Un'altra vita

di Scemochiscrive
(/viewuser.php?uid=597544)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10 ***



Capitolo 1
*** 1. ***


La luce mattutina entrava dalla grande vetrata, appena pulita. La caffetteria universitaria era il posto più frequentato di tutto il campus: interamente in vetro, con tavolini di metallo rotondi e un lungo bancone con molteplici espositori pieni di dolci. Un ottimo luogo in cui chiacchierare aspettando l’inizio delle lezioni e sbirciando la strada, lungo la quale tutti i pendolari si fermavano con l’autobus o la macchina. Le matricole si sedevano in un angolo, guardandosi intorno per cercare di fare amicizia, gli alunni degli anni successivi le squadravano divertiti, così spaesate e solitarie, forse dimentichi della loro prima esperienza nel campus. Ognuno ne ha una diversa, ma quasi tutte hanno un filo conduttore: la totale mancanza di senso dell’orientamento. Per Sara Collin, non era di certo il primo anno di lezioni, anzi, erano già due primavere che frequentava i corsi in quel campus, ma continuava a restare negli angoli della caffetteria, solitaria e pensierosa a rimuginare su chissà quale grande senso della vita, con lo sguardo fisso fuori dalle vetrate, in attesa di qualcosa, o forse, di qualcuno.
Quel giorno Sara, capelli violacei, occhi neri come la pece con due grandi occhiaie a contornarli e un paio di labbra non troppo carnose e più rosse del solito, sedeva proprio vicino al finestrone che dava sulla strada. Scrutava le macchine, guardava i nuovi arrivati, alcuni con i genitori, altri da soli, soprattutto, si soffermava sulle famiglie. Quelle numerose, che si riuniscono per le feste e poi, appena finito il divertimento, accompagnano i figli nei loro alloggi striminziti con una moquette vecchia di secoli. Quelle famiglie  che un po’ si commuovono, quando devono lasciar andare i ragazzi che, spazientiti, si allontanano bruscamente dai loro abbracci. Il sole, stranamente, più caldo del solito, le irradiava la chioma folta, la rendeva ancora più pregna di riflessi purpurei, mentre lei, stanca e annoiata, prendeva qualche appunto su un’agendina nera. Segnava gli appuntamenti, gli orari dei nuovi corsi, faceva piccoli schizzi e disegni appena abbozzati, perdeva tempo in attesa che il suo compagno di studi arrivasse. L’appuntamento di Sara aveva uno scopo ben preciso: concludere la ricerca iniziata prima delle vacanze invernali e ormai, da consegnare a breve al professore di Filosofia. Era una ragazza precisa, una di quelle con degli obiettivi, studiosa e razionale. Una che molti definirebbero “una brava ragazza”. Eppure questa etichetta, a volte, la infastidiva, la rendeva una delle tante, ma lei sapeva di non esserlo. Beh, lei non lo era affatto e  lo notava ogni giorno di più …
«Allora, come va, Secchia?» eccolo spuntare, il suo compagno di studi, giunto ad interrompere il flusso dei suoi pensieri. Harry, era il quarterback della squadra dell’università, un vero idolo, uno dei ragazzi con più spasimanti,  nonché uno sfaccendato di prima categoria.
«Una favola!» rispose sarcastica Sara, guardando l’orologio del suo cellulare. «Ho aspettato solo un’ora il tuo arrivo, ma figurati, non ti far problemi!»
«Infatti, nessuno se li fa, dolcezza.» Harry si beccò un’occhiataccia, la prima di tante; Sara non poteva far a meno di odiare quella parola, “dolcezza”, quella che solo una persona le aveva rivolto e che, ora, nessun altro poteva pronunciare in sua presenza.
«Allora, iniziamo, che abbiamo poco tempo! Capitolo 4 libro 8. Lo riassumiamo e poi aggiungiamo l’approfondimento sul paragrafo 5…» Sara continuò ad elencare numeri e parti di libri totalmente sconosciute al suo compagno di studi, ma quest’ultimo non la degnò della sua attenzione, era troppo impegnato ad assistere ad una delle scene più strane mai viste al Campus.
Una grande auto nera, perfettamente lucidata e con i vetri oscurati, era appena arrivata sul vialetto d’entrata dell’università, quello su cui affacciava la finestra vicino al tavolino dei due giovani. Un uomo, dalla carnagione scura, vestito come fosse appena uscito dal film Matrix, aveva abbassato il finestrino per scrutare all’interno del bar. Uno sguardo inequivocabile, pensò Harry, fissava proprio nella sua direzione. Forse, un osservatore, forse, l’opportunità per entrare in una grande squadra. “Sai come fanno” disse tra sé “non avvertono prima di arrivare, si mettono lì a fissarti per un po’ e poi decidono cosa fare della tua carriera.” Una domanda ovvia, però, non gli balenò in testa: perché non andare a vedere gli allenamenti, ma pedinarlo in caffetteria? Voleva forse controllare anche il livello di studio del ragazzo o le sue amicizie oppure le sue abitudini alimentari? L’uomo richiuse il finestrino. Un attimo precedette la sua uscita dal veicolo. Era un uomo pelato, afroamericano, con un impermeabile nero e una benda dello stesso colore sull’occhio. Un soggetto davvero mai visto in quel dell’ateneo e che Harry continuava a fissare incredulo, cercando di non farsi notare. Aveva sentito di giocatori che diventano flaccidi col tempo, alcuni, purtroppo, che si riducono sulla sedia a rotelle, ma mai di un ex giocatore che perde la vista, al punto da doversi bendare. L’uomo, dall’aria seria e burbera, entrò nella caffetteria. Sara continuava a parlare imperterrita, ma riceveva solo meri cenni di assenso dal suo compagno e solamente quando quello strano guidatore era ormai a pochi passi di distanza, alzò lo sguardo e guardò Harry in volto. Il ragazzo rimase quasi paralizzato nel vedere una tale presenza avvicinarsi sempre di più, vide il suo sogno realizzarsi e prendere forma, ma, d’un tratto, i suoi pensieri, miserabilmente, svanirono in una bolla di sapone.
«Signorina» si avvicinò l’uomo, la cui voce fu subito riconosciuta da Sara. Era lui, dopo tutto questo tempo. Come sapeva che era lì? Come poteva credere che nessuno lo avrebbe riconosciuto? Perché stava lucidamente mettendo in pericolo un lavoro durato anni?
Il sangue della giovane si raggelò, di botto, iniziò ad avvertire il freddo incalzante di quel rigido Gennaio. Deglutì appena, gli occhi sbarrati, il fiatone. Decise, però, di calmarsi, l’ansia non l’avrebbe portata da nessuna parte. «Sì? Mi dica…» rispose poco convinta e con un leggero affanno che tradiva il suo stato d’animo.
L’uomo, Nick Fury, la guardò severamente, mentre lei non fece altro che fingere disinvoltura, anche se con scarsi risultati «Avrei bisogno di un’informazione. » le disse, infine.
«Prego»
« È la prima volta che vengo qui e vorrei trovare un luogo dove andare a mangiare qualcosa. » in quel preciso istante Sara si ricordò di quel gioco che Nick le aveva insegnato, quando era solo una ragazzina.
“È come giocare con le marionette, ti inventi una storia e la porti avanti e nessuno deve pensare che sia una finzione, più sei brava e intelligente e più tutti ti crederanno.” Le aveva spiegato. A Sara tornò in mente tutto in un secondo: quella sera, in cui erano davanti al camino e lei pendeva letteralmente dalle sue labbra. Anche se molto giovane, era perspicace e sapeva di doversi fidare, perché lui poteva aiutarla; lui conosceva i trucchi e lei li avrebbe imparati tutti. Lo avrebbe reso fiero di lei. Così, nonostante, i tanti anni di distanza, Sara rispose come era stata istruita: «Certo. C’è una locanda, si chiama Poison Ivy, non è molto lontana, disterà circa 1 kilometro, alle 18 servono un pollo fritto buonissimo. Ci vada, glielo consiglio. » concluse il tutto con un sorriso e l’uomo burbero, uscì ringraziando.  Saltò di nuovo in macchina e sgusciò via dal vialetto.
«Che tipo strano, non trovi? » chiese Harry ancora stranito da quella visione.
«Boh, non mi è sembrato. E quindi, questo programma ti va bene?» continuò la ragazza, cercando di concentrarsi di nuovo sulla ricerca e di frenare le domande del quarterback.
«Uhm … e poi perché lo ha chiesto a te? Non poteva chiederlo al cameriere?»
«Eh? »
«Perché ha fermato te per chiedere indicazioni, poteva chiederlo per strada o ai ragazzi qua davanti o a …»
«Ascoltami, Smith, per essere il quarterback scemo che non presta attenzione a nulla, fai un po’ troppe domande, ma naturalmente nessuna attinente all’argomento importante: la nostra ricerca. Quindi, stammi a sentire, quel tizio è entrato ha chiesto un’informazione e ora chissà dove sarà andato a perdersi su queste montagne, non mi interessa di lui, mi interessa di non essere bocciata in Filosofia e poiché la ricerca è tutta opera mia, sarebbe davvero il colmo. Queste sono le parti che devi imparare» concluse Sara, cacciando fogliettini dalla borsa «vedi di saperle per bene per il giorno della presentazione, perché io figuracce per colpa tua non ne faccio. Ora puoi anche tornare ai tuoi allenamenti, tanto non capiresti comunque nulla di ciò che ti dico. » diede i bigliettini a Harry e sistemò le altre carte.
«Ehy, Secchia, stai tranquilla. Nessuno boccia il quarterback!»
«Infatti, è per me che mi preoccupo, idiota! » con queste parole, la ragazza, prese la sua borsa nera e vi posò agenda, libri e i mille fogli sparsi sul tavolino, poco prima di uscire fuori dal bar. Non voleva essere scortese, in fondo, sapeva benissimo che Harry era solo stupido, ma non cattivo -almeno, non con lei-  ma come si dice? L’attacco è la miglior difesa, giusto? Meglio attaccare prima di far scoprire la verità. Prima di far finire quella fase serena della sua vita, quei due anni di università, lì, sui monti, rintanata nella sua stanza con la moquette vecchia e puzzolente; rinchiusa nel suo covo, nella sua zona pacifica, forse, fin  troppo. Ma Sara Collin era nata per altro, era nata per combattere e quel giorno, avrebbe capito che la tranquillità non può esistere per chi è sempre in guerra con se stessa.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. ***


“C’è una locanda, si chiama Poison Ivy, non è molto lontana, disterà circa 1 kilometro, alle 18 servono un pollo fritto buonissimo.” Ripensò Sara, salendo sul bus che portava al famoso ristorante. Il messaggio era ben chiaro, almeno lo sarebbe stato per Fury: dovevano vedersi all’una al Poison Ivy, tavolo 18. Così Sara doveva anche sbrigarsi: il locale era nel bel mezzo della statale. Si direbbe più un autogrill che un ristorante di lusso, ma era davvero in voga tra gli studenti sfigati, le settimane lunghe, così li chiamavano, quelli, cioè, che non tornavano a casa per il weekend. Molti erano lontani dalle loro famiglie, altri una famiglia non ce l’avevano più. Il viaggio sarebbe stato lungo, ma con poche curve. La ragazza si sedette al centro del pullman, cercando un posto isolato, senza nessuno che la disturbasse. Aveva portato i libri e gli appunti che era riuscita a riprendere, di fretta e furia, in caffetteria, ma non le andava di studiare. Era totalmente deconcentrata, non avrebbe capito nemmeno una parola. Si limitò a guardare fuori, ascoltando qualche canzone deprimente, mentre il paesaggio montuoso e alberato le passava di fianco. Cosa voleva? Cosa cercava Fury da lei? Dopo tutti questi anni, dopo tutti i cambiamenti che la ragazza aveva dovuto affrontare. Sara chiuse gli occhi per un attimo e tutto le tornò in mente, con una forza inaspettata.
«Mi avevi detto che non sarei mai rimasta sola, che tu mi saresti restato accanto. Perché mi mandi via, adesso? »
«Non puoi, ti troverebbero. È pericoloso, lo stiamo facendo per te…»
«Per me, Nick? Restare qui è l’unico modo per non farmi trovare. Ovunque io vada potrebbero venirmi a cercare, ma qui ci sarebbero loro ad aiutarmi, a proteggermi. Adesso, di botto, è diventato “pericoloso” per me?» la giovane era fuori di sè. Alcuni ragazzi, in corridoio, non poterono fare a meno di fermarsi davanti  a quella stanza da cui fuoriuscivano tali urla, ma furono subito scacciati via dai professori e ricondotti a lezione.
«Lo è sempre stato, ne avevamo già parlato. Questa era una sistemazione provvisoria. Ricordi quando non volevi nemmeno metterci piede? »
«Ma sono passati tre anni, è cambiato tutto. Non sono più quella di una volta. I miei poteri si sono evoluti, qui mi danno una mano, qui non mi sento sola e per la prima volta, posso anche io svolgere il mio ruolo nella società, come tu mi hai insegnato. Perché, Nick? Perché mi fai questo? »
«Ne ho discusso con Charles, lui è d’accordo, tu devi solo …»
«Lui è d’accordo? Lui … pure lui è dalla tua parte, ora? Tutto, di colpo, cambierà di nuovo e io che devo fare? Cosa?  Stavolta, sarà per il bene di chi? Della nazione, della società, della razza umana o di quella mutante? Mi avete solo usata, finché vi ho fatto comodo. Siete tutti uguali! Mi avete riempito la testa di belle parole, ma poi non avete dato seguito alle vostre promesse! Capite che sono una persona, che ho dei sentimenti? » La studentessa scoppiò in lacrime.
Lo studio del prof. Charles l’aveva sempre intimorita, dal primo giorno in cui ci aveva messo piede, con Nick al suo fianco. “Questa è la scuola che fa per te. Sarai con i tuoi simili, potrai interagire con loro, potrai usare i tuoi poteri per fare del bene e il professore è un mio caro amico, ti seguirà personalmente.” Le aveva detto un giovane Fury, mentre lei, appena quindicenne e fragile come un giunco, gli si stringeva al braccio. Il professore le fece un cenno di assenso con il capo pelato: “Ti stavamo aspettando, abbiamo davvero bisogno del tuo aiuto, cara. Vuoi darci una mano per una nobile causa?” le aveva chiesto con aria rassicurante. La giovane aveva accettato, quasi costretta e dopo anni in quell’accademia, accudita come in una vera famiglia, aveva imparato a migliorarsi, giorno dopo giorno. Aveva messo alla prova se stessa, era entrata in un vero team e nonostante la giovane età si era subito fatta notare da tutti. Aveva stretto dei rapporti che sperava sarebbero durati per sempre e aveva conosciuto una delle persone più importanti della sua vita. Dopo tre anni, si ritrovava nello stesso posto della prima volta, seduta su una sediolina di pelle blu, stavolta, però, doveva compiere la scelta opposta: abbandonare l’accademia per mutanti e intraprendere quella che a tutti gli effetti sarebbe stata “un’altra vita”.
«Avrai una nuova identità, da oggi il tuo nome sarà Sara Collin, Natasha ti guiderà verso un’università dove ti abbiamo già iscritta, lì condurrai la vita di un normale comune mortale e non potrai usare i poteri nè in pubblico né in privato. Per non farti riconoscere, ti cambieremo anche il colore di occhi e capelli, devi essere un essere umano come tutti gli altri. » rincarò la dose Fury. A quelle parole la ragazza, non riuscì a trattenere nuovi singhiozzi, accasciandosi sulla sedia, con le mani davanti al viso.
«Non puoi farmi questo, Nick. Ti prego!»
«Mi ringrazierai un giorno.» disse l’uomo con la sua solita sicurezza. E con questo, le voltò le spalle, bofonchiando un «Non c’è bisogno che tu prenda la tua roba, Romanoff ti aspetta. Forza!»
Sara aprì gli occhi. Il pullman si fermò. Quella scena era stata rinchiusa in un cassetto della sua memoria, per così tanto tempo, non aveva mai voluto rispolverarla, anzi, voleva che fosse solo un brutto ricordo, uno di quelli che non sai nemmeno più di avere, dopo un po’. Ma i brutti ricordi sono come gli esattori delle tasse: tornano sempre a presentarti il conto. Troppo da gestire in una volta sola, specialmente in pubblico, su di un autobus pieno di gente. Sara Collin si era appena abituata al suo nome, ai suoi capelli, alla sua vita, al freddo di quell’Università e, dopo tre anni, stava anche per laurearsi. Proprio allora, avrebbe dovuto cambiare tutto, un’altra volta? Tutta la sua esistenza, così insulsa, rispetto a quella vissuta nelle sue “vite precedenti”, tutta la sua sudata tranquillità, tutta quella calma apparente, quella normalità ostentata. Avrebbe dovuto cambiare maschera per l’ennesima volta? Il suo destino dipendeva nuovamente dalle volontà del burbero Nick Fury. Adesso che ci pensava, avrebbe avuto una conversazione con lui, per la prima volta, da quell’addio brusco. Non sapeva come comportarsi. Per tutti quegli anni, soprattutto nel primo periodo, aveva provato così tanti sentimenti contrastanti per Nick e per il dolore inflittole dall’uomo bendato. Lui non si era curato di lei, dei suoi pensieri, delle sue volontà, ma infondo, lo sapeva anche Sara, lo aveva fatto per il suo bene. O questo lei voleva continuare a pensare e a credere fermamente. Non poteva averle voltato le spalle anche lui. Certo, nemmeno una lettera, una cartolina, anche sotto mentite spoglie, tutta quell’attesa di notizie mai ricevute, quell’addio che, in fin dei conti non c’era stato, queste ed altre cose le pesavano molto. Non sarebbe stata pronta a scusarlo, a perdonargli tale severità, tale ingiustizia nei confronti di una povera ragazza, totalmente impotente. Finalmente quel viaggio, che sembrava interinabile, stava per concludersi. Prenotò la sua fermata e scese poco prima della stazione di servizio. Che posto affollato! Si era dimenticata quanto potesse creare confusione il rientro al Campus di un gran numero di universitari, dopo le vacanze invernali. Si diresse spedita verso l’entrata del Poison Ivy. In quel caos di motori rombanti, studenti, camionisti e viaggiatori, entrare in quel locale dall’arredamento “anni 50” con musica a tema, naturalmente emessa dal jukebox, era una sorta di piccolo paradiso, una minuscola isola felice. Sara salutò con un sorriso forzato la cameriera, tale Lucy, ragazza carina, ma troppo espansiva. Quante domande, mai un attimo di silenzio. Un fiume in piena di parole usciva dalla sua bocca rossa perennemente calcata da matita e rossetto. Prima che la cameriera potesse iniziare a proferire parola, Sara si diresse verso il Tavolo 18. Era in una zona appartata del ristorante, così avrebbero potuto parlare con calma.
A pochi passi dal tavolo ovale, nero splendente e circondato da divanetti rossi, fu presa da grande spavento. Voleva scappare il più lontano possibile, dimenticare tutto. Ma lei era troppo “brava”, era la solita ragazza accondiscendente e non sarebbe mai venuta meno al suo dovere. Nemmeno alla vista di quella schiera di soggetti, tutti seduti allo stesso tavolo, come una corte pronta a giudicarla. “Oh mio Dio!” pensò, ma decise di essere più forte delle sue ansie; si mise la maschera di “donna forte” e decise di recitare la sua parte, entrando in scena con uno spavaldo: «Mi auguro che tu mi abbia almeno ordinato il pollo fritto, Fury! »

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. ***


L’attesa dell’arrivo di quel “fenomeno” sembrava interminabile. Nick si guardava attorno, fingendosi calmo e pacato, ma in fondo, sapeva benissimo di non aver idea di  cosa aspettarsi. L’aveva lasciata ragazzina, ora era quasi una donna. E pensare che era già così potente in adolescenza. Se fosse progredita? Se fosse cambiata? Da un primo sguardo, appostato nella sua macchina nera, a Fury non sembravano passati tutti quegli anni. Gli era parso di scorgere, nei suoi occhi neri, la stessa luce di melanconia che aveva visto l’ultima volta che si erano parlati. Quegli occhi, che celavano tante verità e tanti orrori, ma non smettevano di brillare.
Nick, sovrappensiero, si sistemò ad un capo del tavolo.
«Capitano, ti troverai bene in questa topaia; sembra uscita dal dopoguerra!» aveva subito detto, in tono più che spavaldo, il miliardario Stark, sorridendo e ammiccando alla giovane Lucy e interrompendo i pensieri di Fury.
Steve Rogers si era limitato a guardare di sottecchi il suo amico, intimandogli il silenzio. «Siamo sotto copertura, cerchiamo di non farci scoprire. Per favore, evita di chiamarmi in quel modo.»
«Okay, Cap. ma sarà difficile nascondere il mio volto, noto in tutto il mondo!» rispose Tony, solo per il gusto di infastidire l’altro e, dopo, prese posto al centro dei quel bizzarro gruppo.
«Dici che anche qui esiste una televisione o dei mezzi di comunicazione su cui trasmettere il tuo viso da star? » domandò in tono ironico Clint, per far tacere l’ego dell’uomo d’acciaio.
«Spero che almeno il cibo non lasci a desiderare, come sembra da questa specie di menù.» riprese Stark, dando un’occhiata ad un fogliettino rosa con scritte nere a penna, titolato: “Piatti del Giorno”. «Mio Dio! L’idea del rapimento durante la notte, continua ad essere quella vincente. Perché non l’abbiamo attuata? D’altronde è una MIA idea. Come può fallire?»
«Stark, facci il favore di chiudere il becco!» lo zittì Nick, con lo sguardo perso a cercare quella ragazza mingherlina venire verso di loro, ma nulla si muoveva all’orizzonte.
«Uh, nervoso, Fury? Non ti ho mai visto così agitato. Ti sei rabbuiato di colpo e, lasciami dire, non è facile scurirti più di così!»
«Tony!» lo rimproverò con voce suadente una donna dai capelli rossi e dalla straordinaria bellezza. «Ascolta, Nick » disse poi, rivolgendo la sua attenzione altrove «non essere preoccupato. Stai calmo, sarà difficile, ma riuscirai a parlarle …»
«È sempre stato difficile con lei. Sempre …»
«Non riesco a biasimarla. » aggiunse Natasha, a bassa voce.
«Ecco perché il rapimento avrebbe risolto molte cose, per esempio niente chiacchiere e molta azione.» si intromise Iron Man, beccandosi l’ennesima occhiataccia dal resto del gruppo.
«Forse il rapimento è un po’ eccessivo, ma davvero non capisco tutto il vostro interesse per una semplice mutante. Ricordatemi cos’ha di speciale questa ragazzina, per favore!» obiettò Clint.
«È una creatura speciale. Appena la vedrai te ne accorgerai.» rispose il burbero Fury, ma Occhio di Falco continuava a non  essere molto felice di aver dovuto lasciare i suoi affetti, nell’unico periodo in cui poteva restare a casa, solo per cercare questa famosa “creatura speciale”. Che aveva di diverso? E perché non convocarla in centrale come tutti gli altri? Gli avevano spiegato che era molto potente e molto giovane, un mix alquanto pericoloso se non ben domato, ma continuava a pensare che tanti altri mutanti, magari con più esperienza, avrebbero potuto entrare nel team, invece la scelta era ricaduta proprio su quella ragazza “speciale”.
«E fa anche tardi!» riprese Tony Stark, beccandosi un’altra occhiataccia dal gruppo. «Lo dicevo più per te, Capitano, voi militari non apprezzate la precisione?»
«Stark, Finiscila. » lo ammonì nuovamente Fury. «Quando ti dissi che non eri in grado di essere un Avenger, avevo davvero ragione.»
«Ma poi hai cambiato idea, come darti torto!»
«Posso sempre cambiarla di nuovo.» concluse il burbero Fury.
«E va bene, forse sono un po’ pedante sulla questione dell’orario, ma il mio disappunto è dovuto dal fatto che avrei un appuntamento con una mia cara … “amica”, dall’altra parte del continente, sapete tra le persone civili, con villa di lusso e una piscina con acqua salata?»
Clint scosse la testa, divertito.
«Tony …» Steve Rogers, con voce bassa e severa, richiamò il compagno, mentre si sistemava sul divanetto, allargando le spalle e irrigidendo la schiena, quasi impettito, come in un saluto militare. 
«Lo so, lo so, acqua salata! Non è di certo il massimo per la pelle, ma ha la SPA proprio accanto alle docce, tanto vale farci un salto, non credete?»
Stavolta, Stark ricevette una leggera gomitata da parte del soldato, che lo costrinse a voltarsi dal suo lato. Alzò lo sguardo e vide un figura mingherlina, con in dosso un grosso cappotto verde col cappuccio di pelliccia. Sembrava così piccola - sia di età che di fisico - con quelle occhiaie grigiastre; sembrava quasi affaticata nel portarsi dietro una borsa pesante e stracolma di roba. “Come pretendiamo che salvi il mondo una… praticamente una bambina!” pensò Clint, guardandola con un’aria che lasciava trapelare un po’ di disappunto.
Sara, con i capelli un scompigliati, sotto il cappello di lana e le cuffiette penzolanti dalla borsa,  apparve a pochi metri da loro. Camminava a passo spedito, per non tradire la sua ansia e la grande emotività che avrebbe dovuto celare davanti a tutti, come era abituata a fare da tempo immemore. Dal tavolo, subito, si voltarono tutte le teste per vederla meglio. Si sentiva un fenomeno da baraccone. Che brutta sensazione, essere l’attrazione di turno, come una gioco da fare al lunapark, come un’insignificante paperella a cui sparare con un fucile di plastica. Quel paragone, che la sua mente aveva prodotto, le fece accapponare la pelle, le fece venir voglia di fuggire, ma, ormai, era lì ed era troppo tardi per tornare indietro e fare finta di niente. Così, quando capì che ormai bisognava rischiare il tutto per tutto, si schiarì la voce e, giunta alle spalle di Nick, esordì con: «Mi auguro che tu mi abbia almeno ordinato il pollo fritto, Fury!»
I presenti, la fissarono dritto in volto. Erano, lì, tutti schierati come un plotone di esecuzione. Dalle loro facce, Sara, capì che, probabilmente, nessuno sembrava aspettarsela così, come dire ... normale.
Nick, senza girarsi a guardarla e continuando a fissare il posto vuoto davanti  a sé, controbatté seccamente: «Siediti. Ti stavamo aspettando.»
Sara prese posto davanti a Fury, quasi ignorando il resto della banda e lanciando solo uno sguardo furtivo a Tash, la cui bellezza era rimasta invariata negli anni, anzi, probabilmente, con i capelli più corti era ancora più affascinante.
Un imbarazzante silenzio iniziò a circondare il tavolo. Sembravano tutti ammutoliti, mentre Sara continuava a cercare nello sguardo di Fury delle risposte che non smettevano di sfuggirle.
«Allora? » chiese spazientita la giovane. «Perché sono qui?»
Per Nick, sentire quelle parole che uscivano nette e piene di risentimento dalla bocca della ragazza era come ricevere una coltellata al cuore. Non riusciva ancora a smettere di pensare all’ultima volta che si erano visti, ai pianti, all’odio provato da quella mutante, a come fosse cambiata. La prima volta che l’aveva vista, l’aveva trovata sola e spaventata, come un animale in gabbia, come una cavia da laboratorio torturata per giorni, mesi, anni; forse, l’aveva trovata in condizioni in cui non aveva mai visto nessuno. L’aveva raccolta come un fiore appassito, le aveva dato acqua e cure e poi l’aveva vista rinascere. Era più di un semplice incarico, per Fury. Era diventata una questione personale. Difendere quella mutante, così potente da poterlo distruggere con uno schiocco di dita, ma così fragile da aver bisogno di continuo amore e  costante vicinanza, era diventata la sua missione. Si sentiva una sorte di padre, il padre che quel piccolo fiore appassito non aveva mai avuto. “Tu sei la mia famiglia” gli aveva detto una volta, Sara. Aveva solo tredici anni eppure tante brutture alle spalle e Nick li vedeva, li conosceva quegli orrori; erano tutti lì, davanti a lui, tra le pieghe del suo viso, incastrati nelle occhiaie grigie, racchiuse in quelle mani affusolate con le unghie curate, ma, soprattutto, si riflettevano nei suoi occhi neri. Due pozzi profondi in cui si specchiava l’orrore. In nome di quell’orrore, Nick sapeva che Sara avrebbe accettato. Non poteva rifiutare di sconfiggerli per sempre. Non poteva rifiutarsi di dar pace a quel buio, custodito nel profondo della sua anima. “È molto inquieta, Nick. Ho bisogno di più sedute, ma temo non saranno mai abbastanza.” gli aveva  confessato, una volta, Charles Xavier, parlando della mutante, al tempo, nota tra gli X-men come Electro-Wave. “È davvero grave, più di quanto immagini.” aveva continuato il professore, “tu sei come un padre per lei, stalle vicino. È quello di cui ha bisogno.” Nick non faceva che ripensare a quel momento e continuava a rimproverarsi di non essere stato in grado di trattenerla, ma il lavoro non può mischiarsi ai sentimenti. Gli avevano detto di farla andar via, perché restare alla scuola di mutanti l’avrebbe fatta scoprire in un battibaleno, lo aveva fatto per il suo bene e aveva dovuto dimenticarsi di quella “figlioccia” per anni . L’aveva cancellata dalla sua vita, ma non dal suo cuore. E ora era lì, davanti a lei e non le sembrava vero, ma non poteva abbracciarla e dimostrarle affetto, non era nel suo stile. Infatti, fece tutt’altro.
«Devi tornare a New York.» iniziò Fury, brusco, come al solito.  
«Devo?» ribattè seccata Sara. «E perché? Se mi è consentito saperlo!» continuò, fissando l’uomo.
«Per aiutare lo S.H.I.E.L.D. Noi abbiamo bisogno del tuo aiuto. »
«Oh mio Dio! » scandì con enfasi la ragazza. «Allora, se lo S.H.I.E.L.D. mi vuole, lascio tutto e vengo a New York. Cavolo! È tutto qui o c’è altro? No, perché ogni secondo che passa è un secondo in più che sto sprecando invece di fare la valigia, metterci dentro tutte le mie belle cosine, i miei libri, i miei attestati, la mia vita degli ultimi tre anni e partire subito all’avventura, accanto allo S.H.I.E.L.D. Perché se lo chiede Nick Fury in persona, non si può rifiutare, no?» Sara era fuori di sé, visibilmente scossa dalla notizia e con la voce tremante, così come le sue mani che si muovevano freneticamente, accompagnando quelle parole piene di sarcasmo e puro dolore. Ogni verso che fuoriusciva dalla sua bocca era un nuovo colpo allo stomaco, che la faceva contorcere dall’angoscia. 
«Non l’ho deciso io. Ci sono ordini superiori e …»
«NO, certo! Tu non decidi mai niente quando si tratta di far star male le persone, sono sempre decisioni altrui e tu devi sottostare, naturalmente!» perseverò nel sarcasmo per poi ritornare seria «Nick, non hai mai fatto quello che ti hanno chiesto, nemmeno per un’opera di bene, figuriamoci se in questi casi ti metti a seguire gli ordini»
«È più importante di quello che credi e ti prego di abbassare la voce. Non dare spettacolo!>>
« Certo che è importante, altrimenti non avresti portato tutto questo parterre di ospiti, qui a godersi lo spettacolo in prima fila. Ah, non c’è bisogno che me li presenti» disse, girandosi a guardarli, mentre, in silenzio, assistevano alla scena «tanto li riconosco benissimo. Colgo anche l’occasione per farvi i miei sentiti complimenti per questi travestimenti così azzeccati, nessuno vi riconoscerebbe mai se indossate addirittura un cappellino e degli occhiali da sole. Assolutamente nessuno, state sicuri!» continuò indicando il Capitano.
«In effetti io ero molto contrariato, i travestimenti non sono il mio forte; alla fine, la fama mi precede sempre! »la interruppe Tony.
Sara lo guardò, strabuzzando gli occhi, mentre il miliardario si sfilò gli occhiali a specchio che indossava. «Tony Stark, sì, QUEL Tony Stark.» disse poi, dandole la mano. La mutante la strinse titubante, colpita più dal suo egocentrismo che dall’importanza dell’uomo con cui stava parlando.
«Questa è una parte del team al quale ti chiediamo di far parte, Sara. Loro sono gli Avangers.» si intromise Nick, cercando di essere il meno brusco possibile, senza, però, riuscirci appieno.
«Che volete?» chiese la giovane. «Ve lo chiedo per l’ultima volta e voglio informazioni chiare e dettagliate.»
«Lo S.H.I.E.L.D. ha affidato una nuova missione ai suoi agenti migliori, e ai geni più grandi di cui il pianeta disponga, tra cui, naturalmente, il sottoscritto.» spiegò Iron Man «Abbiamo bisogno del tuo aiuto per  salvare il mondo da …»
«…sono tornati. Ti cercano, ma, stavolta, scappare non servirà a niente. » arrivò al sodo Nick.
Sara alzò lo sguardo dal volto di Stark, per posarlo su quello di Fury. I suoi occhi si offuscarono con un velo di lacrime. «Che vuol dire che sono tornati? Tu … voi li avevate bloccati, loro non possono tornare. C’era scritto sui giornali. C’erano anche gli alieni e foto di New York distrutta e … tutto questo per niente?»
«I vari e precedenti tentativi non sono riusciti a sconfiggerli, ma solo a placarli. Per un po’ di tempo non li abbiamo sentiti, ma, nell’ombra, hanno elaborato un nuovo piano di conquista del mondo, a partire dall’America. » prese la parola Natasha, sapendo che Nick sarebbe stato troppo duro e Sara non avrebbe retto un colpo simile. Non di nuovo.
La mutante si appoggiò, per la prima volta, con le spalle sullo schienale, guardando il vuoto. Cercava di scacciare le lacrime, di assorbirle e farle tornare da dove erano arrivate. Si ritrovò a pensare a quante sofferenze aveva provato sulla sua pelle, a quanto odio aveva covato in quegli anni per ciascuno di loro, per tutti quegli “uomini” che l’avevano seviziata in ogni modo possibile. Tutto stava riaffiorando. La salivazione si stava annullando e il fiato non riusciva a salire fin in gola, si fermava appena prima dello sterno. C’era una specie di blocco di marmo sui suoi polmoni, che spingeva l’aria sempre più giù. Provò l’istinto di portarsi una mano attorno alla gola per allentarsi il collo alto, come se fosse una semplice maglia ad impedirle di respirare.
«È nostro dovere proteggere l’America, così come il resto della popolazione. » aggiunse il Capitano, con sincero patriottismo. A vederlo pronunciare quelle parole, pareva che se nelle sue pupille sventolassero due bandiere americane, ma Sara era troppo sconvolta e avvilita per poter apprezzare quelle iridi chiare infuocarsi per un ideale. La studentessa si portò una mano alla tempia, il mal di testa era arrivato di colpo e aveva già toccato picchi incredibili. Ultimamente, si sentiva sempre così debole, ma, allora, sembrava pronta a svenire da un momento all’altro.
«Perché vogliono proprio me?» chiese, infine, con una serietà quasi spaventosa, come fosse un robot e non più un essere umano. Non ricevette nessuna risposta, ma le bastò guardare Fury per capire che la storia si stava ripetendo, per l’ennesima volta. Tornò a fissare un punto non ben precisato del tavolo. Il silenzio attorno a sé divenne un leggero ronzio che continuava a frullarle in mente. Si sentiva così impotente, lei che di potenza ne aveva fin troppa e, proprio per questo, si trovava in una situazione simile. «Sappiamo di chiederti molto, ma il tuo aiuto potrebbe essere la svolta decisiva della nostra missione.>> fu la voce di Occhio di Falco a interrompere la calma. L’uomo, nonostante la sua spavalderia, sapeva dimostrare un ottimo spirito di squadra, al momento opportuno e, sebbene covasse molteplici riserve sulla effettiva necessità di avere Electro-Wave tra gli Avengers, capiva che l’insindacabile decisione di Fury celava la sua immensa fiducia nelle  capacità della giovane.
« Electro-Wave sarebbe un elemento utile!» concluse Tony. La ragazza portò lo sguardo su Nick. Era stato lui a fornire tutte quelle informazioni agli Avengers e chissà cos’altro sapevano. “Electro-Wave non esiste più.” pensò Sara, ma sapeva di mentire a se stessa, dicendolo. Forse, non esisteva più quell’eroe dallo strano nome, che aveva militato tra le fila degli X-men, ma, in fondo al suo cuore e al suo animo, si nascondeva la forza di quella super eroina che aveva sconfitto piccoli e grandi nemici e portato un po’ di tranquillità tra mutanti e razza umana. Così, la fanciulla dai capelli viola, si riprese da quei pensieri e con tono cupo e spaventosamente sconsolato, si rivolse a colui che, tra loro, conosceva meglio e disse: «Non finirà mai, eh Nick?» L’altro la guardò senza parlare, mentre tutti i presenti restarono impietriti a sentire tanta disperazione in quelle parole.
«Questa potrebbe essere la battaglia decisiva.» si intromise Capitan America. «Dobbiamo combattere con tutte le nostre forze o non ce ne libereremo mai.» concluse risoluto.
Sara, con le mani nei capelli, appoggiata coi gomiti sul tavolo, si voltò appena verso Steve e gli sorrise amaramente, pensando fossero tutte balle. La storia si era ripetuta tante di quelle volte da diventare, per lei, una vera e propria routine. «”Taglia una testa, altre due prenderanno il suo posto”» recitò la mutante «Almeno hanno mantenuto la promessa.»

