What's inside you

di marta_bilinski24
(/viewuser.php?uid=835471)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sii il tuo lupo ***
Capitolo 2: *** Reinventarsi ***
Capitolo 3: *** Non ti ho scordato ***
Capitolo 4: *** Tre trilli e un ululato ***
Capitolo 5: *** Sotto il pino ***
Capitolo 6: *** Dimmi chi sei ***
Capitolo 7: *** O su o giù ***
Capitolo 8: *** Nessuno ha detto che sarebbe stato facile ***
Capitolo 9: *** Quel che sarà di noi ***
Capitolo 10: *** Questo momento è solo nostro ***



Capitolo 1
*** Sii il tuo lupo ***


Quasi non ci credo, ho partorito la mia primissima long! La storia è già completa quindi, a meno che non ci siano cataclismi o asteroidi che cadono sulla mia casa, la pubblicazione dovrebbe proseguire regolarmente senza intoppi :D Vorrei ringraziare il mio cane e le sue passeggiate che mi hanno ispirato questa storia. Ma soprattutto vorrei dedicare questo mio primo lavoro a cassie_hale, che mi ha fatto conoscere Teen Wolf, che mi ha fatto innamorare dello Sterek, che è la prima persona che legge le mie storie e che è la mia prima sostenitrice, anche quando qualcosa non mi convince. Non andrei da nessuna parte senza il tuo aiuto, grazie di tutto! <3

 

Avvertimenti: Questa storia si ambienta in una Beacon Hills dove la famiglia Hale è una potente famiglia di licantropi, e il loro segreto è conosciuto solo dai cacciatori della città, gli Argent, che trovano il modo di sterminarli. I due soli sopravvissuti alla strage, Derek e Cora, hanno rispettivamente diciotto e quindici anni al momento dell’incendio. Il fulcro della storia si svolge tre anni più tardi. Scott non è stato trasformato da Peter e Stiles è completamente all’oscuro della comunità sovrannaturale di Beacon Hills, anche se non per molto.

Nota a margine: prima che ve lo chiediate, il colore degli occhi dei licantropi, in questa storia, non segue la regola della serie originale (gli occhi blu dovrebbero rappresentare l’uccisione di un’anima innocente). Inserire la storia di Paige avrebbe portato la storia lontana da ciò su cui volevo focalizzarmi; semplicemente a me Derek piace con gli occhi blu.

 

Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di MTV e Jeff Davis; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

 

CAPITOLO 1: Sii il tuo lupo

 

Derek non sapeva come fosse potuto accadere. Un attimo prima sembrava tutto sotto controllo e un attimo dopo il suo corpo non rispondeva più. L’allenamento era stato graduale, lui e Cora non si sarebbero mai permessi di improvvisare una cosa del genere. Avevano passato settimane a studiare la situazione, a capire come rendere tutto più naturale. Eppure questo non era bastato e Derek si ritrovava prigioniero del suo stesso corpo, senza la più pallida idea di come recuperare le sue normali funzioni umane. Come invertire un processo del genere?

 

Derek era diventato un lupo completo e non sapeva più come tornare un uomo.

 

«Sai che Laura sapeva farlo. E anche la mamma.» Cora appoggiò una mano sul tavolo di legno della cucina, sospirando. Cos’aveva fatto di male per ritrovarsi un fratello così testardo e poco propenso ai consigli di una splendida sorella come lei? «Per l’ennesima volta, Cora, mamma era un Alpha e Laura lo sarebbe diventata. Cosa non ti entra in testa di questo concetto?» ormai era una settimana che Derek finiva per litigare con sua sorella per questa questione: avevano due punti di vista diametralmente opposti e nessuno dei due voleva piegarsi alle idee dell’altro, a costo di scannarsi vivi. Derek si sedette al bancone, strofinandosi una mano sugli occhi, nemmeno quella notte era riuscito a dormire bene. Dopotutto questa idea di Cora lo intrigava, non poteva negarlo, ma non si sentiva pronto e il dilemma lo stava portando a consumarsi fisicamente. Aveva bisogno di un caffè e ne aveva bisogno immediatamente, possibilmente in vena. «Ma tu sei un Beta speciale!» ribatté Cora raggiante appoggiando davanti al fratello la sua tazza, quella che recava la scritta “Non parlatemi…stamattina mordo!” con il disegno di un terribile lupo nero che metteva in bella mostra i suoi canini. Avrebbe fatto tremare chiunque e quello era lo scopo che Derek voleva raggiungere quando l’aveva comprata. Ma come poteva Cora essere di buon umore a tutte le ore del giorno, soprattutto di prima mattina? Il ragazzo tirò a sé la tazza, alzò solo un sopracciglio verso la sorella e con uno sguardo indicò la scritta sulla tazza: quella sarebbe stata una risposta eloquente per chiunque ma non per la piccola, impertinente e testarda Cora. Era una Hale anche lei, cosa si aspettava Derek, che mollasse l’osso? Oh no, lei non era la pacata e conciliante Laura, che con le sue filippiche poteva vendere anche la neve agli eschimesi e che se vedeva che la persona davanti a lei era troppo fissata lasciava perdere; lei non era nemmeno Talia, che con lo sguardo comprensivo e tutta la pazienza che solo una mamma poteva avere riusciva a convincere di una cosa e del suo opposto senza alcuna difficoltà. Cora era la piccolina di casa, abituata ad essere la più viziata, quella a cui veniva concesso tutto e quello che non poteva avere lo otteneva sfoderando occhioni nocciola da cerbiatta o torturando la gente con la sua parlantina fino allo sfinimento. E questa ultima tecnica era quella che utilizzava sempre contro il suo scontroso e sociopatico fratello maggiore.

 

Era difficile per tutti ricordare Laura, la mamma, il papà…a Cora faceva troppo male per dirlo a voce alta ma li pensava tutte le notti prima di addormentarsi e per ognuno di loro versava una calda lacrima che le solcava il viso fino ad asciugarsi sulla federa del suo cuscino. Non lo diceva mai a Derek, perché sapeva di far crescere in lui lo stesso dolore; nemmeno lui era il tipo da aprirsi, soprattutto quando si parlava di sentimenti. Erano rimasti loro due e non valeva la pena perdere il sorriso per crogiolarsi nel dolore. Nonostante fossero passati più di tre anni, la notte dell’incendio era ancora un ricordo troppo fresco nella mente di entrambi i fratelli, l’impotenza che avevano provato quando si erano ritrovati di fronte alle fiamme che stavano divorando la loro casa, i loro ricordi e i loro familiari, senza via di scampo. Quella notte Cora aveva fatto un brutto sogno ed era corsa a rifugiarsi nel letto caldo e accogliente di Derek. Lui le aveva ringhiato nel sonno, ma lei si era lo stesso creata uno spazio tra il bordo del letto e il fratello, che nel frattempo si era girato dandole le spalle. Ma questo a Cora non bastava: i mostri che l’avevano inseguita in sogno sembravano sbucare da ogni angolo nella stanza di Derek, da sotto la finestra, dalla libreria, dall’angolo in cui era sistemata la scrivania. Derek aveva provato a riaddormentarsi, ma era stato difficile, soprattutto dopo che Cora aveva cominciato a tremare come una foglia al vento. Con uno sbuffo si era girato verso di lei e l’aveva abbracciata dolcemente, passandole una mano tra i capelli. A quel punto Cora si era sentita in dovere di parlare, a valanga, senza mai fermarsi fino a spiegare nei minimi dettagli com’erano fatti i mostri che aveva visto in sogno e che continuavano a cercare di prenderla anche in quella stanza. Decisamente quando Derek l’aveva accarezzata l’ultima cosa che voleva era che partisse a parlare in quel modo, spezzando del tutto l’ultima possibilità di riaddormentarsi. Aveva dunque deciso di fare quello che faceva lui quando si ritrovava a fare un incubo e a svegliarsi terrorizzato nel pieno della notte. Poteva sembrare un controsenso, ma in quelle situazioni Derek alzava piano la finestra evitando di svegliare tutta la casa e correva nel bosco. Casa Hale si trovava al limitare di una riserva naturale perfetta per una famiglia di licantropi e offriva un ottimo posto immerso nella natura dove schiarirsi la mente. A quella proposta Cora sembrava ancora più terrorizzata, allontanarsi dal letto caldo e dalle braccia protettive di Derek e addentrarsi nella foresta sembrava davvero una follia ma si era lasciata convincere. Derek l’aveva presa per mano e l’aveva incoraggiata a correre più veloce delle ombre che la terrorizzavano. Il vento sferzava i capelli di lei, raccolti in una coda sistemata in maniera scomposta alla base della nuca mentre la corsa per sfuggire dai mostri diventava più una sfida atletica tra i due licantropi. Cora andava per i quindici anni e Derek aveva appena superato la maggiore età ed erano stati allenati fin dall’infanzia a tenersi in forma correndo nei boschi, ma mai la ragazza l’aveva fatto dopo il tramonto del sole. La paura iniziale si era trasformata ben presto in un’ondata di adrenalina che aveva spinto entrambi al limite, fino a che si erano fermati al centro di una radura per riprendere il fiato e ridacchiare lanciandosi occhiate complici. Avevano un rapporto molto speciale e molto stretto, poiché erano cresciuti quasi in simbiosi, a soli tre anni di distanza, mentre Laura era abbastanza più vecchia e aveva tutt’altro carattere. Lei non sarebbe mai uscita di notte per correre, era ligia alle regole o, come la canzonavano spesso i suoi fratelli, “un po’ bacchettona”. Mentre si incamminavano verso casa sorridenti li avevano raggiunti le urla, l’odore di bruciato, le luci del fuoco. L’immagine della casa divorata dalle fiamme e le urla lancinanti, Derek e Cora quelle cose non se le sarebbero mai tolte dagli occhi e dalle orecchie. In pochi secondi la loro vita era andata in frantumi come un bicchiere di vetro contro il pavimento e loro ne avrebbero pagato le conseguenze, le schegge sarebbero rimaste per sempre a far sanguinare il loro cuore. La polizia non aveva mai stabilito con certezza i colpevoli, tutto era stato classificato come un incendio qualsiasi, dovuto ad una dimenticanza dei proprietari della casa. Ma Cora e Derek sapevano che gli Argent, o quantomeno gli esponenti più estremisti di quella famiglia di cacciatori, puntavano a liberare la città dai licantropi. I due fratelli, distrutti dal dolore, avrebbero potuto scappare, scappare dai cacciatori e dagli incubi che affollavano le loro notti. Avevano deciso invece di restare, avevano un altro appartamento in città, molto più in centro e molto più moderno della casa di famiglia. E da lì, sostenendosi l’uno con l’altra, si erano ricostruiti pian piano una vita, raccogliendo i cocci infranti delle loro esistenze. Per ricordare sempre la sua famiglia, Cora aveva deciso che avrebbe fatto così: una lacrima a notte, perché nessun defunto va dimenticato, ma durante il giorno avrebbe vissuto la sua vita con la serenità che i suoi cari avrebbero voluto vederle negli occhi. Era un patto, una promessa fatta a se stessa e a loro. E poi lo doveva a Derek, che la sopportava e la proteggeva come il fiore più prezioso al mondo.

