After the darkness

di Leo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fine di tutto ***
Capitolo 2: *** Reincarnazione ***
Capitolo 3: *** Il racconto ***
Capitolo 4: *** Back to Silent Hill ***
Capitolo 5: *** Fuga ***
Capitolo 6: *** Volpe Bianca ***
Capitolo 7: *** Ti proteggerò sempre ***
Capitolo 8: *** Anche questo è colpa tua ***
Capitolo 9: *** Maturità ***
Capitolo 10: *** Tenebre ***
Capitolo 11: *** Game Over ***
Capitolo 12: *** Come la porpora che infiamma il mattino ***
Capitolo 13: *** Welcome - back - to Silent Hill ***



Capitolo 1
*** La fine di tutto ***


PageBreeze

“Cosa vi porto?”

I due rimasero leggermente colpiti. D’altronde non udivano una voce umana dire una cosa così comune da…quanto ormai?! Gesù, erano passate meno di ventiquattro ore.

“Per me un caffè, e per lei…”

“…una cioccolata calda”. La ragazza terminò la frase per lui. Dopodiché porse il menu all’uomo che li guardò con un sopracciglio alzato, tenendo la sigaretta fra le labbra. Poi si voltò scuotendo la testa e avviandosi verso il bancone. E chi poteva biasimarlo in fondo…vedere un uomo trasandato con i capelli brizzolati e la barba incolta in compagnia di una ragazzina bionda con lo sguardo spento e stanco alle due di notte in un autogrill frequentato perlopiù da camionisti, sulla superstrada che passa per Silent Hill, la cittadina abbandonata, non doveva essere proprio qualcosa di ordinario.

Fortuna che lei aveva lasciato il giubbetto sporco di sangue e la pistola nella macchina...

Non parlavano da un po’…nessuno dei due. C’era poco da dire, e anche se lei gli aveva chiesto di chiamarla con il suo nome vero, le occasioni per chiamarla per nome scarseggiavano.

L’uomo accese con calma una sigaretta. Ne gustò il sapore, godendo appieno della sensazione di rilassatezza che ne traeva. Cacciò una nuvola di fumo grigiastra in parte dal naso, in parte dalla bocca. Poi si leccò le labbra e ne prese un altro tiro.

La ragazza invece restava ferma, fissa a guardare il tavolo lucido di metallo. Lo sguardo era spento, e aveva delle occhiaie scure, violacee, e gli occhi arrossati dalla stanchezza e dal pianto.

Arrivarono le ordinazioni. Il caffè nel bicchiere in cartone chiuso, e la cioccolata in una tazza chiara, che fumava vistosamente, confondendosi con il fumo della sigaretta. Non una parola uscì dall’uomo che aveva un aspetto burbero e dei modi bruschi, sviluppati probabilmente con lo svolgimento di quel mestiere da chissà quanto tempo. Lei ringraziò comunque, con un cenno della testa, poi prese a guardare sconsolata il fumo che usciva dalla tazza. Sorrise, di un sorriso amaro.

“Immagino che non potremo raccontarlo in giro”

Douglas voltò lo sguardo nella sua direzione. Teneva il caffè in una mano, e la sigaretta ancora tra le labbra. La allontanò con due dita. “…già…e poi difficilmente crederebbero a una storia del genere”

Anche lui fece una smorfia simile al sorriso della ragazza. Poi sorseggiò il caffè. Era pessimo. Proprio come se lo ricordava…

 

Quando l’incubo terminò sembrò che tutto scomparve nel nulla. Anche nella memoria dell’uomo i ricordi si fecero sfocati, lasciando posto a forti emicranie che si aggiungevano al dolore della gamba ferita. Heather lo trovò confuso, mentre guardava in tutte le direzioni. Le grate e il sangue erano spariti, e rimanevano l’asfalto e le giostre, e tutto aveva un aspetto più normale. Non ricordava le creature che abitavano quel luogo inquietante, ma ricordava bene Claudia e le sue assurdità sul paradiso eterno. Si era dimenticato dei grumi di sangue raccapriccianti con cui aveva convissuto per parecchie ore. Ricordava solo ciò che di umano possedeva quel mondo. Ricordava per sommi capi ciò che era successo, ricordava Vincent, quell’uomo strano che compariva dal nulla e nel nulla spariva subito dopo. Ma anche se dalla sua memoria il mondo di Alessa, gli incubi di quella bambina erano stati cancellati, forte rimaneva la convinzione che tutto ciò che non ricordava era orribile e raccapricciante.

Lei però ricordava tutto. Ricordava ormai anche più di quanto avesse vissuto in quelle ore infernali. Ricordava anche ciò che era successo 17 anni prima, e ricordava di aver perso una persona che fu amica e nemica allo stesso tempo. E ricordava soprattutto di aver perso qualcosa di troppo importante. E un pensiero fisso la tormentava…

 

“…papà…”

Douglas sentì a mala pena il mormorio mentre spegneva ciò che rimaneva della sigaretta in un posacenere. Guardò la ragazza di sottecchi.

Nessuno sa mai cosa dire in situazioni simili…le parole sembrano così futili, e le persone che soffrono sembrano irraggiungibili, troppo distanti, quasi in un altro mondo, inaccessibile, lontano, disperso. Nessuno sa mai cosa dire…

Bevve un altro sorso di caffè. “So che non sono parole confortevoli, e non aiuteranno di certo…” cominciò insicuro. “…ma farò in modo che la polizia non ti dia nessun fastidio. Prenderò il caso e impedirò a chiunque di fare domande”

Che assurdità. Appena pronunciate le ultime parole il primo pensiero fu quello; che assurdità! Sarebbe stato meglio tacere.

Heather sorrise di nuovo. “Grazie”. Poi prese a bere la cioccolata che nel frattempo si era leggermente raffreddata, e la temperatura non era più in grado di bruciarle le labbra.

Nell’aria si diffondeva una musica calma, rilassante, tipica di un autogrill, anche se il suono era roco a causa della probabile età avanzata del jukebox. Infatti andava ancora con i dischi in vinile. Ma forse era meglio così, la musica che ne usciva sembrava più “vera”, meno perfetta.

L’uomo strinse una mano. Si stava incolpando di ciò che era successo. In fondo era stato lui a trovarla, a permettere che gli eventi volgessero in quel modo. In fondo era stato lui a portarglielo via…

“…mi dispiace Heather…”

La ragazza lo guardò. Alzò solo gli occhi, rimanendo con le labbra attaccate alla tazza. Bevve un altro sorso, poi abbassò tazza e viso. Scosse la testa lentamente. “Ti ho già detto che ora non c’è più bisogno di chiamarmi così!”

L’uomo rialzò la testa come se si fosse appena svegliato da un sogno. Incrociò il sorriso e gli occhi timidi e allo stesso tempo sfrontati della ragazza, con quel suo sguardo impacciato e triste. “Adesso voglio che tu mi chiami Cheryl! Non devo più nascondermi da niente!”

L’uomo rimase qualche istante a guardarla come si potrebbe guardare una matta. Poi sorrise a sua volta, un sorriso che non nascondeva l’amarezza, e con la sua voce roca e trascinata le disse: “Hai ragione, ma sarà difficile abituarmi…”

Il cartone del caffè era ormai vuoto, mentre Cheryl, passandosi la lingua sulle labbra, assaporava le ultime gocce della sua cioccolata. Si rialzarono, non senza qualche difficoltà; la gamba dell’investigatore lo sorreggeva a malapena, anche se era stata ben fasciata e il sangue aveva ormai smesso di uscire.

“Sei sicuro che vuoi guidare tu? Guarda che se vuoi ti do il cambio”

Douglas sorrise, appoggiandosi al tavolo per non sforzare la gamba, e cercando con l’altra mano il portafogli.

“Ha il cambio automatico, questa gamba non serve a niente. E poi mi sembri molto stanca, credo sia meglio che tu dorma un po’!”

La biondina sorrise, e si infilò sotto al suo braccio, sorreggendolo non senza fatica.

“Ti ringrazio…”

 

La macchina ripartì dirigendosi nella notte verso gli appartamenti Villa Daisy

 

In quella casa non era cambiato nulla. In fondo, nessuno avrebbe potuto immaginare cosa nascondesse al suo interno. Il sangue sul lenzuolo si era seccato, e la macchia rossa era diventata più scura rispetto a quando erano partiti. Uno dei fiori bianchi era scivolato, ed era finito a terra. Cheryl si chinò a raccoglierlo, e lo avvicinò al suo petto. Poi prese a guardare il letto.

Il corpo era ben visibile sotto le lenzuola, con le braccia giunte sul petto. La ragazza esitava. Sotto il lenzuolo lo attendeva il corpo smostrato e senza vita di suo padre, il suo unico affetto, la sua unica famiglia.

“…se non sei riuscita a dormire in macchina, non credo proprio che ci riuscirai in questa casa…”

Douglas guardava la scena dalla porta aperta, appoggiato con una mano allo stipite. Lei non si voltò neppure a guardarlo. Strinse più forte il fiore al petto, e perse una lacrima. Ma si sforzò di increspare l’angolo della sua bocca in un sorriso incerto. “Il problema è che non ho nessun altro posto dove andare…”

L’uomo rimase indeciso sul da farsi. Poi, con un paio di passi si avvicinò alla ragazza, e le poggiò una mano su una spalla.

“Vai nella tua camera Heather. Cerca di riposare al meglio. Io rimarrò qui, se ne avrai bisogno ti basterà chiamarmi”

La ragazza continuò a guardare il letto. Non si muoveva. Non parlava.

“…hai bisogno di riposare!”

Douglas strinse la spalla e con un gesto deciso la costrinse a voltarsi, e a guardarlo negli occhi.

Quello sguardo…quello sguardo era distruttivo! L’investigatore si accorse che era difficile sostenerlo, e che se ci riusciva era solo perché era anch’egli testimone di ciò che quegli occhi avevano visto e sopportato. Se ci riusciva era solo perché anch’egli aveva vissuto l’incubo terribile fatto di grate e sangue, rancore e speranza.

Cheryl abbassò la testa, sorridendo. “Forse hai ragione…”

Scostò la mano dell’uomo e si avviò verso la porta della stanza. Si fermò sulla soglia e voltò appena la testa.

“Mi hai di nuovo chiamato Heather”

 

…si era distesa senza neanche spogliarsi. Aveva chiuso la porta, forse per istinto, forse per abitudine, forse per paura. La poltrona insanguinata dove aveva trovato il padre era a due passi da quella porta, e l’odore del sangue gli ricordava il mondo marcio che aveva affrontato troppo poco tempo fa. Ci era passata davanti per arrivare nella sua stanza, e si era fermata un istante a guardarla. Poi aveva accelerato il passo e, chiusa la porta alle sue spalle, si era gettata sul letto.

I suoi occhi erano pieni di lacrime.

Perché?! Perché sei morto?! Perché non sto sognando? Alzati da quel letto, e vieni qui, vieni ad abbracciarmi, e a dirmi ancora quanto secondo te sto crescendo bene, e a rimproverarmi per il mio modo di parlare. Vieni a leggermi un'altra poesia che secondo te è affascinante, vieni a insegnarmi ancora come scoprire subito il colpevole in uno di quei brutti romanzi polizieschi. Vieni a dirmi ancora che non devo avere paura del buio, che non devo avere paura degli specchi, che non devo avere paura del fuoco. A dirmi che non permetterai a niente e a nessuno di farmi male, a dirmi che starai sempre vicino a me, che mi proteggerai. Vieni a dirmi che sei l’uomo più forte del mondo…

La ragazza socchiuse gli occhi, e le lacrime cominciarono a scendere copiose lungo le guance, bagnando il cuscino che stringeva sempre più forte. Si rannicchiò su se stessa.

Vieni da me, papà!

 

La parte più difficile sarebbe stata inventare una storia plausibile per tentare di mantenere a distanza la polizia e tutti i giornalisti impiccioni che avrebbero affollato la casa per cercare di ottenere un primo piano delle lacrime di Cheryl. Era sicuramente compito suo, doveva proteggerla!

Questi erano i pensieri di Douglas che si era seduto al tavolo, vicino al balcone, e cercava di trovare una storia convincente da raccontare alla polizia. Raccontare tutta la verità sarebbe stato inutile, e i due correvano il rischio di essere anche considerati pazzi.

Lo sguardo cadde sulle macchie di sangue che portavano dalla poltrona al tetto, dove quel mostro si era rifugiato. Aveva controllato più volte da quando Heather si era chiusa nella sua camera, ma del cadavere non v’era traccia. Meglio così…

“Accidenti…” la voce era un sussurro, e l’uomo sorrise leggermente, abbassando la testa. “Anche quando ci penso non riesco a chiamarla Cheryl…”

Potrebbe arrabbiarsi a lungo andare. È questo ciò che sta pensando. Voltò lo sguardo verso l’esterno, verso il buio della notte. Perché preoccuparsi di farla arrabbiare. Probabilmente fra non molto farà in modo di non vederlo più, e allora non dovrà più chiamarla. Quando si scoprì a pensare tali stupidaggini si colpì leggermente con un pugno la testa, dandosi dello stupido e del codardo.

La porta si aprì lentamente, e il cigolio si diffuse nel silenzio della casa. Quando fu completamente aperta Douglas poté vedere la sagoma di Cheryl. Sembrava si mantenesse a stento in piedi, la testa era bassa, e i capelli le coprivano gli occhi, ma le lacrime che cadevano erano ben visibili. Douglas cercò di alzarsi il più velocemente possibile, ma lei lo anticipò, avvicinandosi con passo svelto al tavolo, evitando accuratamente di posare lo sguardo sulla poltrona. Si appoggiò con le mani, e senza dire nulla si abbandonò su una sedia, di fronte all’uomo. Poi appoggiò la testa sulle braccia incrociate, e per qualche istante calò il silenzio. Douglas tornò a sedere. Non sapeva assolutamente che dire, e forse sarebbe stato meglio fare silenzio. Sentì dei singhiozzi sommessi, leggeri, appena percettibili. Doveva aver pianto a lungo…

Che stupido! Non avrebbe certo potuto riposare in quella casa. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?

Il silenzio fu rotto dalla voce femminile, soffocata dalla pressione del viso sulle braccia. “Non riesco a stare da sola”. Douglas chiuse gli occhi e chinò leggermente il capo. Anche lui era stanco, si vedeva. Ma non poteva abbandonarla, non dopo quello che aveva passato. “Si, capisco”. Si passò una mano sul viso. “…allora stai qua. Ti farò una camomilla.”

“Non farti strane idee” disse la ragazza senza muoversi. “…è che in camera mia c’è quel maledetto specchio”

L’affermazione fece bloccare di colpo l’uomo che si stava alzando a fatica per raggiungere la cucina. Ma fu solo un istante di esitazione, non c’era nulla da capire si disse. Decise quindi di non fare domande, e si avviò zoppicando. Cercò la camomilla e qualcosa per scaldare l’acqua, affacciandosi di tanto in tanto per controllare Cheryl. La ragazza però non si spostava di un millimetro.

L’acqua cominciava a bollire. Fu mentre immergeva la bustina nella tazza fumante che sentì farfugliare qualcosa.

 

“Non importa nulla a quella stupida…fa piangere solo me…solo me…”

 

“Hai detto qualcosa?”

Douglas era di ritorno, teneva con due mani la tazza per evitare che la sua andatura incerta ne facesse versare il contenuto. Quando giunse al tavolo sentì che il respiro della ragazza era diventato più pesante e regolare. Sospirò, e appoggiata la tazza sul tavolo cercò una coperta da metterle sulle spalle. Poi si sedette nuovamente; guardò la camomilla fumante. La bevve velocemente, riappoggiando la tazza sul tavolo. Fissava i capelli della ragazza, e il movimento regolare del suo corpo, che si gonfiava leggermente quando inspirava aria e tornava giù nel cacciarla. Sembrava fosse svenuta…finalmente! Un altro po’ e le occhiaie avrebbero cominciato a scavarle gli occhi.

Il suo sonno era profondo, le porte tutte chiuse, e Douglas era molto stanco a sua volta. Guardò nuovamente la ragazzina, che ora sembrava inerme e impotente. E pensare che portava in grembo un dio. Scosse la testa, e tra questi pensieri si concesse a sua volta qualche ora di riposo.

 

 

 

Era estate, quindi non sembrava affatto una giornata triste. I vestiti neri dovevano essere uno strazio per tutti.

Come avranno fatto poi a sapere già tutto?

Il vento soffiava ogni tanto, regalando qualche momento di sollievo dal caldo incessante.

Vedo i volti di persone completamente sconosciute passarmi davanti, ai lati…tutti a dire “mi dispiace”, tutti a stringermi la mano, qualcuno azzarda anche un abbraccio. Vedo anche le persone conosciute, e quelli che definisco amici. Anche loro usano la stessa attenzione. Ma quando li guardo negli occhi, tutti, nessuno escluso, abbassano lo sguardo, quasi impauriti.

Vedo le persone susseguirsi, sento le loro voci e i loro profumi mescolarsi, le differenti temperature dei loro corpi quando mi toccano, e comincio a essere stanca di tutto ciò. Qualcuno se ne accorge, qualcun altro non si accorge nemmeno di essere solo una seccatura.

Sento qualche parola, detta sotto voce per ‘educazione’, non capisco cosa dicono, non mi interessa…

Vedo il legno laccato calare nella terra bagnata, nella fossa scavata nella notte. Chissà chi l’ha scavata. Non dovrebbe essere difficile riconoscerlo: avrà le mani piene di piaghe. Anzi, no…forse c’è abituato, e allora saranno talmente dure da non spaccarsi più.

È incredibile quanto possa vagare la mente di una persona che sta soffrendo. Sarà un meccanismo di difesa. Ma non cambia la situazione…quello nella bara è comunque mio padre…

 

Douglas mi è rimasto vicino per tutto il tempo. Gli altri poliziotti invece sono lontani; sono due e parlano tranquillamente fra di loro. Se solo me ne fregasse qualcosa riuscirei perfino a capire cosa stanno dicendo.

Ho portato questo fiore con me. Non l’ho lasciato da ieri notte, quando l’ho trovato a terra nella stanza dove giaceva. A papà piacevano i fiori, penso fosse uno dei pochi uomini che non si vergognava a dirlo. Così lo lascerò a te, e chissà che non ne spuntino di nuovi dalla terra dove riposerai per sempre papà…

Cheryl si incamminò verso la fossa aperta attirando gli sguardi delle persone su di sé. Ma questo sembrava non turbarla minimamente. I suoi occhi erano impenetrabili, e tutti, tutti i presenti non riuscivano a guardarli per più di una manciata di secondi. Così anche in quella occasione, gli sguardi si spostarono presto verso la terra o il cielo, e comunque lontano da lei. Giunta al ciglio, guardò la bara serrando gli occhi. Per un istante non mosse un muscolo. Poi lasciò cadere il fiore bianco che teneva stretto al petto. Solo a quel punto permise a una lacrima di solcare il suo viso. Una sola minuscola lacrima che percorse la guancia sinistra fino a raggiungere il mento, e, dopo una piccola esitazione, si staccò definitivamente per raggiungere il fiore appena lasciato.

Poi la terra cominciò a calare.

 

Douglas aveva assistito alla scena. Non si era mosso, non lo aveva fatto neanche per suo figlio, e non disse nulla nemmeno ai due poliziotti che adesso cercavano di trattenere un risolino, non essendosi accorti di nulla.

Poi sentì una presenza al suo fianco. Voltò lo sguardo e trovò una donna bionda con i capelli corti vestita in giacca e pantaloni, e con degli occhiali da sole che ne nascondevano gli occhi. Tornò a guardare in direzione della fossa. Ma la donna cercava proprio lui.

“Com’è successo?”. La sua voce era sottile, e tuttavia trasmetteva sicurezza e forza. Scandiva bene le parole, e c’era qualcosa nel tono. Qualcosa che Duoglas riconosceva.

L’uomo voltò la testa verso quella persona, guardandola meglio. Non la riconosceva. No, non la conosceva affatto. Era sicuro di non averla mai vista prima. Così si girò di nuovo.

“Una rapina finita male…” D’altronde era di sicuro la storia più plausibile.

La donna non si scompose.

“Non la storia per i giornali…voglio la verità!”

Douglas si voltò di scatto. La vide togliersi gli occhiali con le mani coperte da guanti in pelle nera, e mostrare i suoi occhi blu, imperlati di lacrime, che iniziarono a puntare insistentemente verso di lui…

 

Cheryl si voltò, decisa a tornare a casa. Ormai non c’era più nulla da fare li. Mentre tornava indietro si accorse che Douglas era sparito. Inarcò le sopracciglia e voltò la testa in tutte le direzioni per poterlo ritrovare. Lo vide lontano, di spalle sotto un albero, e c’era qualcuno con lui. Si avvicinò lentamente, con lo sguardo basso. Non le interessava chi fosse la persona che stava parlando con lui, voleva solo tornare a casa.

“Douglas, voglio andare via…”

Si ritrovò a pensare che poteva sembrare quasi un capriccio, e che forse avrebbe dovuto formulare la richiesta in modo diverso, ma questi pensieri svanirono nel momento stesso in cui Douglas le rivolse la parola.

“Cheryl, c’è qualcuno che dice di conoscere te e tuo padre molto bene”

L’uomo si spostò, permettendo così a Cheryl di incrociare gli occhi con quelli blu della donna che la fissavano insistentemente. E subito poté notare una cosa: quella donna non abbassava lo sguardo. La guardava con uno sguardo triste ma deciso, e sembrava volesse penetrare a fondo nei suoi occhi. La ragazza inarcò un sopracciglio, squadrando la figura della donna per cercare di riconoscerla. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva ad associare un nome al volto delicato e attraente che le si parava dinanzi. Eppure aveva un che di familiare…

“Ma tu chi sei?”

Douglas fu quasi sorpreso da quella domanda, e si voltò di scatto verso la donna. Sembrava deluso. Ma la donna non si scompose. Sorrise con naturalezza. In fondo se lo aspettava.

“Sono Cybil…Cybil Bennett!”

 

…il cuore di Cheryl perse un battito…

 

Non sono sicuro se e come continuare. Mi sono sempre chiesto come deve essere per gli eroi di questo macabro viaggio tornare a una vita "normale", o a quello che rimane di una vita normale. Però mi sono accorto che in fondo in quasi tutti i silent hill c'è un effettivo "finale", mentre per Heather questo si ferma apparentemente alla fine del gioco, lasciando ombre micidiali sul come tornerà a casa, e cosa farà dopo. Harry, James, Henry e Travis non sembrano subire questo problema. Per di più a rendere ancor più unica la situazione di Heather è il fatto che è l'unica donna, e l'unica (rimasta in vita) a non avere più nessuno. Così mi sembrava doveroso addolcirle un po' la vita e regalarle un barlume di speranza. Insomma mi sono affezionato a lei!

Fatemi sapere cosa ne pensate, consigli e critiche bene accette.

Leo

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Capitolo 2
*** Reincarnazione ***


Le due sedevano l’una di fronte all’altra. La ragazza guardava con insistenza, per cercare di capire se i ricordi che aveva di quella donna appartenevano a lei o alla Cheryl che sparì diciassette anni prima. Sapeva di conoscerla in qualche modo, e sapeva che c’entrava qualcosa con quello che era successo quella volta. La donna dal canto suo sorseggiava tranquillamente il caffè dalla tazzina che aveva davanti. Era molto più buono l’espresso rispetto ai caffè lunghi e serviti nei cartoni tipici dei bar americani, secondo lei, e quando era possibile cercava sempre di gustarne uno.

Sollevò lo sguardo ad incrociare gli occhi castani della ragazza che aveva di fronte. Sorrise, di un sorriso rassicurante, che trasmetteva una vera felicità.

“Sei cresciuta” disse pacatamente, anche con una punta di soddisfazione nel tono.

Cheryl non parlava. Si limitava a guardarla negli occhi celesti, e a godere del suo sguardo di rimando.

“Beh, in fondo è normale” continuò lei con naturalezza, che mal si addiceva a quell’incontro così anormale. “In fondo non ti vedo da 12 anni”

“12 anni?” chiese conferma Cheryl. Questo significava che apparteneva alla sua vita, a quella che stava vivendo! Ma era tutto ancora così confuso.

“Si, non ricordi?! Sono passati dodici anni da quando siete andati via da Portland!”

La ragazza abbassò lo sguardo, sforzandosi di ricordare cosa poteva essere successo tanti anni fa. Ma non ricordava né dove abitava prima, né perché si erano trasferiti. E a renderla ancora più confusa c’era lei, Alessa, che aveva modificato irrimediabilmente la sua memoria, aggiungendo ricordi su ricordi, di una vita non sua.

La donna notò la sua difficoltà. Ma anche quella volta sorrise tranquillamente. “va benissimo non ricordare…avevi solo cinque anni allora!” Sollevò lo sguardo, quasi imbarazzata, o dispiaciuta.

“Anzi, mi dispiace doverti riportare alla memoria quei brutti ricordi…”

La ragazza sbottò leggermente. “Adesso basta: dimmi chi sei!”

“Te l’ho detto, sono Cybil Bennet!”

“Si, ho capito come ti chiami!” disse Cheryl con una punta di sarcasmo. “Voglio sapere come mi conosci, e come fai a conoscere mio padre! E soprattutto perché sei comparsa proprio adesso!”

Cybil assunse un’espressione seria, che gelò il sangue della ragazza, placandola. Era un brutto sguardo di rimprovero, e aveva un ché di…materno…Cheryl reagì d’istinto, e quando se ne accorse, si domandò il perché di quella sua strana reazione.

La donna distolse lo sguardo, prendendo a guardare la tazzina vuota che aveva davanti. Sembrava malinconica, anche se le sue espressioni non lasciavano trasparire molto delle sue emozioni. In ogni suo sguardo trasmetteva tranquillità e sicurezza, e anche ora che il suo volto era serio, con le sopracciglia leggermente aggrottate, alla vista di Cheryl appariva una donna fidata, e sentiva che poteva confessarle di tutto. E tutto ciò non le piaceva affatto. Si sentiva così solo davanti a suo padre…

“Diciassette anni fa…” cominciò Cybil “…ero presente anch’io!”

Il cuore le balzò in gola e la confusione aumentava.

“Ti ho vista nascere, sai?!” continuò recuperando un sorriso, che aveva un ché di triste.

“Durante uno dei miei ritorni a Silent Hill trovai una raffigurazione di Alessa. Teneva in mano una bambina in fasce, e trasmetteva quella potenza e quella sicurezza che provai nel vederla in quell’inferno, quando Harry sconfisse il demone che quella donna partorì. Il quadro era stato finito da poco, era stato dipinto con grande cura, per conto dell’Ordine. Ricordo che c’era una didascalia, con su scritto “Alessa, madre di Dio, figlia di Dio”…Solo allora capii che cosa avevo visto laggiù, in quell’inferno.”

Sollevò lo sguardo per incrociare quello della ragazza.

“Avevo assistito alla reincarnazione di Alessa, della madre di Dio. Tu sei figlia di Alessa, ma allo stesso tempo sei lei in persona.”

“Tu eri con mio padre quando uccise Dio?”

Cybil annuì leggermente con la testa. “Io gli diedi l’arma che lo protesse, e lui mi salvò la vita in quell’occasione. Ci proteggemmo a vicenda, ci legammo indissolubilmente l’uno all’altro, per sopravvivere, per necessità.”

Cheryl la guardava allibita. Le venne una forte emicrania, sentiva i ricordi riaffiorare dolorosamente, i ricordi che non le appartenevano, i ricordi di quella bambina dagli occhi azzurri. Vedeva le immagini susseguirsi velocemente nella sua testa, ricordava le fogne sotto il Lake Side Amusement Park, e il carosello. A quel punto le immagini si mischiavano, la confondevano, e il suo mal di testa aumentava vertiginosamente, tanto da costringerla a infilare le mani nei capelli, e abbassare la testa sul tavolo. Cybil la osservava preoccupata, e le si avvicinò. “Hey, ti senti bene?”

Ma Cheryl non la sentiva, continuava a cercare di ricordare. La sua confusione era dovuta alle due immagini, una in cui lottava corpo a corpo con sé stessa, e una in cui spingeva una sedia a rotelle con una persona sopra.

“Aaaah”

Colpì il tavolo con la sua testa, aumentando la preoccupazione di Cybil, che ora si era alzata in piedi e le si era avvicinata. L’afferrò per le spalle con forza, e cercò di calmarla in qualche modo. Cheryl spalancò gli occhi, e si voltò con forza a guardare Cybil.

“Ora ricordo…”

Cybil la guardò stupita.

“Io…io ho cercato di…ucciderti…?!...”

La donna a quelle parole tornò seria. Si rimise a sedere, con calma, senza tradire le sue emozioni. Ma anche con la freddezza che mostrava, si poteva intravedere la sua sofferenza.

Cheryl invece continuava a guardarla, sperando di essersi sbagliata in qualche modo. Faceva appello a tutta la sua forza di volontà, per cercare di ricordare se le sue parole erano giuste, o se c’era dell’altro. Fissava gli occhi azzurri della donna che aveva davanti, che ora erano puntati verso il basso, e non ricambiavano il suo sguardo. Ancora una volta la sua mente mischiò delle immagini passate con quelle che ora aveva davanti. Per un istante le sembrò di vedere due iridi rosse, sanguinolente.

“No…non volevo ucciderti…”

Le parole di Cheryl giunsero come un fulmine a ciel sereno. Anche Cybil non riuscì a trattenere lo stupore.

“In realtà…separai il demone che avevo dentro…per precauzione…per renderlo…incompleto, nel caso in cui non fossi riuscita a completare il sigillo di Metatron in tempo. Tu non eri prevista in quella dimensione, non saresti dovuta essere lì! Ma fu proprio perché sentii la tua presenza che misi a punto una scappatoia, un piano alternativo. Versai parte del mio fardello nel tuo corpo, indebolendo così il mostro che avrei partorito.”

Cybil stava a sentire più che mai meravigliata. Cheryl continuava, come in trance, come se a parlare fosse la stessa Alessa di quei giorni, la ragazzina impaurita che cercava di scongiurare i piani di una folle invasata.

“Quando avvertii la tua aura, la tua sofferenza, capii che saresti stata abbastanza forte da reggere una piccola parte di me, e quindi di separare e indebolire il Dio di mia madre. Questo significava che nel caso in cui costui fosse riuscito ad essere evocato, avrei avuto ancora la speranza di abbatterlo, in quanto molto indebolito dalla separazione.

Ma ero talmente tanto spaventata da quell’eventualità che sbagliai, e ti affidai una parte troppo grande. Una parte che non potevi sopportare. E quella malvagità si impossessò della tua mente, lo avvertii immediatamente. Non volevo farti del male, ma il processo era irreversibile, e comunque avevo ottenuto ciò che volevo.

Poi ti portai al luna park, pensando che non ti avrei mai più vista…aaaah!”

Di nuovo quel mal di testa. Era talmente arrabbiata per quella sofferenza, che colpì di nuovo il tavolo con un pugno, attirando l’attenzione di sguardi indiscreti dagli altri tavoli, compresa quella di Douglas, che se ne stava in disparte al bancone, per lasciare spazio alle due.

Cybil sorrise. Poi vista la reazione della ragazza chiamò un cameriere, che a bocca aperta aveva assistito alla scena.

“Mi porta il conto per favore?”

Quello annuì senza dire una parola, e quando si allontanò la bionda tornò a guardare Cheryl, che era rimasta appoggiata al tavolo, con una mano sulla testa.