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. ***


4.
«Non è tutto» riattaccò Fury, mentre la cameriera iniziava a portare i piatti.
«Alette di pollo per lei, giusto?» chiese Lucy, interrompendolo. La bella ricevette un distratto cenno di assenso da Stark, molto impegnato a controllare il suo cellulare, in cerca di un posto in cui ci fosse campo, poi chiese: «A te nulla, Sara?»
«No grazie, non ho molta fame.»
«Ma come! Non hai mai rifiutato il nostro cibo, che ti succede? »
«Ho … appena finito di mangiare alla caffetteria, quindi, nulla per me, grazie! » ribattè la Collin, cercando di levarsi di torno la cameriera fin troppo invadente, ma, di contro, ricevette un’altra domanda: «Chi sono questi signori? Non me li presenti? Sei sempre venuta da sola, qui!>> continuò, volgendo lo sguardo al team che, invano, cercava di coprirsi il volto il più possibile, con cappucci e occhiali, onde evitare di attirare l’attenzione.
«Chi sono? » ripeté Sara, guardando Nick, per cercare un aiuto, ma, prima che lui potesse dire qualcosa, la giovane dovette rispondere la cosa più banale che le venne in mente «Sono … parenti e amici di famiglia. Mi sono venuti a trovare, per la fine delle vacanze, sai …»
«Non mi avevi mai parlato dei tuoi parenti. Non sapevo fossero così tanti e così giovani» disse civettuola Lucy, versando l’acqua nel bicchiere del Capitano, che arrossì un po’ e, dopo, si schiarì la voce, tossendo appena.
«Lucy!» esordì, con falso entusiasmo, la studentessa, capendo di dover togliere Steve da quella situazione «Sai, sei un’ottima venditrice, ci ho ripensato sul pollo. Mi è rivenuta fame. Che dici di farmi un bel piatto di alette, eh? Quelle buone, con la salsa che sai fare solo tu. Mi raccomando!». Finalmente Lucy si allontanò. Una tregua momentanea, Sara lo sapeva, perciò, si affrettò a rivolgersi al Capitano: «Mi dispiace, è una brava ragazza, ma troppo fissata con i gossip. Vuole sapere ogni cosa.» Rogers assentì, sorridendo lievemente, ancora rosso in volto. «Scusatela anche voi!» ripeté Sara agli altri presenti.
«Figurati, quando una bella ragazza vuole sapere qualcosa, bisogna dirle tutto» iniziò Tony
«Sì, tutto il contrario della verità. Non è vero Stark?» lo riprese, scherzando, Nat, facendo divertire il fedele amico Clint.
«Se non sbaglio, signorina, quando ci siamo incontrati sei stata tu a mentire spudoratamente. »
«È il mio lavoro Tony, non la prendere sul personale. » ribattè la Vedova Nera. E mentre la discussione tra i due continuava, con alterchi e battute conviviali, Sara non poté evitare di notare la faccia preoccupata di Nick, quelle parole:”non è tutto” le incutevano una strana ansia. Che voleva dirle, ancora? Non le bastava averle stravolto i piani, per la seconda volta? E poi quel fastidioso silenzio che avvertiva nell’aria ogni volta che Fury prendeva la parola, come se tutti pendessero dalle sue labbra, come se fossero in attesa di giudizio, in attesa di un comando. Doveva essere qualcosa di davvero importante per riuscire a far ammutolire addirittura quell’egocentrico di Stark, si ritrovò a pensare la giovane, che, per un attimo, distaccandosi dal divertente siparietto tra la spia e il miliardario, volse il suo sguardo al volto di Capitan America. L’eroe sembrava, tra tutti, il più informato sul piano di Fury. Era una sorta di suo braccio destro. Sara vedeva la stessa preoccupazione corrucciargli il volto bianco e perfetto, leggeva tra le pieghe della sua fronte una certa angoscia e non sapeva se ricollegarla all’imminente pericolo di un attacco dell’H.Y.D.R.A –suo eterno nemico- o a ciò che Fury le avrebbe dovuto confessare poco dopo.
«Ecco il tuo pollo!» sentì alle sue spalle. Quella voce squillante la fece sobbalzare e le fece perdere il filo dei suoi pensieri. Era Lucy, di nuovo lì, a scrutare i presenti con fare indagatore.
«Cavolo, più veloce di Speedy Gonzales!» sottolineò la mutante  «Grazie mille.» disse, prendendo il suo piatto, sperando con tutta se stessa che la ragazza dal rossetto di fuoco se ne andasse, ma il suo sguardo da detective non accennava a posarsi altrove. L’espressione seccata di Sara era sempre più evidente. Così Nick, parlando alla cameriera per la prima volta, usò il suo tono imponente: «Senta, Lucy, giusto?» l’altra annuì, stranamente silente, forse,  spaventata da quell’uomo così arcigno «Siamo stati lontani per tanto tempo, abbiamo molto da dirci e vorremmo farlo da soli. Capisci? » la ragazza, comprendendo l’antifona, abbassò gli occhi e si limitò ad un semplice: «Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi.»
«Nick, sei il solito duro. Non si tratta male una signorina così carina. » lo riprese Stark, appena la cameriera se ne fu andata.
«Molto discreta la tua amica, siete tutti così da queste parti?» chiese alterato Fury.
«SONO tutti così, semmai.» specificò la Collin.  «A proposito, entro domani tutti sapranno che ero con voi, quindi, proporrei di partire questa sera stessa»
«Ecco, già che parliamo di partenze, dovremmo dirti qualcos’altro.» Nick colse, così, la palla al balzo. Sara lo fissò con ara interrogativa, mentre addentava le sue alette. Il silenzio calò sul tavolo, di nuovo. La giovane sapeva che si sarebbe trattato di qualcosa di serio, ma mai avrebbe creduto di ricevere una notizia simile. Si guardò intorno, soprattutto si soffermò sul viso, fattosi improvvisamente serio, di Romanoff. Assurdo a dirsi, ma era perfetta anche con gli occhi stretti e un leggero broncio a incresparle le labbra. Poi fu la volta di scrutare il Capitano, serio e impassibile, come al solito. Se avesse visto i suoi occhi, protetti dalle lenti scure, avrebbe notato nelle sue iridi chiare come un pezzo di cielo, un sottile velo di timore. Timore per la sua possibile razione. Egli sapeva che da quella risposta sarebbe dipeso il destino degli Avengers e del mondo intero, insieme a loro.
 «Che succede, Nick?» chiese, infine, la studentessa, mentre buttava giù, a fatica, un altro boccone del suo pranzo.
«Il tuo aiuto non è sufficiente. Ci serve anche quello di un altro mutante.» a quelle parole, Sara cambiò volto. Quel viso che, da poco, aveva assunto la sua normale espressione, dopo essere stato imprigionato in una smorfia di disgusto e dolore, stava per essere, nuovamente, catturato da una maschera di infelicità e malinconia, che, nonostante i vari tentativi, pareva non riuscire a gettare via, se non per fugaci momenti.
«Nick, non …» fu capace di pronunciare. Il cuore le si fermò di un battito, il cerchio alla testa le tornò di colpo e sentì la mani sudare freddo. Se Nick avesse pronunciato quel nome, probabilmente, sarebbe svenuta. Stavolta, sul serio. Perché? Perché continuava a farle questo effetto? Sara se lo chiedeva costantemente. Per tutti quegli anni, più dell’odio, più del dolore fisico e spirituale che i suoi aguzzini le avevano fatto provare, più dell’abbandono di Nick, del sentirsi perennemente usata da tutti, più di tutto questo, l’unica cosa che riusciva a sospenderle il battito cardiaco, per qualche secondo, era QUEL nome. Eppure, ella stessa sapeva che molti problemi ben più gravi dovevano interessarla. Nonostante ciò non smetteva di provare un sentimento così forte per quell’uomo, che l’aveva salvata da una  delle più grandi malattie, da cui si possa essere affetti: la solitudine. Lui le aveva insegnato tutto ciò che era necessario sapere per difendersi, per combattere contro i nemici più spietati, contro i mostri più terribili, soprattutto, quelli interiori. Era lui, che le teneva la mano, quando, la notte, si svegliava in lacrime, con i vestiti strappati; era lui che la faceva sentire a casa, pur sapendo che quella ragazzina, una casa, non l’aveva mai avuta. Era lui il suo punto di appoggio, quello che dava tanto e non chiedeva nulla in cambio. Era la bestia, il mostro, l’indistruttibile lupo solitario ad averla accudita, ad averle mostrato che, sotto la dura corazza, c’è un cuore e che chiudersi in sé stessi non serve a superare il dolore. “La strada è conviverci. Fingere che non sia successo non ti porta da nessuna parte, così come pensarci ogni giorno. Ti fa male? Lo so. Usa questo dispiacere contro chi te lo ha procurato: fa di questa debolezza la tua forza.” le ripeteva, quando Sara, allora Electro-Wave, seguiva le sue lezioni. E lei lo aveva fatto, aveva percorso la strada indicatele dal maestro, fin quando anche quella via, da cui si era dovuta brutalmente distaccare, era diventata, per lei, fonte di grande amarezza. Dimenticarlo non era mai stato facile, ma non vederlo pareva aver aiutato la ragazza a stare meglio. Eppure, sapeva che sarebbe stata una condizione temporanea, che i sentimenti più si combattono e più acquisiscono forza, che più si cerca di affogare l’amore e più questo risale a galla.
«Ascoltami, uno come Wolverine ci sarebbe utile. Insieme a Cap. potrebbe essere il nostro secondo guerriero indistruttibile. Inoltre, lui sa come ragionano, conosce le loro tattiche …» continuò Nick.
«È vero, abbiamo già lavorato insieme in passato.» si intromise il Capitano «Abbiamo riscontrato buoni risultati insieme, ecco perché sono sicuro che il suo aiuto sarebbe prezioso!»
«Oh fantastico! Allora chiamatelo e vedete cosa vi risponde.» sbottò la giovane, posando il suo pollo. Ormai, lo stomaco le si era chiuso del tutto.
«Ci manderebbe a quel paese e lo sai anche tu.» ribatté Fury «Ma con te non lo farebbe, perciò, ci servi per trovarlo e convincerlo. Con voi due e gli Avengers, il team sarà completo e l’H.Y.D.R.A. sconfitta.» concluse, ricevendo cenni d’assenso dagli altri.
«Nick, ascoltami un attimo, perché credo che la vecchiaia ti abbia dato un po’ alla testa: voi siete venuti qui dalle vostre belle case, dalle vostre supertecnologiche città e mi avete chiesto di  abbandonare tutto, di nuovo, perché devo far parte del vostro team per sconfiggere le forze del male che mi stanno perseguitando, di nuovo, salvare il pianeta e vivere tutti felici e contenti. E come se non bastasse, mi avete chiesto anche di aiutarvi a cercare un completo pazzo superforte, col quale ho lavorato per qualche anno e che non vedo né sento più da una vita, perché, secondo i vostri eminenti studi, a me direbbe di sì, ma non a voi, per una determinata ragione, che io non riesco davvero a capire.» disse d’un fiato «Sentite, non vi pare di esagerare un pochino? Giusto un po’, mica tanto, eh!» concluse sarcastica Sara.
«È per il bene del pianeta! » esclamò convinto il Capitano, protendendosi verso la ragazza.
A quelle parole, la fanciulla diede in escandescenze e tutta la rabbia che aveva tenuto dentro, improvvisamente, esplose: «Il bene del pianeta, Capitano? Davvero? E il mio bene quando pensa possa arrivare? Sono anni che mi venite a parlare del BENE, quello che sconfigge il male, quello che dobbiamo custodire e portare alla luce, quello per cui sacrificarci. Per voi è così facile: c’è sempre uno che sbaglia e uno che ha ragione, non esistono mezze misure e chi non si schiera, nella vostra idea di vita, è come se nemmeno esistesse. O è bianco o è nero, ma il grigio nessuno lo contempla. Io mi sono sacrificata per così tanti ideali e posso assicurarvi che visti dall’interno sembrano tutti uguali, tutti parimenti validi. Eppure, non è stato mai abbastanza. Non è stato abbastanza per loro, che volevano conquistare il pianeta grazie a me, non è abbastanza per voi, che volete liberare il piante grazie a me e sapete cosa? Non è stato abbastanza nemmeno per me, che volevo solo vivere in pace, dimenticata da tutti, invece, sono qui, al punto di partenza, al punto in cui scappare è come stare fermo ad aspettare la morte, in cui per me nulla cambia. Che io vinca o che io perda, che combatta per il bene o per il male, io non ho più nulla, Capitano, lo capisce questo? Ho perso anche me stessa e nemmeno so il perché e voi mi venite a parlare di bene e di male. Quando parlerete di me?» la ragazza, alzatasi in piedi durante il suo accorato appello,  fece zittire i presenti, Fury compreso. E dopo quell’urlo soffocato, nel locale e nel resto dell’area di servizio, si avvertì un leggero movimento sismico: i lampadari, penzolanti sui tavoli, tremarono appena, le bottiglie, ordinatamente distribuite dietro al bancone, caddero, rompendosi in mille pezzi, la luce, che prima era accesa, si spense, come in un lampo e anche le trasmissioni televisive si interruppero, il segnale saltò e sul monitor apparvero mille strisce colorate.
Sara tirò un sospiro, per cercare di calmarsi. Chiuse gli occhi e la terra smise di sussultare. Intanto, una certa confusione si era creata nel bar, i clienti si voltavano gli uni verso gli altri per comprendere cosa fosse successo. In quel caos, nessuno notò che, al tavolo 18, tutti gli occhi erano puntati su una figura mingherlina dai capelli violacei. «Scusate. Io, io non reagisco mai così. Mi dispiace.» si udì a malapena uscire dalla bocca della minuta studentessa; la sua voce sembrava rotta dal pianto. «Devo uscire un attimo. Scusate!» disse, per l’ultima volta, prima di dirigersi verso la porta e scappare via.
«Le parlo io. Restate qua.» ordinò Nick, alzandosi, ma fu fermato da una mano dalle unghie smaltate, quella di Tash. Fury si girò e vide l’ex spia russa molto preoccupata: «Non esagerare, Nick. È sconvolta!» Fury si divincolò e freddamente uscì dal locale, lasciando i quattro a guardarsi, senza dire una parola.
 
Sara era già fuori dal ristorante, quando udì un rumore fastidioso e poi un altro e un altro ancora giungerle all’orecchio: le sirene delle automobili, come impazzite, iniziarono a suonare senza sosta, raggiungendo picchi così alti da far stare ancora peggio la ragazza. A quanto pare, ella non sapeva controllare ancora appieno i suoi poteri. Soprattutto certi argomenti la mandavano così fuori di testa, da farle perdere il controllo. Sentiva le persone impaurite e agitate, attorno a sé, chiedersi cosa fosse successo. Era stata lei davvero o era solo una mera coincidenza? E se davvero era colpa sua, quanto grandi erano divenute le sue capacità? Quanto poteva essere accresciuto quel già ben delineato potenziale, che la giovane mutante aveva sfoggiato negli anni dell’accademia, o meglio, che aveva visto sbocciare tra le sue mani fin dalla culla? Quel momento le sembrò durare un’eternità, come le scene in slow motion dei film. Tutti accorrevano verso le auto, per cercare di placare quegli antifurti fastidiosi; le madri si guardavano attorno per trovare i propri figli e calmarli amorevolmente; le cameriere, dietro al bancone, erano incredule, chinate a raccogliere i cocci, non sapendo cos’altro fare. Era stata una vera scossa sismica, pronta a scatenare un terremoto ben più forte, oppure era stato un camion pensante, sfrecciante sulla statale, accanto al locale, a far tremare il pavimento? Cosa fare? Come reagire? Gli occhi sgranati della folla, rendevano Sara ancora più sconvolta dall’evento. Si sentiva colpevole e stravolta. Aveva il fiatone, la pelle le diventò improvvisamente pallida e di colpo le gambe le cedettero. La fanciulla avvertì un giramento di testa, che la costrinse a sedersi sulle gradinate, davanti all’entrata della locanda. Mosse una mano verso l’alto, dolcemente, sapendo che, in quella confusione, nessuno si sarebbe accorto di lei, poi, la chiuse in un pugno e, così come avevano iniziato, tutte le sirene smisero, d’improvviso, di suonare.  Dopo quest’ultimo sforzo, la mutante si sentì trascinata da un vortice buio, che le appesantiva le palpebre e le costringeva a chiudere gli occhi, abbandonando delicatamente la schiena e la testa sul corrimano che cingeva le scalette. Come in un sogno, che ricorre ogni volta che ci si trova in una situazione di ansia, il loro ultimo, breve incontro non poté non abbattere il muro, che ella aveva cercato di costruire nella sua mente, per separare le memorie delle sue “diverse vite”.  Le sembrò di tornare indietro di tre lunghi anni, a quella notte, in cui, alle spalle del dormitorio, su un vialetto secondario, udì il motore di una moto spegnersi lentamente. Non era da Wolverine arrivare con così tanta calma. Egli, infatti, si era introdotto nel Campus, cercando di evitare anche il minimo rumore, per non farsi scoprire. Non che gliene importasse molto! In fondo, era un potente superuomo, che avrebbe risolto brillantemente ogni problema: uno Zic, uno Zac e avrebbe tagliato in due i suoi nemici, ma quella fanciulla glielo aveva chiesto, lo aveva pregato di non emettere suono, per non farla trovare nei guai e lui avrebbe fatto di tutto pur di tenerla al sicuro.
«Ti porto via da qui» esordì, subito dopo averla vista, tutta imbacuccata e sofferente per il freddo «non devi fare tutto ciò che dice quell’idiota di Fury!» poi, porgendole il suo casco, aggiunse: «Tieni, monta su!»
La ragazza, appena diciottenne, rimase spiazzata da una tale proposta. Sapeva che con lui c’era sempre qualcosa di nuovo da aspettarsi, ma non aveva contemplato questa ipotesi, quando, quella sera stessa, aveva ricevuto un messaggio con su scritto “A stasera, dietro la tua abitazione.” firmato ”L.”
«Logan, io … lo sai che non posso, non posso lasciare l’università, per di più con te. Mi troverebbero. Nick mi ha detto di stare attenta, di stare qui.» rispose ella, pur mostrandosi poco convinta. Il suo cuore era diviso, sapeva cosa era giusto e cosa sbagliato, ma a guardare Logan, lì davanti a lei, col casco in una mano, vestito col solito giubbotto di pelle e la canotta bianca, appoggiato alla motocicletta come fosse un comodo divano, sicuro di sé e fiero dei sentimenti che provava nei suoi confronti, le faceva inevitabilmente confondere le idee.
«Fury dice tante cose, ma non per questo lo devi assecondare sempre. Sono sicuro che ti avrà riempito la testa di bei discorsi, di parole vuote, avrà detto che sa cosa è meglio per te, ma non è vero. Io so cosa è meglio per te. Seguimi, ce ne andremo via da qui!»
«Non posso. Nick mi ha promesso che tornerà a prendermi, quando le cose saranno migliori. Aspettiamo, sono certa che quel momento arriverà presto e, allora, mi verrai a prendere e staremo insieme.» lo assicurò Sara, stringendogli la mano e portandola alla bocca, per baciarla.
«Non puoi? Non vuoi, forse. Tu sei maggiorenne adesso, puoi fare quello che ti pare! Fury non ha nessun diritto di controllarti. Lui non sa nulla di te, di quello che ti serve, di quello che senti. Hai già dimenticato che fino a ieri piangevi, perché volevi tornare da me?» la voce di Wolverine si  fece più roca e profonda e tutte le sicurezze di Sara vacillarono, per un momento. 
«Voglio ancora tornare da te» disse, amorevolmente «ma in circostanze normali. Che pensi che succederebbe se venissi con te ora, eh? »
«Dolcezza, non leggo nel futuro. Ti ho sempre protetto, anche più del dovuto, ti ho sempre trattato bene e non ho mai cercato di costringerti a fare ciò che non volevi. Se non avessi saputo che è questo quello che desideri anche tu, non avrei percorso chilometri e chilometri solo per te. Lo so che vuoi scappare, lo so che non ti piace questo posto. Lì, nel profondo, lo sai anche tu!» esclamò, indicando il suo cuore. «Rinnegare la tua natura, voltare la faccia a chi sei davvero, nascondendo i tuoi poteri, è solo un’orrenda menzogna che dici a questa gente con cui convivi, a te stessa e a tutto il popolo dei mutanti, per cui ti sei battuta fino a pochi giorni fa. Ora invece, tutto ad un tratto, non è più questa la tua strada? Non vuoi più lottare? Non vuoi più stare tra le persone che ti vogliono per ciò che sei? Eh? Cosa sei? Rispondimi.» Wolverine disse quelle parole con una tale forza, da non accorgersi che la sua compagna era quasi spaventata, di fronte a lui. La decisione da prendere la straziava, il suo cuore si contorceva per il dispiacere. «Tu sei una mutante. Tu sei una delle mutanti più potenti che abbia mai conosciuto, potresti dominare ogni cosa, se lo volessi. Anche loro, anche quelli che ti cercano. Sei cambiata, sei migliorata. Ascoltami, scricciolo, non sei più quella di una volta. Non potranno più farti niente. Io sarò con te, sempre. » si impegnò, infine, il super guerriero. Il suo volto si ingentilì, sembrò ricacciare dentro quell’animo così animalesco che aveva mostrato, aggredendo la ragazza, poco prima.
«E che faremo Logan?» chiese, in lacrime, Sara «Non abbiamo neanche un posto dove andare, cosa pensi che succederà? Cambieremo indentità? Combatteremo in incognito e la mattina ci sveglieremo sotto un ponte, ci guarderemo negli occhi e penseremo: “Anche oggi non siamo morti, che peccato!” ma faremo finta di niente, finta che vada tutto bene? È questa la vita che sogni? Quello che immagini per te, per noi? Logan, io non posso.» concluse tra i singhiozzi, stringendosi a lui.
«Scricciolo, stare qui non ti aiuterà, ti farà solo perdere tempo. Te lo dico per l’ultima volta» con tono deciso, mentre le si avvicinava, alzandole il viso con una mano e chinandosi su di lei, scandì queste parole: «vieni via con me.» E con una pazienza a lui non consona, concluse: «Io ti amo. Se hai bisogno di sapere altro, ecco ciò che posso prometterti: mi farò uccidere, ma non permetterò mai a nessuno di toccarti. Questo è tutto. Il resto sarebbero solo balle.»
La giovane, dopo una dichiarazione simile, non riuscì a non spalancare gli occhi e a trattenere un brivido, che le percosse la schiena. Nessuno l’aveva mai trattata così. Avvolta da quelle forti braccia, si sentiva una principessa, protetta dal suo cavaliere. Poteva mostrarsi debole, perché sapeva che sarebbe stata sempre al sicuro accanto a lui. L’uomo le accarezzò teneramente il viso, con le sue mani grandi e possenti. Sembrava che il corpicino di lei potesse essere racchiuso tra quei palmi senza il minimo sforzo. Sembrava che finalmente la coppia, appena riunita, fosse pronta per andar via, cercare nuove mete e tuffarsi in nuove avventure, nella perenne lotta per la preservazione del Bene. Ma, come spesso accade, quando pare che il peggio sia passato, la situazione finisce per prendere una piega inaspettata. Logan sentì qualcosa scivolargli tra le dita: là, dove, solitamente, fuoriusciva il primo dei suoi tre artigli, si stava formando un pozzetto d’acqua, composto dalle lacrime della ragazza, che, ormai, non riusciva più a smettere di tremare e singhiozzare. Ella sapeva che con la sua decisione lo avrebbe perso per sempre, ma essere una “brava ragazza” comporta più rischi di quanto ci si possa immaginare. Ad esempio, il rischio di dover essere sempre perfetti; di non farsi mai trasportare dalle passioni; di stare in silenzio e apparire apatici, piuttosto che dire la cosa sbagliata; il rischio di rimanere soli e non osare e perdere, così, l’amore della propria vita, pur di non venir meno alla parola data.
Sara appoggiò il capo, per l’ultima volta, sulla mano del suo amato. La baciò, di nuovo, per poi allontanarla da sé e, con voce stranamente ferma, mettere la parola fine ad una storia appena cominciata: «Ho detto a Nick che sarei rimasta qui ed è quello che intendo fare. Io tengo fede ai miei impegni. Non è facile, non lo è stato ieri e non lo sarà domani. Però, adesso, è questa la mia vita, è questo quello che sono chiamata a fare e compirò il mio dovere, come ho sempre fatto. Non riuscirò mai a dimenticarti, nemmeno se lo volessi con tutta me stessa e non mi importa se ci sarai o meno al mio ritorno, io sarò sempre qui per te. Questo è tutto ciò che posso prometterti, il resto sarebbero solo balle. Stammi bene Logan, abbi cura di te.»
Così, la ragazza si voltò e andò via, il più velocemente possibile. Una volta raggiunta la sua camera, scoppiò nuovamente a piangere e singhiozzare. Il suo stomaco si contorceva e in petto sentiva una fitta forte e fastidiosa, come una spina che le si conficcava dentro ai tessuti. Quella stessa notte, gli studenti dell’università furono svegliati di soprassalto da un terribile movimento sismico, le porte delle loro stanze si spalancarono, i vetri delle finestre si ruppero e tutte le mensole cedettero, facendo cadere i ninnoli su di esse appoggiati. In molti si interrogarono su quello strano fenomeno, ma nessuno riuscì a darsi una spiegazione. Così, quella che, nel Campus, passò alla storia come “La notte delle porte aperte”, segnò la morte della potente supereroina Electro-Wave e la nascita della tranquilla studentessa Sara Collin.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. ***



