I Veglianti di Synt

di fragolottina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


I Veglianti di Synt ehm...
lo sto facendo?
no, intendo lo sto facendo davvero?
ehm... diciamo che ci sto provando.
ho paura.


PROLOGO

    «Ciao, Helen», salutò il Signor Douquette entrando nella stanza.
    «Signor Douquette», ricambiò lei, tranquilla. Aveva i polsi stretti in un paio di manette fermate al tavolo, ma non sembrava curarsene.
    «Abbiamo preso nota della tua lista», iniziò.
    «Lo so».
    «Un po’ scarsa».
    «Lo so», confermò. «Le avevo detto che alla lunga avrebbero imparato».
    «Già», rifletté lui. «Idee per risolvere la questione?».
    Helen sorrise assottigliando lo sguardo. «Mortificata di non poterla aiutare».
    «Sa, negli ultimi tempi sua madre non è stata molto collaborativa».
    Per alcuni secondi Helen rimase in silenzio, poi indietreggiò appoggiandosi allo schienale della sedia. «È davvero venuto fin qui per minacciarmi, signor Douquette?», domandò. «Lo trovo poco furbo».
    «Se lei non collabora ho promesso di ucciderti».
    Helen arricciò le labbra in una smorfia dispiaciuta. «Oh, e privarsi così del mio spiccato intuito?», domandò. «Poi chi la aiuterà a fare i gruppi? Chi le dirà “Veggente. Vegliante. Umano”?».
    Logan Douquette la fissò in silenzio per un lungo momento. «Tu sai dov’è. Non è vero?».
    Helen rise e si appoggiò allo schienale della sedia. «Io so tutto».
    L’uomo si alzò, fiero della sua superiorità, legata com’era Helen Dandley non poteva alzarsi. Poteva fare la presuntuosa quanto voleva, poteva fingere di avere il controllo; ma non ce l’aveva, era in catene.
    «Ricordi il ragazzo con i capelli rossi?», le chiese. «Quando non hai aggiunto il nome alla tua lista l’hai pagata cara, avevi ancora un padre quando ci siamo resi conti della tua svista».
    Helen rimase zitta.
    «Credo che dovresti rivedere le tue posizioni, hai ancora uno zio ed una madre».
    Si voltò e fece per dirigersi verso la porta blindata.
    «È servito?».
    Logan Douquette aveva già una mano sulla porta e sapeva con ogni fibra del suo essere che voltarsi, guardarla, affrontarla, sarebbe stato un errore. Si girò e la fissò.
    «Ho messo il ragazzo dai capelli rossi nel mucchietto sbagliato», Helen sorrise. «Uccidere mio padre ha davvero riparato il mio errore».
    Questa volta lui fu costretto a rimanere zitto.
    «Io. So. Tutto», ripeté lentamente. «Anche le conseguenze delle mie azioni».
    Silenzio.
    «E lei sa a cosa porteranno le sue azioni?».


non riesco a credere che lo sto facendo.
Fragolottina.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


I Veglianti di Synt ciao...
è bello sapere che ci siete ancora, è stata una cosa molto dolce, l'ho apprezzato, voglio che lo sappiate.
ad ogni modo, alcune di voi mi avevano suggerito di mettere tutto in terza persona... è stata una buona dritta mi piace, viene meglio, grazie.
fatemi sapere se piace anche a  voi.


CAPITOLO 1


    Si fermò davanti al nastro trasportatore in attesa delle proprie valigie, studiava il proprio cellulare che, dopo circa un giorno di arresto forzato in aereo, non sembrava smettere di notificarle cose. Non prestava troppa attenzione, aveva un set di valigie verde menta, era piuttosto certa che le avrebbe riconosciute.
    Un bambino le passò davanti, incerto nei suoi primi passi, e lei allungò una mano per afferrarlo un secondo prima che un uomo lo travolgesse. A volte sentiva che il problema era semplicemente la poca attenzione che le persone davano alle cose importanti. Quindi si rimise il telefono nella tasca della giacca.
    I genitori la ringraziarono in giapponese, mentre due signori in un completo elegante, pantalone nero e giacca petrolio, le si avvicinarono.
    «Minorou Lynn?», la chiamarono.
    Lei alzò gli occhi e lanciò loro uno sguardo, avevano la stessa espressione tonta di Zach quando faceva qualcosa di stupido, ma il suo cervellino da maschio non voleva saperne di chiedere aiuto.
    «Eccomi», rispose lei, affatto sorpresa.
    «Vorremmo che ci seguisse, se non le spiace», le disse il primo afferrandole il braccio con poco garbo e rendendo abbastanza superfluo quel così cortese “se non le spiace”.
    «Per la sua sicurezza la LTP ritiene di doverla scortare fino a Synt», spiegò il secondo.
    «Ma le mie valigie!», si lamentò Lynn cercando di opporsi a quella specie di rapimento.
    «Sono già state ritirate e perquisite».
    Si fermò, i due uomini rallentarono guardinghi, uno dei due – quello più tonto – arrivò addirittura a portarsi la mano destra all’interno della giacca, probabilmente aveva una pistola.
    Lynn si strinse nelle spalle. «D’accordo, allora», si arrese e si lasciò trascinare via mentre rimpiangeva di non aver mandato un messaggio a Nate. C’erano delle priorità, lo sapeva, ma non voleva trascurarlo.
    In una delle sue valigie la LTP aveva trovato una katana, diverse armi bianche più piccole, qualche pistola ed un pacco di marshmallows al mandarino – impossibili da trovare in occidente. Le avevano chiesto perché viaggiasse così armata, aveva risposto che si trattava di regalini dall’oriente.
    Considerando che l’avevano portata dentro un’auto, infilata sul sedile del passeggero tra due omoni e – cosa di gran lunga peggiore di tutte – le avevano sequestrato il cellulare, sospettava che non l’avessero creduta.

    Becky guardò Nate rigirarsi il termometro in bocca, chiudere il computer e lanciarle un’occhiata fugace, prima di recuperare il laptop ed allontanarsi dalla palestra. Dopo varie perlustrazioni notturne in punta di piedi, avevano scoperto un punto cieco nel sistema di controllo interno piazzato dai Veglianti di Wood.
Sapevano tutti che se fosse tornato avrebbe capito, ma finché in caserma c’erano solo i suoi Veglianti potevano dormire sonni tranquilli.
    Indietreggiò di un passo ed il Vegliante che si stava allenando con lei finì a terra ai suoi piedi. Becky si rannicchiò davanti a lui e si abbracciò le ginocchia con le braccia.
    «Sono un po’ stanca di vincere», osservò.
    Il Vegliante rise e rotolò sulla schiena osservandola con lo sguardo assottigliato. «Cavolo, non ti sei nemmeno spettinata!», sbottò, indicando con un cenno i capelli di Becky, ordinatamente intrecciati come quella mattina.
    I Veglianti di Wood non erano orribili, non tutti almeno. Era stata una lezione dura da imparare, ma alla fine Becky aveva convenuto che potesse succedere: Jean era stata una Vegliante di Wood ed era okay, Josh era stato un Vegliante di Wood ed era… beh, Josh.
    Il ragazzo con il quale si stava allenando in quel momento, per esempio, aveva la sua stessa età, erano stati scelti alla stessa Asta. Avevano passato ore a fare gli increduli e scambiarsi informazioni. Era un ragazzo simpatico, in gamba…
    Bugiardo, le suggerì la propria coscienza.
    Non esattamente, insomma, poteva semplicemente essere carino.
    Si erano conosciuti durante il programma di supporto al quale li aveva obbligati Wood. Li aveva riuniti ed aveva spiegato loro che troppe perdite avevano minato la loro coscienza, erano diventati aggressivi come un branco di lupi, troppo legati al nucleo strettissimo che avevano creato tra loro.
    Per un mese li avevano divisi.
    Becky era stata rinchiusa in una stanza per tutto il mese. Andavano a farle visita uno psicologo ed un medico; la incoraggiavano a parlare di tutto, le consigliavano di parlare di Zach. E lei aveva obbedito, che avrebbe potuto fare? Aveva raccontato della sua reclusione, di come Romeo l’aveva minacciata giorno e notte in cambio di informazioni; aveva pianto quando aveva ammesso di essersi fatta sfuggire qualcosa. La dottoressa l’aveva abbracciata, Wood stesso l’aveva consolata e rassicurata che nessuno avrebbe potuto pretendere più da una ragazza così giovane, ma così coraggiosa.
    Felice della sua collaborazione le avevano concesso delle visite, aveva chiesto di Matt, le avevano risposto che era tempo di fare nuove amicizie.
    Dean e Serena andavano e mangiavano con lei ogni giorno.
    Becky mangiava con loro, rideva, scherzava, faceva amicizia.
    Mai mele, non mangiava niente che avesse uno strano odore.
    «Come fai ad essere così più brava di me?», piagnucolò Dean ancora sdraiato sotto di lei.
    «Allenamenti da cheerleader», rispose divertita. «È un mondo spietato, che vuoi che sia in confronto il terrorismo di Romeo?», si era tirata indietro i capelli con un colpetto, come un gran dama, ma quando l’aveva guardato di sottecchi si era lasciata sfuggire un sorriso ed aveva lanciato un urletto quando aveva cercato di buttarla per terra.
    «È così che vi allenate voi due?», li rimproverò Serena con le mani ai fianchi.
    Becky la guardò ridendo. Dean e Serena erano fratelli gemelli ed erano entrambi molto belli, avevano i capelli neri, gli occhi blu e pelle pallida come porcellana; però non erano troppo vanitosi o arroganti, anzi, erano entrambi molto semplici. Sembrava che piacesse loro per davvero.
    «Non fare la bacchettona, Serena», si lamentò Dean.
    «Sei di ronda stasera?», le domandò Becky.
    Scosse la testa e si sedette vicino a loro a gambe incrociate. «Che dite se usciamo a mangiare qualcosa?», propose.
    Tutti e due guardarono Becky. «Perché no?», rispose lei raddrizzandosi.

    Becky raggiunse la sua stanza e trovò Courtney seduta sulla sedia davanti allo specchio, con le mani sul viso.
    «Ha di nuovo vinto lui?», le chiese.
    «Ah. Ah», sbottò lei. «Un peccato che io non sia dell’umore per godermi il tuo spiccato senso comico».
    Si sfilò le scarpe da ginnastica ed iniziò a togliersi la tuta.
    «Esci?», le chiese Courtney.
    Becky tirò fuori una paio di pantacollant al polpaccio ed una minigonna di jeans, poi una maglietta a maniche corte, sempre nera, ed un top rosa fluo. «Andiamo a mangiare a Synt interna, vuoi venire?». Sgomitò dentro ai capi fino ad uscirne nel modo giusto.
    «Con i tuoi nuovi amici?», continuò a domandare.
    Recuperò mascara, eye liner e lucidalabbra. «Ah-ah», rispose concentrata sulle sue palpebre e le sue ciglia.
    «Penso che passerò». Sospirò la sua compagna di stanza. Non ce n’erano abbastanza nella caserma di Synt, di stanze, la prima idea era stata mischiarli con gli altri, ma Courtney aveva fatto trovare la sua coinquilina legata alla rete del letto.
    Legata sotto la rete del letto.
    Il giorno dopo le era arrivata una scatola di cioccolatini tramite corriere.
    Jared aveva dato i numeri, le loro urla si erano sentite per tutta la caserma.
    Becky le lanciò un’occhiata. «Non dovresti essere così chiusa, è poco pratico in una situazione del genere, non credi?».
    Courtney era ogni giorno un po’ più bella. Ogni giorno i suoi movimenti erano più fluidi, i suoi sguardi più luminosi, più diretti, aveva un modo di parlare, modulare la voce ed atteggiare le labbra, che la rendevano spietatamente sexy. Era un modo di essere seducente che non le sarebbe mai appartenuto. Erano diverse in ogni fibra del loro essere, per questo non andavano molto d’accordo. Si rispettavano ed aiutavano, con molta probabilità si volevano anche bene, ma non andavano d’accordo.
    «I patti erano che ognuno avrebbe gestito al situazione come gli veniva meglio», le ricordò, con uno sguardo percorse tutta la sua figura, lasciando trapelare con gli occhi quanto fosse contrariata di come Becky stesse gestendo la situazione. Si alzò in piedi e sciolse i capelli, smuovendoli sulle spalle per cercare di eliminare i segni dell’elastico.
    «E poi oggi ho pranzato con Amanda, l’ho trovata piacevole».
    Becky infilò un braccio sotto il letto e tastò il pavimento polveroso fino a trovare gli scarponcini che aveva comprato quando lei e Serena erano andata a fare shopping. Davanti ad un frullato alla fragola le aveva confessato i suoi sospetti sul fatto che il fratello avesse una cotta per lei.
    Becky aveva abbassato lo sguardo sulla propria bibita sigillata, incerta; aveva risposto che trovava Dean molto carino, ma non sapeva ancora come si sarebbe comportata. Fraternamente, Serena aveva allungato una mano ed aveva stretto la sua, dichiarando che l’avrebbero scoperto insieme.
    «Non trovi strano che tu abbia deciso di legare con quella che vuole uccidermi?».
    Courtney si strinse nelle spalle, mentre si avvicinava alla sua scrivania e strappava un pezzo di carta da un quaderno. «In realtà mi è sembrata l’unica via praticabile», spiegò e stappò una penna. «Sai già dove andrete?».
    «Probabilmente in quella pizzeria davanti alla farmacia».
    «Perfetto». Si alzò appiccicò il foglietto allo specchio con uno sbaffo del lucidalabbra di Becky, poi spostò lo specchio davanti alla finestra.

B esce con quei due mostriciattoli.
Cenano a Synt interna da Jammy.
Datele un’occhiata.
Di ronda ci sono solo quelli di W.
Non fatevi prendere.
Grazie della cioccolata a quando un frozen yogurt?
C.


    Romeo lesse il biglietto e recuperò il proprio telefono.
    «Chi c’è per Becky?», chiese ad Ofelia.
    «Io e Stu», rispose lei.
    «Ci sono i gemelli», la avvisò.
    «L’ho visto», la sentì sospirare. «Non mi piace come quei due le stanno sempre intorno».
    «Quei due obbediscono».
    Rimise il telefono ed il binocolo in tasca, poi si appoggiò con i gomiti alla cornice della finestra e rimase a guardare la caserma. Da quando c’erano i Veglianti di Wood – in particolar modo Dean e Serena – cercavano di essere cauti. Non ne erano ancora sicuri, ci stavano arrivando, ma sospettava che quei due non fossero niente di buono, altrimenti di certo Wood non li avrebbe lasciati lì in sua vece.
    Aveva studiato a lungo la situazione, c’era un vice Responsabile fittizio, arrivato insieme a Wood, che, secondo quanto detto da lui, era l’uomo di cui si fidava e che li avrebbe aiutati a Synt. Poteva anche essere possibile, però aveva aspettato che arrivassero quei due gemelli prima di allontanarsi.
    Da quando sulla tavola c’erano così tante incognite impazzite era difficile tenere le fila di tutto. Gli venne un po’ da ridere a pensare che aveva dei problemi a manipolare tutti, si chiese come se la cavasse 
lei.
    Un vociare richiamò la sua attenzione, lentamente Romeo si ritirò nascondendosi nell’ombra, mentre i Veglianti di ronda passavano sotto il palazzo.
    Stava per andarsene, ma lanciò un’ultima occhiata alla finestra di Courtney.
    Sapeva che vedeva, sapeva che avrebbero comunque mandato qualcuno per Becky.
    Sorrise.
    Aspettò di essersi allontanato abbastanza dai Veglianti, prima di recuperare sigaretta ed accendino. Il suo cellulare vibrò nella tasca. C’era un messaggio da un numero che non aveva registrato.
    Portami un paio di scarpe.

