How can I know you, if I don't know myself?

di Son of Jericho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Prologue ***
Capitolo 2: *** II - We all look to the shining light ***
Capitolo 3: *** III - We are Drama ***
Capitolo 4: *** IV - Live to fight another day ***
Capitolo 5: *** V - High above the heart ***
Capitolo 6: *** VI - Breakdown ***
Capitolo 7: *** VII - Aftermath ***
Capitolo 8: *** VIII - Someday, a new dawn will rise ***
Capitolo 9: *** IX - Endless Days ***
Capitolo 10: *** X - Far, but not enough ***
Capitolo 11: *** XI - I can't forget ***
Capitolo 12: *** XII - Home is where love hurts ***
Capitolo 13: *** XIII - Don't think I'm perfect ***
Capitolo 14: *** XIV - Second thoughts ***
Capitolo 15: *** XV - The night of the witches ***



Capitolo 1
*** I - Prologue ***


Angolo dell'autore
Un saluto a tutti, benvenuti per questa mia nuova storia!
Prima di lasciarvi al primo capitolo, permettetemi di fare una piccola premessa:
- Mentre nella serie Victorious i ragazzi hanno intorno ai 16 anni, nella mia fiction li ritroverete più grandi, dato che si svolge in quello che per loro sarà l'ultimo anno alla Hollywood Arts. Questo perché la mia intenzione è di dare un tono più serio e maturo ai personaggi, e affrontare i loro percorsi in maniera più adulta e profonda.
La mia introduzione finisce qui, e ringrazio anticipatamente coloro che dedicheranno il loro prezioso tempo alla mia storia.
Buona lettura!

 
I - Prologue


Troppe le notti insonni.
Troppe le notti trascorse a cercare invano di risolvere quell’inaspettato enigma.
 
Rompendo il rigido silenzio che abbracciava la sua solitaria abitazione, un movimento pigro e stanco lo fece voltare verso il bagliore sopra la mensola: le 2.10.
Sbatté forzatamente un paio di volte le palpebre, estremamente speranzoso di averci visto male.
Le 2.10.
Si lasciò andare ad un'imprecazione in lingua spagnola, ereditata da chissà quale lontano parente, mentre tornava a rivoltarsi nervosamente nel letto e schiacciava la schiena sul materasso.
La storia si stava ripetendo di nuovo, come una scena mal girata di un film di serie b.
Si passò una mano sulla faccia, stropicciandosi gli occhi per allentare la pesantezza delle palpebre, e si tirò faticosamente su dal letto.
“Tanto sarebbe stato inutile”, pensò mentre afferrava la prima maglietta che gli passava tra le dita e si incamminava lentamente verso il locale cucina, inondato dal chiarore argenteo riflesso dalla luna.
A metà del corridoio, i passi lo portarono a fermarsi davanti alla finestra, e, dopo aver scostato la tendina e avvicinato il viso al vetro, lo sguardo prese a vagare verso il buio e quieto orizzonte.
- Devo essere l’unico in piedi a quest’ora nel raggio di sei isolati. - mormorò sorridendo, mentre tuttavia un sospiro sconsolato gli sfuggiva dalle labbra.
Nell’ultimo periodo, che contava ormai quasi due settimane, gli era capitato sempre più spesso di svegliarsi quando la spia luminosa della sveglia segnava appena le prime ore dopo la mezzanotte, e di crollare solamente quando arrivava l’alba.
Quella notte non aveva fatto eccezione.
Raggiunse il tavolo e si rifugiò in quello che stava diventando un rituale consolidato, ma che avrebbe tanto preferito interrompere, una tazza di latte bollente in cui annegare tutte le ore di sonno perse. E mentre la stringeva tra le mani, appiccicando lo sguardo sul mini frigo come fosse un magnete, si lasciò andare all’unica cosa che poteva fare a quell’ora: riflettere.
All’inizio non era riuscito a capire.
Era stato ingenuo, forse fin troppo per uno per lui, le prime volte che si era ritrovato a fissare i minuti scorrere su quei numeri digitali; non aveva dato peso alla cosa, aveva pensato ad una coincidenza, persino ad uno dei tanti disturbi del sonno di cui gli psicologi si divertono a trattare.
Che ci fosse qualcosa che lo tormentava, però, lo avrebbe scoperto soltanto la notte in cui aveva deciso di uscire per una passeggiata, da solo nella radura ad ascoltare la voce della sua stessa coscienza.
Da allora, ogni minuto in più che veniva tenuto sveglio, era un nuovo pezzo del puzzle che andava a posto.
Era come dover sopportare una presenza oscura, senza nome o volto, che si era insediata dentro di lui a tramare nascosta nell’ombra.
Un dettaglio che gli era sempre sfuggito dal quadro generale.
Un pensiero. Uno solo, potente, sviluppatosi senza che lui nemmeno si accorgesse di come o quando.
E non appena le nebbie si erano diradate abbastanza da lasciare intravedere più a fondo, quella sagoma senza contorni si era fatta nitida, con un volto e un nome che, purtroppo, conosceva benissimo.
Una verità che per troppo tempo aveva inconsapevolmente scelto di relegare in qualche angolo remoto della sua mente, e che adesso non poteva più permettersi di ignorare.
Aveva un problema. Uno di quelli grossi. Uno di quelli che sperava non avrebbe dovuto affrontare mai più.
 
 
Sbatté lo sportello con tutta la forza che gli era rimasta nel braccio, facendo riecheggiare il boato della sua frustrazione nell’abitacolo e tra gli alberi.
Si sporse per riflettersi velocemente nello specchietto retrovisore: occhi arrossati, attorniati da occhiaie sempre più marcate, sguardo tutt’altro che lucido.
Niente di diverso da ieri.
“Sei uno straccio, Beck” pensò mentre si passava una mano tra i capelli, nel tentativo di scrollarsi di dosso l’ennesima notte in bianco. La sua famosa e folta chioma castana era forse l’ultima cosa rimasta integra in lui.
Allungò la mano verso la chiave ma, arrivato il momento di mettere in moto, un’esitazione la fece bloccare a mezz’aria.
Un’altra giornata da trascorrere portandosi dietro quel peso. Perché non importava quanto provasse ad alleviarlo o a renderlo meno insistente, in nessun modo avrebbe potuto lasciarlo a casa. Sarebbe salito con cui sul sedile di fianco e lo avrebbe accompagnato per tutto il giorno, esattamente come era successo nelle ultime due settimane.
Ruotò la chiave con un movimento tanto deciso da rischiare quasi di spezzarla, e, godendosi il ruggito del motore che invadeva le sue orecchie e andava a coprire anche le voci nella sua testa, diede gas in direzione Hollywood Arts.
 
 
Il rovente sole che incendiava l’asfalto delle strade di Los Angeles diventava ogni mattina sempre più fastidioso. Magari per il fatto che i suoi occhi stanchi non erano in grado di filtrarlo correttamente, o magari perché, istintivamente, rappresentava un segnale troppo positivo per il suo umore tutt’altro che sereno.
Guidava con le mani poggiate distrattamente sul volante della sua bella Pontiac GTO gialla, e lo sguardo fisso davanti a sé, disinteressandosi di ciò che lo circondava.
Solo quando venne sorpassato da un vecchio camioncino dei gelati, e ricevette un colpo di clacson dall’auto che lo seguiva, Beck si rese conto di star andando particolarmente lento. Eppure, non ne fu per niente sorpreso.
Sapeva perfettamente cos’era a frenarlo.
Era il peso opprimente di quei pensieri che erano tornati prepotentemente a farsi sentire. Era quella morsa alla bocca dello stomaco che, mattina dopo mattina, si stava lentamente divorando un po’ della sua sicurezza, e che aveva addirittura iniziato a fargli avere paura di iniziare una nuova giornata e di mettere piede a scuola.
Paura per quello che avrebbe potuto accadere.
Per lui. Per lei.
Non aveva mai immaginato di poter arrivare a sentirsi così. E forse, adesso ne aveva abbastanza.
Strinse aggressivamente la presa attorno al volante e affondò il piede sull’acceleratore, seminando l’auto dietro di lui e sfrecciando accanto al camioncino dei gelati.
 
 
La GTO gialla, riconoscibile a tutti, ma soprattutto alle ragazze, giunse sgommando al parcheggio della Hollywood Arts, lasciando una scia ben visibile sull’asfalto.
Beck guardò l’orologio: aveva ancora qualche minuto prima che quella campanella dal suono strano lo costringesse ad entrare.
Si era appena messo a ispezionare svogliatamente lo zaino per controllare che avesse tutto, quando la visione di lei, a pochi metri dall’auto, catturò la sua attenzione.
Senza che si fossero accorte del suo arrivo, Jade e Cat si stavano dirigendo verso gli scalini della porta d’ingresso; la mora stava ridendo soddisfatta, mentre la ragazza dai capelli rosso fuoco teneva il broncio e le braccia incrociate.
La bocca gli si piegò in un sorrisetto: non si sarebbe sorpreso se Jade avesse fatto qualche battuta di cattivo gusto su di lei o su suo fratello.
Ma fu a vedere la sua ragazza sotto quella luce, così apparentemente felice, che sentì la tenaglia allentarsi di qualche centimetro.
Almeno in lei non c’erano tracce delle urla della sera prima.
Attese, senza staccare lo sguardo da lei, che Jade fosse sparita dietro le vetrate per scendere dalla macchina e andare verso l’istituto.
 
Facile è noioso, aveva detto una volta.
Ma, adesso, solo lui sapeva quanto avrebbe voluto che le cose fossero state veramente così facili.
Aveva sempre pensato che lei fosse quella parte che gli mancava e che serviva a completarlo.
E se invece lei fosse stata la carta che lo faceva sballare e faceva saltare il banco?
 
 

 

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Capitolo 2
*** II - We all look to the shining light ***


II - We all look to the shining light


Scelse di varcare la soglia dell'istituto passando dall'entrata sul retro, quella utilizzata solitamente dal personale di servizio e da coloro che non volevano stare al centro dell'attenzione.
Meno gente incontrava appena arrivato, meglio era.
Attraversati un paio di corridoi popolati da gente poco interessante, sentì chiaramente, dietro l'angolo che avrebbe condotto alla hall principale, le voci dei suoi amici che si erano radunati prima di entrare in classe.
Beck si fermò prima di farsi vedere, si appoggiò al muro e si mise ad ascoltare.
Spiccò l'inconfondibile e squillante risata di Cat, accompagnata da un intervento di Rex che ovviamente prendeva in giro Robbie; poi fece capolino anche Andre: - Ma si può sapere per quanto tempo ancora vuoi portarti dietro quel pupazzo? -
- Fino a quando non riuscirò ad esibirmi in un cabaret in prima serata. -
- Ho capito, dovremo sorbircelo fino alla pensione. -
Alla protesta di Robbie per l'ennesima mancanza di fiducia nelle sue qualità, Beck si staccò dal muro, si tirò su le maniche del giubbotto di jeans fino ai gomiti, si disegnò un sorriso di plastica sul viso e si preparò ad entrare in scena.
Gettò più fiato di quanto volesse in quel “Ehi, ragazzi” con cui esordì, correggendo poi parzialmente il tiro e alzando la mano in un saluto che sembrasse più pacato.
Fino a che lo sguardo non si posò su Jade, che lo aspettava con un’espressione che non tradiva emozioni, e allora il fiato gli si mozzò di nuovo.
- Dov'eri finito, Beck? A vedere se nel giardino sul retro crescono i funghi? - L'ironia di benvenuto di Andre andò tuttavia a disperdersi nell’aria, dato che Beck non lo stava minimamente ascoltando.
I suoi occhi erano stati catturati da quelli magnetici di Jade, in degli intensi secondi in cui nessuno dei due sembrava voler mollare la presa sull'altro.
Fu lei ad annullare la distanza che li separava, avanzando diretta, con tanto di leggera spallata a Robbie per farsi spazio, e portandosi ad un passo da Beck.
Le mani a cingergli dolcemente il collo, le labbra carnose che si posavano morbide sulle sue, in un bacio carico di passione.
Un bacio che però Beck non riuscì ad assaporare del tutto, nonostante avrebbe voluto non finisse mai.
- Ciao - gli sussurrò lei, allontanando appena la bocca e tornando a fissarlo. Ma fu proprio nel perdersi in quegli occhi, più profondi del mare, che Beck si scoprì incapace di trovare anche la più facile delle parole.
Perché quegli occhi che gli avevano sempre dato forza, adesso stavano lentamente sgretolando le sue fondamenta frammento dopo frammento.
- Ragazzi! - spuntò Tori alle spalle di Andre, in uno strano mix di euforia e nervosismo. - Dobbiamo andare, la Hawkes ci sta già aspettando in classe. Anche voi, piccioncini! - aggiunse poi, estendendo il richiamo a Beck e Jade per distoglierli dal loro mondo.
Seppur abbastanza infastidita dalla voce di Vega che li aveva interrotti, Jade si mosse per seguire il gruppo che ripartiva verso l’aula, lasciando Beck con i piedi piantati sul pavimento e a guardare la sua schiena che si allontanava.
“E allora andiamo”, pensò prima di riuscire a muoversi.
Andre, ultimo della fila, si accorse che l’amico era rimasto indietro, tutt’altro che convinto. - Tutto ok, Beck? - gli chiese, fermandosi davanti a lui.
Beck si rifugiò in un sorriso sornione, falso, ma che rese convincente a sufficienza. Odiava mentire ad uno dei suoi migliori amici, ma da ormai più di dieci giorni, non poteva fare altrimenti. Non era ancora il momento della verità. - Sì, tutto ok. - rispose secco, prima di riprendere il cammino verso la classe insieme ad Andre.
Lei sembrava esserci già passata sopra. Lui, invece, continuava ad accumulare macigni che stavano formando una montagna sempre più difficile da scalare.


Tra chi se ne stava lì esclusivamente per far numero, chi pisolava e chi aveva la testa in altri lidi, probabilmente erano in pochi quelli che stavano realmente ascoltando i discorsi della Hawkes, professoressa di tecniche di canto.
Donna di mezza età, distinta e sempre impeccabile, era considerata all’interno della Hollywood Arts una delle persone più rispettabili. Peccato, però, che le sue ore di lezione fossero così noiose da sembrare settimane, tanto che, un giorno, qualcuno aveva affermato di aver visto persino Rex addormentarsi.
Il pensiero di essere alla fine dell’ultimo anno aveva fatto il miracolo solo con alcuni studenti, mentre la maggior parte degli irriducibili continuava tranquillamente a trascurare quegli argomenti.
A spezzare il torpore generale dato dalla milionesima spiegazione dell’uso del diaframma fu la porta che, come una ventata d’aria fresca, si aprì improvvisamente presentando Sikowitz sulla soglia.
- Ragazzi, dovete assolutamente venire nella mia aula di teatro! - Annunciò con eccitazione, incurante dell’occhiata di fuoco scagliatagli dalla Hawkes.
- Signor Sikowitz, si è accorto che ha appena interrotto la mia lezione? -
- Certo. - ribatté con una certa indifferenza nei suoi confronti.
- E meno male! - osò farsi sentire una voce sommessa dal fondo della classe.
- E se è per questo non ho nemmeno bussato. Ma questo è sicuramente più importante. - continuò Sikowitz.
La Hawkes, indispettita, sbuffò e incrociò le braccia. - Ma sul serio non ha mai pensato alla pensione? -
- Sicuro che ci ho pensato, ma sto aspettando prima lei. - le lanciò la graffiante frecciatina senza neanche guardarla, mentre le risatine si sollevavano irriverenti.
- Venite subito di là, ho un’importante annuncio da fare! - concluse infine il professore, sparendo in un baleno dietro la parete.
I ragazzi cominciarono a guardarsi indecisi e a chiedersi a bassa voce spiegazioni l’un con l’altro, e quando la Hawkes realizzò di aver perso anche quel minimo di attenzione che credeva di avere, acconsentì scuotendo la testa. - D’accordo, andate. -
Mentre Cat, insieme a tanti altri alunni, schizzavano fuori dalla stanza, Tori si alzò e si avvicinò ad Andre, seduto accanto a Robbie e davanti a Beck e Jade. - Di che si tratterà? -
- Non lo so - l'amico indicò discretamente la Hawkes con la testa. - Ma di certo peggio di questo non può essere. -


In tanti anni, l’aula in cui Sikowitz era solito tenere le sue lezioni di recitazione non si era mai riempita così velocemente come quel giorno.
O era la voglia di evadere dalla Hawkes, o la premessa del suo annuncio aveva colto nel segno, pensò il professore in piedi al centro del suo piccolo palco.
Quando tutti ebbero preso posto a sedere, poté finalmente iniziare a parlare.
- Non restano ormai che poche settimane ai vostri esami di fine anno… -
- Grazie per avercelo ricordato! - si intromise Rex, la cui bocca venne subito tappata da Robbie, mentre Andre scuoteva la testa.
- Quindi significa che posso anche bocciarvi. - replicò il professore in direzione del pupazzo, per poi farsi più serio. - Ma per questo anno, il vostro ultimo qui alla Hollywood Arts, è stata preparata una sorpresa. All’istituto, come riconoscimento per il lavoro svolto nel tempo, è stata offerta una grandissima opportunità, per la quale solo stamattina è arrivata l’ufficialità. -
- Di che si tratta? - domandò Tori, impaziente.
Sikowitz raggiunse il fondo del palchetto e portò in avanti un mobiletto con le ruote sul quale era stato collegato un monitor.
- Il Dipartimento delle Arti della California ha stanziato un’ingente somma per la realizzazione di una commedia teatrale… -
- Qui a scuola? - lo interruppe nuovamente Tori.
- No… - Sikowitz, sorridendo beato, premette un bottone sul telecomando e sullo schermo comparve la foto con vista dall’alto di una enorme struttura all’aperto. - Lo spettacolo si svolgerà al famosissimo Comedy Dreaming di Los Angeles. -
La quasi totalità della classe rimase letteralmente a bocca aperta: quel teatro rientrava senza dubbio tra i 5 più importanti degli USA, dopo Broadway e pochi altri.
- Mi sono scordato di aggiungere un’altra cosa, - riprese Sikowitz - ma dalle vostre facce intuisco che l’abbiate già capito: sarete voi a recitarvi! -
Un coro di felicità, che i ragazzi avevano trattenuto fino ad ora solo per non rischiare di restare delusi, si alzò come un boato.
Robbie alzò Rex al cielo, Tori si sporse ad abbracciare Andre, mentre Beck e Jade riuscirono a scambiarsi il loro primo sincero sorriso di quella mattina.
- E non ho finito! - ricominciò il professore. - Vista la mole di lavoro che questa rappresentazione comporterà, è stato deciso di comune accordo con gli altri insegnanti che, chiunque vi parteciperà, sarà esente dagli esami di tutte le altre materie. -
La seconda parte dell’esultanza arrivò puntuale, di volume inferiore alla prima, ma comunque considerevole.
- E infine… - Sikowitz premette un altro bottone del telecomando, mostrando sul video uno stemma viola con una C e una S bianche al centro. I ragazzi tacquero in attesa della spiegazione, che Sikowitz ritardò con una crudele suspense. - La commedia verrà ripresa dal network e verrà trasmessa in prima serata! -
Si scatenò un’altra ondata di esclamazioni, arrestata però bruscamente dal professore stesso.
- Purtroppo… - fece, cambiando espressione, e in quel momento anche i sorrisi sui volti degli studenti sparirono - Il numero dei ruoli assegnabili non è così elevato come pensavamo. Questo significa che non tutti voi potrete partecipare, e chi resterà fuori, sarà costretto a sostenere tutti gli altri esami. -
Afferrò una cartellina rossa con una penna e la passò ad un giovane in prima fila. - Le audizioni avverranno domani pomeriggio qui, nel teatro della scuola. Segnate il vostro nome sul foglio e riconsegnatemi la cartellina domani mattina. -
- E i ruoli? - chiese Andre.
- Stavolta non sarete voi a scegliere la parte per la quale proporvi. Sarà un provino alla cieca: solo quando vi presenterete all’audizione vi sarà comunicato per quale personaggio sarà, in base a quello che io e gli altri insegnanti riterremo più consono. - concluse Sikowitz, prima di congedarsi di fronte ad una certa desolazione collettiva. Era incredibile la capacità che aveva quell’uomo di trasformare una notizia buona in una pessima in così poco tempo.
Tori si fece passare la cartellina, ma prima che potesse anche solo guardarla, se la sentì strappare dalle mani da Jade, contro la quale a nulla valsero le proteste.
Jade si voltò di scatto verso Beck. - Ci segniamo anche noi, vero? -
Beck annuì: raramente aveva visto Jade così elettrizzata per qualcosa, era un’occasione incredibile, e magari, questa cosa insieme avrebbe potuto far bene anche a loro due. - Certo. -


Non aveva smesso di pensarci un attimo, da quando l’aveva rivista quella mattina, durante le lezioni, e anche adesso a pranzo.
Beck, ingoiando a fatica un boccone, studiò nuovamente l’espressione di Jade, così difficile da decifrare.
Possibile che per lei fosse già tutto passato? Possibile che in lei non fossero rimasti segni di quello che era successo? Possibile che lui fosse l’unico a continuare a stare male per la loro ennesima lite della sera prima?
Arrivò a rispondersi di no, forse aggrappandosi al fatto era quasi sempre stato così: si arrabbiavano, discutevano, poi poco dopo tutto si aggiustava e terminava in un bacio risolutorio, lasciando che scivolasse loro addosso fino alla volta successiva.
Da un paio di settimane, però, Beck sentiva che qualcosa in lui era cambiato.
Qualcosa che non gli permetteva più di dimenticare i loro contrasti, ma solo di nasconderli dietro una maschera che indossava tutte le mattine.
Ad interrompere quel flusso ci pensò, fortunatamente o meno, l’arrivo di Andre e Tori. Il primo si sedette vicino a Beck, mentre l’altra rimase in piedi a fissare Jade.
- Jade - richiamò la sua attenzione, con questa che però non la degnava di uno sguardo. - Jade, potrei riavere la cartellina? -
Jade, con addosso ora anche gli occhi di Andre e Beck, smise di mangiare e alzò finalmente la testa. - Di che stai parlando, Vega? -
- So che hanno firmato tutti per partecipare alle audizioni di domani: tu, Beck, Andre, Robbie e Cat, persino Rex ci ha messo una X! Ma quando sono andata io per mettere il mio nome, la cartellina era sparita. -
- A quanto pare dovevi essere più veloce. - le rispose con sufficienza.
- Mi hanno detto che sei stata vista metterla nella borsa, e poi nessuno ne ha saputo più nulla. Scommettiamo che se ci guardo dentro la trovo ancora lì? -
- Non permetterò mai alle tue mani di frugare dentro la mia borsa. -
- Quindi non è vero che ce l’hai tu? - le domandò Andre, mentre Beck aveva aggrottato pesantemente la fronte, ignaro e perplesso.
- Oh, no… - Jade si sporse e afferrò la borsa. - E’ verissimo. - dichiarò, estraendo e mostrando con orgoglio la cartellina.
Nello stesso istante il tavolo fu raggiunto anche da Robbie. - Ehi, che… -
Beck, senza farsi notare, lo fermò e gli fece cenno di aspettare e sedersi in silenzio.
- Perché l’avresti presa? - chiese intanto Andre.
Jade inasprì il tono: - Perché? Perché ogni volta che c’è stato da mettere in scena uno spettacolo, Tori è finita a fare la protagonista, e io relegata a qualche apparizione secondaria o, peggio ancora, come sua sostituta. Ma stavolta non ho intenzione di lasciarmi scappare questa opportunità. Per questo non ti lascerò partecipare all’audizione e sottrarre il ruolo che deve essere mio! -
- Non sappiamo neanche se e per quali ruoli verremo selezionate! - squillò un’incredula Tori - Perché non può essere la migliore di noi a prevalere? -
- Giusto - aggiunse Andre - E non credi che tutti dovrebbero avere una possibilità? -
- Non lei - tagliò corto Jade, passando poi ad un silenzio che sapeva di rifiuto.
- Dammi la cartellina. - ordinò Tori, andando verso di lei con fare deciso e per niente intimorito.
Jade, alzandosi in piedi per fronteggiarla, le lanciò un’occhiata di sfida e un sorrisetto beffardo. - La vuoi? Vieni a prenderla. -
- Andiamo, ragazze… - provò a calmarle Robbie, nel tentativo più inutile della storia.
Sorprendentemente, Tori accettò la provocazione di Jade e si gettò sulla cartellina, cercando di portarla via dalle sue mani.
Si scatenò così una prova di forza, con strattoni da una parte e dall’altra, in cui nessuna delle due sembrava poter prendere il sopravvento. Almeno finché Jade non mollò furbescamente la presa, facendo ritorcere contro la sua rivale tutta la pressione, con l’angolo della cartellina che andò a colpire di rimbalzo la tempia sinistra di Tori, che scivolò e per poco non cadde per terra.
Una fragorosa risata si impadronì di Jade, che lasciò il tavolo compiaciuta del suo piano, mentre Tori, dopo averle rivolto un sonoro grugnito, se ne andò dalla parte opposta, toccandosi sì il graffio che si era procurata, ma anche portandosi via la cartellina come trofeo.
Restati soli, Andre si girò verso Beck in un moto accusatorio. - Mi spieghi perché non le hai detto nulla, amico? Di solito basta una tua parola e lei si calma. Andiamo, avremmo potuto evitare tutto questo! -
Beck lo sostenne con un’occhiata impassibile.
Il problema era che, nonostante tutto, sapeva perfettamente che Tori aveva ragione, e che probabilmente l'aveva anche Andre. Purtroppo, però, sapeva pure che schierarsi apertamente contro Jade l'avrebbe senz'altro portata ad infuriarsi anche con lui, e in quel momento, affrontare un'altra battaglia senza abbastanza forze era l’ultima cosa che voleva.
D'altro canto, difendere Jade avrebbe potuto farla sembrare debole agli occhi degli altri, e anche in quel caso, lei avrebbe finito per prendersela con lui.
Ecco perché aveva deciso di non intervenire.
Si alzò dal tavolo, dando le spalle agli altri due e allontanandosi con lo sguardo basso. - Non ce l'ho fatta. - ammise.


Al prolungato e liberatorio squillo della campanella, gli studenti si erano proiettati come razzi al di fuori delle uscite e verso i loro mezzi.
Beck se l'era presa più comoda, pensando a come, in fondo, quella giornata non era stata poi così male.
Era quasi arrivato al parcheggio, giocherellando con le chiavi della GTO tra le dita, quando fu raggiunto e affiancato da Jade.
- Mi dai un passaggio? - esordì, facendo comunque assomigliare la domanda ad una vera e propria pretesa.
- Credevo ti accompagnasse tuo fratello, questi giorni. -
- Oggi pomeriggio non poteva. E' un problema per te? - insinuò alzando il tono di un'ottava.
- Per niente. -
Al momento di salire, però, Jade mostrò un'esitazione, facendo fermare anche Beck con lo sportello aperto. - Perché non mi hai difesa oggi? -
Beck sperò di non aver capito. - Come? -
- Con Tori, mentre lei mi accusava, tu te ne sei stato lì bello a guardare. - la voce si incattivì. - Non è che anche tu la vedi perfetta per il ruolo della protagonista, magari proprio al posto mio? -
- Mai detto una cosa del genere! - protestò Beck, cercando in qualche modo di mantenere un certo controllo.
- Certo... - lo liquidò con disprezzo salendo in macchina, per poi chiudersi violentemente lo sportello alle spalle e raccogliersi in un freddo silenzio che faceva presagire aria di tempesta.
Beck la seguì all'interno dell'abitacolo, sopprimendo un sospiro.
Neanche così andava bene.
Non poteva continuare ad evitare ogni conflitto per sempre, perché altrimenti, prima o poi, la bomba avrebbe finito per scoppiare nel momento e nel punto sbagliato.
Ormai poteva solo tenere duro, finché non avrebbe capito cosa fare.

 


Angolo dell'autore:
Benritrovati! Un saluto a tutti voi che avete cominciato a seguire questa storia, che sperò vi appassionerà e vi terrà incollati allo schermo!
Un ringraziamento va a chi ha inserito la mia nuova opera tra le preferite/seguite/ricordate, e a chi ha lasciato un'apprezzatissima recensione al termine del primo capitolo.
Vi auguro una buona lettura, ciao!

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Capitolo 3
*** III - We are Drama ***


III - We are Drama



- Io ci sto, ma non so se... -
- Andiamo, ci saranno tutti! -
- Ma sei sicuro che sia stata proprio Tori a invitarci, dopo quello che è successo oggi? -
- L'ho convinta io. -
- Ah, ecco. -
- In cambio, però, ha voluto che vi chiamassi io al posto suo. -
- Quindi vale anche per me. -
- Niente di personale, credeva fossi insieme a lei. -
Beck esitò prima di rispondere: non voleva fargli sapere che non aveva parlato con Jade per tutto il pomeriggio. - No, non è qui. -
- D'accordo. A dopo, allora. -
- Ok. -
 
Percorrendo il vialetto che conduceva al portone della casa di Jade, si rese conto di non aver ancora capito quale dovesse essere il suo stato d'animo attuale. Da quando aveva chiuso quella telefonata, la mente aveva cominciato a riproporgli una domanda in serie, a cui però tutt'ora non riusciva a dare una risposta.
Era come se le due opzioni si trovassero all'interno di un flipper, lampeggiando a intermittenza e continuando a rimbalzare una davanti all'altra per farsi scegliere.
Felicità o insicurezza.
Il silenzio in cui Jade si era rinchiusa e in cui avevano affrontato il viaggio in macchina, di ritorno da scuola, si era velocemente trasformato in una specie di barriera tra loro.
Non si erano più sentiti per tutto il pomeriggio, e, sebbene in certi momenti lui ne avesse sentito davvero la mancanza, ogni volta che aveva anche soltanto guardato il telefono, era stato frenato dalla sensazione che Jade non avesse alcuna intenzione di parlare, finendo in questo modo per rispedire l'idea indietro da dove era nata.
Si era venuto a creare così un muro che li poneva da due parti opposte e separate, un muro all'apparenza così alto, ma in realtà altrettanto fragile.
A fare breccia e ad aprire il primo spiraglio era stata infatti proprio la telefonata di Andre, che li aveva invitati a giocare a carte a casa di Tori.
A quanto ne sapeva anche Jade alla fine doveva aver accettato e, ricordandosi da quel pomeriggio che Jade non poteva usare l'auto, aveva detto ad Andre di riferirle che sarebbe andato lui a prenderla a casa.
Anche se ancora non aveva capito se dover essere contento di poterla rivedere, o se doversi preoccupare per la reazione che poteva attenderlo.
Arrivò di fronte alla porta e bussò, abbattendo un altro pezzetto del muro ad ogni colpo.
- E' aperto! - Lo raggiunse un urlaccio dall'interno, potente ma lontano.
Eccola là, la solita Jade.
Con un mezzo sorrisetto Beck superò la soglia, per poi richiudersi la porta alle spalle e approdare nel soggiorno. Si ritrovò solo e in attesa, ad osservare un arredamento che conosceva ormai a memoria dalle tante volte che era stato lì, e che aveva sempre pensato rispecchiasse in maniera curiosa lo stile di Jade.
Occupò quei momenti perdendosi in inutili ragionamenti sul colore della tappezzeria, finché con la coda dell'occhio non scorse un movimento.
Quando si voltò verso le scale e vide Jade scenderle, il suo mondo parve fermarsi.
In quel momento non gli importò più di nulla: al diavolo le notti insonni, al diavolo i loro litigi, al diavolo il muro. Tutto andò dimenticato, davanti alla sua incredibile bellezza.
L'amava, e questo era tutto.
Jade indossava una maglia nera lunga fin sotto la vita e senza maniche, sotto la quale si intravedevano le spalline del reggiseno, e un paio di pantaloni, anch'essi neri, lucidi e attillati che cadevano su dei particolari stivali col tacco basso.
Beck quasi si vergognò di essersi presentato solo con una camicia beige e i jeans.
- Andiamo? - gli chiese, in tono deciso ma che pareva privo di frizioni. Alla mancata replica, Jade si bloccò a metà dei gradini, accorgendosi di come lui la stesse fissando intensamente. - Che c'è? -
Un largo e sorriso si disegnò istintivamente sul viso di Beck. - Sei bellissima. -
Jade terminò di scendere e si diresse nel tinello per prendere la borsa, lasciandolo ancora lì impalato. - Lo pensavi anche oggi, quando mi hai lasciato sola contro Tori? -
Una frase, quella frase, e la luce si spense.
Beck, entrando, aveva scelto la felicità di poterla vedere e passare del tempo insieme a lei. Aveva appena scoperto di aver sbagliato.
E nel momento in cui il muro finalmente crollò, fu soltanto lui ad essere travolto dalla pioggia di pietre.
Quando lei fece ritorno in soggiorno, la teoria che in principio Beck aveva scartato, affidandosi alla speranza, iniziò a prendere forma.
L'aria si riempì presto delle ennesime accuse, le stesse che gli aveva rivolto quel pomeriggio prima che la riaccompagnasse a casa.
- Non hai nemmeno provato a difendermi. -
Beck non riuscì a fare altro che fissarla, mentre Jade ripeteva questa frase più e più volte, e lui realizzava di non avere idea di cosa dire.
Non riusciva a capire come tutto questo potesse riaffiorare dopo ore, e per giunta dal nulla.
Una sciocchezza, che si era condensata nella classica pallina sul piano inclinato, destinata a prendere velocità ad ogni centimetro fino a diventare inarrestabile.
- Hai dimostrato una volta di più che non te ne importa nulla. -
A questo punto, qualcosa trovò finalmente la via per uscire dalla bocca di Beck. Era poco più che una vuota giustificazione, che lui plasmò in modo da raccontarle che, quel giorno a pranzo, aveva pensato che lei fosse abbastanza forte da non aver bisogno di aiuto per difendersi da Tori.
Ma se c’era anche una sola possibilità di riuscita, questa fu spazzata via appena lui aggiunse che non aveva voluto mettersi in mezzo alle loro questioni per non rischiare di ferire Tori.
- Quindi ti sei preoccupato più per lei che per me? -
Si sentiva ormai un imputato sotto processo, e ogni negazione che presentava, suonava alle orecchie di Jade credibile come quella di chi ha tutti gli indizi a carico.
Dopo qualche minuto arrivò anche a capire perché tutto ciò stava accadendo proprio ora: era probabile che, mentre lui aveva lasciato scorrere il pomeriggio senza farsi sentire affinché lei potesse calmarsi, i pensieri nella mente di Jade avevano continuato ad affollarsi, per poi insorgere come una burrasca.
Forse, pensò Beck, se una delle tante volte in cui aveva riposto il telefono in tasca avesse premuto il tasto di chiamata, avrebbero potuto risolvere questa questione molto prima.
Un altro errore che aveva commesso.
Ad intromettersi nella discussione, che per quanto fossero infiammati gli animi presentava comunque dei toni stranamente composti, furono i loro cellulari, che squillarono in successione, prima quello di Beck e poi quello di Jade, a distanza di un minuto l’uno dall’altro.
Entrambi, però, lasciati suonare a vuoto finché sui display non comparve la scritta: “1 chiamata persa: Andre”.
L’occhio del ragazzo cadde sull’orologio appeso alla parete: erano ormai in ritardo, e gli altri dovevano chiedersi perché non erano ancora lì.
- Perché stai cercando di rovinare la serata, Jade? -
Poche parole, a colpire duramente nel profondo, fecero calare il silenzio e il sipario.
Jade non diceva più una parola, immobile e glaciale al centro del soggiorno, mentre i suoi occhi penetravano quelli del ragazzo fino al cervello.
Beck trasse un profondo respiro. Quello doveva essere l’ultimo errore di quel maledetto giorno.
- Non andremo, ho capito. - le disse annuendo, cercando di sostenere il suo sguardo.
Sapeva che non ci sarebbe stata una seconda fase di quella lite, lei non avrebbe cambiato idea, e lui sentiva di non avere più carte da giocarsi. Proseguire così voleva dire soltanto peggiorare.
- Chiamerò Andre dalla macchina. - concluse, muovendosi in direzione della porta, con la tenaglia d’acciaio che tornava spietata a contorcergli lo stomaco.
Mentre si allontanava da lei, sentì la fredda voce di Jade trafiggerlo alle spalle, come la lama lucente e precisa di una spada che va dritta al cuore. - Non ti chiederò di restare qui, stanotte. -
Beck posò la mano sulla maniglia. - Lo so. -
 
 
Stavolta doveva essere qualcosa di serio. Ignorando tranquillamente le spiegazioni della Hawkes, Andre proseguì nell’opera di osservazione dei due.
Li aveva notati subito, appena entrati a scuola.
A differenza della mattina precedente, che già gli era sembrata strana, in questa si erano a malapena salutati, ed era come se, da allora, entrambi continuassero a cercare e contemporaneamente a evitare lo sguardo dell’altro.
Aveva avuto il sospetto che ci fosse qualcosa che non andava già dalla sera prima, quando gli avevano dato buca a casa di Tori. Dal ritardo, alle chiamate senza risposta, fino alla telefonata di Beck in cui aveva accampato delle evidenti scuse per non presentarsi.
La conferma era arrivata all’inizio dell’ora della Hawkes, quando i due si erano seduti lontani, Beck accanto a lui, Jade vicino a Cat.
All’improvviso la porta si spalancò, anticipando l’ingresso scenico di Sikowitz.
- E’ venuto ad interrompere un’altra delle mie lezioni? - lo bloccò subito la professoressa, fulminandolo con un’occhiataccia che poco si addiceva ad una signora del suo stile.
Sikowitz richiuse la porta col piede. - No, sarebbe la seconda volta in due giorni, non voglio battere il record. - Attraversò la classe e andò ad accomodarsi su una delle sedie in fondo. - In realtà volevo provare ad assistere ad una delle sue lezioni. Sa’, sono un paio di notti che non dormo bene. -
Le risatine di sottofondo furono immediatamente sedate dalla Hawkes. - Smettetela, o do a tutti una F da qui alla fine dell’anno! -
Tutto tacque.
Sikowitz sorrise e si rialzò, facendo la strada a ritroso. - Non si adiri, volevo solamente controllare che ci fossero tutti gli studenti per i provini di oggi pomeriggio. -
Si mise a fare una panoramica delle facce dei ragazzi, con Andre che fu forse l’unico a cogliere l’attimo di sorpresa negli occhi dell’insegnante, alla vista di Beck e Jade distanti.
- Ok, a quanto pare sono tutti presenti. - decretò Sikowitz, prima di andarsene.
Andre tornò a guardare Jade e Beck: lei, imperturbabile e sicura come al solito; lui… l’esatto contrario.
Cosa stava passando per la mente del suo amico?
 