 

Anche quella mattina Cora avrebbe passato tutto il suo tempo nel disperato tentativo di convincere il fratello, che sembrava ormai irremovibile. «Posso bere il mio caffè prima di dover ascoltare il tuo disco rotto per l’ennesima volta?» chiese Derek dandole le spalle e armeggiando per accendere la macchina del caffè. «Tanto ormai mi sono arreso all’idea che continuerai all’infinito e oltre» concluse sconsolato il ragazzo. «Il problema è che tu non prendi davvero in considerazione le mie idee solo perché sono la sorellina minore che non capisce mai nulla. Se invece mi ascoltassi, io ho visto come loro si allenavano…» Cora non aveva intenzione di mollare la presa, avrebbe insistito fino alla morte, sentiva che questa cosa li avrebbe avvicinati a Laura e alla mamma e lei non voleva perdere nessuna occasione per sentirle più vicine. Non aveva avuto la possibilità di salutare nessuno di loro e cercava spasmodicamente qualsiasi cosa la potesse avvicinare al loro ricordo, era terrorizzata all’idea di poter dimenticare tutti. Stentava a ricordare le loro voci, la delicatezza delle carezze della mamma, il tono che assumeva Laura quando la rimproverava bonariamente, nascondendo sempre un sorriso dietro quella facciata arrabbiata, il timbro di voce delle raccomandazioni del papà. Le faceva male e tentava in tutti i modi di ricordare ogni particolare, ogni dettaglio di vita vissuta insieme, arrivando a schiacciarsi le tempie fino a farsi male. E quella possibilità che aveva Derek era un legame diretto con la loro famiglia, un filo che Cora non voleva a nessun costo tagliare. Ancora una volta Derek guardò la sorella e poi la tazza. «Nessuna goccia di caffè è ancora entrata in circolo nel mio corpo. Dammi tregua un attimo, Cora» esalò il ragazzo, tornando a prepararsi l’unica bevanda che lo avrebbe tenuto in piedi in quel combattimento estenuante con la sorella. Cora si sedette di colpo su uno sgabello, mettendo il muso e affondando il viso in una mano, mentre l’altra prendeva un biscotto e lo intingeva nel latte che si era appena finita di scaldare. «Manda la tua civetta ad avvertirmi quando sarai pronto a riparlarne» disse mentre masticava rumorosamente e un po’ seccata, anche se sapeva che quel comportamento non avrebbe fatto troppo effetto al fratello, lui conosceva bene le tecniche che lei utilizzava per instillare il senso di colpa nelle persone e aveva imparato a conviverci senza darle soddisfazione.

 

Derek deglutì piano, per assaporare il sapore del caffè che lui amava amaro, nero come la notte. Nero come un lupo. Il pensiero gli balenò in mente così, improvviso e involontario, mentre osservava le piccole bollicine d’aria formatesi sulla superficie della bevanda nella sua tazza. Una bevanda nera, oscura e misteriosa, che poteva nascondere qualsiasi insidia. Era così che vedeva la proposta di Cora: ignota e tenebrosa, non sapevano nemmeno loro dove si sarebbero potuti spingere, nessuno aveva davvero insegnato loro come era possibile farlo. Era vero, Cora aveva seguito alcuni allenamenti di Laura con Talia, ma l’aveva fatto di nascosto e questo non faceva di lei una persona esperta e tanto meno competente in materia. Questo non rassicurava di certo Derek, anzi lo faceva ancora più desistere dall’idea di assecondare sua sorella. Ma come poteva negare a se stesso che Cora da un lato aveva ragione? Come si sarebbe sentito se avesse potuto fare quel passo? Sarebbe stato come avvicinarsi a sua madre in una maniera che in quel momento non gli era più possibile: questo lo allettava e lo attirava, ma cercava di non darlo a vedere, poiché anche una minima speranza avrebbe dato a Cora il doppio della forza per insistere. Ponderò bene le parole prima di rivolgersi alla sorella, in trepidante attesa, aggrappata sulla sedia come un canarino sul suo trespolo. «Devi capire, Cora, che io non mi sento pronto per questo passo…» cominciò Derek. «Sì, ma…» lo interruppe subito la ragazza. «No, ora lascia parlare me» continuò lui pacatamente. «So quanto soffri ancora per mamma, papà e Laura» fece una pausa per sforzarsi di deglutire, per ricacciare nello stomaco il nodo che gli era salito in gola e che non poteva permettersi di sciogliere davanti a Cora, perché lui non aveva mai pianto e non poteva farlo ora. «E, credimi, nessuno sa meglio di me cosa abbiamo passato e cosa stiamo tutt’ora vivendo. Credi che non veda come ci guarda la gente in paese? Ogni volta che entriamo in un negozio o in un bar la gente si gira, ammutolisce, chi parla lo fa per bisbigliare il nostro cognome al vicino di tavolo…pensano che possiamo non accorgercene!» strinse così forte il pugno che le unghie cominciarono a segnare in più punti la pelle, arrivando a ferirla. Ma ogni ferita guariva più velocemente di come era arrivata. «Ci guardano come fossimo cani abbandonati e io non posso più sopportarlo. Ma questa è la città dove siamo nati e cresciuti, non tradirei mai Beacon Hills, sopporterò questi sguardi per tutta la vita piuttosto che darla vinta agli Argent. Gli Hale c’erano prima e ci saranno sempre. Però questa tua idea mi sembra troppo azzardata, non credo di essere all’altezza, non mi sento degno di ricalcare le orme di Laura, lei era brava, seguiva tutto con attenzione e scrupolo, lei era adatta a queste cose, lei non io» concluse deluso Derek. Deluso da se stesso, dal non poter nemmeno onorare la sua famiglia con questo gesto, onorarne la memoria. Tutto quello che riusciva a fare era sopravvivere con quello che era rimasto loro dopo l’incendio, l’assicurazione gli aveva portato molti soldi ma a lui questo non interessava. Nessuna cifra gli avrebbe ridato il calore di una famiglia, una famiglia che non fosse a pezzi e completamente sulle sue spalle. Così aveva cercato lavori saltuari, aveva lavorato come aiuto meccanico, in un bar e in un ristorante come cameriere, come magazziniere, ma nulla lo aveva mai appassionato e si era regolarmente licenziato dopo i tre mesi di prova. In quei giorni vagava per la città alla ricerca di annunci e avvisi di offerte di lavoro, convinto che nulla lo avrebbe mai coinvolto davvero, dopo quella notte aveva perso la maggior parte della passione per la vita che lo contraddistingueva da piccolo. L’unica cosa che lo continuava a spingere avanti era Cora, lei e la sua vitalità. Quella ragazza aveva vitalità per due persone, forse per un esercito intero, era forte come una roccia, anche se Derek sapeva che questa ostentazione nascondeva dieci dubbi, cento preoccupazioni, mille paure. La ragazza non lo aveva mai lasciato per un momento con lo sguardo, aveva fissato i suoi occhi vispi sulla labbra di Derek e aveva accennato una lacrima all’inizio del discorso e un sorriso alla fine. «Ho sentito fare lo stesso discorso a Laura, un giorno. Ero rientrata prima da scuola e mi ero intrufolata di soppiatto in cucina, dove lei e mamma parlavano animatamente. Laura diceva che non era all’altezza della mamma, che era troppo giovane e inesperta, che aveva paura e che non sarebbe mai riuscita a farlo. Sapevo che gli allenamenti erano cominciati da diverse settimane ma dopo i primi progressi nostra sorella era in un punto di stallo. O riusciva a fare il salto di qualità in quel momento o sentiva che non l’avrebbe mai fatto. Sai cosa le disse la mamma? Le disse “Il lupo che è in te si nutre dei tuoi sentimenti. Più ti sentirai inadatta a lui, meno saprai controllarlo. Sei nata per essere un animale fiero e maestoso, padrone della foresta, protettore dei più deboli, cacciatore dei nemici. Devi essere il tuo lupo. Sii il tuo lupo, Laura”. Non ti sentirai mai completo se non sarai il tuo lupo, Derek» e questa volta Cora puntò sicura i suoi occhi in quelli verdi di Derek, che stavano lampeggiando di blu. Le parole di Cora avevano sortito l’effetto desiderato, avevano mosso qualcosa nel ragazzo. Derek li chiuse istintivamente, consapevole del cambiamento di colore e di quello che significava: Cora era riuscita a entrargli nella parte più recondita del cuore, dove Derek non lasciava entrare nessuno, e a toccare come sempre il tasto giusto. Perché in realtà lui voleva essere un lupo, lo voleva da sempre, fin dalla sua prima luna piena aveva voluto imparare a dominare il suo potere per diventare il lupo maestoso che era nato per essere. «Questi occhi non lo meritano» mormorò sottovoce. Cora gli prese il viso tra le mani, gli accarezzò la barba ispida e sfatta e gli disse con dolcezza «Apri gli occhi Derek. Sono bellissimi, come te» e lo abbracciò con prepotenza, senza lasciargli la possibilità di ribellarsi, se non di ricambiare con affetto la stretta. «Eeeee…fine pausa smancerie-Hale! Ne ho già le scatole piene e sono solo le nove di mattina! Passiamo alle cose serie: quando cominciamo gli allenamenti?» disse Cora slacciandosi dall’abbraccio e sfoderando uno dei suoi sorrisi più perfidi: il sorriso di chi sa di avere la vittoria in tasca.