    Erano già stati a mangiare da Jammy.
    Prima che arrivassero in città i Veglianti di Wood, Becky non aveva esplorato molto Synt; erano stati tutti così preoccupati di metterla in guardia sui pericoli, sui rischi, sullo stare in guardia, da farle quasi dimenticare che, la zona interna almeno, era piuttosto pacifica.
    Il coprifuoco lì era posticipato di un’ora e, seduti al locale a mangiare pizza, senza giacche verdi, erano esattamente come tutte le altre persone.
    Dean e Serena le avevano raccontato che Wood li obbligava a comportarsi da ragazzi normali una volta alla settima: in quel giorno non avevano ordini, non avevano missioni, non erano obbligati a mangiare in caserma, non dovevano render conto a nessuno.
    Becky sorrise e pensò a sua madre: non cercò di spiegare loro che anche rendere conto a qualcuno significava normalità.
    «Potresti farti trasferire», buttò lì Serena.
    Becky sgranò gli occhi senza parlare, intenta com’era ad inseguire un filo di mozzarella sulla sua pizza. Masticò e deglutì più in fretta di quanto avrebbe voluto.
    «Come?», chiese stupita.
    «Ma certo!», rimarcò. «Così quando noi torneremo a Los Angeles tu verresti con noi».
    Becky arricciò il naso non esattamente convinta. «Ma si può fare?».
    Dean si strinse nelle spalle. «I Responsabili si scambiano i Veglianti di continuo e poi hai detto che Wood era interessato a te, no?».
    «Sì, ma… era più interessato a me come un manichino».
    «Okay, ma non sei mica la stessa ragazza ingenua che era all’Asta», la rimproverò Serena. «Hai dimostrato a tutti di avere talento, Wood è intelligente, sono sicura che ha rimpianto quella decisione».
    «Potremo lasciare a Synt quella rompipalle di Amanda ed il suo boy-Kingley-inutile e prenderci te e…». Dean si interruppe pensandoci su. «Mm… mi sa che quello più utile sarebbe Matt».
    Becky si morse il labbro e lanciò un’occhiata a Serena, che sbuffò sconsolata.
    «Oh, Becky!», la rimproverò. «Stiamo parlando di un ragazzo piuttosto leggero, non credi?», sbottò indovinando i suoi pensieri.
    «Non è proprio così che definirei Zach», rifletté.
    «No?», rimarcò incredula lei. «È venuto qui e si è messo con Lindsey. Poi è arrivata Courtney e lui ha annusato da un’altra parte, poi sei arrivata tu ed ha scodinzolato fin lì», riassunse. «Cosa possiamo dedurre da questo».
    «Che gli piacciono le ragazze con i nomi che finiscono con “y”?».
    Serena sbatté le palpebre osservandola. «Anche. Ma soprattutto che gli piacciono tutte le ragazze che gli passano abbastanza vicino».
    «Poco lusinghiero», commentò semplicemente Dean, Becky apprezzò che avesse deciso di rimanere in disparte da quel discorso.
    Becky sospirò. «Non ho detto che è perfetto, né che aspetto il suo ritorno con trepidante attesa, né che credo sia innamorato di me», si fermò con una smorfia. «Non so più nemmeno io cosa provo per lui». Non volendo lanciò un’occhiata a Dean che la fissava serio. «Ma sono sicura che se non torna e non ci parlo, una volta per tutte, non lo saprò mai e resterò con questo dubbio», concluse.
    «D’accordo», concesse Serena. «Ma tu sei proprio sicura che lui si faccia i tuoi stessi problemi?».

     Zach entrò nella sua stanza.
    Aveva affittato una camera in un motel, la pagava facendo le pulizie in una palestra poco distante.
    Faceva ogni volta il tragitto di corsa perché non aveva più un tapis roulant, però Courtney aveva appoggiato sopra un secchio dell’immondizia un sacchetto di plastica con dentro il suo lettore mp3.
    Come tutti i giorni sul tavolo c’era la cena, era Jamie a portargliela.
    Sapeva che stava nel suo stesso motel e sapeva anche quale, delle macchine parcheggiate fuori, era la sua.
    Però non lo importunava, lo controllava da lontano senza interferire.
    Si sedette a tavola e scoperchiò la scatola del proprio hamburger.
    Doveva tornare a Synt.
    Diede un morso.
    Voleva tornare a Synt?
    Si alzò per prendere una bottiglia d’acqua.
    No, non voleva tornare a Synt.
    Non voleva stare in un posto per cui suo padre l’aveva plasmato.
    La prima volta che aveva parlato con Romeo non aveva capito. Per un mese intero era rimasto a Synt aspettando che gli altri uscissero dall’isolamento. Stare fermo in attesa l’aveva fatto pensare, l’aveva costretto a farlo. Aveva metaforicamente messo mano ai propri ricordi ed aveva iniziato a fare ordine.
    Per la prima volta ogni cosa aveva trovato il suo posto: ora sapeva il perché di tante situazioni spiacevoli, di alcune più piacevoli e si era sentito molto più equilibrato.
    Inizialmente.
    Poi quella frase gli era entrata nel cervello e non l’aveva più lasciato in pace: Non è un bambino vero.
    L’aveva detto suo padre a Sean, che gli era sembrato confuso. Zach li aveva sentiti perché stava origliando, aveva sempre pensato che si riferisse al fatto che non era come tutti, che era strano, cagionevole, goffo. Goffo.
    Ma no, era stato un concetto molto più semplice.
    Non era un bambino vero: perché l’avevano fatto. A tavolino. Un pezzetto per volta.
    Non era un bambino vero perché con ogni probabilità sarebbe dovuto essere completamente diverso. Magari a lasciar perdere la manciatina di cellule che doveva essere stato, sarebbe diventato uno studioso, un letterato, un campione degli scacchi.
    Non era niente di quello che sarebbe potuto essere, l’avevano cambiato troppo.
    Non era più un bambino vero.
    Punto.

    «Posso parlarti?», le chiese Dean mentre si dirigevano nella propria camera.
    Becky sentì un leggero panico montarle all’interno, paura, agitazione.
    Serena li salutò entrambi e si affrettò a raggiungere la propria camera per lasciarli soli, Becky si fermò con lui. Sapeva di dover rispondere di sì.
    «Certo».
    Dean si guardò intorno e, insoddisfatto delle persone che sentiva chiacchierare in lontananza, la prese delicatamente per mano tirandola piano verso la mensa. Sembrava deserta, ma in fondo, lontano dall’entrata c’erano due ragazzi un po’ ammucchiati. Becky finse di non vederli, anche se si sentiva a disagio ad essere nel posto in cui i Veglianti di Wood andavano a pomiciare, soprattutto stando in compagnia di un Vegliante di Wood.
    Dean si arrampicò fino a sedersi sul tavolo, i piedi appoggiati alla panca; Becky rimase in piedi di fronte a lui, incrociò le braccia sul petto osservandolo.
    «Quel discorso in pizzeria era per me?», le domandò.
    Becky trattenne il fiato, il suo cervello alla precipitosa ricerca del modo giusto per portare avanti quella conversazione. Rimase zitta.
    «Non voglio che ti senta in dover di farlo», sorrise. «Mi piace quello che abbiamo, mi piace passare il tempo con te e ridere, non voglio smettere».
    Allungò una mano fino ad afferrare la sua, che usò per avvicinarla, Becky lo lasciò fare.
    «Riporteremo qui Zach Douquette», le disse stringendole entrambe le mani, come in una promessa solenne. «Quando sarà qui ed avrai modo di chiarire la vostra situazione, parleremo della nostra».
    Becky deglutì e lo fissò, scavalcò la panca che li divideva spontaneamente, con calma. Dean fu tanto rispettoso da tirarsi un po’ indietro per darle tutto lo spazio che voleva. Scosse la testa con un mezzo sorriso. «Quello che ha detto Serena è vero», ammise. «Mi sentivo sempre tanto partecipe quando lui mi prestava attenzione, perché quelli come lui non danno mai retta a quelle come me».
    «Che dici? Quelle come te sono adorabili», la interruppe.
    Lei sorrise ed aspettò che la lasciasse continuare.
    «Okay, vai, sto zitto».
    «Non era giusto», deglutì. «Non era giusto che mi sentissi in quel modo. Siete dovuti arrivare voi perché per la prima volta pensassi di valere qualcosa come Vegliante».
    Dean rimase in silenzio, nei suoi occhi c’era comprensione, tanta partecipazione per la sua esperienza in una squadra che non aveva avuto il coraggio di guardare le sue capacità, oltre gli evidenti limiti fisici.
    Bugiardo, le ripeté la stessa voce nella sua coscienza.
    «Vieni a Los Angeles con noi», ripeté fissandola, stavolta più che una proposta divertente, sembrava una preghiera.
    «Forse dovrei», rifletté abbassando lo sguardo.
    Dean lo rincorse fino a guardarla di nuovo negli occhi. «Vieni a Los Angeles con me, non riesco a pensare di lasciarti qui».
    Per un attimo Becky rimase attonita, in apnea; era tutto così perfetto, così adorabilmente normale, così desiderabile. Un romanzo. La giovane ragazza incontra un giovane uomo dagli occhi blu, intenzionato a portarla via da quella città piena di rancori e smog.
    Si trovò a guardare la bocca di Dean prima ancora di realizzare di starsi avvicinando. Si incontrarono a metà, per un attimo le loro labbra rimasero immobili, le une contro le altre; si dischiusero lentamente, non c’era fretta in quel bacio, né frenesia: non era un bacio arrabbiato, o un bacio da fine del mondo, o… Becky si staccò, per un attimo vide Zach, un battito di ciglia. Abbastanza da fargli venire la nostalgia.
    Dean la abbracciò, senza dire niente.
    Bugiarda.
    Quando tornò nella propria camera, Courtney la aspettava sveglia, la osservò tutta mentre entrava, chiudeva lentamente e si appoggiava con la schiena alla porta, poi tornò a sfogliare la propria rivista.
    «Hai esagerato», le disse.
    Becky sospirò. «Non se mi racconta qualcosa».
    «A Zach non piacerà».
    «Zach se ne è andato», sbottò. «Non credo che sia giusto che abbia voce in capitolo su cosa posso o non posso fare», la fissò. «Magari Dean mi piace davvero, potrei andare a Los Angeles e costruirmi tutta un’altra vita».
    «Ah-ah», convenne annoiata. «Buon viaggio, telefona ogni tanto», la salutò sarcastica.
    Becky scosse la testa ed iniziò a prepararsi per mettersi a letto. «Non so davvero perché dovrei rimanere», borbottò.
    Courtney rimase in silenzio, Becky le lanciò un’occhiata da sopra la spalla, capì al volo che la sua compagna di stanza si era posta quella domanda un milione di volte; forse per lei era molto più doloroso e frustrante rimanere in quella caserma.
    Spostò lo sguardo su di lei e sorrise, convinta e sicura. «Per Nate», disse. «Rimaniamo per Nate».

    Romeo si accese una sigaretta, seduto alla guida di una monovolume nera, dischiuse il finestrino per non far impregnare la tappezzeria di fumo. Quella macchina era di Iago, non voleva che ci si fumasse dentro.
    Lynn lo raggiunse zoppicando ed aprì la portiera come una furia. «Le mie», iniziò, sfilandosi una scarpa con il tacco spezzato e lanciandola lontana in mezzo alla strada. «Scarpe», proseguì, facendo fare la stessa fine anche all’altra. «Preferite», terminò sbattendo lo sportello nel chiudere.
    Romeo si allungò all’indietro e le porse una scatola con un fiocco rosso. «Spero siano del numero giusto».
    Lynn sbuffò e gli lanciò un’occhiata. «Sono le stesse, non è vero?».
    Lui rise ingranando la marcia. «Beh, erano le tue preferite».
    «Ho comunque voglia di ucciderti per quello che hai lasciato fare a Nate».
    «Sta tranquilla», cercò di rassicurarla recuperando il telefono. «Lo risolveremo», promise prima di denunciare alle autorità competenti un’auto finita oltre il guardrail.

non so davvero cosa penserete di questo capitolo, è tutto molto diverso.
però io volevo che fosse diverso, volevo che fosse così.
baci
Fragolottina

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


I Veglianti di Synt ciao...
ho pensato che questo capitolo l'avesse vinta sulla mia volontà, ma ce l'ho fatto.
dunque purtroppo devo comunicarvi che non credo di riuscire a rispondere alle recensioni, mi dispiace molto perchè le ho lette tutte, tutte e vorrei rispondervi parlare con voi, confrontarmi, ma non ci riesco.
al lavoro è un delirio perchè questo è un periodo caldissimo, quindi sono stata impegnata su troppi fronti.
perdonatemi e vogliatemi bene.
oh, prima che mi dimentico: ADP è diventato LTP, immagino che informarvi sia il minomo. ADP stava tipo per "Atom Day Protetion", che mi pareva un po' un nome del cavolo per una agenzia governativa, soprattutto per un agenzia che combatte i Veggenti... la mia idea era uscita un po' dal disastro nel Vernon, ma non c'entrava niente comunque.
LTP sta per Living The Present, che mi pare più sensato.
e... beh, il capitolo 2 è tra noi!

CAPITOLO 2

    La sede centrale della LTP era a Vernon.
    Non era un caso. Commercialmente quell’idea era stata venduta come “L’umanità che si sollevava da una tragedia”. Nella pratica c’era meno poesia: avevano bisogno di un luogo che scoraggiasse ogni intrusione. Avevano pensato che chilometri di disastro radioattivo fossero un buon deterrente.
    L’unico mezzo di trasporto che arrivava fino alla sede, era una galleria sotterranea rivestita di cemento, di isolante, di strati e strati di materiali per garantire il più basso quantitativo possibile di radiazioni.
    Delia Douquette si guardò intorno con un nodo in gola. I Veggenti erano mille volte più resistenti alle radiazioni degli esseri umani, ma anche loro alla fine morivano; duravano di più, se non fossero stati usati loro, costruire quella galleria e la sede centrale della LTP avrebbe richiesto molte più vite.
    Deglutì e guardò l’auto blindata che li aspettava, la sua vista periferica colse anche Logan fissarla con inquietudine; le porse il braccio, lei lo prese. Il sostegno di Logan Douquette era forte e solido come era sempre stato.
    Se non avesse ucciso suo figlio sarebbe stato un marito ideale.
    Furono tutti molto rispettosi nell’accoglierli, erano sempre tutti molto bravi nel non trattarla da Veggente, sapeva di dover ringraziare suo marito per quel favore.
    Non si era mai considerata una donna sentimentale, aveva avuto un bambino malato a sedici anni da un uomo in fin di vita che amava e che l’amava con tutto il cuore, non si era potuta permettere di essere emotiva.
    Seduta in ospedale a stropicciare un fazzoletto intriso di lacrime, mentre vegliava sul cuore difettoso, inadeguato, quasi spento, di uno Sean di appena quattro anni, aveva visto ogni bestialità con la quale Logan Douquette avrebbe torturato lei, i propri figli, la propria razza.
    Ogni giorno più colpevole, l’aveva aspettato.
    Accarezzandosi la pancia ancora vuota, si era scusata con chi, presto, l’avrebbe abitata.
    Aveva temuto un’esistenza in schiavitù, aveva avuto una vita da regina.
    Logan era stato premuroso ed attento con lei, presente in ogni questione relativa alla gravidanza; interessato ad ogni bisogno di Sean, dalle cure mediche ai giocattoli, da una cameretta ad un’istruzione. Lo aveva adottato, gli aveva dato il suo cognome, gli aveva permesso di esprimere tutto il suo potenziale, tutelandolo da ogni obiezione che la LTP avrebbe potuto avanzare.
    Sean gli piaceva, Delia lo vedeva, si piacevano. Parlavano, si confrontavano, finché Zach era piccolo non avevano motivi di scontro.
    Però Zach cresceva, impacciato in tutta la sua imperfezione. Perfetto, per lei, nella sua assurda complicatezza.
    Sean se ne era accorto in fretta, che c’era qualcosa che non funzionava bene, lo guardava con la stessa attenzione che avrebbe dedicato ad un libro.
    «Che vuol dire non è un bambino vero?», le aveva chiesto confuso.
    Non aveva voluto rispondere: era così bello illudersi di avere una famiglia solida, di avere un marito: nessun pensiero su come crescere i propri figli, nessun pensiero su come arrivare a fine mese. Nessun pensiero.
    Poi Jamie Ross gli aveva mostrato Rebecca Farell e Sean aveva guardato in faccia ogni pensiero che lei aveva evitato, rimandato.
    Dopo il funerale, dopo il mix di antidepressivi e sedativi, aveva voluto uccidere Logan ogni giorno, aveva provato a farlo mille volte.
    Si era sempre fermata.
    Mentre attraversavano l’atrio del palazzo, diretti al luogo dell’appuntamento con Wood, gli occhi di Delia si spostarono distrattamente su una porta di servizio presidiata da due guardie armate: lì sotto c’era Helen Dandley, in attesa.
    Una ragazza si avvicinò alla porta e Delia si fermò, stupita. Indossava una camicia sgargiante a quadri rossi e neri ed un paio di jeans scuri infilati in scarponcini un po’ da maschiaccio. In mano aveva un vassoio di biscotti e due tazze di caffè, sembrava una stagista; si tirò indietro i capelli castani mostrando un tatuaggio, insolito, ma che lei conosceva.
    Sean aveva disegnato quel tatuaggio a diciassette anni, era rimasto in silenzio per giorni.
    All’inizio la odiò per lui, poi sperò che Helen Dandley volesse che rimanesse viva.
    Dopotutto Sean era morto.

