Capitan Ismael di JustAGuyWithNoVoice (/viewuser.php?uid=917905)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Demoni e Leggende ***
Capitolo 2: *** Vento in poppa ***
Capitolo 3: *** Il cuore di Davey Jones ***
Capitolo 4: *** L'ira del mare ***
Capitolo 5: *** Relitti dal passato ***
Capitolo 6: *** Acque pericolose ***
Capitolo 7: *** L'ultima spiaggia ***
Capitolo 1 *** Prologo: Demoni e Leggende ***
Giravano storie,
tra le colonie inglesi in asia, che raccontavano di
un uomo: un pirata spietato e crudele che navigava
per le acque dell’oceano indiano. La sua nave
poteva volare sul filo dell’acqua, il suo equipaggio era
formato da mastini
infernali, o diavoli di fuoco, o feroci non morti condannati a servirlo
per
l’eternità. Quell’uomo –se
tale lo si potesse ancora definire- era la creatura
più malvagia che avesse mai messo piede su questo mondo:
aveva tagliato più
gole di quante se ne potessero contare, aveva ricoperto il fondo
dell’oceano
indiano con migliaia di carcasse di navi inglesi, filippine, bangladesi
e
malaysiane; non lo faceva per i soldi né per la fama, ma per
sentire l’odore
del sangue, e del legno pregno di salsedine in fiamme, per godere delle
urla
strazianti dei marinai prima che la morte li portasse via dalle sue
grinfie. Si
diceva che una volta avesse provato a vendere la propria anima al
demonio, in
cambio della vita eterna, ma lucifero in persona rifiutò la
sua offerta
disgustato a tal punto da quell’anima putrida e marcia, color
della pece, che
decise di donargli ugualmente l’immortalità per
non permettergli mai di
discendere nel suo regno. Questo gli costò un marchio a
fuoco sul ventre, ed il
nome di Reietto di Satana.
Queste sono
alcune delle tante leggende che giravano in quel tempo tra
le colonie. Solo leggende, fiabe che le vecchie usavano per spaventare
i
bambini, storielle che i vecchi ubriaconi raccontavano volentieri in
cambio di
un altro giro di Rum; solo leggende, e nulla di più.
Il Reietto di
Satana, il Capitano Ismael, era molto peggio di quanto
si raccontasse in qualsiasi leggenda.
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Capitolo 2 *** Vento in poppa ***
Il
Capitano Ismael era
appollaiato sul pennone più alto dell’albero
maestro della Royal Serpent, a
piedi scalzi come sempre. La brezza lieve gli accarezzava i capelli
lunghi e
neri facendoli svolazzare in giro, liberi, mentre il suo sguardo sempre
attento
era rivolto verso la schermaglia sul ponte della nave affianco, che lui
e la
sua ciurma avevano appena abbordato. I suoi uomini stavano
già combattendo,
menando fendenti come fossero assatanati, e l’odore aspro del
sangue si
spandeva intorno portato dalla brezza marina. Il cozzare metallico
delle lame,
le urla feroci dei marinai, lo scricchiolio delle assi di legno della
chiglia
del mercantile che batteva bandiera inglese, che ogni secondo si
piegavano
sempre di più sotto il peso della nave pirata: tutto questo,
per il Capitano,
era una dolce melodia di morte. Chiuse gli occhi, prese un lungo
respiro,
consapevole che ben presto la mietitrice di anime gli avrebbe fatto visita, e finalmente gli
avrebbe donato la
pace. Curvò gli angoli della bocca
all’insù e mostrò i denti in un ghigno.
Non troppo presto, però.
Afferrò
una cima e sfilò la sua
sciabola dalla cintura, per poi recidere la corda di netto e buttarsi
giù dal
pennone. Mentre cadeva, l’aria gli fischiava nelle orecchie
ed i capelli
corvini gli sferzavano il viso, finché la sua discesa non
venne arrestata dal
volto di un mozzo inglese che cadde sul ponte, inerme.
«Coraggio, ciurma,
facciamo a fette questi inglesi!» Urlò non appena
ebbe poggiato piede sul legno
del ponte imbrattato di sangue, ed i suoi uomini emisero un tuonante
grido
all’unisono. Subito, una fredda lama sibilò alla
destra del Capitano, diretta
alla sua gola, ma Ismael non esitò a bloccarla con la
propria sciabola e mosse
rapido il fianco sinistro in direzione dell’assalitore per
poi assestargli un
forte pugno sotto lo sterno. L’altro mollò la
spada e cadde in ginocchio, prima
di sentire il freddo acciaio della lama del Capitano accarezzargli la
gola e
subito reciderla di netto. Il sangue sgorgò a fiotti ed il
Capitano lo lasciò
scorrere sulla lama fino all’elsa, prendendosi un istante per
assaporarne
l’aroma prima di ributtarsi nella mischia.
Con un movimento fulmineo menò un fendente
verso uno degli uomini della
regina, colpendolo all’addome e squarciandogli la pancia, per
poi girarsi e
colpire un altro marinaio dritto in faccia con il pomo
dell’elsa,
sbilanciandolo abbastanza da farlo scivolare addosso al parapetto della
nave
che si spezzò sotto il suo peso e lo lasciò
precipitare nelle acque gelide
dell’oceano indiano. «Forza, branco di filibustieri
che non siete altro,
fategli assaggiare l’acciaio!»
