Crossed Lives - La Promessa

di AnyaTheThief
(/viewuser.php?uid=30800)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


“Tommy… Dai, svegliati…!”

Il ragazzino mugolò, rigirandosi nel letto infastidito.

Beatrice si guardò attorno per controllare che nessun altro si fosse svegliato. Il russare di Leonardo in fondo alla stanza rimbombava anche nel dormitorio delle ragazze. Storse il naso indispettita, poi tornò a scuotere il suo amico.

“Tommaso!” sibilò a voce un po’ più alta. Non poteva stare lì per molto, se l’avessero beccata i capi… E poi stava congelando: nel calduccio del suo sacco a pelo non si era pentita di aver portato soltanto il pigiama leggero, ma appena era scesa dal letto, si era accorta subito dell’errore. Aveva tirato le calze a righe fino al ginocchio ed in punta di piedi era uscita dal grande stanzone pieno di letti a castello; nessuno si era accorto di lei.
Dall’altra parte dell’atrio su cui si affacciavano i dormitori c’era la camera dei capi e dei cambusieri*: la luce era spenta e non si sentivano più le loro risate chiassose dal piano di sotto. Via libera! Ma ora il suo piano stava fallendo per colpa di quel pigrone!

Beatrice si guardò di nuovo attorno, poi con decisione gli infilzò il fianco con la mano tesa. Tommaso sussultò, spalancando gli occhi e trovandosela davanti, con i capelli castani lunghissimi raccolti in una coda scarmigliata ed un broncio ad incresparle le labbra.

“Be--” stava per esclamare ad alta voce, prima che lei gli tappasse la bocca con decisione.

“Stai zitto, vuoi svegliare tutti?!” sussurrò infastidita. Aspettarono alcuni secondi in silenzio. Leonardo continuava a russare come un trattore ed entrambi si chiesero come facevano a dormire con tutto quel chiasso. Giovanni borbottò nel sonno.

“Muoviti, andiamo!” lo esortò. Tommaso non sembrava avere molta voglia di uscire dal sacco a pelo; esitò per un attimo, ma non appena vide lo sguardo insistente di lei, non ebbe il coraggio di replicare.

Quando i suoi piedi toccarono il pavimento, un brivido gli percorse la schiena e la tentazione di tornare a letto fu forte, ma poi Beatrice lo prese per mano e tutti i suoi dubbi si dipanarono.

Sapeva essere prepotente come pochi ma poi, non appena lo sfiorava, lui si scioglieva. Lei si voltò ed un’ondata di profumo di shampoo gli pervase le narici. La seguì senza replicare, come se fosse sotto il controllo di un incantesimo.

Quando uscirono nell’atrio, si sentì più sicuro a parlare senza il timore di essere rimproverato di nuovo.

“Dove stiamo andando? Io…” avrebbe voluto dire di avere sonno, e parecchio, ma evitò di farla infuriare.

“Ho trovato una cosa!” tagliò corto Beatrice avviandosi verso le scale. Tommaso si bloccò in cima al primo gradino e lei che lo trascinava fu costretta a fare lo stesso.

“Non possiamo scendere! Se ci beccano…”

“Oh, andiamo! Perché sei sempre così fifone? Non ci beccheranno! Muoviti!”

Beatrice gli voltò le spalle. Sapeva che l’avrebbe seguita, non sarebbe mai rimasto lì, né sarebbe tornato indietro lasciandola sola. Difatti, dopo pochi secondi, sentì i suoi passi dietro di lei e si voltò con un sorrisetto furbo.

Lo convinceva sempre a fare tutto ciò che voleva. Qualche volta si era interrogata sulla moralità di tutto ciò, ma aveva concluso che poi lo ricompensava sempre in qualche modo, quindi non aveva motivo di lamentarsi!

Camminarono attraverso il refettorio buio, illuminato soltanto dal debole riflesso di un lampione in strada, poi Beatrice si avvicinò alle porte della cambusa.

“Puoi aspettare qui, se hai paura.” disse risoluta, mentre lui si era di nuovo bloccato con aria terrorizzata.

“Lo sai che questo è vietatissimo, perché lo fai?” chiese. Era impallidito. I cambusieri sapevano essere davvero crudeli con chi non rispettava le regole. Una volta gli avevano fatto lavare tutti i piatti da solo! Sempre per una delle idee stupide di Bea, che lo aveva convinto a prendere di nascosto un’altra fetta di torta per potersela dividere…

Beatrice non gli rispose e sparì dietro le porte a battenti della cambusa. Tommaso sussultò e strabuzzò gli occhi. Lo stava facendo davvero! Si guardò attorno. Cosa poteva fare? Non voleva entrare lì, si sarebbero cacciati nei guai ed era soltanto il primo giorno di campo, si sarebbero rovinati tutta la gita per colpa di quella scemenza!

“Bea!” sussurrò. Gli era sembrato di sentire un rumore al piano di sopra. E se fosse arrivato qualcuno? Fece rimbalzare gli occhi da una parte all’altra della stanza alla ricerca di un nascondiglio, ma sapeva che non poteva lasciarla lì da sola!

Quando si decise ad entrare, Beatrice aprì la porta all’improvviso rischiando di dargliela sul naso. Lui era ancora molto basso per i suoi dodici anni e lei non poteva vederlo dal’oblò della porta, posto troppo in alto persino per lei.

“Guarda qui!” esclamò mostrandogli un sacco pieno di cioccolatini assortiti e caramelle.

“Oh…” fece lui, incantato. Adorava i dolci e Bea lo sapeva benissimo. Lo aveva fatto più per lui che per se stessa. “Oh!!” esclamò poi in tono decisamente diverso. “Finiremo in grossi guai, i cambusieri odiano quando anche solo parliamo del loro cibo!!” la rimproverò cercando di darsi un tono. Ma riuscì soltanto a farla sghignazzare. Era un po’ più alta di lui e lo guardava sempre dall’alto al basso.

“Muoviti, prendine soltanto qualcuno, non se ne accorgeranno mai!” rispose ridacchiando ed iniziò a frugare nel sacchetto pescando tre, quattro, cinque caramelle delle sue preferite. Tommaso sospirò. Poi immerse la mano nei dolciumi fingendo poco entusiasmo, mentre in realtà aveva già l’acquolina in bocca.

La luce che si accese all’improvviso li colse con le mani nel sacco, letteralmente.

 

“Mmmhh… E’ la torta più buona che abbia mai mangiato!!”
Leonardo gustava la sua fetta di dolce esagerando ogni movimento ed espressione, mentre Tommaso lo guardava livido di rabbia dal suo angolino sulla panca: la gavetta** davanti a lui vuota gli ricordava perché non doveva mai ascoltare le idee di Beatrice.

“Non dargli retta.” disse lei ad alta voce, per farsi sentire da Leo. “Non è così buona. Ho visto che Mysa*** si limava le unghie sopra all’impasto.” aggiunse. Era una bugia bella e buona e Tommaso lo sapeva perché lei aveva sollevato le sopracciglia in quel modo… Come faceva sempre quando mentiva. Sotto il tavolo cercò di prendergli la mano, ma lui la scansò, ancora infuriato.

“Guarda che non è stata colpa mia!” bisbigliò, mentre con la coda dell’occhio notava Leonardo indugiare sulla sua fetta di torta. “Sei stato tu a fare troppo rumore!” lo rimproverò.

Ma Tommaso non voleva saperne. La torta di Mysa era la sua preferita, ed ora per colpa di Bea non potevano mangiarla e quello era l’unico giorno che la facevano! L’anno seguente poi non sarebbero più stati Lupetti, e Mysa non sarebbe stata più con loro, e quindi era la sua ultima occasione per mangiarla e Bea aveva rovinato tutto per qualche cioccolatino che potevano mangiare in qualunque momento… Gli salirono le lacrime agli occhi.

Guardò Akela sperando di impietosirlo. Era sempre il più buono con loro, ma non colse il suo sguardo. E poi da quando erano entrati a far parte del C.D.A.****, li consideravano tutti più grandi e responsabili e sapeva che erano rimasti molto delusi per il loro comportamento: lo aveva letto nello sguardo di Bagheera.

Beatrice lo fissò incredula. Davvero si era imbronciato per una cavolata del genere?

“Tommy!” lo richiamò, cercando nuovamente di prendergli la mano, ma ancora una volta lui la scansò bruscamente.

“Lasciami in pace!” sbottò. “E’ tutta colpa tua, io non volevo venire, ok?” non la stava guardando, ma seppe di aver fatto centro, perché Bea non parlò più finché tutti non si alzarono dai loro posti per andare a sbrigare le faccende.

“Bea, Tommy, a pulire le camere!” ordinò Bagheera. Quindi la punizione non era finita! Soltanto in due a pulire le camere, un vero e proprio accanimento! Bea fece per protestare, ma Tommaso si alzò senza dire una parola e si avviò a testa bassa e passo deciso verso le camere. Lei lo seguì, correndo per raggiungerlo.

“Aspettami!”

Lui accelerò il passo e Beatrice fu costretta a correre per stargli dietro, mentre continuava a richiamarlo. “Tommy, dai... Aspetta!”

Ma lui non voleva saperne. Riuscì a bloccarlo soltanto all’ingresso della camera dei ragazzi perché lo prese di forza per le spalle e gli si piazzò davanti.

“Mi dispiace, ok?” scandì. “Volevo soltanto fare qualcosa di carino per te. Non pensavo che ci avrebbero beccati. Ecco…” si torse le mani, mentre lui la guardava torvo e per niente ammorbidito dalle sue parole. “Prendi.” disse tentennante, sfilandosi dal collo e porgendogli il fazzolettone attorcigliato e pieno di spille. Era la cosa più preziosa che possedesse e i suoi gesti esitarono molto.

“Ma… Non puoi!” disse Tommaso, dimenticando tutto il resto.

“Io non sono degna!” esclamò lei, teatrale come sempre. “Finché tu non mi perdonerai, io non sarò degna di essere una scout, e quindi… Questo non mi serve.”

Beatrice deglutì e Tommaso sapeva bene che stava facendo tutto ciò solo per dimostrargli quanto fosse pentita. Anche lui si sfilò il fazzolettone, esitante. Il suo aveva più spille di quello di Bea, perché aveva partecipato a più campi.

Lo tese verso di lei, allargandolo per infilarglielo al collo. Beatrice lo guardò sorpresa. Sapeva che in quel foulard c’erano tutti i suoi ricordi, i campi a cui aveva partecipato, pupazzetti e spille che gli avevano regalato negli anni… Alcuni li aveva persi, alcuni erano piuttosto vecchi, altri glieli aveva appuntati lei stessa. Sorrise. Era felice di non dover rinunciare agli scout.

Anche lei sollevò il fazzolettone verso Tommaso e di tacito accordo se li scambiarono.

Fu in quel momento che accadde la cosa più pazzesca, persino più incredibile di quella volta che i Capi li avevano dimenticati in stazione.

Fu in quel momento che le loro vite cambiarono per sempre.











 

Constance era sveglia da un bel po’, ma non aveva ancora mosso un muscolo per paura di svegliarlo. Stava sdraiata con gli occhi spalancati a pensare. Rifletté così tanto che ad un certo punto credette di averlo svegliato con il rumore dei suoi pensieri.

Quando si sentì cingere la vita finalmente si mosse ed il suo viso si distese in un’espressione addolcita. D’Artagnan le baciò la spalla nuda e le accarezzò sensualmente il pancione, finché lei non si rigirò verso di lui.

“Qualcuno si è svegliato di buon umore…” sorrise, posandogli un bacio sulle labbra.

Lui la guardò con quella faccia, quella che la faceva sempre sciogliere di desiderio, quella che diceva “adesso ti prendo e non ti lascio più”, ma che in realtà aspettava il suo consenso.

Per quanto lo desiderasse, quella volta il consenso non giunse. Constance gli rivolgeva un sorriso strano. Sorrideva, ma i suoi occhi quasi piangevano mentre gli prendeva il viso tra le mani e lo baciava nuovamente sull’angolo della bocca.