 
Non appena vide Sikowitz passare vicino al loro tavolo da pranzo, Tori smise frettolosamente di mangiare e lo fermò. - Sikowitz! - lo richiamò, facendolo quasi sobbalzare.
Il professore si avvicinò a lei. - Che succede, Tori? -
- Lo voglio chiedere io a lei - la ragazza gli fece un occhiolino, suscitando un'espressione disgustata di Jade. - Allora, che mi dice dei provini? -
- Che ci sono oggi pomeriggio, così come ho detto ieri. -
Tori si sporse in avanti e ripeté l’occhiolino, che oltre alla smorfia di Jade, stavolta fece anche roteare gli occhi ad Andre. - Hanno già deciso i ruoli? -
- Lo sai che li diranno solo al momento in cui salirete sullo stage. - aspettò che Tori assumesse un’aria delusa, poi si mise a ridacchiare. - Ma, va bene, a voi posso anticipare qualcosa. -
- Perché siamo i suoi studenti preferiti? - domandò ingenuamente Robbie.
Sikowitz fece sparire il sorriso in una frazione di secondo. - No, perché siete i più strani che abbia mai incontrato. -
- Insomma, sarò io la protagonista? - intervenne prontamente Jade, sovrastandolo con la voce.
- Mi dispiace, ma no, non sarai tu. -
- Ah-ah! - le rinfacciò Tori, puntandole contro un dito.
Sikowitz immaginò che Jade potesse essere sul punto di volerlo mordere, perciò cercò di batterla sul tempo. - Tu e Beck sarete i genitori della protagonista. -
- Che sono io, vero? - si propose Tori, sempre più elettrizzata.
Beck intanto cercò di stabilire un contatto visivo con Jade, ma era come se il segnale stesse viaggiando in una sola direzione, dato che lei continuava inflessibile a fissare Tori o Sikowitz.
Quest’ultimo sospirò rumorosamente. - No, Tori, non sei nemmeno tu. Tu sarai la sorella della protagonista. -
A questa scoperta Jade scoppiò in una breve e fragorosa risata, alla quale Tori rispose con un grugnito, per poi voltarsi nuovamente verso il professore.
- E’ per questo, non è così? - fece, scostandosi i capelli e mostrando il cerotto che aveva dovuto mettere sul graffio che si era procurata nella colluttazione con Jade del giorno prima.
- No. - la rassicurò Sikowitz, ma fu come se lei neanche lo stesse ascoltando.
- E’ colpa di Jade! -
- Non è per quello. -
- Posso toglierlo, sa? - Iniziò a tirare un lato del cerotto, cacciando un paio di rantoli di dolore.
L’insegnate la fermò giusto in tempo. - Prima che ti strappi via anche la faccia, te lo ripeto: non è per uno stupido cerotto. -
Dopo qualche secondo di stallo, sia Tori che Jade si girarono a fissare prima Cat, e poi ancora Sikowitz.
- Non mi dica che è Cat! - riuscirono ad esclamare all’unisono.
Sikowitz emise uno strano suono dalla bocca, a metà tra uno sbuffo e una risata. - No, non è nemmeno Cat. - dopodiché si guardò intorno e abbassò il tono. - Sarà Madeline Dort la protagonista. - 
Tori si accigliò. - E chi è? -
- Ci sta prendendo in giro. - affermò Andre. - E’ uno scherzo, in realtà non esiste nessuna Madeline Don, giusto? -
Sikowitz allungò il braccio in direzione di un gruppetto di ragazze in piedi vicine al camioncino dei tacos. - Dort. - lo corresse - Ed è quella più a destra. -
Come le mucche di fronte al treno che sfila, i sette, compreso Rex, si girarono verso il punto indicato. I loro sguardi si concentrarono su una ragazzina minuta, bionda, con gli occhiali e un lungo vestito blu a quadretti. - Ditemi che è uno scherzo... - fece Jade.
Ma quando tornarono a cercare Sikowitz per delle spiegazioni, scoprirono che ne aveva approfittato per svignarsela.
Solo allora, gli occhi di Beck e Jade si incontrarono.
Nell'oceano riflesso, Beck intravide tutta la passione, la convinzione, il desiderio che aveva Jade di ottenere quella parte, sebbene non fosse di primissimo piano. E, soprattutto, ci vide un avvertimento: nessuna intenzione di fallire.
Disse di sì a sé stesso: in fondo dovevano solo interpretare una coppia sposata. Poteva farcela.
 
 
Arrivato alle quattro in punto nell'ala di teatro, Beck si trovò davanti persino più studenti di quelli che credeva effettivamente iscritti alla Hollywood Arts.
Una vera e propria schiera era accorsa per quelle audizioni, i cui volantini multicolore avevano tappezzato ogni corridoio della scuola.
Superò un gruppetto di ragazzini troppo piccoli per essere dell'ultimo anno, che probabilmente erano lì solo per assistere, e giunse in un salone che pareva ancora più affollato del precedente.
Qui fu avvicinato da Robbie, che si offrì immediatamente di fargli da guida, dato che a quanto pareva era lì ad aspettare da un’eternità.
Lo fece passare da uno stretto e poco illuminato corridoio laterale, una sorta di passaggio per evitare la folla, mettendosi a raccontare insignificanti storie a proposito degli altri ragazzi.
Beck smise presto di dargli ascolto: non gli importava quanti o chi fossero, non erano loro che lo preoccupavano.  
I due giunsero infine in un’altra stanzetta, simile a una piccola una sala d’attesa, con pareti e poltroncine rosse, dove si erano riuniti anche gli altri.
- Non riesco ancora a credere che dovrò interpretare una vecchia! - Beck fu accolto subito dalla protesta di Jade, impegnata a parlare con Andre e Tori.
- E io che dovrei dire? Ho appena scoperto che il mio personaggio è strabico! - replicò piccata Tori.
Andre, sogghignando in mezzo alle due, fu il primo ad accorgersi dell’arrivo di Beck. Alzò la mano in saluto. - Ehi, amico! -
Anche Jade si voltò verso di lui, riproponendo di nuovo l’occhiata rovente che gli aveva scagliato a pranzo.
- Credo tu sia giusto in tempo. - gli disse Andre, con Beck che però, ancora bloccato in quello sguardo, parve sentirlo a malapena.
Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualunque cosa, ma non riuscì ad aprire bocca.
In quel momento, una portoncina si aprì e una ragazza si sporse dalla soglia. - Oliver e West? - chiamò, guardandosi intorno.
Jade liberò gli occhi di Beck e li girò verso la giovane. - Ci siamo. -
Beck e Jade la seguirono oltre la porta, fino al vero e proprio palco per il provino, dove incontrarono la commissione, composta per l’occasione sia da professori interni, tra cui Sikowitz, sia da esterni, ben più eleganti.
Un uomo in giacca e cravatta si alzò e gli andò incontro. - Mi chiamo Greg Holsen, delegato della sezione artistica del Comedy Dreaming. - gli consegnò i copioni. - Beck, tu sarai Tod, il padre della protagonista, mentre tu, Jade, sarai Evelyn, la madre. -
Sikowitz sorrise di nascosto ai due ragazzi, evitando chiaramente di menzionare di averglielo già spifferato.
Jade scorse qualche pagina del copione. - Qual è la scena? -
L’uomo si riaccomodò al suo posto. - Una normale scena di coppia. Anzi, forse la più classica delle scene di coppia.
- Spiacente di non aver portato un materasso. - ironizzò velenosa Jade.
Greg si mise a ridere. - No, non quel tipo di scena. Una classica litigata tra marito e moglie. -
Una classica litigata tra marito e moglie”.
In quel preciso istante, uno schermo nero si parò davanti agli occhi di Beck, oscurando e facendo svanire tutta la sua sicurezza.
Perché lo aveva capito da quando era entrato nel teatro, che se quel pomeriggio esisteva un ostacolo, non sarebbe stato il timore di non essere bravo abbastanza, la presenza degli altri candidati, o l’esito del giudizio.
Sarebbe stato lui stesso. E soprattutto, lei.
- Pagina 14, scena 3. Quando volete. - li esortò Greg.
Iniziarono a leggere le rispettive battute, come sempre avevano fatto Sikowitz, ma come la discussione scenica entrò nel vivo, Beck si accorse che qualcosa non andava.
Nel suo tono e in quello di Jade, nelle loro espressioni, c’era qualcosa di più, qualcosa di vero.
Riprodurre quella situazione stava facendo riaffiorare il pensiero della sera prima, di quella prima ancora, e di tante altre. Quegli stessi pensieri che lo tenevano sveglio intere notti.
Presto fu come se il copione non fosse neanche esistito: la recitazione andò mescolandosi irrimediabilmente con la realtà, facendo collidere le battute con i ricordi, le urla e le parole che si erano realmente detti, a formare un vortice che parve volerlo buttare giù dal palco.
La battaglia continuò a infuriare tra il silenzio generale, incurante della perplessità dei professori e degli emissari, finché gli occhi di Beck non si posarono per caso sulla propria mano.
Stretta a pugno senza che nemmeno se ne fosse accorto, in un moto di rabbia che si stava impadronendo di lui.
Basta così.
Il copione che lasciò cadere su una sedia fu come una bandiera bianca. Scese dal palco e se ne andò, abbandonando Jade in preda a rabbia, sconcerto e delusione, a fissarlo mentre spariva dietro la porta.
Non riusciva a crederci.
Immobile, si sentì raggiungere alle spalle dalla voce disorientata di Greg. - Signorina, che dovremmo fare adesso? -
 
 
Si ritrovò con le mani appoggiate ai bordi di un lavandino, a osservare nello specchio un ragazzo che ormai stentava quasi a riconoscere.
Batté il pugno, combattendo per trattenere quella lacrima che cercava di sgorgare.
L’amore non dovrebbe fare così male.
D’un tratto sentì la porta aprirsi timidamente. - Beck… - Era Andre, che gli si avvicinò senza fare rumore. - Sikowitz ci ha raccontato tutto. Cos’è successo? -
Beck chinò il capo e lo scosse rassegnato.
- Va tutto bene? - insistette Andre, muovendo un altro passo verso di lui. - Dimmi la verità, Beck. -
Il ragazzo rialzò la testa e tornò a fissare il suo riflesso.
- No. -
 
 

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Capitolo 4
*** IV - Live to fight another day ***


IV - Live to fight another day




Sembrava essere passata un’eternità dall’ultima volta che si erano ritrovati per un’uscita dopo cena.

Il periodo che precedeva l’ormai imminente fine dell’ultimo anno scolastico si stava facendo sempre più delicato, impedendo loro quasi di uscire di casa, se non per sporadiche occasioni come il giorno precedente, per una semplice partita a carte.

Avevano quindi deciso di approfittare della fine delle audizioni per lo spettacolo, eppure, sebbene quella serata dovesse rappresentare una sorta di liberazione, la sensazione più diffusa era che non avrebbero potuto sceglierne una peggiore.

Sensazione che si amplificò non appena in piazza arrivarono anche Beck e Jade, ancora una volta separati.

Forse non era per tutti allo stesso modo, ma si respirava chiaramente una leggera aria di imbarazzo e incertezza tra i loro amici, visto che nessuno, a parte Beck, sapeva esattamente cos’era accaduto quel pomeriggio.

Erano come voci di corridoio che si rincorrevano a proposito di una situazione già vissuta, con il racconto di Sikowitz, altamente inaffidabile e approssimativo, a fare da contorno.

Anche Andre, che era andato più vicino di tutti a scoprire la verità, alla fine si era dovuto arrendere al silenzio dell’amico, che aveva abbandonato il teatro senza più dire una parola.

- E’ fantastico ritrovarci tutti insieme! - esclamò un’euforica Cat.

- Cat, ci vediamo ogni giorno a scuola. - la freddò Andre.

- Sì, ma non andiamo mai in qualche bel posto. -

- Siamo davanti al Municipio, riesci a trovarci qualcosa di speciale? -

- La fontana! -

- Giusto… -

- Allora, dove andiamo? - domandò Robbie.

- Io ancora non capisco perché abbiano invitato anche te. - lo schernì Rex.

- Se non venivo io, non venivi neanche tu. -

- Questo è tutto da vedere… -

- Ma si può sapere per quanto ancora Rex continuerà a seguirci? - li interruppe Andre. - Finirà che quel pupazzo prenderà la patente prima di te, Robbie! -

- Ragazzi… - li riprese Tori - Che vogliamo fare? Ho sentito che hanno aperto un nuovo locale non lontano da qui… -

I successivi venti minuti trascorsero così, tra chiacchiere più o meno insulse, con il gruppo che riuscì a muoversi giusto di una decina di metri, nonostante le varie proposte.

Quello che pareva il preludio ad una bella serata, però, venne alterato bruscamente quando Tori, del tutto innocentemente, se ne uscì con la frase: - Adesso dobbiamo solo aspettare l’esito dei provini. -

Solamente quando fu troppo tardi realizzò di aver commesso uno sbaglio.

Come una molla, qualcosa scattò improvvisamente dentro Jade, la cui espressione mutò in un baleno, e i cui occhi ora iniettati di sangue andarono a carbonizzare quelli di Beck.

- Io non ne ho bisogno, vero, Beck? - iniziò subito a sbraitare, mentre il silenzio calava sulla bocche dei loro amici. - Non esiste una sola possibilità che mi abbiano scelto per il ruolo, dopo la tua “performance” di oggi! Che ti passava per la testa? Come ti sei permesso di lasciarmi lì così, come una scema? Pensavi ancora che io non fossi adatta per la parte, non è così? -

Era un fiume in piena la cui corsa non poteva essere arrestata. Beck, travolto dall’impetuosa marea, si rese conto di star tremando.

- Era un’opportunità enorme! Sapevi quanto ci tenessi a prendere parte a quello spettacolo, e tu che hai fatto? Niente, assolutamente niente! Hai gettato via il copione e te ne sei andato! Ho sprecato la mia grande occasione per colpa tua! E’ colpa tua, Beck! Mi hai sentito? E’ tutta colpa tua! -

Una reazione forse istintiva fece voltare il ragazzo verso il resto del gruppo, e ciò che disse dopo sembrò uscirgli da solo dalle labbra. - Vuoi davvero parlare di questa storia adesso, davanti ai nostri amici? -

Nell’esatto istante in cui ebbe pronunciato quelle parole, un ricordo gli riaffiorò nella mente, come un fulmine squarcia il cielo.

Il ricordo di una notte di un paio di anni prima, di una notte in cui aveva cercato di farla ragionare e convincerla a non coinvolgere gli altri nelle loro incessanti liti, di una notte in cui aveva tentato di rimettere le cose a posto, ma che non era andata come doveva.

La notte in cui avevano rotto.

La lieve brezza che si era sollevata e che accarezzava la pelle e i capelli lo riportò alla realtà, procurandogli un brivido lungo la schiena. - Allora non vedo il motivo di continuare questa serata qui. -

C’era un tono di sfida nella sua voce calma, una sfida che tuttavia sperava di perdere, nel momento in cui lei non avrebbe lasciato andare tutto così e lo avrebbe smentito.

Ma il destino, quella sera, non era dalla loro parte.

- Nemmeno io. - gli rispose Jade, altrettanto glaciale.

Beck si girò nuovamente verso gli altri, che stavano assistendo come muti spettatori. Nessuno fu in grado di dire una parola.

E com’era già successo tante altre volte, forse troppe, Beck si sentì nella situazione che non sapeva e non poteva risolvere.

- D’accordo, me ne vado. Buonanotte. -

Beck si allontanò a passo lento in direzione del Municipio, avvertendo sulle spalle il peso di tutti gli sguardi concentrati su di lui.

Non gli importava se avessero provato a fermarlo, non ci sarebbero riusciti.

Invece di prendere subito la strada verso casa, però, appena fu sicuro di avere il favore delle tenebre, si fermò e si nascose dietro una delle colonne che circondavano il patio davanti al palazzo comunale.

Posando una mano sulla pietra, osservò il gruppo tornare a incamminarsi verso una nuova meta, e da lontano, riuscì a catturare brevemente lo sguardo di Jade.

In quella sfuggente frazione di secondo, poté vedere per la prima volta in modo limpido come sarebbe stata la sua vita senza di lui: in mezzo a Tori, a Cat e agli altri, non sarebbe mai stata capace di ridere a crepapelle o di entusiasmarsi per una sciocchezza, ma nella sua visione, almeno avrebbe potuto risparmiare a sé stessa di doversi tormentare e arrabbiare per ogni cosa che lui avrebbe detto o fatto.

“Mi dispiace.”

 

 

Come aveva facilmente previsto, quella notte, quando i numeri digitali sulla sveglia segnavano solo l’1.15, Beck si ritrovò di nuovo a fissare il soffitto della propria roulotte.

Si alzò faticosamente poco dopo e andò a sedersi al tavolino della cucina, facendo vagare lo sguardo fuori dalla finestra e la mente lungo vie tumultuose.

Tornò a rievocare la notte in cui lui e Jade avevano decidere di mettere la parola fine alla loro storia, da cui erano ormai trascorsi due anni, ma che era sempre rimasta radicata in qualche stanza nascosta delle loro menti.

Allora, pensò, avevano poco più di 16 anni ed erano riusciti a superarla insieme. Ma adesso erano cresciuti, e con loro erano cresciuti anche i problemi.

Fissando la luna piena disse a sé stesso, anzi, promise a sé stesso, che quella notte non sarebbe mai più dovuta accadere.

Erano però arrivati al punto di non ritorno, quello da cui, se avessero proseguito sulla stessa strada, avrebbero finito per cadere nel vuoto. Insieme, ma senza il lieto fine.

Fin dal principio aveva sperato potesse esserci un altro modo, ma per quanto avesse provato a cercarne, quella appariva ancora l’unica via d’uscita.

Non sarebbe stato semplice per nessuno, ma era la cosa giusta da fare.

Per il bene di entrambi.

Perché la amava, e in fondo questo era tutto ciò che gli importava.

 

 

Era passato un altro giorno dalla serata in piazza, e Beck e Jade continuavano a non parlarsi e a ignorarsi.

Certo, frequentavano ancora lo stesso gruppo, ma era come se i due si conoscessero a malapena, evitando per quanto più possibile di rivolgersi la parola o anche solo di scambiarsi un’occhiata.

E il motivo era diametricalmente opposto: Jade, per far del male a lui, e Beck, per cercare di non causarne altro.

Quella mattina, Beck uscì con una scusa dalla classe e andò spedito a cercare Sikowitz, dal quale ancora non filtravano novità in merito ai casting.

Dopo aver percorso qualche corridoio vuoto, lo trovò vicino al distributore. - Sikowitz. -

- Che succede, Beck? -

Il canadese arrivò faccia a faccia col professore. - Volevo parlarle delle audizioni… -

- Sputa il rospo. -

- Volevo solo dire che non è giusto che vada così per Jade. -

- Cosa? - chiese Sikowitz, forse fingendo di non aver capito.

- Non so quali siano le vostre decisioni, ma non dovete scartare Jade solo per colpa mia. Fate fuori me, se volete, ma non lei. Lei è pronta per quella parte, è perfetta, e, mi creda, la vuole più di qualsiasi altra cosa. -

- Ciò che è accaduto sul palco è inaccettabile, lo sai, vero? -

- Sì, lo so. -

- Bene, allora… - l’insegnante si guardò intorno. - Non dovrei rivelarti niente, ma… in realtà siete stati selezionati entrambi. -

Beck rimase per qualche istante a bocca aperta e con un'espressione tutt'altro che intelligente, per quanto gli sembrava improbabile. - Sta scherzando? -

- Per niente! Ci sono stati dei pareri contrari, non lo nego, ma la maggioranza era con noi. Ed è stato proprio per quello che avete portato sullo stage che vi abbiamo scelto. Di qualunque cosa si trattasse, avete messo una tale passione e una tale intensità nella recitazione che non potevano non essere tenute in considerazione. E’ questo lo spirito che cerchiamo, il vero teatro, un’interpretazione nuova del ruolo. -

Beck faceva ancora fatica a crederci e a trovare le parole. - Grazie. - riuscì a mormorare.

- Lascia però che ti faccia una domanda, Beck. - l’espressione di Sikowitz si fece più seria. - Le cosa tra te e Jade non stanno andando bene, vero? -

Beck cercò di mascherarlo, ma si ritrovò sbalordito per la seconda volta in pochi minuti. Non aveva mai pensato che quello strano ed eccentrico professore potesse rivelarsi anche così sveglio e arguto da arrivare a comprenderlo prima degli altri. - No. -

 

 

Subito dopo pranzo, Beck inventò un’altra scusa per ottenere un certificato e lasciare la scuola alcune ore prima.

Aveva una destinazione da raggiungere.

Guidò fino ad un piccolo quartiere nella zona ovest di Los Angeles, non molto lontano dalla Hollywood Arts. Parcheggiò l’auto vicino ad una casa di riposo per anziani, e raggiunse il cortile interno di un complesso di appartamenti dai colori sgargianti.

Passò accanto alla fontana che occupava metà del vialetto e arrivò a bussare al civico 22.

Dall’interno della casa, udì una serie di tonfi seguiti poi da uno strillo: - Giuro che se hai di nuovo dimenticato le chiavi… -

La porta si spalancò violentemente e una ragazza, dai riccioli biondi e indomiti a coprirle le spalle, apparve sulla soglia, mostrandosi allo stesso tempo stupita e delusa dalla visione di chi aveva davanti. - Ah, non sei Cat… -

Beck sorrise. - No, anche se alcuni sostengono che le somiglio parecchio. -

- Sei venuto a portare qualche ragazzino da accudire? -

Il ragazzo scosse la testa, continuando a ghignare. - No. -

La bionda fece una smorfia di sufficienza. - E allora chi saresti? E perché mi hai disturbato mentre stavo mangiando gli spaghetti? -

- Chiedo scusa. -

Lei lo guardò un po’ meglio. - Aspetta, io ti conosco. - squillò all'improvviso. - Sì, tu sei uno degli amici di Cat! Ma com’è che ti chiami? No, aspetta, lo so. Ben? -

- E’ Beck, in realtà. -

- Ok, se lo dici tu… -

Beck sospirò silenziosamente. - E tu devi essere Sam. -

- Sei sicuro che di nome non fai “Sherlock Holmes”? Comunque, se stai cercando Cat, adesso è a scuola… - si interruppe. - Non dovresti starci anche tu? -

- E tu? - replicò pungente lui.

- Touchè. -

Beck si sporse leggermente in avanti. - Posso entrare? -

- Se proprio ci tieni... - Sam gli voltò le spalle e ritornò verso il bancone della cucina, dove ad attenderla c’erano ancora spaghetti e polpette.

Beck la seguì all’interno, dandosi un'occhiata intorno e studiando quel bizzarro arredamento.

- E chiudi la porta, non voglio che qualche moccioso metta piede qua dentro. Hai sete? -

- E’ piuttosto caldo fuori, perciò direi di sì. -

Sam, brandendo la forchetta, si rituffò nel suo piatto, a quanto pare decisamente più interessante dell’ospite. - Pure io. Prendimi una bottiglia di aranciata dal frigo. -

Beck scosse la testa e scoppiò in una breve risata, prima di eseguire comunque l’ordine. Probabilmente non avrebbe mai capito come facesse Cat a vivere insieme ad una ragazza che assomigliava così tanto ad un uragano.

Si tolse il giubbetto di jeans e si accomodò sul divano. - A dire il vero non sono qui per Cat, ma per te. -

Sam si girò di scatto. - Perché, vuoi vendermi qualcosa? - bofonchiò con la bocca piena di carne.

Beck trasse un profondo respiro e pensò accuratamente da dove iniziare. Sarebbe stata una conversazione molto importante, e aveva bisogno di qualche risposta. - Tu non sei originaria di Los Angeles, giusto? -

- No. - rispose la bionda, tornando subito a concentrarsi sugli spaghetti, dato che quella domanda non sembrava averla incuriosita più di tanto.

- Cat mi ha detto che vivevi a Seattle. -

Sam lasciò cadere la forchetta nel piatto: adesso l’aveva colpita in pieno. Si voltò nuovamente verso Beck fissandolo e chiedendosi dove volesse arrivare. - Sì, è così. Hai per caso letto il mio fascicolo? - aggiunse poi sarcastica.

- E com’era? -

Lei, confusa, aggrottò lievemente la fronte. - Che vuoi dire? Tipo… il tempo? -

- Sì, qualcosa del genere… - balbettò, scoprendosi stranamente a disagio. - Sai, Cat, dice che ne parli sempre in ottimi termini, così mi stavo chiedendo… -

- Beh, non è afosa come qui, quindi posso affermare che è migliore di Los Angeles per tutte le stagioni. -

Un fiume di parole iniziò subito dopo a scorrere nelle orecchie attente di Beck. Sam si lasciò andare ad un lungo e intenso racconto su Seattle, come se finalmente potesse liberare una parte di sé che era rimasta intrappolata per tanto tempo.

Parlò di cosa aveva rappresentato per lei quella città, dei suoi amici, delle loro storie e delle loro avventure, e di quanto ancora, a volte, ne sentisse fortemente la mancanza.

Quando poi nella stanza ripiombò il silenzio, Beck annuì, pensando a come Cat avesse ragione: a sentire Sam, Seattle sembrava davvero un bel posto.

- E com'è stato quando hai deciso di andartene? -

 

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Capitolo 5
*** V - High above the heart ***


V - High above the heart



Si sentiva come un falco solitario che, posatosi sul tetto del palazzo, osservava attentamente l’orizzonte aspettando la prossima mossa.
Dal terrazzino sopraelevato che si affacciava sull’area pranzo, appoggiato alla ringhiera di metallo, Beck fissava distrattamente le file di studenti che passavano sotto di lui.
Voci, risate e schiamazzi lo circondavano su quella piattaforma, ma col passare dei minuti, i rumori erano diventati irrilevanti al punto da farlo sentire veramente solo.
L’interesse non riusciva ad andare oltre la balaustra, e in quel momento, dove fossero i suoi amici, cosa stessero facendo o cosa stesse succedendo, aveva poca importanza.
Non poteva dire di non averci pensato.
Aveva trascorso le ultime due notti in bianco a camminare tra i prati ponendosi migliaia di domande, a cui però ogni volta aveva dato una risposta diversa.
La confusione regnava ormai sovrana nella sua testa, andando ad offuscare anche quell’ultimo piccolo barlume che poteva dirgli cosa fare.
Aveva cercato di capire perché continuasse a cambiare versione, se fosse perché aveva perso sicurezza, perché sperava esistesse un’altra soluzione, o semplicemente perché aveva paura di guardare in faccia la realtà e preferiva continuare a mentire a sé stesso.
Dal nulla tornarono nuovamente a galla le parole di Sam di un paio di giorni prima, che gli avevano dato, per la prima volta, l’impressione di poter vedere al di fuori di un’altra finestra che fino ad allora era rimasta sbarrata.


- Com'è stato quando hai deciso di andartene? -
Sam lo aveva guardato fisso, con un’ombra opaca negli occhi. - Non è stato facile come credevo. Pensavo che sarebbe bastato saltare su quella moto, superare qualche semaforo rosso, imboccare l’autostrada e proseguire finché le ruote e le guarnizioni avrebbero retto, ma non è stato così.
Non mi sono lasciata alle spalle solo il cartello di Seattle, ma un’intera città, quella che mi ha osservata, sopportata e cresciuta.
Una famiglia, degli amici, che non ho nemmeno salutato.
E perché tu lo sappia, Beck, non ho deciso io di lasciare Seattle.
Ci sono stati troppi fattori che mi hanno costretto a farlo. -

Beck fu riportato alla realtà quando il flusso dei pensieri fu interrotto da un semplice movimento, che in qualsiasi altro istante avrebbe potuto tranquillamente perdersi in mezzo alla folla, ma che riuscì ad attirare la sua attenzione.
Jade, e non avrebbe potuto essere altrimenti.
Mentre attraversava da sola la piazzetta fu avvicinata alle spalle da Sikowitz, che la costrinse a fermarsi proprio di fronte al tavolo in cui solitamente mangiavano.
La ragazza passò immediatamente a quella che a Beck parve un’aria piuttosto adirata, almeno da quanto poteva affermare da quella distanza.
Sikowitz ispezionò i dintorni un paio di volte, come se, pur in mezzo a decine di altri studenti, non volesse farsi sentire.
Esattamente come aveva fatto con lui qualche giorno prima, pensò Beck.
Rimase a guardarli conversare per diversi minuti, e sebbene sapesse già perfettamente di cosa si trattava, cercò comunque di cogliere qualche impressione più precisa.
Al termine le strade dei due si separarono, con Sikowitz che tornò verso l’ingresso della scuola, e Jade che riprese per la sua direzione.
E fu allora, quando Beck poté vederla nitidamente in faccia, che un altro particolare gli fece perdere un battito al cuore.
Un solo, piccolissimo dettaglio, ma talmente raro e magnetico da non riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
Perché quando rideva, Jade diventava ancora più bella.
Un sorriso macchiato dalla malinconia si allargò timidamente anche sul volto di Beck.
Almeno, qualcosa di buono per lei alla fine era riuscito a farlo.
 
 
La notizia dell’assenza del professore di musica subito dopo pranzo, con conseguente ora vuota, era stato un piacevolissimo fulmine a ciel sereno.
Gli studenti, accompagnati da un inutile supplente, erano stati portati comunque nella sala degli strumenti. Alcuni si erano si erano persi tra le chitarre, altri tra trombe e tamburi, mentre c’era l’irriducibile gruppetto che se ne stava vicino alla porta, impaziente di uscire da lì.
Tori e i suoi amici, invece, si erano raccolti attorno all’unico pianoforte della stanza, sul quale Andre stava provando delle melodie.
- Dite che lascerebbero suonare o cantare qualcosa dopo lo spettacolo? - chiese il ragazzo, finito il pezzo.
- Intendi qualcosa di proprio? - cercò di capire Robbie.
- Sì. -
- Magari, sarebbe un sogno! - squillò Cat, suscitando un’occhiataccia del supplente, seduto dall’altra parte del locale.
- Se continuano a tenerci all’oscuro di tutto, però, finisce che scopriremo la sera stessa a che ora dobbiamo presentarci. - commentò Beck.
- L’importante è che sappiamo tutti l’esito dei provini. - fece Tori, rivolgendosi poi a Jade. - Tu sai qualcosa? -
La ragazza annuì ostentando sicurezza. - Sikowitz me ne ha parlato giusto poco fa. Ho avuto la parte. -
- Ma è fantastico! -
- Poco entusiasmo, Vega. - la fulminò Jade. - Eri l’unica ad avere ancora dubbi. -
- Non è vero! - protestò, per poi realizzare che discutere sarebbe stata una causa persa. - Comunque mi sembra sia andata bene per tutti, giusto? -
- Non per tutti. - disse Jade con un filo di voce, e indicando con la testa Robbie e Cat.
Il giovane si mise dritto sulla sedia. - E invece ti sbagli. Non avremo ottenuto ruoli importanti come i vostri, ma ci saremo anche io e Cat. Sikowitz ci ha trovato dei lavoretti nel backstage. -
- Ecco, così il pubblico non dovrà vedervi. Bel lavoro, prof. - commentò con maligna ironia la dark.
Tori fece un sobbalzo, folgorata da un’illuminazione. - Che ne dite di organizzare una festa? Stasera, a casa mia! -
Andre sollevò un sopracciglio. - Sei convinta di riuscire a preparare tutto in così poco? -
- Mica ho detto di voler invitare tutto l’istituto. Solo coloro che avranno una parte nello spettacolo. Sarà come un anticipo di quella meravigliosa notte! -
- Un po’ narcisista, ma io ci sto. - alzò la mano l’amico, seguito subito da Robbie, Cat e Beck.
- Io non vengo. - sibilò Jade.
- Perché? - ribatté Tori, offendendosi.
- Non ho intenzione di perdere tempo in mezzo a gente che non mi interessa. -
Beck si sporse delicatamente verso di lei. - Andiamo, Jade… -
Prima che lei potesse aprire bocca, alle spalle di Andre spuntò un elettrizzato Sinjin. - Stavate parlando dei provini, vero? Sapete già qualcosa? Come sono andati? Vi hanno preso? Sapete se hanno preso anche me? -
- Certo, Sinjin. - gli rispose calma Jade, portandolo a illudersi per un secondo. - Sei stato preso per fare da scalino sotto al palco. -
Il sorriso sul viso del ragazzo sparì immediatamente. - E ora sparisci! - fu cacciato infine in malo modo.
Dopo l’inopportuna interruzione, Andre riprese a suonare, riportando un po’ di calma.
- E va bene, lasciamo gli sfigati a casa. - fece Jade, il cui tono sembrava stesse facendo loro un favore. - Ci sarò anch’io. -
 
 
Tori era riuscita incredibilmente a mantenere la parola. Alle 7 in punto, dentro casa sua c’erano quasi cinquanta persone, impegnate a spassarsela, a parlare e a bere.
La cucina era diventato un angolo ristoro, con il bancone interamente coperto di vassoi e brocche colme di bevande, mentre il soggiorno era stato sgombrato e reso un’ampia pista da ballo.
Cercando di farsi spazio tra la confusione per farsi notare, Trina andò inavvertitamente a sbattere contro Robbie, rischiando di abbatterlo.
- Ehi, stai attenta! - la riprese il ragazzo, risistemandosi gli occhiali.
- Stai attento tu, sfigato! - urlò ancora di più lei, cercando di sovrastare la musica.
- Uno sfigato che però ha più motivo di te per essere a questa festa! -
- Questa è casa mia! Che diavolo di motivo vuoi? -
- Il fatto che io avrò un ruolo nello spettacolo di fine anno, mentre tu te ne starai seduta a cercare di imparare qualcosa! -
- Ma come ti permetti? - sbraitò Trina, voltandosi verso la sorella, che stava ballando vicino a loro insieme ad Andre e Beck.
Tori fece una timida smorfia. - Non ha tutti i torti, Trina… -
- Lo dite voi che non sono stata scelta! Avrò anch’io una parte! Lo vedrete, non esisterà lo spettacolo senza Trina Vega… - quando si accorse che gli altri la stavano fissando con supponenza, mentre accampava ridicole scuse, sbuffò e scappò gesticolando nervosamente su per le scale.
Andre scoppiò a ridere. - Ma tu guarda il nostro Robbie, che riesce a mettere in fuga quella scimmia urlatrice di Trina! Senza offesa per tua sorella, Tori… -
La ragazza scosse la testa sorridendo. - Stasera va bene così. -
Il ragazzo si rivolse poi a Beck. - Ed è quando Robbie comincia ad avere ragione che bisogna preoccuparsi. -
Il canadese gli rispose con un sorrisetto condiscendente, sebbene avesse seguito circa metà della vicenda. E neanche gli importava, a dire la verità.
Quella sera aveva solo voglia di divertirsi, e di svagare il più possibile uno spirito che si era appesantito giorno dopo giorno.
Riprese a ballare con i suoi amici, mentre la musica pop di una boy band semi-sconosciuta si scatenava a volume così alto da coprire anche le voci dei propri pensieri.
 
 
Si riempì nuovamente il bicchiere di liquore agli agrumi e buttò giù immediatamente un sorso, guardando fisso davanti a sé in direzione della pista.
Si sentiva un po’ stanco, dopo un paio d’ore a ballare, e probabilmente anche per l’alcol che aveva iniziato a circolare nel sangue, ma non gli interessava.
Ecco cosa gli serviva: una serata come questa, senza ulteriori drammi.
Prima che se potesse accorgere, si ritrovò Andre vicino, intento ad allungare le mani su uno dei vassoi. L’amico si cacciò in bocca una manciata di snack e si appoggiò con la schiena al bancone, accanto a lui.
- Bella festa, eh? -
- Già. -
Andre gli lanciò un’occhiata inquisitoria. - Ti stai divertendo? -
- Certo. -
- No, tu stai solamente cercando di farlo. -
Beck si bagnò la gola, diventata improvvisamente secca. - E cosa cambia? -
Andre gli diede una leggera pacca sulla spalla e lo invitò a guardare alla sua destra, a una decina di metri da loro.
Lo sguardo di Beck si focalizzò su una ragazza, sola, in piedi davanti ad un altro tavolo, col bicchiere in mano e un’aria seria e impenetrabile.
Era in totale contrasto con l’ambiente, ma forse fu proprio questo a conferirle quel bagliore particolare che parve accecarlo ancor più delle luci da discoteca.
- Lei. - chiuse Andre. - Ecco cosa cambia. -
 
 
In quei pochi metri di distanza, sentì lo stomaco contorcersi almeno tre volte, come se si fosse messo anche lui a ballare al ritmo di quella musica pop assordante.
Mentre si avvicinava lentamente al tavolo, si accorse di come Andre avesse ragione, ma soprattutto, di come avesse sempre omesso un piccolo particolare in ogni ragionamento che aveva fatto sinora.
Perché non poteva esistere pensiero, volontà o decisione senza di lei.
La raggiunse, rafforzando la presa sul bicchiere. - Ehi… - iniziò come farebbe un ragazzo al primo approccio.
Jade non sembrò degnarlo di uno sguardo. Bevve un sorso e continuò imperscrutabile a guardare gli amici agitarsi in pista.
- Tori è riuscita ad organizzare una bella festa, vero? - insistette, posizionandosi di fianco a lei e cercando di individuare lo stesso punto che stava fissando.
- Sì, stavolta è riuscita a fare qualcosa di buono. - Il tono non tradiva emozioni. Era fermo, severo, glaciale, come una dura corazza.
- Vuoi ballare? -
- No, preferisco ascoltare la musica. -
- Non sapevo ti piacesse questa band. -
- Infatti non mi piace. -
Beck si voltò verso di lei, in un movimento che racchiuse tutta la delusione che aveva addosso.
- Perché stai facendo così? -
Jade strinse il bicchiere tra le mani. - Che intendi? -
- Perché te ne stai qui, da sola, lontana da tutti noi? -
- Perché tre quarti della gente che c’è stasera neanche la conosco! Quello là, per esempio… - fece, indicando un tizio con i riccioli color carota e una camicia a quadretti bianchi e blu. - … chi diavolo è? -
Beck si lasciò sfuggire un sorriso. In effetti, per lei che già faceva fatica a stare col gruppo che conosceva ormai da anni, sperare che in una sera facesse amicizia con altri sarebbe stata una pretesa decisamente fuori portata.
- Ma soprattutto… - finalmente Jade si girò, permettendo a Beck di ammirarle gli occhi. - Cosa te ne importa? -
Il viso del ragazzo si rabbuiò nuovamente a quell’accusa. - Mi importa eccome. Sai benissimo quanto tengo a te. Adesso potrei essere in mezzo alla sala a ballare e a fare finta di nulla, ma se sono qui, è perché non voglio vederti in questo modo. -
Fece una pausa, forse sperando in una risposta da parte di lei, invano.
- Perché ci stiamo comportando così? - ancora nessun segnale da parte sua, che nel frattempo aveva distolto lo sguardo. - Non possiamo continuare a parlarci come fossimo due estranei. Perché nonostante tutti gli errori, non lo saremo mai. -
Beck svuotò il bicchiere e lo posò sul tavolo. - Mi sei mancata. - disse con sicurezza, prima di allontanarsi lasciandola nel silenzio che si era instaurato tra loro, e che nemmeno la musica riusciva a spezzare.
O aveva colpito duro, o stava gettando tutto dalla finestra.
 