 

Derek non era mai stato così agitato in tutta la sua vita: odiava buttarsi in qualcosa che non era stato definito, che non aveva un vero progetto e che non aveva idea di dove l’avrebbe portato. Ma era abituato a Cora e con lei queste esperienza erano all’ordine del giorno. Un po’ lo offendeva il fatto che lei, la sorellina minore, insegnasse a lui; i fratelli maggiori dovrebbero essere l’esempio, il libro delle risposte, tutto ciò che si deve sapere i fratelli maggiori lo sanno perché l’hanno già vissuto. La situazione era quindi quanto meno strana e particolare, ma Derek alla fine si fidava abbastanza di Cora. E anche non fosse stato così, ormai le aveva dato un tacito via libera e non poteva più tirarsi indietro. Come c’era da aspettarsi, Cora aveva proposto di cominciare quella mattina stessa, Derek aveva proposto di posticipare al giorno dopo e alla fine avevano concordato per il pomeriggio. Il luogo stabilito per gli allenamenti era il seminterrato del nuovo appartamento Hale, creato a prova di licantropo. Questo includeva pareti insonorizzate e imbottite e kit di pronto soccorso a portata di mano in caso la situazione fosse sfuggita al loro controllo. Cora era seduta a gambe incrociate per terra slacciando e riallacciando i nodi alle scarpe da ginnastica quando Derek aprì piano la porta del seminterrato. Aveva indossato la solita canottiera grigia, che lasciava in vista la forte muscolatura delle braccia, delle spalle e della schiena e un paio di pantaloncini da basket che gli arrivavano all’altezza del ginocchio. Era teso e Cora lo sapeva benissimo: poteva leggerglielo in volto, percepirlo dal suo odore e sentirlo dal suo battito cardiaco leggermente accelerato. Cora si riallacciò la scarpa per l’ultima volta ed esitò un attimo prima di alzarsi. «Sei sicuro di volerlo fare? Non vorrei essermi fatta prendere la mano, sai come sono fatta…» Cora alzò lo sguardo e lo puntò in quello limpido di Derek solo dopo aver concluso la frase. Il ragazzo accennò un sorriso «Non ti avrei mai lasciato decidere per me. Voglio almeno provarci. Da cosa partiamo?». Cora sorrise dolcemente e cominciò a riordinare i ricordi degli allenamenti a cui aveva assistito clandestinamente. «Mamma diceva sempre che bisogna saper dividere il lupo dall’umano prima di poter mescolare le due cose correttamente. Per prima cosa faceva allenare Laura a trasformarsi parzialmente e a ritornare umana, alternando i momenti a intervalli di tempo sempre più ravvicinati. Ora, per esempio, tira fuori gli artigli» ordinò Cora. Derek la guardò dal basso, alzando un sopracciglio. «Fai davvero? Questa è la prima cosa che ho imparato, lo si insegna ai Beta quando gli si spiega il concetto di licantropia» ribatté il ragazzo, quasi offeso dalla richiesta della sorella. «Allora, mettiamo subito in chiaro una cosa» Cora alzò il tono di voce di almeno due ottave «hai deciso di affidarti a me, hai accettato di allenarti sotto il mio controllo e la regola è questa: quello che ti dirò dovrai farlo, senza se e senza ma, anche se ti sembra una cosa stupida. Non prendere sotto gamba nulla, nemmeno la preparazione, ogni minimo particolare deve essere ordinato nella tua testa prima che nel tuo fisico» concluse con un’espressione serissima in viso che Derek non le aveva mai visto. Lui annuì senza ribattere nemmeno una parola, aveva capito che su questo punto Cora era irremovibile. Piegò con calma il gomito fino a fletterlo a novanta gradi, girò il polso e lo rivolse con il palmo e le cinque dita verso il soffitto; abbassò lo sguardo sulla mano per un secondo e poi, con un gesto rapido e secco, ridistese il braccio lungo il fianco. Prima ancora di rialzare lo sguardo sulla sorella, un sorrisetto gli spuntò sulla labbra: anche se non poteva vederli, aveva percepito gli artigli scattare a comando, senza alcuna difficoltà. «Togliti quel sorrisetto idiota, Derek Hale, non hai fatto niente di più speciale di un Beta alle prime armi. Non serve gonfiare il petto in quel modo» lo rimproverò Cora. Derek abbassò di scatto le spalle e cercò di darsi un contegno, dissimulando l’orgoglio infantile che aveva provato: Cora aveva ragione, quella era una cavolata, doveva concentrarsi sull’obiettivo finale. «Ritira gli artigli e passiamo alle orecchie. Ma solo le orecchie, non dovrai modificare nessun altro tratto del viso» proseguì la ragazza. Derek ritirò immediatamente le unghie e rialzò gli occhi sulla sorella che aspettava la sua prossima mossa. Chiuse gli occhi e si concentrò, stringendo le palpebre e la mascella. Sentì subito le punte delle orecchie crescere e affilarsi, mentre una folta peluria spuntava sul bordo del padiglione auricolare. «Niente viso, Derek!» Cora ruppe il silenzio che era calato sulla stanza. Il ragazzo aprì di colpo gli occhi, che erano diventati di un blu intenso, rendendosi subito conto che tutto il suo viso stava seguendo la trasformazione delle orecchie. Le sopracciglia si erano unite e rialzate, la base del naso si era allargata, le basette erano cresciute fino a lambire l’osso della mandibola e i canini si erano allungati e gli solleticavano il labbro inferiore. Non appena Derek se ne rese conto, tutto venne ritirato nel giro di qualche secondo, anche le orecchie: l’esercizio era fallito. «Concentrati, fai un respiro e riprova» disse Cora, riprendendo la calma necessaria a far impegnare il fratello.

 

Proseguirono per tutto il pomeriggio, alternando trasformazioni parziali ed estenuanti esercizi che sfibravano Derek non tanto nel fisico quanto mentalmente. Non si aspettava di trasformarsi il primo giorno ma non aveva nemmeno immaginato di tornare all’inizio del suo allenamento da licantropo. Era in effetti un po’ deluso, anche perché quegli esercizi, che dovevano risultargli elementari dopo tutti quegli anni da lupo mannaro, lo mandavano facilmente in crisi e non era raro che si ritrovasse un corpo che non rispondeva ai suoi ordini. Frustrante, quella situazione era tremendamente frustrante per un tipo come Derek che avrebbe voluto tutto e subito. In fin dei conti però quello era un esperimento, si ripeteva il ragazzo, anche non fosse andato a buon fine chi l’avrebbe criticato? Sapeva benissimo, tuttavia, che il primo a criticarlo sarebbe stato il suo io interiore. Non doveva permettersi di fallire, sarebbe stata l’ennesima delusione della sua vita e non sapeva come avrebbe potuto rialzarsi quella volta.