Urlò a
squarciagola. «Diluiremo il grog con il loro
sangue!» Continuò a spronare la
sua ciurma urlando e combattendo allo stremo delle forze,
finché anche l’ultimo
inglese non si accasciò sul ponte pregno di sangue. Un
tappeto di corpi
esanimi, cibo per i pescecani e nulla di più.
Ismael
lasciò che i suoi uomini
si dividessero il bottino, tra oro e gioielli di ogni tipo, senza dire
una
parola: a lui interessava ben altro. Entrò nella cabina del
capitano, scostò
con la mano sporca di sangue le carte nautiche che ingombravano un
tavolo in
legno di noce rifinito con cura impeccabile, ed aprì con
l’altra mano un
armadio massiccio che conteneva gli abiti del defunto capitano.
Scostò le
giacche a sinistra, poi a destra poi le afferrò tutte e le
gettò via: come
aveva previsto, sul fondo si nascondeva un pannello segreto. Il pirata
afferrò
una lampada ad olio appesa al muro opposto all’armadio e la
posò sul tavolo per
prendere un piccolo acciarino che usava per la polvere da sparo. Le
mani gli
tremavano a tal punto che ci mise un po’ ad accendere il
lume, ed il suo viso
illuminato dalla fiammella era un misto di gioia ed inquietudine.
Avvicinò la
lampada al pannello e assottigliò lo sguardo per trovarne il
punto debole, poi
infilò la sciabola in una fessura per fare leva. Lentamente,
mosse la lama su e
giù, a destra e a sinistra, trattenendo il fiato
finché non si udì un sonoro
Crack. Il pannello saltò, e cadde per terra davanti al
Capitano, rivelando
dietro di sé un piccolo scrigno ed un foglietto di carta
arrotolato. Il
bauletto riportava lo stemma reale, ed il foglietto era avvolto con un
filo di
seta, al centro, e sigillato con la ceralacca. Ismael lasciò
cadere la sciabola
e la lampada, avvicinò le mani tremanti al piccolo
contenitore e fissandolo con
gli occhi lucidi lo aprì. Ciò che aveva davanti,
non pensava che lo avrebbe mai
trovato. Nessuna delle fiabe, delle leggende, delle storielle dei
vecchi
ubriaconi che aveva mai sentito potevano avvicinarsi a ciò
su cui si posò il
suo sguardo. Quello
era il cuore di
Davey Jones. Ed Ismael lo teneva fra le mani, con gli occhi feroci
illuminati
dal fuoco che, dalla lampada rotta, stava divampando nella cabina del
capitano.
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Capitolo 3 *** Il cuore di Davey Jones ***
CI2
A
volte capita che alle pietre più belle siano legate le
più
terrificanti delle leggende. Diamanti in grado di uccidere al solo
sguardo,
zaffiri dall’immenso potere magico, smeraldi che potevano
curare malattie di
ogni tipo e rubini capaci
di evocare e controllare
creature mistiche. Un gioiello in particolare, si diceva, potesse
evocare
niente meno che Poseidone, il dio dei mari in persona: un rubino
finemente
tagliato dai più esperti artigiani, grande quanto la testa
di un neonato, ed un
nocciolo color del cobalto con
sfumature
violette. Quella pietra, dalla forma di un cuore pulsante, era stata al
collo
delle più ricche duchesse, passando di mano in mano per
decenni fino a svanire
nel nulla, tanto da divenire una leggenda e niente più.
Questa
leggenda, infine, era arrivata alle orecchie di un
pirata e della sua ciurma, e li aveva portati da un capo
all’altro dell’oceano
in cerca di una favola. Solo che non era una favola, ed Ismael lo
sapeva.
Il
Capitano aveva visto quella pietra solo due volte in tutta
la sua vita –due volte in più di qualsiasi altro
comune mortale- e stavolta
aveva intenzione di tenersela stretta: così, riposta al
sicuro nel bauletto,
l’aveva lasciata nella propria cabina, sopra un alto ripiano,
in attesa di
discutere col quartiermastro e con l’equipaggio riguardo cosa
farsene. Alcuni
avevano proposto di portarla ad uno sciamano ed usarla per evocare
Nettuno,
come dicevano le leggende, mentre altri avrebbero preferito buttarla in
mare e
dimenticarsi della sua esistenza; la maggior parte della ciurma, e lo
stesso
Capitano, volevano venderla al mercato nero ed usare i soldi per
ritirarsi su
un’isoletta sperduta della Malesia.
La
nave procedeva a quindici nodi verso sud-sudovest, il
sole del mezzodì brillava alto nel cielo limpido, e tutto
l’equipaggio della
Royal Serpent era riunito sul ponte, davanti ad Ismael e Dan, il
quartiermastro.
Tra gli uomini si stava diffondendo un vocio nervoso, come se la sola
presenza
della pietra sulla nave potesse essere un pericolo: in fondo, quel
prezioso
tesoro sarebbe stata una preda ambita per molti dei pirati e corsari
che
navigavano per l’oceano indiano, perfino per quel famigerato
pirata Scalzo che
Ismael tanto ammirava e temeva.
«Vendiamo
quella roccia al più presto e liberiamocene!
»
«E se davvero ha poteri magici? »
«Potrebbe valere più di un pugno di monete
d’oro! »
«Poteri magici? Sei matto da legare! »
«La magia è per i creduloni! Dobbiamo
ven… »
«Uomini,
uomini, calmatevi! »
Il Capitano ruppe il
suo silenzio, con gli angoli della bocca rivolti
all’insù. «Faremo come abbiamo
sempre fatto, per alzata di mano! »
Annunciò scoccando
un’occhiata a Dan, che annuì appena.
