Scrivi il tuo destino di Stellalontana (/viewuser.php?uid=4687)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** Terra d'Incontro ***
Capitolo 3: *** La fuga ***
Capitolo 4: *** Un incontro inaspettato ***
Capitolo 5: *** Complicazioni ***
Capitolo 6: *** Prigioniera! ***
Capitolo 7: *** L'accordo ***
Capitolo 8: *** Sulla strada per Desra ***
Capitolo 9: *** Il Re ***
Capitolo 10: *** Astuzia, coraggio o semplice stupidità? ***
Capitolo 11: *** Veleno ***
Capitolo 12: *** Libera! ***
Capitolo 13: *** Ricominciare ***
Capitolo 14: *** Da una parte l'amore, dall'altra... ***
Capitolo 15: *** Il lieto fine... ***
Capitolo 1 *** L'inizio ***
Salve a tutti! Qui di seguito trovate la mia prima fanficton originale.
Dopo molti giorni d'assensa passati tra l'esame di maturità
e le vacanze ho deciso di sottoporvi questa piccola storia, senza
nessuna pretesa.
Voglio chiedervi soltanto di essere clementi, perchè
è la prima volta che scrivo una cosa del genere.
Spero che vi piaccia e che usiate le recensioni per farmelo sapere o
per criticarmi e aiutarmi a migliorare.
Un bacio grande dalla vostra affezionata
Stellalontana
Capitolo
Uno
L’alba
dorata illuminò il bosco tingendo di giallo le foglie dei
faggi. Will sospirò. L’aria andava riscaldandosi e
una brezza ancora fresca contribuì ad asciugare le ultime
chiazze bagnate sui suoi vestiti. Non aveva dormito quella notte. Non
ne aveva bisogno. Eppure il suo corpo, teso come un elastico, reclamava
il riposo che lui gli negava, ormai da giorni, ancor più
della sua mente. Si alzò, spazzolandosi i calzoni pieni di
foglie. Si avvicinò allo specchio d’acqua, dove la
sera prima aveva rimediato la cena. Guardò la sua immagine.
La ferita sul collo andava guarendo. Ben presto avrebbe avuto una lunga
cicatrice bianca in quel punto. Gli era andata bene, la freccia lo
aveva preso di striscio, ma per quanto ancora? Era pur sempre un
fuggitivo. La guerra gli aveva indurito il carattere e zittito la
coscienza. Quando era partito con l’esercito, aveva quindici
anni e sarebbe dovuto rimanere sotto le armi per almeno altri venti, se
non avesse disertato dopo quattro, per diventare un fuorilegge.
Sorrise. Tutti i suoi sogni si erano infranti quando aveva sentito per
la prima volta la spada urtare contro il petto di un uomo, la
resistenza del costato che si frantumava e gli schizzi del sangue che
gli avevano appannato la vista, con la loro disgustosa
viscosità. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter riportare
in vita tutti gli uomini che aveva ucciso durante quei quattro anni
d’inferno. Ma la guerra non era ancora finita. Con un sospiro
lavò la ferita, che gli bruciava ancora a tal punto da
strappargli gemiti sordi e da fargli pulsare il sangue nelle tempie.
Riempì le borracce e strigliò l’asino.
Il suo vecchio amico era stanco per il lungo cammino cui lo aveva
costretto il giorno prima, ma dovevano continuare a spostarsi, cercando
di portarsi sempre più vicini alla costa.
Controllò la bisaccia legata alla meno peggio sul suo dorso.
Conteneva ancora un po’ del cibo che gli aveva regalato un
mugnaio, dei pezzi di carta ingialliti, piume e inchiostro per
scrivere. Si accertò che non fosse evaporato e che la carta
fosse ancora asciutta abbastanza per scriverci sopra.
Spuntò i giorni sul suo taccuino. Ne erano passati ben cento
da quando era in fuga. Ormai si saranno scordati di me, si disse
alzando le spalle. La speranza che lo lasciassero in pace era la sola
cosa che gli era rimasta. Si tirò su a fatica, le gambe
stanche che cedevano sotto il suo peso. Era snello, proporzionato, la
guerra aveva forzato la crescita dei suoi muscoli, e adesso li sentiva
tesi e affaticati. Si ricordò della notte in cui era
fuggito. I suoi compagni lo avevano aiutato a fuggire, ma non potevano
certo rimanere a bocca chiusa, altrimenti li avrebbero uccisi tutti.
Era loro molto grato, ma il suo carattere duro e taciturno non lo
faceva avvicinare tanto agli altri, e lo avevano sempre trattato come
un conoscente, uno di cui ci si possa a malapena fidare. Non poteva dar
torto a nessuno di loro. Non parlava molto, rideva meno e non sorrideva
quasi mai. Scribacchiava sul suo taccuino e nessuno gli aveva mai
chiesto che cosa pensasse. Un ghigno affiorò alle sue
labbra, ricordando quando un ragazzetto appena in grado di reggere la
spada, aveva tentato di rubargli la bisaccia al campo. Aveva preso
così tante botte da non poter più camminare senza
barcollare. Will si era pentito di quanto dolore avesse provocato a
quel ragazzino, ma la sua bisaccia era la cosa più preziosa
che aveva e a nessuno aveva mai dato il permesso anche solo di
toccarla. Figuriamoci di rubarla. Uno scricchiolio dal folto lo fece
voltare. Il collo gli pulsava e la ferita bruciava. Un altro movimento
brusco e si sarebbe riaperta di sicuro. Dai cespugli spuntò
uno scoiattolo. Will tirò un sospiro di sollievo. La foresta
vicino alla città di Ponte Bruciato era meta non solo di
fuorilegge, ma anche di soldati e ladri. Decise che sarebbe sceso in
città per fare provviste. Cercò il borsellino
sotto il mantello. Aveva ancora poche monete d’argento, ma
sarebbero bastate per un letto e per qualche giorno di scorte. Prese le
redini improvvisate dell’asino e lo fece muovere, facendo
attenzione a non calpestare le tane delle formiche rosse e delle vespe,
dure come calce. Uscito dalla foresta tirò su il cappuccio
del mantello, nascondendo i folti capelli neri e gli occhi di un
azzurro glaciale. Si chiuse il laccio al collo, provando una fitta di
dolore quando la tela grezza sfiorò la ferita. Il sole era
appena sorto e tingeva le nuvole, ancora grasse di pioggia, di rosa e
arancione. Un tempo avrebbe trovato l’alba estremamente
romantica. Adesso la trovava quasi fastidiosa.
S’incamminò verso il fondo del villaggio. La
caviglia rotta gli dava ancora qualche fitta di tanto in tanto, ma il
cerusico l’aveva rimessa a posto senza fare troppe domande, e
gli aveva raccomandato il riposo più assoluto. Will se
n’era andato ridendo.
Nascosto dal mantello
scrutò la gente che si affacciava dalle casupole. Uno
straniero ammantato di nero era sempre qualcosa di imprevisto. Dei
bambini gli saltellarono intorno. La gente di Ponte Bruciato era
ospitale ma curiosa e lui odiava le lunghe occhiate che gli uomini gli
lanciavano. Passò accanto alla fucina del fabbro appena
aperta. L’uomo dalla pelle ustionata gli lanciò
una lunga occhiata da sotto la zazzera bionda. Gli occhi color castagna
lo seguirono anche quando fu lontano. Odiava esser guardato, odiava
vedere la curiosità sui volti delle persone, e odiava ancora
di più il fatto di essere diverso da loro. I suoi colori
strani, i capelli neri e la pelle ambra, suscitavano timore nella gente
di quella regione così distante dalla sua patria.
Addirittura al di là del mare. Ma la cosa che temeva di
più era l’espressione di sorpresa per i suoi occhi
gelidi. La guerra aveva indurito il suo carattere, ghiacciato il fiume
della sua coscienza e risvegliato lo spirito di sopravvivenza sopito.
Inciampò in
una buca della strada e la spada gli picchiò sul fianco.
Imprecò a bassa voce, cercando di nascondere il sibilo della
sua lingua madre. Tastò la pietra incastonata
nell’elsa, un piccolo ma prezioso, diamante, trovato un
giorno da suo padre. Probabilmente caduto dalla borsa di un ricco
mercante. L’aveva fatto incastonare nell’elsa, ma
un buon fabbro avrebbe potuto toglierla. Quando gliel’aveva
data gli aveva fatto giurare che non si sarebbe fatto scrupoli, e che,
per quanto quella spada senza il diamante non avrebbe avuto nessun
valore, avrebbe venduto la pietra se si fosse trovato nei guai. Per il
momento non aveva avuto bisogno di venderla. E non l’avrebbe
fatto, a costo di morire di fame. Era l’unica cosa che ancora
lo legava alla sua terra, al di là del mare.
La guerra lo aveva
fatto diventare sospettoso e irrequieto e da tempo non dormiva come si
doveva, perciò aveva bisogno di almeno un giorno di
tranquillità. Alla fine della città
trovò una locanda a basso costo, anche se questo la diceva
lunga sulle condizioni delle camere. Legò l’asino
dentro la stalla, lasciando una moneta d’argento al ragazzino
che si occupava dei cavalli, ed entrò nella locanda. Lo
colpì il puzzo di marcio delle assi, l’odore
prepotente della birra stantia e un olezzo di fogna a cielo aperto.
Peggio di così, pensò. Gli venne l’idea
di andarsene subito, ma aveva bisogno di dormire un paio
d’ore e non aveva altra scelta. Si avvicinò al
bancone. Il locandiere lo squadrò.
-Che cosa vuoi
straniero?- chiese. Will non alzò la testa, ma
parlò con voce forte, così che tutti potessero
distinguere il suo accento marcato.
-Una camera. E un
bicchiere di acquavite- posò sul bancone quattro monete
d’argento, sentendo il borsellino alleggerirsi. Il locandiere
guardò le monete, poi lo servì. Aprì
un registro e gli diede penna e calamaio.
-Il tuo nome
straniero- intimò. Will finì con calma il
bicchiere, poi intinse la penna nel calamaio e scrisse un nome non suo
sul registro. Il locandiere lesse con stupore il nome svolazzante.
-Dove hai imparato a scrivere così?- chiese. Will
alzò le spalle da sotto il mantello, asciugandosi le labbra
con il dorso della mano guantata.
-Da solo- rispose.
Poggiò il bicchiere sul bancone. -Dove sono le camere?-
-Sali le scale e gira
a destra. La numero otto è libera- sogghignò -Sei
stato fortunato. È l’ultima che mi è
rimasta-
-Io non direi tanto
fortunato- Will sentì una sedia muoversi. Il proprietario
della voce gli toccò la spalla. Si voltò e lo
guardò da sotto il mantello. Non era molto più
alto di lui, forse un paio di dita, ma era robusto e sicuramente senza
ferite quasi riaperte. Portava un coltellino alla cintura. Will
passò la mano guantata sopra l’elsa della spalla.
Non doveva combattere. Non doveva mostrare a tutti la sua eccezionale
abilità con la spada. Non doveva. Cercò di
calmarsi. Il collo gli doleva e voleva stendersi in un posto asciutto.
L’uomo non poteva avere più di
vent’anni. Gli occhi nocciola erano cattivi e i capelli
rossicci erano appiccicati sulla fronte come la criniera bagnata di uno
stallone.
-Che cosa vuoi?-
chiese a bassa voce. L’altro lo guardò inclinando
la testa.
-Da dove vieni? Non
sei di queste parti, vero?- chiese -Da dove arrivi?-
-Da un posto che non
conosci- non riuscì a dissimulare il sibilo della lingua fra
i denti. La sua lingua natale aveva suoni sibilanti e dolci, non come
quella lingua tagliente e gelida.
-Questo posto deve
essere molto lontano dal modo in cui parli- osservò il
rosso. Will trattenne a stento un gemito. La presa sulla sua spalla si
era fatta una morsa e il collo gli bruciava sempre di più.
-E con questo?- si
limitò a borbottare. L’altro lo lasciò.
Gli scappò un sospiro di sollievo. Non avrebbe potuto
affrontare uno scontro. Doveva evitare di innervosire
l’avversario e doveva stendersi. Non ce la faceva
più. Il suo corpo reclamava il riposo e i suoi occhi
bruciavano. Cominciava a sentire la stanchezza scorrergli nelle vene
fino ad appannargli il cervello. Deglutì. Doveva calmarsi e
respirare come gli avevano insegnato i soldati, prima di affrontare una
battaglia.
-Gli stranieri non
sono i benvenuti a Ponte Bruciato- lo sentì dire -E di
solito qui le persone si guardano negli occhi quando gli si parla- Will
si scansò, ma l’altro riuscì ad
afferrare il cappuccio. I capelli ancora lunghi gli piovvero sul volto,
accecandolo per un attimo. Se li scostò con la mano guantata
e sollevò lo sguardo sull’altro. Il volto del
rosso trasfigurò. La sorpresa e lo spavento si mescolavano
nei suoi occhi nocciola. Will gli rivolse uno sguardo di compatimento.
Si appoggiò al bancone.
-Adesso che mi hai
visto... posso andare?- chiese ansimando -Ho bisogno di riposo. Ho
fatto un lungo viaggio-
Il locandiere prese
infine le sue difese. -Sei solo un ragazzo. Che cosa ci fai qui?-
-Affari miei, oste.
Scusate se non sono si compagnia-
-Da dove vieni?-
chiese prima che sparisse su per le scale. Will tornò
indietro.
-Da un posto che tu
non conosci- rispose malinconico. Sentiva così tanta
nostalgia della sua terra che sentiva il cuore duro come il ferro di
cui era forgiata la sua spada.
-Vieni dal mare vero?-
chiese il locandiere -Dove ti sei fatto quella brutta ferita?-
Will non rispose.
L’oste gli diede un bricco sbeccato e un bacile di coccio.
-Lavala e mettici della tela- gli porse un pezzo di tela che gli parve
abbastanza pulita -Mia figlia Contessa verrà a fasciarla tra
poco-
-Non ho bisogno di
compassione, oste- ribatté glaciale Will.
-La mia non
è compassione, ragazzo. Mio figlio è morto in
guerra, e tu sembri uno dei pochi sopravvissuti. Mio figlio aveva la
tua età. Forse tu sei ancora più giovane di come
appari- alzò le spalle strette -Curati quella ferita, e non
fare movimenti bruschi altrimenti si riaprirà e
s’infetterà- aprì una porta dietro il
bancone e chiamò la figlia. Will salì le scale,
la stanchezza accumulata lo faceva barcollare. Entrò in
camera e poggiò il bacile e la brocca a terra. Si tolse il
mantello, i guanti, la spada, il piccolo tascapane e buona parte dei
vestiti. Si sdraiò sotto il lenzuolo. La camera era piccola,
ma sembrava in buone condizioni. Il materasso scricchiolava, ma non
c’erano pulci o scarafaggi. Appoggiò la testa sul
cuscino. La ferita pulsava terribilmente e lui si lasciò
scappare un gemito di dolore. Non seppe se era scivolato
nell’incoscienza per via del dolore o per la stanchezza,
fatto sta che quando qualcuno bussò alla porta ebbe appena
la forza di dire “avanti!”. Una ragazzina dai
capelli biondo cenere legati in una lunga treccia che oscillava sulla
sua schiena eretta, avanzò fino al suo letto. Lo
osservò a lungo con i grandi occhi ambra chiara. Will non la
guardò negli occhi. Aveva paura di leggere compassione e
pietà dentro il suo sguardo curioso. Doveva avere
più o meno quattordici o quindici anni. Grande abbastanza
per sposarsi e avere dei figli. Lei affondò le mani nel
bacile, che aveva riempito d’acqua, e ci tuffò
dentro delle pezze di quella che sembrava seta poco lavorata. Aveva una
voce stridula, forse per una malattia alla gola non guarita bene.
Parlò poco, ma Will non rispose mai. Gli pulì la
ferita e la fasciò alla bell’e meglio, passandogli
la fascia intinta nell’acqua oleata, sotto i capelli neri.
Quando uscì, Will era di nuovo scivolato
nell’incoscienza.
Quando si
svegliò dal torpore era ormai sera. Non capì se
lo avesse svegliato il dolore al collo o il brontolio dello stomaco. Si
alzò temendo un capogiro, che però lo
risparmiò. Si vestì, la fascia che gli pizzicava
la nuca, si rimise i guanti e la spada alla cintura, ma
lasciò il mantello accasciato al letto. Prese lo specchio
che era su una piccola madia e lo appoggiò al letto.
