La battaglia perduta

di Kathermiontrisbethlen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Atena stava seduta sul freddo pavimento di marmo della sala del trono immersa nella lettura di un antico trattato filosofico quando un rumore la fece sobbalzare.
Si alzò in piedi e notò di essere sola. Per quanto tempo era rimasta lì?
Come al solito, durante il Grande Consiglio degli Dei, tutti avevano cominciato ad azzuffarsi e incolparsi a vicenda, e lei aveva preferito rimanere in disparte perché, se aveva imparato qualcosa in quell'eternità che aveva vissuto, era proprio che la democrazia e la ragione non sarebbero mai riuscite a contrastare un grosso, grasso dio arrabbiato.
Si guardò intorno per cercare di capire da dove provenisse il rumore e notò una testa rossa scomparire dietro una colonna.
<< Ti ho visto >> sibilò Atena.
<< Allora è proprio vero che non si può nascondere nulla alla dea della conoscenza >>.
Un uomo muscoloso le andò incontro. Era bello –molto bello-. Era abbronzato e aveva folti capelli rossi e occhi del colore della tempesta, ora blu, ora verdi, ora grigio piombo.
<< Ma guarda, il grande Poseidone, dio dei mari e degli oceani, dio di tutto ciò che nuota e creatore dei cavalli. Qual buon vento ti porta qui? >>. Il sarcasmo di Atena era palese nella sua voce.
<< Anche per me è un piacere vederti Cervellona >>. Poseidone sorrise e i denti bianchi risaltarono sulla pelle scura << Ma mi dispiace informarti che non sono qui per te. Sono stato convocato per il Grande Consiglio. Sai dirmi dove sono tutti? >>.
<< La riunione è finita da un pezzo >>.
Il dio fece una faccia preoccupata che fu subito rimpiazzata da un ghigno canzonatorio. << E immagino che adesso sarò punito >>.
Atena si voltò e si incamminò verso l’uscita.
<< Ciò che fai non è affar mio. Non sono la tua balia né tua madre >>.
<< Per fortuna >> le urlò dietro Poseidone. Ma la dea aveva già lasciato il tempio.
Uscendo Atena si immerse di nuovo nel caotico mondo al quale era abituata: bambini che correvano e schiamazzavano in giro, Pegasi che volavano su in cielo e scendevano in velocissima picchiata per poi scartare solo all’ultimo secondo, attività frenetica di commercianti, botteghe, forni, bancarelle, empori e cantori che raccontavano le grandi gesta degli dei, omettendo sistematicamente il grande aiuto che ad ogni impresa davano gli umani; gli dei erano così orgogliosi, pensò Atena, così restii a ringraziare eppure così pronti a scaricare le proprie responsabilità sulle spalle dei poveri eroi e semidei. 
La dea era talmente immersa nei suoi pensieri da non prestare attenzione alla strada e da finire dritta dritta contro la persona meno gradita da lei, forse anche meno di Poseidone: suo cugino nonché dio della guerra violenta Ares.
<< E sta un po’ attenta! Oh, ma sei tu cara cuginetta >> sorrise con un ghigno malvagio.
<< Già, non sei ancora riuscito a liberarti di me >> sibilò Atena.
<< Percepisco astio e vibrazioni negative nei miei confronti o sbaglio? Su cara, propongo una tregua! Posso offrirti una spremuta di ambrosia? >> Ares continuava a parlare con una faccia beffarda e un sorriso tirato, palesemente finto ma Atena decise di assecondarlo.
<< Perché no! Accetto, cugino >> disse e si incamminò con lui verso una vicina bottega.
***
<< Allora dimmi dea, pensi ancora che la strategia in guerra sia più importante della forza? Con la ragione non si uccidono gli uomini, con la ragione non si vince! >> Ares la provocò.
<< In guerra nessuno vince >>. Atena stava perdendo la pazienza.
<< In guerra vince il più forte! Colui che ha le armi e i guerrieri migliori! >>
<< Durante le battaglie sono tutti vinti. Tutti perdono qualcosa. Chi perde la vita, chi la libertà, chi ancora il proprio regno. Tutti sono accomunati dalla perdita di qualcosa. A questo serve la strategia. A limitare le perdite, qualunque esse siano >>. La dea aveva alzato talmente tanto la voce da far voltare tutti i presenti.
<< Oh ti sbagli >> Ares quasi sussurrava, pieno di rabbia << Il mio esercito non potrà subire perdite. E io vinco sempre e vincerò tra poco! >>.
<< Quale esercito? Di che vittoria parli? >>
<< Niente, erano solo supposizioni >> Ares ghignò << Si è fatto tardi cara cuginetta >>.