«Sara, Sara!»  sentì una voce lontana. Una luce inaspettata le abbagliò lo sguardo. I suoi occhi si erano appena schiusi, le sembrava di aver dormito per secoli, che cosa le era successo?  Dov’era? Chi la cercava?
«Hey!»  udì di nuovo. Era una voce soffocata, la sentiva a malapena, come se avesse avuto la testa sott’acqua. Lei odiava l’acqua, non era possibile. Allora dov’era la sua testa?  Forse dispersa da qualche parte tra le nuvole? Forse era fuggita sulla Luna, come nell’orlando furioso?  Ancora se lo ricordava, ma non era mai stato uno dei suoi poemi preferiti. E quel bagliore la accecò, di nuovo.  Che odio! Richiuse gli occhi, ma due schiaffi sul volto la costrinsero a stare sveglia. Era così stanca, voleva solo dormire. “Lasciatemi sulla Luna” avrebbe voluto dire, se solo ne avesse avuto la forza. Invece, non riusciva nemmeno a muovere le labbra. Una serie di colori, facce oblunghe e nuvole che sembravano caderle sulla testa, da un momento all’altro, le ruotavano attorno. In un senso, poi in quello inverso. Forse, danzavano. “Che cosa strana da fare nel bel mezzo di una strada!” si disse “…una strada… che ci faccio in mezzo alla strada?” continuò a pensare, così spalancò gli occhi di colpo e di nuovo udì: «Sara, forza, Sara, svegliati! Guardami!»  
La voce si faceva più nitida, più forte e anche gli schiaffi non accennavano a smettere. «MMM»  mugugnò, non riusciva a dire altro. “Che cavolo ti urli, Nick?” avrebbe voluto urlargli contro, ma purtroppo non riusciva a proferire parola.
«È sveglia? » chiese una voce vicina, soave, con un accento straniero. “Ah, ci manca solo Nat a farmi da mamma, io voglio dormire, lasciatemi qua!”riprese Sara col suo monologo interiore.
«Sono viva» biascicò alla fine. Cercando di riunire le sue forze, sicura che non se li sarebbe levati di torno facilmente, se non avesse dato segni di vita.
«È viva!»  comunicò al capannello di gente, che le si era formato attorno, Tony, con il suo tono tra il solenne e l’ironico. Sara non riusciva proprio a capire quando facesse lo stupido e quando, invece, dicesse sul serio. Non ci riusciva in condizioni ottimali, figuriamoci stesa a terra sulle scale di una taverna di periferia, vicino ad una strada trafficata.
«Come stai? »  le chiese Nick, appena vide che la giovane lo stava guardando.
«Lo sai che da vicino hai proprio un sacco di rughe?»  rispose lei, come fosse un robot, con le pile quasi scariche. Nick la guardò male, ma, alla fine, fu divertito dalle parole della ragazza; l’aveva cresciuta proprio bene, pensava, ottimo spirito ironico-critico, anche in momenti difficili. Delle sue missioni, questa era quella uscita meglio, senza ombra di dubbio.
Sara si passò una mano sugli occhi, quel sole la confondeva, cercava di farsi passare il giramento di testa, di fermare la danza delle nuvole sopra di lei e delle teste che continuavano a fluttuare e attorcigliarsi le une con le altre. «Mi sento un po’ stanca.»  biascicò, infine.
«Ti sei agitata molto, ora cerca di stare tranquilla, ok?»  le rispose, in tono protettivo Tash. Sara acconsentì mestamente, poiché quelle parole le avevano fatto ricordare il motivo del suo malessere. L’H.Y.D.R.A. era tornata a cercarla, doveva lasciare tutto e combattere con gli Avengers e, dulcis in fundo, doveva anche cercare Wolverine e convincerlo a lottare al loro fianco. Troppe cose per una ragazzina che non riusciva nemmeno a tirarsi in piedi. Voleva solo dormire, dormire e dimenticare ogni cosa, dimenticare di essere nata e di essere una mutante e di aver abbandonato l’unica persona che avesse mai amato davvero. Non che all’età di ventun’anni, tutti potessero dire di essere state così fortunati da aver incontrato il vero amore, anzi.  Eppure, una sorte tanto favorevole era sfumata nel giro di così poco tempo  diventando uno degli eventi nefasti della sua vita, a cui era stata, fin dalla culla, abituata.
Era strano, ma a volte le succedeva che più il dolore la colpiva e più aveva voglia di fare, di andare avanti, per vedere fino a quando avrebbe resistito, fino a che punto quelle pene che sentiva nel cuore si sarebbero spinte a trafiggerle l’animo e a rovinare ciò che aveva di più caro. Era un sorta di sfida col suo destino, convinta che il destino è ciò che costruisci non ciò che ti capita. Ancora una volta, questi eventi che avevano spazzato via la sua anelata calma, l’avevano resa più combattiva e le avevano dato la forza di rialzarsi in piedi, sebbene dopo un tentativo fallito, e di chiedere alla comitiva: «Allora, che dobbiamo fare, ora?>> Tutti si guardarono trasecolati da tanto coraggio e, come sempre, fu Nick a prendere la parola: «Dobbiamo trovarlo, Sara. È la nostra ultima chance per vincere.»
La studentessa lo guardò, mentre il resto del team sembrava stare ancora col fiato sospeso, in attesa di un suo giudizio. «Ho un mio metodo per trovare i mutanti, ma dobbiamo tornare al Campus per poterlo sperimentare.»  esordì misteriosamente. Nick assentì, pur non sapendo di cosa si trattasse. Si fidava troppo di quella ragazza per non seguirla e sapeva che non sarebbe rimasto deluso.
In poco meno di mezz’ora si ritrovarono all’università. Era orario di lezione, speravano di non incontrare nessuno a importunarli lungo il cammino. Decisero di prendere le entrate secondarie. «Se seguite ciò che vi dico e non fate stupidaggini, ci metteremo poco!>> li aveva ammoniti la ragazza, entrando furtivamente nella sua stanza. Era una singola, con soppalco, stranamente spaziosa per essere un alloggio universitario e aveva la moquette così vecchia e polverosa da costituire il miglior ritrovo per gli acari di tutto il dormitorio. Con passo felpato, il gruppo si introdusse nel piccolo appartamento. Sul soppalco c’erano un lettino e un piccolo armadio, così basso da sembrare una scarpiera, poi una scala a chiocciola, tenuta al muro per miracolo, al piano sottostante una scrivania attaccata al muro, con sopra una finestra, una tv vecchia come il mondo, infine, un divanetto di un rosso spento, che sembrava perennemente impolverato. In un angolo della stanza, un’enorme credenza di legno, chiusa da due ante di mogano, faceva bella mostra di sé, occupando un’intera parete. Questo era tutto ciò che si trovava in quel buco di posto, non certo uno degli hotel di lusso a cui era abituato il signor Stark, che, un po’ diffidente, si accomodò sul divanetto.
«Allora? »  le chiese impaziente «Come lo troviamo?»
«Beh, io ho un metodo …»  attaccò la ragazza
«Ce lo hai già detto»  la interruppe il miliardario
«Sì, ma non vi ho detto tutto … si tratta di un piccolissimo particolare, una cosa da niente.»  iniziò, guardando Nick, che in silenzio la fissava, subodorando che qualcosa non andava.
«Sara, che metodo? » le chiese Fury, più burbero del solito, avvicinandosi alla giovane, quasi minacciosamente.
«Okay Nick. Magari ora penserai che non è del tutto legale, che non ti convince, ma è un metodo collaudato e … ecco, pensa che lo stiamo facendo per il bene del pianeta, eh?»  cercò di temporeggiare la studentessa, raccogliendo una serie di sguardi perplessi.
«Rapimento nella notte?» buttò a indovinare Stark
«Ma allora sei fissato!»  lo riprese Clint.
«Beh, signori, se dite a lei che va bene e a me avete bocciato l’idea, ricoprendomi d’insulti, sinceramente non la prenderò bene!»  continuò imperterrito Iron Man, col suo solito tono da superstar viziata.
«Lasciala parlare!»  lo zittì il Capitano.
«Niente, rapimenti, Signor Stark, non sono nel mio stile.>> replicò la mutante, poi esclamò «Questo è nel mio stile!»  e indicò la grande credenza di legno.
«WOW! Un mobile sciatto e vecchio, sembra proprio il tuo stile»  ribattè Tony, beccandosi una delle peggiori occhiate mai ricevute.
Sara, scuotendo la testa, si diresse verso l’antico mobile: «Devo chiedervi di mettervi tutti su quel pezzo di moquette»  ordinò puntando una piccola parte di tappeto, dal colore più scuro di quello che ricopriva il resto della stanza,  posizionata al centro della stessa, proprio tra il divano e la televisione.
«Su questo pezzo qui? Dove sembra ci abbiano vomitato in una festa delle confraternite? » chiese schifato il solito chiacchierone.
«Già, proprio lì. Nick, vai anche tu.»  gli disse, vedendo che la stava seguendo per tutta la stanza, senza conformarsi ai comandi impartitigli. «Forza, fai come ti dico.»
Si rigirò verso la credenza «Ci siete tutti?» domandò «È molto importante che non vi muoviate da quell’area, ok? »
Ricevendo una risposta affermativa, finalmente, aprì le due ante e lo stupore del gruppo non poté non esplodere in una serie di commenti. Un grande schermo, come quello dei cinema si dispiegò sul muro precedentemente occupato dal mobile.
Un sistema si attivò e di colpo tutto il pavimento, meno la zona indicata dalla ragazza, fu irradiato da un colore bluastro. Lo schermò divenne bianco e poi vi apparve una cartina del Campus, piena di punti rossi e neri che lampeggiavano.
«Benvenuti nel sistema di rilevazione e classificazione dei mutanti! Questo è un piccolo stratagemma che ho escogitato in questi anni per scoprire quanti mutanti mi circondano, analizzare il loro potere e classificarli. » spiegò con un certo entusiasmo Sara «Mantenete la vostra posizione, il pavimento è irradiato da scosse elettriche, nel caso a qualcuno venisse in mente di sbirciarmi, mentre lavoro. Grazie a questo apparecchio ho rilevato la bellezza di mille mutanti su centomila studenti dell’Università . Direte voi “Sono un po’ pochi!” beh, non per uno degli istituti più importanti del Nord America, che si è sempre vantato della sua politica severa e ristretta nell’ammissione degli alunni. Il preside, una volta, ha partecipato ad una riunione del parlamento per creare scuole separate e dividere per sempre le due razze. Insomma, ci avrebbe rinchiuso bellamente in un ghetto. Morirebbe a sapere che la sua segretaria, con cui ha una relazione da qualche anno, è una telepate e di classe 5. Mica male, non trovate? » concluse la giovane. «Che c’è vi siete forse mangiati la lingua? » chiese, distogliendo lo sguardo dal grande monitor, per guardare il gruppo, tutto stretto su quell’unico pezzo di moquette.
«Come hai fatto?» domandò Tony «È un’idea quasi degna di me. Perché lo hai fatto?» incalzò, stupefatto.
«Grazie, Stark. Beh è facile, in realtà ci ho pensato a lungo e non riuscivo a rendere sopportabile la mia permanenza qui, dopo aver abbandonato tutto e tutti, da un momento all’altro, come se niente fosse. Inizialmente, ho pensato ad un sistema per contattare  Tempesta e il resto della squadra, quei ragazzi mi mancavano così tanto! Poi ci ho riflettuto e ho pensato di allargare il giro: perché non cercare i miei simili e aiutarli ad uscire dal silenzio? Ci sono il telefono azzurro, il telefono rosa, i telefoni arcobaleno e perché non creare un programma che individua i mutanti e li unisce in un’unica rete? Ho formato, pur se a distanza, alcune delle squadre migliori che si siano mai viste e, dividendole per distretti, ho fatto in modo di gestire e pacificare un posto alla volta. Li tengo sotto controllo, perchè voglio che usino il loro potenziale per il bene del mondo, non per i loro interessi. Alcuni, quelli più piccoli e inesperti, li ho mandati all’Accademia di Xavier e me ne sono ancora grati. Ho usato il mio potere per costruire un sistema che ci riunisse, che ci aiutasse tutti, perché solo chi sa cosa significhi avere una mutazione, capisce la difficoltà di essere accettato dagli altri e da se stessi. Alcuni si mettono sulla cattiva strada, perché perdono il controllo delle loro qualità. Si lasciano fuorviare dalle tentazioni e, invece, dovrebbero pensare agli obiettivi lodevoli che possono raggiungere, sfruttando al meglio le loro doti. Come mi hai insegnato tu, Nick.»
«Tu hai interagito con i mutanti per tutto questo tempo? Sotto i miei occhi! Io non ti ho mai insegnato ad ingannarmi! »  sbotò Nick, al culmine della sua rabbia.
«Nick. Non ti agitare se ti muovi potresti morire!» ribatté sinceramente preoccupata la giovane. «Invece di concentrarti sull’aspetto  negativo, pensa a tutti pregi di una rete simile.»
«Tu hai infranto un ordine. Potevi farti scoprire, potevano rintracciarti e catturarti e io non ne avrei mai saputo niente!» urlò Nick. Nessuno lo aveva mai visto così alterato e in agitazione allo stesso tempo. Quelle urla avrebbero spaventato chiunque, ma in quella stanza tutti lo conoscevano abbastanza bene da capire che, se parlava a quel modo, lo faceva solo per proteggere ancora una volta la ragazza che costituiva per lui la cosa più vicina ad una famiglia.
«Non potevano trovarmi la rete è protetta, praticamente un non esiste agli occhi di tutti ed è per questo che nessuno l’ha mai notata. Nemmeno lo S.H.I.E.L.D., o sbaglio?»
«Affascinante!» esclamò Stark. «Che alimentatore hai usato per tenerla in vita?» l’uomo si guardò attorno, non trovando nessun tower di un computer, spina, cavo elettrico o altra fonte di energia. Nulla! «Me stessa.» rispose con nonchalance la mutante. «Sono io che comando tutto. Ho scoperto di poter interferire con diversi sistemi elettronici: internet, i processori dei pc e dei telefonini e anche i robot, i droni.  Posso comandarli a distanza, usando la mia mente. Il sistema che vedete non è che una proiezione dei comandi dati direttamente dalla mia mente. Se voglio spostarmi e allargare la visuale all’intero campus, ecco che succede!» disse puntando il dito contro il monitor, che immediatamente cambiò la sua schermata, per mostrare la cartina di tutto il distretto e, di nuovo, apparvero punti rossi e neri, grandi e piccoli, lampeggianti, come  fanalini delle auto. «Forza Nick, ora puoi decidere se avercela con me oppure sfruttare tutto questo per trovare Wolverine. Cosa scegli?» gli chiese Sara puntandogli gli occhi addosso e sorridendogli timidamente. Aveva la vittoria in tasca.
«Non ci credo! Tu sei una specie di computer su gambe! Vuoi lavorare con me? Noi alla Stark abbiamo bisogno di personale qualificato, giovane e motivato come te!» riprese Tony, senza dar il tempo a Fury di rispondere. Il resto del gruppo scosse la testa, divertito.
«Stark, sei sempre il solito!» commentò la Vedova Nera. «E tu Nick, sappiamo tutti che l’aiuto di questo mostriciattolo ci serve più dell’aria che respiriamo, quindi smettila di fare il duro. Forza Sara, facci vedere dov’è Wolverine, così potremo finalmente trovarlo.»  disse l’ex spia, cercando di stemperare i toni. Così, al minimo cenno di assenso della mutante apparve sullo schermo la cartina del Canada e,  nei pressi del lago Ontario, proprio al confine con gli Stati Uniti, un punto rosso fuoco iniziò a lampeggiare. I punti rossi indicavano i mutanti, quelli neri, invece, spiegavano le loro caratteristiche e indicavano se fossero in attività o meno. Le qualità di quel mutante non c’era bisogno di guardarle, Sara aveva lavorato con lui per così tanto tempo da conoscerle alla perfezione.
«È tornato a combattere in quella bettola.» mormorò dispiaciuta la ragazza, cercando di separare i suoi sentimenti per l’uomo, dalla sua missione.
«Dettami le coordinate!» le ordinò il Capitano e così fu fatto. Rintracciato in men che non si dica, ora la parte difficile: andare sul posto e convincerlo. O, per ciò che interessava a Sara, andare sul posto e vederlo dopo tre lunghi anni di assenza e silenzi. Non pensava di riuscire a discernere la sua mente dai suoi sentimenti per molto a lungo.
 Chiuso il programma ad un cenno della ragazza e serrate le ante della vecchia credenza,  gli Avengers si accomodarono per decidere il piano da attuare. Fury coordinò le operazioni: «Tash, tu e Clint ci servite in centrale per preparare gli altri e riunirli. Tornerete stasera stessa. Io, il Capitano, Stark e Sara andremo a trovare Wolverine. Al nostro ritorno saremo in cinque.  Ve lo assicuro.» disse, congedando i suoi due agenti migliori. Tash assentì, guardando Sara, dritto negli occhi.
La mutante e la spia si conoscevano da molto tempo. Nelle operazioni di salvataggio di Sara, Nat aveva partecipato attivamente e, in parte, l’aveva vista crescere ed evolversi. Tra le due c’era uno strano rapporto. Solo lavorativo all’apparenza, ma esso nascondeva una grande complicità. Ancora la Collin ricordava il viaggio infinito dalla scuola di Xavier al Campus. Loro due, sole, in silenzio. Ognuna persa nei propri pensieri e poi quella domanda «Da giovani perdiamo la testa per alcune situazioni, per alcune persone, ma, poi, col tempo, impariamo a riconoscere cosa sia giusto fare e cosa sia solo un capriccio momentaneo. Tu lo ami tanto?» chiese Black Widow, senza mezzi termini.
La ragazza, con le lacrime che le solcavano il volto, lo sguardo dritto fuori dal finestrino e la musica nelle orecchie, fece finta di non sentirla, ma la celata emozione  non riuscì a passare del tutto inosservata.
«Lo so che mi senti, ragazzina. Prima di combattere per salvare la tua pellaccia levigata, ero una spia, so riconoscere i sentimenti da un battito di ciglia.»
«Come fai a saperlo?» sbottò Sara, togliendosi gli auricolari.
«Davvero credevi fosse un segreto? Mi dispiace informarti che lo sanno praticamente tutti.»
«Anche Nick?» domandò la mutante intimorita
«Charles lo ha informato qualche tempo fa.»
«Mi ha allontanato per questo?» saltò su tutte le furie la studentessa.
«No ragazzina, non essere stupida! Nick vuole il tuo bene. Se avesse voluto allontanarti da Wolverine lo avrebbe fatto mesi e mesi fa, quando la storia è venuta allo scoperto.»
«Ma cosa … allo scoperto? Di che stai parlando? » continuò stupita la mutante.
«Non cadere dalle nuvole. La scuola è piccola, anche i muri hanno le orecchie e gli occhi. Sarete stati anche attenti a non farvi scoprire, sarete stati bravi a incontrarvi di notte, in posti appartati, avrete seguito alla lettera il manuale degli amanti segreti, ma non è bastato.» la schernì Tash con un tono beffardo.
«Basta così Romanoff, mi pare tu abbia detto abbastanza. Finiscila immediatamente.>>
«Uh, come siamo irascibili! Non la prendere sul personale, ragazzina, io non ho mai incontrato qualcuno per cui piangere tutte le lacrime che stai versando tu. E ora tu la consideri una disgrazia, pensi che stare lontano da lui ti ammazzerà, ma ti do una notizia: l’amore non ha mai ucciso nessuno, sulla solitudine, invece nutro qualche dubbio. Piangi ora, sfogati. Domani, forse,  starai ancora male, ma tra un mese o due sarà passato.»
«Quando questo sarà finito io tornerò da lui. Per favore, diglielo, tu lo vedrai al ritorno all’Accediama. Voglio che lui lo sappia. Ti prego!»
«Non sarò il tuo messaggero. Scordatelo!» la ammonì severa Natasha.
«Tash, mi hai salvato una volta, fallo per una seconda e io ripagherò il mio debito. Lo farò, ti giuro.»
La donna si zittì, ricordandosi delle condizioni in cui l’innamorata disperata verteva, quando la vide per la prima volta: sporca, quasi senza capelli, avvolta malamente in un camice una volta bianco, senza cibo né acqua, senza servizi igienici, chiusa in una gabbia per gli animali feroci, come quelle del circo, sola, in un angolo buio di un laboratorio. Forse, quell’amore improvviso era un modo karmico per ripagarla di tutte le torture subite. Il viaggio proseguì in silenzio, finché arrivarono pressappoco vicino l’università, dove la mutante , ormai di nome Sara Collin, sarebbe rimasta per chissà quanto tempo. Romanoff le aprì lo sportello «Devi andare sempre diritto, poi giri alla seconda a destra. Tutto chiaro? In segreteria ti aspettano alle 10:30 per l’immatricolazione. Non fare scherzi!»
La giovane uscì svogliatamente. «Ah, ragazzina!» la fermò l’agente, prima che potesse chiudere la porta dell’auto «Ci credo!»
«Che?» domandò, stranita, Sara.
«Ci credo che soffri, che lo ami e che è davvero il tuo pezzo mancante, quello che ti completa, ma credo anche che sarai forte abbastanza da sopravvivere senza di lui e fedele abbastanza da raggiungerlo, quando avrai terminato qui.» le indirizzò un bel sorriso e poi terminò «E voglio anche credere che mi ripagherai dei miei sacrifici, perché non ho la minima voglia di farti da balia per tutta la vita. Quindi sarà il caso che ti sbrighi ad uscire da qui e mi venga ad aiutare allo S.H.I.E.L.D., come promesso.»
«Quindi glielo dirai? » domandò Sara, mentre i suoi occhi furono attraversati da una luce di speranza che squarciò il velo di lacrime.
«Farai tardi, ragazzina. Forza, ti aspettano.» disse sbrigativa Nat, non mostrando alcuna emozione e sporgendosi a chiudere lo sportello. Poi partì come un fulmine,  sollevando una sottile nuvola di polvere e fumo.
Quello sguardo di addio era lo stesso che Sara leggeva, in quel momento, sul volto di Tash, che, affiancata da Clint, si dirigeva verso la porta e sgattaiolava fuori dai dormitori per raggiungere la centrale. Quello sguardo valeva più di mille parole. Quello sguardo l’aveva accompagnata nei momenti difficili, le diceva di andare avanti e credere in se stessa, nei suoi poteri e nel suo amore. Quello sguardo significava “Non mollare, ragazzina. E non fare scherzi, ché in te ci credo!” e Sara non avrebbe mollato, per Tash, per se stessa, per il resto del mondo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6. ***


“E così sei tornata!” le aveva detto sorridendo, poggiato al bancone di legno del bar in cui trascorreva i suoi giorni da qualche mese, ormai. Era proprio come se lo ricordava: stesso giubbino di pelle, stessi scarponi imbiancati e stessa barba folta. Non era invecchiato nemmeno di un attimo. Sembrava che, dall’ultima volta che si erano visti, lì davanti alle residenze, appena fuori dal campus, non fosse passato neanche un giorno. “Sei sempre la stessa” le aveva detto, guardandola negli occhi.
Sara era lì, tremante, per il freddo e l’emozione. Non poteva credere che l’amore della sua vita, fosse di nuovo davanti a lei. Era così affascinante e sicuro di sé, col sigaro in una mano e la birra nell’altra, un po’ rude esteriormente, ma da quegli occhi, tanto profondi e sofferenti, si comprendeva il suo animo buono e fragile, che egli non aveva mai nascosto alla giovane. “Anche io ti trovo bene!” gli aveva risposto, cercando di non far trasparire l’emozione, ma, probabilmente, non riuscendoci. Wolverine, infatti, lo sentiva nell’aria; il suo sesto senso animalesco non errava: quella che avvertiva era la paura di lei, il terrore di fare qualcosa di sbagliato,  il forte sentimento che li legava e l’odore puro della sua pelle. Dopo tre lunghi anni, erano in quel postaccio, pieno di soggetti poco raccomandabili e combattenti sudati, ma non importava perché potevano finalmente guardarsi negli occhi, rivolgendosi tenui sorrisi. Sara aveva un groppo in gola e allo stomaco, le lacrime spingevano per uscire, per sgorgare in un pianto liberatorio. Se ne stava di fronte a lui, senza dire nulla, come per catturare ogni minimo dettaglio di quel volto, per non perdersi niente, ogni movimento, le prime rughe che iniziavano a solcargli la fronte, quell’espressione un po’ accigliata che non lo abbandonava quasi mai. Poi si era avvicinata, come spinta da qualcosa. Se lo ricordava bene, tra di loro si creava un magnetismo, ogni volta. Quando erano nello stesso posto, era così evidente che ci fosse una sorta di flusso di energia che li univa, tutti lo avvertivano, una sorta carica che li attraeva inesorabilmente. Sara aveva resistito a lungo, ma, in quel momento, non riusciva a non farsi trascinare verso di lui, che continuava a guardarla senza proferir parola. Quel legame li aveva avviluppati e in pochi minuti si erano trovati le una nelle braccia dell’altro. “Ti ho aspettato a lungo” aveva detto Logan “finalmente sei qui” aveva continuato, ma qualcosa si era spezzato. Sara lo sentiva: nella voce di lui c’era un che di strano, di aggressivo, di brutale e quello non era più un abbraccio, ma una morsa. Si sentiva intrappolata: più voleva divincolarsi e meno ci riusciva. “Lasciami! Cosa stai facendo?” aveva biascicato. “Quello che avrei dovuto fare anni fa” le aveva risposto l’uomo. Poi un suono metallico, poi una fitta allo stomaco, poi un dolore sempre maggiore, poi una ferita, poi il sangue, una, due, tre gocce, poi un fiume in piena. Il bar si stava colorando di rosso, mentre gli artigli di lui non accennavano a ritrarsi e fuoriuscire dalla lacerazione creatasi nel ventre della ragazza. Poi la sua voce, lontana e ovattata “Non dovevi tornare. Ecco cosa succede ai traditori.” e poi più nulla. Solo una pozza di colore rosso in cui annegare in preda agli spasmi e all’angoscia.
 