S’inginocchiò, estrasse un coltellino di corno
dalla fodera del mantello e cominciò a tagliare i capelli,
ormai troppo lunghi, che gli incorniciavano il volto e scendevano sulla
nuca. Quando si ritenne soddisfatto rimise tutto in ordine e
uscì dalla stanza. Ormai tutti sapevano che uno straniero
dagli strani colori e il corpo temprato dalla guerra era arrivato in
città. Sebbene avesse paura dei soldati del re, non poteva
vivere per sempre nascosto, perciò si fece coraggio e scese
le scale. Il sonno gli aveva fatto bene e i suoi occhi non bruciavano
più. Solo la ferita gli faceva vedere le stelle. La locanda
era più affollata di quando era arrivato. Gli avventori si
erano riuniti al bancone e attorno ai tavoli. Si sentiva
l’odore di uno stufato, forse non particolarmente buono, ma
che fece brontolare ulteriormente lo stomaco di Will. Si sedette ad un
tavolo. Contessa, la figlia dell’oste si avvicinò.
-Vi posso portare
qualcosa?- chiese. Will annuì. -C’è
dello stufato. Posso portarvi anche del pane nero e la birra di mio
padre-
-Va bene- le mise in
mano una moneta d’argento e lei lo guardò con
gratitudine. Forse suo padre non le aveva mai dato dei soldi da
spendere in ciò che voleva. La vide far scivolare la moneta
nell’incavo dei seni. Quel gesto gli ricordò sua
madre, che usava nascondere uno spillo tra le pieghe del
corpetto. Sua madre era bellissima, da lei aveva ereditato
gli occhi azzurri, e molti usavano corteggiarla. Contessa gli
portò una dose generosa di stufato e un tozzo di pane
abbastanza morbido. Appoggiò al tavolo il boccale. -Se ne
volete ancora chiamatemi- gli sussurrò
all’orecchio. Will non ribatté, ma
cercò di sorridere. Lo sguardo della ragazzina era sincero e
lui la guardò andare via. Suo padre le chiese qualcosa e lei
chinò il capo, scuotendolo lievemente. Lui guardò
verso Will, che fece finta di niente, intingendo il cucchiaio nello
stufato, poi si rivolse di nuovo a Contessa. La voce era stizzita e
Will ci ritrovò a concentrarsi per carpire cose le diceva.
-Sei proprio una sciocca-
-Mi dispiace
papà- sentì la flebile risposta di Contessa.
-Vedi di dargli
questo. Se sarai brava ti darà un’altra moneta- la
voce di Tiberio era suadente. Will lasciò cadere
l’attenzione e guardò Contessa che rispondeva e
che, il volto rosso e gli occhi bassi, tornava in cucina.
Era il primo pasto
vero da ben sessanta giorni, si ricordò Will, annotando una
lettera nella sua lingua sotto il segno del giorno. Si
asciugò le labbra con il dorso della mano guantata. Non vide
sopraggiungere il rosso, ma lo sentì sedersi.
Alzò lo sguardo dal piatto. -Oggi non mi sono presentato-
disse -Mi chiamo Karen, ma tutti mi chiamano Spirito, e tu?-
Will
grugnì. Perché in quella città
dovevano essere tutti così curiosi? -Lyon- rispose. Era il
nome di un soldato che aveva ucciso durante la guerra. Gli era rimasto
impresso per la dolcezza della pronuncia.
-Lyon e poi?- chiese
ancora Spirito.
-Lyon e basta- rispose
spazientito Will. Fece un gesto a Contessa, che sparì in
cucina e tornò con un altro piatto di stufato.
Portò via quello vuoto. Will affondò il cucchiaio
nello stufato, sperando che quel gesto facesse capire a Spirito che la
conversazione era finita. Ma lui era di un altro avviso.
-Come ti sei fatto
quella ferita?- chiese curioso. Will alzò la testa e lo
guardò negli occhi. Sapeva che il loro colore incuteva, in
quasi tutti gli uomini, una sorta di malcelata inquietudine nei suoi
confronti, ma la curiosità di Spirito non si
acquietò.
-A caccia- rispose
laconico. Non poteva certo dire che la preda era proprio lui.
-Che cosa ci fai a
Ponte Bruciato?- chiese ancora Spirito, appoggiandosi alla sedia e
incrociando le braccia. Will spezzò il tozzo di pane con le
mani guantate. -E perché quei guanti?-
-Affari miei- rispose.
Il sibilo della sua lingua probabilmente fece venire i brividi a
Spirito, che lo guardò quasi impaurito.
-È strano
il modo in cui parli, Lyon- osservò. Will si
scostò i capelli dalla fronte con un gesto seccato.
-La mia lingua
è molto più antica della tua- commentò
distaccato. Aveva fatto fatica ad imparare la lingua di quella regione
e a volte faticava ancora a tradurre i propri pensieri.
Spirito
sembrò soddisfatto della risposta. Non si alzò
subito, ma aspettò che lui avesse finito il boccale della
birra. Will lo guardò di nuovo, solo allora Spirito si
alzò.
-Beh, stammi bene,
Lyon- balbettò. Will non rispose. Sapeva che anche se era
grosso e alto più di lui, Spirito aveva paura di lui. Uno
straniero scuro di capelli, con una spada e un strano accento incuteva
timore reverenziale in quella gente semplice. Perfino l’oste
aveva paura di lui, anche se gli ricordava suo figlio.
Chiamò di nuovo Contessa.
-Come si chiama tuo
padre?- le chiese mentre sparecchiava.
-Tiberio- rispose lei.
Will notò che lasciò cadere sulla tavola un
foglio spiegazzato e con su una calligrafia storta. Non poteva essere
quella della ragazzina, perché ricordava che mentre gli
fasciava la ferita gli aveva detto che sapeva a malapena scrivere il
suo nome. Perciò quella doveva essere la grafia del padre.
Will spiegò il foglietto, facendo in modo che Contessa lo
vedesse e lo riferisse a Tiberio. Un ghigno gli affiorò alle
labbra. Se hai bisogno di qualcosa, mia figlia provvederà.
La parola “qualcosa” era sottolineata due volte. La
scrittura sghemba era a malapena decifrabile, ma Will ebbe la
sensazione che l’oste non si facesse scrupoli quando si
trattava di sua figlia. Aveva scoperto la moneta che Will le aveva
dato. Si infilò il foglio in tasca e si alzò. Il
collo gli pulsava, ma gli faceva meno male ed era una buona cosa.
Salì le scale e tornò in camera. Si tolse la
cintura, e appoggiò la spada alla testata del letto. Pochi
minuti dopo sentì bussare alla porta. Sapeva chi era dietro
la porta. Aprì e si ritrovò davanti Contessa. Si
spostò e la fece entrare. Non indossava più il
grembiule sudicio. Il vestito grigio non le donava e non rendeva
giustizia al suo corpicino già ben formato. -Che cosa
c’è?- chiese Will, anche se già sapeva
la risposta.
-Mi ha mandato mio
padre- rispose lei con la solita voce stridula -Come va la ferita?-
-Passerà-
commentò laconico lui. -Vattene Contessa-
La ragazzina lo
guardò dal basso in alto, cercando di capire che cosa
volesse da lei. Visto che non se ne andava Will glielo
ripeté. -Vattene. Non ho bisogno di nulla-
-Mio padre credeva
che...-
-Non
m’interessa un accidente di che cosa pensava tuo padre. Non
mi diverto con delle ragazzine- al sibilo della sua lingua fra i denti
vide Contessa rabbrividire istintivamente. -Tieni- le mise in mano una
moneta di bronzo. -Dì a tuo padre quello che ti pare, basta
che mi lasci in pace-
-Grazie-
mormorò lei -Posso farvi una domanda?- chiese impacciata.
Will annuì, mentre si sfilava gli stivali, seduto sul letto.
-Perché portate quei guanti?-
Will alzò
gli occhi su di lei. Teneva la mano che stringeva la moneta stretta al
petto prospero. -Lo vuoi sapere davvero?- chiese. Lei annuì
senza quasi respirare. Lui ridacchiò senza allegria. Si
tolse un guanto e allungò la mano verso di lei. Le cicatrici
biancastre sul dorso e il palmo tremarono come fossero vive alla luce
fioca delle tre candele.
-Come ve le siete
fatte?- chiese Contessa, piena di stupore. Will si guardò le
dita, lunghe e affusolate.
-È una
lunga storia, Contessa. Forse se passerò di nuovo da qui te
la racconterò- rispose -Adesso vai. Sei stata abbastanza- la
congedò gelido. Contessa si voltò. Poi
sembrò ripensarci. Tornò da lui e si
chinò, schioccandogli un bacio sulla guancia. -Nessuno era
mai stato gentile con me, vi ringrazio dal profondo del mio cuore-
disse al suo orecchio. Will la guardò andare via, la lunga
treccia che oscillava sulla sua schiena. Si toccò la guancia
con le dita. Sorrise senza allegria. L’ultima volta che aveva
ricevuto un bacio era stato quando era partito da casa. Si ricordava
ancora il profumo di farina di sua madre, mentre lo abbracciava, le
lacrime che le rigavano il bel volto, dalla pelle bianca come i
bucaneve. Si sdraiò, sfilandosi anche l’altro
guanto. Si guardò le dita affusolate. Le mosse,
intrecciandole. Le sue mani grondavano sangue, e quelle cicatrici erano
solo uno dei tanti ricordi della guerra. Passò le mani sotto
la testa. Il collo pizzicava, ma cercò di non pensarci e
poco dopo si addormentò.
Il
vascello rollava e il vento spazzava il ponte di comando.
L’acqua salmastra gli riempiva le orecchie e gli faceva
bruciare come fuoco gli occhi stanchi. I vestiti erano appiccicati al
corpo, il freddo e la paura gli attanagliavano lo stomaco come una
morsa di ferro. Mentre scivolava, portato via da un’onda, la
sua mano afferrò una cima che si srotolò
finché non s’incastrò in una tavola
malmessa. Si aggrappò alla cima con tutta la forza della
disperazione. Il vascello si piegò vertiginosamente e lui
sentì le urla del capitano e dei marinai. Lui e gli altri
soldati se ne stavano aggrappati, angosciati dalla paura, mentre il
mare precipitava e saliva tutto intorno a loro. Le onde altissime
sballottavano la nave come fosse un guscio di noce. Urla di terrore gli
affollavano la gola, ma era incapace anche si parlare, la sorda paura
di morire si era impossessata di lui e non sentiva altro che il mare
che urlava intorno a lui. Quando il vento smise per un solo momento di
soffiare, sentì un dolore atroce alle mani. Cercò
di aprire gli occhi, ma l’acqua salmastra bruciava e non
riuscì a vedere nulla, attraverso la patina di lacrime,
vento e paura. Sentì la presenza di un altro uomo accanto a
lui. Si sentì afferrare per la vita. Gridò. Un
urlo che gli fece dolere le corde vocali. Sentì le sue mani
scorrere lungo la cima. Un dolore immane
s’impossessò di lui. Altre mani sopra le sue lo
staccarono dalla cima. Sarebbe morto. La Dama con la falce era venuto a
prenderlo e non avrebbe mai più rivisto casa sua. Tutto
intorno era paura, nebbia, vento, urla. Il dolore gli abbuiò
la ragione. Urlò. Ancora, ancora e ancora, finché
non ebbe più fiato e finché
l’incoscienza non sopraggiunse a lenire la sofferenza.
Will si
svegliò di soprassalto, sudato e con il fiatone. Si
alzò a sedere sul materasso scricchiolante. Ancora...
pensò, passandosi la mano sul volto. La luce
dell’alba filtrò fra le tende accostate. Aveva
dormito tutta la notte. Si guardò le mani. Al ricordo le
ferite rimarginate pulsavano ancora. Ricordava il dolore cocente delle
erbe dei cerusici. Le ferite c’avevano messo sei mesi per
cicatrizzarsi. E intanto lui doveva brandire la spada. E ogni volta le
mani gli facevano male, un dolore bruciante che risaliva per le braccia
e gli offuscava i sensi. Aveva imparato ad escluderlo, concentrandosi
solo sul peso enorme della spada contro le sue braccia ancora deboli.
Suo padre era mugnaio, ma aveva voluto che lui studiasse e che
lavorasse con lui soltanto alcuni giorni a settimana, per imparare il
mestiere se non avesse trovato di meglio. Ma quando era giunta la
notizia della guerra in quella terra lontana, di cui Will conosceva a
malapena l’esistenza suo padre aveva cominciato a tenerlo in
casa e lui aveva smesso di uscire per conto suo. Usciva di notte e il
chiarore della luna rendeva la sua pelle ancora più bianca,
nella luce lattiginosa. Poi lo avevano arruolato e tutto era finito.
Aveva dovuto apprendere come difendersi, come uccidere, come
saccheggiare. Per un anno era stato una recluta, ma mano a mano che
cresceva il suo corpo imparava a sopportare il dolore e la mancanza di
riposo. La guerra l’aveva temprato con un fabbro fa con il
ferro caldo, dandogli la forma che ritiene più adeguata. La
forma che Will aveva preso era quella di un soldato, la coscienza
seppellita sotto il senso del dovere, il cuore ridotto ad un seme di
papavero, gli occhi duri e la lingua tagliente.
Si alzò, si
rivestì e si allacciò il mantello al collo.
Trasalì sentendo la fasciatura premere sulla ferita. Scese
dabbasso. Trovò Contessa e suo padre che parlavano. La
ragazzina lo guardò.
-Partite?- chiese. Lui
annuì.
-Quanto ti devo?-
chiese a Tiberio. L’oste scosse la testa.
-Hai pagato ieri sera.
Tieni- gli porse un fagotto di tela non troppo pulita. -Dentro
c’è un po’ di cibo e qualcosa che
potrà tornarti utile finché rimani nei paraggi
delle città- indicò i suoi guanti sdruciti -E un
nuovo paio di guanti- si chinò sul bancone -Quelle ferite
non devi farle vedere in giro. Molti sanno che la guerra non
è ancora finita e quelle... beh, sono molto strane-
alzò le spalle e tacque, eloquente. Will non
ribatté, ma fece un cenno all’oste e si
allontanò, il mantello che lo seguiva come la sua ombra. Si
calò il cappuccio del mantello sul volto e riprese
l’asino dalla stalla. Lo portò di nuovo in
direzione della foresta e quando furono abbastanza lontani dalla
città, si sedette su un tronco marcio a lato della strada e
sfece il fagotto. Trovò del pane nero, del formaggio e della
carne essiccata. Dentro un pacchetto in carta lucida c’erano
i guanti di cui gli aveva parlato l’oste. Non erano nuovi, ma
erano in pelle, cuciti con maestria a filo doppio. Si tolse i suoi e se
li infilò. Con quelli aveva più
libertà di movimento, poteva muovere le dita senza che le
cuciture gli torturassero le vene e le cicatrici. La pelle rimarginata,
con il freddo dell’autunno in arrivo, si faceva ogni giorno
più sensibile e lui ogni giorno più nervoso. Si
rimise in cammino. La strada per la costa era ancora lunga, e lui non
aveva nessuna intenzione di girovagare ancora. Voleva tornare a casa.
Forse sarebbe morto prima di arrivarci, ma non gli importava. Sarebbe
arrivato alla costa, avrebbe preso una nave e sarebbe tornato a casa.
Vivo o morto.
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Capitolo 2 *** Terra d'Incontro ***
capitolo due
Capitolo Due
Will si
tirò via il sangue dalle mani, strofinandole a lungo dentro
l’acqua che scorreva dalla piccola polla tra i massi. Le
cicatrici rilucevano al sole come a ricordargli che sarebbero rimaste
sempre con lui per quanto potesse nasconderle. Si passò la
mano bagnata sulla ferita al collo. Era ormai rimarginata, ma doleva
ancora. Piegò il capo, chiudendo per un attimo gli occhi
stanchi.
L’asino
brucava l’erba già un po’ ingiallita
della radura in cui Will si era fermato la sera prima. Aveva catturato
delle lepri, le aveva spellate e aveva affumicato la loro carne,
così che si conservasse. Si sedette su un masso e
spezzò il pane bianco che aveva comprato in un mercato poco
lontano da quel boschetto di pioppi. L’aria era fresca e lui
si strinse nel mantello. Più si avvicinava alla costa
più l’aria diventava umida e per questo
più fredda. Guardò l’asino brucare
soddisfatto. Bevve dalla borraccia che poi riempì di nuovo.
La birra scadente che aveva comprato al mercato era finita da un pezzo
e lui ne era stato alquanto felice. Rimise la bisaccia sulla groppa
dell’asino e gli infilò di nuovo le redini
riparate alla bell’e meglio. Lui soffiò dalle
grosse narici, dimenando le orecchie.
"Anche io sono stanco,
sapientone!" lo redarguì Will "Ma non voglio essere spellato
vivo dai soldati del governatore"
L’asino lo
guardò con gli occhi neri e lui credette che sotto sotto
pure quella bestia ridesse di lui. Sbuffò, scostandosi un
ciuffo di capelli dalla fronte. Prese le redini e condusse
l’asino fuori dal boschetto. Era pericoloso per lui seguire
la strada battuta, ma ancora più pericoloso era andare per
boschi. Vi sarebbe tornato solo a sera inoltrata. Camminò di
buon passo per un paio d’ore. La ferita gli dava delle fitte,
e di tanto in tanto la caviglia lo costringeva a fermarsi, ma
d’un tratto dovette far rallentare l’asino e
calarsi il cappuccio sugli occhi. Una fila di persone si muoveva lenta
lungo la strada. Will si avvicinò ad un uomo con la faccia
devastata dal vaiolo.