“Adesso mi è tutto più chiaro. Ti confesso che ancora non capivo cosa mi era successo. Per quanto ricordavo io, un secondo prima ero nelle fogne e subito dopo mi risvegliai tra le braccia di tuo padre. Invece così ha tutto molto senso!”. Portò una mano al petto, abbassando lo sguardo ma continuando a sorridere. “Ma non darti troppa pena…innanzitutto è stato un ottimo piano, perché Harry riuscì a battere quel demone proprio per questa tua mossa! E poi non dimenticare una cosa importantissima”

Avvicinò la mano al suo viso, e, accarezzandole una guancia, la costrinse a guardarla.

“Non sei stata tu a fare quelle cose!”

 

Le tremavano gli occhi. Quel tocco era così caldo, e trasmetteva una serenità e una fiducia a lei ignote. E quella cosa continuava a non piacerle. Così si scansò abbassando di nuovo la testa e spostandola in modo da rompere il contatto. Adesso nel punto in cui la mano era poggiata sentiva quasi freddo.

Cybil la guardò seria. Poi prese ad armeggiare con la borsa, cercando all’interno di essa il portafogli.

“Comunque, credo che dobbiamo andarcene da qui. Non possiamo attirare troppo l’attenzione. Che ne dici, posso venire a casa tua? Così continuiamo a parlare.”

“Di solito in casi del genere si invitano le persone, e non si chiede di andare a casa loro.”

“Vero, ma casa mia non è in questa zona, e credo che arrivare in quella città sia scomodo per voi due che invece siete di qui…”

Cheryl non rispose subito. In qualche modo sapeva già la risposta, ma volle domandarglielo lo stesso.

“Dove abiti?”

Cybil sorrise a quella domanda. “Non lo immagini? Nel nostro vecchio appartamento a Portland!”

Cheryl annuì quasi impercettibilmente.

 

Quando il cameriere le raggiunse, le trovò in silenzio, a guardarsi negli occhi. Era giovane, e forse fu proprio a causa della sue età, ma aveva un leggero timore di quelle due donne, senza neanche conoscerle. Si avvicinò con cautela, e appoggiò lo scontrino al centro del tavolino. Vide la donna prenderlo con calma, leggere l’importo ed estrarre una banconota dal suo portafogli, nel più assoluto silenzio. Spostò lo sguardo sulla ragazza, che fissava la sua accompagnatrice con uno sguardo glaciale, che sembrava voler penetrare l’anima di quella donna. Pensò che non avrebbe mai voluto ricevere uno sguardo del genere. Lo avrebbe mandato in paranoia, non sarebbe riuscito a rispondere in alcun modo. A pensarci bene, in realtà, non credeva sarebbe stato in grado neanche di avere lui stesso uno sguardo del genere. Era così intenso, così strano…

Quando tornò a guardare la donna, questa gli porgeva sia lo scontrino sia la banconota, e la sentì rivolgergli la parola con il suo splendido sorriso. “Tieni il resto”. Non riuscì a mantenere il suo sguardo, ma ringraziò educatamente, anche se con un po’ di imbarazzo, e si avviò verso il bancone.

Lì quell’altro uomo strano continuava a gustare la sua birra. Era entrato con quelle due ragazze, ma si era messo in disparte congedandosi con poche parole, e continuava a sorseggiare birra voltandosi ogni tanto come se volesse controllare la situazione. Non erano stati molto in quel bar, ma avevano attirato la sua attenzione fin da subito…

 

“Agente Cartland”

Douglas si girò, incontrando gli occhi azzurri di Cybil. Provò una strana sensazione a sentirsi chiamato a quel modo.

“Le chiedo scusa, sto accompagnando a casa Cheryl, è un posto più tranquillo per parlare.”

“Si, lo credo anch’io…” rispose l’uomo con la sua voce roca, ripensando a ciò che aveva appena visto.

“Mi dispiace causarle questi fastidi. Per me non c’è bisogno di lasciarci sole, se vuole può stare con noi”

Ma Douglas non sembrava dello stesso avviso. Cybil poco prima gli aveva già raccontato molto, e sentiva di non dover intromettersi in quel rapporto, sentiva che poteva essere importante per la ragazza. Così semplicemente sorrise e disse “In realtà adesso avrei da fare. Devo sistemare delle faccende importanti a lavoro, e sono già tre giorni che la mia agenzia investigativa è chiusa. Verrò stasera, se necessario”

Cybil sorrise. Conosceva quell’uomo da pochi minuti, e già sentiva di potersi fidare di lui, che era un brav’uomo con una triste storia nel suo passato. La poteva leggere nei suoi occhi, quando lo coglieva a guardare Cheryl.

“Come posso ringraziarla?”

L’uomo pensò qualche istante, poi con un sorso finì di bere la sua birra. Si voltò soddisfatto verso la bionda. “Cominciamo col non chiamarmi più Agente Cartland!” disse sorridendo.

Anche Cybil sorrise a quelle parole. “D’accordo!”

Si voltò, per vedere che Cheryl era già fuori davanti la porta a vetri del locale. “Allora a dopo!”

 

“Dannazione, guidi persino più lenta di Douglas!”

Cybil sorrise anche quella volta. Sembrava non fosse in grado di offendersi in nessun modo. Cheryl era già da un po’ che non sorrideva, invece. Non riusciva più neanche a usare quel sorriso triste che la contraddistingueva. L’arrivo di quella donna l’aveva scombussolata non poco. Perché era lì? E perché proprio adesso? E perché ancora non riusciva a riorganizzare tutti i suoi ricordi? Sicuramente quella donna apparteneva ai ricordi di Alessa e di Cheryl, la piccola bambina con i capelli corti, neri, ma sentiva che questo non era tutto. Provava sensazioni strane a starle vicino, sensazioni che solo il padre riusciva a farle provare.

Decise tuttavia di ricominciare da dove avevano lasciato.

“Come hai fatto a sopravvivere?”

Cybil non tolse gli occhi dalla strada.

“Quando mi risvegliai, trovai tuo padre che mi teneva fra le braccia, e mi chiamava insistentemente. Mi raccontò di essere stata posseduta da una specie di mostro, e che avevo rischiato di farmi uccidere da lui, o peggio di ucciderlo…la mia pistola aveva il caricatore vuoto, e infatti pare che io glielo abbia sparato tutto contro. Fortunatamente in quello stato ero lenta e poco abile nella mira, e tutt’attorno i cavalli della giostra erano ottime barriere per Harry. Quando i proiettili finirono cercò di immobilizzarmi e di farmi riprendere, ma nella colluttazione si ruppe un flacone che aveva preso all’ospedale e che teneva in tasca.”

La donna a quel punto sorrise. “Mi disse che lo aveva preso perché “sapeva di buono”! A volte mi domando ancora chi mi fece quel regalo. Comunque il liquido all’interno del flacone mi costrinse a vomitare il mostriciattolo che avevo all’interno del corpo. Harry lo schiacciò ponendo fine a quell’incubo.

Non ebbi la forza di seguirlo, quando andò a cercare Alessa, ma di lì a poco l’ambiente tutt’attorno cambiò, e mi ritrovai catapultata a mia volta in quello strano mondo contorto, e senza forma. La giostra era sparita, e al suo posto era comparsa un’immensa stanza vuota. Tuttora non so dire se fosse all’aperto o al chiuso, se avesse mura e soffitti. So solo che a un certo punto…finiva…senza traccia, semplicemente facendo vincere il buio nero, e la grata rugginosa e sanguinolenta che avevamo sotto i piedi spariva alla vista. Al centro, su quel simbolo strano, c’erano Dahlia e Alessa…e c’era anche l’altra bambina, il corpo ormai senza anima che era stato rinchiuso tutti quegli anni in quello stanzino sotterraneo dell’ospedale. Le sentii parlare, gridare, ma non potei fare nulla. Quando ebbi la forza di alzarmi Dahlia non volle quasi ascoltarmi. Aspettava Harry…non so perché, avrebbe potuto evocare quella mostruosità in qualsiasi momento, ma lei aspettava Harry! Io non ero importante per lei. Non avrei sofferto abbastanza nel vedere le due bambine sparire, non serviva mostrarlo a me.

Non passò molto tempo che Harry arrivò, e con lui anche quel dottore, quel Michael. Aveva un’altra fiala di quella sostanza, la stessa che aveva salvato la mia vita. Ma qualcosa non funzionò, e invece di aiutare Alessa, ormai completa e potente più che mai, accelerò il processo del parto, e il demone, il dio di Dahlia, venne fuori  squartandole il ventre.

Ma adesso scendiamo; siamo arrivati!”

Cheryl si voltò a guardare fuori dal finestrino. “Che cosa?!”

Era talmente assorta in quel racconto che non si era accorta di aver percorso tutta la strada che separava il bar vicino al cimitero da casa sua.

“Ehi, un momento! Tu come fai a sapere dove abito?”

Cybil sorrise tristemente, stavolta lasciando trasparire tutta la sua frustrazione.

“L’ho scoperto qualche anno fa…vi ho cercato a lungo, perché l’idea di non avere nessuna traccia di voi mi uccideva. Ma avevo promesso a Harry che non sarei tornata fino a che non mi avesse chiamato lui, fino a quando il pericolo non fosse cessato…”

Sollevò la testa, fissando un punto indefinito con malinconia. “Ma credo che non si arrabbierà sapendo che ora mi sono fatta vedere…”

La ragazza osservò a fondo quell’espressione. Non sembrava l’espressione di una persona innamorata. Era qualcosa di più profondo dell’amore. Qualcosa che andava forse al di là della comprensione umana. E lei riusciva a coglierne l’esistenza, ma non l’essenza.

Fu risvegliata dal sorriso di Cybil che riprendendo forza si voltò verso di lei. “Vogliamo andare adesso?”

 

Dentro l’aria aveva ancora l’odore del sangue rappreso. I poliziotti avevano evidenziato le prove, ogni singola goccia rossastra era cerchiata con un gessetto, e un’intera zona della casa era circondata da un nastro giallo per impedire l’accesso. Fortunatamente quei segnali non valevano più, ora che Douglas aveva preso il caso e aveva impedito l’accesso alla casa a tutti i poliziotti. Del resto quella scena era talmente raccapricciante che nessuno sarebbe entrato di sua spontanea volontà.

Cheryl esitò a entrare. Ogni volta che doveva entrare in quella casa pensava sempre di voler andare via, di scappare chissà dove. Invece anche quella volta si fece forza, e senza una vera intonazione fece entrare anche Cybil dicendo: “Scusa il disordine”

La donna entrò, e anche per lei il familiare odore di ferro fu una dura prova da superare. Richiuse la porta alle sue spalle, e si inoltrò seguendo la ragazza che aveva di fronte, che si dirigeva a passi sicuri verso il tavolo. Passarono davanti a una poltrona che stava nella zona “inaccessibile”. Cybil la guardò di sottecchi, vedeva una scia di gocce di sangue finire proprio in quel punto, ma da dove stava passando riusciva a vedere solo lo schienale. Immaginava cosa avrebbe potuto trovare sul cuscino, e decise di non inoltrarsi.

Cheryl si sedette su una delle sedie, e Cybil fece lo stesso, mettendosi al suo fianco. Per qualche istante il silenzio regnò sovrano, e la donna guardava tutt’attorno la casa che non l’aveva mai potuta ospitare.

“Come mai ti sei tinta i capelli?” chiese all’improvviso.

Cheryl rispose annoiata da quella domanda. “Le bionde piacciono di più…”

“Davvero?” Cybil sembrò sinceramente stupita. Ma forse stava cercando di smorzare la tensione. “Non ci avevo mai fatto caso. Beh, buon per me, no?!”

Cheryl non aveva l’umore adatto. Se ne accorse subito, ma voleva comunque parlare con lei di tutto, voleva dirle cose che per dodici anni non era riuscita a dirle. Ma forse era meglio continuare la sua storia…

“Il mostro che uscì non era completo. Il piano di Alessa, quello che mi hai raccontato prima, era riuscito. Mancavano delle parti del suo corpo, ed era molto lontano dall’onnipotenza di un Dio. Ma faceva comunque molta paura. Uccise Dahlia mentre ancora rideva della sua creazione, e avrebbe ucciso anche noi, se non fosse stato per il coraggio di Harry. Lui attirò l’attenzione del demone, e con pochi, precisi colpi riuscì ad abbatterlo. Scomparve nel nulla, inghiottito dalle tenebre.

Alessa invece era ancora la, a terra, ferita gravemente. La vidi stracciare le sue vesti, e usare la stoffa per avvolgerci una bambina. L’unica spiegazione che riesco a dare è che usò una magia. Un potere speciale, che le permise di partorire quella bambina in quei pochi minuti. Ma d’altronde tutto era incredibile laggiù.

Diede la bambina ad Harry, e gli chiese di proteggerla, di farla crescere circondata dall’amore, di darle la vita che lei non aveva avuto. Gli chiese di essere suo padre. Harry era confuso, ma prese ugualmente la bambina…”

“…e poi Alessa aprì il varco dimensionale per farvi scappare.”

Cheryl parlò con voce greve. “Com’è brutto ricordare la propria morte!

Senza Alessa quel mondo non poteva esistere, e sarebbe scomparso insieme a lei. Per cui usando le ultime forze aprii quel varco e vi feci scappare via. Tutti tranne quel maiale, Kaufmann. Lui lo feci prendere dal mio angelo. La feci vendicare, la mia piccola, dolce Lisa…”

Cybil osservò la biondina dire quelle parole con tranquillità, tenendo la testa appoggiata su un gomito. Anche in quel caso sentiva che erano i ricordi di Alessa a parlare, e non lei.

“Capisco…ecco perché non trovammo più quell’uomo…”

“Se lo meritava, quell’essere spregevole.” Cheryl sembrava scaldarsi con le sue parole. La testa riprese a farle male. “Ammazzò Lisa senza pietà, proprio davanti a me, come se non fossi stata presente. Bastardo! Doveva pagare.”

Tirò un pugno al tavolo. Poi il suo sguardo si fece lontano, assente. Sembrava persa nella sua testa.

“…e poi…e poi…”

Cybil capì cosa stava succedendo. Non voleva soffrisse in quel modo, ma sembrava inevitabile. Le si avvicinò, cercando di calmarla, ma era tutto inutile.

“…e poi…sono…morta…”

 

Rialzò la testa con uno scatto. Girava ancora, ma il dolore era passato almeno. Incontrò subito gli occhi azzurri e il sorriso rassicurante. “Va un po’ meglio?”

Si guardò attorno, un po’ spaesata; poi tornò a guardare Cybil. “Che è successo?”

“Sei svenuta per qualche minuto. Non ti fa bene ricordare quelle cose!”

In effetti sentiva al petto un senso di vuoto e il suo corpo era intorpidito e privo di sensibilità. Non riusciva a muoversi facilmente, dovette provare più volte a sollevare le braccia o a spostare i piedi. Quella visione era stata talmente tanto reale, da farle provare l’intensa esperienza della morte senza abbandonare la vita. Ma il cervello, evidentemente esausto da quella prova, stava cercando ora di riacquisire le sue capacità lentamente, e se prima aveva recuperato la coscienza di sé ora cercava di riprendere controllo sul corpo donando alla ragazza l’istinto della vita ancora una volta. Sentiva dei formicolii lungo tutto il corpo, ma lentamente riuscì a riprendere il controllo di sé.

“Ti preparo qualcosa. Che cos’hai in cucina?”

Cheryl era ancora abbattuta per quella sensazione.

“Non lo so, sono tre giorni che non guardo cosa c’è in cucina.”

“Hai mangiato qualcosa?”

La ragazza scrollò le spalle. In effetti era molto dimagrita in quei due giorni, e si sentiva debole e spossata. Aveva dormito meno di quattro ore a notte, e se la prima notte dormì sul tavolo, la seconda andò peggio, e la passò in una stazione di polizia. Dormì su una brandina, in una cella. Chiaramente lasciarono la porta aperta, ma non sarebbe riuscita ad addormentarsi. L’inconscio e l’istinto vinsero nuovamente sul corpo e sulle sue paure, e verso le 3 di notte svenne letteralmente, svegliandosi qualche ora dopo intontita e più stanca di quando aveva perso i sensi.

“Un paio di biscotti, ieri sera…”

Cybil la guardò apprensiva.

“Non mi meraviglia allora che tu sia svenuta. Non credi sia il caso di mangiare? Dovrai pur nutrirti…”

Cheryl si fece scura in volto.

“Credo sia il caso che tu continui la tua storia!”

La sua determinazione stupì la donna, che per un istante rimase in silenzio. Poi si alzò, sorridente, dirigendosi verso la cucina, e provocando un sonoro sospiro della ragazza. Sembrava una gara a chi aveva la testa più dura.

“Hai ragione anche tu…” disse dalla cucina, mentre apriva il frigorifero per vedere cosa c’era dentro. “Per questo continuerò a raccontartela mentre ti preparo da mangiare. Ma vorrei che ti avvicinassi anche tu, non mi va di urlare tutto il tempo”

In effetti per farsi sentire aveva dovuto alzare la voce. Non che stesse urlando per davvero, anzi, sembrava quasi che fosse divertente, per lei, parlare così, come quando provi qualcosa di nuovo. Ma non era certo un tono che si addiceva a quella storia. Così Cheryl si alzò svogliatamente dal tavolo, e si avvicinò alla donna, che guardava con disappunto delle uova, e un po’ di lattuga e pomodori, le uniche pietanze rinvenute, oltre a qualche bottiglietta di salsa e latte. Ma decise di accontentarsi, così prese un tegamino e cominciò la preparazione. Cheryl si era appoggiata al muro, lontana dai fornelli, e la guardava quasi annoiata da quella premura. Il cibo lei se lo sapeva cucinare da sola! Non c’era bisogno di tutte quelle attenzioni. Non capiva proprio il perché.

Cybil si voltò, e la vide con lo sguardo imbronciato e le braccia incrociate. Sorrise, poi accese il fornello.

“Sai, ho sempre pensato che Harry fosse un padre perfetto, fin da quando lo incontrai in quel bar con la premura di ritrovare sua figlia a tutti i costi, sfidando la sorte e l’ignoto, rischiando la vita…non tutti lo avrebbero fatto!”

Cheryl non rispose. Si limitò ad assentarsi con il suo sguardo, cercando di ricreare con la mente la figura rassicurante di quell’uomo. Si, lo sapeva che suo padre era il migliore, il padre che tutti avrebbero desiderato.

Le uova cuocevano lentamente, producendo un rumore continuo, quasi rilassante, e contrastando finalmente l’aria pesante della casa con il loro odore. Si tinsero di bianco, con quella sfera gialla al centro.

“Non ebbe tempo di piangere quando tutto fu finito. Sua figlia era sparita nel nulla, e lui non poté piangerla o fare nient’altro. Non trovammo mai nemmeno il suo corpo. In compenso eri apparsa tu…”

Il cuore di Cheryl sussultò.

“…non c’era spiegazione per quello che era successo, e non poteva essere un sogno o un incubo. Tu eri reale, e Harry ti teneva stretta al suo petto.”

La donna guardò senza voltarsi. Vide Cheryl con gli occhi socchiusi, che spostava gli occhi da un punto a un altro, senza guardare nulla in particolare.

“Cheryl…”

La ragazza sembrò destata da un sogno.

“…non puoi ricordare. Eri appena nata!”

Cybil si voltò a mostrarle il suo sorriso rassicurante. Cheryl spostò lo sguardo facendo una smorfia, ma invece che offenderla, questo gesto procurò un sommesso risolino divertito. Poi la donna tornò verso il bancone.

“Ci sorprendemmo nel trovare gente per strada.” continuò, mentre lavava alcune foglie di lattuga. “Ci guardavano come se fossimo di un altro pianeta, mentre camminavamo incerti verso nessun luogo in particolare. La mia motocicletta era completamente in panne, mentre dell’auto di Harry non c’era alcuna traccia. Credo sia perché io fui sbalzata via dalla moto prima di entrare in quel mondo, non saprei. Comunque noleggiammo un auto per arrivare a Brahms e raccontare tutto ai miei superiori.”

“Avete raccontato quella storia ad altre persone?!”

Cybil spense il fornello. Inarcò le sue labbra, mostrando un sorriso amaro.

“Anche tu lo hai notato subito, vero? Che stupidaggine che facemmo…”

 

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Capitolo 3
*** Il racconto ***


L’uomo camminava silenzioso, sfogliando dei documenti. Le persone gli passavano accanto veloci, dirette verso i loro impegni, esattamente come lui. Indossava solo i pantaloni della divisa, mentre la parte superiore era vestita solo con una semplice camicia bianca con le maniche arrotolate, tenute su per il troppo caldo. La barba incolta, folta di pigrizia e di mancanza di tempo, mostrava le prime chiazze grigiastre sul mento e sulle gote. Girò l’angolo frettolosamente, passando per un corridoio in cui non era presente nessuno, ma era ancora ben udibile il rumore prodotto da telefoni, voci, passi, e tutti quei suoni tipici degli uffici. Passò davanti ad alcune porte d’ufficio, con i vetri sulla parte superiore, fermandosi di scatto, tutt’a un tratto, attirato dalla scena che gli si presentò dietro una di quelle.

La stanza era praticamente vuota, fatta eccezione per un tavolo in metallo e due sedie ai lati opposti. Su una sedeva un uomo robusto, con pochi capelli, che, a dispetto della temperatura, indossava giacca e cravatta, e stava con i gomiti appoggiati al tavolo e le mani giunte davanti al volto sudato. Parlava, diceva qualcosa che non avrebbe potuto sentire in mezzo a tutto quel chiasso e con la porta chiusa. Ma sembrava quasi un interrogatorio. Sull’altra sedia infatti una ragazza in divisa sedeva compostamente e aveva lo sguardo triste e stanco. Rispondeva poco, e il più delle volte si limitava a fare dei cenni con il capo. Qualche volta annuiva, qualche volta negava, e per il resto del tempo a parlare era quell’altro…

L’uomo, accarezzandosi la barba, guardava la scena passando lo sguardo da una figura all’altra, e il suo sguardo si incupiva ogni volta che la ragazza muoveva la testa con stanchezza.

A un tratto l’uomo all’interno della stanza si alzò e fece per uscire dalla stanza. Nel corridoio i due incrociarono gli sguardi, composti e severi, senza parlare per un po’.

“Come va?”

L’uomo in giacca e cravatta guardò di nuovo l’interno della stanza, dove la poliziotta restava con lo sguardo basso, seduta e stringeva i pantaloni in pelle neri con le mani. I suoi guanti erano appoggiati sul tavolo.

“Non bene. Certo nessun test ha dato conferma, ma continua a dire che tutta quella storia è vera. Non lo so…gli esami del sangue hanno evidenziato quella strana sostanza, ma non sembra un allucinogeno o un oppiaceo. Al laboratorio mi hanno detto che è organico, e potrebbe essere un buon profumo, ma non ha senso trovarlo lì.”

Sospirò profondamente.

“Quella storia è assurda, sembra uno di quei fumetti che legge mio figlio…”

“Aveva delle ferite quando è tornata?”

“Le faceva male una caviglia, che dice di essersi slogata, e sulla spalla sinistra mostrava alcune escoriazioni lievi, ma non c’è traccia di un eventuale trauma cranico. Certo, l’incidente in moto deve averla scossa, ma non posso credere che sia impazzita per quello…”

I due guardarono nuovamente all’interno della stanza. La ragazza aveva incrociato le braccia e teneva la testa sul petto, con gli occhi chiusi, come se cercasse quasi di dormire, in qualche modo. Certo la posizione non era delle più comode.

“Avete trovato quella donna?”

“Le comunicazioni sono ancora interrotte. Abbiamo mandato altri uomini, con una consulenza scientifica al seguito. Sembra che ci siano strane interferenze elettromagnetiche, e per questo la città è isolata. Sembra sia dovuto a qualche campo indotto, ma non riescono a trovarne la causa. E per quanto riguarda questa Dahlia…nulla…la gente di quel posto pare saperne meno di noi. In più sembra che ci sia un caso di omicidio molto strano, un’infermiera, e il direttore dell’ospedale in cui lavorava e in cui è stato trovato il corpo non è rintracciabile per il momento. E, ciliegina sulla torta, quel caso di droga non è stato ancora archiviato. Per cui sono piuttosto incasinati…”

“In pratica non ci aiuteranno…”

“Era prevedibile in fondo: è una cittadina piccola e la polizia tende a risolvere a stento le questioni interne e a lamentarsi dell’FBI e della loro prepotenza.”

L’uomo con la camicia appoggiò un braccio sullo stipite della porta, e socchiuse gli occhi, sospirando.

“Cosa pensi che debba fare?”

“Marv, ha 28 anni! Se a quest’età comincia a dare i numeri, cosa farà poi?! Questo ambiente non permette cose del genere. Anche un veterano verrebbe preso per pazzo e liquidato con tutti gli onori e un calcio nel culo se raccontasse una storia del genere! Ma dai! Strade crepate senza fondo, nebbia e neve in piena estate, i mostri, la bambina! Quale mente deviata può inventare una storia del genere?”

L’altro non rispose. Si limitò a girare il pomello della porta e a entrare nella stanza.

 

Dentro sembrava quasi che l’aria fosse più pesante, difficile da respirare. La donna rialzò lo sguardo spento. Guardò l’uomo dritto negli occhi, provocando il suo stupore. Aveva sempre pensato fosse una persona tutto sommato timida e riservata, e il contatto visivo per lei sembrava quasi difficile, anche se la determinazione era parte di lei già da prima. Le prime volte che aveva parlato con lei il suo sguardo era rivolto in alto, e manteneva sempre una certa distanza. Ora invece i suoi occhi azzurri erano puntati dritti verso di lui, e fu costretto a distogliere lo sguardo, quasi imbarazzato.

Si portò dietro la scrivania, ma non si sedette. Si limitò ad appoggiare una mano sulla superficie liscia e fredda e a lasciar andare i fogli che ancora portava con sé.

Stettero senza parlare per un po’. Fu proprio lei a rompere il silenzio.

“Quanti altri test volete ancora farmi prima di credermi?”

La voce era spenta, stanca almeno quanto le sue ossa e i suoi occhi. Deglutì dopo quella frase, cercando inutilmente di eliminare un brutto groppo alla gola.

“Cybil…che cos’è quella sostanza che avevi nel sangue?”

“Non lo so. Ti assicuro che non ho bevuto o mangiato niente dall’incidente in moto fino a quando non mi avete presa per matta.”

“Mi stai dicendo che per quasi trentadue ore tu non hai bevuto nemmeno un goccio d’acqua?”

Cybil ci pensò su. In effetti lei non sapeva assolutamente quanto tempo era passato, e quando finalmente era riuscita a mangiare si rese realmente conto di quanto il suo corpo ne avesse bisogno, anche se la sua mente aveva soppresso ogni suo bisogno fisico.

“Ti rendi conto di cosa dovrei credere? Dovrei credere che una donna che ha avuto un incidente in moto, ha passato le ultime trenta ore senza mangiare bere o dormire a cercare una bambina scomparsa nel nulla e si è ritrovata in mezzo a un complotto di droga e religione! E in più sei stata attaccata da mostri e fantasmi e alla fine una bambina ha partorito un…dio, o un demone, non ho capito ancora?! Ti è mai venuto in mente che possa essere stato tutto un sogno?”

Cybil chiuse gli occhi stanca. La tenevano in quel posto da cinque giorni ormai, facendole test, chiedendole tutto della sua vita, prelevandole continuamente il sangue, e facendole raccontare ogni volta quella storia. La prima volta avevano riso tutti, facendole i complimenti per la bella storia inventata. Adesso a ridere rimanevano solo gli agenti che sparlavano nei corridoi. Lei invece non sorrideva da cinque giorni.

“L’ho sperato per molto tempo…”

La voce era un sussurro quasi impercettibile. L’uomo riuscì ad intendere a stento le parole, ma il suo sguardo restò cupo e pensoso.

“Non abbiamo trovato nessuna Dahlia Gillespie, le strade sono intatte. L’Indian Runner è pulito, non è stata trovata droga dagli agenti locali, e quel Michael Kaufmann non si vede da più di un mese, molto prima del tuo arrivo in città. La polizia sul posto ha detto di non averti mai visto girare per la città. Nessuno ti ha visto in quel posto. Mi dici come faccio a crederti Cybil?”

Ma Cybil non rispondeva. Non sarebbe riuscita più a rispondere. Così l’uomo, si mise eretto, assumendo un’espressione truce.

“I miei agenti devono essere nelle migliori condizioni fisiche e mentali.” Disse con tono grave. Poi abbassò lo sguardo sulle carte che aveva poggiato sul tavolo. “Consegnami la pistola e il distintivo. Voglio le tue dimissioni entro lunedì.”

Cybil si alzò in piedi lentamente. Con gesti calmi, pacati, sfoderò la pistola e afferrò il distintivo sul suo petto, per poi poggiare entrambi sul tavolo. Recuperò i guanti e senza dire una parola si incamminò verso la porta poco distante. L’uomo la guardò di sottecchi. Era abituato a suppliche o a scene di rabbia molesta, a discorsi strampalati e a piagnistei in quelle occasioni. Invece non sentì mai più una parola da Cybil Bennet. Lei a quel punto era quasi contenta di non dover più tornare lì a farsi deridere.

Nell’uscire dalla stanza urtò con la spalla un ragazzo, forse aveva la sua stessa età. Lui si voltò a chiedere scusa, ma lei continuò a camminare senza dire una parola. L’uomo in giacca e cravatta si avvicinò al ragazzo, che era rimasto a guardarla confuso.

“Ne passeranno sempre troppo poche di belle ragazze come quella qua dentro. E a quanto pare perdono facilmente le rotelle!”

Sghignazzò alla sua stessa battuta, poi cominciò ad allontanarsi.

Il ragazzo si voltò verso la porta rimasta aperta, e, riconosciuto l’uomo all’interno, entrò con passo svelto.

“Commissario, l’agente Stinson le manda questo rapporto.”

L’uomo non disse niente, e non guardò neppure le carte che il ragazzo poggiò timidamente sulla scrivania. Fissò, invece, per una manciata di secondi il ragazzo. Era di bell’aspetto, con il viso ben rasato dai lineamenti delicati. Gli occhi verdi erano ben spalancati, e anche se timidi e inesperti, trasmettevano un gran vigore. La divisa era ordinata, e il cappello nascondeva i capelli castani corti.

Spostò gli occhi ambrati verso le carte che aveva davanti, scorrendole velocemente. Ma nella sua testa vorticavano mille pensieri. Voleva vederci chiaro.

“Quella donna che è uscita da qui…”

“Cybil Bennet?!”

“…ti conosce?”

L’agente fu quasi sorpreso da quella domanda.

“No signore. Sa, sono nuovo, sono qui da poche settimane, e…”

“Seguila”

“Come?!”

 “Voglio che scopri tutto quello che puoi, voglio sapere tutti i suoi spostamenti per le prossime due settimane. Tutto! Cosa fa, con chi va, quante volte al giorno si gratta e perché! Intesi?!”

“Ma signore, è sicuro…”

“Non andare in giro con quella divisa, e non dirlo a nessuno, nemmeno a quel ciccione di Dombrowski. Hai una famiglia?”

“No, signore.”

“Meglio così…ora va!”

“Ma signore…”

“Un’altra parola e ti ritrovi a dirigere il traffico per i prossimi tre mesi! Fuori di qui!”