«Chi vuole tenere il cuore di Davey Jones e scoprire se
davvero ha poteri
magici? »
Incrociò le braccia, e subito una ventina di mani si
levarono al cielo. Ismael
le contò rapidamente e sorrise. «Chi invece vuole
venderla ed usare il denaro
per riempire la stiva e la pancia di Rum? »
Alzò per primo la mano, prima
ancora di finire la frase, e venne imitato dal resto del suo
equipaggio:
trentasette mani, comprese quelle del Capitano e del quartiermastro.
«Avete
deciso, venderemo il cuore di Davey Jones non appena arrivati in porto.
»
Annunciò infine, ed i suoi uomini gridarono di consenso e di
dissenso; ma
andare contro il capitano significava andare contro la ciurma, e
nessuno di
quegli uomini lo avrebbe mai fatto.
Peccato
che il cuore di Davey Jones non sarebbe mai stato
venduto,
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Capitolo 4 *** L'ira del mare ***
Il
sole scendeva placidamente
verso l’orizzonte, mentre in cielo le nuvole rade si
coloravano di un arancione
rossiccio. La Royal Serpent navigava verso sud, ad una
velocità di circa 45
nodi, con una dolce brezza a favore che sembrava volerli accompagnare
lungo
tutta la durata del viaggio. Ormai erano passati dieci giorni
dall’attacco al
mercantile inglese, e ne avrebbero impiegati altrettanti per
raggiungere
l’India. Una volta lì, avrebbero affidato la gemma
ad un vecchio amico di
Ismael che si sarebbe occupato del resto.
Il
Capitano aveva deciso di
stare un po’ al timone, quella sera; non che ci fosse davvero
bisogno di
qualcuno che governasse la nave in quel momento, ma a lui piaceva
quella
sensazione: le caviglie tra le sue dita, l’oceano sotto i
suoi piedi e
l’infinito cielo davanti a sé. Quando Ismael era
al comando della sua nave,
quello era uno dei pochi momenti in cui si sentiva felice, libero, con
qualsiasi tempo ed in ogni situazione. Eppure, in quel momento, il
Capitano
avvertiva che qualcosa non andava, il suo istinto gli disse di virare a
babordo
e far salire ogni uomo sul ponte, sguainare la sciabola e tenersi
pronto. Poi scosse
la testa e scacciò questi pensieri dalla mente, non
c’era nulla che potesse
attaccarli, nient’altro che acqua e cielo dovunque si
guardasse.
D’un
tratto, però, sentì uno
scossone. La nave traballò un poco prima di stabilizzarsi,
ed il Capitano quasi
perse l’equilibrio. Subito dopo, un’altra scossa,
più violenta, che lo
costrinse a reggersi sul timone. Le scosse continuarono, come se
qualcosa
stesse speronando la nave, ma tutt’attorno alla Royal Serpent
non c’era nulla.
La
creatura era sotto il pelo
dell’acqua.
Ismael
vide un’enorme tentacolo
sbucare da tribordo, largo almeno quattro metri ed alto più
di dodici, che
subito colpì violentemente l’albero maestro,
spezzandolo come un fuscello. Dopo
il primo, rapidamente, ne spuntarono ancora, uno dopo
l’altro, facendo
schizzare in aria acqua salata e schegge di legno. Il Capitano rimase
pietrificato, trattenne il respiro e quasi non svenne per
l’orrore. Un mostro
marino li stava attaccando, ed i pochi uomini che si trovavano sul
ponte
sembravano così sbigottiti da poter a malapena muoversi.
Doveva fare qualcosa,
non aveva intenzione di perdere la sua nave in quel modo. Strinse i
denti,
afferrò l’elsa della sciabola e la
sguainò con un movimento rapido del braccio,
portandola poi in aria per farla vedere a quei pochi che lo stavano
guardando.
«Che
diavolo state facendo,
branco di farabutti!? Combattete! »
Urlò a squarciagola. Gli
uomini sul ponte scossero appena il capo, come se si fossero appena
svegliati,
ed impugnarono le armi per preparare
il
contrattacco. Intanto, Ismael era già corso sotto coperta
per chiamare il resto
della ciurma. «Uomini, siamo stati attaccati! Voi, ai
cannoni! Il resto prenda
una sciabola e salga sul ponte! » Sbraitò agitando
la lama ricurva in aria,
mentre i suoi uomini scattavano ad ogni sua parola: chi correva
all’artiglieria, chi correva sul ponte, chi cercava la sua
sciabola, o la sua
pistola, o la sacca con la polvere da sparo. Il Capitano
tornò sul ponte dopo
un momento, per scoprire che i tentacoli avevano già
iniziato a fracassare lo
scafo e schiacciare i suoi uomini. Con una sola spazzata, un tentacolo
scagliò
cinque uomini fuori bordo, e ne scaraventò altri due contro
quel che rimaneva
dell’albero maestro. Era una battaglia disperata, ma il
Capitano Ismael non se
ne sarebbe andato senza lottare. Sfilò la pistola dalla
profonda tasca dei
pantaloni e tirò indietro il cane con il pollice, correndo
verso un tentacolo.