    Nate si rigirò il termometro in bocca studiando i Veglianti sistemati di fronte alla porta degli interrogatori per non farlo uscire. Era decisamente offeso dal fatto che lo ritenessero così sciocco da fare una sceneggiata del genere; da quando gli avevano messo il controllo perimetrale non aveva mai cercato di uscire, il rischio di perdere una gamba era un buon deterrente, doveva ammetterlo, ma la sua buona condotta qualcosa doveva pur contare.
    Mr. Flicks, il galoppino lasciato da Wood, entrò nella stanza degli interrogatori sommerso fino alla testa da fogli più o meno accartocciati. Cadevano di continuo, dietro di lui Jean si chinava di tanto in tanto a raccoglierli.
    Si appoggiò al tavolo con le braccia incrociate a guardarli: di per sé la scena era piuttosto comica.
    Mr. Flicks raggiunse la scrivania e ci lasciò franare sopra tutti fogli, come se tenerli insieme fino a quel momento fosse stato uno sforzo immane, come se ci fosse esplosa al centro una bomba.
    «Ciao, Nate», lo salutò.
    Lui gli lanciò un’occhiata da sotto in su. «Mr. Flicks», ricambiò. «Ciao, Jean», accolse la propria responsabile con maggior entusiasmo.
    Lei affiancò il collega con grazia e gli porse i suoi fogli. «Posso suggerirle l’uso di un tablet o qualcosa del genere, Mr. Flicks?», gli propose.
    Lui sussultò, arrossì, si raddrizzò gli occhiali sul naso, scosse la testa. «Io davvero non sono bravo con quel genere di cose».
    «Come non detto, allora». Si accomodò sulla sedia che era stata posizionata per lei, paziente. «Nate, sono qui per garantire che questo colloquio si svolga nel tuo massimo rispetto».
    Nate annuì e si raddrizzò, Mr. Flicks si sedette.
    «Come stai, Nate?».
    «Il fantastico accessorio moda che mi avete dato prude», lo prese in giro.
    «Oh, mi spiace», affermò mortificato. «Ti senti di farmi vedere?».
    Discretamente Jean si portò due dita alla fronte e sospirò.
    Nate sorrise, ma si allontanò e sollevò il piede appoggiandolo sul tavolo. Mr. Flicks gli spostò i pantaloni dalla caviglia con una penna, si sporse ad osservare la bomba rivestita di plastica grigia che si portava dietro.
    Quella bomba esplodeva se si allontanava di più di un metro e mezzo dal perimetro esterno della caserma. Siccome l’aveva costruita Matt era ad innesco ritardato, non di molto, ma poco poteva salvargli la vita.
    «C’è una leggera irritazione, ti farò comprare una crema lenitiva».
    «Molto gentile da parte sua», disse sedendosi di nuovo.
    «Mi hanno chiesto di farti alcune domande a proposito di Minorou Lynn, ti va di rispondermi?».
    Scrollò le spalle e si appoggiò allo schienale della sedia. «Perché no?».
    «Da quanto tempo non hai sue notizie?».
    Lanciò un’occhiata a Jean prima di rispondere, che gli fece un rapido cenno di assenso.
    «Ieri».
    Mr. Flicks annuì fissandolo per un tempo esageratamente lungo, finché Jean non si schiarì la voce per sbloccarlo.
    «Certo», si riscosse. «Avevamo mandato una squadra a prenderla in aeroporto per la sua sicurezza, ma l’auto che la trasportava ha avuto un incidente, di lei sono rimaste solo le sue valigie verdi».
    «Spero che ci siano anche le scarpe», considerò. «Credetemi, non vorreste dirle di aver perso le sue scarpe».
    Jean gli lanciò un’occhiata di rimprovero, mentre Mr. Flicks prese a sfogliare tra le pagine dei suoi appunti.
    «Sì, abbiamo trovato delle scarpe, ma sono rotte, mi dispiace».
    Jean sospirò. «Per l’amor del cielo, Nate», lo richiamò.
    Lui si strinse nelle spalle, cercando di ridere il meno possibile. «Sono chiuso qui, a meno che lei non mi chiami o che la chiami io, non posso avere sue notizie».
    «Sei sicuro?», insistette Mr. Flicks con uno sguardo stranamente sospettoso, scosse la testa e la sua occhiata si addolcì. «Non possiamo escludere che l’abbiano rapita per far leva su di te, non possiamo escludere che la stiano torturando. Qualsiasi informazione…».
    «Non ho informazioni», lo interruppe secco. Jean lo fissò intensamente seria, non le piaceva che fossero bruschi ed irrispettosi con Mr. Flicks.
    «Wood mi ha comunicato che i tecnici della LTP hanno di nuovo cercato delle informazioni sul tuo pc».
    Nate continuò a fissarlo. «E non sono riusciti ad entrare», cantilenò.
    «Dice che sarebbe disposto a darti maggiore fiducia e toglierti il perimetrale, se ti dimostrassi collaborativo».
    «Riferisca pure che preferisco il perimetrale».
    Mr. Flicks lo guardò sconsolato. «Perché ti comporti così, Nate?».
    Nate rimase a pensarci. «Mr. Flicks, pensa che io sia un Veggente?».
    «Santo cielo, Nate!», trasecolò lui. «Certo che no! Cosa ti salta in mente?».
    «Sarebbe abominevole se lo fossi, non trova? Vuol dire che la LTP ha pensato che l’unico modo per eliminare i Veggenti sia usare Veggenti, tenendoli sotto controllo con neurotossine».
    «Nate, capisco che tu sia scosso, ma quello che dici non ha senso».
    «Il Mitronio in senso molto ampio agisce come una neurotossina, crea danni al sistema nervoso centrale di un Veggente, più che una cura è una mutilazione». Nate lo fissò.
    Mr. Flicks lo fissò a sua volta, come se avesse capito che voleva comunicargli qualcosa di essenziale, ma non riuscisse proprio a capire cosa.
    «Dica a Wood che mi tengo il perimetrale», ripeté per interrompere l’inutile lavorio del suo cervello.
    Per alcuni secondi Mr. Flicks continuò a fissarlo, poi si alzò e se ne andò a fare rapporto a Wood.
    Era un uomo strano quel Mr. Flicks, veramente troppo goffo per essere reale. Era alto e sembrava robusto sotto i vestiti, ma, guardandolo, nemmeno per un secondo avresti pensato che fosse sveglio, anzi, la sua stazza lo rendeva ancora più grottesco. Come se fosse un robot e l’omino che lo controllava da dentro, infinitesimamente più piccolo, non riuscisse bene a coordinarsi.
    Lo trovava interessante.
    Quando tornò a guardare Jean, lei lo stava studiando da un po’. «Non turbarlo così», commentò.
    Per alcuni secondi Nate ricambiò il suo sguardo, giocherellando con il termometro tra le labbra mentre cercava di decifrare gli intricati pensieri della sua Responsabile. «Com’è che sei così protettiva con lui?», le domandò.
    «Era il mio Caposquadra quando sono arrivata a Los Angeles».
    Nate sollevò le sopracciglia, scettico nell’osservare la scia di fogli che Mr. Flicks aveva lasciato dietro di lui. «Wood si sentiva in vena di scherzi?».
    Jean sorrise e gli lanciò un’occhiata. «Era un drago. Prima che lo diventassi io, era la persona che volevi ti venisse a soccorrere quando ti trovavi nei guai: non ha mai abbandonato un compagno, non ha mai perso un carico di Mitronio. Se si trovava un Veggente sulla sua strada, potevi star certo che l’avrebbe portato a casa».
    Nate lanciò un lungo fischio. «Certo, a vedersi non sembra».
    «Già», rispose Jean triste. «Non so cosa gli sia successo».
    Nate rimase in silenzio a guardarla per pochi istanti. «Sì, lo sai invece», le disse lentamente.
    Jean lo fissò. «Ogni giorno gli somigli di più».
    Nate sbatté le palpebre sorpreso. «A chi?», chiese.
    «A Romeo». Sospirò. «Stai giocando ad un gioco pericoloso, prima o poi la mia presenza in questa stanza non basterà a tenerti al sicuro».
    Distolse lo sguardo, ma non lo abbassò. «Qualcuno dovrebbe tenere al sicuro te».

    Courtney rimase ferma sulla porta della mensa.
    Era decisamente troppo affollata per i suoi gusti, le mancava il raccoglimento che avevano quando erano soltanto otto. Otto era un bel numero.
    Osservò Becky ridere seduta ad un tavolo di Veglianti di Wood, c’erano anche quei due gemelli che le giravano intorno; studiò come le sue gambe stessero appoggiate su quelle di Dean, come le mani di lui la accarezzassero. Si chiese com’è che era stata tanto imbranata con Zach, considerando quanto si stava mostrando audace e… brava. Negli ultimi tempi stava dimostrando una stoffa davvero non trascurabile in quel campo.
    Sapeva che lo faceva perché Nate non aveva trovato niente da nessuna parte su quei due; perché era meglio conoscere i loro piani dall’interno ed avere il tempo di reagire; perché la loro situazione era compromessa ed avevano bisogno di sembrare normali. Sapeva che lo faceva per tante ragioni giuste.
    Eppure non le piaceva.
    No, non le piaceva proprio.
    Cercò Nate, ma non c’era, probabilmente lo stavano di nuovo interrogando.
    Matt sicuramente non era nemmeno in caserma.
    Individuò il tavolo dove erano seduti Amanda e Johnathan e si arrese a raggiungerli.
    Passando superò Jared senza dirgli niente. Lui si trovava bene con i Veglianti di Wood, d’altronde lui era un Vegliante di Wood: non appena era arrivato in caserma l’aveva promosso Caposquadra.
    Nate si era complimentato con lui.
    Finse di non vederlo, lui invece la guardò apertamente.
    Amanda e Johnathan la salutarono quando si sedette vicina a loro, erano con altre persone, ma Courtney aveva già deciso che non avrebbe parlato con nessun altro. Certo, non si sarebbe fatta toccare le cosce da qualcuno solo per dare l’illusione di essersi integrata.
    «Non prendi niente nemmeno questa mattina?», le domandò Johnathan.
    Fece una smorfia. «Penso di andare a correre dopo, magari al rientro mi farò preparare qualcosa».
    La paranoia o il buon senso di Nate avevano messo sotto accusa anche il latte, diceva che le quantità erano minime, ma c’erano. La paranoia di Nate era pericolosamente contagiosa. Perciò aveva smesso di fare colazione in caserma, buttava lì la scusa della corsetta e mangiava nel bar del parco.
    Guardò Johnathan sbucciare una mela e si sentì molto meschina. Avrebbe voluto avvertirli, la sua coscienza di medico strepitava per farlo. Ma non poteva, non le avrebbero creduto, lei stessa faticava a credersi quando pensava certe cose. Nate lo sapeva, per questo l’aveva incoraggiata a cercarsi delle prove. L’aveva sfidata a prendere una delle loro mele, di quelle che arrivavano insieme al cibo dalla loro cara LTP, ed analizzarla.
    Non gli aveva più chiesto perché la sua lista di alimenti che non dovevano mangiare continuava a crescere. Se avesse saputo, forse, non gli avrebbe chiesto niente dall’inizio.
    «C’è una lettera per te, Courtney».
    La ragazza si voltò a fissare gli occhi vacui di Mr. Flicks dietro quegli enormi occhiali. Era un tipo strano quel Mr. Flicks, lo sentiva, avrebbe voluto avere le sue analisi per quantificarlo.
    «Grazie», disse soppesando la busta che le stava porgendo.
    La prese tra due dita come se potesse esploderle tra le mani e la studiò: sul dorso c’era scritto semplicemente il suo nome e l’indirizzo della caserma, nessun mittente. Per un attimo pensò che fosse una delle annotazioni che le mandava Romeo, qualcosa di enigmatico e probabilmente dai risultati nefasti, ma non le sembrava la sua calligrafia: le sue erano sempre parole scritte in fretta, buttate sulla carta come se ce le avesse sparate; la grafia che stava osservando, al contrario, era ordinata e precisa, chiunque l’avesse scritta aveva perso tempo a farlo.
    In ogni caso, non voleva aprirla in caserma.
    Se la infilò nei pantaloni, fermata sul suo fianco dall’elastico della tuta.
    «Beh, io vado», salutò i suoi compagni.
    «A dopo», ricambiò Amanda.
    Fece pochi passi prima che Jared le si affiancasse, Courtney finse indifferenza senza lasciar trapelare niente. Non le faceva esattamente piacere, il suo inconscio provava incomprensibili moti di odio ogni volta che l’aveva tra i piedi. La sua parte razionale, d’altra parte, faceva il tifo per un compromesso pacifico.
In fondo correre in silenzio non poteva proprio definirsi fastidioso.
    Le fece piacere scoprire piccoli gesti che parlavano della loro complicità: Jared le tenne la felpa, mentre lei trafficava per spostare il cellulare ed il cercapersone da una tasca all’altra; lei gli porse un fazzoletto quando lui starnutì. Tutto senza bisogno di parlare
    Quando raggiunsero il bar, Courtney rallentò fino a fermarsi e lo guardò fare lo stesso, indecisa. Non era sicura di volere che lui si fermasse con lei, ma sapeva che invitarlo a proseguire lasciandola lì, sarebbe stato come sputare su quel compromesso che stava cercando.
    Quindi: «Prendi qualcosa?», gli chiese e lui annuì.
    Si sedettero ad un tavolo.
    I camerieri la conoscevano, andava lì tutte le mattine da più di un mese ormai, quindi non aveva bisogno di ordinare, ma un impiegato dall’aria molto giovane chiese comunque cosa volesse Jared, mentre passava uno straccio umido sulla superficie del tavolo.
    «Ciao, Courtney», la salutò.
    «Ciao, Mike», rispose senza guardarlo.
    Per qualche secondo rimasero entrambi in silenzio, il parco era piuttosto frequentato al mattino, se l’erba non fosse stata di quell’orribile color giallino non sarebbe sembrato tanto squallido. Trovava sempre più spietato che l’unico verde a Synt fosse quello del Mitronio.
    «Vieni qui spesso?», le chiese Jared.
    Courtney lo studiò, sembrava una domanda che non avrebbe portato a conseguenze troppo spiacevoli. «Quasi tutte le mattine», ammise.
    «Per evitare i Veglianti di Wood?», indovinò.
    Non rispose.
    «Non dovresti essere così prevenuta», le suggerì paziente.
    Sospirò. «Me lo dice anche Becky», commentò scontenta. «Sto cercando di provarci, okay?».
    Lui annuì sorridendo. «Sì, ho visto», rispose. «Che ne pensi di Kingley? Alcuni sono preoccupati, pare che sia rimasto parecchio scosso dopo una missione».
    Courtney fece una smorfia. «Un po’ taciturno, ma tutto sommato okay. Tutti siamo rimasti scossi da qualche missione, se ne farà una ragione. Sono un po’ più preoccupata che Amanda riesca a far fuori Becky prima o poi».
    «Ti preoccupa che ci riesca prima di te?», la prese in giro.
    «Non sarebbe molto appagante se lo facesse lei, mettiamola così».
    «Ci sono Dean e Serena con lei, le daranno una mano se si trova in difficoltà», la tranquillizzò.
    Era bello credere nel tipo di mondo di cui parlava Jared: le sarebbe piaciuto dare per certo che Dean e Serena fossero davvero amici di Becky, ben disposti ad aiutarla; che la LTP ed i Veglianti di Wood volessero che lei si integrasse e stesse bene insieme a nuovi compagni; che Jared fosse il tipo di uomo che voleva al suo fianco, quello di cui aveva bisogno.
    «Hanno lasciato questo pagato per te», disse Mike dopo aver servito l’ordinazione di Jared.
    Entrambi fissarono lo sguardo sul ricciolo di frozen yogurt bianco nella coppetta davanti a lei.
    Quando tornò ad osservare il suo accompagnatore, scoprì che la stava già studiando, pensieroso.
    «È lo stesso dei cioccolatini?», le domandò.
    Courtney riconobbe la nota di fastidio nel suo tono ed automaticamente tutto il suo cervello passò alla difensiva, fece per parlare, giustificarsi, ma lui la interruppe alzandosi.
    «Non c’è bisogno di rispondere, si capisce dalla tuo espressione».
    Lei sbuffò esasperata. «Ma di quale espressione parli, non essere ridicolo», sbottò.
    «Sei contenta», sibilò. «Come eri contenta di quei cioccolatini, una piccola ragazzina eccitata. Non ho mai pensato che fossi il tipo di ragazza tanto sciocca da sciogliersi per certe cazzate, ma evidentemente non ti conosco abbastanza».
    «Vattene», sibilò Courtney, prima di balzare sul tavolo ed aggredirlo con molto più che le parole.
    Lui obbedì.
    Per un po’ rimase lì ad indispettirsi con una sedia vuota ed un frozen yogurt che non aveva più voglia di mangiare.
    Sospirando recuperò la lettera dalla cinta della tuta e l’aprì.
    Un ragazzo con un berretto scuro ben calato sulla testa ed un paio di occhiali dalla montatura nera e spessa le si sedette di fronte, per alcuni secondi la osservò e basta, poi tirò fuori un rotolo di fogli dalla tasca dietro dei pantaloni. Si mise a studiarli come se fosse un semplice passante che condivideva in modo del tutto casuale il tavolo con una ragazza, concentra quanto lui sui propri affari.
    Ma i tavoli del bar erano molti, alcuni vuoti in quel momento.
    Ad un certo punto il ragazzo allungò una mano per prendere il suo gelato.
    Courtney gli schiaffeggiò il dorso.
    Non disse niente, lo guardò sorridere.