“Cosa succede?” le chiese preoccupato affondando una mano nei suoi ricci ramati. Dopo i primi giorni di euforia per il suo ritorno, Constance si era rabbuiata, anche se cercava di non darlo a vedere. E lui sapeva bene che non si trattavano degli sbalzi d’umore dovuti alla gravidanza: conosceva già la risposta a quella domanda.

Lei scosse il capo, guardandolo negli occhi e tirò su con il naso. Gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Non te ne andare.” mormorò con un fil di voce. Non era da lei, non era mai stata una donna del genere, ma l’idea di restare di nuovo sola, con il bambino che stava per nascere, l’aveva fatta sprofondare in un tunnel oscuro dal quale non vedeva via d’uscita se non quella di restare con D’Artagnan per sempre e non doversi lasciare mai più.

Ma sapeva che non era possibile.

“Constance… Guardami.” non poteva farle una promessa del genere e lo sapeva benissimo, ma cos’altro poteva dirle? “Tornerò.” le assicurò, guardandola negli occhi con determinazione. “Tornerò prima che nasca.” se la prima era un’ipotesi azzardata, questa era proprio un’utopia, ed anche Constance se ne accorse perché sorrise come se D’Artagnan le avesse appena fatto una battuta per farla stare meglio.

“Scusami. So che non avrei dovuto chiedertelo.” disse, più calma, scuotendo nuovamente il capo in segno di disappunto. Cosa le era preso? Certo che sarebbe tornato.  

Il loro amore era qualcosa che andava oltre alla guerra. Le aveva promesso che sarebbe tornato per il suo compleanno e lo aveva fatto; poi ancora, per vederla con il pancione ed eccolo lì.

Nonostante Constance avesse una brutta sensazione, sapeva che avrebbe tenuto fede anche a quell’ultima promessa. Voleva illudersi che sarebbe andato tutto bene. Non lo avrebbe aspettato per la nascita del bambino, ma sperava che entro un anno sarebbero potuto stare assieme, questa volta definitivamente. La guerra in Spagna stava volgendo a loro favore. Presto sarebbero stati una famiglia.

D’Artagnan fece di nuovo quella faccia, e poi si infilò sotto le lenzuola. Le baciò più volte il pancione, facendola sussultare ridacchiando per il solletico e per il piacere.

 

“D’Artagnan!” la voce di Porthos li interruppe bruscamente ed il suo bussare insistente gli fece venire voglia di replicare il gesto sui denti dell’amico. Perché doveva fare tutto quel chiasso?

“Oh, no…” mormorò Constance al suo fianco. “Non dirmi che…”

Nel momento in cui era tornato gli aveva detto di non voler sapere quanti giorni avessero a disposizione per stare assieme, prima che fosse dovuto ripartire di nuovo. Non voleva saperlo, sarebbe stata piena di ansie, facendo il conto alla rovescia. In quel modo si era goduta suo marito per cinque splendidi giorni, ma era giunto il momento che tanto temeva. Sperava di poterselo tenere al suo fianco per più tempo.

“Constance…” le sussurrò, affondando il viso nei suoi capelli ed inspirando profondamente il suo profumo. “Oh, vorrei non dover…”

“Vai.” gli ordinò lei cercando di mantenere un tono fermo, mentre le lacrime le stavano pizzicando di nuovo gli occhi. “Vai, ora.” ripeté, con voce tremula.

Sapeva che se si fosse fermato a salutarla, lei non avrebbe avuto il coraggio di lasciarlo andare e non voleva che D’Artagnan assistesse alla scena pietosa di lei che cercava di trattenerlo con tutte le sue forze, come una disperata.

Lui esitò per lunghissimi secondi, tra le sue braccia, i suoi capelli e le lenzuola. Prendeva respiri lenti e profondi, come se si stesse preparando a fare un salto di tre metri, e intanto la guardava negli occhi, deciso ad imprimersi nella memoria ogni istante, ogni ricciolo, ogni battito di ciglia, ogni sfumatura del suo profumo.

All’ennesima bussata di Porthos si alzò di scatto, si rivestì velocemente e se ne andò senza una parola, il cuore gonfio di emozioni. Passò davanti all’amico e scese le scale, poi si asciugò una lacrima di nascosto, mentre si sistemava lo scollo della camicia.

Constance fissò il vuoto per istanti interminabili. Il respiro che prima era regolare, iniziò ad accelerare incontrollato, fino a trasformarsi in singhiozzi, che poi esplosero in un urlo di frustrazione.

Porthos lo udì, guardò verso la stanza di D’Artagnan e con aria rassegnata si calcò il capello sulla fronte.

 

Constance gridava da almeno mezzora. Non poteva tenersi dentro tutto il dolore, fisico e mentale, che la stava spaccando in due. E se D’Artagnan non fosse entrato da quella porta prima di poter stringere suo figlio tra le braccia, sentiva che sarebbe potuta morire in quell’istante.

La Regina le aveva messo a disposizione i suoi migliori dottori e lei in persona attendeva fuori dalla porta. Constance aveva declinato la sua offerta di stringerle la mano, e si sarebbe scusata di questo più tardi, ma non poteva rischiare di rompere due dita a Gisela. E si sarebbe vergognata troppo di tutte quelle urla e quei pianti che non riusciva a trattenere.

“D’Artagnan… D’Artagnan…” mormorava nei momenti in cui le contrazioni la lasciavano libera di respirare. Ma nonostante il mantra, D’Artagnan non arrivò. Il dottore annunciò che era ora di iniziare a spingere, ma lei non voleva. Si sarebbe tenuta dentro il bambino finché non lo avrebbe visto tornare. Lo aveva promesso, sarebbe entrato da quella porta per abbracciare suo figlio!

“No!” urlò in preda ad un’altra contrazione. “Lui… Dov’è lui?!” domandò invano.

“Spingete, ora!” ordinò il dottore autoritario. Constance singhiozzò, stringendo forte il lenzuolo fino a quasi farsi male. Sapeva che doveva farlo, o avrebbe fatto del male al bambino.
Lo fece, ma solo per non dover dire a suo marito che il loro bambino era morto per colpa sua.

Nacque che era appena passata la mezzanotte. Lei lo prese, ma non sentì nessuna di quelle sensazioni che Anna le aveva descritto e che la vedeva provare quando cullava il suo piccolo. Teneva la vita tra le braccia ma si sentiva morta dentro.

D’Artagnan non era tornato.




 
Note:
*cambusieri: i ragazzi che stanno in cambusa, che sarebbe la cucina, ed ai campi scout preparano tutti i pasti.
**gavetta: la ciotola personale che gli scout portano ai campi per mangiare.
***gli scout con dei ruoli, e anche i cambusieri, hanno tutti un nome tratto da "il libro della Giungla". Akela e Bagheera di solito sono i Capi (in questa fanfiction, lo sono), gli altri nomi "strani" che vedete appartengono tutti ai cambusieri.
****C.D.A.: Comitato di Akela. E' formato dai Lupetti più grandi, è un gruppetto che organizza giochi per i piccoli e che in generale aiuta i Capi.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


“Akela… Akela, sei sveglio?” 
“Eh?!” Tommaso si svegliò di colpo con una specie di grugnito. Qualcuno stava bussando insistentemente alla porta. Si guardò attorno intontito e ci mise alcuni secondi a capire dove si trovasse: non era camera sua. 
Cavolo!! Che ore erano? La sveglia era già suonata? Possibile che non l’avesse sentita? 
“S-Sì, arrivo!!” balbettò, lanciandosi giù rapidamente da letto e rischiando di inciampare nelle lenzuola. Cercò con lo sguardo i suoi vestiti, ma gli occhi gli ricaddero sulla figura che si stava rigirando nel letto dal quale si era appena alzato. 
Beatrice dormiva ancora serena. Nel rotolarsi nel letto il lenzuolo si era scostato, mostrando un seno nudo e probabilmente per quel motivo aveva un’aria così soddisfatta, data l’afa opprimente di quei giorni. I capelli castani sempre lunghissimi le incorniciavano il viso, sparsi sul cuscino. A Tommaso venne una grande voglia di rituffarsi tra le sue ciocche profumate, ma si limitò a guardare da un’altra parte. Scompigliò un letto come se ci avesse dormito dentro, ricoprì Bea con il lenzuolo ed andò ad aprire alla porta. Un bimbo biondo poco più alto della sua anca lo fissava perso. 
In quel momento Tommaso si accorse che era ancora tutto buio, anche di fuori. 
“Cosa c’è, Samu? Che ore sono?” si stropicciò gli occhi. Ecco perché aveva ancora tanto sonno. 
“Ho fatto un brutto sogno. E Marco continua a russare, non riesco più a dormire!” replicò il bimbo, azzardando un’occhiata all’interno della stanza. Tommaso si piazzò davanti, impedendogli di guardare più accortamente. Conosceva bene quel Lupetto e sapeva che non era da lui andare a svegliarli di notte per un brutto sogno… Ma era pur sempre un bambino, si disse Tommaso. In uno slancio di compassione, stava quasi per proporsi di riaccompagnarlo in camera e stare con lui finché non si fosse riaddormentato.
“Perché non dormite coi cambusieri? Tutti i capi dormono con i cambusieri.” disse d’un tratto Samuele, cercando nuovamente di sbirciare dentro la camera.
Oh. 
Adesso gli era tutto più chiaro. Tommaso sorrise con l’aria di chi ha appena smascherato qualcuno. “Buonanotte, Samu.” e richiuse la porta, girando la chiave. Si tolse di nuovo i pantaloni e si ributtò nel letto, ignorando le proteste del bambino che continuava a bussare. 
“Akela! Akela! Ma io ho fatto davvero un brutto sogno!” 
Tommaso ridacchiò, crogiolandosi tra i capelli di Bea. 
“Cosa…?” mugugnò lei, senza nemmeno aprire gli occhi. 
“Ignoralo.” rispose Tommy risoluto. “Stanno di nuovo indagando.” 
Beatrice sbuffò esausta e lo abbracciò. Come faceva sempre prima di addormentarsi, il suo indice iniziò a solleticarlo in mezzo al petto nudo. Tommaso sorrise e la lasciò fare, finché lei non si addormentò nuovamente.
Lui invece fece più fatica a prendere sonno. 
Ripensò a quel giorno di quindici anni prima, in quella stessa casa, quando tutto cambiò. Non seppe mai cosa accadde a Bea nel momento in cui le aveva infilato al collo il suo fazzolettone, perché l’emicrania che lo colpì era così forte da farlo cadere a terra all’istante, gli occhi serrati, le mani alle tempie, mentre una sequenza di immagini scorreva nella sua testa come un rapidissimo film. 
Si rivide baciare una ragazza in un mercato. Ma lui era più grande, lei era più grande, e lei era Bea, ma non era esattamente Bea. Avevano dei vestiti strani, dei capelli diversi. Eccoli in una piccola chiesa, si stavano sposando. C’erano altre persone insieme a loro… Di colpo lei aveva un gran pancione e lui la lasciava sola, e poi la guerra, gli spari… 
E poi di colpo si ritrovava di nuovo con lei. Ma di nuovo, era una donna diversa. Arrivò in quel cimitero con aria persa, confusa. Scavarono insieme una buca ai piedi di un grande albero e ne tirarono fuori una collana, e appesa ad essa… 
Alcuni particolari erano come chiusi sotto chiave ed ogni volta che si sforzava per visualizzarli, una forte emicrania lo colpiva.
Erano felici assieme. Ma poi una malattia lo aveva costretto in ospedale. La vedeva sfocata, non era nemmeno sicuro che fosse lei, ma era sicuro che le fosse rimasta accanto fino alla fine. E poi non aveva visto più nulla. 
Quando si era ripreso, i Capi li stavano aiutando a rimettersi in piedi, preoccupatissimi; raccontarono di essersi per sbaglio dati una testata l’uno contro l’altra.
Bea non era stata più la stessa. Era diventata molto più docile con lui, non gli dava più ordini come prima, non lo coinvolgeva nelle sue stupidaggini. 
Dall’inverno dei loro dodici anni passarono i mesi, e Bea iniziò a guardarlo con occhi diversi: si era innamorata. Glielo confessò anni dopo, quando anche lui finalmente si svegliò ed iniziò a rivangare nella memoria quella specie di visione che aveva avuto nell’atrio della casa degli scout. 
All’epoca si era chiesto molte volte perché avrebbe dovuto baciarla. Era una sua amica, non voleva fare quelle cose con lei! Ma poi la risposta era diventata così ovvia che non poteva fare a meno di sghignazzare ogni volta che pensava di essere stato tanto infantile da provare ribrezzo all’idea di baciare una ragazza così bella. 
Gli mancava un po’ quella bimbetta assennata che lo faceva finire nei guai, ma di certo non gli dispiaceva la Bea matura e determinata. Un velo di tristezza ogni tanto le passava sugli occhi e lui capiva che stava ripensando a quel giorno, ma nonostante le sue insistenze non aveva mai voluto rivelargli cosa avesse visto o sentito. 
Socchiuse gli occhi guardandola mentre ricercava il sonno. Lei si era già riaddormentata beatamente. 

