The other side of the medal

di Sethmentecontorta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ❧ Vacuum ***
Capitolo 2: *** The beginning of a nightmare ***
Capitolo 3: *** Self-induced isolation ***
Capitolo 4: *** The trap has just taken ***
Capitolo 5: *** Tenshi's affections ***
Capitolo 6: *** Kidou's memories and frustration ***
Capitolo 7: *** Hope is not so difficult to conquer ***
Capitolo 8: *** Joy is much more fragile than fear ***
Capitolo 9: *** Guilty feelings and fears ***



Capitolo 1
*** Prologue ❧ Vacuum ***


Seth's corner: The dreamer girl era una storia a cui mi ero ampiamente affezionata, e mi sono pentita come per nessun'altra storia di averla cancellata, perciò era da molto che meditavo un remake (da quest'estate, a dirla tutta). Avviso per quei pochissimi di voi che avranno letto la vecchia versione, che ormai con quella prima storia questa ci azzecca poco o nulla, come vi potrete accorgere da subito. Non vi sentite spaesati perciò se vi sembra tutt'altra storia, in pratica lo è. L'immagine di questo capitolo è stata scattata da littlemewhatever. Come ultima cosa, mentre riscrivevo questo prologo ascoltavo questa canzone, per cui se volete ascoltarla durante la lettura la trovo adatta ad accompagnarla degnamente - e poi Weiss assomiglia alla mia pampinaH.
Detto ciò, vi auguro una buona lettura, e vi invito con tutto il cuore a lasciarmi un commento, anche se piccolo, è un progetto a cui tengo un casino, questo. 

Prologue Vacuum

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Solo... Sono solo...
Un bambino era adagiato su di un letto d'ospedale, il buio della notte gli lambiva il corpo con le sue dita fredde. Nessuna ferita troppo grave lo costringeva lì, eppure sentiva che il suo cuore pulsasse nel suo petto per errore, che tutto il resto in lui fosse già morto.
Mamma... Papà... Atsuya...
Lacrime luccicanti come piccoli ruscelli gli rigavano le guance e scendevano a bagnare il cuscino immacolato dall'odore pungente e sterile, lo stesso di ogni singolo oggetto in quel luogo.
Non voglio essere solo... Tornate... Per favore...
Si sentiva stanco, nel suo corpo sembrava non scorrere alcun tipo di energia, tanto che non riusciva a muovere un singolo muscolo; eppure non riusciva ad addormentarsi. Continuava a spezzare il silenzio che altrimenti sarebbe stato grave e totalizzante con i suoi respiri strozzati ed i suoi singhiozzi. La sua mente non accennava a smettere di rimestare voci e parole - le quali tutte puntavano alla stessa destinazione - caotici come oggetti nell’occhio di un ciclone, il suo sguardo non ne voleva sapere di distogliersi dai riflessi della luce lunare sul soffitto. Nonostante il gran numero di pensieri che vorticavano nella sua testa, non riusciva a focalizzarsi su alcuno di loro; continuavano a sfuggire alla sua presa, trascinati da quell’inarrestabile vortice, venendo subito sostituiti da un altro, e poi un altro, ed un altro ancora.
Perché...? Portatemi con voi... Non voglio...
Quando la luna era quasi giunta al termine del suo dominio sul cielo, finalmente le sue palpebre gli oscurarono la vista di quella stanza lattea come le stelle tra cui sarebbe voluto andare, scivolando nel freddo tepore di un sonno senza sogni, o forse semplicemente sognando il vuoto.
 
 
Urla, risate e canzoncine simbolo di infantile divertimento giungevano alle sue orecchie ovattati dalla lastra di vetro che la separava dalle fonti di tale frastuono, mentre le sue iridi del colore della cenere osservavano vigili ogni angolo del cortile affollato di bambini. Poggiò la piccola mano sul freddo divisorio, mentre fissava lo sguardo su una figura in particolare. Numerose parole, immagini e memorie le affollavano la testa, brulicavano e crescevano, provocandole un basso e costante lieve dolore alle tempie. Le dicevano che pensava troppo, per una bambina della sua età, che non le avrebbe fatto bene stare sempre sola a rimestare quel mare in tempesta nella sua mente, ma era la prima volta che ne sentiva veramente le conseguenze sul suo corpo. Paradossalmente al caos nella sua testa, sentiva il proprio petto vuoto. Guardò il piccolo pezzo di carta plastificata che teneva in mano, quel viso smunto e pallido, quei capelli biondo sporco, quelle pupille oscurate da sostanze stupefacenti, evidenziate da un paio di scure occhiaie. Non le assomigliava granché, per essere stata creduta sua figlia, ma aveva sempre pensato che forse quelle sostanze che gli adulti chiamavano droghe - per quanto lei non avesse idea di cosa fossero, sapeva solo che annebbiavano i sensi e rendevano tutto più gioioso, ma era un rimedio a breve termine ed a doppio taglio - avevano corrotto quel corpo tanto da non renderlo più riconoscibile, o forse era per via della foto. Era da quello che tentava di sfuggire, lei, con le droghe? Voleva scappare da quella burrasca? Si rifugiava su un isolotto vuoto e meraviglioso che poi veniva puntualmente ingoiato dai flutti, facendola naufragare di nuovo ed ancora più dolorosamente? Oh, povera mamma… Carezzò il volto smunto impresso nella piccola stampa, rivolgendogli un sorriso malinconico. È il momento di lasciare il passato, mamma, dobbiamo guardare al futuro.
Ruotò il capo quando udì i cardini della porta cigolare dietro di lei, la figura allampanata attraversare la soglia e venire nella sua direzione, abbassò gli occhi per non guardare in faccia quell’uomo, si concentrò soltanto sulla mano callosa e maschile che le tese. Scese dal divano su cui si era arrampicata per arrivare ad appoggiarsi sul gelido davanzale che le aveva intorpidito le membra e gli si avvicinò, senza alcuna fretta. Non c’era motivo per affrettarsi a voltare le spalle al quel luogo, a quei ricordi. Ripose la foto nella tasca del suo abito, scuro come la notte ammantata di nero, e prese come poteva quella mano che le veniva porta, essendo la sua di ben più piccole dimensioni. 

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Capitolo 2
*** The beginning of a nightmare ***


Seth's corner: SONO RIUSCITA NEL MIO INTENTO DI PORTARVI IL PRIMO CAPITOLO IN UNA SETTIMANA, MA DAVVERO? NON CI CREDO MAI NELLA VITA
In ogni caso, non ho granché da dirvi riguardo questo capitolo, ho voluto iniziare a mostrarvi un po' la psicologia della nostra piccola Tenshi, i suoi rapporti con i primi due fra i personaggi dell'anime. Nel prossimo vedremo più in dettaglio ancora i suoi pensieri, il suo modo di ragionare, ma lo vedrete a tempo debito. So che già da ora il grande quesito di tutti voi sarà sul perché nel prologo compare anche Shirou... Beh, lo scoprirete a tempo debito, temo ci vorrà un po', ma portate pazienza. Nel frattempo, sarei più che lieta di sentire le vostre congetture, anche su Kidou o su qualunque altro personaggio, se il vostro cervellino da fagirl e fanboy ne elaborerà. Questo varrà anche per i capitoli futuri, ovviamente. L'immagine questa volta l'ho presa da una gif di tumblr trovata su google immagini e non ho sinceramente voglia di andare a cercarne la fonte. Se volete nuovamente accompagnare la lettura con della musica, questa volta vi consiglio questa canzone, sempre dal mio amato RWBY. 
Spero di poterci rileggere in una recensione o anche solo in un capitolo futuro!
~Seth
 
Chapter one ❧ The beginning of a nightmare

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L’aria, fino a poco prima azzurra e calma, si riempì di nebbia color bianco sporco e di aloni di palpabile tensione che gravavano su ciascuno degli studenti della Raimon junior high, radunati in cortile come in attesa di qualcosa di davvero importante. Ciascuna testa si protendeva verso il grande cancello d’ingresso in ferro, allora spalancato; le espressioni su quei visi sembravano quelle tipiche di coloro che stanno per incorrere in una disfatta, un’amara mortificazione. Quando la polvere ed i vapori, che avevano impedito la visuale oltre l’entrata della scuola, si diradarono, ciò che si materializzò di fronte ai loro occhi fu un gigantesco pullman dalle fattezze tetre. Il pullman della Teikoku gakuen. Le porte di esso si spalancarono, ed iniziò una sottospecie di rito che lasciò i presenti basiti. Prima scesero due file di ragazzi in uniforme scolastica - che pure ricordava tanto quella di un esercito -, che andarono a formare un corridoio che si protendeva oltre la soglia della vettura. Seguirono i membri della squadra, terrificanti coi loro ghigni dipinti sui lineamenti come su volti mostruosi di un disegno infantile. Si diressero senz’alcuna esitazione al campo da calcio, dove la squadra di casa li attendeva, il cuore in gola. Un’ultima figura emerse dalle viscere del pullman, un’esile ragazzina, cui nessuno però prestò attenzione, gli sguardi di tutti catturati dall’aura intimidatoria dei giocatori.
Fu evidente fin dai primi istanti di gioco quale delle due parti avrebbe totalmente surclassato l’altra. I giocatori ospiti stavano attaccando gli altri con una forza terrificante, puntando non tanto a vincere, quanto a devastare fisicamente gli avversari. Li stavano riducendo allo stremo delle forze, come un gatto che gioca alla legge della giungla con un topolino, che lo fa correre via per poi riacciuffarlo, lasciando che si sfinisca prima di ucciderlo. In non molto tempo, difatti, coloro che giocavano in casa vennero tutti messi in ginocchio di fronte alla loro superiorità fisica, stremati dalle pallonate in pieno corpo a cui venivano sottoposti senza riuscire ad evitarlo.  
La ragazza seduta alla panchina riservata alla Teikoku lasciava lo sguardo scorrere sulla folla intorno al campo, senza quasi degnare di un’occhiata il gioco. Dopo un po’ i suoi grandi occhi indugiarono per un istante su un punto preciso, poi si chiusero ed ella, sospirando, con una mano si spostò la sua lunga treccia da dietro la schiena sulla spalla destra, lasciandola ricadere placidamente lungo il lato del suo busto minuto. Le sue palpebre si sollevarono e le pupille saettarono sul capitano della squadra, il ragazzo che sulle spalle portava legato un mantello di un profondo rosso che svolazzava in aria ad ogni sua mossa. Egli, sentendo il peso di quello sguardo su di sé, voltò la testa fino ad agganciare i propri occhi vermigli, nascosti da un paio di occhialetti che sembravano quelli di un aviatore, con quelli grigi della ragazza, circondati invece solo da due corone di lunghe ciglia nere.
 – Si ostina a rimanere nascosto. Proseguiamo. – disse lei con sguardo serio e distaccato. – Il comandante dice che arriverà.
Il ragazzo annuì e tornò a rivolgere tutta la sua attenzione sulla partita, con un ghigno sadico. Avrebbe fatto piegare quei pivelli ai loro piedi finché la loro preda non si fosse fatta vedere.
Continuò, così, quel gioco sadico dei ragazzi in maglia verde scuro, gli altri atleti a terra sfiniti. Ne avevano risparmiato solo uno, quello che fin da subito si era dimostrato il più codardo, il più terrorizzato da loro. Avevano deciso in un tacito accordo di lasciargli vedere come avrebbero ridotto i suoi compagni e poi lui; ora egli riusciva a malapena a reggersi in piedi per via del tremore delle sue gambe. Quando anche l’ultimo dei giocatori ad eccezione di lui stramazzò al suolo, la consapevolezza che sarebbe stato il prossimo gli piombò addosso d’un colpo e, colto da un attacco di panico, corse via dal campo di gioco, arrancando su per la piccola salita che l’avrebbe portato al sicuro fra le mura della scuola. Mentre fuggiva, si sfilò la maglia, a fatica, e l’abbandonò sul verde e lucido prato.
La ragazza si spostò una ciocca di capelli dagli occhi, e senza cambiare minimamente la sua espressione fredda fissò quella maglia abbandonata a terra, e poi un ragazzo che cercava di non farsi vedere, poggiato al tronco di un albero poco distante. Egli aveva capelli di un biondo molto chiaro pettinati verso l’alto in varie punte, che spiccavano sulla sua carnagione piacevolmente dorata. I suoi occhi neri come l’onice indugiavano sui ventuno ragazzi in campo con un tremore di indecisione e frustrazione.
Cosa aspetti? È l’occasione perfetta. Per cosa credi che siamo qui? Molte immagini le baluginavano in mente alla vista di quel ragazzo, e sospirò abbassando lo sguardo. Che seccatura…
Prima ancora che rialzasse gli occhi, udì molti mormorii di meraviglia tutti intorno al campo. Le sue labbra rosee si piegarono in un piccolo sorriso. Quando tornò a guardare la partita, la Raimon era tornata ad avere undici giocatori. In campo era comparso il ragazzo che stava precedentemente osservando, che si era infilato la maglia col numero dieci che era stata lasciata sul prato. Il suo viso freddo era acceso di determinazione, cosa che le fece sollevare ancora un po’ gli angoli della bocca. Grazie al cielo. Il suo sorriso si fece malinconico, sposandosi alla perfezione col luccichio dei suoi occhi dalla forma triste, fissando la loro “preda”. Aveva lo sguardo di una persona che guarda un parente od un caro partire per la guerra.
– Alla fine, Goenji, non sei cambiato di una virgola. – sussurrò lei, mentre il ragazzo biondo si preparava a calciare il pallone, la sua forza era già visibile dalla vigorosità della sua gamba slanciata all’indietro, pronta a colpire quella sfera bianca e nera.
Quando calciò, sembrò che delle lingue di fuoco si sprigionassero dal nulla, andando ad avvolgere il pallone e schizzando insieme a lui in direzione della porta avversaria. Il portiere, colto di sorpresa, non fu in grado di fermare il colpo, che entrò in rete. Il tabellone segnava ora un punteggio di venti ad uno per gli ospiti.
 
Su quell’autobus dall’aspetto spaventoso, tutti i ragazzi della Teikoku Gakuen erano seduti senza dire una parola, un’aria grave e tetra era sospesa sulle loro teste come una bestia inquietante. Chi aveva spezzato quel silenzio mediante un paio di auricolari e musica da cellulari o iPod, chi era perso nei propri pensieri, alcuni avevano tirato fuori libri di scuola e ripassavano gli argomenti della lezione del giorno seguente. Solo il rumore della strada si udiva.
Un ragazzo dalla seconda fila di poltroncine rosse si spostò a sedere alla prima, accanto alla ragazza che era precedentemente seduta sulla panchina della squadra. Egli era il capitano, Kidou Yuuto.
– Forse dovresti fare un discorso esortativo. – disse ad ella, osservandola da dietro le lenti dei propri occhialini da aviatore.
– Perché io? – rispose lei, ma senza alcuna sfumatura sarcastica, irritata o annoiata nella voce, solo pura neutralità. Non staccò gli occhi dal finestrino o dal paesaggio che cambiava dietro di esso, non li spostò sul ragazzo.
– Perché sei la nostra manager. – rispose con ovvietà il ragazzo.
– E tu il capitano. – le iridi della ragazza saettarono sul suo volto, ma durò solo per un istante, quasi immediatamente, infatti, tornarono al vetro e allo scenario retrostante.
 ̶ Touché.
– Sai che non sono brava con questo genere di cose. – una mano candida si sollevò a spostare una ciocca di capelli argentei dietro l’orecchio. Kidou adorava il modo in cui ogni sua singola mossa sembrasse sempre elegante ed affascinante.
No, effettivamente non poteva certamente venir definita una persona eloquente. – Sempre schiva, perfino con me, eh? – commentò.
Ella finalmente si voltò. Il suo sguardo, diretto ai suoi occhi celati alle altre persone, racchiudeva una tristezza ed una solitudine appena visibile, ma che egli, che aveva visto quegli stessi cerchi grigi in tutt’altre espressioni, riuscì a cogliere. Quello del ragazzo, per quanto non fosse dato agli altri saperlo, era invece oscurato da un pesante velo grave di tristezza.
– Cosa dovrei dirvi? Che dovete impegnarvi al massimo? Che poniamo tutta la nostra fiducia in voi? Che ci aspettiamo tutto il possibile ed anche di più? Credi che ci sia qualcuno qui che non lo sappia? Ciascuno di questi ragazzi sa esattamente cosa gli spetta, cosa deve fare, cosa si aspettano da lui. – sentenziò ella, osservando con distacco un cartoncino lucido della lunghezza di un dito che si stava rigirando fra le mani. A vederlo così, Yuuto l’avrebbe detto essere un biglietto da visita. Sapeva come era solita comportarsi, per cui sapeva bene che nonostante il suo sguardo divagasse in ogni dove perfino mentre parlava con qualcuno, tale azione non era dettata da disagio, rabbia, paura, o qualunque emozione che usualmente potrebbe venirvi connessa. Per lei, si trattava di un’azione dovuta unicamente alla sua natura, al suo modo di fare.
 – Già, hai perfettamente ragione. – assentì egli, lasciando scendere gli occhi sulle sue gambe, dove era poggiato il bigliettino. Purtroppo, ella se lo strinse addosso, impedendogli la visuale su qualunque cosa vi fosse scritta sopra. Mentre tornava a rivolgersi al suo volto, gli sfuggì un sospiro. Era incredibile come quella ragazza sembrasse nascondere sempre più segreti, al punto che non avrebbe potuto neppure immaginarne il numero. Da quando perse i contatti con lei, all’età di otto anni a quando la ritrovò quattro anni dopo, la bambina che conosceva era stata corrotta, plagiata, plasmata per contenere più verità nascoste di un antico oracolo, più male del vaso di Pandora. Nei suoi occhi non aveva più trovato la triste innocenza di una volta, ma solo la cupa consapevolezza di quanta malvagità s’annidasse intorno a loro, nonostante i suoi soli undici anni. In quella figura smilza vi era ormai solo la parvenza della timida bambina gentile che era stata una volta, ora vi era solo un fantasma, un manichino d’ombra, mosso da adulti, evanescente, oscuro, corrotto. Nulla più di puro ed intoccato vi era in lei. Quell’anima che solo per poco tempo aveva conosciuto affetto, era stata completamente rinchiusa dal nero catrame della cupidigia umana, abbandonata sola a marcire su un letto di rovi.
– Quindi vorresti appiopparmi questo compito gravoso? – chiese scherzosamente il ragazzo, per allentare la tensione e per tentare di far spuntare per lo meno la parvenza di un sorriso sulle labbra rosee della fanciulla. Purtroppo per lui, nulla cambiò nella sua espressione, mentre ella rivolgeva lo sguardo all’incombente sagoma della loro scuola che si avvicinava, fuori dal finestrino, col cuore che si sentiva pesante.
– Sta iniziando l’incubo, Kidou… Dobbiamo prepararci, nulla sarà più semplice… Nulla
 