 

Derek si appoggiò alla parete e scivolò giù fino a sedersi a terra. La canottiera era completamente bagnata di sudore e si era incollata alla pelle del licantropo: decisamente aveva bisogno di una doccia, per rinfrescarsi il corpo e la mente. Cora si sedette accanto a lui, appoggiando la testa dolcemente sulla sua spalla. Chiuse gli occhi e inspirò forte dal naso. «Ti ricordi il profumo dei muffin al limone che faceva mamma?» Derek chiuse gli occhi e inspirò a sua volta, come se volesse visualizzarli e incamerarne l’odore. «È per caso possibile dimenticare un pezzo della nostra infanzia?» «Io sentivo quell’odore ancora prima che lei aprisse il forno. Li cucinava quando le cose andavano così così con gli allenamenti di Laura. Era il suo modo per tirarsi su di morale, la sua coccola speciale per i suoi cuccioli» Cora tirò su col naso, ma questa volta il profumo dei muffin non c’entrava. Derek fece scorrere un braccio intorno alla spalla della sorella, mentre lei improvvisamente si attaccava alla sua vita, rischiando di stritolarlo. Nascose il volto al centro del petto di Derek, cercando di mascherare i singhiozzi forti che le scuotevano il corpo. «Farò di tutto per farcela, lo farò per te e per lei» promise Derek «Lavorerò duramente e mi affiderò completamente a te. Sai che non mi affiderei a nessun altro» concluse scoccandole un bacio tra i capelli arruffati e costringendola ad alzarsi in piedi. «Sei un licantropo, dovresti sentire più di tutti quanto puzzo!» disse scoppiando a ridere e contagiando subito anche Cora, che si staccò piano da lui passandosi una mano sotto il naso per asciugarselo.

 

Derek si spogliò svogliatamente, mentre l’acqua scorreva già da qualche minuto nella cabina doccia. Sfilandosi i pantaloncini e i boxer, allungò una mano sotto l’acqua e sentendo che aveva raggiunto la temperatura giusta entrò nel box chiudendo le ante. Rimase lunghi secondi sotto il getto d’acqua, sperando di lavare via anche i pensieri che lo affannavano. L’acqua gli scorreva addosso e rinfrescava il corpo caldo per lo sforzo, mentre le sue mani passavano a strofinare i corti capelli corvini con lo shampoo. Massaggiò i muscoli indolenziti per la tensione degli esercizi col doccia schiuma, senza mai aprire gli occhi, ma continuando a beneficiare delle gocce che tracciavano ogni curva del suo corpo statuario. Solo uscendo dalla cabina di rese conto che aveva completamente dimenticato il mondo intorno annullandosi sotto la forza depuratrice dell’acqua. Non si era nemmeno accorto che dalla cucina saliva un profumo di passato e di amore: Cora aveva appena sfornato dei muffin al limone.

 

Per tutta la settimana i due fratelli furono occupati nella preparazione fisica alla trasformazione completa in lupo, tra alti e bassi, alcuni successi e tanti muffin al limone. Derek aveva ormai imparato a distinguere le diverse parti del viso, aveva imparato a far crescere le orecchie ma a non le basette, a sfoderare le zanne ma non gli artigli. Si era reso conto di poter incrementare in pochi secondi la quantità e il colore dei peli sulle braccia e un giorno era riuscito addirittura a trasformarli in una vera e propria pelliccia, anche se solo per qualche secondo. Non era raro, però, che Derek passasse pomeriggi interi a concentrarsi su un certo movimento e non riuscisse a replicarlo come un vero lupo. Erano quelli i momenti in cui Cora doveva stare più attenta e in cui doveva soppesare molto bene le parole: Derek era più fragile e anche un gesto poteva rovinare tutti gli sforzi che stavano compiendo. Era capitato più di una volta che Derek avesse ringhiato frustrato, minacciando di lasciare tutto, dicendo che non era adatto e che non era all’altezza della situazione. Con estrema pazienza Cora si trovava a dover bilanciare una certa risolutezza con una buona dose di comprensione: atteggiamento molto complesso, per cui era successo anche che Cora abbandonasse la sessione di allenamento per una corsa e un ruggito liberatorio nel bosco, lasciando Derek ai suoi pensieri. Quando però i due fratelli si ritrovavano a cena insieme, discutevano sempre apertamente della giornata di lavoro, valutando i lati positivi e quelli negativi, sempre alla ricerca della maniera migliore per proseguire.

 

Dopo più di due settimane i progressi erano stati molti, sentivano che bisognava cogliere il momento e provare a svoltare la situazione ma qualcosa li bloccava ancora, la parte successiva alla trasformazione era un’incognita per entrambi. «Oggi ti trasformi Derek» esordì Cora entrando nel seminterrato e chiudendo di colpo la porta. «Ieri abbiamo detto di non correre, avevamo deciso di…» Derek si girò di scatto, non si aspettava quella proposta dalla ragazza. «Prima o poi dobbiamo farlo e dopotutto i tuoi miglioramenti sono stati notevoli. Almeno proviamo a capire come farlo» ribatté lei decisa, non lasciando nemmeno per un secondo gli occhi del fratello. «Facciamolo» disse allora Derek, strizzandole l’occhio e stemperando un po’ la tensione che si era creata di fronte a quella proposta. «Facciamo così» riprese Cora «tu ora ti siedi lì in quell’angolo, io mi metto in quello opposto. Mettiti comodo, come preferisci, e chiudi gli occhi» continuò, seguendolo con gli occhi mentre ubbidiva ai suoi ordini. «Immagina il tuo lupo. Non un lupo qualsiasi, Derek, il tuo lupo, immaginati lupo» proseguì quindi la ragazza. Derek non era molto convinto che quello fosse il metodo giusto ma non aveva nessuna intenzione di contraddire sua sorella e poi fino ad allora seguirla era stata la scelta giusta. Appena chiuse le palpebre e le strinse leggermente per concentrarsi meglio, un’immagine gli si materializzò nel cervello. Un maestoso lupo camminava a pochi metri da lui, avanzava senza fretta, per dargli il tempo di ammirarlo in ogni minimo particolare. Era completamente nero, il pelo luccicava nonostante lo scenario fosse buio, perché era il lupo stesso ad emanare una luce soffusa. Non era molto grande, aveva le zampe sottili e le orecchie ritte, pronte a cogliere qualsiasi pericolo nella vicinanze. Ma la cosa che più catturava l’attenzione di Derek erano gli occhi, blu come il mare in tempesta, come le profondità oceaniche, dimora di creature magnifiche e terribili, sogni e incubi, speranze e paure. Il lupo si sedette a pochi passi da lui, muovendo a destra e sinistra un paio di volte una coda folta e lunga. «Quello sei tu, devi solo crederci, Derek» la voce di Cora gli era giunta come da lontano, inserendosi perfettamente in quel gioco di sguardi che non si era mai interrotto da quando il maestoso lupo nero era arrivato camminando piano verso di lui. Cora vide il ragazzo irrigidire i muscoli e serrare la mascella, mentre un tremore gli scuoteva le membra. «Sii lupo ma resta umano, Derek, ricorda quello che ci siamo detti» il tono della ragazza tradiva un po’ di nervosismo, non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se la parte animalesca avesse avuto il sopravvento, forse il fratello avrebbe anche potuto non riconoscerla. Derek intanto non aveva mai lasciato il contatto visivo con l’animale, che continuava a rimanere pacificamente seduto, in attesa. In attesa di cosa? Derek voleva raggiungerlo, interrogarlo, ma si sentiva bloccato e impotente.

 

Improvvisamente Cora vide gli artigli scattare, le orecchie crescere e spuntare i canini. I peli sulla braccia e sulle gambe, scoperte dai soliti pantaloncini corti, aumentarono in numero e divennero più scuri e lunghi. In un attimo la fisionomia umana scomparve, lasciando spazio ad un animale nobile e fiero nel suo portamento. Il lupo aprì gli occhi e li puntò in quelli di Cora, che nel frattempo si era alzata di scatto, portandosi la mano alla bocca, colpita dalla bellezza e dalla magnificenza dell’animale, che incuteva timore rispetto allo stesso tempo: erano un paio di occhi blu, blu come quelli di Derek, belli come quelli di Derek e se possibile anche di più. «D-Derek?» balbettò la ragazza senza fiato. In risposta il lupo alzò il muso verso il cielo, intonando un lungo e profondo ululato, un ululato di soddisfazione e orgoglio, dimostrando che in quel corpo di lupo l’umano era ancora presente e vigile. «Sei stupendo!!» urlò Cora, finalmente tranquillizzata, permettendosi di saltargli al collo per affondare le dita nel pelo folto e morbido. «Ok ok, tutto questo è grandioso, ora prova a tornare umano, dovrei avere qui i tuoi vestiti di ricambio…» proseguì lei, aggirandosi per la stanza alla ricerca della maglia e del pantaloni che tenevano per il giorno in cui Derek fosse riuscito a trasformarsi. Quando Cora si girò trionfante con i capi di vestiario in mano, si ritrovò davanti lo stesso lupo di prima. «Dai, Derek, dev’essere una figata essere lupo, ma per piacere torna tra gli umani e andiamo a festeggiare. Domani ci riproveremo, non affrettiamo le cose» disse abbassando il tono di voce, mentre un terribile presentimento aleggiava nell’aria. «Perché tu riesci a tornare umano, vero Derek??» chiese alzando il tono di voce Cora. Ma la domanda cadde nel silenzio della stanza, mentre il lupo vi si sedeva al centro, abbassando le orecchie e chiudendo piano gli occhi, per poi puntarli di nuovo in quelli di Cora, come in una silenziosa e disperata richiesta d’aiuto. «N-Non è possibile…» disse la ragazza, trattenendo a stento in gola un singhiozzo.