Un dono dal passato… 

… da un tempo remoto, forse più di uno. Assopito in un piacevole dormiveglia, Tommaso strinse a sé la mano ancora  posata sul suo petto e cercò di godersi quegli ultimi istanti con lei prima dell’alba. 


“Su, tutti fuori con Akela!” Beatrice esortò i Lupetti ad uscire con Tommaso. 
Francesco, il nuovo cambusiere, sgranò gli occhi guardando i bambini seguire Tommy di fuori ed iniziare a fare ginnastica tutti assieme.
“Non capisco come facciano ad avere tante energie di prima mattina. Io tornerei volentieri a letto.” rise, ricadendo seduto sulla panca con aria esausta. 
“Non fa per tutti. Il primo campo è sempre il più duro. Tutto bene in cucina?” chiese Bea andando ad arrotolarsi la lunga coda castana in uno chignon. 
“Sì, a parte che il proprietario non risponde al telefono da ieri sera.” intervenne Stefano, uno dei cambusieri storici del loro gruppo. “Non troviamo il mattarello, dovremo stendere le pizze con delle bottiglie.” sospirò, rassegnato. 
“Strano che non risponda.” asserì Bea con aria perplessa. “Di solito è sempre all’erta quando la casa è occupata.” 
Conoscevano il signor Felice ormai da quando erano bambini e sapevano che era sempre stato attento a tutte le esigenze dei suoi occupanti; faceva spesso anche delle visite giornaliere, nonostante abitasse ad alcuni chilometri di distanza. 
Damiano, il terzo cambusiere, sollevò le spalle. “Beh, magari la moglie ha dimenticato di avvisarlo. Non ci ha mica detto che era in viaggio per lavoro, quando è venuta ad aprire la casa?” tentò di ricordare le parole della donna, sovrastate dal chiassoso entusiasmo dei bambini che correvano ovunque. 
Ma Beatrice si era già estraniata dalla conversazione. Guardava Tommaso in cortile mentre saltellava unendo ed allargando braccia e gambe, con tutti i bambini che lo imitavano. Sorrise intenerita. 
“L’ho sempre detto io che c’era di mezzo la mafia…” scherzò Stefano. 
Quella era una battuta ricorrente. Non avevano mai capito come facessero a mantenere tutto quel ben di Dio, nonostante fosse piuttosto frequentato da vari gruppi. 
Il piano terra era enorme: c’era il refettorio che poteva ospitare fino a quaranta persone, un ampio atrio, la cucina ben fornita nella quale almeno quattro persone potevano muoversi senza intralciarsi a vicenda, un bagno privato ed una serie di bagni per i bambini, oltre allo spazio occupato dall’ingresso.  
Al primo piano si stanziava un grandissimo atrio, quello che Tommaso e Beatrice ricordavano bene, due dormitori per i bambini con quaranta posti letto totali, due camerette con dieci letti ciascuna, un ufficio ed un’altra serie di bagni con docce. 
Per non parlare poi del giardino…
“Che scemo…” ridacchiò Beatrice alla battuta di Stefano. “Io vado fuori, ci vediamo a pranzo.” 
Si congedarono, e Bea si avviò a passo svelto verso l’uscita, il fazzolettone di Tommaso che sobbalzava sul petto.




















“NO!!” 
Un urlo rotto e straziante lacerò il cortile della Guarnigione. 
Constance cadde a terra in ginocchio, le mani a coprirsi naso e bocca, il volto inondato di lacrime e lo sguardo fisso a terra. 
Come colpita da un pugno nello stomaco, si piegò in due, contorcendosi dal dolore che cresceva, cresceva e le attorcigliava le budella, le faceva fischiare le orecchie e dolere la testa, cresceva finché iniziò a non sentirlo più. E poi non sentì più nulla. 
Era svenuta nella terra nuda del cortile, ricadendo con un tonfo sordo senza che Athos riuscisse a prenderla in tempo.
Cercò di farla rinvenire, senza risultati. Accorse Porthos e la sollevò di peso. La portarono nell’ufficio del Capitano. Nessuno parlava. 
Athos si sedette sul letto, accanto a lei. Porthos si prese la testa tra le mani, seduto al tavolo. 
In religioso silenzio aspettarono. Giunse anche Treville: non disse una parola e si sedette accanto a Porthos.
Constance rinvenne in preda ad un attacco di panico. Respirava velocemente e anche se con gli occhi scrutava la stanza e le persone attorno a sé, sembrava non vedere nessuno di loro, nonostante fossero scattati tutti per poterla confortare. Iniziò a tremare e cercò di tirarsi in piedi. 
Si accartocciava su se stessa come una foglia che muore, man mano che metabolizzava la notizia. 
Athos l’aveva presa per le spalle e le parlava a voce alta, scandendo le parole, ma lei non riusciva a sentirlo. I suoi occhi erano vuoti ma pieni di lacrime ed il cuore le pulsava gonfio di dolore sotto la mano appoggiata sul petto. 

L’ho visto cadere.
Lo abbiamo subito soccorso. 
Ha detto di dirti che ti amerà per sempre.
E poi… 
Constance, mi dispiace.
D’Artagnan è morto. 


Le parole di Athos che aveva udito prima di svenire le ricordava alla perfezione ed il fatto che fossero tutti lì le confermava che non era stato un incubo. 
L’incubo era realtà. La realtà era incubo.
D’Artagnan era morto. Il suo D’Artagnan, suo marito, il padre di suo figlio, il suo migliore amico, l’uomo che amava. 
Morto. 
Non lo avrebbe mai più rivisto. E non gli aveva nemmeno dato un ultimo bacio. Era stata un’idiota a non volerlo fare, ed ora non potrà farlo mai più. 

Mai più. 

La sua risata. Mai più.
Le sue mani. Mai più. 
Il suo sguardo. Mai più. 
La sua voce. Mai più. 
E il modo in cui la toccava, la baciava, la prendeva e i suoi sussurri prima di dormire e i suoi abbracci, i suoi scherzi, i suoi pensieri, le sue preoccupazioni e l’immagine di lui che teneva in braccio suo figlio, che la guardava orgoglioso dicendole “Guarda cosa abbiamo fatto insieme…”, il suo profumo che riempiva l’aria, passare le dita tra i suoi capelli, il bacio rubato al mercato, l’olmo campestre, la sua insolenza, la sua sfacciataggine e il suo coraggio, il modo in cui si erano consolati a vicenda quando avevano perso i loro migliori amici...
Passato e futuro si fondevano, formando un ammasso di pensieri sparsi che le ricordavano le cose che non avrebbe mai e mai più provato e sentito e assaporato. 
“Constance!” 
“D’Artagnan…?” domandò con un fil di voce.
Ma quando rincominciò a guardare la realtà, le ci volle un po’ per capire che non era stato suo marito a richiamarla. 
Un’allucinazione. Lo spirito della sua voce. 
Davanti a lei c’era Athos. Gli occhi lucidi, l’aria stanca, il viso pallido di chi ha passato troppe notti insonni.
Constance si scambiò sguardi pietosi con tutti i presenti nella stanza. Porthos non resse: dovette coprirsi gli occhi per asciugarsi le lacrime. Fu Treville a rompere il silenzio che appesantiva l’aria, opprimente e irrespirabile. 
“Penso che tu debba dargli un ultimo saluto.”
Constance annuì dopo parecchi secondi, ancora tremante, confusa e stordita. Athos le prese le mani fredde e l’aiutò ad alzarsi in piedi. Avanzava a scatti, le gambe deboli, l’andatura di un bambino che ha appena imparato a reggersi dritto.
La scortarono come una morta che cammina. 


Singhiozzò per ore davanti al cadavere di D’Artagnan senza avere il coraggio di toccarlo. 
Non era più lui. Un involucro vuoto, senz’anima. 
Se n’era andato e non sarebbe più tornato. Non era lui. 

Un insieme di ossa e carne pallida. 

Lo avevano lavato, si erano presi cura di lui. Sul suo viso si leggeva un’espressione vagamente corrucciata, il fantasma dell’ultima emozione che gli era scivolata addosso prima di andarsene. 
Constance fissò a lungo il piccolo foro in mezzo al petto di D’Artagnan, sentendo bruciare tra i suoi seni lo stesso dolore che doveva aver provato lui quando gli avevano sparato. Non riuscì a trovare consolazione nel fatto che non aveva sofferto troppo prima di spirare. 
Lei avrebbe sofferto tutta la vita per essere stata un’egoista. 
Si fece coraggio e lo toccò. Passò l’indice sulla sua ferita. Lo accarezzò in viso. Gli baciò la fronte. Ma sentiva che lui non c’era, non poteva sentirla. E si sentì stupida a baciare una cosa morta, come se avesse appena coccolato una pietra. 
Athos rientrò. Doveva essere passato parecchio tempo, perché era sempre più sconvolto e preoccupato. Evitava di guardare il corpo di D’Arrtagnan. 
“Constance…” la richiamò, e lei si voltò con un sussulto. Riprese a singhiozzare senza controllo, fino a gettarsi tra le sue braccia che la strinsero forte, rabbiose. Le parve di cogliere nel suo respiro un singulto, ma non seppe dire se anche lui piangeva. 
Entrarono anche Treville e Porthos. Si levarono i cappelli e fissarono il corpo morto che non era più il loro amico. Ma loro sembravano riconoscerlo ancora, pensavano che potesse sentirli. Perché lei non ci riusciva? 
Treville gli accarezzò la fronte scostandogli i capelli e Porthos gli posò una mano sulla spalla in un gesto complice; abbozzò un sorriso. 
“Ci vediamo, D’Artagnan.” sussurrò poi con il groppo in gola. E nemmeno lui riuscì più a trattenere le lacrime. 
Constance non riusciva a muoversi, voleva rimanere tra le braccia di Athos o di qualsiasi altra persona pensando che fosse lui. La pelle della divisa del Capitano era ormai fradicia delle lacrime della donna quando si offrirono di riaccompagnarla al Louvre per beneficiare del conforto della Regina. 
Lei non voleva tornare. Non voleva pensare di avere un figlio a cui avrebbe dovuto badare da sola per tutta la vita. Un figlio che le avrebbe per sempre ricordato che D’Artagnan viveva in lui. Voleva dimenticarsi di essere madre. 
Gisela glielo avrebbe senz’altro ricordato e Constance iniziò ad odiare l’idea di doverselo sentir dire chissà quante volte. Non era come pensavano gli altri. Quel figlio non era una benedizione, ma un eterno promemoria al fatto che D’Artagnan se ne fosse andato per sempre. 
L’avrebbe uccisa, logorandola poco a poco.
Non era rimasto un briciolo di gioia in lei. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Tommaso applicò il cerotto sul ginocchio sbucciato del bambino lacrimante.

