la consapevolezza farsi strada dentro di lei attraverso le espressioni del suo viso. Gli occhi d Agatha si spalancarono via via ch'ella comprendeva il significato delle sue parole, collegava le date agli eventi, ripercorreva colla memoria i giorni trascorsi... si coprì la bocca con la mano e per un attimo Samuel temette che i suoi nervi avrebbero ceduto di nuovo, ma finalmente ella mormorò: «È passato tanto tempo?»

Samuel assentì col capo, senza saper che dire. Lo stupore doloroso negli occhi di Agatha lo ammutoliva tanto che distolse lo sguardo: la sua mente affaticata e sconvolta sembrava quasi stentare a collegare quelle informazioni, dopo tanta nebbia di confusione. Si passò una mano tra i capelli in disordine.

«Ma tu sei qui, ora» balbettò. Non aveva bisogno di dire altro. Prima che quel pensiero potesse turbarla troppo, Samuel si protese verso di lei e le prese cautamente la mano senza stringerla. Questa volta neppure per un istante distolse gli occhi dai suoi.

«Non sarebbe stato lo stesso, da solo.»

La mano di Agatha parve rilassarsi sotto la presa della sua, tuttavia ella non fece nulla per allontanarla o sottrarsi a quel contatto. Tornò a scostarsi le ciocche ribelli dalla fronte con la mano libera e le sue labbra si piegarono a modulare un grazie che non assunse mai voce, ma che a lui parve più chiaro e più udibile di decine di parole diverse.

Sottraendo finalmente la mano alla sua, Agatha accennò a mangiare ancora un poco, ma dovette darsi per vinta dopo appena un paio di minuti: era evidente che anche la minima quantità di cibo era sufficiente a riempirla dopo giorni di digiuno quasi assoluto. Poggiò definitivamente il cucchiaio in segno di resa, gettandogli un'occhiata dispiaciuta, e si appoggiò contro lo schienale della sedia per riprendere fiato.

«Samuel...» cominciò. Ora la sua voce aveva un tremito esitante: Samuel si protese verso di lei col cuore colmo di trepidazione.

«Non pensavo nulla di quello che ho detto quel giorno. Questo non significa niente, ma grazie di essere tornato da me.»


Non vi fu modo di sapere alcunché riguardo a ciò che aveva visto, o forse piuttosto immaginato, all'interno della Torre. Ogni volta che Samuel provò ad avanzare con grande cautela qualche domanda, Agatha si chiuse perlopiù in un cupo mutismo terrorizzato: tutto ciò che acconsentì a dire fu che, in qualche modo, era riuscita a scappare. Questo sembrava per lei un pensiero odioso più che un sollievo, ed egli non stentava a indovinare perché: come poteva una creatura fiera e orgogliosa come lei ammettere di aver avuto paura, anche solo per un istante?

Indagare oltre e cercare di capire qualcosa di tutta quella storia era più che impossibile: era ovvio che doveva essersi immaginata tutto, ma come? Che il funereo ambiente della Torre l'avesse suggestionata a tal punto? Eppure era ridicolo, Agatha gli aveva ben detto di esserci stata altre volte, quand'era solo una bambina...! Ma tutto ciò che ebbe modo di sapere dopo una lunga serie di caute domande incerte fu la cosa che meno gli interessava: che la pistola era appartenuta a suo padre. Anche questo però parve turbarla un po' ed egli non volle insistere.

Provò allora a cambiare strategia e le chiese, con tranquilla indifferenza: «Hai trovato qualche traccia di quel Pokémon di cui...?»

Ma una semplice occhiata quasi impietosita di Agatha bastò a metterlo a tacere. Si strinse maggiormente tra le braccia. «Non mi hai ascoltata, Samuel? Aveva ragione quel ragazzo. È stato lui.»

Lui, lui, sempre lui, ma chi era questo lui? Il sepolto vivo? E com'era possibile credere a tanta assurdità? Samuel si sentiva la testa pulsare, come troppo piena d'informazioni, greve di dubbi e d'incertezze. Che Agatha fosse convinta di aver visto il sepolto vivo nella sagoma di qualche Pokémon selvatico? Che la sua mente avesse cercato d'interpretare e razionalizzare a quel modo un'ombra o un suono?

Comunque stessero le cose, da lei non c'era più da scoprire altro e continuare a infierire sarebbe stato semplicemente crudele. Samuel attese che Agatha acconsentisse finalmente, seppur malvolentieri, a riposarsi per qualche ora, per poter uscire e andare a procurare qualcosa da mangiare. L'idea di lasciarla sola gli dava un senso d'inquietudine non indifferente, ma si sforzò di soffocarlo e sopprimerlo: non aveva alternative, se voleva fare in modo che quella ragazza mangiasse qualcosa di solido. Poteva soltanto fidarsi di lei e sperare di essere riuscito a calmarla a sufficienza.

Si concesse di vagare per qualche minuto per le quiete strade di Lavadonia: l'aria di giugno si era rapidamente fatta calda a Kanto, ma in quegli antichi paesi dalle alte case arroccate sulle pendici dei monti, tanto addossate l'una all'altra da non lasciar passare la luce del sole sulle strade strette, si sentì a un tratto cogliere dai brividi. Non aveva addosso altro che la camicia, pensò chinando lo sguardo, e gli parvero passati giorni interi da quando l'aveva indossata, quella mattina, col cuore piendo di vaga ambizione al pensiero del Torneo, e anche di intensa trepidazione all'idea di rivedere Agatha. E poi, e poi...

Finalmente smise di respingere il pensiero di ciò che aveva visto quel giorno, doveva soffermarvisi, affrontarlo. Fermandosi bruscamente in mezzo alla piazza che stava attraversando, chiassosa e vivace ed echeggiante delle grida di un gruppo di bambini che giocavano rumorosamente vicino a una fontana, levò uno sguardo incerto sulla Torre Pokémon che svettava dall'altra parte della cittadina. Non c'era mai stato – aveva attraversato Lavandonia assai di rado e mai per scopi turistici – e a dire il vero l'aveva sempre degnata di poca attenzione, se non per considerarne talora la bella architettura armonica che pareva volersi congiungere al cielo; ma questo era quanto. Come forestiero non aveva mai saputo nulla di quanto vi accadeva all'interno, né delle grottesche abitudini dei Pokémon Spettro che lo abitavano, né delle leggende che Agatha gli aveva raccontato; e ora, invece...

In quella Lavandonia irrorata di sole, nel placido pomeriggio gioioso in cui i bambini urlavano e s'inseguivano e si schizzavano, credere alle parole di Agatha era semplicemente impossibile, ma proprio questo gli diede un grande dolore: era ovvio che il sepolto vivo non esistesse, ma in tal caso Agatha doveva averlo immaginato, e con tanta vividezza e realismo da pensare che togliersi la vita fosse l'unico modo per non doverlo ricordare oltre. Ripensò ai suoi occhi smarriti e terrorizzati, alla decisione delirante della sua voce confusa... cosa poteva averla sconvolta a tal punto? Considerò per qualche minuto l'idea di consultare un medico, ma decise che non era una buona idea: se un dottore l'avesse visitata con l'aria di voler mettere in dubbio le sue facoltà mentali, nel migliore dei casi Agatha si sarebbe infuriata. No, quell'idea era impraticabile, e Samuel si ripromise di far ricorso a un medico solo se strettamente necessario: per quanto lo riguardava, sentiva che occuparsi di Agatha era un suo preciso dovere, e poco importava ch'ella fosse tanto cambiata, forse persino ammattita. Fintanto che non fosse stata lei a cacciarlo, avrebbe fatto di tutto per far riemergere, da quella creatura smarrita dagli occhi annebbiati, la sua Agatha altera e insospettabilmente gioiosa.

Quando fece ritorno alla grande casa a nord di Lavandonia, forse un'ora dopo, scoprì con lieve rammarico che Agatha era già sveglia: stava armeggiando attorno a una grossa radio nel salottino. Samuel si fermò a guardarla un po' meravigliato, finché Agatha, percependo il silenzio invadente della sua presenza, levò lo sguardo su di lui.

«Sto cercando di farla funzionare» spiegò semplicemente, indicando la radio. Sembrava quasi contrariata di essersi fatta scoprire in quell'attività. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentire come sta andando il Torneo, dal momento che...»

Non concluse la frase, tornando seccamente a studiare la radio senza più guardarlo. Samuel si sentì interdetto per un attimo, ma poi, temendo che dar troppo peso a questo episodio potesse agitarla, si sforzò di riderne con naturalezza.

«Beh, credo che sia ovvio. Starà vincendo Jake, no?»

«Oh, senza dubbio» convenne Agatha, colla voce bassa vibrante di una risata, ma ancora senza levare gli occhi dal retro della radio.

Sapeva che il fatto che Agatha fosse tanto in sé da riuscire a concentrarsi su qualcosa di così pragmatico come far funzionare una radio avrebbe dovuto sembrargli un buon segno, eppure Samuel si sentì inspiegabilmente confuso. Sistemò rapidamente in cucina ciò che aveva comprato prima di tornare in salotto ad aiutarlo: come probabilmente molti ragazzi, quel genere di cose gli era sempre piaciuto, per quanto non avesse ovviamente occasione di dedicarvisi spesso, dato il mestiere che si era scelto. Era un modello piuttosto vecchio, risalente probabilmente agli anni dell'infanzia di Agatha, ma proveniente addirittura da Unima: portava la marca di una famosa, e costosa, casa produttrice di Austropoli.

Riuscirono a sintonizzarlo dopo una decina di minuti: la voce gracchiante di un telecronista stava descrivendo in quel momento uno scontro tra un Gengar e un Nidorino.* Trascorsero il resto del pomeriggio sul divano, seduti ad ascoltare in silenzio l'interminabile telecronaca delle battaglie: Samuel si sforzava di mostrarsi tranquillo e rilassato, ma con la coda dell'occhio osservava i movimenti e le reazioni di Agatha. Non era del tutto certo che riuscisse ad ascoltare tutta la battaglia con attenzione: sul suo profilo un tempo scostante, ma ora soltanto triste, i suoi occhi parevano talora farsi estranei e distanti, coperti da una foschia impenetrabile, ed ella gli sembrava in quegli istanti incredibilmente lontana. Allora avrebbe voluto tendere la mano e toccarla, ricordarle la propria presenza e confortarla, comunicarle che era al sicuro, ma sapeva che il suo bisogno di raggiungerla era anche altro da ciò: era il desiderio profondo e incontrastabile, dopo tutti quei giorni di terribile assenza, di stabilire un contatto e sentire di averla ritrovata. Tuttavia egli sentiva che, in quel frangente, approfittare della sua debolezza sarebbe stato imperdonabile, e si trattenne.

La sera incominciò a calare attorno a loro, appena fuori dalle mura spesse che li circondavano: una sera tiepida, ancora rosata, che gettava sulle brulle pendici dei monti i suoi riflessi dorati. Di lì a poco le battaglie ebbero fine: la seconda parte delle sfide avrebbe avuto luogo il giorno seguente, per dar modo a tutti i concorrenti di combattere colla luce.

Agatha parve riscuotersi con la fine della trasmissione. Spense lentamente la radio, come se non sapesse bene cosa fare, e si voltò verso di lui. Per l'ennesima volta, Samuel fu colpito dal pallore del suo volto.

«Speriamo che Jake non abbia ancora combattuto» commentò scherzosamente, facendo per alzarsi. A giudicare dal declinare del sole dietro le cime dei monti dovevano essere le otto passate, perciò domandò: «Hai fame?»

Agatha sembrò dover riflettere persino su quella domanda tanto concreta e immediata, come se da lungo tempo non avesse più riflettuto sulle reazioni del suo corpo, ma infine annuì.

Misero assieme una cena alla buona – Samuel aveva scoperto con profondo scorno che cucinare su un fornello a gas era piuttosto diverso che farlo su un fuoco da campo – e sotto il suo sguardo vigile Agatha si sforzò di mangiare un po' di più, ma pochi bocconi di pane e di carne furono più che sufficienti a saziarla completamente: sapendo che il suo corpo aveva bisogno di riabituarsi ai cibi solidi, Samuel evitò d'insistere.

Accadde quando ormai persino l'uniforme luce grigia della sera aveva già ceduto il passo alla piena oscurità ed essi stavano riordinando la cucina: la notte lavandoniense era calata sulle case come un manto. All'improvviso, mentre Samuel era chino per una qualche ragione sul lavello, un grido inumano lacerò l'aria smorta della città.

Era un suono straziante, indescrivibile e smisuratamente lungo – decisamente troppo, troppo per un petto umano! Continuò a ripetersi echeggiando per svariati interminabili secondi, modulandosi in agghiaccianti evoluzioni sonore che risultavano stridule e assordanti da udire, e Samuel ebbe un tuffo al cuore. Si voltò bruscamente per cercare Agatha con lo sguardo, e chissà cosa avrebbe voluto dirle: è lui! È tutto vero, avevi ragione, come ho potuto credere che ti fossi inventata tutto?, ma poi si scontrò coi suoi occhi fissi e qualsiasi cosa avesse voluto dire gli morì sulle labbra.

Agatha era incommensurabilmente tranquilla e parve quasi stupita del suo spavento. Stava asciugando i piatti, seduta al tavolo: gli gettò uno sguardo di benevola comprensione e gli sorrise appena.

«Non è come pensi» disse ad alta voce, sovrastando l'orrendo suono raggelante senza darvi troppo peso. «Dev'essere un Gastly. No, aspetta: credo che sia un Haunter...»

Se Samuel avesse avuto qualcosa in mano, l'avrebbe lasciato cadere. Fissò a bocca aperta quella ragazza calmissima che solo porche ore prima aveva tentato di uccidersi davanti ai suoi occhi, troppo convinta dell'esistenza di un orribile mostro per voler anche solo continuare a vivere, e che ora non aveva la benché minima reazione all'udire quell'urlo orrendo e spaventoso e...

«Non hai paura?» balbettò. Gli sembrava che il suo cuore stesse rallentando i propri battiti per lo stupore.

«È solo un Haunter, Samuel» ribatté Agatha dolcemente, quasi pensasse di dover essere lei a tranquillizzarlo. «Non c'è nulla di cui aver paura, lo fanno sempre. Ti abituerai anche tu. Non c'entra niente con...» Tacque improvvisamente, distogliendo lo sguardo, con espressione d'indicibile tristezza.

Samuel non riusciva a capire, tutto era confuso e tutto era sbagliato! Aveva creduto che Agatha fosse pazza e non più in grado di distinguere la fantasia dalla realtà, e ora eccola lì, perfettamente lucida e razionale, a distinguere persino i versi di un Gastly e di un Haunter e a dissociarli in modo del tutto ragionevole dal pensiero del sepolto vivo...

Samuel non era un medico o uno psicanalista, ma di una cosa era certo: non era così che ragionava una ragazza pazza.

Quel pensiero lo colpì con tale intensità da lasciarlo fermo in piedi, stupidamente immobile, a scrutare Agatha come se la vedesse per la prima volta. Forse avvertendo la fissità del suo sguardo spaesato, Agatha lo guardò di nuovo con aria interrogativa. «Non preoccuparti, davvero. Sono un po' dispettosi, ma non sono Pokémon cattivi. Condividono il tipo Veleno, sai?» soggiunse con voce forzatamente vivace, quasi a voler cambiare argomento o a volerlo distogliere da qualunque pensiero lo stesse agitando in quel momento.

Finalmente Samuel cercò di riscuotersi. Annuì per dar segno di aver capito, anche se non aveva sentito una singola parola, e si guardò attorno per cercare qualcosa di cui parlare. Tossì per schiarirsi la voce.

«Sono un po' stanco» cominciò in tono incerto, guardandola con attenzione. «Se sei d'accordo, potrei andare a cercare una stanza al Centro per stanotte e poi tornare a trovarti domattina...»

Ma come c'era da aspettarsi Agatha non era assolutamente d'accordo: scosse la testa e per un attimo egli ebbe l'impressione che il tremulo spettro di una risata le attraversasse gli occhi, ma fu solo un secondo.

«Sei venuto fin qui per me, Samuel. Vado a prepararti la camera degli ospiti.»

Samuel sapeva che quello era l'unico modo che Agatha avesse per domandargli di restare, senza doversi direttamente abbassare a chiederglielo, ma la sua integerrima coscienza non poté egualmente trattenere un guizzo serpentino. «Ma siamo in casa da soli!»

«Oh, andiamo, Oak!» sbuffò Agatha, ma sorridendo appena, alzandosi in piedi. «Come al solito, sei più pudico di una donna.»

Era la stessa frase che gli aveva detto quella sera all'Isola Cannella, dopo aver fatto irruzione in camicia da notte nella sua camera. Samuel non avrebbe saputo dire se avesse ora ripetuto quelle parole senza riflettere o se piuttosto avesse consapevolmente voluto recuperare colla memoria quel momento e quella situazione tanto simile, ma una cosa era certa: forse era stravolta, forse era spaventata, ma Agatha era pienamente padrona di sé. Era terrorizzata da qualcosa di specifico e definito che aveva ben chiaro nella sua testa, e nulla di più. Certo, probabilmente il suo arrivo l'aveva aiutata a razionalizzare ciò che aveva visto e a mettere ordine nella sua testa; ma per il resto...

Si sforzò di mostrarsi tranquillo e indifferente quando Agatha, pochi minuti dopo, gli fece strada al piano superiore e gli mostrò un'anonima stanza dall'arredamento impersonale e vagamente obsoleto, ma colla biancheria appena cambiata e la finestra aperta sulla notte all'esterno per lasciar filtrare un po' d'aria. Per quanto facesse finta di nulla, comunque, anche Agatha era visibilmente imbarazzata da quella situazione: gli porse in fretta degli asciugamani puliti, una coperta in più e gli augurò la buonanotte.

Samuel non aveva mentito quando aveva detto di essere stanco: l'angoscia e lo stress della lunga giornata che aveva trascorso cominciavano a farsi sentire, ed egli si sentiva i muscoli intorpiditi e stanchi, la testa tanto confusa e pesante da scoppiare. Sedette sul bordo del letto senza spogliarsi, beandosi in silenzio del soffio fresco e vagamente umido che gli accarezzava il viso dalla finestra: chissà, forse sui monti stava piovendo.

Quel pomeriggio, nella piena luce del giorno, era stato così facile attribuire ciò che Agatha gli aveva detto agli insensati vaneggiamenti di una pazza, ma in quel momento, per la prima volta, Samuel temette d' aver tratto quella conclusione un po' troppo in fretta. Ora egli sentiva di credere alle sue parole come avrebbe creduto ai suoi propri occhi, e proprio questo lo confondeva in modo straziante. Se non avesse posto fine a quei dubbi sarebbe uscito di senno.


Attese la mezzanotte disteso immobile sul letto, completamente vestito, dapprima ascoltando i movimenti di Agatha a pochi metri di distanza da lui, e poi cercando di percepire nella notte il suo respiro, come tante volte le sue orecchie avevano fatto, senza nemmeno ch'egli se ne rendesse conto, nelle notti della sua solitudine. Sentiva che quel suono l'avrebbe rassicurato se solo fosse riuscito a udirlo, ma la camera di Agatha doveva essere troppo lontana, o forse le mura troppo spesse, ed egli sentiva soltanto i deboli fruscii della notte circostante.

Si levò dal letto solo quando fu ragionevolmente certo che Agatha stesse dormendo. Si era tolto le scarpe e le tenne in mano per percorrere il corridoio a passi felpati, scendere le scale con la massima lentezza e il cuore in gola all'idea che scricchiolassero... Fu attraversando il salottino d'ingresso, fiocamente illuminato dalla magra luce che filtrava dalle finestre, che gli venne alla mente il curioso pensiero della pistola. Sostò a lungo davanti alla credenza, incerto e diviso tra due opposti partiti. C'era veramente qualcosa da cui doversi difendere?

Si decise a prendere l'arma solo dopo lunghi tentennamenti: se quel pomeriggio aveva avuto ragione, se veramente Agatha si era immaginata tutto, allora egli sarebbe stato di ritorno nel giro di un paio d'ore a dir molto e la pistola sarebbe stata al suo posto entro il mattino. E se poi i dubbi della notte si fossero rivelati autentici, se veramente Agatha avesse avuto ragione, gli avrebbe di certo perdonato quel piccolo prestito senza permesso. La infilò cautamente in una tasca interna del giubbotto di pelle, controllando nel riflesso della vetrina che fosse invisibile a occhi esterni, e uscì.

Lavandonia gli appariva incredibilmente diversa ora, mentre la percorreva in piena notte, era vuota e silenziosa e totalmente immersa nel buio: rispetto alle vie vitali e caotiche che aveva attraversato quel pomeriggio, credere ad Agatha sembrava molto più semplice. Gettò di nuovo un'occhiata inquieta verso la cima della Torre, ora quasi invisibile e perduta nel buio, e accelerò il passo.

Per quanto egli si sentisse stupido, ingenuo e infantile, l'idea dell'esistenza del sepolto vivo martellava senza sosta la sua testa. L'unica consolazione cui la sua mente, che ancora si dibatteva nel disperato tentativo di discernere la verità in quel cumulo di fantasie superstiziose e deliranti eppure stranamente reali, tentava di aggrapparsi, era che una volta che fosse entrato dentro quell'edificio finalmente si sarebbe liberato dei suoi dubbi angoscianti; nessuno avrebbe saputo mai ch'egli aveva creduto al sepolto vivo, anche se per pochi minuti soltanto, o che era entrato a verificare all'interno della Torre. I suoi dubbi sarebbero morti entro così poco tempo ch'egli stesso avrebbe finito per dimenticarsene, si sarebbero fatti inconsistenti come acqua o come aria e sarebbero scivolati via dalla sua mente estenuata, e proprio per questo, per quei pochi minuti che ancora lo separavano dalla verità, poteva concedersi di credere a quella colossale bugia.

La famosa Torre Pokémon sorgeva piuttosto a nord-est del paese, in direzione dei monti, ma Lavandonia non era di certo nota per la sua vasta estensione: Samuel la raggiunse dopo una passeggiata di una decina di minuti appena. Non aveva incontrato nessuno: era evidente che la vita notturna, in quella zona, era drammaticamente scarsa.

Sul Percorso Dieci, poco prima del loro litigio, Agatha gli aveva parlato chiaramente di un'entrata secondaria, o qualcosa del genere: trovarla non sarebbe stata di certo difficile in pieno giorno, ma ora la luce della luna non gli sembrava una garanzia sufficiente ed egli non aveva intenzione di perdere più tempo di quanto fosse strettamente necessario, dato che si sentiva già abbastanza stupido così. Entrare, accertarsi che tutto fosse a posto e poi andarsene, dimenticare tutti quei ridicoli pensieri sul sepolto vivo: voleva sbrigarsi alla svelta e di certo non aveva alcuna intenzione di perdere tempo a cercare a tentoni nel buio.

Estrasse la ball del suo Arcanine: le sue fiamme erano molto più tenui di quelle di Charizard, ma egli sentiva d'aver già fatto lavorare troppo il suo primo Pokémon per quel giorno, e inoltre non voleva rischiare di richiamare l'attenzione dall'esterno. Checché ne dicesse Agatha, non era del tutto convinto che entrare là dentro di notte fosse considerato un comportamento socialmente accettabile, in particolar modo per un forestiero.

La compagnia di Arcanine contribuì a farlo sentire un po' più al sicuro e, per dirla tutta, anche un po' meno ridicolo: Samuel lo accarezzò a lungo, scompigliandogli il pelo folto alla base del collo, e nei suoi occhi grandi e colmi di fiducia poté bearsi della sensazione familiare, confortante, che i suoi Pokémon non l'avrebbero giudicato mai, neppure per quelle missioni insensate, e che l'avrebbero seguito ovunque ciecamente fidandosi di lui. Il pensiero che Arcanine sarebbe stato l'unico testimone e complice della follia che stava per commettere lo fece sentire molto meglio: sollevandosi in piedi dal fianco del suo Pokémon, Samuel avanzò.

Percorse in silenzio il perimetro dell'edificio, ispezionandone cogli occhi le pareti alla luce fioca ma omogenea che filtrava dalle fauci dischiuse di Arcanine: non si era mai reso conto di quanto fosse grande, osservandola da lontano. Svoltò a sinistra all'angolo a sud-est e proseguì il suo giro nella notte. Arcanne era tranquillo: per lui quella non era che una delle loro tante esplorazioni e Samuel sorrise pensierosamente della sua fiducia, grattandogli piano la zona dietro le orecchie.

Svoltarono di nuovo a sinistra, stavolta per percorrere il muro settentrionale dell'edificio; ed eccola là, ovviamente, una porticina scura dall'aria arrugginita, proprio dove sembrava più logico trovarla, precisamente all'opposto dell'entrata principale. Agatha gli aveva detto che quell'ingresso non era mai ben chiuso: quando Samuel provò cautamente ad abbassare la gelida maniglia di ferro fu salutato da uno scatto secco e immediato e la porta oscillò quasi da sola, senza bisogno di spingerla. Di certo i responsabili della Torre Pokémon non dovevano essere particolarmente preoccupati all'idea dei furti.

Entrò per primo. All'interno l'aria era più fredda che all'esterno e odorava di muffa e d'incenso, un miscuglio intenso ma che in qualche modo non gli riusciva sgradevole. Fece cenno ad Arcanine di entrare a sua volta, ma non richiuse la porta, limitandosi ad accostarla con delicatezza: aveva imparato da tempo a non fidarsi delle serrature, a maggior ragione di quelle dall'apparenza difettosa, e non voleva correre il rischio di rimanere chiuso là dentro senza possibilità di uscire. Era ovvio che non c'era nulla di cui aver paura – ovvio! continuava a urlargli la parte razionale della sua mente che si vergognava di ammettere di aver bisogno di rassicurazioni – ma quella Torre era già sufficientemente inquietante anche senza dover necessariamente celare un morto vivente nelle sue profondità.

A quel piano non c'erano tombe. Samuel si guardò attorno alla luce di Arcanine, ma senza troppa preoccupazione o aspettativa: Agatha gli aveva parlato esplicitamente del penultimo piano. Individuò le scale e cominciò a salire.

Le fiamme che danzavano tra le fauci di Arcanine proiettavano sulle pareti le mostruose ombre orrendamente distorte delle possenti sculture sepolcrali, statue di angeli e di Pokémon defunti che parevano occhieggiarlo malignamente al suo passaggio: Samuel continuava involontariamente a seguirle con la coda dell'occhio, scrutando il loro multiforme cangiare irregolare negli angoli. Qua e là lo scrutavano cautamente da dietro le lapidi gli occhi incerti di un Cubone, e più di una volta egli si voltò di soprassalto sotto lo sguardo malevolo di un Gastly, tuttavia nessun Pokémon lo attaccò, forse percependo la possenza vitale, focosa dell'Arcanine che gli camminava a fianco.

Se solo fosse stato più attento, avrebbe notato che anche la presenza dei Pokémon selvatici si diradava via via ch'egli saliva. Ma la sua mente era troppo presa dalla fretta di terminare quella ridicola ricognizione per prestarvi attenzione, anche se in circostanze normali questo non gli sarebbe di certo sfuggito, e fu per questo motivo che non si mise all'erta.

Il sesto piano, finalmente. Samuel si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando si trovava lì già da svariati secondi, immobile col cuore palpitante a fissare nel buio. Si riscosse bruscamente, sentendosi seccato in cuor suo anche solo per aver esitato: non c'era niente di cui aver paura, si disse con rabbia. Anche solo a un'occhiata superficiale era evidente che quel luogo non celava nulla, esattamente come i piani sottostanti; che era vuoto e squallido, spoglio e silenzioso come qualsiasi dannato cimitero, e che salire fin lì era stato un maledetto spreco di tempo.

Beh, ormai che era lì, tanto valeva dare almeno un'occhiata in giro. Provava un senso persistente di rabbia verso se stesso, verso la sciocca ridicola idea che gli era venuta, verso i suoi dubbi e la sua credulità, ma proprio per questo motivo, quasi per autopunirsi, sentiva di dover rimanere lì, fissare fino in fondo la vergogna della sua dignità perduta. Avanzò lentamente, tutto immerso assieme ad Arcanine al centro del cerchio di luce che si perdeva progressivamente nel buio, osservando il ritmico danzare delle ombre, ora lunghe e ora corte, che si ritraevano e si protendevano e si piegavano e si spezzavano quasi sprofondando nel silenzio d'abisso che lo avvolgeva...

Vagò senza scopo tra le tombe per un tempo infinito, senza riuscire a decidersi a smettere e a lasciar perdere, a porre fine a quella tortura. A un tratto Arcanine, col suo superiore senso dell'orientamento, dovette accorgersi del loro girare in tondo e gli diede una timida testata contro il retro delle ginocchia, forse cercando di richiamarlo all'ordine. Finalmente Samuel si fermò. Era ancora arrabbiato, ma all'improvviso si rese conto di sentirsi anche immensamente deluso, e di non capire perché.

«Hai ragione, Arcanine» disse. Le sue parole rimbombarono nel silenzio, ingigantendo a dismisura la portata della sua disillusione. «Andiamo via. Qui non c'è proprio niente. Agatha... temo che abbia bisogno di aiuto.»

Solo in quel momento egli realizzava quanto profondamente avesse desiderato di trovare qualcosa, qualsiasi cosa che dimostrasse che Agatha non si era immaginata tutto. Non certo un morto vivente, no – era impossibile! - ma un Pokémon, uno Spettro, un... e invece, non c'era nulla. Solo un'ampia spianata di terreno e lunghi filari di lapidi. Si voltò e tornò lentamente sui propri passi. Agatha era veramente pazza, si era inventata tutto.

È passato tanto tempo...

Il suo cuore saltò un battito. Samuel si fermò così bruscamente da rischiare d'inciampare nei propri piedi. Era una voce, egli ne era certo, aveva udito una voce! Ma dove? Si guardò freneticamente attorno, girò su se stesso trattenendo il fiato: dove...

Sei tornata a prendermi?

Si gettò di corsa tra i filari di tombe, cercando invano di aggrapparsi al suono di quella voce di farsene guidare nell'oscurità; avrebbe voluto urlare, chiederle di parlare ancora, ma temeva parlando di sovrastarla con le sue proprie parole e di perdere un'indicazione preziosa. Arcanine stentava a stargli dietro: Samul percorreva tutto con lo sguardo, cercava, frugava...

Ho un ricordo di te che mi dicevi...

Alla sua destra! Si gettò attraverso i corridoi silenti, scavalcò d'un balzo una lapide di marmo rosato, si precipitò nel buio. Agatha non mentiva, non era pazza!

Pensa che bellezza.

La voce era più forte, era vicina, vicina, Samuel era certo di non sbagliarsi! Nella luce del fuoco di Arcanine ora vedeva profilarsi in fondo al corridoio una scala che s'inerpicava, un'ombra, il mormorio indistinto si fece vera voce, la parola incorporea divenne carne, Agatha aveva ragione...

Sarà un po' come morire ogni giorno.

c'era davvero un morto vivente nella Torre.


*Tributo direi quasi obbligato, in questo contesto, all'epico filmato di apertura di Pokémon Rosso e Blu.


Eccomi qua, so di essermi fatta attendere un po', ma almeno posso postare proprio di venerdì 17!

Ho notato che nei commenti avevate già intuito su cosa si sarebbe incentrata la storia e finalmente, dopo quasi sessanta pagine, ci siamo: ormai volevo confrontarmi anche io con questo elemento ricorrente delle Poképasta. Spero di risultare all'altezza nei prossimi capitoli.

Forse a qualcuno potrebbe interessare sapere che la scena in cui Charizard butta giù la porta e Agatha minaccia Samuel è stata la prima di tutta la storia a essere scritta, durante una lezione particolarmente noiosa, tanto per scrivere qualcosa. Non avevo in mente niente di preciso e volevo solo passare il tempo, ma quella scena mi è piaciuta tanto che ho voluto costruirle una storia intorno.

Come al solito, un caldissimo ringraziamento e un caro abbraccio a cristal_93, a Mad_Dragon e a Bankotsu90 per le loro recensioni e i loro pareri, contano molto per me!

Alla prossima

Afaneia

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Capitolo 7
*** Inferno. ***


Buongiorno e buona domenica a tutti!

Mi rendo conto di aver lasciato passare un tempo assurdamente lungo dall'ultimo aggiornamento, ma devo confessare che ho avuto orari di lezione improponibili e la sessione non mi ha di certo aiutata; comunque ho deciso di prendermi qualche giorno di riposo per dedicarmi a scrivere e ad aggiornare la storia, e ne avevo proprio bisogno. Spero di non impiegare lo stesso tempo anche per il prossimo aggiornamento!

Questo capitolo è stato una bella sfida per me, ma non penso che sarei stata in grado di scriverlo meglio di com'è venuto: nell'insieme, sono abbastanza soddisfatta. Spero di non aver deluso troppe aspettative, se mai qualcuno ne avesse nutrite al riguardo, e di non lasciare molti dubbi o punti poco chiari.

Tutti i miei ringraziamenti e i mie abbracci a cristal_93, a Bankotsu90 e a Persej Combe per le loro recensioni e i loro pareri: contano davvero tantissimo per me!

Detto questo, non posso che lasciarvi alla storia: buona lettura e buon primo giorno di estate!


Afaneia


Capitolo VII – Inferno.


Fuoriusciva a mezzo da una profonda buca nel terreno. Le sue carni erano scavate, flaccide e marcescenti, vive e purulenti sul petto, come se vi fossero state ferite che ormai non potevano più sanguinare; ma ferite lunghe e sottili, come se si fosse dilacerato il petto con le sue proprie unghie... Era nudo, era calvo, colle intimità orrendamente rattrappite, il cranio ferito e ammaccato cosparso di nauseabonde croste. Il suo volto era grottescamente scavato, esangue sotto una sozzura nera che lo ricopriva, i suoi occhi affondavano all'interno di orbite profonde come abissi...

«Sei qui, finalmente» disse muovendo con difficoltà la bocca marcescente, come se un tempo qualcuno gli avesse slogato la mandibola. Ma Samuel capì che non parlava direttamente, intenzionalmente con lui; parlava con la persona a cui si stava rivolgendo prima del suo arrivo, e che ora identificava con lui.

«Non sono stato io a rinchiuderti qui dentro!» esclamò, immobile là dove si era fermato a pochi metri di distanza da lui, poiché questa gli sembrava l'unica cosa che il mostro poteva desiderare di sentirsi dire da lui, o dalla persona alla quale credeva di rivolgersi.

Gli occhi del mostro saettarono da una parte all'altra dello stretto corridoio tra i due filari di tombe: forse cercava se vi fosse qualcun altro oltre a lui?

«Sono in trappola» disse con bassa voce lenta e rantolante, muovendo un passo nella sua direzione.

Era troppo, era molto più di quanto Samuel fosse in grado di reggere. Alla vista di quel corpo ripugnante che si muoveva verso di lui, delle sue ferite straziate e purulente che si riaprivano nel torcersi dei muscoli, dei suoi orridi e grotteschi movimenti nel tentativo di uscire dalla buca, un senso profondo di orrore e di disgusto lo invase. Senza dare allo zombie il tempo di reagire, né a se stesso quello di riflettere, afferrò la pistola dalla tasca del giaccone, tolse la sicura e sparò tre colpi nella direzione di quell'essere.

Samuel Oak era un allenatore, non un tiratore. Di quei tre colpi, solo uno andò a segno e affondò nella carne putrescente del sepolto vivo, trapassandola come acqua: l'orrida creatura fu spinta all'indietro per la forza d'urto del proiettile, col petto trapassato da parte a parte – ma non chiuse gli occhi, non gridò, non ebbe reazione. Rimase stupidamente in piedi col volto decomposto privo di qualsiasi espressione di stupore o dolore o rabbia, e Samuel comprese improvvisamente che essendo morto non poteva morire, e che alle sue carni decomposte non era dato provare dolore.

«Mi sento solo» disse semplicemente.

Anch'io fu il suo primo, drammatico pensiero, e anche l'ultimo, prima di cominciare a correre.

Ripercorse a ritroso il corridoio tra le tombe, con Arcanine che gli correva dietro guaendo di terrore: ma ora in che zona della Torre si trovavano, in quale angolo di quella stanza immensa? Rimpianse di non aver memorizzato la posizione delle scale, di non aver scelto dei punti di riferimento mentre scavalcava correndo lapidi e statue che mai come in quel momento gli erano parse identiche e indistinguibili tra loro. Attratto da quella voce, solo pochi minuti prima aveva attraversato di corsa la stanza buia e ora non sapeva più dove si trovasse e poteva darsi persino che avesse girato in cerchio...

«Molto, molto solo» disse all'improvviso una voce nel buio.

Il sepolto vivo era ora di fronte a lui, a due o tre metri scarsi di distanza. Samuel si scoprì ad ansimare rapidamente mentre, con gli occhi infissi in quell'abominevole sembiante, cercava di convincersi della concretezza della sua presenza. Non era possibile – l'aveva superato. Quel mostro poteva muoversi all'interno della Torre con rapidità disarmante. Era in trappola.

«Vuoi venire con me?»

«No!» tuonò Samuel. Sapeva di starsi comportando in modo illogico e insensato, ma che poteva fare, poiché non vedeva vie di fuga? «Non sono io che ti ho fatto questo! Non è stata colpa mia!»

Il sepolto vivo lo fissò in silenzio senza dar segno di aver udito o tantomeno comprese le sue parole: Samuel rimase come sospeso, in attesa di una qualsiasi risposta o reazione a ciò che aveva detto, senza desiderare altro che di vedere cosa sarebbe accaduto a quel punto.

«Mi sento solo» ripeté ancora il sepolto vivo e poi all'improvviso, calando dall'alto con un sibilo acuto, apparve tra di loro un grosso Gengar.

Samuel rimase sulle prime sconvolto, del tutto stupefatto: di tutto ciò che aveva creduto, non si sarebbe aspettato certo che... ma era un Pokémon, quantomeno.

«Vuoi lottare?» chiese stupefatto, e non vi fu risposta, ma non poteva che essere così. Quello era un allenatore zombie, e quello il suo Pokémon fantasma... in un modo del tutto orribile e allucinato, aveva senso. «Se vinco, mi lascerai andare?»

Di nuovo non vi fu risposta, ma quale altra scelta aveva? Era pur sempre una lotta ed era la sua unica possibilità.

«Va bene, va bene... lottiamo.»

Sentirsi sollevato era da folle, Samuel lo sapeva bene, eppure in quel momento era così che si sentiva: di tutta quella storia, di quell'orribile luogo, una lotta era l'unica cosa ch'egli potesse concepire. Il mostro voleva una lotta, Samuel era un allenatore: ma certo! Cosa poteva esserci di più logico, di più conseguente? S'egli avesse vinto la lotta, il sepolto vivo avrebbe smesso d'inseguirlo e di raggiungerlo. Era così, doveva essere così, e Samuel represse furiosamente nella propria mente ogni possibile ombra di dubbio che vi si stesse insinuando al riguardo, sopprimendo con rabbia i viticci sottili d'incertezza che minacciavano di minare quell'idea. Non poteva essere altrimenti! Una lotta era stata sempre un mezzo di scambio o una fonte di prova, era sempre stato così per tutti gli allenatori... e negli ultimi anni egli non aveva mai perso. Sì! Si sarebbe aperto la strada lottando, come sempre aveva fatto negli anni dei suoi allenamenti, come se quella Torre diabolica non fosse stata altro che il dedalo senza fine di una grotta nella quale egli si fosse perso e il sepolto vivo, e il Pokémon che combatteva con lui, nient'altro che qualcuno dei tanti Pokémon selvatici che lo allontanavano in continuazione dal fiotto d'aria fresca che giungeva dall'alto e che voleva mostrargli la strada per uscire.

«Vai, Arcanine!» ordinò seccamente, ed esso non se lo fece ripetere due volte. Con un balzo poderoso delle zampe ben piantate, Arcanine si schierò davanti a lui, faccia a faccia con Gengar, al centro di un immaginario campo di battaglia che Samuel vedeva disegnarsi con rapidità nella propria mente, e ruggì. Il suono di quel ruggito gli diede un senso di conforto che fino a quel momento gli era parso inimmaginabile: Samuel sentì il sollievo crescere e dilagare nel suo petto come una calda marea. Arcanine non lo aveva mai deluso. Li avrebbe tirati fuori entrambi da quella situazione e l'incubo sarebbe finito.

Il sepolto vivo non disse una parola. I suoi occhi si mantenevano vacui e privi ed egli li teneva infissi sul terreno di scontro quasi senza vederlo, eppure Samuel era convinto ch'egli fosse attento e consapevole di quanto stava per accadere.

Se lottare era la sua via di salvezza, Samuel non poteva permettersi di perdere tempo. Arcanine attendeva i suoi ordini con la sua infaticabile fiducia ed egli vedeva i suoi fianchi trepidare d'impazienza e di eccitazione; poteva leggere la sua voglia di combattere nella luce che tremava sulle pareti... Non era il frangente adatto per adottare una strategia di tipo passivo-difensivo: in quella lotta dall'esito fatale, egli non poteva permettersi di lasciare la prima mossa al suo nemico.

«Arcanine, Fuocobomba!»

Arcanine non ebbe esitazione. Le fiamme che eruppero dalla sua bocca illuminarono a giorno l'aria stantia dell'enorme sala, divamparono come fiumane incandescenti, tanto che persino Samuel, che pure vi era abituato, chiuse istintivamente gli occhi e vi si portò una mano davanti, pur continuando a guardare, fissando con difficoltà attraverso le fessure tra le dita: il fuoco aveva avviluppato il corpo di Gengar, egli sentiva le sue strida di dolore soffocate dal crepitio delle fiamme, eppure presto esse si sarebbero dissolte... nella luce abbagliante di quella torcia, Samuel non seppe resistere al gettare un'occhiata al suo orrido nemico. Com'era naturale, i suoi occhi erano ormai quasi ciechi, troppo sensibili alla luce: disturbato dall'incendio che divampava a pochi passi appena da lui, il sepolto vivo si era riparato il volto con ambo le braccia e ora, attraverso i viluppi delle sue membra scheletriche, egli leggeva la smorfia di dolore e fastidio che gli si era dipinta sulla bocca.

Rapido com'era iniziato, il fioco si consumò e si spense e la sala sprofondò di nuovo nel buio, ma più profondo e impenetrabile di quello che l'aveva preceduto. Samuel si ritrovò ad avere gli occhi lacrimanti, abbagliati dalla luce intensa che aveva folgorato la sala, e si rese conto di non riuscire più a vedere in quell'oscurità. Trovarsi al buio senza preavviso lo riempì di terrore: come seguire ora la battaglia?

«Arcanine!» urlò, continuando a sbattere le palpebre per cacciare via le lacrime e abituarsi a quella nuova oscurità. Come avrebbe fatto il suo Pokémon a lottare senza il suo aiuto? «Arcanine, stai attento!»

Udì provenire dall'oscurità, a una distanza imprecisabile da lui, un suono orribile e umidiccio, tanto evocativo da dargli la precisa sensazione di qualcosa di gelido e viscido che gli scivolasse lungo la schiena, e urlò di nuovo: «Attento!»

Era certo che Gengar stesse attaccando, quel suono che aveva sentito non poteva essere altro che quello di una Leccata, ed egli sapeva bene quanto infida potesse rivelarsi quella mossa. Infisse disperatamente gli occhi davanti a sé, cercando di penetrare lo schermo della notte: sì! Riusciva a intuire la grossa sagoma nera di Arcanine, stagliata contro il buio che stava diventando un grigio uniforme ai suoi occhi, ferma ma tesa e nervosa; non vedeva Gengar, eppure era certo che fosse vicino... doveva rischiare.

«Arcanine, Lanciafiamme!»