"Che cosa succede?"
chiese. L’uomo lo guardò.
"C’è
la fiera a Terra d’Incontro" sussurrò. Will sapeva
che Terra d’Incontro era formata da due città, che
si erano fuse insieme quasi cinquant’anni prima. Le fiere
erano l’occasione per scambiare e per esercitare
l’arte che aveva faticosamente imparato. Nelle fiere faceva
lo scrivano e raccattava qualche soldo. La sua grafia ordinata, pulita
e svolazzante piaceva ai signorotti e se non sprecava molto inchiostro
questi lo pagavano bene. Decise di entrare in città senza
l’asino. Lo legò ad un albero poco prima dei
cancelli della città. Due soldati era appostati
all’entrata, ma non lo notarono, avevano altro a cui pensare.
Un gruppo di giocolieri gli stavano dando del filo da torcere e Will
riuscì a passare inosservato. Si strinse di più
nel mantello, la bisaccia che pesava sulla spalla. I banchetti erano
pieni di cianfrusaglie. Comprò un dolce che emanava un odore
di vaniglia e che gli imbrattò i guanti. Dovette lavarli e
aspettare che si fossero asciugati, prima di rimetterli.
Però almeno aveva attenuato il senso di disagio. Si
guardò intorno. Notò alcuni signorotti ben
vestiti e le loro dame. Si sedette sullo scalino di una casa
abbandonata accanto ad un banchetto che vendeva giocattoli.
Aprì il piccolo banco che si portava appresso e vi dispose
sopra fogli bianchi, calamai e penne appena appuntante. Si
passò una mano sulla fronte. D’un tratto
sentì qualcuno chiamarlo.
"Ehi tu"
alzò lo sguardo, il volto celato dal cappuccio. "Sei uno
scrivano?"
"Si mio signore"
rispose cercando di adeguare il suo tono a quello di un servitore. Il
signorotto che lo aveva interpellato era poco più alto di
lui, vestiva di un abito damascato, rosso ricamato d’oro.
Aveva un copricapo elaborato e costoso, con piume di pavone. Gli diede
una pergamena.
"Scrivi nel migliore
dei modi e veloce" ordinò il signore "Ti pagherò
dieci pezzi d’argento"
Will intinse la penna
nell’inchiostro e poggiò il pennino sulla carta.
Cominciò a scrivere con gesti leggeri e sapienti. Amava
scrivere in quel modo, gli veniva così naturale adesso. Il
signore lo guardava. Dal suo volto non traspariva nessuna emozione.
Dieci minuti dopo Will consegnò la carta e la pergamena al
signore. Questi lesse e rilesse la carta per trovare un minimo errore,
poi, con una smorfia lanciò un sacchetto a Will che lo prese
con entrambe le mani, coperte dai guanti.
"Scrivi con la mano
sinistra, scrivano" osservò il signore "Eppure i tuoi gesti
sono sapienti"
"Vi ringrazio
enormemente mio signore" replicò Will con un sorrisetto di
compiacimento. Il signore gli lanciò uno sguardo irritato,
poi se ne andò. Will soppesò il sacchetto. Lo
infilò dentro il tascapane, al sicuro a contatto con la
pelle. La spada gli pungeva il fianco. Aveva voglia di andare un
po’ in giro per la fiera, ma se voleva raccattare ancora
qualche soldo doveva aspettare il tramonto. Venne avvicinato da altri
tre signori molto facoltosi. Due lo pagarono molto bene, mentre il
terzo gli allungò due monete d’argento e un
calamaio pieno di inchiostro di bassa qualità. Will non
protestò, ma digrignò i denti. Se tutti fossero
come te, i soldi non mi basterebbero per un pezzo di pane,
pensò. Era il momento di chiudere il banchetto. Aveva
racimolato abbastanza argento.
"Posso chiederti un
attimo di pazienza?" una voce flautata lo fermò, mentre
riponeva i calamai. Alzò lo sguardo dalla bisaccia. Una
ragazza di circa la sua età, forse più giovane,
vestita di un semplice abito blu scuro e un velo sui capelli rossi, lo
guardava con un sorriso dolce.
"Ditemi, mia signora"
replicò Will. Lei gli mostrò un pezzetto di
carta, con della scrittura fitta. Era una scrittura piccola e
appuntita, poco decifrabile.
"Puoi riscriverlo?"
chiese. Will annuì.
"Mi ci
vorrà un po’ mia signora" rispose attento a non
far sibilare la lingua "Dovrete attendere"
"Ho molto tempo,
scrivano" ribatté lei. Si sedette accanto a lui, sul gradino
della casa. "Non sei di questa città, vero?" chiese con voce
vellutata. Will intinse il pennino nel calamaio e scosse la testa.
Probabilmente non le piacque la risposta, perché
tornò all’attacco. "Da dove vieni?"
"Da molto lontano" la
scrittura che c’era sulla carta era a malapena riconoscibile
e Will dovette aguzzare la vista per poter ricopiare.
"Sì,
d’accordo, ma molto lontano, dove?" continuò lei.
Will sospirò.
"Perché vi
interessa mia signora?" chiese soffiando sopra l’inchiostro. "Sono solo uno scrivano"
Lei lo
fissò. "Tu non sei solo uno scrivano" ribatté "Porti un lungo mantello con un cappuccio che ti copre il volto, hai
dei guanti e scrivi con la sinistra" si avvicinò di
più a lui "Non sei un semplice scrivano"
"Ho finito"
ribatté gelido Will porgendole la carta. Lei la
rimirò.
"È bella,
bravo" si congratulò "Ma adesso rispondi. Chi sei veramente?"
"Mia signora..."
"Scrivano!" una voce
da sopra la sua testa lo fece sobbalzare. Alzò gli occhi.
Era un soldato. "Tutti i tuoi simili stanno chiudendo. È ora
che te ne vada"
"Subito mio signore"
sollevato, Will, depose tutto nella bisaccia e si alzò. La
ragazza gli prese una angolo del mantello.
"Dimmi chi sei"
"Voi siete troppo
curiosa" disse Will abbandonando il tono reverenziale. Lei lo
notò.
"Non mi chiami
più “mia signora”?" chiese quasi
scherzosa. Will sorrise condiscendente.
"Adesso basta" si
divincolò "Addio"
Si voltò,
ma andò a sbattere contro qualcuno. "Fatti da parte!"
ringhiò l’altro. Will alzò gli occhi.
Ebbe un tuffo al cuore. Guy di Monte Argento. Il soldato lo
squadrò.
"Io ti conosco"
sussurrò. Will sentì il sangue ribollire nelle
vene, e il vecchio odio sepolto tornare a galla. Sfiorò la
spada sotto il mantello. Guy era più grosso di lui, ma Will
era più svelto e più agile. Sentì la
ragazza che lo strattonava.
"Vogliate scusarlo mio
signore" s’intromise "ma il mio servitore non ci vede molto
bene"
"Ho notato" Guy
sorrise discretamente alla ragazza. Will la vide sorridere sorniona.
"Scusatemi ancora" gli
rivolse un’occhiataccia "Andiamo, sciocco. Riportami a casa"
Will piegò le spalle per sembrare più basso.
Sotto il mantello sudava. Guy era da mesi il suo peggior nemico. Lo
cercava in lungo e in largo e lui non avrebbe mai dormito tranquillo,
finché Guy di Monte Argento era sulle sue tracce.
La ragazza lo
portò dentro una locanda. Parlò con
l’oste e lo spinse di forza in una camera. "Ma sei pazzo?"
urlò non appena si fu richiusa la porta alle spalle "Lo sai
chi è quello?"
"Guy di Monte Argento,
signora" rispose tranquillo Will. "Lo so"
"Bene, vedo che hai un
po’ di sale in zucca" ribatté irritata "Lo sai che
sta dando la caccia per tutto il regno ad un ragazzino? Perde e
riprende le sue tracce da mesi. È un diavolo. Sembra che
quel ragazzino sia importantissimo per il governatore di Salazard, che
ha avuto l’ordine di cercarlo direttamente dal fratello, il
re"
"Già" Will
scoppiò a ridere. Importantissimo un disertore?,
pensò. Non sapeva di essere così famoso.
Guardò la ragazza, che se ne stava in piedi davanti a lui
con le braccia incrociate. "Sapete il suo nome?"
"No" rispose lei "Ma
se il governatore lo vuole catturare con così tanto
accanimento, deve trovarsi in una montagna di guai" sospirò
e si sedette sul letto "Dicono che sia bellissimo e che parli
un’altra lingua, che venga da oltre il mare, da una terra
lontana"
Will
ridacchiò senza allegria. "Sono davvero queste le voci che
girano?"
"Sì"
sospirò di nuovo "Ma cosa ne vuoi sapere tu, sei solo uno
scrivano, no?" Will sapeva di aver destato in lei la
curiosità tipica delle donne. Si guardò i guanti.
In fondo lei lo aveva salvato da Guy. Le avrebbe fatto promettere che
non avrebbe raccontato a nessuno che lo aveva visto.
"Volete sapere a chi
sta dando la caccia Guy?" chiese. La ragazza lo squadrò.
"Solo se non corro
pericoli" bisbigliò sospettosa alzandosi. Lui si
voltò, si sganciò il mantello e lo tolse,
rivelando i capelli neri, la ferita al collo e i vestiti appena
comprati. Il suo corpo snello si tese quando la ragazza
esclamò di stupore.
"Il mio nome
è William" si presentò con un breve inchino "William di Monte Argento. Guy è uno dei miei fratellastri"
La ragazza rimase
paralizzata. La notizia pareva averla scioccata a tal punto da non
poter parlare.
"Che
c’è, mia signora, avete perso la lingua?" chiese
ridacchiando Will, togliendosi i guanti. Le sue mani finalmente
potevano respirare. Lei le guardò. "Un ricordo della guerra"
commentò distaccato Will.
"Non vi assomigliate
molto" notò lei "Insomma, Guy è biondo... ha gli
occhi neri. Tu... tu sei nero di capelli" si avvicinò "Hai
gli occhi azzurri" sussurrò "La tua... la tua pelle. Le
dicerie su di te sono tutte vere, dunque"
"Quali dicerie mia
signora?" chiese Will scostandosi un ciuffo di capelli dalla fronte.
"Che sei bellissimo"
rispose lei. Will si sentì lusingato. Ma durò
solo un istante.
"Non potete stare qui
con me, signora" la redarguì "se vi trovano in mia compagnia
non vi riserveranno un trattamento di favore" indicò la
porta "Perciò andate"
"Nemmeno per idea! Sei
ricercato per tutta la regione... ma che cosa dico... tutto il paese"
camminò avanti e indietro per qualche momento. "Devi
scappare"
"Sì, certo.
Lo farò... domattina" sbadigliò "ho bisogno di
riposo"
"Ma Guy è
in città. Insomma... lui, lui ti cercherà. E ti
troverà" sospirò "Lo conosco. Quando deve
inseguire qualcuno non si dà pace finché non lo
ha trovato"
"Lo so, signora"
ridacchiò Will senza allegria. Si passò le mani
fra i capelli e si sbottonò il giustacuore nero. Gli abiti
scuri che aveva comprato ad una bancarella con i soldi del primo
signorotto, gli calzavano a pennello e lui si sentiva libero. Gli
stivali erano costati un occhio, ma il morbidissimo cuoio conciato gli
fasciava la caviglia non ancora guarita del tutto, e la manteneva
ferma. I calzoni marrone scuro avevano una fascia di cuoio
all’altezza dei fianchi e lui vi aveva cucito dentro il
coltellino di corno. La ragazza lo guardava con una strana espressione
sul volto.
"Oh, andiamo mia
signora, Guy sarà anche molto intelligente, ma io lo sono
più di lui" si rimise i guanti. D’un tratto dal
basso gli giunse una voce anche troppo conosciuta. Imprecò
violentemente nella sua lingua. Si riallacciò il mantello al
collo, e sguainò la spada, la guaina foderata ancora in
vita.
"Che cosa fai?" chiese
lei. Will le fece segno di tacere.
"Guy è qui"
disse "Non è stato molto saggio andarvene in giro con un
ricercato" lei non notò la nota sarcastica. Will
impugnò la spada con entrambe le mani. Sentiva ogni muscolo
del suo corpo teso e il suo cervello che cercava di escogitare un piano
di fuga. Sentì numerosi piedi che salivano le scale e un
attimo dopo la porta fu fatta saltare dai cardini.
"È qui!" il
grido irruppe nella stanza accompagnato dai passi pesanti di Guy.
"Bene, bene, bene" lo sentì ridacchiare. La sua voce gli
dava ogni volta i brividi. L’ultima volta che si erano
affrontati Will ci aveva rimesso, oltre a una ciocca di capelli, anche
la caviglia. Guy se l’era cavata con qualche livido e una
grossa arrabbiatura. "Che cosa abbiamo qui? Il nostro carissimo
William. Da quanto tempo non ci vediamo?"
"Troppo poco"
sibilò Will innervosito. Sentiva il cuore martellargli nel
petto come se volesse frantumargli la cassa toracica. Guy sembrava
così tranquillo da mettergli il voltastomaco. Avrebbe tanto
voluto infrangergli quel sorrisetto che aveva sul volto.
Sentì la ragazza al suo fianco scostarsi.
"Guy..." la
sentì sussurrare "Forse potresti..."
"Zitta, Briseide!" le
intimò Guy afferrandola per un braccio e trascinandola
accanto a sé "Con te farò i conti dopo"
"Adesso trovi gusto a
importunare anche le ragazze, Guy?" chiese sarcastico Will. Il soldato
gli lanciò un’occhiata irritata.
"Con te
farò i conti adesso, William. Che cosa direbbe il tuo amato
padre se ti vedesse adesso? Sei un fuorilegge. Un fuggitivo"
increspò le labbra "Un disertore. E i disertori devono
morire"
"Grazie tante per aver
riassunto la mia condizione, Guy" sibilò Will "ma non ho
nessuna intenzione di morire, né oggi né nelle
prossime settimane"
"Se il governatore
sarà magnanimo ti concederà di rivedere la tua
famiglia" sogghignò Guy "Dipende se sarà
magnanimo. Farò personalmente il mio rapporto. William di
Monte Argento è considerato un uomo molto pericoloso..."
"Sei ancora
più bastardo di quanto mi ricordassi, Guy" Will
impugnò la spada più saldamente, facendo un passi
indietro "non che avessi dei dubbi, è ovvio..."
"La tua lingua
è sempre stata troppo lunga, William. Provvederò
personalmente a tagliarla a dovere" ghignò Guy. Will
sentì scendergli per la schiena un brivido. Che fosse freddo
o paura doveva trovare al più presto una soluzione a
quell’impiccio. Briseide si mosse verso Guy.
"Non lo uccidere" la
sentì sussurrare.
"E invece
sarà un vero piacere" Guy scoppiò in una risata
acuta "Sarà il risultato di mesi di inseguimenti" Will
indietreggiò ancora. Finché Guy parlava non
avrebbe sguainato la spada. Lo conosceva fin troppo bene. Anche quando
era più giovane amava in modo quasi melodrammatico il suono
della propria voce, e avrebbe continuato a parlare fino a che qualcuno
non gli avesse ricordato per che cosa era lì. Will sapeva
che la finestra che si affacciava sulla strada era a pochi passi da
lui. Sarebbe bastato così poco per saltare oltre e
guadagnare la libertà. Fece un altro piccolo passo indietro.
Alzò gli occhi su Briseide. Il suo sguardo era terrorizzato.
Will fece solo in tempo ad accorgersi dell’occhiata
preoccupata che la ragazza lanciò oltre le sue spalle, poi
un dolore improvviso lo colpì alla nuca. Cadde.
Sentì il rimbombo del ferro che si infrangeva sul pavimento
dalle assi marce. L’ultima cosa che vide prima di perdere
conoscenza fu il volto compiaciuto di Guy e la sua risata stridula fu
l’ultima cosa che sentì. Poi il suo mondo
diventò buio.
Il vento gli
scompigliava i capelli, legati da un laccio al lato della testa. Si
appoggiò al bastone che aveva fatto con il ramo che aveva
trovato nel bosco. Era perfetto per andare in cerca di funghi. Si
coprì gli occhi con la mano, quando si voltò
verso il sole ormai alto sull’orizzonte. Suo padre lo
chiamò. "Andiamo Will, abbiamo molta strada da fare". Il
ragazzo si voltò verso la foresta. Poi in lontananza
sentì un rumore nuovo. Oltre al sibilo del vento tra gli
alberi, lo stormire degli uccelli e l’abbaiare dei cani,
c’era qualcos’altro. Tese le orecchie verso quel
rumore. Suo padre sapeva che quando il figlio si concentrava su un
rumore nulla poteva distogliere la sua attenzione.