<< Ares, hai davanti l’eternità >> rise Atena a disagio.
<< Già, è questo il bello >>.
                                                           ***
Atena si specchiò sulla grande parete bronzea del tempio: i capelli neri d’inchiostro le ricadevano morbidi sulle nude spalle bianche e gli occhi grandi variavano continuamente dal blu al grigio, senza sosta, veloci come i suoi pensieri.
Quella appena trascorsa era stata una strana giornata: il Consiglio, quello scocciatore di Poseidone e infine Ares; le sue parole l’avevano turbata molto e adesso non faceva altro che pensare e cercare di collegare le informazioni in suo possesso.
Per schiarirsi le idee, decise di fare ciò che faceva sempre quando era confusa: scendere nel mondo dei mortali.
Cambiò forma e diventò una bellissima donna umana, pelle di seta e corporatura esile, peplo bianco drappeggiato attorno al seno, e braccia scoperte e si materializzò all’interno del Partenone, il suo maggiore tempio in Grecia.
Le luci erano soffuse ma l’enorme statua della dea, alta dodici metri, era ben visibile, come se risplendesse di luce propria.
Atena guardò il suo doppio che le restituì uno sguardo austero e freddo. Aveva davvero quell’espressione?
Si guardò intorno e in un angolo vide le ancelle e le nobili fanciulle della città intente a ricamare il peplo sacro per la grande festa in onore della dea, chiamata Panatenee, che sarebbe arrivata di lì a pochi giorni.
Le donne lavoravano freneticamente e con estrema grazia, cucendo motivi geometrici e splendide civette di perle iridescenti.
Atena sorrise. La festa in suo onore era una grande manifestazione sacra, ricca di rituali, sacrifici, gare di tessitura e atletiche; quest’ultime erano divise in competizioni esclusive per gli ateniesi e gare aperte a tutti i greci. Le più importanti erano le gare di corsa con i carri e di lotta tra gli opliti: i vincitori sarebbero stati ricoperti di gloria eterna e avrebbero vinto anfore d’olio prodotto in città. 
Tuttavia, ben più importante dei giochi, era la processione che si concludeva con l’arrivo del peplo sacro al’interno del Partenone; per ogni oplita sarebbe stato un privilegio parteciparvi come guardie d’onore.
La grande festa si teneva ad Atene e durante la settimana di cerimonie ogni guerra era sospesa e la popolazione non lavorava, tuttavia c’era sempre grande tensione tra i cittadini: ogni anno, nello stesso periodo, a Sparta si tenevano dei festeggiamenti in onore di Ares tutt’altro che sacri o pacifici; uomini di ogni dove si recavano in città per partecipare a combattimenti sanguinosi e gare di spada o lancia mortali. Spesso durante questi giochi venivano attuate campagne militari contro le città vicine, del tutto indifese, che venivano saccheggiate.
Era interesse di ogni ateniese surclassare i festeggiamenti spartani e per fare ciò impiegavano ogni risorsa e ogni uomo a loro disposizione.
Ares.
Ogni volta che la dea pensava al cugino, un brivido le passava lungo la schiena; era sicura che lui avesse qualcosa di oscuro in mente.
Doveva riuscire ad ottenere più informazioni e c’era solo un modo per averne.
Atena usci velocemente dal maestoso tempio, si nascose dietro una colonna, si trasformò in una bellissima civetta e volò in direzione di Sparta; era sicura che lì avrebbe trovato qualcosa e poi, che male c’era nello spiare un po’ gli avversari?
La civetta si muoveva velocissima fendendo il vento con le ali e scrutando il paesaggio in basso con i piccoli occhi da rapace. 
In pochi minuti il rapace atterrò su un alto ramo e si guardò intorno. Subito si slanciò in avanti e si lasciò cadere dall’albero riacquistando la sua forma mortale e atterrando agilmente sul terreno morbido.
Atena si incamminò verso il centro cittadino e una volta arrivata in piazza notò una grande folla che confabulava.
Provò ad avvicinarsi ma un soldato la respinse indietro: << Questa è un’assemblea di soli uomini >>.
La dea lo guardò negli occhi ed egli cambiò espressione, sfoggiando sul volto un sorriso pacifico e addormentato e scostandosi per farla passare.
La donna allora si coprì il capo con la stoffa e avanzò tra la folla prestando attenzione alle parole che venivano pronunciate.
<< Se proviamo ad attaccare sarà la guerra! >> urlò qualcuno accanto a lei.
<< La guerra porta alla carestia… morte,dolore! >>. Le grida si confondevano in un coro di voci stonate.