    Matt fece finta di non vedere Ryan entrare in camera. Avrebbe potuto far notare che non era carino farlo senza bussare, ma d’altronde quella camera era di lei, lui la occupava ed usava il suo portatile lilla abusivamente.
    Stava studiando pigramente il progetto che Wood gli aveva spedito tramite email.
    Quasi.
    Sospettava che Wood avesse qualcuno che si occupasse delle sue email.
    Ryan trascinò una sedia vicino alla sua e ci si sedette, sbirciò lo schermo che stava fissando. «Cos’è?».
    Matt continuò a mordicchiarsi le labbra per un po’ prima di rispondere. «Scarpe». Spostò il cursore del mouse fino ad indicargli una porzione precisa. «Wood vuole che metta una bomba qui», le spiegò.
    «Perimetrale, come q-q-quella di Nate?».
    Da quando la verità era venuta a galla, Ryan balbettava molto meno, sospettava che quella situazione le avesse creato molti più disagi interiori di quanto lasciasse trapelare. Lui sarebbe mai stato in grado di reggere quel tipo di tensione.
    Scosse la testa. «Vuole che sia ad attivazione remota». Sospirò. «Telecomandata».
    Rimasero in silenzio entrambi. Quella casa era del proprietario della ferramenta dove lavorava Ryan, Matt era l’unico Vegliante in tutta Synt a non avere l’obbligo di stare in caserma ed in realtà non aveva molta voglia di stare con gli altri. La famiglia di appoggio di Ryan si era mostrata disponibile nei suoi confronti: gli avevano montato una brandina in salotto e lo trattavano come uno di casa.
    Non dormiva mai, quando lo faceva sognava bombe che esplodevano.
    All’inizio l’avevano rinchiuso come tutti gli altri, lui era stato silenzioso proprio come Nate. Sapeva di essere a conoscenza di molte cose, troppe cose, ma non avrebbe detto niente; i muri della sua cella dovevano confinare con quelli degli altri, gli bastava a non sentirsi solo.
    Poi Wood era entrato nella sua stanza, aveva fatto chiudere la porta e dato l’ordine di non aprire finché non l’avrebbe chiesto lui. Matt aveva avuto paura che volesse estorcergli parola dopo parola a suon di botte.
    Non era bastato comunque a spaventarlo, in un moto di audacia, aveva dichiarato a testa alta che non avrebbe detto niente.
Wood aveva sorriso, poi gli aveva dato un pacchetto di foto di Ryan, Wood aveva milioni di foto di Ryan: Ryan che parlava, che lavorava, che rideva, che andava a scuola; Ryan su un tetto che puntava un fucile in basso, una maschera bianca tirata indietro sui capelli.
    Aveva ritrattato ed il suo “Non dirò niente” era diventato un “Non posso dire niente”.
    «È una Veggente?», gli aveva chiesto.
    Matt l’aveva fissato, muto, aveva anche trattenuto il respiro.
    Aveva riso. «Non c’è bisogno che rispondi, so che lo è».
    Non si era mai sentito tanto solo in tutta la sua vita e i muri che condivideva con i suoi compagni di squadra gli erano sembrati eternamente lontani, irraggiungibili. Nessuno l’avrebbe aiutato, nessuno l’avrebbe salvata, lui era l’unico a cui importava abbastanza di Ryan da volerla tenere al sicuro.
E sapeva troppo, potevano ricattarlo in milioni di modi.
    «Anche la madre di Zach Douquette è una Veggente, ma a nessuno è mai venuto in mente di farle del male», gli aveva raccontato. «Lo sai perché?».
    Non aveva risposto.
    «Logan Douquette lavora per noi, non faremmo mai del male a sua moglie», aveva detto come se fosse ovvio. «Ti manderò un’email con un progetto. Fai sapere a quelli del mio team di cosa hai bisogno».
    Poi se n’era andato.
    Nell’email c’era il progetto della bomba per Nate e Matt l’aveva costruita.
    Come avrebbe costruito quelle scarpe.
    Premette alcuni pulsanti sul computer aggiungendo cose, apportando modifiche; avrebbe dovuto alzare un po’ di più il tacco per farci entrare una bomba, seppur di piccole dimensioni, cercò di snellirle sul davanti per dare equilibrio a tutto. Dovevano essere carine altrimenti Becky non le avrebbe mai indossate di sua spontanea volontà.
    Qualcuno avrebbe salvato Becky, lei era importante per tutti.
    Recuperò il cellulare e premette un pulsante per avviare la chiamata automatica, mentre guardava Rose distendere le lenzuola e rassettare la propria stanza con calma.
    «Ciao, tesoro», gli rispose squillante Serena.
    «Ciao», ricambiò. «Ti sto mandando una lista delle cose che mi servono».
    «Perfetto, te le procuro appena possibile».
    «Grazie», disse, pronto per riagganciare.
    «Torni in caserma stasera?», gli chiese.
    Matt aggrottò le sopracciglia, guardingo. «Non credo, perché?».
    «Beh», iniziò. «È un po’ che non ti fai vedere, ci farebbe piacere e puoi cenare con noi se i tuoi amici pizzosi di Synt ce l’hanno ancora con te».
    Decisamente un eufemismo.
    Mentre stava costruendo la bomba di Nate aveva pensato di togliere l’esplosivo: Wood sarebbe stato soddisfatto e non lo avrebbe mai scoperto. O almeno non l’avrebbe fatto purché Nate rimanesse dentro la caserma: se fosse uscito, se la bomba non fosse esplosa, avrebbe saputo che l’aveva imbrogliato ed avrebbe ucciso Ryan.
     Aveva visto Nate uscire.
    La vita di Ryan non era abbastanza importante per lui.
    «Abbiamo proposto a Becky di venire con noi a Los Angeles quando avremo preso Zach, perché non porti avanti questa idea anche tu?», lo incoraggiò.
    Preso.
    Non salvato.
    Ridendo sfidò il mondo a lasciar prendere Zach Douquette, non sarebbe mai successo. Lui e Lynn si erano raccontati davvero troppe storie, sapeva riconoscere il protagonista di un’avventura quando ne vedeva uno.
    Nessuno aveva salvato Lynn.
    Non capiva, proprio non capiva perché tutti dimenticassero cosa era davvero importante.
    Un carico di Mitronio non valeva quanto la vita di un’amica.
    Una giusta causa non valeva quanto la vita di Ryan.
    «Ci penserò, magari ne parlo con Jean», mentì.
    «Okay, ti aspettiamo per cena?», chiese con vocina sottile.
    Guardò Ryan.
    «Se sono così desiderato…».
    «Forte, Becky sarà contentissima. Baci».
    Sospirando si rinfilò il cellulare in tasca.
    Cliccò sul pulsante “scrivi” della sua casella di posta ed iniziò a compilare una lista della spesa.
    Bum.
    Sussurrava una voce nei suoi sogni.
    E tutto il mondo si riempiva del frastuono di qualcosa che esplodeva.
    Bum.
    E Synt veniva inghiottita dalla polvere.

    Megan, stravaccata di traverso su una poltrona, completamente assorbita dall’avvincente trama di “La voce del cuore”, acciuffò un pizzico di popcorn dalla busta.
«Non capisco proprio perché lei continui a dargli possibilità dopo possibilità, non è sano».
    Helen Dandley alle sue spalle sorrise, china sulle sue liste.
    «Mi sembra un’affermazione un po’ forte, considerato che non ti sei ancora liberata di quel buon a nulla del tuo ragazzo, non credi?».
    Megan sollevò un sopracciglio ed abbozzò. «Non hai tutti i torti». Si aggrappò allo schienale della poltrona e sbirciò il lavoro preciso dell’altra. Sembrava sempre esageratamente concentrata quando stilava quelle liste; tutto il suo corpo teso, la sua espressione attenta, parlavano di come ogni nome fosse attentamente ponderato, niente era affidato al caso.
    Ne scrisse un altro ed eliminò un test dalla pila.
    I test arrivavano in maniera continuata, erano più che altro una traccia per lei, un input per riuscire a vedere chi fosse una determinata persona. Aveva provato a spiegarle come funzionava, Megan non aveva capito molto.
    «Ma non ti annoi mai?», le chiese. «Io mi stufo solo a guardarti».
    Le labbra di Helen si piegarono in un sorriso. «Non preoccuparti, è quasi finita».
    Non sapeva di preciso quanti anni avesse più di lei, ma era certa che fosse lì da tutta la vita. Megan inizialmente era stata ingaggiata come donna delle pulizie. Le avevano fatto firmare tanti di quei fogli sulla sicurezza e sulla riservatezza, che per una settimana intera non era riuscita a lavarsi i denti senza sentire la mano indolenzita.
    Helen si era dimostrata subito molto cortese con lei, e sì che c’era una squadra di guardie pronte ad entrare e strapparla alle sue grinfie se avesse cercato di farle del male.
    Non capiva tutta questa paura, era sempre stata carina.
    Per questo l’avevano promossa a sua dama di compagnia e la pagavano una follia per mangiare popcorn e guardare la tv.
    Tornò a stravaccarsi e starnutì un paio di volte. «Cavolo», borbottò, tastandosi addosso alla ricerca di un fazzoletto.
    «Dovresti fare qualcosa per quel raffreddore», le suggerì Helen.
    Megan si strinse nelle spalle. «È solo influenza, mangerò arance e starò bene».
    «Dovresti vedere un medico», continuò.
    Sospirò. «Va bene, mammina, domani chiamerò il dottore».
    «Dovresti vedere una dottoressa di Synt, si chiama Courtney Williams».
    Megan sollevò le sopracciglia e si girò a lanciarle un’occhiata, stupita, Helen la stava fissando, senza più scrivere.
    «Millemila chilometri per vedere un medico e chiedere una ricetta per un’antinfluenzale non sono troppi?», le chiese.
    «È un buon medico».
    «Starò bene, non preoccuparti», archiviò la questione con uno sventolio della mano. «E poi se me ne vado tu sarai sola».
    Tornò a guardare la tv, finché un rumore di passi pesanti, seguito da voci arrabbiate le raggiunse dal piano di sopra. Megan guardò il soffitto, quasi potesse vedere da lì sotto.
    «Cavolo, chissà che sta succedendo», commentò. «C’era un bel traffico quando sono arrivata. Ho chiesto alle guardie, ma non mi hanno detto niente».
    «Logan è infuriato con Wood perché nonostante le sue raccomandazioni hanno perso Zach», rispose semplicemente Helen.
    Scosse la testa. «Perché non glielo dici e basta? Insomma è pur sempre suo padre, sarà preoccupato…».
    Anche se dichiarava e dimostrava di non avere paura di Helen, era costretta ad ammettere che quando la guardò, quando vide il suo sorriso, piccolo, inosservato, ma allo stesso tempo feroce come un ruggito, le vennero i brividi.
    «Non agitarti, mia cara Megan, Zach è esattamente dove deve essere».


dal prossimo capitolo iniziamo a fare cose.
un paio di capitoli di introduzione dovete concedermeli.
la mia dichiarazione di intenti è questa: introduzione, 1, daje, 2, 'orca ho fatto una cazzata, fine.
è il riassunto di tutta questa storia, appuntatevelo, alla fine del discorso, vederemo se sono riuscita a seguire la traccia.
sto anche valutando di buttare lì uno spin-off su Sean Turner, non so se riesco a gestirlo senza dargli uno spazio tutto suo... boh... speriamo di sì.
comunque, fatemi sapere che ne pensate.

baci

ps. scusate ancora per la questione delle recensioni, il mio mondo non può funzionare finchè non avrò modo di incontrarvi periodicamente e dibattere su quello che scrivo.

pps. l'ho riletto mille volte, ma sicuramente ci sono degli errori, nei prossimi giorni rileggendo li vedrò e correggerò di sicuro, mi scuso per quante di voi lo leggeranno prima che li corregga.


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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


I Veglianti di Synt ciao...
sono esageratamente eccitata per questo capitolo, anche se non so spiegare perchè.
non so, probabilmente è la rassicurante sensazione che tutto sta trovando il suo posto nel mondo e sto riuscendo a trovare spazio per tutte el cosine che voglio che ci siano... sono molte... e con molte intendo pericolosamente troppe...
se ad un certo punto della storia - di tutta la storia, non necessariamente di questo capitolo - vorrete dirmi "datti una calmata" siete ufficialmente autorizzate.