«Sara, svegliati, dobbiamo partire!» sibilò Nick Fury, scuotendola con grande foga.
La ragazza trasalì, affannata. Si guardò intorno. Era nel dormitorio, sul divano della sua stanza, così piccolo da costringerla a stare rannicchiata su se stessa. Niente sangue, niente bar, niente Wolverine. Si sentì sollevata, probabilmente per la prima volta, di trovarsi in quel posto e di essere stata svegliata così bruscamente e, di certo, era la prima volta, in cui si sentì felice di essere a chilometri di distanza da Logan. «Dove andiamo?» chiese con un filo di voce, cercando ancora di riprendersi. Si sedette a gambe incrociate sul divano, arrotolando il plaid che Nick le aveva messo a mo di coperta, quando aveva notato che si era abbandonata ad un sonno profondo. Si passò una mano davanti agli occhi, per stropicciarseli un po’, ancora intontita e vide il Capitano muoversi veloce nella stanza, chiudere cartine stradali e computer, ripulire tutto per non lasciare la minima traccia del suo passaggio e mettere ogni cosa nel borsone nero portato da Nick al quale nessun altro, eccetto lui, poteva avvicinarsi.
«Andiamo a riprenderci il tuo uomo, signorina.» le rispose Stark scendendo dalle scale che portavano al piccolo soppalco. «Aah, come hai fatto a dormire su quel letto? Esistono pietre molto più morbide.» le chiese poi, stiracchiandosi e rimettendosi le scarpe, lasciate vicino alla tv, la sera prima.
«È così scomodo che mi hai lasciato il divano, Stark. Che cavaliere!» lo rimbeccò subito la mutante e si mise di nuovo la mano davanti agli occhi, sbattendo le palpebre, ancora attaccaticce per il sonno. Sbadigliò imbambolata. Tutto sembrava muoversi velocemente attorno a lei o, forse, era lei ad essere rallentata, a causa dell’improbabile orario a cui era stata svegliata. «Ma che ore sono?» domandò, infine.
«Le due e venti. Siamo già in ritardo, dobbiamo muoverci!» le rispose Rogers, mentre non si fermava un attimo, girando come una trottola per tutto l’appartamento.
«Le due ... di notte?» continuò la ragazza, senza muoversi dalla sua postazione, nonostante sembrassero tutti avere molta fretta.
«Sì, forza, alzati e sistema tutto. Il plaid lo posi nell’armadio e pulisci i cuscini. Sai quanti capelli ti cadono? Troppi! Per toglierli tutti ci ho messo una vita.» la rimproverò Nick, quasi fosse una casalinga in preda ad attacchi di disperazione.
«Tutta invidia!» lo schernì Sara, riuscendo a far sorridere i tre uomini.
La giovane sospirò, guardando i suoi compagni darsi da fare, per cercare di mascherare ogni traccia del loro passaggio lì, poi spostò il suo sguardo su un punto impreciso del muro e lo fissò con così tanta passione, immersa nei suoi pensieri, che sembrava se ne fosse innamorata. 
«Signorina, ti mancherà molto questo muro? Avevate un buon rapporto? Puoi dirgli addio per l’ultima volta, se vuoi.» scherzò Tony, tirandola giù dal divano e prendendo la coperta, per metterla nel posto designato.
Cancellare le impronte, pulire ogni angolo, far finta di non essere mai stati in un luogo erano sensazioni che Sara ricordava bene. La riportavano indietro nel tempo, a quando non aveva questo nome e questo aspetto, a quando portava ancora i calzettoni bianchi sotto la gonna nera e imparava a memoria poesie per la festa della mamma e del papà, che non avrebbe potuto dedicare a nessuno. Sospirò di nuovo e le si chiuse un po’ la gola, come nel suo sogno. O meglio, nel suo incubo. Essere infilzata dagli artigli di Logan non sembrava essere propriamente un buon presagio. Eppure, qualcosa in lei le diceva che non avrebbe mai potuto tramutarsi in realtà. Può una persona che ha tanto amato un’altra, odiare quest’ultima con una violenza tale da farla a brandelli, senza pensarci due volte? Può l’amore ferire così profondamente, non a livello morale, si badi bene, ma a livello fisico? Sara non lo credeva possibile o, forse, sperava non lo fosse, ma non poteva perdersi in filosofici discorsi sull’essere e l’amore. Doveva agire e anche velocemente. Steve Rogers premeva affinché i tempi fossero rispettati e sentire la sua voce come una noiosa tiritera, a ripetere perennemente l’orario aggiornato e i minuti di ritardo trascorsi, stava diventando snervante.
«Allora» prese la parole Nick «abbiamo eliminato ogni prova o almeno ci abbiamo provato. Quando troveranno qualcosa qui, assicuriamoci di essere così lontani da rendere impossibile per loro trovarci. Adesso ci separiamo, come previsto. Io e il Capitano vi scorteremo, mentre voi andrete con la macchina di Stark.» disse, ripetendo il piano elaborato la sera precedente.
«La spassomobile!» lo corresse il milionario, sempre in vena di battute.
«Tony, tu vedi di non fare scherzi o sarai fuor dal team e stavolta sul serio.» lo riprese subito Fury.
«Spero riusciate a starmi dietro, lumache.» ribatté l’altro, incurante della solenne ammonizione appena ricevuta.
La sera precedente (o sarebbe meglio dire poche ore prima?) i toni si erano alzati parecchio. Seguire i piani non era propriamente l’attività preferita di Tony Stark. Lui i piani li dettava, al massimo, ma non li metteva in pratica come un buon soldato, a differenza del più esperto Capitan America. Quest’ultimo, con la sua naturale propensione ad obbedire agli ordini, aveva subito messo a completa disposizione del team le sue forze.
«Cosa hai intenzione di fare, Nick?» aveva chiesto, subito dopo la dipartita di Tash e Hawkeye  e da questa apparentemente innocente domanda era partita una agguerrita discussione di circa tre ore, al centro della quale Sara si era bellamente addormentata. Cap e Stark sembravano schierati su due fronti opposti.
«È meglio prendere l’aereo. Lo S.H.I.E.L.D. non vuole prestarci le sue diavolerie? Bene, prenderemo il mio jet privato, chiamo Pepper.»
«Stark, ma cosa dici? Niente aerei. Niente entrate in grande stile. Non devono sapere che siamo lì. Cosa non ti è chiaro del lemma “missione segreta”?» aveva controbattuto Rogers, esasperato, ormai, dalle continue e pretenziose richieste del compagno.
«E come pensi di arrivare fino in Canada? A Piedi? Così non ci noterà nessuno, almeno è certo.» gli aveva subito risposto  il milionario. «L’aereo è una soluzione perfetta. Si sta comodi, in un’ora siamo lì, prendiamo la bestia e ce ne torniamo a New York a sconfiggere il nemico. Facile no?»
«Non chiamarlo bestia!» lo aveva ripreso, seria e minacciosa, la mutante, stravaccata sul divano.
«Ma tu non stavi dormendo?»
«Avrei voluto, ma urlate come maiali al mattatoio!»
«Signorina, piano con le metafore cruente. Il Capitano non è abituato a questo linguaggio!» aveva continuato Tony, attirandosi le occhiatacce del gruppo.
«Sara, dovresti riposare, domani sarà un lunga giornata e inizierà prima del solito.» le aveva consigliato Fury, si sarebbe detto preso da un istinto paterno, se non fosse stato per il suo tono sempre brutale e scortese. «E quanto a voi due, smettetela! Ho sentito le vostre lamentele da scolaretti per ore, si fa come ho deciso. Fine della storia. Stark, ti è tutto chiaro?»
«Ma io non capisco! Cos’è questa imposizione, questa violazione dei miei diritti? Non pensavo che cose del genere succedessero in America: la nazione della libertà, della democrazia, della fratellanza …»
«Quella è la Francia, Stark. Ti stai un po’ confondendo.» lo aveva corretto sarcasticamente la ragazza.
«AH AH, simpaticona. Intanto, mentre tu facevi la bella addormentata, qui succedevano cose importanti.» aveva ribattuto Iron Man.
«Ossia?» aveva domandato, mentalmente distrutta, la ragazza, avvicinandosi al tavolo dove i tre stavano fissando una cartina del Nord America.
«Il percorso da seguire per arrivare sull’Ontario, seguendo le coordinate che ci hai fornito.» aveva risposto Steve. Sara lo aveva guardato distrattamente. Era strano da ammettere ma quel ragazzo, così preciso e perfetto anche nell’aspetto, le incuteva un po’ di timore. Se con Tony si era creata fin da subito una certa confidenza, dovuta al loro comune senso dell’umorismo e alla boria dell’uomo che la faceva tanto sorridere e divertire, con il Capitano non riusciva a sentirsi a suo agio. Anche guardarlo per troppo tempo le provocava una strana sensazione, come un’improvvisa timidezza, che la costringeva a ritrarre immediatamente lo sguardo. Così con finta nonchalance, in quel momento, aveva cercato di concentrarsi sul viaggio che avrebbero fatto dopo poche ore. «Siamo nel Michigan, prendiamo il ponte di Detroit e in poco più di quattro ore siamo arrivati. Non mi pare un piano di così difficile elaborazione!» concluse Sara, dopo qualche minuto.
«Questo è quello che abbiamo deciso, ma Stark vuole fare il divo.>> si era intromesso Fury. «Però non lo farà. Non stavolta.»
«Il divo? » aveva chiesto stranita la ragazza.
«Dico solo che l’aereo sarebbe più veloce, più comodo e non avremmo problemi con i controlli.» aveva ribattuto Iron Man.
«Cavolo, i controlli! Certo, non ci avevo pensato. Come passiamo il confine se siamo sotto copertura?>> si era interrogata  Sara. Più che una domanda, quella essere un riflessione ad alta voce. «Non ho intenzione di cambiare di nuovo nome, faccia e tutto il resto. Ti prego, Nick.»
«Non lo farai, non ce ne sarà bisogno. Nessuno conosce la tua vera identità, quindi passerai il confine con i tuoi attuali documenti. Sarai Sara Collin, nuova segretaria di Tony Stark, in viaggio di lavoro con lui ed è per questo che starete nella stessa macchina.»
«E perché sei l’unica, qui in mezzo, ad apprezzare la buona musica. Ho dato un’occhiata alla tua playlist, scelte interessanti, ma ti prego, troppo pop.» lo aveva interrotto Stark.
«Fai come se fosse il tuo ipod, non preoccuparti!» aveva continuato la ragazza, un po’ seccata da tale intromissione. «E voi, invece? Come giustificherete la vostra presenza lì?»
«Ho messo degli agenti speciali al posto di controllo, sanno che siamo in missione segreta e il passaggio alla frontiera sarà pura routine.»
«Aspetta un attimo Nick, perché se ci sono questi agenti io devo dire di essere la segretaria di Stark? Perché non dire che siamo tutti insieme per la stessa missione?»
«Loro non sanno di te.»
«Cosa? Ehi, fammi capire: io ho accettato di abbandonare tutto e lavorare per lo S.H.I.E.L.D. ma lo S.H.I.E.L.D. non sa della mia esistenza? Che senso ha?»
«Meno persone sanno di te e più sarai al sicuro. La tua vera identità è conosciuta solo da noi, Romanoff e Clint. Nessun altro dovrà saperla, intuirla o sospettarla, fino al momento opportuno. Adesso sei troppo esposta, non sappiamo di chi possiamo fidarci. Quando saremo più sicuri, lo riveleremo al resto della squadra. Fino a quel momento, fai come ti dico.» le aveva spiegato Nick, con viso preoccupato.
«Quindi… mi stai dicendo che dallo stesso S.H.I.E.L.D.  sono trapelate delle informazioni sul mio conto? Ci sono delle talpe?»
«È solo un’ipotesi. Attendiamo verifiche. Fino ad allora, segui i miei ordini e quelli di nessun altro. » aveva continuato Fury, più serio e crucciato del solito.
La ragazza aveva assentito. Questa le pareva, a tutti gli effetti, una nuova identità da assumere. Una nuova vita da fingere. La testa che le scoppiava. «Vai a dormire, qui ci pensiamo noi.» la aveva nuovamente invitata Nick.
«Mi metto sul divano giusto un attimo, voi continuate pure, così capisco meglio il da farsi.» aveva risposto, sbadigliando, ma le sue intenzione erano state subito disattese, a causa del sonno improvviso e degli incubi di cui, ormai, già sappiamo.
Era stata, senza dubbio, una notte impegnativa, ma ora, quasi alle prime luci dell’alba, iniziava il vero impegno. La missione stava diventando più di una linea tracciata su una carta geografica. Stava diventando realtà.
 Sara prese la sua valigia rossa, la teneva nascosta sotto il letto, nel caso di impellente necessità. Tutto il suo appartamento era stato ripulito da cima a fondo, come se i ladri fossero entrati e non avessero voluto lasciarle nemmeno le briciole. Scese la scala a chiocciola, quasi scapicollandosi ad ogni gradino, poi si guardò intorno, prese la borsa nera, con dentro i soliti appunti e libri e uscì di soppiatto, attenta a fare il minor rumore possibile.
«Quindi la scelta dei posti in macchina si è basta sul fatto che io fossi l’unica a sopportare gli AC/DC a palla, per quattro ore e mezza?» chiese la mutante all’armatore, una volta entrata nell’auto.
«Principalmente su questo, sì.»
«Wow, lo S.H.I.E.L.D. mi stupisce sempre con i suoi metodi … alternativi.»
«Sarai al sicuro con me, signorina. Io non tratto male le donzelle in pericolo. » le assicurò Tony, facendosi, ad un tratto, serio. Non lo aveva mai visto sotto quella luce, eppure, nei suoi occhi c’era un velo opaco di sincerità e responsabilità, che le fece pensare fosse davvero nel posto giusto con lui.
«Mi hanno detto diversamente» bofonchiò  lei, per stemperare la tensione del momento, ma, stranamente, la sua risposta rimase inascoltata, poiché il suo compagno era troppo impegnato a programmare la colonna sonora per il viaggio.
«Allaccia le cinture, respira profondamente e benvenuta a bordo della Spassomobile. Le uscite di sicurezza sono ai lati, ma sarebbe meglio tenerle chiuse durante il tragitto. Non c’è nessun percorso luminoso da seguire e nessun giubbotto di salvataggio, ma ho un’armatura sbrilluccicante pronta a ricoprirmi e salvarci la vita. Stai comoda? » chiese infine. Sara assentì. «Allora si parte!» e un attimo dopo sgommò alla velocità della luce, uscendo da una strada secondaria abbastanza lontana dal campus da non farsi vedere, ma non abbastanza da non farsi sentire da tutti gli studenti. La mutante fu spinta contro il sedile e si sentì il cuore in gola, mentre le prime note di “You shook me all night long” iniziavano a fuoriuscire dalle casse e dallo stereo, riempiendo l’abitacolo di assordanti riff di chitarra.  “Sarà una lunga notte” pensò la giovane, poi si appoggiò allo schienale e si lasciò trascinare dal vecchio dio del rock. 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7. ***


“Rode down the highway, broke the limit, we hit the town…” fuoriuscì ad un tratto dalla radio, preannunciando il destino dei nostri eroi. Dopo quasi tre ore e mezza di viaggio, si avvicinavano al confine,che avrebbero vittoriosamente, si auguravano, attraversato, giungendo, così, a destinazione.
Sara era particolarmente silenziosa, rispondeva a stento alle insistenti domande di Stark, che, durante il percorso, aveva cercato di convincerla, almeno dieci volte, a lavorare per le sue Industrie. «Avremmo bisogno di te. Capisci che il tuo potenziale è enorme. Non ho mai visto nulla di simile nella mia vita, eppure ho visto tante di quelle cose! Per esempio, una volta feci un viaggio in Arabia e mi accolsero degli sceicchi, tutti vestiti di nero, col capo coperto dai turbanti …» continuò, imperterrito
«Ah ah» Un cenno d’assenso, falso e svogliato come pochi, eruppe dalla bocca di Sara, intenta a guardare fuori. Ogni passo avanti, o meglio, ogni chilometro in più, ogni cartello, che annunciava l’arrivo sulle sponde del lago Ontario, la agitava maggiormente. Il respiro, a volte, le si fermava in gola. Non riusciva a capire come fare a calmarsi; come reagire ad un eventuale rifiuto, anzi, peggio, come presentarsi davanti a Logan; come  dirgli tutto, spiegargli la situazione, fingendo di essere preparata a tutto e di non provare più nulla per lui. Oppure avrebbe dovuto implorarlo come in un film strappalacrime? Come Rossella O’ Hara, nelle scene finali di “Via col vento”? Avrebbe, forse, dovuto gettarsi tra le sue braccia? E con che coraggio? Con che faccia? No, Sara non riusciva a pensare a nessun piano d’azione. Lei, così abituata a seguire gli ordini e così capace di distruggerli in un attimo; lei, che aveva mandato in fumo una vita intera, che aveva ricominciato da capo talmente tante volte da aver perso il conto; lei che, in fondo, era stata sempre una marionetta nelle mani di qualcuno. Prima l’HYDRA, poi Fury: c’era sempre stato qualcuno a dirle cosa fare. Eppure,  aveva creato una rete di mutanti e l’aveva gestita con maestria tale, da essere conosciuta da tutti come “Commander”. Sara, così fragile e sola e così forte e terrificante,  si sentiva persa e incapace di pensare, in quella macchina sportiva, una decappottabile rosso fuoco, in  cui l’unica voce, oltre alle assillanti domande di Tony, era quella degli AC/DC con i loro urletti striduli, che, nonostante tutto, non riuscivano ad offuscarle i pensieri. Avrebbe fatto bene a trovare un modo per uscire da quella situazione! E poi i controlli, l’HYDRA alle calcagna, le possibili spie anche nello S.H.I.E.L.D., tutto la preoccupava. Tutto la terrorizzava. Avrebbe dovuto vivere una estenuante avventura con i supereroi più famosi al mondo, ma, pur sapendo di non avere nulla da temere, non si sentiva al sicuro. Non conosceva sicurezza, quel corpicino senza troppe curve. Quella ragazzina che sembrava ancora più giovane, dal vivo, che sugli schedari custoditi nel dipartimento. Eppure quelle ossicine, unite insieme chissà per quale artificio, erano piene di una forza, di un fluido, di un’energia capace di distruggere un intero continente in pochi minuti. Sara lo sapeva. Sapeva quanto valeva e temeva di farlo scoprire anche agli altri, di mettersi nei guai ancora più del previsto. “Continua a comportarti come un comune mortale. Fingi di non avere il minimo potere e non fidarti di nessuno. Io starò lì con te.” Le aveva detto Nick prima di separarsi. Lui sarebbe stato avanti con la sua macchina nera superblindata che urlava “agenti segreti” da ogni poro, il Capitano sarebbe rimasto dietro di loro, a seguirli con la sua moto, mentre lei e Stark avrebbero finto di essere in Canada per lavoro.  Fingere fingere fingere, è tutto quello che sapeva fare. Se non fosse stata un’eroina, avrebbe tranquillamente potuto fare l’attrice. Leggere i fumetti, da piccola, era divertente. Immaginare le maschere da mettere sul proprio viso, per confondersi tra la folla, cambiarsi nelle cabine telefoniche, inventarsi mille scuse per uscire di nascosto e combattere il crimine. Che puerile eccitazione le provocava! Ma far parte di quella vita, aveva capito, a sue spese, era tutt’altra cosa. Nessun amico, nessuno di cui potersi fidare. Nessuna relazione. Fare attenzione a tutto, dal cibo all’abbigliamento, dal modo di camminare al vernacolo. Non era facile essere il Commander, come non era facile essere Electro-Wave, così come non era facile, e questo Sara lo aveva sempre saputo, far finta di nulla. Far finta di essere una ragazza semplice, una ragazza comune, una studentessa senza nessuna velleità eroica. Una come un’altra.
«E alla fine si scopre che l’unica bomba che avevano addosso, era quella che gli avevo dato io. Quella finta, capisci? » concluse Stark, in una grande risata compiaciuta.
«Ah Ah» ripeté la ragazza, sempre più svogliatamente. Inutile dire che non aveva ascoltato nemmeno una parola delle chiacchiere di Tony. Sospirò, cercando di buttare fuori tutta l’ansia che le si annidava in corpo.
«Signorina, non sai dire altro? » le chiese, improvvisamente serio, l’uomo.
Sara continuò a stare in silenzio, la canzone ormai era terminata. Un altro cartello le passò davanti, indicando i chilometri mancanti al confine. Sempre di meno, sempre meno tempo per uscire da quella situazione nel migliore dei modi.
«Sei preoccupata che la tua bestia non ti abbia aspettato? »
«Non chiamarlo in quel modo, Stark! Ne abbiamo già parlato. » biascicò, con quel poco di fiato che aveva a disposizione. Per lei era come trovarsi sulla luna senza casco di protezione. Persa nel bel mezzo del nulla, senza aria né possibilità di fuga.
«Quanti anni hai, signorina? » incalzò lui
«Un po’, perché? » le rispose incuriosita da quella domanda inaspettata.
«Sulla tua carte d’identità sono più di ventuno, giusto?»
«Stark, cosa …»
«Apri il portellino davanti a te, c’è un po’ di wisky, buttane giù un sorso, sarai calmissima dopo.» le consigliò con una solennità spaventosa, come se avesse dettato le sue ultime volontà.
«Ma sei deficiente?» sbottò la giovane, con una naturalezza inaspettata, tanto da lasciare di stucco anche il guidatore. «Io sto male, ho praticamente un attacco di panico in corso e tutto quello che sai dirmi è di ubriacarmi?»
«Io i miei attacchi li ho sempre risolti così! Non ci vedo niente di male.»
«E gli altri alcolisti anonimi lo sanno?» domandò sarcastica.
«Vedi? Sei simpatica, in fondo. Anche quando mi fai la faccia da trota lessa e mi rompi le scatole sul limite di velocità.» la schernì.
«Se esiste, FORSE, vuol dire che va rispettato? O credi sia un modo come un altro per abbellire la strada?»
«Stai meglio, visto? Il wisky aiuta sempre!» esclamò Tony.
«Ma se nemmeno l’ho bevuto.»
«No, infatti. È così benefico che anche il solo nominarlo ti fa rinascere.» concluse soddisfatto.
La mutante scosse il capo e si fece scappare un sorrisetto. Come poteva essere in collera con un soggetto così vanitoso, vanesio, egocentrico e assurdo? «Grazie per il “complimento”» aggiunse a mezza bocca.
«Sulla simpatia? Oh, ma figurati. Le donne simpatiche mi intrigano.» incalzò «È grazie a questa dote che hai fatto colpo sulla bestia?» riprese dopo un attimo di pausa.
«Ancora? Stark, BASTA!» si alterò la ragazza.
«Signorina, non ti arrabbiare. Chiedevo, per curiosità.» andò avanti senza scomporsi. «Ho fatto qualche compito a casa. Nulla di speciale. Il poco che mi basta per sapere che tra te e il ragazzone tutto muscoli e artigli di adamantio c’era del tenero. E la tua reazione è la migliore conferma alle varie voci che ho sentito.»
«E queste, chiamiamole, voci le senti solo tu, oppure provengono da qualcuno in carne ed ossa?»
«Dipende da quanto wisky bevo.»  le rispose a tono, Iron Man, lasciando la ragazza senza parole. «Non riesco proprio a vedervi insieme. Quando mi hanno detto che eri stata con uno del genere pensavo a te come una sorte di motociclista piena di tatuaggi, in tuta di pelle nera. Insomma una vera bomba sexy, poi ti ho visto e … beh puoi capire la delusione.»
«Ah, grazie Stark. Gentilissimo!»
«Beh, non puoi negare che la mia immaginazione sia stata disattesa. Voglio dire, tu sembri più tipa da “diplomatico e assennato stoccafisso prebellico”, che da “mezzo uomo-mezzo bestia, tutto azione e impulso”.»
«Eh? Stoccafisso … che?» chiese completamente sbigottita lei.
«Il Capitano! Non dirmi che non sai tutta la sua storia?»
«So che stava nel vostro glorioso esercito, durante la vostra gloriosa guerra, ma, non si sa come, invece di essere usato fin da subito come arma per vincere il conflitto, ve lo siete tenuto stretto per farci figurine, giornaletti e film. E mentre voi eravate qui con lui e delle ragazze in minigonna a ballare allegramente, la gente, quella povera e senza muscoli iniettati da un siero speciale, moriva, soffriva e vedeva orrori che non avrebbe mai dimenticato. Questo è quello che so e mi basta.» Dichiarò, tutto d’un fiato, con un po’ troppa rabbia, per una che a quell’epoca non era ancora nemmeno vagamente nata.
«Sembri avercela parecchio con Cap.» commentò Tony
«Non ce l’ho con lui. È solo che non capisco questa “strategia” e non la capirò mai. Ma sono cose successe tanto tempo fa, non dovremmo star qui a parlarne.» cercò di tirare le somme Sara.
«Invece, dovresti parlarne con lo Stoccafisso, avere rancori in un gruppo non fa bene. Specialmente se dobbiamo salvare la Terra e fare cosucce del genere, tutti quanti insieme.»
«Non c’è nulla che non vada con lui. Io …»
“Signore ha una chiamata” si udì, d’un tratto, provenire dallo stereo. La musica si fermò per far uscire quella voce metallica.
«Da parte di chi?>>
“Captain America”
«Passamela J.A.R.V.I.S.!» ordinò Stark «Scusa, signorina, ne riparliamo dopo, lo Stoccafisso è in ascolto.»
Sara rimase in silenzio, annuendo e guardandosi intorno, come a voler cercare il corpo di latta da cui provenisse quel suono robotico.
«Cap, ci hai già perso di vista?»
«Stark, potrei raggiungerti anche a piedi.» la voce sicura e fiera del ragazzo fuoriuscì dalle casse. Sembrava che lui fosse proprio lì con loro, a circondarli con la sua imponente e rassicurante presenza.
«Vuoi iniziare una gara? Sono prontissimo!» rispose spocchioso l’altro. Beccandosi un’occhiataccia dalla sua compagna di viaggio.
«Perderesti senza dubbio! Sei una lumaca.»
«Solo perché la signorina che mi avete affidato è una grandissima rompiscatole e ha minacciato di farmi saltare in aria se non rispetto i limiti e tu sai quanto ci tenga alla mia decappottabile. È d’epoca. Quasi quanto te!»
Dall’altra parte, sulla sua moto rombate, nascosto da un casco integrale, si aprì il sorriso perfetto di Steve, che non potette resistere a compiacersi dell’immancabile verve del suo amico e rivale.
«Mi dispiace interrompere questo poetico quadretto di amicizia e ricordi, ma credo che il Capitano abbia chiamato per altri motivi. Giusto?» richiamò l’attenzione la giovane, che sembrava l’unica davvero interessata ad avere informazioni concrete.
«Sì» riprese Rogers, tornando serio, essendosi probabilmente ricordato, solo allora, che la sua conversazione sarebbe stata ascoltata anche dalla mutante. «Vi avverto che Fury è già entrato in Canada, ha appena superato i confini e si dirige verso il luogo indicato.»
«Ha avuto problemi? La situazione gli è sembrata normale?» continuò Sara
«Tutto sotto controllo, mi ha detto. Non c’è ragione alcuna di allarmarsi.»
«Grazie Cap. Tra pochi minuti arriveremo anche noi dall’altra parte del limite e, come sempre, rimarrai il fanalino di coda con la tua vecchia moto!» incalzò Tony.
«Stark, per il bene della missione non posso superarti e farti vedere chi comanda, ma, nel caso in cui avessi dubbi, ricordati sempre il mio nome. Se mi chiamano “Capitano” un motivo ci sarà. Passo e chiudo, avvertitemi una volta passati i controlli.» disse il soldato e la conversazione si interruppe.
«Sai Stark, sono felice di essere in una decappottabile, perché, altrimenti, tra voi due e il vostro immenso ego non ci sarebbe stato più spazio per respirare, qui dentro.» scherzò Sara, strappando un sorriso a Tony.
Un solo minuto di silenzio ed, ecco, i primi agenti avvicinarsi alla macchina. Stark si fermò con calma, rallentando prima di frenare. Strano, non era nei suoi standard rispettare le regole base del codice della strada. Sara ne fu sorpresa, tanto quanto Steve, che, da lontano, osservava prontamente la scena, mantenendosi a debita distanza, pronto ad affrontare possibili inconvenienti.
«Salve, agente! Come va la giornata?» iniziò Tony, con una nonchalance senza precedenti.
“Che faccia di bronzo!” pensò Sara, mentre prendeva i suoi documenti per mostrarli al poliziotto, che, fuori dal finestrino, osservava i due.
«Lei è … Stark, quello Stark?» chiese il gendarme, dopo aver dato un’occhiata ai documenti, quasi incredulo.
«Già. In carne ed ossa.» rispose prontamente l’uomo.
«Oh dio, quasi non la riconoscevo, sa così … in borghese.»
«Intende senza l’armatura o senza una camicia di seta cinese, firmata da una maison italiana?» scherzò Tony, come se conoscesse il suo interlocutore da una vita. L’altro rise, quasi imbarazzato. Sembrava un piccolo fan vicino al suo idolo.
«E cosa ci fa Stark, Tony Stark, qui in Canada?» domandò, riconsegnandogli il passaporto.
«Lavori, conferenze e poi altre discussioni nelle università. Sa, un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo!» di nuovo una risata provenne del gendarme. «Beh, non vorrà far aspettare il mio pubblico?>> chiese Iron Man, cercando di accelerare le procedure previste.
«No certo, prego, vada pure …» disse l’altro, totalmente ammaliato dallo charme del miliardario, filantropo, playboy etc. etc..
Tony fece per partire, facendo rombare il motore della sua decappottabile, quando l’agente sopraggiunse con una domanda attesa quanto temuta dal duo: «Stark, lei può andare. La signorina, invece, è?» Sara aveva appena tirato un sospiro di sollievo, quando sentì quella domanda. Nei suoi pensieri, si era preparata a rispondervi, almeno un milione di volte, durante tutto il tragitto, e ora che se la trovava di fronte doveva dissimulare con tranquillità e dire quanto previsto: «Sara Collins, la nuova segretaria del signor Stark.» rispose la ragazza, abbozzando un sorriso di cortesia.
«E la signorina Pepper Potts?» obiettò il loro interlocutore, lasciando spiazzati entrambi, ma soprattutto Tony, che acquisì un’aria stranamente seria, dopo quella richiesta. Sara lo vide tentennare, indeciso sul da farsi «La sostituisco per un periodo, come giovane studentessa universitaria sono più indicata ad aiutare Mr. Stark nei colloqui con i ragazzi degli altri Atenei. Beh, almeno, questo è ciò che pensa lui.» rispose, senza batter ciglio, la mutante.
«Ma quante ne pensa lei, eh?» lo lodò il poliziotto, guardando uno stranamente assorto Stark, al volante, fissare un punto non preciso della strada. Dopo un attimo di pausa, che lasciò Sara di stucco, vista la normale natura chiacchierona del miliardario, il suo compagno di viaggio aggiunse «Già, fa sempre comodo avere l’aiuto dei giovani.»
«Soprattutto se si tratta di ragazze così carine!» continuò la guardia, ridendo di nuovo.
«Bene, possiamo andare ora?» chiese Tony, risoluto.
«Certo signor Stark, buon viaggio!» concluse l’uomo.
«Grazie agente, a lei buon lavoro.» si congedarono e, velocemente, la strana coppia attraversò il confine.
«Mi dispiace per Pepper. » annunciò, a bruciapelo, la ragazza, appena si furono allontanati.
«Sono cose che capitano, la gente se ne va, ogni tanto, poi ritorna. È la vita, signorina.» rispose vago
«Non ne parleremo più, promesso. L’ho detto solo perché bisogna essere onesti con i propri compagni di squadra, giusto?»
«Apprendi presto, eh? E allora sii onesta con me: come stanno le cose con l’uomo artigliato?» incalzò, colgliendo la palla al balzo. Sara non poté credere di avergli dato quella possibilità, senza nemmeno rifletterci. Si era fatta prendere troppo dai sentimenti, forse perché sapeva cosa vuol dire stare lontani da chi si ama, non essere in grado di tenersi accanto la persona più importante della propria vita, sentirsi soli -che è molto peggio che stare da soli-.
«Lo hai detto, Stark, le persone vanno e vengono.»
«Permettimi di sottolineare che il tuo caso mi pare abbastanza diverso. Sei stata tu ad andare via, dopo aver intrecciato una relazione in ambito scolastico con uno dei tuoi insegnanti, per giunta vecchio il doppio di te, se ci atteniamo solo all’aspetto esteriore, ma che, se guardiamo la sua carta d’identità, possiamo tranquillamente considerare  un tuo possibile trisavolo. Che c’è, ti piacciono gli uomini maturi o solo quelli di admantio? » disse tutto d’un fiato, riattivando la modalità “Spaccone”. Se Sara non lo avesse visto, due minuti prima, così serio e preoccupato, col cuore spezzato e gli occhi persi nel vuoto, per aver soltanto sentito pronunciare il nome “Pepper” e non avesse compreso benissimo come ci si sente in queste situazioni, lo avrebbe, probabilmente, colpito con un raggio di elettricità fino a farlo saltare dal sediolino, direttamente fuori dalla decappottabile.
«Sono felice che ti sia ripreso. Sai, per un momento, mi pareva quasi di parlare con una persona, addirittura con dei sentimenti… cioè impossibile, non trovi? Tu non sei una persona, sei Tony Stark, meglio conosciuto come Iron Man. Tu non hai sentimenti, solo raggi laser, no?» lo schernì la giovane.
«J.A.R.V.I.S. chiama il Capitano.» riprese Tony, come se non l’avesse nemmeno ascoltata. Pochi squilli si udirono, prima che Steve rispondesse: «Vi seguo. Alla prossima andate a destra, Nick ci aspetta al locale.»
«Meglio di un navigatore, Cap. Va bene, passo e chiudo.»
Il silenzio piombò nell’auto. Pochi chilometri, una curva e sarebbero arrivati. E lei lo avrebbe visto, dopo tutto quel tempo. Voleva morire, voleva buttarsi fuori dall’auto, pur di non assistere al misero spettacolo che avrebbe dato di sé, totalmente in preda al panico, con le gambe tremanti davanti a lui, a Logan, all’uomo che aveva perso, al suo uomo.
“Idiota, non sei mica la protagonista di un romanzetto rosa!” pensò “Sei qui per salvare il mondo e lui è solo un possibile alleato. Cosa vuoi che succeda?” Si chiese, dopo “Che lo rivedrai, al massimo, sbaglierai qualche sillaba. Non riuscirai a fare un discorso veramente sensato, ma non fa nulla, Nick ti aiuterà e anche gli altri… spero. E poi che potrebbe succedere? Che lo troverai invecchiato, forse, cambiato, sicuramente, ma non è importante, perché non lo guarderai con gli occhi spalancati da adolescente infatuata, che avevi la prima volta che vi siete visti, ma con quelli maturi da persona seria, che è venuta solo a chiedere un aiuto per la sicurezza della Terra intera, non per un capriccio, guidato dal sentimento. E poi?”
E poi Sara sapeva benissimo cosa sarebbe potuto succedere. Se lo avesse trovato con qualcuna? Se lui non fosse stato solo? In fondo, lei aveva promesso di aspettarlo, ma lui non aveva fatto altrettanto. E se pure fosse stato solo? Avrebbe ricambiato i suoi sentimenti, come faceva un tempo? Avrebbe avuto quel calore inaspettato, nei suoi occhi bui? Il cuore della mutante iniziò a scalciare, come un feto nell’utero materno. Sentiva che sarebbe scoppiato da un momento all’altro. Doveva controllarsi, controllare i suoi battiti, i suoi pensieri, anche i suoi respiri, se necessario, ma, soprattutto, i suoi poteri. Iniziò a farsi pallida in volto e, mentre la macchina svoltò a destra, un lieve tremore le scosse le esili membra. “Stai calma.  C A L M A!” le ripeté la vocina nella sua testa.
«Stai tremando, signorina?» le chiese il guidatore, mentre rallentava, vedendo davanti a sé la macchina di Fury. Erano davanti ad un piccolo locale. Da fuori, sembrava quasi una baita, interamente di legno, molto rustica. All’interno , c’era un lungo bancone color mogano, una barista con poca voglia di servire e molta di bere e scommettere, degli sgabelli alti e scomodi e una gabbia di metallo, proprio davanti al bancone. Alle sue spalle, oltre il barista, una scaffalatura piena di liquori, robe forti, ma Lui non le avrebbe prese, avrebbe preferito la sua birra, come sempre, accompagnata da un buon sigaro.  Sara ripassò a memoria i dettagli di quel posto. Non lo ricordava bene, ma ciò che era certo era che lì c’era già stata, almeno cinque anni prima, in una delle sue missioni in affiancamento, con Wolverine. Lei era solo una ragazzina, appena diciassettenne, era il suo secondo anno alla scuola e probabilmente, si trattava della sua prima vera missione, lontana da casa, perciò avrebbe fatto di tutto per portarla a termine nel migliore dei modi, per non deludere la fiducia che Xavier aveva riposto in lei e nemmeno quella di Wolverine.
 La mutante, seduta in macchina, si lasciò andare ad un altro sospiro pieno di ansia, la struttura bucolica davanti a sè.
«Sembra una vecchia bisca.» commentò il miliardario.
«In pratica, lo è. Ci vengono a fare i combattimenti, la sera. Non è un gran bel posto.» gli diede ragione la ragazza
«Ci sei mai stata?»
Lei annuì, muovendo il capo.
«Ti ci ha portata lui?»
Di nuovo, annuì.
«Cavolo, che classe! Primo appuntamento combattimento e birretta, che accoppiata vincente!» sentenziò Stark, molto contrariato. «Ti piacciono davvero i tipi rudi? Boh, davvero non riesco a crederci!»
La ragazza scosse la testa e scese dall’auto, seguita da Tony. Il rombo di una moto arrivò alle loro spalle, mentre i due raggiungevano Fury, all’entrata del locale.
«Cap, eccoti, i centenari si fanno attendere!» lo prese in giro Iron Man.
«Com’è andato il viaggio?» chiese Nick, mostrandosi stranamente preoccupato.
«Sono ancora viva, mi pare un buon segno.» gli rispose Sara.
«I controlli?»
«Nessuna domanda strana.» ribatté la mutante, quasi come un automa. La sua voce era rotta dall’affanno. L’ansia saliva e lei non riusciva più a nasconderlo, mentre stringeva forte le mani nelle tasche del suo giaccone. Il freddo pungente del Canada li accolse con potenti sferzate di vento, dritte in faccia, per tagliar loro la pelle.
«Sai cosa fare. Contiamo tutti su di te.» la incoraggiò Nick, guardandola dritta negli occhi, con il suo solito viso burbero e contrito. La giovane non replicò, probabilmente, non ne aveva la forza, poi si voltò e rivolgendosi al suo compagno di viaggio, gli intimò, puntandogli il dito contro, con la massima serietà: «Stark, non parlare mai se non strettamente necessario!»
In silenzio, entrarono nel locale. Prima Fury e Rogers, poi Stark a coprirle le spalle. La mutante stava al centro della triade, quasi coperta dai due che la precedevano.
Varcare la soglia di quella vecchia bettola fu più facile del previsto, il difficile arrivò nel ritrovarsi dentro quel locale, dopo tanti anni. Nonostante il tempo trascorso, tutto le riaffiorò alla mente.
 