Sarebbe rimasto accecato ancora per vari secondi, tuttavia non poteva permettersi di distogliere lo sguardo: socchiuse gli occhi mentre una frusta fiammeggiante dilaniava le ombre e di nuovo illuminava la sala a giorno, ma stavolta con l'effetto fugace e inquietante di un lampo. In quel rapido attimo di luce, Samuel vide gli occhi spalancati di Gengar, la sua bocca ammutolita e contorta dal dolore, ma il suo gemito strozzato perdurò nell'aria anche più a lungo, quando le fiamme si furono spente e i suoi occhi non furono più in grado di vedere.

Si spense solo dopo una decina di secondi. Samuel rimase a lungo interdetto, sforzandosi di mantenere il respiro per evitre di sovrastare col suo rumore quello di qualsiasi suono che potesse dargli indicazioni sull'esito della battaglia: aveva vinto? Aveva sconfitto Gengar? Ah, se solo fosse riuscito a distinguere qualcosa nella luce della luna che filtrava dai finestroni sporchi, e che di certo sarebbe stata sufficiente s'egli non fosse stato abbagliato da un fuoco più intenso!

Gli giunse alle narici un odore terribile, tanto forte e nauseante che Samuel si tappò istintivamente il naso. Cos'era quella puzza? Gli invase la mente un dubbio terribile, angosciante, ma poi fu la puzza stessa a dissolverlo: egli la conosceva, l'aveva già sentita altre volte, ma non era sangue, era... era...

Ma certo! Aveva ricordato cos'era, e ora che sapeva esattamente cosa e dove cercare i suoi occhi percorsero con più sicurezza l'oscurità, frugarono le tenebre con maggiore prontezza: si soffermarono quando trovarono una sagoma irregolare, d'aspetto molle e flaccido, come una macchia più scura sul pavimento stagliata contro il grigio uniforme della notte... era un Muk, e ora che aveva un punto di riferimento la sua vista si abituò più facilmente al buio, riuscì a discernere con sufficiente precisione i contorni e le distanze. Non riusciva a individuare da nessuna parte la sagoma di Gengar, e questo voleva dire almeno che Arcanine era riuscito a sconfiggerlo: vedeva ancora infatti la silhouette eretta del suo Pokémon, riuscendo persino a riconoscere le striature del suo pelo variegato, e più oltre vedeva senza possibilità d'errore il pallore malaticcio della pelle del sepolto vivo: scorgeva persino, sul suo volto corrucciato e indecifrabile, le strane linee d'ombra dovute al susseguirsi sulle pareti delle finestre e all'incrociarsi nella sala delle loro proiezioni di luce... si trattenne dal guardarlo ancora e cercò di concentrarsi sulla battaglia, perché la sua vista lo riempiva di ribrezzo e continuava a insinuare nella sua mente il dubbio che, da quella Torre, lui e i suoi Pokémon non sarebbero usciti mai; che non era certo di una sfida che quel mostro si sarebbe accontentato...

Arcanine sembrava turbato dall'odore terribile emanato dal corpo del suo rivale: Samuel lo vide arretrare nervosamente di qualche passo, pur sforzandosi di mantenere la posizione, e lo udì emettere un basso ringhio di protesta e di minaccia. Era stranamente più agitato di quanto fosse mai stato di fronte a un nemico, e aguzzando la vista nell'oscurità Samuel non fece fatica a intuirne il motivo: anche Muk sembrava sepolto lì da tanto tempo.

«Va tutto bene, Arcanine!» gridò. Le sue parole ebbero una strana eco rimbombante nell'enorme sala vuota, eppure non gli fecero paura: chissà perché, l'impressione di sentire un'altra voce che fosse veramente umana lo faceva sentire un po' meno solo al mondo e inascoltato. «Ancora Lanciafiamme!»

La sala si accese un'altra volta, un disegno di fiamma si delineò nell'aria immota e stavolta Samuel non riuscì a trattenersi dal chiudere gli occhi e dal volgere il capo all'indietro, tuttavia la battaglia non cessò di raggiungerlo per altri mezzi: più forte del crepitio che perdurava nell'aria, egli udì il forte mugghiare sofferente di Muk, gli giunse alle narici un odore ancora più intenso che sapeva come di gomma bruciata... Quell'odore era il più forte e disgustoso che avesse mai sentito, più crudo e vivido assieme di qualsiasi altro che fosse stato prodotto durante una battaglia, forse proprio perché, di quella lotta, egli non riusciva a percepire altro che dolore e carne bruciata. Quell'odore gli diede una sensazione tanto immediata, fisica, che credette di dover vomitare. Si premette di nuovo e con più violenza la mano sul naso mentre cercava di tornare a guardare avanti a sé.

Ovunque posasse lo sguardo, ora lunghe fruste colorate gli abbacinavano gli occhi come dopo aver fissato troppo a lungo il sole, e per diverso tempo egli non vide nient'altro che quegli odiosi giochi di luce che si spostavano assieme ai suoi occhi. Ma il Lanciafiamme aveva avuto effetto?

Udì il verso sonante di Muk mentre di esso non riusciva a distinguere a malapena che la sagoma informe attraverso le macchie di luce: sforzandosi di mantenere lo sguardo fisso su di lui, vide che contraeva il proprio corpo molle sul pavimento nei suoi tipici movimento scomposti che preparavano un attacco. «Arcanine, spostati!»

L'enorme bocca di Muk si spalancò per eruttare un fiotto maleodorante di liquido denso che Arcanine non riuscì a evitare: il Fango lo colpì in pieno muso, sul petto e sulle zampe anteriori, ed esso ringhiò scuotendosi e dimenandosi per liberarsene, ma invano: quella melma brunita andava già rapprendendosi sulle sue membra. Samuel aveva assistito altre volte agli effetti di un attacco Fango: sapeva che aderiva alla pelle, finendo per ostruirne e soffocarne i pori, e paralizzava le membra rallentando i movimenti. Entro pochi secondi Arcanine non sarebbe quasi più stato in grado di muoversi, allora bisognava attaccare ora, compiere un atto inaspettato che fosse in grado di sorprendere il suo nemico. «Arcanine, usa Morso!»

Quando ricordò quanto insidiosi e subdoli fossero i Pokémon Veleno, per l'ennesima volta, era troppo tardi. Muk rilasciò una nuvola di Velenogas nel medesimo istante in cui Arcanine gli infliggeva il colpo definitivo affondando le zanne nel suo corpo flaccido. Era l'ultimo attacco, il suo canto del cigno, perché di certo ora non sarebbe più stato in grado di combattere, ma questo contava poco: Arcanine aveva inalato il gas quasi puro nello stesso istante in cui era stato emesso e di certo il veleno doveva avergli già contaminato i polmoni e le vie respiratorie: Samuel lo sentì annaspare e tossire e lo vide fremere, contorcendosi in preda ai conati di vomito...

Se fosse stato possibile, Samuel avrebbe in quel momento potuto giurare di essersi scordato della presenza del sepolto vivo. La vista di Arcanine gli riempiva la mente così come il veleno stava consumando i polmoni del suo compagno: era avvelenato, paralizzato, stava soffocando! La sua mano corse da sola alla cintura, si trovò ad annaspare tra le Pokéball alla ricerca dell'unica rimasta vuota...

Fu allora che arrivò la mano.

Capì che apparteneva al sepolto vivo con la stessa certezza con la quale l'aveva saputo per Gengar e Muk. Era bianca e avvizzita, con lunghe dita scheletriche su cui la pelle sembrava ricadere come morta, rugosa e flaccida; sembrava recisa all'altezza del polso – ma di un polso immane di alcuna creatura esistente, di almeno quaranta centimetri di diametro – e brani di muscolo e tendine ne pendevano in modo raccapricciante, muovendosi in risposta a ogni suo gesto.

Questa volta il suo corpo non ebbe alcuna reazione fisica. Samuel rimase stolidamente immobile davanti a quel prodigio ripugnante e terribile, del tutto incapace di muoversi o di urlare o di reagire, e una parte di lui avrebbe voluto gridare e mettersi a correre, fuggire il più lontano e il più velocemente possibile da quell'abominio, ma quella parte era impotente e inascoltata. Gli sembrava che gli impulsi che il suo cervello inviava si dibattessero ululando lungo i suoi nervi nel tentativo di scorrere giù, di raggiungere le sue membra e scuoterle per farlo reagire, ma contemporaneamente ogni singola parte del suo corpo sembrava aggravata di un peso infinito, totalmente sorda e insensibile a quelle urla...

Arcanine emise un tremulo guaito di terrore.

Quando finalmente, dopo un tempo lunghissimo, Samuel riuscì a distogliere lo sguardo dalla pallida mano, vide che il suo Pokémon si era accucciato al suolo, col corpo tutto raccolto e premuto contro una lapide, e che respirava a fatica. Anch'esso non riusciva a distogliere lo sguardo dalla mano e proprio per questo non accennava ad allontanarsi dalla tomba: sembrava sperare di farsi il più piccolo e insignificante possibile, quasi riuscire a sprofondare e fondersi con la dura pietra contro la sua schiena, e sfuggire così all'oscuro potere di quella mano. Da quando lo conosceva, quella era la prima volta che Arcanine aveva veramente paura.

Ma che cosa stava facendo? Ce lo aveva portato lui lassù, e ora lo lasciava alla mercé di quella cosa terrificante! Arcanine si era fidato della sua scelta, lo aveva accompagnato e condotto attraverso la notte perché era certo ch'egli l'avrebbe protetto sempre, e ora egli non stava facendo niente per proteggerlo e per salvarlo! Tornò ad annaspare con la mano sulle ball appese alla cintura, graffiò più volte senza riuscire ad afferrarla la superficie sferica con le dita che tremavano; riuscì alfine a strapparla da suo sostegno e cercò di stringerla solidamente nel pugno per richiamare Arcanine...

Ma poi la Pokéball gli scivolò dalla mano sudata e rotolò con tintinnii echeggianti da qualche parte nel buio. Quanto tempo avrebbe impiegato per ritrovarla?

Samuel non si rese conto di essersi precipitato in avanti finché non avvertì la sensazione concreta e umida delle sue mani che affondavano nella pelliccia morbida di Arcanine, ora intrisa e appiccicosa di Fango, e sentì il suo corpo che ansimava e sussultava dolorosamente a tratti irregolari mentre i suoi polmoni ustionati si dilatavano per respirare. Non si sarebbe reso conto neppure di stare urlando se Arcanine non lo avesse guardato, con le pupille enormemente dilatate, come richiamato dalle sue grida, e non avesse emesso un basso uggiolato che era come una richiesta di pietà.

«Lasciaci andare, ti prego! Ha bisogno di un medico, ha bisogno...»

Non sapeva neppure cosa precisamente stesse urlando o chiedendo, e neppure per quale ragione. La sua voce finì per ammutolirsi da sola quando una parte della sua mente si rese finalmente conto che alle sue preghiere non rispondeva che il silenzio: allora Arcanine emise un'ultima nota incerta e stranamente calma, come se volesse rassicurarlo e dirgli di smettere, di non affannarsi, che non ne valeva la pena...

Alle sue spalle, la mano scattò.

Samuel lo percepì dall'improvviso sibilo nell'aria che fischiò dietro di lui. In un tempo che sembrava scorrere a una velocità eccezionalmente lenta e snaturata egli riuscì a voltarsi e a vederla con precisione stupefacente. La vide avvicinarsi e diventare ai suoi occhi sempre più grande, più vivida e più distinta, ne distinse con curiosa e malsana attenzione persino i più orridi dettagli delle vene sporgenti di colore violaceo, delle scure macchie brunite della pelle, dei tendini che cadevano in grossi viluppi rattrappiti fuoriuscendo dal polso...

Alzarsi in piedi e fare un balzo indietro fu istintivo.

La spinta che si era dato con le gambe per alzarsi fu tale da farlo sbilanciare: Samuel inciampò nei propri piedi e cadde pesantemente al suolo con un urto che gli fece serpeggiare fitte di dolore per tutta la schiena, ma probabilmente non fu questo a togliergli il respiro. Fu la consapevolezza istantanea, cominciata già nel momento stesso in cui il suo corpo aveva fatto forza sulle ginocchia per alzarsi in piedi, di essersi scansato mentre un enorme mostro aggrediva il suo Pokémon esanime.

La botta alla schiena gli aveva fatto chiudere gli occhi in modo involontario. Ora gli parve che invece tutta la sua volontà non fosse abbastanza per costringere le sue palpebre ad aprirsi e a fronteggiare l'orrore di quanto aveva fatto abbandonando il suo Pokémon; che se non avesse guardato, non avesse visto, nulla di male sarebbe mai accaduto. Il tempo si sarebbe fermato nel buio delle sue palpebre chiuse, la cecità sarebbe diventata un limbo inviolabile ed eterno privo di consapevolezza o di sofferenza... ma l'ululato di Arcanine abbtté ogni difesa.

Tenere gli occhi chiusi non gli impedì minimamente di udire quanto accadeva. Aveva udito il rumore molle e flaccido della carne che veniva squarciata con tale nitidezza da non avere alcun bisogno degli occhi per visualizzare l'intera scena nella propria mente, ma pochi attimi dopo l'odore del sangue che gli riempiva le narici fu più terribile ancora del resto e forse fu la scossa decisiva che gli permise di aprire gli occhi.

La sagoma nera di Arcanine era ora totalmente immobile, non manifestava più il minimo movimento o scatto convulso: sopra di essa ora la pallida mano si allontanava, ma Samuel la vide nitidamente nella luce della luna, ora le sue dita erano nere, erano nere, nere, nere...!

A questo punto Samuel fece forse la cosa più orribile che potesse fare. Annaspò alla cieca per rovesciarsi sulla pancia, perché a qualsiasi costo doveva dare le spalle a quell'orribile cosa, non poteva guardarla!, si trascinò sulle ginocchia fino a sollevarsi in piedi e poi, semplicemente, corse via.

I suoi passi rimbombavano nel buio, sovrastavano il suono dei suoi singhiozzi e del suo cuore che martellava nel petto a velocità straziante. Arcanine era morto! Per colpa sua, per non aver saputo difenderlo, e ora... oh, ma dove stava correndo? Tutto, tutto si confondeva attorno a lui, le lapidi parevano emergere dal niente e proiettarsi verso l'alto come pallide sagome che perforassero una nebbia, ma tutto era buio attorno a lui! I corridoi parevano perdersi negli altri e mescolarsi e non condurre da nessuna parte, o minacciare a ogni momento di riportarlo là dove giaceva Arcanine e farglielo rivedere, costringerlo a fronteggiare ancora una volta la realtà innominabile di quanto aveva fatto... ma ora non cercava neppure più le scale, correva alla cieca urtando e inciampando sulle tombe: Arcanine era ovunque! Arcanine era dappertutto! Era nelle foto sulle lapidi, era nei volti delle statue dai tratti sbiaditi, era in fondo al corridoio, era nei passi della sua folle corsa furiosa... no, no, non era vero, non poteva essere vero! Non lo stava vedendo veramente! Sì, Arcanine pareva occhieggiarlo da ogni angolo, pareva pronto ad attenderlo immobile ogni volta ch'egli svoltava in un corridoio, lo fissava coi suoi grandi occhi privi di qualsiasi segno d'accusa o di rabbia, eppure Samuel lo sapeva, lo sapeva che non era vero! Che Arcanine era rimasto alle sue spalle disteso al suolo contro una lapide col ventre squarciato, là dove egli l'aveva abbandonato... oh, e ora tutto si confondeva e s'inseguiva, l'intero, enorme piano sembrava vorticare su se stesso...! Ma perché mai era fuggito, lui?

Quando inciampò su una stele poco più bassa delle altre e rotolò al di là di essa, abbattendosi al suolo su un fianco, provò uno strano senso di sollievo, come se fosse esattamente ciò di cui aveva bisogno. Non fece nulla per ammortizzare la caduta. Sbatté dolorosamente la spalla e il gomito sul pavimento, mordendosi le labbra per non urlare, e non perché non volesse che il sepolto vivo udisse il suo grido. Rimase immobile, distendendo al suolo le braccia e le gambe come in segno di resa, e lasciò che la vergogna della sua fuga gli riempisse il petto e lo calmasse risalendo su di lui in placide ondate.

Rimase forzatamente fermo, col petto che si gonfiava e si svuotava rapidamente in cerca d'aria. Rialzarsi in piedi, riprendere a correre e cercare disperatamente quelle maledette scale, o almeno morire nel tentativo, sarebbe stato ancora una volta così spontaneo, così facile e immediato, come pochi secondi prima, ch'egli doveva impedirselo con tutta la sua volontà per rimanere là disteso. Tutti i muscoli del suo corpo, tutta la parte più istintiva e purtroppo sinceramente sensata del suo cervello pareva scalpitare e urlare dentro di lui le scale! le scale!, eppure egli si costringeva a rimanere lì. Non la smetteva di tremare, eppure egli sapeva – egli, Samuel, dopo aver ripreso tutto il possibile controllo sulla sua volontà e il suo corpo – che ora il suo dovere era di non muoversi. Chiuse gli occhi, inalando profondamente col naso in una specie di singhiozzo che lo scosse tutto, e gli riempì le narici un odore di polvere e cera e sporcizia e pavimenti che nessuno lavava da un po'.

Aveva abbandonato Arcanine. Si era scansato e gli aveva dato le spalle, era corso via e aveva a malapena guardato il suo corpo, e non importava quanto fosse stato spaventato, o quanto avesse prevalso in lui l'istinto di sopravvivenza... era scappato. Arcanine era stato con lui per molto più tempo di quanto riuscisse a ricordare (o meglio, lo ricordava, ma i ricordi che possedeva dei loro viaggi gli sembravano così tanti e si assommavano in così gran numero nella sua testa che non sembrava possibile che si fossero verificati tutti in quei soli otto anni), ed egli aveva odiato ogni singolo passo di quella corsa meschina, ma prendere il controllo del suo corpo in quegli spasmi di terrore era stato impossibile, e al terrore egli si era abbandonato.

Ora che era caduto lo aveva riempito uno strano senso di pace, come se fosse stato inaspettatamente sollevato dalla responsabilità della fuga. Era stata la Torre a decidere per lui e ad aiutarlo, dopotutto, a sopprimere quell'indecente istinto di sopravvivenza che lo aveva privato di ogni genere di umanità e nel quale non riusciva più a riconoscersi nonostante non fossero passati che pochi minuti solamente, perché non avrebbe mai voluto aver abbandonato Arcanine. La verità era che si sentiva come se ora che il mondo attorno a lui gli aveva precluso ogni via di fuga e messo a tacere quella parte orribile e riprovevole di lui che voleva solo salvarsi, egli ora potesse veramente fermarsi in pace. Non c'era più bisogno di scappare. Era stato un allenatore mostruoso per qualche istante, d'accordo, ma poi la ragione aveva di nuovo riottenuto la sua dominazione sul corpo e Samuel era certo che Arcanine avrebbe saputo perdonargli quel solo attimo di debolezza. Non era stato veramente lui a fuggire, dopotutto – era stato quell'altro Samuel! L'altro, quello meschino e viscido e codardo: e ora lui, quello vero, era tornato e avrebbe affrontato il destino che doveva. Era quello il suo dovere. Era certo che il sepolto vivo l'avrebbe trovato, presto o tardi, ammesso che già non sapesse dove si trovava, e quando fosse arrivato egli non si sarebbe opposto. Sarebbe rimasto ancora immobile, e non importava quanto male questo gli avrebbe fatto, era il suo dovere...

«Samuel!»

Scattò a sedere col cuore che palpitava, il respiro bloccato in gola. No! Non era possibile, stava impazzendo. La sua mente se ne stava andando, egli non doveva aver fatto che immaginare la sua voce in quegli ultimi suoi minuti di vita, per il solo desiderio che nutriva di udirla, di...

«Samuel, aiutami!»

Non stava impazzendo, era tutto vero. Agatha era lì.


Balzò in piedi per poter scrutare nel buio, percorrendo freneticamente con lo sguardo l'enormità senza fine della sala che si estendeva attorno a lui: ma come fare a vedere qualcosa in quell'oscurità?

«Agatha, dove sei?»

Dio, perché quella ragazza l'aveva seguito fin lassù? Samuel represse l'impeto di rabbia che gli saliva alla gola mentre per l'ennesima volta si gettava alla cieca lungo quei corridoio sterminati, con tutti i suoi sensi concentrati alla ricerca del benché minimo indizio che potesse guidarlo verso di lei. «Agatha, vattene da qui!»

Gli parve di udire ancora la sua voce, ma più bassa e indistinta, ed emise un'imprecazione oscena al pensiero di essersi allontanato. Ritornò correndo sui propri passi, col cuore che batteva forte e pareva percuotergli la cassa toracica, cercando di discernere nell'ombra il tracciato delle lastre che si stendevano davanti a lui, anticipandone con le mani la posizione per evitare di sbattervi contro...

«Nidoking, Iperraggio!»

Se prima aveva corso ora gli parve di volare. Smise di evitare gli urti contro le sculture e le lapidi a malapena visibili, si riparò a malapena il volto con le braccia mentre saltava e correva alla cieca. Stava andando nella direzione giusta? «Agatha, non lottare con lui!»

L'Iperraggio di Nidoking folgorò la sala illuminandola come un sole: Samuel vide per un istante l'intera distesa funerea illuminata come in pieno giorno dal raggio sgorgato da qualche parte alla sua destra, distinse persino con la coda dell'occhio l'enorme sagoma di Nidoking in controluce, ma poi dovette chiudere gli occhi che gli bruciavano... «Agatha, è un trucco!»

Con gli occhi chiusi sbatté in pieno contro una statua che non aveva notato e si ritrasse di scatto al sentirla oscillare sul suo piedistallo di marmo. Continuò a correre cercando di indirizzarsi verso destra, là dove aveva visto brillare l'Iperraggio, con gli occhi ora chiusi e ora aperti che gli lacrimavano, immaginandosi in qualche modo un ipotetico tracciato che si stendesse tra lui e Agatha e che potesse condurlo a salvarla. Si stava avvicinando alle finestre, riusciva a distinguerle dalla massa tutta indistinguibile e omogenea delle pareti di legno...

«Samuel!»

Il corridoio finì a pochi metri dalla parete, ora egli vedeva la figura di Agatha, ma proprio quando gli sembrava di averla raggiunta, fu costretto a fermarsi bruscamente: l'impeto della corsa lo fece quasi cadere quando si rese conto della situazione. Agatha stava lottando contro il sepolto vivo, che era a pochi metri di distanza da lui... ma davanti a lei, tra di loro, c'erano due mani.

Samuel vedeva nitidamente la sagoma di Agatha stagliata contro la finestra, dall'altra parte del campo della battaglia che aveva intrapreso. Il suo volto era immerso in una pozza di tenebra che ne rendeva indistinguibili i tratti, ma vedeva la nube crespa e vaporosa dei suoi riccioli che infrangeva la poca luce, riconosceva il modo in cui le sue ginocchia magre si congiungevano in controluce... era in trappola. Doveva aver retroceduto finché le era stato possibile, incalzata dalla lotta, perdendo terreno un passo dopo l'altro finché non si era ritrovata con le spalle al muro e priva di ogni via di fuga. Le scale erano dall'altra parte della sala, ma se anche così non fosse stato, in nessun modo avrebbe potuto raggiungerle.

Infisse lo sguardo davanti a sé, là dove Nidoking stava ruggendo e scalpitando mentre cercava di trattenere e opporsi a un'enorme mano con tutta la possanza del suo corpo nerboruto, là dove Tentacruel e Vileplume assieme cercavano di tener testa insieme alla sua compagna, respingendola in un insieme confuso di tentacoli e vischioso acido nero. Persino le loro forze congiunte sembravano insufficienti a opporlesi: la mano continuava irresistibilmente ad avanzare a mezz'aria, agitando le dita ossute nel tentativo di afferrare, di graffiare,di... Se tre Pokémon forti come quelli di Agatha avevano mai avuto una possibilità contro una sola di esse, unendo e moltiplicando le loro forze, ora egli era certo che non ce l'avrebbero mai fatta.

«Agatha! Sono qui!»

Non avrebbe mai voluto esserle vicino più che in quel momento, ma a separarli c'era lo stesso scontro che era l'unica momentanea salvezza di Agatha. Doveva dirglielo! Doveva dirle cos'erano in grado di fare quelle enormi mani avvizzite, doveva metterla in guardia, avvertirla di ritirare i suoi Pokémon... non poteva permettere che succedesse di nuovo. Ma proprio quando si protese verso di lei, prese fiato per gridare... all'improvviso si rese conto che nessuna parola riusciva a prendere voce nella sua bocca. Si ritrovò a boccheggiare nel tentativo di dire qualcosa, di urlare, ma ora gli sembrava di trovarsi in uno di quegli incubi orrendi e asfissianti nei quali si sente che solo urlare potrà salvarci eppure ci manca la voce. Era sciocco, era orribile, ma come poteva dire ad alta voce la verità su ciò che era successo? Dire ad Agatha che Arcanine era morto non l'avrebbe forse reso reale e innegabile?

Dopo interminabili secondi di lotta intestina, tutto ciò che la sua gola secca fu in grado di dire fu: «Sto arrivando.» Cos'altro poteva fare a parte cercare di raggiungerla?

Vide che Agatha si contraeva inconsciamente a quella proposta, la sagoma del suo corpo s'irrigidiva: scosse freneticamente il capo. «No, Samuel, ascolta! Insieme possiamo sconfiggerlo, e allora...!»

C'era tutto un tumulto di voci dentro di lui che urlava: ti stai sbagliando! Nessuno può sconfiggere quella pallida mano e lui non ci lascerà andare mai! Era come una grande folla che rumoreggiava dentro di lui e urlava, ma per quale diamine di motivo allora Samuel non riusciva a dar voce a neppure una parola di tutto quel tumulto? «Agatha...»

«Tentacruel, Limitazione!»

La voce di Agatha era un insieme di terrore e di combattività: Samuel lo percepiva dalla lieve nota incerta che tremolava in fondo alle sue frasi. In quel momento realizzò che era quella Agatha, la sua Agatha: che a seguirlo lassù, su quella Torre, senza nessun vero motivo se non la sua volontà, non era stata la ragazza terrorizzata di quel pomeriggio sul divano, ed egli seppe che ella non avrebbe smesso di lottare per aprirsi la strada a nessun costo. Non era proprio per questo che occorreva dirle di stare attenta, e subito, prima che fosse troppo tardi?

Mosse il primo passo verso di lei nel preciso istante in cui l'enorme tentacolo di Tentacruel si abbatteva contro il palmo della mano con uno schiocco raccapricciante di carne marcia e putrefatta che lo fece sobbalzare. Non seppe trattenersi dal gettare uno sguardo verso il sepolto vivo: non era possibile che fosse tanto astratto ed estraniato dal mondo che lo circondava, tanto chiuso all'interno della sua propria mente, da non venir scosso quanto lui da quel suono. Eppure, quando si volse verso di lui, vicino tanto che avrebbe potuto balzargli addosso e colpirlo, il sepolto vivo non aveva avuto alcun moto o reazione. Era accasciato al suolo, in un modo tanto scomposto e sgraziato da essere quasi insostenibile alla vista, e seguiva la battaglia con occhi vacui e persi. Non sembrava trovarsi lì e il suo sguardo vago, distratto, gli diede un impeto di rabbia che per un attimo pensò di non poter trattenere. Qual era la ragione di tutto quel dolore?

Tutto il suo corpo tremava del desiderio insaziabile che l'aveva preso di saltargli addosso, colpirlo, affondare le mani nella carne marcescente del suo corpo e sfogare su di lui tutta la rabbia per ciò che Arcanine... eppure si trattenne. Non poteva fare nulla per Arcanine dopo averlo abbandonato, ma Agatha era viva, era vicina, i suoi Pokémon potevano ancora essere salvati!

«Agatha, richiamali!»

Le parole gli uscirono finalmente di bocca in un grido confuso e stentoreo, forte abbastanza da superare le strida dei Pokémon che combattevano: Samuel vide che Agatha si volgeva verso di lui in un vorticare di ricci in controluce. Ora che aveva iniziato, o almeno detto qualcosa, Samuel si rese conto che parlare diventava più facile, quasi necessario. «Sono troppo forti Agatha! Ha ucciso Arcanine, devi richiamarli ora! Ha...»

All'improvviso, dalle sue spalle il sepolto vivo emise un sibilo lungo e minaccioso, un suono serpentino e contrariato al quale Samuel si voltà immediatamente per istinto: eppure, quando i suoi occhi lo ritrovarono nel buio, si rese conto che non stava guardando lui. Non aveva sentito le sue parole, di certo non era lui che voleva mettere a tacere. Ma allora cosa...

Gli occorse un istante di troppo per rendersi conto che quello era il suo modo di dare ordini.

Il ruggito di dolore di Nidoking si levò alle sue spalle già prima ancora ch'egli riuscisse a voltarsi verso di lui, si mescolò nell'aria a quello di stravolto stupore di Agatha, eppure ancora non era nulla rispetto a quello di Arcanine.

Con un rinnovato impeto di energia, l'enorme mano aveva vinto le difese di Nidoking. Samuel vide le sue lunghe dita pallide che si stringevano attrno alle sue spalle in una morsa formidabile, immobilizzandogli le braccia contro i fianchi, costringendogli il petto in una pastoia soffocante: sul suo corpo corazzato egli scorse i riflessi di luna tremare e cangiare nell'ombra. Nidoking cercava di scuotersi e di divincolarsi, ma quella stretta era troppo forte.

«Agatha, sta soffocando!»

Agatha non aveva certo aspettato di sentirselo dire da lui per reagire. Una serie di raggi rossi balenò a ripetizione nel buio, colpì Nidoking più e più volte, eppure non funzionava.

«Nidoking, rientra!»

Eppure tutto rimaneva immobile, Nidoking ancora stretto da quelle dita immani: la voce di Agatha si fece più acuta, si riempì di panico a ogni colpo che andava a vuoto. «Dannazione! Ti prego, ti prego, rientra!»

Con un ultimo sforzo condiviso, Vileplume e Tentacruel respinsero la pallida mano con la quale si stavano scontrando e si gettarono verso Nidoking per cercare di liberarlo; sebbene non ci fosse nulla che potesse fare, Samuel stesso balzò in avanti. Non aveva alcun modo per opporsi a quell'immenso abominio, ma Nidoking stava soffocando!

Con gli occhi infissi su Nidoking, le orecchie piene della voce di Agatha, non ebbe la minima percezione della mano che precipitandosi in volo verso i Pokémon lo colpiva alla testa.


Riemerse dal buio boccheggiando come dopo un'apnea che era parsa eterna, cogli occhi annebbiati e le tempie che pulsavano furiosamente, immerso in una cappa d'odore ferrigno e nauseante di cui non riusciva a individuare l'origine.

Tirarsi su di scatto fu un errore: la tempia gli diede una fitta fortissima e l'odore gli riempì il naso con tale intensità ch'egli si chinò in avanti e vomitò. Dio, che cosa era successo? Perché tutto era silenzio, tutto era sfocato?

«Agatha!»

Quando il suo stomaco ebbe espulso tutto quanto era possibile, Samuel fece appello a tutte le sue forze per cercare di alzarsi. Perché gli sembrava di essere così lento, e la stanza attorno a lui pareva girare e le vetrate confondersi e le statue circondarlo e inseguirlo...? Cercò con le mani qualcosa a cui aggrapparsi in attesa che la sua testa smettesse di girare: dopo lunghi secondi d'incertezza, le sue dita incontrarono una fredda superficie dura e la strinsero ed egli si concesse di abbandonarvisi interamente. Ma perché al di sotto del ronzio che gli risuonava nelle orecchie tutto era silenzio? «Agatha, rispondimi!»

A poco a poco la stanza cominciò a rallentare il suo strano girotondo, le sagome scure ch'egli scorgeva a malapena assunsero lentamente una loro precisa collocazione nello spazio, divennero masse plastiche e solide che non vorticavano più tutte attorno a lui e non recavano più alcuna minaccia. Aggrappandosi con tutte le sue forze a quella lapide che era l'unico vero punto di riferimento stabile che avesse, l'unica ancora di salvezza dalla quale egli potesse cercare di capire cosa vi fosse nella sala, Samuel si sforzò di continuare a guardare, cogli occhi lacrimanti che faticava a tenere aperti, come se davvero qualcosa li premesse pulsando dall'interno. Vedeva veramente quelle immani sagome scure riverse al suolo? Erano forse macchie nere che i suoi occhi proiettavano su ciò che vedeva in seguito al colpo in testa? Ma se non erano reali, allora perché tutto era silenzio?

Eppure una parte di lui era consapevole di sapere già cos'era accaduto, cos'erano quelle sagome nere che si rifiutava di guardare direttamente ai margini del suo campo visivo. Stare in piedi lo stava lentamente aiutando: il sangue gli defluiva dalla testa, le tempie gli pulsavano un poco meno. Ora i suoi occhi erano in grado di mettere a fuoco più cose, e proprio per questo egli levò lo sguardo imponendosi di non guardare mai verso il basso: sapeva già in fin dei conti cos'erano, e per quanto si sforzasse di reprimere in un angolo del suo subconscio quel pensiero, sentì che esso gli faceva scendere un brivido freddo lungo la schiena.

Freddo! Ma l'aria era fredda! Samuel realizzò all'improvviso cos'era quella strana impressione di brividi che gli scendevano lungo le spalle, e non era solo orrore: c'era una corrente d'aria. Quando la sua attenzione si sforzò di concentrarvisi per capire da dove provenisse, il suo cuore ebbe un improvviso sbocco di gratitudine ed egli si sentì inspiegabilmente commosso. Era l'aria fresca, pulita della notte che entrava da chissà dove, che mitigava un po' l'odore nauseante della sala – perché all'odore di chiuso e d'incenso si era ora assommata quella strana puzza disgustosa e ferrigna sulla quale la sua mente preferiva non soffermarsi – ma che soprattutto gli ricordava che da qualche parte, appena al di fuori della Torre, vi era un tempo che continuava a scorrere e un vento che accarezzava la terra. Forse la sua mente era troppo sconvolta da ciò che aveva visto, forse il colpo in testa che la mano gli aveva inferto lo aveva davvero turbato, ma comunque stessero le cose, quel soffio d'aria fresca sulla schiena era quanto di più simile alla speranza che egli fosse in quel momento in grado di concepire.

Il soffio d'aria proveniva dalle sue spalle. Samuel si voltò lentamente con la testa che aumentava le sue dolorose pulsazioni a ogni momento, nel disperato tentativo di mantenere l'equilibrio, e cercò con gli occhi cosa potesse esserne l'origine. Le finestre erano ancora chiuse, le pareti erano troppo scure per poter distinguere chiaramente qualcosa. Quanto tempo avrebbe perso così al buio?

Aveva bisogno di luce e per quanto quest'idea gli ripugnasse, sapeva che c'era un solo modo per procurarsela. La sua mano esitò a lungo all'altezza della sua cintura, oscillò incerta sugli ultimi centimetri che la separavano dalla Pokéball che gli occorreva, ma infine egli si decise a prenderla e a gettarla al suolo. Non aveva alternative. Se fosse rimasto all'interno di quel luogo d'inferno, egli ne era certo, sarebbe morto, e allora anche per i suoi Pokémon non vi sarebbe stata alcuna speranza... ma neppure per un momento egli avrebbe anche solo pensato di uscire da lì senza di lei. Era stato stupido e sciocco e Agatha era venuta a salvarlo dalla sua stupidità – era solo arrivata troppo tardi per riuscirvi.

La luce della coda di Charizard era tanto calda e abbagliante da fargli lacrimare gli occhi e distogliere lo sguardo, ma quando il suo Pokémon emise il suo solito, famigliare ruggito di saluto, Samuel non provà la benché minima sensazione di conforto. Quanto tempo avrebbe impiegato a scoprire di Arcanine? Ed egli stesso sarebbe mai più stato in grado di fronteggiare la fiducia tradita dei suoi occhi allungati?

Il saluto gioioso di Charizard non si era ancora spento quando esso vide direttamente, in piena luce, i corpi orrendamente deturpati che Samuel si era impegnato a non guardare per tutto il tempo: Charizard conosceva i Pokémon di Agatha e ricordava di certo com'erano fatti, dunque come avrebbe potuto non riconoscerli anche ora?

Samuel ebbe la certezza che li aveva visti quando il ruggito di Charizard si tramutà in un lungo ululato di dolore e di sgomento: in preda all'agitazione, Charizard cominciò a sbattere forsennatamente le grandi ali possenti, sollevandosi dal suolo di quasi un paio di metri, in un tripudio di suoni terrorizzati e raspanti.

«Charizard, ascoltami!»

Quali parole potevano bastare a calmarlo? Socchiudendo gli occhi nei lampi di luce fiammante che la sua coda disegnava nell'aria, Samuel fece un balzo verso di lui, si sforzò di saltare e raggiungerlo per istituire un contatto e cercare con esso di calmarlo. «Charizard, fermo!»

La sua mano urtò contro la zampa di Charizard in una fitta di dolore che lo fece ritrarre di scatto, ma poi con un ultimo, deciso scatto rabbioso egli riuscì ad afferrare per un istante il suo ginocchio ruvido e a stringerlo. «Devi aiutarmi!»

Se non a calmarlo, il suo contatto riuscì a richiamare almeno la sua attenzione: Charizard non si abbassò, ma le sue ali rallentarono il ritmo a cui sbattevano, spazzando l'aria con minore violenza, e il suo Pokémon chinò lo sguardo di occhi colmi d'orrore.

«Ha preso Agatha, Charizard!» singhiozzò. «Farà anche a lei quello che ha fatto a loro!»

Questa volta però Charizard non si limitò a obbedirgli con la stessa naturale, spontanea complicità con la quale aveva sempre eseguito ogni suo ordine durante le lotte. Questa volta Charizard lo guardò. Samuel sapeva cosa vedevano i suoi occhi e questo gli diede una certa fitta di disagio all'altezza del petto: Charizard vedeva un allenatore che per qualche strano motivo lo aveva condotto in un inferno di Pokémon morti e di membra dilaniate, e nient'altro. Cos'avrebbero visto se Charizard avesse saputo che in quella stessa stanza, a pochi metri di distanza da loro, giaceva senza vita il corpo di Arcanine?

«Ti porterò fuori da qui» esclamò ansiosamente, aumentando la presa sulla sua zampa squamosa. «Ti prometto che usciremo da qui, ma ti prego, aiutami a salvare Agatha!»

Stava giocando il tutto per tutto. Charizard era sconvolto, aveva appena visto i Pokémon di Agatha fatti a pezzi, doveva essere furioso con lui per averlo messo in un pericolo del genere: non era tenuto affatto ad aiutarlo. Tutto ciò che Samuel poteva fare era sperare che l'affetto che li legava da ormai troppi anni per poterli enumerare fosse più forte del senso di orrore e tradimento, e che in nome della loro antica amicizia Charizard acconsentisse a portarlo fuori da lì...

Il suo Pokémon ebbe un'esitazione tanto lunga, tanto angosciosa che Samuel temette che non gli avrebbe obbedito. Non avrebbe di certo potuto biasimarlo se davvero la vista dei Pokémon smembrati lo avesse adirato e spaventato a tal punto da fargli rifiutare di muoversi, ma infine Charizard acconsentì ad abbassarsi un poco verso di lui, fissandolo con un certo distacco. Samuel colse la freddezza del suo comportamento dall'insolita rigidezza del suoi muscoli guizzanti, ma proprio della sua freddezza gli fu grato. Era rimasto – qualsiasi sentimento di rabbia o di dolore provasse nei suoi confronti, era rimasto con lui. Era molto più di quanto egli potesse chiedere.

«Grazie» mormorò mentre cercava di guardarsi attorno alla luce della sua coda. Provava la percezione quasi fisica del tempo che scorreva, e quella sensazione non gli piaceva.

I suoi occhi tornarono a percorrere la sala, si allontanavano dalle finestre, tornando a seguire un loro affrettato percorso sulle pareti. Da dove diamine veniva quel fiotto d'aria fresca?

Charizard emise un ringhio basso e nervoso al quale Samuel si volse di scatto: il suo Pokémon doveva aver capito che cosa stava cercando e guardando nella sua stessa direzione, egli si sentì sollevato. C'era una scala di servizio profondamente incassata nella parete, che saliva inerpicandosi su, verso... ma verso cosa, se si trovavano all'ultimo piano?

«Il tetto!»

Si mosse verso la scala più rapidamente di quanto le sue reali forze gli permettessero: si sentiva le gambe instabili e tremanti, le ginocchia che minacciavano a ogni passo di piegarsi sotto il suo peso, e anche la sua vista sembrava sempre più annebbiarsi. In qualche misura tuttavia la presenza di Charizard sembrava aiutarlo e proteggerlo ed egli intraprese la salita consapevole che il suo Pokémon lo seguiva da vicino.

In tanti anni di viaggi, mai nessun tragitto che avesse compiuto era parso più lungo di quei pochi gradini. Samuel strisciò più che percorrerli di corsa come aveva pensato, aggrappandosi al rozzo corrimano di ferro e appoggiandovisi con tutto il suo peso via via che saliva, con la testa che gli martellava furiosamente proprio dietro gli occhi. Eppure, in un modo o nell'altro, emerse infine da quella tromba di scale angusta come un dedalo oscuro e si stagliò alfine sulla cima della Torre.

Lassù il vento era molto forte, umido e freddo: dalla sua destra, là dove doveva trovarsi il nord, egli colse con la coda dell'occhio grandi ammassi di nubi scure che salivano a coprire le stelle presagendo un temporale. Sforzandosi di mantenersi ben saldo contro le folate di vento, Samuel avanzò di qualche passo, percorrendo con lo sguardo la sudicia distesa di assi di legno che aveva davanti. Il suo primo impulso sarebbe stato quello di urlare, chiamando Agatha con tutta la voce che era in grado di emettere, ma s'impose di trattenersi: se aveva anche solo una possibilità di sfruttare l'effetto sorpresa del suo arrivo, non poteva sprecarla.

Avanzò ancora, acquisendo sicurezza sulla superficie irregolare e accidentata del tetto, e si volse cautamente girando su se stesso. Si rese conto di stare ansimando dal movimento irregolare del suo petto, ma il vento infuriava sulle sue orecchie impedendogli di udire il suo respiro. Forse anche il vento avrebbe potuto aiutarlo, se solo...

Charizard emise un ruggito di guerra levandosi in volo.

«Charizard, non lo fare!»

Il suo Pokémon non voleva scappare o abbandonarlo: Samuel vide dalla fiamma nei suoi occhi che ardeva più del suo respiro che ciò che voleva era tutt'altro. Aveva visto morti i Pokémon di Agatha, e non li aveva mai particolarmente amati, ma erano Pokémon come lui, e ora era furioso: cos'avrebbe fatto se avesse saputo del suo antico compagno di squadra?

Samuel non poteva fare niente per fermarlo, lo sapeva anche troppo bene, e del resto, quale diritto ne avrebbe avuto? Poteva solo approfittare della situazione così com'era: nel cerchio di luce proiettato al suolo che andava sempre più allargandosi, egli scattò in avanti senza esitare oltre.

Charizard si gettò in volo verso l'estremità settentrionale della Torre. Samuel lo seguì correndo controvento per quanto gli era possibile sulle tegole sdrucciolevoli, con la testa che pareva vibrare come di un coro di tamburi militari particolarmente violenti e il cuore che pulsava di preghiere.