CAPITOLO 3

    Courtney aprì gli occhi e si voltò verso la finestra.
    Il cielo era grigio scuro, appena più chiaro della notte. Frugò sotto il cuscino e prese la lettera del giorno prima.
    Veniva dall’ospedale. Il primario in persona la invitava ad un incontro, le aveva lasciato un numero da chiamare per farsi venire a prendere. In modo molto cortese e molto distaccato la invitava a confrontarsi, elencava le loro reciproche colpe sulla questione Zach, come ultimo suggerimento le lasciava una questione aperta: se avessero collaborato, se si fossero aiutati, le cose sarebbero potute andare diversamente?
    Courtney si girò a pancia in su inquieta e recuperò il proprio telefono, compose il numero di sua madre senza nemmeno pensarci.
    «Secondo te dovrei andare?», le chiese, senza presentarsi, senza darle il buongiorno. Loro due non avevano un rapporto canonico, ma in qualche modo questo le univa di più: stavano mesi senza sentirsi, senza avere bisogno di parlarsi, però poi quando arrivava il giorno in cui a Courtney serviva sua madre, sua madre era lì.
    Non era mai servito spiegarle niente, lei sapeva sempre quali erano le necessità della propria figlia.
    «Sì, credo di sì», rispose Vivian Williams come se avesse letto quella lettera con lei. Courtney poteva immaginarla nella sua vestaglia grigio chiaro, seduta su uno degli sgabelli della cucina, mentre mescolava una tisana: era un’immagine confortante.
    «Ti hanno invitava sarebbe sgarbato, infantile e improduttivo non andare. Credo sia meglio che ti credano pronta ad un compromesso».
    «Pensi che mi faranno del male?».
    Lindsey era stata trasferita, molto medici ed infermieri che lavoravano lì la stimavano, ma non credeva che avrebbero corso rischi concreti per lei: non aveva amici tra le mura di quell’ospedale.
    Sua madre rise. «Penso che potrebbero provarci».
    Courtney sorrise nel buio silenzioso della propria camera, forse sua madre si era fatta un’idea un po’ esagerata delle sue capacità.
    «Non credo che ti manderebbe lì da sola», osservò Vivian ad un certo punto.
    Non le chiese a chi si riferiva.
    Interruppe la comunicazione e guardò il letto di Becky, vuoto. Sospirando considerò quanto avrebbe voluto saperla nel letto di Zach.

    Qualcuno scrollò Nate per una spalla, per tutta risposta lui si infagottò meglio nelle coperte, lanciando quello che voleva essere un mugugno di avvertimento. Probabilmente chi stava cercando di svegliarlo non comprese la minaccia, perché lo scrollò ancora.
    Aprì gli occhi trovandosi davanti la faccia sfocata di Mr. Flicks.
    «Che diavolo ci fa lei qui?», domandò in un lamento.
    «Wood mi ha chiesto di svegliarti e farti una domanda».
    Nate avrebbe voluto contare quante volte le sue frasi iniziassero con “Wood mi ha chiesto” o “Wood ha detto”. Allungò una mano verso il comodino e recuperò gli occhiali, sapeva che cercavano di sfinirlo per coglierlo in fallo, per questo gli interrogatori interminabili e le alzatacce e…
    «Becky è…», disse come ricordando qualcosa.
    Si accorse che c’era anche Jean, seduta sulla punta della sedia della sua scrivania, composta ed attenta. Sembrava che fosse sul punto di scappare via o… volare via.
    «Già, riguarda proprio Becky», confermò Mr. Flicks. «Wood vuole sapere se pensi che Zach Douquette interverrebbe, se lei si trovasse in pericolo».
    «Quando si è svegliato?», chiese.
    «Circa mezz’ora fa».
    «Certo, la sua sintassi non risente del sonno».
    Il suo interlocutore sbatté le palpebre un paio di volte confuso, sempre irrimediabilmente confuso. Che strazio.
    «Come?».
    Sbadigliò e scosse la testa. «Lasci stare, che voleva?».
    «Zach Douquette interverrebbe se Rebecca Farrel fosse in pericolo?».
    Nate non disse niente, ci pensò.
    «Becky è…», ripeté con voce impastata. Becky era in una situazione che necessitava un intervento esterno, lui sarebbe dovuto essere quell’intervento esterno.
    Guardò Jean, lei lo stava già fissando.
    «Non era nella sua camera quando Courtney è uscita», lo informò ed attese, sicura che quell’informazione gli avrebbe dato l’aggancio giusto per inventarsi qualcosa.
    Nate avrebbe voluto con tutto il cuore mettersi a tavolino con Jean e farle le domande giuste: c’era un’inspiegabile, placida sicurezza in lei. Che non aveva senso.
    Mr. Flicks rise. «Beh, spero che la domanda di Wood non sia arrivata troppo tardi».
    Nate gli lanciò un’occhiataccia, prima di fissare Jean.
    «Credo che voglia fare sesso con Dean», sputò fuori. «Credo che tu non le abbia dato il permesso».
    Jean non distolse lo sguardo dal suo, nemmeno quando Mr. Flicks si sventolò accompagnando quel gesto con un: «Penso che di certe cose debba occupartene tu», evidentemente imbarazzato.
    Lei gli sorrise con dolcezza. «D’altronde sono ragazzi», commentò prima di alzarsi. «Sarò di ritorno in fretta», li salutò.
    Nate la osservò allontanarsi, mentre pensava che non sapeva dov’era Courtney.
    «Dunque, che ne dici di tornare alla mia domanda?», propose.
    Non sapeva dov’era Courtney.
    Lo guardò. «Dov’è Courtney?».
    Mr. Flicks si strinse nelle spalle. «In ospedale, è stata convocata ieri».
    Lanciò un’occhiata al termometro sul suo comodino, si era fermato alla temperatura di trentasei e due, non aveva la febbre, non ce l’aveva mai. Era stato azzardato, e sciocco, e pericoloso, ed adesso viveva con l’ansia tutte le volte che starnutiva.
    «Sembri pallido, ti assicuro che anche senza la supervisione di Jean, non mi permetterei mai di farti del male», lo tranquillizzò.
    Era quasi sicuro che il suo non presentare sintomi – non ancora, almeno – era facilmente estendibile a tutta la sua squadra, ma quel quasi provocava morte e distruzione; dopotutto lui e Courtney erano diversi in tutto: gruppo sanguigno, sesso, estrazione sociale, circostanze ambientali pregresse. Courtney non era una persona azzarda, o sciocca, sicuramente non avrebbe fatto cose pericolose. Non coscientemente almeno.
    «Sono preoccupato per Courtney», mormorò senza guardare il suo interlocutore.
    «La mia domanda», gli ricordò Mr. Flicks. «Wood tiene alla tua opinione, conosci molto bene il soggetto, dovresti riuscire a prevedere un pochino le sue mosse».     Credeva che quell’affermazione lo lusingasse, Nate riusciva a leggerlo nei suoi occhietti ottusi. Cercò il drago di Jean, trovò soltanto il cane di Wood.
    «Ho detto che sono preoccupato per Courtney», ripeté irremovibile.
    «Quando avrai risposto alla mia domanda andrò a chiamare qualcuno per rassicurarti, ad esso per favore…».
    «Wood sta cercando di provocarmi, ricordandomi che può fare quello che crede con la mia squadra», lo interruppe. «Non vuole la mia opinione, vuole solo essere sicuro che io non me ne dimentichi».
    «Nate», lo rimproverò evidentemente deluso.
    «Vuole che gli dica che può mettere tutte le bombe che vuole addosso a Becky, ma che tanto lui non permetterà che succeda niente?», domandò. «Perché non gli riferisce semplicemente quello che vuole sentirsi dire e la smettiamo con questa messinscena?», continuò furioso.
    «Calmati, ragazzo!», esclamò nella sua espressione per un attimo passò il barlume di qualcosa, sparì in fretta. «Cos’hai oggi per essere così nervoso?».
    Nate prese un profondo respiro e si alzò. «Perché è stata convocata in ospedale?».
    «Chi?».
    Nate fece un verso impaziente. «Ma Courtney! È stato lei a dirmi che è stata convocata in ospedale! È malata?».
    Mr. Flicks era in difficoltà, non riusciva a seguire cambi di argomento tanto repentini, soprattutto non riusciva a farlo se si sentiva sotto pressione, si raddrizzò gli occhiali sul naso. «No, insomma non credo», si corresse. «Credo che vogliano il suo parere su qualcosa».
    «L’influenza», mormorò Nate senza guardarlo.
    «Non credo gli servano pareri esterni per curare l’influenza», sbottò.
    «Non può essere già arrivata qui».
    Rise. «Che medici sono se non sanno curare l’influenza?», continuò, saldo su un discorso semplice.
    Nate lo fissò, ma non ebbe il coraggio di parlare, sospirò osservandolo prendere appunti su uno dei suoi mille fogli stropicciati, dispiaciuto per aver perso le staffe con lui.
    «Sì, credo che Zach interverrebbe», concluse, non aveva più tempo da perdere. «Sa se Matt è in caserma?».
    «Credo di averlo visto a mensa».
    «Le spiace se vado a parlargli, voleva chiedermi qualcos’altro?».
    «No». Una volta che ebbe scritto tutto, si alzò dal suo letto e si diresse verso la porta per lasciarlo, perse un cartoccetto nel farlo.
    Nate voleva aiutarlo, ma doveva aiutare anche Courtney, Becky, Matt e se gli veniva bene sé stesso. Mica poteva pensare a tutti…

    Becky allungò una mano oltre le coperte ed i cuscini tastando il comodino: lampada, pistola, accendino – di chi? – cellulare. Fece scorrere il dito sullo schermo per rispondere, mentre si portava il telefono all’orecchio.
    «Pronto», mormorò in uno sbadiglio.
    Dall’altra parte della cornetta sua madre le diede il buongiorno, allegra.
    Due settimane prima Wood si era preso la briga di accompagnarli a far visita ad ognuna delle proprie famiglie per tranquillizzarle.
    Becky era stata presente al loro incontro, lo aveva ascoltato prestarsi ad ogni domanda ed accusa: aveva giustificato Jean Roberts dichiarando di essere stato lui stesso a spingerla a ricoprire un compito, per il quale evidentemente non era pronta; aveva giurato che non avrebbe mai più permesso che i Veggenti di Synt rapissero i loro figli, che Zach era stato il loro ultimo, tragico errore. Li aveva aiutati a trovare un punto di contatto, bilanciando il bisogno di Becky di non sentirsi troppo sotto pressione, con il diritto dei suoi genitori di avere sue notizie.
    Aveva visto sua madre tirare un sospiro di sollievo.
    Suo padre era rimasto in silenzio a guardarla, senza sapere cosa dire, come se volesse un suo suggerimento.
    Avevano anche avuto un colloquio privato, Becky li aveva spiati accucciata sulle scale.
    Sua madre aveva chiesto a Wood se dovessero temere che Zach Douquette la venisse a cercare, lui aveva dovuto confermarlo, con sommo rammarico. Aveva spiegato che evidentemente aveva un debole per la loro figlia e che temevano fortemente per quella possibilità; li aveva rassicurati però, l’aveva osservata, stava facendo amicizia, la vedeva spesso scherzare con un ragazzo della sua squadra così per bene.
    Era difficile che una mela marcia come Zach potesse in qualche modo farle del male, se lei si circondava di brave persone e comunque stavano prendendo ogni precauzione necessaria in quel senso.
    Solo a quel punto suo padre aveva aperto bocca.
    «Credo che Zach sia un bravo ragazzo», aveva detto. «Lo hanno ferito per difenderla, è quasi morto per farlo».
    «Non sappiamo cosa gli hanno detto, né se gli abbia creduto».
    Sua madre aveva chiesto altro, Wood aveva risposto.
    Becky era rimasta concentrata sul silenzio di suo padre.
    «Mi dispiace, signor Wood, non può convincermi che qualcuno che è quasi morto per mia figlia, possa tornare a farle del male», aveva detto infine. «Anche se secondo lei non è una ragazzo così per bene».
    Ora sua madre la chiamava a giorni alterni e le raccontava cose stupide.
    Si salutarono ed appoggiò di nuovo il cellulare sul comodino. Per qualche secondo rimase ferma sotto le coperte a guardare il fianco nudo di Dean, liscio e scolpito da tutti gli allenamenti. Fissava un punto, a sinistra, appena sotto le costole, dove la pelle pallida ed intatta non mostrava nessun segno.
    Avrebbe voluto fingere di essere addormentata per sempre, ma Dean si girò e la abbracciò. «Buongiorno», biascicò contro i suoi capelli.
    Becky sbadigliò. «Dovrò dire a mia madre di non chiamare così presto».
    «Non sarebbe affatto una cattiva idea», rispose, allontanando la testa da lei ed appoggiandola sul cuscino.
    La guardò sbucare oltre le coperte e continuò a fissarla anche quando allungò la mano per scostargli i capelli dal viso.
    «Dov’è Serena?», chiese in un sussurro.
    Lui scrollò le spalle. «È uscita presto, ha detto di dover fare delle compre per Matt».
    Il suo sesto senso lanciò un “bip” d’avvertimento. «Comprare cosa?», chiese preoccupata.
    Dean sorrise e le si avvicinò per baciarla, Becky sapeva che era un diversivo per distrarla, ma che avrebbe potuto fare?
    All’inizio fu tenero, il bacio che si scambiarono fu dolce, poi però le labbra di Dean si fecero più avide. Con delicatezza la spinse sulla schiena fino a starle sopra con il busto, le mani di Dean le percorsero il corpo come se gli appartenesse, fermandosi sul suo fianco, lasciato scoperto dalla canottiera arrotolata.
    Lampada, pistola, accendino – di Zach.
    «Aspetta», lo fermò.
    Dean si immobilizzò. «Mi pare un po’ sleale», osservò contrariato.
    Becky rise fissandolo, arrossita.
    «Perché dovrei?», le chiese allora Dean. «Tu lo vuoi quanto me, sarebbe bello, starei attento».
    «Non voglio farlo», disse. «Non ancora», aggiustò, davanti all’occhiata scettica di lui.
    «Potrei insistere», insinuò, lasciando che la sua mano si arrampicasse sulla sua pelle, che le sue dita si avvicinassero al suo seno.
    Potrei spararti.
    Fu la prima cosa che le passò per la mente, ma non lo disse ed in fondo quella che era sul suo comodino era solo una pistola a gommini.
    Come se le stesse leggendo nella mente, la mano di Dean perse interesse per il suo corpo, le afferrò il polso in cambio. La baciò di nuovo, ma stavolta sembrava talmente tanto un tentativo di tenerle la bocca ben sigillata, mentre provava ad insinuarsi ed incastrarsi fra le sue gambe.
    Becky cercò di allontanarsi, sollevarsi, ma il corpo di Dean la tirava in basso come un masso. Le sembrava di annaspare, affogare, le mancava l’aria ed il suo corpo reagiva in modo febbrile e scostante. Sentiva il corpo di lui premere contro il proprio ed aveva la nausea, la sua pelle ora sembrava orrenda e raccapricciante, troppo liscia, troppo perfetta, toccarla la disgustava. Sentirsi toccare la disgustava.
    Dean trovò l’elastico dei suoi pantaloni e Becky rabbrividì, quando ci si insinuò dentro.
    «Ti prego», supplicò in un sospiro e si maledisse per essere caduta tanto in basso da dover elemosinare rispetto, mentre cercava di scostarsi con molto più impegno di quanto avrebbe dovuto e voluto usare.
    Dean rimase fermo e Becky realizzò quanto fosse più pesante e forte di lei, le sembrò inamovibile come una statua di marmo. Fisicamente non poteva fare niente per obbligarlo ad allontanarsi.
    Qualcuno bussò alla porta.
    «Becky, sono Jean, esci subito di lì».
    Dean sorrise e la guardò, sembrava intrigato dalla sua aria spaventata.
    «Arrivo», urlò Becky di rimandò, lo fissò a sua volta sfidandolo a non ubbidire ad una Responsabile.
    Con calma le sfilò una mano dai pantaloni, accarezzandole la natica in un gesto che voleva sembrare passionale, ma a Becky sembrò soltanto volgare e crudele. Si puntellò su un braccio e le fece un cenno con il capo, per incoraggiarla a sgusciare via, come se le sue proteste fossero stato uno scherzo, come se stessero giocando.
    Si tirò su e si abbassò la maglietta, recuperò la sua pistola, il suo cellulare e l’accendino di Zach, senza lanciare nemmeno un’occhiata a Dean, rimasto scomposto sul letto. Bello, ma solo da vedere.
    «Becky», la chiamò lui.
    Lei non si voltò, si alzò ed a piedi nudi si diresse verso la porta.
    «Becky, aspetta, non volevo…», non c’era anima in quelle parole, erano solo una serie di lettere e suoni messi in fila.
    Si voltò e gli puntò la pistola contro, con tutta la calma di cui era capace caricò il colpo in canna, poi spostò la mira fino ad inquadrargli il cavallo dei pantaloni. Si chiese quanto male potesse fare un giocattolo.
    Voleva sparargli e piangere, ma sapeva di non poter fare nessun dei due.
    «Non permetterti mai più a comportarti così da prepotente», si obbligò a dire.
    «Scusa, ma io…».
    «Ne riparleremo in un altro momento».
    Spalancò e sbatté la porta nell’uscire. Poi però rimase ferma, mentre Jean la guardava tutta con calma.
    «Stai bene?», le chiese.
    Annuì ed abbandonò il braccio lungo il fianco, la mano, ancora aggrappata al feticcio di un’arma, pesantissima.
    Jean la osservò per alcuni secondi, poi fissò la porta davanti a lei.
    «Se vuoi entro», le offrì fissando la porta con determinazione, ma non con la ferma sicurezza con la quale si muoveva in una caserma assediata; era come se volesse sfidarsi a farlo, come se dovesse dimostrare qualcosa. Come se volesse mettersi alla prova.
    Becky si fidava ciecamente di Jean, sapeva che l’avrebbe difesa, ma Dean e Serena erano diversi: dietro l’andare al tappeto di Dean così facilmente, dietro l’ostentata scarsa preparazione di Serena, si nascondeva molto altro. Non voleva che Jean si mettesse in pericolo inutilmente. Se la teoria di Nate e Romeo era giusta, aveva preso abbastanza Mitronio da essere completamente ordinaria, non poteva fare più niente. Toccava a loro a quel punto prendersi cura di lei.
    «Sto bene, non preoccuparti».
    «Okay».
    «Non ti stavo disobbedendo».
    Jean le sorrise. «Lo so».