Provò ad infilare la spada nella carne putrida del mostro,
ma questa d’indurì
di colpo come se fosse diventata pietra. Sparò qualche colpo
di pistola, ma non
riuscì a scalfire quella rigida scorza. Continuò
a menar fendenti ed esplodere
colpi per diversi minuti, strillando contro i suoi uomini. I tentacoli,
però, continuavano
ad ucciderli uno ad uno, schiacciandoli, stritolandoli, sbattendoli
fuori bordo
così che la creatura che li stava attaccando potesse
banchettare con la loro
carne. Ismael strinse i denti e colpì ancora una volta
quella pelle dura come
l’acciaio, finché la sua lama non finì
per frantumarsi come fosse vetro. Buttò
via l’elsa e lasciò cadere la pistola, per poi
ricordarsi della pietra. Si
diceva che il cuore di Davey Jones avesse
il potere di controllare i mostri marini: non aveva altra speranza se
non
quella. Iniziò a correre verso la sua cabina, schivando
abilmente i tentacoli
che continuavano a massacrare i suoi uomini. Si fece strada tra le assi
spezzate, i corpi esanimi ed il legno impregnato di sangue,
attraversando il
ponte fino a raggiungere la propria cabina. Tutte le carte nautiche ed
i suoi
libri erano sparpagliati a terra, insieme ai suoi vestiti, i suoi
appunti e
qualche gioiello. In mezzo a quel disastro doveva esserci anche lo
scrigno
contenente la pietra. Si chinò e buttò gli
appunti da una parte, i suoi abiti
dall’altra, poi spinse violentemente il tavolo e
cercò sotto di esso. Controllò
nell’armadio, sotto il letto, addossò le carte
nautiche attorno alla parete,
per poi avvertire un violento contraccolpo e vedere la nave inclinarsi
rapidamente.
Una
falla.
Continuò
a cercare, e quando finalmente
trovò lo scrigno la nave era quasi coricata sul fianco
destro. L’armadio iniziò
a scivolare e per poco non lo schiacciò, la porta si
spalancò di colpo
permettendogli di guardare il ponte ormai distrutto ed imbrattato del
sangue
dei suoi uomini. Nessuno in vita. Aprì lo scrigno e
tirò fuori la gemma,
tenendola contro il petto per non perderla mentre correva fuori dalla
cabina.
La nave iniziò a colare a picco, ed I tentacoli la avvolsero
come in un mortale
abbraccio, per aiutarla nella sua discesa negli abissi.
«Fermo,
mostro! »
Cercò
di gridare, ma la nave s’inclinò ancora.
Scivolò e cadde sul ponte a faccia in
giù, per poi avvertire una dolorosa fitta al petto, come se
qualcuno gli stesse
strappando via il cuore. La Silver Serpent era ormai quasi
completamente
sommersa, ed Ismael cercò di strisciare verso
l’alto per guadagnare una
manciata di secondi, quando una delle assi di legno si
spezzò sotto la
pressione della morsa dei tentacoli, e lo colpì con violenza
sul volto.
Il
buio fu l’ultima cosa che
vide il Capitano, prima di discendere negli inferi insieme con la sua
nave.
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Capitolo 5 *** Relitti dal passato ***
La
fioca luce della luna illuminava le vie di quel quartiere
londinese. Tutti i lumi erano stati spenti, dato che l’ora
del coprifuoco era
ormai passata da parecchio, e nulla si muoveva per quelle strade, non
si poteva
sentire un solo suono a parte il russare di qualche Sir dal sonno
pesante.
Ed
il rumore leggero dei passi di un ragazzo. Camminava in
punta di piedi per non farsi sentire, con la schiena un po’
inarcata dal peso
della grande sacca di colore rossiccio che portava a tracolla. Era
appena uscito
dalla sua casa, dove i suoi genitori ed i suoi tre fratelli maggiori
stavano
dormendo, e si stava dirigendo verso il centro della città.
Le orecchie tese
per ascoltare i suoni intorno a sé, il cuore che palpitava
sempre più forte, le
mani sudate che stringevano un sacchetto di pelle pieno di sterline
rubate
dalla borsa del padre. Sempre meno di quanto sarebbe costato tenerlo in
casa.
Ad
ogni passo, la paura di essere scoperto aumentava sempre
di più: sarebbe finito in grossi guai se non fosse riuscito
a scappare quella
notte, ma doveva andarsene. Perché?
Perché
Londra non era mai stata la sua casa.
In effetti, non
riusciva a ricordare un momento della sua vita in cui non avesse
fantasticato
sull’idea di fuggire, andare via da quella città,
dall’Inghilterra, lontano da
tutto e da tutti. Quella era la notte in cui finalmente i suoi sogni si
sarebbero avverati, e non avrebbe permesso che una guardia dal sonno
leggero lo
fermasse.
Svoltò
ad un incrocio, avvicinandosi sempre di più alla sua
meta: il porto di Londra, dove centinaia di navi attraccavano ogni
giorno, ed
ancor più navi ogni giorno salpavano alla volta dei sette
mari. I suoi passi si
fecero più veloci, le sue mani iniziarono a tremare ed in un
attimo commise il terzo
più grave errore di tutta la sua vita: s’illuse di
avercela fatta. Il porto era
proprio davanti a lui e gli alberi delle navi ancorate, illuminate
dalla luna,
ondeggiavano placidamente seguendo la marea quasi come a volerlo invitare ad
avvicinarsi. Si affrettò.
Nell’ombra,
però, un terribile nemico: un cane randagio
assopitosi di fronte al portico di una delle tante case che si
affacciavano
sulla via. Il ragazzo teneva lo sguardo fisso sulle acque del Tamigi
che
brillavano timidamente alla luce della luna, e non si accorse che un
passo
troppo lungo finì proprio per poggiarsi sul randagio .