 
Superata da poco la mezzanotte, i balli lasciarono via via il posto ai saluti degli amici, e la musica al frusciare dei rifiuti raccolti per terra e delle sedie rimesse a posto.
Ultimi superstiti di una bella serata, i sei amici si ritrovarono sulla soglia a parlare prima di dirigersi ai propri mezzi.
- Ben fatto, Tori. - fece Andre. - Hai organizzato proprio una festa straordinaria! Non saremo stati a centinaia, ma sono convinto che domani ne parleranno ancora. -
- Grazie. - rise l’amica, appoggiata alla porta.
- Io avrei voluto non finisse mai! - affermò Cat.
Robbie scosse la testa sconsolato. - Magari. Peccato che domani ci aspetti la scuola. -
- Se domattina abbiamo un’altra ora della Hawkes, - protestò Tori - giuro che questa è la volta buona che mi addormento pure io. -
Andre si sporse con la testa verso l’interno della casa. - Non è che ti è rimasto un po’ di quel liquore agli agrumi, Tori? Portiamolo alla prof, magari rendiamo la lezione più interessante…-
Scoppiarono le risate e la conversazione continuò per qualche altro minuto, prima che la ragazza chiudesse l’uscio e desse loro la buonanotte.
I ragazzi si incamminarono lungo il vialetto prima di dividersi, chi verso l’auto, chi verso la bicicletta, chi semplicemente a piedi, come Cat.
Dopo aver salutato gli altri, Beck estrasse le chiavi della GTO dalla tasca e proseguì per il parcheggio.
- Mi accompagni a casa? -
Il suono di quella voce, nel silenzio dell’oscurità, lo raggiunse come un cantico lontano e lo immobilizzò, mentre il cuore veniva irresistibilmente attratto e prendeva a battere a mille.
Si girò affondando le dita nel metallo che teneva nella mano.
Jade era lì, a fissarlo con quei suoi occhi sempre più belli e profondi.
Beck abbassò lo sguardo sulla chiave e un sorriso uscì spontaneo, consapevole che quelle parole, brevi ma a loro modo così complicate, volevano dire molto di più.
- Andiamo. -
 
 
La Pontiac procedeva solitaria lungo le strade colpite dalla luce fioca dei lampioni, facendo echeggiare tra i palazzi lo slittare degli pneumatici sull'asfalto umido.
Non una sola parola circolava nell'abitacolo.
Mantenendo salda la presa sul volante, Beck cercò di riportare la concentrazione sulla guida, e di distoglierla dal fatto che in quel momento lui e Jade si trovassero più vicini di quanto lo fossero mai stati negli ultimi giorni.
Cedette di nuovo, ritrovandosi a voltarsi alla sua destra.
Scoprì che era tutto inutile, perché come ogni volta da quanto erano partiti, poté notare solo lo sguardo inquieto e inafferrabile di Jade vagare fuori dal finestrino e scrutare la città.
Ciò che però lei non avrebbe potuto nascondergli, per quanto ci stesse provando, era quell'aria pensierosa che la stava avvolgendo.
Beck la osservò un'ultima volta, prima di affondare il piede sul gas.
Solo lui sapeva quanto e cosa avrebbe dato per poter essere almeno uno di quei pensieri.
 
 
Fermò la macchina esattamente davanti al vialetto di casa sua, lasciando che i fari si spegnessero lentamente così come il cuore tentava di rallentare.
Smontò per primo e fece il giro della vettura, andando ad aprirle lo sportello in un impeto di galanteria che, si accorse, raramente aveva esibito.
La accompagnò in silenzio lungo la stradina lastricata, forse chiedendosi se davvero valeva la pena tenere accesa quella flebile speranza.
Perché in realtà, lui per primo non sapeva cosa poter pretendere da quella serata.
Andava già bene così, e non c’era bisogno di complicare sempre le cose.
Giunsero all’ingresso, e come vide Jade infilare la chiave nella toppa, Beck si sentì pronto a ricevere nient’altro che un freddo congedo e la porta in faccia, pur sapendo che non sarebbe stato facile accettarlo.
Ma, ancora una volta, si rese conto di aver sbagliato i calcoli, quando si trattava di lei.
Si sorprese nel vedere che, invece di cacciarlo come un cane, Jade era entrata lasciando la porta aperta, e soprattutto, senza preoccuparsi che lui fosse lì.
Che fosse per sfidarlo o meno, non gli importava. Istintivamente, varcò la soglia.
Approdò nel soggiorno, ritrovandosi puntati addosso gli occhi di Jade che, immobile al centro della stanza, lo stavano fissando.
Uno sguardo strano e intenso, indecifrabile e imprevedibile.
Uno sguardo che gli stava bruciando la pelle.
Interminabili istanti in cui i dubbi di entrambi tornarono a urlare forte nelle loro menti, costringendoli a rimanere lì, uno di fronte all’altra, forse troppo spaventati per fare la prima mossa.
“Così non serve a nessuno”, pensò Beck, prima di lasciarsi andare ad un sospiro che sanciva la fine della serata.
- Buonanotte, Jade. -
Non aspettò neanche di scoprire se lei avesse una risposta, si allontanò verso l’ingresso, combattendo la voglia di voltarsi indietro, e afferrò amaramente la maniglia.
Ma come schiuse la porta di qualche centimetro fu assalito da un’esitazione, fondamentale, affinché la voce alle sue spalle lo fermasse in tempo.
- Beck… -
Si bloccò sulla soglia, cogliendo tutta l’incertezza che tingeva il tono di Jade.
- Rimani qui, stanotte? -
Le dita premevano sul legno ruvido, mentre lui si perdeva ad osservare ciò che lo avrebbe atteso fuori, e smetteva di ascoltare i suoi pensieri.
Quella porta aperta, quel vialetto immerso nell’oscurità che si estendeva all’orizzonte, e la sua auto parcheggiata in fondo ad esso, sembravano solo aspettare una sua scelta.
Lanciò un’ultima occhiata alla Pontiac, prima di lasciarla al di là delle mura della casa di Jade, e di dare alla città appuntamento per la mattina dopo.
 
 
Un’esaltata Cat fece il suo ritorno a casa, accolta dall’indifferenza di Sam che, sdraiata sul divano, stava guardando un programma alla tv.
- Hai fatto tardi. - la prese in giro.
La rossa aggrottò teneramente la fronte, risentita. - Anche tu sei ancora alzata. -
- Sì, ma io domani non devo andare a scuola. -
- Giusto… - ammise rassegnata. - Piantala, però, sembri la nonna. -
Quando Sam si girò svogliatamente verso di lei, si accorse che respirava affannosamente. - Perché hai il fiatone? Hai corso fino a qui? -
- No, è che era noioso camminare da sola di notte, così ho fatto la strada saltellando su un piede. -
Sam sorrise e, scuotendo la testa, tornò al suo show. - Com’è andata la serata? -
Cat si incamminò verso la camera zoppicando leggermente, ma col sorriso stampato in viso. -
Fantastica. La festa è stata stupenda, io e i miei amici ci siamo divertiti un sacco! -
- A proposito di amici… - la fermò Sam, alzando la mano oltre la spalliera. - L’altro giorno è passato a trovarci uno di loro. Ben, mi sembra. -
Cat tornò indietro di un paio di passi. - Beck, forse? -
- “Beck”, sì, e io che ho detto? -
La rossa fece il giro del divano per essere faccia a faccia con l’amica. - Perché non me l’hai detto prima? -
- Non mi sembrava così importante da dovermelo ricordare. -
- Grazie tante. E comunque, perché era qui? -
Sam si tirò su con l’agilità di un mastodonte. - Se devo dirti la verità, non ne ho idea. Ha cominciato a fare domande strane… -
Le raccontò del loro incontro e della loro conversazione, di ciò che Beck voleva sapere, e di ciò che Sam gli aveva rivelato.
Al termine della spiegazione, la bionda vide Cat scappare spedita verso la camera. - Dove stai andando? -
La voce allarmata della ragazza sfumò oltre la parete. - Devo chiamare Jade. -
 
 
La colonna sonora di uno sconosciuto film dell’orrore invase la stanza, rompendo la quiete in cui era calata.
Il telefono sul bancone della cucina continuava a squillare ininterrottamente, destinato però a restare inascoltato per tutta la notte.
La suoneria non avrebbe raggiunto la camera da letto, dove, lontano dal resto del mondo, i due avevano ceduto alla passione.
Niente più domande, niente più pensieri, solo l’abbandonarsi al più naturale degli istinti: amarsi.
Assaporare ogni istante, ogni contatto, ogni bacio e ogni carezza che andava a riempire quella spaccatura che gli ultimi giorni avevano provocato.
Sentire chiaramente il gusto delle labbra e gustarle avidamente, mentre lui l’afferrava vigoroso e lei sentiva un brivido correrle lungo la nuda e candida schiena.
Sdraiati sul letto i corpi si avvinghiavano e si univano come in un quadro rinascimentale, mentre i respiri si mescolavano e i cuori sembravano battere all’unisono.
E quando il cellulare emanò l’ultimo squillo prima di tacere, la barriere tra loro caddero definitivamente, come i vestiti sul pavimento.
 

 

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Capitolo 6
*** VI - Breakdown ***


VI - Breakdown



Aveva pensato che la sua presenza potesse servire a qualcosa, e invece neanche averla al suo fianco era bastato a farlo riposare bene.
Se n’era accorto quando, aprendo a fatica gli occhi, aveva notato uno stretto fascio argenteo filtrare attraverso la tenda e allungarsi fino alla parete opposta, tagliando in due la camera.
Muovendosi in silenzio nella luce soffusa, si alzò e si avvicinò alla finestra, ad osservare la città che ancora si cullava in un sonno profondo.
Poi si girò verso Jade. “Dio quanto è bella”.
Aveva un’aria serena mentre dormiva, i capelli corvini a coprirle le spalle nude ed il lenzuolo fino alla base della schiena.
Appoggiò rattristato la testa al vetro.
Nel momento in cui l’aveva fatta nuovamente sua, la sera prima, ci aveva creduto davvero. Aveva sperato che potesse aiutarlo a fare chiarezza in mezzo alla foschia, e invece non aveva fatto altro che confondergli ulteriormente le idee.
Aveva fatto la cosa giusta?
Aveva appena vissuto la notte più bella della sua vita, in cui aveva ritrovato quella complicità con Jade che mancava da troppo tempo, l’aveva sentita vicina come la prima volta, ed entrambi avevano dato all’altro tutto ciò che avevano dentro.
L’aveva vissuta come se fosse l’ultima.
E se dovesse davvero essere l’ultima?
Fu assalito da un’ombra di insicurezza, quando la vide come un nuovo inizio.
Poteva significare trovare un nuovo equilibrio per loro, ma quanto sarebbe durato?
Cosa sarebbe successo la prossima volta che avrebbero litigato?
Cosa sarebbe successo se uno dei due ne avesse avuto abbastanza?
Quante altre volte avrebbero avuto la forza di raccogliere e rimettere insieme i pezzi della loro storia?
Vagò ancora con lo sguardo tra i palazzi e il cielo.
Non aveva idea di cosa fare, ma qualsiasi cosa avrebbe deciso, sapeva che sarebbe stata sbagliata.
Come poteva farle una cosa del genere, adesso che forse avevano ritrovato la felicità?
Si voltò di scatto verso di lei, e non avrebbe più voluto staccarle gli occhi di dosso.
Ecco qual era la parola chiave: felicità.
*****

Si ritrovò circondata da creature orrende e malvagie. Non ricordava come fosse arrivata lì, in mezzo a quel campo isolato da tutto.
Sentiva il terrore pervaderla, mentre osservava i tratti demoniaci degli esseri che si avvicinavano a lei con aria famelica.
Un attimo dopo, emettendo latrati agghiaccianti, le furono addosso, intrappolandola e cercando di strapparne una parte ciascuno.
Stava arrivando la fine…
Si accorse di stare sognando, ma fu quando davanti agli occhi le si parò il viso della sorella, che Tori scoprì che purtroppo la realtà non era così diversa.
- T-Trina? - balbettò cercando di capirci qualcosa, mentre l'altra continuava a strattonarla.
Si tirò su a fatica e, dopo aver acceso a tentoni la lampada sul comodino, la vide accovacciata a fianco del letto. - Si può sapere che vuoi? Sono... - guardò la sveglia. - … le tre del mattino! -
- Devi rimettere in riga Robbie, hai capito? - le intimò Trina, piuttosto esagitata.
Tori si strofinò le palpebre. - Ma di che stai parlando? -
- Non si deve più permettere di rivolgersi a me in quella maniera, è chiaro? Io non rimarrò fuori dallo spettacolo! -
- Sì... no... ma che ne so? - farfugliò Tori ributtandosi sul cuscino.
Trina la scosse nuovamente. - Io non posso restare senza un ruolo! Sono troppo brava! -
- Ma se sei stata pure bocciata un anno... -
- Io non sono stata bocciata! Mi sono... presa una pausa alla ricerca dell'ispirazione. -
- Come vuoi... adesso lasciami in pace. -
- Non vorrai mettermi sullo stesso piano di Sinjin! -
Tori, esasperata, fece un lungo sospiro. - Quel ragazzo è senza speranze. Sembra che invece di andare avanti, torni indietro ogni anno. Quello non esce più dalla Hollywood Arts... -
Trina ripartì all'attacco. - Parlerai a Sikowitz? -
- Sì, sì... domani… - l'accontentò girandosi dall'altra parte e spegnendo la luce.
Non ci pensava minimamente, ma qualsiasi cosa pur di ricominciare a dormire.
*****

Non erano neanche le 6 quando Sam, indossando la coperta sulle spalle a mo’ di cappotto, entrò in cucina.
Ancora visibilmente assonnata, si stupì a vedere Cat che, già in piedi e vestita di tutto punto, stava leggendo una rivista sul bancone.
- Che ci fai alzata a quest’ora? - le chiese schiarendosi la gola.
Cat sollevò la testa con aria assorta. - Non riuscivo a dormire. E tu? -
Sam proseguì verso la dispensa. - Mi era venuta fame. -
Afferrò un paio di merendine dal mobiletto, si stropicciò gli occhi, e scartò la prima. Si sedette di fronte all’amica. - Pensi ancora a ieri sera? -
Cat chiuse la rivista e la spostò lungo il piano. - Sì, è per Jade. -
- Sei riuscita a parlarle? -
- No, ho provato a chiamarla più volte, ma non mi ha mai risposto. -
- Avrai modo di farlo oggi a scuola, se proprio vuoi. - notò che Cat aveva iniziato a giocherellare nervosamente con l’angolo della pagina. - Credi davvero che sia così importante? -
- Non lo so, ma non sono tranquilla. -
*****

Al suo risveglio, non avrebbe potuto aspettarsi visione migliore.
Si ritrovò ad ammirare il suo ragazzo a torso nudo mentre rovistava tra i vestiti in cerca della maglietta che indossava la sera prima.
- Ciao. - gli sussurrò tirando su la testa dal cuscino.
Beck se ne accorse e, sorridendole di rimando, si avvicinò al bordo del letto e le lasciò sulla labbra un dolce bacio. - Buongiorno, tesoro. -
Mentre lo osservava, Jade si appoggiò con la schiena alla spalliera e aggrottò la fronte. - Che stavi facendo, te ne stavi andando? - guardò l’orologio che stava segnando le 7.15. - Non andiamo a scuola insieme? -
Lui finalmente trovò la maglietta e la indossò. - Stamattina entro più tardi. Devo passare a casa a sbrigare un paio di faccende. Scusami. -
- Ok… -
Quando Beck notò che la risposta era stata tutt’altro che convinta, si sedette accanto a lei e la baciò di nuovo, stavolta con molta più passione. - Ti amo. - le bisbigliò all’orecchio, prima di alzarsi e dirigersi alla porta.
- A dopo. - lo fermò sulla soglia. Lui si voltò, e l’unica risposta che riuscì a darle, fu un sorriso carico di tanti significati.
*****

Dicono che solo quando arrivi a perdere una persona, capisci quanto realmente tenevi a lei.
Stavolta era stato diverso.
Aveva avuto bisogno di farla tornare tra le sue braccia, tanto vicina da poterla sentire respirare, per capire quanto gli fosse mancata ogni minuto.
Aveva avuto bisogno di dare un’occhiata al loro futuro insieme, per sapere quello che avrebbe voluto realizzare.
Non aveva riscoperto di amarla, quello no. Sapeva che non aveva e non avrebbe mai smesso di farlo, qualsiasi cosa accadesse.
Gli tornarono in mente una marea di frasi che lo avevano accompagnato negli ultimi giorni, sue, di Andre, di Sikowitz, di Jade, ognuna con il proprio significato.
Le parole gli cadevano addosso come le gocce d’acqua gli scalfivano la pelle.
Si era gettato sotto la doccia appena rientrato al caravan proprio per tenerle lontane, ma a quanto pareva non ci stava riuscendo.
Chiudendo l’acqua e uscendo dal bagno con un asciugamano, si chiese se ce l’avrebbe mai fatta.
Indossò un paio di jeans e una delle sue magliette preferite, e iniziò a passeggiare avanti e indietro col telefono tra le mani, passandoselo tra l’una e l’altra come fosse una pallina da tennis.
Alla fine, afferrò un biglietto che aveva abbandonato su uno scaffale e compose il numero.
- Ciao George, sono Beck, ci siamo sentiti un paio di giorni fa… Ti chiamo per quella sistemazione di cui avevamo parlato… -
*****

- Che Sikowitz sia in ritardo non è una novità, ma almeno oggi poteva risparmiarselo. - se ne uscì improvvisamente Tori, ottenendo parecchi cenni di assenso dai suoi compagni.
Molti degli studenti che gremivano l’aula di teatro stavano cominciando a spazientirsi.
Lo stavano aspettando da più di mezz’ora, nonostante fosse stato proprio l’insegnante a intimargli di essere puntuali e a porre una grande importanza a quell’incontro.
Girovagando come gli altri, Jade si guardò intorno per l’ennesima volta.
Beck non era ancora arrivato. Sapeva di doversi presentare lì?
Non ebbe il tempo di pensare ad una risposta, che Sikowitz fece finalmente il suo ingresso nella sala, portando sotto braccio una cartellina blu piena zeppa di fogli. - Prego, accomodatevi. - debuttò mentre saliva gli scalini per il palco, indicando loro le file di sedie disposte davanti ad esso.
Mentre si accodava a Tori e Andre per prendere posto, Jade fu avvicinata da Cat. - Jade, posso parlarti un attimo? -
- Sedetevi, ragazzi. - ordinò il professore, aprendo la cartellina sul tavolo e prendendo alcune carte.
- Non adesso, Cat. - la liquidò Jade in maniera sbrigativa, passandole oltre per andare a sedersi.
Appena furono tutti pronti, Sikowitz annunciò con aria fiera: - Vi ho fatti venire qui perché oggi vi comunicherò ufficialmente i risultati delle selezioni per lo spettacolo di fine anno! -
Partì immediatamente il brusio di sottofondo, tra sospiri e pacche sulle spalle.
Jade si voltò verso il fondo della stanza: di Beck ancora nessuna traccia.
In effetti non lo aveva più visto da quando era uscito quella mattina. Aveva avuto l’impressione che si comportasse in modo un po’ misterioso, ma che accidenti stava combinando?
Intanto Sikowitz continuava. - Quando faccio il vostro nome, venite qui sul palco. -
Jade estrasse il cellulare e, senza neanche preoccuparsi di farsi vedere, scrisse rapidamente il messaggio.
“Ma dove sei?”
Il professore prese il primo foglio e passò alle nomine. - Per il ruolo di Mary, la protagonista… Madeline Dort! -
La ragazzina balzò dalla sedia ricevendo gli abbracci degli amici, e si precipitò al fianco di Sikowitz visibilmente emozionata.
- Raccomandata. - sibilò Tori quando le passò accanto.
Andre la guardò stranito. - E da chi? -
Tori girò la testa dall’altra parte, nel più ridicolo tentativo di arrampicata sugli specchi. - Non lo so, ma non può essere altrimenti. -
Jade sentì la vibrazione tra le mani e lo schermo si illuminò.
“Sono in macchina, sono quasi arrivato. Ti amo.”
In quel momento, leggere la prima parte della risposta fu sufficiente a farle riporre il cellulare nella tasca, senza tuttavia chiedersi perché Beck avesse sentito il bisogno di aggiungere quel “ti amo” alla fine.
- Per il ruolo di Alicia, la sorella di Mary… Tori Vega! -
Nonostante lo sapesse già da giorni, la ragazza diede un sonoro cinque ad Andre e, felice come una bambina sotto l’albero di Natale, raggiunse saltellando il palco.
Sikowitz cambiò foglio. - Passiamo ai prossimi. Per i ruoli di Tod ed Evelyn, i genitori di Mary e Alicia… -
Approfittando di quella snervante suspense prolungata all'infinito, Cat si sporse nuovamente verso Jade. - Devo parlarti, si tratta di una cosa importante... -
La dark la fulminò con un’occhiataccia. - Taci, Cat. Voglio godermi il momento. -
Malgrado Beck non fosse lì con lei.
- Jade West e… Mark Roderick! -
E mentre un anonimo giovane si alzava e veniva acclamato da un gruppetto di compari, Jade divenne all’istante più bianca di quanto fosse già di natura.
Sentì il cuore fermarsi e fare una fatica tremenda per ricominciare a battere, e tutto intorno crollare in un silenzio che la trasportava lontano dai suoi amici che la stavano fissando.
Tori provò a chiedere spiegazioni a Sikowitz, vedendo quel Mark dirigersi con espressione appagata verso di loro, ma l'uomo poté solo scuotere la testa desolato.
Anche Jade si tirò bruscamente su dalla sedia, ma non era affatto per andare sullo stage.
Stringendo con forza il cellulare, si allontanò divorando come un leone i metri che la separavano dalla porta.
Sikowitz la richiamò immediatamente: - Jade, dove stai andando? - Purtroppo, però, lei non aveva voglia di ascoltare né lui, né gli altri che stavano ripetendo il suo nome.
- Jade! -
Superata anche l'ultima fila di sedie decise di comporre il numero di Beck, ma quello che le giunse all'orecchio, la fece infuriare ancora di più. Un insensibile messaggio automatico. “E' spento, accidenti!”
Sikowitz fece un passo avanti e cercò di farsi più autoritario. - Fermati, Jade, non uscire dalla stanza... -
Al diavolo, non le importava. Adesso tutto ciò che voleva, anzi pretendeva, era una spiegazione valida da lui.
- Jade, aspetta! - strillò Cat scattando in piedi. - Devo dirti una cosa... -
Andre la trattenne per un braccio. - Lascia perdere, non ti avrebbe ascoltato... -
Jade era già sparita oltre la soglia.
*****

La GTO procedeva ad alta velocità sulla statale, soleggiata e per lo più deserta. Poche vetture la incrociavano, e quando lo facevano, era come se non esistessero.
Il gomito che sporgeva distratto fuori dal finestrino, l’altra mano salda sul volante, e un senso di inquietudine che sembrava voler correre più veloce di lui.
Fu ridestato quando il cellulare, posato sul sedile accanto, emise un breve squillo.
Lo prese allentando un po’ il piede dall’acceleratore e, leggendo sul display, si sorprese che quel messaggio non fosse arrivato prima.
“Ma dove sei?”
Se lo aspettava, in fondo. Era passato molto più tempo di quanto le aveva fatto credere, da quando quella mattina era uscito da casa sua.
Rallentò ulteriormente, riflettendo su cosa risponderle per non farla preoccupare.
Optò per la verità. Quella che, prima o poi, avrebbe finito per ferire qualcuno, senza che lui potesse impedirlo.
“Sono in macchina, sono quasi arrivato. Ti amo.”
E appena la barra lo informò che l’invio era stato completato, seppe che la cosa migliore da fare era spengere quel cellulare e abbandonarlo nella tasca.
A quell’ora, Jade e gli altri probabilmente stavano già parlando con Sikowitz…

Era entrato a scuola sapendo di non dover essere lì, senza farsi vedere da nessuno.
I corridoi lasciati vuoti dagli studenti impegnati nelle varie lezioni gli avevano dimostrato però che aveva scelto il momento giusto.
Era riuscito a trovare Sikowitz quasi subito, vicino ad uno dei distributori e diretto verso una classe.
- Professore! - lo aveva chiamato fermandolo prima che raggiungesse la porta.
L’uomo si era voltato. - Beck, proprio tu. Non ti ho visto a lezione stamattina. Ascolta: più tardi, prima di pranzo, siete tutti convocati nell’aula di teatro, dove comunicherò l’esito dei provini e assegnerò ufficialmente i ruoli. -
Il volto di Beck si era incupito. - E’ esattamente di questo che volevo parlarle. - aveva fatto una pausa traendo un profondo respiro, mentre l’insegnante aggrottava la fronte.
- Io lascio. Rinuncio alla parte. -
La frase parve colpire Sikowitz dritto al cuore. - Ma che stai dicendo? -
Aveva visto uno dei suoi studenti migliori abbassare lo sguardo a terra. - Sul serio? Dopo tutto quello che… -
Beck aveva risollevato la testa e lo aveva fissato negli occhi. Ed era bastato quell’attimo di intesa per far comprendere cosa stava succedendo, perché forse, Sikowitz l’aveva capito persino prima di lui.
Aveva allungato la mano. - E’ stato un piacere lavorare con lei, professore. -
Sikowitz, superato il primo sconcerto, gliela aveva strinta con vigore. - Anche per me, Beck. -
E mentre il ragazzo canadese usciva dalla scuola, la stessa domanda si era manifestata nella mente di entrambi: “Doveva considerarlo un arrivederci?”

Si ritrovò a porsi l’interrogativo anche in quel momento, mentre un cartello ai bordi della carreggiata gli mostrava i pochi chilometri rimasti per giungere a destinazione.
“Ormai non puoi tornare più indietro.”
E il pensiero, il desiderio e la speranza di farlo, probabilmente erano tutti dentro i due borsoni nel bagagliaio dell’auto che sfrecciava verso l’aeroporto.
*****

Un'utilitaria nera si fermò a pochi metri dal caravan di Beck, sgommando e sollevando dalla ghiaia un gran polverone.
Una ragazza infuriata come una belva saltò giù dalla vettura con l'agilità di un puma, senza neanche preoccuparsi di aver lasciato lo sportello aperto.
Sassolini e pietruzze venivano fatte saltare per aria ad ogni suo passo, che la stavano portando decisa a fare anche una scenata, se fosse stato necessario.
Quando vide ciò che la aspettava, però, la rabbia dentro di lei montò fino a livelli critici.
Individuò due giovani con giubbotti di pelle aggirarsi con aria riservata intorno alla roulotte e, in particolare, uno di loro cercare nella tasca qualcosa per aprire la porta.
- Ehi! - urlò, proiettandosi in avanti con uno scatto degno di un centometrista.
Riuscì a raggiungerli proprio nell’istante in cui i due stavano per introdursi, e, come mise le mani su di loro, si accorse aver appena trovato un’ottima valvola di sfogo per la sua furia.
Afferrò il primo come fosse un manichino, tirò via il secondo direttamente dalla soglia, e, agguantandoli per il colletto delle giacche, li appese alla fiancata del caravan con la forza e la veemenza di un militare.
- Che diavolo stavate facendo? - gli sbraitò in faccia. - Sarete fortunati se chiamerò la polizia, perché state per farvi molto male. -
Negli occhi dei due ragazzi, che dovevano avere due o tre anni meno di lei, c’era terrore puro. Il primo che era finito tra le grinfie di Jade, dopo essersi voltato verso l’amico in cerca di sostegno, si mise ad implorarla. - Ti prego, non ucciderci, non siamo ladri! -
- Beck sa tutto! - aggiunse l’altro con la voce intrisa di disperazione.
Jade diede ai due uno strattone fino a fargli sbattere la spalle contro la parete. - Non credo ad una sola parola. -
- E’ così, guarda! - la invitò quello che era quasi riuscito ad entrare.
E quando Jade gli osservò le mani, scoprì che ciò che aveva visto tirare fuori dalla tasca non era un attrezzo per scassinare la porta, ma la vera chiave del caravan. - Ce l’ha data Beck. -
Jade, pur allentando la presa, non voleva saperne di lasciarli andare. - E dov’è adesso Beck? -
- Non lo sappiamo! -
Li scaraventò di nuovo contro la roulotte.
- Lo giuro! Stamattina ci ha lasciato la chiave, e poi se n’è andato. -







Angolo dell'autore / Avviso importante ai lettori
La fanfiction "A WhatsApp group with iCarly" sta attraversando momentaneamente un periodo di pausa, ma non preoccupatevi, tornerà!
Vi informo inoltre che prossimamente pubblicherò la prima di una serie di storie scritte a quattro mani con il mio caro amico
Lucifuge , in cui esploreremo ed espanderemo il nostro panorama dando vita ad un esplosivo mix di diversi generi. Vi aspetto numerosi per farci sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 7
*** VII - Aftermath ***


VII - Aftermath




- Adesso ricominci da capo! -

- Di nuovo? -

- Lo ripeterai finché non sarò io a dirti che puoi smettere! -

Come un generale impegnato in un interrogatorio, Jade stava passeggiando nervosamente in cerchio, attorno ai due sventurati prigionieri costretti a stare seduti immobili al centro di quella linea di fuoco.

Non li avrebbe lasciati andare finché non sarebbe stata soddisfatta, e se avesse potuto, probabilmente gli avrebbe legato perfino i polsi.

Il povero George, con lo sguardo da cucciolo smarrito, ripeté la storia che le aveva già raccontato almeno tre volte da quando era stato prelevato a forza, insieme al suo amico, dal caravan di Beck da quella specie di demone nero.

Jade si fermò alle loro spalle e trasse un respiro irritato. - E poi? - chiese alla fine.

- E poi niente, questo è tutto ciò che sappiamo! Diglielo anche tu, Paul! -

Il ragazzo accanto a lui annuì tranquillamente, mostrandosi molto meno terrorizzato.

Jade gli si parò allora davanti e lo incenerì con il suo proverbiale sguardo omicida, nel tentativo di farlo cedere e di fargli abbandonare quell’aria così composta. - Davvero? -

La voce della ragazza riecheggiò agghiacciante nella vuota aula di teatro, portando George a pregare perché qualcuno arrivasse in loro aiuto.

Aiuto che si manifestò dalla porta laterale nella forma di Tori e Andre, seguiti da Cat e Robbie.

Tori rimase più di tutti scioccata da quella scena quasi surreale. - Jade, ma che stai facendo? Ti abbiamo sentita dalla hall! -

Andre si fece avanti. - Già, e dove eri sparita? -

- Sono andata a cercare Beck… - si voltò con disgusto verso i ragazzi seduti. - E invece ho trovato questi due. -

- Erano entrati in casa sua? -

- Ma soprattutto… - si inserì Robbie. - Perché non hai chiamato la polizia, invece di portarli nell’aula di Sikowitz? -

- Dicono di non essere due ladri. -

- Beh, lo dicono un po’ tutti. - fece Tori timidamente. - Tu gli hai creduto? -

- Avevano la chiave, Vega. - le rispose con rabbia, trattandola come se avesse appena fatto una domanda stupida.

- E se gliela avessero rubata? - propose Andre.

Geroge si agitò sulla sedia. - Noi non abbiamo fatto niente… -

- Tu sta’ zitto! - gli intimò Jade, puntandogli il dito contro.

Tornò a rivolgersi ai suoi amici. - Sembra che sia stato proprio Beck a lasciargliela. -

- E perché lo avrebbe fatto? - domandò Tori.

Jade passò alle spalle di George e lo afferrò per il colletto. - Ora puoi parlare. Avanti, racconta quello che hai detto a me. -

- D-D’accordo… - iniziò balbettando. - Io e Paul ci siamo appena trasferiti poco più di due settimana fa da Brooklyn per venire a frequentare la Hollywood Arts. I nostri genitori però per impegni di lavoro non sono potuti venire, e noi avevamo bisogno di un posto dove stare. Così, non conoscendo nessuno, abbiamo deciso di mettere un annuncio per una camera in affitto. Non abbiamo ricevuto risposte, fino ad un paio di giorni fa. Un ragazzo di nome Beck ci ha chiamato dicendo che forse aveva una sistemazione per noi, ma che dovevamo aspettare finché non si sarebbe fatto risentire. Poi, questa mattina, abbiamo ricevuto una sua telefonata con cui ci invitava ad andare al suo caravan. Ci stava già aspettando fuori dalla porta. -

- E cos’è successo? - intervenne Tori.

George si calmò, sentendo un tono un po’ più gentile. - Una volta lì, ci ha lasciato subito le chiavi, dicendoci solo “è vostra”. Non ci ha lasciato neanche il tempo di guardarla, di parlare di soldi e nemmeno di rispondere. L'ho visto caricare un borsone, è montato in auto e si è allontanato. - si girò verso Jade. - E poi, poco dopo, è arrivata questa arpia e ci ha trascinati qua! -

- Beck è partito?! - esclamò incredula Tori.

- Sì… - Jade arrivò a pochi centimetri dal viso di George, reprimendo l’istinto di picchiarlo. - Anche se questo non vuole dirci per dove! -

- Magari non lo sa davvero. -

La dark si spostò quindi sull’imperturbabile Paul. - E tu? -

- Adesso basta, Jade. Lasciali stare. - la invitò Tori. - Così, da loro non caviamo un ragno dal buco. -

Il clima pesante di quel momento peggiorò ulteriormente quando dalla solita porta laterale arrivò Trina ad interrompere. - Tori! Tori! - la chiamò correndole incontro.

- Trina, che c’è? Non è un buon momento. -

- Hai parlato con Sikowitz? - vide i due ragazzi seduti al centro della stanza. - E questi chi sono? No, non mi importa. Allora, hai parlato con Sikowitz? -

Tori cercò di allontanarla. - Non adesso, Trina… -

- Ma… -

- Ti ho detto non adesso! - eruppe infine, cacciandola in malo modo.

Aspettarono che Trina, piuttosto offesa, fosse sparita, prima di tornare a concentrarsi su Beck. L’ultima cosa di cui avevano bisogno era che lo sapesse anche quella gallina.

- Hai provato a chiamarlo? - propose Andre, estraendo il cellulare dalla tasca.

Jade lo fulminò con un’occhiata. - No, ho mandato un drone a cercarlo… Ma certo che ho provato a chiamarlo! Che razza di domanda fai? Solo che è sempre spento. -

Andre avvicinò il telefono all’orecchio dopo aver composto il numero. - Sta squillando! - dichiarò speranzoso subito dopo.

Speranza che si rivelò del tutto vana, quando gli giunse il messaggio della segreteria telefonica. - Non risponde… -

Tori si sedette su una delle poltroncine, con le mani sulle ginocchia. - Non è possibile che Beck se ne sia andato così… -

- Beck se n’è andato?! -

Lo strillo che Trina cacciò, irrompendo di nuovo nell’aula, fece venire i brividi lungo la schiena di tutti i presenti.

Tori si voltò di scatto. - Stavi origliando? - le urlò contro.

- Sapevo che c’era sotto qualcosa! - le rispose risentita, muovendosi poi per allontanarsi. Come se ne accorse, però, la sorella le si precipitò dietro, nel tentativo di fermarla prima che dicesse o facesse qualsiasi cosa.

Uscite entrambe, anche Andre avvertì il bisogno di sedersi, scuotendo la testa. - Ecco, ci mancava solo questa... -

- Ho bisogno di un po' d'aria. - annunciò Jade, visibilmente alterata, guadagnando a lunghe falcate la via per la porta.

- E noi? - chiese George, che si sentiva ormai dimenticato.

- Tornate a casa. - acconsentì Andre, senza neanche preoccuparsene più di tanto.

- Veramente avremmo una lezione tra venti minuti. -

- Ho detto andatevene. -

Lanciò un'occhiata a Cat e Robbie in cerca di appoggio, prima di abbassare lo sguardo sul pavimento. - Chissà dov’è adesso… -

 

*****

 

Portelloni serrati a realizzare una barriera invalicabile con l’esterno, personale di bordo diligentemente al lavoro, e passeggeri seduti ognuno al posto assegnato, già sognando ciò che avrebbero fatto una volta a destinazione.

Beck, capitato accanto ad un tizio sovrappeso che era crollato addormentato ancor prima di decollare, era felice di essere almeno lontano dal finestrino.

Magari avrebbe evitato di trascorrere l’intero viaggio con lo sguardo perso tra le nuvole, anche se sapeva che, per quanto avesse potuto provarci, non sarebbe mai riuscito a tenere sotto controllo i pensieri, per quelle ore in cui sarebbe stato lontano da tutto e tutti.

C'era ancora qualcosa che poteva fare? Forse.

Si disinteressò completamente dell’hostess che per l’ennesima volta cercava di illustrare le procedure e le uscite di sicurezza, che ormai anche lui conosceva a memoria grazie ai tanti viaggi per il mondo, e prese il cellulare dalla tasca.