 

Derek era diventato un lupo completo e non sapeva più come tornare un uomo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Reinventarsi ***


CAPITOLO 2: Reinventarsi

 

Derek era perfettamente cosciente. Poteva pensare come faceva fino ad un minuto prima, i suoi sensi continuavano perfettamente a funzionare, anzi se possibile si erano acuiti. Ma il suo corpo era bloccato in quello del lupo. Non aveva idea di come fosse riuscito a trasformarsi e non aveva quindi idea di come invertire il processo.

 

Aveva chiuso gli occhi, come aveva detto Cora, e aveva visualizzato il lupo. L’aveva visualizzato proprio come se ce l’avesse davanti, era stato ad un passo dal toccarlo. Poi le sue sensazioni erano state quelle che provava di solito durante la trasformazione: un tremore interno, che scuoteva ogni parte del suo corpo, i muscoli tesi, che si scaldavano improvvisamente. Aveva tenuto gli occhi chiusi, senza mai perdere di vista l’immagine del lupo seduto davanti a sé, ed era quasi certo di essersi alzato in piedi…cioè, sulle zampe. Tanti piccoli particolari gli avevano fatto capire che probabilmente era riuscito nel suo intento, ma aveva continuato a tenere le palpebre serrate, in attesa di indicazioni dalla sorella. Tutti i suoi sensi inviavano al cervello segnali molto più precisi del solito: nonostante la stanza fosse insonorizzata, Derek poteva percepire una macchina appena passata sulla strada che costeggiava il loro appartamento; poteva sentire anche il profumo fruttato che aveva regalato a Cora e che lei indossava nelle giornate in cui era particolarmente felice. Ad un certo punto però non ce l’aveva più fatta e aveva aperto gli occhi.

 

Era un lupo, ora ne aveva la certezza.

 

Doveva avere gli occhi blu, quasi sicuramente. Si ritrovò a guardare il mondo da un’altezza strana, come se fosse a carponi. Abbassò lo sguardo sulle zampe, il manto nero corvino era folto e ben distribuito, un po’ più abbondante verso la punta, a creare un grazioso batuffolo di pelo alle estremità degli arti. La vista era abbastanza sviluppata, anche se non come tutti gli altri sensi. Ciò che si ritrovò davanti fu la stessa stanza, le stesse pareti e gli stessi oggetti che lo avevano accompagnato durante le settimane di allenamento. Davanti a lui, Cora aveva le lacrime agli occhi dalla gioia e dall’orgoglio, anche se Derek poteva fiutare una leggera paura, come se non capisse quanto potesse fidarsi dell’animale che le si parava di fronte. Incapace di comunicarle oralmente che lui era sempre suo fratello e che nulla era cambiato nei suoi atteggiamenti, fece ciò che avevano concordato per il fatidico momento, un segnale che potesse metterli in contatto nonostante l’assenza di parole. Inarcò all’indietro il collo, alzando maestosamente la testa e ululò come solo un vero lupo sa fare. In quell’ululato non c’era solo un segnale per Cora, in quel gesto c’era l’orgoglio risanato di un figlio che non si era mai sentito all’altezza, che si era sentito colpevole di ogni cosa, che aveva perso tutto senza sapere come rialzarsi. Il tempo aveva giocato a suo sfavore ma sapeva che tutta la sua famiglia sarebbe stata fiera del lupo che aveva saputo diventare.

 

Il richiamo roco doveva aver convinto Cora, che finalmente gli si gettò al collo, senza più trattenere le lacrime che le erano salite agli occhi qualche secondo prima, mentre balbettava incerta il nome del fratello. Sentire le braccia e le lacrime calde di Cora sul suo pelo aveva scaldato il petto di Derek, facendolo sentire ancora più fiero. Non aveva mai visto gli occhi di Cora brillare più intensamente, mentre lampeggiavano dal marrone caldo al giallo, segno che la sua parte animale voleva entrare in sintonia col fratello. Derek non poteva sentirsi meglio, ma c’era qualcosa che non andava: nell’euforia del primo momento successivo alla trasformazione non se n’era reso conto ma c’era qualcosa che gli sfuggiva e che stava facendo svanire la felicità nei suoi occhi. Per un attimo Derek si era sentito un lupo, un lupo vero, e la parte animale aveva completamente sopraffatto quella umana. Ma Derek era un licantropo e non poteva dimenticare di essere prima di tutto un uomo. Come sarebbe tornato indietro?

 

Mentre una marea di emozioni contrastanti invadevano il cuore e la mente di Derek, Cora si mosse rapida per la stanza alla ricerca del cambio di vestiti, incitando il fratello a tornare umano. Ma Derek non poteva, non sapeva come farlo, non sapeva come esprimersi. Voleva gridare aiuto ed era muto. Sentì distintamente il battito cardiaco accelerare, pulsargli nelle orecchie e stordire i suoi sensi. Quello era l’ultimo momento in cui poteva farsi prendere da un attacco di panico. Vide Cora sbiancare quando capì la situazione e soffocare un grido in gola tappandosi la bocca, mentre le guance le si chiazzavano di rosso. A Derek cedettero le zampe e si ritrovò seduto a chiudere e riaprire gli occhi in una silenziosa richiesta d’aiuto nell’unica lingua che poteva al momento utilizzare. Il silenzio che rimase sospeso nell’aria per i successivi minuti raggelò il sangue di entrambi i fratelli. Non avrebbero mai dovuto forzare le regole del mondo sovrannaturale senza avere la giusta preparazione e ora si trovavano soli a fronteggiare un caos che non sapevano come avevano scatenato.

 

«È la quarta volta, Derek! Non sei più giustificato!!» sbottò irritata Cora, chinandosi per raccogliere i cocci infranti del suo bicchiere preferito, dopo aver visto sfrecciare via veloce la coda nera del lupo. «Era pure il mio preferito, questo!» piagnucolò la ragazza. In risposta ricevette un mugolio basso, che esprimeva un po’ di senso di colpa ma che nascondeva un pizzico di divertimento. «Dimentichi forse che posso fiutare ancora le tue emozioni?» e inspirò a lungo l’aria della stanza «Almeno nascondi meglio il fatto che ti sei divertito a farlo apposta!» urlò furiosa la ragazza. Derek scelse la via della fuga, con Cora discutere non era mai servito a nulla e senza poterne parlare la disfatta sarebbe stata totale e su tutti i fronti. Si sarebbe ritrovato legato a catena nel seminterrato e siccome quella settimana gli era già capitato tre volte preferì darsela a gambe.

 

Il nuovo tipo di convivenza dei due fratelli non era per nulla semplice o naturale e tanto meno sereno o pacifico. Derek era comunque diventato un impegno imprevisto a cui Cora non sapeva esattamente come far fronte. Stava frequentando l’ultimo anno di liceo alla Beacon Hills High School e quando non era presa dalle lezioni veniva assorbita dallo studio. Era una studentessa modello, che puntava molto in alto e raggiungeva ogni obiettivo prefissato. Nonostante la spiccata intelligenza aveva deciso di non iscriversi ad alcun college, sarebbe rimasta vicina a Derek perché era l’unica famiglia che le restava. Questo aveva fatto male a Derek, perché lui aveva sempre sognato che Cora andasse al college e riuscisse a coronare tutti i suoi sogni ma le era stato grato per quella decisione. Comunque Cora aveva un grande sogno che la teneva vicina al fratello, quello di aprire un hotel nella loro città e sapeva già dove sarebbe sorto: dalle ceneri di casa Hale. Il terreno era loro e avevano già rifiutato numerose offerte per poter costruire proprio lì “Hale Phoenix”. Come una fenice che risorge dalle sue ceneri, gli Hale rimasti a Beacon Hills avrebbero dimostrato la forza della loro famiglia che non poteva essere abbattuta nemmeno dalla cattiveria e dalla perfidia dei cacciatori. Derek era orgoglioso di questo progetto di Cora, soprattutto perché lui era un tipo che di carattere avrebbe evitato di mettersi in vista o di esporsi in modo così palese ma ammirava il fatto che sua sorella sapesse farlo con tanta naturalezza. E un po’ le invidiava questo lato del carattere. Derek pensava mille volte prima di agire e tante volte alla millesima volta decideva di non fare nulla mentre avrebbe voluto imparare a buttarsi con entusiasmo nella vita come sapeva fare Cora. Questa peculiarità le aveva creato anche numerosi guai, ma a cosa serve un fratello maggiore altrimenti?