Il sepolto vivo, finalmente. Samuel ne scorse da lontano la figura quando ancora non era che una nera silhouette asciutta contro il tono più tenue del cielo di sfondo, e proprio a quella vista il suo cuore saltò un battito: dov'era Agatha? Ma poi, quando Charizard lo sovrastò sbattendo ripetutamente le ali e inondandolo della luce della sua coda che fustigava l'aria, i suoi occhi colsero dietro di lui, riversa al suolo a pochi metri dal bordo del tetto, una miserabile figura immobile avvolta in un manto di capelli scomposti.

Perché non si muoveva? Samuel ebbe uno scatto nervoso verso di lei, ma appena sopra la sua testa Charizard gli rivolse uno strano gesto di ammonimento, come a impedirgli di avanzare oltre, ed egli si trattenne all'ultimo secondo. Mai come in quel momento quel colosso di fiamma incarnata gli era parso tanto minaccioso.

Ora rivedeva di nuovo il sepolto vivo in piena luce, per la prima volta dopo ciò che era accaduto ad Arcanine, e le sue carni vizze e scomposte gli diedero un rinnovato senso di disgusto, di quel disgusto offeso, risentito, di chi vede qualcosa d'indecente. L'espressione del suo viso non era più tanto vacua: ora era alterata, colle labbra contratte, ed esprimeva un vivo risentimento per essere stato interrotto. All'improvviso, in quella luce, Samuel si rese conto che era sporco di sangue sul viso e sulle mani, e che non si trattava di semplici schizzi.

Il senso di gelo e di rabbia che lo prese quando notò per la prima volta il sangue sulle gambe di Agatha fu indicibile.

«Charizard...!»

Non occorse altro. Charizard si precipitò in picchiata sul sepolto vivo in una vera e propria esplosione di fiamme e di ruggiti: nonostante l'elevata velocità dei suoi movimenti, Samuel riuscì a distinguere comunque il momento in cui una zampata in pieno petto lo squarciava letteralmente, lacerando pelle e tessuti e mettendo a nudo le ossa biancheggianti al di sotto... ma fu solo un attimo. L'urto sollevò il sepolto vivo da terra e lo scaraventò a quasi due metri di distanza, mandandolo a rotolare sul tetto in un cigolare di legno, e subito dopo Charizard si lanciò al suo inseguimento con una foga selvaggia. Per un attimo Samuel credette che l'avrebbe gettato giù dalla Torre o qualcosa di simile, ma poi la furia stessa dei suoi gesti gli diede torto. Charizard non era salito fin lassù per difendere lui e Agatha. Era lì perché era molto arrabbiato.

Non poteva fare nulla per contrastarlo o aiutarlo, se anche l'avesse voluto. Samuel si precipitò accanto ad Agatha e si chinò su di lei, cercando di vedere qualcosa alla luce intermittente e in movimento della coda di Charizard che infieriva sul sepolto vivo.

La chiamò, la scosse, cercò di sollevarla e di stringerla contro il petto, ma tutto ciò che ottenne fu di sentirla completamente molle e inerme tra le sua braccia, col capo reclinato all'indietro sulla nuca che si scuoteva senza opporre nessuna resistenza quando egli l'agitava. «Agatha, mi senti? Ti prego, parlami!»

Le fece scorrere la mano sulle gambe per trovare la ferita: il sangue le aveva impiastricciato completamente persino le cosce, ma le sue dita trovarono il segno di una ferita profonda sul polpaccio destro. Si sentì impotente.

Distendendola di nuovo sul terreno, si sfilò la camicia e alla cieca, basandosi più sull'istinto che su altro, cercò di annodarlo attorno alla sua ferita in una misera imitazione di bendaggio. Ne venne fuori un nodo confusionario e storto, ma sarebbe bastato fino a quando non se ne fossero andati da lì... già, ma quando?

Si voltò a guardare la devastazione che Charizard stava operando sul tetto. La sua coda e le fiamme che talora gli sfuggivano dalla bocca nell'agitazione avevano disegnato sulle assi di legno striature più o meno regolari: ora Charizard non stava volando. Avanzava in quel momento sulle quattro zampe, spazzando il terreno con la coda in archi regolari, e incombeva sul sepolto vivo come una promessa di morte. Lo zombie ne era completamente soggiogato: aveva il petto squarciato in più punti, ma dalle sue carni ormai morte non sgorgava sangue.

«Charizard, non puoi ucciderlo!» gridò Samuel al di sopra del vento. Si rese conto di star piangendo, anche se non riusciva a individuarne un motivo specifico. «Andiamocene via, ti prego!»

La successiva zampata di Charizard colpì il sepolto vivo all'altezza del collo, disegnando uno squarcio che dilacerò anche la spalla. Non gli avrebbe obbedito, si rese conto Samuel. Era furioso per ciò che aveva visto e non se ne sarebbe andato finché non avesse visto il sepolto vivo morto, o... ma quanto tempo avrebbe impiegato?

«Charizard, non ce la farai mai! Agatha ha bisogno di cure, ti prego...»

Ma nulla di quanto avrebbe mai potuto dire avrebbe potuto sortire il minimo effetto. Charizard non lo avrebbe mai ascoltato, e nel profondo Samuel sapeva che aveva ragione. Gettò un'occhiata al volto di Agatha che pareva andare sempre più sbiancandosi, al sangue che aveva già tinto di rosso la sua camicia continuando a sgorgare da sotto la fasciatura...

All'improvviso egli comprese qual era l'unica cosa che Charizard avrebbe ascoltato, e anche ciò che aveva diritto di sapere nell'infierire sul sepolto vivo.

Si levò in piedi stagliandosi contro il vento. Charizard stava aggredendo quel corpo con rumori quasi vomitevoli, ma quando Samuel lo chiamò, la sua voce suonò inaspettatamente calma.

«Fai bene, Charizard» disse ad alta voce. Le sue parole tremavano e si accorse di tremare lui stesso in procinto di pronunciarle. Stava piangendo. «Se lo merita. Ha ucciso Arcanine, Charizard!»

La cima della Torre divampò di fiamme.

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Capitolo 8
*** Si mens non laeva fuisset (Parte Prima). ***


Buonasera a tutti!

Anche se nel precedente capitolo mi ero augurata di riuscire a ridurre un po' i miei tempi di aggiornamento, mi rendo perfettamente conto di averli praticamente raddoppiati e per questo sento di dovere a tutti le mie scuse: a mia discolpa, posso dire soltanto che questo capitolo, a sorpresa, si è rivelato ancora più difficile da scrivere del precedente, e inoltre che è venuto straordinariamente lungo. Proprio per questo motivo sarò costretta a dividere anche questo in due parti, per agevolare la lettura, ma cercherò di postare entrambe stasera stessa. Mi sembra il minimo, dopo tutta quest'attesa.

Devo davvero ringraziare dal profondo del cuore tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente: cristal_93, Bankotsu90, Gabbotron01 e Persej Combe. I vostri pareri mi hanno fatto davvero moltissimo piacere! Nell'ultimo capitolo ringrazierò diffusamente anche tutti coloro che hanno aggiunto la storia a una qualsiasi lista, ma per ora mi limito a dire un grazie di cuore a tutti.

La frase che dà il titolo al capitolo è una citazione virgiliana traducibile così: se la mente non fosse stata funesta, ma per chi fosse interessato al testo originale o ricercasse una traduzione migliore della mia, rimando direttamente alla lettura originale: Eneide, Canto II, versi 54 e seguenti.

Riguardo al capitolo precedente, devo confessare che ne sono rimasta tanto colpita io stessa che ho finito per adottare un Nidoking su Pokémon Giallo e un Arcanine su Pokémon Bianco 2. Naturalmente non interessava a nessuno, ma mi faceva piacere dirlo.

Ciò detto, mi sembra di aver davvero detto anche troppo: non posso che augurarvi una buona lettura!

Grazie anche solo per essere arrivati fin qui

Afaneia




Capitolo VIII – Si mens non laeva fuisset (Parte Prima).


Quando Charizard li ebbe lasciati entrambi nell'ampio giardino della casa di Agatha, Samuel la sollevò tra le braccia e fece letteralmente irruzione nel salotto.

Raggiunse a tentoni il tavolino per distendervi Agatha e corse ad accendere la luce, là dove ricordava di aver visto l'interruttore, quel pomeriggio: la testa gli pulsava ancora quando si muoveva, ma il dolore si era attenuato all'aria aperta e l'adrenalina ancora in circolo nel suo corpo lo spingeva ad agire a velocità sorprendenti.

Nella piena luce elettrica, il pallore di Agatha gli parve ancora più inquietante, ma egli non riusciva a mantenere lo sguardo sul suo viso: i suoi occhi scendevano irresistibilmente verso le sue gambe, che erano rosse del sangue che andava rapprendendosi per tutta la loro lunghezza, almeno fin dove egli riusciva a vedere. Rimosse la camicia che aveva usato per bendarla alla meglio, sforzandosi in ogni modo di non fare gesti bruschi: era sgradevolmente rigida e pesante di sangue, tanto che sciogliere il nodo che aveva fatto fu difficile, ma perlomeno sembrava essere servita almeno in parte a frenare l'emorragia. Quando guardò la ferita, gli parve che il flusso di sangue fosse almeno diminuito.

Non c'era tempo da perdere. Samuel non aveva mai visto una ferita del genere – non che in generale avesse dovuto mai affrontare molte ferite gravi, nella sua carriera di allenatore – e non aveva la più pallida idea di cosa fare, ma forse fu proprio questo a spingerlo ad agire.

Saccheggiò letteralmente la cucina e il bagno: prese acqua calda, asciugamani, disinfettante, garze, qualsiasi cosa che pensasse anche solo lontanamente poter servire. Lavò e tamponò la ferita con acqua tiepida, strofinando e bagnandole le gambe finché sul tavolino sotto di lei non si fu formata una repellente pozza d'acqua rossa di sangue ed egli non riuscì a distinguere nitidamente il calore della sua pelle, e solo allora riuscì a vedere distintamente la ferita. Gli sfuggì una bestemmia. La carne di Agatha era scavata in profondità dal segno perfettamente distinguibile di un morso umano.

Si sforzò di guardarla il meno possibile. La disinfettò nel modo in cui più o meno supponeva che si disinfettasse una ferita e vi legò attorno un bendaggio ridicolmante spesso, cercando di valutare a intuito quanto stringerlo o meno.

Continuò ad affannarsi attorno a lei per i minuti più angoscianti della sua vita. Le frizionò il viso, i polsi e le mani con acqua tiepida, le strofinò le braccia, le fece bere sorsi di acqua zuccherata tenendole il capo reclinato, la chiamò e la scosse e la accarezzò: le sue dita insanguinate lasciavano pallidi segni rosati sul suo viso. Finalmente, alla terza volta che la faceva cautamente bere, Agatha spalancò gli occhi tossendo per l'acqua che doveva esserle andata di traverso e si appoggiò pesantemente alla sua spalla, col corpo scosso dai colpi di tosse.

Era finita. Samuel la sostenne senza stringerla con gli occhi che gli si riempivano di lacrime di sollievo, il volto immerso nei suoi folti capelli incrostati di sangue, e gli parve di esalare, in quel momento, il suo primo vero respiro da quando era entrato nella Torre. Sentì che il petto di Agatha si comprimeva e si dilatava contro il suo e che le gocce calde delle sue lacrime gli cadevano sulle spalle e sulla schiena. Osò appena sollevare una mano ad accarezzarle la nuca, in un gesto che voleva essere rassicurante, ma che forse era solo bisogno di lei.

«È finita, Agatha. Siamo a casa. È tutto finito.»

«No!» singhiozzò Agatha contro la sua spalla, con la voce colma di un dolore tanto atroce, tanto straziante, che Samuel non avrebbe voluto mai udirlo da lei. Una sensazione improvvisa, pungente sulla schiena lo fece fremere inaspettatamente e impiegò qualche istante a rendersi conto che nell'aggrapparsi a lui, Agatha gli aveva conficcato le unghie nella carne. «No, Samuel, no!»

«Sht... zitta, Agatha, zitta. È finita.»

«Samuel, io li ho visti! Ho visto quello che ha fatto la mano, l'ho visto, l'ho visto!»

«Lo so, Agatha!»

Sentiva che se avessero continuato a parlare di ciò che era avvenuto, di tutti gli orrori che avevano visto, avrebbe pianto... e in quel momento non poteva permetttersi di farlo.

Mise a tacere Agatha cullandola come una bambina contro il proprio petto. Non l'aveva mai vista piangere, no, neppure quel pomeriggio, e ora gli parve che nessun suono umano potesse essere più doloroso, più straziante e disperato di quello... eppure, l'ascoltò. Non poteva permettersi di abbandonarsi al dolore adesso, e ascoltò il pianto di Agatha sforzandosi di estraniarsene e di non pensare, di reprimere da qualche parte in fondo alla sua coscienza il pensiero di ciò che egli stesso aveva perduto, lassù. Si concentrò sulla sensazione dei graffi che gli scavavano sulla carne, del petto di Agatha oppresso contro il suo e scosso dai singhiozzi, e chiudendo gli occhi nei suoi capelli sperò di poter provare solo quello: divenire un ammasso di sensazioni fisiche e indistinte completamente scevre da qualsiasi sofferenza. Se così fosse stato, s'egli avesse potuto essere una creatura fredda e inumana, non avrebbe mai dovuto affrontare il pensiero della morte di Arcanine. Ma la verità, egli lo sapeva bene, era che di soffrire non avrebbe smesso mai; che ogni singulto di Agatha gli sembrava strappato dalla sua propria carne...

A un tratto i singhiozzi di Agatha si mutarono in un gemito di sofferenza improvvisa: staccandosi bruscamente da lui, ella chinò lo sguardo come se non comprendesse l'origine di quel dolore.

«Samuel! La mia gamba...!»

Samuel ebbe appena il tempo di trattenerle con più vigore le braccia prima ch'ella allungasse meccanicamente una mano per cercare di sciogliere il bendaggio e vedere la ferita: senza neppure cercare di ribellarsi, Agatha lo guardò con occhi enormi e spaventati. «È stato lui, Samuel! È stato lui che mi ha fatto questo?»

Samuel non poté far altro che annuire senza rispondere. Gli mancava la voce, e come avrebbe potuto dirle ciò che aveva visto lassù?

«Va tutto bene, Agatha, io... ho fatto del mio meglio. Chiameremo il dottore e...»

«No, no, il dottore no» balbettò freneticamente Agatha, scuotendo la testa. Dopo aver perduto tanto sangue, persino quel movimento così semplice parve indebolirla terribilmente: separandosi da lui, ebbe bisogno di sostenersi con entrambe le braccia ai bordi del tavolo per rimanere sollevata.

Possibile che riuscisse a essere così insopportabilmente testarda persino in quel momento in cui a malapena riusciva a rimanere seduta? Ignorando le sue proteste, Samuel la sollevò con decisione dal tavolo, e subito ella cercò di allontanarlo e respingerlo senza troppa efficacia.

«Non lo voglio il dottore, Samuel!» singhiozzò con voce terribile, aggrappandosi furiosamente al suo petto. «Loro sono morti!»

I compagni della sua anima e dei suoi viaggi, con i quali ella aveva programmato e sperato di condividere la sua vita per tutti gli anni a venire, non c'erano più. Agatha non aveva davvero bisogno di aggiungere altro, ma in quel momento, a Samuel non importava realmente che cosa volesse. Arcanine, quella nera creatura che a ogni istante lo fissava con occhi sbarrati dal fondo della sua coscienza, e al cui sguardo d'accusa e di delusione egli continuamente cercava di sottrarsi, Arcanine era morto per colpa sua, e questo mai avrebbe potuto cambiare, ma Samuel poteva ancora salvare qualcuno!

Non ascoltò le sue proteste. Sollevò di peso e senza alcuna difficoltà il suo corpo minuto, totalmente incapace di opporgli una vera resistenza, e si diresse a grandi passi verso il grande bagno del piano terreno.

Non aveva alcuna intenzione di bagnare la goffa fasciatura che aveva faticato tanto a fare, ma in qualche modo Agatha doveva essere lavata. La fece sedere sul pavimento, contro il bordo della grande vasca bianca d'aspetto antico, e prese a spogliarla con grande delicatezza.

Agatha non gli oppose la minima resistenza e a dire il vero, neppure lo guardava. Si limitava talora a facilitarlo, in modo completamente passivo, sollevando o piegando le braccia per assecondare i suoi movimenti, ma non fece mai niente di sua spontanea iniziativa; quando addosso non le rimase che una leggera sottoveste di lino bianco, non manifestò il minimo segno d'imbarazzo o moto di pudore.

Samuel cercò di lavarla passandole spugne imbevute d'acqua su tutto il corpo, o almeno fin dove poteva decentemente arrivare, ma anche quando sarebbe stato un bene per lui che Agatha lo aiutasse, ella non fece nulla. Il suo sguardo era stranito, del tutto perso nel vuoto, ed ella sembrava non accorgersi nemmeno di ciò che accadeva.

Strofinò la sua pelle così forte da farle quasi male, e di certo con molta più energia di quanto ve ne fosse effettivamente bisogno: ma forse i suoi occhi vedevano molto più sangue di quello che c'era in realtà, e l'idea di quel sangue gli faceva orrore.

Quando finalmente non riuscì a vedere altro che il biancore arrossato dagli sfregamenti della sua pelle, si decise a lasciar finalmente cadere la spugna nella vasca da bagno. Inalò un respiro profondo, strenuato, e da qualche parte fuori da quel silenzio echeggiò un tuono. Dunque il temporale era arrivato, finalmente.

Rimase a lungo immobile, inginocchiato sul pavimento accanto a lei. Aveva le ginocchia immerse nell'acqua che era gocciolata a terra dal corpo di Agatha, e questo gli diede una spiacevole sensazione di freddo cui non si sottrasse. Pensò che sarebbe stato piacevole strarsene là fuori, sotto il temporale che scendeva e inondava la terra, e bearsi a occhi chiusi delle sue acque e del suo profumo.

Trascorse tra di loro un tempo indefinibilmente lungo, infine Agatha parlò. Le sue parole furono tanto flebili da mescolarsi al gorgoglio d'acqua che scorreva lungo le grondaie dell'edificio.

«Come hai fatto, Samuel?» domandò. Quando Samuel sollevò lo sguardo su di lei, si rese conto che doveva averlo fissato per un po', cogli occhi spenti e arrossati fissi su di lui. «Non c'era modo di andarsene da lì. Come hai fatto?»

«È stato Charizard» disse Samuel senza riflettere. Agatha aggrottò la fronte, come a chiedergli col volto di spiegarsi meglio, e Samuel avrebbe voluto essere in grado di spiegarle così, dopo neppure un'ora, com'era che la vendetta di Charizard li aveva salvati entrambi. Si passò una mano sulla fronte, come a cercare nella sua mente un numero sufficiente di parole per descrivere l'orrore di quanto aveva visto lassù, sulla Torre, ma forse era troppo stanco per ricordarle, o non ne conosceva abbastanza, o semplicemente tutte le parole del mondo non bastavano a descrivere il momento in cui le fiamme si erano levate sul tetto della Torre alte e inesorabili, illuminando Lavandonia come una grande torcia nella notte, mentre Charizard, folle di dolore, sbatteva le ali per alimentarle e riversava ancora sulla Torre rigurgiti di fuoco.

Aveva visto il sepolto vivo avvampare e bruciare in quell'inferno mentre il fuoco consumava le sue carni già dilaniate, ma per non più di pochi secondi: presto le fiamme erano diventate troppo alte e aldilà di esse egli non era riuscito a scorgere niente. Il vento aumentava il fuoco, lo spingeva verso sud; Samuel aveva trascinato Agatha il più lontano possibile da quell'inferno, ma dove rifugiarsi se tutto attorno a loro si stendevano decine di metri di strapiombo? Aveva urlato e supplicato Charizard di portarli via da lì, di non lasciarli morire come topi in trappola, che almeno portasse via Agatha...

E forse per parlarle di tutto questo le parole che la sua mente conosceva sarebbero persino state sufficienti, ma poi come avrebbe potuto parlarle di quella decina di secondi, così angosciosa da fare quasi male, in cui Charizard era rimasto a fissarlo in silenzio, a molta distanza da lui, sospeso a mezz'aria in chiaro segno di completa estraneità? In quei secondi Samuel aveva saputo, l'aveva letto nei suoi occhi, che Charizard era stato tentato di lasciarlo lì. E perché non avrebbe dovuto? Egli aveva vendicato Arcanine, ma Arcanine era morto per colpa sua! Perché scioccamente era andato lì, perché quella Pokéball gli era scivolata di mano, perché all'ultimo momento si era scansato...

E se Charizard, alla fine, li aveva salvati, egli sapeva che non era stato per nient'altro che per mostrarsi migliore di lui. Samuel aveva letto anche questo nei suoi occhi, nella superiorità che i suoi gesti esprimevano, nella rabbiosa insofferenza con la quale gli aveva permesso di salire sul suo dorso, nella sgraziata rapidità con la quale aveva solcato l'aria discendendo dalla Torre e li aveva deposti al suolo, nel giardino di Agatha, senza troppa indulgenza. Gettando uno sguardo verso la finestra, Samuel si augurò che Charizard avesse trovato un riparo da quella pioggia, dato che aveva rifiutato con un ringhio sommesso e alterato di rientrare nella Pokéball. Chissà dov'era andato a nascondersi.

«Charizard l'ha... bruciato vivo» disse a fatica. «Ha dato fuoco al tetto della Torre. Suppongo che ora tutta Lavandonia stia cercando di spegnere l'incendio.»

Anche se la sua mente sconvolta non era in quel momento degna di particolare fiducia, era ragionevolmente certo che nulla di ciò che era successo potesse essere ricondotto a loro, e questo era un bene, perché nessuno gli avrebbe creduto se avesse affermato di aver dato fuoco a uno dei più importanti beni artistici e culturali di Kanto per salvarsi da un morto vivente. Le fiamme avevano cominciato a propagarsi in modo strano verso il basso mentre loro si allontanavano in volo: con ogni probabilità, la Torre doveva essere rivestita di un qualche materiale impermeabile e altamente combustibile. E questo non poteva voler dire che una cosa: la Torre stessa era diventata la pira funebre dei loro Pokémon. Si augurò che un giorno questo pensiero potesse dargli un po' di conforto, anche se per ora non gliene veniva nessuno.

Sgranando gli occhi, Agatha cercò di raddrizzarsi contro la vasca da bagno, sollevandosi sul pavimento: dalla smorfia di dolore che fece, Samuel capì che la gamba doveva dolerle molto, ma quando cercò di aiutarla, ella sollevò una mano per fargli cenno di fermarsi. «Hai dato fuoco alla Torre?» balbettò.

«È stato Charizard» insisté Samuel. Questo punto gli sembrava di fondamentale importanza: non era stato lui a salvarli, né a salvare gli altri suoi Pokémon. Egli non era stato in grado che di fuggire e abbandonare Arcanine e sperare di morire presto per sperare di potersi sottrarre al ricordo del suo peccato innominabile, e per questo non voleva che nulla di eroico gli venisse attribuito.

Questa volta Agatha si limitò ad assentire col capo, ma stancamente, come se fosse troppo esausta per avere la forza di fare altre domande. Allungò la mano per sfiorare con la punta delle dita la spessa fasciatura sulla gamba e di nuovo strinse le labbra per il dolore, ma non le sfuggì un solo gemito.

«Tu li hai visti, Samuel?» mormorò. Gli gettò una lunga occhiata esitante, come se non fosse del tutto sicura di voler conoscere la risposta, ma si sforzò d'indagare ancora. «Quando mi ha trascinato via, le pallide mani stavano... ora devo sapere. Che cosa hanno fatto ai miei Pokémon?»

Samuel ebbe l'impressione che quell'orribile odore raccapricciante e disgustoso di sangue e viscere gli riempisse ancora le narici, persino lì, in quel bagno così piccolo e pulito e raffinato, e la tempia gli diede una nuova pulsazione dolorosa. Ciò che aveva visto e sentito era orribile, ma mai come in quel momento egli sapeva che Agatha si meritava la verità. Le prese cautamente la mano, stringendola piano, e s'impose di non abbassare lo sguardo mentre le parlava.

«Li hanno fatti a pezzi.»

Agatha accolse l'orrore della verità che lui le rivelava senza altre lacrime, o urla, o gemiti, ed egli comprese che in fin dei conti aveva sempre saputo, prima ancora di chiederglielo, che cosa era accaduto di loro; che nel suo cuore ella l'aveva sentito, e che poteva darsi persino che su quel tetto, negli attimi della sua agonia prima di perdere i sensi, ella avesse udito le grida atroci del loro dolore; ma che comunque aveva chiesto per quel grande bisogno che aveva di affrontare la realtà, di sancire definitivamente la loro perdita e la fine dei suoi Pokémon.

Volse lo sguardo verso la finestra, là dove un lampo in quel preciso istante dilacerava la notte e brillava attraverso i vetri come luce del giorno, e Samuel distinse pienamente in quella luce le fredde lacrime che solcavano il suo volto.

«Perché, Samuel?» mormorò. «Perché tutto questo dolore...?»

Ma nella notte e nel temporale che infuriavano fuori da quella casa, e che lavavano via sangue e fiamme e soffocavano gli incendi, non sembrava esservi alcuna risposta.


Samuel trascorse ciò che restava della notte cercando di tenersi il più lontano possibile. Ignorando le sue smorfie e le sue tenui proteste, portò Agatha in camera da letto e trovò per lei, frugando senza troppa cura in un cassettone, una sottile camicia da notte ch'ella potesse indossare.

Mentre oltre quelle mura il cielo si rovesciava su Lavandonia in un concerto di tuoni e con grande spettacolo di lampi, egli lavorò instancabilmente per ripulire il salotto e il bagno dal sangue e dall'acqua sporca. Gli sembrava che lavorare lo aiutasse: concentrandosi solo e unicamente su ciò che stava facendo, senza visualizzare altro nella sua mente che l'opera delle sue mani, egli riusciva ancora a sopprimere nella sua mente il pensiero di Arcanine.

Trovò la forza di affacciarsi alla finestra solo quando la fredda luminescenza grigia dell'alba cominciò a filtrare attraverso le imposte. Il temporale sembrava essere finito: salendo al primo piano, nella camera da letto dove Agatha lo aveva fatto sistemare meno di dodici ore prima, Samuel spalancò la finestra e si sporse per vedere al di fuori. La cima della Torre, per quel che poteva vedere, era completamente bruciata. Da dove si trovava non era in grado di dire se vi fosse qualcuno alla sua base, ma era quasi certo di sì: sapeva bene quanto valore la Torre rivestisse per gli abitanti di Lavandonia, ma quel pensiero non gli diede il minimo senso di colpa. Il suo Charizard aveva danneggiato uno dei più importanti edifici sacri di Kanto, ma una torre di legno si ricostruisce facilmente, e nessun prezzo sarebbe stato troppo alto per ciò da cui Charizard li aveva liberati. Il sepolto vivo non esisteva più.

Chinando gli occhi dalla Torre che levava ancora una magra colonna di fumo, Samuel perlustrò con lo sguardo il giardino molle e profumato di pioggia che si apriva sotto di lui. Non riusciva a vedere Charizard da nessuna parte. Era certo che avesse trovato un luogo asciutto dove stare al riparo dalla pioggia, ma non era per quello che era preoccupato.

Scese finalmente dabbasso per telefonare al dottore. Agatha si era rifiutata di dirgli il nome del suo medico, ma perlustrando con attenzione il mobile del telefono, Samuel riuscì a trovare una vecchia rubrica rivestita di pelle sulla cui prima pagina, tra le varie annotazioni urgenti, spiccava il biglietto da visita di un certo dottor Ross.

Dopo quattro lunghi squilli d'infinita angoscia gli rispose una cameriera dalla voce assorta e distratta, che aveva tutta l'aria di non star tanto ascoltando lui, quanto piuttosto fissando la cima della Torre dalla finestra ma che parve riscuotersi un po' almeno quando egli pronunciò il cognome di Agatha: l'uomo che sollevò la cornetta di un secondo appareccho, domandandogli sussiegosamente chi fosse e se la signorina Agatha avesse bisogno di lui, gli promise che sarebbe stato lì nel giro di mezz'ora.

Quando Samuel riappese il ricevitore, con la vaga sensazione che il dottor Ross non gli avesse dato una particolare fiducia, si rese conto quasi con sgomento di non avere più nient'altro da fare. Aveva trascorso tutta la notte ripulendo la casa dal sangue di Agatha, e ora persino ai suoi occhi ossessionati sembrava che non ci fosse più niente da pulire.

Trascorse la mezz'ora seguente lavandosi e cambiandosi rapidamente d'abito, e poi passeggiando nervosamente in salotto con le palpebre che stentavano a rimanere sollevate. Da quante ore non dormiva?

Dal piano superiore non sentiva provenire alcun suono. Talora egli si soffermava sul posto, mentre camminava, per evitare di coprire coi propri passi qualsiasi rumore potesse giungere dall'alto, e levando gli occhi ascoltava: tutto era silenzio, eppure egli era certo che Agatha non dormisse. Avrebbe voluto salire di sopra e parlarle, o almeno sedere in silenzio al suo fianco e non far altro che accumulare l'una sull'altra le loro presenze, eppure, ogni volta che provava anche solo ad avvicinarsi alla grande scala, qualcosa lo tratteneva con tale forza ch'era come venir afferrati per le braccia... allora, egli tornava indietro. Non c'era niente che potessero fare l'uno per l'altra, ora.

Il dottor Ross arrivò dopo un tempo che a lui parve sproporzionatamente lungo per qualcuno che abitasse in un paese piccolo quanto Lavandonia: erano quasi le otto e un quarto. Quando Samuel si precipitò ad aprire la porta, col cuore che traboccava di conforto e gratitudine, senza nemmeno premurarsi di chiedere chi vi fosse dall'altra parte, si ritrovò davanti un uomo basso e di mezz'età, piuttosto corpulento che robusto, che lo fissò per qualche istante con severità prima di chiedere: «Il signor Oak, presumo. È lei che mi ha telefonato, stamattina?»

A dire il vero, il suo tono era alquanto freddo per un medico, ma Samuel era troppo preso dal pensiero di Agatha per farci caso. A colpire la sua attenzione fu invece l'aria di grande sicurezza che quell'uomo sembrava emanare, al di là della sua espressione severa, e la stretta decisa e secca che gli diede. Si affrettò a farsi da parte. «Sono stato io. Grazie per essere venuto subito.»

Il medico emise un verso di disapprovazione mentre varcava la soglia: portava con sé una valigetta piuttosto rigonfia. «Subito! Ah! Lavandonia è in preda al panico. Avrei voluto venire in automobile, ma le strade sono congestionate per... avrà visto cos'è successo, presumo» soggiunse, gettandogli uno sguardo distratto mentre appoggiava l'ombrello contro la porta.

Samuel si sentì quasi vacillare. Nella domanda del dottore non c'era assolutamente niente che potesse suonare accusatorio o indagatore, anzi lo aveva a malapena guardato ponendogliela, ma ma come avrebbe potuto non sentirsi sotto processo sapendo cos'aveva fatto? Ebbe bisogno di appoggiarsi con la mano alla parete per cercare un sostegno e si augurò che il suo gesto non sembrasse troppo insolito.

«Ho visto l'incendio dalla finestra» disse a voce bassa, fissando il pavimento nella speranza di tradire il minor turbamento possibile. «Avrei voluto uscire a dare una mano, ma dovevo occuparmi di Agatha, e...»

«Bah! Nessuno avrebbe potuto aiutare» commentò il medico con voce sprezzante, come s'egli avesse espresso un'idea molto sciocca. «Nemmeno i pompieri sono riusciti a salire così in alto. È stato il cielo a salvare la Torre: se non si fosse messo a piovere... comunque. Vuol farmi strada, prego?» soggiunse, in tono appena meno scostante.

Muovendosi come un automa, Samuel scattò in avanti per condurlo al piano di sopra. Si sentiva molto incerto e l'ultima cosa che avrebbe voluto era proprio suscitare sospetti sugli eventi della Torre, ma non poté trattenersi dal domandare ancora. «Si sa come è scoppiato l'incendio?» chiese con tutta la calma che riuscì a simulare mentre salivano le scale.

«Un fulmine, suppongo» ribatté il dottor Ross quasi con disprezzo: per gli abitanti di Lavandonia, l'idea che un fulmine potesse essere stato tanto irrispettoso da colpire la loro Torre doveva avere qualcosa di sacrilego e irriverente. Il dottor Ross aveva detto un fulmine con la stessa aria di superiorità con la quale avrebbe potuto dire: un monellaccio. «Ma la ricostruiremo, vedrà. La Torre è qui da prima dei nostri nonni e non permetteremo a niente di buttarla giù. Ah, ecco...»

Erano già nel corridoio del primo piano: quando Samuel si voltò, colpito dalle sue parole, vide che il dottor Ross si era fermato davanti a una porta chiusa e che lo stava guardando con aria interrogativa, accennandogliela leggermente. Senza aver capito affatto cosa quell'uomo intendesse, Samuel si limitò a indicargli la fine del corridoio. «Veramente, la camera di Agatha è...»

Per il medico fu come un'illuminazione improvvisa. Si riprese subito, con una mezza risata di circostanza, e riprese il corridoio. «Ha ragione, sa! È da tanti anni che non visito più la signorina. In effetti, quella stanza ora sarebbe un po' troppo piccola per una donna fatta.» Solo allora Samuel realizzà che dietro quella porta chiusa doveva esserci la camera d'infanzia di Agatha e che il medico vi si era rivolto istintivamente dopo tutti quegli anni.

La porta dell'attuale stanza di Agatha era stata appena accostata: accostandovi l'orecchio, Samuel bussò chiaramente e disse ad alta voce: «Agatha, il dottor Ross è qui.»

Attese invano la risposta per una decina di secondi: dall'interno della stanza buia non giungeva in risposta altro che silenzio. Del resto, che altro ci si sarebbe potuti aspettare? Non la vedeva meno chiaramente che coi suoi occhi, orgogliosamente asserragliata nella fortezza del suo letto, contrariata e offesa all'idea che nonostante la sua opposizione egli avesse egualmente chiamato il medico... ma con la sua rabbia egli avrebbe fatto i conti quando tutto fosse finito.

«È sveglia, comunque» mormorò un po' imbarazzato. «Prego, entri.»

Aprì lentamente la porta e si fece da parte, facendogli cenno di entrare. Dal letto che scorgeva appena in fondo alla camera non giunse alcuna parola di saluto o di protesta, quasi che la stanza fosse disabitata, quando il dottor Ross entrò col cappello rispettosamente in mano; ma poi, quando Samuel si mosse istintivamente per seguirlo, quegli si volse verso di lui e si bloccò, ostruendogli il passo con la sua mole.

«Lei è il fidanzato della signorina?» chiese severamente, guardandolo dall'alto in basso con aria di disapprovazione.

Samuel non avrebbe creduto mai di poter ancora arrossire, eppure ebbe la precisa sensazione delle proprie guance che bruciavano. Si ritrasse di scatto, scuotendo la testa, e balbettò in fretta senza riuscire ad articolare nulla di concreto: «No, io... compagni di viaggio. Sono un suo amico.»

«Capisco. Un motivo in più per rimanersene fuori, suppongo» concluse il medico, afferrando la maniglia della porta per chiuderla dietro di sé: era evidente che considerava chiusa la questione. Ma poi, rendendosi conto d'esser stato troppo duro,proseguì: «Stia tranquillo, signor Oak. Me ne occupo io. Ma lei perché non va a riposarsi un po', nel frattempo? Verrò io a chiamarla quando avrò finito. Mi sembra molto stanco.»

Stanco, già: stanco. Quando la porta si fu richiusa davanti a lui e alla sua angoscia, Samuel appoggiò la fronte contro il legno fresco, socchiudendo gli occhi. Era l'unico modo ce avesse per sentire di star vicino ad Agatha anche in quel momento, appoggiarsi alla porta e convincersi di essere lì.

Sentì che il dottor Ross la salutava con la massima cortesia: dopo qualche secondo, Agatha rispose piuttosto freddamente. Udì il rumore della finestra che veniva spalancata per lasciar entrare un po' di sole, il tono leggero e di circostanza con il quale cercava d'instaurare una convesazione. Da dove si trovava, Samuel non riusciva a distinguere le parole, ma udire la voce di Agatha, per quanto debole, stanca e fredda, lo fece sentire un po' meglio. Agatha era viva, quantomeno.

Continuò ad ascoltare le loro voci basse provenienti dall'interno, cercò di distinguere dalle loro modulazioni almeno il parere del medico... ma era impossibile. Dopo qualche minuto udì il gemito di Agatha – un'emissione di voce bassa e contrariata, come se fosse riuscito a sfuggirle nonostante tutta la sua volontà, e una parola rassicurante, come se il dottor Ross volesse tranquillizzare una bambina. Cominciò a camminare su e giù per il corridoio, incapace di ascoltare ancora, e aspettò.

Il dottor Ross rimase nella stanza per i venti minuti più lunghi della sua esistenza. Quando uscì, non parve affatto sorpreso di trovarlo ancora lì, nonostante le sue raccomandazioni.

«Ah, eccola» constatò flemmaticamente, richiudendo la porta dietro di sé. «Meglio così, suppongo. Può accompagnarmi giù?»

Aveva tutta l'aria di volergli dire qualcosa. Si avviarono in silenzio lungo le scale, ma Samuel esitò a domandare: aveva la bocca piena di domande, ma vedeva bene che il dottor Ross era pensieroso, catturato da riflessioni tutte sue.

Quando giunsero ai piedi delle scale, come continuando un discorso che avesse già lungamente avviato nella sua testa, il medico parlò. «Per telefono non avevo capito che si trattasse di una cosa tanto grave.»

Ogni singola speranza che Samuel avesse concepito nella propria mente sino ad allora scomparve, parve soffocare e afflosciarsi proprio come un fiore. Dopo lunghi istanti di lotta, quando l'aria finalmente accennò a tornargli nei polmoni, esclamò: «Quanto grave?»

Il dottor Ross non rispose subito. Si sfilò gli occhiali, con gesti molto lenti e misurati, e prese a pulirli pensierosamente. «Una ragazza così giovane, così bella... è un peccato.»

«Che cosa è un peccato?» sbottò nervosamente Samuel. Sentiva che se solo avesse dovuto attendere un altro minuto solamente, avrebbe cominciato a urlare.

Finalmente il dottore si decise a smettere di evitare il suo sguardo. Si rimise gli occhiali sul naso e si volse nettamente verso di lui. «È una ferita piuttosto profonda» disse. «È stato lei a fare la fasciatura, presumo. Andava bene per contenere l'emorragia, ma ho dovuto comunque ricucirla. Questo non sarebbe un problema, ma le resterà una cicatrice molto visibile, e bisognerebbe capire bene l'estensione dei danni, ma con i soli mezzi a mia disposizione, io... La signorina mi ha detto che non avrebbe voluto che lei mi chiamasse» soggiunse all'improvviso, in modo del tutto slegato da quanto stava dicendo un attimo prima, tornando a guardarlo. Samuel fu quasi sollevato dal pensiero di doversi concentrare su una risposta da dargli: questo lo distraeva quantomeno dal pensiero di Agatha.

«Lei la conosce» borbottò. «È così orgogliosa...»

«Oh, lo so, lo so» esclamò il medico agitando una mano, come se gli parlasse di un argomento che conosceva anche troppo bene; ma ora dal suo tono aveva una certa nota compiaciuta, come s'egli fosse stato fiero del suo carattere indomito e ne avesse avuto un qualche merito. «È sempre stata così, sin da bambina. Ma è stato molto bravo a convincerla, sa? Se non le avesse dato retta, non si sarebbe lasciata visitare. Non mi permetteva mai di toccarla quando a chiamarmi era il signor Firefly... voglio dire, il suo tutore.»

Di che genere di complimento si trattasse, questo Samuel non sarebbe stato in grado di dirlo, e anzi aveva il sospetto che si trattasse piuttosto di una velata insinuazione, ma decise di sorvolare. Si limitò ad assentire, allora il medico proseguì: «Pensa che le sarebbe possibile, se volesse... convincerla a farsi ricoverare?»

Questa volta Samuel non poté trattenersi dal fissarlo con tutto lo stupore e l'orrore di cui era capace. «Ricoverare dove?» In un manicomio, forse? Possibile che Agatha avesse detto la verità – ma no, ma no! Agatha non era una sciocca! Sapeva bene come lui che nessuno le avrebbe creduto mai! E allora, se non in un manicomio, la sua ferita era tanto grave da...?

«Non c'è nulla per cui alterarsi, signor Oak!» protestò il medico, sollevando entrambe le mani contro l'aggressività della sua voce. «Non volevo dire che... ma insomma, in un ospedale potrebbero seguirla meglio di me. Lavandonia è una piccola città, signor Oak, e io non sono che un medico di campagna. Non posso certo paragonarmi al primario dell'ospedale di Azzurropoli, le pare?»

Di fronte alla candida ragionevolezza delle sue proteste, Samuel si sentì molto stupido per aver alzato la voce. Si strinse nelle spalle e mormorò impacciato: «Proverò a parlargliene, se vuole. Ma non posso fare l'impossibile.»

Il dottor Ross approfittò della sua resa per sospingerlo discretamente verso la porta. «Lei mi pare stanco, signor Oak. Da quanto tempo non dorme?»

Per evitare di dover rispondere con precisione, Samuel fece un cenno vago con la mano. Cominciava ad avvertire molto intensamente lo sguardo del dottore su di sé e fu contento che i capelli che non tagliava da un po' coprissero a sufficienza la brutta escoriazione che la pallida mano gli aveva provocato. Non aveva voglia di dover dare spiegazioni al riguardo. «Questa notte ho dovuto occuparmi di Agatha.»

Ormai erano davanti alla porta, ma vedendo che il medico si fermava, Samuel esitò ad aprirla: non voleva dare l'impressione di volerlo cacciare per correre al piano di sopra. Gli parve che ora il dottor Ross fosse di nuovo pensieroso.

«Questa notte, è vero?» ripeté. «A proposito... forse lei può aiutarmi, signor Oak: c'è qualcosa di questa storia che mi sfugge. La signorina mi ha detto che a morderla è stato un cane. Lei può confermarlo, presumo?»

Solo in quel momento Samuel realizzò che lui e Agatha non avevano pianificato nessuna storia comune da raccontare in queste circostanze. Avrebbe voluto mordersi le mani per la stizza, invece rispose: «Naturalmente.»

«Suppongo che lei si renda conto che i cani sono una specie rarissima a Kanto e che ci si aspetterebbe che lei ne denunciasse la presenza alle autorità, tanto più visto che si tratta di un esemplare aggressivo.»

Samuel non sapeva niente di tutto ciò, ma promise che appena possibile, sarebbe andato a presentare la segnalazione.

«Molto bene, molto bene.» Il dottor Ross assentì gravemente con aria di grande approvazione. Accarezzandosi piano il mento, proseguì: «A questo punto, devo confessarle di essere un po' confuso, signor Oak. Vede, la ferita sulla gamba della signorina è un morso umano.»

Un morso umano! Forse, se solo Samuel fosse stato meno stanco e meno sconvolto, non avrebbe avuto bisogno che qualcuno glielo dicesse per immaginare che un medico avrebbe saputo distinguere a una prima occhiata un morso umano da uno di cane... ma stanco e sconvolto era quello che era, e solo allora egli si rese conto di quanto lui e Agatha fossero stati imprudenti.

«Non so che cosa dirle» disse rudemente.

«Davvero?» chiese il dottore, fissandolo con attenzione. Dal suo sguardo indagatore Samuel si sentì infastidito e appoggiò discretamente la mano sulla maniglia della porta: ora tutto ciò che voleva era che quella visita avesse fine. «Lei era con la signorina quando è stata ferita?»

Dopo un attimo di esitazione, Samuel rispose: «Era buio e mi ero allontanato di qualche metro dal nostro accampamento. Non ho visto il cane.»