La missione si era appena conclusa con un inaspettato e immediato successo, una parte della squadra aveva l’ordine di tornare subito alla base, mentre l’altra, composta da Wolverine e Electro-Wave, aveva il compito di restare anche la notte, per presidiare la zona.
«Questo non è un posto per ragazzine, ma è l’unico in cui possiamo trovare un rifugio momentaneo, prima di iniziare la veglia. Conosco il barista.» le aveva spiegato Logan. «Stammi vicina, okay? E occhi aperti!»
Lei aveva annuito e seguito l’ordine. Appena messo piede nel locale, un branco di ragazzi, dai modi sgarbati, aveva spintonato tutti, pur di passare e godersi lo spettacolo, in prima fila. Si annunciava un combattimento epico tra due pesi massimi. Due avanzi di galera o qualcosa di simile. Insomma, dei soggetti che non avresti voluto trovare di notte, in un vicolo buio. «Logan!» lo aveva salutato il barista, appena avevano avuto occasione di avvicinarsi al bancone. Lì lo conoscevano tutti così, non con l’appellativo dovuto i suoi artigli. «Il solito?» gli aveva chiesto, in seguito. L’uomo aveva annuito, sedendosi al suo classico posto, terzo sgabello da destra e porgendo alla ragazza una seduta un po’ più comoda, con tanto di schienale. «Stai qua!» l’aveva ammonita, ricevendo un cenno d’assenso.
Il banconista gli aveva offerto una birra ghiacciata «E alla tua giovane puledra, che portiamo?»
«Acqua liscia.» aveva risposto, scostante,così immediatamente da non lasciare nessuna possibilità di replica all’altro.
«Allora? La tua prima missione lontana dalla supervisione di Xavier e Tempesta, come pensi che sia andata?» le aveva chiesto lui, sorseggiando la sua birra.
«Spero bene.»  Era stato tutto quello a cui la ragazza era riuscita a pensare in quel momento, mentre si guardava attorno, senza capire perché qualche cazzotto e due gocce di sangue attirassero così tanto l’attenzione.
«Ti spaventa stare qui?» aveva incalzato lui, vedendo il volto stranito della ragazza.
«Ho visto posti peggiori.» aveva controbattuto, prendendo un sorso dal bicchiere d’acqua che, nel frattempo, aveva ricevuto.
«Non ne bere troppa, che poi ti dà alla testa.» l’aveva scimmiottata. La mutante aveva sorriso, abbassando la testa, facendosi cadere una ciocca di capelli sul viso, fino a coprirle l’occhio sinistro. Poi si era girata, intenta a fissare il suo bicchiere. Non riusciva a sentirsi a suo agio lì, da sola, a bere qualcosa con un suo professore. Wolverine era conosciuto per i suoi metodi di insegnamento alternativi, ma a lei continuava a sembrare una situazione strana, forse, per quello che, pian piano, si accorgeva di provare per l’uomo che le sedeva accanto. Era più che semplice ammirazione, come aveva pensato più e più volte. Era desiderio di stargli vicino, di sentire il suo profumo di muschio e sigaro, intenso e penetrante, di guardarlo eseguire tutte le azioni eroiche che era chiamato a fare.
«Ehi, ho detto occhi aperti, ragazzina. Entrambi!» le aveva detto, ad un tratto, il suo insegnate, quasi facendola sobbalzare dalla sedia. Eppure, il sobbalzo maggiore non era stato tanto causato dall’aver udito quelle parole inaspettate, bensì dall’aver sentito un tocco delicato, spostarle la ciocca, che le ostacolava la vista, con una naturalezza tale, da non metterla nemmeno in imbarazzo, ma da farla solamente girare per guardare meglio quella “bestia”, capace di tanta ira e distruzione, compiere un piccolo gesto di affetto. «Così va meglio!» aveva esclamato, infine, fissando il suo volto, libero da ogni impedimento. La mano, che le aveva portato i capelli dietro l’orecchio, si era adagiata un attimo sul viso della giovane, prima di tornare a stringere la bottiglia di birra. Un attimo che, alla mutante, era parso un’eternità.
La ragazza era rimasta immobile e incredula, per il resto della serata, come se avesse dovuto ancora realizzare il tutto, mentre Wolverine aveva continuato a sorseggiare in silenzio la sua bibita, dando uno sguardo al match.
«Non avrei dovuto.» aveva biascicato, a mo’ di scuse, una volta usciti dal locale e tornati al posto di guardia, per concludere l’incarico. Che gli era preso? Perché trattare un’alunna, una insulsa ragazzina, in quel modo? Si era forse dimenticato del ruolo istituzionale che ricopriva e di tutte le promesse che aveva dovuto compiere a Xavier per farsela affidare e portarla con sé in missione? Lei era speciale e lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo, in qualche modo. Era così simile a lui e così diversa. Piccola e gracile, sembrava indifesa come un agnellino, ma aveva la forza di un’intera mandria di tori arrabbiati. Era affascinato da quel contrasto, da quella semplicità nel compiere imprese titaniche, senza nemmeno rendersi conto della metà del potere che aveva. Voleva sapere cosa si celasse in quel cervello, cosa la agitasse durante la notte, quando, spesso, Tempesta era costretta ad entrare in camera sua per calmarla, cosa dicesse durante le sedute private di terapia col prof. Charles Xavier. Era la prima volta, dopo tanto tempo, che si sentiva così connesso a qualcuno e non gli importava quanto difficile fosse raggiungere il suo obiettivo, gli interessava solo che lei gli stesse accanto, che lei fosse lì il giorno dopo, a guardarlo con occhi cupi e sofferenti, ma anche spalancati sul futuro. Lui la voleva vicino a sé e non solo per una missione, ma per la vita, se fosse stato possibile, per questo non era riuscito a controllarsi, nel bar.
«Cosa? » gli aveva domandato la ragazza.
«Fare quello che ho fatto, poco fa … al locale. Non succederà più.»
«No…» si era affrettata, forse troppo, a dire la ragazza. «A me …  ecco, non mi dà fastidio. È ok.»
Quella sorta di appello non aveva ricevuto alcuna risposta e, di nuovo, il silenzio li aveva coperti, mentre la notte fredda e buia li aveva circondati, di colpo. Dopo qualche minuto, in quella situazione a dir poco imbarazzante, era stato Wolverine a rompere il ghiaccio, informandola dei turni che avrebbero dovuto fare quella notte, di come si sarebbe svolto il tutto e del segnale che avrebbero usato per avvertirsi di un imminente pericolo. «Capito tutto?» aveva chiesto «Non fare stupidaggini. Ricordati che sei solo in affiancamento, sei sotto la mia supervisione e non ho intenzione di fare brutte figure con Xavier, per colpa tua!» l’aveva rimproverata, alla fine. Poi, aveva fatto per allontanarsi, ma, a un certo punto, prima che fosse troppo lontano, si era girato. Era, di nuovo, posizionato davanti a lei, che continuava a fissarlo senza capire che stesse facendo. Lui si era avvicinato al suo volto, le aveva toccato i capelli, prendendoli tra le mani e, ripetendo il gesto di poche ore prima, li aveva portati dietro alle orecchie e le aveva sussurrato: «Occhi aperti, ragazzina!» Dopo, aveva lasciato che la mano scivolasse lentamente sulla guancia di lei, fino a toccarle un angolo della bocca e se ne era andato, lasciandola lì, tra il turno di guardia e mille pensieri.
 
Sara si scosse quella malinconia di dosso, seppure con grande fatica, cercò di tornare lucida. Era difficile. Tutto era rimasto immutato, forse più logoro, ma assolutamente uguale all’ultima volta in cui era capitata lì dentro. Oltre al mobilio e alla gabbia, un’altra cosa non era cambiata: al terzo sgabello da destra, vicino al bancone, c’era sempre la stessa schiena, coperta da un giubbino di pelle nero, con collo di pelliccia, appena ricurva in avanti, probabilmente protesa verso una bottiglia di birra, gli stessi capelli corti un po’ sparati in aria e le stesse spalle grandi e accoglienti, come le sue braccia muscolose. Era lì, davanti ai suoi occhi, proprio come lo ricordava, proprio come quella sera.
«Wolverine, sono Nick Fury, devo parlarti di una questione importante!» gli intimò il vocione di Nick, alle sue spalle. Nulla si mosse. Nessun gesto, nessun segno d’assenso, nessun suono. Sembrava che l’uomo, seduto al bancone, non avesse nemmeno ascoltato quanto detto dall’agente. Una nuvoletta di fumo si alzò davanti a Wolverine, proveniente, sicuramente, dal suo sigaro. Sara guardò la scena, a qualche passo di distanza. Sapeva che lui non avrebbe mai degnato Fury di uno sguardo, soprattutto dopo lo screzio avuto tra i due, a causa della sua forzata partenza. «Wolverine, lo S.H.I.E.L.D. ha bisogno di te!» ripeté il guercio.
«Nick, dici allo S.H.I.E.L.D. di farsi fottere e dillo anche a te stesso, già che ti trovi.» ribatté la bestia, senza nemmeno voltarsi.
L’agente,allora, fece il segno d'intesa previsto, così, Sara poté avvicinarsi di qualche metro e, giunta al fianco di Nick, intervenne: «Dovresti ascoltarlo. È davvero importante, Logan.» gli consigliò con un filo di voce. Quel sibilo, tremulo e incerto, bastò a far scattare di colpo il mutante. Gli occhi dell’uomo si spalancarono, alzò il capo di colpo, lasciò andare la sua bottiglia e il mozzicone di sigaro, che stava maneggiando, pochi minuti prima. Poi, si girò, senza esitazione. Il cuore in gola, il respiro appena accelerato gli fece gonfiare il petto, mostrandosi ancora più fiero e minaccioso, mentre si girò con velocità per vedere da chi provenisse quella voce. Lo sapeva, ogni sua cellula lo avvertiva. Era nell’aria, di nuovo, quel profumo. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Era nell’aria, di nuovo, quell’energia che gli colpiva corpo e anima. L’adamantio che ricopriva le sue ossa ne era attratto, lui stesso lo era. Almeno, lo era stato, ma era passato così tanto tempo, che ci aveva perso le speranze. Eppure era lì, ora ne era sicuro.  Guardò dritto davanti a sé e la vide. Quella figura magrolina era proprio a due passi da lui.
«Cece!» sussurrò. Un bagliore attraversò i suoi occhi, prima che tornassero a incupirsi, assumendo il classico aspetto perennemente arrabbiato col mondo. Lei era lì. L’attesa era finita.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8. ***


«Va bene Ragazzi! Ecco perché vi dico sempre che l’unione fa la forza. Oggi, c’è stato gioco di squadra, vi ho visti finalmente tante braccia di un unico corpo. Non lasciate che le vostre paure vi blocchino: insieme vinciamo, separati non andiamo da nessuna parte. Ricordatevelo sempre! Ci vediamo alla prossima lezione.» si complimentò Tempesta, congedandosi dal gruppo di allievi, appena usciti dal simulatore di lotta e incamminandosi per il lungo corridoio, verso le sale dei professori.
«Quando combatteranno davvero? Così si illudono di essere dei veri duri, invece, guardali, mammolette. Ecco cosa vedo!»
«Di nuovo, Wolverine? Scusaci se non siamo tutti delle bestie da combattimento come te. Non tutti hanno le stesse doti, perciò è necessario il gruppo. Non lo capirai mai, vero?» chiese la professoressa dai capelli bianchi.
«Sarà, ma non sono pronti per il mondo vero.» replicò Logan.
«Oh, ti prego. Smettila! Per te nessuno è pronto, non è così? Solo tu sai sempre cosa fare.»
Continuarono a camminare fianco a fianco, a passo svelto, finché l’uomo non la fermò per un braccio, dicendo: «Tecnica e disciplina non mi hanno mai portato da nessuna parte. L’istinto sì.»
«Wow. Sono impressionata! E che ti dice l’istinto, Wolverine? »
«Che non sono abbastanza pronti, ma quella ragazzina, quella nuova. Lei lo è.»
«Cecilia? È troppo giovane e inesperta e segue un programma speciale. Lasciala stare.» si rabbuiò di colpo, l’insegnante. Ordini dall’altro le avevano chiesto di tenerla separata dal resto del gruppo, avrebbe provocato più guai che altro. Era ancora incapace di controllare appieno i suoi poteri, che parevano, del resto, in continua espansione. Nemmeno Tempesta sapeva il perché di tanto mistero attorno a quell’adolescente, giunta da poco in accademia. Il suo impegno durante le lezioni era evidente, almeno quanto la sua diffidenza verso tutti gli altri studenti e anche verso i professori. A mensa, la si vedeva spesso ad un tavolo isolato, lontana da tutti. Non era un classico esempio di bullismo: era solo una consapevole scelta della mutante di allontanarsi dai suoi compagni. Mostrava uno spiccato senso artistico, buon talento per le lettere, un po’ meno per la matematica, in cui risultava, allo stesso modo, zelante. Le piaceva la logica e non perdeva nemmeno una lezione di etica, tenuta direttamente dal prof. Xavier.
«Lo sai anche tu. Lei è speciale, lo senti, lo avverti quando le stai accanto e poi, ti ricordi cosa ha fatto durante l’ultima simulazione?» Logan era davvero infervorato, non poteva fare a meno di nascondere la sua curiosità verso quella ragazzetta. Non l’avrebbe nemmeno notata tra tutte le altre, se non fosse stato presente, quel giorno, alla simulazione di cui era stata protagonista.
«Sì, beh, se ti riferisci al fatto che, invece di combattere contro il mostro che le avevo preparato, mi ha distrutto il simulatore con una scossa elettrica, allora, devo ricordarti che è stato davvero strabiliante e infatti è ancora in punizione.» ribatté un po’ seccata Tempesta.
«È stata geniale! E poi quella frase “Io non combatto contro un ologramma!”? Dai, non dire che non ti è piaciuta!» continuò il potente mutante.
«Beh, siamo stati fermi con le lezioni per otto giorni, aspettando una riparazione, quindi, no, non mi è piaciuta. Inoltre, ha messo in discussione il nostro metodo educativo. L’avrei espulsa se non fosse stata lei.» concluse Tempesta, pentendosi, subito dopo, di quanto detto.
«Perché? Allora sai qualcosa che non so! Chi è lei?» chiese Logan, ponendosi davanti alla collega, così da ostruirle il passaggio. La guardò per un attimo, con una faccia accigliata e gli occhi indagatori di chi cerca la verità.  
«Logan, lasciami passare! Ho lezione. E poi, come ti ho detto, segue un programma speciale, non ne so nulla. So solo che è stato direttamente Xavier a chiedermi di avere pazienza con lei. Ma tu non sai niente e, soprattutto, non te l’ho detto io.» confessò, infine. La curiosità di Logan raggiunse i massimi livelli. Chi era quella ragazza? Quello scricciolo venuto dal nulla, con una forza inaspettata e un’intelligenza da vendere?
«Lei mi piace, dovremmo averla nella squadra.» concluse l’uomo, mentre lasciava la sua amica davanti all’aula dei professori.
«Ti piace perché è uguale a te. Solitaria e testarda. E di lupi solitari, nel team, non abbiamo bisogno, visto che tu occupi tutta la quota.» gli urlò dietro l’insegnante, mentre lo vedeva allontanarsi di fretta. Poi, scosse il capo ed entrò a lezione.
Wolverine percorse nuovamente il corridoio, a ritroso, fino a giungere alla biblioteca. Doveva saperne di più di quella Cecilia, dei suoi poteri, delle sue caratteristiche. Doveva conoscerla meglio. Il  suo fiuto non si sbagliava, lo aveva avvertito dal momento in cui ella aveva messo piede al collegio. Era perfetta nel team, era il pezzo mancante. Avrebbe fatto grandi cose sotto la sua guida. Altro che quella bacchettona di Tempesta! Lui sapeva come prenderla e sapeva anche dove trovarla. Era sicuramente  a sistemare e impilare vecchi libri. Di solito, infatti, le punizioni consistevano in questo.
«Ti hanno fatto saltare la lezione con Tempesta per due libri polverosi?» esordì, entrando nella grande stanza. Non sapeva quanti tomi ci fossero in quel posto, ma era evidente che il locale fosse pieno di scaffali con collezioni rare, trattati di scienza, di biologia, di storia, biografie di importanti uomini di stato, codici di diritto dei più disparati paesi. Tutto, lì dentro, pullulava di cultura. Inutile dire che l’animale che era in lui avrebbe fatto a meno di quel luogo e ci avrebbe costruito una palestra con un ring rosso, su cui esercitarsi e fare a botte, come ai vecchi tempi, magari con un bel bar annesso, fornito di birra in quantità industriale.
La ragazza si girò, lo guardò per un attimo. Era la prima volta che si vedevano. La seconda, se contiamo i dieci secondi in cui la giovane aveva, a modo suo, superato l’esercitazione di lotta contro il mostro olografico. Wolverine non aveva mai guardato in quegli occhi: erano neri, come la pece, come gli abissi più inesplorati. Non riuscì a distaccare da essi il suo sguardo. Erano così profondi e scuri, come due pozzi in piena notte, senza nessuna luna a rischiararli. L’uomo non aveva mai visto due occhi simili, così normali, all’apparenza, ma così sofferenti e speranzosi, allo stesso tempo. Si sentì scosso da un sottile brivido che gli percosse la schiena, finché la giovane non abbassò il suo sguardo. Egli fiutò l’aria e avvertì, di nuovo, quel profumo, che aveva sentito la prima volta. Era odore di paura. Gli ricordava che la mutante doveva aver avuto brutte esperienze in passato, doveva stare attento a cosa dire; eppure, c’era un fierezza in quei pallidi lineamenti, che, quasi, lo metteva in soggezione. Era come se la ragazza sapesse benissimo l’entità dei suoi poteri, ma non si sentisse comunque al sicuro. Forse erano proprio le sue qualità a spaventarla tanto. “È così piccola, così minuta. Potrei sollevarla con una sola mano.” si sorprese a pensare l’uomo. Guardandone la corporatura, appariva come un armonico mucchietto di ossa, tanto aggraziato da sembrare che ballasse, invece di mettere a posto i pesanti libri. “È uno scricciolo!” continuò a dire tra sé, Wolverine, mentre la fanciulla si era rimessa all’opera senza dir nulla.
«Non devi aver paura, io lavoro qui. Insegno insieme a Tempesta, ti ricordi di me? Alla simulazione c’ero anche io.» continuò lui. La ragazza assentì con un cenno del capo, senza prestargli troppa attenzione.
Logan, visibilmente in imbarazzo, non sapeva cosa fare. Il tatto e l’eleganza nei modi non erano mai stati il suo forte, ma essere il solito rozzo bestione non gli passava nemmeno per la testa, al cospetto di un ragazza così delicata e pura. Aveva qualcosa di speciale, qualcosa di ancora più speciale dei suoi occhi. Ah, quegli occhi, non riusciva più a levarseli dalla testa. “Mi sembra di caderci dentro, di annegarci. Smettila, Wolverine. Pensa a come scoprire qualcosa di lei, piuttosto.” lo rimproverò la vocina della sua coscienza, ammesso che ne avesse una. D’improvviso, proprio mentre era assorto nei suoi pensieri, fu scosso da una flebile voce: «Può alzare il braccio, per favore? Devo posare questi!» disse la mutante, indicando una pila alta di libri su cui Logan si era bellamente appoggiato, senza nemmeno accorgersene. «Certo, scusa … scusami» mugugnò, impacciato. Era, forse, la prima volta, dopo anni, che si scusava con qualcuno senza esserne costretto. Cecilia si avvicinò a lui, guardandolo con un sorriso appena abbozzato, un sorriso quasi materno, come se avesse capito, da quelle poche parole, lo sforzo celato in quelle scuse, appena accennate. Ora, l’uomo avrebbe avuto qualcos’altro da non dimenticare: una fila di denti non perfettamente bianchi, che sporgeva leggermente rispetto alla linea inferiore e due labbra screpolate e rossastre a contornarle. C’era del coraggio in quel sorriso, come chi soffre, ma non lo fa notare; come chi ha visto il demonio e ha continuato a vivere, cercando di infondere a se stesso e agli altri speranza per il futuro. Quel viso, a Logan, diceva più di qualsiasi discorso che avrebbe potuto intrattenere con la giovane. Sembrava così distrutta e desiderosa di ricostruirsi una vita nuova. Forse, era questo che l’attraeva: in fondo, sembravano simili, sembravano così tormentati e angosciati dal passato, eppure,  ancora in piedi, ancora in gara, decisi a non lasciarsi abbattere. Era difficile, per lui, trovare qualcuno con esperienze simili alle sue, tuttavia, gli sembrava di averlo appena trovato e, per la prima volta, non c’era bisogno di parole. Quelle non erano mai state il suo forte, probabilmente, era per questo che stava così bene con Jean: lei gli leggeva nella mente e non aveva nemmeno il problema di dire qualcosa. Le parole, per il solitario eroe, erano inutili suoni senza senso:“la maggior parte delle volte si usano per riempire dei vuoti, che, probabilmente, sarebbe meglio lasciar tali, invece, di dare l’illusione che sia tutto a posto, quando nulla è come dovrebbe essere” aveva sempre pensato. E anche allora, lì, nel silenzio della biblioteca, non si sentiva in imbarazzo. Gli sembrava, piuttosto, di essere proprio doveva voleva, di sentirsi a casa. Quello sguardo da gatto randagio in cerca di un rifugio, quella figura ossuta e quei denti grandi e allineati, che si mostravano, a malapena, tra le labbra arrossate, quel viso candido e quell’odore di paura e fierezza lo facevano sentire di nuovo a casa.
«Le serve qualcosa?» gli chiese la giovane, interrompendo quell’attimo di riflessione, poi, si voltò, nuovamente, per mettere in ordine la pila di impolverati volumi.
«No. »
«Allora perché è qui? Non ha lezione?»
«No.» replicò, monocorde.
Cecilia si girò a guardarlo. Stava sulla porta, non si era mosso di un millimetro, con il gomito ancora appoggiato sulla pila di libri. Lei era accovacciata a terra, per posizionare dei manuali di zoologia; faceva avanti e indietro dalla porta, per finire il suo lavoro prima dell’inizio della nuova lezione. Si alzò e gli fece nuovamente cenno di alzare il braccio, Wolverine ubbidì, pazientemente, continuando a fissarla. «È certo di non aver bisogno di qualcosa?» chiese, prendendo un altro volume, della collana.
«Sì.» replicò sicuro, Logan. La ragazza sorrise di nuovo, ma, stavolta, aggiunse una domanda «Come si chiama?»
«Io?» la guardò stupito l’uomo e la studentessa assentì. Com’era possibile che non lo conoscesse? Era un suo professore, del resto e poi la sua fama lo precedeva! La sua notorietà nella scuola era imbattibile, o forse no? «Io sono Wolverine.» rispose serio e un po’ accigliato.
La giovane sembrò divertita da questa risposta, lo guardò e, stavolta, il suo sorriso si aprì a trentadue denti, facendo crollare il muro di stizza edificato dal suo interlocutore. «No, come si chiama lei, per davvero. A me piace parlare con le persone, non con i personaggi.» ribatté con estrema semplicità, lasciando scivolare nell’aria quelle parole, come fossero due delicate piume, che, di contro, sulla testa di Wolverine caddero come due macigni. La maturità dell’allieva lo fece trasalire e un brivido lo scosse. Quegli accecanti fari neri lo abbagliarono nuovamente e così, colto da grande sgomento, fu costretto a rispondere schiettamente ad una domanda altrettanto franca: «Logan, mi chiamo Logan.» rispose.
«Piacere, Logan, io sono Cecilia.» e, così dicendo, gli porse la mano. L’uomo la strinse, come fosse in procinto di concludere un patto di vitale importanza per lui e per il resto del mondo. Ancora quel brivido gli percorreva la schiena, ancora quello sguardo intenso lo puntava. Lo sentiva nell’aria: era diversa, era forte, ma piena di ferite -spirituali e non solo-  tanto da avvertire ancora l’odore del suo sangue. Lo sentiva nell’aria: era quella giusta. Il suo istinto non si sbagliava mai e non avrebbe errato nemmeno quella volta.
 