Lo fece roteare nella mano per diversi secondi, prima di premere sul display e accedere alla schermata che voleva.

La pagina bianca di una e-mail. Destinatario: Jade West.

 

Cara Jade,

Probabilmente ti chiederai perché stai leggendo questa mail. E a dire la verità, me lo sono chiesto tante, troppe volte anch’io negli ultimi giorni.

Non pretendo di conoscere cosa ti stia passando per la testa in questo momento, perché a stento riesco a capire quello che sta succedendo nella mia.

Le uniche cose che mi sono chiare sono le interminabili notti passate a fissare il soffitto, la luna o l’orizzonte nascosto dalle tenebre. Quelle notti in cui, nonostante potessero esserci decine di motivi a tenermi sveglio, si riduceva tutto ad uno solo.

La paura.

Avevo paura, Jade, e mi accorgo di averla anche adesso, mentre ti scrivo queste righe.

Per me, ma soprattutto per te e per noi.

Perché non voglio più rischiare di mandare in rovina quello che di bello abbiamo costruito. Non è mai stato facile tra di noi, ammettiamolo, ma non avremmo potuto fare di meglio.

Io però non riesco più a perdonarmi le volte in cui ci siamo fatti del male, in cui abbiamo ferito non solo noi stessi, ma anche le persone che ci stavano vicino.

Siamo una bomba a orologeria, pronta a scoppiare in qualunque momento includendo nell’esplosione anche degli innocenti.

E io non voglio più veder soffrire te, i nostri amici e coloro a cui teniamo.

Lo faccio perché sei troppo importante per me, e perché darei qualsiasi cosa per non far arrivare il giorno in cui tutto intorno a noi sarà distrutto in maniera irreparabile, e il nostro rapporto distrutto in mille pezzi andati perduti e impossibili da rimettere a posto.

Lo faccio perché voglio continuare ad amarti come sto facendo adesso, e perché non accetterei un destino in cui non potrà esistere anche soltanto una possibilità di essere di nuovo noi.

 

Mi dispiace, ma ti amo.

Beck

 

Buttò d’istinto tutto ciò che gli pesava sul cuore in quelle righe. Non sapeva se sarebbe servito a qualcosa o sei lei avrebbe almeno compreso, poteva solamente sperarlo.

Fu riscosso quando un annuncio fu emesso dagli altoparlanti dell’aereo: “Avvisiamo i gentili passeggeri che l’aereo sta per decollare. Si prega cortesemente di spegnere ogni tipo di dispositivo elettronico...”

Beck alzò gli occhi per un secondo, per poi riportarli sul telefono.

Intanto la voce femminile, resa meccanica dal microfono e simile a quella di un androide, ripeté l’invito. “… si prega cortesemente di spegnere ogni tipo di dispositivo elettronico…”.

Beck cercò di mantenere ferma la mano, mentre con l’indice premeva la X rossa in alto a destra.

Un messaggio di conferma comparve al centro dello schermo.

Attenzione, il messaggio non è stato inviato. Desideri chiudere questa pagina?”

Sotto, due pulsanti selezionabili, che parvero fissarlo per la più crudele delle scelte.

Salva e invia” oppure “Cancella”.

Il dito si mosse velocemente verso il primo, ma un ultimo ripensamento, che neanche lui riuscì a spiegarsi, lo portò a premere l’altro.

Trasse un lungo respiro, mentre il display del cellulare si oscurava, e lui si chiedeva se davvero sarebbe mai riuscito a lasciarsi tutto questo alle spalle.

 

*****

 

Cat credeva ormai di aver letteralmente girato tutta la scuola. Se fossero esistiti, probabilmente avrebbe scoperto anche dei passaggi segreti. Si sentì ancora più abbattuta, quando si ritrovò ad esplorare inutilmente la decima classe e l'ennesimo corridoio.

Dov'era finita?

Svoltò a sinistra verso i laboratori, e finalmente la vide.

Jade era seduta sull'ultimo scalino della rampa che portava alle aule d'arte, al piano di sopra.

Le pupille vitree perse nel vuoto, e un'espressione dura e amara a torturarle il viso.

Cat si fermò ad un passo da lei. - Jade, che ci fai qui? - le chiese timidamente. - Ti aspettavamo in classe. -
- Ti ha mandata Sikowitz a cercarmi? - lo sguardo non si muoveva di un millimetro.
La rossa si passò imbarazzata una mano tra i capelli. - Veramente avevamo lezione con la Hawkes... -
- Fa lo stesso. -
- Stava dicendo che... -

A quella frase Jade si voltò rigida verso l'amica, fissandola negli occhi, ma come se non la stesse realmente guardando. - Credi davvero che me ne importi? -

- Hai ragione, non era una domanda intelligente. - Cat le si avvicinò e si sedette accanto a lei. - Hai idea di dove possa essere? -
- Non lo so. - il tono si sforzava di essere forte, e di nascondere anche la difficoltà a deglutire.
Cat provò ad abbozzare un sorriso. - E tu come stai? -

Jade sospirò in silenzio. - Non lo so. -

Capendo che non avrebbe ottenuto risposte diverse da questa a nessun'altra domanda, Cat si alzò. - Va bene. Ci vediamo dopo? - E si sentì moderatamente felice, quando la vide annuire.
Si preparò per tornare in classe, ma come si fu spostata di un paio di metri, sentì la voce di Jade raggiungerla alle spalle. - Aspetta, Cat. -

Lei si voltò, tornando indietro.

Jade le lanciò una strana occhiata. - Ho una domanda da farti. -

Cat aggrottò la fronte, stranita da quella che suonava quasi come un avvertimento.

- Ripensandoci, c'è una cosa che mi è tornata in mente... Prima, quando eravamo nell'aula di Sikowitz, che volevi dirmi? -
Cat realizzò all'istante il guaio in cui, pur in buona fede, si era cacciata. - No... - provò a sviare sorridendo impacciata e piegando la testa di lato. - Non era importante. -
- A me sembrava che stessi insistendo parecchio. -
L'amica era restia a parlare, ben consapevole che non avrebbe portato a nulla di buono. - No, sul serio, non ha importanza. -

- Cat, di che si tratta? - ribadì Jade, sempre più inquisitoria.

- E va bene. - rassegnata infine a vuotare il sacco. - Qualche giorno fa, Beck è venuto a casa nostra... -

- E che ti ha detto? - la interruppe subito, col suo solito modo brusco.

- A me niente. - si mise sulla difensiva, cercando di attenuare quella situazione che non poteva far altro che peggiorare. - Ha parlato con Sam. Le ha fatto alcune strane domande su... su quando lei ha lasciato Seattle, su come è stato... -

Jade non ci mise molto a capire quale fosse il senso. - Tu lo sapevi? - le chiese con tono gelido.

Al rifiuto di Cat di aprire bocca, si alzò e le si parò davanti. - Tu lo sapevi e non mi hai detto niente? - Ci-ci ho provato... - balbettò atterrita. - Ma poi è arrivato Sikowitz... -

- E perché hai aspettato così tanto? Perché non me lo hai detto prima? -

- Io, io... -

- “Io”, cosa? - aveva iniziato a sbraitare, facendo rimbombare i corridoi vuoti. - Potevamo fare qualcosa, e invece no, perché non ne sapevamo niente! -

Cat, paralizzata, sentì il labbro inferiore mettersi a tremare, mentre gli occhi si facevano lucidi.

- Complimenti, Cat! - infierì ulteriormente Jade, ormai fuori controllo e apparendo neanche più capace di riconoscere l'amica. - Hai dimostrato ancora una volta quella che sei! -

Fu un attimo di rabbia, ma che non lasciò possibilità di repliche.

Jade si staccò da Cat sfiorandola con una spallata e la superò senza degnarla di un altro sguardo, tirando dritto come fosse circondata dalle fiamme, fino a scomparire dietro l'angolo.
Rimasta sola, presa a schiaffi dal senso di colpa e di panico, Cat tornò a sedersi sullo scalino, mentre una lacrima le rigava il dolce viso.
Una lacrima che stava a significare soltanto il primo degli effetti che avrebbe prodotto la partenza di Beck.

 

*****

 

Volare non era mai stato così difficile. Lui che aveva girato gran parte del Canada, e che ci aveva messo parecchio prima di trovare la stabilità negli Stati Uniti, stavolta non era riuscito ad affrontare il viaggio con tranquillità.

Probabilmente era perché in tutte le altre occasioni era stato attratto dalle prospettive che le destinazioni gli offrivano, mentre in questa, si era portato dietro nient’altro che un bagaglio colmo di paura e di incertezza.

Verso un posto di cui non sapeva nulla, e senza avere la minima idea di cosa lo stesse aspettando.

Anche se magari, pensò, alla fine non era proprio così.

Doveva essere rimasto qualcosa nella sua mente, quando pochi giorni prima aveva prenotato online un biglietto aereo con quella destinazione.

Un aereo su cui forse aveva sperato fino all'ultimo di non dover salire.

Era una porta che non voleva sbarrare, ma che aveva appena chiuso lasciando la sua chiave nella toppa, così da impedire a chi si trovava dall'altra parte di passare.

Fu riportato al presente quando l'altoparlante gracchiò e ricominciò a parlare.

Tenendo la testa poggiata con stanchezza sul cuscino del sedile, Beck aprì lentamente gli occhi facendogli incontrare il grigio anonimo del soffitto.

“... l'aereo sta per entrare in fase di atterraggio. Invitiamo i gentili passeggeri ad agganciare le cinture di sicurezza.”

Mentre il suo vicino di seduta continuava a dormire beatamente, Beck sospirò rassegnato e obbedì.

Pochi istanti dopo, il capitano ottenne l'ok dalla torre di controllo e le ruote del carrello planarono sull'asfalto della pista dell'aeroporto.

A motori fermi, con un paio di navette che si dirigevano verso il velivolo fermo, una voce maschile uscì dall'altoparlante.

- Qui è il capitano che vi parla. Spero che il volo e il servizio offerto siano stati di vostro gradimento. Signori, benvenuti a Seattle, Washington. -



 

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Capitolo 8
*** VIII - Someday, a new dawn will rise ***


VIII - Someday, a new dawn will rise

 

La rabbia le scorreva all’interno delle vene come veleno.
Una furia cieca che cercava di farsi spazio tra le fragili barriere che aveva costruito.
Si sforzava di non pensare, e di non dare adito a quelle idee e a quelle immagini che si sovrapponevano prepotentemente nella sua testa.
E soprattutto, stava trattenendo con la forza quell’unica lacrima che provava a uscire allo scoperto.
Jade lanciò violentemente lo zaino sul letto, facendo cadere uno dei cuscini per terra.
Non riusciva ancora a crederci, e mentre iniziava a passeggiare per la camera fissando il pavimento, si chiese se ne sarebbe mai stata in grado.
Si domandò se davvero quello fosse il suo limite, e se stavolta ci si fosse avvicinata pericolosamente.
Alzò la testa verso il lampadario che oscillava dal soffitto, e infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans, tirando un lungo e pesante sospiro.
Ebbe un flebile sussulto, quando avvertì che le dita avevano incontrato qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi lì.
Lo estrasse dalla tasca sinistra come un corpo estraneo e se lo portò davanti agli occhi.
Il frammento di un foglietto di carta, ripiegato in maniera frettolosa e imprecisa.
Jade lo aprì, e come vide il contenuto, si sentì mancare il respiro.
“Mi dispiace.
Ti amo.
Beck.”
Con la stessa velocità di un impulso elettromagnetico, i suoi ricordi tornarono alla mattina prima, al suo risveglio insieme a Beck, al bacio che le aveva lasciato prima di uscire.
E all’immagine di lui che rovistava tra i loro vestiti.
Jade si avvicinò lentamente alla finestra e scostò la tenda, dirigendo lo sguardo verso l’orizzonte.
Le aveva regalato un ultimo gesto romantico, per farle sapere quanto tenesse a lei, quanto lo distruggesse quella situazione, e quanto rimorso si fosse portato dietro andandosene così.
Ruotò la maniglia per aprire uno spiraglio nel vetro e inalò una boccata di aria fresca.
L’aveva abbandonata con un’ultima bugia.
Strinse il pugno, accartocciando al suo interno il biglietto, e lo lanciò nel vuoto, lasciandolo cadere nel mucchio di foglie secche raccolte nel giardino sul quale si affacciava la sua camera.

 
*****


- Sarai mio! - esclamò Sam, afferrando famelica una gustosa coscia di pollo.
Ma nel momento in cui fu per affondare i denti nella carne, una porta sbattuta la fece sobbalzare.
Vide dal bancone Cat che appoggiava il suo zaino per terra. - Non puoi sbattere la porta così forte, potrebbe rompersi il vetro. E non abbiamo i soldi per ripararlo. Non vorrai mica che mi cerchi un lavoro? -
Aggrottò la fronte e posò il suo spuntino sul piatto, quando vide che dall’amica non pervenivano reazioni. Continuava a darle le spalle e a frugare nervosamente nella cartella.
Sam lanciò un’occhiata insospettita all’orologio: era più tardi del solito, e Cat non tornava quasi mai a quell’ora senza avvertire, per quanto fosse comunque inutile.
La bionda si sentì per un attimo come una sorella maggiore in apprensione per la minore, sensazione che si intensificò appena Cat si voltò verso di lei.
Era visibilmente stravolta, con quella sua solita aria da bambina che adesso era macchiata da chi ha avuto una giornataccia, gli occhi contratti e scuri.
- Che è successo, Cat? -
La rossa mosse qualche passo verso il divano. - Me lo stai chiedendo? Come se non lo sapessi già! -
Sam fu spiazzata da tanta decisione. - Eh? Che cosa dovrei sapere? -
- Quello che hai fatto! -
L’amica ci stava capendo sempre meno, e aveva l’impressione che, con una Cat in quelle condizioni, la conversazione non potesse andare lontano. Cercò di tirare fuori il tono più gentile che avesse. - Ascolta, perché non vai a riposarti un po’, poi ceniamo e mi racconti tutto con calma? -
- No! -
Sam rimase senza parole, notando come si stessero sorprendentemente invertendo i loro ruoli.
Mai aveva visto Cat così furente.
- E’ colpa tua! -
La bionda si sporse in avanti. - Di cosa? -
- Se Beck se n’è andato! -
Sam sgranò gli occhi. - Eh? -
- Non ci hai detto niente, di quando è stato qui, di San Francisco… -
- Seattle… - la corresse, quasi imbarazzata.
- Di Seattle, sì, e di tutto il resto! Se lo avessimo saputo, avremmo potuto fermarlo, Jade avrebbe potuto convincerlo a restare… -
Si interruppe quando la voce iniziò a tremare, e Sam ne approfittò per intervenire. - Me ne sono semplicemente dimenticata… -
Cat, incapace di cogliere l’accenno di pentimento nella frase dell’amica, scrollò le braccia in un gesto plateale.
Che se ne stesse accorgendo o meno, stava rigettando su Sam tutta l’animosità che Jade le aveva rovesciato addosso quello stesso pomeriggio.
- Ma certo! Se non è qualcosa che interessa te e soltanto te, non vale la pena di ricordarlo, vero? Ma sai una cosa? Il mondo non ruota tutto intorno a Sam Puckle! -
- Puckett… -
- Fa lo stesso! Esistono anche altre persone, esistiamo io, mia nonna, Dice, Goomer e i miei amici! -
Cat raccolse da terra lo zaino e fece per dirigersi verso la camera da letto.
- Aspetta un secondo, Cat. - cercò di fermarla Sam.
- Ma grazie tante per il tuo interesse. - concluse la rossa, prima di proseguire a lunghe falcate, disconnettendo il cervello da quella conversazione e da quella stanza.
L’amica la sentì rifugiarsi dietro la porta e chiuderla a chiave, dopo averla sbattuta di nuovo.
Sam si ritrovò a fissare il piatto che aveva lasciato sul bancone, stordita e travolta da quell’uragano dai capelli color fuoco, nato da chissà quali venti e di una potenza mai vista prima d’ora.
Poi si girò verso la camera che divideva con Cat, e si domandò cosa avrebbe potuto fare, allora come adesso.
Intanto, però, per quella sera sarebbe stato meglio dormire sul divano.

 
*****


Seattle non era affatto come se l’era immaginata.
Un’immensa metropoli, con case, grattacieli e palazzine dovunque si voltasse, e strade strette a farle assumere parvenze di labirinto, gremite fin dalle prime luci dell’alba da auto, taxi e tram, e da interminabili flussi di persone in abiti eleganti diretti a lavoro.
Tutto fuorché una città tranquilla, ciò di cui magari aveva bisogno.
Beck girò a destra, imboccando una via come tante, e guardò il cartello. Aloova Street.
Ruotò il capo e sbuffò: era già la quinta volta che si perdeva in appena tre giorni.
Decise di invertire la direzione e di tornare indietro, sperando di ritrovare almeno la strada da cui era partito.
Lo zaino sulle spalle gli ricordò ancora una volta quanto avesse la schiena a pezzi. La branda del Holden Halls, l’ostello in cui si era fermato per le prime notti, poteva essere definita in tanti modi, ma certo non comoda.
Era ormai arrivato il momento di trovarsi un’altra sistemazione, una stanza, un lavoro.
Di iniziare quella nuova fase che stava cercando, una nuova pagina di quel libro chiamato vita.
Lasciato lo zaino all’Holden Halls, Beck si rimise in marcia tra austeri uffici, moderne scuole e biblioteche semivuote, finché non decise di fermarsi davanti a un negozio come tanti.
Era un piccolo locale adibito a forno e pasticceria, la cui insegna che si affacciava sul marciapiede recitava “La bottega dello zucchero”.
“Può esserci qualcosa di più tranquillo e piacevole di una pasticceria a Seattle?”, pensò sorridendo, prima di spingere la porta a vetro e entrare.
Dietro al bancone espositore, un signore corpulento, con gli occhiali e una barbetta incolta, stava finendo di servire una ragazza, consegnandole un vassoio incartato e lo scontrino.
Quando questa fu uscita, l’uomo si rivolse a Beck. - Posso fare qualcosa per te, amico? -
Il ragazzo si guardò brevemente intorno. - Spero di sì. Mi chiamo Beck, sono appena arrivato qui da Los Angeles… -
- Vuoi dei biscotti? - lo interruppe, spostandosi di un paio di metri.
Beck aggrottò la fronte. - No… come stavo dicendo, sono a Seattle solo da pochi giorni, e sto cercando una sistemazione… -
- Ok, ma penso che il mio sgabuzzino delle scope sia un po’ troppo piccolo per te. -
Beck non riuscì a capire se fosse irrimediabilmente ironico o estremamente scortese. - In realtà sto cercando anche un lavoro, e sono entrato qua pensando che magari potrebbe aver bisogno, per esempio, di un garzone… -
- Oh, adesso è molto più chiaro, non c’era bisogno che la prendessi così larga. - L’uomo si pulì le mani con uno straccio e le appoggiò sulla parte di legno del bancone. - Dimmi un po’… Beck, giusto? -
- Esatto. -
- Hai qualche esperienza? -
Beck si sentì per la prima volta in difficoltà. - Purtroppo niente in particolare, ho appena terminato gli studi. - disse, evitando accuratamente di menzionare il fatto di non essersi ancora diplomato.
Poi vide l’altro scuotere la testa. - Allora non so davvero che farmene. Mi sembri un bravo ragazzo, ma anche se stessi assumendo, devi capire che di questi tempi se non hai un minimo di esperienza, finisci tagliato fuori. -
Beck annuì. - Conosce almeno qualcuno che potrebbe essere disposto a… -
- Il periodo non è dei più favorevoli per trovare lavoro. Non posso aiutarti, mi dispiace. -
Dopo averlo ringraziato, non senza sentirsi deluso, Beck tornò sulla strada.
“Gran bell’inizio, non c’è che dire”, pensò, mentre si incamminava nuovamente verso l’Holden Halls.

 
*****


- E… azione! - gridò Sikowitz, dando il via con un gesto ampio del braccio.
Mark Roderick, il ragazzo scelto per interpretare il padre della protagonista, fu il primo a prendere posizione sul palco per provare la scena.
Fu seguito poi da Jade, che lo raggiunse dopo aver scambiato una fugace occhiata con Tori e Andre, i quali si erano accomodati ad assistere dalle sedie di fronte, quasi tutte vuote.
Erano alla fine della seconda giornata di prove per lo spettacolo di fine anno, rinominato dai professori “Mount Hollywood”, appellativo che aveva riscosso però parere negativo praticamente da chiunque.
Una cucina improvvisata sullo stage faceva da sfondo al tavolo piazzato al centro, attorno al quale erano seduti Jade e Mark, che nell’occasione dovevano rappresentare due genitori preoccupati per il ritardo della figlia.
- Che ore sono, Tod? - guidò Jade con la prima battuta.
Mark osservò l’orologio al polso, dando però alla ragazza l’impressione che lo avesse fatto un po’ troppo a lungo. - Le undici meno un quarto. -
- Dici che dovremmo provare a chiamarla? -
Il giovane sospirò, anche stavolta dilatando lievemente i tempi scenici. - Ci ho già provato cinque minuti fa, e ha risposto la segreteria telefonica. -
- Sono preoccupata. -
- Lo so, Evelyn, ed è normale. - di nuovo una pausa eccessiva. - Ma forse dobbiamo capire che la nostra Mary non è più una bambina. E’ una ragazza ormai, e… -
- Per me rimane ancora la nostra bambina. - lo interruppe Jade, seguendo il copione ma con un’irruenza particolarmente evidenziata.
Tod si alzò e si avvicinò alla moglie. - Lo sarà sempre anche per me, ma sta crescendo. -
Jade si alzò facendo vibrare la sedia. - Lo so, ma non è semplice accettarlo per una madre. - proclamò, mostrandosi abbastanza contrariata dalle parole del marito.
In realtà, nel suo essere seccata era racchiuso anche tutto ciò che non le stava piacendo di quella scena.
Mark fece un altro passo verso di lei. - Sei bellissima stasera, Evelyn… -
Sikowitz trattenne il fiato e allungò le mani verso il palco, preparandosi a ciò a cui avrebbe condotto la scena, un bacio che Tod avrebbe dato alla moglie nel tentativo di calmarla.
Jade fissò il suo partner per lunghi istanti, mentre pensava a quello che stava per fare.
- Basta così, io non ce la faccio! - fermò tutto improvvisamente, facendo sbarrare gli occhi a Mark e a Sikowitz contemporaneamente.
- Che?! - esclamò il professore.
Jade scese velocemente le scale del palco. - Non ce la faccio a recitare con questo qua. - indicò col dito Mark. - Non ha idea di come dire le battute, le pause tra l’una e l’altra sono sempre troppo lunghe, e poi… - si fermò quando incontrò lo sguardo stupito di Tori e Andre. - Ah, lasciamo perdere. -
- Non sarà un professionista, Jade, ma è un ragazzo capace, altrimenti non lo avremmo scelto. - si difese Sikowitz.
- Allora chiamatemi quando avrà imparato. Io per oggi ne ho avuto abbastanza. - annunciò glaciale Jade, prima di raccogliere la sua borsa e proseguire fino all’uscita senza più guardarsi indietro.
L’insegnante guardò l’orologio appeso alla parete, che stava ormai per segnare le cinque del pomeriggio. - D’accordo, per oggi possiamo chiudere. - comunicò rassegnato al resto della troupe.
Poi si spostò accanto a Tori e Andre. - La vostra amica ha bisogno di risolvere un bel po’ di problemi. -
Andre lanciò uno sguardo al palco. - Il vero problema, Sikowitz, è che quello non è Beck. -

Non passarono neanche due minuti, prima che Trina sbucasse dal nulla e si fiondasse su di loro come un rapace. - Salve ragazzi! - esordì euforica.
- Ciao, Trina… - la salutò senza convinzione il professore.
- Senta, Sikowitz, volevo parlarle di una cosa. Il comportamento che ha appena mostrato Jade non è per nulla professionale. - fu appena scalfita dalle occhiate di fuoco che Andre e Tori le stavano scagliando. - E non si addice certo ad una delle attrici principali dello spettacolo. -
- Che stai cercando di dire, Trina? - domandò Sikowitz, sospirando esasperato.
- Che magari potrebbe decidere di dare quel posto a qualcuno che non si sognerebbe mai di fare così, che sarebbe sempre puntuale, che si presenterebbe sempre alle prove conoscendo le battute a memoria… -
- Qualcuno come te? -
- Beh, Prof, io non l’ho detto, ma se proprio insiste… -
- Trina! - la rimproverò la sorella, ottenendo tuttavia in risposta soltanto una smorfia.
Sikowiz riprese la parola. - Ti ringrazio per la candidatura, Trina, ma Jade è la persona giusta per il ruolo. -
- Ne siete sicuri? -
- Sicurissimi. -
Si alzò per allontanarsi, ma la maggiore delle Vega non demorse e lo seguì. - Ho visto però che anche Mark sta avendo qualche problema, e io sento che per il ruolo di Tod potrei… -
- Smettila subito, Trina. E’ deciso ormai, tu non avrai una parte, né da… uomo né da donna. Mettitelo bene in testa. - concluse bruscamente l’insegnante, lasciando la ragazza sola in mezzo al corridoio.
Tori le si avvicinò alle spalle. - Devi spiegarmi com’è possibile, perché non ci credo. -
La sorella si voltò di scatto verso di lei. - Che cosa? -
- Come riesci sempre a mettere il tuo orgoglio, la tua vanità, la tua voglia di metterti in mostra, davanti a tutto e a tutti. - fu un’accusa decisa, risoluta, a cui sapeva che difficilmente avrebbe replicato.
Sperava di arrivare a farla riflettere su ciò che le stava dicendo. - Anche in un momento come questo, ti sei preoccupata più di recitare in uno spettacolo scolastico, piuttosto che dei tuoi amici. -
Trina la stava fissando, ma Tori non fu in grado di capire cosa si nascondesse dietro. - Un amico, in particolare, per il quale so anche che provi qualcosa. O sbaglio? -
E quando vide Trina distogliere lo sguardo e andarsene senza fiatare, Tori ebbe la certezza di averla colpita nel segno, e di non essersi sbagliata.

 
*****


Sapeva che non sarebbe stato facile, già nel momento in cui aveva caricato il borsone nel bagagliaio a Los Angeles.
Un lungo viaggio con tanti chilometri da mettersi alle spalle, sacrificando il passato e la prospettiva di un futuro, una casa, degli affetti. E Jade.
Tutto per affrontare un nuovo inizio.
Beck varcò l’ingresso di un’accogliente tavola calda, mentre il sole iniziava ad adombrarsi e a nascondersi dietro i più alti grattacieli.
L’ambiente era immerso in una luce fioca emessa dalle lampade appese alle pareti, e contava circa quindici tavolini di legno affiancati ognuno da due panche.
Beck prese posto a quello più lontano dalla porta, osservando le due coppie sedute a pochi metri da lui, e gli altri tavoli rimasti vuoti.
Chiamò il ragazzo con la camicia bianca e un grembiule nero legato alla vita, e ordinò qualcosa al volo dal menù, destreggiandosi tra la voglia di carne e le limitate possibilità del suo portafoglio.
Durante la cena, non poté fare a meno di tornare a riflettere su ciò che lo avrebbe atteso nei giorni successivi, mentre assisteva al locale riempirsi progressivamente, tra uomini d’affari, famiglie con figli, e giovani universitari.
Fu distolto dai suoi pensieri quando un ragazzo si avvicinò al suo tavolo. - Posso? - esordì.
Beck alzò il capo. - Come, scusa? -
Il giovane si guardò intorno. - C’è un sacco di gente qui stasera, e non è rimasto nemmeno un posto libero. Ho visto però che una panca a questo tavolo è rimasta vuota. Non è che potrei sedermi? -
Beck lo fissò per alcuni secondi, poi scrollò le spalle con indifferenza. - Ok. -
Il ragazzo si tolse il giubbotto di pelle beige e se lo appoggiò di fianco sulla seduta, prima di sedersi.
E come se lo ritrovò davanti, qualcosa nell’istinto di Beck lo portò ad osservarlo nuovamente e a studiarlo.
Ad una prima impressione sembrava un suo coetaneo; presentava una faccia pulita e da classico bravo ragazzo, i capelli castani, folti e lisci, tirati da una parte e con un taglio ordinato, e un fisico asciutto ma con qualche muscolo.
Beck aggrottò le sopracciglia. - Ci siamo già conosciuti? -
Il ragazzo, che si era sporto per chiamare il cameriere, si girò verso di lui. - Come hai detto? -
- Hai una faccia familiare, ci siamo già incontrati? -
- Non lo so, forse a scuola. -
Il canadese scosse la testa. - No, io vengo da Los Angeles, sono a Seattle solo da pochi giorni. Eppure ho la sensazione di averti già visto. -
L’altro fece roteare lo sguardo pensieroso. - Allora non saprei, io sono stato a Los Angeles parecchi anni fa… -
Beck ebbe una specie di illuminazione. Strinse gli occhi e inclinò il capo. - E’ possibile che ti abbia visto in tv? Sei apparso in qualche trasmissione? -
A questo punto il ragazzo comprese a cosa si stava riferendo. - Probabilmente su Internet. - fece una pausa durante la quale sembrò andare a caccia di ricordi. - Avevo un web show fino a qualche anno fa, insieme a due amiche. - allungò la mano sopra il tavolo. - Piacere, Freddie. -






Angolo dell'autore:
Dite la verità, questa non ve l'aspettavate, dico bene? O forse sì...
Ad ogni modo, torna un nuovo capitolo dopo un paio di mesi, durante i quali non ho proprio avuto modo e tempo di concentrarmi sui miei racconti. Per questo spero che apprezzerete questo aggiornamento, e che sia di vostro gradimento.
Adesso le cose si fanno interessanti, eh? Quali sono le vostre opinioni, e cosa pensate che succederà?
Durante gli ultimi tempi ho creato anche un'altra one-shot: non ha niente a che fare con Victorious o con iCarly, ma è un pezzo che mi sta particolarmente a cuore.
Per questo vi invito a dargli una possibilità, e se volete, a lasciarmi la vostra opinione, che sarebbe più che apprezzata.
Lo trovate al seguente link:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3323298&i=1
Detto questo, vi lascio con un saluto e vi auguro buona lettura!

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Capitolo 9
*** IX - Endless Days ***


IX - Endless Days
 


- Shapiro e Valentine! - la chiamata alle armi della professoressa Hawkes tuonò veemente nella sala, mentre Greg Holsen, il delegato assegnato allo spettacolo della Hollywood Arts, che aveva assistito anche alle audizioni, si guardava curiosamente intorno.
Ad un primo impatto, quel giorno, l’aspetto del palco e del backstage pareva quello di un magazzino in cui era stato stipato ogni genere di cianfrusaglie senza alcun ordine logico.
Mancavano ancora parecchi elementi da allestire per permettere le prove della mattina, e per questo, i due sembravano abbastanza agitati.
- Valentine! - invocò la donna, mettendosi le mani attorno alla bocca a mo’ di megafono.
Quando vide che nessuno dei due addetti rispondeva, sbuffò rumorosamente.
- Robbie Shapiro! - le fece eco Greg, alle sue spalle.
Da dietro una parete di cartapesta, spuntò la figura di un ragazzo magrolino, con i capelli in disordine, gli occhiali storti sul naso e la camicia macchiata di vernice.
- Agli ordini! - annunciò solenne Robbie, posizionandosi con la schiena eretta di fronte ai due.
- Hai visto che ore sono? - gli domandò la Hawkes.
- Le nove meno un quarto. -
- E come procedono i lavori? -
Il giovane mosse appena la testa alla sua destra. - Bene! -
- Davvero? - lo incalzò l’insegnante, dirigendo lo sguardo da una parte all’altra.
Poi, d’un tratto, l’espressione si fece furente. - A me non sembra proprio! Quelle pareti non possono essere certo presentate così, manca ancora tutta la carta da parati da attaccare! -
- Sì, beh, vede… -
- Cosa? -
- Saremmo un po’ a corto di colla. -
La Hawkes si voltò prima imbarazzata verso il delegato, per poi fulminare di nuovo Robbie. - Vorrà dire che se non vi basta, l’attaccherete con le gomme da masticare! -
- Sissignora. - promise Robbie, annuendo in maniera composta.
La donna riprese: - Oggi non è una giornata come le altre, Shapiro. E sai perché? -
- A dire il vero no. -
- Bene, e continuerai a non saperlo. Perché ci sarà una sorpresa, ma non ho certo intenzione di svelarla a te. Tra l’altro nemmeno ti interesserebbe. -
- Sissignora. - ripeté Robbie, con un tono sempre più falso.
- Adesso vai a lavorare, che… - prima di congedare il ragazzo, però, parve ripensarci. - … dov’è Cat? -
Robbie deglutì a fatica. Cercò di domare per quanto possibile il battito che era improvvisamente accelerato per il timore, e di mantenere una faccia serena.
Era sempre stato una frana a mentire.
Non voleva rivelare che non vedeva Cat dalla sera precedente, che quella mattina non si era presentata al lavoro, e che non aveva risposto ai due messaggi che le aveva inviato.
Non voleva far sapere nemmeno quanto lui fosse preoccupato per la sua assenza.
Trasse un profondo respiro e ripensò a lei. Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere, seppur modesto, per coprire un’amica. Lo avrebbe fatto per lei.
- Si sta occupando dei costumi delle comparse. E’ in fondo al teatro, e probabilmente non vi ha sentito. - rispose, tenendo ferma la voce.
- Va bene, riferiscile tu quello che ti ho detto. Capito? -
- Forte e chiaro. -
Sentì un peso spostarsi da sopra il suo stomaco, appena vide i due andarsene dalla sala.
Si rimboccò le maniche della camicia e si incamminò verso il retro. Superò un uomo che stava sistemando un tavolo di scena, e un altro che ricuciva l’angolo di una tenda.
Quando approdò nella zona scarico, piena di scatoloni, l’immagine che vide gli provocò un soffio al cuore.
Accovacciata in un angolino nascosto, con le ginocchia al petto e la testa piegata in avanti, c’era Cat.
Nel silenzio dell’area deserta, i singhiozzi echeggiavano malinconici.
Robbie si sistemò nervosamente gli occhiali e le si avvicinò in silenzio. Si inginocchiò accanto a lei. - Cat. - le sussurrò.
La rossa represse un singulto e tirò su col naso, restando però immobile nella sua posizione.
- Cat. - riprovò. Fu tentato di posarle una mano sulla spalla, poi rinunciò. - Va tutto bene? -
Lei finalmente alzò il capo e lo fissò, gli occhi bruciati dalle lacrime.
Robbie non ebbe bisogno di risposte. - Che ci fai qui, da sola? E perché stai piangendo? -
Cat cercò di strofinarsi le palpebre con la manica del vestito, al voce era spezzata. - Per tutte le cose brutte che sono accaduto ultimamente. Io non ce la faccio a sopportarle, Robbie. -
Un singhiozzo la costrinse a riprendere fiato. - Prima Beck, poi Jade, e adesso Sam. -
Robbie contrasse la fronte. - Che è successo con Sam? -
Lei gli spiegò del litigio che avevano avuto la sera prima, derivante probabilmente da quello con Jade dello stesso pomeriggio.
Gli raccontò di ciò che aveva rinfacciato all’amica, del fatto che l’avesse chiusa fuori dalla camera per tutta la notte obbligandola a dormire sul divano, e di come fosse uscita quella mattina senza neanche rivolgerle la parola.
Alla fine, Cat si sentì sul punto di ricominciare a piangere, e riportò la testa in mezzo alle ginocchia.
Robbie, ritrovatosi con la gola secca a vederla così, si sporse verso di lei. - Non devi preoccuparti, Cat, andrà tutto bene. Non è colpa tua, e non è nemmeno colpa di Sam. Non l’ha fatto apposta, lo sai benissimo anche tu che non può averlo fatto apposta. -
Il primo tentativo di consolarla parve avere effetto, perché lei risollevò gli occhi e li agganciò a quelli del ragazzo.
- E non devi avere paura, Beck tornerà. Prima o poi lo farà. E sai come faccio a saperlo? - le chiese, regalandole un sorriso confortante.
Lei scosse la testa.
- Perché ormai per lui non siamo più soltanto degli amici. Siamo diventati la sua famiglia. -
A queste parole, Cat ebbe un sussulto e si gettò tra le braccia di Robbie, che la strinse a sé con forza e gentilezza.
- Io ci sarò sempre per te, ricordalo. - le disse sottovoce, chiudendo gli occhi.
- Lo so. -
Quello che Cat non poteva sapere, però, era quanto stesse battendo forte il cuore di Robbie, abbandonato a quel fragile abbraccio, e cullato dal profumo di quei capelli rosso fuoco.
 