    Courtney, autorizzazione alla mano e pistola nella borsa, guardò i numeri dell’ascensore illuminarsi uno ad uno mentre scendeva.
    Il colloquio con il primario era stato insospettabilmente gradevole, un bel confronto. Lui si era scusato per aver sottovalutato le sue qualità, ma aveva rinnovato le sue convinzioni: non condivideva quel voto al segreto che sembrava avere, avrebbe dovuto condividere le sue scoperte, avrebbe dovuto confrontare le sue idee, se avesse continuato ad agire senza pensare avrebbe finito per commettere uno sbaglio enorme.
    Secondo lui quello che teneva insieme la loro civiltà era la condivisione di buone idee.
    Secondo Courtney, d’altronde, erano una serie di bugie ben progettate a farlo; quindi concordò ed espresse il proprio impegno a socializzare con il centro medico di Synt.
    Il senso di tutto quell’enorme, inutile, uso di forme cortesi era invitarla a non sprecare il suo talento.
    Avevano un nuovo caso di influenza piuttosto resistente, avevano allestito un piccolo punto di recupero nei piani inferiori. Quelle persone malate avevano bisogno soprattutto di riposo, non del caos in superficie di un ospedale che operava in una città assediata dai Veggenti.
    Voleva che se ne occupasse lei, erano casi semplice, un buon banco di prova.
    Avrebbe osservato come si evolveva la situazione, eventualmente avrebbe pensato al suo prossimo incarico e, soprattutto, ad una lettera di raccomandazioni per farla studiare.
    Decisamente troppo generoso, aveva pensato Courtney.
    Il cellulare le squillò nella borsa, lo prese e se lo portò all’orecchio.
    «Ciao, Nate», disse senza nemmeno guardare lo schermo.
    «Dove sei?», le chiese agitato.
    «In ospedale».
    «Perché ci sei andata senza dirmi niente?».
    Per un attimo Courtney rimase quasi scioccata, si rifiutò categoricamente di prendere in considerazione la possibilità di avvertirlo ogni volta che usciva. «Scusa?».
    «Non toccare…».
    La linea cadde, non si stupì, era sotto terra, prevedibile che non ci fosse rete. Una parte di lei era contenta, non era piacevole parlare con Nate quando aveva un attacco di paranoia acuta.
    Il reparto di cui le aveva parlato il primario era una stanza con sei letti, una sedia ed un tavolo. Sul tavolo c’erano una pila di cartelle cliniche, appoggiato alla sedia una camicie con il suo nome.
    Courtney osservò i suoi pazienti addormentati e guardò l’orologio, strano che dormissero così tanto, si chiese se non dessero loro medicine specifiche.
    Senza un motivo apparente le venne in mente il termometro con cui giocherellava sempre Nate.
    Si sedette ed aprì la prima cartella.

    Nate trovò Matt a tavola con Jared: scherzava e mangiava una cucchiaiata dopo l’altra di latte e cereali.
    Lì per lì gli venne voglia di ucciderlo.
    Si avvicinò e sollevò il piede sulla panca per mostrargli la bomba. «Devi togliermi questo affare», gli disse.
    Matt, improvvisamente pallido, gli lanciò appena un’occhiata. «No, non devo».
    «Ascoltami bene: ho aspettato, ho lasciato che la tua paura facesse il suo corso e tu ritrovassi la via della ragione», spiegò sottovoce mettendogli una mano sulla spalla. «Ma adesso devo uscire ed andare ad aiutare Courtney e tu devi togliermi questa cosa maledetta», ringhiò.
Jared iniziò a fissarli entrambi, guardingo.
    Vide Matt sforzarsi di mantenere la calma. «Chiamala», gli propose.
    «Ci ho provato, ma il suo cellulare non prende».
    Lo vide allungare le orecchie, annusare anche lui che qualcosa non andava, lo vide anche ignorare ogni singolo avvertimento che gli mandava la propria mente.
Sospirò. «Se fossi comprensivo la metà di quanto credi di essere, non me lo staresti chiedendo», gli disse. «Sai qual è la posta in gioco».
    Tornò ai suoi cereali, finché Nate non gli diede una spinta che gli fece rovesciare la cucchiaiata sul tavolo.
    Se le cose fossero state diverse, si sarebbe soltanto rovesciato del latte.
    Matt sbatté il cucchiaio sul tavolo, si pulì la mano e si alzò in piedi. «Cos’è, vuoi fare a botte?», gli domandò incredulo. «Sei diventato quel tipo di persona?».
    «Ragazzi, sedetevi e calmatevi», ordinò Jared mettendosi in piedi, pronto ad intervenire.
    «Io?», domandò Nate ridendo. «Stiamo parlando di me? Non sono io ad aver messo una bomba alla caviglia di un amico».
    «Non esplode, Nate, devi solo stare qui in caserma», gli ricordò. «Anche quando c’era Zach ti faceva stare dentro, è tutto esattamente come prima».
    «No, non è vero!», urlò, non avrebbe voluto, non riuscì a farne a meno.
    Stavano attirando l’attenzione, non gli piaceva avere tutte quelle facce sconosciute intorno. Riconobbe gli occhi preoccupati di Becky, ferma dietro la folla con un vassoio in mano. Scosse la testa impercettibilmente, invitandola a non intervenire.
    Matt lo fissava con un misto di comprensione, rammarico e fermezza. Per un attimo si vide andargli sotto, prenderlo per il colletto della maglia… avrebbe dato corpo a quella visione, se non avesse anche visto Matt colpirlo.
    Lui allargò le braccia e sorrise: «Accomodati», lo sfidò.
    Già, sfortunatamente non era l’unico.
    Jared si mise tra loro. «Okay, piantatela», disse a tutti e due. «Non puoi prendertela con lui perché ha obbedito ad un ordine di Wood», gli ricordò. «Se ti ha messo quella bomba un motivo ce l’avrà avuto, anche se adesso non lo capisci».
    Perché Jared era diventato così stupido?
    Cercò di nuovo Becky – lei non era stupida – senza trovarla, vide il suo vassoio però, appoggiato su uno dei tavoli; sapeva dove stava andando e cosa avrebbe cercato.
    «Dove sono le pistole di Becky?», gli chiese di punto in bianco.
    Anche Matt stava fissando il punto dov’era sparita.
    «Ce le ho io», fece Jared. «Wood le ha consegnate a me».
    «Devi dargliele», ordinò.
    Lui non lo ascoltò, fece un cenno alle sue spalle per richiamare un pugno di Veglianti di Wood. «Stai avendo un episodio paranoico, Nate», spiegò mentre i Veglianti lo afferravano per le braccia. «Ti portiamo in isolamento finché non ti calmi».
    Nate oppose resistenza, debolmente, quattro contro uno era uno scontro dall’esito prevedibile anche per Mr. Flicks.
    «Sei un traditore, Matt, e lo sai», urlò comunque, prima che lo portassero via.

    Non appena uno di loro si era svegliato, Courtney aveva chiesto di poterlo visitare.
    La sua paziente, una donna di trentasette anni di costituzione robusta, la fissava con uno strano senso di confusione; era normale, non la conosceva, riconosceva solo il verde della sua giacca e di solito i Veglianti non erano considerati rassicuranti.
    Armata di stetoscopio prese ad auscultarle le vie respiratorie.
    «Che ci fa lei qui?», le chiese una voce allarmata e strana, sembrava quasi che rimbombasse, ma forse era lo stetoscopio.
    «Shhh», la zittì senza voltarsi, infastidita dall’interruzione. Sentiva qualcosa di strano, come se i polmoni della donna gorgogliassero.
    «Deve uscire, l’accesso a questo reparto è autorizzato soltanto al personale…», continuò l’infermiera oppure il medico che l’aveva sorpresa.
    «Sono stata autorizzata dal primario».
    Sollevò di più la maglia della donna e studiò i segni scuri che aveva sulla pelle, sembrava che ci fosse un versamento di sangue, superficiale e limitato se la donna era ancora viva, ma quale influenza provocava emorragie interne?
    Non capiva cosa le stava sfuggendo.
    «E l’ha fatta scendere così?».
    Courtney sospirò e la fissò. «Io non capi…», si interruppe.
    «Si allontani immediatamente!», questa volta era la voce di un uomo.
    Gli occhi dei due, dietro la maschera, sembravano in preda al panico.
    Courtney sollevò le mani e fece un passo indietro, capì subito che era troppo tardi.
    La voce le era strana perché veniva dall’interno di una tuta.
    Una tuta per evitare il contagio biologico.
    Fece un passo indietro, mentre l’infermiera le diceva cose inutili come “non tocchi niente”. Aveva già toccato tutto, respirato. Non si era mai ammalata, ma quella cosa era diversa.
    Era diversa perché lì c’erano sei letti, ma Courtney ne vide mille.
    Vide piani e piani di ospedali convertiti in quarantene forzate.
    Vide pazienti morire tra le mani dei propri medici e vide medici diventare pazienti.
    Vide un mondo malato e morente.
    Si portò una mano alla bocca sconvolta: era un’epidemia che sembrava e si diffondeva come l’influenza.
    E non sapevano curarla.
    Ripensò alle cartelle, ai sintomi e la sua mente girava, vorticava e…
    Era troppo tardi.

    Becky si era data un ultimatum: se Courtney non fosse tornata prima della sei di quella stessa sera, sarebbe andata a cercarla.
    Non appena aveva visto quanto Nate fosse preoccupato per lei era tornata in camera, le aveva chiesto scusa con il pensiero ed aveva iniziato a frugare tra le sue cose. Aveva trovato una miriade di cianfrusaglie inutili: una sacca di sangue vuota, la scatola dei cioccolatini, una coppetta da gelato vuota, ma appiccicosa.
    Aveva trovato la giacca di Zach.
    Courtney l’aveva lavata, non era più sporca di sangue, ma non l’aveva ricucita. Sfiorò il taglio causato dal coltello di Romeo e le mancò la possibilità che sotto ci fosse la pelle di Zach.
    Era diventata bravissima a non guardare in quell’angolo della sua mente, ma le mancavano mole cose di lui. Le mancavano le sue mani, i suoi capelli, come la guardava quando era arrabbiato con lei; le mancava la sua voce la notte, le mancava dormire nella brandina della sua camera ed ascoltarlo raccontare cose, avventure, storie spaventose che erano la loro favola della buonanotte.
    Si portò la giacca al viso.
    Le mancava il suo odore, quella giacca sapeva del bucato sterilizzato e batteriologicamente puro di Courtney.
    Courtney.
    Posò la giacca e recuperò una lettera con l’intestazione dell’ospedale.
    Becky la lesse di riga in riga più infastidita. Trovava folle, leggero, testardo e tipicamente da Courtney, che fosse andata in ospedale da sola, consapevole di non avere né amici né alleati.
    Certo, che era nei guai, era stata così stupida da infilarsi nella tana del lupo da sola.
    Sussultò, quando aprendo la porta si trovò davanti Matt.
    «Cavolo, mi hai spaventata», sbottò, mentre lui la scostava per entrare.
    «Ti ho portato una cosa», le disse.
    «Senti, se sono le scarpe, dovranno aspettare», lo ammonì. «Hanno rinchiuso Nate, tu hai Rose e Jared è uno stupido», elencò. «Sono rimasta solo io».
    Lui gli porse due pistole. «Ho pensato che potrebbero servirti», sorrise.
    Becky le guardò, poi spostò gli occhi sul suo viso. «Matt», disse senza sapere come proseguire.
    «Le scarpe saranno pronte domani», continuò. «Domani dovrò dartele e tu dovrai metterle, perché hanno un GPS e lo sapranno se non lo fai».
    Becky prese le pistole. Quando i suoi palmi si strinsero intorno al calcio, la prima cosa che pensò di fare fu andare nella stanza di Dean e vedere come reagiva davanti ad un’arma vera. Si impose di non farlo, c’erano cose più importanti.
    «Tu lo sai che devo farlo, vero?», le chiese. «Che ti voglio bene, che sei buona e che non lo meriti, lo sai?».
    C’era una strana urgenza negli occhi di Matt, qualcosa che li rendeva sinistri. Stavano impazzendo tutti.
    «Lo so», disse. «Matt, Nate è solo preoccupato e frustrato». Allungò una mano per sfiorargli il braccio, quasi una carezza, mentre apriva la porta per uscire. «Ci pensiamo domani, d’accordo?».
    Si guardò intorno assicurandosi che il corridoio fosse deserto, prima di dirigersi verso l’ingresso.
    «Non dire a nessuno che mi hai vista».

    Ammanettata ad un termosifone, Courtney fissava il muro bianco davanti a lei.

    Milioni di letti.

    Mamma.

    Milioni di bare.

    Mamma.

    «La terremo sotto osservazione finché non saremo sicuri che non sia stata infettata».
    «Miss Williams, vuole che avvisiamo qualcuno?».
    «Mia madre. Vivian Williams».

    «Courtney».

    Non si poteva contenere l’influenza.
    Ogni anno milioni di persone si ammalavano, soffrivano il mal di pancia, si soffiavano il naso, tenevano sotto controllo la febbre e lo superavano.
    Non si curava l’influenza.
    Si cercava di prevenirla con vaccini, cure per rinforzare le difese immunitarie e rendere il corpo in grado di combatterla.

    «Courtney».

    Il primario voleva che venisse infettata.

    «Courtney, non sei stata contagiata».

    Zach.