 

 

Restava seduto sul letto, con la faccia nelle mani. Guardava fisso davanti a sé, senza muoversi, senza dire una parola. Il suo respiro regolare era uno dei pochi suoni che rompevano il silenzio nella stanza in cui era; la porta era spalancata, mentre la finestra era completamente sbarrata, chiusa sia con i vetri che con le imposte, e per questo motivo c’era poca luce, e il suo viso era sporcato dalle ombre così come tutto il resto. Il ticchettio di un orologio lo teneva stretto alla realtà. Ogni tanto voltava il suo sguardo, interrompendo i suoi pensieri, e fissando la creaturina che, sdraiata sul letto, dormiva profondamente. Inclinava la testa nel guardarla, e serrava gli occhi. Poi tornava a fissare di nuovo il vuoto. Finché non sentì lo scatto della serratura…

Si alzò dal letto, e senza uscire dalla stanza, puntò lo sguardo oltre la porta. Cybil si abbandonò su una poltrona distrutta.

“Cybil…è tutto a posto?”

Era chiaro che non era tutto a posto. Ma quando sei in una situazione del genere le parole non aiutano mai, tendono sempre a non essere abbastanza, a essere scontate, o forse inutili.

“…mi hanno licenziata…”

La notizia non era del tutto inaspettata, ma lo colse ugualmente di sorpresa. Abbassò lo sguardo, visibilmente addolorato.

“Mi dispiace…”

“A me no!”

La ragazza si alzò di scatto e sbottonò il primo bottone della camicetta azzurra. “Adesso sono libera di agire. E voglio vederci chiaro in questa storia! Voglio saperne di più!”

“Cybil, aspetta. Non essere avventata…”

“Harry!”

I loro occhi si incrociarono. Gli occhi azzurri di lei trasmettevano determinazione mista a una rabbia troppo a lungo repressa, ed erano in profondo contrasto con quelli marroni dell’uomo, sofferenti e stupiti dalla fermezza della donna.

Cybil sospirò. Poi continuò a sbottonarsi la camicia, avviandosi velocemente verso la sua stanza, quella che ospitava ora la piccola sopita. Harry arrossì leggermente alla vista del reggiseno della ragazza, e distolse lo sguardo, facendole spazio per farla passare. Lei lo superò senza troppi complimenti, dirigendosi verso l’armadio.

“Lo sai perché sono diventata una poliziotta, Harry?!”

Harry teneva lo sguardo basso.

“Quando avevo cinque anni alcune persone entrarono in casa mia. Erano armati, e cercavano cose preziose da rubare, gioielli, soldi…”

Buttò a terra con forza un’altra delle sue camicie della divisa.

“Mia madre mi nascose in un armadio. Ma da lì potevo vedere tutto. Li ammazzarono davanti ai miei occhi! E ancora adesso non posso credere che rimasi in silenzio, dietro le ante di quell’armadio…”

“Cybil…” Harry la osservò mentre si infilava finalmente una maglietta rossa. Finalmente qualcosa che non somigliasse a una divisa.

Cybil si voltò verso di lui. “Ecco perché sono diventata una poliziotta. Perché non voglio restare più in quell’armadio. Voglio poter uscire e proteggere le persone che ho intorno!”

Si avvicinò. Ora Harry poteva sentire il suo odore, e il suo sguardo sembrava voler guardare direttamente nella sua anima.

“Harry, sai meglio di me che qualcosa non va in quella città! Che la droga è solo una parte del mistero che aleggia in quella zona! E sai quanto sono pericolosi! Probabilmente adesso sono in un momento di confusione, e sarà più facile trovarli!”

Si avviò con decisione, superando l’uomo. Ma il suo braccio fu bloccato, e fu costretta a fermarsi. Quando si voltò Harry non la guardava, ma la sua mano era stretta con decisione intorno al suo polso, e le sue dita erano talmente serrate da cominciare a farle del male.

“Harry!”

“Vuoi tornare in quell’inferno? Vuoi cercare di nuovo quei pazzi? Per me va bene!”

La voce dell’uomo raramente aveva quell’intonazione, e per lui era davvero difficile parlare in quel modo, tanto che teneva la mascella serrata e a volte uscivano degli schizzi di saliva. Erano quasi invisibili, ma facevano ben capire l’umore di quella persona normalmente così calma e pacata…

“Ma io non tornerò con te! Non ho intenzione di farlo!”

Cybil aggrottò le sopracciglia.

“Non te lo sto certo chiedendo!”

“Però dovrai ritardare la tua partenza. Non possiamo andarcene adesso! Sta facendo buio…”

Lo stupore si impossessò del volto della ragazza. Perché voleva andare via? Lei non voleva! Cercò di riprendersi, e di mostrare ancora sicurezza.

“Guarda…che non mi date certo fastidio! Potete restare qui se volete, non c’è bisogno che ve ne andiate!”

“Non capisci?!” urlò Harry, voltandosi finalmente verso la ragazza. “Se tu torni a Silent Hill potrebbero cercarti e se trovano te trovano anche noi! Trovano lei! E io non permetterò che me la portino via di nuovo! Non stavolta!”

Il silenzio calò nella stanza. I due si guardavano negli occhi. Lo sguardo di Harry era duro, e Cybil riusciva a sostenerlo a mala pena. Le sopracciglia aggrottate, le labbra tremanti, gli occhi spalancati, e le mascelle serrate, tutto trasmetteva una rabbia non adatta al viso dell’uomo, che di solito era disteso e rilassato.

Gli occhi di Cybil si inumidirono, e alcune venature rosse iniziarono a risaltare nel contrasto con il bianco che contornava le iridi azzurre. Cedette, e abbassò lo sguardo, con l’aria sconfitta. Solo allora Harry distese i suoi muscoli. La guardò con più tenerezza, addolcì il suo viso, e finalmente lasciò andare il suo polso, che cadde ciondolante lungo il corpo. Si avvicinò, e portò una mano sul dorso del suo collo, sentendo il suo calore, la forma della sua spina dorsale. La tirò delicatamente a sé, costringendola dolcemente a poggiare la testa sul suo petto. Prese ad accarezzarle i morbidi capelli biondi.

“Cybil…noi due…siamo soli ora. E tu sei stanca. Noi siamo stanchi. Non possiamo permetterci questo errore, non possiamo lasciare che ci trovino! Abbiamo già fatto delle scelte sbagliate, e le conseguenze le hai pagate solo tu. E questo mi dispiace…”

Tirò un lungo sospiro, che gli gonfiò il torace trasmettendo un’ondata di calore alla bionda, che chiuse gli occhi.

“Ora io vorrei che per te, per me…e per questa bambina…ci possa essere una vita tranquilla. Una vita che ci faccia dimenticare di quell’incubo. Sono le ultime volontà di Cheryl…di Alessa…ed è ciò che ci meritiamo…tutti e tre…”

Cybil ricambiò finalmente l’abbraccio, perdendosi completamente nel calore che sentiva al contatto dei due corpi. Era legata a quell’uomo più di quanto avesse mai immaginato. E in quel momento lo capì, capì che c’era qualcosa di indistruttibile fra i due, che sarebbe morto solo con loro. Perché insieme erano scesi e risaliti da un mondo in cui i limiti umani erano abbattuti e se sensazioni come paura, rabbia, tristezza erano portati all’estremo, venivano ugualmente amplificati i sentimenti di affetto, di affiatamento, di attaccamento reciproco. E così due anime si erano avvicinate e avevano resistito insieme.

“Hai ragione Harry…sono stanca…” Si sollevò passandosi l’indice sotto un occhio. “Andiamo a dormire…”

Harry sorrise. Le accarezzò una guancia dolcemente. Poi fece per andarsene dalla stanza, ma fu fermato dalla mano di Cybil, che si poggiò sulla sua spalla.

“No Harry!”

Arrossì leggermente prima di parlare ancora. “Solo…solo per stanotte…dormi anche tu qui…”

 

 

“Come?!”

Heather rialzò la testa che teneva appoggiata su una mano. Quella parte di storia non poteva appartenerle, e perciò era rimasta in silenzio ad ascoltare. Ma a quelle parole non poté trattenersi.

La sua reazione provocò un risolino divertito di Cybil, che guardandola con fare rassicurante disse: “Calmati. Ricorda che tra me e tuo padre, a dormire beata, e a svegliarci qualche ora dopo c’eri proprio tu!”

L’affermazione non sembrò soddisfare del tutto la ragazza, che prese a osservare un punto indefinito. Cybil invece rimase a guardarla sorridente.

 

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Capitolo 4
*** Back to Silent Hill ***


L’aria era quasi più respirabile, con quell’odore di uova fritte. Strano…la frittura spesso rientrava tra gli odori sgradevoli, eppure in quel momento riusciva a mascherare l’odore di sangue ormai secco e quasi putrefatto, ed era un sollievo da sentire. Il piatto era vuoto davanti alla ragazza, che aveva accettato quello strano compromesso, in cui effettivamente tutto andava a suo vantaggio. Non lo avrebbe mai ammesso, ma le aveva fatto bene il pasto, anzi avrebbe volentieri leccato il piatto dalla fame, ma l’orgoglio e l’educazione prevalsero. Si limitava a passarci il dito tutt’attorno, e a leccarselo quando la sua ospite sembrava puntare lo sguardo altrove.

D’altronde gli effetti si vedevano bene anche senza conferme: aveva ripreso un certo colorito, che dopo la brusca perdita di sensi era divenuto bianco cencio, e il suo sguardo sembrava più attento, meno sonnacchioso. Persino le occhiaie erano meno marcate. Certo, non poteva avvenire un miracolo, e solo una buona dormita le avrebbero fatte sparire del tutto, ma era già un inizio.

Cybil guardava soddisfatta, e si accorgeva di ogni piccolo particolare. Era una piccola pausa da quel lungo racconto, che non sembrava fosse fatto per finire in un paio di capitoli, e ne approfittò per studiare meglio la sua interlocutrice. Guardò meglio la sua mano, che teneva la testa come fosse troppo pesante. Notò che erano comparse delle bolle sul pollice e sull’indice. Era quasi sicura che fosse dovuto all’utilizzo di quell’arma, quella che ora giaceva in un cassetto nella sua camera da letto. Già! Anche a lei erano venute le stesse piaghe quando cominciò l’addestramento con le armi. Tuttavia non poté fare a meno di notare che le sue mani erano belle, anche se non ben curate, con le unghie tagliate corte, prive di smalto, e qualche pellicina al contorno. Aveva le dita lunghe e sottili, e alcune vene violacee si potevano intravedere sotto la pelle liscia e bianca. Pensò che erano delle mani adatte per suonare uno strumento musicale. Chissà che musica le piaceva…chissà se le piaceva la musica…

“Ehi?! Vuoi restare qua a fissarmi o vuoi dirmi cos’è successo poi?!”

Cheryl era nervosa. A poco a poco aveva capito che quella donna era legata strettamente a suo padre. E da quel legame ne partiva un secondo, che invece la riguardava personalmente. Per questo cominciava ad essere infastidita da tutte le attenzioni, dal suo sguardo curioso, dai suoi sorrisi, e forse anche dal suo racconto. Eppure non voleva perderne una sillaba…

Cybil sorrise.

“Certamente…

 

 Disobbedii a tuo padre: dopo tre o quattro giorni mi accorsi di essere seguita da qualcuno, così non tornai a casa. Volevo vedere se mi avrebbero seguito fin lì…no, forse era solo una scusa…comunque presi la moto e mi avviai verso Silent Hill…

 

Mentre viaggiava guardava ogni tanto nello specchietto retrovisore. L’auto era sempre lì, dal colore blu scuro, e ricompariva dopo ogni curva. Certo non doveva essere un esperto pedinatore, e forse anche liberarsi di lui sarebbe stato semplice. Ma questi pensieri svanirono alla vista di quel cartello.

 

Welcome

to Silent Hill

 

La strada proseguiva sempre dritta da un po’, senza deviazioni o incroci, solo curve di montagna. Ma questa era l’occasione giusta. Un centinaio di metri dopo aver passato il cartello rallentò, fino a fermarsi al ciglio della strada. Mise il cavalletto, e scese dalla moto, con molta calma. Poi si avvicinò al guardrail incrociando le braccia e aspettando. Come previsto, vide l’auto rallentare a sua volta, ma senza fermarsi. Continuò a percorrere la strada quasi con incertezza. Quando fu abbastanza lontana la ragazza si lasciò sfuggire un sorriso. Rimontò in sella e continuò il suo viaggio.

L’Alchemilla non era molto lontano dall’uscita della superstrada. Al primo incrocio girò a destra e, superato il teatro, percorse tutta la strada fino a raggiungerlo. Spense la motocicletta, e tolse il casco. Si guardò attorno. Un brivido le percorse la spina dorsale, dal basso verso l’alto, fino a costringerla a chiudere gli occhi e inclinare con forza la testa da un lato. Guardò l’ospedale.

Sembrava fosse rimasto incastrato in quella dimensione, le grate del cancello erano leggermente arrugginite. Nel cortile interno c’erano un’ambulanza e anche una volante della polizia. Il ché sembrò innervosire Cybil. Sarebbe stato meglio non avere contatti con la polizia. Tuttavia entrò spedita all’interno, superando il portone a vetri.

Dentro c’erano poche persone, nessuna in divisa. L’infermiera dietro al bancone salutò cortesemente, attirando la sua attenzione. Era molto giovane, poteva avere al massimo una ventina d’anni, ed era anche abbastanza carina. “Posso aiutarla?” le chiese con voce chiara, ma che tradiva una leggera emozione dovuta all’inesperienza. Cybil alzò un sopracciglio. Nonostante la differenza di età non era altissima, le stava dando del lei, e sembrava quasi a disagio.

“Sei nuova?”

La ragazzina sussultò, smuovendo i suoi capelli castani che le scendevano morbidi sulle spalle.

“S-si…” rispose, evidentemente presa alla sprovvista dalla domanda. “Cioè, sono qui già da un po’, però adesso mi hanno messo alla reception. L’infermiera che c’era prima se n’è andata…”

Cybil colse al volo l’occasione. Si tolse gli occhiali da sole, avvicinandosi al bancone.

“Ah si?! E come mai?”

“Beh…”

Anche questa domanda sembrò turbare la ragazza, che stava cercando delle parole adatte. “Da quando…Lisa…ecco…ci ha lasciati…Loro due erano molto amiche, anche se ultimamente era difficile per loro trascorrere del tempo insieme…”

“Lisa? Lisa Garland?”

“La conoscevi?”

“Più o meno…” Cybil restò pensosa per qualche istante. Poi rialzò lo sguardo preoccupato. “Quando è successo?”

La ragazzina abbassò lo sguardo sconsolato. “Hanno trovato il corpo nove giorni fa, nei magazzini del sotterraneo”

“E come…”

Ma non poté continuare. Sentì una porta chiudersi poco distante, e il rumore dei passi avvicinarsi sempre di più. Discutevano ad alta voce, e a un certo punto sentì distintamente chiamare qualcuno “agente”. Così, prese a sorridere, e si rivolse di nuovo alla ragazzina.

“Lascia perdere. Puoi dirmi dove trovo un’edicola qui vicino?”

La ragazza rispose stupita da quel cambio repentino. “…è…qui fuori, superata la posta ce n’è uno…”

“Beh, grazie…Sophie!” disse leggendo il nome sul cartellino. “Sei stata molto gentile.”

E voltate le spalle si avviò all’esterno, mentre gli agenti di polizia e il dottore raggiungevano la reception in quel momento, continuando a parlare tranquillamente.

Fuori, in strada sentiva caldo. Era una bella giornata di sole, forse un po’ afosa, e molte persone erano in strada con pantaloni e gonne corte. Mentre camminava, diretta verso l’edicola, sulla strada che costeggiava il fiume vide i tavolini affollati di un bar, e udiva gli schiamazzi, le risate, e i rumori delle poche auto che passavano. Pensò che vista così, la città sembrava molto distante dall’inferno da cui era riuscita a fuggire. Eppure lo sapeva, poco lontano da lì, dall’altro lato del fiume aveva intravisto nella nebbia la figura di una bambina che stava camminando nel nulla, sul vuoto più assoluto di una strada crollata. Aveva ancora davanti a sé le immagini nitide di quell’ombra che lentamente scompariva nella nebbia.

Entrò nell’edicola. Dentro c’era meno luce, e il contrasto con l’esterno le aveva annebbiato leggermente la vista. Si trovò dinanzi un uomo anziano con dei simpatici baffi bianchi, che giocava con un piccolo ventilatore a batteria. Questi si voltò nella sua direzione, guardandola a lungo con i suoi occhi azzurri.

“Buongiorno” salutò cortesemente anche se velocemente Cybil.

Il saluto venne ricambiato con la stessa rapidità. Il tono di voce del vecchio era roco e spento, e sembrava meno cordiale del previsto. Aveva una brutta cicatrice sul volto, che Cybil non aveva notato entrando, un po’ per il cambio repentino di luce, un po’ perché celato alla vista da quell’angolazione. Sembrava una bruciatura, o qualcosa di simile.

“Posso aiutarla?” chiese il vecchio con indifferenza, intento a posare il ventilatore e a prendere un pacchetto di sigarette dalla tasca.

Cybil sfoggiò uno dei suoi sorrisi migliori, e con voce gentile chiese: “Potrei avere un quotidiano locale?”

L’uomo mise una sigaretta tra le labbra, senza accenderla. Poi si chinò sotto il bancone, dove teneva i quotidiani e le scorte di riviste. Si rialzò con un piccolo lamento, portandosi la mano libera alla schiena, e posò il giornale sul bancone, sedendosi nuovamente sullo sgabello.

“Ci sono le notizie di cronaca, vero?”

L’uomo alzò un sopracciglio, continuando a muovere la sigaretta tra le labbra. Annuì, stando attento a non farsela cadere.

Cybil sorrise di nuovo, e posò alcune monete sul bancone, recuperando il giornale. Senza troppi complimenti lo sfogliò velocemente fino ad arrivare alla notizia desiderata:

 

Ancora nessuna svolta sull’omicidio di Lisa Garland, 23 anni, incensurata, infermiera dell’Alchemilla Hospital. Ad ucciderla non sono state le percosse, ma un infarto dovuto probabilmente all’overdose della ormai nota PVT, la droga derivata dalla White Claudia. Questo il responso della scientifica, che ha analizzato il sangue della ragazza, evidenziando un alto contenuto della sostanza e un’alta concentrazione dei recettori che la droga va ad intaccare, il che fa ipotizzare una lunga dipendenza. Tuttavia i lividi rinvenuti sul corpo sono segno di una violenza precedente alla morte, e potrebbero essere il motivo per cui il cuore, indebolito dai lunghi anni di tossicodipendenza, abbia ceduto.

Alcune indiscrezioni vedono un collegamento tra questo omicidio e la sparizione del direttore dello stesso ospedale, Michael Kaufmann, di cui non si hanno notizie da 28 giorni ormai.”

 

Cybil non era soddisfatta. D’altronde erano passati troppi giorni dal giorno del delitto, e la storia cominciava a riempirsi di sabbia, e a perdere interesse notiziario. Doveva andare più indietro.

“Chiedo scusa, per caso ha anche le copie dei giorni scorsi?”

L’uomo emise uno strano suono, simile a un grugnito. La bocca si increspò in un sorriso. Riprese la sigaretta fra le mani.

“Cos’è, interessata ai casi d’omicidio?”

“Più o meno” rispose Cybil, cercando di evitare inflessioni con la voce.

Il giornalaio non perse il sorriso.

“Non sei una poliziotta, vero? Stai cercando informazioni, ma se le cerchi nei giornali significa che non hai accesso alle informazioni ufficiali, quelle dei rapporti e quant’altro. Però stai cercando queste informazioni con insistenza, come un vero sbirro.”

“…le ho solo chiesto se ha le copie dei giorni precedenti…”

Il silenzio calò per un momento. Si cominciavano a sentire di nuovo le voci delle persone che all’esterno, poco lontano, bevevano, mangiavano e si divertivano, chi più chi meno, sedute ai tavolini del bar. L’uomo alzò un sopracciglio. Gesticolando con la sigaretta ancora in mano, e indicando il giornale che Cybil aveva poggiato sul bancone, parlò ancora, rompendo il silenzio che si era venuto a creare.

“Perché ti interessa tanto quel caso di omicidio?”

Cybil non parlò subito. Si passò una mano tra i capelli, prendendo tempo. Sembrava che in fondo anche quell’uomo fosse interessato a quella storia, e poteva anche avere delle informazioni importanti. Ma dire la verità era fuori discussione, quella storia non poteva più essere raccontata. Sarebbe stata sepolta insieme ai loro corpi, quello di Cybil e quello di Harry.

Però quel vecchio, nonostante i modi burberi aveva un che di rassicurante. Forse nel tono della voce, forse nel suo essere schietto, Cybil non avrebbe potuto spiegare il perché.

Quando si scoprì a pensare queste cose, sorrise. “Devo riuscire a capire delle cose. E questo caso potrebbe aiutarmi tantissimo. Potrebbe darmi delle informazioni di fondamentale importanza, in grado di proteggere me e una persona per me importantissima. Una persona che mi ha salvato la vita, e che ora merita di stare in pace, ma ho bisogno di sapere tutto.”

Il vecchio sorrise. Poggiò nuovamente tra le labbra la sigaretta, e con le mani cominciò a tastare le tasche, alla ricerca di un accendino. Trovatolo, ne accese la fiamma, avvicinandola con gesto calmo ma deciso al volto, illuminando il suo viso e bruciando la sommità della sigaretta. Chiuse il coperchio dell’accendino, con un rumore metallico caratteristico, spegnendo così la fiamma e facendo coprire nuovamente dalle ombre il suo volto. Il braciere della sigaretta ardeva e si tingeva di un rosso vivo, acceso, e infine il fumo uscì dalle sue narici, un fumo denso che risaliva disperdendosi davanti al viso dell’uomo, rendendo più sfocata la sua figura. Sembrava nebbia…

“Va bene” disse il vecchio prendendo la sigaretta fra due dita. “Cosa vuoi sapere?”

Il volto di Cybil si contrasse in una smorfia di stupore. “Come?”

“Avrai delle domande, no?! Non posso assicurarti di avere tutte le risposte, ma ho un amico che lavora al caso, e potrei aiutarti.”

Il viso si rilassò in un sorriso.

“Grazie”

…ma l’uomo non rispose, si limitò a prendere un’altra boccata dalla sigaretta accesa, che si illuminava nella penombra del locale. Poi, ruppe il silenzio iniziando il racconto.

“La ragazza è stata trovata nove giorni fa nel seminterrato di quell’ospedale. Il suo corpo era pieno di lividi, e il sangue le aveva sporcato il viso quasi per intero. La polizia segue la pista dell’omicidio volontario, ma il problema è che le analisi hanno rivelato la presenza di sostanze estranee nel sangue, e pare che la morte sia avvenuta per overdose, e non per il pestaggio.”

“Hanno trovato qualcosa in quel seminterrato?”

“Si, uno strano sotterraneo. Ma era tutto ammuffito e marcito, e a parte alcuni vecchi macchinari, e un lettino, non c’era nulla.”

“E prima di questo, della ragazza cosa si sapeva?”

L’uomo sorrise. “Nulla…”

“Nulla?!”

“No. Pare che per anni sia rimasta a lavorare sotto diretta supervisione di quel direttore, Kaufmann, e che non svolgesse le normali mansioni da infermiera, ma avesse un compito…particolare, per così dire. Qualcuno supponeva che i due avessero una relazione, e che per questo motivo era completamente libera di sparire dalla circolazione. Molte sue colleghe si allontanarono da lei per questo motivo. Ma io credo ci sia dell’altro…”

“Huh?”

“Immagino tu sia stata in quel posto, vero? È da la che vieni o sbaglio?!”

Cybil rimase stupita da quanto quell’uomo avesse capito solo osservandola.

“Si, sono stata lì”

“E non hai notato nulla nelle infermiere?”

“In che senso…”

L’uomo sorrise, spargendo nuovamente la sua voce roca nell’aria.

“Immagino sia perché sei una donna, o forse sei un po’ ingenua. Tutte le infermiere in quel posto sono giovani e attraenti, e la loro divisa è molto…come dire…appariscente! Non è un caso, le assume Kaufmann in persona, e non credo richieda delle referenze particolari. Tutte quelle infermiere hanno accesso al letto di quel maiale, e in cambio c’è il lavoro pagato.”

“Quindi crede che il direttore c’entri qualcosa?”

“C’è dentro fino al collo! E il fatto che anche stavolta c’entri la droga non è certo un buon segno. Anche il fatto che vivesse in quell’hotel, il Norman Young, desta sospetti. Quando mai il direttore di un ospedale vive in affitto in un hotel?!”

“Viveva nell’hotel?!” chiese Cybil oltremodo stupita.

“Già…ma quando sono entrati la settimana scorsa non hanno trovato nulla…”

“La settimana scorsa?! Ma non è sparito da un mese?!”

Il vecchio sorrise beffardo. “In effetti era più di un mese che non andava a lavorare. Ma la polizia lo ha sempre tenuto sotto controllo! Sapevano che era invischiato nel traffico di droga, e sapevano anche che agiva per conto di una setta. Ma quando erano vicini alle prove che avrebbero incastrato quelle persone, lui è sparito per davvero. Sotto il naso di tutti.” Sbuffò sonoramente. “…è già la terza volta che succede, ormai non ci si spera più…”

“Che significa che è la terza volta che succede?”

L’uomo prese a guardare un punto indefinito, aggrottando le sopracciglia.

“Significa che vent’anni fa, il maggiore Gucci morì di crepacuore durante le sue indagini, qualche giorno prima della consegna di un rapporto che avrebbe potuto cambiare le cose. Poi sette anni fa l’incendio a casa Gillespie cancellò molte possibili tracce, espandendosi per quasi tutta la periferia, e distruggendo sei edifici della zona. Inoltre la morte di quella bambina rese più difficile ottenere risposte. L’opinione pubblica non vedeva di buon occhio le domande fatte ad una madre disperata…”

“Ma stai parlando di…Alessa…Alessa Gillespie?”

“Già…quella povera bambina è morta in quell’incendio. Fu proprio Kaufmann a dichiararne il decesso!”

“Alessa è morta sette anni fa?!”

L’uomo a quel punto alzò un sopracciglio, mentre fissava il volto incredulo della sua interlocutrice.

“Mi sembri sorpresa…”

Ma Cybil non rispose. Abbassò lo sguardo attonita. L’uomo continuava a osservarla, con uno sguardo curioso, e per un po’ il silenzio si impossessò della stanza, perciò ne approfittò per fare un altro tiro dalla sigaretta.

“Ha parlato di una setta…cosa sa di loro?”

La domanda di Cybil tuonò improvvisa, prendendo alla sprovvista anche quell’uomo.

“Nulla…so che lo chiamano “L’Ordine” e che c’entra qualcosa Dio e il paradiso terrestre, ma in tutte le sette è così, perciò…”

Cybil fece silenzio per qualche istante, come se stesse memorizzando la notizia, finché non sorrise nuovamente. “Lei è stato molto gentile, signore! Qual è il suo nome?”

L’uomo sbuffò un’ultima nuvoletta di fumo, e spense quel che rimaneva della sigaretta in un posacenere già pieno di cicche. “David Hunter”

“Molto bene, signor Hunter. Spero di rivederla presto!”

David sorrise. “Ne sono sicuro”

 

All’esterno, Cybil dovette socchiudere gli occhi, a causa della differenza di luce. Si diresse senza fretta verso l’ospedale, dove aveva lasciato la moto. Harry non avrebbe dovuto sapere, perciò era meglio tornare, prima che si insospettisse per la sua assenza; e comunque per il momento aveva reperito una buona quantità di informazioni. Soprattutto aveva dato un nome a questa setta, il che sarebbe stato sicuramente molto utile.

Salì in sella, e sfrecciò verso Brahms.

 

Spense il motore e mise il cavalletto, poi senza scendere dalla sella si tolse il casco, smuovendosi i capelli appiccicati alla fronte per il sudore. Ma quando riaprì gli occhi si trovò davanti a una brutta sorpresa. L’auto blu era parcheggiata ad una cinquantina di metri dalla sua abitazione. Da lì non riusciva a vedere se c’era qualcuno dentro o meno, ma non se ne curò. Piuttosto cominciò a correre per le scale del palazzo, salendo a perdifiato fino al suo appartamento. Aprì con le chiavi, e, spalancata la porta, chiamò a gran voce il nome di Harry.

“Che c’è?”

Harry comparve dalla cucina, con un bicchiere d’acqua in una mano e la bambina in braccio. Sembrava sorpreso da tutta quella foga. Cybil lo guardò, seria in volto.

“Dobbiamo andarcene da qui…”

 

Spiegai a tuo padre la situazione e lui fu d’accordo con me. Purtroppo non avevamo molti soldi: io avevo perso il mio lavoro, e tuo padre non scriveva da un po’! Così non potemmo andare lontani. Trovammo per caso l’annuncio di affitto di quell’appartamento a Portland, che sembrava abbastanza economico, e per noi un posto valeva l’altro…”

Cheryl stava con le braccia incrociate e con la schiena appoggiata. Non interrompeva mai, non faceva domande, ascoltava e basta. Sentiva che se avesse fatto molta attenzione avrebbe potuto collegare dei pezzi mancanti, avrebbe potuto capire cose che ancora restavano inspiegate.

Quelle persone…erano tutte importanti! E la più importante di tutte rimaneva proprio lei: Cybil Bennet, la donna misteriosa apparsa durante il funerale di suo padre…

Così continuò ad ascoltare…

 

 

Avviso: c’è stato un piccolo malinteso, e ho capito solo pochi giorni fa che Heather non viveva a Portland, ma c’è stata solo fino a cinque anni. Quindi chi fra le due vive in quella cittadina è proprio Cybil, mentre la città in cui si trovano in questo momento non è specificata.

Modificherò anche i capitoli precedenti, per adattarli al seguito.

Approfitto per ringraziarvi tutti, lettori e recensori! Al quinto capitolo! E buon fine settimana a tutti!

 

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Capitolo 5
*** Fuga ***


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Restava seduto con la faccia tra le mani, su una sedia di legno. L’unico rumore erano i gemiti della bambina che se ne stava seduta in quel seggiolino, l’unico che erano riusciti a comprare. Era tanto che non scriveva ormai, non ci riusciva. Ogni volta che si metteva davanti a un foglio di carta la sua mente vagava e tornava li, in quella città che fu per lui la fine e l’inizio. E allora prendeva a guardare di nuovo la bambina, che restituiva lo sguardo con i suoi occhi chiari. Quanti giorni aveva? Non lo avrebbe potuto dire, ne erano passati più dieci da quando era comparsa nel mondo, ma forse nascita e comparsa non coincidevano, e forse era più grande, o più piccola…

Bah, forse gli occhi si sarebbero scuriti con il tempo…aveva sentito dire che i neonati hanno sempre gli occhi chiari, e il colore si definisce dopo un po’ di tempo.

Alzò anche quella volta lo sguardo, puntandolo sulla piccola. Come sempre la bambina lo guardò a sua volta, e così rimasero qualche secondo. I pensieri si accavallavano nella sua mente, in una danza pericolosa di ipotesi e macabre soluzioni, ma dall’esterno si vide solo un uomo che si alzava in piedi e diceva a sé stesso, più che alla bambina, che era ora di andare.

Aveva noleggiato un auto per arrivare a Portland, e con sé aveva pochi bagagli.

Cybil era uscita la mattina invece. Credeva che chiunque la stesse seguendo non era a conoscenza di Harry e della piccola Cheryl, e sembrava seguisse solo lei. Il piano quindi era semplice: lei usciva e attirava l’attenzione su di sé, mentre Harry si metteva al sicuro. In seguito li avrebbe raggiunti. Quando quella mattina Cybil era uscita di casa, sorrise dicendo “Mi dispiace non poterti dare una mano con i bagagli!”. Harry sorrise, ma con un’espressione amara in viso. Le disse di stare attenta.