"Cavalli" disse il
ragazzo socchiudendo gli occhi "Tanti cavalli. E vengono qui"
guardò il padre. "Perché?"
"Non lo so Will"
rispose l’uomo scostandosi un ciuffo di capelli grigi dalla
fronte. "Ma credo che presto lo scopriremo"
Il ragazzo rimase
immobile per qualche secondo, prima di voltarsi di nuovo verso il sole.
Vide sua madre accanto al mulino, intenta a lavare i vestiti
nell’acqua limpida. Sorrise. Amava sua madre, più
della sua stessa vita. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei.
Improvvisamente sentì un gran dolore alla base del cranio,
come se qualcuno avesse sferrato un colpo sulla sua nuca. Cadde,
sbattendo a terra violentemente. Intorno a lui tutto era sfocato, come
in un sogno. Il dolore scemò così
com’era venuto e lui si ritrovò ansimante e
coperto di polvere. Suo padre lo prese per le ascelle e lo
riportò in piedi.
"Will, che cosa... che
cosa succede?" gli chiese preoccupato. Will scrutò le iridi
cupe di suo padre.
"È solo...
il caldo" ansimò appoggiandosi al bastone "Solo il caldo".
Nei suoi quindici anni non aveva mai provato dolore più
acuto. Si tastò la nuca. Non trovò nulla,
naturalmente. Vide suo padre alzare la testa verso lo scalpiccio dei
cavalli ormai vicini. Will si voltò, incontrando la colonna
di soldati. D’improvviso l’aria gli
mancò, come se fosse stata risucchiata dai suoi polmoni.
Sapeva che cosa erano venuti a fare quei soldati. Un nodo alla gola lo
fece tossire. Si portò le mani al petto, come per
proteggersi. Pregò che non fossero lì per lui.
Pregò che la guerra fosse soltanto una fantasia.
Pregò per non morire.
Il lento sgocciolio
dell’acqua dalle rocce della stanza lo svegliò con
il suo battere ritmico. Aprì le palpebre, e tante stelline
colorate gli danzarono davanti agli occhi. Li richiuse. Poteva sentire
il proprio cuore battere all’impazzata. Si portò
una mano al petto, ma scoprì che ogni movimento gli causava
un dolore acuto e palpitante. Sotto le dita sentiva la pietra fredda e
umida di una prigione. Si chiese dove fossero i suoi guanti. Sapeva di
non avere più il suo mantello, né la sua spada.
Probabilmente lo avevano perquisito e avevano trovato il coltellino di
corno cucino nella fodera di pelle dei calzoni. Era appoggiato alla
parete di pietra di una cella, di questo era sicuro. Intorno a lui
poteva percepire il movimento dei topi e l’acqua che
sgocciolava dalla roccia. Sentiva la lingua impastata, incollata al
palato. Cercò di muovere la testa, ma il dolore esplose di
nuovo. Si lasciò scappare un gemito sommesso. Tanto nessuno
poteva sentirlo. Cercò di rimanere il più
immobile possibile, così il dolore scemò piano
piano. Aprì di nuovo gli occhi. Vedeva appannato, ma
riusciva a distinguere le pareti della cella. Era stretta e lunga.
Proprio davanti a lui c’era una porta. D’un tratto
questa si aprì. La lama di luce che filtrò dentro
la cella lo accecò e fu costretto a chiudere di nuovo gli
occhi. Percepì la presenza di almeno tre persone. Passi
pesanti precedettero quattro robuste braccia, che lo sollevarono. Il
dolore aumentò quando venne trascinato a forza fuori dalla
cella. Intorno a lui sentiva frasi spezzate, il movimento di uomini,
passi concitati. Un terzo uomo gli sollevò le gambe da
terra. Il tragitto fu breve, ma a Will parve eterno. Alla fine si
ritrovò sdraiato su una scomoda tavola di legno.
Aprì gli occhi. Cercò di tirarsi a sedere.
Appoggiò i piedi sul pavimento di pietra umida. Sentiva lo
sgocciolio dell’acqua, passi lontani, lo scricchiolio del
legno sopra la sua testa. Altri passi. Un rimbombo di tuono in
lontananza. Pioveva? Non lo sapeva e non credeva che qualcuno glielo
avrebbe detto. Poi la porta da cui l’avevano trascinato si
aprì di nuovo. Will alzò la testa. I suoi occhi
si abituarono lentamente alla luce. Davanti a lui c’era un
omino basso e calvo. Masticava frasi sconnesse e Will pensò
che non avesse tutte le rotelle a posto. Quando si accorse che lo
guardava, venne avanti e gli passò una scodella e un boccale
pieno d’acqua. Lo guardò bere con
avidità, poi fece un cenno verso la scodella. Will sentiva
lo stomaco sotto sopra e il puzzo della brodaglia lo fece gemere.
Scosse la testa. Il nano alzò le spalle strette e
masticò altre frasi confuse. Will non ce la faceva a
parlare. Gli sembrava che anche le corde vocali gli bruciassero.
"Vattene Rufo!" una
voce intimò al nano di andarsene. Si riprese la scodella e
la portò via. Will si appoggiò alla parete della
cella. "Il nostro ospite non ha mangiato?" chiese la voce. Will non
rispose.
"Non è
educato non rispondere, William di Monte Argento" replicò
l’altro "Ti conosco. Eri un buon soldato, uno di quelli che
uccide a sangue freddo. Perché te ne sei andato?"
Will alzò
piano la testa. I suoi occhi incontrarono quelli grigi
dell’altro. Trasalì.
"Llen"
sibilò "Che cosa ci fai qui?" chiese con un enorme sforzo.
Il soldato sorrise senza allegria.
"Guy mi ha arruolato"
rispose "Ma tu... Will, ti sei fatto prendere in trappola da lui. Eri
molto più sveglio quando eri sotto le armi" sedette sui
talloni davanti a lui. Will se lo ricordava Llen. Era poco
più grande di lui. Aveva una circa venticinque anni, ed era
stato portato al campo di Will perché aveva fatto a botte
con un ufficiale. Lo avevano assegnato alle retrovie, ma poi, quando la
battaglia era entrata nel vivo, era stato spedito nelle prime file. Era
stato allora che lui e Will si erano conosciuti. Will gli aveva salvato
la vita. Llen era ancora in debito con lui.
"Sei caduto in basso"
osservò Will dando un cenno alla cella. Llen rise.
"Beh, almeno io non
sono un fuggitivo" replicò senza allegria "Tu, invece. Sei
scappato dalla prima linea, Will. Credevi che non ti avrebbero
più cercato?"
"Pensavo di non essere
così importante per il governatore, e per il re oltretutto"
alzò le spalle "in effetti sono soltanto un disertore. Di
solito di queste faccende se ne occupano gli amministratori
dell’esercito, non il re"
"Il re ha molte cose a
cui pensare, ma ti do ragione. Forse è per questo che ti
hanno portato qui a Salazard e non nelle segrete del castello del re"
aggiunse pensieroso Llen "Il re non ti vuole morto. Ma Guy
sì"
"Guy me la
pagherà" scosse la testa "Da quanto sono qui?"
"Tre giorni. Hai
dormito tutto il tempo" rispose il soldato "Eri completamente
incosciente. Deliravi. Guy non ti ha trattato bene"
"Infierire su un uomo
privo di sensi è una cosa da Guy" replicò Will
cinico.
"Forse"
ribatté Llen contrariato "Ma Guy è un buon
soldato. Se non sbaglio siete anche imparentati"
"Uno dei figli di
primo letto di mio padre" rispose Will. Il dolore stava lasciando il
suo corpo martoriato. Sentiva i muscoli tesi negli spasimi, e brividi
di freddo gli percorrevano la schiena rigida. Sospirò,
cercando di non farsi male alle costole. Ma quando prese una boccata
d’aria più forte, un dolore sordo lo fece
boccheggiare. Si portò la mano al costato.
"Devi avere qualche
costola rotta, Will" ipotizzò Llen "Comunque non posso
restare oltre. Guy mi starà già cercando" si
alzò "A proposito forse non lo sai, ma la ragazza a cui hai
fatto gli occhi dolci è Briseide di Salazard. È
la nipote del re che si da tanto pensiero per te. E da ieri la futura
moglie di Guy di Monte Argento" Llen se ne andò, lasciando
che la porta si richiudesse alle proprie spalle. Perfetto...
pensò Will. Davvero perfetto. Prima mi salva e poi mi
consegna al suo futuro sposo. Se mai uscirò di qui intero...
ridacchiò. Che cosa avrebbe fatto? Niente. Non avrebbe mai
alzato le mani su una donna. Nemmeno se questa l’avesse
tradito. Cercò di calmarsi, il cuore che batteva come un
tamburo. Suo padre gli diceva sempre che quando tutto sembra perduto,
non ci si deve scoraggiare, perché la speranza è
l’ultima a morire. Will sentì le lacrime premergli
agli angoli degli occhi. Deglutì e le ricacciò
indietro. Non doveva piangere. Non sarebbe caduto così in
basso. Strinse la tavola tra le dita. Era in trappola. In trappola come
un topo. Sarebbe uscito da lì soltanto per venire
giustiziato. Guy aspettava quel giorno da quando l’aveva
messo in ridicolo davanti agli altri soldati. Avevano litigato e Will
l’aveva chiamato “femminuccia” e quando
Guy si era scagliato su di lui, l’aveva battuto senza nemmeno
farsi un graffio. Da quel giorno Guy aveva promesso vendetta. Il giorno
era finalmente arrivato, per lui. Guy aveva venticinque anni ed era
nell’esercito da otto anni. Da molto prima che Will fosse
arruolato. Quando aveva saputo che era figlio di suo padre, Guy gli
aveva dato parecchio filo da torcere. Will sospirò, e il
dolore alle costole tornò. Se fosse uscito da lì
Guy avrebbe pagato, fino all’ultimo livido che gli aveva
procurato, fino all’ultima notte insonne. Avrebbe pagato per
tutto il male che gli aveva fatto. Avrebbe assaggiato l’ira
di William di Monte Argento.
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Nella sala del trono,
Briseide passeggiava avanti e indietro, cercando di far sbollire la
rabbia. Le scarpe di raso si sarebbero consumate a furia di strisciare
sulla roccia del pavimento. Si scostò un ricciolo dagli
occhi. Si era tolta il sottile diadema dalla testa e i capelli fluivano
liberi sulle sue spalle. Non poteva non pensare a quel povero ragazzo
che giaceva svenuto nelle segrete. William. Si fermò,
ripensando a quando le aveva sorriso. Si sentì arrossire.
Scosse la testa e riprese a camminare. Era più che decisa a
farlo scarcerare e soprattutto a non sposare Guy. Il solo pensiero di
dover condividere la sua vita con quell’uomo orribile le dava
i brividi. Secondo suo padre era il miglior soldato che avesse mai
avuto ai suoi ordini. Era disciplinato, senza beghe per la testa, e
soprattutto senza famiglia. Ancora. Briseide rabbrividì. Non
aveva assolutamente intenzione di rinunciare alla propria
libertà e di vendere la sua vita a Guy. Avrebbe lottato con
tutte le sue forze per convincere suo padre a ritornare sulle sue
decisioni. D’un tratto la porta si aprì con uno
stridulo cigolio. Briseide pensò che fosse ora di oliare
quei cardini. Suo padre si muoveva lentamente, come se portasse un peso
enorme sulle spalle. Briseide si rimise il diadema, domando i capelli
all’interno del velo. Suo padre ci teneva a mostrare la loro
regalità e lei amava suo padre, perciò doveva
assecondarlo.
"Figlia mia" la
chiamò sedendosi sul trono "Adesso spiegami"
ordinò. Briseide deglutì. Suo padre aveva il
potere di farla sentire a disagio. Desiderò che fosse ancora
in vita sua madre. Lei era l’unica persona che poteva
tenergli testa.
"Che cosa dovrei
spiegarvi, padre?" chiese avvicinandosi. Lui le fece segno di sedersi.
Briseide allargò la gonna sugli scalini di pietra del trono.
"Che cosa ci facevi
con un ricercato in una camera di un’osteria?" chiese di
rimando il governatore con un tono che poco si confaceva con la sua
abituale flemma. Briseide abbassò gli occhi, ma li
rialzò subito, in modo che suo padre potesse vedere che non
c’era colpa in lei.
"Padre, io non sapevo
chi fosse. Ho mentito a Guy, è vero, ma soltanto per
salvargli la vita" scosse la testa e sospirò "Non
è certo servito a molto"
"Quel ragazzo
è un disertore" sospirò suo padre "e per questo
deve essere punito"
"Ma voi non vi siete
mai dato pena per dei disertori. Chi è lui?
Perché così tanto accanimento per un ragazzo?
Padre" lo guardò "ha la mia età. Non merita di
morire"
"Davvero pensi
questo?" chiese Pericle alzandosi "Cento giorni Guy e gli altri soldati
lo hanno cercato in lungo e in largo. Dimmi, sai che lingua parla? Sai
dirmi da che paese viene? Sai chi è davvero? Nessuno lo sa.
Nessuno sa chi sia né con precisione da dove venga.
L’hanno arruolato quando aveva quindici anni, soltanto
perché avevamo bisogno di reclute per la guerra"
passeggiò avanti e indietro. "Suo padre, è anche
il padre di Guy, ma la madre di questo ragazzo, nessuno sa chi sia,
né se provenga dalle terre al di là de mare o dai
nostri nemici"
"Nemici?" Briseide si
alzò "Ma padre, i nostri nemici vengono da nord. Scendono
dalle montagne... come possono provenire anche dal mare?"
"Non ho detto questo,
figlia mia. Ho solo detto che nessuno sa chi sia quel ragazzo. Parla
una lingua sconosciuta, è diverso da ogni membro di questa
terra"
"Adesso è
diventata una colpa essere diversi?" chiese Briseide inalberandosi.
Pericle passeggiò per la stanza con nervosismo.
"Se la mia stessa
figlia mi si ritorce contro, che cosa ne sarà di me?"
chiese, più a se stesso che a chiunque altro. Briseide
corrugò la fronte, irritata.
"Io non sono contro di
voi, padre, vorrei soltanto che foste ragionevole" si
avvicinò, appoggiandogli la mano sulla spada "Vorrei che
risparmiaste la vita di quel ragazzo"
"Perché?"
una voce che Briseide non avrebbe voluto sentire irruppe nella stanza.
"Oh, Guy, proprio
voi... capitate nel momento giusto" Pericle si avvicinò al
soldato con un largo sorriso. Briseide soffocò una protesta
a mezza voce. Odiava Guy ed era costretta a sposarlo.
Il soldato
arcuò un sopracciglio biondo. "Vorrei sapere
perché vostra figlia è così decisa a
salvare la vita di un disertore"
"Un disertore? Un
fuggitivo, un fuorilegge! In quanto modi l’hai chiamato,
Guy?" scattò Briseide con ira "Che cosa ti ha fatto quel
ragazzo? Lo odi forse perché è molto
più bello di te?"
"Briseide!" la
richiamò suo padre.
"Sono abbastanza
grande per esprimermi, padre" protestò Briseide alzando la
voce "Che cosa vuoi da lui?" aggiunse rivolgendosi di nuovo a Guy.
"La sua vita
è nelle mie mani, Briseide. Non lo lascerò andare
e soprattutto lo ucciderò con la mia spada...
sarà il tuo regalo di nozze" Guy scoppiò a ridere
e se ne andò a grandi passi.
Briseide non sapeva se
scoppiare a piangere o rincorrere Guy e cercare di ucciderlo a mani
nude. Si ritirò nelle sue stanze e scrisse una lunga lettera.
PER CATEROZZA: GRAZIE PER LA TUA RECENSIONE, MI HA FATTO MOLTO PIACERE. NON PREOCCUPARTI SE NON CE LA FAI A RECENSIRE, L'IMPORTANTE E' CHE LA STORIA TI PIACCIA. QUANDO HAI TEMPO FAMMI SAPERE CHE NE PENSI!
UN BACIONE
Stellalontana
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Capitolo 3 *** La fuga ***
capitolo tre
Capitolo Tre
Will
passeggiava nella cella avanti e indietro ormai da ore. Il tempo non
pareva
scorrere tra quelle quattro mura. Odiava dover rimanere rinchiuso e non
sapere
che cosa accadeva attorno a lui. Sentiva i passi pesanti dei soldati
sopra la
sua testa, le voci concitate di altri che stavano di guardia fuori
dalla sua
porta. Trattenne uno scoppio di risa. Credevano forse che avrebbe
tentato di
fuggire? Lo ritenevano molto più pazzo di quanto in
realtà era. Si sedette
sulla scomoda tavola di legno, ma si alzò subito dopo.