    «Come?».
    La fissava, gli occhi verdi tra filze di capelli biondo chiarissimo.
    «Non sei stata contagiata», ripeté.


sì, Zach è diventato biondo...
è diventato super sayan...
no, ma sarebbe una figata.
ad ogni modo...
non voglio dirvi cose che potrebbero spoilerarvi altre cose in modi che non riesco a prevedere, perciò mi limiterò ad un commento random: da qualche parte avevo letto/ascoltato un servizio in cui dicevano che potenzialmente l'influenza era la malattia più resistente al mondo, perchè ci veniva ripropinata ogni autunno da sempre e per sempre. si contagia che è un amore in milioni di modi e prima o poi tutti finiamo a letto... poi mentre ci pensavo c'era il rischio ebola, che era un'altro virus... certo, l'ebola già si diffondeva in modo più complicato... però ho pensato che se l'ebola si fosse diffusa come l'influenza saremmo stati spacciati. e da lì ho creato il mio fantastico, tenero ed adorabile virus.
se ve lo state chiedendo, no, non ho iniziato a studiare medicina strada facendo... quindi, boh... potrei aver scritto e pensato una marea di stupidaggini...
ma beh...
se non posso far diventare Zach super sayan qualche libertà dovrete pure lasciarmela!

poi...
ieri la Fragolottina corp. ha affrontato il problema wattpad - chi mi segue un po' dappertutto lo sa - perchè riscontro molte richieste di pubblicazione delle mie storie sotto altri nomi, di tanto in tanto mi tocca sventare un plagio e qualche volta le persone hanno la bizzarra sensazione che quando dico "no" in realtà intenda "sì". strano vero?
dopo aver detto a Lamponella che non me la sento, al mio fidanzato che sono troppo vecchia per ricominciare su un nuovo sito, a fallsofarc che ho l'ansia, ho deciso senza alcun senso logico di sì.
quindi prossimamente le mie storie, o almeno alcune, verranno postate un po' per volta sul mio profilo lì...
EFP continuerà sempre e comunque ad essere il sito prevalente, ma penso che sia giusto marcare il territorio... oh, di fragolottina una c'è!
quindi presto troverete il link sulla mia pagina autore.
se siete anche lì, statemi vicine perchè ho l'anisa, non me la sento e sono troppo vecchia, non lasciatemi sola!

affezionatamente vostra
Fragolottina

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


I Veglianti di Synt ...mpf...
perchè tot anni fa ho cominciato a scrivere il Mitronio?!
perchè?
e con questa frizzante ed incoraggiante introduzione vi lascio al capitolo 4!



CAPITOLO 4


    Il cameriere attraversò la sala senza guardare in faccia nessuno.
    Nessuno avrebbe avuto dubbi sulla sua preparazione, professionalità, identità.
    Portò i piatti in cucina, ma quando si voltò rimase immobile. La sposa era in piedi davanti a lui, ingombrante nel suo vestito di tulle e merletti.
    Sotto il velo e sopra il corpetto c’era una cascata di capelli rossi.
    Era felice che non li avesse raccolti o tinti, era felice che se li fosse tenuti com’erano quando se ne era andato.
    La ragazza guardò il cameriere in lacrime, si coprì la bocca, ma non prima di permettergli di vedere una risata: erano lacrime di gioia.
    Lui avrebbe voluto dire mille cose, ma non aprì bocca: si portò l’indice alle labbra facendole segno di tacere.
    Lei annuì e sorrise, ma allungò le braccia fasciate di pizzo verso di lui, alla ricerca di un abbraccio.
    Non poteva negarle una cosa così piccola e non voleva negarsi una cosa così grande.

    Nate pensò che, vista l’enormità di tempo che gli facevano passare in isolamento, avrebbe potuto iniziare ad arredare la stanza secondo il suo gusto. Magari avrebbe potuto attenuare il bianco accecante di qui muri con un tono più soft, e magari avrebbe sostituito quelle luci insopportabilmente luminose con delle lampade. Gli scoppiava la testa.
    Si rifiutò di guardare verso la porta scorrevole, si rifiutò di incontrare lo sguardo ottuso di Mr. Flicks, quando entrò. Perché mandavano sempre Mr. Flicks? Quali informazioni potevano ottenere dai loro strani e disfunzionali colloqui?
    Gli si avvicinò fino a fermarsi davanti a lui, seduto per terra in angolo.
    «Ho chiamato in ospedale», disse Mr. Flicks aprendo una cartellina, forse conteneva delle istruzioni, perché non appena lo ebbe fatto, si frugò in tasca e gli porse un aggeggino metallico.
    Dubbioso, ma curioso, Nate si raddrizzò gli occhiali per studiare quell’oggetto. Era piccolo ed aveva un pulsantino lucido da una parte: Nate sapeva cos’era, ma non aveva senso. Iniziò a sospettare di avere un’allucinazione.
    Spinse il pulsante però e Mr. Flicks annuì soddisfatto.
    Era un distortore, serviva a mantenere la loro conversazione dentro le mura di quella stanza, annientava le cimici. Quel tipo era suonato e strano.
    «Due medici sono andati a tirare fuori Courtney dal reparto malattie infettive».
    Nate rise incredulo. «Lei ha davvero ascoltato quello che ho detto?».
    Mr. Flicks recuperò una sedia e si sedette davanti a lui, si chiese se il fatto che in quel modo attenuasse un po’ le luci fosse casuale o se si fosse messo proprio lì di proposito. Gli sembrava decisamente troppo premeditato per lui.
    Rimase serio senza guardarlo. «Non sono molto bravo per questo lavoro», ammise. «Non significa che non ti ascolto. Ci metto un po’ a capire, però alla fine capisco e scrivo», spiegò sollevando i suoi fogli ora impilati in una cartellina. «Me l’ha data Jean, così non rischio di perdere niente».
    Nate lo guardò, non c’era acume nei suoi occhi, però c’era una sorta di consapevolezza che lo fece sentire in colpa. Sapeva, Mr. Flicks conosceva tutti i propri deficit e viveva in un mondo di persone che non mancavano di farglielo notare. Lui compreso.
    «Mi dispiace», disse, anche se forse non avrebbe capito, che si stava scusando per ogni pensiero poco nobile che aveva avuto nei suoi confronti.
    Lui sbatté le palpebre, sbirciò la cartellina in cerca di un suggerimento, per la prima volta da quando si incontravano si chiese chi gli scrivesse quelle istruzioni, non poteva essere Wood.
    Poteva? Era un trucco?
    «Ti perdono», lesse. «Ma vorrei che ascoltassi me».
    «La ascolto», concesse Nate guardingo.
    «Io ho fatto... sono stato…», si interruppe, sorrise e chiuse gli occhi. «Non ho potuto scriverlo, sarà una cosa lunga», considerò lanciandogli un’occhiata colpevole.
    Nate si strinse nelle spalle. «Hanno annullato tutti i miei appuntamenti di oggi».

    Becky scivolò fuori dalla porta della caserma riservata agli inservienti del magazzino, era chiusa, ma aveva le chiavi.
    Nate si era messo a lavoro prima ancora che rapissero Zach: quando erano tornati in caserma, lo avevano trovato intento a prepararsi ad una guerra che nessuno di loro aveva ancora compreso: aveva sparso in giro chiavi per scappare, armi nascoste nelle griglie dei sistemi aerazione, punti ciechi dalla ricezione di Wood. Lei, Matt e Courtney avevano capito solo nel momento in cui gli avevano installato quella cavigliera.
    Nate aveva fatto tutto quello che aveva potuto, finché aveva potuto.
    Rimase nascosta dietro una colonna, in attesa che il Vegliante addetto a controllare il perimetro della caserma la superasse, aspettò finché le proprie visioni non si sovrapposero al presente.
    Attraversò il cortile e si arrampicò sul cancello per saltare dall’altra parte.
    Inizialmente erano stati dubbiosi, ma erano bastate poche settimane senza Mitronio per notare la differenza. Becky era diventata più agile, più precisa, più attenta; l’istinto di autoconservazione, che Lynn continuava a non trovare quando l’addestrava, c’era, era soltanto impigrito da tutte quelle tossine.
    Non potevano permettere che qualcuno notasse differenze troppo evidenti in loro, quindi cercavano di essere prudenti, ignoranti e lenti. Non era stato difficile notare che non erano i soli a fare quel gioco: Dean e Serena erano tanto bravi che, anche impegnandosi ad essere il più imbranata possibile, riuscivano a farla vincere.
    Sempre.
    Per qualche minuto ancora, Synt non sarebbe stata sotto coprifuoco e questo per lei era un grande vantaggio.
    Svoltò l’angolo e si trovò immersa nel consueto brusio di una città che fingeva di essere normale. Si filò la felpa ed un ragazzo le porse una giacca con un cappuccio abbastanza ampio da nascondere tutti i suoi capelli.
    Quel ragazzo era accompagnato da una signorina bionda e minuta come lei, che le fece l’occhiolino prima di infilarsi la sua felpa.

    Per qualche secondo Courtney rimase completamente senza parole: la bocca dischiusa, trattenne anche il respiro, come se qualcuno avesse premuto pausa nel telecomando del suo essere.
    «Che hai fatto ai capelli?», chiese, si sfilò un fazzoletto di carta dalla tasca e se lo posò lentamente sul viso per coprirsi naso e bocca.
    Zach sospirò e le si accucciò davanti. «Devi credermi», disse cercando di toccarla, ma lei scostò la mano, si allontanò e si alzò in piedi. La sedia che cadde alla sue spalle, per colpa del movimento brusco, fece un frastuono infernale.
    Zach si sollevò, ma non provò ad avvicinarsi di nuovo. «Courtney, lo saprei. E lo sapresti anche tu».
    Capiva quello che le stava dicendo, era spaventata, ma capiva. Se entrare in quell’ospedale, in quel reparto, fosse stato pericoloso un campanello d’allarme sarebbe suonato nella sua testa. Qualcosa o qualcuno le avrebbero detto di non andare.
    Beh, Nate ci ha provato, rifletté.
    «Se ti credo e ti sbagli sono un’arma batteriologica, una bomba».
    Era un medico, non poteva dimenticare la propria vocazione, le proprie responsabilità. Non poteva credergli, non poteva rischiare. Non voleva.
    «L’hai visto quel reparto», osservò Zach, mentre allungava una mano verso di lei senza avvicinarsi, un’offerta. «Court, quella bomba è già esplosa».

    Becky si fermò.
    Aveva pensato che attraversare Synt a piedi fosse la scelta più saggia: aveva immaginato milioni di Becky cercare di nascondersi in un pullman, mentre un gruppo di Veglianti saliva per controllare. Era minuta, non invisibile. Non volveva rimanere incastrata in un tubo di metallo senza vie d’uscita.
    Certo, aggirarsi da sola in una Synt al crepuscolo, sapendo di essere braccata da Dean e Serena e conoscendo i milioni di punti da cui potevano raggiungerla, in quel momento non sembrava una mossa molto più intelligente. Una parte di lei aspettava con una folle frenesia quel confronto: voleva sapere, voleva trovare il modo di spingerli a mostrare cosa nascondevano.
    Vedere, anche vedere poco, era una droga e non vedere, non vederli, la logorava. Tenerseli tanto stretti era un’ottima copertura, ma era anche un buon per osservarli ed aspettare un loro passo falso.
    Riprese a camminare cercando di darsi un’aria impegnata ed indifferente, discretamente si lanciò un’occhiata alla spalle: a meno di dieci passi da lei Dean stava organizzando un gruppo di Veglianti, non aveva bisogno di sentire per sapere che stava dando istruzioni dettagliate per trovarla.
    Ci avevano messo poco, a smascherare la Veggente che aveva cercato di sostituirla.
    Troppo poco.
    Se Dean era lì, dov’era Serena?
    «Becks».
    Voltò la testa di scatto verso la fermata dell’autobus, c’erano tre persone: una ragazza con un baschetto viola, indaffarata a parlare in tedesco al telefono; un tizio impossibile da identificare, perché teneva un’enorme piantina della città dispiegata davanti a lui; l’altro era un giovane con un cappello da baseball ed un paio di occhiali da sole che le sorrideva.
    Ed era Jamie Ross.
    Non si mossero quando Becky li raggiunse e si infilò dietro di lui per nascondersi. Nessuno diede segno di averla vista.
    «Sono dei tuoi?», chiese in un sussurro.
    «In realtà Ophelia e Stu sono dei tuoi», specificò Jamie, grattandosi il viso per dissimulare il labiale. «Sono gli addetti alla tua sicurezza».
    Sembravano straordinariamente prudenti e sull’attenti: non era un dettaglio incoraggiante.
    «Cosa aspettate?», domandò piano.
    «Te», disse semplicemente. «E che Ophelia finisca di discutere con il suo ragazzo».
    Becky sbatté le palpebre perplessa. «Sta davvero parlando al telefono?», bisbigliò sbalordita. «Credevo fosse una copertura».
    «Il cappello è la copertura», spiegò.
    «Io devo andare a salvare Courtney!», obbiettò Becky.
    Jamie rise, si frugò in tasca, recuperò una sigaretta e l’accese. «C’è già andato Zach».
    Becky rimase immobile.
    Zach.
    «Zach è a Synt?».
    «Zach è a Synt», confermò. «Volevamo stampare un trafiletto sul giornale o sul sito istituzionale della città, ma abbiamo optato per l’effetto sorpresa».
    Zach.
    «È andato da Courtney», continuò.
    Stu girò la cartina fingendo di cambiare angolazione nello studiarla. «Ci ha chiesto di riaccompagnarti in caserma prima di farti male».
    Becky fissò Stu, seccata. «Ha detto così?», domandò tirando fuori la pistola con il sedativo.
    Zach era stato lontano da Synt per tutto quel tempo, fregandosene di come se la passavano per tutto quel tempo ed ora aveva il coraggio di presentarsi lì, intenzionato a salvare l’ennesima damigella in difficoltà e mandando due Veggenti per riportarla a casa?
    Zach era stato lontano da Synt per troppo tempo.
    «Secondo voi riesco a sparare a Dean e Serena?».
    Ophelia si mise il telefono in tasca e si legò i capelli, Stu ripiegò il giornale infilandolo nella tasca interna della giacca.
    Jamie soffiò via il fumo in un sospiro. «Morirò senza essere mai riuscito a finire tutta una sigaretta», si lamentò, prima di sollevare un cellulare e portarselo all’orecchio. «Chinatown, hai vinto tu».

    Courtney fissò il suo palmo aperto, poi i suoi occhi dietro il giallo, quasi bianco in realtà, posticcio dei capelli: voleva trovare una traccia qualsiasi di menzogna, voleva supplicarlo perché ammettesse di mentirle.
    Tutti quei morti.
    Tutte quelle bare.
    «Non possono», sussurrò. Ma abbassò la mano con la quale si teneva premuto il fazzoletto sul viso. Potevano, una parte di lei era ben consapevole di quali atrocità si erano macchiati.
    «Non possono averlo permesso. Io…», si interruppe. «Mia madre. Romeo. Perché loro l’hanno permesso?», chiese.
    Zach non abbassò lo sguardo, ma lasciò cadere il braccio lungo il fianco con un sospiro. «Non colpisce i Veggenti», ammise, quasi si trattasse di una colpa.
    Che equivaleva ad un “non è un problema loro”.
    Courtney si chiuse in sé stessa, si nascose il viso tra le mani, si concesse un attimo di disperazione davanti a tutto quell’orrore. Guardò in faccia ognuna delle persone che vedeva morire davanti ai suoi occhi, come un terribile, agghiacciante, riassunto dell’apocalisse.
    Poi all’improvviso il sole.
    Si vide sorridere, si vide abbronzata, si vide ingrassata, dolcemente arrotondata da una vita dentro di lei. Lontano da Synt c’era il mondo e niente la legava, niente le impediva di scappare.
    Non colpiva i Veggenti.
    E lei era una Veggente, poteva essere felice, lontana da lì.
    Era da diverso tempo che la sua mente le suggeriva conclusioni alternative e felici per lei: forse erano soltanto desideri, forse stava soltanto impazzendo. Era cresciuta in mezzo ad un disastro nucleare, chi poteva dire se il suo patrimonio riproduttivo fosse intatto?
    Nate si rigirava sempre un termometro in bocca.
    Courtney si scostò le mani dal viso e guardò Zach infilarsi le sue in tasca, aspettandola. Aveva una strana espressione sul viso mentre la guardava, noia ed impazienza, la frenesia di non voler aspettare qualcosa di prevedibile. Zach sapeva cosa avrebbe fatto.
    Lei e Nate avevano fatto un miracolo.
    Continuò a fissarlo, come se stesse leggendo quella storia sul suo corpo.
    Nessuno sarebbe riuscito a trovare una cura per combattere quel virus: quelli che avrebbero potuto sarebbero stati uccisi, oppure sarebbero stati lieti di guardare i propri aguzzini soccombere.
    Non era forse quello il motivo per cui nessuno trovava una cura per il cancro? Un Veggente su otto milioni si ammalava di cancro, moriva nel due per cento dei casi, un numero facilmente arrotondabile a zero.
    Perché spendere tante energie, perché Courtney sapeva che non sarebbe stato semplice imbrigliare un virus del genere, per salvare un branco di persone ottuse ed ignoranti?
    Suo padre non era un Veggente, era morto di cancro, lei non si sarebbe mai ammalata.
    Nate aveva sempre quel termometro in bocca.
    «Che hai fatto ai capelli?», domandò, come se quello continuasse ad essere il quesito più urgente.
    Nate aveva quel cavolo di termometro in bocca perché era paranoico o si era ammalato?
    «Ho bisogno di parlare con Nate», disse.
    «Non puoi».
    Courtney lo fissò incredula e seccata, sapeva di avere lo stesso identico sguardo di sua madre, quando qualcuno non le dava la risposta che voleva: non erano brave ad accettare un “no”.
    Zach rise della sua espressione. «L’hanno messo in isolamento, ha quasi fatto a botte con Matt». Recuperò un pacchetto di sigarette accartocciato dalla tasca dei pantaloni e se ne mise una in bocca, poi si tastò addosso. «Non ho l’accendino, mi accompagni dal tabaccaio?», la invitò.
    Courtney si aggiustò la giacca. «Devo prelevare dei campioni prima», disse dirigendosi verso l’uscita, risoluta.
    «Dovresti mandare avanti me», le suggerì.
    Quando aprì la porta due guardie, nascoste sotto tute anticontaminazione e ben armate, li aspettavano. Courtney indietreggiò di un passo, presa alla sprovvista. Non la ritennero abbastanza pericolosa, o almeno non più pericolosa del suo accompagnatore, perché i fucili che tenevano tra le braccia puntarono immediatamente sul torace di Zach. Courtney lo osservò, tranquillo.
    «Zach Douquette?».
    Lui li guardò e rise schioccando la lingua. «No, ma che dite? Zach Douquette è moro, no?».
    Courtney lo fissò, l’espressione carica di rimprovero. «È per questo che hai fatto quel casino con i capelli?», indovinò.
    Lui sorrise rigirandosi la sigaretta spenta a fior di labbra. «Non è che avete un accendino?».