 
*****
 
 
L’inquieta professoressa Hawkes era tornata sui suoi passi, dopo il colloquio con Robbie.
Non si fidava assolutamente a lasciare tutto in mano a quei due, tanto che lei si era sempre dichiarata contraria alla loro nomina come incaricati ai lavori dietro le quinte.
Alla fine, però, il parere di Sikowitz aveva fatto la differenza, e adesso lei si ritrovava a dovergli fare da cane da guardia.
Da lontano vide Robbie che, in alto su una scala, cercava con immani difficoltà di fissare un’apparecchiatura su una delle pareti.
Scosse la testa rassegnata, prima che lo sguardo le cadesse sul gruppetto di ragazzi che stavano facendo il loro ingresso.
C’erano alcuni degli attori che dovevano partecipare alle prove, tra cui Tori, Mark e Jade, e altri che li avevano accompagnati per assistere, come Andre e Trina.
La scelta dell’insegnante ricadde sulla maggiore delle sorelle Vega. - Trina! - la chiamò facendole un gesto con la mano.
Trina mollò la borsa in mano ad Andre e si diresse da lei. - Buongiorno, professoressa Hawkes. -
- Buongiorno, Trina. - si guardò alle spalle, scrutando lo sciagurato Robbie. - Tu non hai alcun ruolo in questo spettacolo, dico bene? -
- Purtroppo no. -
La Hawkes le si accostò e abbassò il tono. - Ascolta, ti andrebbe di prenderne parte? -
Trina si fece sospettosa. - Di che si tratta? -
- Non posso garantirti una parte sul palco, ma posso permetterti di stare almeno dietro le quinte, a stretto contatto con gli attori.
- Che cosa mi sta proponendo? -
- Il mio “collega”, Sikowitz, ha pensato bene di affidare a Valentine e Shapiro i lavori nel backstage ma, a dirla tutta, io non ne sono per nulla convinta. Stamattina, poi, Cat non si è nemmeno presentata a lavoro, e come puoi vedere, Robbie da solo non può cavarsela. -
La ragazza iniziò a capire dove volesse arrivare.
- Ti andrebbe di dargli una mano? - le propose la professoressa, sorridendole a trentadue denti. - Sarebbe solo per oggi, ma sono sicura che faresti un ottimo lavoro. E quando lo vedranno tutti, non esiteranno un secondo a confermarti al posto di Cat, sempre inaffidabile, con la testa tra le nuvole e pure in ritardo. -
Trina sollevò un sopracciglio. Doveva ammettere che la prospettiva la allettava.
Già si immaginava a firmare autografi al termine della rappresentazione teatrale, ma ci fu qualcosa, nell’ultima frase della Hawkes, che le fece scattare come un’illuminazione.
Alla velocità di un treno, i ricordi andarono a rievocare le parole che la sorella le aveva detto il giorno prima. Parole che spinsero i pensieri a girare in senso inverso.
Che avesse ragione Tori?
Era davvero così incapace di pensare ai suoi amici, piuttosto che sempre e solo a sé stessa?
- Grazie, professoressa… - esordì, lanciando un’occhiata distante a Robbie, mentre un ghigno si allargava all’angolo della bocca. - Ma credo che se la stiano cavando bene anche da soli. Adesso mi scusi, ma devo andare. I miei amici mi aspettano. -
Quando la Hawkes se ne andò in preda alla frustrazione, Trina provò addosso una sensazione che non aveva mai provato prima.
La piacevole sensazione di essersi fatta da parte, di aver fatto un favore a degli amici, e di aver lasciato le cose come stavano senza combinare guai. E soprattutto, di aver rinunciato a qualcosa, per una volta.
E come si voltò si sentì ancora meglio, quando vide Tori rivolgerle un sorriso e un occhiolino.
Aveva ascoltato tutto, e adesso era sicura che la sorella maggiore avesse imparato la lezione.
 
 
*****
 
 
Beck si soffermò a fissare il nome del palazzo impresso in lettere tridimensionali sul lato frontale del bancone: Bushwell Plaza.
Guardando distrattamente l'ora sull'orologio a muro, pensò divertito a come, in quel di Los Angeles, la gente non si sarebbe nemmeno sognata di chiamare un grattacielo in quel modo.
Osservò la hall in cui si trovava cercando di cogliere magari qualche dettaglio particolare, mentre restava in attesa che Freddie, andato a prendere la posta alla cassetta, facesse ritorno.
Gli era sembrato un ragazzo a posto sin dal loro primo incontro alla tavola calda, e da allora avevano iniziato a legare e a frequentarsi. Beck aveva bisogno almeno di un primo contatto nella città di Seattle, e in quanto a Freddie, gli aveva dato l'impressione che non avesse una vita così piena e movimentata, per non dire noiosa.
I giorni all'ostello erano infine diventati troppi da sopportare per il canadese, e così aveva chiesto aiuto al suo nuovo amico.

“La mia schiena sta chiedendo vendetta. Ho assolutamente bisogno di trovare un'altra sistemazione.” aveva detto col sorriso sulla bocca, senza far intendere quanto fosse invece più seria la sua richiesta.
“Potrebbe esserci qualcosa di disponibile nel mio palazzo. Mi sembra si tratti giusto di un monolocale sfitto, al massimo due stanze, ma non credo tu possa permetterti molto di più in questo momento.”
Beck si era fatto due conti in tasca, facendo affidamento al denaro che negli ultimi anni aveva messo da parte e che si era portato dietro da Los Angeles. “Direi che per adesso va benissimo anche un monolocale.”

“Perfetto. Ma per i particolari dobbiamo chiedere a mia madre, io non ne so molto. Se non ricordo male, è stata lei ad accennare qualcosa alcuni giorni fa, parlando di un tizio che si è trasferito per lavoro.”

Il ragazzo con il giubbotto marroncino e un paio di buste in mano apparve dal corridoio. - Andiamo? -
Beck annuì, lasciando che l'altro gli facesse strada su per le scale.
Raggiunto l'interno 8-D dei Benson, Freddie bussò alla porta, lanciando un'occhiata al canadese.
- Non c'è nessuno? - chiese Beck, dopo qualche secondo di silenzio.
Freddie scosse la testa arrendevole. - E' sicuramente in casa, ma non ha voglia di venire ad aprire. -
Prese allora le chiavi dalla tasca e i due entrarono nell'appartamento.
- Mamma, sono a casa! - annunciò il giovane Benson, gettando il giubbotto sul divano.
La donna emerse dalla cucina. - Finalmente! - parve rimproverarlo. Lo sguardo poi si posò sull'altro ragazzo, poco dietro il figlio.
- Lui è Beck. - si affrettò Freddie a presentarlo.
- Salve, signora. - salutò il canadese, alzando la mano.
Marisa Benson fece per chiamare a sé il figlio e, dopo aver scrutato ancora una volta il nuovo arrivato, chiese a bassa voce: - E' il tuo nuovo ragazzo? -
Freddie si scostò immediatamente risentito. - Mamma! -
Beck, che aveva sentito, scoppiò a ridere.
La donna scrollò innocente le spalle. - Che ne so, non mi dici mai niente! -
- E continuerò a non farlo, se questo è il risultato! -
Si voltò verso il canadese. - Beck è appena arrivato da Los Angeles. - cominciò a spiegare alla madre. - E sta cercando una sistemazione. Qualche giorno fa mi avevi parlato di un appartamento lasciato libero, giusto? -
- Sì, l'8-S, quello del signor Fonder. - la donna si rivolse poi a Beck. - Si è trasferito a Minneapolis per lavoro. Non è molto grande, ha appena due stanze, ma già arredate. Potrebbe andare bene per te. -
- Lo penso anch'io. -
- Possiamo andare a vederlo? - intervenne Freddie.
- Certo, le chiavi le trovate in portineria. - La donna si congedò salutando il ragazzo canadese e augurandogli buona permanenza a Seattle, per poi tornare alle sue faccende in cucina.
Tornati nel corridoio, diretti a visitare l’interno 8-S, l'attenzione di Beck venne attirata da un dettaglio che non aveva notato in precedenza.
Attaccato sulla porta dell'appartamento di fronte a quello di Freddie, faceva capolino un piccolo cartello giallo con la scritta nera “AFFITTASI”.
- Anche questo è vuoto? - chiese.
L'amico annuì in modo impercettibile con la testa, mentre la sua espressione improvvisamente si adombrava.
- Perché allora non chiediamo a tua madre se posso prenderlo? -
Qualcosa scattò bruscamente negli occhi di Freddie. - No, quello no. -
Beck aggrottò le sopracciglia e lo fissò allibito. - Perché? -
L'altro distolse lo sguardo e indugiò a lungo, prima di liberarsi in un potente sospiro. - Perché... no. -
 
 
*****
 
 
- Tutto ok, Robbie? - domandò Andre, avvicinandosi all’amico durante la pausa pranzo. - La preparazione per lo spettacolo sta procedendo bene, mi sembra. -
Robbie ingoiò il boccone che aveva staccato dal panino e parve pensarci su per un secondo. - Diciamo di sì. -
- Non mi sembri convinto. - lo incalzò.
- Non è esattamente per i lavori al teatro, anche se la Hawkes mi sta alle costole come un coyote. - fece una pausa per bere.
Andre sorrise al paragone. - E allora di cosa si tratta? -
- Stamattina… - si fece serio. - Ho scoperto Cat a piangere, tutta sola. -
L’amico lo fissò incerto e preoccupato, senza riuscire a chiedere perché.
Robbie ricambiò l’occhiata. - Le manca Beck. -
- Manca a tutti. -
L’altro annuì, distogliendo lo sguardo, catturato da una sensazione di rabbia e impotenza. - Già. -
Andre lasciò l’amico al suo panino e si avviò per una passeggiata fuori dalla sala.
I pensieri non poterono fare a meno di concentrarsi sull’addio di Beck, legandolo all’ultima espressione di Robbie, e a quanto avesse fatto star male una fanciulla dolce come Cat.
E infine anche a Jade. Sapeva che la partenza del ragazzo l’aveva ferito e le stava provocando dolore, per quanto lei stesse facendo di tutto per nasconderlo al mondo intero.
Estrasse il telefono dalla tasca e premette sul display.
Non era sicuro che tutte le conseguenze avrebbero potuto essere affrontate, accettate e superate. Non da tutti, almeno, e non per sempre.
Selezionò un numero dalla rubrica e avviò la chiamata.
Tanti squilli a vuoti, troppi.
Il primo tentativo si infranse sulla segreteria telefonica, ma questo non scoraggiò Andre, che ripeté immediatamente l’inoltro.
Ad un tratto una voce familiare, morbida ma risoluta, si manifestò dall’altra parte. - Pronto? -
- Ciao, Beck. -
 
 
*****
 
 
“Finalmente anche per oggi è finita”, pensò Jade mentre lasciava il vestito di scena alla costumista e recuperava la sua borsa.
Un’altra giornata di prove era giunta al termine, e per questo stava ringraziando qualsiasi entità le venisse in mente.
Non perché fosse stancante, ma perché lavorare con Mark stava diventando davvero complicato. C’erano ancora troppe cose che doveva affinare, e Jade aveva il timore che, continuando su questa strada, avrebbe potuto trascinare anche lei nella mediocrità.
Lo spettacolo al Comedy Dreaming non era poi così lontano, e lei ancora si chiedeva come avessero fatto degli adulti grandi e grossi a scegliere Roderick per una parte di tale rilievo.
Sfortuna volle che lo incrociasse ai piedi del palco. La sua incapacità recitativa conferiva a quel volto un’aria ancora meno intelligente, come se sopra quel corpo tanto alto e muscoloso fosse stata montata soltanto una lampada.
- A domani, Mark. - lo salutò fingendo cordialità, affrettando il passo.
Il ragazzo si precipitò dietro di lei. - Jade, aspetta un minuto! -
La mora si fermò controvoglia, quando lui la superò e le si pose davanti. - Volevo chiederti una cosa. -
- Sbrigati, ho un autobus da prendere. -
- Ma non sei venuta in auto? -
- Esattamente. -
Mark prese fiato. - Ecco, io… -
Venne interrotto quasi subito dal rumore del portone rosso che si spalancava lasciando entrare di gran carriera Sikowitz e la Hawkes.
- Ragazzi, un momento di attenzione, prima che ve ne andiate! - esordì il professore.
Mark provò a rifarsi sotto. - Stavo dicendo che… -
Nonostante la differenza di statura tra i due, Jade lo spinse con disprezzo da una parte, avvicinandosi ai due insegnanti. - Zitto, voglio sentire. -
- Viste le grandi opportunità che ci sono state fornite, una su tutte questo spettacolo al Comedy Dreaming, - riprese l’annuncio Sikowitz. - Abbiamo deciso, d’accordo con tutto il corpo docenti della Hollywood Arts, di rendere la fine di questo anno ancora più speciale! -
Appena sentì che tutti gli occhi erano su di lui, l’uomo allungò il braccio verso la porta da cui era appena entrato. - Date il benvenuto a Russel Fore! -
Un distinto signore, che non avrà avuto più di quaranta anni, in un completo scuro elegantissimo, fece il suo ingresso nella sala.
Le facce curiose dei presenti, attori e addetti, si spostarono in silenzio su di lui.
- Non mi aspettavo certo applausi scroscianti, vi capisco. - debuttò l’uomo, sorridendo.
- Per chi non lo sapesse, Russel Fore è uno dei più importanti produttori musicali in tutta Los Angeles. - puntualizzò Sikowitz. - E proprio in occasione di “Mount Hollywood”, ha scelto di firmare una collaborazione con il nostro istituto! -
Jade si lasciò Mark ancora più alle spalle. Questo sì che era molto più interessante.
 
Un’ora dopo, durante la quale Sikowitz aveva spiegato quale fosse il motivo della presenza di Russel Fore, Jade era pronta per tornare a casa più che soddisfatta.
Al diavolo quell’inetto di Mark!
Per la seconda volta, però, come nominò mentalmente il suo nome, lui apparve sul suo cammino.
Si separò da un gruppetto di amici con cui stava conversando e si lanciò in una corsa verso di lei, intercettandola prima della porta. - Jade, volevo chiederti una cosa! -
- Sì, questa l’ho già sentita. C’è anche un secondo tempo del film? - lo derise.
- Ti andrebbe di andare a prendere un caffè? - emise la domanda di getto, rischiando quasi di restare soffocato.
Lei lo incenerì immediatamente con un’occhiata, che però non sembrò avere effetto.
- Vorrei farmi perdonare per gli errori che ho commesso durante le prove, non deve essere stato facile lavorare con me. - continuò. - E poi, potresti darmi qualche dritta per migliorare, no? -
Jade si chiese se dovesse essere sorpresa o disgustata.
Il suo sguardo di fuoco, intanto, continuava a fare cilecca, e la cosa la infastidì molto. Era sempre stato il suo metodo per allontanare ragazzi e scocciatori, perché ora non stava funzionando?
Poi, quando dal nulla il ricordo di Beck iniziò a far capolino nella sua mente, al pensiero di uscire con un altro, capì come si doveva sentire.
Poteva sfruttare l’occasione a suo vantaggio: ammaestrare Mark, e farlo recitare a suo modo e piacere, in fin dei conti si sarebbe rivelato molto utile. Questo fu il primo pensiero che decise di ascoltare, lasciando che andasse ad eclissare gli altri che si erano formati dietro di esso.
Gli angoli della bocca le si piegarono in un sorriso sottile e malizioso. - Va bene, andiamo. -
 
 
*****
 
 
Mentre si incamminava lungo il vialetto, Cat pensò a quale fosse il modo migliore per ringraziare Robbie il giorno dopo, per averla coperta con la Hawkes, e soprattutto per averla aiutata a superare quella giornata tremenda.
Ripensò alle parole dell’amico, e un triste sorriso le si dipinse sul volto.
Al pensiero di avvicinarsi a casa, però, una piccola lacrima tornò a bagnarle gli occhi.
Come sarebbe andata con Sam? Rischiava di essere picchiata stavolta?
Uno strano timore la assalì nell’istante in cui afferrò la maniglia e la ruotò per entrare.
Come l’orizzonte dell’appartamento si allargò davanti a lei, Cat si ritrovò pietrificata sulla soglia.
Sam era lì ad aspettarla, di fronte a lei, con le braccia conserte e un’espressione severa in viso.
Un silenzio assordante avvolse entrambe le ragazze, i cui occhi si agganciarono senza lasciarsi andare.
Furono secondi che parvero secoli, ma tutte le sensazioni che erano montate nel cuore di Cat scivolarono via rapidamente, quando all’improvviso la durezza nella faccia della bionda si sciolse come neve al sole.
Sam ci aveva ripensato parecchio a quello che era successo, notte e giorno, attendendo che la coinquilina ritornasse a casa.
Era stata lei stessa la prima ad essere sorpresa, convinta com’era di non essere affatto capace di provare simili emozioni.
Si era detta che qualcosa, nella vicinanza di quello scricciolo dai capelli rossi, doveva essersi insinuato dentro di lei e cambiato delle cellule nel suo dna, non potevano esserci altre spiegazioni.
Si era scoperta preoccupata per Cat più di quanto avesse immaginato. E per la prima volta, l’aveva vista come la sorella minore che non aveva mai avuto, una creatura che aveva bisogno di lei, e che lei avrebbe potuto proteggere con le sue forze dal male del mondo.
- Mi dispiace, Cat. -
E l’abbraccio che si scambiarono subito dopo, fece loro capire quanto importante fosse l’amicizia che le univa.
 

 

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Capitolo 10
*** X - Far, but not enough ***


X - Far, but not enough
 
 

La scrivania era interamente ricoperta di libri, penne e quaderni, lasciando a malapena spazio per la lampada.
La lezione di trigonometria in cui si era immerso Freddie lo stava facendo andare nei matti. Era forse la prima volta che si sentiva così in difficoltà per una materia.
Mentre cercava ancora di capire dove mettere le mani con tutti quei numeri, il trillo prolungato del campanello lo riscosse, facendolo sobbalzare sulla sedia.
- Mamma, puoi andare tu? - gridò esasperato. - Io sto studiando. -
- E io sto cucinando. - arrivò puntuale la replica. - Chi credi che abbia le mani maggiormente impegnate? -
Freddie scosse la testa, sbatté la mano sulla pagina aperta del volume e, visibilmente contrariato, si avviò verso la porta.
Spalancata, si ritrovò davanti un uomo vestito con una tuta arancione e blu e una borsa a tracolla. - Posta. -
Freddie strinse la presa sulla porta. - E non poteva lasciarla giù nella cassetta? -
- Non questa. - gli porse una busta gialla piuttosto larga. - E’ arrivata per raccomandata. Deve firmare. -
Il ragazzo la osservò e poi sbuffò. - Vado a chiamare mia madre. -
- Non ce n’è bisogno. - lo fermò il portalettere. - E’ proprio indirizzata a lei. -
- A me? - chiese stupito.
- Non guardi me, io non gliel’ho spedita. - commentò sarcastico l’uomo, mentre estraeva un altro foglio dalla tasca.
- Va bene, dia qua. - Freddie afferrò la busta e firmò sbrigativo la ricevuta.
- Buona giornata. - si congedò il postino, ripartendo per il corridoio.
- Anche a lei. - rispose distrattamente, mentre sulla soglia si stava ancora chiedendo di cosa si trattasse.
Quando si fu richiuso la porta alle spalle e fu rientrato in soggiorno, finalmente lo sguardo cadde sull’indirizzo del mittente, stampato sul retro.
E fu colpito, come un pugno, da un sussulto nel petto.
Los Angeles.
Venice, California.
Sam Puckett
 
 
*****
 
 
Avevano ricominciato a sentirsi con una certa regolarità, come se il tempo fosse stato rimandato indietro a un paio di settimane prima.
Uno si sentiva estremamente fortunato ad aver rintracciato l’amico, dopo la paura che si fosse dimenticato di tutto e tutti, mentre per l’altro si trattava dell’unico, e ultimo, aggancio con quel mondo che aveva deciso di abbandonare.
Era già la quarta telefonata che Andre e Beck si scambiavano negli ultimi due giorni, anche se il tono non sembrava dei migliori, da nessuna delle due parti.
- Ciao, Andre. Come stai? -
- Bene, tu? -
L’atmosfera, a tratti surreali, assomigliava a quella di due compagni che non hanno mai legato a scuola, ma che si ritrovano a distanza di anni e si vedono costretti a salutarsi.
- Come stanno procedendo i preparativi per lo spettacolo? - chiese Beck. - Non manca poi molto alla prima. -
Andre prese un lungo respiro ed esitò prima di rispondere, precipitato nel pensiero di ciò che l’amico gli aveva detto il giorno prima.
- Non puoi rivelare agli altri tutto quello che ti sto raccontando, hai capito? Sapranno che sei in contatto con me, ma cosa sta succedendo qui non dovrà uscire da questi telefoni. -
La voce del canadese era ferma, quasi di pietra. Andre aveva fatto fatica a riconoscerla. - Ma… -
- Promettimelo. -
- Neanche… -
- No, neanche lei. -
- Sei proprio sicuro di voler parlare di questo? - fece infine Andre.
- Che vuoi dire? - sentì chiaramente che Beck si era quantomeno inquietato.
- Che lo so benissimo che non è nient’altro che una scusa. A te non interessa dello spettacolo. -
- Però te l’ho appena chiesto. -
- Ma avresti voluto chiedermi qualcos’altro. -
- Ma non l’ho fatto. -
Beck socchiuse le palpebre, strinse il cellulare nella mano e scosse il capo. Probabilmente il suo migliore amico aveva ragione.
C’era una parte di lui che la curiosità stava divorando come una belva feroce.
L’altra parte, tuttavia, era quella che, almeno per il momento, stava comandando la mente e la bocca. - Ti assicuro che non è così. Voglio soltanto sapere come ve la state passando. -
L’amico sospirò rassegnato. - Ok, ti crederò, se è questo che vuoi che faccia. -
I due furono schiacciati da una cappa di silenzio che calò sulla loro conversazione per diversi secondi.
- Ho un’altra domanda da farti. - riprese Andre, con la voce molto più bassa, calma e comprensiva.
Una domanda che non si era posto solo lui, a cui nessuno si era ancora dato una risposta, ma che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di porgergli.
- Perché te ne sei andato? -
Il sasso che aveva lanciato colpì Beck dritto in fronte, e servì a ravvivare ulteriormente la fiammella che gli stava ardendo dentro.
Non seppe neanche lui cosa gli impedì di rispondere come avrebbe voluto, colto da un improvviso moto di nervosismo: forse l’essere punto sul vivo, forse l’essere messo di fronte alla verità, o forse il timore di scoprirsi non abbastanza forte per affrontarla.
- Per Jade. - furono le due sole parole che gettò nell’aria, prima di riattaccare.
 
 
*****
 
 
La pinta di birra si stava svuotando più velocemente di quanto avesse immaginato.
Forse, rifletté Jade mentre osservava distratta le pareti del locale, bere era l’unico modo per portare a termine quell’incontro.
Aveva acconsentito ad uscire di nuovo con Mark, ma se due giorni prima era stato appena accettabile, stavolta si stava rivelando insostenibile.
C’era qualcosa in quel ragazzo che proprio non riusciva a sopportare. Avrebbe voluto dargli dell’idiota e dell’incapace, ma alla fine se ne stava zitta, si rintanava in un buon viso a cattivo gioco, e lasciava scorrere il tempo.
- Mio padre è impiegato in una compagnia assicurativa. -
Jade buttò giù un altro sorso. - Davvero interessante. -
Ormai era chiaro come il sole che Mark stesse cercando di far colpo su di lei, e questo la stava facendo andare ancora più fuori dai gangheri.
Come poteva, anche solo lontanamente, concepire una cosa del genere un tipo che, grande, grosso e muscoloso come un armadio, al posto del cervello sembrava avere uno spinterogeno?
Significava inoltre che, per sfruttare la situazione a suo vantaggio, come aveva pianificato, doveva ricorrere ai suoi sorrisi più falsi e ad una cortesia che non aveva ragione di esistere.
- E tua madre? - gli chiese, cercando di non apparire troppo distaccata.
Non prestò nemmeno attenzione alla risposta. - Deve essere brava nel suo lavoro. - commentò poi a caso.
Nei minuti successivi provò in tutti i modi a spostare il discorso sul teatro, sullo spettacolo e sulle tecniche recitative, nella speranza che l’altro non cominciasse ad elencarle i nomi dei suoi animali domestici.
- Da quanto studi recitazione? -
- Da quando sono entrato alla Hollywood Arts. Solo adesso però mi rendo conto dell’immensa opportunità che mi si è presentata davanti. -
- Già, questo spettacolo sarà un grande avvenimento. - aggiunse, fingendosi elettrizzata.
- E soprattutto, ora ho l’opportunità di lavorare con una delle migliori. -
Jade rischiò di soffocarsi con la birra, quando si concentrò sul viso del ragazzo, e notò un largo sorriso da ebete, e due occhi blu zaffiro che stavano fissando intensamente i suoi.
- Bella mossa. - rispose appena ripreso fiato, facendogli cogliere un velo di imbarazzo.
Idiota.
Quando anche l’ultimo goccio di birra ebbe incontrato lo stomaco della ragazza, Mark si offrì per un altro giro.
- Grazie, ma adesso dovrei tornare a casa. -                           
Afferrò il giubbotto dalla sedia e si avviò all’uscita il più in fretta possibile, prima che all’altro potesse venire in mente di salutarla con qualche strano approccio, come un abbraccio o un bacio.
- Grazie per la birra! - gli gridò ormai sulla soglia.
Percorsi appena una cinquantina di metri, le parve di sentir pronunciare il suo nome.
Dimmi che non mi ha rincorso per riaccompagnarmi a casa…”      
- Jade! -
Tirò un sospiro di sollievo, quando riconobbe quella voce più che familiare. - Ciao Andre. -
- Tutto ok? -
Lei colse una punta di malizia nella richiesta. - Perché? -
Andre le si avvicinò e lanciò un’occhiata al locale da cui l’aveva vista uscire. - E’ buona la birra lì dentro? -
- Non male. -
Lui si fece più serio e abbassò il tono. - Ti ho vista. -
Jade incrociò le braccia e lo squadrò da capo a piedi con aria di sfida. - Bene, esame oculistico superato. E allora? Non posso andare a farmi una birra dopo le prove? -
Andre aggrottò la fronte. - Ma ti sembra una buona idea andarci con lui? -
A quelle parole, la ragazza sentì come se l’amico l’avesse appena attaccata con uno schiaffo. Qualcosa scattò dentro di lei come il grilletto di una pistola pronta a far fuoco. - E a te è sembrata una buona idea quello che ha fatto Beck? -
Il giovane rimase spiazzato da tale risposta.
- Hai una vaga idea, Andre, del perché lo abbia fatto? - la voce si stava incattivendo ad ogni sillaba. - Perché io non ce l’ho! -
L’altro si trovò in difficoltà persino a sostenere lo sguardo.
- E sei sicuro che sapesse cosa stava facendo? -
Andre prese fiato per parlare, ma Jade lo sovrastò. - Beh, io almeno so che sto facendo! -
 
 
*****
 
 
- Entra, amico. - Con un ampio gesto del braccio, come se stesse ironicamente presentando una reggia, Beck lo invitò a seguirlo nella sala principale.
- Allora, come ti trovi? - chiese Freddie, mentre richiudeva la porta e si inoltrava per la prima volta nell’appartamento del suo nuovo amico.
Beck afferrò lo zaino che aveva lasciato sul pavimento e lo posò sulla sedia, prima di sparire in camera. - Piuttosto bene, direi. E’ stata una vera fortuna che i mobili ci fossero già. -
Freddie si mise ad osservare con aria spaesata la stanza: rappresentava il locale centrale dell’appartamento, e fungeva da ingresso/salotto/cucina; un divano verde a due posti era piazzato al centro, sopra un vecchio tappeto dai tratti indiani; una delle pareti era interamente occupata da librerie e scaffali, di cui alcuni mezzi vuoti, mentre l’altra presentava un paio di quadri di dubbio gusto. Un bancone adibito a tavolo, poi, divideva l’ambiente in due lasciando separato il cucinotto, composto unicamente dai fornelli e da un ripiano con microonde.
- Non far caso al disordine, sono appena tornato dal lavoro. - gli disse il canadese dall’altra stanza.
Nell’ultima settimana di permanenza a Seattle, Beck aveva fatto passi da giganti.
Partendo dall’aver trovato l’appartamento grazie alla mediazione della signora Benson, era riuscito anche a procurarsi un lavoretto.
Aveva approfittato dell’offerta di un negozietto di vestiti, che cercava personale in più in vista dei saldi estivi, ed era stato assunto come apprendista commesso. Gli orari erano snervanti e la paga sarebbe stata una miseria, ma tutto sommato si trattava di mansioni abbastanza semplici, e i soldi gli permettevano di mantenere l’affitto di quel bilocale.
Rientrando nel soggiorno, vide che Freddie era ancora in piedi davanti alla porta. - Che ci fai lì? Accomodati. - lo invitò mentre si dirigeva verso il frigo. - Vuoi qualcosa da bere? Ho… vediamo… acqua, acqua, e mi sembra di avere anche dell’acqua. -
- No, grazie, sono a posto. -
Beck si voltò a guardare Freddie e il sorriso gli sparì dal volto, nel momento in cui notò la sua espressione seria. Chiuse l’anta del frigo e aggrottò la fronte. - Che succede? -
Freddie estrasse dalla tasca posteriore la busta che gli era stata recapitata e la mostrò all’altro.
- Che cos’è? -
- E’ arrivata da Los Angeles. -
Beck superò il bancone e gli si avvicinò. - Da Los Angeles? - ripeté, confuso e speranzoso di aver capito male.
- Da parte di Sam. - Freddie tirò fuori un altro foglietto. - Dentro c’era questo. C’è scritto che devo consegnarla a te. Il resto penso sia tuo. -
La busta passò nelle mani del canadese, che rimase a fissare l’indirizzo del mittente per diversi secondi, come se non lo conoscesse.
Sapeva che il passato lo avrebbe rincorso, ma non pensava lo avrebbe trovato così presto.
Superò la riluttanza, si fece coraggio e svuotò il contenuto sul ripiano: un cofanetto avvolto in una carta color avana, e una lettera.
Prese quest’ultima, dopo aver scambiato un’occhiata in cerca di comprensione con Freddie, si sedette sul divano e iniziò a leggere.
 
“Ciao Beck, come stai? Spero tutto bene. Ne è passato di tempo, vero? No, non così tanto, in effetti. Anche noi stiamo bene, ma sentiamo la tua mancanza. Perché non puoi spiegarci cos’è successo? Non abbiamo più avuto tue notizie. Andre ci ha detto solo che sei a Seattle, ti piace la città?
A dire il vero, non so nemmeno se questa lettera ti raggiungerà, ma dovevo fare un tentativo. L’ho fatta spedire da Sam perché è l’unica ad avere conoscenze a Seattle, e ho pregato l’altro ragazzo di consegnarla a te appena fosse arrivata.
Nell’altro pacchetto troverai un regalo. Circa una settimana fa a scuola è venuto un importante produttore musicale, deciso a sviluppare una collaborazione con il nostro istituto, in occasione dello spettacolo. Ha avuto la stupenda idea di far incidere un cd con alcuni dei brani che gli studenti hanno scritto e cantato durante la permanenza alla Hollywood Arts. E ci siamo anche noi! Ne ha fatti produrre uno per ogni iscritto del nostro anno, e questa è la tua copia. Ti prego, fammi sapere almeno se ti piace.
Spero di risentirti presto, ti voglio bene.
 
Tori
 
p.s. Sono stata io a scriverti questa lettera, ma credimi quando dico che la sto mandando a nome di tutti noi.”
 
Beck si lasciò andare ad un lungo sospiro come ebbe finito di leggere, un opprimente getto d’aria che chiedeva di uscire.
Fece cadere la lettera sul divano e si passò una mano sugli occhi. Era inevitabile, ma si chiese lo stesso cosa dovesse fare, e anche cosa dovesse pensare. Due interrogativi che sarebbero rimasti senza risposta.
Si alzò e, sotto lo sguardo interrogativo di Freddie, rimasto lì tutto il tempo, andò al bancone a prendere l’altro pacchetto.
Stracciò con malcelato nervosismo la carta avana e si fermò a fissare la copertina. Un cielo blu scuro era intervallato da una miriade di stelle e da un vortice bianco perla, e al centro, spiccava in rosso il titolo “Hollywood Bright Stars”.
Lo voltò e scorse la track list sul retro. Individuò al n. 2 la canzone di Tori “Make it shine”, quella con cui era entrata alla Hollywood Arts, e gli sfuggì un accenno di sorriso.
Ma fu quando scese più in basso, che Beck ricevette il secondo colpo al cuore nel giro di pochi minuti.
08. You don’t know me - Jade West
Il nome del brano e dell’autrice parevano fissarlo come impietosi giudici, giuria e boia. Un regalo maledetto, un doloroso ricordo di un momento stupendo, un bacio dal sapore dolceamaro, un palco troppo lontano, gli applausi di una folla che adesso sembrava volerli soltanto accusarli.
Un giorno di due anni prima destinato a restare indimenticato e indimenticabile.
Un pezzo di una relazione recuperato, mentre altri cento si perdevano per strada.
Una storia andata storta, e che ormai non esisteva più.
La voce pacata di Freddie lo distrasse dai suoi pensieri. - Va tutto bene? -
Beck ignorò la domanda e, continuando a dare le spalle all’amico, si allontanò verso una delle librerie.
Che cosa credeva di fare Tori? Aveva davvero pensato che fosse una buona idea mandargli quel cd? Cosa sperava accadesse?
Sia Beck che la custodia trovarono posto e pace quando lui l’abbandonò su uno scaffale, in mezzo ad un cumulo di libri, volantini e altri dischi.
Poi si girò verso Freddie, mostrando un’espressione completamente diversa, imperturbabile ma più distesa. - Andiamo a bere qualcosa? -
L’altro fu sorpreso dalla richiesta, e ancora di più dal repentino cambio di umore. - Eh? -
Il canadese sentiva il bisogno di uscire da lì. - Un collega, al negozio, mi ha detto che hanno aperto un nuovo locale sulla Quattordicesima, vicino all’edicola. Pare che sia una specie di pub all’inglese, potremmo andare a farci una birra. -
Freddie contrasse la fronte e si adombrò. - Non credo sia una buona idea. Avrei ancora molto da studiare, domani ho un’interrogazione… -
- A quest’ora non si studia. -
Freddie annuì. Si convinse che forse uscire gli avrebbe fatto bene. In fondo era stata una giornata difficile anche per lui. - D’accordo. -
 
 
*****
 
 
Il vetro gelido stava lì a sorreggerle la testa, mentre lo sguardo vagava tra gli alberi del giardino e i lampioni che li rischiaravano.
La stanchezza si mischiava con la calma della sua stanza, buia e taciturna.
Le crepe che avevano danneggiato il suo spirito si stavano facendo più larghe e profonde ogni giorno. Cicatrici che non si stavano risarcendo, e che lei aveva scelto di nascondere dietro una maschera.
La discussione che aveva avuto con Andre, seppur breve, aveva comunque avuto il potere di spezzare un’ulteriore parte di lei, facendola sentire sempre più vicina al limite.
Mancava qualcosa che le permettesse di tenere sotto controllo la sua anima, il suo cuore, e tutta sé stessa.
Lo stava sperimentando sulla sua pelle: le occhiate omicide, i sorrisi perfidi e le urla intimidatorie non sembravano più sufficienti.
Stava entrando in una nuova fase della sua vita. Fuori dalla scuola, a partire da quello spettacolo davanti a migliaia di persone, la stava aspettando un mondo diverso e cattivo, fatto di crescita, maggiori responsabilità, stabilità.
E senza la certezza di avere qualcuno che vegliasse su di lei. Non aveva più quella forza e quella sicurezza che Beck sapeva darle e le aveva sempre dato.
Una lacrima le scese involontaria e silenziosa sul palmo della mano.
Lei se l’asciugò in fretta sui jeans e strinse il pugno.
Avrebbe trovato da sola la forza di cui aveva bisogno.
Era la prima lacrima che aveva mai pianto per un ragazzo, e sperava fosse anche l’ultima che avrebbe versato per Beck.
 
 
*****
 
 
L’ambiente era caldo e accogliente. Per essere un locale che cercava di assomigliare a quelli britannici, il clima era piuttosto calmo e disteso. Non si vedevano ubriaconi intenti a spaccar bottiglie o a prendere a pugni il juke-box, né tizi che salivano sul bancone urlavano “forza Manchester!”.
Beck e Freddie si erano appropriati di un tavolo nell’angolo, proprio davanti al poster di un castello medievale.
La luce soffusa conferiva alle pareti un color cioccolato misto a cenere, mentre gli scaffali colmi di bottiglie risaltavano grazie alle targhette d’oro intarsiate.
Beck ringraziò la cameriera che gli aveva portato due birre scure, e ne buttò subito giù un lungo sorso.
- Mi pare un posto carino, e la birra è davvero buona. - esordì il canadese, posando il bicchiere sul tavolo. - Dovremmo tornarci anche altre volte. -
Freddie concordò distrattamente, tenendo lo sguardo fisso sul tavolo. - Sì, è ottima. -
- Non l’hai nemmeno assaggiata. -
L’altro tirò su la testa, chiaramente colto in flagrante. - Beh, sì, ma… immagino. -
Beck aggrottò le sopracciglia e si spose in avanti. - Ascolta, ho capito che avevi da studiare, ma non c’è bisogno adesso che… -
- Non c’entra nulla lo studio. - sbottò Freddie, fiondandosi sul bicchiere per fermare immediatamente il discorso.
Beck notò la strana ombra che si aggirava negli occhi dell’amico, e gli venne da domandarsi chi dei due avesse più bisogno di bere in quel momento. - E allora che succede? E’ da prima che sei strano, da quando mi… -
Il pensiero dell’istante che stava per rievocare lo fece interrompere. - La busta. E’ nato tutto da quella. -
Si ritrovò però confuso. - Ma cos’ha a che fare con te? In fondo dovevi solo consegnarla a me. C’era qualcos’altro dentro? -
Freddie si fece ancora più ombroso e scosse il capo. - Il problema non è stato il contenuto. E’ stato il mittente. -
- Sam? -
Freddie alleggerì il groppo alla gola con la birra, e per quanto gli riuscisse difficile ammetterlo, alla fine annuì.
Beck decise di sfruttare il momento per mettere tutte le carte in tavola. - Ha per caso a che fare anche con l’appartamento di fronte al tuo? -
A quelle parole l’altro si irrigidì, e una fiamma iniziò a bruciare dentro le sue pupille.
Prima che Freddie potesse rispondere e che Beck potesse pentirsi di aver fatto quella domanda, una voce giunse ad interromperli. - Salve, ragazzi. -
Quando Beck si voltò alla sua sinistra, vide due ragazze in piedi accanto al loro tavolo.
Giovani e carine, non dovevano avere più di diciotto anni. Quella che aveva parlato era leggermente più bassa dell’altra, e indossava una camicetta rosa e una gonna nera; aveva i capelli lunghi e biondi, e una frangia a coprirle metà della fronte, lasciando che a risaltare fossero i grandi occhi verde smeraldo.
- Cercavamo qualcuno per fare due chiacchiere. - aggiunse l’amica, corvina e con un tatuaggio che si intravedeva sotto la spallina del vestito. - Possiamo sederci? - propose con aria innocente, rivolgendosi a Freddie.
Beck osservò l’amico distogliere lo sguardo con indifferenza e trarre un altro sorso di birra, mentre una vocina lo invitava a capire cosa potesse esserci di sbagliato, nel voler fare un ulteriore passo avanti.
- Prego, accomodatevi. -
 
 
 

 

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Capitolo 11
*** XI - I can't forget ***


XI - I can’t forget


 
Un sole particolarmente intenso e caldo filtrava dalle finestre dell’aula di teatro, dando il buongiorno agli attori impegnati nelle prove.
Tori e Madeline Dort avevano appena concluso il loro segmento, che si svolgeva in camera e che le vedeva affrontare lo spigoloso problema di quale vestito scegliere per un party a scuola.
I prossimi sarebbero stati Jade e Mark. Salirono sul palco e raggiunsero le loro posizioni, sotto lo sguardo attento di Sikowitz.
Avrebbero dovuto riproporre il momento in cui i genitori si ritrovavano in apprensione ad attendere il ritorno della figlia proprio da quella festa: una scena che fin dall’inizio aveva lasciato qualche perplessità nei professori, e soprattutto, la scena per la quale Jade si era infuriata con Mark.
Era un’opportunità che aveva il sapore di rivalsa per entrambi.
Mark si sedette al tavolo e annuì alla partner per confermare l’intesa.
Dopo alcuni secondi di concentrazione, l’espressione di Jade mutò, facendosi agitata e preoccupata. - Che ore sono, Tod? - esordì con lo sguardo basso.
Mark diede una rapida occhiata all’orologio da polso. - Le undici meno un quarto. -
Jade tirò su il capo, stupita dalla reattività del ragazzo, e lo fissò angosciata. - Dici che dovremmo provare a chiamarla? -
- Ci ho già provato cinque minuti fa, e ha risposto la segreteria telefonica. -
- Sono preoccupata. -
- Lo so, Evelyn, ed è normale. - stavolta le pause sceniche riuscirono alla perfezione. - Ma forse dobbiamo capire che la nostra Mary non è più una bambina. E’ una ragazza ormai, e… -
- Per me rimane ancora la nostra bambina. - sottolineò Jade con crescente sconforto.
Stavano viaggiando a tutto un altro ritmo rispetto alle volte precedenti, e se ne accorsero ancora più chiaramente quando Mark si alzò dalla sedia e le si avvicinò. - Lo sarà sempre anche per me, ma sta crescendo. - la consolò.
Poi si inginocchiò davanti a lei e le prese gentilmente la mano tra le sue. - Sei bellissima stasera, Evelyn… -
Nessuno avrebbe mai scoperto se il bacio che avrebbero dovuto scambiarsi da copione sarebbe avvenuto, perché la voce di Sikowitz intervenne puntualmente ad interromperli. - Stop! Ottima, bravi! - esclamò, facendo seguire poi un breve applauso.
- Buona interpretazione come al solito, Jade. - la ragazza fu la prima a lasciare il palco, mentre Mark fu fermato dal professore, che aveva altro da dirgli. - Davvero un buon lavoro, Mark, mi hai sorpreso. Hai affrontato la scena molto bene, e ho visto una crescita considerevole in te dall’ultima volta. Continua così, bravo. -
Mark annuì soddisfatto. - Grazie, professore. - prima di prendere la scalinata per scendere, il ragazzo si fermò a fissare Jade.
Lei lo notò e ricambiò lo sguardo. “Bravo” gli mimò con la bocca, alzando il pollice in cenno di approvazione.
Lui le rispose sorridendo.
“Finalmente ne ha fatta bene una”, pensò, mentre un sorrisetto perfido cercava di fingersi sincero.
 