Estrasse dalla camicia
il medaglione che gli aveva regalato suo padre poco prima di essere
arruolato.
L’argento di cui era fatto brillava alla fioca luce del sole
che filtrava
dall’unica finestra. Il fabbro aveva inciso sul davanti il
suo nome, la sua
data di nascita, e il luogo dove abitava, mentre sul retro suo padre vi
aveva
fatto incidere il nome di sua madre, Lavinia. Suo padre, Aleck, gli
aveva fatto
promettere che lo avrebbe protetto. Ancora Will non capiva
perché quel
medaglione era tanto importante per suo padre. Non l’aveva
mai aperto, anche
perché Aleck non glielo aveva mai permesso e lui aveva
smesso di portarlo dalla
prima battaglia a cui aveva partecipato dalle prime file.
Tentò di aprirlo, ma
invano. Staccò una scheggia dalla tavola di legno e la
incastrò fra le due
metà. Il medaglione si aprì con sonoro tock.
Una delle due parti scivolò a terra con un lieve rimbombo di
metallo. Quando
Will la riprese vide che all’interno era incastrato un
sottile strato di carta,
ricoperto da una fitta scrittura. Quando lo tolse questo si
spiegò. Avvicinò il
foglio alla lamina di luce che filtrava dalla finestra. Era la
scrittura di suo
padre. piccola, appuntita e un po’ storta.
William,
tua madre ed io siamo molto orgogliosi di te, ma abbiamo paura per te.
Ti vogliamo bene, e speriamo vivamente che tu possa trovare la tua
strada. I tuo destino, amor nostro, è gia scritto, come del
resto anche il nostro. Ti preghiamo di fare attenzione. Ti preghiamo di
tornare a casa quando la guerra sarà finita,
perchè
abbiamo delle cose molto importanti che dobbiamo dirti. Una riguarda
tua madre, mentre l'altra riguarda solamente te, figlio mio. Voglio
anche che tu sappia che la guerra
La
pergamena si interrompeva. Era strappata e Will strinse i pugni,
conficcandosi
le unghie nella carne. Richiuse il medaglione e se lo rimise al collo.
Forse
suo padre non fatto in tempo a scrivere il resto, oppure qualcuno aveva
aperto
il suo medaglione e aveva strappato la pergamena. Ma chi? Will si
alzò. Nei tre
giorni che era rimasto incosciente, Guy avrebbe potuto aprire il
medaglione e
farne ciò che voleva. Ma perché non se
l’era tenuto, se aveva scoperto che cosa
diceva la pergamena? Forse c’era scritto qualcosa a cui
soltanto lui poteva
arrivare. Guy non avrebbe mai preso qualcosa se non fosse stato sicuro
del
profitto che poteva trarne. Ricordava ancora quando l’aveva
visto per la prima
volta.
Aveva sei anni, e Guy si divertiva a fargli lo sgambetto e dargli
spintoni per farlo cadere nella polvere. La madre di Guy, una donna
alta e
austera, dal volto scuro e una piega arcigna sulle labbra, rimproverava
Aleck
di non aver bene educato il figlio minore, di non dargli abbastanza
botte e di
non affibbiargli abbastanza lavori pesanti. Ricordava che gli aveva
esaminato
le mani, per accertarsi se vi fossero piaghe o vesciche, per il duro
lavoro nei
campi o al mulino. Non trovandovene era scoppiata a ridere e aveva
detto che
quelle mani non avrebbero mai portato a nulla di buono. Will
avvicinò i palmi al fascio di luce. Le cicatrici parvero
sorridere sinistre.
Avrebbe voluto che scomparissero, che lo lasciassero in pace, ma quelle
non se
ne sarebbero mai andate, avrebbero continuato a ricordargli tutti i
soldati che
aveva ucciso, tutte le ingiustizie che aveva perpetrato, tutte le notti
di
caccia e di appostamenti.
Ripensò a quando aveva perso la spada nel fiume. Il
suo comandante era andato su tutte le furie e lo aveva lasciato sulla
riva,
accucciato su una roccia. Un soldato senza spada non
vale nulla,
gli aveva gridato da lontano. Will ricordava di essere entrato nel
torrente
gelido e aver cercato la spada, invano. Poi ad un tratto
dall’altro lato del
torrente aveva visto un soldato, un soldato nemico. Aveva pensato che
la sua
vita fosse finita, che avrebbe ben presto trovato la morte, ma quel
soldato si
era tolto l’elmo, era sceso dal suo cavallo e aveva
attraversato il torrente.
Aveva i capelli biondi e due occhi azzurri come il cielo. Gentili,
eppure così
distanti. Gli aveva allungato la sua spada.
“Non è vero che un soldato senza
spada non vale nulla. Vale ciò che ha nel cuore”
gli aveva detto con voce cortese.
Si era voltato e aveva riattraversato il fiume. Will sapeva che avrebbe
dovuto
ucciderlo, perché era il nemico, ma si era limitato a
legarsi la spada al
fianco e a rincorrere la colonna di soldati ormai lontana. Una
settimana dopo, con il favore del novilunio era scappato e si era dato
alla
macchia. Non aveva più visto quel
soldato. Forse era morto. Forse era tornato dalla sua famiglia o forse
combatteva ancora. Scosse la testa.
Ripensare a quello che era stato non lo
avrebbe aiutato a uscire di lì. I ricordi gli affollavano la
mente. Chiuse gli
occhi. Il suo udito era ancora acuto come prima, e riusciva a
distinguere i
passi lenti delle serve, quelli leggeri degli animali da compagnia e
quelli più
pesanti dei soldati. Un boccale cadde frantumandosi in mille pezzi, un
uomo
gridò, probabilmente una serva raccolse i cocci e se ne
andò prima che lui
potesse picchiarla. Will strinse i pugni. Per quando avesse mai fatto
arrabbiare i suoi genitori, loro non gli avevano mai torto un capello.
Non
l’avevano mai picchiato.
Si ricordò di quando era tornato talmente tardi dal
villaggio vicino alla sua casa, da essere quasi presto. Suo padre
l’aveva
aspettato alzato. Aveva tredici anni, e aveva appena ricevuto il
permesso di
stare fuori fino a tardi. Non così
tardi però. Aleck lo aveva sgridato pesantemente, ma non
aveva alzato la voce,
e non lo aveva toccato con un dito. Il giorno era tornato tutto come
prima, ma
il silenzio, quell’acuto silenzio e gli occhi di suo padre
che lo avevano
accolto, avevano fatto passare a Will la voglia di fare ancora
così tardi, di
notte. I ricordi non ti porteranno per
magia fuori dalla cella, Will, gli ricordò la sua coscienza.
La zittì,
seppellendola sotto i vari rumori che provenivano da fuori.
D’un
tratto la porta della cella si spalancò. Un soldato che Will
non aveva mai
visto entrò e s’inchinò verso la porta.
Will rimase immobile. La figlia del
governatore, Briseide di Salazard, entrò nella cella a passo
spedito. Lui cercò
di non scoppiare a ridere.
"Qual
buon vento vi porta qui, mia signora?" chiese cercando di essere
gentile.
Briseide aveva un’aria tutt’altro che allegra.
"Smettila!"
ringhiò. Will arretrò, fino a sedersi sulla
scomoda tavola di legno. Accavallò
le lunghe gambe.
"Avete
qualcosa da dirmi, prima che Guy venga a prendermi?" chiese di nuovo.
Il giorno
volgeva al termine e lui sarebbe stato giustiziato al tramonto. Aveva
ormai
perso ogni speranza di essere rilasciato. Per un momento aveva quasi
sperato
che Llen tentasse di farlo scarcerare o almeno lo aiutasse ad evadere,
ma quando
aveva bussato alla porta della cella era stato soltanto per
comunicargli il
giorno e l’ora dell’esecuzione. Aveva sperato che
il governatore avesse
cambiato idea, ma non era stato così. In fondo era la giusta
punizione per
tutte le morti che aveva provocato, ma non certo per aver disertato.
Briseide
lo guardò a lungo, prima di aprire bocca. Sembrava
estremamente seccata.
"Ho
cercato di farti scarcerare, William, ma evidentemente mio padre ci
tiene che
tu venga fatto fuori il più presto possibile"
commentò passeggiando avanti e
indietro nella cella angusta. Will alzò le spalle.
"Dovevate
aspettarvelo, mia signora. Si da il caso che io sia molto importante"
osservò
con sarcasmo.
"Come
fai ad essere così allegro? Verrai giustiziato al tramonto"
esclamò indignata
Briseide.
"Mia
signora, vivo la vita con filosofia" la rimbeccò lui,
sorridendo
tristemente "Ho avuto diciannove anni da vivere, non importa se adesso
muoio. Per quanto mi
riguarda" tirò un sospiro, appoggiandosi alle pietre della
parete "la mia è la
giusta punizione per tutte le morti che ho provocato in guerra"
"Ma
non per un disertore!" esclamò la ragazza. Aveva le guance
rosse per
l’indignazione e la rabbia. Will alzò di nuovo le
spalle con rassegnazione.
"Che
cosa potete fare, voi?" chiese alzandosi "Vostro padre decide chi muore
e chi
vive. Voi vivrete, io morirò"
"Non
lo permetterò" rispose lei scuotendo la bella testa. I suoi
occhi ambra chiara
lo fissavano con insistenza, quasi volessero scavargli
l’anima. Will scoppiò a
ridere, senza nessuna traccia di allegria.
"E
come farete? Convincerete Guy a non uccidermi, come avete fatto alla
locanda?"
si alzò e si avvicinò a lei "Non potete fare
niente per me"
"Ma
se tu muori..." sussurrò lei "se tu muori chi mi
salverà da Guy?" chiese. Will
rimase immobile per un momento. Salvarla? Salvarla da Guy? Che cosa
significava? Che cosa voleva dire?
"Che
cosa intendete?" chiese.
"Guy...
Guy ha fatto un accordo con mio padre. Ha promesso di catturarti e di
giustiziarti. In cambio dovrò sposarlo e lui un giorno
diventerà governatore. Non è per
me, Will" scosse la testa "Io odio Guy, ma amo mio padre e non posso
costringerlo a cambiare idea. Guy non è l’uomo
giusto per fare il governatore"
si allontanò da Will, passeggiando, toccando le pietre umide
d’acqua, e
asciugandosi le dita sulla veste azzurra. "Ti chiederai che cosa
potresti fare.
Beh, ho scoperto un paio di cose su di te, Will. Tuo padre è
Aleck di Monte
Argento, non è vero?"
Vedendo
che Will non rispondeva, tanto era confuso in quel momento,
continuò con un sospiro
pesante: "Beh, lo prenderò per un sì. In effetti
tuo padre è un mugnaio, un
lavoratore dei
campi... ma tua madre? Chi è tua madre? E chi era la madre
di
Guy? So che tua madre si chiama Lavinia"
Will
si sedette di nuovo. Si chiese dove la ragazza volesse arrivare. Non
capiva che
cosa c’entrasse la sua famiglia. Sapeva solamente che fra
pochi minuti Guy
sarebbe venuto per portarlo al patibolo. Si chiese perché
Briseide, che tra
l’altro, lo conosceva appena, si accanisse così
tanto. In fondo non era altro
che un assassino e un disertore. La sua punizione, per quanto
ripugnante
potesse essere agli occhi delicati di una ragazzina, era la giusta
conseguenza.
Non tanto giusta per un disertore. In quel momento sentì che
la morte era
davvero troppo vicina, per tirarsi indietro.
"Sì"
replicò stancamente "Mia madre si chiama Lavinia"
guardò Briseide "O si
chiamava. Non ho notizie della mia famiglia da quattro anni"
"Lo
so" lo interruppe lei "Ma io sì"
"Che
cosa volete dire? Che cosa sapete voi che io non so?" si sentiva
confuso,
stanco, abbattuto. Avrebbe voluto mettersi a dormire e risvegliarsi un
anno
dopo, e scoprire che era tutto finito, che la guerra era stata soltanto
un
brutto sogno e che la cella in cui si trovava, un labile ricordo.
"Se
mi fai continuare senza interrompermi forse te lo posso dire"
ribatté seccata
Briseide "Non ho molto tempo e tu mi devi ascoltare" si
fermò davanti a lui e
si accucciò "Tua madre proviene dal nord. Da una delle terre
che adesso
combattono contro la nostra... la mia. Dal nemico, Will. Ho trovato...
ho
trovato un uomo che la conosceva, che l’ha vista nascere.
È un monaco, che
forse saprà dirti qualcosa di più.
L’importante è che tu hai sangue nobile
nelle vene, William. Non sei solo il figlio di un mugnaio"
A
Will girava la testa. Aveva troppe cose a cui pensare. La cella, la
ragazza che
lo guardava ostinata, sua madre, l’esecuzione.
L’esecuzione si avvicinava e
d’un tratto lui seppe che non voleva morire. Che voleva
vivere, vivere e andarsene
da quel luogo, da quella regione sconfinata e ostile.
"Che
cosa dovrei fare?" chiese "Dovrei scappare?"
Briseide
parve scegliere con cura le parole. "Credi che sia uno scherzo uscire
da qui?
Ci sono guardie dappertutto. Però... però io
un’idea ce l’avrei" si alzò e si
rimise a passeggiare.
"Vostra
grazia, mi fate venire il mal di mare" sussurrò Will
guardandola.
"Oh,
stai zitto!" scosse la testa "Lasciami pensare" si fermò e
guardò la porta. "Guy verrà presto" soggiunse
"Ascoltami
bene, Will. Io posso far ritardare
l’esecuzione di qualche secondo, ma tu dovrai fare la tua
padre.
Una guardia molto
fedele a me, più che a mio padre, ti passerà il
coltello
mentre ti portano al
patibolo, ma dovrai fare alla svelta. Dovrai essere più
veloce
di Guy. Dovrai
farti bastare i secondi che precedono l’esecuzione"
"Ne
siete certa?"
"No"
rispose sincera lei "Ma può funzionare. Ti chiedo soltanto
una cosa. Quando
avrai scoperto chi sei, torna qui e salvami da Guy" si
avvicinò e gli prese le
mani "So che ti sembrerà strano, ma io ho bisogno di sapere
che mi aiuterai"
"Se
questa fuga riesce, sarò in debito con voi" Will la
guardò negli occhi ambra,
così vicini e disperati "Tornerò. Ve lo prometto"
"Bene"
guardò fuori dalla finestrella "è quasi il
tramonto. Guy sarà qui tra poco. Darò
istruzioni alla guardia. Mi raccomando Will, sii prudente, e non ti
fermare
finché il cavallo avrà forze, o ti prenderanno"
Will
la guardò voltarsi e fare un passo, poi ci
ripensò e si
voltò di nuovo. "Questo" si tolse la collana che aveva al
collo,
e ne estrasse il ciondolo, che
era un semplice anello d’oro senza nessuna pietra o nessun
fregio
"era di mio
padre. Me lo dette quando morì mia madre. Prendilo tu,
così ti ricorderai che
lo rivoglio indietro" glielo mise sul palmo sfregiato, accarezzando per
un
attimo una delle cicatrici. Lo guardò per un ultimo istante,
poi
lasciò la
cella. Will, si sedette, e si passò l’anello da
una mano
all’altra. Se lo
infilò al medio, dove gli andava leggermente stretto. Era
così semplice che non
avrebbe attirato l’attenzione dei ladri. Fuori dalla cella si
udì uno
scalpiccio. Era arrivata l’ora. Per fortuna Briseide aveva
calcolato bene i
tempi. Guardò per un’ultima volta
l’anello, e un
brivido di freddo gli percorse
la schiena. Alzandosi, Will si accorse che tutto intorno,
d’improvviso, era calato
il gelo.
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Briseide
cercò di ricacciare indietro le lacrime. Doveva funzionare.
Tutto il gioco
dipendeva da Llen. Sapeva che conosceva bene Will, sapeva che le era
fedele più
di qualsiasi altro soldato. Will sarebbe riuscito a liberarsi? Sarebbe
bastato?
Doveva bastare,
si disse mentre usciva dalle segrete. Quel posto le metteva i
brividi e cercò di calmarsi. Aveva voglia di nascondersi da
qualche parte e
aspettare che tutto fosse finito. Forse era proprio quello che doveva
fare. Si
fermò. E poi perché darsi tanto da fare per quel
ragazzo?
Perché ti sei
innamorata di
lui, Briseide, le
disse una vocina fastidiosa. Briseide scosse la testa. No, si disse,
soltanto
perché devo liberarmi di Guy. Ma non era sicura che quella
fosse la risposta
giusta. Ad ogni modo salì i pochi gradini che la portarono
fuori. Si guardò
intorno mentre cercava il soldato. Lo trovò seduto
all’esterno del chiostro.