Campionato di calcio Football Frontier, l’occasione per le squadre di calcio scolastiche di mostrare la loro abilità al livello nazionale. La ragazza, da sola nella sua stanza, guardava il volantino di quell’evento appeso alla porta. Era sdraiata sul letto a pancia sotto, il mento appoggiato sulle braccia, adagiate a loro volta sul cuscino. Sospirò. Quante grane avrebbe potuto portare un’occasione all’apparenza così spensierata ed innocente? Si passò una mano tra i capelli, che ora erano sciolti e le ricadevano in morbide onde sulle spalle e sulla schiena, come un velo argenteo che la avvolgeva fino ai punti in cui la cresta iliaca sporgeva dalla sua pelle cerulea.
– Tenshi. – sentì una voce chiamarla dall’atrio di quella grande casa.
Si lasciò sfuggire un nuovo sospiro, mentre si tirava a sedere facendo leva sulle braccia; accavallò le gambe e fissò la porta in attesa. Indossava solo una canottiera ed un paio di pantaloncini, ma non le importava granché, non che quell’uomo non l’avesse mai vista con così tanta pelle scoperta. Oh, avrebbe tanto desiderato una vita più normale, che da quella porta sarebbe di lì a poco entrata una madre, e non lui. Non aveva mai provato il calore di una famiglia, non sapeva come sarebbe stato averne una, cosa avrebbe provato, come sarebbe stata. Avrebbe voluto dei fratelli? Certo, sarebbe stato bello avere un fratello o sorella maggiore, qualcuno a proteggerla e rincuorarla. Oppure anche uno od una minore, così da essere lei quella con la responsabilità di occuparsi di lui o lei, l’avrebbe fatto col sorriso. Aveva sempre ingerito bocconi amari da sola, mentito, allontanato gran parte delle persone.
Sentì il cigolio dei cardini e si riscosse dai suoi pensieri, mentre una figura allampanata entrava nella stanza. Portava occhiali scuri su quel suo naso aquilino, li portava sempre, raramente lo aveva visto senta, pur vivendo con lui.
– Allora, che ne dici di Goenji Shuuya? – ghignò, incrociando le braccia al petto.
Tenshi inclinò di poco la testa di lato, guardando un punto ignoto sul muro di un tenue color panna. – È un giocatore eccellente, su di questo non ci sono mai stati dubbi. Indubbiamente è uno degli attaccanti della sua età più talentuosi che abbia mai visto, ci sono pochi ragazzi abili come lui, sulla piazza. Stai pensando di farne il nuovo acquisto della squadra, vero? – lo guardò, come in attesa di una risposta, che però non arrivò: egli continuava a guardarla da dietro quelle lenti, rivolgendole un sorriso inquietante. Lei sospirò chiudendo gli occhi. – Lo sapevo. Cominci ad essere troppo prevedibile.
Si fermò di nuovo, guardando un fiore che tempo prima aveva lasciato seccare compresso in un libro ed incorniciato su un foglio di carta di riso stropicciata e dall’aria antica, colorata di mille colori, e che da allora era appeso sul muro. Rappresentava la principale nota di colore, in quella stanza abbastanza neutra.
– Lascia perdere. – disse con tanta calma da sembrare incurante, osservando i petali che una volta erano stati di un bel color arancio sgargiante, lo ricordava bene.
– Come dici?
– Lascia perdere. Non ti seguirà. Si ostina a non voler ricominciare a giocare, e se anche cambiasse idea, mai e poi mai si unirebbe alla Teikoku. – tornò a rivolgere lo sguardo color cenere verso quell’uomo, il suo volto non tradiva la benché minima espressione, era come guardare il muro bianco di una stanza completamente vuota. – E puoi forse biasimarlo? Dimentichi cosa gli hai fatto? Hai dimenticato Goenji Yuuka? – la sua voce era talmente neutra da dare l’impressione che gli stesse chiedendo cosa avrebbe mangiato a pranzo, nella più noiosa delle conversazioni.
In tutta risposta, il suo ghigno si allargò ancora di più. – Non è mai detta l’ultima parola. Lui crede che sia stato un incidente.
– Tu non capisci le persone, Kageyama. Non le hai mai capite e mai le capirai. Per te ha sempre contato solo e soltanto te stesso. Non puoi comprendere le idee e gli ideali di nessun’altro. – sputò queste parole in tono piatto, continuando ad osservarlo con quel viso bianco.
– Posso comprendere te.
– No, non puoi. – ella si alzò e gli si avvicinò, guardando fisso gli occhiali da sole dietro i quali erano celati i suoi occhi. – E te lo dimostro ora. Tu credi che ti odi?
 – Sì, penso che tu mi odi. Un po’ per via delle mie azioni, ma principalmente perché non ti ho mai detto nulla del tuo passato. – disse l’uomo. – Sei famelica di conoscere chi sei, Tenshi, non desideri altro.
Lei sorrise ed abbassò di poco la testa, scuotendola e chiudendo gli occhi. – Oh, come ti sbagli. Non conosci neanche la tua figlia adottiva, dopo cinque lunghi anni.
Detto ciò, la ragazza uscì dalla stanza, lasciando Kageyama Reiji da solo, a ridacchiare. Scosse la testa, come divertito. Tenshi, Tenshi…
 

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Capitolo 3
*** Self-induced isolation ***


Seth's corner: Credo che finché riuscirò vi porterò un capitolo ogni due settimane. Credo che almeno fino al quinto di certo ce la farò. In ogni caso, questo è solo un piccolo capitolo di passaggio, per inquadrare un po' meglio la situazione della nostra bambina, dal prossimo inizia la vera azione, ve lo prometto. Avrei voluto mostrarvi un disegno per farvi vedere un po' come me la immagino, ma ora non ci riesco e volevo portarvi questo capitolo. L'immagine del giorno è stata offerta da bertilmelhof, mentre la canzone che vi consiglio per la lettura è The lost one's weeping (sì, questa volta, coi vocaloid, mi addentro su terreni che per voi saranno penso più familiari). 
Ripeto che questo è un progetto a cui tengo un casino, vorrei davvero non finisca come con The dreamer girl, che per mancanza di fiducia in me stessa getti tutto all'aria per mancanza di vostro sostegno. Non ve lo chiederei se non fosse necessario, ma ricevere due paroline da voi mi farebbe davvero stare meglio. Ringrazio in anticipo tutti gli eventuali recensitori (ma si dice, poi?) e tutti i lettori silenziosi che fanno comunque sempre la loro parte. A fra non moltissimo col terzo capitolo!
~Seth
 

Chapter 2 Self-induced isolation

 
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Respiri pesanti ed ansanti aleggiavano nello stadio della Teikoku Gakuen, echeggiando in ogni angolo, accompagnati dal rumore dei passi, dei salti, degli scarpini che sbattevano e strisciavano sull’erba, dei palloni che rimbalzavano al suolo, che colpivano birilli, pali, traverse, a volte persone… I suoni a cui Tenshi era ormai perfettamente abituata, che la rilassavano e cancellavano qualunque cosa nella sua testa, facendole pensare solo a come preparare al meglio i giocatori. Camminava tra i ragazzi, guardandoli con sguardo serio, pratico, obiettivo, valutando le loro abilità, i loro miglioramenti, il loro impegno, la loro forza di volontà, tutto ciò che sarebbe servito in partita. Proseguiva, a passi lunghi, con le mani congiunte dietro alla schiena, gli occhi vigili e precisi, che studiavano fino alla minima mossa, al minimo guizzo di muscoli, di tanto in tanto arrestava il suo incedere, correggeva le posture o i movimenti dei calciatori. Raramente parlava, se non per spiegar loro nuovi esercizi da svolgere, spesso restava in silenzio; solo una volta finita la sessione si lasciava andare ad un flebile sorriso, perdendo quell’aria da adulta, lodandoli per il lavoro svolto, facendo notare loro conquiste o difficoltà da superare, distribuendo ad ognuno bottiglie di fresca acqua ed asciugamani nivei e profumati, morbidi, che poi ritirava ed andava a riporre al loro posto, pronti per venir ripuliti ed usati nuovamente i giorni seguenti. 
Quello era il suo lavoro lì: preparava e supervisionava i loro allenamenti, ormai era diventata abile. Sapeva dire con una sola occhiata se un giocatore aveva un problema, qualcosa che non andasse, se provasse dolore in qualche punto, le bastava guardarli giocare per sapere dove doveva concentrare il prossimo allenamento. A lei non dispiaceva neppure tutto quel lavoro, almeno poteva essere d’aiuto a qualcuno, fare qualcosa, e non rimanere inerte a soccombere al vuoto ed alla solitudine della sua vita. Amava la squadra, era l’unica cosa che la trascinava via dalla realtà.
 
Molto prima di quanto avrebbe mai pensato e desiderato, l’allenamento era già terminato, e dovette avviarsi verso casa, sistemate le ultime cose. La tensione era appena accennata, nell’aura della Teikoku Gakuen; si avvicinava il termine delle fasi regionali del Football Frontier, e la Raimon cominciava a migliorare a vista d’occhio, tant’è che avrebbero potuto incontrarli in finale, tutto dipendeva dalla prossima partita della squadra avversaria. Quei ragazzi sarebbero potuti diventare una minaccia, per quell’imbattibile squadra che dominava da ormai quarant’anni senza una sola sconfitta? Sospirò, mentre usciva dall’edificio scolastico, sbattendo un paio di volte le palpebre per abituarsi alla luce, più forte all’esterno. Lentamente, come controvoglia, si avviò per la strada popolata da qualche studente che, come lei, aveva concluso le attività del proprio club e si dirigeva verso la propria abitazione. Il suo sguardo vagava un po’ ovunque, senza che lei recepisse effettivamente nulla, persa nei suoi pensieri, palesati dalle ombre delle sue iridi; la cartella le rimbalzava sulle cosce, per via della sua abitudine di camminare con le braccia dietro la schiena, ma non le creava fastidio.
I suoi occhi si concentrarono su un piccolo market. Forse avrebbe dovuto fare la spesa, cosa avrebbe cucinato quella sera? Entrò silenziosa nel modesto negozio e comprò il necessario per cucinare del ramen con uova strapazzate, accennando un sorriso alla commessa che, mentre le porgeva il resto, si complimentava con lei per voler aiutare i suoi genitori con le faccende. Una volta che si ritrovò all’aria aperta proseguì il suo cammino, a passi lenti e misurati, chiedendosi come poter allontanare ancora di un po’ il momento in cui si sarebbe trovata da sola con le sue lacrime mai piante nella sua stanza. Tutto questo era così sbagliato, lo sentiva.
Camminava muta, come chiusa in una bolla che la separava dal resto del mondo: i suoni e le immagini la toccavano solo a metà, qualunque gioia, volontà o felicità era scivolata via da tempo. Era solo una dodicenne, quanto tempo avrebbe resistito sola a quel modo? Che motivo aveva per andare avanti? Ah, lei lo sapeva eccome quale motivo la convinceva a continuare, seppur così
Nonostante la sua mente fosse così offuscata da oscuri pensieri, l’animo appesantito, il suo passo incedeva leggero, invariato; attraversava strade, superava semafori, negozi, parchi, case, persone. Quel mondo che le appariva così distante, in cui i bambini ridevano giocando insieme, le ragazze come lei chiacchieravano dei loro amori adolescenziali o di qualunque cosa interessasse loro, gli adulti affannavano dietro al lavoro, ai figli, a mogli e mariti. Mentre la vita scorreva frenetica, lei camminava lentamente per la sua via; lo sguardo nel vuoto, la treccia ondeggiante lungo la schiena con un ritmo quasi ipnotico. Era così estranea.
Venne riscossa dalle vibrazioni del cellulare nella cartella, lo prese senza contenere un cipiglio stupito, le occasioni in cui quell’apparecchio aveva il privilegio di produrre i suoni che componevano la semplice suoneria erano assai sporadiche. Guardò il messaggio che le era arrivato, mittente: Kidou Yuuto. Prevedibile. Il ragazzo le chiedeva se le andasse di andare a prendere un gelato in centro con lui, Sakuma e Genda. Accennò un sorriso - che pure non lasciava trasparire significativi indizi di gioia -, proprio al caso suo. La sua spoglia e opprimente camera avrebbe atteso ancora un po’.
 
Dopo essere passata a casa a lasciare la spesa in cucina e a cambiarsi rapidamente, si ritrovò nella stazione centrale di Tokyo, a cercare con lo sguardo tre dei migliori giocatori della sua squadra. Li individuò seduti ad una panchina, immersi in una conversazione che indovinò vertere sul calcio. Li raggiunse, stringendo tra le sottili dita di una mano la tracolla della sua borsetta lucida del colore del più profondo degli oceani. I ragazzi rivolsero lo sguardo verso di lei e sorrisero.
– Scusate il ritardo. – disse, legandosi un elastico color cielo intorno alla treccia che aveva rapidamente intrecciato in treno. Nonostante la fretta, la capigliatura era al suo solito perfetta, aveva ormai una certa abilità nell’intrecciare i propri capelli in ogni genere di trecce.
I tre la perdonarono senza problemi, dirigendosi verso una gelateria. La ragazza camminava al loro fianco, intervenendo sporadicamente nelle loro discussioni, per lo più li ascoltava, lo sguardo perso verso l’infinito orizzonte. Gli altri non vi facevano caso, erano abituati al fatto che la ragazza sembrasse costantemente sulle nuvole.
Arrivarono alla gelateria, sedettero ad un tavolino in ferro nero, dalle fattezze graziose ed eleganti, ordinarono distrattamente tre coppe di gelato ed una granita, ancora presi dalla loro discussione - eccetto la fanciulla, che ricevette dalla cameriera un’occhiata eloquente, come volesse dirle “questi ragazzi!” con il solo ausilio degli occhi. Poco dopo venne servito loro ciò che avevano chiesto, coppe guarnite da un’invitante panna, ciliegie, codette o polvere di cacao, ed una granita alla menta, sulla quale ugualmente svettava uno sbuffo color latte, che in confronto agli altri tre ordini sembrava assai misera e poco invitante. Quest’ultima venne data alla ragazza, che distrattamente prese a giocare con la guarnizione candida come neve, per poi mangiarne una cucchiaiata. Passò poi con lo sguardo dal ghiaccio color verde alla tranquilla stradina, percorsa da alcuni passanti, ma non frenetica, dalla quale erano separati solo grazie ad una siepe dalla forma accuratamente rettangolare. Vedendo un trio di ragazze che ridacchiavano allegramente, si chiese se anche lei un giorno sarebbe riuscita a provare quelle sensazioni a lei sconosciute come gioia, senso di leggerezza, se avrebbe potuto sentire di non aver alcun problema a gravare sulle proprie spalle. Si chiese se avrebbe mai avuto quella spontaneità, se avrebbe mai smesso di indossare maschere su maschere. Che poi, chi era la vera Tenshi? Perfino lei ne aveva perso memoria da tempo, quei ricordi erano ormai lontani, corrotti dalla solitudine, dall’assenza di amore. Avrebbe mai compreso il significato di certe parole? Amore, che suono strano.
Tenshi, l’avevano chiamata, che scherzo del destino, un simile nome ad una come lei, che di angelico non aveva forse che l’aspetto, mentre nell’animo si sentiva pesante come una roccia. Probabilmente, se l’avessero gettata in un fiume, sarebbe colata a picco senza bisogno di alcun espediente come riempirle i vestiti di sassi o simili. Buffo, si sarebbe potuto dire. Buffo davvero.
– Terra chiama Tenshi! Ci sei? – Genda le sventolò una mano davanti al viso, facendola sussultare impercettibilmente e riscuotendola bruscamente dai propri pensieri, attirando la sua attenzione verso il trio seduto assieme a lei al tavolo di color ebano. Il castano la stava guardando accigliato, mentre gli altri due avevano sguardi più morbidi, e labbra piegate in un piccolo sorriso.
– Scusate…? – chiese appena timidamente. Forse, stare sempre a rimuginare sui suoi problemi non le avrebbe fatto che male, avrebbe provato a rilassarsi e lasciarsi andare, nei limiti del possibile, per una volta.
– Stavamo parlando della Raimon. – le spiegò Sakuma.
– La Raimon, eh? Argomento più che discusso dai media sportivi della zona, dato che in sole poche partite di campionato regionale hanno avuto una crescita più che notevole.
– Pensi che dovremmo temerli? – la interrogò il capitano.
– Ora come ora, la loro forza è insufficiente a sconfiggerci, se continuano ad incrementare le loro abilità col ritmo mantenuto finora, forse potranno darci filo da torcere. Mentre, se miglioreranno ancor più… temo che dovremo faticare questa vittoria. – congiunse le mani davanti al mento, che vi appoggiò. C’era sempre il fattore “Kageyama” da tenere in considerazione. Avrebbe fatto di tutto per ottenere la vittoria a tavolino o comunque favorire in qualunque modo la propria squadra, se la Raimon fosse migliorata al punto da rivelarsi una minaccia.
I ragazzi si lanciarono un’occhiata di intesa che a lei non sfuggì. 
– Cosa tramate di fronte ai miei occhi?
– Hai alcuni dei suoi modi di fare, non puoi negarlo. – fu la spiegazione fornitale dal portiere dalla castana chioma leonina.
– Dopo cinque anni di convivenza e collaborazione, qualcosa avrò pur preso da lui, non ti pare? – sospirò, avrebbe preferito non assimilare nulla di quell’uomo, ma se ciò l’avrebbe portata alla verità, ne sarebbe valsa la pena. – Per concludere il precedente discorso, se volete la mia opinione personale, ho il presentimento che quella squadra ci riserverà sorprese. – disse, stringendo tra le dita la cannuccia rosso acceso della granita e bevendone un sorso.
– Sorprese di che genere? – volle informarsi Kidou.
– Non lo so, sento solo che ci stupirà. E non solo loro, ho una strana sensazione su tutto questo Football frontier. – giocherellò con il tubetto di plastica cremisi, osservando i granelli di ghiaccio ruotare ed agitarsi nel bicchiere.
– Ahi ahi, quando Tenshi ha questi suoi “presentimenti” e “sensazioni” c’è sempre da preoccuparsi. – disse Genda, con un sorriso quasi tendente al ghigno, mangiando una gran cucchiaiata di gelato.
Le labbra della ragazza si piegarono, ma quella sul suo volto si sarebbe potuta dire una smorfia, più che un sorriso, tanto era la sua espressione piena di rammarico ed amarezza. – Già, dobbiamo davvero preoccuparci