<< Uomini,compagni! >> una voce possente sovrastò tutte le altre e azzittì i presenti come per magia.
<< Dobbiamo attaccare e lottare o verremo schiacciati. Stiamo già rischiando di affondare, di soccombere sotto la sua egemonia, dobbiamo ribellarci, dobbiamo imporci. Dobbiamo distruggere Atene! >>
La dea sgranò gli occhi e rimase senza fiato. Chi era il pazzo che aveva preso questa decisione?
L’uomo continuò: << Dobbiamo attaccare durante i giorni di festa in onore di quella dea. Dobbiamo coglierli impreparati e massacrare donne, bambini, uomini. Dobbiamo liberarci dalla schiacciante fama di Atene. Dobbiamo ottenere il potere. Chi è con me? >>
Si sollevò un brusio indistinto di voci ma nessuno ebbe il coraggio di parlare.
La folla si disperse pian piano, lasciando sospesa la domanda dell’uomo dagli occhi neri come pece, stranamente familiari ad Atena.
La dea rimase in piedi sulla piazza, sconvolta e senza parole, cercando di riconoscere quel volto spigoloso e quegli occhi terrificanti.
Davanti agli occhi le passavano scene di massacri, vite perse e territori resi aridi dal sangue versato da innocenti.
Capì cosa doveva fare e si materializzò subito sull’Olimpo.

***
<< Padre, ti dico che l’ho sentito! >>
<< Basta Atena! Hai già detto tutto ciò che dovevi. Ripeto che nessun rivoltoso vuole attaccare la tua amata città, nessuno Spartano si sognerebbe di scontrarsi con l’esercito più potente al mondo!
E se così non fosse, io lo saprei! Sono il dio del cielo, il più importante, io so tutto e vedo tutto. >>
<< Padre ti prego ascoltami, evitiamo spargimenti di sangue, neutralizziamo questa… >>
Era, che fino a quel momento era rimasta zitta, intervenne a favore del marito: << Non c’è nulla da neutralizzare! Quell’uomo che hai sentito sarà un pazzo! Nessuno lo seguirà! Credi che sia possibile? Non voglio più sentir parlare di ciò. Pensa invece a prepararti per le grandi Panatenee. Avvengono una volta ogni quattro anni, ti consiglierei di evitare di rovinarle alla tua amata città >>.
Atena alzò gli occhi e incontrò quelli del padre che erano stranamente vacui, senza espressione. Era la guardava corrucciata in viso e visibilmente irritata.
Atena allora si voltò e corse via dal tempio Olimpico. Suo padre non l’aveva mai trattata in questa maniera e le aveva sempre creduto, qualunque cosa dicesse. 
Tutto ciò non sembrava minimamente sfiorare Zeus ed Era, né gli altri dei.
Forse avevano ragione e Atena stava solo viaggiando troppo con la mente. Ma allora come spiegare la sensazione di angoscia che sentiva nello stomaco?

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


<< Tieni alto lo scudo, Arethas! >> urlò il generale << Ti potrei infilzare da un momento all’altro se solo lo volessi >>.
Arethas indietreggiò velocemente; il combattimento con il generale era durato solo pochi minuti e lui aveva rischiato di morire circa venti volte.
Il sudore gli imperlava la fronte e ogni singolo muscolo del suo corpo era contratto spasmodicamente, teso e pronto a scattare.
Il soldato strinse la spada sempre più forte nella mano destra, fino a che le nocche non divennero bianche per lo sforzo.
Era stanco, provato, ma non poteva arrendersi: doveva seguire i consigli del generale e tenere duro.
<< Ricorda: la spada ferisce ma lo scudo salva la tua vita e quella del compagno alla tua sinistra. Devi essere forte, ben saldo e pronto >>.
Facile, pensò Arethas, per un soldato come lui: Carthos l’Ateniese, generale massimo dell’esercito della città, conosciuto ovunque in Grecia, aveva portato i suoi opliti a numerose e incredibili vittorie; era un ingegnoso stratega, sicuramente caro ad Atena, e un bellissimo uomo: alto ma non per questo goffo, aveva bruni capelli ricci che ricadevano armoniosamente sui grandi occhi neri e profondi, dal taglio perfetto. Attraverso la corta veste e l’armatura si scorgevano muscoli pronunciati, dovuti a numerose ore di allenamento e, quando indossava l’elmo, incuteva un’enorme timore ai propri avversari.