«Presumo che lei non conosca nessuno che potrebbe averla aggredita, non è vero?»

All'improvviso Samuel comprese a cosa miravano tutte quelle domande, cos'era che il medico stava insinuando sin da quando avevano incominciato a parlare....

«Lei pensa che sia stato io!»

Quello era troppo. Il pensiero di Agatha, così come l'aveva vista appena poche ore prima, riversa al suolo col sangue che le impiastricciava le gambe e il volto sbiancato, gli riempì gli occhi tanto intensamente ch'egli di nuovo si sentì lassù, stagliato sopra il nulla dall'alto di quella Torre, e si sentì vacillare... Colla vista annebbiata e le orecchie che ronzavano, non si accorse neppure di essersi appoggiato alla porta con tutto il peso del suo corpo. Lo comprese solo quando sentì la sensazione morbida del divano sotto le cosce, quella fredda e dolciastra dell'acqua zuccherata che il dottor Ross gli stava facendo bere...

«Non è niente, non è niente... un calo di pressione, mio caro ragazzo, ma va già meglio, eh? Come si sente?»

«Non sono stato io» balbettò Samuel meccanicamente, spingendo via il bicchere. Avrebbe voluto alzarsi in piedi, ma decise che aveva bisogno di qualche istante per riprendersi. Cercò di respingere il pensiero anche troppo concreto della notte passata per potersi concenrare e guardarlo negli occhi. «Perché mai avrei dovuto fare qualcosa di tanto orribile?»

«Dovevo chiederlo, signor Oak.» Il medico era di nuovo serio e grave come prima. «Quello non può essere un morso di cane e non farei il mio dovere se non indagassi. »

Posò ordinatamente il bicchiere sul tavolo, ritraendosi di qualche passo per lasciargli un poco di spazio per respirare. Samuel respirò profondamente: si sentiva molto meglio, ora, e si vergognò del mancamento che aveva avuto poco prima.

«Se non mi crede, chieda ad Agatha» disse amaramente. «Può chiedere a lei se ha mentito.»

Non avrebbe potuto trovare una parola magica più efficace: non appena aveva sentito pronunciare il nome di Agatha, il dottor Ross si era irrigidito. Gli accennò appena quello che avrebbe voluto essere un sorriso. «Non è il momento adatto per contraddire la signorina, suppongo» disse, un po' troppo in fretta perché non suonasse come una scusa. «E sconsiglio di farlo anche a lei. Cerchi di lasciarla tranquilla. È sicuro di non poterla convincere a ricoverarsi?»

Dal momento che finalmente il medico sembrava ansioso di porre fine alla visita, Samuel non avrebbe potuto essere più contento di accompagnarlo alla porta. Tornò ad alzarsi in piedi, sulle gambe fiacche ma che ora non minacciavano più a ogni istante di cedere, e si mosse verso l'ingresso. «Farò del mio meglio.»

«Suppongo che in tal caso sia meglio non insistere.» Ormai sulla porta, in procinto di rimettersi il cappello, si prese qualche istante di riflessione prima di parlargli ancora. «Tornerò stasera a visitarla ancora, ma la prego di chiamarmi se dovesse salirle la febbre. Contatterò un'infermiera per la notte, per non lasciarla sola...»

«Un'infermiera?» esclamò Samuel. Si affrettò a scuotere la testa. «La ringrazio, ma non credo che Agatha accetterebbe di farsi curare da altri. Non sarebbe una buona idea.» Non ne avevano mai parlato, a dire il vero, ma con ogni probabilità, per Agatha un'infermiera non sarebbe stata altro che una vittima da tiranneggiare. «Posso rimanere io con lei.»

Il dottor Ross ebbe uno strano sorriso imbarazzato che somigliava più a una smorfia. «Vuol dire che intende rimanere qui per la notte?»

Ora, decisamennte, Samuel cominciava a non aver più voglia di discutere, di difendersi, di giustificarsi di fronte ad altri che alla sua coscienza solamente. Era stato lui stesso, la sera precedente, a porsi il medesimo problema, ma all'improvviso si rese conto di quanto inutile e stupido questo fosse.

«La ringrazio molto, dottore» disse in tono un po' più duro di quanto avrebbe voluto. «A stasera.»

Quando finalmente la solenne intimità della casa si fu richiusa su di lui, separandolo dal mondo esterno e da quel medico e dalle sue insinuazioni, Samuel prese un lungo respiro profondo prima di salire lentamente al piano di sopra. Si sentiva diventato in una sola notte molto vecchio.

La porta della camera di Agatha era di nuovo chiusa, ma Samuel sapeva di non aver bisogno di bussare. La sospinse con delicatezza, aprendola piano sull'enorme stanza bianca e inondata di luce.

«Samuel...»

La specchiera rifletteva barbagli dorati sulla parete sopra la testiera del letto, dove Agatha giaceva minuscola come una bambina, seduta con la schiena appoggiata ai cuscini e i capelli che incorniciavano lugubremente il languore del suo volto. Via via ch'egli s'avvicinava al letto, le sue occhiaie sembravano a ogni passo più scure. «Hai parlato col dottore?»

Samuel annuì. «Sì. Dice che tornerà stasera, ma di avvertirlo se dovessi avere la febbre.»

«Dimmi la verità, Samuel. Perderò la gamba?»

Quella grande forza, da dove le veniva? Samuel la fissò ammutolito per qualche istante. Ferita, estenuata, straziata in ogni luogo della sua persona com'era, da dove le veniva il coraggio di fronteggiare la realtà con determinazione titanica? Samuel avrebbe avuto un gran bisogno di poter fare lo stesso, ma per quanto cercasse dentro di sé, non trovava altro che un grande vuoto e debolezza.

Scosse la testa in risposta alla sua domanda. «Certo che no, Agatha. La tua gamba non è in pericolo, purché evitiamo che la ferita s'infetti. Ti... ti hanno fatto male i punti?»

Agatha non udì neppure la sua domanda. Chinò lo sguardo sulle proprie gambe sotto le lenzuola e mosse lentamente i piedi. Non c'era bisogno di troppa attenzione per rendersi conto che la gamba ferita era innaturalmente più rigida dell'altra.

«È normale» disse Samuel d'istinto, in risposta alla muta scettica domanda che sentiva echeggiare nell'aria, e quella sua rassicurazione suonò ancora più forzata e falsa, proprio per il fatto che non era stata richiesta. Agatha non ebbe reazione.

«Sei arrabbiata con me per averlo chiamato?»

Questa volta, finalmente, ella levò gli occhi su di lui. Scosse lentamente la testa. «No, Samuel... sai che non lo potrei mai. Avevi ragione tu.»

Se quella notte egli non fosse andato sulla Torre, i loro Pokémon non sarebbero morti. Sapeva che Agatha non glielo avrebbe rinfacciato mai, perché aveva scelto liberamente di seguirlo, ma nonostante ciò, era molto difficile credere di aver avuto ragione su qualcosa. Sforzandosi di ignorare quel pensiero, Samuel allungò una mano ad accarezzarle i capelli.

«Dormi, adesso. E cerca... cerca di non pensare a niente.»

Senza preavviso, Agatha allungò una mano dalle coperte e gli accarezzò con due dita le livide occhiaie grigiastre sotto gli occhi. Le sue dita erano fredde e lisce come un flutto d'acqua lacustre, e socchiudendo gli occhi egli si concesse di abbandonarsi per un solo istante alla beatitudine del suo tocco. Ma quella beatitudine era troppo più di quanto il suo rimorso potesse tollerare, e a essa finì per sottrarsi.

«Dormi anche tu, allora. La stanza degli ospiti...»

«Va bene. Ora riposati.»

Accarezzò la sua mano e l'appoggiò sul letto, tra le lenzuola fresche e pulite che sembravano parlare ancora di una vita normale, di un mondo in cui bianco significava pulizia e purezza piuttosto che pallore e morte, e uscì dalla camera chiudendo la porta.

Si trascinò fino alla camera degli ospiti che Agatha gli aveva preparato con tanta cura e si spoglià lentamente, gettando al suolo via via ciascun abito, fino a rimanere in mutande, e si guardò a lungo nello specchio in un angolo della stanza. L'uomo che ricambiava il suo sguardo aveva un fisico tonico e snello dai muscoli guizzanti, la pelle bronzea di sole, ma anche il volto corrucciato e stanco e profonde occhiaie nere, e nei suoi occhi colmi d'accusa Samuel non vide alcuna traccia di perdono.


Dormì di un sonno pesante e inquieto dal quale si destò a fatica dopo forse quattro ore. Non era mai stato abituato a dormire di giorno e ora si sentiva intorpidito, e più assonnato e confuso ancora di quando si era addormentato. Guardandosi attorno, Samuel faticò qualche momento a riconoscere l'asettica stanza degli ospiti di Agatha. La luce che filtrava attraverso le persiane chiuse disegnava sulle pareti macchie dorate che, per qualche istante, parvero voler richiamare alla sua memoria le chiazze luminose che gli avevano abbagliato gli occhi lassù, sulla Torre...

Non riusciva a rendersi conto di quanto tempo fosse effettivamente passato. La luce esterna era quella del pieno mezzogiorno, eppure egli faticava ad abituarsi all'idea che fosse trascorsa già, e al tempo stesso che fosse trascorsa solo una decina di ore appena da quell'orrore... ma era giorno, ora.

Sarebbe stato così facile rimanere in quel letto fresco fino a che il sole non fosse calato di nuovo, concedersi per qualche ora ancora di credere che tutto non fosse stato che un orribile incubo dal quale egli avrebbe finito per svegliarsi quando avesse avuto l'impressione di cadere, o quando tutto fosse diventato troppo da sopportare... Ma l'assenza di Arcanine gli dava una consapevolezza tanto intensa, dolorosa e innegabile da non poter essere un sogno, e neppure per un istante si concesse di credere che Arcanine non fosse morto davvero, e per colpa sua. Si era già comportato da vigliacco una volta, quella notte, ed era anche troppo.

Non si rese quasi conto di sollevarsi dal letto e di vestirsi lentamente, in silenzio, respirando appena per paura di svegliare Agatha. Era il suo corpo, ora, a guidarlo e a scegliere per lui, condotto da un certo pensiero che balenava nella sua mente a intervalli regolari, ma che sembrava scomparire ogni volta ch'egli vi si soffermava con la mente e cercava di afferrarlo per riflettervi su. Era un qualche pensiero confuso che non riusciva a realizzare logicamente, eppure provava la persistente sensazione che fosse la cosa giusta da fare.

Scese le scale per uscire all'aperto, sul vasto prato molle di pioggia. Non sollevò lo sguardo. Se l'avesse fatto, se avesse guardato, avrebbe visto di nuovo la cima bruciata della Torre, vicina e concreta tanto che avrebbe creduto di poterla toccare: ma cos'avrebbe potuto dirgli di nuovo? Dalla sua desolazione non gli sarebbe giunta di certo alcuna rassicurazione o pietà, e guardarla gli avrebbe solo fatto del male.

Attraversò il giardino tenendo gli occhi bassi, compiendo un lento giro tutto attorno alla casa. Non aveva idea di dove stesse andando, e solo un'idea molto poco chiara di cosa stesse cercando, ma nel suo profondo sapeva che avrebbe capito non appena avesse visto.

Si fermò quando si trovò davanti a una specie di capanna degli attrezzi, addossata contro il muro orientale della casa: il suo istinto gli disse che era proprio là che doveva fermarsi. Le girò attorno per trovare la porta, piuttosto accostata che chiusa, e vi appoggiò una mano sopra: sentiva che dall'interno proveniva un certo calore.

Charizard ruggì quando egli spalancò la porta, e Samiel sentì un fiotto d'aria calda investirgli il viso, ma non retrocedette, non vacillò. Si sforzò di tenere gli occhi aperti anche in quell'aria bollente e, semplicemente, attese.

Charizard si era rannicchiato sul fondo della capanna, contro alcune vecchie scatole di legno dall'aria trascurata. Così acquattato com'era, col collo proteso verso di lui e gli occhi colmi di dolore come una bestia ferita, a Samuel non era parso mai tanto indifeso. All'improvviso si accorse di essersi aggrappato con le mani allo stipite della porta e che vi si era appoggiato con tutto il suo peso, forse perché di fronte a tanta rabbia e a tanto dolore le sue gambe minacciavano di cedere.

«Mi dispiace» disse, ed ebbe l'impressione che la sua voce suonasse lontanissima e assente, tutt'altro che sua. Eppure, era tutto quanto poteva dire.

Charizard scosse la testa e fece per voltarsi dall'altra parte. Quel gesto gli diede coma una fitta lancinante in pieno petto: Charizard non voleva guardarlo! Charizard, ch'egli conosceva da quando l'uno e l'altro non erano che bambini inesperti che andavano ovunque, ma il più lontano possibile da Biancavilla...!

Era avanzato verso di lui attraverso la rimessa. Ora a malapena udì se stesso balbettare, con voce straziata e incerta: «Hai ragione, Charizard, hai ragione tu... è stata tutta colpa...»

Charizard ruggì di nuovo.

Quando si era alzato in piedi? Ora la sua presenza sembrava riempire tutta la stanza, era immensa e torreggiante su di lui, e Samuel non poté fare a meno di fermarsi bruscamente proprio là dove si trovava, sollevando le mani in segno di resa.

Ora taceva semplicemente, sforzandosi di non chinare gli occhi, di sopportare la fissità acusatoria dello sguardo di Charizard. La sua coscienza colpevole fremeva, trepidava, lo supplicava da dentro di lui di abbassare lo sguardo e di arrendersi, ma Samuel s'impose con tutta la forza che gli rimaneva di continuare a guardare. Le sue parole non erano bastate a calmarlo, ed egli sapeva che ora Charizard lo disprezzava e lo odiava, ma forse era proprio del suo disprezzo ch'egli aveva bisogno. Arcanine era morto per colpa sua, e nessuno mai oltre a chi era stato presente quella notte l'avrebbe saputo, ma tutto ciò che Samuel in quel momento desiderava era essere punito, voleva che dall'esterno qualcuno riversasse su di lui tutto l'odio e la rabbia e il disprezzo ch'egli stesso provava per sé, ma che erano destinati a rimanere confinati e brucianti dentro di lui solamente. Tutta la persona che era stato fino al giorno prima ora gli sembrava che fosse in piedi dietro di lui, dentro di lui, a giudicarlo e a urlargli che era accaduto tutto a causa della sua sciocchezza, ma quella voce era muta e soffocata e a Samuel non sembrava sufficiente!

Mi dispiace così tanto, avrebbe voluto gridare, e poi ancora: Hai ragione, hai ragione su tutto. Avrei dovuto credere ad Agatha quando avrei potuto, ma qualsiasi giustificazione ora gli sembrava peggiore e più vile ancora del silenzio, e tacque.

Il ruggito ribollente di Charizard finì di riversarsi su di lui bruciando sulla sua pelle come se fosse fuoco così com'era iniziato, sfumando in un gorgoglio sommesso e minaccioso e poi, lentamente, nel silenzio, ma ancora Samuel non accennava a muoversi, né a reagire. Aspettò.

La coda di Charizard che fiammeggiava in un angolo della baracca emanava una luce intensa e un calore soffocante di cui Samuel si sentiva ormai sgradevolmente sudato. Proveniendo dal basso, la luce annegava il muso di Charizard in una grottesca, espressiva maschera di luci e ombre fortemente chiaroscurali, ma in quella pozza nera di contrasti egli continuava a distinguere a ogni momento la fissità dolorosa dei suoi occhi. La rabbia del ruggito non si rifletteva nel suo sguardo: tutta la minaccia e l'odio che Charizard gli aveva rovesciato addosso quando era entrato non si ritrovavano nei suoi occhi. Al contrario, essi erano enormi e spalancati, colle pupille dilatate, e spaventati e sgomenti. In quegli occhi, egli si accorse che c'era ancora una parte del suo vecchio amato Charizard: una minuscola, infida parte di lui che forse ancora non poteva credere che Samuel fosse un assassino, che avrebbe voluto perdonarlo, finalmente, e cedere a quel bisogno di essere consolato che tuttavia non era forte abbastanza per prevalere, e anzi Charizard faceva di tutto per sopprimerlo e metterlo a tacere e non permettere a se stesso di nutrire il minimo dubbio sul fatto che Arcanine fosse morto proprio per colpa sua.

Con guardinga lentezza, Charizard tornò ad abbassarsi fino a sedersi di nuovo e poi, altrettanto lentamente, ad accovacciarsi contro il fondo della baracca, col ventre quasi coperto e protetto dalla distesa delle sue ali. Continuava a non perderlo d'occhio, come a volersi accertare ch'egli non avrebbe tentato di avvicinarsi, e a emettere talora bassi sbuffi di fumo nero e pesante. Ma ora anche lui sembrava risentire di tutta la stanchezza di quella notte troppo lunga, e non aveva più niente di aggressivo.

Samuel rimase immobile in quella baracca bollente e asfissiante per un tempo estremamente lungo, incurante del calore che continuava a salire e a bruciare sulla sua pelle sudata come fiamma. La temperatura si faceva di minuto in minuto più insopportabile, ma Charizard ancora non accennava a compiere il minimo gesto verso di lui.

«È stata la pallida mano» disse all'improvviso. Non sapeva neppure per quale motivo lo stesse spiegando, ma in fin dei conti, Charizard aveva diritto di sapere tutto, e per tutto di odiarlo.

Charizard gli rivolse uno sguardo carico di confusione, sollevando leggermente il capo con il collo proteso verso di lui.

«È stata lei a ucciderli tutti, ma ha ucciso Arcanine per primo. Gli apparteneva, o qualcosa del genere.»

Charizard ebbe uno scatto acuto di fastidio, agitando nervosamente la coda, ma non distolse lo sguardo e non sbuffò neppure. Samuel sapeva che nonostante tutto esso voleva sapere la verità. Nei suoi occhi c'era un grande interrogativo muto che Charizard era troppo orgoglioso per porre, anche solo ruggendo, ma Samuel era ben consapevole di non essere in grado di descrivere cosa fosse la pallida mano.

«L'ha sventrato» disse con voce sorda. Si sorprese di riuscire a pronunciare a voce tanto alta e tanto semplicemente quell'orribile parola, ma non ne esistevano di migliori, e usare un eufemismo per riferirsi a ciò che essa aveva fatto ad Arcanine sarebbe stata un'offesa alla sua memoria.

Si passò una mano sulla pancia per imitare su se stesso la ferita che aveva ricevuto Arcanine, dal basso verso l'alto, e stavolta Charizard spalancò gli occhi e sbatté più volte le ali, tendendo i muscoli fin quasi a volersi sollevare in volo, ma di nuovo non ruggì, non soffiò, non lo aggredì. Voleva ancora sapere, dopotutto.

«Era avvelenato» proseguì Samuel. Sentiva che quel racconto stava diventando sempre più difficile e doloroso da portare avanti: rivedeva tutto, tutto ciò che era accaduto nella sua mente, e nelle sue orecchie sembrava echeggiare ancora l'ululato di Arcanine. «Ha combattuto contro tutti gli altri suoi Pokémon e ha vinto. È stato molto bravo, e molto coraggioso, a combattere così, al buio, contro tutti... ma nessuno poteva niente contro la pallida mano. E io, invece... non sono riuscito a richiamarlo in tempo.»

Avrebbe voluto che fosse stata questa tutta la sua colpa, ciò che per tutta la sua vita avrebbe dovuto rimproverarsi: aver tardato per un istante di troppo a trovare la Pokéball, essersela fatta scivolare tra le mani e averla perduta nel buio. Ma il complesso delle sue colpe era troppo grande e vergognoso per poterlo ridurre a quella mancanza solamente: era non aver creduto ad Agatha, essere stato avventato, stupido e imprudente; era aver creduto che lottare contro il sepolto vivo li avrebbe salvati entrambi ed era, finalmente, essere indietreggiato.

Ma quel balzo all'indietro, il fondo dell'abisso della sua meschinità, quella Samuel aveva giurato di non rivelarla mai: era l'estrema colpa della sua vita, l'unica vera vigliaccheria che avesse compiuto mai, troppo umiliante e terribile da tollerare: ed egli confidava che per quell'unica omissione, ovunque fosse, Arcanine sarebbe stato in grado di comprenderlo e di perdonarlo. Dopotutto, egli ricordava ancora quell'ultima nota consolante e pietosa che l'uggiolato di Arcanine aveva avuto nei suoi confronti, come a dirgli di non prendersela, che non poteva fare nulla, che esso non era arrabbiato con lui, e l'avrebbe ricordata sempre. E poi, ancora, egli avrebbe potuto superare l'onta che quella vigliaccheria comportava: sarebbe diventato un uomo migliore, sì, avrebbe dimostrato a se stesso che il suo non era stato altro che un unico atto di debolezza in una vita d'integrità d'atti e di parole, e allora veramente Arcanine non avrebbe avuto più alcun motivo di avercela con lui.

Quella notte, quando aveva saputo della morte di Arcanine, Charizard aveva dato fuoco alla Torre ed eliminato il sepolto vivo; ma ora che tutti i dettagli della morte di Arcanine gli venivano rivelati, ora che poteva immaginarsi i suoi ultimi istanti tanto vividamente come se fosse stato presente anch'esso, non reagiva. Era come se tutta la sua rabbia si fosse esaurita in quell'incendio, e ora che aveva vendicato la sua morte e riversato tutta la sua furia in turbini di fuoco e scoppi di fiamme, ogni suo impulso si fosse spento. Era troppo stanco, troppo disperato per provare ancora furore, e forse si era reso conto che la sua vendetta non gli aveva dato il minimo conforto. Arcanine non sarebbe tornato.

Vi era di nuovo silenzio, ma stavolta Samuel non si sorprese di non sentirsi più minacciato. Ora realizzava quanto Charizard lo amasse ancora, nonostante il dolore, e si diede dello sciocco per non averlo capito all'istante, quando era entrato: se Charizard non lo avesse amato ancora, non l'avrebbe odiato tanto.

All'esterno della baracca, il cinguettio degli uccelli impazziti di gioia per il ritorno del sole si faceva a ogni istante più forte e assordante e frenetico. Fu solo dopo lunghissimi minuti che Samuel si rese conto quasi con angoscia di aver bisogno di porre quella domanda, e che doveva farlo adesso, quando ancora esisteva quel minuscolo filo che lo legava a Charizard e che presto sarebbe stato reciso per sempre. Forse la sua sarebbe stata una domanda egoistica, insensibile, eppure Samuel sentiva che se non l'avesse posta sarebbe soffocato. Per quell'ultima volta, Charizard lo avrebbe ascoltato.

«Credi... credi che si soffra molto, a morire così?»


Si susseguì un odioso numero di giorni.

Se Samuel fosse stato abbastanza padrone di sé da soffermarsi a riflettervi lucidamente, con ogni probabilità avrebbe provato grande pietà e benevola invidia per il se stesso che quel primo di giugno aveva potuto permettersi il lusso di credere che Agatha fosse pazza, prima di affondare nel suo stesso inferno. Crederle ora era inutile e inevitabile, e quella fatalità di doverle credere proprio quando ormai non serviva più a salvarsi era amaramente crudele.

I primi giorni, la salute di Agatha diede davvero di che preoccuparsi. La ferita sanguinava spesso attraverso i punti, talora macchiando persino le lenzuola, e sebbene Agatha si astenesse orgogliosamente dal lamentarsene, sembrava che le desse un prurito terribile. Ma non ebbe mai febbre, e questo, quantomeno, era un buon segno: quando Samuel le sfiorava con simulata noncuranza il viso o le mani, sentì sempre la sua pelle fresca sotto le dita. Anche l'aspetto della sua gamba non sembrava presentare nulla di anomalo, e per fortuna: Samuel non osava pensare a come avrebbero potuto occuparsi di una cancrena senza portarla in ospedale.

Quando velatamente le aveva fatto presente, col tono di chi si stia limitando a considerare una semplice possibilità, la proposta del dottor Ross, Agatha si era limitata a scuotere gravemente la testa ed egli aveva lasciato cadere l'argomento. Tutto il suo dovere morale si era compiuto nell'atto di quella semplice proposta, ma insistere oltre avrebbe voluto dire offenderla, e non ve n'era bisogno: Agatha sapeva perfettamente quali rischi comportava la sua ostinazione, ed era ostinata perché i suoi Pokémon erano morti. Non c'era altro da dire.

A detta del dottore, non c'era motivo perché Agatha non dovesse comunque tornare a camminare, a patto di non sforzarsi troppo: non si espresse chiaramente, ma dal tono particolarmente cauto col quale lo disse, Samuel intuì che volesse accertarsi della reale portata dei danni della ferita.

Ci vollero comunque altri due giorni prima che Agatha decidesse infine di alzarsi e di riprendere a camminare, dapprima appoggiandosi al muro, e poi gradualmente da sola, ma senza molto entusiasmo. Il pensiero di non aver riportato danni irreparabili non sembrava recarle il benché minimo conforto. Zoppicava leggermente, questo era vero, ma non più di quanto fosse normale per una persona che fosse stata ferita a quel modo, e il medico sembrava ritenere che coll'affievolirsi del dolore sarebbe tornato a camminare in modo assolutamente normale; ma quando questi stabilì che era venuto finalmente il momento di togliere le cuciture, ella gli ordinò fermamente di farle comunque un'altra fasciatura. Il dottor Ross obbedì senza replicare, quasi schiacciato dall'imperiosità del suo duro sguardo nero, ma Samuel, che assisteva a quella visita dalla soglia della stanza – Agatha era completamente vestita, ma quand'anche non lo fosse stata, il suo altero comando di lasciare la porta aperta avrebbe annichilito la volontà di uomini ben più determinati di quello – Samuel sapeva che in quel momento Agatha era fragile come non mai. Non voleva vedere la ferita: malgrado il suo coraggio e la sua titanica determinazione, non era ancora in grado di sopportare la vista della propria carne martoriata.

Ma mentre Agatha guariva il dolore si amplificava e cresceva a dismisura – l'altro dolore, quello profondo e incommensurabile di cui non si poteva parlare. Lavandonia sembrava infuriare e incalzarli da ogni parte fuori da quella casa, premendo sui vetri come una tempesta, e non perché vi fosse o accadesse qualcosa di eclatante, ma perché semplicemente era Lavandonia, con la sua atmosfera cupa e sempre immancabilmente conscia della presenza della Torre. Tutta Lavandonia esisteva in funzione della Torre, coi suoi ostinati fiori viola che sbocciavano solo per venir portati sulle sue tombe, colla sua lunga ombra che proiettava le ore sull'intera città: in quei giorni, decine di ragazzi erano tornati dai loro viaggi o dai loro studi per dare una mano come volontari. Tutta la città si dedicava incessantemente a quel vasto edificio grottesco che la prosciugava come una sanguisuga.

Vi erano giorni in cui Samuel avrebbe voluto afferrare Agatha e scuoterla e gridarle: che cosa facciamo noi qui? Restare qui non li riporterà da noi, e loro sono morti per colpa nostra! Andiamo via, il più lontano possibile da qui. Andiamo a Johto a cercare di superare questo dolore. A Johto, a esplorare quelle vaste antiche torri che odorano d'incenso ma che non celano in sé alcun pericolo! O affittiamo una casa lontana, che si affacci sulla vasta schiena del mare, ovunque tu possa guarire, ovunque, ma che sia lontano da qui... ma ogni volta che avrebbe voluto alzarsi, afferrare le sue spalle e gridare e supplicarla, tutta la sua disperazione finiva per sprofondare in un luogo recondito della sua mente. Non sarebbe servito. Al suo minimo cenno, egli sapeva perfettamente che Agatha si sarebbe alzata e avrebbe accettato di partire, ma abbandonare Lavandonia non li avrebbe aiutati. Se ne sarebbero andati un giorno, certo, non appena Agatha fosse tornata perfettamente in salute, ma fino ad allora, a che affrettare le cose? Il dolore era immutabile e odioso e li avrebbe seguiti ovunque, e cercare di rifuggirlo era una vigliaccheria ch'egli sentiva di non potersi concedere.

Ma poi, che senso avrebbe avuto rimettersi in viaggio, e verso dove, poi? Il tempo delle avventure era finito, ormai. Tutta la squadra di Agatha era morta, e quanto a lui...

Aveva affrontato il resto della sua squadra il giorno dopo aver parlato con Charizard. Non aveva avuto alternative, dopotutto: li aveva evitati anche troppo a lungo, ed essi avevano il diritto di sapere e di odiarlo. Aveva fronteggiato l'incredulità, la rabbia, il dolore nei loro occhi, aveva parlato con loro e risolto ogni loro dubbio, rinunciando a qualsiasi tentativo di difendersi, e poi, semplicemente, li aveva lasciati andare.

Charizard era stato il primo ad andarsene, spiccando il volo con furenti battiti d'ala, e senza guardarsi indietro: aveva gettato soltanto un unico grido per lui incomprensibile di richiamo e d'intesa, rivolto al resto dei suoi compagni, ed era svanito. Charizard era stato il suo primo Pokémon, con lui da molto tempo prima che lasciasse Biancavilla, e se n'era andato senza guardarlo. Questo pensiero era per lui fonte di un dolore inconcepibile, eppure insieme, incredibilmente, di uno strano senso di giustizia e di accettazione, come una punizione da troppo tempo meritata ma che aveva tardato ad arrivare. Essere odiato era la sua punizione, e sentirsi punito riusciva stranamente catartico.

Uno dopo l'altro anche gli altri se n'erano andati, ma con un misto di rabbia e di tristezza, forse senza un vero senso di rancore, e non era difficile intuire perché: loro non avevano visto. Non avevano conosciuto il senso di squallore e desolazione dell'ultimo piano della Torre, l'odore atroce di sangue e viscere, e non avevano visto il sepolto vivo. Forse Charizard avrebbe saputo spiegarglielo meglio di lui , ed essi finalmente avrebbero davvero potuto odiarlo, ma per ora, nelle loro menti, egli era solo il responsabile di un terribile incidente, e non il reale colpevole della morte di Arcanine.

Exaggutor era stato l'ultimo ad andarsene. Assieme a Tauros, era stato l'ultimo a entrare nella sua squadra, il giorno del suo primo indimenticabile safari; ma era anche sempre stato il più affettuoso del suoi Pokémon, ed era stato l'unico, quel giorno, a richiedere da lui un abbraccio. Si era avviato sulle tracce dei suoi compagni lentamente, di controvoglia, e gettando indietro frequenti occhiate e grida di disperati addii: probabilmente, era anche l'unico di loro che non l'avrebbe odiato.

Quando era rientrato in casa, Agatha lo attendeva nel salottino. Non aveva detto nulla, ma lo aveva guardato, con tanta intensità da fargli comprendere, senza alcun bisogno di parole, di aver visto tutto. Aveva il volto contratto dal dolore e dallo sforzo di aver camminato, colle labbra strette ed esangui e le guance sbiancate.

Non c'era bisogno di dire niente. Samuel si era seduto vicino a lei sul divano, sentendosi gli occhi colmi di lacrime e la testa che pulsava, e aveva posato la testa sull'incavo della sua spalla per non essere costretto a guardarla negli occhi.

Agatha non aveva avuto reazione. Così appoggiato a lei com'era, Samuel percepiva appena il battito del suo cuore contro la pelle, e chiudendo gli occhi egli si sforzò d'ignorare tutto e non pensare, divenire un tutt'uno con quel battito rassicurante e credere che esso fosse tutto ciò che esisteva al mondo...

«Continuare a punirti non lo farà tornare, Samuel» aveva mormorato Agatha dall'altra parte di quel suono.

Le sue parole suonavano tremendamente vere: Arcanine non sarebbe tornato mai più da lui, e nulla di tutto quanto avrebbe mai potuto fare avrebbe potuto cambiare questa realtà. Agatha aveva ragione, eppure, nel suo profondo, egli sapeva che di cercare di punirsi per ciò che aveva fatto non avrebbe smesso mai, e mordendosi le labbra non le aveva risposto.

I loro dolori erano troppo grandi, erano come vasti e profondi baratri d'abisso che non avrebbero mai potuto colmarsi a vicenda. Samuel avrebbe disperatamente voluto sapere se esistesse una ragione capace di giustificare e redimere il loro dolore, s'egli avesse compiuta la scelta migliore, e poi altre cose ancora, ma non non c'era bisogno di aggravare Agatha del peso di domande cui sapeva già non esistere una risposta. Parlare in quel momento sarebbe stato lo stesso che domandare urlando contro l'algido cielo assolato che li ricopriva, e udire la propria voce vibrare attraverso l'aria immota, ma rimanere tuttavia inascoltato e ignaro sotto l'indifferenza del muto cielo distante.


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Capitolo 9
*** Si mens non laeva fuisset (Parte Seconda). ***


Capitolo IX – Si mens non laeva fuisset (Parte Seconda)


Cominciò la ricostruzione della Torre Pokémon.

Gli ultimi due piani erano stati completamente devastati dalle fiamme: non c'era più niente da salvare o da recuperare tra le pareti distrutte. Persino le lapidi in pietra o in marmo erano state a tal punto danneggiate o annerite dal calore da risultare pressoché irriconoscibili, e solo alcune delle statue sepolcrali meglio conservate furono trasportate via per cercare di procedere a un restauro.

L'inizio ufficiale dei lavori fu salutato da un'orgogliosa cerimonia formale presieduta dal sindaco ai piedi della Torre stessa: Samuel non riusciva proprio a concepire il motivo di tutto quel furioso attaccamento alla Torre. Proprio com'egli aveva notato nel dottor Ross, sembrava che tutta la città avesse vissuto l'incendio come un affronto alla sua propria dignità civile. La decisione di ricostruire non solo ciò che era andato distrutto, ristrutturando il resto della struttura, ma anche di costruire un altro piano ancora dedicato alle sole onoranze, sembrava esser stata presa sull'onda di una forte indignazione generale, quasi come fiera risposta all'ordine naturale degli eventi che aveva sfidato la sacralità di Lavandonia.

«Sono proprio degli sciocchi, non è vero?»

Appoggiandosi a lui, Agatha era scesa in salotto quel giorno. Indossava un modesto abito da casa di colore scuro, stretto in vita in un modo che risaltava ancor più la sua innaturale magrezza, ma aveva i capelli ancora raccolti nella voluminosa treccia spettinata della notte precedente, gettata con noncuranza sulla spalla destra.

Non aveva pronunciato una sola parola in tutto il pomeriggio, e proprio per questo Samuel sollevò bruscamente il capo quando la sentì parlare. In quel momento, Agatha non lo stava guardando: aveva lo sguardo rivolto lontano, fuori dalla finestra aperta, e ascoltava.

La Torre era ovviamente troppo lontana per poterne vedere altro che la cima o udire le parole della cerimonia, ma dovevano essere stati installati degli altoparlanti, e talora il vento portava loro l'eco strascinata di un discorso indistinguibile e confuso.

Dovette schiarirsi la voce per poter parlare, dopo tante ore di silenzio. «Loro non sanno che cos'è successo, dopotutto. Vogliono solo...»

«Non ci credevano» lo interruppe Agatha, come seguendo il filo di segreti pensieri. «Sapevano, eppure non ci credevano. Non è terribile, questo? Abbiamo sempre vissuto tutte le nostre vite ignorando il fatto che lui fosse lassù, che potesse vederci, sorvegliarci tutti, eppure avevamo tutto quello che occorreva per accorgercene! Tutti i nostri libri e le nostre leggende hanno sempre parlato di quel sepolto vivo, sin dalla fondazione della Torre, dunque qualcuno doveva sapere, all'inizio, quando qualcuno lo ha rinchiuso là dentro. Allora perché quando qualcuno parlava del sepolto vivo nessuno ci credeva mai?» Le tremò la voce per qualche istante mentre parlava, ma non distolse gli occhi dai suoi, non li chinò. «Sono stata stupida quanto loro, non è vero, Samuel?»

Molto, molto di più, avrebbe voluto gridare Samuel, ma non gridò. Tutta Lavandonia aveva ignorato ogni possibile diceria sul sepolto vivo, ne aveva ignorati gli indizi, deriso coloro che vi credevano, ma nessuno mai era salito lassù da solo, di notte, a controllare... oppure, se qualcuno l'aveva fatto, di certo non aveva avuto occasione di raccontarlo, e più niente di lui era rimasto a testimoniare al suo posto. Ma ciascuno di loro aveva voluto salirvi egualmente, per sciocchi e futili motivi d'orgoglio, forse proprio per dimostrare a se stessi che non ci credevano, e ora che erano sopravvissuti non potevano raccontarlo, perché sarebbero stati creduti più pazzi ancora di quanto effettivamente fossero stati.

Ma di tutte queste riflessioni e questi pensieri, Samuel non disse nulla. Dopotutto, parlarne non avrebbe avuto alcun senso: con la sua codardia e il suo scetticismo, Lavandonia era stata molto più saggia di loro, e questo non si poteva in alcun modo cambiare. I suoi abitanti avrebbero potuto sapere, ma avevano scelto d'ignorare, avevano preferito vivere in un mondo concreto e razionale, pieno di sole, in cui nulla di così orribile come il sepolto vivo e la pallida mano avrebbero potuto trovare spazio: quel mondo in realtà non esisteva davvero, ma almeno nessuno di loro era morto. Lui e Agatha avevano scoperto la verità, ma questo a cosa li aveva portati?

«Perché mi stai dicendo queste cose?»

Mentre Agatha apriva la bocca per rispondere, un'esplosione di applausi amplificata dagli altoparlanti sgorgò dalla piazza affollata con tanta forza da risultare udibile anche alla loro distanza, e si affievolì poi senza spegnersi dopo lunghi secondi.

Agatha gettò una lunga occhiata esitante verso la finestra aperta. L'incertezza che sembrava esprimersi da sola attraverso i suoi occhi, rivolti quasi con ansietà verso la Torre, sembrava il timore di parlare così vicino a quel grande edificio incombente, onniveggente, e da esso di farsi udire. «Tu credi davvero che sia morto, Samuel?»

Non avrebbe saputo dire perché questa domanda lo facesse infuriare tanto, come una scossa indicibile in mezzo alla schiena che risalisse fulmineamente in tutto il suo corpo. Quella scossa lo fece balzare in piedi in modo involontario, come per un impeto di rabbia, ed esclamò: «Charizard lo ha ucciso!»

Agatha non dimostrò la benché minima impressione davanti al suo scatto d'ira. Continuò a scrutarlo a lungo, con la fronte penosamente aggrottata, e chiese con calma: «Tu lo hai visto morire?»

«Certo che l'ho visto morire!» gridò Samuel. Era incapace di tornare seduto: prese a percorrere nervosamente il salotto a grandi passi, sebbene non vi fosse modo di sottrarsi a questa domanda. I grandi occhi di Agatha lo seguivano pazientemente lungo la stanza. «È morto bruciato, Agatha.»

Non avrebbe mai avuto modo di dimenticare quel magro orrido corpo ripugnante che scompariva stridendo tra le fiamme e il fumo. Ma quando si voltò bruscamente, incapace di fuggire ancora l'intensità dello sguardo puntato su di lui, lo scontro coll'incredulità dei suoi occhi fu inevitabile. Agatha non lo stava accusando di niente, ma nei suoi occhi egli vide che quel dolore la pervadeva e la divorava ancora da quel giorno. Dopotutto, ella non aveva visto.

«Noi non sappiamo se potesse morire.»

Forse le sue domande e le sue incertezze lo stavano facendo ignorare perché negli abissi della sua mente, in una zona inesplorata e repressa del suo pensiero, egli inconsciamente nutriva i suoi medesimi dubbi. Samuel sapeva perfettamente che cos'aveva visto, la grande fiumana d'inferno e le orbite nere del sepolto vivo in mezzo alle fiamme... ma tutto ciò che, dopo di questo, era veramente riuscito a vedere, era il fumo. Poteva davvero dire d'averlo visto morire?

Ma no, no, no! Non era così che si doveva fare! Lasciarsi prendere dal dubbio, permettere che le speculazioni e le incertezze si assommassero al rimorso e al dolore, e tollerare anche la sola idea che il sepolto vivo fosse ancora vivo su quella terra, non sarebbe stato come accettare di continuare a vivere in eterno lo stesso incubo?

«Abbatteranno gli ultimi due piani» disse con voce decisa, come a voler chiudere la questione, avvicinandosi a una finestra. «Se fosse ancora lì, lo troverebbero.»

La risposta di Agatha era tanto logica e conseguente alle sue parole da essere presente alla sua mente prima ancora ch'ella la pronunciasse: avrebbe potuto dirla egli stesso, se solo non fosse stato troppo impegnato a negarla. «Samuel... quell'uomo è stato sepolto vivo alla fondazione della Torre, eppure nessuno lo ha mai visto.» Dopo un momento, con una sfumatura più tenue nella voce, soggiunse: «Non hanno trovato alcun corpo.»

Quella tonalità più lieve parlava di tante cose non dette, che Samuel colse come se le avesse urlate. Si volse di scatto verso di lei: non hanno trovato neppure loro, era l'obiezione che avrebbe voluto muoverle o meglio ancora gridarle addosso nella sua disperazione, ma in fin dei conti sapeva già che non si sarebbe trattato neppure di una vera obiezione, ma solo di una delle tante proteste vocianti della sua coscienza, che lottava per venire alla luce. Non era stata segnalata alcuna presenza sospetta all'interno della Torre bruciata, ma questo indicava soltanto che non ve n'era stato alcun bisogno. I loro Pokémon, o quello che era stato di loro, erano bruciati nell'incendio, non abbastanza a lungo da divenire cenere e polvere nell'ultimo residuo di dignità che avrebbero meritato, ma di certo abbastanza da apparire scure e inconoscibili forme carbonizzate a malapena identificabili... perdute in mezzo a decine di altri corpi carbonizzati. Nessuno aveva avuto interesse a riconoscere i cadaveri o ad analizzarli, e perché avrebbero dovuto? I loro Pokémon erano cadaveri in un cimitero per Pokémon. Le autorità avevano avuto fretta di chiudere il capitolo dell'oltraggio alla loro Torre e avevano provveduto a cremare immediatamente i corpi.

La verità era che Agatha aveva ragione: non era stato trovato alcun corpo umano. Un ritrovamento del genere avrebbe di certo fatto tanto scalpore che non se ne sarebbe potuto non parlare: vi sarebbero state indagini, accertamenti. Ma questo non significava niente, niente! Anche il suo corpo era bruciato, doveva essere così, e le sue ossa scomposte dovevano essersi perdute in mezzo a tutte le altre, ma certo: doveva essere così!

Ma quando si volse verso di lei, tutte le sue parole e le sue proteste gli morirono sulle labbra prima di trovar voce: Agatha non lo stava guardando. Aveva assunto un'espressione strana, attonita, e i suoi occhi erano puntati fuori dalla finestra come se non potesse credere a ciò che stava vedendo. Quano Samuel si volse nella direzione del suo sguardo, per cercare di capire cosa l'avesse colpita tanto, scorse la lucida carrozzeria di un'automobile che varcava il cancello.

«Agatha...» iniziò con voce incerta, senza sapere con precisione che cosa chiederle. Era assolutamente certo che non si trattasse dell'auto del dottor Ross: quella che stava avanzando era un'auto recentissima e moderna, tirata a lucido con cura quasi maniacale.

«La conosco, sì» disse Agatha con voce fredda e atona, improvvisamente distante da lui, senza attendere la sua domanda. «È l'auto del signor Firefly.»

L'auto procedeva ora con grande lentezza sul viale d'ingresso per evitare di sollevare troppa polvere. Sottraendosi alla sua vista, Samuel tornò a voltarsi verso Agatha: ella si era alzata in piedi, calma e determinata e gelida com'egli l'aveva spesso vista prima di allora. «Sa che sei qui?»