 

Derek corse fuori dalla porta della cucina, infilandosi di cacciata nel corridoio ed entrando nella sua stanza saltò con un solo balzo sul letto. Da un lato non gli dispiaceva essere un lupo, aveva ormai cominciato ad abituarsi all’idea. Per quanto riguardava il lavoro, si era, come da copione, appena licenziato da un piccolo bar fuori città, dove il legno del parquet puzzava di marcio e la clientela abituale era formata quasi esclusivamente da ubriaconi e camionisti di passaggio. Vedere tutti i giorni quegli uomini grassi e unti aveva, dopo tre mesi, messo quasi in discussione il suo orientamento sessuale decisamente poco etero, nonostante il suo fisico gridasse “macho man” da ogni poro. Certo, se la gente avesse saputo come si era reso conto della sua omosessualità solo un anno prima… Comunque, per un po’ si sarebbe preso una pausa dal lavoro e questo non poteva che renderlo felice. Non sapeva come fosse possibile, ma riusciva a finire sempre più in basso nella sua classifica personale di lavori degradanti e poco gratificanti. Inoltre, parlare con le persone non era mai stato il suo forte, quindi quella era probabilmente la facoltà umana che meno gli mancava. L’autonomia di spostamenti era stata decisamente ridotta, poiché Cora si fidava a liberarlo nel bosco la mattina ma era costretta a richiuderlo in casa quando si avviava a scuola, dato che ormai abitavano quasi in centro città. Inoltre, quando i vicini avevano visto il primo giorno Cora uscire di casa con un grosso lupo nero al guinzaglio, la ragazza era stata costretta ad imbastire imbarazzata una storia su come Derek fosse improvvisamente partito per un lavoro sulla costa californiana e le avesse comprato un cane lupo per farle compagnia. «È davvero un esemplare magnifico, avrei giurato che fosse un vero lupo» esclamò estasiata Melissa, la signora che viveva al piano di sopra, un’infermiera dell’ospedale della città. «Derek ha proprio un buon occhio per questo genere di cani» replicò Cora, tamburellando con la punta delle dita sulla testa dell’animale, ringraziandolo per averla messa in quella imbarazzante situazione. «E pensi che voleva che lo chiamassi Estrema Riluttanza» proseguì divertita la ragazza. Alla vista dello sguardo interrogativo della donna precisò «Diceva che così mi avrebbe lasciata con Estrema Riluttanza!» e scoppiò a ridere, immediatamente seguita dalla sua interlocutrice. Quando, massaggiandosi lo stomaco, cercarono di trattenere le ultime risate, Cora aggiunse «Non si preoccupi, l’ho colpito con un mestolo quando me l’ha detto! Buona giornata signora McCall!». Appena Melissa svoltò l’angolo Derek lasciò un piccolo morso sul ginocchio di Cora, che subito lanciò un gridolino soffocato e cercò di incenerirlo con lo sguardo. «Alla fine come l’hai chiamato, allora??» chiese Melissa, ributtando la testa nel corridoio con un sorriso furbo sulle labbra. «Derek!» urlò proprio in quel momento Cora rivolta al lupo. «Ah beh, la fantasia in famiglia non vi manca» e con una risatina sgattaiolò verso il portone d’ingresso della palazzina.

 

Derek odiava il guinzaglio che Cora lo costringeva a portare fino al limitare del bosco e che lui mordeva con insistenza convinto che prima o poi lo avrebbe tranciato del tutto. Chiamarlo guinzaglio poi era fargli un complimento: era una corda che avevano recuperato nel seminterrato, vecchia e un po’ logora, dettaglio che aiutava Derek nella sua missione. Non avendo mai avuto animali per casa, i due Hale si erano dovuti arrangiare con quello che avevano in casa. Così una corda era diventata un guinzaglio, un paio di vecchie terrine le ciotole di acqua e cibo, un plaid invernale copriva le lenzuola del letto. Solo su una cosa Derek era stato intransigente e lo aveva dimostrato in maniera molto esplicita: quando infatti aveva letto “croccantini Derek” sulla lavagnetta dove erano soliti annotare le spese da fare nel fine settimana, il lupo aveva fissato a lungo Cora, emettendo nello stesso tempo un ringhio basso e sordo, parecchio minaccioso, fino a che lei non l’aveva cancellato sbuffando. «Ma io non so cosa mangia un lupo!» si era lamentata lei, mentre Derek alzando le labbra e mostrando leggermente le zanne le aveva chiaramente fatto capire che avrebbe mangiato sempre le solite cose.

 

Quello che però stavano riscoprendo i due fratelli grazie a questo inconveniente era quanto si potesse parlare senza usare le parole. Dopo i primi giorni in cui avevano dovuto abituarsi all’idea di quello che era successo e avevano dovuto ristabilire certe regole (dopo la corsa nel bosco a Derek non era permesso di salire su letti o divani, non poteva mangiare sulla tavola, piuttosto Cora si sedeva a gambe incrociate per terra accanto a lui) i due avevano cominciato ad apprezzare la nuova forma di Derek. Il lupo si accoccolava tutte le sere tra le gambe di Cora e lei gli lisciava teneramente il pelo, mentre guardavano un film. A volte capitava che semplicemente restassero uno accanto all’altra, nella luce soffusa del tramonto, ognuno sprofondato nei propri pensieri. Spesso si addormentavano abbracciati, e quando capitava che Derek si svegliasse prima della sorella era solito puntare il naso freddo e umido sulla parte interna del polso di lei, per risvegliarla dolcemente, non voleva per nulla al mondo che trascurasse la scuola il giorno successivo. Altri giorni, brutti pensieri attraversavano la mente di Derek, che non mancava di chiedersi quanto tutto questo sarebbe finito, o se mai sarebbe finito. Non riuscendo a prendere sonno amava osservare Cora addormentarsi, rallentando il respiro e rilassando le dita che di solito si ancoravano saldamente al pelo sul collo del lupo. Era così importante per lui averla accanto e in nessun modo la riteneva responsabile di ciò che era accaduto. Rimaneva ore ad ascoltare i suoi battiti cardiaci e si addormentava solo quando la vedeva sorridere nel sonno.

 

La vera libertà Derek poteva sperimentarla solo nel bosco, il comune denominatore della vita da licantropo passata e di quella da lupo presente. Correva rapido, divertendosi a schivare gli alberi all’ultimo, superando con agili balzi i tronchi. Lo faceva in compagnia di Cora quasi tutti i giorni di mattina, ma alle volte la sorella preferiva aspettarlo dove la boscaglia si infittiva per ripassare le ultime cose prima della scuola. Derek sapeva che sarebbe stata preparatissima anche senza quell’ulteriore ripasso ma acconsentiva a proseguire da solo comunque, sapeva che quel tipo di routine le dava sicurezza. Prima di partire però il lupo non dimenticava mai di leccarle giocosamente il viso, o sulla punta del naso o sotto uno zigomo, e tutte le volte Cora fingeva di offendersi e minacciava il fratello di legarlo nel seminterrato “come i primi giorni in cui mi facevi arrabbiare e rompevi tutti i bicchieri con quella maledetta coda”, come amava ripetere lei. Quello che Cora non sapeva era che Derek a quelle parole scappava ma si fermava poco distante, non visto, per ammirare come Cora si passava la mano sulla parte del viso leccata con un sorriso radioso. Subito dopo Derek partiva al galoppo verso il bosco e correva fino a finire l’aria nei polmoni. Solo allora si fermava, di solito presso un laghetto sconosciuto ai più dove si abbeverava e approfittava di inspirare a fondo l’odore della foresta: sentiva il penetrante odore del pino, che quasi pizzicava in gola, quello intenso del legno bagnato e spesso anche quello inconfondibile della pioggia che si preparava a scrosciare senza eccessivo preavviso.