Arethas ancora non capiva perché egli lo allenasse personalmente: era forse troppo debole? Poco disciplinato? Sicuramente era estenuato dalle lunghe sessioni di addestramento: delle volte Carthos lo costringeva a faticare fino a notte fonda, correndo insieme per l’agorà o facendo flessioni.
<< Per questa sera basta così, oplita, và a casa. >>
<< Grazie Carthos. >> sussurò Arethas, cadendo sfinito al suolo.
Il generale gli si avvicinò, gli porse una mano, forte e salda, che il soldato afferrò e lo aiutò ad alzarsi.
<< Combatti per il tuo generale… >> iniziò Carthos, << … e muori per esso! >> concluse Arethas.
<< Sei un bravo giovane, soldato, e diventerai presto un grande oplita >>
Il giovane sorrise; un così grande uomo lo stimava profondamente e lui era l’ultimo dei combattenti di un’enorme esercito.
<< Generale, farò come tu vorrai e ti prometto che vincerò i giochi in onore di Atena che avverranno tra pochi giorni. Ti renderò fiero di me >>
<< Lo sono già Arethas. Adesso và >>.
Il giovane raccolse spada e scudo e si allontanò in fretta, mentre Carthos lo osservava da lontano. Il soldato era alto e magro, forte di braccia, veloce nella corsa ed estremamente determinato: se perdeva ripetutamente nel duello non si arrendeva, si rialzava da ogni caduta e si rimetteva in posizione con un luccichio di tenacia negli occhi blu; provava e riprovava fino allo sfinimento e, secondo Carthos, era il perfetto modello di soldato, forte e soprattutto intelligente: vedeva un grande destino per lui.
 
Arethas era sfinito dal duro addestramento ma si riscosse: prima di raggiungere la sua umile dimora alle porte della città si sarebbe recato al Partenone per sacrificare un animale alla dea e rendere grazie.
Salì i gradini che lo separavano dal tempio e vi entrò con passo felpato, cercando di non fare rumore, e si addentrò tra le colonne, fino a raggiungere l’immensa e aurea statua della dea, che lo lasciava a bocca aperta ogni volta che vi si trovava davanti.
Si inginocchiò ai suoi piedi e, dopo aver sacrificato alla divinità un capretto, iniziò a pregare.
Dopo alcuni istanti chiuse gli occhi e gli apparì in mente la figura del generale Carthos. Lo immaginava muoversi sinuoso, sferrando attacchi con la spada e difendendosi con il grande scudo bronzeo.
Il giovane pregò Atena anche per lui, affinché fosse sempre in grado di dirigere il suo esercito.
Si alzò in piedi e uscì dal tempio, con l’ansia che gli montava dentro, e si diresse verso casa.
Non voleva ammetterlo, ma aveva molta paura. Temeva di non riuscire a vincere le gare ginniche, di non essere in grado di competere contro i più grandi guerrieri e di perdere miseramente.
Eppure era stato il generale Carthos a persuaderlo a partecipare.
<< Tu parteciperai soldato, sei in gamba e hai le carte in regola per vincere. Non sarai il più forte o il più veloce, ma sei furbo, uno stratega e Atena ti protegge. Parteciperai e mi renderai fiero >>.
Le parole pronunciate dal generale gli rimbombavano in testa anche se erano passati mesi da quando erano state pronunciate. Mesi di dura fatica e lavoro, in cui Arethas si era allenato nel tiro con il giavellotto, nella corsa con i carri, a piedi e soprattutto nelle lotte tra opliti; mesi trascorsi al fianco di Carthos, ormai una guida, un mentore per il soldato.
Arethas attraversò l’uscio dell’umile dimora che abitava da solo e, con fare stanco, raggiunse il piccolo tavolo sul quale era poggiato un catino pieno d’acqua; si sciacquò con cura e lavò via le tracce di fango e sudore che gli erano rimaste addosso.
Si spogliò della sporca tunica e dei calzari e si diresse verso il sacco colmo di paglia che utilizzava come letto. Vi si distese e rimase a guardare il tetto della casa, senza riuscire ad addormentarsi: l’indomani sarebbe stata la vigilia dell’inizio dei giochi e della processione, il giorno in cui avrebbe dovuto dimostrare le sue capacità e, magari, avrebbe ottenuto l’incarico di guardia d’onore.
Chiuse gli occhi, compose una muta preghiera ad Atena e si addormentò subito, sfinito dalla lunga ed estenuante giornata.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 ***


 
Carthos aprì gli occhi all’alba, come di consueto, disturbato da un raggio di sole che filtrava tra le assi del soffitto.
C’era qualcosa però che lo rendeva irrequieto, come un brutto presentimento: non aveva fatto altro che rigirarsi tutta la notte, ed era riuscito a riposare solo poche ore.