 
*****
 
 
Si erano ritrovati di nuovo al pub “Seat Yards”, a poche centinaia di metri da casa loro.
Beck era appena uscito da lavoro, mentre Freddie aveva deciso di staccare un po’ dallo studio, in attesa che sua madre, puntualmente, lo richiamasse per cena.
Ormai quel locale dal vago ricordo britannico stava diventando una sorta di rifugio giornaliero, anche se, per il gestore, le loro bevute non erano mai abbastanza. Nessuno dei due era un gran bevitore, ma il posto si prestava benissimo alla tranquillità che entrambi cercavano.
Beck affondò la mano nella ciotola di noccioline e scrutò lo sguardo dell’amico. Non aveva dimenticato la sera prima, quando aveva scoperto che anche nella vita di un ragazzo serio e affidabile come Freddie, si nascondevano dei fantasmi.
- Che ne dici di riprendere il discorso di ieri sera? - lo invitò il canadese. - Almeno mentre aspettiamo che il cameriere ci porti qualcosa da bere. -
Non voleva mettergli un’eccessiva pressione addosso. D’altronde, lui non gli aveva mai fatto troppe domande sul perché se ne fosse andato da Los Angeles.
Aveva apprezzato la discrezione, ma adesso, vedendolo così scuro in volto e in difficoltà, aveva capito che a volte confidarsi non avrebbe fatto così male.
Inoltre, lui che del suo vecchio gruppo era considerato il più responsabile, si era sempre ritenuto un buon ascoltatore anche su argomenti privati e personali.
- Qual è la storia dietro quella busta, Freddie? -
L’amico appiattì la schiena sulla sedia e sorrise nostalgico. - E’ una storia lunga sei anni. -
Beck finse ironicamente di guardare l’orologio al polso. - Abbiamo tempo, prima che chiami tua madre. -
Freddie attese che arrivassero i drink che avevano ordinato, poi poggiò i gomiti sul tavolo e prese un bel respiro. - E’ iniziato tutto nell’appartamento di fronte al mio. -
- Ma posso sapere che cos’ha di così speciale? -
- Ci abitava Carly - Freddie sorrise di nuovo e si perse in uno sguardo malinconico, come se stesse rievocando un ricordo. - Più o meno otto anni fa, lei e Sam decisero di mettere in piedi questo web-show: iCarly. Ha avuto addirittura più successo di quanto ci potevamo mai aspettare, ed è nel suo appartamento che giravamo tutte le puntate. -
- Partecipavi anche tu con loro? -
- Io ero il cameraman, il ragazzo dietro la macchina, l’invisibile che gestiva gli effetti, il nessuno che faceva sì che quello show circolasse sul web. - si fermò, come se dovesse correggere sé stesso. - E’ stato uno spasso lavorare con loro, anche se, a dire il vero, all’inizio mi sono aggregato soltanto perché avevo una cotta per lei. -
- Per Sam? -
Freddie scosse il capo ridendo. - Per Carly. Siamo cresciuti insieme, e fin da piccolo lei è sempre stata il massimo per me. Carina, gentile, spiritosa, altruista. Insomma, il contrario di Sam. -
Beck afferrò il bicchiere. - E lei? - chiese, prima di bersi un sorso.
- No, lei non ha mai ricambiato. O meglio, penso che non l’abbia mai fatto. -
Beck assottigliò gli occhi e li puntò sull’amico. - E allora perché ho l’impressione che non sia stato questo gran problema per te? -
Freddie annuì sospirando. - Perché solo qualche tempo dopo ho scoperto che nella mia vita non esisteva solo Carly. Esisteva iCarly, ed esisteva anche Sam. -
- E’ lei il problema. -
- Devi capirmi: lei era la mia antitesi, l’opposto di quello che stavo cercando, a volte persino la mia peggior nemica. Però… è successo. Non sono mai riuscito nemmeno io a spiegarmi come, ma è successo. -
Beck aggrottò la fronte. - Cosa? -
- Una sera ho scoperto che le piacevo! Buffo, vero? Io, dopotutto, ero quello che lei aveva sempre picchiato, offeso, deriso e raramente considerato. Dio solo sa cos’era preso ad entrambi. Non so spiegartelo, Beck, ancora oggi la considero la cosa più complicata e impossibile del mondo. Ho capito che quell’odio che ci univa nascondeva del bene, sviluppatosi in chissà quale strano modo negli anni. Continuavo a pensare che ogni volta che mi aveva tirato un pugno lei intendesse davvero darmelo, ma adesso sapevo anche che c’era qualcosa di più sotto. E poi, una parte di me mi ha fatto accorgere che nemmeno lei mi era indifferente. -
- Eravate due opposti che si completavano. - commentò Beck.
- Eravamo due opposti che si sovrapponevano. - lo corresse. - Quando eravamo insieme, nessuno dei due riusciva a stare al proprio posto, o a lasciare all’altro i propri spazi. Era come se uno cercasse di conquistare la metà dell’altro. Eravamo troppo diversi, e in nessun modo avremmo potuto cambiare questo aspetto. -
- Come avete fatto a far funzionare le cose tra voi, allora? -
- Non l’abbiamo fatto, per quanto fossimo legati. I nostri lati che avrebbero dovuto, come hai detto tu, completarsi con quelli dell’altro, stavano invece provocando un gran caos. Abbiamo rotto neanche due settimane dopo. Rischiavamo solo di farci male a vicenda, e abbiamo realizzato che in fondo sarebbe stato meglio così. -
- Immagino che i vostri rapporti siano stati una difficoltà, da allora, per il vostro show. -
- A dire il vero lo show continuava a procedere alla grande, e i nostri rapporti erano addirittura dei migliori. -
Beck parve rimuginare su quest'ultima frase. - Perciò alla fine sei riuscito ad andare avanti? -
- Pensavo di averlo fatto. Ad essere sincero, però, credo di non essere mai riuscito a staccarmi mentalmente dal momento della nostra rottura, quando abbiamo promesso di riavvicinarci il giorno in cui lei sarebbe diventata meno pazza, o io un po' di più. Quello che c’era tra di noi, qualunque cosa fosse, era cambiato. Abbiamo ricominciato a lavorare insieme come due amici, come se nulla fosse accaduto, ma qualcosa doveva essere sicuramente rimasto dentro di me. Nascosto bene, mascherato dietro la mia eterna cotta per Carly, magari, ma comunque presente. E proprio Carly è stata la chiave di tutto. -
Beck lo squadrò. - Che vuoi dire? -
Freddie si bagnò le labbra e riprese fiato. - Poco più di due anni fa... - fece una pausa, come se stesse ripensando a quel lasso di tempo. - Carly ha lasciato Seattle per seguire suo padre in Italia. E' stato un duro colpo per tutti: iCarly è stato chiuso, e sapevamo che niente sarebbe stato più come prima. L'ultima sera che Carly ha trascorso qui, poi... - si interruppe di nuovo, sorridendo imbarazzato. - … mi ha baciato. -
Beck sollevò un sopracciglio stupefatto. - Sembra la fine perfetta. -
Freddie cambiò radicalmente espressione. - Beh, non lo è stata. -
 
 
*****
 
 
Stava per giungere al termine un’altra giornata di prove. Tori aveva già esaurito le sue scene, e si era ritrovata nel backstage insieme ad Andre e Robbie, mentre aspettava Trina per riaccompagnarla a casa. Jade, invece, ne avrebbe avuto almeno per un’altra ora.
- Sta andando alla grande, non è vero, ragazzi? - fece Andre agli altri due.
Robbie e Tori si scambiarono un’occhiata. - I lavori per il palco e per la scenografia sono conclusi, alla faccia della Hawkes! - esclamò il ragazzo. - Non ha mai avuto un briciolo di fiducia in noi, ma gliel’abbiamo fatto vedere, di cosa sono capaci i Cabbie! -
Andre alzò un sopracciglio con sufficienza. - I cosa, scusa? -
Robbie rise. - I “Cabbie”: Cat e Robbie. E’ stata davvero di grande aiuto, devo ammetterlo. Noi siamo a posto, adesso vedremo se anche gli attori saranno all’altezza… - scherzò voltandosi verso l’amica.
Tori scosse la testa fulminandolo con lo sguardo. - Molto simpatico, vorrei vedere te sul palco davanti a migliaia di persone che ti fissano! I nostri ruoli stanno funzionando, comunque. All’inizio anch’io avevo qualche dubbio su Mark, ma ultimamente è migliorato parecchio. Chissà cosa gli è successo: o si è messo in testa di studiare tutto il teatro dell’800 e del 900, o qualcuno gli ha impiantato un cervello nuovo! - si bloccò quando un pensiero le attraversò la mente. - Certo che se al posto suo ci fosse stato Beck… -
Un’aria di imbarazzo misto a malinconia li avvolse, finché Andre non decise che il nome del loro amico non poteva essere ignorato per sempre. - L’ho risentito l’altro giorno. -
- Davvero? - squillò alle sue spalle Cat, arrivata in compagnia di Trina.
Andre, colto di sorpresa, si voltò di scatto. - Cat, se continui a comparire così e con quella voce, finirai per farmi prendere un colpo! -
- Scusa… - si giustificò mortificata.
- Ad ogni modo sì, ci siamo parlati. Voleva sapere come stavate andando con lo spettacolo. -
- Che carino! -
- Meno male che nessuno sa la verità. - intervenne Tori. - E’ stata una buona idea dire che era dovuto tornare in Canada per alcuni motivi familiari. Sai che caos si sarebbe scatenato, se avessero saputo che era… - sembrava avesse paura a pronunciare la prossima parola. - … fuggito. -
Andre si girò verso Trina, puntandole contro uno sguardo inquisitorio. - Tu non sei andata a dirlo in giro, vero? -
- Assolutamente no! - gli rispose risentita. - Che cosa credi? Anch’io tengo a lui! -
Il ragazzo parve convinto. - Va bene. -
Tori si fece pensierosa. - Vi rendete conto che ancora non sappiamo perché Beck se ne sia andato? -
Andre si guardò intorno. - Ho provato a chiederglielo. -
- E? - lo incalzò lei, impaziente.
- Mi ha risposto… - iniziava a sentirsi a disagio. - Che l’ha fatto per Jade. -
Tori scambiò, a turno, un’occhiata con i suoi amici. - Era prevedibile. E credo che tutti noi, in fondo, abbiamo pensato a questa possibilità. -
- L’importante è non rivelarlo a lei, adesso. - prese la parola Robbie.
Andre annuì. - Sono d’accordo. -
La voce di Tori si agitò. - Ci sarà però qualcosa che possiamo fare! -
- Sì: niente. - dichiarò il ragazzo, scuro in volto. - Non metterci in mezzo, e lasciare che siano loro, una volta per tutte, a capire verso quale direzione intendono andare. -
Tori, contrariata dal consiglio dell’amico, invitò la sorella a seguirla. - Andiamo, si torna a casa. -
Non appena le due si furono allontanate, Robbie si avvicinò a Cat e le cinse le spalle col braccio. - Hai visto? - le sorrise. - Beck non ci ha abbandonato! E non pensare nemmeno per un secondo che sia per colpa tua se è partito. -
Il viso di Cat si illuminò, mentre lo fissava negli occhi celati dalle lenti. - Grazie! - gli disse, prima di abbracciarlo calorosamente.
La rossa si staccò dopo alcuni istanti che al ragazzo sembrarono troppo brevi. - Adesso devo andare! - si congedò correndo dietro le altre due ragazze.
Rimasti soli, Andre affiancò l’amico e gli diede una pacca sulla spalle. - Anche qui c’è qualcuno che dovrebbe parlare, e che dovrebbe decidere quale direzione prendere, dico bene? -
Robbie rise, ancora intento a seguire la schiena della ragazza allontanarsi. - Dammi fiducia, Andre: ho un piano. Gli anni di timido silenzio sono destinati a finire. -
 
 
*****
 
 
- Sembra la fine perfetta. -
- Beh, non lo è stata. Perché quella stessa sera... -
- … anche Sam se n'è andata. -
- Esatto, vedo che questa parte della storia la conosci. - la sua voce si era leggermente amareggiata. - Probabilmente, tra tutti noi, Sam è stata quella che ha accettato meno l’addio di Carly. E penso sia stato proprio a causa del suo rifiuto verso questa distanza tra noi di iCarly che, dopo quella maledetta notte, non ci siamo più sentiti per quasi un anno. -
- Nessuno dei due ha più cercato l’altro? -
- No, e non sono neanche sicuro che volessimo farlo. Sam aveva deciso di tagliare ogni ponte con il suo passato a Seattle, e io… non credo di averle mai perdonato il fatto di essere partita così, senza salutare nessuno, senza avvertire i suoi migliori amici, come se non contassimo niente per lei. Posso dire che ero anche arrabbiato con lei, oltre che deluso e dispiaciuto. -
- Cat però mi ha raccontato che alla fine sei venuto a Los Angeles. -
Freddie si fece ancora più pensieroso. - Cat… davvero strana, quella ragazza. Stavolta comunque ha ragione: mi ha attirato là con la scusa che Sam aveva avuto un incidente… ed è stato nel momento in cui ho risposto alla telefonata che ho capito di essermi sempre sbagliato. Non ero riuscito ad andare avanti come avevo sperato, e la distanza che si era messa tra di noi aveva soltanto affievolito e sepolto quello che ancora sentivo per lei. Avrei dovuto accorgermi molto prima, che Sam ormai non era più soltanto un’amica per me. Il bacio di Carly poi aveva incasinato tutto un’altra volta. Immagino che, per tutto questo tempo, la mente inseguisse il nome di Carly, mentre il cuore urlasse quello di Sam. -
Freddie si fermò di nuovo e terminò il suo drink, mentre sembrava riflettere sulle sue stesse parole. - Sono convinto che sia questa la ragione per cui non sono mai voluto andare in Italia a trovare Carly, o restare a Los Angeles con Sam. Non sapevo quale strada prendere, e nemmeno se ne dovessi prendere per forza una. Erano due amori impossibili, che non sarebbero più appartenuti alla mia vita. -
Anche Beck svuotò il bicchiere, colpito dalla storia. - Adesso comprendo perché non volevi che mettessi piede in quell’appartamento. Troppi ricordi sarebbero stati infangati. -
- Non solo. Dopo la partenza delle ragazze, erano rimasti solo Spencer, il fratello di Carly, che viveva con lei proprio in quella casa, e il mio amico Gibby. Circa tre mesi dopo, tuttavia, anche loro hanno abbandonato Seattle. Gibby si è progressivamente allontanato da me, finché non si è iscritto ad un club di esploratori, ed è partito per una serie di viaggi in giro per il mondo. Spencer, invece, sembra che sia riuscito finalmente a coronare il suo sogno. Ha vinto una specie di borsa di studio in Svezia, dove ancora oggi sta proseguendo, con discreto successo, la sua carriera di scultore. -
Freddie si prese l’ultimo intervallo. - Sono contentissimo per loro, non fraintendermi. E’ solo che mi ha fatto capire una volta per tutte che le nostre vite stavano cambiando e andando avanti, e che il passato, pur restando sempre presente, non ci appartiene più come prima. E vale per tutti noi.
Per questo ho reagito così quando l’altro giorno ho visto la busta da parte di Sam; è stato come se quel passato mi avesse rincorso per mesi, e mi avesse finalmente raggiunto. Il problema, Beck, è che io non sono sicuro di voler essere trovato. -
Guardò l’ora sul cellulare e, per evitare di dover sopportare la chiamata della madre, decide di salutare l’amico e incamminarsi verso casa.
Beck lo osservò sparire dietro la vetrata della porta, poi, con lo sguardo fisso sul tavolo, iniziò a giocherellare col bicchiere vuoto, facendolo roteare tra le mani.
Era chiaro che le parole di Freddie avrebbero dovuto farlo riflettere.
Una decina di minuti dopo, trascorsi ripensando a quella storia che suonava così folle ma così vera, il telefono gli vibrò in tasca.
Lo estrasse e il nome sul display lo trascinò via a forza da ogni riflessione. - Pronto? -
- Ciao Beck, sono Sonja. Ti ricordi di me? - la voce era divertita.
Un sorriso si allargò spontaneamente sul volto del canadese. Un altro ricordo che gli era rimasto impresso dalla sera precedente. - Certo, Sonja. Come stai? -
- Tutto bene, ti ringrazio. Ti ho chiamato perché volevo sapere… ecco, visto che non ho impegni per stasera, ti va se ci rivediamo? -
Lo sguardo di Beck ricadde sul bicchiere vuoto di fronte a sé. - Devo sentire anche Freddie se… -
- No, intendevo solo io e te. -
Beck si ritrovò all’improvviso con lo sguardo vitreo e un treno di pensieri che gli viaggiava a velocità estrema nella mente.
Un istante, in cui tornarono a galla le parole di Freddie sui sentimenti che non appartenevano più alla sua vita, e si sentì pronto a rispondere. - Ci sto. Mandami l’indirizzo, passo a prenderti alle 9. -
 
 
*****
 
 
Aveva ceduto di nuovo all’invito di Mark. Si era fatta portare in un locale vicino all’istituto per un drink, senza neanche provare a rifiutare o ad opporsi.
Quel ragazzo, pensò varcando la soglia mentre lui le teneva la porta aperta, aveva una testa bella dura.
Lo aveva capito fin da subito, quando aveva provato a tenerlo a bada col suo sguardo scaccia-persone, senza alcun effetto.
Doveva avere davvero una brutta cotta per lei, si disse sorridendo tra sé e sé.
Mark la fece accomodare sulla panca sistemata contro la parete, e prese posto di fronte a lei.
Jade richiamò l’attenzione di un ragazzo col grembiule bianco e gli ordinò tutto quello che le veniva in mente dal menù.
Mark scoppiò a ridere, divertito dalla fatica che stava facendo il cameriere per starle dietro. Lei lo fulminò all’istante con un’occhiataccia, convinta che la stesse prendendo in giro, ma in risposta ottenne solo un occhiolino. - Per me lo stesso. - indicò poi Mark al ragazzo, prima di rimandarlo in cucina.
Un gesto come quell’occhiolino, fino a poche ore prima, l’avrebbe sicuramente innervosita.
Quel giorno, invece, Jade si accorse che l’odio e la voglia di prenderlo a schiaffi che provava nei confronti di Mark si erano oltremodo affievoliti. Adesso riusciva persino a sopportare di stare allo stesso tavolo con lui.
La spiegazione, tuttavia, era più vicina e chiara di quanto si potesse pensare. Non ci mise molto a capire che il tutto era riconducibile alle prove che avevano appena concluso, dove lui era riuscito a sorprenderla. I frutti del suo intento si stavano vedendo, e questo avrebbe favorito entrambi, in vista del grande spettacolo di fine anno.
- Mi sei piaciuto, oggi. - ammise, pentendosene quasi subito.
Lui inclinò il capo. - Perché di solito non ti piaccio? -
Jade comprese il doppio riferimento, e marcò maggiormente le parole. - Te lo dico e te lo ripeto chiaro e tondo, Mark: oggi è la prima volta che mi sei piaciuto. -
I loro sguardi si incrociarono. - Tu invece sei sempre una forza. -
D’un tratto Jade sentì come se gli zaffiri negli occhi di Mark si tuffassero dentro il mare dei suoi, e per un breve attimo si ritrovò stordita.
Doveva ammettere, per quanto si rifiutasse di farlo, che c’era qualcosa nelle parole e nei gesti di Mark che la stavano colpendo. Stava conoscendo un altro ragazzo rispetto all’idea che si era fatta all’inizio, sul quale forse si era sbagliata.
Era una sensazione che non provava più da tempo, da quando…
Scosse la testa per scrollarsi di dosso quel pensiero, afferrò con veemenza la bottiglia d’acqua e buttò giù un bicchiere intero.
Apprezzava tutte quelle attenzioni, non poteva negarlo, ma questo non significava certo che sarebbe finita come lui sperava.
Mark poteva non essere completamente idiota come lo aveva giudicato, ma c’erano tante cose di lei che ancora non conosceva.
 
 
*****
 
 
Non era mai stato nervoso con le ragazze. La fiducia in sé stesso, unita al bell’aspetto, gli avevano sempre permesso di tenere le redini dall’inizio alla fine di ogni appuntamento.
L’unica eccezione era stata rappresentata da Jade.
E forse era questo, insieme alle parole di Freddie e al desiderio di proseguire il percorso che aveva intrapreso da quando era atterrato a Seattle, che lo faceva sentire strano.
Solo in auto ad aspettare, con la mano sul volante, si scoprì nuovamente teso. Un po’ di eccitazione, di fermento, e anche un po’ di insicurezza.
Cercò di distrarsi concentrandosi sulla strada, immobile davanti a sé, e sulla macchina. Aveva investito i primi soldi della paga, più alcuni di quelli che aveva da parte, in una Buick del ’98 color verde bottiglia. Non era il massimo, ma vivere a Seattle senza un mezzo di trasporto sarebbe stata una vera e propria utopia.
La breve vibrazione nella sua tasca lo riportò al presente. Estrasse il telefono e aprì il nuovo messaggio appena arrivato.
“Sto scendendo.”
Beck sorrise e le rispose con un rapido “ok”. Nell’attesa, si voltò ad osservare la casa all’indirizzo che Sonja gli aveva scritto. Era elegante, e denotava senza dubbio un certo valore sociale. Oltre il cancello di bronzo, si stagliava un vialetto composto da larghe mattonelle di marmo che, circondato da un giardino privato, ampio e ben curato, conduceva all’ingresso. Qui si trovava una sorta di patio, dove due colonne bianche e degli scalini lo facevano quasi assomigliare all’entrata di un tempio.
Beck si lasciò andare indietro sullo schienale, sospirò e chiuse gli occhi.
Era contento di rivedere Sonja. Non che avesse ripensato a lei, dopo il loro primo incontro al Seat Yards della sera prima, ma la sua telefonata gli aveva fatto davvero piacere.
Le aveva lasciato il numero quasi senza pensare alle conseguenze, e non si spettava certo di risentirla così presto.
Si ritrovò a sorridere, ripensando alla serata precedente. L’amica di Sonja, Jessica, era sembrata sinceramente interessata a Freddie, ma lui, con la testa da chissà quale altra parte, era riuscito nell’impresa di non cogliere neanche un segnale.
Aveva persino finito per perdere il biglietto con l’indirizzo e-mail che lei si era tanto premurata di lasciargli.
Beck invece aveva trascorso delle ore molto piacevoli. Era stato ad ascoltare a lungo quella ragazza dai grandi occhi verde smeraldo e il sorriso sempre in volto, e ci aveva trovato subito una buona intesa. Si vedeva che adorava parlare delle sue passioni, che dipingeva con trasporto, e i suoi racconti avevano il talento di trascinarci dentro chiunque le fosse intorno.
Aveva scoperto che Sonja era appassionata di danza classica, e che suo padre lavorava in una scuola di Seattle. Lei non aveva mai potuto ballare, per via di una piccola malformazione alla caviglia sinistra causata da un incidente avvenuto quando lei era ancora una bambina, e così negli ultimi tempi si era concentrata sullo scovare e aiutare nuovi talenti.
Beck, invece, si era guardato bene dal rivelarle troppi dettagli sulla sua vita. Le aveva raccontato delle sue origini e di aver frequentato un istituto per diventare attore, senza però aggiungere troppi dettagli sul dove o sul come, e tantomeno sul perché da Hollywood fosse finito a Seattle.
Un’importante domanda gli balenò in mente: avrebbe potuto scappare dal suo passato per sempre?
Non avrebbe trovato una risposta quella sera, perché a ridestarlo furono un paio di colpetti delicati al finestrino.
Beck riaprì gli occhi e, al di là del vetro dal lato del passeggero, incontrò di nuovo i profondi occhi di Sonja che lo fissavano.
- Posso? - sorrise.
Lui si precipitò fuori dall’auto e, con galanteria, le aprì lo sportello e la fece accomodare. Seguendola con lo sguardo dentro l’abitacolo, notò come Sonja sembrasse quasi brillare, in quell’auto vecchia e malandata.
Indossava un cappottino porpora che le arrivava fino alle ginocchia, sotto al quale si intravedevano un paio di jeans blu scuro e un maglioncino bianco.
Beck rifece il giro e tornò al posto di guida.
- Scusa il ritardo. - gli fece lei, con lieve imbarazzo.
- Non ti preoccupare, sono io che… - si ritrovò incredibilmente senza parole per concludere, così decise di recuperare in altro modo. - Allora, dove vuoi andare? -
Lei si sistemò un ciuffo di capelli. - Lo conosci il “Sea Horse”? -
Beck scosse il capo.
- E’ un locale sulla Quindicesima, molto carino e col piano bar. -
Beck approvò l’idea. - D’accordo. -
Mentre lui cercava le chiavi nelle tasche del giubbotto, sentì Sonja frugare tra i cd nel portaoggetti. - Posso mettere un po’ di musica? -
- Certo. - Uno dei pochi punti a favore di quella macchina era proprio l’autoradio. Era stata fatta installare dal precedente proprietario, e funzionava ancora. Aveva poi trovato qualche disco che il signor Fonder aveva lasciato nel suo appartamento, e li aveva caricati sulla Buick.
- Anche a te piacciono Eric Clapton e Billy Joel? - gli chiese Sonja, tirando su due custodie.
Beck sorrise e annuì. - Già. - In realtà, non avendo mai guardato cosa ci fosse, era in completa balìa dei gusti del signor Fonder.
Trovò finalmente la chiave e la inserì. Prima di mettere in moto, tuttavia, la voce di Sonja lo bloccò. - Che cos’è questo? -
Quando si girò verso di lei, un pugno lo colpì idealmente in pieno stomaco. Sonja gli stava mostrando un cofanetto blu notte, con una grossa scritta rossa al centro.
“Hollywood Bright Stars”.
In quell’istante, Beck si maledì per non essere stato più attento. Aveva semplicemente arraffato i cd che stavano sulla libreria e li aveva portati in macchina, e quello che gli aveva spedito Tori doveva esserci finito in mezzo.
Lo sguardo rimbalzava tra la copertina e gli occhi di Sonja che, ignara di tutto, stava sorridendo curiosa.
Ecco di nuovo quella domanda.
Con un gesto gentile ma risoluto, Beck le portò via il cd dalle mani e lo lanciò in fondo al vano portaoggetti.
- Niente. - mormorò, mentre dava gas e sperava con tutto il cuore che quelle dannate stelle di Hollywood non avessero appena rovinato la serata.
 
 
 

 

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Capitolo 12
*** XII - Home is where love hurts ***


XII - Home is where love hurts
 
 

Era da quando era rincasato la notte prima, che Beck aveva l’impressione che non fosse andata come avrebbe voluto.
Troppi i pensieri che avevano continuato ad aggirarsi per la mente, troppe le immagini che lo avevano frenato, impedendogli di trascorrere la serata che sperava.
Piacevole, sì, ma non abbastanza.
Solo dopo aver riaccompagnato Sonja, si era accorto di non essere mai riuscito a lasciarsi veramente andare.
Si era sforzato di concentrarsi sulla candida voce della ragazza, mentre gli raccontava delle gite in barca a vela che faceva con suo padre, o delle novità che avrebbe voluto improntare alla scuola di danza. Eppure, ogni tanto sentiva che stava perdendo il contatto con lei.
Si era chiesto se lei avesse notato qualcosa, magari quell’ombra che si nascondeva dietro i suoi occhi, o l’incertezza nel suo comportamento.
Il cd scoperto da Sonja, le telefonate di Andre… esisteva un modo per non dover affrontare continuamente questi tormenti?
Forse aveva finito per rovinare il primo appuntamento con una brava ragazza, che avrebbe potuto anche non richiamarlo più. E lui questo faceva fatica ad accettarlo.
Beck si sedette al tavolo per una breve colazione prima di uscire. Mentre affondava il cucchiaio nella ciotola dei cereali, il cellulare sul banco iniziò a vibrare.
Sospirò, immaginando già chi fosse, e guardò il display.
Andre.
Probabilmente stava per entrare a scuola, e voleva semplicemente fare due chiacchiere col suo amico.
Beck, però, non si sentiva dell’umore per parlare. Non con lui, almeno.
Ripose lo smartphone e, tornando a pensare a Sonja, lasciò che continuasse a squillare a vuoto.
 
 
*****
 
 
- Un’altra chiamata senza risposta. - esordì amaramente Andre, raggiunto Robbie nel backstage.
L’altro, sentita distrattamente la voce dell’amico, posò gli oggetti di scena con cui stava lavorando e si voltò verso di lui. - Come hai detto? -
Andre si appoggiò con la schiena ad una colonna. - E’ la terza volta che provo a telefonare a Beck, e che lui non mi risponde. -
Robbie fece spallucce. - Magari ha da fare. Non hai detto che ha cominciato a lavorare? -
L’amico aggrottò la fronte e scosse il capo. - Non a quest’ora. So che il suo turno inizia più tardi. E poi, non sarebbe la prima volta che ci sentiamo in questi momenti, prima di entrare a scuola. -
- Sei preoccupato? - gli domandò Robbie. - Pensi gli sia successo qualcosa? -
- Non è per questo. -
- E per cos’è, allora? -
Andre si allontanò dalla colonna e si mise a camminare avanti e indietro. - E’ che non è da lui. -
- Non rispondere al telefono? -
- Tutto quanto, Robbie. Tutta questa storia, diciamoci la verità, nessuno di noi se l’aspettava. Ho sentito quello che hai detto a Cat ieri, che Beck non ci ha abbandonato. - si fermò e fissò l’amico negli occhi. - Ne sei ancora così sicuro? -
- Perché non dovrei? - Robbie pareva addirittura spaventato dalle parole dell’altro. - In fondo siamo sempre i suoi migliori amici! -
- Se n’è andato per Jade, ma tuttora non sappiamo perché. E fino a qualche giorno fa, non avevamo neppure idea di dove fosse. Se adesso smette anche di rispondere alle mie chiamate, poi… cosa? -
Robbie, pur non credendo a ciò che stava sentendo, capì quale fosse il pensiero di Andre.
Aveva paura che Beck non volesse più tornare, e che come aveva lasciato Jade, alla fine avrebbe lasciato anche loro.
Nessuno dei due però ebbe il coraggio di pronunciare quella frase ad alta voce.
L’effetto che avrebbe provocato sarebbe stato strano, ingiusto, crudele.
Per questo entrambi preferirono distogliere lo sguardo e rifugiarsi nel silenzio.
Mai prima di allora era stato messo in discussione il loro rapporto con Beck, ma stavolta, il timore più grande era che la distanza che si era intromessa tra loro potesse risultare troppa per ricucire qualsiasi strappo fosse avvenuto.
 