Guardò
in basso, non appena sentì la morbida coda
dell’animale scricchiolare sotto il suo piede. «Oh
no. »
mormorò a denti stretti.
Il
randagio si svegliò di soprassalto e si drizzò in
piedi,
per osservare il suo assalitore. «Coraggio… Non
è niente… »
Il
ragazzo distese le braccia e mostrò i palmi aperti
all’animale, in un vano
tentativo di calmarlo prima che accadesse il peggio; ma quello
iniziò a
ringhiare, ed abbaiare ferocemente, mostrando i denti in segno di
sfida. «Piano…
Piano!!> Mormorò il giovane agitando le braccia, ma
quel cane non aveva
intenzione di fermarsi, e ben presto riuscì a svegliare un
Sir che dormiva
beatamente nel palazzo di fronte.
«Zitta,
dannata bestiaccia! Silenzio! Silenzio!! »
Strillò spazientito, dopo aver spalancato la finestra.
«Vuoi che venga giù e te
lo faccia capire a bastonate!? »
Intanto, si stropicciava gli occhi per
farli adattare alla penombra della strada. Il ragazzo sapeva di avere
solo
pochi secondi per svignarsela, così iniziò a
correre come il vento, premendo la
sacca contro il proprio petto. Il rumore dei suoi passi
risuonò per i vicoli
mentre si dirigeva nella direzione opposta a quella seguita finora,
allontanandosi dal porto. Sentiva ancora i latrati del cane e le urla
del
signore spazientito che continuava ad inveirgli contro e minacciarlo.
Sperò di
essere al sicuro, almeno adesso, ma la notte non era ancora finita.
Correndo
senza meta, era finito in un quartiere a lui
sconosciuto. Le case basse, piccole, alcune molto malandate; finestre
rotte,
porte graffiate, bottiglie vuote sparse a terra. Iniziò a
tremare, con il cuore
che gli scoppiava nel petto ed il fiatone per la lunga corsa.
D’un tratto
l’idea di fuggire aveva lasciato il posto ai ricordi dei suoi
genitori, dei
suoi amici, dei suoi fratelli, della Signora Fickles, la pasticcera,
che gli
regalava un dolcetto ogni volta che passava dal suo negozio. Una
lacrima gli
rigò la guancia, seguita da un’altra e
un’altra ancora. Si ritrovò a piangere
per un vicolo buio, con duecento sterline in una mano ed una sacca
piena di
vestiti al collo, e sperò per un momento che quello fosse
solo un brutto sogno.
Lo era.
Purtroppo
gli incubi peggiori si hanno mentre si è svegli.
Da
dietro, un uomo lo afferrò per il collo e lo
sollevò da
terra, facendogli cadere il sacchetto di mano. Il ragazzo
spalancò gli occhi e
provò ad urlare, ma l’uomo fu più
veloce e gli coprì la bocca con l’altra mano.
«Che
ci fa un bimbo tutto solo, qui, a quest’ora? »
Mormorò, sorridendo. «Che sia un regalo per
me?> Rise piano, le sue mani
stringevano così forte che per il ragazzo era difficile
respirare. «Giochiamo
un po’ insieme, ti va? »
L’uomo rise ancora, mentre l’altro era
immobile nella sua morsa, una statua di ghiaccio dagli occhi di vetro.
Pensò
che fosse finita. Pensò che non avrebbe mai più
visto i suoi genitori, le
persone care. Non avrebbe mai visto i posti di cui aveva letto nei
libri, non
avrebbe esplorato le terre selvagge del nuovo mondo, né
solcato per l’impetuoso
oceano indiano, non sarebbe mai stato libero.
Non
sarebbe mai stato vivo.
Chiuse
gli occhi e spalancò la bocca, per mordere la mano
dell’uomo con tutte le sue forze. Sentì un urlo,
ed in bocca un sapore
metallico, per poi ritrovarsi a terra. «Dannato moccioso, te
la sei cercata!!
»
Urlò l’assalitore, sfilando un coltello dalla
tasca dei pantaloni ed
avventandosi contro di lui. Con un balzo, però, il giovane
schivò il colpo e si
scagliò contro il fianco dell’altro.
Conficcò le unghie sulle sue spalle, sentì
un altro urlo più forte del primo, ed in meno di un secondo
si ritrovò la testa
contro il muro, un colpo che lo lasciò stordito per qualche
secondo. Sentì la
fredda lama del coltello dell’uomo contro il collo, ed il suo
fiato caldo e
umido accarezzargli la guancia, insieme a quel sapore metallico che gli
era
rimasto in bocca. «Fine dei giochi, ragazzino. Mi
divertirò a tagliarti a
pezzetti. »
Rise ancora, una risata folle; ma l’altro gli diede un
calcio contro lo stinco che lo fece barcollare appena.
Riuscì in un attimo a
sfilare il coltello dalla sua mano, ma l’uomo si riprese
subito e portò
entrambe le mani sul collo del giovane, stringendo sempre di
più. L’altro
annaspava, la vista iniziò ad annebbiarsi, e con un ultimo
sforzo disperato
tentò di salvarsi da morte certa.
Conficcò
il coltello nella pancia dell’uomo, che spalancò
gli occhi ed allentò subito la presa, mugolando.
«Ugh… Brutto figlio di…
»
Gli assestò poi un altro calcio, e stavolta finì
a terra. Si buttò addosso
all’uomo, sfilò il coltello dalla ferita e lo
conficcò ancora all’altezza del
petto, e poi ancora e ancora, sempre più violentemente.