    Ophelia fu la prima a reagire, quando Serena piombò addosso a loro.
    Stu la aiutò a trattenerla e lanciò un ombrello a Becky, che lo afferrò con una mano mentre nell’altra impugnava la pistola con il sedativo. Lo aprì davanti a lei impedendo ad un Vegliante cercava di afferrarla; lo spinse contro la pensilina, aiutata da una spinta di Jamie Ross, e sparò premendo la canna contro la sottile tela dell’ombrello.
    Il Vegliante finì a terra quasi subito: quanto a sedativi ed affini la LTP rimaneva imbattuta.
    Serena la guardò, aveva immobilizzato Ophelia a terra, approfittando del fatto che Jamie e Stu erano momentaneamente impegnati ad intrattenere altri Veglianti. Rise e la sua espressione le sembrò stravolta, sbagliata, della pallida bellezza che sfoggiava di solito non era rimasto niente. Con un tono di voce disperato, in completo contrasto con la sua mimica facciale, urlò: «Aiutatami! Vogliono prendere Becky!».
    C’era qualcosa di drammaticamente sbagliato in Dean e Serena.
    Lynn le sbatté il coperchio di un secchio dell’immondizia in testa e lanciò un’occhiata di avvertimento a Jamie Ross. «Giap-po-ne-se», sillabò. «È l’ultimo avvertimento».
    «Questo è il momento in cui scappi, bambina», le suggerì Stu deviando un pugno che Becky non avrebbe fatto in tempo ad evitare.
    Non ci fu bisogno di ripeterlo, dribblò un paio di Veglianti, che Jamie e Lynn prontamente distrassero, e sgusciò via.
    Si infilò in un vicolo, ben consapevole che i Veggenti avrebbero spinto o attirato lì i Veglianti.
    Zach.
    Non voleva pensarci, aveva una missione ed era importante anche se aveva improvvisato.
    E poi lui aveva mandato due Veggenti a prenderla, come se fosse la stessa ragazzina impacciata che aveva lasciato.
    Si sentiva decisamente offesa: la prossima volta che si sarebbero visti, gli avrebbe sparato di nuovo. Tanto per ricordargli come funzionavano le cose tra loro.
    Cercò di allontanare il suo pensiero per concentrarsi: alle proprie spalle riconosceva il suono ottuso e secco di carne che sbatte contro carne.
    Si guardò intorno e saltò per raggiungere i pioli troppo alti di una scala antincendio, si arrampicò lungo il muro come un gatto. Dal tetto riusciva a vedere tutto il vicolo sotto di lei, recuperò il proprio cellulare, mise la luminosità al massimo e lo tirò all’interno di un secchio dell’immondizia. Non doveva far luce, doveva essere un segnale per i Veggenti: in fondo, vedere con gli occhi non le aveva mai garantito una mira migliore.
    Fu piuttosto contenta di scoprire che, il primo a liberarsi dei Veggenti per avanzare, fosse proprio Dean; sorrise, quando notò che la Veggente che lo stava attirando lì era Lynn. Immaginò che l’avrebbe trovata d’accordo, se le avesse spiegato perché credeva che una siringa di sedativo tra le gambe lo avrebbe reso un fidanzato di copertura migliore. Era pronta a dare ai suoi fianchi esattamente le attenzioni che meritavano…
    «Non sparare», disse qualcuno alle sue spalle.
    Becky sbatté un piede a terra, indispettita dall’interruzione, mentre la canna di una pistola le veniva puntata alla schiena.
    «Ora tu vieni in caserma con me», le disse Johnathan Kingley.
    Il suo primo pensiero fu la possibilità di cambiare obbiettivo.
    Poteva farlo, era solo sedativo.
    «Se premi il grilletto verrà a prenderti lui, davvero credi che sarebbe meglio?», le fece notare.
    Probabilmente no, ma c’era così vicina.
    Sospettosa Becky sbirciò giù, il vicolo sotto di lei, la patta dei pantaloni di Dean era ancora a portata di sedativo. «La mia idea era atterrarlo da qui», confesso con una smorfia colpevole.
    «Non puoi colpirlo», la contraddisse.
    Lei sorrise e gli lanciò un’occhiata divertita. «Magari sì», ribatté. «Sono piuttosto brava, sai?».
    Ma Johnathan scosse testardamente la testa, per niente coinvolto dalla sua determinazione. «No, non puoi. Lui e Serena non sono come te».
    Becky aggrottò le sopracciglia studiandolo incerta. Si chiese quanto sapesse: loro Veglianti di Synt si erano evoluti in fretta, ma avevano anche Romeo che li pungolava e spingeva ed obbligava ad aprire gli occhi. Gli altri, i Veglianti di tutto lo Stato, potevano riuscire a farsi le domande giuste?
    Dean era quasi arrivato.
    Allungò il braccio e prese la mira per un secondo.
    «No, non farlo ti vedrà!», disse Johnathan agitato, cercando di bloccarla.
    Non fece in tempo, Becky premette il grilletto.
    E Dean si fermò.
    Sbatté le palpebre, attenta: osservò Dean studiare la siringa che si era appena frantumata ai suoi piedi, un centimetro davanti a lui; la calpestò per sottolineare il concetto e no, non si era immaginata l’occhiata divertita che aveva lanciato nella propria direzione.
    Era strano, fino a qualche mese prima si sarebbe stupita se lo avesse colpito, ma dopo tutto quello che aveva passato sapeva, senza incertezze, senza obiezioni, senza ombra di dubbio, che quando faceva fuoco, i suoi proiettili, di qualsiasi natura fossero, facevano sempre centro.
    Non sempre, fu costretta a realizzare.
    «Perché fai sempre cose tanto stupide?», la sgridò Johnathan un secondo prima di sparare a sua volta.
    Lo riconobbe dal sibilo che produsse, anche le sue pistole erano caricate con delle siringhe. Qualsiasi cosa ci fosse dentro, impiegò il tempo necessario a Becky per sfilarsi il proiettile dalla gamba, per fare effetto: franò a terra con un gemito, mentre la nausea l’avvolgeva.
    Mitronio, prevedibile.
    Sentì un rumore, ma forse se l’era sognata: stupido Kingley, si stava pentendo di essere stata tanto magnanima prima, avrebbe dovuto sparargli.
    Aiutandosi con le mani cercò di strisciare fino alla sua pistola, caduta poco più avanti. Si fermò quando davanti alle sue dita, a pochi centimetri dalla sua testa, comparvero due piedi. Per un attimo tutto quello che provò fu paura, ma Dean poteva anche essere speciale, poteva essere diverso, ma non poteva essere già arrivato fin lì.
    Il proprietario dei piedi si accucciò davanti a lei e le scostò i capelli dal viso.
    «Rebecca Farrel, diciassette anni, riserva delle cheerleader».
    Stordita dal Mitronio quelle parole le portarono alla mente un ricordo lontanissimo: lei a nove anni, ad un gara di cheerleading. Ricordava che le avevano dato un microfono e le avevano detto di raccontare chi era, ricordava i suoi genitori farle cenni di incoraggiamento e sorrisi dalla platea.
    Rebecca Farrel, nove anni, cheerleader.
    Becky scosse piano la testa ed osservò la faccia di Zach perdere lentamente nitidezza, i contorni del suo viso sfocarsi.
    «Com’è che non mi dai mai retta?».

    Con un milione di interruzioni e digressioni Mr. Flicks gli raccontò che Jean Roberts era stata portata alla caserma di Los Angeles a dodici anni, che Wood era il suo tutore legale e che lui era stato incaricato di mantenerla equilibrata dal punto di vista fisico e mentale.
    Nate era piuttosto dubbioso all’idea di Mr. Flicks che riusciva a mantenere equilibrata la psiche di qualcuno, considerato com’era ridotta al sua, ma non obbiettò.     Dopo avergli dato questa informazione, secondo lui fondamentale, per Nate poco più di un pettegolezzo, gli porse un barattolino arancione senza etichetta, pieno di pillole.
    Era ancora seduto per terra, ma si era raddrizzato ed era intenzionato ad assimilare tutto quello che lui voleva raccontargli, chissà che tra le mille informazioni stupide non ci fosse qualcosa di utile.
    «Cosa sono?», chiese.
    «Non lo so, non sono per me».
    Il primo pensiero di Nate fu che si trattasse di un modo alternativo per tenere a bada Zach, forse quelle pillole erano state spedite prima che lui fosse portato via dai Veggenti.
    «Ma Jean non le prende», aggiunse Mr. Flicks.
    Nate lo fissò, sorpreso. «Jean?», chiese senza capire.
    Lui annuì come se fosse la cosa più normale del mondo. «Le butta, ma non è molta attenta», spiegò, poi scosse la testa rammaricato. «Non lo è mai. Ma le fogne e l’immondizia sono le prime cose che Wood mi ha chiesto di controllare, per questo le ho trovate».
    Wood voleva sapere nel dettaglio cosa non usavano.
    Quindi doveva aver scoperto, che buona parte del cibo che mandavano veniva buttato praticamente intonso; lo smuovevano, ma aveva stilato una lista di cibi che potevano contenere Mitronio e che non dovevano essere mangiati.
    Wood era un tipo sveglio che la sapeva lunga su quella situazione, una parte di lui lo ammirava.
    «Non capisco perché, insomma Jean è normale». Poco ortodossa, magari più affezionata a loro che allo scopo delle loro missioni, però non erano difetti così compromettenti. Se quelle pillole servivano a tenerla buona, doveva esserci una motivazione più grande.
    Quando tornò ad osservarlo, scoprì che Mr. Flicks stava sorridendo. Fu stupito nel realizzare che, per la prima volta, lui era un passo avanti ai suoi pensieri. Sollevò le sopracciglia. «È sarcasmo, quello?».
    Annuì convinto, ma non disse una parola.
    Nate assottigliò lo sguardo. «La vedo più sveglio del solito oggi».
    «Ancora non le ho prese», disse piano.
    «Cosa?».
    Rimase in silenzio per qualche secondo, gli sembrò quasi imbarazzato, indicò con un cenno del capo il barattolo nelle sue mani.
    Le guardò anche Nate.
    «Non volevo che Wood la scoprisse», disse a mo’ di giustificazione.
    «Le sta prendendo lei», mormorò senza fiato.
    Fece di sì con la testa.
    «Ma… deve smettere», sbottò fissandolo. «Non sa nemmeno cosa c’è dentro, a cosa servono».
    Lui scosse la testa ad occhi chiusi. «Non… va bene, non preoccuparti».
    «Deve darmi retta! Potrebbe causargli danni permanenti!», continuò alzando la voce per sovrastare i suoi tentativi di non ascoltare. «Devo farle delle analisi, vediamo cosa sta succedendo». Si alzò in piedi. «Non appena mi rilasciano parliamo con Courtney, sa io e lei siamo piuttosto…».
    Mr. Flicks non si mosse. «Non è necessario», disse ad occhi bassi.
    Nate rallentò.
    «Quello l’ho costruito io a vent’anni», gli disse lucido, lucidissimo, indicandogli il distortore posato tra di loro. «A Los Angeles le cimici erano dappertutto ed io non volevo che Wood sapesse cosa facevo con le mie compagne nella mia stanza». Si strinse nelle spalle. «Penso che i ragazzi facciano cose più emozionanti per fare sesso indisturbati, però sono sicuro che fosse un’idea piuttosto buona»
    «Lo è», confermò Nate osservando il distortore, ne aveva messi su un paio anche lui in punti strategici della caserma.
    «Ci metto una vita per cambiare le pile del telecomando, mi sono disegnato una piantina della caserma per non perdermi. Cos’altro c’è da danneggiare nella mia testa?».
    Non rispose, non sapeva cosa dire. In realtà lo sapeva, ma aveva paura. Non era sicuro di poter fare quello che voleva dire, magari era impossibile, magari serviva un miracolo.
    «Però Jean sta bene, lei può ancora fare tutto, può cambiare il mondo se vuole».
    Nate piegò poco la testa di lato studiandolo. «Lei ha una bella cotta».
    Lasciò andare una mezza risata e si raddrizzò gli occhiali. «Era lei ad avere una cotta per me, in realtà. Prima di… beh, prima di Josh, ad ogni modo», concluse, gli lanciò un’occhiata, Nate lo fissava e basta. «Sembri dubbioso».
    Scosse la testa. «Sto pensando».
    «Lo capisco, lo capisce anche lei. Mi regala cartelline, mi aiuta, mi difende dai tuoi commenti più spietati, mi incoraggia a parlarti… mi sta bene, essere il suo zio invalido va bene, ma questo non significa che non possa trovare il modo di occuparmi di lei anche ora».
    Nate si rigirò il barattolo di pasticche tra le mani. «Sa, Mr. Flicks, conosco un medico che fa i miracoli», sorrise guardandolo. «La aggiungo alla mia lista di persone da salvare».

    Matt guardò le scarpe di Becky, poi gli scarti, c’era della gomma rosa.
    Frugò nel proprio cassetto fino a recuperare il quadrante di un vecchio orologio rotto e si mise a lavoro.



per farvi capire: su una scala da 1 a 10 Matt ha un fattore di pericolosità 1000++
dunque, questo capitolo l'ho scritto talmente tante volte da farmi venire la nausea e farmelo odiare.
lo odio, lo odio, lo odio.
quindi, care le mie lettrice affezionate, a voi l'ardua sentenza.

poi se mi seguite in tutti i luoghi e in tutti i laghi sapete che sono su wattpad, dove sto ripostando "Teach me"  e sto riscrivendo - sì, ho detto riscrivendo - "Patisserie Française". alcuni sono felici della nuova versione, altri no, ognuno dei loro pensieri è assolutamente leggittimo, però se siete curiosi, date un'occhiata.
se avete sviluppato un feticisimo per i capelli di Pierre nella versione originale e sapete che odierete qualsiasi dettaglio o cambiamento, avete il mio incoraggiamento a rimanere ancorate alla vostra decisione. fate bene, i gusti son gusti.
personalmente, la nuova versione rispecchia di più quello che io vorrei leggere e come lo vorrei leggere.

voglio scrivere lo spin off su Sean, non so quando, non so come, forse di notte, forse mentre dormo, ma lo farò.

fatemi sapere, vi voglio bene...

non riesco a credere che pensavate avessi mollato di nuovo!!
baci

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