 
A ricordarlo allora, in quella bettola semivuota, in cui ancora riecheggiavano le urla dei combattenti sul ring, dopo tutti quegli anni, dopo tutti i momenti trascorsi insieme e quelli trascorsi lontano l’uno dall’altra, quell’episodio sembrava un frammento di conchiglia incagliato sulla banchiglia: piccolo e sottile, praticamente invisibile, ma tagliente e doloroso per chi ci inciampa per caso. E loro due, Sara e Logan, ci erano inciampati, nello stesso momento e con la stessa intensità, al solo guardarsi negli occhi.
I tempi in cui era conosciuta col suo vero nome, non quello affidatole dallo S.H.I.E.L.D., erano passati. Sembravano nascosti nella memoria di entrambi, così in profondità, da far credere loro di averli cancellati per sempre. Invece, proprio come una conchiglia, venivano portati a galla da un’onda improvvisa, quella della malinconia, quella, forse, dell’amore.
«Hey» aveva ribattuto la ragazza dopo una lunga pausa, prima che Fury prendesse la parola. Cosa dire? Come comportarsi? Non lo sapeva, era tutto così strano. Non era un sogno o un incubo o una specie di visione. Bastava allungare le braccia per trovarsi l’uno avvinghiato all’altra.
Logan era ancora incredulo. A differenza della ragazza, che aveva, sebbene inutilmente, avuto un po’ di tempo per riflettere sulla situazione, lui si trovava catapultato nel passato, in quegli occhi color catrame, capaci di riportarlo sul fondo. Ci aveva messo tanto per dimenticarli, o, almeno, così si era detto, ma, a trovarseli a pochi centimetri di distanza, si accorgeva di non esserci riuscito. Erano lì, vividi e lucenti, lo scrutavano con quella striatura di amorosa preoccupazione, che conosceva fin troppo bene. L’aveva vista così tante volte: prima di ogni battaglia, prima di ogni missione le irradiava le iridi nere. Ed ora, dopo tre anni, di solitudine e vani tentativi di star bene, li riaveva davanti quegli occhi, posizionati sulla stessa faccia smunta, sullo stesso fisico asciutto.
“Hai tagliato i capelli” avrebbe voluto dirle, accarezzandole la testa, come una volta “mi piacevano di più lunghi, così sembri più grande. Forse lo sei, in fondo, è passato tanto tempo.” avrebbe voluto sussurrarle, portandola a sé, stringendola sul suo petto. “Ma resti sempre bella e triste, come quando ci siamo detti addio.” avrebbe voluto continuare, avvicinandosi alla sua bocca, ma non poteva.  Non poteva perdonarla per il dolore che gli aveva inflitto, non poteva perdonarla per non averlo scelto ed essere tornata, con Fury al seguito, solo quando le faceva più comodo. Lui aveva sofferto troppo per lei, come per nessun’altra prima, nemmeno per Jean. Quando la telepate era morta, uccisa dai suoi stessi artigli, Wolverine non aveva pianto. Quella era una missione e lui l’aveva eseguita. Era il suo compito, per vendicare Xavier, per ripagarlo di tutti i sacrifici fatti per averlo accolto. Da quel momento, era scappato via. Via dalla scuola, dai ricordi, da Tempesta, dagli altri mutanti. Era tornato il solitario Wolverine di un tempo. Combatteva per sfogare tutta la sua rabbia, in una stupida gabbia d’acciaio, in un posto in cui tutti continuavano a chiamarlo Logan. Era scappato via dalle responsabilità, dal suo passato, dal se stesso che sperava di non rivedere più. Ma il passato ti presenta il conto, dicono. Ed eccolo là il suo conto, vestito di pelle nera, con un occhio bendato. Eccolo là, a chiedergli un favore, in nome dei vecchi tempi.
«La situazione è seria.» concluse Fury, dopo un lungo discorso, in cui il mutante non aveva mai smesso di guardare, con la coda dell’occhio, la ragazza, ascoltando a malapena.
«Abbiamo davvero bisogno del tuo aiuto per completare la squadra, solo insieme potremo distruggere l’H.Y.D.R.A. per sempre.» riprese il Capitano, con l’atteggiamento fiero del giustiziere a protezione del mondo, quale era sempre stato.
Tony, stranamente, seguiva la discussione in silenzio, forse, stavolta, aveva recepito gli ordini, mentre Sara, continuava a respirare a fatica, nascondendolo il più possibile, come se se ne stesse lì, in piedi, con tutta la calma del mondo. Cercava di controllarsi talmente tanto che era diventata una marionetta nelle sue stesse mani. Anni di pratica avevano reso possibile tutto quello; anni di finzioni e messinscene le avevano insegnato a mentire a tutti. Peccato non fosse ancora in grado di mentire a se stessa. E a lui, a Logan? Sapeva fingere davanti a lui, come avrebbe voluto? Non lo credeva possibile. Lui era sempre un passo avanti, riconosceva il suo stato d’animo prima che ella stessa ne fosse capace. Notava ogni minima inflessione della sua voce e poi le chiedeva “Va tutto bene?”,  ma sapeva già la risposta, prima e meglio di Sara stessa. La giovane non riusciva a non avvertire, nonostante i suoi sforzi, quella strana atmosfera che incombeva quando Wolverine era presente. Quell’energia che si spandeva, che la attraversava dalla punta dei piedi, salendole su per le gambe, facendogliele tremare, prima piano e poi sempre più intensamente, per arrivare alla spina dorsale, saltando tra una vertebra all’altra e raggiungere il cervello. Tutti i suoi muscoli, tutte le sue fibre erano come impossessati da quel fluido. Era come se si volessero staccare dal suo scheletro per raggiungere Logan. Come due poli di una calamita, per quanto lottassero per fermarla, nulla poteva vincere quella forza. Si comandavano a vicenda e entrambi erano comandati da una potenza a loro superiore.
«Allora? Cosa ne pensi?» premette Fury, non ricevendo nessuna risposta dall’uomo.
«Non se ne parla. Io sono fuori dal giro. Ho chiuso con le missioni, gli ordini, le squadre e le tutine colorate.» rispose freddo e scostante, come la prima volta in cui si era rivolto all’agente.
«Se ti serve più tempo per pensarci, lo capiamo, ma la situazione degenera a vista d’occhio …» accondiscese Steve.
«Allora non lo capite eh? IO SONO FUORI. È finito il tempo di fare l’eroe, questo è tutto quello che voglio.» ribatté, indicando la birra e il sigaro «Ho smesso di alzare stendardi, di aspettare il via datomi da anziani uomini pelati, di agire a comando. Qui sono solo Logan e mi basta. Ora prendete le vostre auto superaccessoriate e andatevene all’inferno.» sbottò, evidentemente alterato.
Fury, aspettandosi un nuovo rifiuto, guardò la mutante, che sembrava davvero l’unica in grado di farlo ragionare, ma, prima che lei potesse proferire parola, Stark ruppe, a modo suo, il silenzio: «Lo avevo detto che l’educazione non era il tuo forte. Beh, a dirla tutta è alquanto evidente, vista la bettola in cui alloggi. Complimenti! Da eroe a combattente per la malavita dell’Ontario, questo sì che è un salto di qualità!» disse d’un fiato, poi si rivolse agli altri: «Non mi sembra che questo bestione possa servirci più di tanto, in fondo, due artigli in più alla mia armatura non starebbero poi così male.»
Sara si voltò a guardarlo, più seccata che mai. Gli aveva detto di stare zitto, stuzzicare uno come Wolverine era l’ultima delle mosse da fare, specialmente in un momento simile. Infatti, subito, il mutante scattò giù dal suo sgabello e gli si avvicinò, minaccioso: «Già, la tua armatura… senza non sei nulla. Sei solo uno stupido essere umano che gioca a fare il salvatore.»
«Sai come si dice, bestiola, non è l’armatura a fare l’eroe.» controbatté Stark, senza batter ciglio, diminuendo, ancora maggiormente, la distanza tra i due.
«Ah sì? Allora vediamo che sai fare senza.»
Mentre Tony era pronto ad attivare uno dei suoi molteplici gadget, una specie di guanto metallico spara laser, nascosto in un, all’apparenza, semplice bracciale, un suono metallico si udì: gli artigli di adamantio stavano per comparire dalle mani del mutante.
Il Capitano e Fury stavano già per intervenire, quando Sara urlò: «Smettetela, immediatamente!»
Ella era seriamente impaurita per come le cose potessero evolversi, conoscendo il temperamento burrascoso dei due. «Non siamo venuti qui per insultarci a vicenda, né per spaventarci o giocare a chi di noi ha “il cavallo più veloce”. Le cose sono gravi e serie: l’H.Y.D.R.A. incombe su di noi, su TUTTI noi e da soli, anche se dotati di super tecnologia o di mutazioni genetiche, non possiamo vincere.» concluse la giovane, mettendo a tacere tutti. La sua serietà e maturità presero, finalmente, il sopravvento sulla situazione di caos che stava scatenandosi. «Logan, ti prego, almeno pensaci!» lo supplicò, alla fine.
«La mia risposta non cambia. Men che meno ora, che ho scoperto la vera identità degli eroi che salveranno il pianeta.» proruppe l’uomo, austero e bisbetico, poi rise «Siamo caduti davvero in basso se dobbiamo aspettare voi per liberarci dall’H.Y.D.R.A.» e con questa frase, piena di meschina ironia, se ne andò.
Il silenzio calò sui quattro, mentre Logan svoltava l’angolo del bancone per perdersi negli spogliatoi, pronto a scaldarsi per il nuovo incontro. «Ti avevo detto di stare in silenzio, Stark. Non sai cosa significhi questa parola, vero? Seguire un’indicazione è troppo per te?» saltò su la mutante. «Ti incenerirei volentieri in questo momento!» ringhiò, alzando la mano destra e tenendola aperta, come un ricevitore che si prepara a prendere la palla da baseball, prima della battuta dell’avversario. Un piccolo lampo di luce blu-verdastra le attraversò il palmo, passando da un dito all’altro.
«Calma. » le intimò Fury. Lei abbassò l’arto, continuando a fissare Stark in malo modo. «Sara ha ragione, hai mandato all’aria una missione.»
«Non mi pare che prima stesse andando tanto meglio.» replicò il miliardario, senza scomporsi.
«Tu …» la ragazza respirò a fondo, prima di concludere la frase, nel vago tentativo di calmarsi. «Non avresti dovuto. » gli indirizzò, infine, più arrabbiata e amareggiata di quanto fosse possibile immaginare. «Ora vi dico cosa fare. State qui. Zitti e fermi. Se vedo uno solo di voi muoversi, parlare, seguirmi o anche solo respirare più del dovuto, vi faccio provare l’ebbrezza di un elettroshock con i fiocchi.» minacciò i tre, che, attoniti, vedevano ancora le scosse elettriche fuoriuscire, verdastre, dalla sua mano. «Nick. Anche tu.» disse poi, intimidatoria, all’uomo bendato.
«Che hai intenzione di fare?» chiese preoccupato quest’ultimo.
«Salvarvi il culo!» esclamò lei «Con tutto il rispetto, Capitano.» concluse, dirigendosi verso l’ingresso degli spogliatoi, dove Wolverine era, da poco, entrato.
Si chiuse la porta rossa alle spalle. Effettivamente, non sapeva a cosa quella porta conducesse. Non c’era nessun cartello ad indicare che luogo fosse. Si trovò, stupita, in una stanza con le pareti tinteggiate di bianco, ormai sporche di qualsiasi tipo di macchia e qualche batuffolo di polvere, che volteggiava a terra. Sembrava che quella parte fosse stata aggiunta in seguito; non c’erano nemmeno i rivestimenti in legno presenti altrove. La stanza era arredata con qualche armadietto e due panche, una di fronte all’altra. Una piccola finestra con delle sbarre, come in un carcere, dava sul parcheggio retrostante, uno spiazzo vuoto e freddo come il ghiaccio. Il sole entrava a scacchi attraverso la grata, non era caldo, solo leggermente luminoso. Infatti, era proprio quella finestrella a costituire l’unico barlume nell’abitacolo.
Vicino ad uno degli armadietti arrugginiti, con i lucchetti rotti, c’era l’uomo che stava cercando. Era l’unica presenza, oltre a Sara, in quel posto squallido e angosciante. Wolverine stava mettendo, alla buona, il suo giubbino dentro l’anta più alta. In canotta bianca, appena illuminato da quella fioca sfera di sole, voleva solo sfogarsi contro il sacco da box, posizionato sul ring. Vederlo lì, compiere, con naturale rozzezza, quei gesti quotidiani era un tuffo nel passato di proporzioni epiche. Sara lo avrebbe voluto incastonare per sempre nella sua mente, quel momento. Quel fisico scolpito, a lei così familiare, quella vecchia canotta logora che gli accentuava le grandi spalle, quei movimenti scattanti e sicuri. Tutto le ricordava un tempo passato, che pensava non avrebbe più rivissuto e che, invece, le si manifestava come una presenza, proprio in quell’istante.
Forse fu lo sguardo persistente della giovane su di lui o i suoi pensieri ingombranti, ma il mutante si accorse della presenza di qualcuno, nello spogliatoio e si girò in un repentino movimento animalesco, estraendo appena i suoi unghioni metallici.
«Sono io.» lo rassicurò Sara.
L’uomo sgranò gli occhi, ancora incredulo per ciò che vedeva.
«Mi scuso per quello che ti ha detto Stark, lui è … è un pallone gonfiato, certe volte. Dà solo fiato alla bocca e lascia parlare la sua lingua biforcuta, ma, in fondo, è un brav’uomo. » riprese la mutante, abbassando immediatamente lo sguardo. Sembrava di essere tornati indietro ai primi incontri, quando erano soli e lei voleva solo scomparire per la vergogna, totalmente soggiogata dall’influenza che quell’insegnante sconosciuto aveva su di lei. «A volte …» proseguì titubante «A volte, sembrate simili. Siete due spacconi, fate sempre di testa vostra, non sapete che voglia dire seguire gli ordini ed è impossibile gestirvi …»
«Sei venuta qui solo per insultarmi? » le chiese rabbioso l’ex X-Men.
«No, lo sai.» rispose affranta, lei, cercando di prendere fiato, perché le parole le si fermavano in gola e, a malapena, riusciva ella stessa a sentirsi «Sono qui per la missione. Capisci la gravità dei fatti, sai che significherebbe molto per noi contare su un guerriero della tua portata. Non dovresti entrare nello S.H.I.E.L.D. per sempre, non ti chiediamo di firmare un contratto, solo di dare una mano a noi e al resto del mondo. » concluse, poi, cercando di essere il più razionale possibile, soppesando ogni parola e inflessione della voce.
Logan raccolse quelle parole come delle schegge di vetro. Nonostante la mutazione, i tagli da loro inferti non si sarebbero facilmente risanati. Era tutto qui, quindi? Solo una missione per Fury? Era questo l’interesse della ragazza? Come poteva arrivare lì, dopo tre anni di silenzio, dopo tre anni in cui a malapena gli era stato possibile andare avanti, e chiedergli semplicemente di stare dalla loro parte? Di battersi per una causa che nemmeno conosceva? Ecco cos’era per lei: solo un bravo “guerriero” e niente più. Lo considerava solo per ciò che vedeva esteriormente, per tre artigli e qualche muscolo. Era possibile che si fosse dimenticata di tutto ciò che avevano condiviso? Ogni esperienza era rimasta impressa nel suo cervello, ogni gesto, ogni parola e quei ricordi gli facevano più male delle pallottole, ricevute nelle varie scorribande. Gli dolevano cosi tanto che, a volte, doveva pensarci per picchiare più forte, in quella dannata gabbia.  Si scontrava con i più feroci, ma nessuno lo era quanto quella ragazzina dagli occhi scuri. Tutti lo malmenavano quotidianamente -quello era il suo mestiere, in fondo-, ma solo lei gli aveva lasciato ferite così profonde e infette di un veleno d’amore, da non permettergli di voltare pagina e ignorare le gocce di sangue che scendevano. Eppure, ci aveva provato. Di donne ne aveva avute, ma chissà quali erano i loro nomi o le loro facce. Le avrebbe mai riconosciute tra mille? Avrebbe mai avvertito il loro odore nell’aria? Le avrebbe mai toccate con delicatezza e cura? No, perché quelle donne non erano Cecilia.
«È tutto?» chiese algido, interrompendo bruscamente il suo flusso di coscienza.
“Digli che lo ami ancora e imploralo di tornare, di restare per sempre.” urlò la vocina interiore, nella mente di Sara. «Sì» sibilò lei, deglutendo a fatica, ignorando del tutto il suo istinto.
“Non è tutto, lo sai anche tu. Lo sai che è ancora innamorata. Lo percepisci. Non essere idiota, non farla andare via, stavolta sarà per sempre. Non sai nemmeno se la rivedrai più!” pensò Logan. Il suo fiuto non poteva sbagliare, aveva sempre avuto ragione nei confronti di quella ragazza, perché fallire, proprio adesso? Perché non dargli retta, proprio allora? «Allora puoi andare, la mia risposta non cambierà solo perché sei tu a chiedermelo e se pensavi che sarebbe stato così, mi dispiace, non lo è.» rispose, spazzando via quelle idee dalla sua mente.
«Non lo è più» lo corresse, con un sussurro.
«Già. E non l’ho voluto io.» recriminò aspramente, mentre la ragazza abbassava mestamente il capo. «Hai seguito gli ordini, hai fatto la brava, hai reso felice il tuo finto paparino…e ora? Cosa ti ritrovi? Nulla. Ti hanno trovato comunque!» esclamò con rabbia e un filo di preoccupazione. Poi fece una pausa. Sara guardò il pavimento impolverato, cercando di nascondere le prime lacrime che premevano per uscire «Io ti avrei protetta. Loro non ti avrebbero trovato!» incalzò il mutante. «Tu non saresti così … così in pericolo adesso.»
«Dillo, di’ quello che stavi per dire prima di fermarti. Non sarei così … spacciata? Perché lo so cosa pensi, che io non riuscirò a scampare il pericolo anche stavolta! Dillo!» lo riprese stizzita e tremante la giovane
«Non ho detto questo. Io … tu dovevi fidarti di ME! Non di Fury o di una banda di vendicatori idioti! IO ti avrei protetto, IO ti avrei salvato, ma TU non me ne hai dato la possibilità!»
«Parli di me come se fossi già morta. Tu puoi ancora aiutarci. È per questo che siamo qui»
«E smettila di parlare al plurale! » urlò l’uomo, tirando un pugno nell’armadietto retrostante, che si ammaccò per l’urto. «Tu non sei loro. Tu sei … sei diversa dagli Avangers, sei diversa da tutti!» continuò, quando, ormai, le lacrime della ragazza avevano iniziato a sgorgare in piccoli rivoli che le inumidivano il volto. «E TI ODIO PER QUESTO! Non sai cosa significhi perdere sempre tutto ciò a cui si tiene! Non sai cosa significhi svegliarsi la mattina con l’ansia che qualcuno possa ficcarti un proiettile nel cranio e farti perdere, di nuovo, la memoria e la paura di dimenticare ogni minuscolo dettaglio del volto della persona che ami.»
«IO LO SO!» gli rispose lei, stringendo forte i pugni. Gli occhi lucidi, il naso rosso e la voce tremante e più acuta del solito «Anche io ho perso tutto. Non hai sofferto soltanto tu.»
«Ah no? Ma guardati! Non sei tu quella rinchiusa in una gabbia a combattere tutte le sere. Ho ucciso Jean perché andava fatto, perché non sono riuscito a salvarla da se stessa, era diventata troppo pericolosa. Charles è morto, sgretolandosi come una statua, davanti ai miei occhi e io non ho potuto salvarlo, perché ero troppo impegnato  a combattere per salvare me stesso. Ho perso te, perché non mi ritenevi in grado di salvarti, ma per te avrei fatto di più del normale o del dovuto. Per te avrei fatto di tutto.» sbottò, amareggiato, mostrando il suo lato umano e sofferente, a cui i più non erano abituati. I più, ma non Sara. Lei sapeva chi era davvero Logan; sapeva quello che si celava dietro la scorza da duro, spessa e potente come l’adamantio che gli ricopriva le ossa. Logan era diverso da Wolverine. L’uno era l’uomo, l’altro la bestia. L’uno la verità, l’altro l’apparenza. E lei amava entrambi, perché da entrambi era formato colui che aveva conosciuto.
«Non puoi accusarmi perché ho seguito gli ordini. È assurdo!» ribatté, col cuore spezzato
«Assurdo? Come pensare che tu mi avresti scelto, che mi avresti detto di sì. Come volerti al mio fianco per più di qualche anno.»
La ragazza scosse la testa, esasperata. Era come tornare alla conversazione avutasi dietro le residenze degli studenti, una conversazione infelice e improduttiva.
«Inutile continuare. Hai deciso, no?» gli chiese retoricamente. «Il pianeta ha bisogno di te e pure quegli idioti dei vendicatori, come li chiami tu. IO ho bisogno di te. Ora. Adesso. Non tre anni fa. Le cose cambiano, il tempo passa e le persone si trasformano inesorabilmente, ma gli ideali restano e tu ne avevi tanti e lo so che li hai anche ora, anche se non lo vuoi ammettere, per non dare ragione al vero te stesso. Infilzare qualcuno con i tuoi artigli, vincere qualche gara e bere birre in quantità industriale non rispecchiano quello che sei.»
« Lo hai detto, le persone cambiano.» le rispose quasi per ripicca, girandosi verso l’armadietto, ignorando il danno fatto poco prima.
La ragazza, sconfitta, fece per uscire, muovendo a stento qualche passo verso la porta rossa. «Forse hai ragione, forse sono spacciata. Se così fosse, questo sarebbe il nostro ultimo incontro, quindi, sappi una cosa: c’è una fase della mia vita che non ricordo, una lunga fase, in cui ho fatto cose che a nessuno sarebbe permesso compiere, in nessun luogo e tempo, ma di quella che ricordo tu rimani sempre la parte migliore, nonostante gli ultimi anni, nonostante oggi. Addio, Logan.» confessò, sull’uscio, poi aprì la porta e varcò la soglia, senza dargli tempo di replicare.  Si aggiustò il volto, cercando di nascondere le lacrime, si sistemò alla meno peggio e raggiunse il suo gruppo.
I tre uomini la spettavano proprio dove li aveva lasciati, davanti al bancone del bar. Tutti la videro stravolta e, senza celare un po’ di imbarazzo, cercarono di fingere di non aver sentito le urla provenire dal locale vicino, anche se era praticamente impossibile. Così, come tre scolaretti colti sul fatto, si misero sull’attenti, vedendola arrivare: «Possiamo ripartire anche adesso.» disse senza esitazione «Non verrà.» confermò in tono serio e leggermente funesto. Dopo di che, si avviò verso l’esterno e gli altri, ammutoliti, guardandosi l’un l’altro, non poterono che seguirla.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9. ***