“Ecco fatto. Guarda, non si vede più niente.” sorrise, passando una mano tra i capelli biondi di Samuele, che singhiozzava tirando su col naso rumorosamente.

“Ma brucia!” si lamentò. “Akela, brucia da morire!”

“Vedrai che domani non ti ricorderai più nemmeno di essere caduto. E’ ora di andare a letto!”

La sera era umida e si respirava l’estate nell’aria. Beatrice stava avviando verso i bagni tutti gli altri Lupetti. Il GG (Grande Gioco) era stato un successo. Il nemico - che altri non erano che i cambusieri mascherati - era stato sconfitto in una sfida ricca di colpi di scena ed i bambini erano ancora eccitati e chiacchieravano tra di loro ad alta voce.

“... e quando ho colpito Kaa alla schiena?”

“... è caduto a terra come una pera…!!”

“... Bagheera è stata fortissima!”

“E’ domani che recitiamo la Promessa, vero?” domandò Samuele. Sapeva che ogni volta che si parlava della cerimonia, tutti gli adulti si ricordavano di quanto fosse piccolo e carino e lo incoraggiavano.

“Eh già. Sei emozionato?” Tommaso gli fece l’occhiolino, sorridente. “Vedrai come starai bene con il nuovo fazzolettone!” fece cenno al panno bianco che i Lupetti non ancora entrati ufficialmente nell’Ordine dovevano portare al collo. Il giorno seguente, dopo aver recitato la Promessa, sarebbe stato sostituito da quello rosso e blu che indossavano quasi tutti gli altri ragazzi del gruppo.

Scordandosi completamente della sbucciatura, Samuele afferrò il fazzolettone di Tommaso e lo tirò a sé bruscamente, costringendolo ad avvicinarsi per non venire strangolato. Iniziò a guardare tutte le sue spille incuriosito.

“Questa cos’è?”

“La vecchia spilla di quando ero nel Comitato di Akela.” spiegò il ragazzo, pazientemente.

“E questo?”

“Un pupazzo che mi ha regalato un Capo, tempo fa.”

“E questa?” insistette, scrutando un’altra spilla a forma di orsetto.

“Beh… Quella non è mia.” confessò Tommaso, arrossendo.

“Come non è tua? Se il fazzolettone è tuo…”

“Non è sempre stato mio.” sorrise, tornando in posizione eretta e risistemandosi il foulard intrecciato da cui tutto era iniziato.

Samuele lo fissava a bocca aperta, i grandi occhioni azzurri spalancati, come a dire “come hai potuto fare una cosa del genere?”, ma Tommaso si limitò a sghignazzare e a tendergli la mano per accompagnarlo al piano superiore.

“Andiamo, su. E’ tardi!”

Il bambino lo seguì trotterellando e tempestandolo di domande alle quali il ragazzo rispose divertito con poche parole enigmatiche.

Incrociò lo sguardo di Beatrice nel bagno delle femmine e le sorrise. Lei rispose con un’occhiata un po’ maliziosa che Tommaso ben conosceva e che ogni volta gli faceva venire una voglia pazzesca di fare l’amore dovunque si trovassero. Ma la sera era ancora lunga: dovevano leggere le storie ai bambini, cantare finché gli ultimi non si fossero addormentati e poi scendere a finire il torneo di carte con i cambusieri.

Tommaso sperava che Beatrice trovasse una scusa possibilmente plausibile per farli defilare entrambi da quest’ultimo, che non fosse seguita da una serie di prese in giro.

Lui non era mai stato bravo a mentire, quindi evitava di farlo; e poi cercava sempre di tenere fede alla Promessa, anche se si trattava di bugie innocenti.

Trovò un momento solo con Beatrice, due secondi durante i quali riuscì a sussurrarle: “ci dividiamo nei dormitori, così facciamo prima?”

Lei rispose con lo stesso sguardo e lui gliene lanciò uno complice, scuotendo il capo e ridendo tra sé e sé, poi si infilò nel dormitorio dei maschi, con il libro dei canti e quello delle storie in mano. Non era bravo ad inventarsi favole per farli dormire, non come Bea. Le sue finivano sempre per essere troppo confuse e i bambini invece di assopirsi continuavano a chiedere delucidazioni.

Beatrice si inventava storie fantastiche e rilassanti, sia per le bambine che per i bambini, e questi si addormentavano come angioletti ancor prima di sentire il finale.

Chiuse la porta del dormitorio femminile alle proprie spalle ed iniziò a fare ordine tra le bambine e le ragazzine agitate.

“Bagheera, mi sistemi il sacco a pelo?”

“Bagheera, stasera ci racconti quella dell’elefante?”

“Ma dov’è Akela, perché non viene anche lui?”

Con la sua solita determinazione rassicurante, rispose con calma a tutte le domande ed esaudì le richieste, finché non furono tutte sistemate nei letti. Le baciò una ad una sulla guancia e loro la baciarono di rimando, teneramente. Quelle più affettuose le si aggrappavano al collo e non la volevano più rilasciare.

Alla fine, spettinata e un po’ stanca, si sedette sul letto di Camilla, la più piccola delle quasi-scout ed iniziò a raccontare, mentre le pettinava i capelli con la mano.

A volte non ricordava di essere stata tanto piccola.

La prima volta che aveva partecipato ad un campo si era subito attaccata a Tommaso e non l’aveva più lasciato. Era terrorizzata, anche se non lo aveva mai dato a vedere, nascosta dietro una maschera spavalda. Alcune di quelle bambine le ricordavano lei stessa, eccitate da un semplice fazzolettone bicolore, ansiose di levarsi quello bianco che le faceva sentire un po’ neutre rispetto agli altri che si conoscevano da anni.

Ricordava però come ci si sentiva a fare parte del C.D.A., ad aiutare sempre i più piccoli, a farli sentire parte del gruppo e, a volte, a osare più degli altri sperando nella tolleranza dei Capi. Ramanzine e punizioni, ma anche tanta soddisfazione: è stato in quegli anni che le era nato l’istinto materno, più o meno quando iniziava a sbocciare il suo amore per Tommaso.

“C’era una volta un bel principe…” iniziò a raccontare.

“Era Akela?” chiese una ragazzina del C.D.A., più smaliziata delle piccole, che comunque risero a gran voce, esaltando la battuta.

“Era proprio lui.” rispose Beatrice calma. “Stava scappando dalle guardie che lo credevano un ladro, lungo le strade piene di banchetti del mercato, quando…”

Uno scoppio di risa venne dalla camera dei ragazzi.

Tommaso aveva cercato di rendere un po’ più avvincente la storia del libro, con il risultato di aver accoppiato un coniglio con un serpente e quando i ragazzi gli chiesero che animale sarebbe nato da quella coppia improbabile, aveva risposto “un serpiglio”, scatenando la loro ilarità.

Per fortuna poi riuscì a riabbassare il tono della storia, in modo da farli rilassare, ed iniziò ad intonare le note di “Buonanotte lupetto”, uno dei suoi canti preferiti.

Mentre cantava passava tra i letti con la torcia accesa, verificando che nessuno stesse ancora chiacchierando o giocando.

Beatrice, dall’altra stanza, lo sentiva cantare e anche lei intonò la stessa canzone per le bambine. Non era il canto che avrebbe scelto, ma sperava che Tommaso dall’altra parte del muro la sentisse e che riuscisse a strappargli un sorriso.

La maggior parte delle Lupette si era già addormentata. Le piccole erano sempre le prime a crollare, sfinite dalle emozioni delle giornate piene alle quali non erano ancora abituate.

Dopo pochi minuti, tutto pareva tacere, a parte i loro canti.

Tommaso concluse la melodia, uscì dalla stanza dei maschi ed entrò in quella delle femmine. Bea gli dava le spalle e non si era accorta di lui; la ammirò per un attimo mentre intonava le ultime note di  “Buonanotte Lupetto”, finché poi non le fece un segnale con la torcia.

La vide sorridere in sua direzione, mentre sussurrava il finale della canzone: “...riposa Lupetto, riposa Baloo...”

Beatrice fece per avvicinarglisi, ma prima che potesse raggiungerlo, udirono un rumore assordante provenire dal piano terra ed entrambi sussultarono.

“Bagheera!” chiamarono alcune bambine appena sveglie, agitate. Beatrice e Tommaso si scambiarono uno sguardo perplesso ed entrambi scossero il capo.

“Non è niente, tornate a dormire…” si affrettò lei a rassicurarle riavvicinandosi al letto di Camilla, che si era tirata su a sedere e si guardava attorno spaesata.

Rincominciò ad intonare la canzone e le bambine si rimisero sdraiate, mentre Tommaso ritornò nel dormitorio maschile, inveendo a bassa voce contro i cambusieri che probabilmente avevano fatto cadere una pentola mentre sistemavano la cucina.


























 

Charles era il riflesso di suo padre, e Constance odiava questa cosa.

Stava ormai per compiere un anno ed ogni giorno che passava era una tortura per lei sfamare quel piccoletto con gli occhi di D’Artagnan, con il suo nome e la sua insolenza.

Le notti insonni ormai aveva smesso di contarle. Quando Charles non piangeva, lei non riusciva a dormire comunque.

Inizialmente era stata aiutata da una balia, ma poi, sotto forte consiglio della Regina, aveva iniziato a prendersi cura lei stessa del bambino almeno per parte della giornata, sperando di trovare una connessione. Ma quel legame speciale che unisce una madre a suo figlio, come Gisela era legata al proprio, Constance non lo provò mai.

Era stata un’idea terribile.

Ogni sera non vedeva l’ora che arrivasse il mattino per poter tornare ai suoi doveri, lasciare Charles alla balia e fingere che non esistesse per un po’.

Si rendeva conto che erano pensieri terribili da fare e non li aveva mai rivelati a nessuno, ma la Regina sospettava da un po’ che qualcosa non andasse. Constance non sorrideva più dal giorno in cui D’Artagnan era partito per la guerra. Rivolgeva sorrisi di circostanza, quando il suo lavoro e le buone maniere lo richiedevano, ma il suo sguardo era sempre vuoto, gli occhi arrossati per via dell’insonnia e delle lacrime.

Come si poteva riavvolgere il tempo?

 

Come poteva tornare in quel letto?

 

Certe volte per un attimo le sembrava di sentire il respiro di qualcuno accanto a lei e quelle erano le uniche notti in cui riusciva a chiudere gli occhi e dormire qualche ora, sebbene non riuscisse a credere a tutte quelle cose che le raccontavano…

“D’Artagnan è sempre con te”,

“Lui vive ancora nel tuo cuore…”,

“Lui vive ancora nel vostro bambino.”

Erano tutte menzogne!

Se D’Artagnan fosse stato ancora tra di loro, sicuramente le avrebbe dato un chiaro segnale. I sospiri che sentiva erano frutto della sua immaginazione; tuttavia riuscivano a confortarla per un attimo, il tempo di addormentarsi.

Non ricordava quasi più l’ultimo giorno in cui l’aveva visto.

 

Perché non era lui.

 

Il corpo freddo ed immobile di D’Artagnan appariva sfumato nella sua mente. Ricordava solo la sensazione del foro del proiettile sotto le sue dita ed ogni tanto ripassava quel gesto sul proprio petto, nel medesimo punto, sperando forse un giorno di trovarvi un foro simile e di scoprire di stare per raggiungerlo.

Ci aveva pensato molte volte, ma le era sempre mancato il coraggio. L’unica cosa che la teneva ancora viva era il pensiero che forse un giorno sarebbe riuscita a ricordare i momenti felici con D’Artagnan e a sorriderne considerandoli soltanto una parentesi felice della sua vita.

Doveva andare avanti con la sua vita, per onorarlo. Ma non ce l’avrebbe mai fatta con Charles.