Sentì lo scricchiolio
delle sue ossa ed il sangue caldo scorrergli tra le dita, mentre
l’altro se ne
stava lì, esanime, immobile. L’uomo era morto dopo
la seconda pugnalata.
Ismael,
però, gliene diede altre dodici prima di fermarsi.
Quando ebbe finito si rialzò, guardò le proprie
mani, sorrise.
E
si svegliò
Il
Capitano aprì gli occhi respirò profondamente,
l’acqua
salata gli entrò dalle narici ed iniziò a
bruciargli nei polmoni come fosse
fuoco. Era sommerso, sul fondo dell’oceano, e stava per
affogare insieme alla
sua nave ed il suo equipaggio.
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Capitolo 6 *** Acque pericolose ***
Il Capitano
provò a nuotare verso la superficie, ma le forze lo
abbandonarono quasi subito. Senz’aria e senza speranza,
nemmeno la fioca luce
della luna riusciva ad illuminare quel fondale così profondo
ed oscuro. Ismael
si trovò in fin di vita, come già gli era
successo molte volte in passato;
l’unica differenza era che le altre volte aveva sempre avuto
una via di fuga. O
una qualche possibilità di sopravvivere. Così,
mentre i polmoni pieni d’acqua
salata continuavano a bruciare come metallo fuso dentro il suo petto,
il
Capitano chiuse gli occhi e allargò le braccia. La
Mietitrice di anime in fondo
aveva ragione, e tra poco sarebbe arrivata a riscuotere il suo premio.
L’anima
dannata di un pirata troppo pieno di sé, troppo temerario,
che non seppe mai
stare al suo posto.
E per quanto la
Mietitrice avesse una gran fretta di accaparrarsi
quell’anima, quella sera decise di aspettare ancora un
po’.
Ismael era ormai
pronto a lasciare quella vita e discendere nelle
profondità dell’inferno, quando sentì
qualcosa avvolgergli il ventre, ed
iniziare a stringerlo come le spire di un serpente. La morsa si fece
più
stretta ogni secondo, ed il Capitano sentì i polmoni
comprimersi fino ad
esplodergli nel petto, gli occhi quasi gli schizzarono via dalla testa,
le ossa
si frantumarono e i muscoli si lacerarono. Per un attimo credette di
essere
morto, ma ciò che lo aspettava era molto peggio.
Si
ritrovò, dopo qualche secondo, a fluttuare nel vuoto,
ansimando.
Teneva gli occhi chiusi e stringeva i pugni, mentre prendeva a fatica
grandi
boccate d’aria. Aria molto densa. Aria salata, umida.
Acqua. Stava
respirando acqua. Prima di poterlo realizzare, però,
un’ombra cupa oscurò gli ultimi flebili raggi
lunari che filtravano dalla
superfice.
«Dove
lo hai nascosto!? »
Tuonò una voce profonda, che
costrinse il Capitano ad aprire gli occhi e guardare di fronte a
sé.
Nient’altro che buio. «Ho rivoltato la tua dannata
bagnarola da cima a fondo!!
Dove lo hai messo!?! »
Urlava spazientito, l’essere nell’ombra, mentre
Ismael si trovò incapace di rispondere. «Cosa
c’è, il pesce gatto ti ha
mangiato la lingua?! Parla!! »
Continuò a sbraitare, per poi aspettare
una risposta. Però Ismael, con la bocca spalancata, non
riusciva ad emettere un
solo suono. Rimasero nel silenzio per svariati secondi,
finché l’altro non
parlò di nuovo. «Mh. Già, a voi umani
serve l’aria per parlare… Che esseri
inutili. »
Sospirò pesantemente, esalando dalle fauci una corrente che
spinse Ismael
indietro di svariati metri. Dopo
qualche attimo, una bolla d’aria emerse dal fondale ed
avvolse il Capitano, che
iniziò a tossire, annaspando. «Chi… Chi
sei tu? »
Mormorò piano,
rivolgendo uno sguardo verso il buio davanti a sé.
«Hah!
Io ho molti nomi, mortale. Alcuni mi chiamano mostro, altri
demone, ma non sono nulla di questo. »
Parlò lentamente, mentre nel
buio due punti rossi iniziarono a brillare sinistri. «Io sono
Wheke Ka Wata, il
dio del mare. » I
due punti sembrarono avvicinarsi al Capitano. «E
tu… hai qualcosa
che mi appartiene. »
Il dio del mare,
dicendo queste parole, aveva deciso che si era
stancato del buio; così dal nulla evocò un pesce
vipera, che brillò come una
lucciola in mezzo ai due. Ovviamente un solo pesce non sarebbe stato
capace di
illuminare il fondale marino, ma l’onnipotente dio del mare,
Wheke Ka Wata, a
questo non ci aveva pensato.
«Hm.
Non so davvero cosa mi aspettassi. »
Brontolò il dio con la
sua voce rauca, mentre Ismael, nella sua bolla, scuoteva il capo
incredulo.
Sperava che fosse solo un brutto sogno, e in quel momento si ripromise
di non
mangiare mai più stufato di granchio andato a male. Intanto,
davanti agli occhi
del Capitano si presentava una scena incredibile.