«TONY! ALLE SPALLE!» urlò la ragazza, in preda al panico, vedendo l’amico in pericolo, attirando, così, su di sé l’attenzione degli uomini armati, alcuni dei quali le si pararono davanti, in meno di un secondo, accerchiandola.
L’uomo era assalito da cinque combattenti, vestiti di nero, che lo spingevano sempre di più verso il margine del ponte, nel tentativo di buttarlo giù,mentre il resto del luogo si riempiva di persone in divisa, dall’aria tutt’altro che amichevole. Per quanto fosse forte la sua armatura, essa era solo parziale. Il guanto, poco estratto dal suo bracciale tecnologico, non gli permetteva di sovrastare i nemici quanto e come avrebbe fatto se avesse indossato la corazza completa. Le munizioni stavano per terminare, non sapeva se, stavolta, ce l’avrebbe fatta a portare in salvo la giovane. E se, a questo quadro, aggiungiamo che Fury era troppo lontano per aiutarli, che il Capitano combatteva contro un altro manipolo di potenti soldati e che un piccolo esercito di droni stava abbattendosi su di loro, la situazione non sembrava affatto favorevole. Ma come avevano fatto a trovarla? E lei come aveva potuto non accorgersene?
Tra due file ordinate di automobili ferme, giacevano alcuni corpi tumefatti, passati sotto le grinfie del Capitano e qualche pezzo di drone, abbattuto dai laser di Iron Man. I passeggeri, impauriti, urlavano nei loro veicoli, cercando, invano, di scappare, pur sapendo che sarebbe stato meglio non uscire, nascondersi alla meno peggio sotto i sediolini e chiamare aiuto dai loro cellulari. La zona era  diventata, in pochi minuti, un territorio di guerriglia urbana, in cui due uomini e una ragazza cercavano di fronteggiare, con la loro sola forza fisica, un intero esercito. Un’impresa così impossibile non si vedeva dai tempi dei miti greci. Il Capitano, come un moderno Ercole,  forte come un semidio, combatteva a mani nude, difendendosi con calci e piroette, atterrando sui cofani delle macchine circostanti, cercando riparo dietro uno scudo di fortuna, sicuramente meno solido e valido di quello forgiato da Efesto.  L’uomo si trovava di fronte circa dieci soldati che lo riempivano di pugni e gli sferravano dei calci bene assestati, che, a volte, riuscivano  a farlo traballare. Solo a vedere il sangue uscire dal suo naso, gonfio per i colpi ricevuti, si comprendeva che c’era qualcosa di più in quei dieci, qualcosa che andava oltre la semplice forza fisica: che fossero anche loro frutto di esperimenti dell’H.Y.D.R.A.?
«Non ti muovere!» intimarono i superuomini alla mutante, strattonandola, per cercare di portarla con loro.  La ragazza tentò di divincolarsi, sferrando qualche colpo ai loro visi, ma il combattimento corpo a corpo, purtroppo,  non era mai stato il suo forte. Il cerchio attorno a lei si fece più stretto. Nella sua mente si fecero chiare le parole di Fury: “Continua  a far finta di niente, non usare i tuoi poteri per nessuna ragione, ti proteggiamo noi.”
 “Beh, Fury, non sta funzionando!” pensò lei, sentendosi sempre più vicina alla cattura. Sferrò un calcio negli stinchi al soldato che le si fece davanti, quello che, per primo, aveva riconosciuto. Una mossa simile era troppo poco per farlo placare. Sara sentiva che la sua mutazione stava per entrare in azione, come se fosse innaturale non difendersi con i suoi enormi poteri. Quella costrizione le era impossibile da sopportare; una scossa elettrica stava per fuoriuscire dalla sua mano, le sentiva passarle attraverso le ossa, piccole e affusolate; le dita erano irradiate da quella luce bluastra che, poco prima, aveva mostrato al cospetto dei suoi compagni d’avventura. Il suo potere era troppo grande per non prendere il sopravvento. Se solo lo avesse usato dall’inizio non si sarebbe trovata in quella situazione. Continuò il combattimento col primo uomo, che assorbiva i colpi come un sacco da box, immobile e incapace di sentire alcun dolore. Ecco la radiazione bluastra salire, sempre di più, tra le dita della giovane, spingere per uscire dalla sua mano e friggere tutti i combattenti presenti, come patatine in un fast food. Sferrò un gancio destro, debole. Gli altri uomini la derisero: «Se è questo quello che sai fare senza i tuoi poteri, arrenditi adesso, non volgiamo farti del male. Ci servi viva.»
«Non so di cosa stiate parlando.» replicò la ragazza, incassando un colpo al volto con più fatica di quanto si aspettasse. Poi, per la spinta ricevuta, si ritrovò qualche metro più in là, sbattendo la testa contro il paraurti di una macchina vicina. I genitori, che vi erano rinchiusi insieme ai loro figli, cercavano, invano, di tappare orecchie e occhi ai due bambini, che avranno avuto pressappoco quattro anni.
«Cosa farai senza aiuti, eh? I tuoi compagni sono troppo occupati per pensare a te!» la giovane, stordita, avvertì un grande dolore alla testa, tutto iniziò a girarle attorno, come un vortice irrefrenabile. Il capo dei combattenti aveva intenzione di raggiungerla, azzerando sempre di più la distanza tra loro; Sara cercò di alzarsi, ma non riuscì a reggersi sulle gambe e, per non cadere, si appoggiò sul cofano anteriore, dando le spalle ai suoi nemici. Errore da principiante! Mai distrarsi in quel modo! Ma le immagini sfocate e lontane, che le apparivano davanti agli occhi, continuavano a ruotare sempre più velocemente. Era sfinita, se questo era solo l’inizio non osava immaginare come sarebbe andata avanti.  Sentì dei passi dietro di sé. Il capo dei soldati nemici si avvicinò minaccioso, brandendo una pistola. Premette il grilletto. La pallottola lasciò la canna dell’arma, provocando il classico, fastidioso rumore dello sparo. Sia il Capitano, caduto a terra, pieno di lividi e col fiatone, che Iron Man, che continuava a difendersi con l’uso del suo solo guanto destro, alzarono immediatamente lo sguardo, rivolgendolo alla loro compagna, tentando di allontanarsi dai nemici, per raggiungerla il più velocemente possibile. A nulla sarebbero valsi i loro sforzi, la pallottola era già pericolosamente vicina alla giovane, che si girò di colpo avvertendo la rivoltellata. La sua vista, scarsa e appannata, non le permise di rendersi conto di quello che i suoi compagni stavano facendo, non ebbe nemmeno il tempo di riflettere sul da farsi che si ritrovò a terra, col sangue che le usciva dalla testa e gli occhi che facevano fatica a restare aperti.
 
 
«Ci hai provato, signorina, non hai nulla da recriminarti.» le disse Tony, dopo aver lasciato il bar in cui, poco prima, avevano incontrato Wolverine. Sara continuò a stare in silenzio, voleva solo arrivare alla base, a New York e pianificare tutti i passaggi per giungere al termine di quell’esperienza orrenda.  Voleva solo tornare alla sua solita vita. Forse, fare l’alunna seria e intelligente, anche un pochino sfigata, era la sua vocazione. Essere una degli X-Men non le aveva portato nulla di buono; qualcosa di ancora peggiore avrebbe sperimentato in questa nuova, terribile esperienza. Il solo pensiero di rivedere il suo temibile nemico in faccia -o quello che ne rimaneva- la faceva pietrificare. Voleva buttarsi tutto alle spalle e concludere la missione il più velocemente possibile. Assorta dai suoi pensieri, notò che il tragitto fino al confine era continuato nel silenzio tombale; strano, se si pensa ad un normale viaggio con Tony Stark.
«Niente da rilevare, tutto in regola.» li avvertì, allora, Fury. Avrebbero passato il confine e, dopo poche ore, sarebbero ritornati a Detroit e lì, li avrebbero raggiunti gli altri Avengers, nel quartier generale mobile dello S.H.I.E.L.D.. Roba che l’aereo più pazzo del mondo non è nulla in confronto! Sara ci era salita da ragazzina, ma non se ne era mai accorta, perché, denutrita e sotto shock, non riusciva a rendersi conto di cosa le stesse succedendo. L’avevano subito portata a New York, per curarla come meritava e da lì allenarla ad essere un vero agente. A pesare a tutte le persone che aveva conosciuto, a quante di queste non erano fidate come sperava, a quante se ne erano poi bruscamente andate dalla sua vita, le sembrava di aver vissuto mille anni o anche qualcuno in più, eppure, anche dopo tutto quel tempo, qualcosa le mancava: c’era qualcosa che non sapeva del suo passato, come se avesse voluto nasconderlo anche a se stessa. Forse, non avrebbe dovuto fidarsi così tanto di Fury, forse, sarebbe dovuta andar via molto prima o scappare con Logan, quando glielo aveva chiesto. Le parole che le aveva detto nello spogliatoio le risuonavano nelle orecchie con astio, provocandole ancora maggiore dolore.  Presa dai suoi soliti ricordi, non disturbati né da musica né dai racconti da spaccone di Stark, avvertì la macchina rallentare e poi fermarsi davanti alla scritta USA. Il ritorno avrebbe dovuto essere più facile, si aspettavano; in fondo, erano cittadini americani che rincasavano, non ci sarebbero, di certo, stati problemi, pensavano e anche Sara, sempre all’erta, sfiduciata e affranta per il rifiuto ricevuto, non sentiva quella preoccupazione che aveva provato all’andata.
La coda di auto che affollavano il ponte era molto più lunga del previsto, forse a causa dell’orario. Era già mattino inoltrato, i viaggiatori erano numerosi e la fila, a prima vista, sembrava infinita. Sara guardò fuori dal finestrino, si diceva che ci fosse un ingorgo poco più avanti. “Strano” pensò, “Nick è passato senza problemi. Adesso starà chissà dove, non vedo nemmeno la sua macchina.” Qualche automobilista iniziava a spazientirsi, sporgendo dallo sportello, per capire da cosa dipendesse quell’attesa inaspettata. Il veicolo davanti alla decapottabile di Tony era una monovolume verde scuro, vecchio tipo, un po’ ammaccata sul bagagliaio. Una famigliola la riempiva fino all’ultimo posto disponibile. Sembravano così allegri e spensierati, così pieni di vita e amore, gli uni per gli altri. Al suo interno, c’erano tre bambini che giocavano con i soldatini e i genitori che ascoltavano la radio, parlando del percorso da compiere per arrivare il prima possibile, nel luogo designato. Ai lati, invece, due macchine nere facevano bella mostra di sé, lucide e splendenti, ultimo modello. Da una parte un uomo d’affari in giacca e cravatta parlava insistentemente a telefono, dall’altra,  un uomo e una donna, vestiti con abiti sportivi, erano probabilmente in vacanza di piacere, magari in luna di miele.
Dal gruppo di macchine allineate, due agenti in divisa spuntarono: «È tutto a posto, ci vorrà poco e sarete tutti liberi di attraversare il confine.» dissero agli automobilisti, guardandosi intorno. Sembrava che volessero dirigersi in qualche luogo preciso, che ancora non avevano individuato, ma, quando la ebbero vista, dopo un cenno di assenso, apparve chiaro a tutti il loro intento: andare verso la decappottabile del facoltoso Mr. Stark.
«Vengono da noi? » chiese la giovane, stranita e un po’ agitata.
«Ci avvertiranno che è tutto a posto. Stai tranquilla, lascia fare a me.» 
«Tony…» mugolò Sara, trattenendo il respiro: qualcosa in quegli uomini non andava, lo avvertiva nella loro camminata, nel loro sguardo d’intesa, nel loro modo di porsi. Perché avevano bloccato il traffico? Perché andavano spediti da Stark? Domande che la giovane non fece in tempo a rivolgere al guidatore, poiché i due li raggiunsero in un batter d’occhio.
Il miliardario avvertì una certa tensione sul volto della giovane, così, per dissimulare, spalancò la sua bocca in una sorriso splendente e, con la sua solita calma, appena i due si avvicinarono, facendogli segno di aprire il finestrino per poter parlare con loro, poiché la cappotta era alzata, dato il freddo invernale, Tony eseguì gli ordini, senza esitare.
«Buongiorno agenti.»  iniziò la pantomima.
«Signore, deve seguirci per dei controlli.» disse uno dei due, mentre altri tre uomini in divisa si mostravano da lontano, stagliandosi sullo sfondo.
«Cosa succede?» chiese cortesemente.
«Ci segua e le spiegheremo tutto.» continuò l’altro.
Sia Sara che Tony sapevano benissimo a cosa stavano andando incontro, ma rispondere con una nuova domanda sarebbe stato ancora più sospetto. Gli ordini di Nick, invece, erano ben diversi: dissimulare, far finta di nulla e soprattutto far credere che la giovane non fosse una mutante, ma un semplice essere umano,  come tutti gli altri.
Tony si alzò con calma, uscendo dalla macchina con grande svogliatezza, guardò la ragazza attraverso il parabrezza prima di allontanarsi di un altro passo. «La signorina è la mia segretaria, ovunque io vada lei mi segue, capisce, agente? Deve venire con noi.» replicò Stark, sorridendo, come sempre, nel tentativo di non tradirsi.
«La signorina deve andare con i miei uomini, ma faremo subito se sarete collaborativi.» I due lo strattonarono appena, per farlo muovere più velocemente. I bambini nella macchina di fronte videro la scena, lasciando, per un attimo, cadere i loro soldatini sul sedile.
«Ma io insisto» continuò il filantropo «la signorina è una mia dipendente, non può restare sola. È sotto la mia responsabilità.»
«Non le succederà nulla.» concluse, bruscamente, l’uomo in divisa. A quelle parole, i tre, che Sara aveva visto in lontananza, giunsero a circondare l’auto, facendole cenno di uscire. Le loro divise erano diverse rispetto a quelle dei due agenti incontrati la mattina stessa, sembravano usciti da un campo militare. Sembravano usciti dai laboratori dell’H.Y.D.R.A.. Robusti, forti, con muscoli e fondine ben in vista: tre di loro parevano equivalere ad un intero esercito. Sara tirò un lungo sospiro, prese fiato e, scendendo, si chiuse la portiera alle spalle, mentre Tony procedeva avanti, strattonato a destra e a manca. Sara guardò i soldati che si trovava di fronte. «Seguimi.» comandò uno, il più grosso dei tre. Il suo accento non sembrava americano, tradiva una provenienza diversa, ben più lontana. L’uomo, pelato, con gli occhi chiari, le ricordava un volto familiare, eppure, non sapeva riconoscerlo. Persino quel comando, così informale, le lasciava intendere che si fossero già conosciuti in una qualche vita precedente, ma, nonostante i suoi sforzi, nulla le sovveniva.
Stark proseguì per la sua strada a passi lenti, facendosi  spesso riprendere dai gendarmi; la ragazza, condotta dalla parte opposta, guardava i tre come un condannato a morte guarda la fune appesa in pubblica piazza. Scrutava i loro passi, destra- sinistra-destra, tutti uguali, tutti compiti. Soldatini di piombo in carne ed ossa. Poggiavano sul terreno prima il tacco e poi la punta, con la stessa intensità e pari violenza. Quei passi le ricordarono le marce, gli anni passati ad imparare cori per osannare dittatori , a fare del male ad innocenti, a essere costretta a stare dalla parte del cattivo, a uccidere per sopravvivere, a dimenticarsi del suo vero nome, a essere preda del male e delle tenebre. Destra- sinistra-destra. Si voltò d’improvviso, tra le macchine riusciva ancora a vedere Tony e gli altri due soldati. Anche il supereroe, come richiamato da un’energia improvvisa, fu costretto a girarsi per guardarla. Aveva aspettato un suo segno fin da subito, aveva pianificato l’attacco ad ogni passo e quel momento era arrivato: «ORA!» urlò la giovane. Questo bastò a far sì che l’uomo estraesse una piccola parte della sua armatura dal bracciale, apparentemente innocuo, che portava sul polso destro. Il guanto di Iron Man fuoriuscì con velocità e da esso un potente raggio repulsore venne indirizzato nei confronti del soldato pelato, che guidava insieme agli altri due, la mutante. Sara si spostò appena in tempo per evitare il raggio e approfittò della successiva confusione per ritornare, di corsa, alla macchina di Stark. Di scappare in auto non c’era possibilità: il suo piano era chiedere aiuto al Capitano. Appena entrata nella vettura non fece in tempo a chiamare a gran voce: «J.A.RV.I.S. chiama il Capitano.» che gli uomini dalle due auto nere, vicine, aprirono le portiere armati fino ai denti, mostrando la loro vera natura alla ragazza. Altri scesero dalle vetture più lontane, accerchiando Stark, il quale aveva già iniziato a combattere  con i due che lo avevano condotto lontano dall’auto, parando le loro pallottole, grazie alle sue armi tecnologiche. L’altro manipolo si dislocò attorno alla mutante, iniziando ad avventarsi su di lei. Sara non poteva usare i suoi poteri, glielo aveva imposto Fury, la cui presenza, in quel conflitto, sarebbe stata, sicuramente, necessaria. Si chiuse nella decapottabile, ma a nulla valse, poiché i soldati riuscirono, con brutalità, a staccare la cappotta, lasciando il loro ostaggio solo e allo scoperto e a trascinarla fuori. Dopo essersi svincolata e aver schivato i primi colpi, da parte della donna nella macchina a destra, ricevette, finalmente, risposta  dal primo degli Avengers: «STARK È UNA TRAPPOLA!» La mutante sentì la voce di Steve affaticata e con un inatteso fiatone e comprese, così, che avevano trovato anche lui «Ce ne siamo accorti, Capitano!» grugnì, tra i denti, spostandosi prima a sinistra e poi a destra evitando il gancio del secondo degli uomini del manipolo, che pareva diventare sempre più folto. Poi, colpì l’uomo con un calcio dritto in faccia, facendolo oscillare fino a crollare al suolo. «Cerco di avvicinarmi Sara.» le promise Rogers, mal celando una certa tensione.
Il Capitano, infatti, era rimasto poco più indietro, per seguire le loro mosse, ma era stato il primo ad essere colpito, nel tentativo di essere messo fuori gioco, per lasciare soli Stark e la Collins. Il supersoldato, tuttavia, non era un ostacolo facilmente aggirabile e si destreggiava con maestria tra capriole, calci e pugni, coprendosi con un cofano che, a mani nude, aveva tolto da un’auto, per proteggersi.  Molti erano i militari che aveva già lasciato sul terreno, ma era stato più difficile del previsto, poiché, molto probabilmente, si trattava di superuomini creati con esperimenti scientifici e messi sul campo, per la prima volta, per trovare e prendere la mutante. Rogers saltò nuovamente sulla sua moto, mettendosi lo scudo di fortuna sulle spalle e facendo uno slalom per passare tra le auto, in cui, la gente, cercava, attonita, di capire cosa stesse succedendo o filmava le scene di combattimento, per poi caricarle su internet.
«Cap, dov’è Fury?» si udì chiedere, dalla parte opposta del ponte. La domanda proveniva da Stark, che, col suo auricolare, poteva mantenersi in contatto con Steve.
«Non mi risponde.» gli disse l’uomo, quando una pallottola gli fece saltare entrambi gli pneumatici, mettendo fine alla sua corsa solitaria. Egli fu costretto ad abbandonare la moto e a ricorrere alle arti del combattimento fisico, che aveva affinato in quegli anni di solitudine e meditazione, dopo il decongelamento. Un colpo ben assestato al viso dell’altro, poi un calcio al combattente alla sua sinistra e, infine, prendendo per il braccio il terzo uomo che si trovò davanti e portandoglielo dietro la schiena, gli  spezzò l’arto in un fragoroso CRACK, mettendo fuori gioco i tre nemici. Ma per tre soldati che se ne andarono, altri cinque ne arrivarono e la stanchezza del Capitano non tardò a manifestarsi.
Sara, riusciva a percepire la difficoltà dei suoi compagni e voleva in ogni modo aiutarli. Ma le parole di Fury continuavano  viaggiarle nella testa: “Non usare i tuoi poteri” le avevano detto e lei non sapeva cosa fare. Calci e pugni non erano mai stati il suo punto di forza, ma pareva aver capito come muoversi con quei quattro, che continuavano a starle addosso. Sembravano dei robot: si muovevano in serie, seguendo uno schema ordinato, proprio come quello dei passi che aveva notato prima. Una specie di tecnica di combattimento, appresa grazie a numerose prove ed esercitazioni. Poche e controllate variazioni erano permesse, ma su quelle si giocavano il tutto per tutto. L’effetto sorpresa non piaceva a Sara, che continuava ad incassare troppi colpi per rimanere lucida. Quando riuscì ad allontanare due dei quattro uomini che continuavano ad accerchiarla, quello pelato, che per prima le aveva parlato in modo così schietto e confidenziale, tornò a farsi più vicino. I suoi occhi chiari si conficcarono nelle iridi nere di Sara e il cervello della giovane non poté far a meno di analizzare ogni suo tratto, per cercare di capire dove e quando lo avesse già incontrato. Ormai, era assodato: l’H.Y.D.R.A. li aveva assoldati per catturarla, non restava che ricordarsi dei vecchi e terribili tempi -in cui era stata sottoposta alle peggiori torture che quella associazione di folli avesse mai escogitato- per comprendere dove collocare quel volto. Continuava a picchiarlo con tutte le sue forze, ma il suo unico pensiero era scavare nella sua memoria. Quegli occhi, lei, li ricordava. Sferrò un altro calcio. Nessun effetto: pareva non sfiorarlo nemmeno. Poi un pugno. Schivato. L’uomo le si avvicinò: «Ci siamo divertiti, in passato. Eravamo della stessa parte. Perché ora mi fai questo?» le chiese, mentre cercava di sollevarla per i fianchi e trascinarla con sé. Sara si divincolò, dandogli un colpo dietro la nuca. Finalmente riuscì a metterlo KO per più di un secondo. L’uomo allentò la presa, lei fu capace di mettere i piedi a terra e scappare in direzione di Stark, che, con il labbro spaccato dalle botte, era ancora alle prese con i droni. Non lo aveva mai visto in quelle condizioni, così solo, così stranamente umano e impaurito. Il suo sguardo incontrò quello dell’amico che l’aveva portata fino in Canada, vide un drone dietro di lui, proprio all’altezza del suo capo. Una luce rossa fuoriusciva dal piccolo oggetto bianco che sorvolava il ponte, sembrava pronto a entrare in azione, pronto a sparare. Sara doveva avvertirlo, era questione di secondi. Sentì il soldato che aveva lasciato a terra, riprendersi e alzarsi dal suolo. In un batter d’occhio, se lo trovò alle spalle, le sue braccia attorno al suo collo, quasi come se volesse strozzarla o torcerle la testa per farla svenire. Lo aveva visto fare tante volte dalle spie sovietiche, con cui avevano lavorato. Abbassò il capo e, immediatamente, gli morse l’avambraccio al punto da lasciargli un segno sanguinante. In quel momento, un flashback le attraversò la mente: una stanza vuota, sporca, lei ancora bambina, al massimo undicenne, rasata a zero, pelle e ossa, in un angolo, vestita con una sorta di camicia di forza e un uomo che le si avvicina, quegli occhi chiari, quella rabbia.
 Morse più forte, poi più forte ancora, una collera improvvisa le attraversò il corpo, pur non riuscendo a comprendere da dove provenisse, portata con sé da quel ricordo offuscato. L’uomo emise un urlo, che attirò l’attenzione di Stark ed ecco, che la luce del drone da rossa divenne verde. Ecco il segnale: il piccolo robot volante era pronto a sparare. «TONY! ALLE TUE SPALLE!» urlò la mutante. Stark riuscì a buttarsi a terra, appena in tempo per evitare il colpo, che, invece, trapassò il cranio del soldato col quale stava combattendo. Sara lo aveva salvato, pensò lui, adesso gli toccava ricambiare il favore, ma subito, fu colto da altri cinque combattenti, che cercò di annientare, grazie alle sue armi speciali, sebbene, ormai, le munizioni stessero per terminare. Nel frattempo, Sara fu raggiunta da altri soldati che la accerchiarono, tentò di uscire da quella gabbia umana, ma più cercava di scapparei, meno riusciva nel suo intento. Il capo dell’esercito si avvicinò, di nuovo, facendosi spazio tra gli altri soldati: «Non volgiamo farti del male, ci servi viva!» disse, ordinando, così, che venisse solo colpita, ma non esposta al pericolo della morte. La mutante riusciva a malapena a restare ancora in piedi. Era stanchissima, ma vedere i suoi amici sacrificarsi per lei le dava la spinta per continuare a stare ancora all’erta. I suoi colpi si fecero sempre più fiacchi e venne canzonata dal resto del manipolo: «Senza i tuoi poteri non vali nulla!». Una spinta la colse di sorpresa e la fece piombare, con un balzo, sul paraurti di una delle macchine vicine, in cui i bambini urlarono, presi dal panico. Sara, affranta, udì le urla e la sua testa iniziò a vorticare. Una sorta di giostra cominciò a muoversi sotto i suoi piedi. La vista annebbiata, lo stomaco sottosopra. La nausea e il mal di testa erano, ormai, alle porte. Tra le mani una piccolo bagliore blu si illuminò, come uno dei raggi che stava sparando Stark. Non solo doveva continuare a combattere per salvarsi e gratificare lo sforzo compiuto dai suoi amici, ma doveva anche tenere a bada la mutazione, che stava iniziando a farsi sempre più impellente, come se non riuscisse più a controllare i suoi estesi poteri. Dopo un primo tentativo fallito, provò, di nuovo, ad alzarsi, ma nulla. Arrancò a terra, tra la polvere, il sangue e i detriti. Appoggiò le mani sul cofano anteriore, insanguinandolo appena, cercando di farsi forza sulle braccia e, con suo enorme sforzo, riuscì a tirarsi su, dando le spalle ai nemici. Un errore stupido, quanto fatale, quello di non guardare negli occhi il suo avversario; una mossa da codardo, quella di prenderla alle spalle. Eppure, si sa, in guerra tutto è concesso e, di certo, non stava parlando di persone con molti scrupoli. Infatti, a un tratto, udì un sparo, si girò di scatto, senza comprendere la gravità della situazione in cui verteva. Lo scoppio le giunse all’orecchio, forte come una martellata in testa. La giovane si accasciò, di nuovo e si abbatté a terra.
«SARA!» urlarono il Capitano e Iron Man preoccupati, mentre videro la mutante sul suolo. Una piccola nube di fumo e polvere avvolse il luogo in cui ella sitrovava e fu impossibile, ai due, comprendere con precisione cosa stesse accadendo.
Poche cose Sara riuscì a mettere a fuoco, prima di chiudere gli occhi: due paia di gambe, una coda blu appuntita, che sbucava sotto un lungo soprabito e sei, lunghi artigli lucenti.


ANGOLO DELLA SCRITTRICE:
Salve a tutti,
è la prima volta che parlo direttamente ai miei lettori. Volevo, innanzitutto, ringraziarvi per continuare a leggere la mia storia e soprattutto volevo scusarmi per questo lungo periodo di assenza. Mi auguro di aggiornare il più frequentemente possibile. Spero che lo sviluppo della storia vi stia piacendo, se avete pareri o critiche da farmi, vi invito ad esprimere la vostra opinione nelle recensioni, alle quali, senza dubbio, sarò lieta di rispondere.
Grazie per il vostro affetto, non sapete quanto questo significhi per me!
Un saluto, 
Scemochiscrive 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10 ***


Sara era ancora riversa sul suolo. Gli occhi semichiusi. Troppo stanca per aprirli, vedeva del sangue attorno a sé: una scia, che pareva diventare sempre più lunga, le toccava i capelli e il volto. “E’ la fine”, pensò, “Sono spacciata!” Eppure, non si sentiva davvero morta, solo un po’ stordita e quel sangue … quel sangue proveniva dalla parte sbagliata: non scorreva dal suo capo verso i piedi del suo assassino, ma in direzione opposta. La stranezza le fece pensare di essere totalmente uscita di senno: “Non può essere, deve esserci un errore. Forse, nell’Aldilà è questo il trucco: tutto sembra andare al contrario. Forse, la fisica non esiste e con essa nemmeno la gravità.”cercò di spiegarsi, ma la sua stanchezza era troppa e la mente troppo offuscata per pensare lucidamente.
«Stai giù!» le sussurrò una voce
«Non ti muovere!» urlò un’altra.
Erano amici o nemici quelli che le parlavano? Erano nella stessa squadra e cercavano di aiutarla o, semplicemente, tentavano di portarla con loro? Non riusciva a distinguere le figure; tutto quello che vedeva era un leggero e lontano bagliore. Le uniche cose che ricordava erano lo sparo, il colpo alla testa e due figure strane apparirle di fronte. Magari, erano solo i suoi incubi a manifestarsi in quel modo, come delle allucinazioni: un demone blu e … no, non poteva essere. Non poteva essere lui, quell’immagine, robusta e alta, che aveva visto; non dopo quanto si erano detti in quello spogliatoio. Era convinta di stare da qualche parte, nel mondo dei morti, tra diavoli e forconi e di non rendersene ancora conto. Beh, era evidente che stesse lì, nelle fiamme infernali, una col suo passato; d’altronde, non sarebbe mai andata in Cielo, tra cori melodiosi e angeli festanti. -Ammesso che ci fossero davvero un inferno e un paradiso e non fossero soltanto una solida, ma menzognera convinzione inculcata nella mente degli uomini, come pensava Sara.- La fatica di quelle cogitazioni le fece perdere anche le ultime forze rimastele. “Stai sveglia” si diceva “Forse non è tutto finito, forse puoi ancora farcela…” continuava, ma le palpebre diventavano sempre più pesanti e il respiro sempre più lento. Nata e morta sul terreno di guerra, questo avrebbero scritto sulla lapide, se l’avessero conosciuta per davvero. Nata e morta in un campo di battaglia. Nata per combattere, morta per vincere. Erano quelli i suoi ultimi attimi da eroina?
«Portala via da qui, vai da Fury!» ordinò al demone blu, la voce udita in precedenza.
Sara avvertì qualcuno prenderla tra le braccia, poi PUFF, vento freddo sbatterle dritto in faccia e capelli arruffati. Si sentiva come se stesse volando. Ecco, era la fine, la morte la portava via sulle sue grandi ali nere. Nemmeno un secondo dopo, però, quella strana sensazione si placò e si sentì, di nuovo, un essere umano e non più un’entità fatta di solo spirito.
«Finalmente siete arrivati. Entrate!» ordinò il proprietario di una voce profonda e preoccupata, che le era stranamente familiare.
 