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Capitolo 4
*** The trap has just taken ***


Seth's corner: Ed eccoci di nuovo! Con un giorno di anticipo, sì, dato che era tutto bello e pronto per essere pubblicato e domani avrò probabilmente da fare. Cerchiamo di dire tutto ciò che devo dire, altrimenti mi perdo. Da questo capitolo in poi inizierà l'azione vera e propria, credo che limiterò il più possibili altri eventuali capitoli di passaggio, ma forse qualcun'altro che si limiterà a spiare un pochino la psicologia dei personaggi ci sarà. In ogni caso, qualche mistero sulla nostra protagonista inizia a venir svelato, qualcun'altro si infittisce, ma come ricompensa perché so di essere una stronza a voler creare tanto mistero, vi prometto che nel prossimo qualcosa svelerò del tutto. E sì, sta volta è davvero lungo tutto il papier, quasi 3400 parole, chiedo perdono.
Ah, stavolta il disegno di Tenshi di cui vi avevo parlato la scorsa volta non l'ho scordato, anzi ne ho ben due, questo e quest'altro, che è un po' più vecchio, ultimamente il mio stile cambia quasi ad ogni disegno perché non so bene quale fare mio, per cui se sembrano molto diversi è per quello, giuro. Passiamo alle solite cose, l'immagine del capitolo è stata presa da Anna Samula, mentre la canzone che vi consiglio è 
Bi☣hazard, di nuovo dei Vocaloid, ma sta volta in inglese. Per la canzone mi ci sono arrovellata parecchio, perché ero indecisa tra questa ed una dei Linkin Park, ma alla fine ho optato per SONiKA perché mi piaceva come quel "what you've done to me won't define who I am" sposava col fatto che Tenshi vuole essere chiamata solo Tenshi. Beh, penso sia tutto, buona lettura, spero che il capitolo vi piacerà e magari anche di sentirvi nelle recensioni!
~Seth
 

Chapter 3 ❧ The trap has just taken

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Passavano i giorni, le partite, era ormai la vigilia della finale del campionato regionale. Neppure a dirlo, le squadre che avrebbero disputato la partita sarebbero state la Teikoku e la Raimon. Tenshi si trovava in uno stanzino nell’ufficio di Kageyama, rovistando tra le scartoffie. Era in cerca di prove contro l’uomo, che potessero confermare che aveva sabotato la partita del giorno seguente. Era venuta a conoscenza del tentativo di manomissione dei pullman della squadra avversaria, ma sapeva anche che non era stata ordinata da Reiji, e per di più non era andato in porto, era perciò certo che avesse già preparato un’altra trappola; per ogni evenienza, come si suole dire. Lo conosceva bene, ormai, viveva con lui da diversi anni, sapeva che era un delinquente che avrebbe fatto di tutto per ottenere la vittoria. Qualunque mezzo, la vittoria andava perseguita. Per dirla con le sue parole “chi ha campioni in squadra vince già prima di scendere in campo”, ma Tenshi riteneva fosse troppo poco chiara, prediligeva decisamente la versione rivisitata “chi ha accoppato metà dell’altra squadra vince già prima di scendere in campo”. Controllò tutti gli archivi in cui sapeva avrebbero potuto trovarsi dati al riguardo, conosceva bene quella stanza, come il fatto che Kageyama volesse che tutte le cose fossero al loro posto. Eppure, non riuscì a trovare nulla.
Chiuse l’ultima cartella, dopo averla ricontrollata per la terza volta, la ripose e, sospirando, si vide costretta ad uscire. Non voleva che il padre adottivo la cogliesse a ficcanasare nei suoi documenti, non l’aveva mai trovata in un atto simile, ma temeva la sua possibile reazione.
Uscita dall’ufficio di Kageyama, decise di recuperare la borsa nella sala del club ed uscire. Lì, però, trovò il capitano, seduto su una poltroncina a fissare il vuoto, aveva sopracciglia aggrottate e, qualunque fossero i suoi pensieri, era talmente perso in essi da non accorgersi dell’ingresso della ragazza.
– Kidou. – lo salutò. – Preoccupato per la partita di domani?
Il ragazzo si riscosse, portando le sue iridi cremisi, per una volta libere dagli occhialini che lo distinguevano, sulle sue. – Non è… completamente esatto.
Essa lo osservò per alcuni istanti, poi si portò di fronte a lui, accovacciandosi e scrutandolo direttamente negli occhi, che erano all’altezza dei suoi. Nel gesto il ragazzo rivide la bambina che talvolta si occupava delle sue ginocchia sbucciate, eppure ora quei due pozzi color cenere erano così neutri e vuoti da fargli dubitare che si trattasse della stessa persona.
– Qualcosa ti preoccupa. – stabilì la fanciulla. – Vuoi parlarne?
– Da quando ti improvvisi psicologa? – volle informarsi egli, accennando un sorrisino. Anche gli angoli della bocca rosea di Tenshi si piegarono lievemente. – Soltanto, non voglio che Kageyama giochi sporco anche questa volta. Vorrei portare a casa vittorie pulite, poter essere fiero di me stesso per le mie abilità.
– Ho appena controllato tutti i suoi documenti. Se ha preparato una delle sue trappole, l’ha fatto nascondendolo con grande abilità. Nessun assegno o foglio sospetto, nulla. Non ha lasciato tracce.
– Come fai a saperlo? – si stupì lui.
– Sono entrata nel suo archivio, ho controllato tutte le cartelle almeno due volte, nulla di recente che possa avere a che fare con questa storia. Ho controllato perfino il computer, assolutamente nulla. – ella continuava a guardarlo direttamente, con decisione, appoggiando distrattamente le mani sulle sue ginocchia. Avevano avuto contatti ben più intimi, ma solo molti anni addietro, ora quelle mani fredde percepibili attraverso la stoffa dei pantaloni gli davano una strana sensazione. Era in qualche modo come ritrovare un tocco amico, ma che al contempo gli era estraneo.
– Domani controllerò in lungo ed in largo lo stadio, ora andiamo, si fa tardi. – detto ciò, il ragazzo si alzò, prendendola delicatamente per i gomiti e riportandola in piedi a sua volta. – Ti va di fare la strada assieme? – aggiunse con un sorriso, raccattando i propri occhialini da aviatore, che pure non si sarebbe rimesso, probabilmente. Sapeva che ella li odiava, che per lei rappresentavano il simbolo del potere di Kageyama su di lui, per questo a volte si asteneva dal portarli in sua presenza. Li mise in borsa.
– Va bene. – assentì la ragazza, raccogliendo la cartella ed incamminandosi insieme a lui fuori da quella scuola covo di tanta malizia.
 
̶ Trovato nulla? – chiese Tenshi a Yuuto, andandogli incontro nei corridoi dello stadio. Stavano controllando ogni centimetro per di trovare la trappola di Kageyama ed inibirla. Sapevano che ce n’era una, non poteva essere altrimenti, era impensabile che quell’uomo non avrebbe provato a sabotare una squadra dalla forza così travolgente.
– Niente, e sono arrivati ora. Sani e salvi, per lo meno.
– Dove potrebbe mai averla nascosta? – imprecò la ragazza, mordendosi la punta di un’unghia, e torturandola nervosamente. Non voleva che qualcun altro si facesse male per colpa di quell’essere spregevole, non gli avrebbe permesso di mettere a repentaglio l’incolumità di un giovane innocente un’altra volta.
– Deve essere da qualche parte, non può non esserci… ma dove? – l’altro si scostò dietro le spalle il mantello in un moto di stizza. – Non può averla nascosta del tutto!
Ella tirò un lungo respiro, doveva rimanere calma, o la sua capacità di ragionare sarebbe stata inibita dalla rabbia. Non poteva farsi battere da Kageyama, non se lo sarebbe mai perdonato. Non un’altra volta. – Sta calmo, lo so che manca poco, ma se ci agitiamo peggioriamo le cose. Dobbiamo essere lucidi. Dove potrebbe essere nascosta dagli sguardi di tutti? Un luogo a cui nessuno penserebbe…
– Ah, a volte vorrei essere nella mente di quel pazzo. – imprecò il ragazzo.
– Non dirlo, se pensi come loro, pian piano diventi come loro. – la fanciulla osservò come i pugni dell’amico fossero serrati al punto da far diventare le nocche sempre più bianche, osservò il lieve tremore delle braccia, osservò lo sguardo abbassarsi al pavimento scuro, le labbra serrarsi. Rimase in silenzio, attendendo che fosse lui a parlare.
– Non pensavo sarebbe stato così difficile. – mormorò in un soffio egli, attraverso le lenti scure degli occhialini lei intravedeva le sue iridi tremanti, non ebbe bisogno di pensarci un solo istante per capire cosa turbasse il capitano della squadra della sua scuola. Mosse un passo in avanti e, sfilandogli gli occhialini, pose una mano poco sotto il suo gomito, sapeva che nella mente del ragazzo che aveva di fronte gravava il pensiero della ragazzina dai capelli blu come il cielo notturno, la più giovane fra le manager della squadra avversaria.
– È complicato e difficile, ma stai facendo tutto questo per lei. – mosse il pollice sulla sua pelle, in una piccola e leggera carezza.
– Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per non farla soffrire, eppure temo di aver ottenuto l’effetto contrario. Vedessi come mi fissava, Tenshi, aveva proiettili al posto delle pupille. Non riuscivo neppure a guardarla direttamente per più di pochi istanti. – l’amarezza nella sua voce era tanta da sembrare aleggiare fuori dalle sue labbra come una nuvoletta di vapore in inverno, solo molto meno innocua.
– Hai cercato un modo per riportarla nella tua vita, per farla soffrire il meno possibile, tutto ciò che volevi era il suo bene, non devi prendertela con te stesso. Spesso, quella che si credeva essere la giusta soluzione si rivela non essere stata la migliore. È tua sorella, Kidou, e ti ama, ci metterei la mano sul fuoco. Tornerete a stare insieme, dobbiamo solo continuare a vincere. – la mano candida scorse lungo l’arto del ragazzo, in un lento e rassicurante tocco, che gli fece rilassare gradualmente i muscoli, e sciogliere i pugni.
– Tu non hai mai fatto decisioni sbagliate. – commentò in risposta.
– Io ho avuto la possibilità di compiere due uniche scelte di importanza rilevante, nella mia vita. La prima mi fu posta quand’ero ancora bambina, seguire o meno Kageyama Reiji. Il mio passato ed un tetto sulla testa, in cambio di obbedienza. Ero così piccola, desiderosa di avere una storia, una vita, che avrei mai potuto scegliere? Fu poi una decisione giusta? Cos’ho ottenuto, se non di venir ingannata per tutto questo tempo, tutti questi anni, ottenendo poco più che pochi piccoli indizi? – mentre parlava in tal modo, i suoi occhi erano rimasti fissi su quelli di lui, che ora ricambiavano le loro attenzioni, concedendole di perdersi in quel color sangue. Lo sguardo di quegli occhi color fuliggine era aspro, ma saldo.
– E la seconda decisione? – si limitò a chiedere.
– Di quella, mi pento ogni secondo che passo da sola nella mia stanza. – solo in quel momento le sue iridi ebbero un lieve tremore, che pure non sfuggì al calciatore. Era forse la prima volta da che frequentavano la stessa scuola media che aveva un discorso così intimo con la ragazza, che lei gli rivelava qualcosa del suo mondo, quello oscuro e corrotto in cui viveva immersa. Poggiò la mano su quella che lei teneva stretta intorno al suo braccio, sorridendo.
– La nostra indagine ci attende ancora, mia cara signorina Watson.
Un sorriso adornò le labbra di Tenshi. Un sorriso piccolo, nostalgico e triste, ma genuino, dolce e vero; era un sorriso, tanto raro su quel viso da scaldare il cuore dell’attaccante, a ricordare i suoi antenati che una volta splendevano radiosi al suo posto. Come lui, anche lei stava rimembrando i mesi d’infanzia vissuti insieme, i loro giochi in cortile, la ricerca di indizi che loro stessi avevano disseminato.
– Non vale, volevo farlo io Sherlock Holmes.
 
Nonostante le numerose ricerche, nulla riuscirono a cavarne su qualche possibile inganno del preside, e si videro costretti ad iniziare la partita. I ragazzi erano in campo a riscaldare i muscoli in vista dello sforzo cui avrebbero certamente dovuto sottostare presto, mentre Tenshi sistemava bottiglie, asciugamani e kit del pronto soccorso per ogni evenienza, pronti all’uso in un angolo della panchina. Osservò i suoi giocatori, Kidou mancava, era ancora in cerca di segni di una qualche trappola tesa a danno degli avversari in maglia giallo-blu. Sentiva il peso di due occhi su di lei, ogni tanto, ma si rifiutava di volgere loro i propri, tenendoli ostinatamente puntati sulla propria squadra o su ciò che stava facendo.
All’improvviso, assordante, si udì il rumore di qualcosa che urtava con forza un grande oggetto metallico. La ragazza si voltò verso la metà campo della Raimon, un pallone era stato in qualche modo scagliato in aria ed aveva sbattuto con fragore sul soffitto. Oltre al pallone, però, ricaddero a terra altri piccoli oggetti, che colpirono il suolo poco distante dal malcapitato giocatore responsabile - era quel ragazzo alto e sovrappeso, Kabeyama -, che ora era steso a terra terrorizzato. Il suo cuore pulsò una volta di troppo, mentre stringeva le dita intorno all’asciugamano che stava piegando e riponendo: indizio. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma non le era permesso. Per fortuna, il capitano della Raimon non era tanto ingenuo quanto sembrasse, e pensò lui a fare in modo che gli oggetti caduti, che si rivelarono essere dei bulloni, venissero consegnati ad un gruppo di detective che stavano indagando per l’intera scuola. Tutto ciò che poteva fare ora lei era sedersi ed attendere che trovassero prove, e pregare che lo facessero prima che la trappola scattasse e qualcuno si ferisse, o peggio.
 