Cybil era forse anche più preoccupata di Harry, ma non voleva darlo a vedere. Non poteva trasmettere altra angoscia a quell’uomo, così continuò a sorridere senza rispondere; poi si avviò verso la porta. Fuori nel corridoio del palazzo non c’era nessuno. Si guardò intorno più volte, prima di richiudere la porta alle spalle. Chiunque la stesse seguendo evidentemente non doveva avvicinarsi più di tanto. O non voleva. Così quando scese in strada, lo trovò ancora in quell’auto, parcheggiata poco distante, abbastanza da confondersi con le altre ma non tanto da impedire alla vista di fare il suo lavoro. Non c’era molta gente che camminava da quelle parti, era una zona residenziale, e la mattina quasi tutti erano a lavoro, o a dormire, e comunque anche chi usciva tendeva ad andare in altri posti, nei parchi, nelle zone commerciali, quelle più frequentate.

La ragazza montò la sella della sua moto. Sarebbe stato l’ultimo giro in moto. Meglio così, l’estate volgeva al termine, e lei odiava prendere l’autobus! Per cui avrebbero preso una macchina, insieme, lei ed Harry. Arrossì in volto a pensarci. Per cui si mise il casco velocemente, e sistemò meglio lo zaino che teneva sulle spalle, facendo attenzione che fosse ben chiuso.

Forse fu l’occasione, forse il fatto che era più facile destare sospetti, forse perché Portland era più vicina, o forse era solo un’altra enorme scusa, ma anche quella volta, si avviò verso Silent Hill. La seconda volta in pochi giorni. Aveva memorizzato quasi del tutto la strada, tanto da non aver più bisogno di guardare i cartelli per svoltare. Tutto il viaggio lo passò spostando gli occhi dalla strada allo specchietto, assicurandosi che l’auto fosse sempre dietro di lei. Addirittura qualche volta rallentò perché dopo una curva la macchina non compariva alle sue spalle.

Ben presto comparve il cartello che segnava l’ingresso in città. A quel punto Cybil proseguì incerta sul da farsi. In effetti non aveva assolutamente pensato a dove andare. C’era quell’edicola, certo. Ma non voleva che il suo inseguitore potesse collegarla a lei, e quell’uomo, quel David Hunter, sembrava molto interessato alle vicende di quel posto, e, soprattutto, molto informato. Quindi quello era il posto da evitare, e in fondo sarebbe stato meglio cercare un luogo pubblico, affollato, in cui poteva mischiarsi alle persone e sfuggire alla vista dell’inesperto inseguitore.

Fu un caso: passò di fronte a un enorme portone, con un’insegna in pietra davanti. Era la biblioteca principale.

“Perfetto!” si lasciò sfuggire la bionda mentre accostava la motocicletta al marciapiede. Mise il cavalletto e scese togliendosi il casco dalla testa. Lo fermò bene, incastrando il laccio nella chiusura del sellino, e bloccò lo sterzo prima di sfilare la chiave. Se qualcuno avesse fatto attenzione, avrebbe potuto vederla mentre carezzava la carrozzeria argentea prima di voltarsi…

L’auto l’aveva superata durante il parcheggio. Aveva svoltato il successivo angolo, e probabilmente era lì che si era fermato. Comunque sembrava che tutto andasse secondo i piani. E senza volerlo, avrebbe potuto continuare a indagare su quella setta, quell’Ordine, di cui aveva sentito parlare.

Entrò nella struttura. Il soffitto alto e gli scaffali zeppi di libri sembravano quasi metterla a disagio. Doveva ammettere che anche se era una persona che aveva sempre un libro sul comodino, entrava di rado nelle biblioteche, e ogni volta si sentiva minuscola di fronte all’enormità di parole che venivano mescolate, intrecciate in opere d’arte, in conoscenza pura o immaginazione sfrenata, alle miriadi di possibilità, e alle moltitudini di storie da ascoltare, da vivere attraverso quelle parole. L’architettura, poi, aumentava quel senso di imbarazzo, con quegli scaffali alti, ricolmi di pagine e copertine sporgenti, con le scale scorrevoli dal legno incerto, con la moquette che assorbiva ogni piccolo suono, amplificando il silenzio che si spandeva in tutte le sale. I tavoli ampi, poche sedie, distanti l’una dall’altra in modo da sviluppare un senso di solitudine e di fusione con le storie che i libri raccontavano. Anche l’odore aveva un che di caratteristico. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma sentiva che non avrebbe potuto sentire odore simile in un luogo diverso da quello. Forse era l’odore della carta, o della polvere, o un misto, o anche del legno e dell’umidità…

Si guardò le spalle, ma nessuno entrò insieme a lei, e anche all’esterno la situazione era normale, almeno da quello che poteva vedere dall’anta ancora aperta. Poi la porta si richiuse, e le ultime voci provenienti dalla strada scomparvero. Il silenzio si impossessò della stanza, e nel voltarsi nuovamente incrociò lo sguardo di una donna di mezza età, vestita di rosso, con i capelli castani raccolti da un elastico e gli occhialetti appoggiati sul naso appuntito. Sorrise di un sorriso forzato, di circostanza, come se il suo lavoro fosse sorridere, e con voce bassa e composta chiese: “Posso aiutarla?!”

“C’è una sezione di storia locale?”

“Certamente. Le serve un libro in particolare?”

“Qualcosa sulla religione del posto”

A questo punto la donna si aggiustò gli occhiali con un dito, poi cominciò a battere i tasti di un computer, sicura, veloce, senza preoccuparsi del rumore prodotto o altro. Sembrava che ogni pressione fosse una martellata, ma Cybil decise di non immischiarsi, e restare in silenzio. Dopo aver premuto con maggior decisione il pulsante dell’invio, in breve il silenzio fu spezzato nuovamente dalla voce frettolosa della donna: “Sezione 7, terzo corridoio sulla sinistra, libro A709.”

“Molto bene, la ringrazio” disse Cybil congedandosi. Ma la donna non era dello stesso avviso…

“Mi scusi!” disse con disappunto quando Cybil fu di spalle. La ragazza si girò sorpresa.

“Le devo chiedere di lasciare lo zaino qui”

La donna indicò degli armadietti in ferro, proprio vicini alla suo postazione, o probabilmente indicò il cartello appeso ad essi:

“Vietato portare borse e zaini in sala

Depositare negli appositi armadietti”

Cybil nel leggere il cartello sorrise imbarazzata, e, scusandosi più volte, lasciò lo zainetto che teneva in spalla in uno di quegli armadietti, chiudendolo e portando con sé la chiave. Poi si incamminò seguendo le indicazioni di quella donna. Il libro che le aveva suggerito era sul settimo scaffale, partendo da terra, probabilmente perché si trattava di argomenti ignorati per lo più da tutti. Dovette perciò servirsi di una scala per raggiungerlo. Una volta tirato fuori ne lesse la copertina.

“Circa le religioni sincretiche”

Restò qualche secondo a osservare le lettere scritte con una perfetta calligrafia dorata. Poi sorrise nervosamente. “Ci credo che non lo legge nessuno…” sussurrò.

Scese piolo dopo piolo facendo attenzione a non inciampare dato l’ingombro che il libro rappresentava in quel momento, e si diresse verso uno dei tavoli più isolati della sala. Nessuno vi era seduto, e anche agli altri tavoli le persone erano poche.

Aprì le prime pagine, ne lesse l’introduzione, qualcosa che aveva a che fare con l’importanza della ricerca storica, e di come la donna che scrisse quel libro era riuscita a reperire quelle informazioni che altrimenti sarebbero andate perdute nel tempo. Poi, dopo l’indice dei capitoli e alcune pagine lasciate bianche, o meglio, ingiallite dal tempo, trovò una piccola iscrizione al centro di una pagina:

“Affido a te incondizionatamente il mio corpo e la mia anima eterna

Anche se dovessi sprofondare nelle tenebre, con te al mio fianco resisterò”

La ragazza strinse gli occhi, sospettosa, e girò pagina con calma, limitando i fruscii. Cominciò a leggere, e per ore continuò, senza una sosta, senza bere o mangiare, raramente sgranchendo il collo e le braccia. Lesse dei nativi, della loro capacità di parlare con i defunti attraverso quel luogo, delle due pietre, le Nahkeeona. Lesse di come gli indigeni assumessero allucinogeni prodotti da una pianta del luogo per i loro rituali, e come riuscissero a prevedere alcuni eventi, e, stando ai diari degli inglesi, sembrava avessero previsto anche il loro arrivo…due capitoli lesse sui nativi e sulla religione indiana basata su questo “luogo degli spiriti silenziosi”, su come il suolo su cui ora sorgeva la città era ritenuto sacro. Sembrava quasi che fosse una porta dimensionale, un modo per accedere a un luogo privo di ordine spazio-temporale, in cui i defunti potevano essere contattati passando dal passato al futuro e in ogni dove. Si parlava di strane creature che veneravano come divinità, con una specifica gerarchia, in cui la punta massima era un essere con caratteristiche ermafrodite, a cui venivano dedicate strutture dalla forma piramidale che furono trovate nei boschi poco distanti dalla città. La particolarità di queste “piramidi” era che, a differenza delle strutture azteche o egiziane, queste erano a base triangolare, e formavano dei tetraedri perfetti, geometrie molto difficili da ottenere con la muratura antica. Difatti la resistenza di questi edifici non era comparabile a quella delle piramidi classiche, e rimanevano pochi ruderi e l’assoluta incertezza di quello che potevano contenere.

Questa divinità massima era descritta come un essere con poteri particolari, che fermò per sempre l’eternità creando il tempo e lo spazio, donandolo agli esseri umani, costretti in un mondo infinito privo di luce e morte. Aveva seni abbondanti, a sottolineare la fertilità, e allo stesso tempo possedeva entrambi gli organi genitali, unione di virilità e maternità, e in ogni immagine rinvenuta il sesso maschile era raffigurato eretto e questo, si suppose, per due motivi: il primo puramente estetico, in modo da rendere possibile la raffigurazione contemporanea del sesso femminile, il secondo per rendere la figura potente e donarle la forza tipicamente maschile. Come molte religioni antiche, infine, la testa apparteneva ad un animale, in questo caso ad una capra, animale considerato per questo motivo sacro.

Il terzo capitolo cominciava in questo modo:

“Nessuna religione è mai rimasta immutata dal momento della sua creazione. E questa non fa eccezione.

Quando di questa religione si appropriarono gli immigrati, essa venne profondamente influenzata dalle loro credenze cristiane. Ad esempio i nomi e le descrizioni dei rappresentanti tradizionali di queste divinità primarie potrebbero essere quelle degli angeli cristiani.

Il cambiamento maggiore lo subì proprio la divinità massima, che assunse a poco a poco dei tratti sempre più femminili fino agli inizi dell’ottocento, quando nelle preghiere e nei testi sacri si cominciò a riferirsi a questo essere con l’appellativo “Lei”. Nelle immagini appariva vestita spesso di rosso, più di rado in bianco o in nero, coprendo in questo modo le nudità, e rendendo quindi più evidenti le forme femminili, e sparirono le sembianze caprine, dapprima nel viso – alcune immagini infatti presentano una creatura con un viso femminile ricoperta di pitture facciali che ne marcavano lo sguardo rendendola più temibile, con delle corna che spuntavano dai capelli vermigli – poi in tutta la sua figura, fino ad arrivare a raffigurarla come una donna a tutti gli effetti, dallo sguardo rassicurante, vestita rigorosamente di rosso con capelli neri.”

Cybil deglutì. Si accorse di avere sete, ma non voleva interrompere assolutamente la lettura. Continuò, leggendo le descrizioni degli altri angeli, e le trasformazioni subite all’arrivo dei coloni. La religione sembrò prendere veste ufficiale solo nel 1621 quando Jennifer Carrol, anglosassone nativa, e protestante, chiamò per la prima volta il culto, a cui lei stessa aderì, L’Ordine.

Era sorprendente scoprire come quello fu uno dei pochissimi culti in cui le donne venivano tenute in considerazione più degli uomini, e le figure gerarchiche prevedevano quasi sempre una donna al vertice.

Erano passate delle ore, Cybil aveva un orario da rispettare. E poi cominciava anche ad avere fame. Così chiuse il libro, e si arrampicò nuovamente sulla libreria per posarlo. Poi come destata da un sogno cominciò a guardarsi intorno. Si era completamente dimenticata di controllare l’entrata, e adesso sarebbe stato quasi impossibile riconoscere il suo inseguitore. Si maledisse per non aver prestato attenzione, ma senza perdersi d’animo si avviò all’ingresso, recuperando lo zaino. La donna era ancora la, intenta a fissare lo schermo del computer e a colpire con decisione i tasti.

“Chiedo scusa”

Il suono della voce di Cybil sembrò arrecarle fastidio, ma, con falsa cortesia, si voltò a fissarla negli occhi, aspettando di sentire il resto.

“Potrei usare un bagno?”

“Certamente, è all’ingresso, sulla destra!” e si immerse nuovamente nella luce artificiale del computer.

Cybil salutò cortesemente, ma senza ricevere risposta. Così entrò nel bagno guardandosi ben attorno prima di chiudere la porta. Aprì lo zaino, svelandone il contenuto. Ben piegato c’era un giubbino di Jeans e un cappellino, e un contenitore per occhiali da sole. Indossò ogni cosa, con un po’ di riluttanza dato l’alta temperatura che l’aspettava all’esterno dell’edificio. Quando uscì dal bagno diede un’ultima occhiata alla signora. La trovò intenta a parlare a telefono, a bassa voce. Probabilmente per non disturbare. Comunque era un sollievo, visto che era l’unica che avrebbe potuto riconoscerla all’istante, perciò sgattaiolò all’esterno senza esitazione.

Il caldo era asfissiante con quel giubbino addosso, ma cercò di stringere i denti e sopportare. Notò che l’auto blu era a pochi metri da lei, ma dentro non c’era nessuno. Puntò lo sguardo verso la moto poco lontana, ma neanche nei pressi del veicolo c’era qualcuno di sospetto. Molti passanti data l’ora, ma nessuno d’interesse. Forse era meglio così…

Si allontanò a piedi. Per arrivare alla fermata del pullman ci sarebbe voluta una mezz’oretta buona di cammino. Ripensò a quanto aveva appreso…non molto in realtà. Era strano, nel leggere sapeva bene che le informazioni che stava apprendendo non erano utili per le sue ricerche, eppure non era riuscita a passare avanti. Sentiva quasi il bisogno di avere quella descrizione così dettagliata del loro dio, come se fosse un’attrazione irrefrenabile verso quella figura. Però aveva un nome: Jennifer Carrol, fondatrice effettiva dell’Ordine. Sarebbe stata di sicuro molto utile.

 

In perfetto orario, il pullman sarebbe partito a breve. Ce n’erano molti che passavano per Portland, qualcuno anche più conveniente in termini di tempo, ma quello lo aveva scelto perché faceva stazionamento li. Per cui non avrebbe dovuto chiedere niente a nessuno, nessun contatto con l’autista per sapere quando sarebbe dovuta scendere, nulla di nulla. Una volta a bordo si sarebbe seduta su uno dei sediolini in coda, e avrebbe mangiato il suo panino.

A bordo c’erano molte persone, ma nel tragitto il mezzo si sarebbe fermato più volte, perciò evidentemente non tutti andavano a Portland. Cybil sedette al penultimo posto, vicino al finestrino, anche se dopo poco tempo un uomo con una camicia a righe l’affiancò. Nessuno disse una parola, e anzi entrambi si posizionarono meglio per stare il più comodi possibili.

Il pullman partì

 

 

“…Mh…”

La testa le pesava e faceva fatica a respirare. Sentiva l’acqua bagnarla ovunque, entrare nel naso e in bocca, appiccicarle i vestiti addosso, facendoli aderire perfettamente alla pelle. Era pioggia, cadeva incessante. Cercò di muoversi, ma qualcosa la costringeva a tenere le braccia alzate, giunte sopra la testa, e le impediva di alzarsi in piedi o altro. Era legata, forse con una catena.

Prese a muoversi freneticamente, ma senza nessun risultato se non quello di produrre un rumore metallico che unito alla pioggia dava fastidio all’udito. Cominciò a gridare, a chiedere aiuto, ma sembrava essere sola. Guardandosi attorno si rese conto di essere su un pavimento liscio, come fossero mattonelle, o linoleum. L’oscurità che c’era tutt’attorno non le permetteva di riconoscere nulla, e l’acqua che colava negli occhi ostacolavano ancor più la sua vista.

Poi il bagliore.

Sembrava avvicinarsi con calma e garbo, e a provocarlo era una figura umana. Una donna. Si avvicinava sinuosa, e sembrava non accusare la pioggia.

“Ehi! Aiutami! Ti prego!”

La donna non rispose. Continuò il suo lento cammino, fino ad illuminare completamente il suo corpo bagnato. I drappi di stoffa ricadevano completamente asciutti, a dispetto del clima, e sembravano svolazzare attorno a quella figura. Si inginocchiò al suo fianco.

“Ti scongiuro! Liberami!”

Ma quella continuava a non parlare. In cambio però le sorrise. Oh, che sorriso che le rivolse! Poteva sentire le lacrime, distinte dalla pioggia per la temperatura. Il suo sorriso le scaldava il cuore, le dava anche un po’ di sicurezza, e cercava di mettere a tacere la sua ragione. Lentamente avvicinò una mano al suo volto, fino a sfiorarle una guancia. Il tocco era caldo, e sembrava quasi che li dove la stava accarezzando con quella dolcezza smisurata, lì l’acqua evaporasse all’istante, lasciando la pelle completamente asciutta e calda.

Si sporse ancora di più, scese verso di lei, avvicinandosi al suo volto. Le loro labbra si sfiorarono, e un brivido percorse tutta la schiena, dal collo fino a giù, verso le gambe che persero ogni tensione muscolare. Sentì il petto gonfiarsi per un sospiro, l’aria invaderle i polmoni gonfiandoli, e poi passare di nuovo per la bocca schiusa e accaldata.

“…Ai…aiu…ta…a…mi…”

Le parole si spezzettavano anche nella sua mente, che lentamente andava perdendosi. Gli occhi socchiusi ora le permisero di vedere la donna posizionarsi su entrambe le ginocchia, di fianco a lei. Il vestito in quella posizione prendeva una strana piega. Allora la donna lo scostò lentamente, fino a mostrare un enorme membro eretto e pulsante. Ce l’aveva davanti agli occhi, e in un attimo ogni suo stato d’animo cambiò. Il battito cardiaco accelerò vertiginosamente, la pressione aumentò, e poteva sentire il pulsare nelle tempie, cercò di scostarsi come poteva, ma a nulla valevano gli sforzi.

Tutto ciò che poté fare fu urlare…

 

 

“Ah!”

Con uno sforzo del collo mise la testa diritta, e spalancò gli occhi. La vista annebbiata non le impedì di riconoscere il sellino del pullman in cui era. Voltò la testa verso l’interno. L’uomo che si era seduto  al suo fianco era sparito. Fissò un punto indefinito.

“Era solo un…sogno…”

Tirò un sospiro di sollievo. Poi si accorse che il pullman era fermo. Forse erano arrivati.

Non solo erano arrivati, ma non c’era più nessuno sul pullman a parte lei. Se ne accorse quando si affacciò nel corridoio.

Le girava la testa, e sentiva ancora i brividi sulla pelle per il sogno fatto. Di solito non era mai stata così impressionabile, eppure sapeva che si trattava di quella descrizione che aveva letto sul libro nella biblioteca. Sentiva emozioni contrastanti fra di loro, e perciò uscì velocemente con l’istinto di respirare aria fresca. Purtroppo fuori l’aspettava invece l’arsura del primo pomeriggio estivo, il che rese ancor più difficile l’ulteriore camminata che l’avrebbe portata finalmente nel suo nuovo appartamento.

 

 

 

La centrale era quasi deserta, e comunque il silenzio regnava sovrano.

L’unica luce accesa sul piano era quella di un ufficio. Dentro un uomo teneva la cornetta di un telefono ben aderente al suo orecchio. Parlava piano, per non turbare la pace che raramente si poteva avere in quel posto, o più probabilmente per non essere sentito da nessuno.

“Si, sono io.

È scappata. Evidentemente si era accorta di essere seguita.

No, non so dove possa essere andata, ma le garantisco che riuscirò a ritrovarla.

Si…è stata a Silent Hill. L’ultimo posto dove è stata vista è la biblioteca. Poi è scappata, lasciando anche la moto lì.

No, da casa sua non è mai uscito nessuno in questi giorni.

No, non si è mai avvicinato. Temevo potesse scoprirlo…

Le ho già detto, non ho idea di dove possa essere andata! Ovviamente ho minacciato quell’idiota; la ritroverà, e quando lo farà troverà anche quell’altro…

Come?

Che significa che non servono più i miei servizi?

Noi avevamo un accordo…le ho detto che riuscirò a trovarla!

Va bene…

Ma vi prego…non fatele del male…

Sono pronto a tutto per lei…”

 

 

Bene, finalmente sono riuscito a scrivere il quinto capitolo. Chiedo scusa per i tempi così dilatati, ma come tutti sono molto impegnato, soprattutto in questo periodo, e per di più i capitoli che scrivo sono sempre abbastanza lunghi. E a questo proposito vi domando: credete sia il caso di renderli più corti?

Ringrazio ancora chi legge, a presto.

 

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Capitolo 6
*** Volpe Bianca ***


PageBreeze

“E poi?!”

“E poi niente…ho raggiunto tuo padre. A Portland nessuno mi conosceva, quindi cominciare un lavoro come investigatrice fu molto difficile. Il dipartimento di polizia locale non condusse ricerche, fortunatamente, e si accontentò del mio curriculum su cui avevo omesso il rapporto che avevo stilato della mia prima visita a Silent Hill. Rapporto che non fu mai reso pubblico per mia fortuna!”

Cheryl sbuffò sonoramente.

“Non mi interessa che lavoro facevi! Voglio sapere tutto ciò che sai su Silent Hill!”

La donna tacque. Si avviò ad aprire il vetro del balcone. Fuori si era alzato un venticello piacevole, che aveva reso più sopportabile la temperatura e più piacevole la giornata. Si domandava come mai non lo aveva fatto prima…

“Cybil?!”

Si voltò. Il suo sguardo sembrava completamente neutro, asettico, fino a che non abbassò gli occhi. Sembrava stesse cercando di ricordare. Poi riprese a sorridere; una folata di vento leggera le portò i capelli in avanti, davanti agli occhi, ma con un gesto deciso della mano tornarono dietro l’orecchio dov’erano.

“Capii che l’Ordine stava passando un periodo di inattività. Stupidamente pensai che fosse finita, che la morte del loro leader li avesse destabilizzati al punto da farli sciogliere per sempre…purtroppo non fu così.”

Sollevò il viso sorridente. “Ma ci arriveremo!”

Cheryl era visibilmente contrariata. Scivolò in avanti con il bacino sulla sedia, e appoggiò la testa sulla mano puntando lo sguardo verso un punto indefinito.

“Ehi!”

Sentendo il suono fuoriuscito dalla bocca di Cybil, portò gli occhi verso di lei.

“Ti piace la musica?”

L’espressione sul suo volto non cambiò, ma in quel momento pensò che forse la donna che aveva davanti era una pazza. Continuò a fissarla negli occhi per un po’. Si trovò a penetrare con lo sguardo le iridi azzurre di lei, ad arrivare oltre le pupille ristrette dalla luce. Era come se potesse vedere i suoi pensieri. Fu solo un momento, poi si riprese. Sorrise rumorosamente.

“Certo che mi piace la musica…”

Poi, senza aggiungere altro, si alzò con svogliatezza dalla sedia. Strappò uno di quei nastri gialli della polizia, e si avviò verso un mobiletto in legno che probabilmente nessuno aveva mai notato prima entrando in quella casa. Lo aprì, rivelando un lettore di vinili, con una folta collezione.

“Questi erano i dischi di mio padre. Mi disse che era andato a recuperarli appositamente nella sua primissima casa. Quando tornò da quel viaggio sembrava triste e felice al tempo stesso. Non ricordo molto, anche se lo accompagnai. Avevo forse otto anni, quindi mi addormentai in macchina e non mi accorsi nemmeno che era salito in quella casa ed era risceso. La sua macchina aveva una radiolina con un mangianastri, ma papà non ne aveva comprati molti, e a me sembrava semplicemente un ottimo modo per farmi addormentare in macchina. Poi ci fermammo in quella città e mangiammo in una specie di tavola calda.”

Tirò fuori un disco di Miles Davis e uno di Duke Ellington. Sorrise nel vederli. “Credo siano in ordine alfabetico…mio padre sapeva essere maniacale a volte!”

Cybil osservò in silenzio. Poi quando la vide posare tutto e chiudere il mobiletto parlò di nuovo.

“E anche tu ascolti questi dischi?”

“Beh, li metteva mio padre, e io li sentivo a mia volta. A 15 anni però non puoi pretendere che tua figlia ascolti insieme a te il jazz! In camera ho un lettore CD. Ho un sacco di CD sulla mensola nell’armadio, Guns’n roses, Nirvana, Led Zeppelin…”

Cybil sorrise. Finalmente si era tolta la curiosità! Cheryl a sua volta aveva accontentato quella richiesta. Non aveva capito bene se aveva bisogno di una pausa o se era davvero interessata a quel dettaglio, ma aveva carpito l’importanza di quella domanda. Aveva intuito che quella donna ne aveva bisogno, e, chissà perché, aveva deciso di esaudire quel suo desiderio inespresso. “…però ora torniamo alla storia, va bene?!”

La conclusione colse quasi alla sprovvista Cybil. Tuttavia si riprese in breve, e annuì sorridendo, mentre la ragazza si rialzava e riprendeva la sua postazione, dopo aver lanciato uno sguardo verso la poltrona insanguinata.

 

Passò molto tempo. Più volte Cybil andò a Silent Hill, per continuare a leggere quel libro, e in una di quelle occasioni passò anche per quell’edicola, per salutare quel David Hunter. Gli chiese qualcosa su Jennifer Carrol, sulla fondatrice del culto, e lui la indirizzò in un parco, dove trovò una sua statua. Tuttavia, ad eccezione di un’incisione rovinata dal tempo, non c’era nulla che la collegasse all’Ordine. Nel frattempo la polizia del posto aveva archiviato il caso Lisa Garland, caso irrisolto, e da un po’ non se ne parlava più. Non in pubblico almeno.

L’ospedale Alchemilla si riassestò, e il nuovo direttore del personale era un certo Paul Harris, ma sembrava non avesse nulla a che fare con Silent Hill, difatti era appena arrivato in città e fino a qualche anno prima era stato in Germania. Tutto intorno, quel posto sembrava riassorbire gli orrori che aveva generato, e allontanarli dalla memoria delle persone, che ora tornavano a sorridere, mentre l’estate volgeva ormai al termine. E più il tempo passava più era difficile recuperare informazioni. Per cui le visite di Cybil si diradarono notevolmente.

Lo stesso libro, che aveva cominciato a leggere tanto tempo prima, ora aveva preso a parlare di fatti non dimostrati, e di storie di credenza popolare, che a volte coinvolgevano fantasmi che, attraversando i muri nelle loro piramidi, comunicavano passato, presente e futuro agli astanti. Si parlava di pratiche rituali assai bizzarre, che però non erano molto lontane dalla caccia alle streghe o dalla chiromanzia, per cui non fu difficile per Cybil credere che si trattasse di semplice follia.

L’unica lettura che avrebbe potuto essere d’interesse alla ragazza fu la resurrezione del dio. Vide infatti, riportata sul libro, una serie di immagini stilizzate rinvenute nei resti di una chiesa antica appartenente al culto, in cui veniva rappresentata la creazione del mondo e la morte di dio, e i fedeli venivano esortati a pregare perché dio risorgesse e portasse la sua parola e il suo paradiso nel mondo. Ma anche in questo caso non si parlava di riti per la resurrezione, o di qualcosa che avesse a che fare con quello che era successo poco tempo prima in quella città.

Cybil si sentì come persa. Ogni traccia portava nel vuoto, e le persone tutt’attorno sembravano dimenticare velocemente gli avvenimenti. Inoltre con l’arrivo dell’autunno Cybil trovò lavoro nel dipartimento di polizia a Portland, nonostante fosse inizialmente riluttante…

 

“…anche Harry riprese a scrivere, e firmò un contratto con una casa editrice del posto. Sembra che il pubblico amasse molto le storie dell’orrore, e spesso scherzando diceva che almeno gli era rimasto qualcosa che poteva vendere. Era il suo modo di esorcizzare quei ricordi, mi diceva, il suo modo di rinchiudere la paura nelle pagine. Non so cosa fosse, ma sembrava funzionasse: il pubblico apprezzava, e quindi cominciò a pubblicare sotto falso nome. Harold Morris.

Fu un periodo disastroso e al tempo stesso felice: non avevamo molti soldi, e prima che i libri di tuo padre cominciassero ad essere venduti, ne entravano davvero pochi, e la maggior parte li usammo per siglare e falsare un’enorme quantità di carte per giustificare la tua presenza nel mondo. Parlammo con delle strane persone…”

 

Si trovava di fronte all’ingresso trionfale di un albergo, con due dragoni che incorniciavano il portone spalancato che dava nella hall. Dentro tappeti rossi e vasi variopinti appoggiati su tavolini in legno accuratamente intagliato, e lussi d’ogni genere, dai divani in velluto alle rifiniture in oro e legno. Cybil entrò ostentando sicurezza, sfilando gli occhialetti da sole con gesto deciso, e dirigendosi verso il bancone. Un uomo in smoking, alto e con una corporatura molto robusta, l’accolse con distaccata freddezza.

Era ormai più di un anno che lei e Harry si erano stanziati in quella città, e in tutto quel tempo erano finalmente riusciti a trovare un nome, qualcuno che, con un dovuto compenso, li avrebbe aiutati.

“Volpe bianca”

L’uomo sembrò non avere una reazione, ma rimase immobile per qualche secondo. Poi fece un cenno con la mano, e una ragazza molto bella, vestita con un kimono scuro e i capelli raccolti perfettamente, si avvicinò alla bionda.

“Prego” le disse inchinandosi leggermente e facendo cenno con la mano di seguirla.

Tutto sembrava ambiguo, come ci si aspettava in un posto come quello. La ragazza sorrideva sempre, e non le rivolgeva né la parola né lo sguardo, ma camminava spedita lungo i corridoi, allontanandosi sempre di più dall’ingresso. Presero un ascensore, e per tutto il tempo il silenzio regnò sovrano. Cybil sentì il suo peso aumentare leggermente quando l’ascensore entrò in funzione, segno che stavano salendo. Questo non le fu chiaro dall’inizio, perché la tastiera presentava solo due tasti, e la chiusura delle porte era ermetica. Sembrava quasi che fosse una trappola. Ma in quel momento non poteva certo mostrare debolezze, per cui continuò a guardarsi intorno cercando di apparire sicura di sé. Notò una telecamera, e subito distolse lo sguardo dall’obbiettivo, riprendendo a guardare dritto davanti a sé, rinunciando del tutto a cercare di capire dove fossero diretti.

Le porte si riaprirono, e di fronte avevano un corridoio illuminato artificialmente, senza finestre ma con numerose porte. Lo attraversarono tutto, fino a trovarsi di fronte all’ultima porta, la più bella di tutte, in legno massiccio con numerosi intarsi. La ragazza, senza perdere tempo, la spalancò, accennando un inchino quando fu dentro.