Si levò dal letto e cominciò a lavarsi e vestirsi scrupolosamente: l’acqua fresca gli rinfrescava il volto stanco e la bianca tunica pulita gli cadeva morbidamente sui muscoli, alleviando la calura dell’afosa giornata di fine luglio.
Afferrò la sua fedele spada che giaceva sul letto e la studiò attentamente: lunga circa un metro, perfettamente bilanciata, di ferro nero con l’elsa decorata da rubini rosso sangue; era perfetta per lui, non lo affaticava tenerla in mano e quando la usava nelle lotte la sentiva come una parte di sé, quasi come se fosse il prolungamento del suo braccio.
Afferrò elmo e scudo e uscì di casa, desideroso di dirigersi presso il Partenone, dove avrebbe dovuto incontrare i suoi soldati prima della scelta delle guardie d’onore per la processione del pomeriggio.
Camminò lentamente, gustandosi la vista del sole ancora basso sulla città e l’odore dei gelsomini in fiore, calciando le pietre che incontrava sul sentiero.
Raggiunse in poco tempo l’acropoli e, con sua grande sorpresa, vi trovò tutti i suoi opliti, in netto anticipo: stavano correndo e facendo flessioni, pronti a una nuova ed estenuante giornata; tra loro scorse anche Arethas.
<< Soldati! >> urlò Carthos, riuscendo ad ottenere l’attenzione; tutti i giovani si sistemarono in fila di fronte al generale.
<< Oggi è un grande giorno: uno di voi verrà scelto e diventerà guardia d’onore insieme a me e ad altri cinque generali. >>
Fece una pausa studiando lo sguardo dei giovani uomini che aveva di fronte, impauriti, timorosi, nervosi, quando incontrò gli occhi di Arethas: non c’era tensione nei suoi grandi occhi blu, né un minimo di dubbio; Carthos vi scorgeva solo tenacia.
Alzò gli occhi al cielo e riprese: << Una guardia d’onore deve essere uno stratega, prima che un  guerriero. Deve difendere la sua patria, i suoi uomini e per farlo bisogna che sia astuto; poprio con questo spirito vi sfiderete oggi. Lasciate gli scudi, soldati. >>
Le sue parole stupirono i giovani che, riluttanti, sistemarono le armi accanto alle bianche colonne del tempio e si organizzarono in una lunga fila orizzontale.
Carthos cominciò a elencare le regole del gioco: ogni uomo avrebbe finto di essere un generale e esposto la propria strategia d’attacco contro l’esercito nemico.
I soldati presero la sfida sul serio, ma il generale si accorgeva sempre più di come fossero uomini che puntavano solo sulla propria forza bruta: attacchi frontali, sfide singole tra generali nemici, assalti.
Ad uno ad uno scartava gli opliti, fino a quando non arrivò il turno di Arethas che cominciò a parlare di stratagemmi e astuzie, di attacchi laterali affidati a piccole circoscrizioni e di strategie di difesa: era talmente appassionato e convincente che tutti si fermarono ad ascoltarlo ammaliati, senza accorgersi del tempo che passava.
Quando finì, Carthos si alzò in piedi, senza parlare, annuì e si allontanò.
Al suo ritorno reggeva in mano un elmo di bronzo lucidissimo che rifletteva i raggi del sole e sembrava brillare di luce propria.
C’era un religioso silenzio attorno al generale, si sentiva solo il vento soffiare tra i rami di quei pochi ulivi argentei che profumavano l’acropoli; perfino gli uccelli si erano zittiti.
Carthos alzò l’elmo e lo posò delicatamente sulla ricciuta testa corvina di Arethas che gli restituì uno sguardo a metà fra lo spaesato e lo sconcertato e, dopo qualche secondo, si levarono urla di gioia e congratulazioni tra i compagni soldati; nessuno era invidioso o geloso, tutti conoscevano e stimavano le capacità del giovane ed erano sicuri che avrebbe portato a termine il suo compito.
Tra i canti e le risate degli amici, Arethas cercava solo un paio di occhi, quelli profondi come gli abissi del suo generale; li trovò che lo stavano fissando, colmi di stima e di orgoglio.
E in quel preciso momento Arethas capì che era l’uomo più fortunato del mondo.
Quanto vale uno sguardo? Può sanarci e distruggerci, plasmarci e disfarci e può farci sentire immensamente adeguati; ed era così che il soldato si sentiva: non aveva timore o ansia, sapeva che, se il suo generale aveva scelto lui, sarebbe stato pienamente adeguato al suo compito.

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