 

Anche quella mattina Derek lo sentì e corse più veloce che poté per avvertire la sorella, che ripassava chimica all’ombra di una quercia secolare. Quando Cora capì che stava per scoppiare una tempesta, corse veloce con il lupo verso casa. Nonostante tutto si ritrovarono a cinquecento metri da casa davanti ad un muro d’acqua e senza la possibilità di rifugiarsi da nessuna parte. Raggiunsero l’atrio del condominio completamente zuppi e lanciarono un sguardo scocciato alla dannata nuvola che aveva deciso di lavarli dalla testa ai piedi, mentre la pioggia scemava e un irritante arcobaleno congiungeva terra e nuvole. Nulla di poetico per due come loro. «Cazzo, ho compito alla prima ora, Harris mi ucciderà se arrivo in questo stato!» urlò Cora, completamente nel panico, rovistando nelle tasche alla ricerca della chiavi di casa. Una volta entrati, Derek cercò di aiutarla a prendere dei vestiti puliti ma combinò solo guai: cercò di afferrare una maglia dal cassetto in camera di Cora ma con le zanne che si ritrovava ne prese tre, due le bucò, mentre la terza la pestò con le zampe infangate. Gli ultimi minuti Cora li perse a imbastire qualche avanzo di cibo da dare a Derek visto che aveva un lezioni tutta la giornata e prima delle quattro del pomeriggio non sarebbe ritornata. Dopo averla vista volare via di casa come un fulmine, Derek la vide rientrare tre quarti d’ora più tardi, con una faccia che toccava terra. «Avevano ormai cominciato il compito da venti minuti, Harris non mi ha fatto nemmeno entrare in classe. Mi ha solo detto “Si tolga quel rametto dai capelli la prossima volta che verrà a fare questo test…dopotutto ha molto tempo, visto che oggi per quanto mi riguarda può tranquillamente tornare a casa”. Che stronzo!» disse irritata mentre si strappava il ciuffo di capelli in cui si era incastrato il rametto. Si gettò sconsolata sul divano e Derek si limitò a uggiolare piano, tenendo il muso posato sulla spalla di lei: sapeva di non poter salire sui divani ma voleva esserle vicino, soprattutto quando lei cominciò a singhiozzare sommessamente, tenendo gli occhi chiusi. Il lupo spinse ancora di più il muso verso il suo viso e posò il naso sulla sua giugulare, per cercare di rallentarle il battito cardiaco. Lei fece scivolare la sua mano sulla massiccia testa del lupo, intrecciando le sue dita nel pelo folto e scuro. «Sai che non possiamo proseguire così molto a lungo. Ci sto provando ma non è per nulla facile conciliare lo studio e l’impegno con te. Sai che ci serve una mano…» cominciò Cora, abbassando il tono della voce verso la fine della frase. Derek in risposta assunse un’aria interrogativa e inclinò la testa tirando indietro le orecchie, sapeva che la parte successiva del discorso non gli sarebbe piaciuta. «…una persona che ti porti fuori, ti faccia da mangiare…sì dai, Derek, lo sai, un dog sitter…» accennò piano Cora, senza fissare gli occhi direttamente in quelli di Derek, ma studiando di sottecchi la sua reazione a quella proposta. Sapeva già che il fratello non l’avrebbe presa bene, già Derek si sentiva un peso, l’idea di dover assumere una persona che si occupasse di lui lo avrebbe sicuramente umiliato, ma entrambi sapevano che la situazione era diventata ingestibile e per ora nessuno poteva sapere quanto sarebbe durata quella condizione. Com’era prevedibile, Derek non emise alcun suono, semplicemente si avviò in camera sua e Cora non lo vide per tutto il giorno.

 

Derek era diviso, spaccato a metà: se non fosse bastato il fatto che era bloccato per un tempo indefinito nel suo corpo, ora si aggiungeva umiliazione all’umiliazione. Un dog sitter, davvero? Era quella l’unica soluzione? Effettivamente lui non riusciva a pensare a qualcosa di diverso e il senso di colpa di aver fatto perdere una verifica a Cora gli pesava molto. Oggi una verifica, chissà domani a cosa avrebbe dovuto rinunciare la sorella per lui. Non poteva permetterlo, perché davanti al suo orgoglio stava la felicità di Cora. Ma quanto era difficile accettare quel compromesso e tutta quella situazione. Derek aveva una dignità, non era un cane! Eppure sapeva che avrebbe dovuto accettare di essere trattato come tale, per di più da un estraneo. Perché fino ad allora Cora era stata molto delicata sull’argomento e per quanto possibile aveva continuato ad interagire con lui come faceva quando erano entrambi umani. Allo stesso tempo, aveva avviato ricerche su internet per capire come invertire il processo, ma aveva sempre l’accortezza di non sovraccaricare Derek di notizie, speranze o illusioni. Sembrava che a nessuno o quasi fosse successa una cosa simile e le poche informazioni che aveva potuto raccogliere erano parecchio discordanti sulle tecniche e sui risultati, nessuno ne assicurava la riuscita. Nonostante tutto Cora continuava a perseguire il suo obiettivo e Derek voleva fare la sua parte: avrebbe accettato un dog sitter, solo per aiutare la sorella con i suoi impegni e lasciarle il tempo di proseguire gli studi e le indagini. Quando riemerse dalla confusa nebbia di pensieri che lo aveva avvolto per ore un odore familiare gli arrivò a solleticare le narici e gli fece brontolare lo stomaco: i famosi muffin al limone di Cora erano pronti. Derek non perse un attimo e corse in cucina, travolgendo la sorella da dietro e leccandole con foga il viso, in un silenzioso ringraziamento per ogni piccola attenzione che si prodigava ad dargli e in un tacito assenso alla proposta di qualche ora prima.

 

«Sì, pronto…?» Cora era un po’ agitata, Derek lo poteva percepire fin dalla voce. «Parlo con St-Stile-Stiles Stil-Stilinski? Scusi è davvero un nome??» Pausa. «Sì, scusi non volevo essere sgarbata, ha ragione» Pausa. «La chiamavo perché ho preso il suo numero alla tabaccheria in centro. Volevo sapere se posso affidarle il mio cane» Pausa. Un po’ più lunga. «Certo che è un cane buono!» Un calcio a Derek che stava mordicchiando il bordo della canottiera di Cora. Pausa. «Grande? Nah, non particolarmente…magari potremmo vederci per definire i dettagli e gli orari» Pausa. Proposta. «Perfetto! Allora ci vediamo da me. Noi abitiamo nel grande palazzo dietro l’ospedale, ha presente la via…» Pausa lunga. «Ah beh, se conosce la signora McCall allora andiamo a nozze! Noi…sì, io e il mio cane, stiamo nell’appartamento sotto, all’interno 7. Benissimo, allora a domani Stiles!» Un’ultima pausa. «Il cane? Ah sì, si chiama Derek, che nome buffo per un cane, eh?» Derek sperava tanto che l’unica a ridere fosse stata Cora.

 

«Ho un colloquio di lavoro!!» Stiles cominciò a saltare e urlare per tutta la casa, facendo svegliare suo padre che riposava sul divano dopo il turno di notte. «Che male ho fatto per meritare un figlio iperattivo?» si chiese l’uomo con la voce ancora impastata dal sonno. «Ah, papà sei sveglio? Oh, ti ho svegliato io? Scusa ma questa notizia è troppo importante!» continuò imperterrito, mentre si gettava sul divano accanto al padre. «Allora, sai che sto cercando lavoro visto che non ho voluto fare il college? Ecco, Scott l’altro giorno mi ha detto “Perché non fai il dog sitter visto che ti piacciono i cani?” E io mi sono detto “Che ho da perdere?” Insomma, ho appeso un annuncio in centro e indovina? Ho già un cliente! Ci credi??» Stiles condì tutto il discorso con gesti febbrili, mentre suo padre si stropicciava il viso cercando di connettere il cervello. «Sono contento per te, figliolo» disse infine «Non è esattamente quello che pensavo per te come lavoro di una vita, però per raccogliere un po’ di soldi e diventare indipendente è un primo passo. Quindi vedi di fare bella figura e di non tornare a casa a brandelli!» concluse con una sonora pacca sulla spalla.

 

«Verrà qui domani, sembra professionale, dice che deve vederti “nel tuo habitat”» spiegò Cora, facendo il tipico gesto delle virgolette in aria, distendendo e piegando l’indice e il medio di entrambe le mani, gesto che irritava terribilmente Derek. Cora lo sapeva e lo faceva apposta, ghignando divertita. Cercò di decifrare l’espressione del fratello ma non fu molto difficile intuirla: anche da lupo, roteava gli occhi nello stesso modo. «E ti prego, Derek, era quello con la tariffa più bassa, so che non abbiamo problemi economici ma sai che vorrei tenere quanti più risparmi possibili per l’hotel. Quindi fattelo andare bene, non cominciare a sbuffare o a mordere. Insomma non dare di matto, fattelo piacere. E ti scongiuro, sii un cane, non un lupo, oppure nessuno vorrà prendersi cura di te. Questo vuol dire» e qui lo fissò severa e categorica, sfoderando addirittura gli occhi da Beta «niente ululati o zanne affilate» concluse senza lasciare gli occhi azzurri del lupo, in attesa di una risposta. Lui li chiuse piano e infilò la testa pelosa sotto la mano di Cora, in cerca di carezze. «Forse non ti interesserà un po’ di gossip, ma ha solo un anno più di me, si è appena diplomato ed è il figlio dello sceriffo. Magari è pure carino…» miagolò Cora lanciando uno sguardo eloquente a Derek. Lui le rispose con uno sguardo interrogativo, non si era mai posto il problema di affibbiare un volto al famoso figlio dello sceriffo. E ora sapere che gli avrebbe fatto da balia per chissà quanto tempo non lo entusiasmava per nulla, anzi, tutte queste informazioni lo stavano solo portando a non sopportare l’intera situazione più di quanto non facesse già prima. Non potendo esprimere tutto il suo disappunto a parole, si limitò a sbuffare dal naso e ad andare ad accoccolarsi al centro del soggiorno. Il giorno successivo sarebbe stato davvero molto molto lungo. Quello che Derek sospettava era che a Cora questo Stiles (voleva proprio sapere che persona crudele potesse dare un nome del genere a suo figlio) piacesse già. Ma non era interessata in quel senso, certo che no, era ben nota la bisessualità del figlio dello sceriffo in città. Il terrore di Derek era che Cora e Stiles fossero un po’ lo stesso genere di persona, quella che sapeva farlo innervosire e mandarlo fuori dai gangheri con un solo sguardo. Derek se lo sentiva, quei due erano uguali e sarebbero andati subito d’accordo. Derek era spacciato.