Cybil vide un omino basso con degli occhiali scuri, che non erano giustificati nemmeno dalle enormi vetrate che aveva alle spalle, che se ne stava appoggiato al bracciolo di una poltrona, e guardava sorridente verso le due ragazze. Aveva dei baffetti neri e vestiva un completo blu notte con una camicia verde smeraldo. Sarebbe stato un bell’uomo se non fosse arrivato con la testa alle spalle di Cybil.

Con un gesto della mano fece andar via la ragazza, che richiuse la porta alle sue spalle, e, scostando leggermente la poltrona, invitò il suo ospite a sedersi, mentre lui prendeva postazione alla sua scrivania.

“Non mi aspettavo una bella ragazza come te. Questo rende l’incontro molto più piacevole.”

Cybil rimase silenziosa a guardarlo. Non un’emozione traspariva dal suo volto; ma quell’uomo sembrava annusarne l’ansia che si portava dietro. Così cambiò discorso.

“Mi è stato detto che qualcuno deve cambiare età. Una richiesta insolita, considerando che la maggior parte delle richieste vengono dai ragazzini che vogliono bere e non chiedono certo a me…posso chiedere il motivo?”

La ragazza cominciò a guardarsi attorno, osservando bene il posto in cui era entrata. Rispose quasi con distrazione, ostentando indifferenza. “…è stato fatto un errore”

L’uomo sorrise.

“Tuttavia sono curioso sul perché far sparire una bambina di appena sette anni.”

Cybil non era abituata a trattare, si vedeva. Nonostante provasse in tutti i modi a far finta di nulla le sue parole tradivano le azioni.

“La stanno cercando…e se non esiste non possono trovarla”

“Una coppia come la vostra non dovrebbe avere simili problemi. L’uomo che la sta aspettando sembra molto in apprensione.”

Cybil sussultò. Harry era in un caffè, a un centinaio di metri da quel posto, eppure loro sapevano già.

“Come avrà capito, siamo persone prudenti, e per quanto mi riguarda è un rischio già sapere che un ex poliziotto, ormai investigatrice sia nel mio ufficio.”

Sorrise. “Tuttavia la sua storia ha un che di interessante, e il fatto che siate qui da poco tempo, e che si è dimessa dal dipartimento di polizia di Brahms facendo perdere le sue tracce mi ha convinto a darle una possibilità.

Ovviamente capirà che ci sarà un prezzo da pagare, ma è chiaro che lei non disporrà della cifra adatta.”

“Quanto?” chiese Cybil con impazienza. Aveva dei risparmi, un’eredità che non aveva mai toccato, forse per dimostrare che poteva farcela da sola.

“Oh, signorina, non siamo certo qui a parlare di soldi. Di questo ne parlerà con il mio…socio, che l’aspetta qui fuori per scortarla all’uscita.

No, io volevo solo capire perché si è affidata a noi e se è disposta ad andare fino in fondo…ma questo è chiaro: lei ormai non si fida più delle autorità, non si fida più di nessuno. Se fosse possibile cambierebbe lei stessa identità, e scommetto che si è aggrappata talmente tanto a questa persona che farebbe qualsiasi cosa per proteggere questa vostra famigliola.”

Le parole di quell’uomo penetravano il cuore della ragazza come tanti piccoli aghi. Ormai aveva perso il controllo del suo corpo, e il sudore imperlava la sua fronte, e le mani fredde si stringevano l’una all’altra con forza. Ma il suo sguardo era puntato ostinatamente verso il suo interlocutore, perché la paura non le avrebbe impedito di andare fino in fondo a quella storia. E questo, per l’uomo sorridente che nascondeva lo sguardo dietro a quegli occhiali scuri, era la prova finale.

“Molto bene, signorina. Per me può bastare così”

Premette un pulsante sul piano della scrivania, e subito entrò dalla porta un altro uomo, che restò sulla soglia della stanza in attesa.

“In un paio di settimane sarà tutto concluso. Le basterà attenersi a ciò che il mio socio le dirà. E visto che lei mi è molto simpatica avrà un prezzo di favore. Abbia una discreta giornata!” concluse esibendo uno splendido sorriso, e facendo un cenno verso la porta, invitandola a seguire l’uomo che aspettava ancora davanti alla porta.

Quando richiuse la porta alle sue spalle, l’uomo parlò a Cybil. “Ci vorranno 50.000 dollari in contanti, consegnati alla stazione di south Portland fra cinque giorni alle 10 di mattina, binario 23, salirà sul treno si siederà al posto 128 nella quarta carrozza, e poserà lì la borsa. Dopodiché potrà scendere dal treno. Avrà quindici minuti prima che riparta.” Poi guardò in direzione della ragazza, e scuotendo la testa prese un quadernetto dalla tasca e ne strappò un foglio, consegnandolo poi a Cybil. La ragazza lo lesse, e vide che c’erano scritte le informazioni che aveva appena ricevuto dall’uomo a voce.

Poi entrarono nell’ascensore, e nuovamente l’uomo parlò:

“Mi dia le informazioni sulla persona da cancellare”

La voce era quasi robotica, e fino a quel momento non le aveva rivolto lo sguardo. Cybil prima di rispondere guardò verso la telecamera che aveva notato precedentemente.

“Cheryl Mason, nata nel 1973 a Silent Hill, adottata da Harry Mason e Jodie Mason l’anno successivo. Tutte le carte si trovano a Silent Hill.”

“Molto bene”

Le porte dell’ascensore si riaprirono, ma invece di percorrere il corridoio che li avrebbe riportati all’ingresso, uscirono da una porta laterale, che li portò nel vicolo adiacente.

“Giri a sinistra, non torni verso l’ingresso.”

Dopodiché richiuse la porta.

Cybil era ancora scossa, ma si incamminò verso il caffè dove trovò Harry che l’aspettava. Si sedette chiedendo un the caldo, e abbassò la testa.

“Allora?!” chiese Harry con impazienza.

“Meno del previsto…ma è sempre troppo”

Harry era visibilmente arrabbiato con sé stesso prima che con altri. Stava per dire qualcosa, ma Cybil non lo fece parlare.

“Harry, non possiamo fare diversamente.”

Il cameriere appoggiò la tazza di the fumante sul tavolo…

 

“Avete chiesto aiuto alla mafia cinese?!”

Cybil abbassò lo sguardo. “Non è che ne vada fiera. Ma a quel punto non sapevamo cosa fare! Tuo padre aveva perso ogni contatto con la sua vita precedente, e fu dichiarato morto nella sua città d’origine. Tu non saresti dovuta esistere neanche, e al tuo posto una bambina di sette anni era scomparsa nel nulla. Io ero l’unica che poteva avere contatti con il mondo esterno, e tuttavia fui presa per matta nella mia città, e si erano già messi sulle mie tracce per cercare di capire se fossi l’unica sopravvissuta o se nascondevo qualcuno con me. Quindi anche io fui costretta a cambiare vita! Dovevamo essere sicuri che nessuno potesse mai arrivare a te.

Commettemmo solo un errore: tuo padre diede a te lo stesso nome che aveva dato a sua figlia. Ti chiamò di nuovo Cheryl.”

Detto questo, la donna tacque. Cheryl si domandò a cosa stesse mai pensando in quel momento. Ma una cosa l’aveva finalmente capita: quella donna, in passato, aveva fatto di tutto per proteggere lei e suo padre, mettendo a rischio la sua stessa vita. Doveva pur significare qualcosa.

Quindi la domanda era d’obbligo…

“…e la felicità?”

Cybil si voltò meravigliata. Non capiva di che stava parlando, l’aveva colta completamente alla sprovvista, forse per la prima volta da quando avevano cominciato a parlare. Cheryl se ne accorse.

“Prima hai detto che fu un periodo disastroso e al tempo stesso felice…e la felicità qual era?”

L’espressione di Cybil non mutò minimamente. Una lacrima fece capolino da un occhio, modificando la traiettoria della luce, facendola tremare visibilmente. Infine sorrise, prima di rispondere alla domanda.

“Tu eri la nostra felicità, Cheryl.”

La ragazza non cambiò espressione, ma il suo cuore sussultò.

“In quel periodo cominciasti a parlare, a camminare, a ridere, a giocare. Potevo vedere Harry riprendere colorito, quando tu gli mettevi le manine sul viso sorridendo, e quando eri tra le mie braccia…io…”

Non continuò. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Spostò lo sguardo, puntandolo verso la finestra, guardando l’esterno. Voci e rumori arrivavano dalla strada, e nel cortile si potevano udire le strilla di qualche bambino che giocava. Ma tutto questo non riusciva a rompere quel meraviglioso silenzio, in cui i cuori di entrambe battevano con lo stesso ritmo, anche se nessuna delle due lo poteva percepire.

“Quel periodo fu per me il più felice della mia vita: sentivo di aver creato in qualche modo una famiglia. In un modo non convenzionale, è vero, ma sentivo che era ugualmente perfetto!”

Quando Cybil si voltò, incrociò gli occhi severi di Cheryl, che la fissavano intensamente. Non batteva le palpebre, i suoi occhi non si spostavano di un millimetro, e teneva le mascelle serrate. Ma Cybil non smise di sorridere; un po’ se l’aspettava in fondo.

“Credo che tu voglia sentire il resto della storia, vero?”

Cheryl tacque…

 

“e ora la cronaca.

Ancora nessuna notizia riguardo l’incendio che ha colpito l’archivio di Silent Hill la notte scorsa. Gli investigatori seguono la pista dell’incendio doloso, forse di stampo mafioso. Vediamo il servizio di Dennis Connor.”

La luce artificiale del televisore le illuminava il viso e gli occhi lucidi. Sedeva rigidamente su un divano, al buio, e ascoltava attentamente la giornalista che spiegava le cause dell’incendio e tutti i dati di censimento persi nel rogo. Non si mosse neanche con il rumore della tazza poggiata sul tavolino di fianco a lei. Harry le sedette a fianco, seguendo a sua volta le immagini della stanza nera di cenere e fumo, in cui i pezzi di carta carbonizzata erano sparsi ovunque. Poi si voltò a guardare il viso della ragazza, illuminato dallo schermo.

Aveva un’espressione strana in volto. Era accigliata, ma non sembrava arrabbiata, piuttosto malinconica. Batteva raramente le palpebre e quando lo faceva i movimenti erano lenti sembravano quasi stanchi. I muscoli erano quasi tutti rilassati, ma permeavano ugualmente l’ansia e il senso di colpa.

Harry riprese a guardare il video. “Cybil…”

Il discorso morì in gola. Rimase solo quel nome appeso tra i rumori emessi dal televisore.

“Grazie”

Quando Cybil si voltò i suoi occhi erano carichi di lacrime, ma la sua espressione non era mutata minimamente. Appoggiò la fronte sulla spalla dell’uomo, rannicchiandosi sul suo petto, e costringendolo ad abbracciarla. Poi, quando il viso fu completamente nascosto, lentamente si abbandonò al pianto, lasciandosi scappare dei singhiozzi sommessi, e stringendo con la mano la sua maglietta.

Restarono così anche quando il notiziario finì.

 

Domando perdono per l’immenso ritardo. Purtroppo ultimamente mi trovo sommerso, e ho poco tempo in generale. In ogni caso vi lascio questo nuovo capitolo, sperando che vi piaccia

 

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Capitolo 7
*** Ti proteggerò sempre ***


PageBreeze

Le assomigli sempre di più. Hai il suo stesso nome, ma non puoi essere tu, vero?! Sono cinque anni che me lo ripeto. Il tuo faccino si volta, e incrocio i tuoi occhi, grandi, profondi, sembrano due nocciole. Mi sorridi, e mi chiami, agitando le tue manine per cercare il mio abbraccio. Sei ancora nuda per il bagno, ma sembra non interessarti minimamente. Vuoi solo un mio abbraccio.

Sorrido anch’io finalmente, abbandonando del tutto quei pensieri.

“Aspetta, fatti prima mettere il vestitino”

Ti agiti ancora, e cominci a ridere con la tua voce angelica. Poi ti sporgi ancora di più, e finalmente ottieni ciò che volevi.

“Papà” mi ripeti mentre strofini il faccino sul mio petto. “Sei un papà bellissimo”

Ti accarezzo la testa, stringendoti forte.

piccola mia

 

 

Correvo disperato.

La notte si allontanava alle mie spalle e i boati delle esplosioni diventavano sempre più flebili. Le lacrime mi offuscavano la vista e non riuscivo a vedere bene incontro a cosa stavo correndo. Ma correvo sicuro, senza mai fermarmi. Quel fagottino di stracci lo tenevo stretto al mio petto. Era un neonato, ma stranamente non piangeva, non strillava, non un suono usciva da quelle fasce. Ma io correvo, sicuro del potere che mi stava proteggendo.

Stupido, stupido, stupido! Smetti di piangere. Andrai a sbattere, potresti inciampare! Hai un bambino tra le tue braccia, devi proteggerlo.

La vista annebbiata colse un cambiamento nell’aria. Sembrava schiarire, e la sentivo più leggera, più fresca. Sentivo il vento! Oddio, sentivo il vento! Che sensazione meravigliosa. Sentivo l’ossigeno penetrare violentemente le mie narici, e inondare i miei polmoni, rinfrescandoli. Dopo ore di aria pesante, di odori marci, di sangue e pus, di fetori di ruggine e di medicinali, ora finalmente sentivo la brezza soffiare tra i miei capelli, sul mio viso e rinfrescare le narici e la bocca.

Istintivamente mi fermai, sentivo pervadermi da una debolezza improvvisa. Così, caddi sulle ginocchia, tenendo sempre stretto a me il neonato. Respiravo a fatica a causa della lunga corsa, e prendevo delle grandi boccate, affamato com’ero di quell’aria così agognata. Mi voltai, cercando con gli occhi il luogo buio e cadente che avevo abbandonato. Ma non ve n’era traccia.

Dietro di me un’altra persona stava correndo. Sorrisi.

Ce l’aveva fatta anche lei

 

 

La presi in braccio, e mi avvicinai allo specchio.

“Guarda quant’è bella la mia piccola!” dissi con tono gioioso. “Questa vestina ti fa sembrare una piccola principessina!”

Lei si guardava compiaciuta, e batteva leggermente le mani. La feci sedere a terra, e lei continuava a guardarsi allo specchio. Le diedi un bacio sulla testa.

Così piccola, così innocente

Come ho fatto anche solo a pensarlo?!

No, non ti abbandonerò mai.

Ti proteggerò sempre.

Tu sei la mia piccola.

La mia piccola Cheryl.

 

 

Intorno a me c’era la nebbia.

Possibile?! Non sono ancora riuscito a fuggire?!

No, era diverso questa volta.

Era una nebbiolina leggera, umida, che non impediva allo sguardo di arrivare lontano.

Riconobbi poco distante da me il lago, e all’orizzontesi, non mi sbagliavo

Era il sole! Era una magnifica alba, e i raggi tingevano d’oro ogni cosa, mi abbagliavano, e mi tranquillizzavano. Ogni tanto sentivo delle folate di vento che rinfrescavano l’aria e spazzavano via le foglie. Era un’atmosfera così tranquilla. Mi sentivo svuotato all’improvviso, e tutta la tensione era sparita. Lentamente i muscoli si rilassavano e l’adrenalina si disperdeva dentro di me, lasciando solo vuoto e stanchezza. Volevo solo godermi appieno quella sensazione, inspirare quell’aria così pulita, così fresca, e sentire il vento asciugare le lacrime sulle mie guance.

Il movimento tra le mie braccia mi riportò alla realtà. La sentii piangere finalmente, cacciando dei gemiti soffocati. La sollevai dal mio petto, fino a incrociare i suoi occhi imbronciati.

Quando i suoi occhi chiari incontrarono i miei, smise di piangere, come se mi avesse riconosciuto. No, ero troppo suggestionabile in quel momento. Smise semplicemente di piangere

Ma tu

 

 

“Chi sei?”

Eh?! Maera stata lei a parlare?

Mi affacciai dalla cucina, e vidi solo Cheryl che ancora si ammirava davanti allo specchio. Sembrava tutto normale, e non c’era niente di strano. Mahforse me l’ero immaginato. Per cui tornai a preparare il pranzo.

“Mi dici chi sei?”

No, non mi ero sbagliato. Posai il coltello e corsi verso la bambina. La trovai con una mano poggiata allo specchio, mentre guardava la sua immagine riflessa con fare curioso.

Spaventato, la presi in braccio rapidamente.

“Cheryl! Cheryl Con chi stai parlando piccola mia?”

Lei mi guardava confusa e un po’ spaventata. Ma io non ci feci caso subito.

“Dimmelo, Cheryl. Dimmi con chi stavi parlando”

Lei indicò lo specchio. Mi voltai di scatto, ma tutto quello che vidi fu la mia immagine terrorizzata che teneva in braccio la bambina. Tornai a guardare Cheryl.

“Chi è quella bambina uguale a me, papà?”

Chissà che faccia devo aver fatto

Scusami piccola. Ti ho fatto paura, vero?! Ho fatto paura alla mia piccola Cheryl. Dannazione. Quell’incubo non va più via. Eppure sono già passati cinque anni

No, non credo che il tempo possa cancellare ciò che è stato. Tu, piccola mia, sarai sempre più simile a lei, lo so. La maledizione mi tormenterà per tutta la vita, e io dovrò lottare ogni giorno, farmi forza sempre di più, per non cedere alla pazzia, alla vista del tuo viso così uguale al suo.

Tu sei la mia piccola meravigliosa maledizione

 

 

Ricominciare costava.

Costava in tutti i sensi: costava fatica, costava delle perdite, costava anche del denaro. Ma era necessario. Una bambina sparita, una neonata comparsa dal nulla, e un’assurda storia di incubi e terrore, sangue e ruggine, demoni e mostri come unica spiegazione. Una storia a cui pochi avrebbero creduto.

Ti guardavo, nella tua culla. Dormivi beata, immobile.

Chi sei?

Ti guardavo mentre la mia mente vagava verso la piccola Cheryl, la bambina che tanto avevo amato e che ora avevo perso. Eri forse tu?

Per quanto mi fossi sforzato a cercarla, anche se mi ero spinto fin nelle profondità più recondite dell’inferno stesso per riportarla a casa sana e salva, di lei non c’era più nessuna traccia. “Tornata al suo io originario” era l’unica spiegazione che avevo.

E allora perché la cercavo in te?

 

Ma eri davvero tu?

 

Mi ritrovai con una mano sul suo piccolo petto.

Certo che non potevi essere la mia dolce Cheryl. Ma io credevo che lo fossi. Io volevo che lo fossi.

E se

ma che vado a pensare

Accidenti!

eppure

potresti essere davvero tu

Ma se invece tu fossi quell’altra?

Se tu fossi Alessa?!

Saresti la donna che me l’ha portata via

 

Mi svegliai dai miei pensieri sussultando. Mi accorsi che la mia mano era salita fino a stringerle il collo. Il suo minuscolo collo stava tutto dentro la mia mano. Il terrore a cui ero abituato mi aveva reso talmente tanto pazzo?

“Harry

 

 

 Stavo scrivendo. Una cosa buona che quell’incubo tremendo aveva lasciato in me era proprio la capacità di creare storie dell’orrore che piacevano molto al pubblico. Chissà, forse era il mio modo di esorcizzare quei ricordi, cercare di rinchiuderli dentro alle storie che inventavo, di sigillarli all’interno di quelle pagine. Ammetto che serviva a poco.

La piccola era per terra vicino al tavolo dove ero seduto, e giocava con una bambola. Mi concessi una pausa, dedicandogliela completamente: la osservai a fondo mentre ne afferrava un’altra e inscenava un piccolo dialogo fra le due.

“No” disse sforzando un po’ la voce, per cercare di assomigliare a un adulto. “Questa cosa non si fa!” e così dicendo lanciò una delle due bambole alle sue spalle. Solo allora mi accorsi che ce n’era una terza più piccola delle altre stesa al suolo. In quel momento la afferrò tenendola davanti alla prima, quella che doveva essere l’adulto della situazione. Le costrinse in un abbraccio. “Stai tranquillanessuno più ti dirà quelle cose cattive”

Rimasi un po’ perplesso da quella scenetta, ma lei all’improvviso scoppiò a ridere di gusto, con la sua risata innocente e angelica. Sorrisi a mia volta.

Sarei tornato a scrivere, ma sentii quei colpi alla porta. Era presto, non poteva certo essere lei

Mi alzai per andare a controllare. Un grosso difetto di quell’appartamento era proprio l’assenza di uno spioncino. Ma chissà, forse avrei aperto lo stesso

Il colpo mi sbilanciò, e caddi a terra rovinosamente, sbattendo con la schiena. Mi rialzai a guardarlo: cercavo di riconoscerlo, ma sembrava ch’io non l’avessi mai visto prima. Aveva lo sguardo fermo e risoluto, e mi guardava facendo trapelare una rabbia e un odio profondo.

Mi rialzai con un po’ di fatica. “Chi sei?” gridai forte, forse sperando che qualcuno del vicinato si affacciasse per aiutarmi.

Lui si avvicinò velocemente. Non fui in grado di capire, a causa della rapidità dell’azione. Sentii solo quel dolore lancinante alla pancia.

Per un attimo avvicinò la sua bocca al mio orecchio. Sentii un sussurro: “Sono venuto a riprendere ciò che è nostro”

Poi i sensi si offuscarono. Caddi di nuovo a terra, toccandomi il punto dolorante.

Ne sentivo il caldo. Lo riconoscevo. Si, mi ricordavo bene il calore, l’odore.

Era sangue.

Colava copiosamente tra le mie dita. Guardai verso quell’uomo. Aveva un coltello fra le mani. Ed era tutto insanguinato. Poi lo vidi allontanarsi, all’interno del mio appartamento. Sentii le urla di Cheryl

 

Cheryl!

 

 

“Harryche stai facendo?”

Non staccava gli occhi dalla bambina, e dalla mano che stava stretta intorno al suo collo.

“Non capisciquesta bambina…è lei

me l’hanno portata via

me l’ha portata via lei

È colpa sua se Cheryl non c’è più!”

…è una bambina Harry! Lei non ha colpe”

È il demonio!

E io non dovrei lasciarla vivere!”

Il suo polso fu afferrato da una mano con una presa forte

“Vuoi ammazzare una bambina, Harry?”

“Ho già ucciso per colpa sua!”

“Erano mostri Harry”

“Anche lei lo è!”

Copiose, le lacrime scendevano lungo le guance dell’uomo, che aveva preso a tremare. La rabbia si era impossessato di lui, eppure qualcosa lo tratteneva ancora dall’eseguire il macabro gesto che avrebbe posto fine a una vita inspiegabile.

La bambina spalancò gli occhi. Con il passare del tempo il colore delle iridi era cambiato, diventando più scuro e assumendo un colore castano intenso. È incredibile quanto velocemente mutino i bambini, e crescano, e siano ogni giorno diversi dal giorno passato.

I due sguardi si incrociarono: quello innocente, privo di emozioni, e quello caldo in cui lacrime e sangue si incrociavano.

Sbadigliò rumorosamente, contorcendosi e costringendo Harry a mollare la presa e ritirare la sua mano.

“Guardala Harrynon è nessuna delle due!

È solo una bambina che ha bisogno di una famiglia

L’uomo si inginocchiò davanti alla culla appoggiando il viso tra le sbarre metalliche, e continuando a guardare la creaturina che accennava un pianto leggero continuando a muoversi tra le lenzuola.

“Mi dispiace

 

 

“Sono venuto a riprendere ciò che è nostro”

 

Quello era

no! Non è possibile!

Cheryl gridava, e la sentivo avvicinarsi.

Era venuta a prenderla!

No! Non di nuovo!

non la toccare

Non ne hai il diritto, bastardo

lasciala andare

Non te lo permetto

 

Mi avventai su di lui, usando la mia disperazione come inaspettata forza. Penso che lui non si aspettasse una tale furia, tant’è che, sbilanciato, cadde a terra insieme a me e Cheryl. Gli fui addosso, ma potevo fare ben poco in quelle condizioni, infatti in breve la situazione venne capovolta, e me lo ritrovai sopra, con le sue mani serrate intorno al mio collo.

I suoi occhi trasmettevano una furia indescrivibile. Folle. Solo così potevo chiamarlo. Era semplicemente un folle. Come lo era Dahlia.

Pensai di essere morto. Ma non potevo abbandonare la mia piccola Cheryl, no, non dopo aver visto l’inferno per lei. Tastai con le mani ovunque, cercando qualsiasi cosa che avrebbe potuto far allentare la presa di quella morsa micidiale. Non respiravo già da qualche secondo, e riuscivo ad emanare solo dei rantoli sommessi. Toccai con la mano qualcosa di metallico. Era unapistola?! Doveva essere caduta a quell’uomo durante la colluttazione.

La mancanza d’aria cominciava ad offuscarmi la vista, non avevo più tempo di pensare, non avevo più tempo di cercare altre soluzioni. La puntai a casaccio e poi

 

Ci sentivo molto poco. Non ricordavo che un proiettile esplodesse con quella forza. Mi fischiavano le orecchie, ma sentivo che a poco a poco tornavo a respirare liberamente.

Cheryl era dietro di me e piangeva.

Povera piccola.

Non piangere.

Lasciai la presa sulla pistola, facendola cadere a terra con un tonfo. Poi, con un enorme sforzo, scostai l’uomo liberandomi il petto, in modo da riuscire a respirare meglio.

Cheryl

La bambina si avvicinò piangente. Me la ritrovai davanti con il suo faccino delicato imbrattato leggermente dal sangue di quell’uomo, che era schizzato via per il colpo.

No, piccolina mia. Il tuo viso angelico non può essere deturpato in questo modo

Avvicinai la mia mano alla sua guancia, cercando di pulire quella macchia così inappropriata, ma anche se riuscii a portare via il sangue di quell’uomo, ben presto la sporcai con il mio.

Cominciai a piangere anch’io, ma dovevo farmi forza.

“Piccola mia

Riuscivo a parlare solo con un grande sforzo, e ciò che usciva era una voce strascicata e debole. Ma volli continuare.

non devipiangereil tuoil tuo papà…ti proteggerà…sempre

Sortii l’effetto contrario, e il mio tesoro scoppiò in un pianto incontrollabile appoggiandosi al mio petto.

L’abbracciai, e così ci trovarono le persone che accorsero, allertate dallo sparo

 

 

L’ospedale carcerario non era affatto un bel posto per una bambina. Ma acconsentirono a farla rimanere con me. Il merito chiaramente fu proprio della piccola e della sua insistenza. “Il mio papà non lo lascio!” esclamava quando cercavano di spiegarle la situazione e di portarla in un istituto come momentaneo alloggio. Anche io mi opponevo, ma la ferita rendeva tutto più difficile. Persino quando lei si aggrappava a me per far capire che non mi avrebbe abbandonato facilmente, sentivo un dolore lancinante. Resistevo a mala pena dal chiederle di lasciarmi.

Quell’uomo era morto, per cui ero stato accusato di omicidio e ora mi stavano ricucendo in attesa del processo. Ma era meglio del previsto, quasi tutti avevano compreso la mia situazione, e qualcuno mi disse anche di stare tranquillo, perché era palese il pericolo che avevo corso, e che si trattava quindi di legittima difesa.

Non avevo un avvocato, non conoscevo nessuno. Era il prezzo da pagare per la vita della piccola Cheryl, il prezzo per poter ricominciare. Ma era servito a poco. Mi avevano trovato, e ora Cheryl era in grave pericolo, e di certo non potevo raccontarne il perché.

Passai parecchie notti insonne, e vegliavo sul sonno della mia bambina senza chiudere un occhio o accusare alcuna stanchezza. Il giorno riuscivo a riposare solo poche ore, quando sapevo che Cheryl era al sicuro sotto lo sguardo dei poliziotti e dei medici.

Sentivo la stanchezza accumularsi sotto i miei occhi, e per questo motivo le mie ferite guarirono ancor più lentamente.

 

 

“Heather?!”

Non so come scelsi quel nome. Dovevo averlo sentito di recente, ma non ricordavo affatto dove.

La bambina dal giorno dell’aggressione non era più la stessa. Sorrideva sempre di meno, e spesso la trovavo fissa a guardare tristemente la sua immagine allo specchio, accarezzandosi i capelli, che diventavano sempre più lunghi. Erano bellissimi, neri lucenti, e a lei erano sempre piaciuti. Ma adesso li guardava con una strana espressione

“Perché mi vuoi chiamare così?”

Perché tu non sei lei, piccola mia. Non sei la mia Cheryl

Cheryl non tornerà!

Ma, si sa, agli adulti piace tanto mentire, raccontare storie che faranno stare meglio sé stessi, ingannandosi e dicendo che lo fanno per gli altri. E specialmente ai bambini raccontano tante storie diverse, piccole meravigliose bugie a cui vorrebbero poter credere loro, disincantati dal tempo e da un’innocenza irrimediabilmente macchiata

…è un gioco, piccola mia…è solo un giocoe noi due dobbiamo giocare, e dobbiamo rispettare le regole di questo gioco

 

Nel frattempo avevo raccolto tutto, e quella casa ora era piena di scatoloni e valigie all’ingresso e vuota nel resto delle stanze. Lei stringeva la bambola al petto, osservandomi attentamente, mentre spostavo le ultime cose.

“Dove andiamo papà?”

 

 

 

 

La realtà è che questa potrebbe essere quasi un’altra storia, ma facendo bene i conti ci sta abbastanza bene, a parere mio. Chiaramente si tratta di una pausa, in cui do più spazio al nostro amato Harry considerando che fino ad ora, in questa storia è stato visto solo dall’esterno, e si ricollegherà al racconto di Cybil nel prossimo capitolo.

Quindi a presto!

Ps: ho voluto usare uno stile di scrittura che rispecchiasse i pensieri "macchiati" di Harry, e il fatto che sia una storia a parte, che sporca il filone che stava seguendo.

Grazie a chi legge, segue e commenta

 

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Capitolo 8
*** Anche questo è colpa tua ***


PageBreeze

Stava in silenzio da qualche minuto, ormai. All’improvviso le si era rotta la voce, era uscito un suono strozzato, poi più niente. Portò la mano alla bocca tenendo l’indice sotto le narici, che cacciavano aria con ritmo irregolare, in un gesto istintuale. Costringeva il suo corpo a trattenere le lacrime, ma gli occhi lucidi tradivano il suo tentativo di nascondere delle emozioni forti.

Cheryl la guardava in silenzio. Di quelle emozioni riusciva a coglierne solo una eco distorta, eppure bastava a farle capire quanto a fondo quella donna era legata al suo defunto padre. Quanto gli voleva bene.

Cybil prese un respiro profondo, ricacciando dentro ossigeno e lacrime, come se dall’aria fosse in grado di recuperare autocontrollo, calma e coraggio. Riaprì gli occhi, puntandoli direttamente verso la sua interlocutrice, fissandola a fondo, quasi a cercare qualcosa che potesse interessarle, o che potesse aiutarla, non sarebbe stata in grado di spiegarlo.

“Scusa”

Esordì con quella parola. Come se fosse un errore banale, come se fosse una cosa che non andava fatta. Come se non avesse diritto a provare quelle emozioni.

Cheryl non rispose. Non si mosse affatto, non ebbe reazioni apparenti. Si limitò a ricambiare quello sguardo con la stessa intensità. Sembrava volesse lasciar correre completamente quel momento, senza dargli importanza. Ma il suo cuore non era dello stesso avviso, e prese a battere freneticamente, ingrossandole il respiro e facendole provare delle strane sensazioni, come se improvvisamente il suo costato fosse divenuto completamente vuoto e la pelle elettrizzata, ruvida, fredda.