Dal fondale, una
dopo l’altra, iniziarono a spuntare le flebili luci
prodotte da delle sottili alghe, che puntellarono il buio
dell’oceano come
migliaia di stelle su un cielo notturno. Insieme alle alghe,
però Wheke aveva
evocato rane pescatrici, piovre giganti e migliaia di minuscoli
plankton
luminosi, per far compagnia al pesce vipera di prima. In un attimo, il
buio
fondale venne illuminato a giorno dai lumi sommersi che popolano
l’oceano.
Ismael non poteva credere ai suoi occhi pieni di stupore e meraviglia.
Ed
orrore e disgusto. Al di là delle rane pescatrici, i
plankton ed il solitario
pesce vipera, una creatura lo stava fissando con i suoi occhi di fuoco.
Era
alto due volte e mezzo l’albero maestro della Royal Serpent
che gli giaceva
accanto insieme al relitto del veliero: una creatura alta
più di sessanta
metri. La sua pelle era spessa, squamosa, di color verdastro, ed era
ricoperta
da innumerevoli creature marine, coralli, alghe, piccoli pesci. Almeno
venti
tentacoli uscivano dalla parte inferiore del suo corpo, come un fascio
compatto, e si dividevano al contatto con il fondale per sostenere il
suo
immenso peso; nella parte superiore, altri cinque tentacoli
s’intrecciavano su
ogni lato, e formavano delle lunghe appendici simili a braccia. La sua
testa
deforme sembrava quella di uno squalo, con piccoli denti aguzzi,
seghettati,
che incutevano terrore solo a guardarli. E quegli occhi che fissavano
Ismael,
sembravano essere piccole sfere di fuoco pronte ad incendiare
l’intero oceano.
Wheke Ka Wata
riuscì in un secondo a far provare ad Ismael qualcosa
che aveva ormai aveva dimenticato da tempo. Gli occhi continuavano a
fissare il
mostro e le mani non smettevano di tremare, le gambe cedettero ed il
Capitano
cadde in ginocchio sulla robusta parete della bolla. Annaspava, gli
venne
voglia di urlare ma riuscì ad emettere solo un flebile
gemito. Rimase immobile,
pietrificato, mentre il mostro allungava uno dei suoi tentacoli per
sfilarlo da
dentro la sua comoda bolla e portarlo più vicino a
sé. L’arto penetrò dentro la
membrana con facilità, e con un veloce movimento
provò ad avvolgere il torso
dell’uomo. Ancora una volta, Ismael si sentì
impotente di fronte al destino, e
decise che forse quello era il giorno in cui avrebbe smesso di
combattere
contro il fato.
O forse, forse
quel giorno era ancora lontano.
Strinse i pugni
e chiuse gli occhi, prese un profondo respiro. Sentì
il petto bruciare come roccia fusa, ed il calore iniziò a
riscaldargli le
membra. No, non era il petto. Era qualcosa nel suo petto. Il tentacolo
si
ritirò, scottato da quel calore che fece sfrigolare
l’acqua attorno al
capitano, in una miriade di bollicine. La sua giacca prese fuoco, e
così anche
il resto dei suoi abiti sbrandellati, che si vaporizzarono in un
istante. Nello
stesso istante, Wheke Ka Whata capì il suo tremendo errore
di valutazione. «Non
l’hai nascosto! Ce l’hai tu! »
Urlò tanto forte da spazzare via ogni
alga, ogni plankton ed ogni pesce attorno a sé;
l’unica fonte di luce, adesso,
era il piccolo sole sommerso che una volta era stato il Capitano
Ismael. «Dannato
umano!! Non è finita qui!! »
Urlò più forte, indietreggiando sempre di
più, mentre il fuoco dei suoi occhi svaniva nel fuoco di
Ismael, mille volte
più brillante di qualsiasi stella e cento volte
più caldo di qualsiasi sole.
Wheke Ka Wata
svanì nell’ombra, da dove era venuto. Pochi
secondi
dopo, il fuoco si spense ed Ismael svenne.
Nel buio del
fondale, il suo corpo venne trascinato via dalla marea.
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Capitolo 7 *** L'ultima spiaggia ***
Il
sole del mattino brillava intensamente, facendo
risplendere l’acqua marina di tutti i colori
dell’arcobaleno. Le placide onde,
di tanto in tanto, accarezzavano la riva, e solleticavano i piedi di un
uomo
svenuto sulla sabbia, senza vestiti e con il viso rivolto verso il
cielo terso.
Un uomo di bell’aspetto: spalle larghe, muscolatura definita,
molto abbronzato,
non poteva avere più di vent’anni; i capelli,
ancora umidi, erano dello stesso
color della pece con un ciuffo bianco che faceva capolino dietro la
nuca, quasi
totalmente coperto dalle ciocche scure. Tatuato sulla spalla aveva un
lungo
serpente marino che con il suo corpo ricoperto di scaglie si avvolgeva
sul
braccio del ragazzo, e tra le zampe artigliate stringeva tre lettere,
“HSL”. Il
suo ventre era attraversato da parte a parte da una voglia a forma di
mezzaluna
–il regalo di una vecchia conoscenza- e sul petto, al posto
dello sterno, aveva
incastonato un rubino grosso quanto un pugno, con sfumature azzurre.
Per un
occhio esperto, quella pietra era inconfondibile: il Cuore di Davey
Jones- che
era diventato, da qualche ora, il cuore del Capitano Ismael.
Passarono
poche ore prima che Ismael dischiudesse gli occhi
e si guardasse intorno. Si trovava su una spiaggia di finissima sabbia
bianca,
e davanti a lui non c’era altro che l’azzurro mare,
a perdita d’occhio. Si
sedette, portò la mano al petto e toccò la pietra
con la punta delle dita: era
tiepida. Provò a strapparla via con le unghie, ma il rubino
era ben piantato
nella sua carne e non sembrava avere alcuna intenzione di venire via.