Quella notte l’aveva passata in bianco, cullandolo tra le braccia e cercando di farlo smettere di piangere. Probabilmente gli facevano male le gengive: stava mettendo i primi denti. Gisela era entusiasta, come lo era stata con suo figlio, e continuava a ripeterle tutta contenta che gioia avrebbe provato nel sentirlo dire le sue prime parole.

Constance non se ne illudeva più di tanto. Se fino a quel momento non aveva mai sentito nemmeno un moto di istinto materno, non sarebbe successo soltanto perché il bambino avrebbe detto “mamma”, un giorno.

Più volte aveva rimpianto Anne, nonostante la nuova Regina fosse altrettanto buona e generosa con lei.

Anne avrebbe capito: lei era sua amica, la trattava come una sua pari e non come se fosse sua sorella minore.

Ma Anne era morta. Constance aveva assistito con orrore alla sua esecuzione, preceduta da quella di Aramis. Avrebbe preferito finire come lei, almeno non avrebbe dovuto soffrire così tanto la perdita del suo amato...

“Fa’ silenzio, su…” esortò freddamente il piccolo, continuando a cullarlo in maniera fredda ed automatica. Quando i bambini piangevano così a lungo, le altre madri e persino la balia erano sempre pazienti e soffrivano insieme a loro.

Constance soffriva soltanto perché voleva rimettersi a letto, anche se non avrebbe dormito, e non sentire più quegli urli strozzati che le ricordavano in ogni istante che era una cattiva madre.

Soffriva perché non riusciva più a ricordarsi l’olmo campestre, quello sotto il quale più di una volta lei e D’Artagnan si erano distesi a guardare il cielo, le nuvole, anche la pioggia, e a fare l’amore e sussurrarsi parole dolci. Quando erano felici. Dove si trovava?

D’Artagnan sarebbe stato molto deluso. Non faceva che ripeterle quanto sarebbe stata brava con il piccolo ed anche lei ci aveva creduto moltissimo, prima che nascesse. Non vedeva l’ora di fare tutte quelle cose da mamme.

Insieme a lui, però. Questa era la grande clausola senza la quale le sue convinzioni erano crollate con tre semplici parole.

 

D’Artagnan è morto.

 

Non ricordava bene quel giorno, ma ciò che aveva detto Athos continuava a ripeterselo nella mente quando voleva farsi del male, e subito le lacrime le salivano agli occhi.

Porthos, Treville e soprattutto Athos le erano stati molto vicini. Ma non erano che un continuo rimando all’assenza di D’Artagnan tra di loro.

“Madame…” mormorò la balia assonnata, entrando nella stanza “Date qua, faccio io. Tornate a riposarvi.” si offrì, allungando le braccia per prendere Charles.

Constance non ebbe esitazione a porgerglielo, a ringraziarla e a tornare a letto, mentre sentiva in lontananza il pianto del bambino che iniziava già a calmarsi.

 

Il mattino seguente aveva gli occhi lucidi che le bruciavano e le palpebre calanti, ma doveva adempiere ai suoi compiti ed accompagnare la Regina ad un colloquio con Treville.

Ma ancora prima di poter proferire parole sull’incontro, Gisela la prese in disparte.

Era così diversa dalla sua predecessora che tutti avevano faticato a comprendere la scelta di Luigi di risposarsi così velocemente. Ma a quanto pare aveva fretta di mettere al mondo un erede legittimo, desiderio che si era avverato quasi immediatamente.

Tutti nel Regno consideravano Gisela migliore di Anne per il fatto di avergli donato subito un figlio maschio. Ma Constance sapeva che era molto più complesso di così… Tutti loro lo sapevano. E nessuno di loro si era dimenticato di quel bambino che Constance aveva accudito con amore, insieme ad Anne, e che poi le era stato strappato via nonostante lei lo avesse cercato di difendere con tutte le forze.

Lo avevano affidato ai genitori di Anne, in Austria. Il pensiero che si trovava in un posto sicuro, quantomeno, rendeva un minimo di giustizia a quella che era stata la sua Regina.

“Vorrei poter fare qualcosa per Voi, Constance.” le disse Gisela impietosita.

L’unica cosa che desiderava, nessuno avrebbe potuto fargliela riavere. Non aveva bisogno di compassione.

“Sto bene, Vostra Altezza. Mi sto riprendendo. So che non sono al massimo della forma, e mi dispiace che Vostra Maestà debba…”

“Fermatevi, Constance. Non c’è bisogno di mentire. Prima di essere una mia dama di compagnia, siete mia amica.” Constance dilatò le narici in maniera quasi impercettibile. Anne era sua amica, Gisela era solo… non le piacevano quelle prediche da parte sua, nonostante comprendesse le sue buone intenzioni. “E so che non state  bene. Vi serve una pausa.”

Una pausa era l’ultima cosa che le serviva. L’unica pausa che le serviva era da Charles, non dal suo lavoro, che era l’unica attività che la riusciva a distrarre un po’.

Scosse il capo, con un’espressione pietosa dipinta in volto.

“Non posso allontanarmi, Maestà. Non mi fate questo, vi prego.” la supplicò, esponendosi quindi completamente e dandole in pratica una vera ragione per cui preoccuparsi.

La Regina sorrise e le prese le mani tra le sue.

“Cara Constance. Fidatevi di me, quello che vi serve è un po’ di tempo con vostro figlio. Non bastano alcune ore alla sera: sono stata insensibile a pensare che potessero essere sufficienti. Non vi sto cacciando da Palazzo, è la Vostra casa ormai. Ma me la caverò per qualche tempo anche senza di Voi.”

Gisela le sorrise rassicurante, e Constance non ebbe più parole per rispondere.  

La Regina la congedò e lei tornò mesta nelle sue stanze. Era un ordine della Regina, non poteva replicare. Cosa avrebbe fatto per tutto quel tempo da sola con Charles?

Lui ancora non faceva niente di particolare. Cosa faceva la balia quando stava con lui?

Se glielo avesse chiesto, la già poca stima che quella donna aveva per lei sarebbe calata a picco.

Come poteva il pensiero di stare con suo figlio angosciarla al punto da non dormirci la notte?

Constance aprì il cassetto della specchiera e ne tirò fuori un crocefisso. Era lo stesso oggetto che aveva causato la morte di Anne e di Aramis, il quale lo aveva lasciato a D’Artagnan.

E D’Artagnan l’aveva affidato a lei. Era l’unico ricordo che aveva di lui, anche se non gli apparteneva.

Lo baciò e lo ripose.

Osservò quel piccolo esserino tutto rosa avvolto nella sua candida coperta, un ciuffo di capelli neri che sbucava da sotto la cuffietta e le manine che si aprivano e chiudevano piano. Avrebbe dovuto ispirarle tenerezza, ma non riusciva a  provare nient’altro che rabbia.

Lo prese in braccio. lui emise un vagito strozzato, ma non si svegliò.

“D’Artagnan…” mormorò Constance impercettibilmente. Aprì di nuovo la bocca, ma poi la richiuse.

 

Perdonami.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Tommaso stava ancora cercando di calmare i bambini quando sentì dei passi salire la scala. Lo trovò particolarmente bizzarro, perché i cambusieri di solito a quell’ora erano impegnati a sistemare o stavano già iniziando i primi giochi in scatola ed era strano che salissero al piano di sopra tutti insieme.
Restò con l’orecchio teso mentre rimetteva Samuele a letto, dato che ne era balzato fuori per andare a chiamarlo. Poi sentì un tonfo terribile che gli fece balzare il cuore in gola: la porta del dormitorio femminile doveva essere stata spalancata con tanta forza da farla sbattere contro al muro antistante.
Si udirono le voci agitate delle bambine che urlavano.
“Chi siete?!” esclamò Beatrice.
Tommaso capi di dover fare qualcosa e in fretta. Si concedette soltanto tre secondi per passare lo sguardo rapidamente nella stanza. E poi, con una risolutezza che non gli apparteneva, prese una decisione.
“Tutti sotto i letti” ordinò, determinato, in un sussurro. “Veloci ed in silenzio.”
“Cosa succede, Akela?” domandò uno dei piccoli, senza preoccuparsi di tenere la voce bassa. Tommaso lo zittì sibilando un po’ bruscamente. Più tardi si sarebbe chiesto come fosse riuscito ad agire con tanta lucidità sapendo Beatrice e tutti loro in pericolo.
“Non voglio andare sotto al letto…” piagnucolò il bambino, visibilmente agitato. Tommaso si guardò attorno. C’era uno sportello che si apriva su una nicchia nel sottotetto, dove erano accumulate coperte e cuscini di riserva.
Mentre gli altri bambini obbedivano, con la diligenza che caratterizzava ognuno di loro, Tommy sollevò il piccolo e lo fece entrare nel sottotetto.
“Non fare rumore.” si raccomandò. Poi dovette ragionare molto rapidamente. Lì dentro ci stavano almeno altri tre bambini, tanti quanti erano gli altri bambini del gruppo non ancora entrati negli scout. Nessuno di loro aveva più di 7 anni.
“Samu, Dany, Manu, venite!” li richiamò. Uno ad uno li sollevò e li adagiò sulle coperte nel sottotetto, ma aveva appena fatto per prendere Samuele in braccio quando sentì la porta del dormitorio accanto riaprirsi: non c’era più tempo.
Lasciò andare il bambino, chiuse in fretta l’anta e si piazzò davanti a lui.
Un uomo aprì la porta, e Tommaso si sentì sempre più sciocco per non aver pensato di bloccarla con qualcosa di pesante. I bambini erano nascosti, malcelati sotto i letti, ma sentiva qualcuno piangere ed uno dei più grandi intimare loro di fare silenzio.
Nel nascondiglio nel sottotetto fortunatamente tutto taceva.
La luce si accese.


Bea gli stringeva la mano tanto forte da fargli male.
Li portarono giù nel grande salone. Nessuna via di fuga, quattro pistole puntate addosso. Dopo poco erano arrivati anche i cambusieri, mani dietro al capo e a portata di tiro di un’altra arma.
Francesco era sorretto da Stefano: la sua gamba destra sanguinava copiosamente colorando i jeans chiari di un marrone scuro inquietante.
“NO!” esclamò Bea d’istinto nel vederlo arrivare, ma uno dei cinque le intimò di tacere, muovendo la canna della pistola verso di lei.
Tre di loro erano parecchio robusti. E c’erano di mezzo i bambini, non potevano rischiare mosse azzardate, qualcuno avrebbe potuto farsi male. Dopo aver compreso che la situazione volgeva a loro sfavore, gli occhi di Bea si riempirono di lacrime d’odio e frustrazione.
Ma quando vide la determinazione nello sguardo di Tommaso, sapeva che aveva in mente qualcosa. Sapeva anche che era qualcosa di stupido ed azzardato.
“No.” gli sussurrò, richiamando la sua attenzione. Tommaso la ignorò.
“Contro il muro!!” esclamò il più basso dei cinque, facendoli allineare contro le pareti della sala. I bambini erano terrorizzati, molti piangevano, i pantaloncini del pigiama delle più piccole erano fradici.
Beatrice si guardò attorno, si soffermò su Francesco che zoppicante si lasciava ricadere contro il muro, poi contò i bambini. Ne mancavano tre!
Erano tutti i piccoli non ancora iniziati, tranne Samuele che era aggrappato alla gamba di Tommaso e guardava i rapinatori con gli occhi lucidi, trattenendosi visibilmente dal piangere.
Anche lei stringeva a sé alcune bambine tra le più piccole e provò un moto di commozione nel vedere che i ragazzi del C.D.A. facevano lo stesso. Nonostante non avessero più di dodici anni e fossero spaventati a morte, restavano forti per rassicurare gli altri.
Erano veri scout.

Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio:
per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese
per aiutare gli altri in ogni circostanza
per osservare la Legge scout.