Puliva la sua spada, incrostata di fango, ruggine e non volle sapere
cos’altro.
il suo volto era cupo e gli occhi grigi fissi sul suo lavoro. Gli si
avvicinò.
Lui si alzò e s’inchinò, deponendo la
spada accanto a sè, ma prima che potesse
dire qualcosa Briseide lo fermò. "Ho bisogno di te, Llen" si
guardò intorno "Ho
bisogno che tu faccia fuggire William"
"Che
cosa?" sussurrò il soldato, sbarrando gli occhi grigi "Che
cosa volete che io
faccia? Ma siete completamente pazza? Non posso" scosse la testa e si
rimise a
sedere, prendendo di nuovo la spada. Se la rimise in grembo,
ricominciando a
sfregare con lena. "Guy mi ucciderà. Mi odia. Ho
già fatto un favore a William,
quando eravamo nell’esercito. Non posso"
"Sì
che puoi" lo pregò Briseide "Devi. Llen, la vita di Will
è nelle tue mani. Ti
prego, ho bisogno che tu faccia in modo che lui trovi un cavallo
veloce, la sua
spada e il suo mantello fuori dalle mura del castello"
abbassò la voce ad un
sussurro "E voglio anche che tu gli passi questo" dalla fodera della
gonna,
Briseide estrasse il coltellino di corno che Guy aveva tolto dalla
fusciacca di
pelle di Will. Llen lo guardò per un momento.
"Vostra grazia, non
posso" la
guardò negli occhi colpevole "Sono soltanto un soldato. Ho
fatto la mia parte
durante a guerra" sospirò "Will mi ha salvato la vita
migliaia di volte in
battaglia, ma non posso. Ho bisogno di vivere. Devo sposarmi con una
ragazza..." arrossì per la vergogna "o sarà
ripudiata dal padre".
"Se
riesci a far fuggire William" sussurrò Briseide "ti giuro
che Guy non ti
toccherà nemmeno con la punta delle dita" gli
passò il coltello dalla parte del
manico "Farò in modo che il vostro matrimonio avvenga al
più presto, Llen, ma
tu devi aiutarmi!" lo pregò. Llen sembrò
soppesare la proposta.
"Filomena...
si chiama Filomena. Se... se Guy lo sapesse, che ho aiutato Will e
decidesse di
punirmi, vi prego, aiutatela"
"Te
lo prometto" bisbigliò Briseide. Llen prese titubante il
coltello che lei gli
offriva, e si affrettò a nasconderlo tra le pieghe delle
vesti, sotto la cotta
di maglia. Briseide lo guardò.
"Llen,
mi dispiace doverti coinvolgere, ma non voglio che Will muoia"
"Nemmeno
io, voglio che muoia, vostra grazia, Dio solo sa quante volte Will mi
ha difeso
da Guy. Spero soltanto che Guy non venga a saperlo"
"Non
verrà a saperlo, Llen, te lo prometto" Ma
perché non ti mordi la lingua di tanto in tanto?,
le chiese la sua coscienza.
Lei la zittì. Non c’era tempo per i ripensamenti.
Le trombe squillarono, sulla
torre. "NO!" esclamò lei. Aveva pochissimo tempo.
Guardò Llen. Lui annuì.
"Farò
ciò che volete" s’inchinò "Per Will"
Lei
gli sorrise, tristemente, e corse via, verso le mura. Sapeva che Guy
stava
scendendo nelle segrete, per prendere Will. Sapeva che gli avrebbe
legato le
mani dietro la schiena con una corda, nemmeno troppo robusta,
perché intorno al
patibolo ci sarebbero state una decina di guardie. Alcune di esse le
erano
fedeli, ma non poteva chiedere loro di rifiutare un ordine del loro
comandante.
Salì, in preda al panico le scale, tirandosi il vestito
sopra le ginocchia. Se
l’avesse vista suo padre le avrebbe dato tanti di quei
schiaffi che
l’avrebbero fatta piangere per giorni. Cercò di
smorzare il fiatone e di non
farsi prendere dall’agitazione. Sarebbe andato tutto bene,
Will sarebbe
scappato e lei non avrebbe sposato Guy. Forse Will sarebbe riuscito a
scoprire
quale legame c’era tra il suo sangue e il sangue dei re di
Solea. Questo non
glielo aveva detto, ma quel monaco le aveva raccontato che un giorno la
figlia
del re di Solea era fuggita, senza lasciare alcuna traccia di
sé. Si raccontava
ancora, come una leggenda, che fosse stata rapita per la sua bellezza e
portata
nelle terre sconosciute oltre il mare. Briseide sapeva che quelle terre
non
erano poi molto diverse da quelle dove lei era cresciuta, ma le storie
che i
vecchi e i menestrelli raccontavano, narravano di bestie grandi come
case e di
streghe e maghi, di incantesimi e altro ancora, di terrificante e
insieme
eccitante. Briseide sapeva che maghi e streghe non esistevano, ma non
era
sicura se lo volesse davvero
scoprire. Aprì la porta che l’avrebbe condotta al
camminatoio che di solito usavano
le guardie. Lì trovò suo padre.
"Dove
ti eri cacciata, figlia mia?" chiese. Lei si avvicinò. Il
patibolo era
circondato dalle guardie. Poche persone del castello era venute ad
assistere
all’esecuzione.
"Ero
nelle segrete, padre, a parlare con il prigioniero. Adesso il
governatore della
città assiste ad una banale esecuzione?" era inutile
mentire, suo padre
l’avrebbe scoperto immediatamente, ma voleva sapere
perché suo padre voleva
vedere Will morto.
"Perché?"
suo padre eluse volutamente la domanda, voltandosi a guardarla.
Briseide lo
fissò. Aveva gli occhi ambra proprio come i suoi.
"Perché
volevo chiedergli alcune cose. Ma lui non mi ha risposto, proprio come
te" era
soltanto una mezza bugia, in realtà era stata lei a parlare,
per quasi tutto il
tempo.
"Molto
bene" il governatore indicò la strada "eccolo il tuo
prigioniero. Con Guy.
Quando sarai più grande Briseide, capirai che un governatore
ha molte
responsabilità. Se all’esecuzione partecipa il
governatore vuol dire che ciò
che ha fatto il condannato non deve essere più rifatto.
Capisci?"
Ma
Briseide non stava ascoltando. Vide Will seguire Guy a testa alta. Il
vento gli
scompigliava i capelli neri. I suoi occhi azzurri erano puntati sul
patibolo.
Briseide avrebbe voluto sapere che cosa stava pensando in quel momento.
Al suo
fianco sinistro c’era Troy, un ragazzo di poco più
di sedici anni, arruolato da
Guy pochi giorni prima, basso di statura e un po’ ritardato,
mentre dall’altro
aveva Llen. Briseide sperò che tutto filasse liscio.
D’un tratto vide un
movimento dietro la schiena di Will, ma il suo bel volto rimase
impassibile e
quando Guy gli ingiunse di inginocchiarsi davanti al tronco per le
esecuzioni,
il suo sguardo rimase fisso davanti a sé. Briseide
strattonò la manica del
padre.
"E il boia?" chiese. Non aveva visto nessun uomo con il cappuccio, e
non
credeva che Guy potesse uccidere così.
Suo
padre non rispose. Non ce n’era bisogno.
D’un tratto tutte le speranze di
Briseide furono portate via, come da una folata di vento. Will, con un
coltello
di corno, non aveva nessuna possibilità contro
l’ascia di Guy. Il ragazzo
poggiò il collo sul tronco. Briseide si voltò
dall’altra parte. Non voleva
vedere. Era la cosa più crudele che potesse mai immaginare.
Aveva voglia di
scoppiare a piangere, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla. Poi
d’improvviso un grido lacerò il silenzio.
Si voltò. Vide Guy a terra, un taglio
profondo sulla gamba destra. Will in piedi, le mani libere dalle corde,
saltò
giù dal patibolo, con una agilità che Briseide
non aveva mai visto in nessun
uomo prima di allora. Abbatté due delle guardie che gli
paravano la fuga e
stese anche Llen. Vide il soldato sorridere e lanciare in aria le corde
che
avevano tenuto legato Will. Briseide lo vide combattere con un altro
soldato.
Will lanciò un imprecazione quando la spada del soldato gli
ferì il braccio.
Gli diede un calcio nel costato e lo spedì a terra.
Fuggì, verso le porte della
città. Briseide sapeva che avrebbe trovato il suo mantello,
la sua spada e il
miglior cavallo delle proprie stalle.
Guardò
verso Guy. Era pallido e si teneva la gamba con una mano. Le venne da
sorridere. Suo padre stava dando istruzioni circa la cattura del
fuggitivo. Era
stato tutto troppo perfetto, si disse Briseide, ma in quel momento non
poteva
fare altro che provare sollievo. Will sarebbe tornato da lei, e
l’avrebbe
portata via da quel luogo orribile. Guardò suo padre.
"Tu
non sai niente di niente, vero, Briseide?" chiese guardandola con
cipiglio
severo.
"No
di certo, padre. Non volevo che morisse, ma certo non sono stata io a
farlo
fuggire. Ero, e sono, qui con voi, no?"
"Lo
so" osservò lui serio "Ma niente e nessuno mi
potrà mai dare la sicurezza che
tu non hai convinto quella guardia a passargli il coltello"
Briseide
rimase in silenzio. Era convinta che lui non avesse visto nulla. Invece
l’aveva
scoperto ancora prima di lei
"Briseide,
io so che che non vuoi sposare Guy, ma questo non ti
aiuterà. Non farò nulla.
Non farò arrestare quella guardia, e non prenderò
provvedimenti, tranne
inseguire William di Monte Argento" aggiunse con un sospiro.
"Promettimi che mi
parlerai sempre"
"Ve
lo prometto" si sentiva un po’ colpevole, ma non certo tanto
da confessare ciò
che aveva fatto. Forse, se Will fosse tornato avrebbe detto tutto.
Forse.
Quella sera,
quando Briseide si affacciò alla sua finestra, pettinandosi
i lunghi capelli
rossi, vide un cavaliere con un lungo mantello, la spada sguainata che
riluceva
ai raggi della luna. Il cavaliere alzò la spada verso la
finestra, il cavallo che
si impennava. Spronò il destriero e scomparve nella nebbia.
Ringraziamenti:
Araluna: grazie per esserci sempre! Senza le tue
recensioni non saprei proprio come fare... Hai ragione, l'inizio dello
scorso cap non era un gran che, ma questa storia l'ho scritta tempo fa
e l'università mi impegna molto, perciò non ho
tempo di riguardare bene i capitoli che posto. Spero che questo ti sia
piaciuto! Un bacione!
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Capitolo 4 *** Un incontro inaspettato ***
Capitolo
Quattro
La
pioggia scrosciava forte sopra la città di Chiaravalle.
Pioveva
ormai da ore, e le strade si erano trasformate in fiumi, le piazzette
in piccoli laghi. I vicoli stretti celavano ancora qualcuno che non
aveva casa, o che semplicemente non poteva tornarci. Molte donne senza
uomini, se ne stavano rintanate in casa, con i propri bambini,
piangenti sotto il temporale. La vita di Chiaravalle era stata quasi
interrotta, tre anni prima, quando gli uomini e i ragazzi al di sopra
dei quattordici anni erano stati arruolati per la guerra. Qualcuno era
tornato a casa, ferito, mutilato, ma vivo, mentre di altri, le mogli
non avevano avuto altro che una spada, o un elmo, o uno scudo
ammaccato. I bambini giocavano alla guerra per le strade, senza sapere
che era proprio il loro gioco, un gioco da grandi, che aveva portato
via i loro padri. Nessuno poteva lenire il dolore delle donne,
costrette a tutto pur di dar da mangiare ai propri figli. Chiaravalle
era diventata una città spettrale, non solo nei giorni di
pioggia.
E fu proprio
in un giorno di
temporale che Will arrivò in città. Dopo una
settimana
passata a cavalcare, fermandosi soltanto per dormire qualche ora, per
mettere più strada possibile fra sé e i soldati
di Guy,
aveva bisogno di un posto dove dormire, riposarsi, possibilmente che
fosse asciutto. Fece scendere il cavallo per le briglie dal poggio su
cui era salito per vedere la città, e quando decise che era
abbastanza isolata per i suoi gusti, scese a sua volta.
Bussò
alla prima locanda. Aveva soltanto poco argento, per altro nemmeno suo,
ma di un vagabondo che aveva trovato sul ciglio della strada, con cui
aveva diviso la selvaggina, e poi aveva derubato. Si sentiva sporco,
per quell’azione, ma non poteva fare altrimenti. Lui sarebbe
vissuto, Will non poteva ancora considerarsi in salvo.
Entrò.
C’era puzzo di muffa, ma l’ambiante era caldo.
Lasciò scivolare il cappuccio sulla schiena. Aveva i capelli
quasi bagnati, arruffati, e il volto sporco di polvere. Si
sentì
addosso tutti gli occhi dei presenti. Si avvicinò cercando
di
non farsi prendere dalla rabbia, al bancone. L’oste lo
guardò con occhi truci. -Che cosa vuoi straniero?-
-Soltanto un
letto asciutto-
rispose Will. Era talmente stanco che non cercò nemmeno di
dissimulare il suo accento. L’oste lo guardò
ancora
più diffidente.
-Sali se
scale, le camere sono al
piano di sopra. Se sai leggere quella libera è la numero 9,
mentre se non lo sai fare arrangiati- sbatté sul ripiano un
boccale di legno vuoto. Will lo fissò per un momento.
-Posso avere
qualcosa da mangiare?- chiese.
-Non
c’è rimasto molto. Solo del montone e del pane- lo
informò l’oste, scortesemente.
-Andrà
bene- si limitò a rispondere Will, allontanandosi.
-Ehi
straniero!- lo richiamò
l’oste -Pagamento anticipato. Tre pezzi d’argento
per la
camera. E devi dirmi il tuo nome-
Will
rabbrividì. Si
riavvicinò. Posò sul bancone quattro pezzi
d’argento. -Facciamo quattro monete, e scordiamoci il nome-
sussurrò. L’oste lo guardò di sbieco.
-Sei un
assassino?- chiese. Will
sfoderò il suo miglior sorriso e sfiorò la spada,
così che l’oste potesse vederla.
-Una specie-
rispose sarcastico -Ma
non ti conviene scoprirlo- l’oste prese i pezzi
d’argento e
chiamò un ragazzino, che arrivò trotterellando.
-Servi il
cavaliere, Ranocchio-
ordinò. Il ragazzino scortò Will ad un tavolo
vuoto, poi
pochi minuti dopo gli portò il montone e il pane. Will lo
guardò per un momento. Aveva il viso sporco e i vestiti
logori.
Doveva avere più o meno dieci anni, ma era talmente magro
che
Will faticava a riconoscere un ragazzino. Aveva la faccia sveglia, ma
nei suoi occhi c’era tristezza.
-Perché
ti chiama Ranocchio?- chiese mentre spezzava il pane. Il ragazzino
alzò le spalle.
-Perché
sono piccolo...-
ipotizzò biascicando le parole. Lo guardò negli
occhi.
Una delle due iridi nere come pozzi, era strabica. Will fu colto dalla
pietà. Il ragazzino sorrise tristemente, e Will vide che gli
mancavano i due denti davanti. Se ne andò, lasciandogli una
sensazione di gelo in fondo allo stomaco. Mangiò lentamente,
aspettando che i molti avventori si ritirassero nelle loro camere.
Quando furono rimasti soltanto un paio di ubriaconi si
avvicinò
di nuovo al bancone.
-Ho bisogno
di
un’informazione, oste- disse. L’altro lo
guardò
mentre riponeva brocche ancora piene sotto il banco. -Ho bisogno di
sapere quanto dista il confine con la Solea-
-Sei
impazzito?- sibilò
l’oste -Devi essere completamente senza cervello, straniero,
se
vuoi andare in Solea. C’è la guerra, non lo sai?-
-È
per questo che devo andarci- replicò Will, cercando di
apparire convincente -Allora, quanto dista?-
-Due
settimane a cavallo, con il tempo buono- rispose l’altro
alzando le spalle -Se vuoi morire-
-Sono
scampato a cose ben peggiori, oste- lo rimbeccò Will -Posso
sopravvivere ad un temporale-
-Ma non alla
neve- il locandiere lo
squadrò da capo a piedi, gli abiti neri, il mantello
fradicio, i
capelli neri -Da dove vieni?-
-Da molto
lontano- ribatté
Will. Non aveva nemmeno la forza per mentire, perciò decise
che
era meglio chiudere la conversazione -Grazie
dell’informazione-
fece per andarsene ma l’oste lo richiamò.