«E questo sarebbe il vostro modo di proteggerla?» urlò l’uomo, ancora sporco del sangue nemico. A poco possono preparazione tecnica e mosse di karatè se l’avversario è un mutante, immortale, pronto a ridurti in brandelli. L’uomo ritrasse gli artigli per un attimo, il tempo di aiutare il Capitano, caduto in un piccola voragine, in cui un drone aveva poco prima scagliato una granata di blanda valenza, a rialzarsi. Per l’esplosione le sirene delle autovetture vicine erano impazzite e il suono esasperante giungeva alle orecchie dei combattenti come il corno, che usava indicare l’inizio della guerra, in tempi antichi.
«È necessario ucciderli tutti?» chiese Steve, mettendosi in piedi, non con poca fatica.
«Se non vuoi farti uccidere, Capitano. Decidi tu!» ribatté il mutante.
«Non è una strategia apprezzabile, dovremmo solo …» continuò il supersoldato, ma un uomo dell’H.Y.D.R.A cercò di coglierlo alle spalle, approfittando del momento di debolezza. L’avevano steso al suolo solo pochi minuti prima ed, ora, sembrava di nuovo fresco come una rosa, pronto ad iniziare il combattimento dal punto in cui era stato interrotto. Il nemico saltò alla gola del Capitano, il quale, prontamente, lo scaraventò con la schiena a tappeto e ci pensarono gli artigli insanguinati di Wolverine a concludere l’opera, tagliandogli la gola da parte a parte.
«Ecco cosa succede a lasciarli in vita: tornano sempre!» esclamò Logan, con l’aria di chi la sa lunga.
«Ehi, bestione, non sarò l’amore della tua vita, ma servirebbe una mano anche a me!» si udì dall’altra parte del ponte. Tony, ripresosi dall’iniziale assedio dei droni, pur col volto parzialmente tumefatto e senza più munizioni, aveva ripreso la sua naturale verve.
Il Capitano si precipitò al fianco dell’amico, lasciando da solo Wolverine a fare strage degli ultimi combattenti rimasti. Quelli che continuavano a sopravvivere, a dirla tutta, sembravano instancabili, come se quegli esigui minuti di pausa, li avessero ricaricati ancora di più, tanto da farli sembrare, agli occhi dei tre eroi, addirittura più forti di come li avevano lasciati. Tra questi, v’era l’uomo, pelato e dagli occhi artici, che Sara aveva riconosciuto durante il precedente combattimento. Egli sembrava davvero il più potente di tutti: forse, nemmeno l’azione combinata di Captain America, Iron Man e Wolverine lo avrebbe abbattuto. Era come se si fosse immerso nella fonte della vita eterna e della forza infinita. Proprio in lui si imbatté Logan. Il comandante del manipolo mandato dall’H.Y.D.R.A. cercò di svicolare tra vetture e cadaveri, per raggiungere la fine del ponte, tentare una fuga e avvisare i suoi superiori di quanto accaduto e della possibile posizione della ragazza. Lasciarlo libero avrebbe costituito un enorme pericolo per Sara; egli, infatti, l’aveva riconosciuta e ora ne distingueva l’aspetto, nonostante i mutamenti, acquisiti insieme alla nuova identità. La missione di Wolverine, si fece seria: eliminare chiunque si fosse avvicinato a Sara in quella circostanza, per sotterrare tutte le prove del suo passaggio lì. Il corpo della ragazza, intanto, era stato teletrasportato, da Nightcrawler, appena oltre il confine, per metterlo al riparo, dove Fury e i suoi si sarebbero presi cura di lei.
Wolverine, intese le mosse del comandante, avvertì gli altri due urlando: «Sta Scappando! Prendetelo!» Nessuno era mai fuggito dalle sue grinfie; di certo, non avrebbe permesso di tentare la fuga a un uomo che aveva tentato di uccidere la ragazza per la quale si era teletrasportato nel bel mezzo di un combattimento. Il Capitano, il più vicino dei tre all’uomo, non fece in tempo a mettere KO un soldato, che si trovò a rincorrere il fuggitivo, intraprendendo con lui un combattimento corpo a corpo. Un pugno poi un altro, il pelato sembrava inarrestabile. Anche il mutante li raggiunse, entrando nel vivo dell’azione, calciando l’uomo alle spalle. Costui, caduto a terra, si trovò immobilizzato tra due auto. Ormai, era all’angolo: quello era il momento di scagliare il colpo finale. Gli artigli di adamantio brillarono al sole, come quando, appena qualche minuto prima, Wolverine era apparso davanti a Sara, deviando con i suoi unghioni la pallottola ad ella indirizzata. Quegli stessi artigli si conficcarono, con immensa cattiveria, nel torace dell’uomo che comandava la squadriglia. La rabbia verso quel militare era così tanta che fu difficile per Logan controllare quante pugnalate infliggergli e quando, finalmente, fermarsi. Quando il mutante estrasse la mano dalle ferite, i brandelli del nemico si sparsero in giro. Finalmente, aveva eliminato il più forte dei guerrieri. Una volta venuto meno lui, tutti gli altri sarebbero caduti uno dopo l’altro, pensava. Purtroppo, come spesso accade, i pensieri arrivano a soluzioni che la realtà capovolge, infatti, davanti ai suoi occhi, il soldato dall’accento straniero si rialzò e le lacerazioni, pur essendo profonde, si ricucirono nel giro di pochi secondi. Rogers deglutì pesantemente: questo non se lo sarebbe mai aspettato.
«L’hai salvata una volta, non potrai farlo per sempre.» disse, con forte inflessione tedesca ed aria trionfante, mentre ogni ferita si annullava.
«L’ultima volta che ho sentito qualcuno parlare in quel modo, il tuo popolo ha perso la guerra ed è sprofondato nella miseria.» ribatté il Capitano, sferrando un nuovo colpo.
Il pugno non sembrò nemmeno sfiorarlo «L’H.Y.D.R.A. non ha mai perso; la vera battaglia è la creazione della perfetta razza umana. Voi ci combattete, ma non siete diversi da noi e anche la vostra amica, che ora chiamate Sara, un tempo era nostra amica.» A queste parole, Logan, preso da collera, sollevò il tedesco dal terreno con una sola mano, lasciandolo con i piedi penzolanti a mezz’aria, si sentì di nuovo l’inconfondibile rumore dei suoi artigli fuoriuscirgli con rapidità dalle nocche «Che c’è? Non lo sapevi? Non solo ci era amica, ma ci ha fatto anche tanto divertire con lei...» continuò, senza ritegno, mentre un sorrisino beffardo appariva sul suo volto «A voi no? Forse non siete i suoi tipi.»
Aveva oltrepassato ogni limite, il mutante d’adamantio gli si gettò letteralmente alla gola, mentre il Capitano gli copriva le spalle, lasciando sul campo di battaglia quelli che cercavano di aiutare il loro comandante. Anche Stark, riuscito finalmente a sconfiggere coloro che lo accerchiavano, si avvicinava al capannello, formatosi attorno a Wolverine e al suo nemico.
«Per lei, non sei stato né il primo né sarai l’ultimo.» Infierì il nemico, sapendo quali fossero i punti deboli del suo avversario, tanto forte fisicamente, quanto rabbioso, se si toccavano certi argomenti. E Sara e il suo passato erano, ovviamente, tra quelli.
Wolverine, infatti,ricordava bene in che condizioni Fury l’aveva trovata, quando, in una missione per sgominare una cellula dell’H.Y.D.R.A. , aveva scoperto dei laboratori sotterranei, in cui esseri umani, come cavie, venivano sottoposti ai peggiori esperimenti e usati come armi per la distruzione dell’umanità. Tutte le gabbie sembravano vuote, le porte spalancate, come se i prigionieri avessero deciso di scappare all’improvviso. Tutte, ma non una, che si trovava in una saletta ancora più isolata. Un soldato dell’associazione era in ginocchio davanti al lucchetto che chiudeva quella sudicia prigione, intento ad armeggiare per aprirla e portare con sé la bambina che vi era rinchiusa. Fury lo agguantò e sbattendolo a terra cercò di ammanettarlo, per portarlo al quartier generale e interrogarlo. A nulla valse torchiarlo per ore: appena  dopo l’interrogatorio, fu trovato morto nella sua cella. Cianuro, una capsula piccola come una capocchia di uno spillo, ma letale come il morso di un cobra. Meglio la morte che tradire la fiducia dell’associazione. Queste erano le regole e lui non le avrebbe mai trasgredite.
Del resto, Wolverine ricordava bene anche il giorno in cui fu chiamato da Xavier, quando Sara frequentava quello che sarebbe diventato, di lì a poco, il suo ultimo anno nella Scuola.
«Logan, siediti.» aveva detto il professore, voltato verso il grande balcone, che affacciava sul giardino antistante l’Istituto. Come facesse ad accorgersi di tutto, anche quando era totalmente rivolto verso un’altra direzione era un mistero che Wolverine, a volte troppo disattento per la smania di portare a termine eclatanti gesta, piuttosto che ascoltare spiegazioni, non avrebbe mai risolto.  «Allora, come stai?» gli aveva chiesto, ruotando la sua carrozzella in direzione di Logan, che, appena entrato, era rimasto impalato davanti alla porta, biascicando qualcosa come un “Bene” poco convinto.
«Accomodati.» lo aveva invitato, di nuovo, il prof.
Il problema dei colloqui per Wolverine era uno solo: il colloquiare stesso. Parlare, mostrarsi, farsi conoscere erano atti che proprio non riusciva a compiere.
«So cosa vuoi sapere, non è per nessuna delle … chiamiamole “marachelle” che combini, quando sei in azione, che ti trovi qui. Vorrei che lo fosse, Logan, ma è un discorso più serio.» aveva intrapreso la discussione Charles, mentre il suo silenzioso interlocutore si era accomodato sulla poltroncina rossa, davanti a lui. «Sono venuto a conoscenza di un interesse che nutri nei confronti di una nostra allieva, la qual cosa mi mette di cattivo umore. È severamente vietato questo tipo di comportamento da parte di ogni professore, in ogni scuola che si rispetti. Non importa il colore, l’età e le capacità dell’alunno. È un comportamento proibito e, come tale, molte e pesanti sanzioni gli si collegano. Passi il tuo amore non corrisposto per Jean, passi la tua rivalità con Ciclope e le modalità alternative che usi durante le lezioni, mandando all’aria i nostri principi, ma questo oltrepassa ogni confine. Ho scoperto di tale situazione prima che tu stesso te ne accorgessi e sono sempre stato qui, in silenzio, in attesa che tu me lo dicessi, ma nulla. Avrei voluto, non dico molto, una richiesta di incontro, due parole scritte su un bigliettino. Invece, niente.» aveva iniziato ad ammonirlo duramente il preside.
Wolverine, era restato lì seduto, con la sua espressione accigliata, come sempre «Nemmeno leggere i pensieri dei suoi insegnanti mi sembra un atteggiamento permesso altrove.» aveva, poi, ribattuto, lasciando che Charles scuotesse il capo vigorosamente, in segno di disapprovazione. «Se è questo quello che doveva dirmi, allora me ne andrò dalla scuola e dagli X-Men, come le sue sanzioni prevedono per la mia condotta.» aveva frettolosamente concluso Logan, mostrando la sua solita fierezza e scattando dalla sedia, per andarsene
«Logan, fammi finire. Siediti!» l’aveva ripreso il più anziano e l’altro, davanti ad un tono così perentorio, aveva eseguito, pur essendo contrariato. «Sai bene che, ormai, la voce è giunta a chiunque. Le inimicizie che le provocherà sono maggiori dei vantaggi, ammesso che ci siano vantaggi nello stare con un testone come te.» aveva scherzato. Poi, si era fatto, di nuovo, serio: «So perfettamente cosa questa storia significhi per te, ma non posso fare a meno di pensare all’interesse di quella giovane. Cecilia ha subito tante brutture, che non riesci nemmeno a immaginare. Il caso mi è stato affidato direttamente da Fury, è lui che l’ha trovata. Gli ordini dello S.H.I.E.L.D. erano di distruggere un intero edificio, covo dell’H.Y.D.R.A., ma quando vi entrarono,  trovarono un piano nascosto, un sotterraneo supertecnologico che celava esseri umani, divenuti esperimenti scientifici nelle mani di quei folli. Forse, conosci già questa parte della storia e sai che, quando è stata trovata, aveva l’aspetto di una ragazzina, appena tredicenne, mal nutrita, senza capelli, con indosso una specie di camicia di forza. Nick l’ha portata con sé al quartier generale, se ne è preso cura per anni. Le ha insegnato a leggere e scrivere nella nostra lingua, le ha dato un’istruzione e ha cercato di controllare i suoi poteri. Dopo tre anni, però, ha compreso che un elemento simile non poteva rimanere rinchiuso nel suo studio a New York: doveva essere portata in un luogo in cui avrebbe incontrato coetanei con simili capacità e avrebbe potuto migliorare e sviluppare le sue doti in modo più pieno. Ecco come è arrivata da noi, ecco i mille misteri su di lei, il silenzio sulla sua provenienza, la camera singola per evitare che qualcuno la infastidisse. Probabilmente, questo ti è stato già raccontato da lei o dalla tua amica Tempesta. Quello che non sai è che loro torneranno per venirla a prendere e se ciò accadrà sarà la fine per Cecilia e per il resto del mondo.»
 
Quelle parole gli continuavano a ronzare nella testa, la scena che aveva davanti agli occhi era nitida, sebbene, in quel momento di lotta, fosse difficile restare lucidi e usare il raziocinio. Il tedesco, infatti non mollava, anzi ribatteva ad ogni colpo. Wolverine continuava a picchiarlo con vigore, ma ogni ferita, ogni piccola lacerazione si richiudeva senza provocargli alcun danno. Anzi, sembrava che quel dolore gli influisse sul cervello, facendolo diventare ancora più potente e invincibile, più forte e borioso. Rideva -quasi- e quel sorriso indirizzava ancora più in alto l’ira di Logan, che considerava ogni sua minuscola parola come un macigno che gli schiacciava il cranio e gli stritolava il fegato.
«Dimmi che le avete fatto!» urlò continuando a pensare a quella conversazione passata.
 
«Che le hanno fatto?» aveva chiesto, quel giorno,  a Charles, alzandosi, ancora una volta, dalla sedia e scaraventandosi vicino alla scrivania, dietro la quale il telepate era seduto.
«Sono informazioni riservate, meno persone ne sono a conoscenza e meglio sarà per Cecilia. Non cercare risposte a domande inutili. Pensa al futuro, ormai il passato è incancellabile, ma tu pensa al suo bene. Manca poco, Logan, tra poco la troveranno e sarà impossibile lasciarla qui. Ti chiedo solo di proteggerla, come io ho promesso a Fury e a me stesso, il primo giorno in cui l’ho visitata.»
«Dimmi che le hanno fatto, Charles!» aveva urlato. Lo ricordava, ricordava bene, quella rabbia, quella paura che una parte di lei gli sfuggisse per sempre, che divenisse per lui impossibile comprendere chi fosse davvero la ragazza che lo attraeva così tanto.
«Ascoltami, ormai non puoi fare più nulla. Lei ne è uscita, per fortuna. Tu mi devi promettere che non le ricorderai mai del suo passato. La sua mente è come il vaso di Pandora, se lo rovesci nulla più avrà lo stesso senso, dopo. Sarebbe una catastrofe! E non fare l’eroe, non cercare risposte dove non ne troverai. Se apri quel varco buio, lei ne sarà risucchiata insieme a te e a tutti coloro che ama. Non farlo Logan, sarebbe il più grande dei tuoi errori.»
 
Il ricordo si interruppe a causa delle parole del comandante del gruppo: «Nulla che non volesse.» rispose «La tua ragazza, talvolta, è stata un po’ aggressiva, ma a noi piaceva così.» riprese il soldato. «Però, dopo un po’, non si dimenava neanche più!» concluse.
Un urlo di dolore fuoriuscì dalla gola del mutante. Non aveva bisogno di sapere altro; quelle piccole e feroci allusioni, quei sorrisini. Era tutto chiaro. Non necessitava di una piena confessione e, a dirla tutta, nemmeno la voleva; non voleva sentirselo dire. Il solo pensiero, il solo immaginare cosa succedesse in quella minuscola cella alla ragazza solitaria ed educata che aveva conosciuto, gli bastava. Preso dalla furia, Wolverine conficcò gli artigli di adamantio nel collo dell’avversario. Avvertì il sangue ribollirgli nelle vene come magma che fuoriesce da un vulcano. Iniziò, così, a premere il metallo sempre più in profondità, fino a vedere zampilli color rosso acceso uscire dalla giugulare dell’avversario.
«Hail H.Y.D.R.A.!» mugugnò il tedesco. Queste furono le sue ultime parole, dopo di che quegli unghioni gli  passarono attraverso il collo, recidendogli il capo pelato. Solo così Wolverine sarebbe stato sicuro di non rivedere il militare ritornare in vita, mai più.
Il Capitano e Stark, intanto, stavano a debita distanza, concludendo il combattimento con gli ultimi soldati ancora in azione. Quando udirono le urla del loro compagno, non riuscirono a comprendere le motivazioni che lo avessero spinto ad una tale rabbia. Insomma, combattere contro un nemico così forte provoca sicuramente molto stress, soprattutto se si aggiunge che il suddetto combattente continua a provocare con ogni mezzo, ma urlare a quel modo sembrava a dir poco eccessivo. Il mutante, in preda alla furia accecante, pareva non riuscire a fermare il suo canto funesto e, come un animale selvaggio, si scostò pieno di sangue, dal cadavere del nemico, per rendere cadaveri anche gli altri militari ancora in vita.
«Wolverine, calmati!» gli intimò il Capitano più volte, ma a nulla servirono tali richiami.
«Ma cosa fa?» domandò sconvolto Iron Man, senza ricevere risposta alcuna. «Se avessi saputo che era come Banner in versione uomo verde gigante, non mi sarei sprecato tanto per averlo nella nostra squadra. Un pazzo furioso ci basta e avanza.» commentò, sempre sarcastico, il miliardario, senza, però, perdere di vista il mutante.
In quello scenario post apocalittico, i civili, ancora chiusi in macchina, madidi di sudore, cercavano disperatamente aiuto, guardando con occhi strabuzzati i due famosi eroi. Se prima erano spaventati dal gruppo di militari, ora si sentivano poco al sicuro a causa di Wolverine, che non riusciva a calmarsi per nessuna ragione. Un forte vento iniziò ad alzarsi tutto attorno. Dalle acque sottostanti il ponte, un rumore di tante enormi ventole si udì con chiarezza. Il frastuono divenne assordante, fin quando dal nulla apparve quello che sembrava un enorme sottomarino. Tutti si girarono a guardare la scena. Una gigantesca piattaforma mobile emerse, dividendo in piccoli mulinelli l’acqua del lago, mentre affiorava alla luce la grandezza del veicolo che si stagliava al lato dell’Ambassador Bridge, su cui lo scontro era avvenuto.
«Wolverine, è Nick Fury che ti parla, ritrai gli artigli e porta le mani in vista!» si udì dal veicolo volante.
L’Helicarrier fece la sua entrata trionfale, innalzandosi nel cielo, dando luogo a una tempesta di vento e polvere.
«Finalmente, Fury, volevi farci morire?» gli urlò Stark, sistemandosi la camicia, ormai ridotta in pezzi, attendendo di salire grandiosamente sul veicolo.
Il capitano, alzò il capo e salutò con la mano i suoi compagni, a bordo del quartier generale volante, comandato da una espertissima Natasha: «Vi siamo mancati?» chiese con aria sensuale, la donna, facendo aprire un piccolo sorriso sul volto di Steve, ancora sconvolto per quanto successo.
«Ehi, bestione, datti una ripulita. Finanzio una buona parte delle spese di manutenzione di quel trabiccolo, non vorrei graffi o macchie di sangue nella cabina di comando.» disse Stark in direzione del mutante, il quale, pareva essersi ripreso dallo sfogo iniziale, non senza abbandonare la sua aria accigliata e affranta.
Dall’Helicarrier venne calata la scaletta. «Forza, saltate su, non possiamo stare qui per sempre!» li incitò Tash, dando un’occhiata al ponte, sul quale avevano combattuto alacremente i tre eroi, che si arrampicavano su per le scale, fino all’entrata dell’Helicarrier.
 
 
«Allora è lei, quella che aspettavamo?» domandò una voce ignota. Sara l’udì come un’eco distante. Aveva ancora gli occhi chiusi e non voleva riaprirli; sarebbe rimasta lì, dovunque fosse stata, a sonnecchiare un altro po’.
«Wolverine mi ha detto di portarla qui. Ora devo tornare all’Istituto, prima che si accorgano della mia assenza.» rispose un’altra voce. Questa la ricordava meglio, l’aveva già sentita.
«Nightcrawler, il tuo lavoro è stato importante per noi, se ti volessi unire alla missione, sappi che te ne saremmo davvero riconoscenti.» intervenne una terza voce, profonda.
«Fury, lo sai che non posso abbandonare Tempesta e gli altri. Hanno tutti davvero bisogno di me. Per di più, devo ancora riscattarmi per essere … beh, per essere il figlio di un loro acerrimo avversario.» spiegò il demone blu col potere del teletrasporto, alludendo a colei da cui quel colore proveniva: sua madre, la temibile Mystica, la quale non costituiva più un pericolo per gli X-Men, poiché aveva perso i suoi poteri,per aiutare Magneto in una missione di conquista del genere umano. Ma, si sa, le colpe dei padri, a volte, ricadono sui figli e il giovane mutante, il cui vero nome era Kurt Wagner, aveva deciso di cambiare strada e stare al fianco di Xavier e della sua strana Accademia, divenuta per lui una seconda casa.
«Almeno pensaci e mi raccomando, non dire a nessuno quello che hai visto e sentito oggi.» lo ammonì Fury, con tono sicuro. «Fallo per lei, se lo merita. » concluse la spia dall’occhio bendato.
PUFF, si udì un’altra volta e il demone blu scomparve in un baleno.
«Vado in sala di comando a salvare quei tre idioti, la lascio nelle vostre mani.» avvertì Fury ai due uomini, che avevano assistito alla conversazione e, così dicendo, si allontanò.
«Sembra una ragazza come tante.» non poté far a meno di asserire la voce che Sara aveva sentito per prima.
«Non l’ho ancora conosciuta, ma se il suo potere è così grande, possiamo affermare con certezza che non sia proprio una “ragazza come tante”.» ribatté una seconda voce. A Sara sembrò di averla già sentita da qualche parte, ma era ancora tutto troppo distante e ovattato per poterla riconoscere.
«E così, è tutto nelle sue mani. Il bene e il male, tutto in un unico corpo. Voi umani non finirete mai di sorprendermi, una persona di questo calibro da noi sarebbe stata osannata e temuta da tutti. Sarebbe divenuta una divinità.» disse la prima voce.
«Purtroppo non siamo tutti figli di Odino.» lo schernì, appena, la seconda.
“Non siamo tutti figli di Odino …” ripeté la mutante nella sua mente. Quella voce, quella che aveva ascoltato per ultima, le ricordava qualcosa. Doveva aprire gli occhi, doveva sforzarsi di ricordare. Girò appena la testa verso destra, poi a sinistra. Si dimenò su quello che aveva tutta l’aria di essere un lettino. Era bloccata. Si sentiva in gabbia. Doveva aprire gli occhi, doveva sapere cosa stava succedendo!
«Dottore, guardi: la sua attività cerebrale sta crescendo a dismisura.» avvertì una terza voce. Era quella di un agente dello S.H.I.E.L.D. ,addetto a monitorare la mutante.
«Entro.» gli rispose, con sicurezza, la seconda voce.
«È pericoloso, i suoi livelli sono alterati!» ribatté l’agente, ma era troppo tardi: la seconda voce aveva già premuto il bottone rosso che faceva aprire la porta trasparente, per poter entrare nella stanza in cui la giovane era stata accolta. Nel mentre, la mutante continuava a combattere contro se stessa, per tentare di svegliarsi da quello stato di incoscienza nel quale era caduta.”Non sei morta, devi svegliarti.” si diceva “Devi aprire gli occhi!” e così, dopo qualche gemito di sofferenza, Sara spalancò gli occhi, come chi è stato tenuto sott’acqua per troppo tempo e, dopo, ha difficoltà a respirare e a mettere a fuoco ciò che la circonda. Guardò verso il basso e vide che era legata da stringhe nere al lettino bianco, mentre sulle braccia e sul petto le erano stati posizionati degli elettrodi rossi, che, con molta probabilità, aveva anche sul capo. Allora, erano amici o nemici quelli che l’avevano presa? Entrò nel panico, le pareva di essere tornata indietro nel tempo e quell’alone plumbeo che avvolgeva tutto non le dava modo di distinguere il luogo in cui si trovava. Eppure, era la voce di Fury quella che aveva sentito, o almeno così le pareva. Si alzò di scatto, rompendo la prima fascia che le legava il torace al lettino, ma la testa le girò vorticosamente: era ancora troppo debole per sforzi simili.
Si guardò attorno e vide le macchine che la monitoravano. Le  linee verdi e blu, che apparivano sugli schermi, si alzavano in picchi sempre più alti, mentre un fastidioso beep beep di sottofondo le massacrava i timpani, ancora troppo sensibili per sopportarlo. 
«Non riesce a calmarsi!» continuò l’agente, ansioso.
Sara si staccò con forza i piccoli cerchietti rossi che aveva sparsi ovunque. La vista era annebbiata. Le immagini si confondevano e sdoppiavano davanti ai suoi occhi. Voleva solo mettersi in piedi e fuggire, nel tentativo di capire cosa le stesse accadendo. Dov’era finito il suo salvatore, il demone blu? Era davvero Nightcrawler, come sospettava, o solo un altro infido esperimento di Teschio Rosso e dei suoi?
«Ehi!» udì una voce calma, quella che le sembrava di conoscere. Forse, la conosceva davvero, magari era un militare che l’aveva imprigionata ai tempi dell’H.Y.D.R.A.
Si liberò, anche dai lacci che le legavano le gambe e le caviglie, spezzandoli con le mani. Il beep beep delle macchine circostanti continuava a ronzarle nella testa.
«Basta» biascicò la giovane, portandosi una mano al capo. «Basta…» continuò, sconvolta e col fiatone.
«Shh sei tra amici, nell’Helicarrier dello S.H.I.E.L.D.» le disse monotona, la seconda voce, mentre si avvicinava sempre di più.
Era vero? Sara si voltò e vide una stanza completamente trasparente, il letto bianco sul quale era seduta a cavalcioni e una serie di tecnologiche apparecchiature. Fuori dal quell’immacolata infermeria, al di là di uno spesso vetro, scorse delle figure, in frenetico movimento, vestite con tute nere e auricolari bianchi che spiccavano ai lobi delle loro orecchie. Sembravano dare mille direzioni, guardare tutte gli schermi che avevano davanti per cercare risposta a quanto appariva su di loro. Lì vicino si imponeva un uomo dai lunghi capelli biondi, bardato in una corazza splendente e un mantello rosso di pregiata fattura. Sembrava uscito da un gioco di ruolo. “Non siamo tutti figli di Odino …” ripetè Sara nella sua mente, per l’ennesima volta. Poi, distolse lo sguardo da quel mucchietto di gente lontana e confusa, per rivolgerlo alla voce che l’aveva rassicurata. “Sei tra a amici” le aveva detto. “Ma quali amici?” Avrebbe voluto rispondere lei, “Non so nemmeno riconoscere dove mi trovo, figuriamoci capire chi siano i miei amici!”
«Ehy, Sara, giusto? Ciao» riprese con voce tranquilla, l’interlocutore: «Vedo che ti sei ripresa.>> disse avvicinandosi. La ragazza continuava a fissare le macchine, concentrata su quel dannato ticchettio. «Guardami, sono qui, davanti a te. Mi avvicino con calma, non ti voglio fare del male. Siamo tutti qui per aiutarti. Adesso chiamiamo Nick. So che lo conosci bene, vero?» continuò, venendo totalmente ignorato dalla ragazza, che, come un uomo del medioevo catapultato nella realtà odierna, non smetteva di stupirsi di quanto avesse attorno. «Eccomi, Sara, sto arrivando da te.» disse a pochi passi l’uomo. La giovane si sentì toccare l’omero e di colpo rivolse la sua attenzione al possessore della seconda voce. Si trovò davanti un uomo vestito di un camice bianco, sbottonato, con una cartellina in mano. Il volto, dall’incarnato quasi olivastro, era solcato da qualche piccola ruga e dei capelli bianchi spuntavano dalla sua chioma bruna.
«Io sono il dottor Bruce…»
«Banner» finì la frase la giovane, guardandolo dritto negli occhi e sperando di vedere in lui la stessa luce che risplendeva nelle sue stesse iridi. Non poteva essere, Bruce Banner, lì, davanti a lei. Era passato qualche mese dal loro incontro, poi non si erano più rivisti. Non poteva averla dimenticata. Non si dimentica qualcuno a cui si dà la peggiore delle notizie. Lo shock di quell’incontro, fece aumentare ulteriormente il battito cardiaco della giovane e la costrinse a ritrovare forza mentale e lucidità che, fino a poco prima, aveva abbandonato. La mutante alzò una mano a mezz’aria e, chiudendola come un pugno, annullò l’opera delle apparecchiature che l’avevano monitorata, facendole spegnere di colpo e, finalmente, fermando quel concerto di suoni metallici indesiderati.
«Dov’è ora?» la voce di Fury si stagliò nel silenzio calato nella stanza.
Banner continuava a guardare la giovane, incredulo, anche lui ricordava bene, benissimo, quel momento. Ogni parola gli era rimasta impressa nella memoria. Aveva cercato di trovare un modo, una via per liberarla dalle sue sofferenze, ma nessuna era possibile, nessuna avrebbe sortito l’effetto sperato. “È  solo questione di tempo.” aveva sentenziato e, da quel momento, non aveva potuto far a meno di ripeterlo tutti i giorni  anche a se stesso “Bruce,” si diceva “è solo una questione di tempo”.
La porta di vetro si aprì, Sara vide Nick che stava per varcare la soglia.
«Noi non ci siamo mai visti prima. MAI.» intimò, a bassa voce, ma con grande convinzione, al dottore, il quale poté solo annuire con un veloce cenno del capo, prima che fossero raggiunti dal passo deciso di un ignaro Fury.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3377949