Stefano iniziò a mormorare piano la Promessa, per incitare anche i Lupetti a ripeterla con lui, in modo da farsi forza a vicenda, pur se coperti dalle urla dei quattro che discutevano tra di loro.
“Aveva detto che non c’era nessuno, c***o!! Questi chi diavolo sono!?”
Uno si passò le mani tra i capelli, ma il più basso li teneva sempre tutti a tiro. Ed erano troppo distanti da loro per tentare di coglierli di sorpresa.
“Beh, cosa dovremmo farne di loro adesso? Ci hanno visti!”
“Li leghiamo e li lasciamo qui, no?!”
“Certo, e con cosa pensi di legare trenta persone? Manderanno tutto all’aria…”
“NON PARLEREMO!” l’esclamazione di Bea risuonò nell’ampia stanza senza mobili.
Aveva sentito tutta la loro conversazione e sapeva dove stavano andando a parare. Uno di loro avanzò verso di lei con la pistola all’altezza della sua testa ed i bambini urlarono, ma Beatrice non si mosse.
“Non diremo nulla.” sfidò lo sguardo del rapinatore, determinata. “Lasciateci andare. Siamo a chilometri dal paese, il pullman non arriverà prima di domani sera, e potete prendere i nostri telef…”
“TACI!” le intimò quello, rivolgendo ora la pistola verso Tommaso. “Stai zitta o sparo.”
Tommaso non mosse un muscolo, ma questa volta fu lei a sussultare, spaventata. Strinse le labbra e trattenne il fiato, mentre i bambini erano esplosi in piccole urla di terrore, per poi riprendere a piangere piano.
Il tizio arretrò, tenendo la pistola puntata alternatamente verso Tommaso, Beatrice e i cambusieri, negli occhi dei quali Beatrice leggeva la stessa convinzione del suo fidanzato: avevano in mente qualcosa. O almeno, Stefano e Damiano. Francesco era seduto sul pavimento e stava usando un fazzolettone datogli da una bambina come laccio emostatico per fermare l’emorragia della gamba. Sudava ed ansimava dolorante. Un ragazzino del C.D.A. lo stava aiutando a stringere il foulard attorno alla gamba.
Beatrice iniziò ad andare in panico. Aveva osato una mossa azzardata e Tommaso stava per pagarne le conseguenze. Non avevano via d’uscita. Erano intrappolati.

Claustrofobia? No. 

Il suo petto si sollevava ed abbassava spasmodicamente, gli occhi guizzavano da una parte all’altra della stanza, passavano da Francesco a Tommaso, a Samuele, alle bambine, ai rapinatori con la velocità di un flipper impazzito.
“Bea.” la chiamò Tommaso, prendendole la mano.
Le tremarono le labbra.
“Sta succedendo di nuovo.” mormorò con un fil di voce.
“Cosa?” chiese lui, stranito.
Ma lei non riusciva ad udirlo, nella sua mente continuavano a scorrere le immagini di quel giorno di quindici anni prima.
Si portò la mano al petto come nel tentativo di calmare i battiti del cuore, ma non appena sfiorò il fazzolettone che tanto tempo prima era stato di Tommaso, accadde.
L’emicrania, che non aveva mai più provato in vita sua dopo quel giorno le spaccò la testa a metà. Sentì il pavimento freddo sotto le ginocchia e tentò di aggrapparsi a qualcosa, ma fallì ed i palmi delle mani ricaddero pesantemente a terra.
In lontananza sentiva la voce di Tommaso che la chiamava allarmato.
Dei passi si avvicinarono.
I bambini gridavano.
Damiano gridava.
Stefano gridava.
Tommy gridò.
Uno sparo.
Il buio.


--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


“Athos! Athos!”
Il Capitano si era appena svegliato, quando udì i passi concitati sulle scale e la voce di Porthos che lo chiamava insistentemente a gran voce. Capì che doveva trattarsi di qualcosa di grave.
Si infilò rapidamente la giacca ed incrociò l’amico sulla soglia.
Vide il panico nei suoi occhi.
“Constance…”
Gli bastò quest’unica parola per pensare al peggio. Ma quando si affacciò verso l’esterno, vide la donna nel cortile. Athos scese le scale rapidamente, senza toglierle gli occhi di dosso.
Qualcosa era successo: glielo leggeva in viso.
Porthos la scosse delicatamente per una spalla chiamandola a gran voce, ma lei sembrava trovarsi in un altro mondo. Con un gesto il Moschettiere fece capire ad Athos di aver già provato molte volte a farla riprendere.
“Constance!”
Athos si unì a lui nel tentativo di riportarla alla realtà, ma la vedova - vedova, ancora gli suonava strano - non dava segno di riuscire a sentirli. Aveva l’orlo inferiore del vestito e le scarpe macchiati di fango e zuppi, le labbra esangui, gli occhi arrossati, ma stava seduta su una panca in posizione eretta e composta, le mani appoggiate in grembo, una bambola immobile ed inquietante.
E aveva la stessa espressione di quel giorno, solo priva di lacrime.
“Cosa…?” fece per chiedere Athos, ma Porthos si affrettò a spiegare.
“L’ho trovata qui così, non ha detto una parola.”
“La Regina la starà cercando.” suggerì il Capitano. Si scambiò occhiate eloquenti con Porthos, poi si chinò davanti a Constance posandole le mani sulle spalle: valeva provare ancora una volta, prima di doversi rivolgere a qualcun altro
“Constance. Sono io.” la sua voce calda e controllata parve fare il miracolo che stavano attendendo.
Inaspettatamente, la donna ebbe un sussulto, come se fosse appena uscita da una trance che l’aveva portata in un’altra dimensione.

In un altro tempo.

E come già le era successo in passato, il ritorno alla realtà fu traumatico: gli occhi guizzarono qua e là, senza realizzare in quale modo fosse giunta alla Guarnigione o perché. Passarono sui due Moschettieri - due, erano rimasti soltanto due - senza riuscire ad interpretare la preoccupazione sui loro volti tesi.
Si toccò il viso con le mani tremanti, come a voler verificare di non avere sfregi, o più semplicemente di essere viva. Passò le dita nei riccioli ramati e con un’espressione di puro terrore iniziò a tormentare una ciocca, rigirandosela attorno all’indice.
“Constance. Cos’è successo?” le chiese Athos, prendendole le mani tra le sue, per farle mantenere il contatto con il mondo reale ed evitare che i suoi occhi si perdessero di nuovo in quello che pareva un terribile limbo di ansie e dolori.
“Quello che…” la frase si spense in un mormorio indefinibile, le labbra tremule bisbigliavano parole incomprensibili.
“Cosa?” domandò Athos.
Sul viso di Porthos era calata un’ombra che rivelava il suo sospetto che fosse accaduto qualcosa a cui Athos ancora non aveva pensato - non voleva pensare.
“Quello che voleva… D’Artagnan… Che voleva… D’Artagnan…” ripeté Constance, come se si fosse studiata quella frase nella propria testa un milione di volte. Ma ora che la stava pronunciando, essa sembrava diventare reale e falsa.
La stava trasportando di nuovo in quel mondo.
“Constance, resta con noi!” la voce di Athos si impose, richiamando la sua attenzione con successo. La donna tornò a guardarlo negli occhi.
“Dove sei stata? Perché... “ e si bloccò.
In quel momento terribile realizzò che il suo inconscio gli aveva proibito di pensare a quella cosa, ma che sarebbe stata la prima domanda che avrebbe dovuto porle.
Deglutì.
“Dov’è Charles?” domandò con un fil di voce.
“D’Artagnan... “ rispose lei, “D’Artagnan… è morto.”
“Non D’Art-- dannazione!” imprecò il Capitano, perdendo la pazienza ed allontanandosi da lei. Si passò una mano tra i capelli, scambiandosi altri sguardi muti con Porthos, che pareva aver trovato conferme nella risposta ermetica della donna.
L’udire il nome di D’Artagnan ancora lo riportava indietro con la mente a quel giorno, quando gli era spirato tra le braccia, senza che lui potesse fare niente. Era diventato argomento tabù da allora. Ricordò i giorni dopo il parto di Constance, quando lei non voleva nemmeno vedere il bambino.
E loro l’avevano incoraggiata a farlo, a provarci, per D’Artagnan.
“Ha detto di… di dirmi che mi avrebbe amata… amata per sempre. E l’olmo… L’olmo campestre… Dov’è?”
Continuò il suo mormorio confuso, finché Porthos non prese l’iniziativa. Si appoggiò alla panca con un ginocchio, cingendole le spalle. Lei parve quasi spaventarsi del suo tocco, ma quando poi sembrò riconoscerlo, la videro vacillare di nuovo tra il suo mondo fittizio e la realtà.
“Constance. Il bambino. Dov’è il bambino?” domandò, soppesando ogni parola.
Finalmente lei parve scuotersi. Le lacrime iniziarono a sgorgare incontrollate, i singhiozzi le riempirono il petto. Si ripiegò su se stessa, reggendosi il ventre con le braccia.
“Charles…”
Athos non disse una parola. Sgranò gli occhi e poi partì di corsa verso il Louvre. Porthos si sedette accanto a lei: con una mano tentava di consolare la sua spalla, e con l’altra si coprì il volto, affranto.


Athos fece ritorno alla Guarnigione la sera tardi, accompagnato da Treville.
Porthos era riuscito a fatica a far bere a Constance un sonnifero che avrebbe steso persino lui stesso, ma che ci impiegò più del previsto ad agire.
Era rimasto lì ad ascoltare i suoi lamenti per ore.
Un’anima in pena, un fantasma ululante.
Infine si era addormentata.
Lui non riusciva a darsi pace e camminava avanti e indietro nella stanza, frustrato ed impotente di fronte alla situazione: non poteva far altro che aspettare notizie dei suoi compagni. Treville era stato lì per alcuni minuti, per verificare le condizioni di Constance, come se non potesse credere alle parole del messaggero inviatogli e sperasse in un brutto scherzo. Poi anche lui si era diretto a Palazzo.
Quando Athos e Treville entrarono dalla porta, Porthos trattenne il fiato. Di certo erano scuri in volto, ma non riusciva a leggervi né sollievo né disperazione.
“E’ vivo.” asserì Treville, in tono grave.
Porthos sospirò e si passò una mano sul viso. Poi fece per andare verso il letto dove riposava Constance. Ancora non si spiegava le facce dei due, ma presto gli fu ben chiaro il significato dell’assenza di sorrisi.
Non raggiunse il giaciglio. Tornò verso di loro.
“Cosa le succederà?” domandò ansioso e speranzoso allo stesso tempo.
Athos andò a versarsi un bicchiere di vino. Treville sospirò, si sedette e si passò la mano sulla fronte, esausto.
“Nel migliore dei casi, verrà esiliata da Palazzo.” rispose, senza guardare il Moschettiere più agitato. “Nel peggiore…” ma il tonfo del bicchiere di Athos che picchiò sul legno del tavolo, gli impedì di finire la frase.
“Lo ha lasciato sulle rive del fiume.” rivelò infine Treville, nonostante ogni parola gli facesse male al cuore. “Ma un pescatore l’ha subito visto. E’ stato un miracolo.”
Porthos sbatté le palpebre incredulo. Aveva visto Constance cambiare radicalmente, dopo quel giorno, ma non l’avrebbe mai immaginata capace di un’azione simile.
“L’unica cosa certa è che non rivedrà mai più Charles.” sentenziò infine Treville, rivolgendo a Porthos uno sguardo addolorato.
Porthos lo guardò per interminabili secondi, senza ricevere uno sguardo di ricambio. Tentò con Athos, ma senza risultato: il Capitano aveva gli occhi persi sulla sua bottiglia.
Calò un silenzio teso che fu rotto soltanto assieme al bicchiere nella mano di Athos. Senza dire una parola a riguardo, si alzò ed uscì dalla stanza, dalla Guarnigione.