-Senti,
straniero, io non so da
dove tu venga e dove tu voglia andare, ma Chiaravalle non è
un
buon posto dove stare per te- lo raggiunse aggirando il bancone
-Domattina svegliati all’alba e vattene- fece una smorfia
-Non lo
dico per te, ma per me. Non so chi tu sia, ma non somigli a nessuno dei
girovaghi che ho visto in quarant’anni, perciò
è
meglio che tu sparisca il più presto possibile, mi sono
spiegato?-
-Perfettamente-
sibilò Will,
la voce carica di rabbia. Salì le scale, cercando di non
cadere
per la stanchezza. S’infilò dentro la stanza, si
tolse gli
stivali, il mantello e gli abiti, appendendoli al camino spento. Non
aveva la forza di accenderlo, perciò si sdraiò
sotto il
lenzuolo ruvido, fissando il soffitto appena riconoscibile alla fioca
luce che proveniva da fuori, dove il temporale si stava calmando. Tre
settimane prima era stato in una locanda simile, a Ponte Bruciato,
prima che s’imbattesse in Briseide e prima che Guy tentasse
di
ucciderlo. Briseide aveva mantenuto la parola, Will aveva trovato un
cavallo, la spada e il suo mantello fuori dalle mura del castello. Non
si era fermato finché il cavallo non aveva dato segni di
cedimento. Le costole avevano cominciato a fare male, e lui si era
dovuto stendere, con la testa appoggiata alla sella. Il cavallo
l’aveva svegliato il giorno dopo, all’alba. Si era
sentito
meglio, ma le costole gli facevano ancora vedere le stelle. Era stato
allora che aveva incontrato il girovago. Era un menestrello, un
giocoliere. Era accasciato sul ciglio della strada, probabilmente
troppo ubriaco per proseguire. Lo aveva fatto rialzare e aveva diviso
con lui quel poco che era riuscito a cacciare. Il girovago gli aveva
raccontato che proveniva da una città lungo il confine,
Valletetra, e che era incappato in una colonna di soldati. Aveva fatto
qualche giochetto per loro, e i soldati, in cambio, lo avevano pagato
con del vino straniero. Will non era riuscito a strappargli altro dalla
bocca, perché questo aveva ricominciato a farfugliare e dopo
poco si era addormentato. Will allora aveva preso la sua sacca e se ne
era andato. Probabilmente a quell’ora il girovago stava
imprecando contro di lui. Scivolò nel sonno, ma
durò
soltanto qualche ora, perché d’improvviso Will si
svegliò, rabbrividendo di freddo. Guardò verso la
finestra. La pioggia scendeva ancora, ma non doveva mancare ancora
molto all’alba.
Si mise a
sedere. La locanda era
silenziosa, troppo silenziosa. Si alzò, si rimise i calzoni
e
frugò nella sacca del girovago. C’erano una corda
robusta
e qualche trucco da giullare. La corda probabilmente gli sarebbe
servita. Si rimise a letto, fingendo di dormire. I rumori soffocati che
provenivano dalle scale non lasciavano presagire nulla di buono.
Aguzzò le orecchie, cercando di distinguere i rumori dentro
e
fuori la locanda. Un lupo ululò in lontananza. La pioggia
scrosciava ancora, ma meno violentemente sulle imposte di legno.
Sentì il chiavistello della porta vibrare, girare su se
stesso e
poi aprirsi con un lieve tock. Sfiorò il coltello che teneva
sotto il cuscino. Dei passi lievi sul pavimento si avvicinarono al
letto. Will non fece nemmeno in tempo a tirare fuori il coltello che la
lama fredda di una spada gli si appoggiò sulla gola.
-Non sono
qui per ucciderti-
sibilò una voce. Will deglutì. -Alzati- si
girò, e
vide che, chiunque egli fosse, stava accendendo le candele. Portava un
lungo mantello scuro, che lo nascondeva da capo a piedi. Will si mise a
sedere sul letto. -Chi sei?-
-Una cosa
alla volta-
bisbigliò lui. Aveva una voce delicata, più da
donna che
da uomo. Poggiò le candele sul comò e fece
scivolare via
il cappuccio. Portava i capelli raccolti in una stretta crocchia alla
base della testa, biondo oro, gli occhi di un intenso blu scuro, e il
volto giovane e delicato di una ragazza. Era molto giovane, di certo
più di Will.
-Puoi
chiamarmi Astro-
sussurrò avvicinandosi, gli stivali bagnati che lasciavano
impronte sul pavimento -Sono la figlia del locandiere- si
guardò
intorno -Devi andartene subito, mio padre si è preoccupato
di
far avvertire da Lik le guardie-
-Lik?-
chiese Will leggermente frastornato.
-Ranocchio-
soggiunse lei -Il piccolo mostriciattolo che ti ha servito-
-Quanti anni
hai?- chiese di nuovo
Will, alzandosi e infilandosi gli stivali. Anche per quella notte aveva
dormito così poco da essersi perfino scordato di come si
faceva
-E perché mi avverti?-
-Ho sedici
anni, straniero, e ti aiuto per il semplice fatto che voglio che tu mi
porti con te-
-Che cosa?-
Will si sentiva girare
la testa. Non aveva ancora digerito il fatto di essere scappato
così fortunatamente dall’ascia di Guy, che
già
un’altra psicopatica esigeva il suo aiuto.
Già,
perché aveva
promesso alla figlia del governatore che sarebbe tornato a salvarla da
Guy. Che stupido! Si era messo nei guai per l’ennesima volta.
come se non vi fosse abbastanza abituato. Sembrava che tutto il mondo
si fosse coalizzato contro di lui. Si rimise la camicia, passando la
cintura di pelle della spada sui fianchi. Sentì subito la
pesantezza che di solito non lo affaticava. Quella mattina, invece,
avrebbe voluto non dover portarla continuamente. Nascose il coltello
nella fodera di pelle dei calzoni, si agganciò il mantello
al
collo e tornò a fissare la ragazza. -Perché?-
-Perché
Chiaravalle non
è più un posto sicuro, per me- rispose lei
imbarazzata.
Will poggiò le mani sui fianchi.
-Che cosa
intendi dire?-
-Quello che
ho detto- Astro evitò il suo sguardo, eludendo la domanda.
-Andiamo?-
-Non prima
che tu mi abbia detto
perché vuoi andartene- ribatté Will scocciato.
Non gli
andava di dover far da balia ad una ragazzina, ma se poteva farlo
uscire incolume da Chiaravalle, allora avrebbe fatto uno strappo alla
regola. In fondo, un po’ di compagnia non avrebbe guastato, e
se
non fosse stata al passo poteva sempre lasciarla indietro. Si
stupì di se stesso. Una volta non avrebbe ragionato in quel
modo. Una volta non avevi fatto la guerra, pensò leggermente
innervosito. La vide esitare, spostando il peso del corpo da un piede
all’altro.
-Ho... ho
fatto una cosa che non dovevo- rispose alla fine.
-Che tipo di
cosa?- chiese Will incalzandola. Astro gli voltò le spalle.
-Avevo un...
fidanzato. Era il
figlio del fabbro. Ma è partito per la guerra due anni fa e
da
allora non ho più avuto pace. C’era gente che
diceva che
non sarebbe più tornato. C’era chi sosteneva che
fosse
già morto- sospirò e le spalle magre si strinsero
-Di
partire per cercarlo non ne avevo l’intenzione, immaginati
una
ragazzina sola in mezzo alle truppe impegnate nella guerra- si
voltò. Will non disse nulla. Visto che non proferiva parola
Astro continuò. -Sono stupida e ingenua. Mi sono lasciata
sedurre da un mercante, un uomo molto ricco che mi ha promesso di
portarmi con sé per il mondo. Beh, puoi indovinare come
è
andata a finire. Lui è partito senza di me, ed io sono
rimasta
qui, senza un uomo, senza un futuro, e senza innocenza- il volto di
Astro era indurito dalla rabbia e dall’odio. I suoi occhi
scrutavano il volto di Will come per accertarsi che non stesse parlando
da sola. -Adesso possiamo andare?-
-No- rispose
Will -Tu non vieni, Astro. Io sono un ricercato. Sono fuggito dal
palazzo del governatore di Salazard-
-Sai che
cosa m’importa!- inveì contro di lui Astro -Io
voglio soltanto andarmene!-
-Ma...-
-Ti
consegnerò ai soldati,
se non mi porti con te- sguainò la spada -Mio padre mi ha
insegnato come usarla e non ho paura- la puntò contro di
lui.
Will non aveva il minimo dubbio di poterla battere, ma non voleva
combattere contro una ragazzina. Scosse la testa. Tutte a me devono
capitare, pensò.
-D’accordo,
Astro, ti porterò con me, ma devi promettere una serie di
cose-
-Che cosa?-
chiese lei abbassando la spada.
-Che
seguirai ciò che ti
dico. Che non farai niente di avventato, che non ti lamenterai- si
tirò il cappuccio sui capelli -Non andiamo a fare una
passeggiata. Fuggiamo. Perciò dovremo essere invisibili,
veloci
e prudenti-
-Come si
può essere veloci e
prudenti allo stesso tempo?- chiese Astro calandosi il cappuccio del
mantello sugli occhi. Will non rispose, ma lo sguardo che
mandò
ad Astro pareva dire tutto. Legò la corda ad una delle
imposte
della finestra, pregando che fossero abbastanza robuste da reggere il
suo peso. Era magro, certo, ma era anche molto alto. Fece scendere
prima Astro e quando ebbe toccato terra scese a sua volta, imprecando
contro il muro fradicio di pioggia. Lasciò la corda ad
ondeggiare sul muro, mentre l’acqua la impregnava facendola
diventare del colore del sangue rappreso. Corsero verso le stalle,
recuperando il cavallo di Will. Astro sellò una puledrina da
pelo fulvo, dai dolci occhi neri. Will non aveva mai visto una donna
cavalcare come faceva Astro, e dovette ammettere che se la cavava bene.
Incontrarono alcune persone per strada, ma esse non diedero nemmeno uno
sguardo a due cavalieri che lasciavano Chiaravalle. Tutti lasciavano
quella città prima o poi. quando furono giunti ad una
collina
poco distante, Astro si guardò indietro.
-Mi
mancherà mio padre- sussurrò. Will non fu certo
di aver capito bene, ma scosse le spalle.
-Andiamo,
Astro, abbiamo molta
strada da fare- la strada battuta era da evitare, ma con quel tempo le
altre strade erano diventate un lago, e all’interno del bosco
non
si poteva cavalcare veloci. Astro non parlò mai, e Will non
fece
nessun tentativo di conversazione. Continuava a ripensare alla
pergamena strappata che aveva trovato dentro il medaglione, a Briseide,
che era così fiduciosa del fatto che, prima o poi, lui
sarebbe
tornato e avrebbe ucciso Guy, allo stesso Guy, suo fratellastro, sangue
del suo sangue, che era così preoccupato di ucciderlo e di
diventare re. Non aveva nessuna intenzione di sfidarlo a duello, ma se
ce ne fosse stata l’occasione avrebbe tanto voluto
strangolarlo
con le proprie mani. Guardò davanti a sé. La
pioggia
cessò lentamente, e lui si guardò le mani, su cui
scorrevano ancora alcuni rivoli d’acqua. Quelle mani avevano
ucciso tante persone, soldati, soprattutto, ma anche gente comune.
Sentiva la stanchezza consumargli la ragione. Aveva bisogno di riposo,
meritato riposo, anche su una roccia avrebbe dormito, di questo era
sicuro. Guardò verso Astro. Il cappuccio le copriva gli
occhi, e
non poteva vedere la sua espressione. Il sole fece capolino attraverso
le nubi ancora grasse di pioggia, ma l’aria rimase fredda e
umida. Will aumentò il passo del cavallo, lasciando un
po’
indietro Astro.
-Muoviti,
dobbiamo lasciare questo
posto il più presto possibile- la rimproverò
voltandosi
verso di lei. Astro alzò la testa e si tolse il cappuccio. I
suoi occhi blu erano carichi di amarezza.
-Si da il
caso che questo posto fosse la mia casa-
-E allora
perché te ne sei andata?- la provocò Will
mettendosi di fianco a lei.
-Se non mi
sbaglio te l’ho
già detto perché me ne sono andata-
sospirò
-Chiaravalle non è più un posto sicuro per
nessuno,
figuriamoci per me-
-Beh, non
è certo una cosa così grave- commentò
Will. Astro lo guardò negli occhi, stupefatta.
-Non
è una cosa grave?-
chiese -Ma da dove vieni? Da che mondo e mondo adesso nessuno mi
sposerà più. Nessuno vorrà avere a che
fare con
una ragazza che è stata violata prima del matrimonio- Astro
alzava progressivamente la voce e non si era accorta di stare urlando.
Will la zittì.
-Shh. Non
devi urlare così, Astro- la rimbeccò. Lei strinse
le spalle.
-Scusa-
sussurrò. Cavalcarono in silenzio per qualche tempo, poi
Astro si avvicinò nuovamente al cavallo di Will.
-Senti, non
so nemmeno il tuo nome.
Non posso chiamarti straniero, non trovi?- chiese con un sorrisetto
amareggiato. Will le sorrise condiscendente. In fondo era solo una
ragazzina, non poteva certo ucciderlo durante il sonno. Il suo poi era
particolarmente leggero.
-Mi chiamo
Will- rispose.
-Will e
poi?- chiese Astro accarezzando la criniera della puledrina.
-Will e
basta- ribatté Will senza scomporsi. -William-
-Oh- fece
lei. -Io mi chiamo Andrea, ma tutti mi chiamano Astro-
-Perché
non ti fai chiamare con il tuo nome?- chiese Will stupito.
-Perché
era il nome di mio
nonno- ringhiò lei -e mio nonno era un assassino. Ha ucciso
il
vecchio governatore di Chiaravalle, per poter comandare per conto suo,
e poi è stato ucciso a sua volta- sospirò
-Chiaravalle
è senza un governatore da dieci anni, e nessuno amministra
più la giustizia- fece un sorrisetto sarcastico -Meno male,
aggiungerei, altrimenti sarei già stata impiccata-
Will non
rispose. Ripresero a
cavalcare in silenzio. Quando il sole fu alto nel cielo Will decise che
si sarebbero fermati. Entrarono nel bosco, il sottobosco ancora umido
per la pioggia, e s’inoltrarono tra gli alberi
finché non
incontrarono una radura.
-Perché
ci fermiamo?- chiese Astro guardando Will scendere dal cavallo.
-Perché
ho bisogno di
dormire- rispose lui. Aveva i muscoli rigidi e la mente appannata.
Aveva bisogno di riposarsi per qualche ora. Gli sarebbe bastato.
-Ma se hai
detto che dobbiamo allontanarci il più presto possibile?-
-L’ho
detto- convenne Will
legando il cavallo ad un albero e liberandolo della sella -Ma io ho
bisogno di riposo. Non andrò lontano in queste condizioni-
si
portò una mano al costato, dove le costole incrinate gli
facevano ancora vedere le stelle.
-Che cosa ti
è successo?-
chiese Astro scendendo da cavallo. Will non rispose subito. Stese la
coperta che aveva trovato nella bisaccia attaccata alla sella del
cavallo e ne trasse anche il suo taccuino. Sorrise. Briseide
l’aveva probabilmente estorto a Guy. E Guy era talmente
stupido,
quando si trattava di un paio di occhi dolci, che glielo aveva dato
senza sospettare nulla. Spuntò i giorni, lo rimise al suo
posto
e si sedette sopra la coperta. -Ho avuto un diverbio abbastanza acceso-
rispose alla fine alzando gli occhi su Astro. Si tolse il cappuccio.
Quando guardò di nuovo Astro lei trasalì.
-Ma tu hai
gli occhi azzurri- sussurrò.
-Perché
non ci vedi?- chiese Will sarcastico. Astro scosse la testa.
-Al buio...
mi erano sembrati scuri- si scusò -Da dove vieni? Sei
così diverso dagli altri-
Will non
rispose. Non gli andava di fare conversazione, ma Astro era di un'altra
opinione.
-Da dove
vieni, Will?- si
accucciò accanto a lui. Will la guardò. Non ci
aveva
fatto molto caso, mentre cavalcavano. Astro portava abiti maschili,
calzoni infilati negli alti stivali di pelle, molto simili ai suoi, una
camicia di lana grezza e un giustacuore dai bottoni usurati. Il
mantello le stava troppo grande e le cadeva male sulle spalle.
-Da molto
lontano, Astro- sospirò dopo un po’ -Un luogo che
tu non conosci-
La ragazza
si sedette sulla coperta
di Will. Guardò altrove, eludendo il suo sguardo. -Avrei
voluto
davvero vedere il mondo, sai Will? Avrei voluto davvero fuggire prima
da Chiaravalle e forse adesso, non mi troverei in questo pasticcio-
-Pasticcio?-
Will scoppiò a
ridere -Tu ti trovi in un pasticcio? Beh, allora io sono proprio senza
speranza- si sdraiò, appoggiando il capo sulla sella. Chiuse
gli
occhi, e un attimo dopo già dormiva.