Secondo rumore fin troppo forte della giornata, sta volta perfino più assordante del precedente, Tenshi scattò in piedi e si portò le mani tremanti al petto mentre il fragore di quelle enormi travi che colpivano il terreno del campo da gioco le faceva tremare la cassa toracica. Era a dir poco esterrefatta. Kageyama aveva davvero osato tanto.
E se fosse accaduto qualcosa ai giocatori della Raimon?
E se Goenji fosse...?
Tremava, lei come tutte le persone all’interno dello stadio, molte delle quali come lei si erano sollevate dai loro posti a sedere. Ogni singola persona tremava, guardando quella nube di polvere e terriccio col fiato sospeso, le urla morte in gola.
Stavano bene.
I giocatori, tutti, erano arretrati, grazie all’avviso del capitano della Teikoku Gakuen, e nessuno era rimasto ferito, sebbene fossero comprensibilmente molto scossi. Osservò un certo biondo tremante, e tirò un sospiro di sollievo, lasciandosi cadere di nuovo sulla panchina. Stava bene, grazie al cielo.
Questo è troppo, Kageyama.
 
Kidou falciò di gran lena la distanza che lo separava dall’ufficio del preside, seguito a ruota da Tenshi, dal portiere Genda, dall’attaccante Jimon, da Endou e dall’allenatore della Raimon. L’uomo li attendeva col suo solito ghignetto, un poco nascosto dietro le mani congiunte sul mento. La ragazza gli avrebbe volentieri tirato un pugno, come avrebbe probabilmente voluto fare ciascuno dei presenti, ma si trattenne e rimase in silenzio ad ascoltare il castano urlargli contro. Osservò passivamente la scena, lasciando la rabbia gorgogliare nel suo animo, senza mitigarsi, non avendo avuto sfogo.  Osservò mentre la squadra si rivoltava contro il proprio allenatore, mentre i detective sbattevano in faccia a quell’uomo spregevole le prove della sua colpevolezza, mentre veniva condotto via, osservò perfino il suo sorriso di chi ha vinto alle spalle del proprio nemico, facendogli credere una vittoria. I suoi pugni serrati tremavano, gli occhi erano tenuti bassi, le labbra strette fortemente l’uno all’altro. Uscì dalla stanza prima degli altri, muovendosi senza curarsi di dove andasse. Senza curarsi degli occhi preoccupati di Kidou sulla propria schiena.
O per lo meno, fino a quando non vide comparire ai bordi del suo campo visivo un’ombra, seguita poi da un paio di piedi. Arrestò la sua marcia, e sollevò lo sguardo. Due gambe muscolose, una divisa della Raimon, pelle dorata, una coppia di taglienti occhi color ebano, capelli biondo chiaro. Oh no, lui no.
– Tenshi. – la chiamò, facendo un passo avanti, cosa che portò lei, di riflesso, a farne uno indietro, stringendo un pugno tra i propri seni come in gesto di protezione. Il ragazzo le rivolse un amaro sorriso. – Ah, capisco, ora scappi perfino da me.
Abbassò lo sguardo, in un gesto misto di colpevolezza e soggezione. Si sentiva una stupida al solo pensarci, eppure ora quel ragazzo la intimoriva.
– Tenshi, cosa accidenti credi possa farti?
Eppure, il modo in cui le sue iridi profonde colpivano il suo viso, come le stessero scagliando contro un sasso dopo l’altro, spingevano il suo inconscio a voltarsi e fuggire. Le sue mani tremavano, le strinse ancora più forte, fino a far diventare le nocche bianche per lo sforzo. – Goenji, ti prego…
– Il tuo cognome è Kageyama, eh? – un altro passo. Si sforzò di non indietreggiare. – È per questo? Tu non sei lui.
– Il mio cognome non è Kageyama. – sibilò lei, alzando gli occhi sui suoi, ed egli poté vedere la tempesta che imperversava nel loro colore metallico. Tentennò, il bomber di fuoco.
– I documenti dicono…
– Ti sei messo pure a fare ricerche? – la fanciulla sospirò, in un suono che sembrava impregnato di frustrazione e tristezza, colpendo dritto al cuore il calciatore. – Non ti ho mai mentito, Goenji. Io sono solo Tenshi.
Fece per voltargli le spalle, ma il ragazzo glielo impedì afferrandole con delicatezza il polso, ella si fermò qualche istante ad ammirare il contrasto tra la pelle dorata di lui e la propria che aveva invece un colore assai pallido. Le labbra morbide si strinsero, sottoposte alla pressione dei denti, e le mani ripresero a tremare in maniera appena percettibile. Si strinse nelle spalle, dominata dall’indecisione e dalla confusione.
Durò poco. Dopo appena pochi secondi, si liberò il braccio da quella calda morsa, aggirandolo ed allontanandosi in fretta. Era giusto così, pensava, per cui non avrebbe avuto senso rimanere lì a ferirsi inutilmente con dolci ninnoli taglienti.
Goenji rimase fermo alcuni istanti, udendo come in ipnosi i rintocchi dei bassi tacchi delle scarpe di lei alle sue spalle. Odiava quel suono. Le mani gli prudevano dalla voglia di compiere nuovamente il gesto fatto poco prima, riportandola a sé e costringendola, per una volta, a dirgli tutta la verità, senza tacere su nulla. Eppure sapeva che tale atto non avrebbe portato a nulla, con lei. Voltò di poco la testa, osservando con la coda dell’occhio quella schiena, quella lunga treccia grigia come l’argento. Le sue mani sembrarono colpite da un’orticaria ancora più violenta, decise così che tornare in campo sarebbe stata una scelta assai migliore a qualunque sciocchezza avrebbe potuto compiere in quel momento.
 
Perso. Avevano perso. Loro. La Teikoku Gakuen aveva conosciuto la sconfitta, per la prima volta da decenni. Eppure, non era quello a crearle quel peso che le opprimeva il petto, anzi rappresentava un fardello in meno a gravarle addosso, poiché finalmente si erano liberati di Kageyama ed avevano giocato onestamente una partita. Lei però, in cuor suo, sapeva che non poteva essere finita così. Kageyama Reiji sarebbe tornato, lo sentiva. Egli era troppo corrotto, troppo potente, troppo pieno di invidia e malvagità per potersi arrendere così. No, sarebbe tornato presto. Solo la morte può fermare Kageyama, solo una bara imprigionarlo.
In quanto squadra vincitrice dell’ultimo Football Frontier, avevano accesso alle nazionali nonostante quell’ultima sconfitta. Ragion per cui avrebbe dovuto lavorare anche il doppio, anche se Kageyama non era più alla loro guida. Avrebbero finalmente giocato un torneo in maniera completamente pulita, se avessero vinto l’avrebbero fatto unicamente con le loro forze. Anche senza il loro preside, avevano una forza disarmante, in campo, per cui sarebbero andati bene; o almeno così sperava. In verità, sentiva che vi era qualcosa che non sarebbe andato affatto per il verso giusto, ma non voleva temere fantasmi invisibili. Avrebbero dato ogni cosa sarebbero stati in grado di dare, questo era certo, non avrebbero ceduto. Loro erano pur sempre giocatori - o manager, nel suo caso - della Teikoku Gakuen, non certo l’ultima squadra formatasi.
Eppure si trovò a chiedersi se, in caso di sconfitta, tutti gli altri avrebbero saputo mantenere la testa alta. Perdere contro la Raimon era un conto, quei Ragazzi erano letteralmente fenomenali, ma se avessero dovuto perdere prima di poter arrivare in finale, che avrebbe potuto fare questo fatto a dei giovani cui era sempre stato insegnato che la vittoria va perseguita sempre e ad ogni costo? A dei giovani che mai avevano conosciuto sconfitta?
Sospirò, prendendo una ciocca di capelli fra le dita e giocherellandoci, bloccando per qualche istante il flusso come interminabile di pensieri. I cuori e le menti umane sono facili da traviare, da spingere per vie che non si sarebbe mai potuto non solo desiderare, ma neppure immaginare. Era a conoscenza di questo rischio, eccome, ma sapeva bene come la vita sia piena di tali pericoli, sapeva come ovunque vi siano cose o persone pronte a ghermirci ed a trascinarci ove non avremmo mai voluto. Lei ne era un esempio, in fondo.
Si sollevò dal letto su cui era adagiata e si sfilò l’uniforme, scoprendo, mano a mano che si liberava di un indumento dopo l’altro, la pelle di colore diafano. Rimasta in biancheria intima, si diresse verso il bagno cui poteva accedere direttamente dalla stanza, mentre con le mani scioglieva l’intreccio che le intrappolava i capelli. Lungo il tragitto, lo sguardo le si posò casualmente sulla sua immagine riflessa nello specchio a figura intera appoggiato al muro. Guardò solo per un’istante quell’immagine allampanata e spigolosa, magra tanto da avere le costole in vista, le ossa sporgenti dalle anche, lucidi occhi color cenere dall’aspetto orribilmente corrotto. Odiava quello specchio e quel riflesso tanto quanto odiava sé stessa. Avrebbe tolto quella detestabile superficie riflettente da lì, sì.
Distolse gli occhi, poggiò una mano sulla gelida maniglia ed entrò. Aprì il rubinetto della vasca, mentre canticchiava un motivetto che non ricordava dove avesse sentito, sembrava una dolce e lenta ninna nanna, chissà, probabilmente l’aveva udita all’orfanotrofio. Con la mente intorbidita da mille e più pensieri caotici che la attanagliavano, sommergendosi l’un l’altro per avere la mente, rimestava lentamente con la mano l’acqua che si innalzava, disegnando figure che acquisivano senso unicamente per il suo inconscio. Quando reputò la temperatura ed il livello di riempimento della vasca adatti, chiuse il rubinetto, si sfilò gli ultimi indumenti e vi si immerse con un sospiro di sollievo. Amava fare lunghi bagni, sentire il calore e le carezze dell’acqua lavarle via la tensione, lo stress e, per alcuni momenti, perfino i suoi problemi. Purtroppo, però, odiava uscirne, sentire il peso della vita piombarle nuovamente addosso mentre si copriva il corpo nudo con un accappatoio. Sospirò nuovamente, lasciando lambire l’intero corpo da quel piccolo specchio di serenità, tenendone fuori solo il volto. I lunghi capelli muovendosi carezzavano le sue forme, mentre si lavava pigramente, più presa del desiderio di lasciarsi andare all’assenza di pensieri che dall’igiene in sé. 

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Capitolo 5
*** Tenshi's affections ***


Seth's corner: Salve di nuovo, miei cari lettori. Mi scuso immensamente per il ritardo di una settimana, ma questi ultimi giorni sono stati davvero devastanti, questo è stato il mio primo giorno completamente libero da ogni impegno da tipo quattordici giorni. Ed io sono una persona pigra. Comunque, dato che non volevo prolungare ancora il mio ritardo, non ho speso il tempo che impiego di solito nella revisione, per cui potrebbero esserci degli errori. Se li trovate, fatemeli pure notare, ne sarò più che felice.
Angolino di spam, entro sabato prossimo pubblicherò anche una one shot originale fantascientifica, se vi piace il genere, che è anche uno dei motivi che ha aggravato il mio ritardo con questo capitolo. Se vi andrà di venirmi a fare una visitina, ne sarei davvero felice!
Questo capitolo è più corto del precedente, ma sono riuscita a renderlo almeno della lunghezza minima che mi ero prefissata, per cui sono fiera di me. Ci saranno un paio di rivelazioni un po' piccantelle, ahah, e diversi fattacci. Ma ora basta anticipazioni, andiamo con la solita burocrazia di rito. La canzone del capitolo è Divide, ancora una volta dal mio amato RWBY, vi chiedo scusa. Per l'immagine, invece, non ho crediti da darvi, perché è stata scattata da me, con l'aiuto della cara Selena, che è una delle buone anime che sopporta i miei continui dubbi da scrittrice. Oh, e mi scuso per le mie mani abbastanza femminili e le unghie con lo smalto più che evidente.
Per il prossimo capitolo, non so se riuscirò ad averlo pronto per sabato e riprendere così il ritmo iniziale di pubblicazione, dipenderà tutto da quanto tempo mi prenderà la revisione e perfezionamento della one shot sopracitata. Farò del mio meglio. 
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, sarei davvero felice se mi lasciaste un vostro parare, positivo o negativo che sia! 
~Seth

 
Chapter 4  Tenshi's affections

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Strinse le ginocchia al petto, poggiandovi le labbra, gli occhi fissi sulle acque di fronte a sé. Non sarebbe dovuta finire al fiume, come si ripeteva da ormai un quarto d'ora, eppure una strana curiosità le suggeriva di tentare di conoscere la magia che sembrava impregnare quelle sponde. Scrutava lo specchio placido, in cerca di risposte che forse non avrebbe mai avuto. 
– Sei davvero tu.
Quelle parole, mormorate a mezza voce da una persona alle sue spalle, la riscossero dai suoi fitti pensieri, facendola sussultare. Si voltò di scatto, rabbrividendo nell'inchiodare lo sguardo in quello blu scuro di Haruna Otonashi. Scattò in piedi, come colta in fallo, sussurrando il suo nome. Si mosse come per fare un passo avanti, ma subito si immobilizzò nel mezzo di tale atto, non sapendo cosa fare. Le dita iniziarono a tremarle mentre veniva assalita da fantasmi del passato, le pose fra le pieghe della gonna, strette intorno alla stoffa.
Per la seconda volta, il suo nome le aleggiò sulle labbra, in un sussurro talmente flebile che assai probabilmente non l'aveva potuto udire. 
– Sei rimasta accanto a mio fratello per tutto questo tempo, non è così? Grazie. – sorrise, Tenshi ebbe l'impressione che il suo cuore si fosse stretto e contorto su se stesso per un'istante. 
– Ti sbagli, io non sono la persona forte che credi. – un lieve sorriso stanco adornò le sue labbra pallide. – È stato Kidou a salvare me. 
– Credo sia stata più una cosa reciproca. – mosse un passo nella sua direzione, portandola a fremere per una frazione di secondo. 
– Aveva più bisogno di te di quanto non ne avesse di me, tu sei sua sorella.
Haruna scosse la testa, guardandola teneramente, come fosse ancora la bambina di una volta e lei fosse stata l'unica ad essere cresciuta. – Tenshi, tu sei importante per lui, lo sento. Ti voleva bene già quando eravamo tutti e tre insieme, in quell'orfanotrofio, ora non mi stupirei se avessi un posto ancor più grande del mio, nel suo cuore. 
– Non è passato giorno che lui non abbia pensato a te, Haruna. – i suoi tremori erano ormai flebili, ma la sua voce era incerta. 
Il sorriso dolce della ragazza dai capelli color oceano si estese ancor più, gli occhi le brillavano, mentre le si avvicinava. Alzò le braccia, ponendole intorno al suo collo ed attirandola contro di sé, in un caldo abbraccio, di quelli che non riceveva da anni. Sentiva il suo cuore battere contro il proprio petto, il mento poggiato sulla propria spalla, il suo respiro sul collo, percepiva il suo calore riscaldare la sua pelle fredda come neve. 
– E tu, ci hai pensato mai a me?
Tenshi nascose il viso tra i suoi capelli, morbidi ancor più di quanto non ricordasse, e si aggrappò alla sua schiena, stringendo fra le dita il tessuto leggero della sua camicetta. Si premette contro di lei, soffocando un gemito di frustrazione, e la strinse forte, in cerca di un affetto e di un calore che da troppo tempo ormai non riceveva. Sentì la sua mano posarsi sul retro della sua testa ed accarezzarle lentamente i capelli. Le ginocchia le tremarono e sembrarono cederle per un secondo, ma Haruna la tenne a sé. 
Non sono poi così sola, dopotutto. 
Passarono diversi istanti, prima che allentasse la presa intorno al suo corpo minuto - ma mai quanto il suo -, rivolgendole un piccolo sorriso, in gesto di silenzioso ringraziamento. Nella mente le sembravano rimbombare gli echi delle prime parole che si erano scambiate, da bambine. 

Tu sei quella che non piange mai.
E tu quella che piange sempre.
Perché sei qui da sola?
Noi siamo tutti soli, noi siamo i bambini sbagliati, quelli che nessuno vuole. Tu perché stai sorridendo?


Piegò la testa da un lato, allontanandosi da Haruna di un passo. 
– Prenditi cura di Kidou, quando io non potrò farlo. – raccattò la borsa da terra e, rivoltole un ultimo sorriso, si allontanò di corsa, prima che potesse fermarla per chiedere spiegazioni. 