«Sa che siamo qui» lo corresse Agatha seccamente. «E ovviamente questo non gli sta bene.» Gettò un'occhiata di controllo verso il giardino, dove ancora la macchina del suo tutore proseguiva lentamente e inesorabilmente verso la porta, e proseguì: «Deve avergli detto tutto il dottor Ross, naturalmente. È venuto a gioire delle mie ferite, ma io non gli darò nessuna soddisfazione.»

Prima che Samuel avesse modo di chiederle esattamente per quale motivo il suo amministratore dovesse essere così crudele verso di lei, il rombo dell'auto che parcheggiava davanti al portone gli disse che il signor Firefly era arrivato. Quand'anche lo avesse voluto, non vi sarebbe stato il tempo di allontanarsi – ed egli non lo voleva assolutamente, perché allontanarsi sarebbe stato fuggire, ed egli non aveva nulla di cui vergognarsi e dover fuggire davanti a quell'uomo: perciò, egli si limitò a sistemarsi il colletto della camicia, a sedersi sul divano come un qualsiasi ospite, e ad aspettare, mentre Agatha, zoppicando un poco, si avvicinava alla porta.

Il campanello ebbe vari squilli provocatori, insistenti, di svariati secondi, ma per quanto Agatha fosse a un passo appena dalla porta, non aprì immediatamente. Al contrario, attese un tempo spropositatamente lungo, anche più di un minuto, continuando a fissare la porta in silenzio, immobile e con la braccia incrociate. Finalmente, proprio quando Samuel si aspettava da un momento all'altro una nuova raffica di suoni, o semplicemente che il signor Firefly se ne andasse, ella spalancò inaspettatamente la porta e disse con voce prima di qualsiasi particolare inclinazione, e proprio per questo più terribile: «Buonasera, signor Firefly.»

Al di sopra della minuta statura di Agatha che si stagliava davanti all'ingresso, Samuel scorse la figura di un uomo che dimostrava almeno sessant'anni, dai capelli già bianchi, e completamente sbarbato. Dall'alto della sua altezza, gli parve che chinasse gli occhi su Agatha con grande benevolenza, ma il suo sguardo gli diede anche un vago sentimento d'ipocrisia, come s'egli volesse dare l'impressione di essere sorpreso di trovarla lì, ma in realtà non lo fosse affatto.

«Buonasera, Agatha... spero di non disturbarti. Ho saputo che eri a Lavandonia e, a dire la verità, mi sono sorpreso...»

«Che cosa ci fa qui?» lo interruppe Agatha bruscamente, incrociando le braccia sul petto. «Il dottor Ross le ha telegrafato appositamente ad Azzurropoli per dirglielo?»

La sua aggressività parlava da sola: Agatha non lo voleva lì. Ma il signor Firefly non ne rimase affatto colpito: al contrario, si limitò a sorridere pazientemente, come se vi fosse ormai ben più che abituato, e rispose: «No, Agatha. Posso entrare? Dal momento che sono qui, vorrei approfittarne per parlarti.»

Dopo lunghi attimi di silenziosa contrarietà, Agatha si fece da parte per farlo passare. Sì, quella era proprio l'Agatha ch'egli conosceva sin dal primo giorno: non lo voleva lì, ma non poteva rifiutare la sfida ch'egli gettava al suo orgoglio. Gli fece cenno di entrare e proseguì: «Forse sa già qualcosa del mio ospite.»

Sì, decisamente, Firefly sapeva che l'avrebbe trovato lì. Quando il suo sguardo si posò su di lui, Samuel non percepì nei suoi chiari occhi slavati la benché minima sorpresa. Agatha non era paranoica: quell'uomo era stato davvero avvertito della sua presenza e di certo anche delle condizioni di Agatha.

Prima che il signor Firefly facesse in tempo a mentire anche a quel riguardo, Samuel si alzò e gli si avvicinò con la mano protesa, quasi con sfida nei suoi riguardi, e reprimendo il senso di fastidio che quell'uomo gli provocava disse a voce alta: «Samuel Oak, signore. Piacere d'incontrarla.»

Nel momento in cui Firefly appuntò lo sguardo su di lui e sorrise, Samuel decise definitivamente e una volta per tutte che quell'uomo non gli piaceva. Si sentiva come davanti a una trappola che fosse stata tesa per lui, nella quale in ogni caso sarebbe stato destinato a cadere, che avesse scelto di fuggire o al contrario di affrontarlo, proprio per il fatto che quell'uomo era stato curioso fino a un attimo prima di scoprire se l'avrebbe trovato lì oppure no.

«Ah! Molto piacere, signor Oak» esclamò Firefly stringendogli la mano. Non gli aveva detto il suo nome, notò Samuel, con quell'arrogante senso di superiorità che hanno talora gli adulti nel rivolgersi ai bambini. «È anche lei un allenatore, suppongo? Non mi pare di averla mai vista a Lavandonia...»

Samuel si limitò ad annuire lentamente per tutta risposta. Frattanto, alle spalle del signor Firefly, Agatha richiuse bruscamente la porta principale e si avvicinò a loro. Pur sforzandosi di non guardare le sue gambe per non richiamarvi l'attenzione, a Samuel parve che camminasse con qualche difficoltà, e questo non sfuggì sicuramente al suo amministratore: al contrario, egli lo vide gettarle una lunga occhiata eloquente.

«Mi dispiace avervi disturbati, ma mi fermerò solo qualche minuto» riprese in tono di garanzia, strofinandosi le mani. «Devo essere di ritorno ad Azzurropoli assolutamente entro le otto per una cena di lavoro, perciò, Agatha, potremmo scambiare due parole?»

«Prego» ribatté Agatha freddamente, colle braccia incrociate, accennandogli appena col capo al divano davanti a loro. «L'ascolto.»

Il signor Firefly continuò a fissarla con lo stesso immutabile sorriso, senza mutare espressione, né volgere lo sguardo altrove. «In privato.»

«Non c'è niente che Samuel non possa sentire, o che io non gli direi comunque una volta che lei se ne fosse andato» sbottò Agatha, la cui fronte andava increspandosi in una dura linea rabbiosa, esasperata. I suoi occhi sembravano emanare unicamente sfida e provocazione, ma il signor Firefly continuò a non manifestare il minimo segnale di cedimento.

«Mi dispiace, Agatha» disse a bassa voce. Gettò a Samuel una rapida occhiata mortificata. «Se non vuoi ascoltarmi, sarò costretto ad andarmene.»

«Benissimo» sbottò Agatha imperiosamente. «In tal caso, la prego...»

«Va bene così, Agatha» si affrettò a dire Samuel. Allungò la mano a dare una rapida stretta alla sua ed ella lo guardò con occhi colmi di disappunto, ma non si oppose. Si limitò a ricambiare brevemente la sua stretta, come a dire di aver capito. «Posso aspettarti nello studio.»

«Come vuoi» mormorò Agatha senza troppa convinzione. Al contrario, il signor Firefly lo guardò sorridendo, pieno di riconoscenza e forse anche di compiacimento, come se si fosse appena trovato a pensare che fosse un po' meno stupido di quanto aveva pensato all'inizio. «La ringrazio molto, signor Oak.»

Samuel si limitò ad assentire di nuovo col capo, ma senza rispondergli, e si diresse lentamente verso lo studio aiacente al salotto. Non scambiò neppure uno sguardo con Agatha: passandole alle spalle per uscire dalla stanza le sfiorò appena la schiena, quasi inavvertitamente, e basta. In quel contatto appena accennato c'era tutta l'intesa di cui avevano bisogno.

Gli era capitato di entrare altre volte in quella stanza, durante quegli ultimi giorni di angoscia, ma non gli era mai piaciuta molto. La percorse di nuovo con lo sguardo mentre chiudeva la porta e vi si appoggiava con tutto il proprio peso, sentendosi improvvisamente stanco: era arredata di quell'eleganza maschia, pragmatica e sobria delle stanze private, da lavoro, in blu e grigio fumo, e perlopiù spoglia se non per pochi oggetti: un telefono all'americana, ormai un po' antiquato, e lunghe scaffalature colme di quelli che sembravano albi dell'esercito e della marina, tanto asettici e noiosi da non suscitare in lui la minima curiosità. Persino senza guardarli con attenzione sembrava evidente che la maggior parte di essi fosse ancora intonsa.

Al di là della porta chiusa, sentì la voce bassa, misurata del signor Firefly dire: «Siediti, Agatha. Sai bene che non devi sforzarti.»

«Dunque lei sa» disse la voce sferzante di Agatha. «Vuole ancora negare...»

«Tutto il paese lo sa, Agatha» esclamò il signor Firefly in tono esasperato, come se fosse costretto a metterle qualcosa di proprio evidente davanti agli occhi. «Il dottore veniva qui due volte al giorno. Pensi che a Lavandona questo possa sfuggire a qualcuno?»

Non vi fu risposta, per qualche momento: Samuel immaginò che Agatha si fosse infine seduta, nella speranza di abbreviare il più possibile la durata di quella visita. Poi: «Sei troppo magra. Non mangi abbastanza? Stai ancora molto male?»

«La smetta con queste sciocchezze» rispose bruscamente Agatha.

«Mi sto solo preoccupando per te, Agatha. Non sono più il tuo tutore, d'accordo, ma questo non significa nulla.» Seguì un silenzio più lungo, rotto solo da un suono di passi che attraversavano il salotto più e più volte. «Lo so quello che credi, ma non sono venuto qui a dirti che te l'avevo detto.»

«In tal caso, continuo a chiedermi cosa ci faccia qui.»

«Sarei venuto a Lavandonia comunque» affermò il signor Firefly, quasi sulla difensiva. «Obblighi di rappresentanza. Ho fatto leva sul Consiglio per ottenere dei finanziamenti per la Torre, e sono stato finora alla cerimonia per i lavori. Ma volevo vederti, Agatha, e se non ti avessi trovata in casa ti avrei scritto o telefonato. Questa volta l'hai combinata grossa.»

«È stato un incidente» disse Agatha, ma per la prima volta dall'inizio della conversazione, la sua voce ebbe una nota incerta. Sminuire così la portata di quella notte nelle loro vite era come gettare fango sulla morte dei suoi Pokémon, ma come si poteva dire altrimenti?

«Un incidente, Agatha! Quel cane avrebbe potuto sbranarti! Si sa almeno se ti rimetterai mai completamente?»

Cane. Dunque era questo che sapeva il signor Firefly: che era stato un cane. Qualsiasi cosa il dottor Ross gli avesse detto, se veramente era stato lui ad avvertirlo, quantomeno non gli aveva detto tutta la verità e aveva taciuto sulla vera natura della ferita di Agatha. Quel pensiero improvviso gli fece valutare più positivamente il ricordo del medico: aveva parlato al signor Firefly, questo era vero, ma aveva mentito a loro favore.

«Sarebbe potuto accadere a chiunque.»

«Ma è successo a te» concluse il signor Firefly con voce amareggiata. «Guarda caso, a una ragazza di buona famiglia che viaggia da sola.»

«Credevo che non fosse venuto qui per farmi la predica» disse Agatha freddamente.

Seguì un sospiro, poi di nuovo il suono ritmico di passi che percorrevano il salotto. «Vorrei soltanto vederti tranquilla, Agatha. Al sicuro. Tu sai bene che io non voglio limitarti, ma ci sono tante cose che una ragazza come te può fare... cose importanti, come gli uomini, voglio dire... senza correre pericoli. Senza dormire all'aperto e non sapere mai chi incontrerai. Io sono responsabile per te, Agatha...»

«No, invece. Non lo è.»

«Per la legge, forse, ma per tuo padre?»

Samuel levò il capo di scatto. Non si era neppure accorto di aver davvero ascoltato, quanto piuttosto di udire con una parte distratta e incostante della sua mente; ma quella svolta improvvisa del discorso lo richiamava bruscamente alla realtà. La loro conversazione aveva assunto una piega completamente diversa, un taglio personale e delicato, privato, di cui egli sentiva di non dover partecipare... ma ignorare le loro voci era impossibile da quella breve distanza. Si allontanò dalla porta e andò a sedere al centro della stanza, su una poltrona blu sgradevolmente morbida, ma neppure allontanarsi gli permetteva d'ignorare il fervore del signor Firefly proveniente dal salotto.

«Per me le cose non sono così semplici come le vedi tu, Agatha... e i miei doveri non si fermano dove vorresti tu. Io mi sento ancora responsabile per te. Forse sono stato troppo permissivo con te, e non ho calcolato bene i rischi... non dimenticare che sono stato proprio io a regalarti il tuo primo Pokémon, non poi così tanto tempo fa. Devo credere di aver fatto uno sbaglio, quel giorno?»

Non vi fu risposta, per l'ennesima volta. Anche senza vederla, alla distanza di una porta chiusa, Samuel riusciva a immaginarsi Agatha come doveva essere in quel momento, barricata nella roccaforte del suo orgoglio, colle braccia conserte e gli occhi che lampeggiavano di rabbia sotto le sopracciglia arditamente aggrottate.

«Ho sempre cercato di fare del mio meglio con te, Agatha, ma qualche volta ho il dubbio di non aver compiuto le scelte che avrebbero preso i tuoi genitori, se fossero stati al mio posto. Mi piacerebbe solo saperti al sicuro.» Vi fu un attimo di pausa e poi, in tono più mite: «Tuo padre avrebbe voluto vederti sposata, Agatha.»

Finalmente, dopo lunghi minuti di sinelzio ostinato e rabbioso, Agatha parlò. Ma la sua voce tremava di furore, era tesa e vibrante come una corda sottoposta a troppo sforzo: «Mio padre non è qui, ora.»

«Ma lo sai anche tu che sarebbe la cosa migliore per te, ora. Non ti fa bene stare sola, Agatha... questa casa è così grande.»

«Non sono sola, ora.» La voce di Agatha si era inaspettatamente calmata. «Samuel è qui con me.»

«Già... lo so. Ma non voglio insistere su questo, Agatha. Bisognerebbe che lo facessi, ma sai già anche tu che tutta Lavandonia parla anche troppo di questa faccenda. È una cosa che non sta bene.»

«Mi ha insegnato lei a non curarmi di tutte le cose che si dicono a Lavandonia, tanti anni fa» constatò Agatha in tono eloquente.

«Ma lo sai anche tu che questo è diverso, Agatha! Abitare con un uomo non è proprio come quella storia... eppure basterebbe così poco per regolarizzare la vostra posizione. So che non mi darai retta, ma pensaci, Agatha. Sai perfettamente che ho ragione e che sarebbe la cosa migliore per tutti.»

«È questo tutto ciò che aveva da dirmi?» ribatté Agatha per tutta risposta. Vi fu un fruscio lieve, come di stoffa smossa: doveva essersi alzata dal divano, in un chiaro segnale di congedo.

«Sì, Agatha» concluse il signor Firefly, ma con un certo accento di delusione nella voce. «Ho finito, ma vedo che come al solito non hai capito.» Non vi fu risposta. «Come vuoi, Agatha. No, non accompagnarmi» aggiunse in fretta, come per fermare un suo movimento. «Rimani seduta, ti prego... e mangia un po' di più. Sarai meno bella, altrimenti. Dammi retta almeno su questo. Saluterai tu il signor Oak per me, vero? Io non voglio disturbare oltre, e poi, non posso assolutamente fermarmi...»

Di fronte a quel torrente di parole e di domande che sembrava addirsi così poco a un uomo così serio e posato, Agatha rimase impassibile. «Arrivederci, signor Firefly.»

«A presto, Agatha.» Un attimo di esitazione, e poi: «Mi chiamerai se avrai bisogno di qualche cosa, siamo intesi?»

Ma non vi fu alcuna risposta e una porta si aprì e si richiuse.

Il silenzio che calò di nuovo sulla casa sembrava più pesante ancora di prima. Le celebrazioni alla Torre dovevano essere finite, o quantomeno aver smorzato i toni: anche tendendo l'orecchio, concentrandosi molto, Samuel non riusciva più a udire il minimo accenno di voci o di musica. Tutto ciò che entrava dalla finestra dello studio era un gioco di luce e di ombra che si rifletteva sul tappeto blu e che si commutava a misura del vento che stormiva tra i rami del giardino.

Finalmente, Samuel si decise ad alzarsi dalla poltrona. I suoi passi non produssero alcun rumore sul tappeto quando percorse lentamente lo studio per andare ad aprire la porta.

Agatha sedeva del tutto immobile sul divano, cogli occhi vacui e pensierosi perduti nel vuoto. Sembrava esausta, estenuata, come se quello scontro verbale, che pure era stato almeno in apparenza tanto calmo e civile, l'avesse tremendamente spossata. Al rumore della porta che si apriva, ella levò lo sguardo su di lui.

«Mi dispiace, Samuel» disse lentamente. Anche la sua voce suonava fiacca e spenta. «È stato terribilmente scortese.»

«Lo sai che non importa.» Samuel sedette a sua volta sul divano al suo fianco, soppesando con lo sguardo il suo profilo cupo e distratto. «Ne vuoi parlare?»

Come riscuotendosi dai suoi pensieri, Agatha gli gettò uno sguardo carico di riconoscenza.

«Hai conosciuto il signor Firefly, finalmente» constatò. «Che te ne è parso?»

Se glielo avesse chiesto solo venti minuti prima, quando il signor Firefly era entrato in casa e gli si era rivolto in tono così untuoso e ipocrita, Samuel non avrebbe avuto dubbi su cosa risponderle. Ma glielo stava chiedendo adesso, dopo ch'egli aveva suo malgrado udito ogni parola della loro curiosa conversazione, e in quel momento egli si rese conto di non essere più sicuro di disprezzarlo tanto. «Mi è parso che ti volesse molto bene.»

«Già... è così.» Agatha si strinse nelle spalle. «Mi vuole bene, ma mi disprezza. È strano, vero?»

In un certo senso, quella era un po' la stessa impressione che aveva avuto egli stesso. «Già... è molto strano.»

Agatha si alzò lentamente dal divano. Dopo quella giornata insolitamente lunga, anche il suo equilibrio sulla gamba malata sembrava un po' più instabile di prima, ed ella dovette appoggiarsi un momento al bracciolo del divano per poterlo guardare con calma negli occhi. «Mi sento tanto stanca, Samuel. Ti dispiacerebbe se andassi a riposarmi un po'?»


Quando la porta del piano di sopra si fu richiusa alle spalle di Agatha, la villa sprofondata di nuovo nel silenzio gli parve all'improvviso intollerabilmente solitaria.

Nei giorni precedenti non se n'era accorto, forse, tutto preso com'era da Agatha e dal suo dolore, dalle visite del dottor Ross e dal pensiero di dover mantenere il segreto, eppure quel pomeriggio per la prima volta, forse per la strana viscida presenza del signor Firefly che ancora sembrava aleggiare per tutta la casa, la vastità imponente e silenziosa della villa gli parve soffocante e invasiva, quasi perturbante come un veleno, e d'improvviso gli parve che se fosse rimasto ancora lì sarebbe impazzito.

Era la prima volta che varcava di nuovo il cancello dopo quella notte.

Lavandonia sembrava ancora dolorosamente identica a se stessa, così placida e suo malgrado irrorata da un inconsapevole sole. Scorgendo da lontano la folla che si assiepava lungo le strade e per le piazze, attardandosi dopo la festa di inaugurazione, Samuel mutò bruscamente direzione: il centro era troppo gioioso per lui, quel giorno. Tutte quelle persone celebravano i lavori per la ricostruzione della Torre, ma come volentieri egli avrebbe assistito alla sua rovina!

Si volse decisamente verso sud, in direzione del lungo Ponte Silenzio che si snodava sulla piatta distesa del mare: avrebbe camminato colle spalle rivolte alla Torre, rifletté pigramente con una parte della sua mente, e per l'ora del suo ritorno forse Lavandonia sarebbe stata abbastanza tranquilla da non attrarre continuamente il suo sguardo in quella direzione.

Ma quando alla sua destra cominciò ad aprirsi il Percorso Otto, coi suoi grandi alberi ancora rigonfi di fiori e il lieve vento profumato, pulito, che lo accarezzava spesso, una voce che non gli era del tutto ignota esclamò: «Signor Oak, prego!»

Samuel si voltò bruscamente, sentendosi d'improvviso allarmato come non era stato mai, e i suoi occhi saettarono più e più volte su e giù lungo l'imboccatura del percorso, ma non videro nulla. Non c'era nessuno, e per un attimo egli provò l'istintivo irrazionale impulso di voltarsi e correre via, ma s'impose di dominarlo e di rimanere fermo: non c'era più nulla da temere. Quello era il mondo esterno, un mondo reale e assolato dove niente di inspiegabile poteva più minacciarlo...

«Signor Oak, che piacere! Va di fretta?»

Vi fu un bagliore appena fuori del suo campo visivo, tra gli alberi, in corrispondenza di un largo spiazzo ch'egli coglieva appena con la coda dell'occhio: il bagliore fulmnineo, inaspettato della portiera di un'automobile che si spalancava un istante. Quando Samuel si volse in quella direzione, il signor Firefly lo stava avvicinando con un largo sorriso caloroso. «Sta andando da qualche parte?»

Gli riempì la mente un'infinità di possibili risposte e domande perfettamente coerenti e logiche in relazione alla sua affermazione di poco prima di dover tornare in fretta ad Azzurropoli, l'una più offensiva e accusatoria dell'altra, ma sorridendo con calma domandò: «Problemi con il motore, signor Firefly?»

«Il motore?» Il signor Firefly gettò una rapida occhiata, quasi involontaria, all'automobile perfettamente parcheggiata all'ombra, prima di cogliere la velata ironia delle sue parole. «Oh, no, io... ho fatto quattro passi con un vecchio amico. L'ho appena salutato.»

Samuel ascoltò le sue ridicole giustificazioni con la massima calma, continuando a sorridergli. Non riusciva a credere a una sola parola di quanto gli aveva appena detto, ma per smentirlo si limitò a fargli un breve cenno col capo. «In tal caso, suppongo di non doverla trattenere oltre. L'attendono a cena, giusto?»

Il signor Firefly assunse un'espressione leggermente imbarazzata, come se da quella domanda si sentisse colto in fallo, e diede in una breve, secca risata, strofinandosi le mani. «Beh, non è poi così urgente, in realtà. Con l'automobile non ci vuole più di mezz'ora, e poi... non possono cominciare senza di me, dopotutto. Sta andando da qualche parte?» insisté, accennando all'automobile. «Potrei darle un passaggio.»

Era anche troppo evidente che quell'uomo aveva qualcosa da dire a lui personalmente, per qualche suo oscuro proposito, e oltretutto qualcosa che non poteva dirgli in presenza di Agatha. Scrutandolo dall'alto per quanto gli permetteva la loro differente statura, Samuel non poté fare a meno di accigliarsi davanti alla sua palese insistenza. «A dire il vero, stavo andando soltanto a fare una passeggiata.»

«In tal caso, potrei accompagnarla per un pezzo. Le dispiace se mi unisco a lei?»

Per quanto potesse voler bene ad Agatha, quell'uomo continuava a non piacergli, colle sue maniere untuose e subdole e i suoi atteggiamenti anche troppo infidi, e anzi i suoi sospetti nei suoi confronti crescevano a ogni minuto che passavano insieme. Ma come opporsi senza risultare terribilmente maleducato?

«Come preferisce» rispose a malincuore. «Prego.»

Ripresero a camminare verso sud, a una prudente distanza di cortesia l'uno dall'altro. A costo di mantenere per ore quello strano silenzio imbarazzato, Samuel era determinato a non parlare per primo. Era curioso di scoprire perché il signor Firefly avesse tanta premura di parlare con lui, ma domandargli qualcosa sarebbe stato facilitargli quel compito e metterlo nella condizione ideale per parlare, ed egli non ne aveva alcuna intenzione.

Dopo poche decine di metri, finalmente il signor Firefly parlò. «Spero che non se la sia presa per prima, signor Oak. Sa com'è, quando si tratta di affari...»

«Capisco benissimo» ribatté Samuel con calma. «Non c'è bisogno di scusarsi.»

Ora che aveva rotto il ghiaccio e si era accertato della sua disponibilità, il signor Firefly parve acquisire sicurezza e muoversi con più scioltezza sul terreno pericoloso della loro conversazione. «Le confesso che Agatha non mi aveva mai parlato di lei. Posso chiederle se vi conoscete da molto?»

«Un paio di mesi» rispose Samuel con sufficienza. Continuava a guardare davanti a sé, con l'aria di osservare il piatto paesaggio cittadino che degradava e inclinava il direzione del mare, ma nonostante ciò non perdeva di vista il suo interlocutore, scrutandolo attentamente con la coda dell'occhio; per contro, era certo che anche il signor Firefly, al di là del suo sguardo benevolo e della sua cordialità stesse facendo altrettanto con lui. «Ci siamo conosciuti alla Lega Pokémon, il primo giorno delle iscrizioni al Torneo.»

«Ma poi non avete partecipato, eh?»

Quella di certo era una prima, velata insinuazione alla sua volta, ma Samuel s'impose di non lasciarsene intimorire: non c'era nulla da nascondere, si ripeté. Perciò, con la massima calma, ribatté: «Abbiamo preferito dedicarci ai viaggi e alle esplorazioni.»

«Oh, capisco» constatò il signor Firefly a bassa voce. «Ma che drammatica fatalità, non è vero? Se solo voi foste andati alla Lega, non sarebbe successo quel terribile incidente...»

Samuel non accolse la sua provocazione. Erano in una zona ormai piuttosto periferica di Lavandonia, dove già le cose cominciavano a diradarsi; scrutando il paesaggio attorno a lui, Samuel decise tra sé di non proseguire per più di altri cinque minuti. Se il signor Firefly non fosse riuscito a dirgli ciò che doveva entro quel tempo, avrebbe dovuto arrendersi: per quanto lo riguardava, non voleva lasciare Agatha sola troppo a lungo.

Era evidente che era proprio qui che il signor Firefly voleva arrivare, o quantomeno, era da qui che voleva partire. «Lei era lì, non è vero? Voglio dire, quando Agatha è stata aggredita.» Samuel si limitò ad annuire. «È stato lei a salvarla, non è vero? Dev'essere stato un miracolo che lei fosse lì. Pensi che quel cane avrebbe potuto sfregiarla, o peggio ancora!»

In quel momento, all'ennesima violenta immagine vivida di ciò che il sepolto vivo aveva fatto ad Agatha, mantenere la calma e non tradirsi gli richiese uno sforzo terribile. Volgendo lo sguardo altrove, cercò di mantenere una voce bassa e indifferente, quando disse: «Agatha avrebbe potuto cavarsela benissimo anche senza di me. Quella bestia l'ha colta alla sprovvista, ma se non fossi arrivato io, si sarebbe salvata ugualmente da sola. E poi aveva i suoi Pokémon» soggiunse, un po' troppo bruscamente, ma Firefly non vi fece caso. Ancora non sapeva che la squadra di Agatha non c'era più, dopotutto.

Preso com'era da questi pensieri, Samuel si accorse a malapena che il signor Firefly gli stava domandando: «Posso chiederle se è innamorato di Agatha?»

Samuel si fermò bruscamente là dove si trovava, e in modo tanto inaspettato che il suo accompagnatore quasi incespicò per fermarsi a sua volta. Come si permetteva? Forse che essere ricco, essere influente gli dava l'autorità necessaria ad avanzare insinuazioni e domande... e per conto di chi, poi? Ma se non era neppure più il tutore di Agatha!

Si rendeva perfettamente conto di essere avvampato: persino il suo cuore aveva ora accelerato i suoi battiti come un martellio incessante, pressante nella gabbia toracica. Non poteva fare nulla per impedire queste manifestazioni fisiche, ma la valanga d'improperi e indignazione che stava per rovesciargli addosso poteva almeno fermarla. Gridare e alterarsi sarebbe stato peggio ancora che arrendersi e dargli vinta quella battaglia senza nemmeno provare a lottare: infuriarsi sarebbe stato tanto eloquente quanto rispondere sì, e a quel punto ogni negazione sarebbe stato inutile.

Perciò, scostandosi nervosamente da lui, rispose gelidamente: «Spero che lei si renda conto di quanto è indiscreta la sua domanda. Da lei non me l'aspettavo.»

L'espressione di mortificazione che apparve sul volto del signor Firefly fu tanto ipocrita e stucchevole che neppure un uomo molto più bendisposto e fiducioso di lui avrebbe potuto rimanerne persuaso.

«Oh, ma non c'è bisogno di prendersela!» protestò con troppa calma per poter essere sincero, levando le mani in un plateale cenno di scuse. «Non volevo mica dire che... del resto, nessuno potrebbe mettere in dubbio così, al solo vederla, che lei sia un uomo d'onore, un uomo di saldi principi morali. Altrimenti lei mi avrebbe dato del bugiardo già qualche minuto fa, quando io mi sono smentito riguardo alla cena...» Gli sorrise con aria di complicità, come a volergli dire che sapeva che lui sapeva, ma Samuel non ebbe reazione. «È pur vero che speravo d'incontrarla, signor Oak, anche se non potevo sapere se lei sarebbe uscito... ma ho deciso di rischiare e di aspettare comunque fuori dal cancello, e come vede, audentis Fortuna iuvat. * Lei lo riterrà assudo, forse, ma io sono il tutore di Agatha e ho a cuore la sua felicità.»

«Agatha è maggiorenne» ribatté Samuel nervosamente.

«Questo è vero» ammise Firefly, con l'aria di dovergli fare una grande concessione. «In tal caso, poniamo che io abbia a cuore il suo patrimonio, se così preferisce. Non potrà negare almeno che io sia ancora il suo amministratore! Ma indipendentemente da come lei preferisce pensarla, signor Oak, io voglio molto bene ad Agatha.»

«Questo lo so» riconobbe Samuel.

«Ah, lo sa» ripeté il signor Firefly in tono molto compiaciuto, come scoprendo all'improvviso di avere contro un mare di nemici un inaspettato alleato. «In tal caso, forse la mia domanda non dovrebbe sorprenderla tanto, ma potrei porla in modo meno personale, se così crede. Ha mai pensato ai vantaggi che le deriverebbero da un matrimonio del genere?»

Quell'ultima domanda fu così offensiva che Samuel, semplicemente, scoppiò a ridere. Non avrebbe mai potuto neppure immaginare che qualcuno al mondo fosse in grado di risultare così maleducato e meschino e vigliacco con una sola domanda, e all'improvviso questo gli diceva anche qualcos'altro, che forse avrebbe dovuto essergli lampante e scontato fin dall'inizio, ma di cui solo ora, infine, si rendeva conto: quell'uomo non costituiva una minaccia, o quantomeno, tutt'al più, non era che una minaccia fatta d'aria e di parole ma del tutto incapace di concretizzarsi in atti.

«Agatha non è un vantaggio» esclamò, ma senza più difese alzate, né rabbia o sdegno. L'uomo che aveva di fronte era meschino e vile, e non valeva troppo la pena di prendersela.

Davanti alla sua risata, il signor Firefly non parve scomporsi troppo. Continuò a scrutarlo in silenzio con sguardo attento e perspicace per svariati secondi, prima di stabilire che, evidentemente, da lui non avrebbe ottenuto altra risposta.

«Non mi fraintenda, signor Oak, non sto cercando di farle credere che Agatha sia letteralmente molto ricca. Suppongo che, dopo la guerra, questo non si possa dire di nessuna famiglia, ormai... ma penso di poter affermare che il suo patrimonio la renda decisamente benestante. Sì, mi piace questa definizione: decisamente benestante.»

«Tutto questo non mi interessa» sbuffò Samuel. «Il patrimonio di Agatha non mi riguarda assolutamente e non intendo continuare questa conversazione.»

«Come vuole lei, signor Oak. Del resto, ammiro la sua intransigenza» disse Firefly, per nulla deluso. «Ma quello che stavo cercando di farle capire è che da una regolarizzazione della vostra posizione non potrebbero derivarne che vantaggi anche a lei personalmente. La situazione sociale della signorina è ormai, diciamo così... compromessa, ma ci sono tanti modi per aggiustare le cose. Non c'è neppure bisogno di fare le cose in fretta, a meno che... insomma, si potrebbe procedere dapprima a un fidanzamento ufficiale, e solo dopo...»

«Ma per quale motivo tutto questo le preme tanto?» domandò Samuel spazientito. Non aveva più alcun desiderio di continuare quegli stupidi discorsi: non vedeva l'ora di tornare da Agatha e di scrollarsi di dosso quell'uomo apprensivo e insistente, ma ormai la conversazione non si poteva proprio lasciarla a metà, ed era meglio finirla in fretta. «Agatha non è neppure più sotto la sua tutela, ormai. È una ragazza indipendente e matura e ha sempre preso le sue decisioni da sola, dunque perché insistere tanto? Sa benissimo che non le darà retta, e io ancor meno di lei, dato che non la conosco neppure. Dunque perché?»

Ora tutto lo scherno, tutta l'ipocrisia e la superiorità sembravano essere svanite dal suo volto quando il signor Firefly, con aria all'improvviso divenuta molto grave, rispose: «Lei non può capire, signor Oak.» Per una volta, Samuel non protestò. «Lei è giovane, e io non la giudico per questo: sono stato giovane anch'io. Tutta l'esperienza dei suoi viaggi non può averle insegnato di quale responsabilità io sia carico, e inoltre, Agatha le avrà sicuramente parlato di me come di un mostro... oh, so che lo ha fatto. Lo so, ma mi creda, io non ce l'ho con lei. È fatta così, a modo suo, e mi ha sempre odiato per aver tentato di imporle delle regole senza essere suo padre. Non ha mai voluto riconoscere che io facessi del mio meglio, e di tutti gli anni in cui mi sono preso cura di lei, e nel modo migliore che ho potuto, oltretutto, sono assolutamente certo che Agatha non ricorda nient'altro che i miei errori, le mie mancanze, le mie debolezze. Io le sto parlando così, proprio come se lei fosse davvero il marito o il fidanzato di Agatha, in modo del tutto spassionato, e lei può vedere che io non la sto affatto criticando per questo. Ho sempre cercato di essere obiettivo con lei: amo Agatha come se fosse una mia nipote, ma vedo anche i suoi difetti, eppure non glieli rimprovero proprio tutti: non è poi tutta colpa sua. Se non fosse stato per la tragedia, sono certo che non sarebbe cresciuta così...»

La trappola era lì, nascosta e intessuta tra le sue parole, ma così ben tesa e così mascherata che per Samuel cadervi fu proprio inevitabile, come avanzare alla cieca nel buio. Forse il signor Firefly non voleva neppure prenderlo così, non era sua intenzione ingannarlo o attirarlo coll'inganno, eppure, tutto preso dalle sue parole, senza minimamente rendersi conto del tranello, Samuel udì la propria voce domandare: «Quale tragedia?»

Il signor Firefly interruppe bruscamente il lungo fluire dei suoi pensieri. Sbatté più volte le palpebre, come a voler rendersi conto d'aver capito bene, e domandò: «Lei non lo sa?»

Che avesse cercato di attirare così, meschinamente, la sua attenzione, oppure no, sembrava comunque terribilmente sincero, e a quel punto Samuel non poteva più tirarsi indietro. Si sentiva mosso da quella stessa strana, cieca curiosità che lo aveva condotto di notte sulla Torre, e a quella curiosità tutta la volontà del mondo non era capace di opporsi. «Voglio dire... lei sa che Agatha è orfana. Non le ha mai detto perché?»

Di qull'uomo non si doveva fidarsi, no: Samuel avrebbe dovuto andarsene via, tornare da Agatha, dimenticare tutto... invece, scosse la testa.

«Oh, cielo» constatò Firefly con aria molto confusa. Si guardò un po' attorno, come se non avesse idea di cosa dovesse dire, e poi: «Beh, io... certo, non è una cosa di cui si parla volentieri, e Agatha, forse... insomma, forse non dovrei dirglielo io, ma dopotutto, ne parlarono anche i giornali, quando accadde.» Esitò ancora un poco, come cercando una giustificazione in ciò che aveva appena detto egli stesso, poi disse: «Non pensi male di quello che sto per dirle. Giuro che non era una persona cattiva, e sono assolutamente certo che quello che ha fatto, non l'ha fatto intenzionalmente. Preferirei piuttosto che giudicasse me, perché ho sempre pensato che se io fossi stato un po' più attento, se mi fossi reso conto... le cose non sarebbero andate proprio così. Comunque, il punto è che il padre di Agatha era colonnello, ma quando è scoppiata la guerra si è tolto la vita per non dover combattere.»

Fu come sprofondare. Sì, a modo suo, tutto aveva un senso, tutto era sufficientemente sensato e razionale da non dover credere che Firefly stesse mentendo... la pistola con cui Agatha aveva cercato di suicidarsi, per esempio. Da quel poco che aveva capito o dedotto della sua infanzia, certo, aveva sempre intuito e accettato con naturalezza ch'ella fosse rimasta orfana durante la guerra, e non vi aveva trovato nulla di strano; ma ora...

Il signor Firefly tacque per qualche istante per dargli il tempo di comprendere appieno la portata della sua dichiarazione, guardandolo con occhi carichi di pietosa comprensione: sembrava che riuscisse a cogliere il complicato svolgersi dei suoi pensieri al solo guardarlo.

«Forse lei era troppo giovane per ricordarsi dello scandalo, ma se le capitasse di leggere qualche vecchio giornale, non creda a quello che c'è scritto. Quello che ha fatto il colonnello è orribile, ma io lo conoscevo, e sulla memoria di mia madre potrei giurarle che in quel momento non ragionava come me o lei possiamo fare adesso.»

«Che cos'ha fatto?» chiese Samuel a bassa voce. Ricordava piuttosto bene quando era finita la guerra: non poteva aver avuto più di undici anni, a quell'epoca, e dunque circa nove, quando era iniziata: non c'era da sorprendersi che non ricordasse affatto una storia del genere.

«Voleva solo fare la cosa migliore per tutti» insisté il signor Firefly in tono quasi disperato. Di tutta quella storia, sembrava che non gli importasse d'altro che di difendere il suo vecchio amico. «Aveva già partecipato ad altre compagne nelle zone coloniali, aveva sempre fatto il suo dovere. Questo può confermarglielo qualsiasi annale dell'esercito. Ma quando hanno cominciato a usare il gas, allora lui... credo che non l'abbia mai superato.»

«Era sconvolto, sa, ma era troppo orgoglioso per ammettere di esserlo. È per questo che non ce ne siamo mai accorti, e anche se ce ne siamo accorti, abbiamo sempre pensato che in qualche modo gli sarebbe passata. Avremmo dovuto tutti preoccuparci un po' di più, ma il colonnello sembrava sapere perfettamente quello che faceva, e allora...»

«Quando è scoppiata la guerra, ha pensato ai gas. Io, io lo so che è a quello che ha pensato, non può davvero aver avuto paura d'altro!, che di dover di nuvo dare ordine di usare i gas, o di vederli usare da altri... Io so che ormai nella sua mente non c'era spazio per altro, che pensava continuamente a sua moglie e a sua figlia che morivano asfissiate! Lo so che non è andata così, poi» esclamò con aria terribilmente angosciata. «Noi lo sappiamo che sul nostro territorio non li hanno usati, ma lui, lui come avrebbe potuto saperlo? Non poteva mica prevedere il futuro! Ormai non pensava ad altro che ai gas.»

«Eppure, all'esterno, sembrava così calmo, così determinato. Ho fatto quello che allora tutte le persone piuttosto abbienti facevano: ha iscritto Agatha in un prestigioso collegio femminile di Kalos, proprio a Luminopoli, per tenerla lontana da qui. Era la scelta migliore: non sarebbe neppure stata sola, perché con lei erano iscritte anche le figlie di un generale... All'inizio, anche la signora doveva trasferirsi a Luminopoli, la madre di Agatha, voglio dire» precisò. «Era già tutto previsto, mi ero occupato io di trovarle un appartamento adeguato. Ma vorrei farle capire che donna fosse la signora: lei si figuri un'Agatha di trent'anni, solo un po' meno testarda e un po' più posata di lei... ecco, vedo che ha capito» soggiunse in fretta, abbozzando un sorriso. «Non ci fu modo di farla allontanare dal colonnello. Neppure lei si era resa conto di cosa progettasse suo marito, ma rimase a Lavandonia, ostinata come lei può immaginare.»

«Solo che il colonnello non riusciva proprio a liberarsi del pensiero dei gas. L'abbiamo capito solo dopo, ma lui ormai era certo che non sarebbero sopravvissuti, e credo che tutto ciò che gl'importasse, ormai, fosse di non morire come aveva visto morire quei disgraziati soffocati, nelle colonie. Eppure non intendeva fare del male a nessuno! Allora, proprio la notte prima di partire, ha messo del veleno nel tè della signora, è sceso nel suo studio, e si è sparato...»

Il racconto era finito. Malgrado Lavandonia fosse anora calda, Samuel si rese conto di avere i brividi: faticò qualche momento a riscuotersi dall'impressione forte che quel racconto gli aveva provocato, mentre Firefly proseguiva a bassa voce.

«Aveva già progettato tutto. Aveva lasciato un testamento datato ben tre settimane prima, in cui mi nominava tutore legale e amministratore di Agatha, e questo voleva dire che sapeva già da tempo cos'avrebbe fatto. Questo potrebbe far pensare che fosse in sé, ma non lo era. Aveva ucciso sua moglie nel sonno perché aveva paura che altri gliela uccidessero col gas e non voleva che soffrisse, e questo non vuol proprio dire che fosse in sé. Però, aveva almeno salvato la bambina, e questo gli era riuscito.»

«Feci tornare immediatamente Agatha dal collegio per i funerali, ma più tardi non ebbi il coraggio di farla ripartire. Forse non fu la scelta migliore quella di farla vivere sola, in quella grande casa vuota, ma che cosa avrei dovuto fare? Se ho sbagliato, mi si riconoscerà almeno che l'ho fatto in buona fede, e questo nessuno me lo potrà negare.»

«È vero anche che l'ha viziata un po' troppo, ma anche su questo sono molto indulgente con me stesso. Era una bambina così sola! Io non potevo venire a visitarla più di due o tre volte alla settimana, perché ero continuamente impegnato alla Lega Pokémon, e d'altronde, lei mi odiava. Non c'era stato modo di addolcirle la verità, poiché a Lavandonia tutti sparlavano del colonnello: dunque lei odiava anche suo padre, per aver ucciso sua madre. Allora era troppo piccola per capire le sue ragioni o poterlo giustificare, ma anche da grande, le cose non sono cambiate molto. Tutto ciò che ho detto a lei adesso, sui gas e sulla guerra, lei non l'ha mai voluto ascoltare. Suo padre l'ha salvata perché l'adorava e, nella sua follia, voleva risparmiarle una morte orribile, ma per lei, invece, si è suicidato perché non l'amava abbastanza da restare in vita. Io cerco di giustificarla, perché aveva solamente otto anni quando il colonnello è morto. Conosciamo davvero i nostri genitori, a quell'età?»

«Ho cercato d'ingraziarmela in ogni modo possibile, ma naturalmente non è servito, come può vedere, dato che mi odia ancora terribilmente. Fui io a regalarle il suo primo Pokémon, sa?» soggiunse sorridendo, come se quel ricordo gl'ispirasse una grande tenerezza. «Faceva impazzire ogni possibile governante, ma io pensai che un Pokémon carino come Nidoran avrebbe potuto darle un po' di affetto e di serenità. Aveva una predilezione tutta sua per il tipo Veleno, chissà mai perché, e almeno questo parve apprezzarlo: adora ancora il suo Nidoking, dopotutto, o no?» chiese con una breve risata imbarazzata, da cui Samuel si sentì raggelare.