“…quando tornai a casa quel giorno trovai tutto ordinato. Tutto troppo ordinato. Nella stanza in cui dormivamo tutti e tre l’armadio era aperto, e tutto ciò che era rimasto erano i miei vestiti. Nelle altre stanze invece nulla era stato toccato, o forse fui io a non accorgermi di nulla, non saprei dirlo. Dopo qualche secondo da quando ero entrata in casa avevo già capito tutto, ma ci volle molto più tempo a convincermi che eravate andati via.”

Cheryl rimase interdetta.

“Quanto tempo?”

Che domanda stupida. Come l’era venuto in mente di chiedere una cosa simile?!

 

Stava seduta sul letto, completamente vestita, con le ginocchia raccolte sul petto. Erano già tre ore che non si muoveva e non parlava e non faceva niente se non stare ferma, seduta al centro del letto. Involontariamente le lacrime avevano rigato il suo volto scendendo fino agli angoli della bocca e al mento, bagnando anche il pantalone e la maglietta che aveva indosso. Ma non stava piangendo. Non nel senso comune almeno. Aveva solo lasciato che il suo corpo reagisse come meglio riteneva opportuno il cervello, centro di controllo di ogni molecola che circolava nelle vene, nei polmoni, nel cuore, nel fegato, nella trachea, ovunque nel suo corpo. E gli occhi arrossati avevano un evidente bisogno di idratazione. Ma Cybil non pensava affatto alle lacrime o al fatto che le sue braccia tremassero. Si era messa lì, ad aspettare. Non avrebbe cenato senza Harry e la piccola Cheryl. Quindi avrebbe atteso il loro ritorno. Perché era così, erano solo usciti a fare un giro. Già, Harry era chiuso in casa da troppo tempo per potersi rimettere in fretta, e aveva bisogno di aria fresca. Quindi era sceso portando con se la piccola per non lasciarla sola in casa. E i vestiti…non gli piacevano più, voleva comprare altri vestiti. Voleva rinnovare il suo guardaroba, si!

Era così. Se aspettava un altro po’ li avrebbe sentiti presto rientrare.

Forse era passato davanti al ristorante cinese e voleva prendere la cena da asporto.

Voleva farle una sorpresa così che non avrebbe dovuto cucinare anche quella sera.

Che stupido che era. A lei piaceva cucinare per lui e per quella piccola creatura. Faceva del suo meglio, anche se doveva ammettere che non sempre riusciva a preparare dei piatti prelibati.

Era così. Doveva essere così.

Per cui avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato tutto il tempo, finché non avesse sentito la porta d’ingresso aprirsi con rumore sordo. Aspettò su quel letto tutta la notte. Invano.

Alle tre del mattino il suo cuore cominciò a sussultare più forte. I raggi lunari illuminavano a mala pena la stanza che si era tinta di un blu innaturale. Il buio permetteva agli oggetti di restituire solo quel colore. Il viso di Cybil era rimasto nell’ombra più totale, e tutta la sua figura si stagliava sul muro di fronte a lei, nitida in una zona chiara di luce che proveniva dalla finestra alle sue spalle.

La porta era rimasta aperta, ma tutto quello che entrava era il silenzio assoluto, rotto solo da un orologio che la ragazza non ricordava nemmeno di avere.

Gli occhi erano rimasti spalancati per tutto il tempo, non avrebbe saputo dire se aveva battuto le palpebre in tutto quel tempo o no. Ma avevano smesso di lacrimare e ora che il volto si era asciugato avvertiva fastidio alle guance, nei punti in cui le lacrime erano passate ed era rimasto solo il sale sulla pelle. Tirò su con il naso, sentendolo fastidiosamente ingombrato dai muchi, ma non fece altro. Continuò ad attendere, ad attendere che la sua mente accettasse la realtà. Si domandava perché, pensò a tutte le possibili risposte che le vorticavano in testa; molte di queste la vedevano come un ingombro, come un fastidio, come un qualcosa da cui scappare. Pensò che forse era andato via perché non era stato in grado di proteggerlo, e che quindi avrebbe continuato da solo. O forse che avrebbe dovuto stargli più vicino all’ospedale, invece di cercare informazioni sul colpevole, e di cercare un avvocato per il processo.

Pensò a lungo, e si rese quindi conto che la sua mente non era più sotto shock. A quel punto, presa di nuovo coscienza di sé stessa, sentì la debolezza assalirle la schiena, e si abbandonò completamente distesa sul letto. Chiuse gli occhi…

 

Quando li riaprì la luce nella stanza era strana, innaturale. Tutto era tinto di rosso, le pareti, il pavimento, il soffitto, come se fosse coperto di sangue. Si alzò a sedere sul letto, sentendo un fastidioso cigolare; anche le lenzuola erano bagnate dallo stesso colore, e le ombre, che prima apparivano come delle macchie blu su uno sfondo chiaro, ora si stagliavano nere sul muro e sul pavimento, ben definite, come se un’unica luce rossa puntasse insistentemente in una sola direzione.

Si voltò in ogni direzione. Notò che l’armadio era chiuso…eppure avrebbe giurato di averlo lasciato aperto.

Si alzò, e sentì la sua testa pesante, che le impediva di stare in piedi senza sentirsi girare come in una grossa centrifuga. Per questo si appoggiò al comodino.

…che strano! Sul comodino c’era la pistola!

Il cuore prese a batterle velocemente. Non le piaceva affatto ciò che stava vedendo. Costrinse sé stessa a riprendersi velocemente, e, con sforzo attutito dall’adrenalina, si rimise in piedi dirigendosi verso la porta aperta.

L’altra stanza era in condizioni peggiori.

Il sangue era schizzato ovunque, e tutti i mobili erano impregnati. Le pareti erano imbrattate e forate in alcuni punti, come se fosse avvenuta una sparatoria.

In un angolo vide un cavallo. Era uno di quei cavalli di plastica per le giostre, con tanto di asta che fuoriusciva dalla sella e dalla pancia. Ma coperto di sangue in quel modo sembrava vero. Ne scorse altri due poco lontani, uno al bordo di uno strano cerchio che sembrava fatto con un gesso nero, e che scorreva perfettamente circolare su tutta la stanza, incrociando il divano e il mobiletto con i liquori, di cui rimanevano solo cocci di vetro vuoti. Al centro del cerchio e della stanza, giaceva esanime un corpo. Il corpo di una donna, crivellato di colpi di pistola, riversa supina sul pavimento. Dalla sua bocca il liquido denso colava copiosamente, e i suoi occhi rossi erano rimasti aperti. Non riusciva a distinguere il colore dei capelli, ma la sua camicia doveva essere originariamente azzurra, nonostante le macchie e gli strappi distorcessero la visione.

C’era troppo sangue per essere quello di una persona sola.

Quel liquido aveva vestito completamente il corpo della donna, ed era colato lungo le gambe e sul pavimento come la stoffa di una gonna che si sparge candida al suolo.

D’un tratto sentì un suono. Il pianto sommesso di qualcuno. Dapprima era come un rumore debole, che si confondeva con il suo affanno, poi si era fatto sempre più intenso, e ora poteva sentirlo nitidamente. Era il pianto di un uomo, ma in quella stanza non c’era nessuno, a parte la figura pietrificata di Cybil e il cadavere sanguinolento.

Respirava a fatica ormai, e sentiva l’aria tutt’attorno farsi sempre più pesante da respirare. Quel pianto non accennava a diminuire, sembrava che la disperazione di quell’uomo non avesse più un limite. Come se gli fosse successo qualcosa di tremendo, o come se avesse fatto qualcosa di imperdonabile. Il lamento penetrava le sue orecchie con forza, ma per quanto si sforzasse di cercare, non ne trovava l’origine.

Poi, all’improvviso, tutto sparì ai suoi occhi. Il corpo, i cavalli di plastica, il sangue, il lamento, tutto sparì e lei rimase come appena risvegliata da un sogno.

Le pareti di quella stanza erano ancora tinte di rosso, ma si capiva che era l’effetto di un’alba particolarmente intensa.

Si guardò attorno ancora stupita. Ogni traccia di quell’incubo era sparita completamente…

 

“All’inizio non capivo quei sogni, quelle visioni. Erano scollegate in tutto, nelle ore, nei giorni, negli stati d’animo. L’unica cosa che le collegava sembrava essere Silent Hill e tutto ciò che avevamo vissuto in quell’inferno, ma Harry non mi aveva mai parlato di incubi simili. Solo più avanti ipotizzai che…”

Ma non finì la frase. I tonfi alla porta l’avevano interrotta, e avevano catturato l’attenzione delle due ragazze. Così Cheryl, svogliatamente, si alzò dalla sedia e andò ad aprire la porta.

Sulla soglia si presentò Douglas, con il suo impermeabile e un bastone su cui si appoggiava per non sforzare troppo la sua gamba malridotta.

Stava meglio, si vedeva dal viso e dal fatto che aveva ripreso a sorridere. Salutò Cheryl facendo attenzione a chiamarla col suo vero nome, e poi diresse lo sguardo in direzione di Cybil. Lei rispose sorridendo.

“Sono passato a vedere come state” disse con la sua voce roca ma meno strascicata di quando lui e Cybil si erano incontrati per la prima volta la mattina.

Cheryl aggrottò le sopracciglia.

“Cybil mi stava raccontando di quando io e papà ci siamo trasferiti” disse senza mezzi termini, con un tono di voce che trasmetteva quasi il fastidio per l’interruzione, nonostante le facesse piacere rivederlo.

Douglas sembrò quasi stupito. Con un gesto eloquente, guardò l’orologio che teneva al polso.

“Ma avete mangiato almeno?! Sono quasi le nove!”

“Le nove?!” Cybil fu stupita di sentire quelle parole. Tra una pausa e un’altra, e con tutto quello che c’era da dire l’intera giornata era passata. Non avvertiva la fame, nonostante non avesse mangiato nulla dalla mattina.

Si voltò a guardare fuori dalla finestra. Solo allora si accorse del leggero imbrunire, che d’estate era talmente lento da passare quasi inosservato. Un rossore pallido si intravedeva dietro ai palazzi che fronteggiavano l’edificio e la luna, piena per tre quarti, si affacciava timidamente dietro una piccola nuvola di passaggio.

“Accidenti, non mi ero resa conto che fosse passato tutto questo tempo. Mi meraviglio che tu non ti sia stancata a sentirmi parlare così a lungo!”

Improvvisamente, sembrava più allegra e spensierata. Il ché sembrava strano per una donna che fino a pochi secondi fa stava raccontando degli incubi che la tormentano e che le impedivano di dormire sonni tranquilli. Cheryl ne fu quasi irritata.

“Agente Car…oh, scusi! Douglas. Le andrebbe di scendere con Cheryl per prendere qualcosa da mangiare, mentre io metto un po’ in ordine?”

Quelle parole stupirono entrambi gli ascoltatori; forse per motivi differenti, ma entrambi furono colti di sorpresa. Ma prima che qualcuno potesse dire qualcosa, Cybil riprese a parlare.

“La prego Douglas…vorrei mettere a posto qui dentro…mi basterebbe mezz’ora”

Cheryl non seguì il discorso e pensava solo alla storia interrotta e al fatto che avrebbe dovuto lasciare una persona in casa sua a mettere a posto la stanza in cui suo padre era morto qualche giorno prima, ma Douglas riuscì a capire la sua vera richiesta. Così prese delicatamente per un braccio Cheryl e cercando di usare un tono rassicurante, tono non usato da troppo tempo, le disse:

“Ha ragione Cheryl. Non possiamo mangiare nel disordine, e mi aiuterai a portare le buste così eviterò di farle cadere.” e tirandola leggermente verso l’esterno dell’appartamento, nonostante la resistenza della ragazza, continuò “Potremmo mangiare italiano! C’è un posto a pochi isolati da qui, non c’è nemmeno bisogno di prendere l’auto!”

Lanciò un ultimo sguardo all’interno della stanza, mentre tirava a sé la porta. Poté intravedere Cybil che sorrideva con uno sguardo riconoscente, ma più malinconico. Poi il rumore sordo della serratura fece sparire tutto.

Cheryl tirò con forza il braccio costringendo Douglas a lasciarla.

“Ma che ti sei messo in testa?! Perché mi hai trascinato fuori? Io voglio sentire il resto della storia! Il cibo lo puoi portare da solo, tanto non ho fame!”

Cercò di sorpassarlo,  ma Douglas rimase davanti a lei.

“Cheryl” Tirò fuori una dolcezza nel tono di voce che non pensava di avere. “Lasciamola sola  per un po’.”

 

Cybil vide la porta chiudersi. Solo allora si accorse di quanto spesse erano le pareti. Non un suono giungeva alle sue orecchie, e sembrava che in quella casa tutto fosse completamente immobile, privo di vita. C’era talmente tanto silenzio che poteva sentire i battiti del suo cuore che aumentavano leggermente. Solo il rumore del vento giungeva alle sue orecchie dalla finestra aperta. L’ora era tarda, e tutti erano nelle proprie abitazioni a mangiare, guardare la televisione, giocare, studiare, fare cose normali.

La donna volse la testa. Cercò un punto specifico. Seguì nuovamente le gocce rossastre sul pavimento che percorrevano la stanza dal balcone alla poltrona.

Gli occhi le tremavano vistosamente, ma non c’era più nessuno che poteva vederli. Lasciò quindi che la tristezza coprisse il suo volto, aggrottandone la fronte e inumidendone gli occhi. Mosse qualche passo incerto. Poteva sentire l’odore del ferro aumentare man mano che si avvicinava.

Pose una mano sulla stoffa ruvida, e lentamente si affacciò oltre la spalliera. Quando l’azzurro delle sue iridi incrociò la crosta marrone maleodorante sul cuscino, le lacrime cominciarono a scendere copiosamente sul viso, e si abbandonò al pianto.

Non aveva avuto l’occasione per piangere, secondo lei. Stupido orgoglio! Non davanti agli altri. Così, anche quando aveva visto la terra calare sul suo corpo, si era trattenuta, e non aveva pianto l’uomo che le aveva salvato la vita. L’uomo di cui si era innamorata…

Si inginocchiò poggiando la testa sul bracciolo e continuando a singhiozzare.

Nella testa giravano tanti pensieri e ricordi, tanti “e se”, tanti progetti traditi, tante immagini, così tanto da darle l’impressione di avere la mente completamente svuotata. Sembrava che fossero rimasti solo lei e quella macchia di sangue putrefatto incrostata sul cuscino di una poltrona. Quell’ultimo odore pungente che era appartenuto a quell’uomo, che ora, semplicemente, non era più.

Poi sentì di nuovo il brivido alla schiena. Aveva imparato a riconoscerlo.

Così si asciugò le lacrime: neanche lei doveva vederla piangere

Avvertì il cambiamento nell’aria

Sorrise con rabbia

“Anche questo è colpa tua!”

 

 

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Capitolo 9
*** Maturità ***


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“Si può sapere perché mi hai trascinato via così?”

Cheryl camminava nervosamente un passo avanti all’investigatore, e gli rivolgeva la parola senza guardarlo, con i pugni serrati. Douglas invece non si scomponeva più di tanto.

“Aveva ragione, no?! Ormai è tardi, avete bisogno di mangiare entrambe, e a te fa bene prendere un po’ d’aria, che non sia quella di casa tua o quella di una cella umida.”

“So io quello che fa bene a me, e ti assicuro che mi farebbe molto bene sapere che cosa è successo a quella donna dodici anni fa.”

L’uomo rallentò per accendere una sigaretta; quando Cheryl se ne accorse si innervosì ancora di più, ma si fermò a sua volta per aspettarlo. Quando fu di nuovo vicino, riprese il discorso.

“Anche quella volta mio padre uccise un dio, o, meglio, quel demone. Ma questo non li ha fermati. E se non li avessi fermati neppure io?! Se tutta questa storia non fosse finita così, se ce ne fossero altri e quella donna fosse in grado di aiutarmi ad eliminarli una volta per tutte?”

“Non credo che possiate farlo proprio stanotte, e in ogni caso ti sconsiglio di provarci a stomaco vuoto. Una volta ho lavorato senza mangiare per ventiquattro ore, e indovina un po’?! Quando mi trovai sul posto, con la pistola nella mano, svenni nel cassonetto dove mi ero nascosto in attesa di arrestare quel tipo. È stata una pessima esperienza…”

“Insomma Douglas, mi vuoi dire perché lo hai fatto?!”

La voce della ragazza si era imposta prepotentemente, e questo fece rabbuiare il viso dell’uomo che la guardò seriamente negli occhi.

Restò immobile in silenzio per qualche secondo, poi con un tono molto più basso disse:

“Credi di essere l’unica ad aver perso qualcuno di molto importante?!”

Cheryl trasalì.

Si voltò per guardarlo negli occhi, quasi offesa, ma nell’incrociare il severo sguardo di rimprovero di Douglas finalmente capì. Cominciò a metabolizzare il racconto di Cybil, estrapolando le informazioni che a primo impatto le erano sembrate secondarie. Harry Mason non era solo suo padre; era prima di tutto un uomo. Un uomo che aveva vissuto qualcosa di unico insieme ad un'altra persona e che, per questo motivo, era rimasto indissolubilmente legato a lei. E Cybil era quella persona.

Era troppo piccola per capire? O forse era…gelosa?!

Gelosia…un esasperato senso di proprietà! Quello era Suo padre, Suo amico, Suo dio. Erano sempre stati solo in due e, si, a volte poteva sembrare una splendida storia d’amore, una di quelle perfette.

Improvvisamente le tornò alla mente un momento della sua infanzia. Erano appena tornati dalla scuola; suo padre andava sempre a prenderla, anche se distava solo poche centinaia di metri da casa, e quando se lo trovò di fronte, in mezzo a una moltitudine di donne che aspettavano gli altri bambini cominciò a riflettere.

“Papà, dov’è la mia mamma?”

La domanda sorprese l’uomo, che interruppe quello che stava facendo. All’epoca Heather aveva 8 anni e gli occhi risplendevano enormi sotto i capelli neri come la pece. Lo guardava con l’innocenza di chi reagisce solo alla curiosità. Harry sorrise, ma alla bambina non sfuggì il nervosismo di quel sorriso tirato.

“Purtroppo la tua mamma è in un posto lontano…”

“E perché non viene mai a trovarci?”

“Oh, lo vorrebbe piccola mia. Lo vorrei anche io, in realtà, ma non può.”

“Come mai?”

Harry sorrise prima di rispondere. È sempre così quando si sta mentendo.

“Perché ci protegge dal posto dov’è!”

Anni dopo Heather trovò le fotografie di Jodie che il padre teneva conservate nella sua scrivania. Per tutto quel tempo pensava che si stesse riferendo alla sua defunta moglie. Da qualche giorno, invece, sapeva come era nata, e credette che le parole del padre fossero per la piccola Alessa, che in qualche modo cercava di proteggere sé stessa e quindi anche lei. Ma ora il dubbio si insinuò di nuovo nella sua testa, e cominciò a credere che dopo tutto quel tempo Harry non avesse dimenticato la giovane Cybil, ed era convinto che la sua testardaggine la spingesse ancora a cercare la verità anche per lui.

Douglas non sapeva leggere la mente, ma riusciva ad interpretare gli sguardi. E ciò che vide sul volto di Cheryl lo rassicurò e gli fece tornare il sorriso sulle labbra. Ripresero a camminare in silenzio, mentre l’oscurità si imponeva sempre di più nelle strade, costringendo i negozianti ad usare la luce artificiale dei neon.

Douglas entrò per davvero in un negozio di cucina italiana. Cheryl non lo aveva mai visto, nonostante abitassero in quella zona da 12 anni ormai. Non si stupì però. Il posto era una topaia, e stava in un vicolo poco illuminato. Aveva solo un cartello all’ingresso che per il resto si presentava come un’anonima porta in vetro con saracinesca alzata. L’insegna recitava “da Giuseppe” e c’era l’immagine di un uomo con una folta barba e un colletto di camicia rossa.

Dentro l’ingresso era separato idealmente dalla sala per mangiare da alcune panche in legno. Il parquet era graffiato in molti punti, e il bancone era uno scarno tavolo lungo su cui era appoggiato il registratore di cassa.

A un tavolo erano seduti due uomini in doppiopetto, e poco più in là un ragazzetto con una camicia bianca con le maniche arrotolate fino al gomito se ne stava sbracato su una sedia fissando i nuovi arrivati, ponendo particolare attenzione alla ragazza che era ancora vestita di nero dalla mattina.

“Ma dove mi hai portato?!” chiese Cheryl a bassa voce, cercando di non attirare troppo l’attenzione.

Douglas dal canto suo si comportava come se nulla fosse, e consigliò alla ragazza di fare altrettanto e di stare tranquilla.

“L’importante qui è il cibo!” concluse consultando un foglio plastificato unto che doveva essere un menu.

Una donna si avviò dietro al bancone da una porta che evidentemente dava alla cucina, e si avvicinò agli ospiti. Portava un vestito che metteva in risalto tutte le sue curve, con le spalle scoperte e una vertiginosa scollatura. Teneva una mano su un fianco e una sul bancone, e in quella posa l’abbondante seno veniva messo ancora più in mostra. Il tutto risultò molto volgare agli occhi della ragazza, mentre Douglas non si scompose e con voce sicura ordinò senza fare una piega.

Cheryl ne approfittò per dare ancora un’occhiata in giro. L’arredamento era molto povero, se non per qualche quadro appeso, ma ogni tavolo aveva una tovaglia bianca e una rosa in un bicchiere al centro, il ché un po’ stonava con l’atmosfera tutt’attorno. Nascosto a prima vista, c’era poi un caminetto. Era chiaramente spento, vista la temperatura, ma a Cheryl sembrò quasi che fosse finto, e fosse stato montato con il solo scopo ornamentale. Magari dentro ci sono delle lampade che fanno l’effetto di una fiamma. Nello spostare lo sguardo dal camino, la ragazza incrociò di nuovo gli occhi del ragazzetto seduto al tavolo. Si accorse solo in quel momento che anche i due uomini avevano smesso di parlare tra di loro per fissare i due.

Cheryl cominciò a innervosirsi, e supplicò con lo sguardo Douglas.

“Andiamo, ci metteremo poco, il tempo di prendere la cena e siamo fuori di qui.”

Ma a Cheryl sembrava sempre troppo.

Uno dei due uomini si alzò e si avvicinò al bancone. Si muoveva disinvolto, quasi come se fosse dentro il salotto di casa.

“Doreen!”

Urlò per attirare l’attenzione della donna che nuovamente si affacciò dalla cucina.

“Il conto per favore. Dobbiamo andare via.”

Doreen non si scompose minimamente, e rispose con voce ferma e sicura.

“Te lo porto al tavolo dolcezza” e rientrò lasciando volteggiare la porta a vento più volte.

L’uomo rimase appoggiato al bancone, continuando a fissare i due ospiti, mentre con una mano cercava dietro al registratore di cassa un barattolo in vetro che conteneva delle liquerizie rosse. Cheryl si accorse dello sguardo puntato, mentre Douglas sembrava distratto a leggere qualcosa su di un volantino. Allora si avvicinò di più al detective sperando di attirare la sua attenzione o quantomeno di far capire a quell’uomo che erano insieme, sperando che questo in qualche modo gli facesse distogliere quello sguardo insistente. A quel gesto l’uomo sorrise spavaldo e si rialzò dirigendosi verso il tavolo.

Dopo poco tempo la donna uscì con delle buste fumanti che appoggiò con poca delicatezza sul banco.

“Ecco a te dolcezza”

“Credi che io sia troppo piccola per capire certe cose?”

La domanda balenò dal silenzio più assoluto. Stavano tornando a casa in assoluto silenzio, e Cheryl non aveva nemmeno commentato l’esperienza del ristorante appena vissuta. Poi d’improvviso quelle parole, così fulminee da risultare assai ragionate.

Douglas non rispose immediatamente. Guardò la ragazza che procedeva ora a testa bassa, aspettando una triste verità. Certe domande vengono poste solo per cercare conferma.

Ma il detective sorrise.

“Penso che tu sia dovuta crescere troppo in fretta e che per la tua età sei fin troppo matura. Così hai nascosto una parte della tua infanzia in piccole cose, la paura per gli specchi ad esempio, oppure la tua spontaneità nel trattare le persone. E il legame con tuo padre fa parte della tua infanzia, perciò ti risulta difficile accettare che questo tuo legame non sia puro come pensavi e che qualcun altro possa frapporsi tra quello che c’era tra te e lui. Ma sei anche una persona comprensiva e intelligente, e nonostante la tua indole aggressiva sai riconoscere un tuo errore. Ed è per questo che mi stai facendo questa domanda…non è vero?!”

La ragazza continuò a fissare i suoi passi, senza dire nulla. Sentiva le lacrime agli occhi, ma al tempo stesso quella risposta l’aveva rincuorata. Poi, d’improvviso, alzò la testa con uno scatto, sforzandosi di sorridere.

“Sbrighiamoci…Cybil avrà fame!”

 

Ho deciso, i capitoli saranno più brevi, sperando così di ottenere aggiornamenti in tempi minori. Quindi vi propongo questo nuovo capitolo, chiedendovi come al solito pareri, consigli e commenti vari!

Un grazie a chi legge e a chi commenta

Leo

 

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Capitolo 10
*** Tenebre ***


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Si rigirava tra le lenzuola irrequieta. Era come se quel letto non fosse più il suo, anche se l’aveva ospitata per dodici anni senza mai passare una notte completamente insonne. Eppure ora lo sentiva scomodo, fastidioso, forse troppo morbido, chi lo sa. Ma di una cosa era sicura: quella notte avrebbe chiuso occhio solo se fosse svenuta…un po’ come le tre precedenti!

Quando tornarono a casa ad aspettarli c’era un’arietta fresca che aveva sostituito quasi completamente l’odore di chiuso e di sangue incrostato a cui ormai si erano assuefatti. Tanto che poté notare la leggerezza dei polmoni nel respirare, poteva sentire i tessuti rinvigorire e le vene dilatarsi per accogliere con gioia l’ossigeno.

Cybil era seduta al tavolo con un libro tra le mani. Era un giallo, uno dei romanzi di Sherlock Holmes di Harry, poteva vedere anche il posto vacante sulla libreria. Ma prima che Cheryl potesse dare in escandescenza per aver messo le mani tra i libri del padre, Cybil sorrise e si alzò per accogliere e aiutare i due appena entrati.

Mangiarono a volte in silenzio, altre volte con Cybil che faceva domande a Douglas, per sapere ora questo ora quel dettaglio della sua vita che credeva di aver dimenticato. Si trovò a raccontare di tutto, il figlio, la rapina, il divorzio, il trasferimento, arrivarono a parlare anche della scuola che aveva frequentato da giovane. Si scoprì che i due avevano fatto l’addestramento base nello stesso istituto, ma in reparti diversi; anche se non si erano mai incontrati di persona, avevano molte conoscenze in comune…

In tutto quel tempo Cheryl rimase silenziosa, con la testa sul piatto, mangiando tutto senza dire una parola. Da un lato era estremamente stupita dalla bontà del pasto, reso probabilmente ancor più prelibato dall’assenza prolungata di cibo di qualità nei giorni precedenti. Dall’altro invece aveva capito che per quella sera Cybil non avrebbe raccontato nient’altro di interessante per lei.

Infatti alla fine del pasto, con un gesto eloquente, si stiracchiò sbadigliando.

 

Tsk. Aveva sonno. Come si fa ad avere sonno in una situazione del genere?! E poi si è praticamente autoinvitata a casa mia, e sta dormendo nel letto di mio padre che ha rifatto mentre io neanche ero in casa. Che roba!

Difatti Cybil era nella stanza di Harry, e aveva chiesto in prestito una maglia a Cheryl per dormire. La ragazza acconsentì tacitamente, e si diresse all’armadio per darle uno dei suoi pigiami. Douglas invece sembrò imbarazzato quando disse che sarebbe andato via. Uscì di casa dicendo che sarebbe tornato a trovarle il giorno dopo, e che per qualunque cosa potevano chiamare sul suo cellulare. Lasciò il numero scritto sul comodino all’ingresso, dov’era anche il telefono, e uscì lentamente sorridendo prima di richiudere la porta.

 

Con nervosismo, Cheryl si girò nuovamente stropicciando ulteriormente le lenzuola che la coprivano a malapena. Gli occhi si posarono sul comodino. La sveglia digitale segnava le 3:19; era tardissimo, il giorno dopo non si sarebbe mai alzata ad un orario decente!

Poi guardò qualcos’altro. C’era un libriccino, buttato lì, vicino ad un bicchiere sporco di polvere e calcare. Non lo toccava da tantissimo tempo, eppure le bastò uno sguardo per ricordare il titolo e il punto in cui aveva abbandonato il protagonista.

“Che noia!”

Ancora una volta fece scricchiolare il materasso, e ancora una volta tirò a sé il lenzuolo, questa volta usando troppa foga, fino a scoprire un piede. Sotto le coperte era praticamente nuda, vestita solo di una maglietta neanche troppo larga, che lasciava completamente scoperte le gambe – il suo punto forte, si diceva sempre – ecco perché si ostinava a coprirsi con quel pezzo di stoffa così sottile.

Adesso l’unica cosa che vedeva era il muro, nero per il buio. Si costrinse a tenere gli occhi chiusi, e così restò fino a che non sentì una corrente fresca solleticarle delicatamente il piede scoperto. Era quasi piacevole, anche se cominciava a domandarsi da dove potesse arrivare quell’aria fresca. Non c’erano finestre nella sua stanza, solo quella del bagno, ma la porta era chiusa.

Schiuse delicatamente gli occhi e riuscì a intravedere una spaccatura di luce provenire dalla porta d’ingresso.

“Ma che dia…”

Le ultime parole furono soffocate da una mano…

 

Era nel suo letto. Nonostante avesse cambiato le lenzuola in quella stanza ancora non andava via l’odore di ferro ematico. Lì dentro il corpo era rimasto per troppo tempo, e il materasso era impregnato. Ma oltre a quell’odore sgradevole ce n’era un altro che pure giungeva alle sue narici. Lo riconobbe. Lo riconobbe nell’armadio, tra i suoi vestiti e nelle pagine dei libri che teneva a volte sistemati su delle mensole altre volte sparsi su qualsiasi ripiano.

Quando si racconta una storia d’amore di solito non si sa mai cosa succede dopo. Dopo che i due si sono baciati, dopo che hanno capito d’amarsi alla follia, di essere persi l’uno per l’altro ed esserselo confessato di solito la storia si conclude. Quasi mai si parla di quello che succede dopo. E anche se la storia non è a lieto fine, il loro amore resterà eterno. Ma la realtà è un’altra cosa. L’amore si conclude, lascia spazio ad altri sentimenti, più quotidiani, ad un amore di differente stampo. Oppure si spegne del tutto. O, ancora, diventa malato. Troppo spesso si tramuta in tristezza, in nervosismo. Ma Cybil voleva ricordare comunque la sua storia, la loro storia, fino al momento del loro primo bacio, quando Harry con uno scatto timido si impossessò delle labbra rosse della donna, sorpresa dal gesto improvviso. E voleva fermarsi a quel punto, a quel bacio lungo e dolce, che con lo schiudersi delle labbra faceva fiorire anche la passione dei due. E anche se voleva con tutto il cuore fermarsi smettere di ricostruire il ricordo nella sua mente, non riusciva a dimenticare che quell’amore passionale durò un solo anno. Anno in cui si allontanò da Silent Hill con il corpo e con la mente. Anno in cui Silent Hill si riavvicinò con violenza inaspettata.