Il vociare dei tifosi le sembrava quasi ferirle le orecchie, come la stessero graffiando, quello stadio era decisamente troppo pieno. L'aura di allegria che si espandeva ovunque non faceva altro che alimentare la sua agitazione, ogni volta che udiva uno strepitio più forte degli altri o che qualcuno la sfiorava. Strinse la borsa fra le mani, con forza, quando vide un bambino schizzare in piedi con un urlo, proprio accanto a lei. Odiava essere lì, in mezzo a tutta quella folla, odiava essere lì da sola. 
Gli altri studenti della Teikoku che si erano presentati erano parecchie file più indietro rispetto a lei, e necessitava di una posizione strategica per poter studiare i futuri avversari della loro squadra. Si sarebbe dovuta sorbire tutta la cerimonia di inizio dei nazionali completamente da sola. Tutto questo perché era volutamente arrivata lì molto prima del tempo per non trovarsi costretta nel bel mezzo della calca all'ingresso. Decise, per ingannare il tempo, di estrarre dalla borsetta il suo piccolo quaderno nero e lucido, sfogliando le pagine su cui aveva frettolosamente segnato tutte le informazioni sulle altre squadre. Il suo lavoro era stato minuzioso, di ciascuna scuola aveva scritto i punti di forza e quelli invece deboli, le strategie maggiormente usate, oltre ad eventuali dati aggiuntivi sui singoli giocatori. Il tutto ordinatamente trascritto sui fogli bianchi come il latte.
Quando finalmente la cerimonia ebbe inizio, sentì di poter tirare un sospiro di sollievo, sebbene la folla iniziò, prevedibilmente, ad essere ancor più chiassosa ed esaltata. Sollevò lo sguardo sui ragazzi che sfilavano, in file compatte e perfette, correlando ciascuno di essi alle informazioni in suo possesso. Era estremamente interessante per lei poterli vedere, studiare il loro fisico per provare a delineare molto sommariamente le loro abilità generali, come intensità di tiro o velocità. Era completamente assorta nel suo lavoro, i suoi occhi continuavano a saettare dallo stadio all'inchiostro impresso nelle pagine poggiate sulle sue gambe, la penna le roteava fra le dita di una mano, la fronte lievemente aggrottata.
Tutto proseguì senza intoppi, almeno fin quando non si giunse alla proclamazione dell'ultima squadra, la Zeus, iscritta all'ultimo momento, su cui non era riuscita ad ottenere alcun dato. Era davvero curiosa nei loro confronti, era la prima volta che le capitava di non trovare neppure alcuna traccia di una squadra, nonostante le sue accurate ricerche. Inoltre, aveva una strana sensazione; ultimamente quel genere di sensazioni sembravano non volerla abbandonare. Alzò gli occhi bigi per osservare come potessero essere dei ragazzi dalla forza, presumibilmente, tanto devastante da essere stati invitati a partecipare alle nazionali, pur non avendo partecipato ad alcun torneo regionale. Eppure, quando terminò di compiere quel gesto, incontrò solo l'erba del campo. Non si erano potuti presentare, annunciarono.
Nell'attimo di silenziosa confusione che si era creato tra gli spettatori, sorpresi di tale avvenimento, ne approfittò per riporre quaderno e penna e schizzare verso l'uscita. Voleva dirigersi all'esterno dell'edifizio ed attendere la sua squadra lì, al riparo da ulteriori masse, prima che queste ultime potessero iniziare ad avviarsi fuori a loro volta. Odiava la sensazione di essere pigiata fra altre persone, quasi soffocata da esse.
– Staresti molto meglio se ti sciogliessi i capelli. 
Si voltò, all'udire una voce a lei sconosciuta. Si aspettava di incontrare lo sguardo di un ragazzo di quelli tipici, che si credono al centro del mondo, che volesse approcciarla. Rimase, invece, stupita di incontrare quello color cremisi di una figura dai tratti tanto eleganti da ingannarla per un istante, facendole credere appartenessero ad una ragazza. I muscoli più che evidenti oltre le maniche della maglia da calcio, però, smentirono questo iniziale errore. 
– Non seguo consigli di bellezza da un ragazzo che ha i capelli più lunghi perfino dei miei. – ribatté, osservando la chioma bionda che morbidamente ricadeva sulla schiena del suo interlocutore, fino a poco sopra il termine delle natiche, pochi centimetri più lunghi dei suoi, di colore invece argenteo.
– Touché. – il ragazzo sorrise, ma nella curva delle sue labbra sottili e piene vi era un che di inquietante.
– Chi sei? – mosse un passo nella sua direzione, portando nuovamente lo sguardo sul suo volto, con decisione. 
– Se il mio nome è tanto importante, ebbene è Afuro Terumi; se preferisci, però, puoi chiamarmi Aphrodite. – esibì un occhiolino fin troppo magnetico, uno di quelli che avrebbe fatto tremare le ginocchia a qualunque ragazzina della sua età, ma con lei ciò non avvenne. 
Alzò un sopracciglio, incrociando le braccia al petto e spostando il peso sulla gamba sinistra. Il suo atteggiamento aveva ottenuto in tutto e per tutto un tono di sfida.
 – Sono il capitano della Zeus.
– Capisco, così le cose si fanno interessanti. – sulle sue labbra si estese un sorriso provocatorio. – Dunque, chi ti manda da me, Aphrodite?
– Kageyama Reiji. 
Sbattè le palpebre, per poi scoppiare in una risatina, coprendosi la bocca con la mano in maniera quasi frivola. Assottigliò le palpebre, l'espressione che campeggiava sul suo viso aveva un che di vittorioso, e poteva dirsi persino più inquietante di quella della persona di fronte a sé.
– Ah, così siete voi l'arma segreta di Kageyama? Andiamo, allora, Aphrodite, sono davvero curiosa di scoprire come siete e come giocate. 

Disumano. Tutto ciò che poteva pensare, guardando quei ragazzi giocare, era ciò. Disumano ciò a cui avevano costretto quei poveri ragazzi di tredici o quattordici anni, disumana la forza con cui riuscivano a scagliare i palloni contro qualsivoglia obbiettivo, disumano il modo in cui i loro muscoli erano costantemente in tensione. La rabbia e lo sconcerto erano tali che si era ritrovata ad infilzare le unghie nella stessa carne delle sue minute braccia, nonostante il suo viso rimanesse impassibile. 
– Che cosa ne pensi dei miei ragazzi, Tenshi? – una figura allampanata si fece avanti al suo fianco, non aveva bisogno di alzare lo sguardo per capire a chi appartenesse quella voce viscida e dal tono così malsanamente soddisfatto. 
– Mi chiedo come tu possa continuare a vivere senza un cuore, Kageyama. 
Una risata roca si sparse nell'aria densa di tensione e sudore, che non fece altro che alimentare la fredda rabbia nel suo cuore. 
– Chi pensi me l'abbia tolto? 
– Tu. – si voltò verso di lui, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, fissando con ostilità quelle lenti scure che nascondevano lui stesso da tutto il mondo, più che solo i suoi occhi, come fossero uno scudo con cui si riparasse. 
Una seconda risata.
– Sei davvero unica, piccoletta. 
– Dunque è questo ciò che vuoi? Sfruttare questi ragazzi per le tue egoistiche manie di vittoria? Portarli a distruggersi pur di soddisfare il tuo ego? – lo attaccò, ferendo la propria carne per la pressione che le sue stesse unghie esercitavano sulle sue mani, nel tentativo di reprimere l'istinto di colpirlo.
– Tu non puoi capirmi. – ribattè egli prontamente, i muscoli delle sue braccia ebbero un guizzo.
– Posso, invece, ma ciò che fai va oltre il comprensibile e non può essere scusato. La prima partita della Zeus sarà con la Teikoku, cosa vuoi fare, eh, schiacciare la tua stessa squadra, i ragazzi che tu stesso hai allenato e cresciuto?
– Loro mi hanno voltato le spalle, non mi hanno voluto più come loro allenatore, non sono più la mia squadra ora, solo una come un'altra. Li schiacchieremo come faremo con tutti gli altri. 
Tenshi represse un urlo, serrando le labbra e fremendo per alcuni istanti, ogni tendine teso. Si lasciò sfuggire un verso inarticolato, voltandosi di scatto verso il campo, incrociando le braccia al petto in un irrefrenabile moto di stizza. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma a frenarla era principalmente il fatto che il suo fisico esile contro il suo di uomo maturo non avrebbe potuto nulla. Prese un profondo respiro, socchiudendo gli occhi, poi un altro, tentando di calmarsi.
Riportò lo sguardo sul campo, su Afuro che con una sicurezza ed un'eleganza disarmante sfrecciava sull'erba verde e curata. Se pensava a come si stava distruggendo per il volere di quel vecchio pazzo le veniva voglia di prendere a pugni entrambi. Serrò le dita intorno ad una bottiglietta d'acqua, notando che si allenavano senza sosta da quasi un'ora. Si avvicinò con calma al capitano della squadra, tenendo la mano con cui la teneva verso il suo petto, fissando gli occhi nei suoi, interrogativi e confusi. 
– Avete bisogno di rimanere idratati, state andando avanti da troppo tempo. – mentre pronunciava quelle parole la sua espressione rimase immutata, le pupille fisse e neutre. 
– Come siamo affettuosi, bambolina. – disse egli, sorridendo e prendendo la bottiglia, poggiandovi le labbra ed inclinandola. – Quando vuoi sai essere adorabile. 
Tenshi recuperò la bottiglia dalle sue mani, muovendosi per andarla a riporre, ma venne fermata nuovamente dalla voce di Terumi.
– Non preoccuparti tanto degli altri, quando trascuri te stessa.
– Ti sbagli. – si voltò, guardando nuovamente in quegli occhi cremisi. – Io non posso far nulla per me stessa più di quanto non stia già facendo, tutto il mio tempo andrebbe sprecato se non mi preoccupassi per gli altri.
Una risata si liberò dalla gola del ragazzo, una risata limpida, melodiosa. Pensò che avrebbe avuto una voce meravigliosa, se si fosse dato al canto, ma poi ricordò che la sua ambizione era quella di dominare un campo da calcio, non un palcoscenico.
– Già, adorabile. 
Ripose la bottiglia da cui egli aveva bevuto, distribuendone altre agli altri giocatori. Non si sorprese nel notare che Kageyama era scomparso, probabilmente si era allontanato silenziosamente, col suo solito ghigno irritante ad adornargli le labbra scarne. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, lievemente tremanti di rabbia. Le strinse in una morsa serrata, mentre tornava a bordo campo, a scrutare con impotenza e compassione quei ragazzi che davano tutto loro stessi, perfino la loro salute, per i desideri di quell'uomo ingrato e crudele.

Sbloccò in maniera quasi maniacale lo schermo del telefono, corrucciando la fronte nel notare che non aveva ricevuto messaggi. Scorse la rubrica, fece partire una chiamata. Non raggiungibile. Scagliò il telefono accanto a sé sul letto, con stizza, poggiando la mano destra sul proprio ventre e e fissando il soffitto nella penombra. Erano passati due giorni dalla cerimonia di inizio del torneo nazionale, quel giorno stesso si era giocata la prima partita, fra Raimon e Senbayama. Di Tenshi si era persa ogni traccia. Avrebbero dovuto incontrarsi fuori dallo stadio, al termine della parata, ma lei non era lì. L'avevano chiamata, le avevano mandato messaggi, nulla. Scomparsa. Era così preoccupato.
Sospirò, afferrando un cuscino ed affondandoci le unghie, stringendolo fin quasi a strapparlo. Doveva vederla, doveva sapere che stava bene. Quell'attesa impotente lo devastava. Per un solo istante gli sfuggì un sorriso amaro quando gli volò per la mente il pensiero che ora sapeva cosa provasse la sua amica. 
Scagliò verso l'alto il pezzo di stoffa imbottita che teneva fra le mani, facendolo ricadere sul proprio viso. Se lo premette contro la bocca soffocando un grido di frustrazione. C'erano due persone in particolare per cui avrebbe dato la sua vita: Haruna e Tenshi, non riusciva a sopportare che una di loro potesse essere in pericolo e di non poter far nulla.
Il cellulare, accanto a lui, emise il flebile squillo che annunciava l'arrivo di un messaggio. Il cuore gli salì in gola, mentre a tentoni arrivava ad afferrarlo. Quase temette un colpo al cuore, quando lesse il nome che campeggiava sullo schermo.
Tenshi.
Lo sbloccò con dita tremanti. 
"Non ti preoccupare."


 

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Capitolo 6
*** Kidou's memories and frustration ***


Seth's corner: Salve miei cari pochi lettori all'ascolto! Vi chiedo scusa per il ritardo di qualche giorno, la scuola mi sta svuotando di ogni mia forza, dato che sono impegnata a non farmi rimandare. Inoltre, potrete notare che ho iniziato una long a quattro mani col caro P h o b i a su Assassination Classroom, e come se non bastasse devo scriverne altre due (una su Attack on titan una originale) il prima possibile, quindi ho più che l'imbarazzo della scelta quando voglio mettermi a scrivere. Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare il 28, ma dato che è anche il mio ultimo giorno di scuola dopo mi tocca lavorare, sigh non so se mi sarà possibile prepararlo in tempo, come ho detto, devo ancora raggiungere il sei in scienze e fisica e faccio un liceo scientifico io, seh. Anyway, farò del mio meglio, ve lo prometto. 
Ma parliamo del capitolo, per una volta sposteremo l'attenzione dalla nostra Tenshi, e una parte molto importante del suo passato sarà rivelata. Ve l'ho già anticipata nello scorso capitolo, coraggio, potete immaginare senza problemi di cosa si tratti. Si scoprono anche altre cosine intriganti, oltre tutto, quindi spero vivamente questo capitolo possa essere di vostro gradimento. Siamo già arrivati quasi al termine della prima serie della prima stagione di Inazuma Eleven, col prossimo capitolo sarà conclusa ed al sette si potrà passare alla seconda, e ciò è molto buono perché è da lì che iniziano veramente le cose interessanti.
L'immagine del capitolo è nuovamente opera mia, anche se l'altalena di Tenshi sarebbe fatta di legno e corda, non di plastica e metallo, ho comunque preferito usare questa foto piuttosto che una trovata su deviantart perché quell'altalena ha una certa importanza per me, per cui mi sembrava una cosa carina da fare, ed oltretutto c'erano le margherite. Questa volta di canzoni da consigliarvi per la lettura ne ho due, in quanto per tutta la prima parte dei ricordi vi consiglio Thnk fr th mmrs, mentre il resto del capitolo preferirei fosse accompagnato da Centuries, entrambe dei Fall out boy. Sì, più tempo passa più io divento punkettara, per cui rassegnatevi all'idea che non vi consiglierò mai Shawn Mendes o Ariana Grande. Non succederà. Mettetevi il cuore in pace. 
Come ultima cosa, mi faccio pubblicità da sola, lasciandovi il link della one shot fantascientifica di cui vi avevo parlato nello scorso capitolo, si chiama Ricordi impressi sulle note di un pianoforte. Se il genere vi piace e vi va di buttargli un occhio ne sarei infinitamente felice. Il contest è scaduto, i risultati arriveranno fra tipo mezzo mese ed io sono assai ansiosa, ahah. 
Ora vi lascio alla lettura, se avete letto davvero tutto l'angolo dell'autore vi faccio i miei complimenti e vi regalo un biscotto. 
~Seth


 
Chapter 5 ❧ Kidou's memories and frustration

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C'erano diverse cose che Kidou non ricordava di quel periodo. Non ricordava quando si fosse svegliato senza riuscire più a ricordare il colore degli occhi di suo padre, non ricordava quando precisamente Kageyama fosse entrato nella sua vita, né quando avesse smesso di piangere la notte perché i suoi genitori non erano tornati neppure quel giorno. Ricordava, invece, la forza con cui aveva stretto fra le sue braccia sua sorella quando avevano detto loro che mamma e papà non sarebbero tornati, la rabbia con cui aveva risposto che era impossibile, che sarebbero venuti da loro. Un'altra cosa che ricordava bene di allora, di quel periodo della sua vita passato fra le mura di un orfanotrofio, era Tenshi. Ricordava la bambina silenziosa che si dondolava sempre su quell'altalena di corda e legno in un angolo del giardino, spesso in silenzio ed in disparte. Ricordava che i suoi capelli allora le arrivavano appena alle spalle, ricordava il tocco triste del suo sguardo, allora ancora leggero ed innocente. Non era sempre sola, spesso giocava e chiacchierava con altri bambini, ma sempre dopo un po' sembrava dover ritirarsi e stare da sola per un po'. Era stato affascinato da quella piccola figura quasi eterea, nonostante si limitasse ad osservarla qualche volta, senza mai parlarle. Per qualche motivo sembrava essersi convinto che se l'avesse fatto sarebbe scomparsa, come uno spettro. 
La prima a parlarle era stata Haruna, un giorno che l'aveva veduta seduta sugli scalini all'ingresso, mentre lei saltellava su un piede solo sul vialetto. L'aveva osservata guardare le nuvole, poi si era decisa a rivolgerle la parola. Egli non aveva mai saputo cosa di preciso si fossero dette, quel giorno, ma ricordava che subito dopo quell'avvenimento la sorella gli aveva chiesto, con una certa urgenza nella voce, se sarebbe rimasto sempre con lei. 
Aveva fatto una scommessa con se stesso, avrebbe fatto amicizia con la bambina dagli occhi del colore del cielo in un giorno di pioggia, avrebbe fatto in modo che invece delle nuvole avrebbe guardato lui. 
"Da quanto tempo sei qui?" le aveva chiesto, mentre lei era intenta a scarabocchiare su di un quadernino. Riconobbe tra le tracce di grafite la forma di alcuni fiori, probabilmente le margherite che crescevano nel prato su cui era seduta.
"Non ricordo, dicono che avevo poco più di un anno quando sono stata abbandonata." il suo sguardo non si alzò dal foglio, ma la sua vocina flebile, come non fosse abituata a parlare ad alta voce, l'aveva colpito. 
"Ti piacciono le margherite?" aveva chiesto, piegandosi sulle ginocchia in modo da avvicinarsi a lei.
"Sono carine, sembrano piccole spose. Mi ricordano una promessa." 
Poi era abbastanza sicuro avessero parlato per diversi minuti di non ricordava neppure lui cosa.
Non si era guadagnato la sua amicizia da quel giorno, aveva dovuto continuare ad avvicinarsi per un po', farle domande. Le sue risposte spesso erano veloci, schive, i suoi occhi bassi, ma tutto ciò non faceva che spingerlo a desiderare ancora di più di vincere quella scommessa. Sarebbe riuscito ad entrare nel mondo di Tenshi, lo sentiva. 
Ed era successo, non sapeva bene come, probabilmente era successo progressivamente, tanto che non se ne era neppure accorto. Eppure pian piano il suo sguardo aveva iniziato ad alzarsi sul suo viso, le sue labbra avevano iniziato ad incurvarsi quando si incontravano, aveva iniziato a sentire la sua voce chiamarlo di tanto in tanto. I suoi sorrisi non erano enormi e radiosi come quelli degli altri bambini, ma erano dolci e le illuminavano le iridi di una luce meravigliosa. Ricordava i pomeriggi primaverili, poi estivi, passati in cortile a giocare sull'erba di un verde splendente, che sapevano non essere la più bella al mondo, ma che per loro bastava. Le margherite che puntellavano le loro giornate, con cui Haruna intrecciava corone che poneva sul capo all'altra bambina ed a se stessa, ricordava di averle poste tra i suoi capelli in diverse occasioni. Le ginocchia sbucciate, i cerotti colorati, le trecce che le manine tozze di sua sorella intrecciava, le risate delle cadute e dei ruzzoloni, i capelli di Tenshi che carezzavano l'aria quando correva o giocava, erano tutte memorie impresse indelebilmente nella sua mente. Il suono migliore che ricordava della sua infanzia era quello delle loro risate mischiarsi, la propria, quella acuta di Haruna e quella rara e melodiosa di Tenshi. Eppure, quel suono era stato effimero, e ben più presente nella sua memoria era quello di numerosi pianti, il silenzio della sua stanza rotto dai propri singhiozzi, il viso impassibile con cui la sua migliore amica aveva detto loro di essere stata adottata. In tutto quel tempo, in quei due anni passati insieme, egli non l'aveva mai veduta piangere, neppure quando se n'era andata con Kageyama, che teneva una mano poggiata sulla sua testa, come a volerla comunicare tutta la pressione cui sarebbe dovuta sottostare da lì in avanti a causa sua. 
Pian piano, tutti e tre avevano lasciato quel nido che era stato quell'orfanotrofio. Prima Tenshi, poi lui, infine Haruna, la più piccola tra loro. Doveva ammettere di attendere il giorno in cui si sarebbero riuniti nuovamente tutti insieme, osservare l'uno le cicatrice dell'altro, comparare il modo in cui erano cambiati. Saremo mai di nuovo seduti su un prato pieno di margherite?
Spostò lo sguardo sul comodino, dove i loro innocenti sorrisi infantili incorniciati in una fotografia lo portava a perdersi ancora ed ancora una volta in quelle memorie che per lui erano le migliori avesse, nonostante fossero circondate da cupe ombre di tristezza e lacrime.  