 
*****
 
 
Mancava ormai appena una settimana al gran debutto in prima serata. La tensione si poteva leggere sui volti di tutti, dagli attori agli addetti al backstage, dai professori fino all’ultimo studente della Hollywood Arts.
La Hawkes era finalmente soddisfatta dei lavori di Robbie, Cat e del resto dello staff, e lo stage aveva iniziato a prendere la forma desiderata. Le varie scenografie erano state tutte assemblate, completate, e sistemate dietro le quinte, pronte per essere portate sullo stage nei vari atti.
Era partita una grande opera di propaganda, e secondo le voci che circolavano, sembrava che il teatro avesse totalizzato il tutto esaurito neanche cinque giorni dopo l’annuncio.
Sia Sikowitz che la Hawkes erano già così agitati, che nessuno osava immaginarsi cosa avrebbero fatto la sera della messa in scena.
I ragazzi, come era ovvio aspettarsi, si erano impegnati a fondo fino a diventare una garanzia, tanto che le ultime prove parevano ormai una semplice formalità.
Tra i giovani commedianti, benché fosse una delle più esperte, la più nervosa era Tori.
Quella mattina, dietro al sipario, vicino alle scalette che portavano ai camerini, si stava facendo tranquillizzare da Andre e Trina.
- Ma ci pensate, ragazzi? Saremo live sul network nazionale! - squillò la giovane Vega.
- Sì, il rumor ci è giunto all’orecchio… - la prese in giro Andre.
- Io ancora non ci posso credere! - riprese fiato, poi guardò timidamente la sorella. - Non è che vuoi ancora prendere il mio posto? -
Andre la fulminò con un’occhiata, temendo che Trina potesse arrivare ad approfittarsi anche di una battuta, date le sue conosciute manie di protagonismo.
La maggiore delle Vega se ne accorse, e scoppiò a ridere. - Ritira la proposta Tori, l’avrei accettata senza dubbio… - gli altri due la guardarono storta. - … se me l’avessi chiesto fino a un paio di settimane fa. Poi qualcuno mi ha fatto capire che se ognuno ha il suo posto, vuol dire che una ragione c’è. E questo è il tuo momento Tori, la tua grande opportunità. Perciò quando la grande notte arriverà, sappi io sarò là tra il pubblico ad osservare la mia sorellina che realizza il suo sogno. -
Andre appariva completamente stordito, da quelle frasi che credeva non avrebbe mai sentito da Trina, mentre Tori, seppur sorpresa, ebbe un’ulteriore conferma che anche la sorella stava crescendo.
In quell’istante vennero raggiunti da Cat e Jade. - Pare che stavolta dobbiamo fare i complimenti alla nostra piccola Cat. - fece la mora. - E’ anche merito suo se tra pochi giorni potremmo esibirci. -
- Mi sembri di buon umore! - le disse Andre.
- Sono carica. - ribadì lei. - Perché tutto sta andando per il verso giusto. Sapevo fin dal primo giorno che sarei stata perfetta per questa parte, e adesso che anche Mark sembra essere finalmente pronto, non può che andar bene. -
- Sono contento per te, Jade. - commentò Andre, con una punta di nostalgia.
La ragazza ripartì alla volta del palco. - Adesso vado a provare un altro paio di cosette. - quando passò di fianco a Tori le diede una pacca sulla spalla. - E tu stai tranquilla, Vega. Lo sappiamo tutti che spaccherai anche quella sera. -
Andre attese che si fosse allontanata, per riprendere la parola. - Sembra davvero in forma. -
Tori si fece pensierosa. - Magari lo è veramente. - fece una pausa e si voltò nella direzione in cui era andata Jade. - Ma lo sa anche lei che con Beck sarebbe stata tutta un’altra cosa. -
 
 
*****
 
 
C’era stato qualcosa nelle parole di Freddie, che non lo aveva convinto fino in fondo. Un dettaglio che non riusciva a visualizzare correttamente, un’interpretazione che non riusciva a cogliere, un tarlo che gli si era instillato nel cervello.
Per questo, una volta finito il turno al negozio, era montato in macchina e si era diretto all’università.
Il pomeriggio volgeva al tramonto e l’aria si irrigidiva, quando Beck parcheggiò la sua Buick di fronte all’entrata del campus.
Per tutta la giornata si era chiesto se non fosse stato anche il racconto di Freddie, una delle cause che lo avevano frenato con Sonja.
Ad ogni modo, sentiva di aver bisogno di parlare con qualcuno.
Beck scese dall’auto e si appoggiò con la schiena allo sportello. Guardò l’ora e poi si voltò verso il cancello d’ingresso. Le lezioni dovevano essere prossime al termine, e alcuni ragazzi avevano già cominciato ad uscire e ad andare verso propri mezzi.
Il giubbotto marrone del nativo di Seattle comparve in fondo alla fila di studenti che provenivano dall’ala est del complesso. Beck sorrise: qualsiasi facoltà avesse scelto quel gran studioso di Freddie, poco aveva a che fare con i suoi sogni di gloria di recitare a Broadway o al cinema.
- Ti interessa un passaggio? - gli chiese, appena fu abbastanza vicino da sentirlo.
L’amico si fermò e lo guardò sorpreso. - Che ci fai qui? -
- Ero di strada. -
- “Di strada” dal negozio? - replicò, poco convinto ma sarcastico. - Non è che sei passato anche da Miami, già che c’eri? -
Beck trattenne a stento una risata. In effetti, non era plausibile. - Volevo farmi un giro. Andiamo, ti riporto a casa. -
Freddie alzò le spalle, caricò la cartella sul sedile posteriore e salì al fianco del canadese. - Andiamo al solito pub? -
- Non stasera. - gli rispose, mentre metteva in moto. - Ho un appuntamento con Sonja più tardi. -
Diede gas e si infilò in una stradina laterale che conduceva alla tangenziale.
L’amico sghignazzò. - Ancora lei, eh? -
- Già… -
La risposta però fu troppo breve e distratta per non insospettire Freddie, che si voltò a fissarlo. - Tu oggi non me la racconti giusta. -
- E’ oggi che non è la giornata giusta. -
- Forse non lo è mai stata da quando sei arrivato, Beck. Dico bene? -
Il canadese si sentiva un paio di occhi puntati addosso, ma un po’ per non perdere la concentrazione dalla strada e un po’ per codardia, evitò di incrociarli. - Può darsi. -
Freddie evitò di calcare la mano, pensando che forse non gli avrebbe estorto granché. - Insomma, stavi parlando di Sonja… -
Beck serrò la presa sul volante e annuì. - Mi piace quella ragazza, Freddie. - ammise.
L’altro aggrottò la fronte, stupito da quel tono fin troppo deciso. - Sono contento. -
- E’ solo che… - fece una pausa per svoltare a destra. - Ieri sera, quando siamo usciti insieme… non so cosa mi sia preso, ma non ero a mio agio. -
- Non stavi bene con lei? -
- Non stavo bene con me stesso. -
- E’ successo qualcosa? -
- No… cioè, sì… - si corresse. - Una sciocchezza, a dire il vero. Sono andata a prenderla sotto casa, lei voleva mettere un po’ di musica, e… ha trovato il cd che mi ha spedito Tori. -
Freddie rivolse lo sguardo fuori dal finestrino e si lasciò scappare un sospiro. - Quel cd sta dando troppi problemi. -
Beck colse l’espressione malinconica dell’amico. - Neanche tu oggi me la racconti giusta. - in quei giorni, solo una ragione lo stava riducendo in quelle condizioni. - Ti sta facendo pensare ancora a Sam, vero? -
Il silenzio che ottenne in cambio fu chiarissimo.
- Magari non ho mai smesso, dal giorno in cui l’ho rivista a Los Angeles. - disse, ridestandosi all’improvviso. - E quel maledetto cd non sta facendo altro che ricordarmelo, nonostante i chilometri che ci separano. -
Lo sguardo di Beck continuò a percorrere la strada. Lo aveva intuito la sera prima, quando ne avevano parlato al pub, e adesso era evidente.
- Provi ancora qualcosa per Sam. -
Il silenzio che ripiombò non fece che rafforzare quell’affermazione, una verità nuda e cruda.
- Freddie, non ti sei mai pentito di non essere rimasto con lei, quando ne avevi l’opportunità? -
Mentre la Buick procedeva spedita lungo la tangenziale, l’amico parve prendersi un momento per riflettere, e gli occhi tornarono a scrutare fuori dal vetro.
- Non era quello che volevamo, non era così che doveva andare. E non sarebbe stata nemmeno la cosa giusta. - Il tono, ferito, era di chi si è rassegnato al rimpianto e alle speranze svanite.
- E perché no, se… -
- Perché avevo paura! - C’erano tanti anni di desideri repressi in quello sfogo, un’improvvisa esplosione che non aveva mai fatto parte del carattere di Freddie. Ma evidentemente, qualcosa doveva averlo cambiato.
- Non potevo neanche immaginare di tornare insieme a Sam. Eravamo a malapena riusciti a superare la nostra prima rottura, e se le cose non avessero funzionato nemmeno stavolta? Non potevo permetterlo. Ecco perché ero così dannatamente spaventato. Perché sapevo che se ci fossimo lasciati di nuovo, sarebbe stato definitivo. L’avrei persa per sempre, Beck, lo capisci? Carly non c’era più, e non volevo che andasse a finire così anche con Sam. Forse sono stato un egoista, ma persino i sentimenti sembravano non contare più nulla, di fronte alla paura.
Poi, quando anche Spencer e Gibby se ne sono andati da Seattle, lasciandomi da solo, credo di aver soltanto cercato di voltare pagina e andare avanti.
Era l’unico modo per essere sicuro che lei sarebbe rimasta sempre là, magari lontana centinaia di chilometri, ma comunque parte della mia vita.
Per questo ho considerato la mia visita a Los Angeles come un… incidente di percorso, ecco. Ho riscoperto di provare ancora dei sentimenti per Sam, è vero. Sentimenti però che volevo e, soprattutto, dovevo lasciarmi alle spalle. Perché ero consapevole che, se avessi rimesso piede a casa sua, poi sarebbe stato difficilissimo volerla abbandonare.
Avevo paura allora e ce l’ho ancora oggi, lo ammetto. E non solo per le conseguenze che potrebbero esserci tra noi, ma più di ogni altra cosa, per quello che provo. -
L’espressione di Freddie si fece ancor più cupa, come se avesse terminato il fiato che aveva in gola. Si vedeva che non doveva essere stato facile raccontare un passato del genere, e Beck ripensò a quanto invece lui lo stesse tenendo gelosamente nascosto, fin da quando era atterrato a Seattle.
Forse la ferita era ancora troppo fresca, per lasciarla vedere a qualcuno.
I due non dissero più una parola finché la Buick non raggiunse il Bushwell Plaza.
Beck parcheggiò di fianco al marciapiede e fece scendere l’amico, restando poi per alcuni secondi con le mani sul volante e lo sguardo fisso davanti a sé.
Il giovane Benson si affacciò dal finestrino. - Tu non vieni? -
Beck annuì mentre, ancora assorto, cercava una risposta. - Controllo una cosa e arrivo. Tu intanto vai pure. -
Osservò Freddie entrare nel portone nel palazzo, prima di lasciarsi andare con la schiena sul sedile.
Nel tragitto dall’università a casa si era accorto di aver finalmente capito cosa ci fosse nelle parole di Freddie che lo sconvolgeva così tanto. Aveva intravisto l’ombra che si aggirava dietro di esse.
E se fosse riuscito anche a scorgere il volto di quel fantasma, probabilmente sarebbe stato come guardarsi allo specchio.
Avrebbe visto un altro codardo che era fuggito per paura dei propri sentimenti e di perdere per sempre la ragazza di cui era innamorato. Una ragazza che, per quanto avesse potuto provarci nel tempo, non sarebbe mai riuscito a smettere di amare o a dimenticare.
La storia di Freddie, in fondo, non era poi così diversa dalla sua.
 
 
*****
 
 
Appena entrata in camera, Jade si sdraiò sul letto e incrociò le mani sotto la testa, a fissare il soffitto.
Si era sorpresa di come si fosse ritrovata incapace di rispondergli di no.
Non c’erano stati sguardi incandescenti, insulti o rifiuti maleducati, quando nel bel mezzo delle prove pomeridiane, Mark l’aveva invitata a cena.
Aveva semplicemente tirato un sospiro di sollievo quando aveva saputo che, a causa di alcuni impegni familiari del ragazzo, sarebbe stato per la sera successiva; eppure, da qualche parte dentro di lei, sapeva perfettamente che non sarebbe cambiato niente.
Oggi o domani, Mark era una questione da affrontare.
Era la prima volta che lui si spingeva più in là di una birra, e sorprendentemente, a Jade la cosa non aveva dato alcun fastidio.
Era consapevole del modo in cui Mark la guardava, in cui le parlava, in cui la trattava. Ogni volta che le era capitato di incrociare i suoi occhi color zaffiro, aveva colto l’interesse che lui provava nei suoi confronti.
Questo aspetto, all’inizio, era stato un ottimo pretesto a cui farlo aggrappare al fine di sfruttarlo per i suoi scopi teatrali. Adesso, però, Jade cominciava a sentire che qualcosa stava cambiando.
Benché andasse contro il suo carattere e i suoi principi, non poteva non apprezzare come lui la ponesse sempre al centro dell’attenzione, che fosse sul palco o fuori.
Sentirsi la perla di qualcuno, una ragione di cui essere fieri, il pensiero più importante della giornata. Una sensazione che non provava più da tanto, troppo tempo.
Era la faccia di una medaglia andata persa nell’ultimo periodo con Beck, e di cui anche lei era arrivata a sentirne la mancanza ogni giorno di più.
Ci aveva riflettuto durante tutto il tragitto fino a casa e, ad un certo punto, il nome di Beck era andato inevitabilmente a scontrarsi con quello di Mark.
Dopodiché, aveva finalmente realizzato come la presenza di uno fosse legata all’assenza dell’altro.
Si era accorta di quanto avesse bisogno delle belle parole di Mark per rifugiarsi da quelle di Beck, tutte menzogne che l’avevano ferita nel profondo, prima di abbandonarla.
Un addio senza saluti, senza spiegazioni, senza destinazione.
Jade represse un singhiozzo e strinse le palpebre. Fin dall’inizio si era promessa di non ripensare a Beck, ma a quanto pareva, l’immagine di quel dannato ragazzo canadese era ancora troppo vivida e forte.
Stava per lasciarsi andare alla stanchezza, quando il breve e improvviso squillo proveniente dalla sua tasca la fece trasalire.
Si mise a sedere ed estrasse il cellulare, e quando lesse sul display il mittente del messaggio, sorrise di fronte all’ennesimo scherzo del destino.
“Domani sera arriverà sempre troppo tardi per me”
Da: Mark
Senza neanche considerare l’idea di rispondere, Jade ripose lo smartphone sul comodino e tornò a poggiare la testa sul cuscino.
Avrebbe voluto soltanto sapere cosa fare con Mark. Così da poter evitare che l’ombra di Beck tornasse puntualmente a tormentarla.
 
 
*****
 
 
Il loro secondo appuntamento stava andando alla grande, decisamente meglio di quello della sera precedente.
Lo sapeva Beck, felice di aver trovato il coraggio di richiamarla, e che lei avesse accettato il nuovo invito a distanza di un solo giorno.
Stavolta non c’era stato niente che si fosse messo in mezzo tra loro, e che gli avesse impedito di parlare, ridere e stare bene insieme.
Magari proprio per riscattarsi, aveva riportato Sonja al “Sea Horse”, dove il piano bar che tanto piaceva alla ragazza non aveva fatto altro che rendere l’atmosfera ancora più gradevole.
Avevano conversato a lungo della scuola di danza del padre di Sonja. Lei gli aveva raccontato di alcuni degli ultimi talenti che aveva scovato, mentre lui, da sempre col sogno di diventare attore, le aveva suggerito di aggiungere alle prossime esibizioni anche delle piccole coreografie recitate, oltre che ballate. Lei era sembrata affascinata dall’idea, e gli aveva promesso che ne avrebbe parlato con suo padre.
- Ti va di salire da me? - le aveva domandato, una volta usciti dal locale. - In fondo è ancora presto, ho il tempo di offrirti qualcosa da bere. -
Lei aveva annuito con un ampio sorriso in volto, difficile dire se dettato più dall’allegria o da qualcos’altro.
Solo quando ebbe acceso la luce del suo appartamento, però, Beck si accorse di provare un forte senso di vergogna. Guardando Sonja che osservava le sue piccole e modeste stanze, si ricordò della sfarzosa residenza della ragazza, e di quanto, a confronto, l’interno del Bushwell Plaza paresse uno scantinato. Una differenza a cui, preso dal momento, effettivamente non aveva pensato.
- Molto carino qui. - si sentì dire, senza poter fare a meno di chiedersi se Sonja fosse davvero così gentile, o se lo stesse semplicemente prendendo in giro.
Decise comunque di non preoccuparsene e, dirigendosi verso la dispensa, afferrò una bottiglia di liquore alle fragole e due bicchieri di vetro.
Tornato in soggiorno, invece di trovare Sonja ad aspettarlo seduta sul divano, come immaginava, la vide intenta a fissare qualcosa sul tavolo.
Beck posò sul bancone ciò che aveva in mano e si avvicinò a lei.
- Che cos’è? - gli chiese, indicando una pagina scritta a mano circa per metà.
Il ragazzo sorrise, mentre inalava il profumo dei capelli di lei. - E’… la bozza del testo di una canzone. -
Ci aveva lavorato per ore, quel pomeriggio, dopo essere tornato dall’università con Freddie. Un’ispirazione fulminea ma incredibilmente intensa, che aveva sentito il bisogno di mettere per iscritto. Così, appena ne aveva avuto modo, si era seduto al tavolo e aveva vergato quel foglio bianco con tutto ciò che gli passava per la testa.
Se lo era poi scordato lì prima di uscire con Sonja, ma tutto sommato, non gli dispiaceva che lo avesse trovato.
- Posso leggere? - gli domandò innocentemente.
- Certo. - Non aveva idea di cosa si nascondesse dietro.
 
 

 

Sing something new [Canta qualcosa di nuovo]
cause I've heard this too many times. [perché questa l'ho già sentita troppe volte.]
I'm losing strength, [Sto perdendo forza,]
can't keep my eyes open, [non riesco a tenere gli occhi aperti,]
and as breath fades away, [e come il respiro comincia a mancare,]
don't know how much more I can last. [non so quanto ancora potrò resistere.]
No one's ever said it was easy [Nessuno ha mai detto fosse facile]
to take care of someone you love. [prendersi cura di qualcuno che ami.]
Now I know. [Ora lo so.]
There's a road beyond me, [C'è una strada davanti a me,]
with a sunset that's only waiting. [con un tramonto che sta solo aspettando.]
A man called Past is running fast, [Un uomo chiamato Passato corre veloce,]
searching for the scars [alla ricerca delle cicatrici]
of every broken heart. [di ogni cuore infranto.]
If I show him where it hurts, [Se gli mostrassi dove mi fa male]
he's only gonna make it worse. [lui lo renderebbe soltanto più doloroso.]
Tryin' to never look back, [Sto provando a non guardarmi indietro]
and just hope. [e a sperare.]
Not sure I can outrun him.
[Non sono sicuro di poterlo seminare]

 

 

- Bella! - affermò Sonja a bassa voce, voltandosi verso di lui. - E’ tutta opera tua? -
Beck lesse una rara dolcezza negli occhi di lei, e annuì timidamente. - Sì. -
- Sei un ragazzo pieno di sorprese. Non sapevo che scrivessi anche canzoni. -
Pur sapendo di doverlo fare, affrontare l’argomento con Sonja gli provocò uno strano senso di difficoltà. - Infatti non è proprio la mia specialità. Ho… avevo… un’amica… degli amici… che scrivevano canzoni. -
- Beh, se questa è la tua prima volta, - riprese, come se avvertisse il bisogno di lui di parlarne. - direi che è davvero molto bella. -
Beck si sentì rapito dalla vicinanza di Sonja: l’armonia della sua voce e del suo sorriso, lo splendore dei suoi capelli, la nobiltà delle sue maniere, stavano dando un ulteriore senso a quel testo.
Lei posò il foglio sul tavolo. - E di cosa parla? -
Beck inspirò a fondo. - Del passato. Di lasciarsi alle spalle qualcosa che non si vuole più. -
Non le diede il tempo per rispondere.
Un istante, e le sue braccia andarono a cingerle la vita, attirandola a sé con vigore.
Eccitazione, emotività, turbamenti, speranza, cercò tutto questo nello sguardo di Sonja, prima di premere le labbra sulle sue, senza lasciarle più andare per tutta la notte.
 
 

 

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Capitolo 13
*** XIII - Don't think I'm perfect ***


XIII - Don’t think I’m perfect
 
 

Quella mattina, il sole sembrava splendere ancora più luminoso sulle strade di Seattle.
La Buick verde bottiglia procedeva a velocità costante tra le vie della città, e Beck, tranquillo al volante, la stava mantenendo tale. Non c’era bisogno di accelerare, di correre, di sfidare il vento.
Si sentiva bene. Si era risvegliato con un altro spirito, più leggero e più sereno, e soprattutto, con una ragazza meravigliosa accanto a lui nel letto.
Era stato fantastico trascorrere la notte con Sonja, anche senza averci fatto l’amore.
Una notte finita comunque troppo presto, in cui erano rimasti abbracciati a baciarsi e coccolarsi fino all’alba, quando i loro occhi si erano chiusi all’unisono.
Una notte che gli aveva fatto riscoprire un lato di sé che pareva dimenticato, e che gli aveva ridonato quella complicità mancata nell’ultimo periodo con Jade.
La ragione per cui aveva lasciato Los Angeles, quel qualcosa nel loro rapporto che non lo rendeva più felice.
E fu proprio il ripensare alla ragazza che aveva lasciato, che lo portò a mettere la mano nel portaoggetti, e ad estrarre quello che sembrava un reperto maledetto.
Perché Sonja sembrava avergli regalato, oltre alla gioia, anche il coraggio di ascoltare finalmente quel CD.
Lo inserì nella radio e premette il pulsante di avvio, lasciando che la musica invadesse l’abitacolo.
Gli venne istintivamente di sorridere quando sentì Tori intonare “Make it shine” con un arrangiamento un po’ diverso da quello originale. “I produttori di Hollywood stravolgerebbero qualsiasi cosa, pur di vendere”, pensò.
Circa quindici minuti dopo, lo sguardo cadde sul display dell’autoradio, che segnalava che il brano n. 6 era in esecuzione. “La prossima…”
Sonja era l’esatto contrario di Jade, si disse chiaramente, forse per la prima volta.
C’era un intero mondo di distanza tra i vari aspetti delle loro personalità, come se una fosse stata il sole, e l’altra la luna.
E Sonja era ciò di cui lui aveva bisogno adesso. Il suo personale raggio di sole.
Ma questo cosa significava? Che aveva sempre vissuto in un enorme errore di valutazione? Era possibile che gli fosse servito così tanto tempo per capire cosa volesse realmente da una storia vera?
La voce potente di Jade uscì prepotentemente dagli altoparlanti della Buick, mentre Beck serrava la presa sul volante e affondava il piede sull’acceleratore.
You don’t know me.
Hai ragione, non ti conosco. Ma come potrei, se non conosco nemmeno me stesso?
 
 
*****
 
 
Lo spettacolo era da considerarsi ormai alle porte, e più gli attori si mostravano tesi e nervosi, più i membri dietro le quinte sembravano invece calmi e rilassati.
Si respirava un bel clima nel backstage tra gli addetti ai lavori, consapevoli di aver svolto il loro compito in maniera egregia.
Tra questi c’era Robbie, estremamente soddisfatto del suo operato, e sempre più convinto di aver provato alla maggior parte dei professori di essersi sempre sbagliati sul suo conto.
Non c’era rimasto granché da fare a questo punto, e gli ultimi giorni scorrevano soltanto all’insegna di controlli e verifiche.
Quella mattina, dopo aver scambiato due chiacchiere e aver salutato alcuni ragazzi che collaboravano con lui, Robbie decise di spostarsi verso la sala luci.
Appena vi entrò, si ricordò perché evitava sempre il più possibile di metterci piede.
Il tecnico era seduto davanti a tre monitor e ad una grande tastiera simile a quella di un dj, e accanto a lui, Cat.
Robbie la osservò, mentre scambiava consigli con l’altro a proposito di angolazioni, intensità e sfumature, e gli sfuggì un sorriso.
Sembrava felice, e questo bastava a far sentire anche lui nello stesso modo. Era bello vederla così, dopo tutto quello che aveva passato di recente.
A un certo punto, il giovane tecnico premette un bottone. - Vado a controllare un paio di collegamenti. - annunciò, alzandosi dalla sedia e accorgendosi di Robbie. - Ciao, Robbie. Ci vediamo dopo, ok? - fece a entrambi, prima di sparire al di là della porta.
Rimasti soli, Robbie si sedette vicino a Cat. - Tutto a posto con le luci? -
Lei inclinò leggermente la testa. - Sì, vanno bene. Nonostante anche lui abbia bocciato la mia idea del sottofondo blu. - aggiunse con il suo solito broncio, angelico e ingenuo.
- Blu? Sarebbe sembrata Atlantide, altrimenti! - scherzò lui.
- Perché? Le sale da gioco sono illuminate di blu? -
Robbie scoppiò a ridere. - Quella è Atlantic City, Cat. Io stavo parlando di Atlantide, la città sommersa. -
- Chissà quanti secchi serviranno per togliere tutta l’acqua. -
Robbie rise di nuovo, non sicuro tuttavia se stesse parlando sul serio o no.
Dopo qualche secondo passato a guardarla, recuperò la parola. - Volevo farti una domanda. -
- Certo, cosa? -
- Hai già pensato a cosa farai dopo il diploma? -
Lei parve sorpresa dalla domanda. - No, non… non me lo sono mai chiesta. Perché avrei dovuto? In fondo non cambierà nulla, ne sono certa. Potremo continuare a divertirci come adesso, con tutti i nostri migliori amici. -
- Purtroppo non sarà così, Cat. - le disse piano, dispiaciuto di doverla contraddire. - Le cose cambieranno eccome. C’è chi vorrà concentrarsi sulla propria carriera, chi lascerà o ha già deciso di lasciare Los Angeles, chi vorrà trovarsi un lavoro e costruirsi una vita. -
- Io ho già un lavoro. - ribatté.
- Pensi davvero di poter continuare per sempre a fare la babysitter con Sam? Che succederà quando lei ne avrà abbastanza, vorrà cercarsi qualcos’altro, o peggio ancora cambiare città? Hai bisogno di qualcosa di più… stabile, ecco. Come me. -
Cat fece una strana espressione, confusa. - Cosa ti passa per la mente, Robbie? -
Lui fece un lungo sospiro. - Una volta ricevuto il diploma, e completato lo spettacolo, partirò per l’Europa. In Germania, più precisamente. - si interruppe quando notò che lei lo stava fissando con occhi sgranati. - Sono riuscito ad entrare in un istituto di cinematografia a Dusseldorf, uno dei più importanti al mondo, a quanto ho letto. Si tratta di un’occasione incredibile. Avrò la possibilità di frequentare un corso avanzato da cineoperatore. -
Si dovette fermare di nuovo. Gli occhioni di Cat erano improvvisamente diventati lucidi. - Te ne vuoi andare anche tu? -
Robbie si sporse verso di lei e le sorrise. - Non piangere, Cat. Ho semplicemente scoperto qual è la mia vera vocazione, il mio sogno. Non è stare davanti alla telecamera, come avevo sempre pensato, ma dietro. -
Avrebbe voluto sentire la voce della ragazza, ma quel silenzio lo stava uccidendo. - Non devi piangere. - le ripeté.
- Anche tu, dopo Beck, hai deciso di abbandonarci, e fino ad ora lo avevi tenuto nascosto. Mi spieghi perché non dovrei piangere? - c’era qualcosa di rotto in quella frase, forse qualcosa di più della semplice tristezza per la perdita di un amico.
- E’ proprio perché non volevo che tu reagissi così che te l’ho detto solo adesso. Mi sono informato, ed esiste laggiù anche un corso di fotografia cinematografica e teatrale. Potresti entrarci anche tu. -
Lei lo guardò storto. - Cosa? - come se niente di ciò che Robbie aveva detto avesse alcun senso.
- E’ la tua strada, Cat, solo che ancora non lo hai capito. Tu sei fatta per la fotografia. -
- Ma che stai dicendo? -
- Ho visto di cosa sei capace. - il suo tono era confortante, dolce, pieno di speranza. - Non dirmi di no subito, per favore. Prenditi tutto il tempo che vuoi per pensarci. -
Rimase a fissarla negli occhi un’ultima volta. Non si aspettava niente di più da quel momento: uno sguardo perso che lui avrebbe rincorso fino in capo al mondo.
Si tirò su dalla sedia, con le ginocchia deboli, e si avviò verso la porta. Si voltò indietro arrivato sulla soglia. - Saprai sempre dove trovarmi. -
 
 
*****
 
 
Non riusciva proprio a concentrarsi. Si accorse di aver perso l’ennesima frase del professore, quando la penna non riuscì a scrivere nemmeno una lettera di appunto.
Freddie si lasciò andare sullo schienale della sedia e guardò verso la cattedra: la sentiva lontana quel giorno, e la lezione di storia suonava soltanto una lista di inutili date e luoghi. Non era mai stato così distratto in classe.
La mente continuava a vorticare per altre terre, in direzione di qualcosa che lo stava facendo sentire strano, e che lo stava mettendo terribilmente in difficoltà. Di nuovo.
Freddie abbassò lo sguardo sul banco. Non poteva essere nient’altro che lei.
Si soffermò su un passaggio che l’insegnante stava rivolgendo ai suoi studenti: - Nelle società antiche era usanza rappresentare, con dipinti, affreschi o anche semplici testi, i momenti cruciali delle battaglie. A quei tempi, lo facevano per rendere onore ai valorosi combattenti, e per celebrare le loro conquiste. Giunti ai nostri giorni, invece, si sono rivelati utili per conoscere quelle civiltà, e soprattutto la loro storia. Perché ragazzi, ricordate, la storia è una parte importante del nostro essere. Studiare la storia, conoscere il passato, ci aiuta a sapere come comportarci, e a non ripetere gli stessi errori. Anche se, secondo il parere di tanta gente, nemmeno questo ci impedisce di commettere gli stessi sbagli per la seconda volta. -
In quell’istante, avrebbe voluto semplicemente dare a Beck la colpa di tutto. La colpa di avergli fatto riportare a galla ricordi e pensieri che credeva seppelliti ormai da anni.
La verità però era che la responsabilità era tutta sua, e di nessun altro. Quella di essersi sempre sbagliato.
Stava scoprendo che forse quei pensieri non li aveva seppelliti così bene. O forse, non aveva mai voluto farlo.
Quando Sam era partita per Los Angeles, aveva finto che non gli importasse, che andasse tutto bene, che potesse accettarlo senza problemi.
Ma guardando in faccia la realtà, quella era stata la sfida più difficile che avesse mai dovuto affrontare.
 
 
*****
 
                                                                                                                     
Per quanto le pesasse ancora ammetterlo, era arrivata al punto di essersi totalmente ricreduta.
Era rimasta piacevolmente sorpresa, quando Mark era passato a prenderla sotto casa sua alle otto in punto, e l’aveva portata in uno dei ristoranti più eleganti di Los Angeles.
Appena entrata Jade si era sentita quasi frastornata, data la raffinatezza e la classe che la circondavano e che, a dire il vero, poco si addicevano alla sua persona.
Mark le aveva raccontato di come il locale rappresentasse un ritrovo abituale per chi frequentava Hollywood, e che se quella sera avessero avuto fortuna, avrebbero potuto incontrare anche qualche attore famoso.
Una volta accomodati ad un intimo tavolino per due, il ragazzo iniziò a parlare dello spettacolo che li attendeva, e di come si sentiva emozionato al pensiero di debuttare davanti a centinaia di persone.
Riuscì persino a coinvolgere anche Jade nella conversazione. - Suppongo invece che per te non sarà la prima volta su un palco così importante. -
- Infatti non lo è, in questi anni ho partecipato a parecchie rappresentazioni. -
- Sarai stata la protagonista. Non riesco ad immaginarti in altro modo. -
Jade esitò prima di rispondere, ripensando per un attimo a Tori. - A dire il vero no. C’è qualcuno che è sempre stato il “preferito” di turno e che è sempre passato avanti. -
Furono interrotti dall’arrivo del cameriere, che porse loro una bottiglia di vino rosso e raccolse le ordinazioni.
Dopo averlo ringraziato, Mark riprese. - Non lo merita, in confronto a te. Ne sono sicuro. - le sorrise. - Si vede da come ti muovi che questo è ciò che ami fare: riesci a calamitare l’attenzione di tutti, quando reciti. Soprattutto la mia. -
Jade agguantò il bicchiere, lo riempì di vino e cercò di distogliere lo sguardo.
Di nuovo quegli occhi, due zaffiri che brillavano alla luce soffusa e romantica del ristorante. La fissavano, la esploravano, la desideravano.
Un lieve brivido prese a correrle lungo la schiena. Non poteva cedere.
La successiva ora e mezza trascorse in maniera piacevole, con Mark che non si risparmiò in quanto a complimenti e galanteria, e con Jade che non poté fare a meno di apprezzare tutto questo. Aiutata magari anche dal vino che aveva in corpo.
Erano le dieci passate quando i due si alzarono per lasciare il tavolo.
- Ti va di fare due passi? - le chiese lui, mentre provvedeva a saldare il conto.
Jade lanciò un’occhiata alla strada attraverso la vetrata centrale. - Perché no? -
Si incamminarono lungo il marciapiede, tra i motori delle auto e le luci di una città immersa nella notte ancora giovane.
- Non potrei essere più felice di essere accanto a te. - se ne uscì a un certo punto Mark.
Lei lo guardò di traverso.
- E non intendo solo adesso, ma anche di poter passare le mie giornate a provare e a lavorare con te. - fece una pausa per sospirare. - Ti avevo notata già all’inizio dell’anno, e c’era qualcosa di te che mi aveva particolarmente colpito. Solo che non sapevo cosa fare. Ti vedevo sempre in compagnia dei tuoi amici e… impegnata. Poi, si è presentata questa opportunità, e io… -
Si fermò, costringendo Jade a voltarsi verso di lui. - Mi piaci davvero, Jade. -
Al bagliore fioco del lampione, Jade avvertì una mano sfiorarle delicatamente la spalla, e un’ombra avvicinarsi sempre più al suo viso. Sentì un respiro tremante raggiungerla, mentre le labbra di Mark si accostavano pericolosamente alle sue.
Di nuovo quel brivido lungo la schiena.
Fu una reazione impulsiva, guidata dall’istinto e forse macchiata dall’alcol. Prima che Mark potesse toccarla, Jade si ritrasse, le sue mani andarono ad afferrarlo per il bavero del giubbotto e lo spinsero con forza contro il lampione.
Lui la guardò stranito, mentre si espandeva il rumore dell’impatto tra schiena e metallo.
Nonostante il vino, si era mantenuta lucida a sufficienza. - Ti considero un bravo ragazzo, Mark. Ma questo bacio non può avvenire qui, e soprattutto non adesso. - Allo stesso modo si era mantenuta la sua insicurezza, riguardo a quella persona che lui non avrebbe dovuto menzionare.
- Perché… - le chiese timidamente.
- Il perché non ti deve interessare. - lo zittì. Ecco uno dei tanti lati nascosti di Jade West che lui non poteva conoscere.
Mark era ancora frastornato. - Ma, tu… noi… -
Jade gli si accostò all’orecchio. - Non ti sto mandando via, Mark. Ti sto solo dicendo che, per qualsiasi evoluzione tu stia cercando nel nostro rapporto… nella nostra storia, dovrai aspettare la sera dello spettacolo. -
 
 
*****
 
 
- Ciao Beck, sono Andre. -
- Come te la passi, amico? -
Non gli avrebbe detto che era contento che questa volta gli avesse quantomeno risposto. - Qui va tutto alla grande. Tu come stai? -
- Bene. - rise. - Seattle non è il Canada, ma mi sto abituando. -
Andre, nascosto dall’altro lato del telefono e degli USA, scosse il capo: ne aveva abbastanza di quei convenevoli. - Ascolta Beck… lo spettacolo è tra pochi giorni. Il 23 andiamo in scena. -
- Lo so. - commentò laconico.
- Quindi sai anche quanto sarebbe importante per tutti noi averti qui. -
- Andre, per favore… -
- Mi ricordo cosa hai detto, qual è stata la ragione per cui te ne sei andato. Ma potresti tornare almeno per lo spettacolo, solo per quello. Potrai anche non farti vedere, se vuoi, ci basta sapere che ci sarai. -
D’un tratto Beck si sentì mancare il respiro. Tornare?
- Non… - non trovò la forza di rispondere. Sapeva che dentro, una parte di lui, aveva già cominciato a sgomitare e combattere.
A salvarlo fu un’improvvisa notifica proveniente dal telefono. Lo allontanò dall’orecchio e guardò il display: Sonja.
- Ho un’altra chiamata in arrivo. - si giustificò agitandosi.
- Promettimi almeno che prenderai in considerazione l’idea. -
Beck si sentiva sollevato, ma allo stesso tempo un vigliacco. Aveva dovuto approfittare di una misera via di fuga pur di non affrontare un discorso in cui non aveva idea di cosa dire. E questo non avrebbe dovuto accadere con il suo migliore amico.
- Mi dispiace, devo andare. -
 
 

 

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Capitolo 14
*** XIV - Second thoughts ***


XIV - Second thoughts
 
 
 
Freddie era contento che finalmente Beck si fosse confidato con lui.
Era da quando lo aveva incontrato la prima volta, in quella tavola calda, che aveva percepito una sorta di strano alone di mistero.
Col tempo poi, conoscendolo meglio, era cresciuta l’impressione che ci fossero diversi argomenti che preferiva evitare, discorsi lasciati a metà, e racconti sul suo passato che rimanevano fin troppo vaghi.
Come se ci fosse qualcosa da cui il ragazzo canadese stava scappando, ma che intendeva comunque continuare a tenere nascosto.
Beck non aveva mai accennato a cosa lo avesse realmente portato a Seattle, e Freddie aveva deciso saggiamente di non insistere troppo con le domande.
Aveva però capito molto tempo prima che Beck, prima o poi, avrebbe avuto bisogno di parlare e di sfogarsi, e quel momento arrivò un pomeriggio come un altro, al loro solito pub.
- Tornare. - pensò il canadese ad alta voce. Il tono era aspro e severo. - Tornare per cosa? -
Freddie distolse lo sguardo e lo puntò sulla parete, mentre un amaro sorrisetto sfuggiva al suo controllo.
Adesso si spiegavano tante cose. C’era una ragazza dietro a tutto quanto, c’era sempre stata fin dall’inizio. Possibile che il cuore, una parte così bella e importante del corpo umano, fosse capace di dare tanti problemi?
Beck scosse il capo. Dalla sera prima, non era riuscito a togliersi dalla testa le frasi di Andre.
Gli aveva promesso che ci avrebbe pensato, e suo malgrado, si era ritrovato a farlo davvero.
- Tornare per cosa? - ripeté a vuoto, dato che né lui né Freddie, di fronte a lui, avevano una risposta.
Dopo tutto quello che aveva passato, dopo tutti gli sforzi per convincersi a voltare pagina, aveva un senso tornare indietro?
- E se… - la frase gli morì in gola, sotto lo sguardo comprensivo dell’amico.
Sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Conosceva sé stesso, e la possibilità che, una volta lì, si sentisse attirato dall’idea di restare.
In fondo c’erano tanti motivi che avrebbero potuto trattenerlo a Los Angeles, così come ce n’erano stati altrettanti che lo avevano portato ad andarsene.
Era abbastanza forte da poter affrontare e sconfiggere ancora quella tentazione?
E se avesse incrociato i suoi occhi un’ultima volta, avrebbe trovato il coraggio di lasciarla di nuovo?     
- Rivederla non porterebbe niente di buono, a nessuno dei due. Significherebbe aggiungere solo altro dolore ad un rapporto che… - si interruppe bruscamente.
Si accorse di provare le stesse paure che Freddie gli aveva descritto. - E se non riuscissimo a far funzionare le cose? Se non riuscissimo nemmeno a restare amici, a frequentare lo stesso gruppo, o a stare persino nella stessa stanza? Sarebbe un enorme sbaglio. -
- Sai… - prese la parola Freddie, dopo essersi schiarito la gola. - Ieri il mio professore all’università ha detto che “ricordare il passato ci aiuta a capire come comportarci, e a non commettere gli stessi errori due volte”. Io penso che non potrebbe avere più torto. -
Beck aggrottò la fronte. - Che vuoi dire? -
Freddie prese fiato, concentrandosi su quella sensazione che anche lui conosceva bene. - Voglio dire che a volte decidiamo di vivere proprio in funzione del nostro passato. Come non può essere nascosto o dimenticato, è probabile che non possa neanche essere cambiato. Noi siamo quello che facciamo, e così pure quello che abbiamo fatto. Forse siamo semplicemente destinati a ripetere gli stessi errori all’infinito, poiché questo è ciò che vogliamo, indipendentemente dal fatto che sia giusto o sbagliato.
Perché spesso il cuore e l’istinto sono più potenti del cervello e della razionalità.
E io ne sono un chiaro esempio con Sam. -
 
 
*****
 
 
- Hai per caso visto Cat? -
Un giovane, impegnato con i cartelloni dall’alto della scala, lasciò per un secondo il lembo del telo e puntò il dito verso nord-ovest. - Mi sembrava fosse nella zona del guardaroba. Prova a cercarla là. -
Robbie annuì. - Ti ringrazio. - attraversò il corridoio centrale e il palco per arrivare al luogo indicato. Una volta lì, tuttavia, ad attenderlo c’era solo un altro ragazzo.
- Sai dov’è Cat? -
- Sì, era qui fino a un attimo fa. - rispose distrattamente questo, continuando a sistemare i costumi di scena. - Poi all’improvviso se n’è andata. Ha detto che doveva ricontrollare la scaletta delle entrate e una scenografia. - lasciò andare un lungo vestito rosso e si voltò verso Robbie con aria irritata. - E mi ha anche portato via l’aiutante, così adesso devo fare tutto il lavoro da solo! -
Robbie corrugò la fronte e abbassò il capo. - Perché non l’ha chiesto a me? Di solito le facciamo insieme queste cose… -
- Ehi, non me importa un bel niente, amico. - fece piccato l’altro. - Dille piuttosto di mandare qualcun altro a darmi una mano! -
La lamentela cadde nel vuoto, perché Robbie aveva ben poca voglia di stare ad ascoltarlo, e aveva già ripreso a camminare nella direzione opposta.
Girò per il teatro circa dieci minuti, prima di riuscire a trovarla.
La vide a pochi metri dalla sala luci, con un foglio in mano e un tipo, che non conosceva, intento a leggerlo accanto a lei.
- Cat! - la chiamò, ma lei non reagì.
Fece qualche altro passo. - Cat! - riprovò più forte, e stavolta fu solo il ragazzo a girarsi verso di lui.
Robbie avanzò ancora, confuso: eppure era convinto da essere abbastanza vicino, possibile che lei non lo stesse sentendo?
Stava forse fingendo? Prima l’assistente “improvvisato” al posto suo, adesso questo. C’era qualcosa di strano.
- Cat! - ripeté per la terza volta, arrivato a un paio di metri da lei.
Ma nonostante tutto, Cat continuava a stare a capo chino sul foglio, come se lui non esistesse.
Robbie si rivolse allora all’altro. - Ascolta, perché non torni ai costumi? Mi pare che il tuo amico abbia bisogno di te. -
Appena questo fu sparito dalla circolazione, tornò ad osservare la rossa. - Che sta succedendo? -
Niente, indifferenza totale. L’attenzione della ragazza era tutta su quel pezzo di carta.
- Cat… - si interruppe, per la paura di chiederlo. Sapeva perfettamente cosa stava accadendo. - Stai cercando di evitarmi? -
A quella domanda, lei sollevò gli occhi. C’erano fiamme ardenti al loro interno.
Lui si ritrovò a fissarli, sapendo di non avere altro da poter dire.
- Scusa, ora ho da fare. - replicò risoluta Cat, con rara durezza. Gli voltò poi le spalle e si allontanò, senza che lui potesse aprire bocca per provare almeno a fermarla.
Robbie la vide sparire dietro le tende del backstage, assalito da un senso di solitudine e tristezza. Erano state poche parole, ma cariche di tutta la rabbia che poteva provenire da quel piccolo e dolce angelo dai capelli di fuoco.
E non poteva biasimarla, in fin dei conti era colpa sua. Aveva rovinato tutto con Cat per l’ennesima volta. Alzò lo sguardo al tetto del teatro.
Sarebbe mai riuscito a fare la cosa giusta per lei, prima che finisse per essere troppo tardi?
 