 

Guardò il comodino. Su uno dei suoi libri ci aveva appoggiato la pistola. Precauzione, si diceva. In realtà da quando era tornata da quella città non l’aveva mai tenuta a più di un metro di distanza da lei. Se la portava in bagno, in cucina, l’appoggiava sulle gambe quando si sedeva sul divano a guardare la televisione, o sul tavolo, mentre leggeva il giornale sorseggiando una bevanda. Quando era costretta ad andare in banca si sentiva spoglia e insicura, agiva svelta e cercava di andare via il più presto possibile. Spesso era entrata e alla sola vista di una fila di persone troppo lunga aveva abbandonato il posto. In gioielleria non ci entrava più…

Vicino la pistola c’era una sveglia a lancette che segnava quasi le tre e venti. Piuttosto vecchiotta; era proprio lo stile di Harry. Non si era mai rassegnato a vivere senza tecnologia di qualsiasi genere. Il computer era un obbligo, non gli permettevano più di presentare dei manoscritti. Ma lo usava solo per scrivere.

Già…se Harry usava il computer solo per scrivere magari su c’era qualcosa che avrebbe parlato di Cheryl. Ma si sarebbe sentita a disagio a guardare senza permesso, lo sapeva. Preferiva raccogliere le sue informazioni come già stava facendo. Preferiva sapere solo quello che Cheryl voleva dirle.

 

Un rumore catturò la sua attenzione. Aveva lasciato la porta socchiusa per sentire eventuali spostamenti di Cheryl e finora l’aveva sentita rigirarsi nel letto battendo qualche volta con una parte del suo corpo contro il muro sottile che divideva la sua stanza dal soggiorno.

Però quelli sembravano passi. Forse si era alzata, stanca del fatto che non riusciva ad addormentarsi. Forse aveva sete. E se l’avesse raggiunta? Avrebbero chiacchierato un po’, magari sarebbe riuscita a tranquillizzarla. O chissà, col favore delle tenebre e della malinconia che si portava dietro, forse avrebbero parlato di Harry. A lei sarebbe piaciuto molto. Ma da quel po’ che aveva potuto vedere, era quasi sicura che le avrebbe chiesto di continuare la storia anche a quell’ora. Però voleva provare lo stesso.

Si alzò lentamente, facendo scivolare le lenzuola su quel pigiama bianco. Si stava avviando verso la porta, quando un brivido la costrinse a chiudere gli occhi e a muovere il collo in un riflesso incondizionato. Non era freddo, lo sentiva. Guardò attraverso la finestra chiusa. Oltre i vetri si intravedeva una notte nera, forse senza luna. Forse una nuvola l’aveva appena oscurata, perché quando si era alzata riusciva a distinguere bene ogni oggetto nella stanza, sebbene non nei dettagli, e invece ora poteva vederne solo i contorni poco definiti.

Il suo sguardo si fece più serio, e d’istinto si portò verso il comodino afferrando la pistola.

 

Aprì lentamente la porta.

Dalla sua posizione poteva benissimo vedere la porta della stanza di Cheryl, spalancata. Le luci erano tutte spente, ma la luce nella stanza principale filtrava meglio, e Cybil poteva distinguere bene gli oggetti nei paraggi. Si voltò verso la cucina e l’ingresso, pensando di trovare in quella zona la ragazza. Poi un nuovo rumore attirò la sua attenzione. Il balcone era aperto, e una figura umana teneva un’altra persona su una spalla, e cercava di uscire da quella porta.

“Hey, chi diavolo sei?!”

Al suono di voce, quello si voltò. Solo allora Cybil si rese conto che la corporatura era l’unica cosa che gli rimanesse di umano!

Forse per il buio, forse per la sorpresa iniziale, non si era minimamente resa conto che le braccia erano molto più lunghe del normale, e che le dita erano artigli pericolosissimi, simili a lunghi coltelli; e la faccia…la faccia…

Non ce l’aveva più una faccia. O forse non l’aveva mai avuta. Al suo posto grumi di sangue e spaccature solcavano la testa, e lì dove avrebbe dovuto trovare degli occhi, lì trovò solo carne tumefatta e in alcuni punti bruciata. La bocca era serrata da alcuni lembi di pelle, di modo che l’unico suono in grado di uscire da essa era un grugnito di dolore privo di alcun senso logico.

Il mostro avvertì la presenza di Cybil, e prese a correre furiosamente verso l’esterno.

“FERMO!”

Cybil si lanciò all’inseguimento. Aveva l’orrenda sensazione che l’altra persona che portava su una spalla fosse proprio…

Arrivò in cima al tetto e lo vide dirigersi come un ossesso verso la porta delle scale principali. In un batter d’occhio prese la mira e lo colpì a una gamba. La creatura si inginocchiò di fronte alla porta aperta. Sembrava in grado di rialzarsi, ma la persona che teneva in spalla cadde di lato con l’impatto.

Il secondo colpo lo raggiunse alla tempia, mentre si stava chinando a raccogliere ciò che aveva perso.

Cybil ansimava con la pistola tra le mani. Tremava leggermente, anche se non era la prima volta che vedeva una creatura del genere. Ma c’era qualcosa che non andava: non erano a Silent Hill, e il Dio venerato dall’ordine era morto. Non aveva alcun senso quello che stava succedendo.

Sentì un lamento sommesso, e vide una figura muoversi per terra, di fianco al cadavere della creatura. Si avvicinò lentamente, tenendo la pistola puntata di fronte a sé. Quando fu abbastanza vicina, si accorse che la testa era avvolta in una busta di tela nera, e che i movimenti della persona erano rallentati e stanchi.

La riconobbe a causa delle sue gambe scoperte e della magliettina che ora era tutta sporca e stropicciata.

“Cheryl!”

Le tolse velocemente la stoffa dal viso. La guardò negli occhi, ma quelli erano socchiusi con le iridi che si scorgevano a mala pena sotto le palpebre calate. La bocca aperta cercava ossigeno, ma intorno al suo naso e sulle labbra sentiva la presenza umida di una sostanza. Non riusciva a sentirne l’odore senza venire colta da improvvisi capogiri. Usando la stoffa del sacco appena sfilato, cercò di pulire il suo viso alla meglio, poi continuò a chiamarla e a colpirla leggermente con una mano. La ragazza reagiva agli stimoli, ma non riusciva a muoversi. Non sembrava però essere ferita in nessun modo, il che rappresentava una ben magra consolazione.

Guardò il cadavere, adagiato su un fianco in una pozza di sangue scuro. A guardarlo le venne una forte emicrania, per cui distolse lo sguardo e si concentrò sul corpo agonizzante di Cheryl. Usando tutta la forza di cui disponeva, cercò di riportarla dentro. Ci riuscì solo trascinandola con le braccia intorno al petto facendo strusciare i piedi per terra. Le scale furono la parte più difficile, ma con uno sforzo enorme riuscì a sollevarla e a riportarla in casa.

Dentro era ancora tutto buio e riuscì a trovare la poltrona a memoria. Adagiò il corpo di Cheryl delicatamente, sentendola lamentarsi, intuendo lo sforzo che faceva per restare sveglia. Chiuse il balcone dietro di sé, serrò di nuovo la pistola nella mano e corse all’ingresso, lì dov’era il telefono. Cercò di accendere la luce, ma sembrava che la corrente fosse stata tagliata. Sul comodino c’era il numero di telefono di Douglas, ma con quel buio difficilmente sarebbe riuscita a leggere il biglietto. Aprì il cassetto del comodino, ma non trovò nulla di utile, solo chiavi e scartoffie. Si guardò attorno freneticamente, fino a girarsi completamente. Si trovò di fronte l’attaccapanni, dove alloggiava il giubbino di Cheryl, intonso dal suo ritorno da Silent Hill, uno dei pochissimi oggetti non toccati da Cybil durante la sua pulizia; stava appeso, insieme all’impermeabile di Harry e a un cappello che probabilmente era stato messo lì più per bellezza che per utilità.

Senza pensare, Cybil mise le mani in ogni tasca, cercando qualcosa che potesse fare luce, un accendino, un fiammifero, qualsiasi cosa. La mano scivolò nel taschino del petto, e Cybil rimase quanto mai stupita di trovare una piccola torcia elettrica rettangolare. L’accese illuminando l’ambiente intorno a lei, poi finalmente fece luce sul bigliettino e compose velocemente il numero sulla tastiera del telefono. Suonava fortunatamente, il ché tranquillizzò Cybil per qualche istante. Ma dopo tre squilli, si sentì uno stacco brusco, e il rumore di statico prese il sopravvento. Qualcuno o qualcosa stava parlando, ma il rumore era troppo forte, e le parole perdevano di significato.

“Douglas! Maledizione non si sente niente…Douglas, vieni immediatamente a casa!”

Un rumore la distrasse. Mise giù il telefono, e puntò torcia e pistola verso il salotto alle sue spalle. Cheryl era finalmente in piedi, ma doveva appoggiarsi ancora alla poltrona. Teneva il palmo della mano sulla fronte e cercava di trascinarsi stancamente verso Cybil, ma la luce puntata negli occhi era un grosso ostacolo da superare per lei. Prima che potesse dire qualcosa, Cybil corse verso di lei per aiutarla a camminare.

“Ora ce ne andiamo da qui!”

Passò il suo braccio intorno al collo, e lentamente si avviarono verso la porta d’ingresso. Girò la chiave nella serratura, e spalancò la porta.

Anche nel corridoio la luce era fuori uso, e c’era un silenzio assordante, specialmente per Cybil il cui udito era fortemente provato dal rumore dello sparo. Sentiva un fischio insistente che sembrava partire direttamente dalla sua testa e i passi lenti e strascinati delle due erano un sollievo per lei. Avrebbero raggiunto il portone secondario girando l’angolo.

Ma dalla porta a vetri Cybil intravide qualcuno all’esterno. Ne vide solo la sagoma, un’ombra irregolare che puntava qualcosa nella loro direzione. In un attimo i vetri andarono in frantumi con un rimbombo pauroso. Cybil aveva fatto in tempo a riportarsi dietro al muro, trascinando con sé Cheryl che per la spinta improvvisa cadde seduta a terra. Vide il foro di un proiettile conficcatosi nel muro alle loro spalle. Era una pistola?!

Si affacciò lentamente, cercando di puntare alla meglio la torcia, in modo da riconoscere la persona all’esterno. Riuscì a vedere dei lunghi capelli neri dietro i quali si nascondeva il viso. Aveva un corpo femminile e sembrava indossasse una divisa. La sua testa tremava vistosamente.

Reagì alla luce della torcia ed esplose un altro colpo, che questa volta si ficcò nel pavimento ai piedi di Cybil. Dal foro fuoriuscì della polvere, illuminata dalla luce della torcia. Cybil cercò di prendere la mira, ma appena si sporse nuovamente partì un terzo colpo.

Ma dov’erano tutti?!

 

Improvvisamente si udì un colpo e un lamento sommesso. Cybil si sporse, ma il buio e l’angolazione non permettevano di avere una perfetta visuale. Un secondo colpo annunciò che il portone ora era aperto, e qualcuno si avvicinava velocemente, senza curarsi di calpestare i vetri rotti sul pavimento.

Cybil appoggiò le spalle al muro, abbassò il cane della pistola per velocizzare la premuta del grilletto e prese un profondo respiro. Poi si voltò di scatto, uscendo con tutto il corpo dal suo nascondiglio, pronta a fare fuoco verso chiunque le si parasse di fronte.

“Non sparare! Sono io!”

Fece appena in tempo a fermarsi!

Di fronte a lei Douglas aveva alzato la mano con cui reggeva la pistola, tenendo l’altra appoggiata al bastone che in quel momento serviva più come arma che come appoggio. Aveva colpito la persona all’esterno con quello, facendola svenire.

“Douglas! Che ci fa qui?!”

“Mi hai chiamato tu! Con il telefono. Ma hai riagganciato prima che potessi dire qualcosa, così mi sono precipitato qua. Dov’è Heather?”

“È qui dietro. Forse è stata drogata con qualcosa, ma si sta riprendendo”

Douglas si affacciò nel corridoio e vide nella penombra la sagoma della ragazza, appoggiata con una spalla al muro, mantenendosi in piedi con enorme sforzo.

“Tutto bene?!”

“Me la caverò…e quando starò di nuovo bene ti farò passare il vizio di chiamarmi ancora Heather!”

Douglas sorrise nel constatare che la ragazza non aveva perso il suo spirito.

“Scusa…nervosismo!” disse con un mezzo sorriso. “Ora andiamo, ho la macchina all’altro ingresso”

“E allora perché sei passato da questo?”

“Ho sentito gli spari e ho deciso di passare da dietro, sperando di prendere alla sprovvista chi vi stava minacciando…e ho avuto fortuna!”

Cybil sorrise, poi si infilò nuovamente sotto il braccio di Cheryl, aiutandola a reggersi in piedi e a camminare. Ma questa si oppose…

“Hey, può bastare così! Riesco a tenermi in piedi! E poi quelli armati siete voi, pensate a sparare!”

“Va bene, ma stai tra me e Douglas”

A Cheryl non piaceva prendere ordini, ma quella volta obbedì, e si incamminò tenendosi alle spalle del detective.

Procedendo lentamente, sia per il passo incerto di Douglas e di Cheryl, sia per il buio che imperversava, riuscirono finalmente ad arrivare al portone. Uscirono nel vicolo che avrebbe portato alla strada. Fuori il freddo colse alla sprovvista Cybil e Cheryl, che indossavano solo le magliette del pigiama. In effetti faceva più freddo di quello che ci si sarebbe aspettati da una notte d’estate.

Una volta giunti alla macchina Douglas aprì la portiera posteriore, facendo segno a Cheryl di salire. Lei entrò aiutata da Cybil alle sue spalle. Ma mentre anche la donna stava cercando di entrare nell’auto, uno sparo rimbombò nell’aria.

Fu un momento solo. Sentì una fitta in una spalla, e senza emettere un suono si accasciò sul sedile posteriore, perdendo sangue che sporcava la tappezzeria tutt’attorno. Douglas rispose al fuoco che arrivava dal vicolo buio. Sparava praticamente alla cieca sperando di intimidire il nemico e guadagnare secondi preziosi. Cheryl urlava disperata.

“CHERYL FALLA ENTRARE!”

Con le lacrime che le appannavano la vista, Cheryl tirò il corpo di Cybil all’interno dell’abitacolo, sporcandosi di sangue a sua volta. Douglas dall’esterno chiuse la portiera, e continuando a sparare a intervalli regolari, contando i proiettili che rimanevano nel caricatore per non rischiare di sparare a salve facendo saltare del tutto la sua copertura, si avvicinò all’ingresso del guidatore. Sparò un ultimo colpo prima di entrare in macchina abbandonando il bastone all’esterno. Dopodiché accese il motore e partì sgommando. Si sentì il rombo di un altro sparo, ma evidentemente il proiettile andò a vuoto.

Cheryl teneva la testa della poliziotta sulle gambe e grondava lacrime. Cercava di spostarle i capelli dalla fronte, ma l’unico risultato che otteneva era quello di sporcarle il viso con il sangue che aveva nelle mani.

Douglas accellerò.

“Tieni duro, stiamo andando all’ospedale!”

“Douglas…non si muove…”

 

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Capitolo 11
*** Game Over ***


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         Seconda parte - Portland

 

Aprì gli occhi sentendo il freddo del vento sotto i piedi nudi. La prima cosa che riuscì a vedere fu il grigio del cielo. Una coltre di nubi si spostava velocemente nell’aria, coprendo ogni colore e raggio di sole. Tutto ciò che vedeva era il grigio.

Si sollevò a sedere, spostando lo sguardo dove poteva. Riconobbe i marmi, le croci piantate nel terreno, la terra scavata. Poi rivolse lo sguardo sul suo corpo. Non solo i piedi, era completamente nuda sotto il vento che la faceva rabbrividire. Era una sensazione sgradevole.

Istintivamente cercò di coprire le sue nudità, e si guardò intorno per vedere se era sola. Al tatto si accorse di essere fredda, troppo fredda; sembrava che non riuscisse a generare calore, ma nonostante quel freddo anomalo non si sentiva male fisicamente, a parte uno strano fastidio alla schiena. Cercò qualcosa per coprirsi, ma tutto quello che aveva intorno erano lapidi e mausolei. Niente vestiti, niente persone, niente impronte attorno a lei. Niente. Solo nubi e vento. Non un suono giungeva alle sue orecchie.

Si alzò poco convinta, tenendo la schiena ricurva sia per l’imbarazzo che per il freddo, continuando a guardarsi attorno frastornata. Prese a camminare senza una direzione precisa, superando le tombe, a volte con la terra fresca scavata ancora visibile, altre volte completamente ricoperte d’erba e di umidità.

Qualche goccia cominciò a colpirle il viso e le spalle. Erano gocce freddi, gelide, e a volte scivolavano lungo la spina dorsale, o tra i seni coperti solo da un braccio, provocandole un fastidioso brivido. Questo le fece accelerare il passo, per cercare una copertura. Ma i mausolei erano tutti serrati da catene o da pesanti portoni che non si muovevano di un millimetro nonostante gli sforzi, per cui continuava a camminare furiosamente in ogni direzione, finché una porta aperta non catturò la sua attenzione. Era una struttura molto grande all’apparenza, e dall’alto dei cornicioni alcune statue si affacciavano come fossero a guardia dell’ingresso. E forse una delle due aveva una lancia tra le mani…non riuscì a preoccuparsi troppo della forma di quelle sculture, e si infilò all’interno senza troppi complimenti.

Dentro il buio prese il sopravvento. Era in un corridoio, molto largo, ma in compenso anche molto lungo. Lungo le mura c’erano nomi e volti che si affacciavano, altri defunti, altre tombe. Jimmy Stone, Stefan Boyle, Gerard White, George Rosten, Kayle Butler, Angela Orosco, Maria Hofstader, Leon Carray, Eugene Kennedy. Li leggeva ad uno ad uno, mentre percorreva tutta la navata, camminando lentamente. Incrociò in alcuni punti dei vuoti, e sotto un altro loculo aperto c’era una barella di quelle che si usano per trasportare le bare, leggermente sbilanciata a causa di una rotella mancante.

I nomi continuavano a susseguirsi ai suoi occhi: Angel Proud, Skyler Whitman, Eddie Dombrowski, Miriam Locane. Quel corridoio sembrava non finire più. Poi lo stupore. Harry Mason. La foto era dannatamente reale. Si vedevano anche i pochi capelli bianchi che erano apparsi con gli anni, e il suo sorriso composto. Avvicinò le dita al marmo, passandole sopra le lettere di ottone fredde, ripetendo il nome a bassa voce. Non stava piangendo, non sentiva niente, era come svuotata dall’interno, e come non riusciva a provare calore, così non provava sentimenti in quel momento. Solo i suoi occhi che passavano sul marmo gelido insieme alle mani tremanti.

Un rumore attirò la sua attenzione, come di un cigolio. Non si era accorta di essere giunta alla fine del lungo corridoio. Davanti a lei c’era un’altra barella, sporca di sangue ancora liquido, che gocciolava da una parte formando una piccola pozza a terra. Oltre il carrello in ferro, su un livello rialzato con soli tre scalini, si stagliava, poggiata in verticale, una bara scura, spalancata e vuota, con gli interni in velluto rosso e i cuscini dello stesso tessuto adagiati sul fondo. Alle spalle della bara poteva intravedere un altare in stile cristiano, ma qualcosa non quadrava. Non c’era nessun crocefisso, non un’immagine cristiana in quel posto, e anche la vetrata che si stagliava ora di fronte a lei, oltre l’altare, raffigurava in maniera molto stilizzata una donna. Forse era la Vergine Maria?! Non sembrava, dai colori.

Lentamente si avvicinò alla cassa aperta. Sentì quasi un richiamo, come se il suo posto fosse proprio quello, come se era lì per un motivo preciso. Ora la fitta alla schiena era pungente e localizzata in un punto ben preciso. Si era completamente dimenticata di essere nuda, e ora camminava sicura di sé, verso quei gradini. Non degnò d’uno sguardo la barella insanguinata, su cui il liquido rosso sembrava autogenerarsi, colando copiosamente anche lungo le cinghie penzolanti. Salì lentamente i tre gradini che la separavano dal feretro, e quando ci fu di fronte, sollevò un braccio sporgendosi verso il velluto.

 

Qualcuno l’afferrò. Sentì il braccio bruciare al contatto con la mano che lo stringeva. Si voltò fino a incrociare il volto sorridente e rassicurante di una donna dai capelli corvini, che con un gesto delicato la convinse a girarsi di nuovo verso il corridoio da cui era venuta, dando le spalle alla bara aperta.

“Non ancora” disse la donna con voce suadente che sembrava provenire da un’altra dimensione.

Poi lentamente le si avvicinò, portando l’altra mano verso il suo viso, cingendolo in una carezza. E mentre la mano si posava delicatamente sulla guancia fredda, il dolore alla spalla divenne intenso, lacerante, e si faceva strada nella carne come se questa fosse penetrata lentamente ma inesorabilmente da una lancia. Quando sembrò essere stata passata da parte a parte, portò una mano al seno, in corrispondenza della fitta. E nel momento stesso in cui il dolore sparì, tutto il suo corpo avvampò di calore, le lacrime le riempirono gli occhi e un lamento sommesso fuoriuscì dalla sua bocca. La donna che aveva di fronte, sentendo quel gemito, si avvicinò ancora, abbracciandola, costringendola ad affondare il viso nella sua spalla.

Poi la lasciò andare del tutto, allontanandosi di qualche passo. Il vestito era macchiato di sangue, e le si era appiccicato sul petto, ma la donna sembrò non farci caso. Le fece segno di guardare al suo petto. La mano, intrisa di sangue, ora stringeva qualcosa…

 

…un proiettile…

 

Si voltò verso la bara, e al suo posto poté vedere solo una creatura umanoide con un camice ingiallito e sporco di sangue, che reggeva in una mano una specie di arnese chirurgico. Era molto lungo, e gocciolava sangue fresco dall’estremità; ne era sporco per una buona parte. La creatura lo lasciò andare facendolo cadere sul pavimento, provocando un rumore metallico che si amplificò nell’enorme stanza, rimbombando più e più volte.

I suoi occhi tremavano, ma continuò a guardare l’essere che aveva di fronte, mentre si muoveva convulsamente verso la bara dal quale era uscito, dove rientrò chiudendola dietro di sé con un cigolio.

Poi tutto scomparve nel buio…

 

Spalancò gli occhi azzurri. Davanti a lei Cheryl e Douglas di fronte alla macchina, con la portiera posteriore aperta. Il freddo e la notte la circondavano, sentiva odore di cloroformio addosso alla ragazza che le stava vicino, e tra le mani stringeva una pistola. Aveva avuto quella vertigine per qualche secondo. Sognava? O era dovuto alla tensione del momento? Eppure giurò di sentire ancora quella fitta alla spalla sinistra.

“Aiutala ad entrare velocemente!”

La voce di Douglas sembrò ridestarla, ma il fastidio non si attenuava, anzi, con il passare dei secondi diventava sempre più forte e bruciava come una ferita in cui la carne viva fosse stata coperta di sale. Stava per obbedire alle parole di Douglas, quando tutto il dolore si spostò strisciando come un serpente dalla spalla al collo distribuendosi su tutta la spina dorsale. Si voltò, seguendo un istinto ben preciso, quasi come se non fosse più padrona del suo corpo e cominciò a guardare nel buio, sforzando gli occhi, spostandoli velocemente da una parte all’altra. Quel gesto attirò l’attenzione dell’uomo accanto a lei, che incuriosito cominciò a guardare anch’egli nella stessa direzione. Ma tutto sembrava tacere, non un’ombra, non un suono.

Douglas si voltò nuovamente, cercando di mantenere il sangue freddo. “Cybil! Non perdiamo tempo, sali in macchina e andiamo via!”

Ma Cybil continuò a puntare il suo sguardo dritto nel buio, verso una siepe che costeggiava il palazzo. Puntò la pistola ed esplose un colpo. Lo scoppio prese alla sprovvista Cheryl, che d’istinto si lanciò all’interno dell’auto cacciandosi la testa fra le mani e stringendo con forza gli occhi. Anche Douglas fu stupito, ma mantenne il sangue freddo e puntò a sua volta la pistola nella direzione del colpo sparato da Cybil. Tuttavia non c’erano segni della presenza di qualcuno nella traiettoria del proiettile. Tutto rimase immobile e in silenzio per qualche secondo. Poi Douglas fece di nuovo cenno a Cybil di entrare in macchina, ma invece di sedersi sul sedile posteriore dove ora Cheryl stava completamente sdraiata, entrò davanti, tenendo ancora la pistola puntata fino a quando non vide entrare anche Douglas al posto del guidatore; a quel punto chiuse finalmente la portiera, e l’auto si avviò nella notte.

 

…un venticello fresco batteva su quella siepe. Qualche foglia era stata strappata dalla furia del proiettile. Una figura si levò lentamente dal basso, strusciandosi contro i rami per uscire dal suo nascondiglio e imbrattando tutto con il suo sangue…

 

“Si può sapere a cosa miravi prima?!”

Douglas sembrava molto arrabbiato. D’altronde c’era stato troppo rumore, e un proiettile in più significava comunque un rischio maggiore per tutti. C’era però da domandarsi dove fossero finiti tutti mentre quella ragazza sparava all’impazzata con un revolver calibro 45.

Cybil non rispose immediatamente, ma rifletté su ciò che aveva appena vissuto. Sentiva ancora qualche brivido lungo la schiena, ma si attenuavano man mano che l’auto si allontanava da quel posto. I suoi occhi azzurri fissavano insistentemente la pistola, con il cane incandescente per le esplosioni subite. I pensieri correvano forte, si ritrovò a pensare ai colpi mancanti…tre in totale su un caricatore da otto. Era ancora sicura di poter affrontare un’altra emergenza come quella, ma aveva bisogno di proiettili.

Cheryl, sul sedile posteriore, si era raddrizzata, e guardava dal lunotto se qualcuno li stesse seguendo. Spostava lo sguardo dalla strada che si lasciavano alle spalle a quella che stavano per percorrere, mentre un vortice di pensieri affollava la sua testa. Si sentiva ancora intontita per il cloroformio, e tutto quello che era successo in quella notte era per lei ancora un mistero. Improvvisamente abbassò la testa con rassegnazione.

“Non saremo mai al sicuro, vero?”

Douglas cercò di guardarla dallo specchietto retrovisore. Tutto ciò che riuscì a vedere furono i ciuffi biondi da cui si poteva intravedere un’ormai preminente ricrescita corvina che si affacciava dalle radici. Avrebbe voluto rassicurarla, ma tutto quello non aveva senso neppure per lui. Era sicuro di aver colpito una ragazza davanti a quel portone, e non aveva visto altre persone. Cybil non aveva parlato, sapeva che c’era qualcun altro insieme a quella donna, ma non sapeva chi fosse, e che fine avesse fatto, anche se poteva immaginarlo, visto che sia Cybil che Cheryl erano ancora vive e vegete, e che Cybil in particolare fosse armata.

“Non ti preoccupare Cheryl. Finché restiamo uniti non ci potranno fare nulla”

Non suonava molto convinto, pensò in mente sua. Ma poté sentire uno sbuffo che poteva essere assimilato a un sorriso.

Cybil era ancora immersa nei suoi pensieri. Aveva dei ricordi sfocati, forse aveva sognato ad occhi aperti, ma il dolore che aveva provato era così reale, e quella pulsione…perché aveva sparato? E a cosa? L’istinto l’aveva costretta a premere il grilletto, ma razionalmente in quella direzione non c’era nulla, nemmeno un’ombra. C’era una sola spiegazione, ma doveva avere conferma.

“Cheryl, dimmi una cosa…”

La voce di Cybil era incerta, tanto che aveva preso alla sprovvista la ragazza, che in ore di racconto non aveva mai sentito quella voce così flebile, ma era sempre stata ferma e sicura.

“Quando gli incubi sono cominciati…quando hai visto quei mostri…quando sei stata a Silent Hill…ti è mai capitato…non so, di agire per istinto…di avere delle premonizioni che ti hanno salvato la vita?!”

Cheryl strabuzzò gli occhi. Per qualche istante regnò il silenzio più assoluto.

“…è questo che ti ha fatto sparare quel proiettile? Un istinto?!”

Douglas voleva vederci chiaro: quella donna si stava comportando in modo troppo strano. Ed era così concentrato su Cybil che non si accorse dei movimenti di Cheryl, che ora si rannicchiava sempre di più, e si teneva la testa fra le mani. Stava ricordando qualcosa che sperava di poter cancellare per sempre, una sensazione distruttiva.

“Ricordo…” esitò. “…il luna park. L’otto volante. Ricordo che avevo già sognato quel momento al centro commerciale, e cercai di impedire che il sogno si avverasse. Ma dopo tutti i miei sforzi, quel…coso…me lo ritrovai davanti comunque. Era poco prima di incontrare Douglas con quella ferita.”

Douglas ascoltava in silenzio. Lui ricordava pochissimo di quel mondo in cui, suo malgrado, aveva passato quasi un giorno intero. Tutto ciò che di contorto e mostruoso aveva visto, affrontato, a volte ucciso, tutto era sparito dalla sua mente se non le sensazioni che aveva provato. Il che era frustrante.

“Ma c’è di più. Io sapevo che stava arrivando. Era una sensazione bruttissima, più si avvicinava e più sentivo dei dolori ovunque, le costole, le gambe, il collo, ogni osso del mio corpo fremeva e bruciava tutt’attorno. Quando intravidi le luci da lontano il dolore aumentò ancora e sentivo il mio corpo completamente paralizzato, come se non riuscissi più a controllarlo. E poi, contro ogni mia volontà mi lanciai nel vuoto…Il buio non mi permetteva di vedere nulla e per me sotto i binari c’era il nulla più assoluto, eppure dopo neanche un metro di caduta incrociai quella biglietteria e ci svenni sopra. Non so per quanto…”

Ci fu un momento di silenzio assoluto, rotto solo dal motore dell’auto che si allontanava nella notte, senza una direzione precisa.

“Ma non fu l’unica volta. In altre occasioni dei dolori mi hanno costretto a fermarmi e a prendere delle decisioni che sembravano del tutto prive di senso…ho ucciso un mostro che stava nascosto nell’acqua putrida di una fogna con un phon acceso, perché sentii i polmoni fare fatica a contrarsi, e il respiro si fece affannoso non appena mi avvicinai al ponticello di metallo. Non sapevo che era lì, c’erano degli indizi, ma nulla di certo.”

Cybil non disse una parola per tutto il racconto. Tremava leggermente, complice il fresco affrontato con una sola maglietta leggera addosso. Ma la curiosità vinse la paura.

“Hai creduto di vedere qualcosa prima che succedesse?! Un…sogno, o qualcosa di simile?”

“Forse…una volta giurai di essere stata trascinata per le gambe per chissà quanto tempo…”

Douglas non riusciva più a fare silenzio.

“Insomma, mi spiegate cosa sta succedendo? Cosa sono queste storie?”

Ma Cybil aveva qualcos’altro in mente. Voleva mostrare tutto.

Il racconto si doveva concludere!

“Douglas, sii gentile. Prendi l’autostrada. Andiamo a Portland”

 

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Capitolo 12
*** Come la porpora che infiamma il mattino ***


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Sedeva al tavolino in quel bar, sorseggiava sfogliava le pagine di un libro, un libriccino di colore rosso scuro, come di sangue raggrumato. Teneva su gli occhiali scuri, che ne nascondevano le iridi al sole flebile di quel pomeriggio d’autunno e restava immobile, passando gli occhi dalle pagine ingiallite ai tavolini occupati. Guardava alcuni ragazzini, forse diciottenni, forse più piccoli, mentre occupavano con la prepotenza tipica della giovinezza diversi tavolini, spostandoli e unendoli per poter stare tutti vicini. Poi tornava a leggere quelle righe scritte a penna, mentre l’udito captava le grida e il brusio tipico dei locali.