Con lo stato d'animo di un soldato ferito in battaglia, sedette sulla panchina ed osservò la sua squadra prendere posto in campo. Il freddo vuoto al suo fianco, al cui posto avrebbe dovuto percepire la tiepida presenza di Tenshi, sembrava attirare il suo sguardo in quella direzione, ma resistette a quell'impulso. Concentrò la sua attenzione sugli avversari che li osservavano minacciosi dalla loro metà del campo. Gli sguardi che si lanciavano i giocatori avevano la stessa intensità, Kidou sentiva che quello che si sarebbe svolto di lì a poco sarebbe stato uno scontro tra titani. Immaginò la loro manager dire che aveva una strana sensazione, sentiva che sarebbe stato ciò che avrebbe detto in quel momento. Le sensazioni di Tenshi non avevano mai portato a nulla di buono. Eppure, pur con quell'impressione, non pensava avrebbero perso, loro erano la grande Teikoku gakuen, non avrebbero dato a quella Zeus vita facile. 
Per lo meno, questo era stato ciò che aveva creduto fino a quando la partita non era iniziata, fino a quando non aveva iniziato a vedere i propri compagni cadere uno dopo l'altro, sopraffatti dall'inarrestabile forza di quei ragazzi che di umano sembravano non avere neppure l'aspetto. Boccheggiava, mentre assisteva inerme, in piedi, alla caduta di quella leggenda che erano stati, le mani strette a pugno tremavano. Desiderava più di ogni altra cosa scendere in campo, aiutare i suoi compagni o per lo meno cadere insieme a loro, ma dato il suo infortunio non glielo permettevano. A mano a mano che rabbia e frustrazione prendevano possesso del suo corpo, i suoi amici continuavano a venir umiliati e feriti sotto ai suoi occhi. Pensò che sarebbe stato molto meno doloroso se se ne fosse andato, ma gli sembrava di non potere, di essere bloccato lì, rigido come una statua di cera. 
Vide il capitano di quella squadra rivolgere il viso verso di lui, guardarlo con curiosità e malignità nello sguardo, ghignando della sua sofferenza, della sua impotenza, per poi scaraventare con violenza un pallone contro Genda. Sentì la necessità di gridare, ma dalla sua gola non uscivano che flebili versi inarticolati. 
Pensò che quella doveva essere ciò che avevano provato i loro avversari passati, la certezza di non poter far nulla all'infuori che lasciarsi schiacchiare da ragazzini incattiviti, che sorridevano del loro dolore. Si sentì improvvisemente in colpa, si strinse la testa fra le mani, chiudendo gli occhi. Udiva le urla dei suoi compagni, le sentiva colpirle le orecchie con tanta violenza che desiderò non possedere affatto il senso dell'udito. 
Proprio ora che avevamo deciso di diventare giocatori giusti. Quella doveva essere la punizione  per la loro arroganza, certo. 

Tenshi corse verso Terumi, che camminava tranquillamente per il grigio corridoio di quell'enorme stadio, piantandogli un pugno in pieno petto. Lui, sorpreso da tale gesto, boccheggiò per qualche istante, poggiando le mani sotto i suoi gomiti mentre lei lo tempestava di colpi sempre più deboli. Quando smise di percuoterlo, strinse la sua maglia fra le mani, tremando e digrignando i denti. 
– Cretino, perché l'avete fatto? – lo apostrofò.
– Abbiamo eseguito gli ordini, noi non possiamo farci nulla. Non è colpa nostra, ma di quei buoni a nulla che non hanno saputo difendersi. – sentì la presa sulla propria divisa farsi tanto stretta da sentire le unghie della ragazza graffiargli la pelle pure attraverso di essa. 
– Sta' zitto! Sono la squadra migliore del Giappone.
– No, non lo sono più. Ora lo siamo noi. – la scansò da sé, cercando di guardare il suo viso che era piegato verso il pavimento. – Non scaricare la tua frustrazione su di me, tutto questo è parte del nostro patto con Kageyama, non possiamo permetterci di disubbidire ad un suo ordine.
– Cosa vi ha dato in cambio? –  chiese lei tanto tempestivamente da sorprendere il ragazzo. 
– Quello che vedi, il successo, la gloria, la vittoria. Chiamala pure come preferisci, ma è questo ciò che ci lega a quell'uomo, ci ha dato la forza per scalare questa vetta.
– Non vi ha dato forza, vi ha dato una droga! – urlò lei, colpendolo nuovamente con un pugno. – Apri gli occhi, accidenti, vi state distruggendo da soli, hai tredici anni Terumi. 
In tutta risposta, il capitano della Zeus le sorrise. 
– E' la prima volta che mi chiami Terumi e non Aphrodite. – fece per allontanarsi, ma la voce della ragazza lo fermò nuovamente. 
– A me ha promesso di farmi conoscere il mio passato, chi sono i miei veri genitori. Sono cinque anni che me l'ha promesso, eppure sono ancora qui, ancora ignara di tutto. Non puoi fidarti di Kageyama, Terumi. Ti prego, piantate tutto qui, ritiratevi, smettete di fare del male a voi stessi e agli altri. 
Afuro si fermò, rimanendo immobile per alcuni secondi, guardando il vuoto di fronte a sé e poi il soffitto, sospirando. 
– Fosse così facile, Tenshi. Ma vedi, tutto questo, nonostante ci distrugga, è troppo bello, non vogliamo lasciarcelo sfuggire così facilmente. 

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Capitolo 7
*** Hope is not so difficult to conquer ***


Seth's corner: Salve cari lettori che dopo tanto ritardo, saranno certamente tipo due!
Mi dispiace davvero un casino per il ritardo a dir poco imperdonabile, ma la fine della scuola, seguita da problemi ed impegni personali, mi ha devastata. Per questo capitolo avevo un'ispirazione pari a zero, ci è voluto che andassi al mare, dove letteralmente non ho amici, per farmelo terminare sì,ora sto editando dal cellulare per la prima volta in vita mia, prego che mi riesca.
Avviso che il capitolo è il più corto che abbia pubblicato finora, ma credetemi quando vi dico che non avevo la più pallida idea di come continuare ad allungarlo. Inoltre, sta volta non l'ho riscritto al computer quindi la qualità potrebbe essere un po' inferiore al solito, dato che è nel riscrivere che noto il grosso degli errori e che apporto migliorie. Oh e non ho ridimensionato l'immagine, non potendolo fare da computer, magari lo farò quando sarò a casa, dunno.
E finalmente ho finito gli eventi della prima serie, spero che il tutto si faccia più piccantello, con l'arrivo della seconda. Insomma, nuovi personaggi, nuovi casini. O almeno spero
Passiamo alla solita burocrazia, vah. I crediti dell'immagine vanno a NataliaDrepina, mentre le canzoni che vi consiglio sono This will be the day che per l'ennesima volta viene da RWBY e In the end dei Linkin Park. Ascoltatele una di seguito all'altra per accompagnare la lettura, mi fareste molto felice *occhi dolci*
Mi auguro che il capitolo, nonostante tutto, sia di vostro gradimento, buona lettura a tutti voi!
~Seth



Chapter 6 ❧ Hope is not so difficult to conquer

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- Non giocate.
- Tenshi.
- Non giocate.
- Tenshi. - la voce di Afuro, sempre più iroso, continuava a salire di tono ogni volta che pronunciava il suo nome.
- Non giocate. - insistette la ragazza, continuando a camminare a qualche passo di distanza dalle due spalle, nel triste e grigio corridoio dello stadio in cui si sarebbe tenuta di lì a poco la finale del Football Frontier.
Il calciatore si voltò di scatto verso di lei, l'irritazione era più che visibile sul suo volto.
- Vuoi piantarla?
- Non giocate. - ripeté ancora una volta in un sibilo, più lentamente delle precedenti.
- Quando ti ci metti sei una vera rottura, sai? Ti ho già spiegato che non possiamo non giocare. - si scostò una bionda ciocca di capelli dal viso, con fare stizzito.
- Potete invece, è che non volete.
- Touché. - distolse lo sguardo, giocando con i propri capelli.
- Afuro, ti prego. - gli chiese con voce flebile, rivolgendogli uno sguardo più triste del solito.
- Non vuoi che il tuo caro amichetto Kidou si faccia male, eh? Chiamarmi per nome o lo sguardo da cucciolo bastonato non serviranno a nulla.
- Non hai capito nulla, io mi preoccupo per voi, per te.
Afuro guardò nei suoi occhi, così immobili e determinati, seppur annebbiati dalla tristezza, da farlo sentire piccolo per un istante. Si voltò, stringendo i pugni.
- Fidati di me, vinceremo.
Prima ancora che Tenshi potesse aprire bocca, il ragazzo si era già allontanato a grandi falcate. Lei sospirò, guardandosi intorno e stringendosi nelle spalle. Non sapeva cosa fare per far ragionare quei ragazzi, sembravano tremendamente determinati a fare i comodi di Kageyama fino alla fine. Il pensiero vagò a Goenji, che aveva dovuto recentemente affrontare i suoi vecchi compagni di squadra. Si chiese come se la fosse cavata, lei non aveva potuto assistere alla partita. Scosse la testa, allontanando il viso del biondo dalla propria mente, e si diresse verso la panchina.
Non appena mise piede sull'erba del bordo campo, sentì il peso di alcune paia di occhi su di sé, in particolare di due di queste. Sentì Kidou chiamare il suo nome, mentre intravedeva Goenji dischiudere le labbra di sorpresa. Si sforzò di mantenere lo sguardo davanti a sé, mentre avanzava verso il suo posto. Quando raggiunse la panchina, una fitta nebbiolina iniziò a propagarsi da essa, da cui sembrarono comparire come magicamente i componenti della Zeus.
La ragazza si sedette, con un sospiro, concedendosi un'occhiata d'intesa con il regista della Raimon, che si stava preparando all'inizio della partita. Osservò l'inserviente dall'aspetto smilzo che spingeva un carrello, sul quale erano poggiati undici bicchieri colmi di una bevanda di un colore talmente pallido da essere quasi del tutto trasparente. Il suo passo era lento, mentre camminava sul bordo campo. Tenshi trattenne l'impulso di alzarsi e rovesciare tutto quel liquido a terra, distogliendo lo sguardo mentre i giocatori alzavano quei calici e brindavano alla vittoria. La ragazza ricordò la voce di Kageyama descriverle come Socrate aveva brindato col veleno che aveva causato la sua morte, quella che aveva davanti agli occhi le sembrò una scena forse ancora più patetica di quanto non le fosse sembrata quella da bambina.

Il fischio d'inizio. Il primo goal della Zeus. Presto, tutti i giocatori della Raimon iniziarono a cadere sotto i loro colpi violenti. Gli occhi della ragazza, solitamente vigili sul gioco e pronti a registrare ogni informazione possibile, questa volta non riuscivano a non calare sul terreno. Non riusciva a sopportare la facilità con cui Kidou, Goenji e gli altri si piegavano sotto la loro forza. Né la velocità con cui percepiva Aphrodite e gli altri corrompersi. Non riusciva a sostenere lo sguardo di sufficienza con cui squadravano gli avversari a terra. Tutto di quella partita era semplicemente troppo perché riuscisse a guardarlo.
I minuti scorrevano, il gioco si faceva sempre più pesante ed impossibile da reggere anche per il semplice spettatore che vi assisteva. Tenshi a malapena si sarebbe detta in sé, le sembrava che tutti i suoi sensi fossero ovattati, mentre guardava quella scena con gli occhi di chi assiste ad una tortura, ma è troppo stanco per poter anche solo volgere lo sguardo in un'altra direzione.
Intravide le tre manager della Raimon tornare alla panchina a passo svelto, aggrottò lievemente le sopracciglia. Dove erano andate, tutte insieme? Non si sarebbero mai allontanate senza un motivo di vitale importanza, se lo sentiva. Che avessero capito che c'era qualcosa sotto? Pensò che alla fine sarebbe stato meglio così, magari finalmente sarebbero riusciti ad incriminare Kageyama.
Un fischio. Il primo tempo si era concluso. Rilassò un poco i pugni che teneva saldamente stretti, poggiati sopra alle proprie cosce. Gli occhi bassi, mentre intorno a lei i suoi giocatori bevevano per la terza volta il nettare degli dei, la bevanda capace di dar loro quella forza sovrumana. Poi nuovamente, il secondo tempo. Il primo mai giocato dalla Zeus. La furia di Aphrodite, i suoi muscoli tesi oltre ogni limite. Paura. A cosa avrebbe potuto portarlo il nettare degli dei? Si chiese per quanto l'avrebbe potuto logorare prima di spezzarlo del tutto.
Eppure, contro ogni possibile aspettativa, dopo decine di colpi incassati, Endou riuscì ad utilizzare la mano del colosso. Un lampo di speranza; un fulmine a ciel sereno, per la squadra di Kageyama.
Tenshi ricordò poco di quella partita, del primo tempo per via della disperazione, del secondo per via di un'intensa euforia. Al primo goal della Raimon, messo in rete da un tiro combinato di Goenji e Kidou, scattò in piedi, stringendo le mani al petto.
Dai, dai, dai.
Per la prima volta desiderava davvero quella vittoria, la desiderava con tutta se stessa. Desiderava che Kageyama venisse imprigionato, per quanto pensasse che, in qualche modo, sarebbe riuscito ad uscirne. Non le importava, in quel momento, voleva poter assaggiare almeno un momento di pace.
Uno ancora, poi un altro ed infine l'ultimo goal della Raimon. Il triplice fischio. Avevano vinto. La Zeus era sconfitta. Kageyama era sconfitto.
Kidou le corse incontro, stringendola a sé con slancio, cogliendola completamente di sorpresa.
- Fammi preoccupare un'altra volta in questo modo e giuro che ti impianto una cimice sottopelle.
D'ististo, lei gli allacciò le braccia intorno al collo, rendendo quell'abbraccio ancora più profondo. Non seppe quanto tempo dopo si lasciarono andare, con precisione, ma in quel momento sentiva come se un piccolo pezzo di sé fosse tornato al proprio posto. In cuor suo, sperò fosse almeno il primo di una serie. Magari, pian pian sarebbe riuscita a ricostruire se stessa, la propria identità.
Vide Goenji venire nella sua direzione. Per un istante il suo cuore perse un battito, poi si disse che era sciocca a temere quel momento. Gli andò incontro. Tentò di scusarsi, ma egli la bloccò sollevando una mano e sorridendole.
- È tutto okay, non devi spiegarmi tutto subito. Lo scoprirò con calma, infondo non ho alcuna fretta.
L'espressione di Tenshi si distese, i muscoli di tutto il suo corpo si rilassarono, perfino le sue labbra si piegarono in un leggero sorriso. Le sue iridi rilucevano di emozione, facendo sembrare luminoso il suo intero viso. Si sentiva come se numerosi pesi fossero stati sollevati dalle sue spalle, ora sentiva il suo fardello decisamente meno opprimente. Annuì, facendo scontrare il palmo aperto della mano con quello che il biondo le aveva da poco avvicinato, in tono amichevole.
- Immagino avrai cose da fare, ci vediamo in giro, okay? - il suo sorriso caldo contagiò Tenshi, che si sentì riscaldare, si sentì meno sola.
- Okay. - le sue labbra si arricciarono, scoprendo lievemente i denti.
Anche solo per quel giorno, o forse solo per una manciata di minuti, si sentiva felice e non le importava di tutto ciò che sarebbe potuto succedere di lì a poco. Rivolse quel sorriso anche a Kidou, come in un silenzioso ringraziamento per tutto il tempo passato al suo fianco.
- Temo di avere ancora qualcosa da fare.
Guardò Afuro, lo sconforto nei suoi occhi cremisi, da cui amare lacrime premevano per uscire, ma che lui tentava di trattenere. I suoi pugni tremavano, stretti con tanta forza che molto probabilmente quando li avrebbe dischiusi i suoi palmi sarebbero stati segnati dalle unghie. Gli si avvicinò.
- Crediamo nei loro ideali finché possiamo, ti va, Aphrodite?
Lui le rivolse uno sguardo confuso per alcuni secondi, poi abbassò il capo mestamente, come in un moto d'imbarazzo.
- Credi che ne abbia ancora il tempo?
- Certo che ce l'hai. - pose una mano sulla sua spalla, lievemente. - Se non ti rialzi più forte di prima, Kageyama avrà vinto, ma io so che sei più forte di lui.
Lui alzò gli occhi sui suoi, vedendoli luminosi di una forza e di una passione che lo lasciarono senza fiato per un istante. Gli sembrò quasi impossibile che fossero gli stessi in cui aveva dimorato quello sguardo insofferente e mesto con cui l'aveva conosciuta, appena pochi giorni prima. Sentì le mani tremargli ancor più di prima, gli occhi bruciare dal desiderio di piangere.
- Fa vedere a Kageyama quanto vali, bambolina, la prossima volta che ci vedremo ti dovrai presentare col tuo cognome.
Le rivolse un occhiolino, come la prima volta che si erano incontrati, ma stavolta un sorriso sincero dominava i volti di entrambi.