Dunque era andata così, allora. Egli non aveva mai saputo nulla dell'infanzia di Agatha, e non c'era da sorprendersi, se le cose stavano così. Non poteva sapere quanto ci fosse di vero in quel racconto terribile e portentoso che gli aveva fatto Firefly: per quanto ne sapeva lui, avrebbero potuto essere tutte menzogne, ma il punto era che era tutto così credibile. Le sue parole s'incastravano perfettamente con i pochi dettagli e accenni ch'egli conosceva della vita di Agatha, colmandoli e armonizzandoli, e di certo il signor Firefly non avrebbe potuto avere idea di cosa lui sapesse o meno...

«Perché mi sta dicendo tutto questo?» chiese cautamente, scrutandolo di sottecchi. La sua descrizione lo aveva preso e trascinato oltre ogni dire, ed egli si era sentito tutto immerso in quel passato e in quella tragedia... ma non poteva permettersi di perdere la concentrazione, ora. Non c'erano dubbi: il signor Firefly gli aveva raccontato tutto ciò per un motivo, ed era ora fondamentale capire quale. «La ringrazio per averlo fatto, ma perché le interessava che io sapessi?»

«Perché dopotutto era giusto signor Oak» rispose Firefly. Scosse piano la testa. «Di certo Agatha avrebbe raccomandato comunque, prima o poi, ma lei poteva davvero aspettare? Agatha non sarebbe così se non fosse stato per la tragedia, e di questo io sono profondamente convinto: ora, anche lei sa per quale motivo Agatha è fatta proprio così... e poi, lei non capiva perché io tenessi tanto a lei. Capisce, capisce ora perché mi sta tanto a cuore questa sua felicità? Suo padre me l'ha affidata quando aveva bisogno che qualcuno più in grado di lui si occupasse di lei, e io come potevo tradirlo?»

C'era una strana mescolanza inquietante nelle sue parole, di cui Samuel riusciva a rendersi conto appieno solo ora. Il signor Firefly diceva la verità, ma stava mentendo: tutto ciò che gli aveva raccontato era vero, ed egli aveva udito con quanto ardore d'angoscia egli difendesse il suo amico, eppure quella verità, contemporaneamente e senza alcuna contraddizione, egli la piegava e la volgeva a suo vantaggio. Era la stessa contraddizione unicamente apparente con la quale egli adorava Agatha eppure lo considerava alla stregua di una creatura incomprensibile e odiosa di cui conosceva e indicava ogni difetto con consapevole, sadica lucidità.

Decise di arrischiarsi un poco su quella fragile distesa di ghiaccio secco che era la loro conversazione. «Dunque lei vorrebbe proprio che noi ci fidanzassimo.»

«Beh, signor Oak» disse il signor Firefly con aria benevola e sorridente, persino scherzosa. «Lei si rende conto che io non avrei pensato subito a lei, quando m'immaginavo... senza offesa, naturalmente. Comunque, sì. Io sono un uomo molto più moderno di quanto lei e Agatha crediate, e come le ho detto quello che ora mi sta a cuore è la sua felicità. Agatha le è molto affezionata, altrimenti non sarebbe rimasta con lei per tutto questo tempo, e io non sono così intransigente da non acconsentire di buon grado a ciò che non posso impedire.»

«Dunque lei voleva parlare con me solo per questo» concluse Samuel finalmente. «Perché io potessi convincermi e chiedere ad Agatha di sposarmi e metterle così l'animo in pace. A lei Agatha non darà retta mai, ma a me sì... ho ragione?»

«Lei è un ragazzo molto intelligente, signor Oak» disse il signor Firefly con una forte affermazione di commiato, come se si alzasse da un tavolo dopo aver concluso una trattativa che fosse andata in tutto e per tutto come si aspettava. «So che forse le parrà un metodo subdolo, un metodo indiretto... ma io gliel'ho detto: ho davvero a cuore il bene di Agatha, e tutto ciò che ho fatto negli ultimi dieci anni, non l'ho fatto che per lei. Ma se io le avessi parlato di questo, se io avessi insistito, Agatha si sarebbe opposta semplicemente perché ormai contraddirmi e odiarmi è diventata un'abitudine molto più radicata che pensare al suo proprio bene. Come le ho detto, non la giudico per questo, perché so qual è il motivo profondo per cui mi odia e mi contraddice. In fin dei conti, anche la decisione di diventare un'allenatrice, qualche anno fa, non è stata che perché sapeva che io non sarei stato d'accordo...»

Samuel gli tirò un pugno in faccia.

In tutta la sua vita egli non aveva mai colpito nessuno, ma quello era troppo! Era molto più di quanto chiunque potesse sopportare! Quell'uomo aveva offeso e ingiuriato Agatha in tutti i modi più sottili in cui aveva potuto farlo, e la cosa più terribile era proprio che non si rendeva affatto conto di offenderla! Egli la trattava ancora come una bambina viziata e capricciosa cui concedere piccoli doni dall'altro della sua clemenza e generosità, con la pretesa di capirla meglio di quanto fosse capace lei stessa, e la considerava e la trattava così proprio perché Agatha al contrario era intelligente e determinata e non aveva alcun bisogno del suo permesso!

«Lei non sa niente di Agatha!»

Il suo pugno non era stato particolarmente forte, ma Firefly era ingloriosamente rovinato a terra e questo, se possibile, glielo fece odiare e disprezzare ancora di più.

«Agatha è la ragazza migliore e più coraggiosa che io abbia mai conosciuto e in tutti questi anni lei non è mai riuscito neppure a capirlo

Ma continuare a urlargli addosso o anche solo a guardarlo non sarebbe servito, ed egli lo sapeva. Quell'uomo vile e debole che ora si stava goffamente rialzando davanti a lui, impolverato e col naso sanguinante e che gli gridava gli improperi più allucinanti, non avrebbe compreso mai la grandezza e la superbia di Agatha, e perdere altro tempo con lui sarebbe stato ridicolo e controproducente: aveva sprecato con lui anche troppo tempo. Acompagnato da una pioggia d'insulti e di minacce, Samuel si voltò e si avviò a grandi passi verso casa.

Ma che sciocco era stato a fidarsi di lui, anche solo per un breve istante! L'affetto che provava per Agatha l'aveva ingannato oltre ogni dire, eppure quell'uomo voleva solo ingannarlo perché convincesse Agatha a obbedirgli, e questo era così orribile e meschino che...

Colle nocche della mano destra che gli pulsavano dolorosamente e la testa tutta piena di pensieri di rabbia e di disgusto che non avrebbe saputo ricondurre con precisione a Firefly o a se stesso, ripercorse Lavandonia senza quasi rendersene conto. Non si accorse neppure di attraversare a grandi passi il vialetto d'ingresso e di varcare la soglia di casa: in quel momento tutta la sua mente era sconvolta, alterata, e non gli importava d'altro che di dimenticare tutte le ridicole storie che Firefly gli aveva raccontato, e che egli era stato tanto stupido da rimanere ad ascoltare.

Ma quando ebbe salite le scale con pochi passi furiosi ed ebbe percorso una buona metà del corridoio, la voce di Agatha lo fermò. Era una voce stanca, estenuata e incerta, in nulla carica di quell'accento imperioso e autoritario che le era proprio, ma era la voce di Agatha, finalmente.

«Samuel...»

Agatha era vicinissima a lui, appena al di là di quella porta chiusa, ed era ancora la stessa persona straziata, ma titanica e coraggiosa, ch'egli aveva lasciato meno di un'ora prima. Era sempre e comunque lei, e tutte le menzogne infami e le calunnie che il signor Firefly gli aveva raccontato su di lei non avevano alcun significato: rimanevano davvero, proprio com'egli aveva pensato, nient'altro che aria in volo, da cui Agatha era totalmente immune. L'unica vera Agatha era quella ch'egli aveva conosciuto.

Aprì delicatamente la porta. Agatha aveva chiuse un poco le persiane, ma una lunga lama di luce attraversava comunque la stanza, percorrendo il suo letto prima di piegarsi e riprendere a salire lungo la parete. In quello sprazzo di sole, egli vedeva il nero splendore dei suoi occhi, perfettamente lucidi e svegli, infissi su di lui.

«Ti ho sentito uscire, e ho pensato che... Va tutto bene?»

Valeva la pena di dirle del suo incontro col signor Firefly e farla infuriare? No, decisamente no: Agatha era anche troppo stanca, mentre tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno era il riposo. Il suo incontro con Firefly sarebbe rimasto soltanto ciò che era effettivamente stato: nient'altro che aria destinata a dissolversi, priva di qualsiasi importanza.

Nascondendo con noncuranza la mano arrossata dietro la porta, Samuel rispose: «Ho fatto soltanto una passeggiata.»


Nell'aria fresca, immobile della notte, la sua rabbia aveva finito per acquietarsi e scemare a poco a poco. Era passata la mezzanotte, ma Samuel si avvicinò comunque, piano, alla stanza di Agatha, e bussò per darle la buonanotte. Era una sciocca scusa per trascorrere con lei gli ultimi minuti della giornata, e dimenticare nella pace dei suoi occhi, eppure a quella sciocca convenzione entrambi si attenevano ogni sera per un tacito accordo condiviso.

«Samuel... vieni, entra pure.»

La voce di Agatha suonò fiacca e remota, quasi incrinata. Sentendosi all'improvviso preoccupato, Samuel sospinse la porta ed entrò.

Agatha era seduta per terra, rivolta verso la grande specchiera a figura intera vicina al suo armadio, e vi scrutava fissamente qualcosa ch'egli non riusciva a vedere: il suo sguardo fu attratto prima dal riflesso dei suoi occhi nello specchio, arrossati e gonfi, lucidi ancora di pianto. «Agatha...»

«È orribile» lo interruppe Agatha bruscamente. «Puoi dirlo.»

Fu allora che Samuel vide: seduta com'era per terra, colla gamba ripiegata davanti a sé sul pavimento, Agatha aveva svolto l'ultimo bendaggio.

Era davvero orribile. Non c'era altra parola per descriverla: la cicatrice che si stava formando era di un ripugnante rosso acceso, una doppia mezzaluna irregolare e grottesca, circondata per tutta la sua estensione dai segni che le cuciture avevano lasciato... Samuel si sentì come se tutta l'aria avesse abbandonato la sua gola, ma Agatha non si meritava il suo silenzio o le sue bugie. Si schiarì la gola. «Sì, lo è.»

Agatha non rispose. Percorse delicatamente con le dita il bordo fiammante della ferita, senza distogliere lo sguardo dal suo riflesso nello specchio: Samuel poté vedere le sue labbra che si stringevano in una fitta di dolore che non era solo fisico.

Sedette con grande lentezza dietro di lei, continuando a scrutare il riflesso dei suoi occhi. In quel momento egli le era vicino, e non importava quanto indecente o sbagliato questo fosse: quel pavimento freddo accanto a lei era l'unico luogo nel quale egli volesse trovarsi.

A differenza di lui, Agatha era già pronta per la notte: in altre occasioni, egli si sarebbe vergognato tremendamente di starle vicino in quelle condizioni, vestita com'era appena di una sottoveste leggera, e avrebbe rifuggito quella vicinanza come se da questo dipendesse tutto il suo onore e la sua dignità di uomo. Ma in quel momento, vicinissimo a lei com'era, Samuel si accorse per la prima volta di non provare alcun imbarazzo, alcun disagio. Egli vedeva le curve morbide dei suoi fianchi divenute ora un po' troppo magre, la linea sottile della sua schiena che s'insinuava scivolando sotto il bordo della sua sottoveste, percepiva il profumo naturale dei suoi capelli scomposti... ma non ne provava il minimo turbamento. Là dove non era stata abbronzata dal sole, la carnagione di Agatha aveva mantenuto il naturale biancore, e la pelle sulle sue cosce era tanto pallida, ch'egli distingueva perfettamente l'intricato percorso delle sue vene azzurrine, là dove affioravano in superficie, e avrebbe potuto seguirlo e ripercorrerlo con la punta delle dita. Come aveva potuto mai credere che tutto questo fosse indecente?

«Suppongo che non potrò più venire con te a cercare Moltres, vero?» chiese Agatha, con una risata tremula e gli occhi colmi di lacrime. «Non penso che sarò più così atletica, dopo che...»

Samuel avrebbe potuto farle milioni di promesse. Sarebbe stato così facile dirle che no, non avrebbe avuto mai alcun problema a camminare; che se anche ne avessi avuti, egli sarebbe stato per lei il suo bastone, e di più ancora, che a costo di sollevarla sulla schiena, come una bambina, egli l'avrebbe portata ovunque lei non fosse più stata in grado di arrivare con le sue proprie forze. Ma egli non poteva sapere se tutte quelle promesse sarebbero state verità, se entrambi sarebbero stati forti abbastanza da mantenerle. In quel momento, mentre i loro corpi sovrapposti e così diversi si riflettevano entrambi nel medesimo specchio, egli si rese conto di non poterle garantire o promettere niente, se non la sola verità che in quel momento conoscesse.

«Sei comunque bellissima.»

Agatha si volse verso di lui, molto lentamente, con occhi resi enormi e ancora più belli dallo stupore, e lo guardò. Non fece nient'altro, ma egli vide la luce riflessa nei suoi occhi tremare e vacillare piano, come su uno specchio d'acqua di fiume.

«Grazie» mormorò, e arrossì.

Quella notte, il rossore sulle guance di Agatha gli parve più bello della prima alba che avesse visto mai.


*La Fortuna favorisce gli audaci (Eneide, X, 284; traduzione di Alfonso Traina)

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Capitolo 10
*** Concedi la pace ai nostri giorni. ***


Capitolo X – Concedi la pace ai nostri giorni.


Il signor Firefly tornò il mattino seguente, ma in modo più composto e dignitoso, dopo aver telefonato per avvertire del suo arrivo. Quella volta, Agatha lo fece accomodare nell'asettico studio che era appartenuto a suo padre, come per un normale incontro d'affari: quel giorno era sorprendentemente fredda e calma. Non si era scomposta affatto al ricevere quella chiamata, come se se la fosse aspettata, e anzi avesse dato per scontato sin dall'inizio che quegli sarebbe tornato, e appariva determinata ma tranquilla, come se la cosa, ormai, non la riguardasse più.

Per contro, Samuel aveva temuto per tutta la mattina il momento in cui il signor Firefly sarebbe entrato nella stanza e lo avrebbe guardato, sotto forma di una lieve morsa angosciosa che gli stringeva lo stomaco e le vie del respiro. Era probabilmente la prima volta in vita sua ch'egli nascondeva qualcosa a qualcuno, tanto più ad Agatha, e quella sensazione non gli piaceva.

Ma quando il signor Firefly fece il suo ingresso nello studio, col cappello mortalmente stretto tra le mani e gli occhi lampeggianti rabbia, senza degnarlo d'uno sguardo, tutta la tensione che lo aveva attanagliato si disciolse dentro di lui tanto subitaneamente da lasciarlo quasi inebetito, in piedi immobile accanto alla finestra. Era stato sciocco a non pensare prima a ciò che il contegno nervoso e indispettito del signor Firefly e l'occhiata di minaccia e di preoccupazione che questi gli aveva gettato al suo ingresso dichiaravano abbastanza eloquentemente: il signor Firefly aveva molto più interesse di lui a che Agatha non venisse a sapere della loro conversazione e della sua proposta. Per quanto Agatha conoscesse già molto bene l'opinione del suo antico tutore riguardo al suo nubilato, Samuel era alquanto certo che se ella fosse venuta a sapere dei suoi tentativi di organizzare addirittura il suo matrimonio, ogni remora sarebbe in lei scomparsa. No, Firefly non aveva alcuna intenzione di tradirlo, e al contrario la consapevolezza che se fosse stato Samuel a parlare per primo egli sarebbe stato umiliato e svergognato davanti agli occhi di Agatha gli faceva bruciare ancor più il suo orgoglio ferito all'altezza del viso, dov'era stato colpito. Alla sua vista, il signor Firefly cacciò nervosamente la mano in tasca, ma con violenza, come imponendoselo, e quel gesto equivaleva a un'inconsapevole ammissione di sconfitta, più ancora che se cedendo a un impulso si fosse toccato la guancia dolorante.

«Una cena di lavoro particolarmente accalorata, signor Firefly?» s'informò Agatha in tono leggero e vagamente pungente, accomodandosi alla scrivania. Non c'era bisogno di specificare a cosa si riferisse: il livido violaceo sul suo zigomo era già abbastanza vistoso senza bisogno di sottolinearlo a parole. Scrutandola infastidito come punto sul vivo, senza scomporsi troppo, Firefly ringhiò: «Già.»

«Credevo che a parer suo un vero signore non risolvesse mai i suoi problemi con le mani» proseguì Agatha in tono amabile. Ma i suoi occhi erano gelidi e attenti, perfettamente consapevoli, ed era evidente che ella si stava divertendo un mondo a prenderlo in giro a quel modo. Samuel si chiese fuggevolmente se essi si fossero rapportati così, mentendosi e deridendosi e mortificandosi a vicenda per tutti quegli anni, finché Agatha non era finalmente partita da lì.

Al veleno delle sue parole il signor Firefly doveva essere ormai assuefatto, dato che incassò il colpo senza battere ciglio. «Già» constatò semplicemente. «Ma queste sono cose da uomini, Agatha... nulla che una signorina dovrebbe ascoltare. Sono certo che il signor Oak è d'accordo con me.»

All'espressivo sguardo d'intesa che Firefly gli gettò, distogliendolo appena da Agatha, Samuel non ebbe reazione. Forse quel velato accenno indiretto non voleva essere un'altra trappola, quanto piuttosto un tacito tentativo di assicurarsi della sua complicità su quel segreto, ma proprio per questo egli non intendeva rassicurarlo in alcun modo. Quell'uomo lo disgustava già abbastanza senza bisogno di prestargli più attenzione di quanta gliene avesse già riservata il giorno precedente, ed egli continuò a rimanere perfettamente calmo e immobile accanto alla finestra, ad ascoltare.

Come se si fosse già stancata delle loro schermaglie preliminari e fosse pronta a parlare sul serio di affari, Agatha accennò con la mano alla sedia di fronte alla scrivania con fare sbrigativo. «Vuole essere così gentile da cacciare il mio ospite fuori della stanza anche oggi, signor Firefly?»

Rimanendo ostinatamente in piedi al di là del tavolo, Firefly le porse dalla tasca della sua giacca un foglio minuscolo, delle esatte dimensioni di un assegno ripiegato. «Si tratta solo di una firma. Una questione di beneficenza. Non c'è nulla da leggere.»

Agatha non spiegò l'assegno. Al contrario, lo posò davanti a sé sulla scrivania e senza dare minimamente segno di volerlo leggere, completamente reclinata contro lo schienale della sedia, domandò: «Beneficenza per che cosa?»

«Se tu aprissi l'assegno, potresti leggerlo coi tuoi occhi» sibilò Firefly. Agatha rimase perfettamente immobile, allora egli, con un moto d'impazienza, sbuffò: «Per la ricostruzione della Torre, ovviamente. Tuo padre diede un grosso contributo dopo l'inondazione del Trentuno, perciò è ragionevole che anche tu faccia lo stesso.»

La Torre, ancora la Torre, ovunque la Torre! Possibile che il suo nome fosse in grado di raggiungerli ovunque, trapassando come aria gli schermi delle porte e delle mura frapposte?

Quando Samuel si voltò bruscamente verso di lei dalla finestra aperta, Agatha era ancora immobile sulla sedia e almeno in apparenza perfettamente indifferente. Ma ai suoi occhi che avevano ormai imparato a distinguere sul suo volto il susseguirsi di innumerevoli emozioni, senza bisogno di parole, non poteva sfuggire l'innaturale pallore che le era affiorato d'improvviso sulle guance, né la stretta delle sue mani che avevano artigliato i braccioli della sedia come una richiesta d'aiuto.

«Ti sconsiglio di cambiare la cifra, Agatha» disse infine il signor Firefly, a voce bassa, come se questo motivo gli paresse l'unica spiegazione possibile alla sua esitazione. «Credimi, Lavandonia non si aspetta niente di meno da te, e un solo centesimo in meno apparirebbe meschino. È il prezzo di appartenere a una famiglia antica, Agatha, te l'ho già spiegato.»

Agatha non diede alcun segno di averlo sentito. I suoi occhi continuavano a scrutare l'assegno, ma senza muoversi, ed era dunque evidente che non lo stava leggendo. Semplicemente, pensava.

Con poche ampie falcate, Samuel si ritrovò quasi senza accorgersene di fianco alla sua sedia: dall'altra parte della scrivania, il signor Firefly gli gettò uno sguardo di disapprovazione, ma di nuovo si trattenne dal fare commenti. In quel momento, doveva essere troppo preso dall'assoluta mancanza d'interesse della sua assistita per potersi preoccupare anche di lui.

«Ho sentito dire che le ceneri dei Pokémon le cui tombe sono state devastate dall'incendio saranno collocate in una forno comune» disse infine Agatha, come riemergendo infine dalle nebbie della lunga riflessione che l'avevano catturata sino a quel momento. Non aveva distolto gli occhi dall'assegno, ma subito Samuel colse nel suo tono e nell'intensità dei suoi occhi tutto l'appuntarsi della sua concentrazione.

Firefly scrollò le spalle come se la questione non lo toccasse particolarmente. «Già, è l'unica soluzione praticabile... e anche la più sensata, se proprio lo vuoi sapere. Lo spazio è sempre stato un problema in quel posto, perciò, per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto approntare una fossa comune già una ventina di anni fa, come in tutti gli altri cimiteri. Anzi, se non ci fosse stato l'incendio...»

Samuel si augurò che il signor Firefly amasse parlare per il gusto di farlo, perché almeno a lui, che non aveva perso di vista Agatha per un solo istante, era evidente che ella aveva smesso di ascoltarlo già dopo le sue prime parole, non appena aveva ottenuto la risposta che voleva. Ma a un tratto, bruscamente, e in modo troppo plateale perché persino Firefly potesse ignorarlo, Agatha lasciò perdere l'assegno e si alzò in piedi. Senza curarsi di nessuno, andò lentamente alla finestra, zoppicando appena, e si accostò al vetro. Non aveva avuto alcuna intenzione di interrompere il monologo del suo protettore, ma in realtà probabilmente non si era neppure accorta che egli stava parlando. Quando si avvicinò al vetro, scostando appena le tende con la punta delle dita, il suo volto appariva tutto chiuso e concentrato.

«E lei dice che li seppelliranno lì tutti, signor Firefly? Insomma... proprio tutti?»

Firefly ebbe un moto stizzoso d'impazienza. «Dio, Agatha, che domande mi fai? Non ne ho la più pallida idea, ma non vedo per quale motivo non dovrebbero seppellirli tutti. È anche per una questione d'igiene, dopotutto.»

I cadaveri dei loro Pokémon giacevano tra tutti quelli insepolti e anonimi che avevano perduto le loro tombe e i loro nomi nell'incendio, e con loro erano stati cremati. Ma questo Agatha lo sapeva, ne aveva parlato a entrambi il dottor Ross qualche giorno prima, allora perché voler sollevare ancora quell'argomento, perché rimestare inutilmente un dolore che già non trovava pace? Nessuno di loro poteva più fare nulla per i loro Pokémon, poiché le loro ceneri riposavano ormai in urne cinerarie fornite dal comune, asettiche e identiche in tutto e per tutto le une alle altre, accatastate alla rinfusa in qualche magazzino vuoto in attesa di venir di nuovo seppellite con tutti gli onori... con quella domanda, ella che cosa voleva ottenere?

Le dita di Agatha si serrarono maggiormente sul lembo della tenda, la curva delle sue labbra si contrasse un poco: ma queste furono le sue uniche reazioni fisiche a quel pensiero. Annuì pensierosamente col capo.

«Vorrei donare una targa alla cittadinanza, perché possano appenderla sul luogo della sepoltura comune. Che cosa ne dice, signor Firefly? Pensa che si possa fare?»

Un simile spirito d'iniziativa nella sua assistita doveva essere quantomeno inaspettato: Firefly continuò a scrutarla per vari secondi in perfetto silenzio, come aspettandosi da un momento all'altro che Agatha scoppiasse a ridere e ritrattasse tutto quanto; ma quando fu anche troppo evidente che, al contrario, ella aveva parlato con perfetta serietà , e che probabilmente non avrebbe nemmeno accennato ad allontanarsi dalla finestra finché non avesse ottenuto una risposta, finalmente egli si schiarì la voce e fece rapidamente mente locale.

«Intendi una targa commemorativa, suppongo? Alla memoria dei Pokémon morti? Beh, mia cara... non me l'aspettavo, certo, ma non vedo perché no. In effetti, sarebbe un gesto splendido da parte tua...»

«Non voglio che sia da parte mia» lo interruppe bruscamente Agatha, voltandosi all'improvviso verso di lui. «Su questo non transigerò. Io donerà la targa e voglio che sia fatto tutto come dico io, ma la donazione dovrà restare anonima e Lavandonia non dovrà mai sapere che è da parte mia. E sarà bene che anche lei ne rimanga fuori il più possibile, signor Firefly» soggiunse in tono eloquente. «Tutti sanno che lei si occupa dei miei affari, perciò renderebbe troppo facile risalire a me. Faccia solo il minimo necessario, siamo intesi?»

«Bah! Come vuoi, Agatha» borbottò Firefly, seppur con l'espressione di qualcuno che avrebbe colto molto volentieri l'occasione di incensare un poco il nome di famiglia grazie a quella targa. «Non vedo il motivo di tutto questa segretezza, anche se, certo, la beneficenza dovrebbe sempre essere... Comunque, è un'ottima idea, mia cara. Ma perché ci tieni tanto?»

Con voce sorprendentemente fredda e dura, totalmente priva di qualsiasi inflessione o cedimento, Agatha rispose: «Perché se tra quelli ci fossero i miei Pokémon, e io fossi morta e non fossi più in grado di provvedere a loro, mi farebbe piacere che qualcuno avesse pietà della loro memoria.»

Agatha aveva parlato in tono asciutto e distaccato e con calma davvero ammirevole, date le circostanze; ma nonostante ciò, ella non era un automa insensibile, e l'emozione che le aveva infiammato il volto e acceso lo sguardo, quelli non aveva potuto far niente per impedirli. Il signor Firefly ne rimase vagamente colpito, ma con una punta di scetticismo, quasi che quell'eccesso di ardore gli risultasse esagerato e inopportuno, forse persino fastidioso, come una scena troppo patetica. Ne distolse lo sguardo con ostentazione.

«L'incidente ti ha resa un po' troppo suscettibile, eh?»

Samuel desiderò improvvisamente tantissimo avergli tirato un pugno più forte il giorno precedente. La passione di Agatha come si poteva confonderla con la fantasia nevrastenica di una ragazzina capricciosa? «Comunque sia, non mi riguarda. Avrai ciò che chiedi, ma ora perché non mi firmi quel maledetto assegno e mi lasci andare?»

La sua indignazione doveva esserglisi dipinta in volto nel momento in cui Firefly aveva parlato. Passandogli accanto, Agatha gli posò una mano discreta sulla spalla per un momento, come a volergli suggerire che non valeva la pena di prendersela, e tornando alla scrivania si chinò a firmare l'assegno.

Lo passò al suo tutore senza accennare a sedersi. Firefly lo studiò con un'attenzione quasi oltraggiosa, per accertarsi che Agatha non avesse fatto scherzi, e lo ripose con cura nella tasca della giacca. «Il mio compito è finito, Agatha. Devo assolutamente scappare, ma ci accorderemo per la targa, sì? A proposito, non mi hai detto dove potrò contattarti. Visto che stai in piedi, suppongo che ripartirete presto.»

Più che una supposizione, le sue parole sembravano piuttosto un'intimidazione, ma Agatha non si scompose. «Sarò io a contattarla, signor Firefly. Fortunatamente, il suo indirizzo è sempre lo stesso da vari anni.»

Il suo ultimo tentativo di allontanarla da Lavandonia, dal momento che proprio non era riuscito a convincerla a sposarsi, era andato a vuoto, ma Firefly accolse questo fallimento con notevole sportività. Richiuse accuratamente la giacca sorridendo appena. «Bene così, Agatha, dal momento che non riesco a farti cambiare idea. Signor Oak» soggiunse in tono di saluto, ma degnandolo appena di uno sguardo. «A presto, Agatha. No, non disturbarti» soggiunse in fretta, vedendo che Agatha faceva per accompagnarlo. «Mi ricordo ancora da dove sono entrato. Buon proseguimento, signori miei.»

Dopo un ultimo inchino poco meno che derisorio, il signor Firefly uscì dalla stanza senza voltarsi indietro. Il suono dei suoi passi pesanti si allontanò lungo l'ingresso; poco dopo, una porta sbatté e un motore si accese rombando sul vialetto d'ingresso. Sì, Firefly, finalmente, se n'era andato.

Per un po', nessuno di loro parlò. Tornando a sedere alla scrivania, Agatha aveva avvicinato a sé una grossa bottiglia d'inchiostro blu dall'etichetta piuttosto pretenziosa e aveva cominciato in silenzio a giocherellare con lo stantuffo della stilografica con la quale aveva firmato, svuotandone e riempiendone alternativamente il serbatoio senza alcun motivo apparente. Non sembrava avere molto da dire. Per parte sua, Samuel si sentiva la testa così piena di domande che gli sembrava proprio impossibile essere in grado di rimetterle in ordine, o anche solo di sceglierne una sola.

Arcanine avrebbe avuto una sepoltura onorata, per quanto possibile. Dopo tutto ciò che aveva visto, Samuel avrebbe dovuto sentirsi abbastanza scettico e disilluso a questo riguardo da non sentirsene minimamente toccato, eppure, quando si soffermò a riflettervi, si sorprese di sentirsene così confortato. Una targa su una sepoltura comune non avrebbe potuto sottrarre nulla del suo dolore alla sua morte, poiché Arcanine era morto nel modo meno umano che potesse esistere... ma proprio per questo, forse stupidamente, l'idea che quella sepoltura potesse restituirgli almeno una parte della dignità che Arcanine meritava lo riempiva di un grande calore. E Arcanine, col suo amore vivace per tutto ciò che era umano e benevolo, avrebbe apprezzato di certo, se solo una porzione della sua anima fosse esistita ancora in qualche luogo del creato.

Tutte le domande e i dubbi che quella conversazione aveva suscitato dentro di lui erano ancora in subbuglio nella sua mente, ma almeno a questo pensiero Samuel poteva dare voce. Accostandosi a lei, ancora seduta alla scrivania, egli le posò una mano sulla spalla e mormorò: «Grazie, Agatha. A nome di Arcanine.»

Agatha si voltò per poterlo guardare in faccia, accennandogli un sorriso. Anche quel giorno, dopo tutti i suoi atteggiamenti di sfida e di disprezzo, sembrava d'improvviso enormemente stanca.

«Non ringraziarmi, Samuel. Non potevo lasciarli così, senza neppure una targa. E poi, se non fossi stata io, ci avrebbe pensato qualcun'altro.»

«Davvero?» Samuel si sentì perplesso dalla sua convinzione.«Come fai a esserne così sicura?»

Agatha scrollò le spalle, come se fosse qualcosa di così ovvio che non ci fosse neppure bisogno di spiegarlo; ma sembrava contenta di parlare con lui, perciò Samuel non fece niente per ritirare la domanda. «Le famiglie ricche di Lavandonia hanno sempre fatto a gara in questo genere di cose. Hai sentito quello che ha detto il signor Firefly: Lavandonia se lo aspetta.»

Si alzò faticosamente in piedi, senza più curarsi di mascherare le sue difficoltà, dal momento che era sola con lui, e tornò ad accostarsi alla finestra per guardare fuori. Parlando di quell'argomento, il suo volto aveva assunto una certa piega severa e un po' sprezzante, come se disapprovasse molto quel modello di comportamento: «Se fosse stato qualcun'altro a donare una lapide per la sepoltura, molto difficilmente avrebbe fatto una donazione anonima... e non volevo che la loro sepoltura diventasse un modo per mettersi in mostra.»

Per parlarne così, Agatha doveva conoscere molto bene i meccanismi che muovevano i suoi concittadini. Samuel annuì tra sé mentre si sedeva alla scrivania, sulla sedia da poco rimasta vuota. «Credevo che la gestione fosse interamente comunale.»

«Sì, certo che lo è. Ma Lavandonia è una città molto piccola, e si è sempre trovata in difficoltà davanti ai grandi disastri: anche mio padre...» Bruscamente, come se aver a malapena nominato suo padre fosse stato un grave errore ch'ella si era ripromessa di non commettere più, la voce di Agatha ebbe un fremito e s'interruppe. Qualche secondo dopo, quando ella fu ragionevolmente certa che Samuel non vi aveva prestato una particolare attenzione, si affrettò a concludere quel discorso: «Insomma, tutte le famiglie più abbienti hanno sempre collaborato sotto forma di donazioni. La Torre è sempre stata un problema economico, è un monumento troppo imponente per una città così piccola... ma del resto, era una fondazione privata, dopotutto.»

Questo dettaglio gli giungeva completamente nuovo: Samuel aggrottò la fronte mentre cercava di rielaborarlo. «Vuoi dire che non è stata fondata con fondi pubblici?»

«Beh, no. Non lo sapevi?» Agatha tornò a volgersi verso di lui, appoggiandosi con la schiena al davanzale della finestra, colle braccia strette attorno al corpo ma l'espressione un po' più serena. Parlare del più e del meno sembrava distrarla un po'. «La città ha incamerato la Torre sotto forma di eredità dopo la morte della fondatrice. Era un lascito testamentario, o qualcosa del genere.»

Una fondatrice. All'improvviso Samuel sentì che qualcosa dentro di lui sprofondava, mentre un ricordo che fino a quel momento la sua memoria si era tanto impegnata a reprimere e a passare sotto silenzio proprio perché non riusciva a comprenderlo tornava a occupare prepotentemente la sua mente.

Sei tornata a prendermi?

«Vuoi dire che a fondare la Torre è stata una donna?» esclamò angosciosamente.

Colpita dall'urgenza che sembrava animare la sua voce, in modo del tutto improvviso e immotivato, Agatha lo guardò interrogativamente. «Va tutto bene, Samuel?»

«È stata una donna?» insisté Samuel, senza neppure badare alla sua confusione. Possibile che quella soluzione fosse sempre stata lì, sepolta nella miniera dei suoi ricordi sin da quella notte, e che egli non vi avesse mai prestata attenzione? Il sepolto vivo aveva creduto di parlare con una donna!

«Sì, è stata una donna, ma... Samuel, c'è qualcosa che dovrei sapere?»

L'eccitazione che lo aveva animato tanto intensamente in così poco tempo si spense di fronte all'intransigenza della voce di Agatha: nella sua severità e nella sua confusione, ella torreggiava ora su di lui implacabilmente, senza lasciargli scampo. Agatha non aveva sentito le parole del sepolto vivo, quella notte, ma aveva capito che c'era qualcosa che, all'improvviso, lo aveva colpito, e ora voleva sapere.

L'impeto che lo scuoteva si spense prima di raggiungere le sue labbra. Forse ho capito, forse possiamo scoprire chi era il mostro che ci ha fatto questo, avrebbe voluto dirle; ma proprio prima di poterle parlare, d'improvviso tutto ciò che stava per dirle gli parve un ultimo colossale inganno, e si fermò.

«No, io... va tutto bene, Agatha. Era solo stupito che una donna...» Si passò una mano tra i capelli per riprendersi dallo stupore, e proseguì: «Insomma, è successo tanto tempo fa, e credevo che, allora... Voglio dire, mi è parso strano.»

Lo sguardo di Agatha che lo scrutava percorse interamente il suo viso, soffermandosi sui suoi occhi. Non gli aveva creduto, ovviamente – e come credergli? - eppure, per qualche strano motivo, ella non lo aggredì, non lo incalzò, non fece niente.

«Ne sei certo, Samuel?»

Tutto era confuso e tutto si mescolava nella sua testa: le parole del sepolto vivo e le fiamme abbaglianti della battaglia, e ora quella nuova informazione che Agatha gli dava con tanta semplicità: c'era una donna! Ma ora che egli si soffermava a riflettervi e cercava di districare, in quella caligine nebulosa che gli offuscava la mente, la verità, l'unico pensiero che gli tornava insistentemente alla mente e che egli non riusciva a reprimere era che nulla di quanto avrebbero potuto scoprire avrebbe cambiato le cose.

«Ne sono certo.»

Senza troppa convinzione, Agatha indietreggiò un poco, allontanandosi di qualche passo dalla sedia, ma senza distogliere lo sguardo da lui. Samuel ebbe l'impressione di ritrovare aria solo in quel momento.

«Samuel» disse Agatha dopo un po', ma con calma. La sua voce era tesa e cauta come una corda tesa sin quasi a spezzarsi, ma ella era sorprendentemente fredda e lucida. «Mi fido di te. Non m'interessa quale sia la verità, ma qualunque cosa mi dirai, ti crederò. C'è qualcosa che pensi che dovrei sapere?»

Se in quel momento egli le avesse rivelati i suoi sospetti, avrebbero potuto indagare. Quella casa era piena di libri, alcuni dei quali molto vecchi, e di certo qualcuno doveva pur contenere qualche informazione su... e quand'anche tutti quei libri non avessero parlato di nient'altro che dell'esercito e della marina, egli era certo che ogni altro archivio entro Lavandonia avrebbe potuto parlar loro del sepolto vivo. Ma il punto era un altro: valeva veramente la pena di sapere?

Era stato proprio il voler saper troppo che li aveva trascinati all'inferno. Ora non c'era più niente da temere, certo, ma tornare a rimestare ancora tra quei segreti perduti nel tempo, non sarebbe stato esattamente come far sì che Arcanine fosse morto proprio per niente? E quand'anche, poi, avessero scoperto... forse che sapere chi quell'uomo era stato avrebbe potuto cambiare ciò che era successo e farli tornare da loro? Sapere che il sepolto vivo era stato un uomo normale, una volta, un uomo proprio come loro, e che magari era stato ingannato da una donna che aveva promesso di tornare a prenderlo, avrebbe forse potuto dar loro pace?

Raddrizzando le spalle sulla sedia, Samuel lasciò che per l'ultima volta quelle due figure misteriose, quelle di un uomo e di una donna, si perdessero negli abissi del tempo. Sostenendo a testa alta lo sguardo di Agatha, egli rispose con decisione: «No, Agatha. Non c'è nulla che valga la pena sapere.»


Alla cerimonia della posa della targa partecipò un numero curiosamente esiguo di persone, rispetto alla grande affluenza dell'apertura dei lavori; ma questo, stando ad Agatha, era normale. Lavandonia celebrava il culto ossessivo della Torre solo nella misura della sua monumentalità e del motivo di vanto che essa costituiva in tutta Kanto; ma quanto alle funzioni cultuali che vi si svolgevano e a tutto ciò che riguardava il raccoglimento e l'idea stessa della mortalità, la città preferiva non soffermarsi a riflettere troppo. Dopotutto, essi sapevano meglio di chiunque altro quanto fosse pericoloso guardar troppo a fondo dentri certi misteri, e lo sapevano per averlo imparato a proprie spese.

Vi presero parte tra le prime file, poiché sarebbe stato impensabile che l'ultima rappresentante di una famiglia di tale rilievo sedesse in disparte o tra le ultime file; ma tutti coloro che diedero segno di riconoscerla la salutarono con una certa freddezza, e più di una signora, dopo averla soppesata per un momento, fece finta di non averla vista. Di certo, notò Samuel con una certa soddisfazione, Agatha non faceva niente per ingraziarsi l'opinione del resto della popolazione: rispose a chi le aveva mosso un cenno di saluto con altrettanta freddezza, ma quanto al resto ignorò chiunque.

Quella era la prima volta che usciva dopo la tragedia. Quando era scesa dabbasso, vestita da uomo come il giorno precedente, avanzando lentamente ma con l'equilibrio malsicuro di chi sia ancora convalescente dopo una brutta ferita, Samuel si era domandato con preoccupazione se fosse prudente che si stancasse tanto proprio la prima volta che tornava a uscire di casa, e proprio per tornare là; ma ovviamente impedirle o anche solo sconsigliarle qualcosa era impensabile, e in fin dei conti egli era certo che, una volta che fossero usciti, Agatha non avrebbe permesso a nessuno di vederla debole o stanca.

Chissà perché, quel giorno era soprendentemente bella, persino vestita da uomo, con aderenti pantaloni a vita alta e i capelli pettinati, o quantomeno sistemati in un'acconciatura elegante dalla quale continuavano inistentemente a sfuggire i suoi ricci ribelli. Era ancora mortalmente pallida, ma quantomeno le occhiaie pesanti attorno ai suoi occhi, da qualche giorno, si erano attenuate.

La cerimonia fu una tortura, ma fu breve. All'interno della vasta sala affollata l'aria era torrida e soffocante, malgrado le finestre spalancate; ma quand'anche la giornata non fosse stata tanto calda, era evidente che nessuno provava alcun vero interesse per il discorso del sindaco. Tutto ciò che si poteva dire dell'oltraggio alla Torre era già stato detto all'apertura del cantiere, e quella, dopotutto, per chi non aveva perduto qualcuno nell'incendio, era solo una targa. Il sindaco si limitò a dire lo stretto necessario, col volto lucido per il caldo e l'espressione di chi non vedesse l'ora di concludere quell'incombenza noiosa: dopo qualche parola ben spesa sulla generosità dell'anonimo donatore e il significato universale del ricordo dei defunti, scoprì la targa e accennò agli operai di procedere. Per quanto lo riguardava, Samuel trovava che andasse più che bene così.

Al termine della cerimonia, quasi tutti si mostrarono assai impazienti di lasciare la sala il prima possibile. Dopo l'ultimo applauso vi fu uno stridio collettivo di sedie spostate mentre tutti si affrettavano ad alzarsi in piedi, e solo per qualche minuto ci si trattenne a conversare e a scambiarsi commenti e apprezzamenti, o persino a osservare la targa con compunzione, per non dare l'impressione di voler sfuggire senza riserve dall'aria tetra e irrespirabile della Torre; ma poi, finalmente, la folla cominciò a defluire dalla sala come acqua che si abbassa, dapprima insensibilmente, poi più rapidamente a misura che ciascuno si accorgeva che tutti se ne andavano; e poi non rimase quasi nessuno.

Qualcuno si era fermato a pregare, ma nell'intimità della propria solitudine, e doveva avere perciò atteso proprio che la folla disinteressata si dileguasse per poter rimanere un po' in pace, in silenzio, a pensare. Qua e là, molto isolate nella vasta sala dalle volte ricurve, Samuel scorgeva le loro figure remote che si aggiravano in silenzio, rispettosamente, e talora si inginocchiavano per pregare.

Dopo lunghe esitazioni, Agatha aveva deciso di far scolpire una scritta molto semplice, di pura commemorazione del disastro, senza alcun riferimento che potesse far intendere una maggiore partecipazione emotiva da parte del donatore; eppure, al di sotto della fredda apparenza indifferente di quelle parole, In memoria dei defunti..., Samuel aveva l'impressione di sentirle vibrare di tutto il vigore bruciante dell'anima di Agatha, che scalpitava più forte proprio perché non poteva esprimersi ad alta voce.

«Sono sicuro che avrebbero apprezzato» mormorò appena, tanto piano che nessuno al di fuori di lei avrebbe potuto capire se per caso gli fosse capitato di ascoltare.

Ma Agatha non diede alcun segno di averlo udito. Stava guardando la targa, con tale intensità e con tale ardore, ch'era come se i suoi occhi potessero vedere qualcosa al di là del marmo, ed ella stessa credesse di potervi sprofondare; ma di più, non la stava solo guardando – la stava ascoltando, e le stava parlando, e guardandola Samuel provò per un attimo la strana sensazione che, su quella targa, ella avesse riversato più sentimenti di quanti gliene avesse lasciati intendere sino ad allora. La sua donazione era stata davvero dettata solamente dalla volontà di dare loro pace?