Clemenza.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Stefano gridava.
Damiano gridava.
I bambini gridavano.
“BAGHEERA!” alcune bambine la stavano scuotendo con forza. Le graffiavano involontariamente le braccia e le tiravano i capelli. Beatrice rinvenne e capì subito che qualcosa di brutto era accaduto.
Perché non c’era Tommaso accanto a lei.
Fu la prima figura che cercò con lo sguardo, e nonostante avesse la visione ancora appannata, lo vide.
Le sue mani erano rosse. A dire il vero, era rosso fino ai gomiti.
Per solo mezzo secondo, Beatrice si dimenticò di ciò che era accaduto e pensò alle tempere con cui giocavano da piccoli: lui finiva sempre tutto inzaccherato di mille colori.
Quella non era tempera rossa e lei lo sapeva bene.
Tommaso era inginocchiato, la testa china e le braccia aperte, come se stesse recitando il Padre Nostro. Sulle sue gambe era appoggiata una testolina bionda.
Samuele sembrava addormentato, ma uno sparo gli aveva squarciato il petto e giaceva in un lago di sangue. Capì che doveva essere rimasta svenuta per poco, perché la macchia rossa ancora si stava allargando.
“TOMMY!” la sua voce stridula si unì a quella dei bambini. Cercò di alzarsi, ma ricadde sulle ginocchia pesantemente, strisciò verso di lui e si gettò su Samuele.
“No, no, no…” ansimava agitata. Le mani le divennero rosse in un attimo, come quelle di Tommaso, mentre sentiva i rapinatori urlarsi addosso.
“NON VOLEVO!”
“Sei una testa di c***o, l’hai ucciso, Dio, l’hai ucciso!!”
“Mi è piombato addosso, è stato un riflesso!”
“Era quello che volevi dall’inizio!”
“NO!”
Damiano e Stefano stavano cercando di calmare i bambini. Soltanto i più piccoli si erano mossi dai loro posti ed erano corsi verso gli adulti. I grandi piangevano e gridavano, ma restavano incatenati da un’incredibile diligenza contro il muro.

Per osservare la legge scout.

Beatrice tentava di tener chiusa la ferita di Samuele con entrambe le mani. Non sapeva che era troppo tardi, Tommaso lo aveva già fatto, aveva cercato di trattenerlo con tutte le sue forze, ma la sua vita gli era scivolata via, troppo leggera.
Quando aveva capito che non c’era più nulla da fare, Tommaso aveva tentato di fargli recitare prima la Promessa scout e poi una preghiera, ma Samuele non faceva che gorgogliare sangue. Si era fatto forza ed aveva scandito ogni parola al posto suo.

E benedetto il frutto del seno tuo Gesù.
Amen.


Samuele non aveva mai sentito la fine dell’Ave Maria.
Era morto.
Era morto tra le sue braccia.
Era stata tutta colpa sua.
Lui era responsabile della sua vita ed era morto.
Se non avesse urlato vedendo Bea svenire, l’uomo non si sarebbe mai avvicinato...
Se fosse riuscito a metterlo nel nascondiglio, insieme agli altri piccoli…
Il corpicino esile che soltanto poche ore prima era stato un bambino vivace e curioso giaceva immobile e freddo sulle sue gambe. Rivide il cerotto colorato sul suo ginocchio.

Starai meglio.

Glielo aveva detto? Era quasi sicuro di averlo fatto. Era quasi sicuro che non avesse avuto paura, quando gli avevano sparato. Ma lui cosa poteva saperne?
Beatrice piangeva. Aveva capito anche lei che quel corpo non era altro che un involucro vuoto.

Un insieme di ossa e carne pallida.

E gli si era aggrappata al collo singhiozzante. Doveva rimanere forte, non potevano perdere qualcun altro. Ma era esausto, completamente. Era come se l’anima di Samuele, scappando via, si fosse portata con sé una parte di lui, la parte combattiva, quella che gli stava facendo studiare un piano per fuggire di lì.
Beatrice sembrava terrorizzata e distrutta, ma manteneva ancora una certa lucidità. Spostò il corpo di Samuele contro il muro, in modo che Tommaso non potesse vederlo, anche se rimaneva sul pavimento lucido la chiazza di sangue.
Le bambine chiamavano il loro compagno a gran voce.
Gli uomini ancora si gridavano addosso. Non sapevano cosa fare.
Dovevano prendere una decisione alla svelta, prima che lo avessero fatto i rapinatori.
“Nessuno verrà mai a cercarci qui! Il furgone è nascosto.”
“E vuoi rimanere qui per quanti giorni, esattamente, con trenta ostaggi? Finché qualcuno non riuscirà a scappare, magari? Siamo nella m***a, ci siamo dentro fino al collo, ora!”
“Dovevamo andarcene quando potevamo!”
“Facciamolo ora!”
“Per vivere una vita da ricercati? Io ho una moglie! Lui ha due figli, Dio santo!”
“E allora cosa suggerisci, di sterminarli tutti?”
“...”
“Arrendiamoci.”
“Cosa?! NO!”
“Arrenditi tu, se proprio ci tieni a fare l’eroe!”
Beatrice si avvicinò a Tommaso, cercò di scuoterlo.
“Tommy…” gli sussurrò, mentre lui ancora si guardava gli avambracci sporchi di sangue. “Tommy, dobbiamo fare qualcosa. Ora!” bisbigliò, tenendo d’occhio i cinque che discutevano tra di loro. Aveva ancora le lacrime fresche sulle guance, ma cercò di rimuovere dalla testa il pensiero che Samuele era lì, morto, dietro di loro.
Lui parve scuotersi leggermente e la guardò confuso, come se gli stesse parlando in un’altra lingua. Beatrice disse ad alcune bambine di rimanere sedute contro il muro, perché ancora cercavano la loro attenzione: in questo momento l’importante era far riprendere Tommaso. Senza di lui non poteva fare nulla, era la sua roccia, lo era sempre stato.
“Tommy, mi senti? Mi senti?” domandò più volte, prendendogli il viso tra le mani, finché, frustrata, non esclamò: “non può succedere di nuovo, chiaro?! Non lo permetterò!” le sue parole erano ferme e determinate.
E nella mente di Tommaso qualcosa si smosse. Gli ricordò la Beatrice di quando avevano dodici anni, anzi, no. Una Beatrice ancora prima. Quella Beatrice antica, quella che aveva visto nella sua allucinazione e che mai si era dimenticato.
La ragazza del mercato.
La moglie che lo aspettava.
La donna del cimitero.
L’anziana dell’ospedale.
Quella che aveva tanto amato, e che amava in quella vita, e che avrebbe amato nelle prossime.
“Cosa non può succedere di nuovo?” riuscì a chiederle.
Doveva sapere. Non poteva più vivere con quel segreto tra di loro. Era diventato più grande di tutta la loro storia ed avrebbe finito per soffocarlo: lei aveva visto qualcosa che si sentiva in diritto di sapere.
“Bea.” disse, con un’espressione pietosa sul volto. “Devo saperlo.”
La vide esitare. Diede un’altra occhiata ai cinque uomini armati, poi lo baciò sulle labbra.
“Non mi lascerai di nuovo sola.”
Suonò quasi come un rimproverò, e per un istante Tommaso scavò nei suoi ricordi cercando di trovare il momento in cui aveva compiuto quell’errore. Ma non lo trovò, perché doveva andare troppo indietro con la memoria.
Beatrice gli solleticò la maglietta in quel punto in mezzo al petto, quello che stuzzicava sempre prima di addormentarsi. Ed all’improvviso capì. Sentì una fitta di dolore laddove l’indice di Beatrice lo accarezzava.
“Non ho mai voluto farlo, Const--” si bloccò sul finire della frase. Quel nome… Era rimasto nel suo inconscio per tutto quel tempo, e si sentiva così strano a pronunciarlo. Sapeva che quella era Bea, ma quel nome gli parve così adatto e lei non sembrava per nulla sorpresa del fatto che la stesse chiamando così.
“Constance…” concluse, con un fil di voce ed il groppo in gola.
Beatrice lo guardò intenerita. Non sembrava lei, aveva qualcosa nello sguardo che non le apparteneva. Il modo in cui aveva dischiuso le labbra, la maniera in cui gli prese le mani e la voce che le uscì di bocca quando sussurrò:
“D’Artagnan…”


--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


Athos bussò alla porta.
La campagna intorno alla casa si estendeva per chilometri, ma una decina di altre abitazioni modificavano il paesaggio in maniera quasi armoniosa.
Gli sarebbe piaciuto vivere così, dopotutto. Ma anche se stava diventando vecchio per combattere, non sarebbe riuscito ad abbandonare i Moschettieri. C’erano così tanti soldati da addestrare, così giovani ed ingenui, che gli ricordavano sempre lui… Quel pivello arrogante.
La prima volta che giunse alla Guarnigione, con la rabbia negli occhi e la sua testardaggine caparbia...
A ripensarci gli veniva sempre da ridere: ormai non provava più quella malinconia che spesso lo attanagliava al mattino.
Porthos… Anche lui caduto in guerra, ma con onore. Era quella la cosa più importante: sarebbero sempre stati ricordati come eroi. Persino Aramis. Anche se era stato condannato come traditore, nella Guarnigione il suo nome era rimasto simbolo di nobiltà d’animo e coraggio.
Constance aprì la porta con aria sorpresa, come se fosse abituata a non ricevere spesso visite. Anche lei era invecchiata, la sua bellezza sfiorita, ma manteneva sempre quel portamento con cui Athos la ricordava, ai primi tempi della sua storia con D’Artagnan.
Lui sorrise e lei fece lo stesso. Le rughe le incresparono il viso, ma riuscivano a malapena a nascondere la sua traboccante spigliatezza.
La Constance che aveva visto dopo la morte di D’Artagnan... Non era lei.
Athos lo aveva sempre saputo, non era stata lei ma un demone oscuro con le sue fattezze che aveva preso possesso delle sue azioni. Per questo aveva garantito per lei con il Re e la Regina, convincendoli ad optare per l’esilio, piuttosto che per la condanna a morte. Si era inginocchiato davanti a loro, aveva abbassato la testa per non far vedere le lacrime ed aveva chiesto clemenza.
La donna lo abbracciò e lui le baciò il capo affettuosamente. Non si vedevano da anni.
Lo fece entrare, si sedettero al tavolo. Lui le teneva le mani tra le sue.
“Ho parlato con la Regina.”
Il sorriso di Constance si affievolì leggermente.
“Lui sta bene. E’ in Spagna. E’ in salute e sta studiando per diventare dottore.” le rivelò, sperando di leggere sollievo nella donna. Ma quella che percepì fu una leggera delusione.
“In Spagna, eh…?” abbassò lo sguardo. Si sforzò di sorridere di nuovo. “Scommetto che è diventato bellissimo. Come lui.” si affrettò ad aggiungere, malinconica.
“Constance. Mi dispiace, ma forse è meglio così.” Athos richiamò la sua attenzione, stringendole leggermente le mani. “Lui vive felice e tu…” esitò. Non si poteva dire certo che viveva felice in quella casa, da sola, ma aveva trovato un certo equilibrio dopo l’allontanamento di Charles. Lasciò perdere la frase che aveva iniziato ed invece aggiunse: “Ho una buona notizia anche per te.”
Constance risollevò lo sguardo incuriosita.
Aveva chiesto ad Athos di rintracciare Charles ormai un anno prima. Si sentiva pronta, dopo vent’anni, a fare la madre che non era mai stata. Ma dentro di sé sapeva che era troppo tardi per colmare quel vuoto che - comprese con sofferenza - poteva essere riempito soltanto da un figlio, sangue del suo sangue e di quello del suo caro D’Artagnan.
Lo ricordava con amore, non più con disperazione.
Lui aveva reso la sua vita meravigliosa, anche se per un tempo ingiustamente breve, e doveva essergliene grata. L’unica cosa che rimpiangeva era quella vergogna che provava mettendo a nudo la sua anima durante le preghiere, davanti a Dio, davanti a D’Artagnan: aveva cercato di eliminare dalla sua vita il dono più bello che una donna possa ricevere. Ed alla fine ce l’aveva fatta.
“Puoi tornare a Parigi, se lo vuoi.” disse Athos con un sorriso caloroso.
Lei arrossì leggermente.
Il suo crimine era stato coperto dalla misericordia della Regina Gisela, che aveva convinto Luigi a non condannarla né umiliarla, ma semplicemente allontanarla dal Louvre e da suo figlio. Le aveva detto belle parole, ricorda. E pensare che lei aveva persino storto il naso quando la Regina si era dichiarata sua amica; lo era veramente, e ciò provava quante volte nella sua vita Constance si fosse trovata in torto.
Ormai Luigi era morto, ed anche la maggior parte delle persone che conosceva. Nessuno le avrebbe rinfacciato nulla. Era rimasto solo Athos, il caro Moschettiere che le era rimasto fedele fino alla fine.
“Potremo vederci più spesso.” le disse, ricordandole quanto solo si sentisse anche lui, nonostante la Guarnigione fosse piena di validi soldati. “E potrai fare visita alla sua tomba quando lo vorrai.”
Constance sussultò impercettibilmente. Non era stata molte volte sulla lapide di D’Artagnan, perché Parigi era lontana ed aveva bisogno della scorta di Athos per rientrare senza rischiare di essere scoperta dalle Guardie Rosse.
Lei si alzò in piedi di scatto e sparì nella camera da letto. Athos si preoccupò solo per un istante, prima di vederla ritornare. In una mano stringeva il crocefisso che D’Artagnan le aveva donato prima di partire, lo stesso della Regina Anne e lo stesso che era stato al collo di Aramis.
“Mi sono ricordata, sai?” sorrise tranquilla. Athos ricambiò interrogativo il suo sguardo. “L’olmo campestre. Mi sono ricordata dove si trova.” spiegò, con una leggerezza che lo fece rimanere basito.
Athos dischiuse le labbra sorpreso. Erano anni che Constance parlava di quell’albero, di cui lui non aveva mai saputo niente, da parte di D’Artagnan.
Era il loro posto segreto, quello in cui andavano quando D’Artagnan spariva per pomeriggi interi.
Ma da quando era morto, Constance aveva continuato a crucciarsi per il fatto di essersi dimenticata dove si trovasse. Un paio di volte lui e Porthos l’avevano anche aiutata a cercarlo, sperando di darle un po’ di sollievo, ma lei vagava con gli occhi persi e guardava senza vedere, quindi non era molto d’aiuto nella ricerca. E poi, com’era fatto un olmo campestre?
“E’ sempre stato lì, non lontano dal cimitero.” rivelò all’amico.
Athos si alzò e le fece un cenno col capo verso la porta.
“Andiamo.”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