^____________________^
Astro non si
fidava di nessuno, di
norma. Restò immobile a fissare il volto addormentato di
Will,
chiedendosi perché fosse lì insieme a lui. Non ne
aveva
avuto già abbastanza di uomini? Non aveva per caso imparato
la
lezione? Si chiese se non fosse il caso di tornare indietro. Magari suo
padre la stava cercando, era preoccupato per lei, e suo fratello stava
già cavalcando per cercarla. Scosse la testa, era troppo
bello
per poter essere vero, purtroppo. Incrociò le gambe e
tornò a guardare il volto di Will. Aveva una lunga cicatrice
sul
collo, forse il ricordo di una freccia, ancora fresca. Astro era
rimasta stupita di fronte alla strana bellezza di quello straniero.
L’aveva guardato a lungo, cercando di capire da dove potesse
venire. L’aveva chiesto a suo padre, ma lui le aveva soltanto
risposto che non doveva chiederselo. Le aveva messo in mano un vassoio
e l’aveva spedita a servire i clienti, lontano da quel
ragazzo
misterioso. Più lo guardava e più non capiva. I
suoi
occhi azzurri, alla fioca luce delle candele le erano sembrati scuri, e
non vi aveva fatto caso, ma poco prima, quando si era tolto il
cappuccio era rimasta paralizzata dalla freddezza con la quale quegli
occhi la guardavano. Avrebbe dovuto dar retta a suo padre e rimanere
alla taverna, ma non poteva più restare a Chiaravalle. Tutti
sapevano che cosa era successo. Ripensandoci le venivano le lacrime
agli occhi. Come era potuto succedere? Era stata così
ingenua e
così infantile, nel credere alle moine di quel mercante.
Lui, in
fondo, aveva il doppio dei suoi anni, e lei non aveva nessuna
esperienza degli uomini. Quando le aveva proposto di partire con lui,
non se l’era fatto ripetere due volte, ma quando
l’aveva
portata nella sua camera, lei aveva capito che qualcosa non andava.
Aveva lottato con tutte le sue forze, ma lui era molto più
forte. Il giorno dopo era partito, per non fare mai più
ritorno.
Astro aveva quindici anni, e per un anno intero era riuscita a
mantenere il segreto di ciò che era successo, ma quando
l’erborista aveva voluto visitarla per le febbri che
l’avevano colpita, aveva scoperto tutto, e l’aveva
detto a
suo padre. Non le aveva rivolto la parola per giorni, poi quando
finalmente le aveva parlato era stato soltanto per rimproverarla di non
aver fatto bene il suo lavoro, e di non aver pulito a dovere le camere
della taverna. Era stato allora che Astro aveva deciso di andarsene.
Sospirò,
ripensando alla
sera prima. Era entrata senza fare rumore, e lo aveva convinto. Doveva
avere molta paura delle guardie del re e anche del governatore che
nominava di quando in quando. Astro rivolse di nuovo
l’attenzione
a Will. Dormiva profondamente, e forse poteva dormire un po’
anche lei. Si sciolse la crocchia, insilando nella fodera del mantello
la forcina d’osso. Si stese sulla coperta di Will,
rabbrividendo.
L’inverno stava arrivando e già le piogge si erano
fatte
più violente. Non si chiese se fosse giusto o sbagliato, ma
avvicinò il corpo a quello di Will, in cerca del suo calore.
Appoggiò la testa sulla sua spalla, e chiuse gli occhi.
Scivolò nel sonno, ma non durò molto. Un rumore
improvviso la fece sobbalzare. Will dormiva ancora. Astro si
alzò a sedere, con la testa che girava leggermente. Era
tardo
pomeriggio, e lei si stese di nuovo, appoggiando nuovamente la testa
alla spalla di Will.
-Ben
svegliata- una voce familiare
le fece riaprire gli occhi (non si ricordava di averli chiusi). Si
alzò leggermente e vide gli occhi azzurri di Will guardarla.
Arrossì, e i capelli le piovvero sul volto quando
chinò
il capo.
-Dormito
bene?- chiese Will
stirandosi. Astro lo guardò. Sembrava più
rilassato e
sicuramente più incline alla conversazione.
-Sì-
sussurrò.
-Bene,
perché abbiamo molta
strada da fare- si alzò, afferrando il mantello che riposava
sulla sella. Se lo agganciò al collo, e per un momento i
suoi
occhi si posarono su di lei. Le tese la mano.
-Andiamo-
disse. Astro prese la mano che Will le porgeva. La trattenne fra le sue.
-Come ti sei
fatto queste cicatrici?- chiese seguendo con la punta delle dita i
segni indelebili. Will alzò le spalle.
-Un ricordo
della guerra- rispose lui. Astro alzò di scatto la testa.
Guerra? Aveva sentito bene.
-Tu... tu
sei andato in guerra?- chiese. Will alzò di nuovo le spalle.
-Sì,
ho combattuto quattro anni-
-Allora...
allora tu conosci il mio fidanzato...- balbettò Astro -Si
chiama Fedric-
Vide
l’espressione di Will cambiare. Eluse il suo sguardo e
raccolse da terra la coperta. Non la guardò più.
-Che cosa
significa?- chiese ancora Astro -Will!- lo prese per una spalla -Dimmi
che lo hai visto! Dimmi che è vivo!-
Will la
guardò con quegli
occhi azzurri, così freddi, freddi come il ghiaccio che
Astro
sentiva nel cuore. Lui distolse lo sguardo.
-Non lo so-
rispose -Era con me,
l’ultima volta che ho combattuto. Ma poi... non lo so dove
sia
adesso. Ho saputo che l’hanno catturato. Non so se sia ancora
vivo-
Astro si
appoggiò ad un
albero. Fedric non poteva essere morto. Non poteva! Sentì le
lacrime premerle ai lati degli occhi, cercò di ricacciarle
indietro, ma non vi riuscì e le sentì scivolare
lungo le
proprie guance. Il freddo s’impossessò di lei.
Sentì Will andare e venire dalla radura, ma non le
importava. Se
Fedric era morto non c’era alcuna ragione di scappare da
Chiaravalle. Nessuno sarebbe andato a cercarla, nessuno avrebbe mai
potuto toglierle la macchia che aveva sul cuore.
All’improvviso
le mani di Will le presero le spalle.
-Astro-
sussurrò -Non so se
Fedric sia vivo o meno- le alzò il volto e la
guardò
negli occhi -Ma adesso dobbiamo andare. Probabilmente Fedric
è
ancora vivo-
-Lo dici-
tirò su col naso,
asciugandosi gli occhi con la manica della camicia -Lo dici soltanto
per consolarmi- lo accusò.
-Può
darsi. Odio vedere le
donne piangere- rimontò a cavallo e aspettò che
anche lei
avesse preso delle redini della puledrina. Astro si calò il
cappuccio sugli occhi.
-Possiamo
andare- disse. Il suo
cuore era pesante, ma adesso un po’ meno. Will la
guardò
per un momento, poi spronò il cavallo. Astro lo
seguì.
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Molte miglia
più a nord
Briseide si alzò dalla poltroncina su cui era seduta e
passeggiò irritata su e giù per la stanza,
cercando di
contenere la rabbia. La sua dama di compagnia, Loretta, la
guardò passeggiare freneticamente ed emise un lungo sibilato
sospiro. Chinò di nuovo il capo e riprese a ricamare al
tombolo.
Il complicato disegno sarebbe dovuto apparire sulla tavola di nozze
della principessina, ma a lei non importava un gran che. Se continuava
di questo passo le sarebbe venuto un colpo al cuore, pensò
la
dama, cercando di soffocare un sorriso. Briseide si appoggiò
alla finestra. Era una bella giornata, il sole splendeva in alto nel
cielo e anche se il vento freddo non invitava ad uscire, la ragazza
stette vari minuti al balcone, lasciando che le folate di vento le
sferzassero il viso. Riusciva a ricordare perfettamente la litigata
tremenda che aveva avuto poche ore prima con suo padre, contro cui
aveva sputato tutto il proprio veleno. Sei soltanto una piccola
impudente, Briseide! Proprio come tua madre!
Perché?
Perché ho il coraggio di sfidare le vostre decisioni?
aveva ribattuto, già rossa in volto.
Suo padre
era rimasto per un
momento in silenzio, poi si era avvicinato e l’aveva
schiaffeggiata con forza inaudita. Briseide aveva sentito il sapore del
sangue in bocca. Suo padre l’aveva guardata a lungo, senza
parlare. Poi le aveva voltato le spalle. “Un giorno,
Briseide,
quando sarai più grande e più assennata troverai
sagge
queste mie decisioni che oggi ti appaiono così ingiuste. Per
il
momento, visto che sei mia figlia, dovrai ubbidirmi. Che le mie
decisioni ti piacciano o meno, tu sposerai Guy, che l’idea ti
alletti oppure ti disgusti. E adesso vai. Non ho più voglia
di
discutere con te”. L’aveva liquidata come se fosse
una
serva e lei era corsa via, nelle sue stanze, cercando di trattenere le
lacrime. Si era sfogata con Loretta, che si era limitata ad ascoltarla
per interminabili minuti. Il monologo di Briseide si era concluso con
un “non sposerò mai Guy, fosse l’ultima
cosa che
faccio”. Come ogni giorno, ormai, Briseide si sentiva sempre
più costretta in quel castello fortificato, che la
imprigionava
e non la faceva respirare. Non aveva più visto Guy da due
settimane a quella parte, da quando William era fuggito e non aveva
più avuto notizie di lui. Tornò alla finestra,
stringendo
i pugni. Non avrebbe mai permesso che Guy ereditasse i feudi di suo
padre. lui non era un uomo di cui potersi fidare. Era scaltro, anche
stupidamente vanesio. Era convinto che ogni donna del reame cadesse a
suoi piedi. Briseide sorrise, ricordando quando, qualche mese prima, in
Yule, il giorno in cui suo padre credeva fosse nata, Guy aveva ballato
goffamente con qualcuna delle serve. Quando aveva pestato
l’ennesimo piede nessuna ragazza aveva più voluto
ballare
con lui. Certo, probabilmente molte lo consideravano molto bello, e
anche coraggioso, ma di certo non incantava lei, la figlia del
governatore di Salazard, nonché diretta discendente del re
dell’Aschart. D’un tratto si udì bussare
alla porta.
Briseide si scostò dalla finestra e la chiuse. Chiunque
fosse
era uno scocciatore. Loretta ripose il suo lavoro e andò ad
aprire. Sulla porta stava un monaco. Il saio di sacco e i piedi calzati
in scomodi sandali di sparto e cuoio mal conciato. Briseide lo
squadrò con occhio critico. Aveva si e no venticinque anni,
era
giovane, ma il suo viso era attraversato dalla fatica della vita
monacale. Loretta la guardò.
-Fallo
entrare- disse allora Briseide. Il monaco
s’inchinò, sorridendo lievemente.
-Vi porto
gli omaggi
dell’abate, mia signora- aveva la voce calda, ma affaticata.
Loretta lo pregò di sedersi e lui accettò, anche
se
malvolentieri.
-Offri da
bere al nostro ospite,
Loretta- la invitò Briseide, avvicinandosi al
monaco che
la guardava fisso -oggi è un giorno molto freddo e lui
avrà fatto un lungo viaggio-
-Vi
ringrazio, mia signora. In
effetti sono qui da più di un’ora- aggiunse quando
vide
che l’espressione della ragazza non cambiava. -Ho incontrato
il
governatore, ma non voleva che vi vedessi- si fece il segno della croce
e poi sorrise, colpevole -In effetti, non sarei dovuto venire,
infrangendo gli ordini del mio signore, il governatore, ma vedete, ho
cose urgenti da dirvi-
-Dite,
allora- lo spronò Briseide -Ma prima ditemi come vi chiamate-
-Il mio nome
è Fedric, mia
signora- rispose lui con un filo di voce. -Vengo dalla Solea, ho fatto
un lungo viaggio, per arrivare qui, ma non è importante
questo.
Voi avete mandato una lettera all’abate del convento di
Erana, la
città in cui vivo per il momento- si schiarì la
voce -E
lui ha mandato me, per avvertirvi-
-Avvertirmi?-
esclamò Briseide -Di che cosa dovete avvertirmi?-
-Beh...-
Fedric parve esitare -le esatte parole dell’abate sono state
di pregarvi di farvi
i fatti vostri, mia signora- arrossì
leggermente, mentre gli occhi di Briseide lo trafiggevano.
-Ah
è così dunque?-
s’infervorò -E le informazioni che avevo chiesto?
Non
può certo essere un segreto!-
-Oh, beh,
mia signora, io sono
soltanto un monaco, ma...- le fece segno di tacere -Ma posso dirvi che
al convento da qualche giorno ci sono dei fermenti. Non so che cosa
possano voler dire, ma sono certo che c’entra qualcosa
l’erede del re della Solea-
-Il piccolo
Elias?- chiese Briseide -E che cosa c’entrerebbe lui? Ha solo
due anni-
Fedric
esitò di nuovo,
accarezzandosi il mento con le dita -Beh, non so di preciso, ma
qualcuno all’interno del monastero vocifera che ci sarebbe
già un’erede, un’erede maschio al trono
di Solea,
nato dal ramo femminile della famiglia, dalla principessa Lavinia-.
D’un tratto il mondo di Briseide si fermò. Non
esisteva
più nulla, a parte il viso colpevole del monaco e le sue
parole
che le rimbombarono in testa come un’eco. Un’erede maschio al
trono di Solea... dalla principessa Lavinia.
Lavinia. Era il nome della madre di William. Poteva essere soltanto una
coincidenza. Si schiarì la voce, per non tradire
l’emozione. -E ditemi Fedric, che cosa si sa di questa
Lavinia-
-Non molto
purtroppo- Fedric
ricevette un boccale colmo di vino caldo dalle mani di Loretta -Dio vi
benedica. Comunque- ricominciò solerte -Si sa soltanto che
era
molto bella e molto triste. Fuggì dopo che suo padre
l’aveva promessa in sposa ad un lontano parente. Di lei si
persero le tracce, ma...- si fermò, come se avesse paura di
quello che stava per dire. Briseide versò un calice di vino
anche per se stessa.
-Non
fermatevi, Fedric, per favore. Nessuno verrà mai a sapere
quello che ci siamo detti oggi-
-Lo spero,
mia signora- sorrise
-Comunque- bevve un sorso di vino -si sa che scappò, al di
là del mare con dei pescatori-
-E nessuno
andò a cercarla?- chiese Briseide, l’emozione che
le stringeva la gola.
-E per fare
che cosa, mia signora?-
ribatté saggiamente Fedric alzando le spalle -La principessa
era
importante, certo, ma sul trono era comunque salito suo fratello,
Lyone, più giovane di lei, ma già sposato-
-Quanti anni
aveva Lavinia?-. Fedric alzò di nuovo le spalle, bevendo un
altro sorso di vino.
-Non lo so
con certezza,
quattordici o quindici- sembrò fare un calcolo mentale
-Adesso
dovrebbe avere più o meno trentacinque anni-
-Sì!-
Briseide
soffocò il suo compiacimento. Gli occhi le brillavano.
Sì, c’era ancora speranza, per lei di non dover
sposare
Guy. -E dimmi, Fedric- lo incalzò -Se l’erede di
Lavinia
si facesse avanti, il figlio di Lyone...-
-Oh, ma
Elias non è il
figlio di Lyone- la interruppe Fedric -Ma il nipote. Lyone non ha mai
avuto figli suoi, ha adottato un giovane di sangue nobile, che ha avuto
in seguito, un figlio illegittimo da una contadina. Lo ha riconosciuto
e ripudiato la donna. Elias è il nipote di Lyone,
perciò
se il figlio di Lavinia- storse il naso - se esistesse davvero, e si
facesse avanti sorpasserebbe di sicuro Elias-
-E voi come
fate a sapere tutte
queste cose? Non avevate detto di essere soltanto un monaco?- chiese
Briseide. Fedric arrossì.
-Prima di
essere monaco ero
soldato, mia signora e di voci per le retrovie ne giravano molte... ho
conosciuto molti uomini valorosi, tra cui un amico, che mi manca molto
più della spada o della lancia- sussurrò
malinconico.
Briseide sorrise. -E chi è questo vostro amico,
così
importante?-
-Un
amico di cui vado molto fiero, mia signora. Il suo nome è
William, William di Monte Argento-
Ringraziamenti:
Araluna:
Ciao piccola! Grazie del tuo sostegno! Sì, in effetti anche
io sono perdutamente innamorata di Will <3. Il fatto
è che mi ci voleva qualcuno che gli desse del filo da
torcere e, anche se un inetto, Guy si dimostrerà astuto, in
seguito. Mi raccomando continua a seguirmi e non dimenticare di
aggioranre "Benzoino", sono ansiosa di sapere che cosa
succederà! Un bacione!
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