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Capitolo 8
*** Joy is much more fragile than fear ***


Seth's corner: Salve a tutti, miei cari lettori silenziosi e non! Sì, questo capitolo è arrivato piuttosto in fretta, ma in fondo non ho contatti sociali con nessuno che non sia un mio familiare da due settimane. Per cui sì, sto disegnando e scrivendo come non ci fosse un domani.
Mi rendo conto che lo scorso capitolo non l'ha letto praticamente nessuno e che probabilmente neppure questo otterrà molti riscontri, ma non mi interessa troppo, questa fanfiction la scrivo per me, perché ci sono affezionata. Sono decisa a finirla anche dovessi ritrovarmi con 0 visite.
Questo capitolo è tipo più lungo del precedente di tipo mille parole, ma okaaaay. Doveva essere anche più lungo, ma alla fine ho deciso di spezzare a metà quello che volevo scrivere. Oh, e preparatevi a tanto Shuuya, in questo capitolo
Non so ancora come renderò il prossimo di una lunghezza decente, da qui in avanti le parti che mi interessano sono piuttosto frammentarie per cui organizzare la trama non sarà proprio facile per me. Ma insomma, qualcosa mi inventerò, infondo bisogna arrivare alla vera parte succosa, ovvero la terza serie. Oh, quella sì che sarà divertente da scrivere. Oh oh oh.
Okay, ed ora il solito rito di credits and stuff. La canzone che vi consiglio è Déjà vu, che vi chiedo davvero di ascoltare perché ci ho messo una vita a trovare una canzone adatta a questo dannato capitolo. I credit per l'immagine vanno invece a TanjaMoss.
Credo di aver detto tutto, ci risentiamo!
~Seth



Chapter 7 ❧ Joy is much more fragile than fear

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Tenshi fu piuttosto spaesata nel ritrovarsi - grazie soprattutto all'insistenza di Afuro nel sostenere che non aveva alcun motivo per rimanere con loro - nel chiassoso autobus della Raimon. I ragazzi esultavano e schiamazzavano tutto intorno a lei, mentre lei li osservava con circospetta meraviglia, sotto il sorriso divertito di Haruna, seduta al suo fianco.
- Sembri un gattino sperduto, guarda che non ti mordono mica.
Tenshi le sorrise timidamente, la ragazza pose una mano sulle sue, intrecciate sopra alle cosce.
- Perché non vieni alla Raimon anche tu? Sarai felice, con noi. - le chiese con una certa urgenza nella voce, come temendo che Kageyama potesse spuntare dall'ombra in qualsiasi momento, per ghermirla e portarla via.
- Non posso, Haruna. Se me ne andassi ora getterei al vento questi anni passati con lui, non sarebbero serviti a nulla. - cercò di costruire l'espressione più rassicurante che le riuscì. - E poi, Kageyama non è mica così orribile. Insomma, non mi maltratta e via dicendo.
Haruna si lasciò andare ad una piccola risata, che riempì il cuore di Tenshi di nostalgia.
- Mi fido di te, Tenshi, ma sappi che, quando vorrai, noi saremo già qui a braccia aperte ad aspettarti.
Annuì, sinceramente felice della premura nella dolce voce della ragazza dai capelli del colore della notte.
- Piuttosto, cos'è questa storia di te e del bel capocannoniere? - le chiese con l'espressione melliflua di chi la sa lunga.
- Che ti sei messa in testa, ci ho parlato appena un paio di volte. Diciamo che sono sparita dalla circolazione per i miei motivi, ma lui non l'ha presa troppo bene.
La giovane giornalista si avvicinò, come volesse sapere di più, ma l'altra stroncò il suo entusiasmo spiegandole che non c'era veramente nulla di più. Lei gonfiò le guance, delusa.
- Speravo avessi una storia interessante da raccontarmi, sei diventata una lagna malinconica.
Ai giocatori della Raimon non fu chiaro chi iniziò a pizzicare i fianchi a chi, ma ben presto si accorsero della battaglia di solletico in corso tra le due. Il silenzio dilagò fra di loro, spezzato dalle risa delle due ragazze, che si placarono non appena si accorsero di essere al centro dell'attenzione. Le gote di Tenshi s'imporporarono, mentre lei rivolgeva le sue attenzioni allo scenario che le si presentava dietro al vetro del finestrino.
Haruna sembrava essere l'unica che riuscisse a farle dimenticare tutti i suoi pensieri, facendoli zittire di fronte al suo ampio sorriso. Fosse per le memorie al contempo dolci ed amare che risvegliava in lei, fosse per la sua esuberanza travolgente ma gentile, sembrava non riuscire a non farsi contagiare almeno in piccolo dalla sua allegria e spensieratezza. Nei suoi pensieri, si ritrovò a ringraziarla profondamente di essere al suo fianco, nonostante il lungo tempo in cui non si erano viste.
- E sentiamo, a te nessuno di questi begli atleti ha rapito il cuore? - le chiese con sarcasmo, per quel breve senso di soddisfazione che da il vedere il proprio interlocutore annaspare per trovare una risposta.
- Non scherzare, sono troppo presa dal giornalismo, io, per pensare ai ragazzi. - rispose lei, gonfiando il petto. Le sue guance rosee, però, tradivano l'imbarazzo che l'argomento le suscitava.
Tenshi sorrise, sentendosi leggera come non si sentiva da anni. Da qualche parte nella sua mente persisteva la consapevolezza che tutto sarebbe crollato presto, ma la mise da parte. Voleva godersi quegli effimeri attimi di gioia, non avrebbe permesso alla presenza invisibile di Kageyama di rovinarli. Probabilmente, avrebbe avuto qualche giorno per staccare da tutto, diventare quasi un'adolescente come tutte le altre. Beh, insomma, se si tralasciava la finta, nonché defunta, madre tossicodipendente, il tutore in prigione ed il fatto che non conoscesse neppure il proprio cognome.
Si guardò intorno, ammirando la spensieratezza di tutti quei ragazzi, la sana gioia espressa nelle chiassose risate. Ovunque guardasse, incontrava sorriso ed occhi lucidi di contentezza. Era un ambiente ben più accogliente e caldo di tutti quelli a cui era abituata, per quanto fosse frastornata dal rumore. Quella squadra sembrava incorruttibile.
- Posso sapere cos'hai lì? - disse Haruna, riscuotendola dai propri pensieri, indicando il filo argenteo della catenella di metallo che correva intorno al suo collo e spariva sotto la sua felpa. - L'avevo notata anche il giorno che te ne sei andata dall'orfanotrofio, è la stessa?
Tenshi abbassò lo sguardo sul proprio petto, tentennante. Le servirono alcuni secondi per decidersi a sfilare la collana al di fuori degli indumenti, mostrandole il semplice e sottile anello d'oro che vi era infilato. La tenne sollevata per alcuni secondi, lasciandola ammirare ad una stupefatta Haruna, per poi nasconderla nuovamente alla vista.
- È un fede, quella? - chiese con malcelata curiosità.
- Per ora, ti basti sapere che è di mia madre. - la sua voce non era ferma o infastidita, solo lievemente malinconica.
Avvolse con le braccia la cartella, che teneva poggiata sulle gambe, e la strinse al proprio petto, rivolgendo tutta la sua attenzione al finestrino. Haruna la fissò per alcuni istanti, poi si mise a conversare con le altre manager, ed il resto del viaggio Tenshi lo passò in silenzio, chiusa sui propri pensieri, che per una volta non le parvero così opprimenti.

- Vengo con te. - quando si alzò dal suo sedile, fissando con decisione Goenji che stava per scendere dal pulmino, tutti gli occhi presenti si spostarono su di lei, inquisitori.
Il capocannoniere ci mise un secondo ad elaborare quella proposta così inaspettata, ma infine annuì con espressione distesa. Insieme, scesero e si avviarono all'interno dell'ospedale.
Arrivati di fronte alla porta di un pallido bianco, dietro cui dormiva da mesi ormai la piccola Yuuka, Tenshi fermò il ragazzo, trattenendolo per la manica.
- Non voglio infastidirti quando sei dentro con tua sorella, per cui lascia che ti dica ora ciò che ho da dirti, sarò veloce.
Egli fece un cenno di assenso, incitandola a continuare. Trasse un profondo respiro, poi riprese a parlare.
- Non è proprio tutta la storia, ma, in breve, io ero presente quando Yuuka è stata investita. - si fermò a studiare la sua espressione sorpresa. - È stato principalmente questo a spingermi a parlarti, quel giorno al fiume, tra l'altro.
- Allora perché dopo un po' hai iniziato ad evitarmi?
Tenshi esitò, abbassando lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe, torturando con le dita l'orlo della gonna.
- C'è una parte di storia che non posso raccontarti, ancora. So che è difficile, ma fidati di me. - Si sentiva quasi male a non poter dire l'intera verità a Goenji, ma temeva la sua reazione, temeva che non l'avrebbe più vista allo stesso modo e sapeva che l'avrebbe oltremodo turbato. Era così felice, come poteva intaccare quella gioia?
L'altro la guardò titubante, come se ancora non fosse certo di poter credere alle sue parole. Di colpo sgranò gli occhi, mentre un'ipotesi gli balenava in mente, il suo sguardo e la sua voce si riempirono di sospetto.
- Aspetta, tu sapevi che l'incidente di Yuuka è stato organizzato da Kageyama Reiji?
Questa volta fu Tenshi ad assumere un'espressione di sconcerto.
- Tu lo sai? - balbettò flebilmente, stringendosi le braccia al petto.
- Da un paio di giorni. - lo sguardo del ragazzo era strano, non riusciva a decifrarlo, vi si specchiava un turbinio di diversi pensieri ed emozioni. - Ce l'ha detto il detective Onigawara. Tu da quanto lo sai?
- Dal giorno prima dell'incidente.
- Che? - il suo tono si fece prevedibilmente più alto, portando la ragazza a stringere gli occhi color cenere, sussultare e stringersi nelle spalle come a farsi indietro.
- Mi dispiace. - i suoi mormorii si facevano sempre più lievi.
- Ti prego, dimmi che hai almeno cercato di fermarlo.
Lei abbassò la testa, il capocannoniere fece un passo indietro, come fosse di colpo disgustato della sua persona.
- Ho convinto Kidou ad aumentare a dismisura gli allenamenti della squadra, ho cercato di convincere Kageyama che i ragazzi ce l'avrebbero fatta senza bisogno di ricorrere a certi mezzi, ma non ha voluto ascoltarmi. Ho tentato di trovare un qualche documento che mi facesse risalire a chi avrebbe fatto tutto il lavoro sporco, ma non ho trovato nulla, avevo poco tempo. Rischiavo di perdere tutto quello per cui avevo combattuto, ma volevo salvare Yuuka, ti giuro che volevo farlo. - era scossa da capo a piedi da tremori, che man mano che parlava si facevano più forti.
Sentì chiamare il proprio nome, percepì le mani calde di Goenji posarsi sulle sue spalle. Sussultando, alzò la testa, spostando gli occhi sui suoi, che erano lievemente arrossati.
- Stai tranquilla, tu hai provato. - le disse mestamente, mentre sul suo volto si allargava un sorriso rassicurante, benché triste.
Per alcuni secondi rimasero in silenzio, anche dopo che egli spostò le mani dalle sue spalle, per lasciarle ricadere lungo i propri fianchi. Spostò i suoi occhi neri come il carbone sulla porta.
- Vieni con me? - le chiese, guardando la targhetta recante il nome della sua amata sorellina.
Lei scosse la testa.
- Ora non me la sento. - sussurrò.
- Mi aspetti qui? - chiese lui, tornando a guardarla.
La ragazza annuì, per poi lasciarsi scivolare su una delle varie serie disseminate per il corridoio, una volta che il calciatore entrò nella stanza. Si passò una mano sul volto, lasciandosi andare ad un sospiro. Si sentiva stremata, come se fosse stata lei ad aver appena giocato la finale.
Tutto è andato per il meglio.
Chiuse gli occhi, concedendosi di bearsi della sensazione di avere molti meno fardelli a gravarle addosso. Infondo, si sentiva quasi serenza, ora che parte dei sensi di colpa per l'incidente di Goenji Yuuka erano stati dissipati dal caldo sorriso del ragazzo.
Tutto è davvero andato per il meglio.
Udì un tonfo sordo provenire dalla camera, si alzò di scatto. Si avvicinò alla porta, l'idea di entrare ed interrompere un momento intimo di Goenji con la sorellina - sebbene fosse in coma - la turbava. Cercò di origliare, per controllare che nulla di male fosse accaduto. Le giunse all'orecchio una vocina, tanto flebile che non riuscì a decifrare quello che disse. Una voce di bambina. Yuuka era sveglia.
Arretrò; forse avrebbe fatto meglio ad andarsene, allora. Aprì la cartella e ne estrasse il taccuino, su cui scrisse in fretta una frase. Strappò la pagina, la piegò a metà e la poggiò sulla sedia.
Sono contenta che tua sorella si sia svegliata.