Smise di
tentare dopo qualche altro strattone e decise piuttosto
di concentrarsi sul luogo in cui era
capitato. Guardò in alto, verso il sole: mancava solo
qualche ora a mezzogiorno
ed il Capitano, rivolto verso l’oceano, riuscì a
riconoscere l’est alla sua
destra. Quella costa quasi sicuramente apparteneva ad
un’isoletta a sud
dell’India; magari, con un po’ di fortuna,
un’isola segnata sulle mappe. Ismael
scosse la testa.
Lui
non aveva Fortuna.
Si
guardò ancora intorno, attentamente. Se lui era finito
lì, trasportato dalla corrente, c’era la
possibilità che anche qualche pezzo
della sua nave fosse stato sospinto fino a riva. Nulla a destra, nulla
a
sinistra, ma in quel momento la vide. La giungla. Verdissima,
fittissima,
proprio oltre la spiaggia: meravigliosa, pericolosa,
inviolata, furono le uniche parole che vennero in mente al
Capitano. Voleva esplorarla- no. Doveva
esplorarla, il prima possibile. L’unico problema era che non
aveva provviste, o
armi, o vestiti. Sospirò pesantemente ed iniziò a
passeggiare avanti e indietro
sulla sabbia. Probabilmente avrebbe potuto trovare tutto il necessario
per
sopravvivere, nella giungla; ma senza nemmeno uno straccio addosso,
rischiava
di non uscirne vivo. Continuò a camminare avanti e indietro
sul bagnasciuga,
con le braccia incrociate al petto e lo sguardo perso nel vuoto,
finché non
sentì qualcosa sfiorargli la gamba e sobbalzò.
Guardo a terra, per capire cosa
lo avesse toccato.
Una
mano. Una mano umana. Ed attaccato alla mano, il corpo
di un uomo, qualcuno che il Capitano conosceva bene.
“Dan…”
La voce gli si strozzò in gola. Il corpo di Daniel
Williams, il quartiermastro della Royal Serpent, era stato trasportato
dalla
corrente di fronte al suo più caro amico. Ismael cadde a
terra; in un secondo,
tutto il mondo gli crollò addosso, ed il giovane viso sembro
invecchiare di
almeno dieci anni. La sua nave. Il suo equipaggio. Dan. Tutto per colpa
di una
stupidissima pietra. Infilò le dita nella sabbia e strinse i
pugni, mentre le
sue lacrime salate cadevano sulla camicia di Dan, e si mischiavano
all’acqua di
mare. Ismael scosse la testa e si rialzò. I vestiti di Dan,
seppur zuppi e
logori, erano proprio quello di cui aveva bisogno. “Mi hai
voluto salvare
ancora una volta, prima di andartene, eh?” Tra le lacrime, un
sorriso gli
illuminò il volto.
Lasciò
asciugare i vestiti al sole per qualche ora, mentre
scavava una profonda buca sulla sabbia. Certo, Dan aveva sempre detto
di voler
essere legato all’ancora della Royal Serpent ed essere
gettato nel mar dei
Caraibi, ma al momento quello era il meglio che poteva fare il
Capitano.
Nessuno dei due era mai stato un tipo religioso, ma Ismael
pensò che, se ci
fosse mai stato un momento giusto per pregare, forse era proprio
quello. Portò
le mani al petto, coprendo la pietra maledetta, e chiuse gli occhi.
“Dan!
Spero che tu mi stia sentendo, altrimenti questa cosa
sarà inutile… Comunque, ne abbiamo passate tante
insieme, eh? Ti ricordi quella
volta a Mabul, quando… Si, lo so, lo so. Dan, mi dispiace,
è solo colpa mia se
tu… e tutti gli altri… Ma nonostante tutto, hai
deciso di salvarmi il didietro
un ultima volta, anche dopo aver tirato le cuoia. Sei… Sei
stato più che un
padre, il mio migliore amico, e finché avrò aria
in corpo non dimenticherò mai
quello che hai fatto per me.” Diede poi le spalle al tumulo,
ma girò appena il
capo. “Ah, Dan, saluta la Megera da parte mia. Dille che non
ho intenzione di
raggiungerti tanto presto!”
Insieme
ai vestiti, era riuscito a recuperare la sciabola di
Dan e la sua pistola. Certo, non aveva munizioni né polvere
da sparo, ma sapeva
che gli avrebbe potuto fare comodo. Infilò i pantaloni di
tela leggeri, e
strinse per bene la cintola –Dan era una buona forchetta, al
contrario del
Capitano- ed infilò le armi nelle profonde tasche.
Indossò la camicia, che una
volta era stata bianca, di finissima fattura spagnola, appartenuta a un
ufficiale spagnolo prima che Dan lo desse in pasto ai pescecani.
“Sta meglio a
me che a lui!” Aveva detto dopo averla provata, Ismael lo
ricordava come se
fosse successo il giorno prima.
Scosse
il capo, infilò la camicia nei pantaloni e si mise in
marcia. I piedi nudi lasciavano leggere orme sulla sabbia calda, ed il
sole del
tardo pomeriggio sembrava volergli mostrare la via. Scrutava la giungla
misteriosa, con curiosità e paura; nello stesso momento, la
giungla guardava
dentro i suoi occhi.
Entrambi
sembravano nascondere un terribile segreto.
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