Finalmente anche quel breve incanto finì. Con gli occhi ancora vacui ma che a poco a poco riacquisivano luce, Agatha posò una mano sulla lapide e si concesse di accarezzarla a lungo; e infine, come riscutendosi da un sogno, ella se ne ritrasse lentamente, quella strana corrispondenza si spezzò, si spense, e sollevando su di lui occhi che finalmente tornavano a vederlo, Agatha gli si accostò maggiormente e mormorò: «Possiamo andare, se vuoi.»

A quella lapide che celava le ceneri del suo Pokémon scomparso Samuel non aveva proprio niente da dire. La prospettiva di una sepoltura onorata lo confortava oltre ogni immaginazione, ma questo era tutto ciò che la targa significava per lui; e quel luogo non aveva per lui altra attrattiva, poiché il ricordo di Arcanine lo avrebbe accompagnato sempre, e non gli sarebbe in nessun caso stato possibile circostriverlo a quel luogo soltanto. Quanto a pregare, Samuel dubitava di poterne trarre alcuna pace.

All'esterno della Torre, l'aria era ancora bollente, ma meno irrespirabile che all'interno. Samuel la respirò a pieni polmoni, con gratitudine, e se ne beò a occhi chiusi per qualche momento.

Eppure Agatha sembrava ancora pensosa, come se non fosse ancora uscita dalla Torre. Teneva gli occhi bassi, col capo reclinato sulla spalla, e il suo sguardo per lui assente era asperso di una tale dolorosa concentrazione, che tentare d'infrangerla gli parve pericoloso, come se entrandovi in contatto fosse possibile ferirsi. Ma lasciarla sola e senza aiuto gli sembrava ancora più pericoloso che parlarle, e toccandole cautamente la mano Samuel mormorò: «Ehi.»

Sottraendosi a fatica da quei pensieri che minacciavano di catturarla e avvincerla, Agatha si sforzò di sorridergli. Era un sorriso stanco, notò Samuel, penosamente tirato sul suo volto emaciato che ancora non si era ripreso dalla lunga convalescenza, certo; ma era il sorriso di Agatha, la cui dolcezza riusciva ancora, malgrado tutto, a estendersi ai suoi occhi. Sentendosi incoraggiato da quel sorriso che gli indicava che Agatha era ancora lì per lui – lì, all'interno della sua mente – Samuel aumentò un poco la stretta sulla sua mano e proseguì: «Stai bene?»

Certo che no, che domanda sciocca. Ma Agatha comprese egualmente quanto significasse per lui questa domanda e senza guardarlo, come anticipando una risposta che era di là da venire, disse in tono perfettamente neutro e privo d'intonazione: «Facciamo una passeggiata.»

No, non andava tutto bene, eppure Samuel non riusciva proprio a intuire, attraverso la strana tonalità della sua voce, che cosa c'era esattamente che Agatha volesse dirgli. Camminando, Agatha si appoggiava ancora al suo braccio, come i primi giorni dopo la sua ferita, ma leggermente, e il peso suo peso era leggerissimo e privo di qualsiasi abbandono. Per un po' camminarono in silenzio, tutti immersi nella luce e nel calore del giorno, e attraversarono con calma il centro della città. Lavandonia era particolarmente vitale, quel giorno: in una piccola piazza un po' isolata, ombreggiata in parte da un folto pergolato ombroso, due ragazzi di qualche anno più giovani di loro si stavano sfidando coi loro Pokémon, ma più per passatempo che in modo serio, e attorno a loro s'era raccolta una piccola folla di bambini eccitati e persino qualche più maturo amatore. Attraverso la folla accalcata, Samuel non riusciva a vedere di che Pokémon si trattasse, ma mentre passavano udì urlare distintamente: «Pidgeotto, Agilità!»

«Sediamoci qui» propose, accennandole col capo una panchina in piena ombra, avvolta dall'atmosfera fresca e semibuia del pergolato, e Agatha non fece obiezioni. Tutta presa dall'interesse per la piccola sfida, la gente era in quel momento troppo distratta per badare a loro, ed essi avrebbero quantomeno potuto star seduti con calma per qualche minuto senza che Lavandonia si soffermasse a guardarli con disapprovazione.

Vista da quella prospettiva, da una fresca panchina di pietra collocata in piena ombra, e circondati dal vociare gioioso della folla che assisteva alla lotta, Lavandonia non era poi diversa da qualsiasi altra città ch'egli avesse visitato negli anni precedenti. Appoggiandosi con la schiena al rigido schienale scolpito della panchina, socchiudendo gli occhi, Samuel provò a figurarsi quella città in modo diverso, unicamente come la vedeva ora, solare e vivace, e pensò che forse era così che sarebbe stata sempre, ora che il sepolto vivo non esisteva più.

«Mr. Mime, usa Sostituto!»

«Vorrei ripartire, Samuel.»

Era di questo che si trattava, dunque. Riaprendo bruscamente gli occhi, Samuel si volse verso di lei, che in quel momento era china in avanti, coi gomiti puntati sulle ginocchia, e guardava fissamente davanti a sé. Dalla sua posizione, ovviamente, ella non poteva vedere l'esito dello scontro più di quanto vi riuscisse egli stesso; ma ciò che ella vi scrutava tanto intensamente, egli lo sapeva, era la lotta, lo scontro assoluto e totale, del tutto indipendente dalla singola contingenza di quella lotta e di quello scontro.

Le sue parole non l'avevano sorpreso tanto quanto avrebbero dovuto, forse perché, dopotutto, una parte di lui aveva sempre saputo che Agatha non aveva cessato, come lui, di essere un'allenatrice nel momento stesso in cui erano morti i suoi Pokémon. Si limitò ad annuire. «Era per questo la targa, dunque.»

Agatha accennò appena un segno d'assenso col capo, stancamente, ma il suo sguardo era colmo di gratitudine, come se gli fosse grata di esser stato lui a dirlo ad alta voce. «Non potevo lasciarli così, insepolti, senza salutarli. Almeno questo glielo dovevo, prima di andarmene.»

Erano parole vacue, parole vane, Samuel lo sapeva: Nidoking, Tentacruel e Vileplume erano morti come lo era Arcanine, e le loro anime non trovavano più spazio in alcun luogo dell'universo: le loro volontà e il loro amore non esistevano più, ma Samuel sentì egualmente di doverglielo dire. «Sono certo che vorrebbero la tua felicità.»

Con sguardo insolitamente deciso e l'espressione serena e consapevole e priva di qualsiasi traccia di dubbio, Agatha rispose: «Già, lo sono anch'io.»

Da qualche parte in mezzo alla folla si levò una forte raffica di vento e il Pidgeotto si sollevò a mezz'aria nella foga della battaglia. Per quanto intensamente guardasse in quella direzione, però, Agatha non lo vedeva.

«Tu sapevi che Nidoking ha scelto di morire?»

Se la sua decisione se l'era aspettata, quest'informazione per lui era decisamente nuova. Samuel rimase in silenzio per svariati secondi, aspettandosi una spiegazione che facesse da complemento a quelle parole, ma quando fu chiaro che non ve ne sarebbe stata alcuna, si decise a domandare: «Che cosa?»

«Non ha voluto rientrare. Quando l'ho richiamato, quella notte...» Samuel lo ricordava bene: decine di raggi rossi che balenavano nel buio, folgorando invano l'aria, e le urla strazianti di Agatha che lo imploravano, lo supplicavano di rientrare. «È stata una sua scelta. Lui non l'ha voluto.»

Il ruggito sofferente di Nidoking che veniva stritolato dalla morsa della pallida mano non era l'ultimo dei ricordi che avrebbero vegliato per sempre i suoi incubi: Samuel non ebbe bisogno di concentrarsi per richiamare alla memoria quel momento. Sì, egli ricordava bene tutti i tentativi della Pokéball che andavano a vuoto, ma non se n'era stupito affatto, poiché fin troppe volte gli era capitato, nella sua carriera di allenatore, di rimanere intrappolato con la sua squadra in qualche campo di battaglia da una mossa che gli avesse reso impossibile fuggire. Doveva aver pensato che la stretta formidabile della mano avesse più o meno lo stesso effetto di un Avvolgibotta, ma ora Agatha gli veniva a dire che, in tutto questo, Nidoking aveva soltanto disobbedito e si era rifiutato di tornare da lei. Sapeva bene che non c'era modo di confondere i due eventi: il piccolo strattone che la Pokéball sembrava avere quando un Pokémon si rifiutava di obbedire era completamente diverso dalla piena immobilità della sfera che corrispondeva a un richiamo andato a vuoto, e Samuel conosceva la differenza per aver avuto un Pokémon testardo e selvaggio come Gyarados, che ancora continuava saltuariamente a disobbedire dopo anni da quando egli era riuscito a domarlo...

Nidoking era rimasto sul campo ad affrontare la morte perché sapeva di essere l'unico ostacolo che ancora si ergeva tra Agatha e il sepolto vivo. Samuel non riusciva neppure a immaginare quale portata di colpevolezza e responsabilità tutto questo comportasse per lei, ma tornando a reprimere con forza quei ricordi ai margini della sua coscienza, rispose: «Nidoking ti amava moltissimo.»

«È così» disse Agatha a bassa voce. «E anche Vileplume e Tentacruel, anche se non ho fatto in tempo a cercare di richiamarli. È per questo che non posso gettar via il loro sacrificio, Samuel» soggiunse poi, con la massima gravità possibile nello sguardo; e Samuel comprese che in fin dei conti era questo ch'ella aveva veramente voluto dirgli sin da quando erano usciti dalla Torre. «Loro hanno fatto di tutto perché io sopravvivessi, Samuel. Che cosa direbbero se dopo aver tanto lottato, se dopo tutto quello che hanno fatto per me, io tornassi a chiudermi in quella casa da cui ho faticato tanto a scappare?»

Qualsiasi forma di approvazione o di sostegno alle sue parole sarebbe stata vana e sterile e non avrebbe avuto alcun significato: la decisione di Agatha era stata presa nel momento in cui Nidoking si era sacrificato per salvarla. Non c'era altro da dire.

A pochi metri da loro, l'aria si rischiarò del bagliore rosato di uno Psichico, e il Pidgeotto che poco prima si era levato in volo gettò uno stridulo grido di protesta. Samuel fece cenno di aver capito. «Quando intendi ripartire?»

«Domani» rispose Agatha a bassa voce, guardandolo fissamente come se si aspettasse una sua reazione; ma Samuel non ne ebbe nessuna. Era giusto così: se si doveva ripartire, meglio farlo il prima possibile, senza ripensamenti. E poi, a che rifletterci troppo? Forse che sarebbe cambiato qualcosa, se fossero rimasti più a lungo in quella misera cittadina angusta? (E a far che, poi?) Ma come se ancora non fosse certa della sua opinione, e volesse una risposta più concreta del tacito silenzio d'assenso ch'era tutto ciò che egli le offriva, Agatha insisté: «Ho bisogno di sapere se sei disposto a venire con me.»

Affrontare di nuovo un viaggio, ma senza la sua squadra, aiutare Agatha a catturare nuovi Pokémon e poi seguirla e sostenerla lungo l'infinito percorso che si stendeva davanti a loro verso un incerto futuro. Soffocando lo strano sentimento di sconforto che questa prospettiva gli causava, Samuel allungò una mano e le scompigliò i capelli.

«Scema» disse.

Il pallore di Agatha si colorì del suo sorriso.


Si erano alzati prima dell'alba, in una Lavandonia ancora grigia e fresca e meno soffocante che durante il giorno. Affacciandosi alla finestra della sua stanza, Samuel aveva visto in lontananza biancheggiare ancora di nebbia la vasta schiena del mare, dove forse appena una brezza lievissima increspava le onde in superficie.

Quando era sceso dabbasso, aveva trovato Agatha già sveglia, tutta presa da un senso d'angoscia e attesa. Indossava ancora un completo di foggia maschile, con morbidi calzoni blu che si stringevano eccessivamente attorno alla sua vita smagrita, e rimaneva immobile davanti alla finestra della cucina, colle mani aggrappate al davanzale. Guardava fuori, ma i suoi occhi non si volgevano verso il mare, e neppure verso la luminescente aurora che infiammava la possenza dei monti. Samuel si era chiesto se rimanesse ancora spazio per la bellezza in lei. Esisteva ancora in lei, da qualche parte, l'Agatha gioiosa e vitale che aveva ammirato per ore, senza volersene staccare, la meraviglia senza tempo di Articuno? O forse quel rancore che in lei era sempre esistito, e che egli aveva accettato con naturalezza, come aveva accettato i suoi capricci e il suo coraggio, si stava nutrendo del suo dolore tanto da acquisire in lei più forza della vita?

Non aveva acceso la luce, forse per non richiamare l'attenzione del pase, o almeno di qualche singolare paesano che fosse già sveglio a quell'ora, ma la scarna luce livida del mattino era già sufficiente a illuminare in parte il suo profilo. Samuel aveva distinto occhi smisuratamente grandi sul pallore del volto, scure ombre dolorose che scavavano e approfondivano la sua bellezza ancora quasi infantile, la curva angosciosa delle altere sopracciglia contratte e labbra dischiuse che s'impedivano di tremare. Tutto in lei parlava di dolore, pensò Samuel osservandola dalla porta, ma di una sofferenza dura e statuaria, più inaccessibile della vetta di un monte, che si era fatta carne e non poteva più profondersi in lacrime.

Agatha si era accorta di lui solo dopo qualche momento, forse per aver percepito una diversa tonalità nel silenzio che la circondava, o per aver avvertito l'impercettibile suono del suo respiro. Si era riscossa dalla sua contemplazione come da un interminabile sogno, lentamente, e altrettanto lentamente si era voltata; ma finché non si erano posati su di lui, i suoi occhi erano rimasti colmi ancora del suo sogno, trabordanti tanto ch'egli aveva creduto di poterne leggere il suo pensiero. Poi il suo sguardo si era posato su di lui, quasi con voluttà di riposo, ed ella era finalmente riemersa dal ricordo di quella notte ed era tornata da lui.

Per qualche istante Agatha aveva come combattuto l'impulso di domandargli s'egli fosse davvero deciso, o di ricordargli che su di lui, se si fosse tirato indietro anche solo in quel momento, ella non avrebbe rivendicato alcun diritto; ma poi la sola idea di mettere in dubbio la sua decisione, che già di per sé era divenuta evidente nel fatto stesso ch'egli si era presentato al loro incontro, le era parsa offensiva, e aveva lasciato perdere.

«Hai fame?» aveva domandato invece, colle dita ancora nervosamente strette attorno al piano della cucina e gli occhi infissi su di lui, quasi a voler percepire il suo stato d'animo da tutto ciò che a voce non si poteva esprimere: forse la piega delle labbra, o la postura delle spalle, o qualcos'altro ancora, che agli occhi era invisibile ma che lei, egualmente, avrebbe visto.

«No» aveva risposto. Sentiva l'ansia stringersi in una morsa proprio alla bocca dello stomaco, e neppure volendolo avrebbe potuto mangiare.

Non c'era stato nient'altro da dire, nient'altro che Agatha avesse potuto trovare da chiedergli per poter prolungare quel momento di ancora un istante senza esser costretta a dirgli ciò che davvero avrebbe voluto: che non era tenuto a seguirla, che lei comunque gli era grata; che...

Ma rimandare ancora non avrebbe avuto senso, ed erano usciti.

Avevano attraversato la città come spettri, in silenzio e senza neppure guardarsi, accontentandosi di percepire l'uno la presenza dell'altra attraverso l'aria solamente. Senza voltarsi, guardando dritto davanti a sé e sforzandosi d'ignorare il suono lieve del suo respiro, Samuel avrebbe potuto credere d'esser solo e abbandonato in tutta Lavandonia... ma non era così, e quand'anche egli non fosse riuscito a udirlo e neppure a percepirlo nell'aria scura e impenetrabile tutta attorno a lui, egli ugualmente avrebbe capito, e non avrebbe potuto nutrire alcun dubbio sul fatto che l'ardore di Agatha fiammeggiasse troppo intensamente perché la paura potesse trattenerla.

In piena notte, il cantiere deserto sembrava semplicemente immenso. Si erano insinuati attraverso le transennature, sgusciando appena tra i macchinari a riposo, e avevano strisciato lungo il muro della Torre camminando con difficoltà sul terreno smosso di fresco.

La porticina si era aperta senza alcun problema. Al di là di essa si stendeva il vasto piano terreno della Torre, ma quando Samuel era entrato, e dopo lunghi istanti di angosciata apnea finalmente aveva ricominciato a respirare, quell'odore familiare ch'egli ricordava anche troppo bene, odore di cera e incenso e di fiori lasciati a imputridire nell'acqua da ormai qualche giorno, non c'era. Quel giorno, la Torre era stata così affollata e caotica che non sarebbe stato neppure possibile percepire quell'odore, in mezzo a una folla di signore profumate e di signori in acqua di colonia, e al di sopra dell'aria troppo calda ma ventilata che spirava dalle finestre spalancate; ma ora era deserta, e proprio il silenzio tombale che vi aleggiava incoraggiava gli altri sensi. Curiosamente, egli si era reso conto di essersi aspettato di trovare quell'odore ad attenderlo solo in quel preciso momento in cui l'aveva assalito il sollievo per non averlo trovato, e forse era meglio così. La sala odorava ora di intonaco e calce e della polvere smossa dei lavori, e di quel misero evento che sembrava serbar di lui tanta pietà egli si sentì smisuratamente grato.

All'interno della Torre, dove nessuno poteva più vederli, Agatha si era abbassata sulle spalle lo scialle con cui si era coperta i capelli – malgrado l'ora, Samuel aveva insistito, poiché era certo che se qualcuno li avesse visti, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a distinguere persino nella notte la crespa nube dei suoi capelli scomposti – e avevano raggiunto a tentoni il piano di sopra. Più su, Samuel aveva messo bene in chiaro che non solo non l'avrebbe seguita, ma le avrebbe impedito di andare, anche a costo di trascinarla di peso giù per le scale; e Agatha aveva capito.

Vederla avanzare ora tra le tombe, nella luminescenza dell'alba appena un po' più intensa e meno livida di quella della luna piena, lo riempiva d'ansia e di ricordi e di spavento: per impedire a se stesso di afferrarla e di stringerla, di portarla via da quel luogo orribile in cui i loro Pokémon erano morti, Samuel si era aggrappato alla superficie levigata di una lapide, con tanta forza che quasi si era meravigliato che le sue dita non penetrassero attraverso il marmo come fosse carne, e aveva aspettato.

Agatha aveva camminato tra le lapidi in silenzio, col volto concentrato e tutto preso da quel momento. Non si era mai allontanata molto da lui, e anzi più volte si era voltata a cercarlo, ma non perché non fosse certa di quanto si fosse allontanata da lui, o perché volesse assicurarsi che egli non l'avesse abbandonata; ma nei suoi occhi senza luce, che lo vedevano senza soffermarsi su di lui, Samuel vedeva specchiarsi il medesimo incubo che lo avvinceva, e allora era certo che ella lo cercava con lo sguardo e lo ritrovava perché aveva bisogno di sapere di essere sveglia e che tutto era reale.

Gastly era arrivato dopo lunghi interminabili minuti di attesa, proprio quando sembrava ormai diventato tutto inutile e insperabile. Samuel non l'aveva visto subito, forse perché non ne aveva mai visto uno, e per questo motivo non sapeva precisamente che cosa aspettarsi, o forse soltanto perché era buio: tutto ciò che aveva visto, in quella lunga notte che volgeva al mattino, era l'improvvisa rigidità di Agatha, come s'ella si concentrasse per un momento per capire da dove venisse quel rumore che aveva sentito – o forse quella sensazione che aveva avuto – e poi, al di là della sua figura, una nube scura e indistinta, stagliata contro la finestra. Ma ecco, proprio quando Samuel finalmente aveva levato lo sguardo su quella finestra, e aveva distinto l'informe sagoma inconoscibile che spiccava per contrasto contro la luce dell'esterno, egli per un attimo aveva avuto la stessa impressione di Agatha, e subito dopo quell'impressione era divenuta consapevolezza: quella nube aveva occhi che lo scrutavano...!

E poi, e poi. Non c'era quasi nulla che valesse la pena ricordare di quel momento. Agatha si era mossa con rapidità sconcertante, molto più rapida del suo impulso di correre in suo soccorso: la sua mano non aveva esitato un solo istante, e quando il lampo della Pokéball che si apriva per poi richiudersi subito dopo aveva illuminato a giorno il suo viso, egli aveva visto i suoi occhi seri e concentrati e le sue labbra serrate in una linea dura e determinata che non lasciava spazio all'incertezza.

E poi, e poi. Le catture si erano susseguite rapidamente e con via via maggior sicurezza, a misura che i Pokémon si erano avvicinati incuriositi dalla loro presenza , e forse persino un po' intontiti dopo tutti i lavori e il caos che avevano animato la Torre negli ultimi giorni, e la mano di Agatha aveva saettato nel buio ancora e ancora. Vi era stato un momento soltanto, in quella sequenza di lampi di luce, in cui Samuel aveva provato una fitta di panico, e staccandosi dalla lapide al quale si era aggrappato si era ritrovato alle sue spalle: a un tratto, un esemplare particolarmente grosso – o quantomeno una nube gassosa particolarmente estesa – si era liberato sibilando dalla Pokéball e si era scagliata contro di lei... eppure, come al solito, Agatha si era rivelata molto più all'altezza della situazione di quanto egli si ostinasse a considerarla. Senza permettere a se stessa di arretrarsi solo di un passo, ma fronteggiando ancora a testa alta il suo nemico, aveva agito senza esitare, e dopo un ultimo lampo di luce e una breve serie di oscillazioni, la Pokéball si era richiusa.

Avevano lasciato Lavandonia quel mattino stesso, senza neppure tornare alla vasta casa vuota, mentre la cittadina cominciava a svegliarsi e a stiracchiarsi, in procinto di dedicare un'altra giornata a vivere in funzione del suo enorme parassita, e si erano diretti verso ovest, dove cresceva Zafferanopoli dalle strade color di croco. Scegliere una prima tappa così vicina per riprendere il loro viaggio si era rivelata una buona idea: Samuel stesso, che pure non aveva altra infermità che quel mese di ozio forzato – era la prima volta da quando era partito che si fermava tanto a lungo nel medesimo luogo – si era sorpreso di arrivare a Zafferanopoli molto più stanco e dopo molto più tempo del normale; quanto ad Agatha, egli aveva potuto leggere il dolore accrescersi e avvicendarsi alla stanchezza sul suo volto, a misura ch'esso sbiancava o si arrossava o che la sua fronte s'increspava; ma ella non si era mai lamentata.

Dopo Zafferanopoli, le città e i percorsi si erano susseguiti senza sosta. Quando si soffermava a riflettervi, nelle lunghe notti gelide in cui stentava ad addormentarsi, Samuel sbigottiva di quanta strada avessero percorso.

Erano avanzati molto lentamente, all'inizio. Per Agatha, quella era la prima volta dopo anni che combatteva con Pokémon diversi dalla squadra alla quale era abituata, e per i primi tempi – anche s'ella non l'avrebbe ammesso mai ad alta voce! - Samuel aveva letto nei suoi occhi tutta la guerra d'amore e di dolore che scatenavano in lei i suoi nuovi Pokémon. Agatha si era imposta di sopravvivere a quel dolore perché non farlo sarebbe stato offendere la memoria e il sacrificio della sua squadra, e non avrebbe ammesso a nessun costo che quell'impegno segreto che non si poteva tradire era forse troppo grande di lei; no, non avrebbe confessato mai che tutta una parte intera di lei non avrebbe voluto affatto andare avanti, e che quella vita non valeva più niente, che il suo sogno era divenuto irrealizzabile e privo di significato da quando loro...! Proprio guardare quei nuovi Pokémon che si era scelta le ricordava ogni giorno di più che quelli che erano stati i suoi non c'erano più, che non sarebbero tornati mai più da lei; e proprio questo la riempiva di un grande dolore.

Samuel ricordava precisamente il momento in cui Agatha, all'improvviso, si era innamorata di loro e li aveva accettati.

Non c'era voluto più di un istante, dopo mesi di lotta e di conflitto e di pianto; o meglio, mesi di guerra e confusione erano culminati sublimandosi in quel solo attimo, e da allora Agatha aveva smesso di lottare con se stessa.

Era accaduto durante una di quelle rare sere in cui Agatha aveva fatto uscire i suoi Pokémon dopo cena, mentre sedevano in silenzio attorno al fuoco, poco a ovest di Fucsiapoli. L'estate non era ancora finita, certo, ma le giornate cominciavano già ad abbreviarsi, e a quell'ora, a breve distanza dal mare, la notte era fredda.

Agatha aveva accettato di buona grazia il giubbotto che Samuel le aveva offerto, e ora sedeva in silenzio con lo sguardo perdutamente infisso nel fuoco, preso come da pensieri tutti suoi. Aveva la fronte penosamente aggrottata, con le braccia conserte sul petto con forza, e le fiamme che si avvicendavano per salire al cielo davanti a lei tratteggiavano sul suo viso nere ombre mutevoli e ognora cangianti, alterando a ogni momento le la luminescenza dei suoi occhi. Proprio su di essi Samuel si sforzava disperatamente di concentrarsi, perché guardare il fuoco, da un po' di tempo a quella parte, non gli piaceva più.

I suoi Pokémon giocavano a inseguirsi a pochi passi da loro, sovrastando con le loro stridule risate sguaiate, che sarebbero risultate agghiaccianti se Samuel non li avesse conosciuti bene, il crepitio delle fiamme.

Era successo tutto così in fretta. A un tratto Haunter – l'unico Pokémon già parzialmente evoluto che Agatha avesse catturato quel mattino, quello che per poco non l'aveva aggredita – forse stufo dell'indifferenza un po' distante che era tutto ciò che Agatha, seppur involontariamente, era stata in grado di riservare loro, si era avvicinato a lei, l'aveva guardata da vicino per qualche secondo, come a stabilire se i suoi vacui occhi pensosi fossero in quel momento in grado di vederlo o se, invece, non occorresse fare ricorso a qualche metodo più ardito per ottenere la sua attenzione, e infine, forse arrendendosi all'evidenza, aveva afferrato i suoi capelli e aveva tirato.

Agatha non aveva neppure gridato. Samuel l'aveva vista sobbalzare per la sorpresa, quando quello strattone l'aveva bruscamente richiamata alla realtà dall'abisso senza fondo dei suoi pensieri, ma questo era tutto quanto ella aveva concesso a quel primo attimo di sgomento. Era balzata in piedi in un impeto di rabbia, volgendo furiosamente su Haunter occhi ardenti e severi come braci incandescenti: Samuel si era aspettato che... e poi Haunter aveva fatto una boccaccia, e Agatha era scoppiata a ridere.

Erano Pokémon un po' malevoli, anche se non fino a essere decisamente cattivi, più di Veleno che di Spettro, almeno per come li vedeva Samuel, cioè alquanto infidi e subdoli; e non c'erano dubbi che ad Agatha questo aspetto del loro carattere piacesse molto. Nidoking era stato coraggio e brutale aggressività fisica, e si era arrogato il compito di difendere Agatha come il padre o il compagno ch'ella non aveva mai voluto avere; ma dopo di lui, e dopo Vileplume e Tentacruel, forse Agatha non voleva più affatto qualcuno che la proteggesse. In lei bruciavano una fiamma di vendetta e un'amarezza sorda e rancorosa che non potevano riversarsi su alcun oggetto reale, per il semplice fatto che il sepolto vivo era morto e che il dolore che abitava il suo animo era immotivato e ingiusto, del tutto privo di ragioni materiali, e che non avevano bisogno di coraggio o mera forza fisica, dal momento che non potevano concretizzarsi in atti. Ma la rabbia di Agatha era immedicabile: non poteva sfogarsi né trovare pace, e perciò la rendeva inquieta e furiosa e priva di riposo; anche se forse, chissà, quella subdola e mendace malignità dei suoi Pokémon, che si esprimeva attraverso scherzi e dispetti e veleno voluttuosamente gettato in faccia al nemico, forse dava un po' di sollievo al suo animo dilaniato dal senso impotente della rivalsa...

Beninteso, non erano Pokémon cattivi, o almeno non avevano alcuna intenzione di essere davvero crudeli. No, Gengar e Haunter erano semplicemente il caos, ma un caos allo stato puro, primordiale, e del tutto privo di qualsiasi connotazione morale. Nella loro mente non c'era spazio per nient'altro che non fosse il loro divertimento, sfrenato e senza limiti, - o meglio, lo spazio ci sarebbe stato, ma semplicemente a loro non interessava curarsi d'altro – e tutto ciò che a quel divertimento poteva contribuire, e poco importavano le possibili conseguenze dei loro scherzi e della loro follia. Tutto il mondo sensibile esisteva, nella loro ottica, per nient'altro che la gioia caotica della loro malignità, e in tutto questo Agatha non li aveva mai fermati. I suoi Pokémon si ergevano davanti a lei come un esercito di demoni indisciplinati e ribelli, che amavano la lotta e la confusione e che non chiedevano di meglio che seminare un po' di zizzania al loro passaggio, ma che si mostravano ai suoi ordini mansueti e docili proprio come bambini un po' irruenti, che però amassero la loro madre di tutto l'amore del mondo e volessero compiacerla in tutto e per tutto.

Sì, Gengar e Haunter adoravano Agatha di un'adorazione incontrastata e senza pari, mettendo incondizionatamente al suo servizio tutta la loro violenza e la loro sottile perfidia, e forse l'amavano proprio perché sentivano ch'ella si compiaceva della loro natura e trovavano in lei una perfetta corrispondenza. Il mondo appariva loro come un immenso parco giochi privo di ogni proibizione o confine, d'accordo, ma quel mondo girava attorno a lei, mutando in base alla sua volontà. Anche gli scontri con gli altri Pokémon non sarebbero stati, per loro, che eterni giochi vagamente perversi in cui dar sfogo ai loro orribili poteri; ma ciò nonostante essi non avevano mai tardato, neppure un istante, a eseguire i suoi ordini ponendo così fine alle lotte.

Del resto, Samuel era convinto che quei tre nutrissero una particolare forma di rispetto e di riguardo anche per lui, se non proprio un'aperta e palese simpatia; ma questo era quanto. Amavano coinvolgerlo nei loro scherzi, naturalmente, così com'erano abituati a fare con qualsiasi essere vivente che non fosse Agatha; ma si trattava di scherzi innocui, che non miravano a spaventarlo o a mortificarlo davvero, come amavano fare con gli altri. Volevano ridere con lui, non di lui, e se questa mitezza nei suoi confronti fosse dovuta a un loro reale affetto o piuttosto al fatto che non volevano entrare in contrasto con la volontà di Agatha, questo Samuel non avrebbe saputo dirlo e neppure gli interessava. Era la squadra di Agatha, non la sua, e in che misura e per quali motivi la loro perfidia prendesse forma sulla bruciante ambizione di quella ragazza, non lo riguardava.

Allenarsi all'inizio, naturalmente, era stato difficile. Al momento della loro cattura erano Pokémon molto deboli, incostanti, e privi di particolari talenti. L'autorevolezza di Agatha era tale che essi non avevano mai esitato a obbedirle, e questo era stato una fortuna, perché ella aveva al contrario faticato moltissimo ad abituarsi a loro e a trovare per ciascuno un ruolo e una strategia nell'economia della squadra: erano Pokémon nuovi, con mosse e vulnerabilità e debolezze completamente nuove rispetto a quelle cui ella era sempre stata abituata e sulle quali aveva costruito quella sua tattica aggressiva e furiosa che ormai, per forza, non aveva più modo di mettere in atto.

Eppure, e senza che Samuel ne avesse mai dubitato, Agatha aveva superato ogni difficoltà che le provenisse dai suoi Pokémon con implacabile determinazione. Non erano certamente ancora al livello della squadra di cui ella aveva potuto vantarsi con tanta sicurezza a Fucsiapoli, d'accordo, eppure in loro brillava qualcosa di orribilmente forte, macabro e selvaggio e pronto in ogni momento a rivelarsi, ed ella aveva bisogno soltanto di un po' più di tempo per poter tornare di nuovo a competere, verbalmente e non solo, coi gradassi che avevano cercato di umiliarla sull'Altopiano Blu.

La sua ambizione li aveva trascinati per tutta Kanto per la seconda volta da quando la loro alleanza si era costuita, e alla sua ambizione Samuel non si era mai oppposto. Si era limitato a seguirla in silenzio, senza opporlesi mai, neppure quando la sua passione aveva raggiunto vette irraggiungibili e inusitate... era stato per lei più un sostegno che un compagno per tutti quei mesi, un osservatore più che un amico; eppure sentiva che della sua presenza silenziosa e discreta, ma immancabile, Agatha gli era grata.

Vi era tutta una parte di lui che avrebbe voluto poterle dare un'altra pace da quella che ella cercava nella lotta. La sua rabbia impotente si riversava nelle battaglie in grandi ondate, si faceva guerra e scontro in cui era ella stessa, Agatha, la prima a volersi distruggere... nella battaglia ella cercava uno sfogo anche solo temporaneo all'ira focosa che le bruciava dentro e che non la lasciava mai, e Samuel avrebbe disperatamente voluto poterla salvare da quella rabbia e da quella disperazione... o almeno conoscere le parole per dirle che tutto il suo odio e la sua cieca ostinazione, protese verso il nulla e verso l'infinito, erano altrettanto inutili, vane e prive di significato quanto l'incessante splendere del sole; e che non solo non avrebbero potuto riportare indietro i suoi Pokémon, ma non avrebbero nemmeno potuto darle sollievo.

Ma per quanto profondamente egli volesse aiutarla, per quanto ogni giorno, mentre la guardava lottare, egli desiderasse stringerla e scuoterla e urlarle di smettere di tormentarsi – perché era questo che stava facendo, esattamente come lui, seppure in modi diversi – Samuel sapeva che non sarebbe bastato. Quel dolore che in lui era divenuto compassione, in lei si era trasformato in durezza, ma una durezza totale e priva di scrupoli, ed ella sembrava voler punire il mondo intero con la stessa inflessibile severità con la quale aveva castigato se stessa. Non c'era altro da dire.

Compassione, già. Era così che si poteva dire quel sentimento nuovo che ora lo penetrava quando guardava Agatha lottare e spronare al massimo la sua squadra, con quello stesso ardore che egli stesso aveva avuto, fino a poco tempo prima, ma che ora proprio non sarebbe più riuscito a trovare in se stesso? Era compassione, certo, quella che provava quando di fronte a lui, a pochi passi da lui, un'Agatha più selvaggia di quella ch'egli aveva affrontato sull'Altopiano Blu incrudeliva sull'avversario, partecipando alla lotta non meno dei suoi Pokémon; compassione, d'accordo, ma egli sapeva che cosa volesse dire lottare, per un allenatore. Agatha non faceva altro che aderire, sebbene con più veemenza di prima, al medesimo codice di comportamento non scritto, ma di certo universalmente adottato, che egli stesso aveva riconosciuto fino al preciso momento in cui aveva mandato Arcanine in campo per il suo ultimo scontro. Lottare aveva comportato da sempre cicatrici e sangue e grida di dolore, e quel prezzo egli era sempre stato disposto a versarlo: ma allora in quel rinnovato sentimento di compassione ch'egli sentiva sbocciare in sé non vi era, forse, una parte di orrore e di spontaneo rifiuto di ogni forma di sofferenza che potesse ricordargli del peccato ch'egli aveva commesso, quando aveva creduto che la lotta potesse salvarlo?

Agatha questo non riusciva a comprenderlo, o meglio, aveva capito le sue ragioni, con la stessa naturalezza con la quale egli aveva compreso la natura della sua rabbia; ma non riusciva proprio a condividerle. Nel suo protratto rifiuto di tornare a essere l'allenatore di un tempo, ella non riusciva a vedere altro che un'ostinata volontà di continuare a punirsi per qualcosa che aveva causato, ma che non avrebbe mai potuto impedire, e che soprattutto non poteva ormai cambiare. Di fronte alle sue preoccupazioni, e alla sua speranza di poterlo strappare alla prospettiva di una vita di rinunce e privazioni autoinflitte, Samuel non poteva che sorridere in silenzio tra sé della sua tenerezza. Con quali parole parlare alla sua rabbia, e come dirle che egli non avrebbe allenato mai più un Pokémon non soltanto perché di tale onore e responsabilità non si sentiva più degno, ma anche perché, persino volendolo, non ne sarebbe stato in grado? Come mandare in campo un Pokémon, anche solo per gioco, senza pensare ogni volta all'ultima lotta di Arcanine?

All'estate troppo calda della prima Lega Pokémon si era succeduto un autunno precoce e freddo, ma ancora limpido, ed essi avevano camminato sui terreni variopinti di quell'autunno; durante i loro accampamenti isolati sulle colline, troppo lunghi e troppo solitari, Samuel aveva tolto lentamente foglie e dorate dai capelli di Agatha, ed ella le aveva scrutate a lungo, tristemente, prima di gettarle nel fuoco. Avevano percorso strade dritte e interminabili, lunghe tanto da perdersi all'orizzonte ben oltre il limite del loro sguardo, fiancheggiando neri campi spogli che il mattino ricopriva di nebbia, ma che si stendevano poi limpidi e netti per tutte le giornate che andavano insensibilmente abbreviandosi.

Non avevano smesso di camminare neppure quando all'autunno si era avvicendato un inverno insolitamente rigido per quella regione, e neppure avevano cercato il conforto del mare. Avevano accolto il gelo che li flagellava come avrebbero fatto con qualsiasi clima che mandasse loro il cielo, senza lamentarsene, e avevano continuato a camminare, Samuel con la sensazione di avanzare controvento contro una tempesta che lo respingeva, ma sempre senza poter rinunciare all'obbligo di andare avanti, ancora avanti, e Agatha col volto offerto alla neve e al gelo quasi voluttuosamente, per l'insano sentimento di autodistruzione che aveva, affrontando l'inverno così come si sarebbe consumata nel fuoco. Della perversità del suo dolore Samuel provava pietà, ma proprio perché la conosceva bene e sapeva che ella lo avrebbe respinto, non aveva mai fatto niente per impedirle di farsi del male. Agatha voleva soffrire, e che questa fosse una sorta di tortura autoinflitta per redimersi, o piuttosto una forma catartica nella quale il suo dolore potesse trovare pace, non cambiava le cose, poiché egli non era nella posizione adatta per dirle se stesse o meno sbagliando. Tutto ciò che riteneva di poter fare per partecipare della sua pena e assieme per mitigarla un po', e che Agatha del resto non gli aveva mai impedito, era tenere tra le sue le piccole mani di Agatha, infreddolite e screpolate dal vento, scaldandole a lungo col proprio calore. Ognuna delle piccole piaghe sanguinanti che il freddo aveva scavato nella sua carne era per Agatha una punizione cui non faceva nulla per sottrarsi, ed egli lo sapeva... ma il suo calore e il suo conforto ella non l'aveva mai rifiutato, e Samuel avrebbe voluto poter fare questo per tutta l'eternità: lenire le sue ferite, poiché non poteva impedirle di infliggersele.

Ma a mano a mano che l'inverno si era ritirato verso le cime dei monti per cedere il passo a una primavera più benevola nei loro confronti, si era confermata in lui la certezza di non poterla accompagnare oltre nel suo viaggio. La stanchezza aveva preso possesso di lui come una malattia, invalidante più di una ferita, nauseandolo e assalendolo ogni mattina, e gli faceva desiderare ogni sera di non svegliarsi per non essere costretto ad affrontare ancora un'altra giornata. Non era la stanchezza del viaggio, o delle alterne vicende di sole e di pioggia che fustigavano i loro corpi nella primavera già inoltrata ma ancora incostante... no, Samuel era stanco perché aveva gli occhi ancora pieni dell'inferno della Torre che bruciava e le orecchie eternamente echeggianti dell'ululato di Arcanine, e tutto ciò che avrebbe desiderato era di trovare pace. Ma se lui si fosse fermato, Agatha avrebbe proseguito da sola, ed egli l'avrebbe dunque perduta per sempre? E se l'avesse perduta, chi si sarebbe preso cura delle sue mani screpolate dal freddo?

Preso da tutti questi pensieri che si dibattevano dentro di lui, contrastandosi e opponendosi gli uni agli altri con le loro opposte motivazioni, e già sapendo, in fondo al suo cuore, quale sarebbe stata la risposta, il primo di giugno – il giorno dell'anniversario di quella notte, che li aveva ricondotti, senza ch'essi lo avessero deciso né concordato ad alta voce tra di loro, a Lavandonia - sotto un cielo meravigliosamente terso e caldo e sotto un sole che brillava, Samuel si risolse infine a dirle con voce ferma e priva di qualsiasi esitazione: «Sposami, Agatha.»

Chissà perché, Agatha accolse la sua proposta con calma, malinconica compostezza, come se avesse atteso ch'egli le chiedesse di sposarla ormai da molto tempo, forse persino da prima ch'egli stesso prendesse questa decisione in fondo al proprio animo, e non ne fosse perciò affatto stupita.

Non si voltò verso di lui. I suoi occhi erano infissi lontano, verso Lavandonia che si stendeva ai piedi della collina dove si trovavano, e più oltre, verso la vasta schiena del mare traslucido che proseguiva fino a confondersi col cielo... ma di tutto quel panorama così estivo e pacifico, solare e vitale, Samuel sapeva che non riuscivano a vedere alcunché, e anche se ne fossero stati in grado, non sarebbero riusciti a coglierne la bellezza. No, dopo ormai quasi un anno di viaggio, il sospetto che aveva concepito nella sua mente la notte della loro partenza era divenuto certezza: l'Agatha che aveva accanto, e alla quale aveva appena chiesto di sposarlo, non era più la ragazza gioiosa e appassionata delle Spumarine e della Centrale Elettrica. La donna che era sopravvissuta a quella notte e che era scappata dall'inferno non riusciva a vedere altro, in quella giornata di sole, che l'esile linea nera e slanciata che congiungeva la terra al cielo, e che era la Torre; e forse, oltre l'orizzonte che non riusciva a raggiungere con lo sguardo, ella poteva intuire o immaginare uno spazio sterminato e ricco di nemici sui quali sfogare la sua furia sconfinata... ma niente più di questo. No, non c'era più spazio per la poesia e la bellezza in Agatha, non più di quanto ne fosse rimasto in lui per l'avventura; ma proprio per questo egli sentiva di amarla di più, perché Agatha aveva più bisogno del suo amore; e forse, chissà, se per qualche miracolosa congiunzione del cielo ella avesse accettato di sposarlo, magari, in moltissimo tempo, e con tutto il suo amore incondizionato e senza riserve, egli sarebbe riuscito ad apportare qualche beneficio alla sua anima inaridita; un giorno, osservando quel medesimo spettacolo d'acqua e di cielo che si congiungevano sino a perdersi, magari Agatha avrebbe sorriso...

La fronte di Agatha s'increspò di dolorosa concentrazione, la linea delle sue labbra si fece più sottile e rigida; persino la curva della sua gola parve più severa e statuaria. Col profilo così contratto e indurito, e gli occhi distanti e pensierosi, Agatha domandò: «Perché me lo stai chiedendo adesso?»