“BASTARDO!”
Un altro sparo.
Un corpo cadde a terra e tutti rimasero pietrificati.
Tommaso e Beatrice dovettero ritornare bruscamente alla realtà. Uno dei rapinatori aveva appena sparato in fronte ad un suo complice, il quale giaceva immobile ai piedi degli altri quattro. Come Samuele.
Quello che reggeva la pistola ancora fumante la puntò verso gli altri tre.
“Qualcun altro ha delle obiezioni?”
Beatrice capì che la situazione si metteva molto male. L’uomo che aveva sparato era quello che sembrava voler suggerire di ucciderli tutti; il suo complice a terra, era quello che voleva costituirsi alla Polizia. La loro unica speranza di fare appello ad un briciolo di umanità.
Ed era sfumata anche la loro occasione di approfittare del loro litigio per agire.
“Tommy…” la voce tremante di Beatrice gli sibilò nell’orecchio.
Tommaso guardò Stefano, che ricambiò lo sguardo. Damiano si unì a loro in quel gioco di occhiate: Tommaso li stava coordinando con il semplice movimento degli occhi.
Aveva suggerito a Stefano di prendere il più basso e a Damiano quello accanto a lui. Lui avrebbe pensato a quello che aveva appena ucciso il complice.
Quello che invece aveva ucciso Samuele, sembrava già abbastanza tentennante e Tommaso era quasi certo che non avrebbe più sparato a nessuno.
Ma ancora non era il momento. La tensione era troppo alta, e qualsiasi movimento brusco li avrebbe fatti scattare, senza contare che uno impugnava già una pistola.
Dovevano aspettare, ma non troppo.
“Bene!” decretò l’assassino. “Adesso vediamo di farla finita. Vai a cercare delle corde.” ordinò al più spaventato dei tre.
La situazione era tornata a volgere a loro favore: erano in parità numerica.
“Tommy…” continuò a chiamarlo Beatrice.
Se si fosse voltato a guardarla, gli sarebbe mancato il coraggio. Avrebbe iniziato a temere troppo per la vita di lei e si sarebbe tirato indietro, ma non poteva. Dovevano salvare più persone possibili; se non avessero fatto qualcosa, si sarebbe consumata una strage.
Legarli era soltanto una precauzione: se avessero iniziato a sparare si sarebbe scatenato il caos e qualcuno sarebbe riuscito a scappare. E invece quel tizio voleva assicurarsi di non lasciare nessun testimone e che i suoi complici rimasti non si fossero tirati indietro.
“Cosa vuoi fare, Tommy?” continuò insistente Bea. “Ti prego, fermati… E’ troppo pericoloso, i bambini… Guardami!”
Lo costrinse a voltarsi. Lo sguardo determinato di Tommaso vacillò subito di fronte a lei.
Era un insicuro, in realtà. Ma non era mai stato così coraggioso come in quel momento, quasi non fosse più lui. Quasi come se quel soldato - D’Artagnan, lo aveva chiamato Bea - avesse preso il sopravvento sul giovane scout dai buoni principi ma dalla scarsa iniziativa.
Sapeva ciò che stava per fare, ma guardandola iniziò a non esserne più tanto sicuro. Tommaso e i suoi dubbi, le sue incertezze stavano di nuovo per riaffiorare e distolse lo sguardo da Beatrice.
Lei rimase con aria attonita a guardare la sua nuca.
Non era lui.

D’Artagnan…

L’uomo con la pistola la abbassò per un attimo e Tommaso prese fiato. Beatrice sapeva che poteva essere l’ultima volta che udiva la sua voce.
“ORA!” urlò.
Ma un’altra voce sovrastò il suo grido.


--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


Constance scavò una piccola buca ai piedi del grosso albero.
Baciò il crocifisso e lo ripose in un cofanetto, poi lo interrò.
Athos ammirava la pianta secolare con un certo rispetto. Passò una mano sulla ruvida corteccia, guardando in alto verso le fronde, mentre udiva il rumore della pala che prendeva la terra e che la faceva ricadere.
Quando non sentì più nulla, tornò verso Constance che gli sorrise dolcemente e piena di gratitudine.
“Tornerò a Parigi.” annunciò lieta.
Athos ricambiò il suo sorriso e poi tornò ad ammirare l’olmo.
Entrambi rimasero lì per un po’ a guardare il vento che scuoteva le foglie dell’albero e gli uccelli che tornavano al loro nido, incuranti della loro presenza silenziosa.


--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


“POLIZIA!”
Tutti sussultarono, l’uomo armato cercò di sollevare la pistola, ma se ne trovò una decina puntate contro. I bambini gridarono per lo spavento, ma poi piansero di sollievo.
“Giù le armi e faccia a terra! Faccia a terra!”
Tommaso era rimasto attonito. Come potevano averli trovati?
Era davvero tutto finito? Quell’incubo… Finito così? Qualcosa dentro di lui ardeva ancora di rabbia per non aver potuto vendicare da sé la morte di Samuele, ma sapeva che Beatrice aveva ragione. Sarebbe finita molto male se fossero passati anche solo due secondi in più prima che i poliziotti facessero irruzione.
Alcuni agenti si avvicinarono a loro e ai bambini. Uno invece andò a sentire il polso di Samuele. Beatrice e Tommaso non vollero guardare.
Iniziarono a fare domande a cui Beatrice rispondeva confusa. Tommaso non riusciva a parlare. I cambusieri dissero agli agenti che mancavano tre bambini e loro iniziarono a fare più domande. Mentre arrestavano i quattro uomini ammanettandoli, si udivano gli schianti delle porte aperte a calci su entrambi i piani: stavano ispezionando la casa per verificare che fosse sicura.
“Tommy, dove sono i piccoli? Tommy!” fu soltanto dopo mille insistenze di Beatrice che il ragazzo si riprese dallo shock.
“Nel sottotetto. Stanno bene.” rispose finalmente. Beatrice lo guardò scioccata per un attimo, poi gli saltò al collo, abbracciandolo fino a fargli male.
“Li hai salvati, oddio… Li hai salvati…” gemette con voce strozzata.
Tommaso comprese il suo stupore al fatto che lui avesse reagito con tanta lucidità da riuscire a nascondere tre bambini quando aveva capito che qualcosa non andava.
“Samu…” mugolò lui di rimando. Sarebbe stato il rimorso più grande di tutta la sua vita.
Beatrice piangeva, ma si riprese in fretta: dovevano pensare a tutti quei bambini e, oddio, Francesco era ferito. Corsero verso di lui, ma in quel momento gli agenti diedero il via libera agli operatori della Croce Rossa che iniziarono a soccorrerlo.
Tommaso e Beatrice realizzarono che i poliziotti e la Croce Rossa stavano già confortando i bambini anche se alcuni si aggrappavano ancora a loro, terrorizzati.
“... ricercati da tempo. Hanno fatto un sacco di rapine, ed oggi un bel colpo in Banca.” stava dicendo uno dei poliziotti a Stefano. “Il signor Felice Moretti è stato ricattato per anni, gli faceva usare questo posto come nascondiglio dopo ogni colpo, così che potessero sparire dalla circolazione per un po’ senza destare sospetti. Non li avremmo mai trovati se non fosse stato per quei due turisti.”
Beatrice tese le orecchie, mentre Tommaso non si era accorta ancora di nulla. Si avvicinò al poliziotto con aria incuriosita.
“Quali turisti?” domandò, introducendosi nella conversazione. Aveva un presentimento. Si voltò verso Tommaso per richiamare la sua attenzione e lui le si avvicinò, prendendola per mano.
“Due spagnoli. Non abbiamo idea di cosa facessero qui, nel bel mezzo del nulla, ma dicono di aver sentito degli spari… Vorrete ringraziarli, immagino. Li abbiamo posti in sicurezza in una volante qua fuori. Un attimo solo.” e si allontanò.
Tommaso e Beatrice si guardarono, perplessi.
“Cosa c’è?” domandò lui, evidentemente confuso per un motivo diverso da quello della ragazza.
“Non ricordi, allora?” chiese lei. E sorrise. Quel sorriso strano che le aveva visto dipinto nel momento in cui aveva mormorato quel nome - D’Artagnan - che a lui suonava ancora così strano e così familiare allo stesso tempo.
Il poliziotto rientrò, accompagnato da due ragazzi.
Lei aveva la carnagione e gli occhi chiari, i capelli biondi e l’aria leggermente scossa. Lui le teneva un braccio sulla spalla, altrettanto preoccupato. Aveva i capelli mossi e lunghi e barba e baffi incolti.
Non appena Tommaso li vide, gli fu tutto più chiaro. Si avvicinarono ai due stranieri e si fissarono per un po’, squadrandosi.
Poi Beatrice sorrise commossa e saltò al collo della ragazza, abbracciandola come un’amica che non vedeva da tempo. Da moltissimo tempo.
Nel loro abbraccio, un oggetto a lei famigliare le punzecchiò il petto. Abbassò lo sguardo e vide un crocifisso - il crocifisso.
Il ragazzo fece un sorriso complice a Tommaso, poi gli allungò la mano, perché lui la stringesse. Quando lo fece, gli appoggiò l’altra mano sulla spalla in un gesto fraterno, che risvegliò in lui centinaia di memorie.
In un italiano con poche incertezze, si presentò.

“Mi chiamo Manuel. Lei è Iris. Vi abbiamo trovati, alla fine.”

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3397977