 
A pochi metri da loro, le due sorelle Vega stavano facendo due chiacchiere.
- Su quanti canali credi che andremo in onda? - chiese Tori, irrequieta ed elettrizzata.
L’altra fece il verso di pensarci. - Dire più o meno cinquantacinque. Penso che pure il Canada e l’Australia abbiano acquistato l’esclusiva. - ironizzò.
La più giovane mimò una risata. - Molto divertente, Trina. Hai sempre una parola utile in questi momenti, eh? -
- E’ la mia specialità, non perdere tempo a ringraziarmi. -
- Non intendevo farlo, infatti. -
Un instante dopo sentirono Robbie urlare più volte il nome di Cat, e si voltarono nella loro direzione.
Assistettero come statue a quella scena a tratti surreali, con la rossa che ostentava un completo disinteresse per ciò che il ragazzo stava dicendo.
Quando poi videro Cat allontanarsi da Robbie in quel modo, Tori si rivolse preoccupata alla sorella. - Sarà successo qualcosa? E’ un comportamento davvero strano da parte di Cat, non l’ho mai vista trattare così Robbie. -
Trina si portò una mano alla fronte e scosse il capo. - E adesso che avranno combinato quei due… -
 
 
*****
 
 
Nella camera rischiarata dalla poca luce che filtrava dalle persiane appena socchiuse, Jade ruotò pigramente la testa e osservò la sveglia: le undici e un quarto.
Con lo sguardo puntato al soffitto e i capelli affondati nel cuscino, si portò il braccio alla fronte e sorrise.
Anche lei aveva bisogno di staccare, di risposarsi, di prendersi un po’ di tempo da sola con sé stessa.
Lo spettacolo sarebbe andato in scena in appena due giorni, ed era tutto pressoché pronto. Potevano servire alcuni accorgimenti nelle scenografie, ma ulteriori prove e aggiustamenti di copione, a questo punto, sarebbero state inutili.
Per questo, quando era stato comunicato agli attori di avere la giornata libera, riducendo l’odierna sessione a facoltativa, Jade aveva deciso di restarsene a casa.
E come nella sua vera natura, non aveva voglia di vedere nessuno.
Il proposito, tuttavia, andò in fumo quando lo smartphone sul comodino iniziò a vibrare.
Una, due, tre volte. Jade sbuffò, infastidita da quel ronzio amplificato dal legno.
Senza nemmeno considerare l’idea di vedere chi fosse, lasciò che la chiamata cadesse nel vuoto, fino a che non fu ripristinato al silenzio.
Trenta secondi dopo, il telefono tornò a muoversi, seppur per un breve sussulto.
Sempre più seccata, stavolta Jade allungò la mano e afferrò lo smartphone, decisa a capire chi dovesse uccidere per averla disturbata.
“1 nuovo messaggio. Da: Mark”
Fece un lungo sospiro esasperato e si sfregò gli occhi.
“Ti va di vederci a pranzo?”
Jade si tirò su e si appoggiò con la schiena alla spalliera del letto. Perché si ostinava a non voler capire? Era davvero così irrimediabilmente innamorato di lei, o era semplicemente uno sciocco testardo?
In ogni caso, lei gli aveva detto che avrebbe dovuto attendere la sera dello spettacolo, e così sarebbe stato. Ogni altro coinvolgimento o deviazione da quella legge, era da considerarsi severamente proibito.
Eliminò il messaggio, e ripose il cellulare sulla coperta.
Pochi istanti dopo, riprese a vibrare.
Jade guardò il display: ancora Mark. Con un gesto risoluto e liberatorio, il dito andò a posizionarsi sopra il simbolo rosso di rifiuto. E la quiete tornò nella stanza.
 
 
*****
 
 
Non doveva andare così.
Né lui, né soprattutto Sonja, si meritavano un appuntamento del genere. Lei continuava innocentemente a parlare delle sue giornate, dei suoi lavori, dei suoi sogni. E lui non riusciva a fare altro che rivolgerle uno sguardo vuoto, mentre i pensieri vagavano lontano.
La concentrazione era a livelli così bassi che era come se lui non fosse nemmeno lì. Un corpo inanimato, capace soltanto di annuire quando lo riteneva opportuno.
Il panorama di Los Angeles e le colline di Hollywood si stagliavano prepotenti nella sua testa, occupando tutto lo spazio possibile, e non lasciandone alcuno per Sonja.
Poteva sentire chiaramente che una strana sensazione si stava impadronendo di lui. C’era timore, impazienza, angoscia e turbamento, alla sola idea di cosa avrebbe rivisto, una volta rimesso piede da dove era venuto.
E forse stava già cominciando a vederlo. Gli occhi di Sonja, dentro i quali si stava perdendo, non erano più gli stessi.
Erano quelli di Jade. Un glaciale zaffiro contro un caldo smeraldo. Una sanguinosa battaglia tra pietre preziose.
Il “no” deciso con cui Beck avrebbe voluto rispondere immediatamente ad Andre si faceva sempre più sfocato. Adesso la prospettiva suonava convincente, allettante, ma allo stesso tempo terrorizzante.
- Mio padre ha dato l’ok per la tua idea. - lo riportò al presente Sonja, sorridendogli.
Lui si ritrovò impreparato. - Quale idea? -
- Quella di aggiungere dei pezzi di teatro ai balletti. -
- Ah, certo, giusto… - quasi si vergognava: codardo era, e codardo era rimasto. Dovunque andasse.
Non era questo che voleva. Non ritrovarsi in un ristorante con una brava ragazza, comportarsi da comparsa e doverla illudere affinché lei non intuisse cosa, e chi, gli stesse passando per la mente.
Una volta si era chiesto perché ci avesse messo tanto a capire cosa desiderasse dalla storia della sua vita.
Realizzò qual’era la risposta. Probabilmente perché aveva smesso di cercarlo molto tempo prima. Lo aveva già trovato, solo che lui non se n’era accorto.
Capì che aveva avuto bisogno di incontrare l’esatto contrario di Jade, per realizzare quale fosse l’unica cosa che voleva.
E quel qualcosa non era lì a Seattle, ma era rimasto a Los Angeles. Ad aspettarlo sotto la gigantesca scritta di Hollywood.
Ora, tornare indietro faceva un po’ meno paura.



 

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Capitolo 15
*** XV - The night of the witches ***


XV - The night of the witches



Un anno prima.

L’estate si affacciava curiosa oltre le floride colline di Hollywood, e il sogno di ogni studente andava realizzandosi, con l’anno scolastico che giungeva rapidamente al termine.
A quel punto, il loro unico pensiero era progettare dove trascorrere i giorni di libertà che li aspettavano.
Era un pomeriggio come tanti, e anche a casa Oliver, il discorso stava per entrare nel vivo.
Nella camera di Beck, mentre lui navigava su Internet, Jade se ne stava sdraiata sul letto a sfogliare una rivista. Le pagine piene di paesaggi, mete turistiche, recensioni e nomi di città più o meno conosciute.
- Non vedo l’ora di godermi queste vacanze. - esordì la ragazza, sorridendo di fronte alla foto di una spiaggia con le palme.
- Anch’io, dopo tanto studio ho soltanto voglia di rilassarmi. -
Lo sguardo sognante di Jade si perse tra le meravigliose immagini che aveva davanti. - Voglio qualcosa di speciale per noi quest’estate. Non ho intenzione di restare a Los Angeles come l’anno scorso, quando abbiamo finito per essere risucchiati dalle idee di Tori, tra cui quell’assurdo parco acquatico, o il tour del museo egizio. -
Beck, fissando lo schermo, aggrottò pensieroso la fronte. - Non credi sarebbe meglio aspettare l’anno prossimo per andare da qualche parte? Intendo dopo il diploma, così da avere tutto il tempo a nostra disposizione, e senza il pensiero di dover tornare a scuola. -
Lei non voleva sentire ragioni. - Dopo il diploma ci sarà sicuramente qualcuno che suggerirà un viaggio chissà dove, in Grecia, a Singapore, o in Finlandia. - fece una pausa inclinando il capo. - E spero si sia capito che il qualcuno a cui mi sto riferendo è sempre Tori. -
Beck si sforzò di sorridere, nascondendo in realtà la fatica che stava facendo anche per guardarla.
Jade, intanto, aveva afferrato un’altra brochure e la stava osservando attentamente.
- Andiamo in Europa! - esclamò ad un tratto, lanciando per aria il depliant. - Magari un inter-rail, o visitare anche solo un intero paese. Che ne dici della Francia? In un mese riusciremmo a vederla più o meno tutta. -
Beck chinò la testa e girò la sedia verso di lei. Odiò dover oscurare quella luce. - Jade, lo sai che la cosa che voglio di più al mondo è stare con te… - il tono era grave, e l’espressione mal celava un senso di disagio. - Ma questo non è possibile. -
Jade gli lanciò subito un’occhiata di fuoco. - Cosa? -
- Non possiamo andare in Francia. -
- Perché, Beck? -
- Non abbiamo abbastanza denaro da parte, non possiamo permetterci un viaggio del genere. -
A quella frase, lei si tirò su dal letto e si piazzò in piedi di fronte a lui. - Vuoi dirmi che non abbiamo un centesimo per passare del tempo insieme? Che non riesci a portarmi da nessuna parte nemmeno d’estate? - il tono si stava visibilmente innervosendo, come se fosse stato toccato un nervo scoperto. - Sai, forse potremmo anche non essere così al verde! Ho visto quanti soldi spendi continuamente sulla tua auto, eppure non riesci mai a trovarne altrettanti per me, per andare fuori a cena, al cinema o in qualunque altro posto. Noi non facciamo mai niente di tutto questo, Beck! -
Il ragazzo la guardava attonito, incapace di replicare.
- A volte ho l’impressione che preferisci rendere felice la tua Pontiac, piuttosto che rendere felice me. -
Beck fu colto da un orgoglioso sussulto. - Questa è una cosa di cui non ti devi preoccupare. -
- Nel senso che devo rassegnarmi al fatto che non mi renderai mai felice? -
- No, nel senso che un modo per renderti felice lo troverò sempre. -

 
*****


A poco dall’inizio dello show, Robbie stava camminando assorto dietro le quinte, lanciando ogni tanto un’occhiata all’orologio. Non vedeva l’ora che iniziasse.
Fu distratto solamente quando, da lontano, intravide la figura di Cat dalla parte opposta del corridoio.
- Cat! - la chiamò subito, andandole incontro. Purtroppo però, come temeva, non ottenne neanche una minima reazione dalla ragazza.
Le si fece allora più vicino. - Ti va di fare due passi… - le propose timidamente. - … e dare un’occhiata… -
Il silenzio che all’inizio ricevette in cambio dimostrò come l’ombra tra loro non si fosse ancora dissolta. - Non adesso, Robbie. -
- Potremmo… -
- Ti ho detto di no. - lo interruppe lei senza possibilità di appello.
Robbie deglutì a fatica. La voce candida di Cat non si era alzata, ma si sentiva chiaramente quanto fosse piena di rancore. Due occhi di lava lo stavano fissando, riducendolo ad un insignificante mucchietto di cenere. La morsa attorno allo stomaco si stava stringendo sempre di più, mentre si accorse di aver iniziato a tremare.
Annuì, forse realizzando di non poter fare altro se non accettare quella situazione a testa bassa.
Le voltò le spalle e si allontanò lentamente verso il palco, chiedendosi se e dove avesse sbagliato stavolta.
E se l’ultima immagine che avrebbe dovuto portarsi dietro sarebbe stata quella di Cat arrabbiata col mondo, e del risentimento che provava per lui.


Passeggiando nella zona dei camerini, a Trina capitò per caso di assistere alla scena tra Robbie e Cat.
C’era ancora qualcosa che non andava tra loro.
Aspettò che lui se ne fosse andato, prima di raggiungere la ragazza. - Come va, Cat? - le domandò facendo finta di nulla.
Cat si voltò verso di lei. - Bene. -
Trina lesse la strana espressione della rossa. - Sei sicura? Perché mi sembra che non sia proprio così. -
Cat si rifugiò distogliendo lo sguardo, come attaccata da quelle parole. Non aveva nessuna intenzione di ammettere quanto si sentisse ferita, delusa, debole e vulnerabile in quel momento. - Perché non dovrebbe andare tutto bene? -
- Ti ho vista con Robbie. Che succede tra di voi? -
- Niente. -
Trina sorrise comprensiva e scosse la testa. - Quello non è “niente”. Non ho idea di cosa sia accaduto, ma so che non potrai continuare ad avercela con Robbie per sempre. Alla luce soprattutto di quanto lui tiene a te. -
Cat rialzò di scatto il capo, gli occhi erano ancora rabbuiati. - Di che stai parlando? -
- Andiamo, non fare la finta tonta. - si fece più incisiva. - Mi sto stancando di vedervi così ogni santo giorno, perché nessuno dei due ha mai avuto il coraggio di fare il primo passo. E’ una vita che va avanti questa storia, l’intera scuola se n’è accorta. Ho visto come ti guarda, l’abbiamo visto tutti. Tutti tranne te, Cat. -

 
*****


Il teatro stava cominciando a riempirsi. Distinti signori e parenti degli studenti prendevano posto sulle sedie tra platea e balconata, mentre tecnici e cameraman sistemavano macchine e apparecchi per il collegamento col network.
Era questione di minuti, ormai, prima che il Comedy Dreaming desse il benvenuto agli studenti della Hollywood Arts e al loro spettacolo di fine anno.
- L’hai chiamato, vero? - chiese Tori con impazienza. Aveva già indosso il costume di scena e se ne stava ai piedi del palco, ma la sua attenzione sembrava lontana dalle quinte.
Andre, in piedi accanto a lei, annuì più serafico. - Ci ho parlato l’altra sera. Poi non l’ho più risentito. -
- Richiamalo ancora! -
L’amico le lanciò un’occhiata di ammonizione. - Calmati e abbassa la voce, Tori, per favore. Vuoi avere Beck qui o vuoi farmi denunciare per stalking? - si accorse che lo stava guardando storto, perciò cambiò registro. - Sapeva di cosa stavo parlando, e sapeva quanto fosse importante per noi averlo qua stasera. -
Tori si guardò intorno: tra le tante facce, riconobbe Greg Holsen, il delegato artistico del Comedy Dreaming, Russel Fore, il produttore del loro CD, e poco distante, Sikowitz e la Hawkes.
Si rivolse di nuovo ad Andre. - Ti ha detto a che ora sarebbe venuto? -
Lui si ricordò del modo in cui si era conclusa la telefonata. - Non mi ha assicurato nemmeno che lo avrebbe fatto, Tori. -
Cercò di non avere un tono troppo duro. La speranza si leggeva limpidamente negli occhi di entrambi, ma al contrario dell’amica, Andre si sentiva un po’ più pessimista riguardo alla presenza di Beck.
Una donna, sputando da dietro un telone, invitò la giovane Vega a raggiungere gli altri attori dietro il sipario.
- Arrivo subito. - le rispose distrattamente con un gesto con la mano.
- Adesso devo andare. - fece ad Andre, annuendo con convinzione. - Ma verrà, ne sono certa. Mi fido di lui. -
Il ragazzo osservò Tori salire gli scalini e sparire dietro il tendone rosso porpora, prima di accomodarsi su una delle poltroncine in pelle. Lo sguardo cadde su quella vuota di fianco a lui. - Anch’io. -
Le luci si abbassarono e il silenzio calò nella sala.
Si va in scena”.
Ma intanto, nel teatro non c’era traccia di Beck Oliver.

 
*****


Era arrivato finalmente il momento di mostrargli quella scuola di danza che tanto significava nella sua vita.
Le era sembrata una buona idea, dare a Beck un assaggio di quello che avrebbero potuto fare lì dentro, dopo l’approvazione di suo padre ad aggiungere una sezione di teatro.
Nonostante questo però, l’uomo si era raccomandato di non disturbare durante le lezioni, perciò Sonja aveva optato per il tardo pomeriggio. Gli ultimi studenti se ne sarebbero già andati, e avrebbero avuto tutti i locali esclusivamente per lei e Beck.
Guidava sorridendo, mentre si dirigeva al parcheggio appena fuori dalla scuola, dove aveva fissato di incontrarsi col canadese.
Guardò l’ora sul display del cruscotto: le 17.20. Era leggermente in ritardo, ma non aveva importanza.
Arrivata a destinazione, tuttavia, notò subito uno strano dettaglio. Nel deserto del parcheggio, l’unica macchina presente non era la Buick verde bottiglia a cui era abituata, ma una Ford grigio metallizzata.
Avanzando piano, Sonja intravide anche un ragazzo appoggiato alla portiera, con le braccia incrociate, che sembrava aspettare soltanto lei.
E quel ragazzo non era Beck.
Fermò la vettura vicino al cancello d’ingresso e scese, andandogli incontro. - Freddie? -
Una folata di vento sferzò il giubbotto del giovane Benson. - Ciao, Sonja. -
Lei era senza dubbio sorpresa di vederlo lì in quel momento. - Che ci fai qui? - non gli diede nemmeno il tempo di rispondere. - E sai dov’è Beck? Avevo appuntamento con lui… -
Freddie abbassò lo sguardo verso il marciapiede. - Lo so, è per questo che sono qui. -
Si accorse che Sonja lo stava guardando incuriosita. - Beck non può venire. -
- Perché? Che è successo? - adesso la voce si stava facendo preoccupata, incrinata anche dall’aria pungente.
Freddie si aprì il giubbotto e prese qualcosa dalla tasca interna. Una busta bianca, che lui fissò a lungo, quasi gli mancasse il coraggio di guardare invece in faccia la ragazza.
Alla fine riuscì a porgergliela. - Ha detto che gli dispiace da morire. E che non aveva alcuna intenzione di farti stare male. -
Ma evidentemente, niente poté evitare il fallimento di quel proposito.
Perché dieci minuti dopo, Sonja tornò in silenzio alla macchina, con un foglio ripiegato nella mano, e gli occhi bagnati da lacrime tanto amare quanto ingiuste e inaspettate.

 
*****


Non sarà stata la scena chiave dello spettacolo, ma improvvisamente era diventata la più importante per lei.
Una scena come tante altre, riprovata più volte, eppure mai considerata per quello che rappresentava realmente. Ignorata inconsciamente, rimandata sempre a tempo indeterminato pur di non doverla affrontare fino alla fine. Ma il momento era arrivato.
Questo pensiero, e la sensazione delle decine di occhi puntati su di lei, le fecero perdere per un istante la concentrazione e la tranquillità sul palco.
- Sono le undici meno un quarto. -
Lo sguardo di Jade indugiò un po’ troppo a lungo sul tavolo, così dovette essere Mark a prendere in mano le battute e guidarla durante quel passaggio a vuoto. - Non è poi così tardi, Evelyn. - aggiunse di sana pianta, cercando di ridestarla. Non aveva idea di cosa le fosse preso.
Jade rialzò il capo, ma i suoi occhi portavano dentro una strana luce. - Dici che dovremmo chiamarla? -
- Ci ho già provato cinque minuti fa, e ha risposto la segreteria telefonica. -
- Sono preoccupata. -
- Lo so, Evelyn, ed è normale. Ma forse dobbiamo capire che la nostra Mary non è più una bambina. E’ una ragazza ormai, e… -
- Per me rimane ancora la nostra bambina. -
- Lo sarà sempre anche per me, ma sta crescendo. - La voce di Mark era più sicura delle altre volte, come se quell’attimo con lei lo stesse rinvigorendo. Si alzò deciso dalla sedia e andò ad inginocchiarsi ai piedi di Jade, prendendole la mano con tenerezza. - Sei bellissima stasera… -
- … Jade. - le sussurrò, mentre si sporgeva ulteriormente verso di lei e avvicinava desideroso la bocca alla sua.
Ormai non si trattava più di recitare. Jade sapeva cosa avrebbe significato quel bacio. Non si sarebbe limitato al palco, o alle due ore dello spettacolo. Avrebbe potuto essere l’inizio di un nuovo giorno, una strada da percorrere al fianco di qualcuno che forse l’avrebbe resa meno tortuosa e libera da ostacoli.
Un passo più lontano dal passato.
Il corpo sembrò muoversi da solo. Cinse la nuca di Mark così da poterlo fissare negli occhi per un secondo, prima di lasciare che le labbra andassero a posarsi delicatamente sulla guancia del ragazzo.

 
*****


L’applauso di Cat, da dietro il sipario, si mescolò a quello scrosciante del pubblico in sala.
Un ampio sorriso le decorava il volto, emozionata per il successo ottenuto, e convinta che ci fosse anche un po’ di merito suo in tutto questo.
L’espressione gioiosa si fece lentamente più ombrosa, quando pensò a quanto merito avesse anche un’altra persona, che adesso non era lì con lei. L’unico dettaglio andato storto in quella serata.
Lasciò che gli attori sul palco si godessero il loro momento di gloria, e si addentrò tra i corridoi del backstage. C’era ancora qualcosa che doveva fare, prima che fosse troppo tardi.
Lo trovò nella zona video, solitario e intento ad osservare uno dei tre monitor affiancati. - Robbie. -
Lui si voltò di scatto, felice di sentirle pronunciare di nuovo il suo nome. - Ciao… - le fece timidamente. - Sono stati grandi, non è vero? -
Cat gli si accostò ulteriormente, fino ad arrivare a un metro da lui. - Ascolta, Robbie, io… volevo chiederti scusa. -
Al suo silenzio, lei proseguì. - Volevo chiederti scusa per come mi sono comportata con te, davvero non te lo meritavi. Ho reagito così perché mi sentivo triste, arrabbiata, e probabilmente anche tradita. Quando mi hai detto che stavi per partire, io… non ce l’ho fatta. Non potevo accettare di perdere una delle persone a cui tengo di più in assoluto. -
- Non devi perdermi per forza, se non vuoi. - le disse dolcemente. I suoi occhi avevano riacquistato la luce della speranza, confusa forse con l’illusione. - Abbiamo la possibilità di… continuare a stare insieme, anche lontano da qui. Nemmeno io voglio rinunciare a te, dopo tutto questo tempo sei diventata troppo importante. - fece una pausa per riprendere fiato. - Domani pomeriggio ho il volo per Francoforte. Cat, parti con me, ti prego. -
Una piccola lacrima aveva cominciato a scendere e le stava rigando il tenero viso, ma lei riuscì comunque a sorridere. - Sarei la ragazza più fortunata del mondo con te, Robbie. Ma non posso. -
Lo sconforto prese in mano il cuore del giovane e gli fece perdere un paio di battiti. - Perché? -
- Non posso abbandonare Los Angeles. - la voce si era definitivamente rotta. - C’è una vita intera qua, tante persone di cui ho bisogno e che si prendono cura di me, che non mi sento ancora pronta a lasciare. -
- Mi prenderò cura io di te. -
- So che lo faresti, ma… non posso. Purtroppo non è così che deve andare tra noi, Robbie. Mi dispiace davvero. - ogni parola sembrava la più difficile del mondo. - Voglio però che tu sappia che quando tornerai, io sarò sempre qui. -
Come ebbe finito la frase, gli gettò le braccia al collo e si strinse a lui come non aveva mai fatto prima. Non voleva lasciarlo partire in quel modo.
Le loro bocche si unirono in un sincero e candido bacio, macchiato dalle lacrime e dall’idea del domani.
Il loro primo bacio. Un bacio d’addio.

 
*****


- Che diavolo è successo prima? - L’area ristoro era deserta, e la voce di Mark riecheggiò fino in fondo al backstage.
Jade prese una bottiglietta d’acqua dal distributore, continuando a dargli le spalle. - Di che stai parlando? -
- Sai benissimo di cosa sto parlando. Sul palco, la nostra scena del bacio. Che ti è preso? - il tono non era tranquillo.
Lei si voltò, sostenendo il suo sguardo. - Ho semplicemente avuto un momento “no”. Il pubblico, la tv… mi sono sentita sotto pressione, e per un attimo ho scordato le battute. -
- Non sto parlando delle battute. I nostri personaggi avrebbero dovuto baciarsi, ma non l’hanno fatto. Perché? -
Una particolare fiamma si era accesa dentro gli occhi di Jade. - Non mi sembrava una buona idea fare la scena in quel modo. -
- Ma c’era scritto così sul copione. -
- Lo so cosa c’era scritto. -
- Non è che ha a che fare con altro? - la domanda era seria, ancora più di quanto sembrasse. - Avevi detto che… -
- Ricordo quello che ho detto. -
- Allora? -
Jade si chiuse nel suo silenzio. Il momento non era semplice, neanche per lei. Un’occhiata di fuoco non avrebbe risolto nulla, così come non era stata in grado di farlo sin dalla prima volta.
Non importava quanto si fosse sentita lusingata dalle attenzioni di Mark, o quanto lui fosse stato carino fino al punto di farle cambiare idea. C’era sempre stato qualcosa che non andava, qualcosa di sbagliato.
Qualcosa che non le permetteva di andare avanti con lui.
Dopotutto, ricordava qual’era sempre stato il vero scopo con Mark. Fin dal primo giorno, tutto ciò che voleva era manipolarlo in vista dello spettacolo. Renderlo un burattino personale, disposto a fare e a seguire qualsiasi cosa gli venisse detto. Continuare a frequentarlo, facendo leva sui sentimenti che provava per lei, aveva significato semplicemente farlo illudere a sufficienza, affinché non potesse liberarsi dal collare che gli era stato messo al collo.
Non era mai esistita nessuna cotta, ed ogni piccolo cedimento o minima tentazione di cadere tra le braccia di Mark, non potevano essere considerati altro che incidenti di percorso.
Quella era la sua vera natura, e probabilmente non sarebbe mai cambiata. Fare del male ai ragazzi e sfruttarli a proprio piacimento, questa era Jade West.
- Tra noi non può funzionare, Mark. - Una sentenza che giunse severa, spietata, senza appello.
Lui era rimasto spiazzato dalla risposta. - Per quale motivo? Dopo tutto quello che… -
- Semplicemente, è no e basta. - E in effetti, era veramente tutto qua. Non le sarebbero servite altre parole per spiegarglielo: non ce n’era bisogno, e non ne valeva la pena.
Lo sguardo di Mark si era incollerito. - Sai, pensavo di essere arrivato a contare qualcosa per te. Pensavo di aver incontrato una persona diversa da quella che tutti reputano crudele e insensibile. -
Batté il pugno sul tavolino, facendolo tremare, in un gesto carico di disprezzo e indignazione. - Non ho mai voluto dare ascolto agli altri, quando provavano a tenermi lontano e a mettermi in guardia da te. Dicevo loro che si sbagliavano, che avevo conosciuto il vero lato di te. E invece ho appena scoperto che quel lato non esiste! -
- Vattene. - lo invitò Jade, impassibile di fronte a tanta frustrazione.
Ma lui non si muoveva, reso irriconoscibile dall’espressione violenta che gli deturpava il viso.
- C’è qualche problema qui? -
Jade si voltò grata verso il punto da cui era provenuta la voce. Assistette all’ingresso dei suoi quattro amici nella saletta, con Andre in testa.
- Mi sembra ti abbia chiesto di andartene, o sbaglio? -
Seppur in situazione di inferiorità numerica, Mark si mostrò per niente impressionato. - E tu che vuoi? -
- E’ finita, Mark. - aggiunse Jade, sicura di aver vinto.
Era l’ultimo atto. Mark dovette cedere alla rassegnazione e abbandonare ogni vano proposito, anche se guidato da inutili sentimenti.
- D’accordo. Addio. - mormorò tra i denti, prima di scomparire dietro la porta e uscire per sempre dalla vita di Jade e degli altri.
Lei lo osservò mentre se ne andava via, colta da un forte senso di colpa e solitudine.
Non per Mark, ma per quel ragazzo canadese che non era più al suo fianco.
Perché in fondo, l’unico a cui non aveva mai voluto fare realmente del male, era ed era sempre stato Beck.
- Tutto a posto? - le domandò Tori, avvicinandosi e poggiandole una mano sulla spalla.
- Togli quella mano, Vega. - la riprese con un ghigno, indicando come fosse già tornata alla normalità. - Sto bene. E vi ringrazio di avermi “salvata”, ma potevo cavarmela benissimo da sola. -
- Lo sappiamo. - commentò Andre. - Però altrimenti a cosa servono gli amici? E poi io mi sono annoiato, tutta la sera su quella poltroncina! -
Scoppiarono tutti a ridere, finché Tori non riprese la parola. - Che ne dite di andare a bere qualcosa e festeggiare? -
Robbie, più indietro, guardò Cat e annuì. - Sì, andiamo. È stata una lunga serata per tutti. -
- In fin dei conti credo che ce lo siamo meritato, no? -
- Puoi dirlo forte, Vega. - le fece seguito Jade. - Grazie soprattutto alla mia interpretazione. -
Tori le lanciò un’occhiataccia. - Credi davvero di aver recitato meglio di me? -
- Ci puoi giurare. -
Andre scosse il capo. - Sempre la solita storia… - sospirò, scherzando con Cat.
Il gruppo si incamminò lungo un corridoio che portava al parcheggio sul retro, dove avevano lasciato le auto.
- Vi va di venire a casa mia? - propose Tori, mentre abbassava il maniglione della porta antipanico. - Ho… -
Ma come ebbe varcato la soglia, si bloccò insieme agli altri come davanti a un fantasma, alla vista di cosa li stava aspettando appena fuori dal teatro.
O meglio, chi.
- Beck?! -

 
*****
 
Epilogo


La sua bella Pontiac GTO del colore del sole era tutta un’altra cosa, rispetto a quella vecchia Buick verde bottiglia.
Sentiva la potenza dei cavalli motore scorrergli attraverso il volante, stretto con vigore, mentre affondava il piede sull’acceleratore.
La strada si estendeva libera davanti a lui, permettendogli di raggiungere più velocemente un piccolo quartiere a ovest di Los Angeles, che aveva visitato solo in un paio di occasioni, prima di allora.
Eppure quel complesso a Venice non era cambiato affatto dall’ultima volta. Percorrendo il vialetto che conduceva al cortile interno, notò divertito come persino le piante sembravano aver mantenuto la stessa altezza a distanza di settimane.
Non mi sorprenderebbe, considerato chi ci vive”, pensò Beck sorridendo.
La grande fontana gli ricordò di essere giunto a destinazione. Fece un ulteriore passo e si parò di fronte alla porta del civico 22.
Esitò però a lungo, prima di trovare il coraggio di bussare.

- Potresti venire anche tu a Los Angeles. -
Le valigie attendevano Beck già sul pianerottolo, pronte a imbarcarsi insieme a lui sul volo per Hollywood. Era passato dalla signora Benson per riconsegnarle la chiave dell’appartamento 8-S, e adesso, sulla soglia, l’ultima cosa che gli rimaneva da fare era salutare un buon amico conosciuto in quel di Seattle.
L’interno 8-C, una volta appartenuto ad iCarly, stava assistendo ad un’altra partenza.
- Sarebbe il momento giusto. Pensaci, sarebbe l’occasione che aspettavi per rimettere le cose a posto. Per sistemare una volta per tutte quei sentimenti rimasti in sospeso con Sam. Salta su quell’aereo e va’ da lei, Freddie. -
Freddie non riuscì a nascondere ciò che stava realmente pensando. Probabilmente Beck aveva ragione: non poteva scappare o nascondersi per sempre. Prima o poi avrebbe dovuto affrontare quello che provava. Un giorno anche lui si sarebbe concesso la possibilità di essere felice.
Ma quel giorno non era ancora arrivato.
- Non è così facile, Beck, almeno non per me. Mi spaventa a morte l’idea di tornare da lei. Io non posso sapere quale sia la sua vita di adesso, e se ci sia rimasto uno spazio per me. Non posso sapere se continua a pensarmi, cosa sente nei miei confronti, se è sempre disposta a dare una chance al nostro rapporto, o se è ancora lì ad aspettarmi. Io non so un bel niente di cosa succederebbe una volta lì, e questo mi fa dannatamente paura. Non voglio perderla per sempre, non mi sento pronto. Penso tu possa capirmi. -
Beck aveva annuito. Lui invece era pronto a tornare indietro e combattere.
- Ma se il destino sarà dalla nostra parte. - riprese Freddie con un sorriso sognante. - Allora sono sicuro che in futuro arriverà anche il tempo per me e Sam di ritrovarci, e di tornare finalmente insieme. -
Il canadese gli porse la mano. - Buona fortuna, amico. -
- Anche a te. - la stretta servì a trattenerlo un ultimo secondo. - Promettimi però che, una volta a casa, farai una cosa per me. -

Eccolo lì. La porta si aprì svogliatamente e una biondina apparve davanti a lui, visibilmente sorpresa. - Ancora tu? -
- Ciao, Sam. -
Lei si appoggiò allo stipite incrociando le braccia. - Pensavo te ne fossi andato. -
Beck ridacchiò. - Già, questa voce era giunta anche a me. -
- Ti cerco Cat? - gli chiese, guardando all’interno dell’appartamento.
- No, in realtà sono di nuovo qui per te. -
La ragazza si finse impressionata. - Davvero? Quale onore! Ma a furia di frequentarci, i tuoi vecchi amici non diventeranno gelosi? -
- Se ne faranno una ragione. -
- Insomma, che succede, Beck? - decise di smettere di scherzare. - L’ultima volta che sei venuto qui mi hai causato diversi problemi, lo sai? -
- Posso immaginarlo. E sono pronto a scommettere che non sono ancora finiti per te. -
Quando vide Sam assumere un’espressione pensierosa, Beck estrasse dalla tasca una busta gialla, sigillata, con tanto di francobollo e indirizzo del destinatario.
Quello recitato sul retro, stava indicando esattamente l’appartamento in cui si trovava adesso.
- Questa è di Freddie. - le rivelò mentre gliela offriva. Lesse chiaramente, subito dopo, lo stupore e lo smarrimento negli occhi della bionda, che ancora si rifiutava di accettarla.
- Niente è cambiato nel corso di questi anni, Sam. Ma non ha mai trovato il coraggio di spedirtela. Qui c’è tutto quello che non è mai riuscito a dirti, dal giorno in cui sei partita. -

 
*****


Era la prima volta che rimaneva da solo con lei, da quando si era ripresentato ai piedi di Hollywood.
Una caffetteria in stile anni ’90 faceva da sfondo, e i divanetti in pelle su cui si sedettero rappresentarono il loro personale teatro.
Il silenzio che calò sin dai primi momenti, imbarazzante ma consapevole, dimostrò come neanche un dettaglio di quelle ultime settimane fosse andato dimenticato.
I timori, cresciuti per anni alle spalle della loro relazione, non potevano essere già spariti.
Beck continuava ad fissare la parete vuota, mentre Jade la tazza fumante che ogni tanto si portava distrattamente alla bocca. Eppure, nessuno dei due sembrava avere la minima intenzione di alzarsi e prendere la via della porta.
- Ricordi cosa ti dissi tanto tempo fa? - prese forza Beck, dopo aver sospirato profondamente. - Che sarei sempre riuscito a trovare un modo per renderti felice. -
Lo sguardo della ragazza incontrò quello del canadese, e in quell’istante, lui ebbe ancora più chiara la ragione per cui era tornato indietro.
Si sentiva fortunato a poter naufragare di nuovo nell’oceano dei bellissimi occhi di Jade.
- E ho creduto, sbagliando, che partire fosse l’unico modo per farti ritrovare la felicità. -
Lei decise di non rispondere, limitandosi ad annuire. Non importava quanto tempo sarebbe servito per accettare le sue parole.
Magari le sarebbe stato impossibile ammetterlo, ma era avere Beck al suo fianco, l’unico tipo di felicità che avesse mai conosciuto.
- Non siamo pronti a far funzionare le cose tra noi. -
Il suono della frase di Jade, nient’altro che verità, faceva dannatamente male ad entrambi.
- Abbiamo troppi problemi. -
- E’ vero. - stavolta, però, Beck non avrebbe permesso alla stella più brillante di Hollywood di eclissarsi. - Ma abbiamo anche un’intera vita davanti per cercare di risolverli. Insieme. -



 
*****

THE END





Angolo finale dell'autore:
La prima cosa che devo dire è GRAZIE a tutti voi che avete letto e siete arrivati alla fine di questa storia. E' stato un piacere condividerla con voi e sapere del vostro apprezzamento.
La seconda è, adesso, per chi se lo sta chiedendo: sì, il sequel c'è.
Diamond Dreaming Eyes, lo trovate a questo link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3566015&i=1

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