La suoneria del cellulare che prese a squillare prepotentemente la strappò dai suoi pensieri. Uscita dall'ospedale, aveva camminato senza meta, perdendo la concezione del tempo e di dove stesse andando. Pescò l'apparecchio telefonico da dentro la cartella, stupendosi di leggere il nome di Haruna sullo schermo. Si sarebbe aspettata, piuttosto, che fosse stato Goenji a cercarla, ma, mentre si portava il telefono all'orecchio, rifletté che probabilmente non si era stupito troppo del fatto che se ne fosse andata.
- Pronto?
- Tenshi, è successo di tutto! - la voce spaventata e squillante di Haruna le arrivò talmente forte, che per un secondo si allontanò dallo schermo.
- Che vuoi dire, che succede? - sentì un fastidio allo stomaco, mentre già iniziava ad allarmarsi. Sì sentiva già sconsolata; alla fine la pace era durata molto meno di quanto aveva previsto.
- So che può sembrare una cosa senza senso, ma sono arrivati gli alieni.
- Sono arrivati i cosa? - chiese, aspettandosi di aver capito male o che fosse tutto uno scherzo idiota, magari la trovata stupida di uno dei ragazzi durante un giro ad obbligo o verità.
- Hai capito bene, hanno distrutto la Kidokawa Seishū ed anche la Raimon, i veterani dell'Inazuma ci hanno giocato ed ora sono tutti ridotti male. Abbiamo giocato contro di loro alla Kasamino, ma ci hanno stracciati ed ora diversi giocatori sono infortunati.
- Ehi, ehi, Haruna, frena. Giocato? Ti prego dimmi che si tratta di obbligo o verità. - la ragazza parlava dannatamente veloce, presa dall'affanno, e lei ci stava capendo ogni secondo di meno. Istintivamente si portò la mano alla fronte, mentre un leggero fastidio si andava pian piano facendo largo nella sua testa, accompagnato dal sommesso ronzio delle troppe informazioni che stava ricevendo e che non riusciva ad elaborare.
- Dicono di volersi misurare con noi tramite il gioco del calcio, se qualcuno perde o si ritira radono al suolo l'intera scuola. Lo so che non sembra avere alcun senso, ma ti giuro che è quello che sta succedendo. - Haruna si bloccò, come se qualcosa l'avesse distratta, e Tenshi ne approfittò per immagazzinare quelle sorprendenti notizie. Alieni, sulla Terra, che giocavano a calcio.
Tutto regolare.
- Goenji vuole sapere dove sei. - le comunicò, riportando la sua attenzione sull'apparecchio che aveva in mano.
- Goenji è lì? - chiese, sentendosi come colta in fallo dal ragazzo dai capelli biondi.
Al mugolio di assenso che ricevette in risposta si guardò intorno, in cerca di un indizio su dove si trovasse. Alla fine, un cartello la aiutò a capire in quale quartiere si fosse cacciata col suo errare.
- A Rokugo*.
- Rokugo, davvero? Come ci sei finita lì dall'ospedale? - sentì alcune voci parlare sotto quella dell'amica, ma non capì una sola parola di quel borbottio.
- Non ne ho la più pallida idea, credimi. - fece una pausa, il tempo necessario per soffocare un sospiro.
In fondo alla sua mente era represso un senso di paura, paura che sotto ci fosse ancora una volta Kageyama, paura che se non la sarebbe venuta a prendere significava che l'aveva abbandonata. Paura che non avrebbe mai scoperto chi fosse la sua famiglia.
Era come intrappolata in un grande ciclo senza fine, in cui ogni volta che sembrava trovare un po' di pace, Kageyama faceva la sua comparsa e faceva riniziare tutto da capo. Dolore, rabbia, solitudine; tutto ricominciava come era stato prima. Sembrava non esserci via di fuga.
- State andando a casa? - riprese, sforzandosi di sembrare naturale.
- Sì, i ragazzi hanno bisogno di riposare, sono tutti devastati. Noi tre probabilmente andremo all'ospedale con gli infortunati. - le arrivò sommessa la voce della manager dai capelli verdi che supplicava qualcuno di stare fermo.
- Vado a casa anch'io, da qui sono più vicina a casa mia che non all'ospedale. Ci sentiamo domani?
- Sì. - il tono della ragazza dall'altra parte del telefono era tremante, come se stesse per mettersi a piangere da un momento all'altro.
- Haruna, sta calma. Uscirete anche da questo, i vostri giocatori sono i più in gamba che abbia mai incontrato, sono certa che già domani vorranno raggiungere questi alieni per fargliene vedere di cotte e di crude. - si fermò per un'istante, sperando che le sue parole avessero avuto almeno il minimo effetto. - Tenetemi aggiornata, okay?
- Mh-mh, a domani.
Chiuse il telefono, lasciandolo cadere a casaccio nella borsa. Sospirò.
Tutto andrà per il meglio, sì.


*Rokugo è un quartiere citato all'inizio del primo capitolo di Biorg Trinity, quando Fuuji si perde vagando a casaccio come Tenshi. Non ho la più pallida idea di se esista veramente o meno, ho scritto la prima cosa che mi veniva in mente.

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Capitolo 9
*** Guilty feelings and fears ***


Uhm, già, so di essere parecchio in ritardo, ma mi sono detta che dato che sono pochi quelli che ancora leggono questa storia, avrei anche potuto prendermi del tempo per abituarmi all'inizio della scuola. Non che ci sia ancora riuscita. Temo che quest'anno sarà davvero difficile
A parte tutto, questo è un capitolo di passaggio, per legare un po' tutti i primi fatti della seconda serie, dato che farò diversi tagli, visto che ci sono molte cose che non mi interessa trattare. Penso che nel prossimo capitolo salteremo direttamente alla Absolute Royal, controllerò di non perdermi nulla di interessante in tutto ciò che viene prima, thou. Con la mia pessima memoria rischio sempre di fare gaffe incredibili. 
Non so cosa dire più di tanto su questo capitolo, un'altra volta, taanto Shuuya. Giuro che poi non sarà così tanto presente, lol. Voglio fare una domanda, se mai qualcuno di voi vorrà lasciarmi una recensione, c'è qualcuno con cui shippate Tenshi, per ora? Perché mi hanno fatto notare che è piuttosto shippabile con praticamente tutti. 
Solita parte di credits, le canzoni del capitolo sono Car Radio e Truce, ne ho scelte due perché mi immaginavo troppo bene Truce per Goenji, mentre Car Radio era semplicemente perfetta per il punto di vista di Tenshi, quindi... boh, ascoltatele entrambe, ahah. E ritenetevi fortunati che mi hanno fatta andare in fissa con i twenty one pilots quindi a sto giro non vi beccate nulla di punk. L'immagine invece è (anche una volta) stata scattata dalla bravissima TanjaMoss.
E per ora è tutto gente, spero di potervi risentire, in una recensione o in un altro capitolo!
~Seth


Chapter 8 ❧ Guilty feelings and fears

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Tenshi si sentiva di nuovo un peso a premerle sul cuore, mentre scostava le tende azzurre per far entrare la brillante luce solare nella stanza. Scrutò fuori dalla finestra, sospirando, poi si voltò verso i suoi due amici, costretti su quei due letti d’ospedale. Il suo sguardo proseguì su di Kidou, appoggiato alla porta.
– Quindi partirai? – chiese Sakuma.
Il regista annuì, scostandosi dalla superficie di legno ed avanzando verso il centro della stanza.
– Recluteremo nuovi giocatori e sconfiggeremo quegli alieni, sì.
– Quanto starai via? – incalzò il portiere, stringendo tra le mani le lenzuola immacolate.
– Non lo so, sinceramente dubito che sarà una cosa rapida come credono gli altri. – incrociò le braccia al petto, assumendo un’aria pratica per alcuni secondi. – Ma non preoccupatevi, qualunque cosa ci sia sotto, noi li sconfiggeremo.
Genda lo osservò, con un’espressione quasi infastidita.
– Certo, li sconfiggerete, tu e la Raimon. – Genda, va bene così, è giusto che Kidou vada avanti e non rimanga qui a piangersi addosso insieme a noi. – tentò di rassicurarlo l’altro. – Con lui in squadra, la Raimon vincerà sicuramente, come hanno fatto con la Zeus.
– È questo il punto, dovevi vendicarci sulla Zeus, l’hai fatto, ora puoi tornare da noi. – insistette, guardando il loro ex capitano piuttosto duramente, come incolpandolo per essersene andato.
– La Raimon ha bisogno di tutto l’aiuto possibile ora, Kidou fa bene ad andare con loro e a non stare qui a girarsi i pollici. Se stessi bene, non lo faresti anche tu? – si intromise Tenshi, aprendo bocca per la prima volta da quando era entrata nella stanza, fatta eccezione per un breve saluto.
Il ragazzo dalla scarmigliata chioma leonina abbassò il capo, sospirando, sebbene poco convinto.
– D’accordo, vai. Vorrei solo poter venire con voi. Fai il culo a strisce a quegli alieni, va bene?
– Certo.
Gli altri due giocatori sorrisero, ed anche le labbra del portiere si incurvarono. L’unico occhio visibile del capocannoniere si spostò sulla ragazza, ancora con la schiena poggiata al davanzale della finestra.
– Anche tu andrai con loro, Tenshi?
– No, io rimango qui. – disse con voce calma, osservando il via vai nel parcheggio attraverso il vetro limpido della finestra.
Il regista si voltò nella sua direzione, sorpreso.
– Pensavo saresti venuta anche tu. – pronunciò quasi in un sussurro.
– Se è per noi, puoi andare, staremo bene presto, e comunque…
– Avete più bisogno di me voi di quanto non l’abbiano loro, – Sakuma venne interrotto repentinamente, mentre Tenshi si voltava a guardarli. – hanno già le loro manager. Ho i miei motivi per restare, in ogni caso.
Puntò lo sguardo su di Kidou, che annuì.
– Capisco, quindi ci vediamo al mio ritorno, suppongo.
– Avete finito con tutta questa cosa degli sguardi complici eccetera? Perché, sapete, ci saremmo anche noi in questa stanza. – ironizzò Genda.
 
Quando uscì dalla stanza, diversi minuti dopo, Kidou se n’era andato già da un po’. Sospirando, si lisciò le pieghe della gonna, per poi incamminarsi lungo il corridoio ed in seguito giù per le scale.
Mentre si apprestava ad uscire dall’ospedale, lo sguardo le cadde su un corridoio alla sua destra. Il reparto pediatrico. In fondo ad esso, tre uomini alti e smilzi, in cappotto nero, si allontanavano dandole le spalle. Poco prima, Goenji li osservava con uno sguardo di sconcerto. Tenshi gli corse incontro, con il cuore in gola, chiamando il suo nome solo quando fu piuttosto sicura che i tre tipi non fossero più a portata d’orecchio. Il ragazzo si voltò, fissandola sempre più sorpreso.
– Che è successo? – incalzò non appena gli arrivò di fronte. – Chi erano quei tizi?
– So solo che hanno a che fare con l’Aliea Gakuen. – le rispose, incespicando un po’ sulle proprie parole e guardando il punto in cui erano spariti dietro al muro candido. – Vogliono che mi unisca a loro, se non lo farò e continuerò ad oppormi, faranno del male a Yuuka.
Lei sgranò gli occhi, rivolgendosi d’istinto verso la porta dietro cui la piccola si trovava.
– Tenshi, io voglio partire con la Raimon, aiutarli contro quei mostri, ma ho paura che Yuuka si ferisca ancora una volta. – lo sguardo con cui la fissava era intenso, pieno di indecisione, la ragazza si sentì quasi male ad osservarlo, ma si sforzò di non abbassare il proprio.
– La terrò d’occhio in ogni momento in cui mi sarà possibile, te lo prometto. – disse tutto d’un fiato. – Sarei in ogni caso venuta spesso a trovare i ragazzi della Teikoku, starò con lei.
Goenji, senza rifletterci su due volte, le circondò la schiena con le braccia, stringendola a sé. – Grazie mille, Tenshi. Spero davvero che non succeda nulla. Né a lei né a te.
– Lo spero anche io, credimi. – mormorò, ricambiando timidamente il suo abbraccio. Il suo corpo era caldo, come lo era stata la sua mano quando l’aveva stretta. Sentiva il suo cuore battere chiaramente contro il proprio petto, dalla paura per la sorella minore, suppose.
Le sarebbe piaciuto avere un fratello come lui.
Si allontanarono pochi istanti dopo, entrambi vagamente imbarazzati da quel gesto così improvviso. Il trillo del cellulare di Shuuya spezzò il silenzio, egli lo estrasse dalla tasca e lesse il messaggio.
– Devo andare, mi aspettano alla Raimon. – annunciò, guardandola con espressione piuttosto interrogativa. Lei annuì.
– Okay, allora io rimarrò qui con Yuuka. – guardò la porta, come aspettandosi di poter dare una sbirciata a ciò che l’aspettava dietro di essa attraverso il suo legno dipinto.
– Ora sta dormendo, ma se non hai da fare puoi rimanere.
– Sì, infondo non ho più molto da fare, ora che quasi tutta la mia squadra è all’ospedale e l’unico ancora sano parte per salvare l’umanità da un attacco alieno. – ironizzò Tenshi, mentre un angolo della sua bocca si piegava verso l’alto. Il ragazzo ridacchiò.
– Chiamami ogni tanto, così parlo sia con te che con Yuuka. – si sistemò meglio la felpa della squadra. – Allora a presto.
– Sì, a presto.
Si scambiarono un ultimo sorriso, lievemente timido, poi il calciatore si avviò verso l’uscita, mentre la ragazza quasi evitava con lo sguardo quel pezzo di legno che la separava dai suoi sensi di colpa.
 
Si era andata a prendere un tè, prima di entrare nella stanza di Yuuka. Sapeva che vederla non sarebbe stato un colpo facile da sopportare, Goenji aveva alleviato la mole di sensi di colpa che si era affibbiata in quei dodici mesi e poco più, ma vederla di persona era un altro conto. Si sforzò di pensare che era sveglia, che stava bene, che non c’era più motivo di sentirsi in colpa. Non era morta, era fuori pericolo, non era colpa sua. Erano tutte affermazioni che riconosceva come vere, ma che il suo cuore quasi rifiutava.
Ed ora era lì, a fissare la porta del colore della neve, i muscoli tesi, le dita allacciate intorno al bollente bicchiere di carta, che era l’unica cosa a tenerla ancorata alla realtà. Perfino il suo respiro era flebile, come cercando di fare meno rumore possibile, di uniformarsi con quel piatto e totalizzante bianco che l’avvolgeva. Inspirò profondamente, si lasciò andare ad un rumoroso sospiro, alzando lievemente la testa.
Aprì la porta, irrompendo nella stanza a tempo di marcia. Guardò la sedia accanto al letto, ma la trovò occupata da un enorme orsacchiotto di pezza. Regalo di Goenji in vista del viaggio, suppose. Si andò ad appoggiare contro la cassettiera in fondo alla stanza, ammirando i fiori freschi che svettavano sopra di essa. Poggiò il tè e lasciò scorrere le mani fra i capelli, districandoli dalla treccia che li ordinava, ed adagiandoli sulla propria spalla destra.
Finalmente, si decise ad alzare lo sguardo sul letto di fronte a lei. Yuuka la osservava con dei grandi occhi del più profondo nero che potesse immaginare, dal taglio affilato, ma l’espressione dolce. Identici a quelli di Goenji, ma brillanti di infantile innocenza e gioia.
– Pensavo dormissi. – mormorò, ingoiando un boccone amaro di rimorsi e stringendo il bordo del mobile contro cui sostava.
– Sei un’amica di Shuuya? – chiese, con una vocina che colpì Tenshi come una stilettata dritta al cuore. Le sembrava che in poche occasioni il fardello di sensi di colpa che si portava sulle spalle fosse stato pesante come allora.
– Sì, qualcosa del genere. Non tornerà per un po’, lo sai questo?
Scosse le trecce castane, penetrandole l’anima con lo sguardo. Si sentì costretta ad abbassare il proprio. – È partito per un viaggio con la squadra, tornerà presto. Tuo fratello ha un gran cuore, è forte, molto, ma immagino tu lo sappia già. – non aveva idea del perché stesse snocciolando informazioni del genere. Alzò gli occhi, per controllare la situazione, trovando quelli della bambina brillanti.
– Lo so, il mio fratellone è il più forte del mondo.
I suoi muscoli si sciolsero lievemente di fronte al sorriso radioso che le stava rivolgendo. Non stava andando poi così disastrosamente, pensò. Stava bene. Non era colpa sua.
 
Okay, che accidenti hai combinato?
Goenji non fu poi così colpito dal fatto che Tenshi non avesse perso tempo neppure a salutarlo, in un certo senso se l’aspettava. Dubitava che avrebbe ottenuto un semplice “pronto” in risposta alla sua chiamata, inaspettata o meno che fosse.
– Immagino che Haruna ti abbia detto che me ne sono andato.
Kidou, mi chiamano a giorni alterni. – sentì chiaramente che si era allontanata dal telefono per tentare di nascondere un sospiro. – È per Yuuka? – chiese poi, abbassando il tono della voce, lievemente più dolce.
– Sì, l’allenatrice Kira sapeva che ero stato ricattato. Dato che non riuscivo neppure a giocare decentemente in partita, abbiamo deciso che sarebbe stato meglio così. – si massaggiò le tempie.
Dove sei? Tornerai qui? – il tono della ragazza era parecchio allarmato, per essere lei, lo trovò tenero.
– No, sono in treno, devo nascondermi o quelli dell’Alia mi prenderanno comunque. – sentì montargli in corpo il desiderio di sbattere ripetutamente la testa contro un muro, ma pensò che gli altri passeggeri non l’avrebbero presa troppo bene. Ed avrebbe preferito non ritrovarsi in un ospedale psichiatrico o qualcosa del genere.
Posso sapere dove stai andando?
– È meglio di no, è davvero brutto dirlo ad alta voce, ma è meglio evitare che tu venga coinvolta. Non voglio che vada a finire che facciano del male a te. – poggiò il capo al gelido finestrino, lasciando lo sguardo scivolare sugli alberi e le abitazioni che scorrevano fuori a esso senza veramente curarsene.
Sta attento, okay? Non metterti nei guai. – Goenji si perse per un istante nel pensiero che la sua voce era sempre un po’ più flebile, forse non aveva molto segnale lì.
– Non preoccuparti per me, se qualcuno mi infastidisce, un tornado di fuoco in faccia e via. – Tenshi sbuffò il principio di una risatina, ed egli sorrise. – Puoi anche smettere di andare a trovare Yuuka, l’allenatrice e gli altri cercheranno di metterla al sicuro. Gli altri della squadra non sanno nulla di tutto ciò, per cui per un po’ sarà meglio non parlarci.
Mh-mh. – fecero entrambi una pausa di alcuni secondi. – Quindi, ci sentiamo quando le cose inizieranno a sistemarsi.
– A presto, Tenshi.

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