Dunque Agatha sapeva, aveva sentito ch'egli stava cambiando a poco a poco, che in lui si stava formando una risoluzione; che Samuel non solo era stanco di viaggiare con lei, ma che addirittura a quel viaggio aveva meditato di porre una fine... ma del resto, non c'era motivo di sorprendersene. In quei mesi di vicinanza continua, egli l'aveva osservata e studiata ininterrottamente, giungendo a conoscerla come il ritmo del proprio respiro; ma neppure Agatha era cieca, e soprattutto, anche Agatha lo amava. In quei mesi egli lo aveva letto in ogni gesto delle sue giornate, in quasi ogni pensiero che le scorgesse negli occhi: Agatha glielo aveva dimostrato ogni singolo giorno da quando erano partiti, senza che neppure ci fosse bisogno di parlarne, col mostrargli le proprie ferite e permettergli di prendersene cura, e col trovare, nonostante il dolore e la rabbia, ancora tanta forza e luminosità, dentro di sé, da sorridergli dall'altra parte del fuoco prima di dormire... dunque per quale motivo ella avrebbe dovuto ignorare ciò che andava formandosi dentro di lui?

«Vorrei fermarmi, Agatha» rispose sinceramente, con semplicità. Non c'era bisogno di discorsi altisonanti, o di far tragedie. Le loro anime spoglie, prive di schermi, erano l'una davanti all'altra e potevano parlarsi senza urlare. «Tu sai che io ti avrei seguita, ma... non ci riesco. Ho bisogno di fermarmi, Agatha, e di riposare. Vorrei costruire una casa, una famiglia, magari.»

Agatha accolse le sue parole con una compostezza che sarebbe stata difficile da credere altrimenti. Si limitò a chinare lo sguardo, molto lentamente, e ad annuire. «È quello che hai sempre desiderato.»

Sì, Agatha aveva ragione. Una casa e una famiglia, un lavoro che lo appassionasse e una moglie che lo amasse quanto lui l'avrebbe amata, e magari persino dei figli: questa era sempre stata la felicità, per lui. Ma dopo aver concepito questo sogno, egli aveva conosciuto Agatha: e non valeva forse la pena di sacrificare una parte del sogno di una vita, per lei?

«Se mi sposi, io rimarrò a casa, ad aspettarti mentre viaggi.»

Gli occhi di Agatha, enormi e stupefatti, finalmente. Ma mentre Agatha si strappava bruscamente dalla contemplazione del paesaggio per voltarsi a guardarlo e la sua bocca si spalancava per lo stupore, Samuel non faceva altro che convincersi una volta per tutte che proprio i suoi occhi valevano bene la pena di un sacrificio.

«Non è quello che vuoi» obiettò Agatha, quando finalmente ebbe trovato la voce. Parve che quella fosse l'unica obiezione che riuscisse a formulare logicamente. «Tu vuoi una moglie vera

«Ma lo sto chiedendo a te.» Perché se avesse potuto avere Agatha al suo fianco, anche solo pochi giorni solamente di tutta la sua vita, sarebbe valsa la pena dell'attesa, e di quei pochi giorni ch'ella avrebbe liberamente scelto di trascorrere con lui, egli le sarebbe stato più grato che a una qualsiasi altra donna per una vita di fedeltà... poiché l'abnegazione si misura in base alla grandezza del proprio ego, e non era forse Agatha la donna più fiera e indipendente che potesse esistere? «Io non posso seguirti, ma posso aspettarti. Costruirò una casa dove saprai in ogni momento di poter tornare.»

Il volto di Agatha sembrava una pozza di confusione di cui Samuel poteva leggere sui suoi tratti ogni singola incertezza. Si passò una mano tra i capelli per allontanarli dal viso e mormorò: «Sarebbe proprio come con tuo padre, Samuel.»

Il punto debole del piano, la chiave di volta che minacciava a ogni momento di far crollare ogni cosa: Agatha l'aveva scoperta subito, e subito sottolineata. Certo, era ovvio che avrebbe capito subito: era quello il sacrificio, costringersi ad accettare che il comportamento di suo padre fosse comprensibile e accettabile, che potesse esistere un valido motivo per andarsene di casa senza che fosse un peccato da dover scontare... dopo aver trascorso tutta la sua vita senziente a rinnegare la sua figura e a giurare che mai si sarebbe comportato come lui, all'improvviso Samuel aveva dovuto accorgersi che non era lui a essere uguale a suo padre – era Agatha. Ma egli non poteva comunque fare a meno di amarla, e per questo motivo doveva accettarla così com'era.

«Non ha importanza, Agatha. Se mi prometterai di tornare, io ti crederò sempre.»

Una scintilla di consapevolezza cominciò a farsi sempre più strada nello sguardo di Agatha: a poco a poco, ella comprendeva sempre di più la reale portata della sua proposta. In quel preciso minuto in cui ella lo scrutava intensamente, era forse possibile che si proiettasse tanto avanti con l'immaginazione e le si prospettassero davanti le lunghe fila di innumerevoli anni futuri, trascorsi come sua moglie ma lontana da lui?

Samuel capì di averla perduta per sempre nel momento in cui Agatha tornò a voltarsi verso Lavandonia, e distolse lo sguardo da lui.

«Non posso, Samuel.»

No, non poteva. L'aveva sempre saputo, in fin dei conti, quale sarebbe stata la risposta, ma solo in quel momento, quando Agatha distolse gli occhi da lui e il suo profilo si fece impenetrabile e troppo carico di dolore per poterlo sopportare, Samuel si rese finalmente conto di quanto si fosse illuso di poter cambiare le cose, e di quanto si fosse sbagliato. Agatha gli era appartenuta nello stesso modo in cui egli stesso era stato suo, fino a quel preciso istante in cui gli aveva detto no: ma ora tutto era finito, e Samuel si sentì lieto, per un istante, che la ferita che gli aveva inferto fosse troppo profonda, venenifera e mortale per poter essere avvertita immediatamente.

«Perché no, Agatha?»

Gli occhi di Agatha si chiusero sull'orizzonte, come a volersene escludere, e la sua fronte si contrasse e si accigliò in uno spasmo di disperazione, ma silenzioso e misurato come un grido senza voce.

«Tu non mi impediresti niente, Samuel... ma io ti odierei lo stesso per non essere con me. Se il prezzo da pagare è quello di odiarti, preferisco non averti affatto.»

Era veramente finita, ora. Samuel si sentì d'improvviso sollevato, come dopo l'ultimo scatto convulso di un corpo che muoia dopo una tremenda agonia. Si concesse di chiudere gli occhi e d'inspirare profondamente nel vento, e di prestare attenzione al vago dolore sordo che palpitava nelle profondità del suo petto, ma che non trovava ancora una forma e una collocazione precisa dentro di lui. Era finita, si ripeté, e fu veramente felice di sentirsi stordito e come anestetizzato, per il momento, perché sapeva che quando veramente avesse avvertito il colpo, esso sarebbe stato formidabile. Agatha non era più sua, ed egli si rendeva conto che da quel momento, ogni ora che avesse trascorso con lei sarebbe stata un guadagno, un dono del cielo da assommare a ciò che aveva già goduto, e di cui essere grato.

«Che cosa farai ora?» domandò dopo un po', quando proprio il silenzio si fece troppo assordante, ed egli temette che se fosse durato ancora, non avrebbe potuto fare a meno di continuare a riflettere su quella perdita. «Parteciperai alla Lega, l'anno prossimo?»

Agatha chinò il capo. «Già... penso proprio che dovrò farlo. Ho rimandato anche troppo a lungo.»

In quel preciso istante, molto lontano da loro, si stavano combattendo le prime fasi della seconda edizione del Torneo. Era soprendente come quell'istituzione avesse finito per affermarsi già dopo un anno dalla sua introduzione, e fosse divenuta ormai un ostacolo irrinunciabile su cui comprovare la propria forza per tutti gli allenatori, tanto che dire la Lega, ormai, aveva finito per indicare più il Torneo stesso che non l'istituto burocratico.

«E tu? Che cosa farai?» soggiunse poi Agatha forzatamente, come se si imponesse di proseguire la conversazione proprio per il suo stesso motivo, per evitare il silenzio; ma quello sforzo che s'imponeva sembrava venirle strappato dalla sua carne stessa.

Al di sopra del vento, concentrandosi molto, Samuel riusciva a indovinare appena il suono del fiume che scorreva giù dalla montagna, trascinando verso il mare le sue strabordanti correnti. «Tornerò a casa a rivedere mia madre.»

Aveva odiato Biancavilla per così tanti anni della sua vita, e tanto inutilmente, che ora che avrebbe davvero avuto un luogo da odiare e rifuggire come peste, gli sembrava che l'odio fosse sterile e inutile, e che nutrirne tanto fosse solo uno spreco di forze. Aveva impiegato molto tempo ad accorgersene, ma ora che l'aveva capito, si sorprese a ripensare a Biancavilla con una certa nostalgia. Forse si sarebbe rivelata un buon posto dove riposare, chissà.

Avrebbe rivisto volentieri sua madre. L'aveva lasciata quando era ancora poco più che un bambino, ormai sette anni prima, e da quel giorno non l'aveva mai più rivista. Non ne aveva neppure sentito molto la mancanza, forse perché non credeva di averla mai davvero conosciuta, quando era piccolo, dopo il baratro di disperazione in cui la partenza di suo padre l'aveva sprofondata: si chiese se sarebbe stata in grado di riconoscerlo e se avrebbero trovato finalmente qualcosa da dirsi, ora che lo stesso dolore li aveva resi più simili di quanto fossero mai stati.

«E poi? Troverai il tuo lavoro sicuro?» proseguì Agatha; ma per la prima volta non c'era ironia nella sua voce, parlando di quell'argomento. Voleva soltanto saperlo, immaginare cosa sarebbe stato di lui dopo il suo rifiuto, e Samuel gliene fu grato.

«Mi piacerebbe diventare un biologo» ammise. Lo studio dei Pokémon era sempre stata la sua passione, dopotutto, anche se non aveva mai riflettuto seriamente su come trasformarla in un lavoro; ma ora che Arcanine era morto, che egli aveva giurato a se stesso che mai più avrebbe toccato una Pokéball, quella gli era parsa la soluzione migliore. E chissà, forse un giorno, se si fosse impegnato molto e fosse stato molto fortunato, una qualche sua ricerca avrebbe potuto dare buoni frutti e aiutare la scienza a comprendere qualche nuovo funzionamento nel corpo o nelle dinamiche di lotta dei Pokémon. «A ottobre mi iscriverò all'Università.»

Per tutta risposta, Agatha mormorò: «Starai bene col camice.»

Quando Samuel si decise finalmente a chinare gli occhi su di lei, strappandoli al conforto delle sue palpebre chiuse e al sollievo del vento, non si sorprese di notare che Agatha continuava a evitare ostinatamente di guardarlo, barricata dietro lo scudo del suo orgoglio e del suo dignitoso dolore. Ma proprio mentre stava cercando qualcosa da dirle per addolcire un poco l'amarezza della loro separazione, Agatha si alzò in piedi e disse ad alta voce: «Andiamo, Samuel.»

Samuel non poté evitare di sentirsi frastornato dalla sua improvvisa fretta. Dove mai dovevano andare? «Agatha...»

«Dal momento che dobbiamo separarci, non c'è motivo di restare insieme più del necessario. Partiamo subito. Ti accompagnerò a Smeraldopoli, e poi...»

«E poi?» chiese Samuel stancamente. Chissà perché, ora che finalmente Agatha gli stava offrendo la prospettiva concreta della fine del suo viaggio e di tutte le sue fatiche, quella meta gli sembrava lontanissima e più irraggiungibile ancora di tutte le tappe che avevano percorso fino ad allora.

Il volto di Agatha in controluce si mantenne una maschera dura e impenetrabile, priva di qualsiasi cedimento: ma la sua debolezza, per Samuel che la conosceva così bene, stava proprio nel fatto che ella ancora non riusciva a guardarlo. «Partirò per Johto con i miei Pokémon. Hanno ancora bisogno di allenamento.»

A Johto, il più lontano possibile dal suo ricordo o da qualsiasi momento che avessero vissuto insieme. Commentare sarebbe stato superfluo: per evitare di dire qualsiasi cosa che potesse ferirla più ancora di quanto avesse già fatto, Samuel si rimise faticosamente in piedi e le fece cenno di fargli strada.

Cominciarono a discendere il crinale della collina.


E poi, il racconto finisce.

Sono bastate meno di due ore a raccontare ai suoi nipoti quella grande terribile storia della loro amicizia e della loro distruzione. Questo pensiero è per lui cagione di un senso terribile di incredulità alla bocca dello stomaco: sono bastate due ore. Ma questo tempo può essere bastato ai suoi nipotini per percepire, con l'intensità con la quale le ha provate lui, la bassa sorda eccitazione virile della scommessa e della possibilità di prendere parte a qualcosa di grandioso come il primo Torneo della storia, l'adrenalina perturbante della sfida sulla cima dell'Altopiano Blu, il fascino vagamente inappropriato della loro amicizia, e poi la bellezza sacrale e senza tempo di Articuno e Zapdos...? Ma no, ovviamente no. Questo pensiero lo riempie di un'innegabile tristezza. Hanno avuto dunque così poco significato quei mesi nella sua vita, perché sia possibile riassumerli in nient'altro che due ore?

Non ha detto tutto, naturalmente. Quand'anche egli non avesse solennemente giurato a se stesso, e tacitamente ma con non minor valore con Agatha, di non parlar mai ad alcuno di quella notte terribile, egli sa che i suoi nipoti sono troppo piccoli e che non meritano di conoscere tutto quell'orrore. Non c'è davvero motivo di spaventarli inutilmente per qualcosa che non esiste più e che non potrà mai più minacciarli: del sepolto vivo, Samuel non ha fatto parola nel suo racconto. Col cuore palpitante di rimorso, ha dovuto ridurre la lotta sulla cima della Torre a un brutto spavento e a una piccola scialba avventura tra i Pokémon Spettro, resa spaventosa dalla cupa atmosfera del temporale che infuriava. Spiegare le morti dei loro Pokémon è stato più difficile, ma anche a questo compito egli non ha voluto sottrarsi: bisognava che sapessero. La morte di Arcanine e lo spontaneo sacrificio dei Pokémon di Agatha sono stati troppo importanti nella loro vita e nella loro separazione perché fosse possibile passarli sotto silenzio, ma, nel tentativo di addolcire un po' la tristezza di quelle perdite, egli ha narrato loro scomparse dolci e lente come malattie, piene di pace e di naturalezza. Gary e Margi, che già anche troppo hanno conosciuto della sofferenza della morte nelle loro vite, hanno compreso senza bisogno di parole tutto il dolore che quelle perdite hano portato. In questo modo, certo, essi non conosceranno mai la nobiltà della sconfitta e della morte di Arcanine, ma Samuel sa che il suo Pokémon, ovunque sia, sarebbe in grado di capire. Se fosse vissuto abbastanza a lungo da conoscerli, dopotutto, avrebbe amato i suoi nipoti dello stesso affetto incondizionato e fedele che ha avuto per lui, persino nell'ultimo istante della sua vita, e avrebbe voluto a sua volta difenderli dal male.

Samuel si accorge veramente che il suo racconto è finito quando Margi esclama con voce trepidante: «Oh, nonno, ma allora è vero che non vi siete mai neppure baciati! Ci speravo tanto...»

Sì, il racconto è davvero finito, e Samuel Oak si ritrova catapultato di nuovo sulla vecchia poltrona scomposta del salotto senza aver mai realizzato di essernsene allontanato. Eppure, per un breve attimo della sua vita, per quelle intere due ore, egli si è sentito di nuovo l'allenatore virile e coraggioso di quell'anno, il ragazzo quasi uomo che viaggiava con la piccola ragazza dagli occhi neri e tempestosi come abissi. Ha percepito ancora la sensazione, ormai quasi completamente dimenticata, del suo corpo muscolare e guizzante, pronto a rispondere all'istante a ogni impulso della sua volontà, il profumo dei capelli di Agatha, l'odore acre di terra e di fumo dei loro campeggi... quanto al dolore, quello non è una novità.

«Il nonno te l'aveva detto fin dall'inizio che non si erano baciati!» salta su Gary, ormai così abituato a provocare sua sorella da farlo quasi d'istinto, senza un motivo, cogli occhi piccoli e la voce ormai impastata di sonno. Di sonno?

Solo allora gli occhi di Samuel si posano sull'orologio.

«Santo cielo, bambini! Perché non mi avete avvertito che si era fatto così tardi?» esclama allarmato, chiudendo di scatto la rivista. L'orologio segna ormai le undici e cinque minuti, il che, se per Margi può essere tollerabile, è assolutamente inaccettabile per un bambino di sei anni. «Domattina dovete andare a scuola! Filate subito a letto.»

«Oh, aspetta, aspetta, nonno! Non puoi lasciarci così» protesta Margi, aggrappandosi alle sue ginocchia con occhi imploranti e, almeno per ora, perfettamente svegli. Già dimentico della sua pseudo rivalità con la sorella, e spiritualmente alleatosi con lei per ottenere qualsiasi cosa che possa farli stare in piedi ancora qualche minuto, Gary si affianca a lei, appoggiandosi all'altro suo ginocchio con sguardo altrettanto supplice, ma assai meno sveglio.

Di fronte ai loro occhi imploranti, e coll'animo scosso da tutto ciò che per la prima volta dopo anni ha scelto di narrare a parole, Samuel scopre che quella sera assumere il cipiglio del nonno severo gli riesce particolarmente difficile. «Per stasera vi ho già raccontato abbastanza, bambini. La rivista la leggeremo domani.»

«Ma ci sono delle cose che io non ho capito!» insiste Margi con voce petulante. Prima che Samuel faccia in tempo ad avere un tuffo al cuore al pensiero di essersi tradito e di quello che Margi potrebbe chiedergli, la bambina prosegue: «Agatha l'ha vinta la Lega, quell'anno? Come ha fatto a diventare Superquattro?»

Pur timida e remissiva com'è, quella bambina ne sa comunque una più del diavolo. Con tutto ciò, Samuel è contento che gli abbia chiesto qualcosa cui può rispondere. «Certo che vinse. Fu la prima donna in assoluto a vincere un Torneo, e rimase l'unica per diversi anni... quanto ai Superquattro, lo sono stati così tanti allenatori diversi, prima di stabilire una formazione standard come questa, che il nonno ha proprio perso il conto, tesoro. Agatha lo è stata comunque per molti anni di seguito, assieme ad alcuni dei Campioni di quegli anni, ma quanto al resto non saprei.»

La Lega, quell'anno, era stata epica. Samuel l'aveva seguita alla radio, minuto per minuto, e aveva ascoltato col cuore palpitante d'emozione, visualizzandolo altrettanto vividamente che se l'avesse visto coi suoi occhi, l'orgoglio di Agatha che si faceva strada sui suoi avversari furiosamente, come tutto quello che faceva. Aveva trepidato ed esultato delle sue vittorie proprio come se fosse stato con lei, parteggiando per lei tanto spudoratamente che tutti i suoi compagni di corso gli avevano riso dietro, eppure mai come in quel momento, attraverso i filtri gracchianti della radio, egli l'aveva sentita lontana. L'Agatha che trionfava sull'Altopiano Blu, riuscendo finalmente a dimostrare al mondo oltre che a se stessa il proprio valore, non gli apparteneva più. Gli era passata tra le mani come acqua piovana, fuggevole e impossibile da trattenere, e dopo essersi incontrati per qualche istante delle loro vite, si erano divisi. Quella sera, mentre alla radio tutti celebravano la nuova Campionessa, che appariva sui giornali bella e terribile come una distesa di neve campeggiante in pieno sole, egli avrebbe potuto inviarle un telegramma che ella, di certo, avrebbe letto... ma non l'aveva fatto. Le loro vite si erano divise proprio quando era stato necessario, e tornare indietro, ormai, era troppo tardi.

«E non l'hai rivista mai più?» domanda Gary, puntellandosi con maggior forza alle sue ginocchia, per obbligarlo a prestargli tutta la sua attenzione.

Fissando i suoi occhi verdi che lo fissano, lucidi e arrossati, limpidi ancora della sua infanzia, Samuel risponde con voce sorda, con una strana fitta di rimpianto che non ricordava più di poter provare: «No, Gary. Non l'ho mai più rivista.»

«E ora, forza! Filate a mettervi il pigiama» riprende poi bruscamente, in tono appena un po' più alto del solito, stavolta in un modo che non ammette repliche: «Salirò tra dieci minuti a rimboccarvi le coperte. Siamo intesi?»

Samuel rimane immobile sulla poltrona a guardare i suoi nipoti che corrono rumorosamente al piano di sopra, bisticciando già in anticipo su chi debba andare in bagno per primo. Sa giò che, prima ancora di aver attraversato il corridoio, Margi finirà per cedere alle insistenze del fratello, cedendogli la precedenza con più piacere che rammarico nel sacrificio, e che quando egli salirà a dar loro la buonanotte, nessuno dei due sarà ancora a letto. Non c'è ragione di affrettarsi.

La domanda di Gary sembra pulsare ancora da qualche parte in fondo alla sua coscienza, come se fosse ancora in attesa di una qualche risposta... eppure, quella risposta Samuel l'ha già data, e non saprebbe proprio dove cercarne altre. Ma allora perché?

Torna ad aprire la rivista, scorrendo lentamente le pagine fino a ritrovare la sezione che parla di Agatha: sulla carta, i suoi occhi tornano a scrutarlo severamente, furenti e infuocati proprio come egli li ha visti l'ultima volta. Percorre con lo sguardo le pagine centrali. C'è un'altra foto d'epoca, nota per la prima volta, molto più piccola e a più bassa risoluzione: è la foto della premiazione e Agatha è in piedi, minuscola e fiera di fronte a una folla di grandi uomini, e riceve la coppa dalle mani del Presidente. Sì, ricorda vagamente quella foto per averla vista sui giornali, in quei giorni in cui ancora appariva incredibile ed eroico che una donna potesse vincere un Torneo, e ricorda anche che da qualche parte appariva persino il signor Firefly, assai in disparte, col volto atteggiato a un'espressione di rallegramento ipocrita. Si domanda se sarebbe ancora in grado di riconoscerlo, su una foto di qualità maggiore. Chissà poi che ne è stato di quell'uomo, pensa distrattamente abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.

Aveva incontrato sua moglie poco più di due anni dopo aver lasciato Agatha, ad Azzurropoli.

Non le aveva dato molta importanza, all'inizio. Ella era tutto ciò che Agatha non era: una persona remissiva e modesta, che si accontentava di un lavoro da stenografa con la stessa semplice gratitudine colla quale aveva accettato tutto lo scorrere della propria vita, e straordinariamente gentile. Di lei, per tutta la sua vita, Samuel aveva amato la sua bontà e il suo sacrificio disinteressato, la sua dolcezza e la sua compassione.

L'aveva conosciuta nel modo più banale che si potesse immaginare, a una festa dove un amico l'aveva trascinato, e non c'è molto da ricordare al riguardo: all'inizio, quella ragazza graziosa come un fiore di campo, molto ben vestita e molto accuratamente pettinata, silenziosa, e timorosa tanto da chiedere scusa anche quando le veniva fatto un torto, non gli era parso altro che il perfetto modello di donna bisognosa e incapace che aveva tanto temuto e disprezzato prima di conoscere Agatha, e molto di più dopo. Aveva impiegato un po' di tempo a vedere che in quella delicatezza si celava tutta la sua forza, e che proprio nella sua umiltà ella era più sicura e incrollabile del mondo esterno. Talvolta, guardando Margi, Samuel si stupisce di quanto profondamente assomigli a sua nonna, quasi senza averla mai conosciuta.

Sua moglie è stata a modo suo un antidoto al veleno che Agatha aveva costituito per lui. Della sua bontà che non conosceva esitazioni o cedimenti Samuel si è innamorato poco a poco, colla naturalezza di qualcosa che fosse già destinato ad accadere. La sua pietà e la sua arrendevolezza sono state come un balsamo quotidiano per la ferita che pulsava sempre e che egli non le ha mostrato mai, ed è stato bello invecchiare insieme per gli anni che sono stati loro concessi.

Sua moglie è morta a sessant'anni. La sua agonia non era stata molto lunga, ma era stata atroce, ed egli era rimasto impotente a vederla consumarsi a poco a poco per un brutto cancro che tutta la sua scienza non poteva bastare a curare. Negli ultimi giorni, quando ormai anche le sue corde vocali erano irrimediabilmente compromesse, ella non era più in grado di parlare. Samuel era allora rimasto al suo fianco in silenzio, a osservare immobile e impotente la malattia farsi strada e trasfigurare i suoi occhi in oceani di sofferenza che non trovavano voce, e infine a vederla morire lentamente. Contrariamente a quanto aveva creduto, la fine delle sue pene e la consapevolezza che non le rimaneva più alcun dolore da affrontare su quella terra, e che la pace del suo cuore si era ricongiunta con la serenità del cielo, non gli avevano recato alcun sollievo. Sua moglie era in pace, ma non era più con lui, e Samuel si era sorpreso di essere ancora in grado di provare tanto dolore di fronte alla sua morte.

Aveva creduto sempre che gli anziani affrontassero il dolore molto meglio dei giovani, che fossero più saggi e perciò più preparati di fronte alla morte; che soffrissero, certo, ma che dall'alto della loro saggezza avessero trovato una ragione che giustificasse il dolore e che li aiutasse a sopportarlo.

Samuel aveva atteso per tutta la vita di diventare vecchio. Si era illuso che con l'età e con l'esperienza di vita che dalla vecchiaia derivava si sarebbe sentito più saggio, e una volta che fosse stato vecchio e saggio, finalmente, avrebbe potuto voltarsi indietro e riconoscere nel ricordo delle sue sofferenze le ragioni che gli erano sempre sfuggite, e che le avrebbero arricchite di un senso nuovo. Quel giorno il dolore avrebbe smesso di tormentarlo, finalmente. In alternativa, si sarebbe accontentato anche di diventare un vecchio stolido e insensato, e di dimenticarsi completamente chi fosse e chi lo circondava: tutto a patto di non soffrire più.

Samuel si è accorto di essere diventato vecchio senza alcun preavviso, quando una sera, durante un programma di approfondimento culturale, un malaccorto giornalista senza troppa esperienza ha avuto l'incauta idea di citare un suo studio attribuendolo all'anziano professor Oak. Samuel ricorda ancora i suoi impacciati tentativi di sminuire la portata della sua gaffe, e allo stesso modo ricorda di aver esitato a lungo, quella sera, di fronte allo specchio, senza decidersi ad andare a dormire. Tutto ciò che vedeva dava ragione al giornalista, continuava a pensare: i capelli ormai grigi che protendevano al bianco, gli occhi gonfi e pesantemente borsati, le rughe che si spandevano tutte attorno al suo viso... sì, ma possibile che non si fosse accorto prima d'esser diventato vecchio? Che la mascella ancora incrollabilmente volitiva sotto la barba sempre più grigia e più rada, che le sue spalle ancora insolitamente dritte per la sua età lo avessero ingannato a tal punto?

Ma la verità è che Samuel non si era accorto d'esser diventato vecchio perché di soffrire non aveva smesso mai. Nella sua mente, essere anziano corrispondeva a tutt'altro che a una mera età anagrafica, ed egli finalmente si rendeva conto, in quel momento davanti allo specchio, che se non fosse stato per quel giornalista avrebbe continuato ad aspettare d'essere vecchio per chissà quanti anni ancora. È stato un brutto ritorno alla realtà. Anziano, evidentemente, Samuel lo era già senza ombra di dubbio, e a qualcuno doveva apparire anche molto saggio; ma questo era quanto, poiché egli aveva la sensazione di non essere diventato molto più saggio e di non aver compreso nulla che non sapesse già a vent'anni.

Ma dopo aver sperato che con la vecchiaia avrebbe smesso di soffrire, la sua disillusione è stata ancora più amara, dopo quella sera. A distanza di cinquant'anni, vi sono notti in cui ancora egli si sveglia, sentendo echeggiare nella notte l'ululato di Arcanine, e si ritrova nel suo letto, col cuore palpitante, senza sapere né perché né dove si trovi, colle narici piene dell'odore di sangue e viscere e la sensazione persistente che da qualche parte, in quella notte sconfinata che sembra non trovar fine nel tempo né nello spazio, ci sia una ragazza che muore... oh, ed è così mortificante dover continuamente mentire ai suoi nipoti e assicurar loro che i mostri non esistono, che non esiste al mondo nulla d'irrazionale in grado di far loro del male, quando egli lo sa, lo ha visto coi suoi occhi che questo non è vero! E guardare sotto i loro letti e nei loro armadi, per poter garantire loro, sul proprio onore, che là dentro non c'è nessuno, per poi restar sveglio tutta la notte, in silenzio, ad ascoltare se per caso si udisse una qualche voce nel buio...

Alla morte di Arcanine si è assommata la perdita di sua moglie, proprio quando credeva di essere più al sicuro e che niente, ormai, potesse più turbare la poca quiete che si era guadagnato. Dopo questa morte, Samuel si è convinto al di là di ogni ragionevole dubbio che la vecchiaia non comporta neppure la più miserabile briciola d'atarassia, e ciò nonostante ha finito per accettarla e sottomettersi al dolore, proprio come sua moglie avrebbe voluto per lui. Perdere una compagna, dopotutto, dopo quasi quarant'anni di matrimonio, non aveva nulla di così profondamente ingiusto e innaturale da autorizzarlo a ribellarsi contro il cielo, nulla di così inaspettato da farlo soffrire più di quanto...

Poi è morto suo figlio, e quel dolore dal quale egli già una volta aveva creduto di venir sopraffatto è tornato e si è fatto più grande, insopportabile, è diventato inumano e intollerabile ed egli veramente ha sperato di non dovergli sopravvivere neppure di un giorno, di un'ora solamente! Arcanine è morto per la sua sciocchezza e sua moglie per volontà della natura, ma suo figlio perché è dovuto morire? Era suo figlio, suo figlio!

Suo figlio e sua nuora sono morti entrambi in un'antica tomba durante alcuni scavi. Samuel non è mai riuscito ad accettare che due archeologi potessero morire così, semplicemente, soffocati nel giro di pochi minuti... non era giusto. È successo tutto così rapidamente che non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di chiamare le famiglie sul luogo dell'incidente, ma egli vi è andato lo stesso, per poter avere l'illusione di riportare a casa le loro salme. Quella è stata la prima volta che volava su qualcosa di diverso dalla schiena del suo Charizard, e in un'altra occasione, probabilmente, l'idea di prendere un aereo completamente da solo lo avrebbe turbato un po'; ma quella volta Samuel ha viaggiato sentendosi del tutto estraneo a quello che lo circondava. Non si sarebbe sottratto al suo compito, quella volta, continuava a ripetersi, e in un certo senso è stato proprio come se tutta la sua vita non fosse trascorsa per nient'altro, dopo quella notte, che per condurlo a quel momento in cui andava a prendere il corpo di suo figlio per riportarlo a casa e seppellirlo come meritava. Ha scontato il peccato d'essere balzato indietro, sì, ma a quale prezzo?

Se in tutte quelle morti che hanno costellato la sua vita esiste una ragione univoca, una verità superna che possa giustificarle, riscattand almeno in parte tutto il dolore che esse hanno comportato, Samuel non vuole conoscerla. Al dolore non esiste riscatto, non può essere così, sarebbe terribile e peggiore ancora che affrontare il dolore per quello che è, cieco e immotivato e casuale. Scoprire che da qualche parte qualcuno aveva prevista, e anzi persino ordita la morte di suo figlio coi polmoni pieni di sabbia non la renderebbe forse più terribile ancora di quanto già non sia?

Dal piano di sopra non sembra provenire più alcun suono. Questo silenzio lo colpisce per contrasto rispetto al rumoroso scalpiccio sguaiato dei suoi nipotini che si preparavano per la notte: devono essersi già infilati a letto, e questo indica probabilmente che sono davvero molto, molto stanchi. Bisogna salire subito da loro, stabilisce Samuel, e anche trovare un modo per mandarli a letto un po' prima domani. Si sforza d'ignorare la persistente sensazione della voce di suo figlio che lo rimprovera per averli lasciati svegli fino a tardi. Una piccola parte di lui vorrebbe voltarsi e chiedergli scusa, e spiegargli che ha fatto così tardi perché... ma Samuel rimane rigidamente immobile sulla poltrona, sforzandosi in ogni modo di non voltarsi, aspettando che quella sensazione scompaia lentamente da sola. Suo figlio non è lì.

Gli occhi di Agatha ancora campeggiano neri e alteri sulla rivista, in nulla più pietosi di quanto lo siano stati mentre egli raccontava, e al di là della loro durezza, Samuel si chiede per l'ennesima volta se la sua antica compagna sia riuscita a rappacificarsi col suo dolore, a modo suo, e se almeno lei abbia smesso di soffrire, dopo tanti anni.

Le sue dita sostano un po' troppo a lungo sul suo volto ritratto, questa sera, prima che egli si decisa a chiudere la rivista. Sospirando profondamente, Samuel si alza e si avvia lentamente al piano di sopra per andare a dare la buonanotte ai suoi nipoti.


Era stata una strana ironica fatalità, dopotutto, che l'ultimo viaggio della loro grande e terribile alleanza avesse dovuto essere proprio quello, un percorso di poco meno di tre giorni dalle pendici del Tunnelroccioso a Smeraldopoli. Ma in fondo, si disse Samuel quando era ormai evidente che erano arrivati, e che prolungare ancora il loro ultimo viaggio sarebbe stato impossibile se non controproducente, era giusto così: proprio il desiderio di grandezza insito nella loro amicizia li aveva condotti alla rovina.

Avevano trascorso le ultime ore del pomeriggio passeggiando, più che camminando, tanto lentamente e con la più perfetta calma apparente che chiunque li avesse visti senza sapere che cosa si accingevano a fare non avrebbe creduto mai ch'essi andassero intenzionalmente in qualche luogo preciso. Per tutto quel tempo, ormai dall'inizio del pomeriggio, non si erano rivolti la parola. Eppure avrebbero dovuto approfittare di quegli istanti che erano gli ultimi che trascorrevano insieme, Samuel lo sapeva, e questa consapevolezza cresceva disperatamente in lui a ogni minuto che passava e che li avvicinava, inesorabilmente, al momento in cui si sarebbero separati per sempre... ma per quanto cercasse dentro di sé qualche parola da dire per rompere quel silenzio, per fare almeno finta che che quello fosse un momento come tanti delle loro infinite giornate, non trovava niente. Ogni parola che potesse pronunciare sarebbe stata come sottolineare crudelmente che a partire dal giorno seguente non si sarebbero rivisti mai più, e che ogni curva del percorso accorciava invariabilmente sempre di più il tempo che restava loro a disposizione...

Per quanto lentamente avessero camminato, il bivio si profilò infine ai loro occhi quando ormai persino il tardivo sole d'estate aveva incominciato a stemperarsi di tinte più tenui, e la sfera incandescente del sole che calava proiettava sulla campagna un'uniforme luce rosata.

Non c'era più tempo di rimandare, ormai. Di fronte a loro, tutto attorno a loro, si diramavano gli imbocchi di mille possibile vite e delle ultime scelte possibili: la strada per Jhoto e per la Lega Pokémon si allontanava da loro, risalendo la collina verso la grande massa frastagliata del Monte Argento, la cui cima ancora innevata pareva avvampare e infervorarsi tutta sotto gli obliqui raggi del sole calante. Ma alle loro spalle una seconda strada digradava dolcemente, senza tornanti o brusche discese, verso Smeraldopoli, e da essa Samuel non poteva fare a meno di sentirsi attratto.

Non c'era più tempo, e ora che egli sapeva di non averne più, avrebbe avuto milioni di cose da dirle. Come dire addio alla ragazza che per più di un anno era stata la sua amica e compagna, e molto di più, fino a diventare una parte di lui più irrinunciabile della sua anima, ma che ora cessava per sempre di appartenergli?

Ma contro ogni aspettativa, fu Agatha a parlare.

Aveva trascorso le ultime ore in silenzio, cogli occhi cupi e bassi e la fronte dolorosamente contratta, presa come al solito da pensieri tutti suoi. Ma in quel momento, proprio mentre Samuel stava ormai per protenderle le braccia e arrendersi alla banalità di un allora, ciao, levando bruscamente gli occhi, Agatha disse senza preavviso: «Vieni a Johto con me.»

«A Johto?»

Samuel rimase per lunghissimi momenti spiazzato, senza capire, e del tutto incapace di reagire o anche solo di comprendere il significato delle sue parole. Sbatté più volte le palpebre. «Agatha...»

«Tu mi hai dato la possibilità di scegliere, ed è giusto che anch'io faccia lo stesso» sbottò Agatha, sbattendo impetuosamente un piede a terra. Era tutta rossa in viso, eppure andò avanti egualmente, con un ardore indicibile. «Se vieni a Johto con me, ti sposo. Non posso essere la tua moglie lontana, Samuel, ma se vieni con me ricominceremo tutto dall'inizio. Catturerò un Pokémon per te e presto torneremo com'eravamo una volta, e andremo finalmente alla Lega insieme, come desideravamo tanto tempo fa. Ti sposo domani, stanotte stessa, se vuoi, ma devi venire con me.»

Sarebbe stato così semplice dire di sì. Per un attimo, mentre Agatha lo investiva di tutto questo torrente di parole e di promesse, per un attimo soltanto Samuel fu tentato di dire di sì. Ricominciare tutto di nuovo, con un nuovo Pokémon e poi una nuova squadra, e poter viaggiare di nuovo in un mondo fresco e luminoso; avere Agatha, soprattutto, e poter curare le sue ferite e trovare finalmente il modo di darle la pace che tanto desiderava... per quell'unico istante, socchiudendo gli occhi, Samuel si concesse di credere che una nuova vita, del tutto identica alla prima, fosse possibile... ma poi quell'istante passò. Quella nuova vita che Agatha gli prometteva celava in sé, nel tessuto stesso dell'illusoria felicità di cui era composta, le sue minacce, e Samuel si ricordò appena in tempo, un momento prima di dire sì, a cosa andava incontro: sarebbe stato forse in grado di varcare veramente quel confine e vivere la vita che Agatha gli richiedeva, e trascinarsi avanti, ancora avanti, dal mattino alla sera, anche se insieme a lei?

L'illusione passò lasciando dietro di sé una grande dolcezza. Avvicinandosi a lei sul prato vellutato d'erba, Samuel posò piano le mani sulle sue guance: trasalendo leggermente, Agatha continuò a sostenere il suo sguardo in attesa della sua risposta.

Chino com'era su di lei, con gli occhi pieni del suo viso e le dita colme dei suoi capelli dorati, Samuel mormorò: «Se me l'avessi chiesto prima di quella notte, io ti avrei detto di sì.»

Ciò che avrebbe voluto che ella capisse dalle sue parole era che egli rifiutava non lei, ma solo la vita ch'ella gli proponeva; e questo non perché non l'amasse abbastanza, ma perché il sepolto vivo aveva esercitato sulle loro vite così tanta influenza, ch'egli non aveva più a quel riguardo alcuna libertà di scelta. Ma quando quell'ardore che aveva infervorato gli occhi di Agatha fino a un minuto prima si spense per sempre, ed ella si sottrasse in silenzio alla presa delle sue mani, Samuel temette ch'ella non avesse capito. Col suo rifiuto egli aveva forse contribuito ad aggiungere altra durezza al suo profilo già troppo severo?

Prolungare ancora quell'addio sarebbe stata una crudeltà eccessiva e inutile per entrambi. Sforzandosi di sorridere nonostante il dolore che minacciava di dilacerargli il petto, e tentando in ogni modo di fingere che andasse bene così, Samuel disse: «Addio, Agatha. So già che sarai la Campionessa più bella e più coraggiosa che l'Altopiano Blu vedrà mai.»

«Già» constatò Agatha a bassa voce. I raggi del sole calante spiovevano trasversalmente sul suo volto, donando ai suoi occhi una luminosità triste e malinconica che non si sarebbe potuta dire a parole. Si strinse nelle spalle. «E tu...tu dirai a quelli dell'Università che avranno tra di loro il biologo più coraggioso e più stupido della loro storia. Siamo intesi?»

Nella sua inflessibile severità, forse Agatha non sarebbe riuscita a comprendere mai davvero per quale motivo egli aveva scelto di rinunciare a una carriera brillante e ormai già scritta, o per quale motivo avesse gettato via tutto il suo talento e il loro amore rifiutando, quel giorno, di seguirla, e forse per questo lo considerava stupido. Ma l'amarezza delle sue parole non trovava alcun riscontro nel tremito sofferente e orgoglioso della sua voce, e Samuel sapeva di amarla anche per la sua incomprensione e il suo orgoglio.

«Siamo intesi» promise, e Agatha accennò un sorriso.

Non c'era bisogno di altri addii tra di loro. Dopo un'ultima, angosciosa esitazione, Agatha si voltò e s'incamminò lentamente lungo la ripida via verso ovest, senza voltarsi indietro. Samuel rimase immobile sull'erba fresca del percorso finché la lontananza, o forse il tramonto, gli sottrassero alla vista l'ultimo bagliore dorato dei capelli di Agatha, prima di avviarsi in silenzio, solo, verso Biancavilla.


Fine.


Eccomi qua, finalmente, a più di un anno dalla pubblicazione del primo capitolo. Suppongo che il mio ritardo ad aggiornare, questa volta, sia già abbastanza abominevole senza bisogno di sottolinearlo ulteriormente: mi dispiace davvero, ma purtroppo questo è veramente il massimo che sia riuscita a fare considerando le lezioni e gli esami da preparare.

Finire questa storia, dopo tutto questo tempo e questo lavoro, è contemporaneamente un dispiacere e un sollievo, perché da una parte mi lascia libera di concentrarmi su altri progetti, ma dall'altra mi accorgo che questi personaggi mi mancheranno moltissimo. Comunque, come al solito, mi rendo conto che tutte le cose belle devono finire. È stato un lavoro davvero grosso per me, tanto che qualche volta avrei voluto mandare tutto al diavolo e gettare nel cestino tutti quei fogli volanti, ma ora che l'ho finito e che posso guardarlo serenamente, lo rifarei, lo rifarei, lo rifarei.

Apro una piccola parentesi che forse non importa a nessuno: anche se chi mi conosce sa che non sono solita utilizzare foto o altri mezzi che non siano le descrizioni per descrivere i personaggi, ove necessario, questa volta ho deciso di fare una piccolissima eccezione, visto che la storia è finita e quindi non mi pare di influenzare l'immaginazione di nessuno se ricorro a un mezzo esterno per darvi la mia personale visione fisica del giovane professor Oak. Dato che sono una grandissima appassionata del film Metropolis, sappiate che per me Gustav Fröhlich sarebbe stato un perfetto attore per interpretare Samuel in questa storia. Detto questo, mi affretto a chiudere questa parentesi!

Passo ora a ringraziare diffusamente, come al solito, tutti coloro che hanno seguito questa storia in qualsiasi modo e in qualsiasi misura. Ringrazio quindi di cuore Bankotsu90, cristal_93, Gabbotron01, Mad_Dragon, Persej Combe e yugen_roku per aver aggiunto la storia alle seguite;

Gabbotron01 per averla aggiunta alle preferite;

cristal_93, Mad_Dragon, Bankotsu90, Persej Combe, Sunshine_Drew, Gabbotron01, e Fiulopis per aver recensito. (Ho seguito in tutti i casi l'ordine delle liste dato dal sito; qualora mi fosse sfuggito qualcuno, si tratta sicuramente di una svista e vi prego di farmelo sapere, così che possa correggere!)

Ringrazio anche Fiulopis per avermi tirato una bottiglietta in testa quando è morto Arcanine... questo ringraziamento è un po' estraneo al sito, ma era dovuto! ;)

Una volta conclusi i miei ringraziamenti, penso che non mi rimanga davvero altro da dire. Grazie infinite a chiunque per essere anche solo arrivato fin qui, e buon proseguimento!

Afaneia

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