La cameriera si avvicinò con un vassoio in mano, e con sorriso di circostanza, senza dire una parola, appoggiò una tazza vuota vicino al suo braccio, appoggiato comodamente sul tavolino, una teiera fumante e un piattino con qualche biscotto dolce coperti di zucchero a velo.

“Il suo the” disse sbrigativa, ma cortese, rivolgendo un ultimo sorriso e allontanandosi senza aspettare una parola dal suo cliente.

I suoi gesti erano calmi, freddi, a guardarli bene sembravano tutti studiati a tavolino. Posò il libriccino sul tavolo, lasciandolo aperto alla pagina che stava rileggendo, e aprì la teiera, poggiando il coperchio su un lato, su un fazzoletto di carta messo lì qualche istante prima che la cameriera si avvicinasse. Tirò il filo che reggeva il filtro contenente l’erba e, con il cucchiaino, lo strizzò con un gesto sicuro, usando il filo stesso avvolto attorno alla posata e al sacchetto poroso. Le goccioline di the ricaddero nella teiera, con un suono sordo, che nessun’altro sentì. Poggiò il filtro sul fazzolettino e richiuse la teiera, versando il liquido ambrato nella tazza, tenendo con una mano il coperchio e con l’altra l’impugnatura. Poi con il cucchiaino iniziò a girare. Non aveva messo zucchero, ma girava comunque quel liquido. Si rilassava con quel gesto.

Gli occhi si spostarono di nuovo verso i ragazzini. Ne erano arrivati altri nel frattempo, e tutti si affollavano a quei due tavolini con gran baccano. Da lontano la cameriera alzò gli occhi al cielo e fece un profondo sospiro, dopodiché tirò fuori il taccuino delle ordinazioni e si avviò nella loro direzione.

Una ragazza, dal gruppo si accorse del suo sguardo. Aveva incrociato i suoi occhi, ma, nel dubbio, aveva subito distolto lo sguardo, continuando a prestare attenzione al suo amico. Poi, in un secondo momento, forse per cercare sicurezza, tornò con gli occhi verso quegli occhiali scuri, che nascondevano l’occhio alla vista. Continuava a non essere sicura, non riusciva a capire se quella persona stava guardando proprio il suo gruppo o se era la sua immaginazione. Così smise di puntare i suoi occhi in quella direzione, cercando di non pensarci più.

Avvicinò la tazza alle labbra. Soffiò leggermente, spostando il vapore profumato, e provò ad assaggiare la sua bevanda. Si scottò le labbra e il palato, ma non fece un movimento che potesse farlo intuire. Semplicemente riappoggiò la tazza nel piattino che l’ospitava e prese un biscotto, che rinfrescò leggermente la sua bocca. Il tutto senza perdere per un secondo la sua calma.

Continuava a guardare in direzione di quel gruppetto. La ragazzina sentì nuovamente il suo sguardo. Arrossì leggermente, forse si indispettì, così prese per il braccio una sua amica e insieme si alzarono e si diressero verso il bagno delle donne. Nella muraglia umana si formò così uno spazio, un vuoto che finalmente permise al suo sguardo di arrivare al suo obiettivo: Cybil Bennet.

Era seduta da una ventina di minuti al tavolino immediatamente alle spalle dei ragazzini, e parlava con un uomo compostamente. Lo aveva riconosciuto, era quel tizio dell’edicola di fronte all’ospedale. Così afferrò una penna dal taschino e iniziò a scrivere, con la mano sinistra, mentre con la mano destra continuò a girare il suo the con freddezza.

La temperatura del liquido adesso non era più in grado di bruciare sulla sua lingua, così prese un grosso sorso. Si accorse che la cameriera aveva portato il conto al tavolo dov’erano i due. Cybil si alzò e si rimise gli occhiali da sole. Uscì velocemente dal locale sorridendo all’uomo che aveva di fronte, che invece rimase ancora con le braccia incrociate sul tavolo.

Prese un altro sorso di the, aspettando che anche l’uomo andasse via. Ma sembrava che stesse aspettando qualcosa.

D’un tratto incrociò i suoi occhi. Gli occhiali non avrebbero dovuto far capire dove lo sguardo era direzionato, e invece lui sembrava guardare proprio nella sua direzione, e sorrideva mentre lo faceva. Poi la ragazzina tornò dal bagno e si sedette al suo posto. Così finì velocemente il suo the e lasciò una banconota sotto la tazza. Si alzò e guardò nuovamente verso il tavolino dov’era seduto l’uomo. Ma quello non c’era più. Al suo posto una banconota sotto una tazza. Guardò verso l’entrata, ma tutto sembrava tranquillo. Di quell’uomo non c’era più traccia.

 

La macchina arrivò a destinazione. Dopo qualche ora di viaggio erano finalmente arrivati a Portland, con le prime luci del mattino. Per strada non c’era ancora nessuno, o forse non c’era più nessuno. Né quelli che si alzano presto per lavorare, né quelli che lavorano fino a tardi nei locali, i musicisti, i teatranti, tutta quella serie di persone che vivono la notte con più piacere del giorno. Quello era il momento morto, in cui, se qualcuno era sveglio, guardava comodamente l’alba dal vetro di un balcone o di un finestrino della macchina da cui non vogliono scendere per non andare a dormire ancora, per rubare qualche istante di tranquillità.

Cheryl era riuscita a dormire per un po’, forse a causa del cloroformio che ancora la intontiva. Douglas aveva guidato tutto il tempo e si vedeva da lontano che era esausto, che aveva bisogno di riposare. Ma non lo avrebbe mai dato a vedere e poi era troppo agitato per pensare di dormire. Cybil invece sembrava non accusare la notte insonne; anche se i suoi occhi erano arrossati e dei solchi violacei erano comparsi sulla pelle, continuava a guardare fissa di fronte a sé, con sguardo sicuro.

Le uniche parole che erano uscite dalla sua bocca erano le indicazioni per raggiungere il palazzo che avrebbero dovuto raggiungere.

E ora, mentre scendevano dall’auto parcheggiata, tutto sembrava quasi tranquillo, meno pesante da sopportare. Anche l’aria aveva un sapore diverso in bocca. In quel momento della giornata in cui le auto non hanno cominciato a rilasciare i loro gas, in cui non c’era un solo rumore, in cui nessuno avrebbe potuto giudicare due persone in pigiama e una terza con un impermeabile stropicciato e sporco di sangue su una manica, armate di pistole, che camminavano tranquillamente su un marciapiedi verso il portone che fortunatamente era aperto.

“Le chiavi…” si ricordò Cybil solo in quel momento.

“Che cosa?! Vuoi dire che non possiamo entrare adesso?”

Cheryl, ormai sveglia, aveva ripreso il suo cipiglio solito.

“Siamo andati troppo di fretta, le chiavi sono nella mia macchina, e io non ho un soldo e nemmeno i documenti…è rimasto tutto a casa tua…”

“E allora cosa si fa?” domandò Douglas cercando di mantenere la calma.

Cybil si guardò attorno. Il portiere non aveva ancora aperto il gabbiotto, per cui c’era una buona notizia e una cattiva.

“…la buona è che non ci vedrà e non farà domande. La cattiva è che dobbiamo trovare un modo per aprire quella porticina e recuperare la chiave di riserva che ha lui.”

“La porta è di vetro, sfondiamola ed è fatta” disse Cheryl noncurante.

Ma Douglas era più attrezzato. Estrasse una specie di astuccio dalla tasca interna del suo impermeabile dove erano conservati dei ferretti particolari. Con quelli riuscì a forzare la serratura e ad aprire la porta senza lasciare traccia. Cybil sorrise sorpresa, mentre il detective si rialzava a fatica a causa della gamba che ancora doleva. Entrò nel gabbiotto e prese la chiave, dopodiché salirono velocemente.

 

Il ticchettio dell’orologio a muro lo rilassava. Scivolò con il bacino in avanti sul divano bianco, dopo essersi guardato attorno con molta attenzione per qualche minuto. Un arredamento essenziale, eppure ben distribuito e apprezzabile. Notò subito l’assenza di fotografie di ogni genere, nulla che indicasse un passato recente o lontano che sia, solo piante e specchi. A Cheryl non era piaciuto per niente quel particolare; gli specchi la inquietavano, era come se dentro ci vedesse qualcosa che la impauriva.

Vide un computer su di una scrivania ben ordinata, non una carta fuori posto, il cestino immediatamente sotto era svuotato e pulito, e c’era un libro appoggiato in modo da avere gli spigoli paralleli al contorno del tavolo, quasi fosse stato messo in quel modo appositamente, con meticolosa attenzione.

Le ragazze erano sparite da un po’, e si sentivano pochi rumori, non un risolino, poche parole, rumore di vestiti perlopiù, udibili a causa del silenzio profondo tipico della mattina. Poi l’acqua. Acqua che scorreva in quantità, una doccia probabilmente. Certamente, Cheryl voleva togliersi da dosso l’odore di cloroformio, il sudore, la sporcizia accumulata strusciando su muri, su pavimenti lerci, come quello del tetto sopra la sua abitazione.

Cybil uscì completamente vestita. Quando sentì la porta aprirsi, Douglas si voltò, per curiosità forse, avrebbe voluto vedere se c’era qualcosa che descrivesse Cybil non come una persona con disordini ossessivi-compulsivi, che la spingessero a tenere tutto in ordine e pulito. Ma riuscì a intravedere solo una porzione del letto su cui erano appoggiati degli altri vestiti puliti, probabilmente quelli che la donna aveva preparato per Cheryl, per quando fosse uscita dal bagno.

Sorrise. Era stanca, si vedeva lontano un miglio, ma sorrise, richiudendo la porta alle sue spalle e sedendosi su una poltrona di fronte al divano che ospitava il detective e il suo bastone. C’era spazio sul divano, anche per sedersi lontano dall’uomo, tuttavia scelse di sedersi di fronte a lui. In una situazione simile chiunque avrebbe cercato di evitare il contatto visivo, gli occhi negli occhi, e invece lei scelse di stare a distanza mantenendo il contatto con i suoi occhi azzurri.

Poi fu silenzio.

Per molti secondi fu silenzio.

Finché Douglas non cedette…

“Perché hai sparato?”

Non era inquisitorio, non c’era nessun trasporto, nessuna enfasi, era una semplice domanda, lecita. E Cybil sapeva che era una domanda del tutto giustificata, ma si meravigliò di quanto quell’uomo riuscisse a mantenere la calma e a non caricare le sue parole di sentimenti negativi.

“A suo tempo Douglas. Siamo qui per continuare questa storia. Voglio arrivare fino in fondo, e stavolta voglio che tu ascolti ogni parola.”

“Siamo in pericolo, vero?”

“Cheryl purtroppo non sarà mai al sicuro”

“Non parlo di Cheryl…”

La donna si bloccò e rimase con il suo sguardo interrogativo. Un eloquente sguardo che bastò per far continuare Douglas.

“…siamo tutti in pericolo. Possono ancora evocare le tenebre! Quell’altro mondo distorto in cui siamo stati tutti e tre. Quella cosa che ho colpito si muoveva convulsamente a terra, l’aria era più pesante, faceva caldo, non c’era nessuno, non hanno sentito gli spari. Vogliono ancora evocare quella mostruosità, e Cheryl può ancora farlo!”

Cybil aspettò un momento prima di rispondere. E prima di parlare, un istante prima piegò le labbra, in modo da sorridere quasi impercettibilmente, in una smorfia del viso quasi rassicurante e al tempo stesso raggelante.

“Si”

Quel modo di rispondere, la situazione assurda o forse solo la paura che provava in quel momento fece sbuffare l’uomo, uno sbuffo che era principio di una risata soffocata.

È incredibile come certe persone, nei momenti più bui della loro esistenza, nel momento in cui si sentono totalmente esposti e in pericolo, affrontino tutto con una risata. Potrebbero piangere, urlare, soffrire in silenzio, compostamente, o sbraitare, tutto sarebbe giustificato in quei momenti. Invece loro ridono, e talvolta ridono di gusto. Ciò che non riescono a capire li fa ridere. Lo affrontano come un’impresa forse, oppure è il loro modo di rassegnarsi, ridendo…

Cybil continuò…

“Ma sembra che non siano in grado di avvolgerci completamente le persone, e possono ricrearla solo in maniera circoscritta…perciò…buone notizie, no?!”

“Che significa?”

“Solo l’odio di Cheryl può portare permanentemente quel mondo attorno a qualcuno, perché grazie all’odio i poteri del dio vengono liberati…l’odio e la paura sono alla base dell’other-world, e quando coesistono entrambi gli stati d’animo, solo allora si comincia a scendere nelle profondità dell’inferno stesso. Solo quando Alessa è stata catturata da sua madre è stato possibile creare quel mondo distorto in cui tutti i luoghi erano in uno solo. Harry lo aveva chiamato Nowhere in uno dei suoi libri…da nessuna parte…e da quel poco che mi ha spiegato Cheryl, anche nel vostro caso quando ha cominciato a provare odio verso Claudia e tutti quelli della setta la dimensione demoniaca ha preso il sopravvento. Perciò la teoria sembra stare in piedi.”

Douglas sospirò. L’unica cosa che ancora non riusciva a spiegarsi era perché in questo caso ricordava tutto nei dettagli mentre non ricordava affatto ciò che era successo al luna park.

“In questo momento Cheryl prova delle emozioni ridotte al minimo. Ha paura, è vero, ma sente la nostra vicinanza, non è sola, e in più – prese una pausa, ci pensò, ma non trovò un modo più delicato – beh, l’esperienza l’ha temprata, l’ha resa più coraggiosa. E, si, odia gli adepti della setta, ma non ha volti da associare, e più che odio profondo o sete di vendetta, è profondamente rassegnata. Sa che non è finita, e questo la strema. Quindi dovremmo avere un po’ di tempo.”

 

Il rubinetto si chiuse con un cigolio. Improvvisamente ci fu silenzio nella stanza, solo qualche goccia che schiantandosi contro la ceramica alla base della doccia, provocava un rumore sordo. Aprì le ante, facendole scivolare rumorosamente e si guardò attorno. Il vapore aveva inondato il bagno, rendendo complicata la visuale, ostacolando lo sguardo. C’era un asciugamani, da qualche parte, un telo per asciugare il suo corpo indolenzito. Cybil glielo aveva detto due volte dov’era, eppure lo aveva dimenticato. Si guardava attorno, con gli occhi socchiusi e le occhiaie violacee, meno profonde di quando era arrivata grazie alla doccia, ristoratrice di molti mali. Cominciò quindi a cercare tastoni, fino a che non incontrò il materiale spugnoso con la sua mano sinistra. Lo passò prima sul viso e sul collo, poi scivolò tra i seni e con un gesto rapido e quotidiano lo avvolse attorno al suo petto. Mosse qualche passo, ma si fermò immediatamente. Nella nebbia, le sembrava di intravedere qualcosa, o qualcuno. Si voltò lentamente, tremando leggermente, ma mantenendo la calma. Sapeva che nessuno poteva essere entrato in quel bagno. Ma c’era quell’ombra nella nebbia.

“Dannatissimo specchio…che ci troverà poi in questi cosi?!”

Per un istante rimase a guardare la sua immagine non definita a causa del vapore che aveva appannato tutta la superficie riflettente. Sembrava quasi che l’ombra al di là del vapore la guardasse con la stessa intensità che lei ci metteva nel guardare quella forma scolorita. Poi si voltò velocemente e uscì dalla stanza, mentre nello specchio tutto si tingeva di porpora lieve.

 

 

È sempre più difficile scrivere, un po’ per gli impegni, un po’ per il periodo. Voglio però ringraziare tutti quelli che seguono la mia storia, chi commenta e chi no, sperando di riuscire ancora a catturare la vostra attenzione con le mie parole. È un’impresa ardua, non sono mai riuscito a portare a termine una storia molto lunga, ma questa si sta proponendo bene!

Perciò grazie e a presto – spero!

 

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Capitolo 13
*** Welcome - back - to Silent Hill ***


Tutti i suoi successori hanno sempre corso in quel buio. Chi per salvare qualcuno, chi per sfuggire a quegli esseri, chi solo per paura. Tutti i suoi successori correvano, inciampando e rialzandosi, probabilmente senza speranze, con il po’ di coraggio che andava scemando ad ogni passo e un’arma di fortuna tra le mani per difendersi dall’oscurità. E come biasimarli? Avvolti nelle tenebre, soli, privati di ogni umano aspetto della vita, se non con qualche incontro occasionale che il più delle volte sarebbe finito nel sangue.

Ma quell’uomo non correva, era ben addestrato. Anche nell’oscurità avanzava con cautela, tastando il terreno e valutando le mosse. Tanto che fino a quel momento era riuscito ad evitare molti degli incontri poco piacevoli da cui i suoi successori, più ingenui, non erano riusciti a sottrarsi. Ma ora le tenebre erano diventate troppo buie anche per lui, e per il suo equipaggiamento elettronico. Il visore poteva amplificare la luce flebile; ma in un mondo dove la luce naturale non esisteva più era perfettamente inutile. Si sarebbe dovuto affidare a metodi più pericolosi. Ad una torcia, ad esempio, che avrebbe rivelato immediatamente la sua posizione.

Tutto ciò avrebbe fatto perdere d’animo chiunque, ma lui ricordava ancora la sua missione ed era intenzionato a portarla a termine. Per cui si avventurò per la città alla ricerca del suo obbiettivo: Dahlia Gillespie.

Fu all’improvviso: il suono di quella sirena si sparse per l’aria e la terra cominciò a tremare. Questo non l’aveva previsto, stava succedendo troppo in fretta! Erano passate poche ore da quando la casa della donna aveva preso fuoco, eppure la città si stava già trasformando. E di Dahlia non c’era traccia. Che il rituale fosse già compiuto?

Non poté pensare ad altro, il sisma divenne sempre più intenso, al punto da non permettergli più di mantenersi in piedi. Finì in ginocchio, e per reggersi mise una mano a terra. Fu così che se ne accorse: il pavimento era caldo, bollente; quando tirò su la mano, notò che le dita che spuntavano dai  guanti erano arrossate. Il fucile che reggeva diventava sempre più pesante, tutto sembrava riscaldarsi e appesantirsi per qualche forza che fuggiva le leggi naturali. Poi guardò verso l’orizzonte. Era distorto, si vedeva a mala pena ad una decina di metri con la torcia puntata, e la luce tremava vertiginosamente. Sembrava un vortice oscuro, una spirale in cui la luce precipitava come in un buco nero, senza la possibilità di uscire.

Poi il colore rosso. Il rosso del sangue, il rosso del fuoco, il rosso della carne nuda, il rosso della ruggine del ferro, il rosso profondo del dolore infinito. Era l’unico colore che l’orizzonte restituiva davanti ai suoi occhi, e divenne sempre più intenso, inghiottendo metro dopo metro lo spazio di fronte a lui. Lo travolse con impeto, trasformando l’ambiente tutt’attorno. Non riconobbe più le strade, i marciapiedi, i palazzi tutt’attorno. I piedi affondavano in un fango rossiccio e appiccicoso, che colava inesorabilmente verso il basso, rivelando una grata rugginosa, pericolante.

L’ospedale distava poche decine di metri, e così anche lui, vedendo tutto ciò, prese a correre. Girò velocemente l’angolo e vide nel buio un’altra luce traballante. Era un altro uomo. Scappava dall’ospedale con una corsa forsennata, andando alla cieca. Prese a correre nella direzione opposta alla sua, per cui tutto ciò che poté vedere furono le sue spalle larghe che venivano inghiottite dal buio. Allora si voltò verso l’ingresso dell’ospedale, ma era troppo tardi.

Prima che le fiamme lo investissero avrebbe giurato di vedere al centro di quell’inferno una bambina. Poi riuscì solo a gridare. Ma in quel luogo anche i suoni si perdevano presto, perciò nessuno poté udire il suo grido…

 

 

Cheryl uscì dalla stanza vestita con una camicia di seta e un pantalone a coste, non proprio nel suo stile. Si sentiva costretta nei movimenti e le dava fastidio il rumore che quella stoffa produceva quando camminava. Anche la seta le dava una strana sensazione sulla pelle, un fastidio che non aveva mai provato. Quando vide Douglas sorridere puntandole gli occhi addosso, si innervosì maledicendo mentalmente Cybil, la proprietaria di quei vestiti così strani. Spostò lo sguardo su di lei pronta a fare qualche battuta sarcastica, ma la trovò accigliata, con lo sguardo fisso e severo. In effetti si stupì di quanto velocemente lei stessa si era ripresa da quell’incontro macabro, come se ormai per lei fosse naturale. Come se gli incubi fossero all’ordine del giorno.

Cybil era una persona razionale invece, poco aveva a che fare con gli istinti e con le abitudini. La sua mente era già persa in mille domande: come hanno fatto a evocare l’oscurità così in fretta? Chi c’è dietro a questa aggressione, ora che Dahlia e Vincent sono morti? Ma soprattutto, perché tutta questa fretta? Domande le cui risposte erano troppo lontane, nel cuore di quella città che ha infestato gli incubi di tanti: Silent Hill.

“Non finirà mai questa storia vero?” La domanda colse alla sprovvista Cybil, che rialzò lo sguardo stanco come destata da un sonno senza sogni. Aveva bisogno di riposo. Tutti loro avevano bisogno di riposo.

Si fece forza, sorrise e rispose. “Non è detto…come dicevo a Douglas si vede che anche loro sono all’angolo, sono pochi e poco organizzati. Forse se agiamo velocemente…”

“Allora che ci facciamo ancora qui? Tu sai qualcosa, sai dove sono, non è così? Allora andiamo colpiamoli noi prima che tornino”

“Ho detto che dobbiamo agire velocemente, non in maniera avventata!”

A quella risposta Cheryl soppresse un brivido di nervosismo con una smorfia.

“Si, è vero – continuò Cybil – sono deboli anche loro, ma sono ancora imprevedibili. Padre Vincent è morto ed io ero convinta che fosse lui a muovere i fili economici dell’organizzazione. Ha costruito lui quella chiesa vicino al parco divertimenti, per cui pensavo che la sua morte li avesse destabilizzati un po’. Invece ci hanno riprovato a distanza di 5 giorni, è troppo poco!”

Cheryl ci pensò a sua volta. In effetti era davvero troppo anche per loro. Ma forse, pensò, avevano accelerato perché sapevano dove si trovava la sua abitazione e non volevano aspettare un sicuro trasferimento che avrebbe reso più difficili le ricerche.

A questo pensiero si paralizzò. Per la prima volta da quando era tornata da Silent Hill aveva finalmente pensato ad un futuro. Era convinta di non averne uno per cui non ci aveva mai riflettuto un attimo. Ma ora si rese conto della sua situazione: aveva 17 anni, non un lavoro, la scuola da finire, non aveva mai neanche pensato all’eventualità di doversela cavare da sola, aveva sempre fatto affidamento sul padre che l’aveva sempre protetta fino a quel momento. E ora si trovava sola di fronte ad un futuro incerto che probabilmente l’avrebbe ricondotta in quella città ancora una volta. Come avrebbe fatto a trasferirsi? E dove? Senza nessuno che l’avrebbe aiutata, non un parente, non una persona fidata. La disperazione cominciò a farsi strada nel suo cuore. L’Ordine le aveva portato via tutto quello, tutta la sua vita.

“Cheryl”

Si destò come da un incubo. Trovò i visi rassicuranti di Douglas e Cybil a fissarla.

“Andrà tutto bene!”

Cheryl ne era ancora poco convinta. Distolse lo sguardo, quasi con capriccio e cercò di essere indifferente. “Comincerà ad andare bene quando potrò cambiare questi pantaloni!”

Cybil sorrise. La sua reazione prometteva bene, ma continuava ad avvertire la sua preoccupazione.

Cheryl continuò. “Parlami ancora di Silent Hill”

 

La riconobbe subito, ma aveva un ché di strano sul viso. Non era la ragazza dolce che era stata fino a quel momento. Nei suoi occhi si poteva scorgere una rabbia che mal si addiceva al suo viso. Le sue visite erano sempre più rade da qualche tempo, sembrava meno interessata alla verità, così pensò semplicemente che avrebbe lasciato perdere. In effetti non la vedeva da quasi un anno. E invece era lì quella mattina, scura in volto, complice forse anche l’ambiente di quell’edicola, sempre più ombroso rispetto all’esterno. David guardò negli occhi Cybil Bennet che rimase all’ingresso senza muoversi. Rimasero per un po’ senza parlare, solo guardandosi l’un l’altro. David conosceva bene quello sguardo, lo temeva: era lo sguardo di chi non ha più nulla da perdere. Lo sguardo sicuro e folle di chi rimane solo con uno scopo.

Cybil si avvicinò, arrivando al bancone. Solo quel tavolo in legno separava i due.

“Voglio trovarli” sussurrò Cybil con fare minaccioso.

David intuì che era successo qualcosa di grave. Guardò oltre la porta di ingresso, come per capire se fossero davvero soli. Si potevano sentire i rumori dell’esterno, delle persone lontane, impegnate a chiacchierare tranquillamente.

“Che cosa è successo?” chiese con la sua voce roca.

“Voglio trovarli!” ripeté Cybil senza dare ascolto. Erano passati cinque giorni da quando Harry era andato via senza lasciare traccia. Inizialmente Cybil aveva provato a cercarlo, ma non aveva alcun indizio. Non una lettera, non un documento riconosciuto, nulla. Non aveva nemmeno noleggiato un auto. Almeno non con il suo nome. Quando si rese conto di essere sola per davvero, di non avere più nessuno da proteggere…di non avere più nessuno che la proteggesse…allora si decise: decise che avrebbe trovato quelle persone! E quelle persone l’avrebbero pagata cara!

Ma David tutto questo non poteva saperlo, non riusciva a capire nulla di quanto stesse succedendo e l’apparire di quella donna così all’improvviso non era uno dei migliori segni per lui. Doveva ovviamente vederci chiaro.

“Vai al bar aspettami lì, arrivo fra mezz’ora”

Cybil non aspettò un’altra parola, si voltò per avviarsi, ma la voce di David la fermò di nuovo. “Non questo bar di fronte. Esci da qui e gira a destra, quando vedi la stazione di polizia gira di nuovo. Segui le indicazioni per il centro commerciale, entra e vai al secondo piano. Non restare fuori ma entra nella sala interna, aspettami lì”

La richiesta un po’ spiazzò Cybil, ma non se ne curò, e fece esattamente ciò che quell’uomo le chiese. Era il suo unico collegamento con la città, l’unico che riusciva a fornirle delle informazioni preziose.

Al bar chiese un caffè e aspettò pazientemente senza mai muoversi. Teneva la pistola dietro la schiena, il che la infastidiva non poco, ma sapeva di non poter più girare senza, né poteva tenerla in un fodero. Da investigatore privato non le era più concesso girare armata fuori servizio.

Tre quarti d’ora aspettò, stava quasi per perdere la pazienza, quando finalmente si sedette David Hunter con una sigaretta spenta in bocca. La guardò con un sopracciglio alzato, poi ordinò un caffè a sua volta. Quando la cameriera fu abbastanza lontana, cominciò a parlare. “Pensavo non saresti più tornata”

Cybil distolse lo sguardo nervosa. Il che rese il suo interlocutore più curioso.

“Cos’è successo?”

“Ci hanno trovati prima loro!”

David apparentemente ebbe una reazione molto composta, ragionata. Ma deglutì a quell’affermazione. La cameriera tornò con il caffè, il che diede il tempo all’uomo di ragionare sulla domanda successiva.

“Chi vi ha trovato?”

“L’Ordine. E ora è andato tutto a rotoli. Ho perso tutto!” disse Cybil trattenendo a stento le lacrime

“Cosa cercavano?”

“Non importa cosa cercavano…ora non c’è più”

“Chi non c’è più?”

L’insistenza di David era quasi fuori luogo, sembrava quasi un interrogatorio. Cybil non sapeva che fare, la sua fiducia era a zero, non riusciva a fidarsi neppure di quell’uomo che le aveva dato tutte quelle informazioni. Eppure non sapeva cos’altro fare. L’unica speranza di rivedere Harry per lei era quella di trovare e distruggere finalmente quella setta di folli invasati.

“Loro…cercano una bambina…pensano possa essere la madre di Dio”

 “Che bambina?”

Si maledisse non appena sentì quella domanda. Ricordava bene cosa successe l’ultima volta che raccontò quella storia a delle persone. Ma era la resa dei conti: era il momento in cui capì di essere davvero disperata, era il momento in cui il rancore e la sete di vendetta si palesarono in tutta la loro potenza, abbattendo la ragione lucida. “Alessa!”

L’uomo alzò un sopracciglio. Cybil non seppe interpretare quella reazione. Forse non ci credeva, o forse non aveva capito di chi stava parlando. Forse pensava solo di avere di fronte una pazza. E in fondo come biasimarlo?! Era stato lui stesso a dirle che quella bambina era morta quasi tredici anni prima. Ma Cybil sostenne lo sguardo perplesso dell’uomo…non aveva mai notato come quegli occhi verdi fossero penetranti. Sembrava stesse analizzando direttamente la sua anima.

Poi per un momento lo sguardo sembrò puntare oltre le spalle della ragazza…ma fu talmente impercettibile da diventare in breve un pensiero scacciato.

“Alessa… - riprese l’uomo - …Gillespie?”

Cybil inspirò, ma non emise un suono. Si limitò a fare un cenno deciso con la testa senza mai interrompere il contatto visivo.

L’uomo si rigirò la sigaretta fra le dita e appoggiò i gomiti sul tavolo. Assunse un’aria seria.

“Ammettiamo per un attimo che Alessa Gillespie non sia morta in quell’incendio. Diciamo che potrei crederti perché a dichiarare il decesso è stato Kaufmann, che mi ispira poca fiducia…tu hai parlato di una bambina…ma a occhio e croce questa bambina dovrebbe avere una ventina d’anni!”

Cybil deglutì.

“Inoltre c’è un’altra domanda a cui non riesco a dare una risposta: perché Alessa è con voi? C’entra qualcosa la sparizione della madre 5 anni fa?”

Cybil sorrise…un sorriso di sfida, di rassegnazione, un sorriso che era un azzardo, rispecchiava la sua volontà di tentare il tutto per tutto, e di tentarlo proprio con quell’uomo che ascoltava indisturbato e provava razionalmente a spiegarsi tutto. Ci provava proprio con quell’uomo che le concedeva il beneficio del dubbio davanti ad un’affermazione che avrebbe disorientato chiunque, che avrebbe fatto dubitare delle sue facoltà mentali.

E decise in un solo momento…

 

 

 

 

 

Ne è passato di tempo, non è vero?! Pensavate mi fossi dimenticato della bella poliziotta e della ragazzina indifesa lasciate su un divano tanto tempo fa?! No, signori: riecco la storia After the Darkness, continua ricominciando il racconto dopo il macabro incontro e la fuga improvvisa.

Qualcuno avrà perso la voglia di seguirmi, qualcuno nuovo forse si affaccerà per dire la sua…spero solo di non inciampare in qualche asse di ritorno sul palco della scrittura, che adesso cerca nuovi orizzonti fertili, ma non dimentica le sue origini!

Bentornati a Silent Hill signori, il treno verso l’inferno è pronto a partire

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