 

Il campanello dell’appartamento Hale trillò tre volte, un suono a brevissima distanza dall’altro. Non era stato accidentale, Derek aveva già capito che quello era il modo di suonare il campanello di Stiles, una specie di tripla bussata alla Sheldon Cooper, e la cosa non poté che infastidirlo. «Vuoi smetterla di emanare agitazione? Non ne posso più di questo odore nel naso» sbottò Cora per l’ennesima volta. «Sei peggio dei bambini che attendono a vedere se il loro futuro baby sitter sarà più simile ad un’arpia o a Mary Poppins. Sei infantile» E lanciò il canovaccio sul bordo del lavello andando verso la porta. Derek preferì non farsi vedere subito, attese che Cora aprisse la porta e facesse accomodare l’ospite in cucina, mentre il lupo utilizzava i suoi sensi da licantropo per studiare la situazione dalle retrovie e provare a capire cosa aspettarsi da quel ragazzo. La prima cosa che catturò la sua attenzione fu il profumo che invase l’appartamento non appena Stiles varcò la soglia. Era emozionato ed un po’ agitato, probabilmente era uno dei suoi primi lavori e non gli era capitato spesso di essere chiamato per quell’annuncio. Aveva un odore leggero e fresco, come quello dei panni appena usciti dalla lavatrice e si era messo un po’ di profumo che sapeva di bosco, giusto un po’ sui polsi e sul collo. Possibile che gli sembrasse di aver già sentito quell’odore? Non era possibile, sicuramente stava confondendolo con qualcun altro. La voce, quella era cristallina, ancora in fase di leggero incupimento, tipico dei ragazzi che come lui si avviavano ai vent’anni uscendo definitivamente dall’adolescenza. Teneva un tono di voce un po’ troppo alto, forse per cercare di nascondere il leggero tremolio che mal celava il suo stato d’animo. Dopo le dovute presentazioni – Stiles lasciò intuire che sapeva bene chi fossero gli Hale, ma solo di nome vista la professione del padre – Cora propose un primo incontro con Derek. «L’hai davvero chiamato come tuo fratello?» chiese trattenendosi dal ridere il ragazzo. «Mi mancava troppo urlare il suo nome in giro per la casa» ribatté Cora con una risata nasale. «Vieni pure Stiles, dev’essere qui in salotto» continuò la ragazza mentre Derek li sentiva arrivare. Fu preso dal panico, non sapeva come sembrare indifferente ai loro discorsi, non sapeva ancora bene calarsi nella parte di “cane da appartamento”. Si distese davanti alla televisione e cercò di sembrare disinteressato, evitando di fissare lo sguardo sulla porta da cui stavano entrando i due. «Ehi, ma questo è un lupo!» gridò Stiles, bloccandosi sulla porta. «Ma no, è un cane lupo, un incrocio. E poi è buonissimo…» cercò di spiegare Cora. Solo in quel momento Derek mise la faccia più angelica che poté e girò lo sguardo verso il suo futuro dog sitter. Non avrebbe mai voluto farlo, perché appena i suoi occhi azzurri incontrarono quelli color caramello di Stiles Derek si rese conto di conoscere quel viso. Lui aveva già incontrato Stiles. Forse era meglio dire che si era scontrato con Stiles. Ricordava benissimo cosa fosse successo con Stiles. Se i lupi potessero arrossire, Derek sarebbe diventato bordeaux.

 

Note finali: Lo scambio di battute tra Cora e Melissa sul nome del lupo è ripreso da una striscia del fumetto “Peanuts” di Charles Schulz. Adoro quei fumetti e mi sembrava adatta alla situazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Non ti ho scordato ***


Note iniziali: Ciao a tutti, siamo arrivati al terzo capitolo! Prima di lasciarvi alla lettura volevo aggiungere solo due cose. La prima è che questo capitolo è un lungo flashback su quando, dove e come Stiles e Derek si sono incontrati per la prima volta. La seconda è che vorrei ringraziare con tutto il cuore le persone che stanno leggendo la storia in silenzio, che l’hanno messa tra i preferiti, che la stanno seguendo e che l’hanno recensita. Non mi aspettavo una reazione così calorosa, sappiate che siete la mia gioia! Sapere che vi piace quanto è piaciuto a me scriverla è la sensazione più bella. Semplicemente grazie a tutti!

 

 

CAPITOLO 3: Non ti ho scordato

 

Era passato circa un anno da quella sera, ma Derek se la ricordava ancora bene, i ricordi e le sensazioni erano vivide nella sua memoria. Era stato scaricato per l’ennesima da una donna, ormai sembrava averci fatto il callo, cercava di farsi scalfire sempre meno da quelle persone che lo utilizzavano come “uomo oggetto”. O lo volevano mostrare alle amiche come il Ken di quella settimana e lo lasciavano il weekend successivo, oppure lo utilizzavano come anti stress da una notte e via. Il peggio era che Derek si lasciava fare e continuava ad accettare quella assurda e squallida situazione. La parte triste era che nessuna di quelle donne gli dava nulla, nemmeno nel poco tempo che passava con loro. Le nottate di sesso le trascorreva pensando ad altro e più di qualche volta gli era capitato di essere lasciato mezzo nudo, durante un rapporto, in un appartamento sconosciuto e senza idea di come tornare a casa. Si odiava per quello che stava facendo della sua dignità, ma non riusciva a smettere di accettare quella compagnia, si sentiva terribilmente solo. E si illudeva di provare meno solitudine circondandosi di persone interessate a tutto tranne che a lui.

 

Aveva avuto qualche cotta adolescenziale, nulla di serio, un po’ spinto dal fatto che tutti nella squadra di basket in cui giocava avevano una fidanzata. L’unica con cui fosse scappato un bacio era stata una certa Paige, talentuosissima violoncellista che dopo pochi mesi era partita per fare della musica la sua carriera. Derek non l’aveva più vista né sentita e, con sua grande sorpresa, l’aveva dimenticata velocemente. Sua madre era solita ripetergli che il primo amore non si scorda mai e Derek si era convinto di non aver ancora incontrato il suo primo amore, tutte quelle erano infatuazioni di un momento.

 

Ma quella sera, quella sera Derek non l’aveva più scordata, quel viso non l’aveva più scordato e ora quel ragazzo aveva di nuovo fatto irruzione nella sua vita, con la stessa faccia tosta di un anno prima. Derek era triste di non poter constatare se avesse fatto lo stesso effetto in Stiles, se anche lui non avesse scordato quel momento tutto loro. Nessuno dei due sapeva nulla dell’altro se non il volto. Come aveva potuto non incontrarlo più? Stiles aveva pure detto a Cora che conosceva il loro condominio perché fino a qualche mese prima passava spesso a trovare il suo migliore amico Scott, il figlio della signora McCall del piano di sopra, che ora era partito per il college. Eppure non si erano mai incrociati. Il destino aveva voluto farli rincontrare in una situazione così tragicomica che se non ne fosse stato coinvolto personalmente avrebbe fatto ridere Derek a crepapelle. E ora aveva davanti agli occhi “il ragazzino del bar”, come lo aveva soprannominato quella sera. Perché Derek aveva pensato a quel ragazzo dagli occhi color caramello ben più di qualche sera da un anno a quella parte.

 

Derek sorseggiava il suo drink seduto al bancone. Era al secondo giro e questo non premetteva nulla di buono, nonostante non potesse ubriacarsi in quanto licantropo. Il bar che aveva scelto era abbastanza affollato e non gli piaceva molto ma era il più vicino alla casa della donna con cui era stato quella sera e che lo aveva già lasciato: il tacito accordo era stato mantenuto, quella sera insieme e poi sarebbero ritornati ad essere due estranei. Derek si sentiva particolarmente vuoto in quel periodo, quello stile di vita si stava portando via la parte più vitale di lui. Per svuotare la mente, Derek era solito scrutare la clientela del bar e immaginare cosa avesse portato le persone in quel locale. Un uomo, che poteva aver superato la quarantina ma abbigliato come un trentenne, teneva sensualmente la cannuccia del suo drink tra le labbra, lanciando occhiate languide nei confronti di un gruppo di ragazze sedute ad un tavolo poco distante. “Disgustoso” pensò tra sé e sé Derek, mentre ruotava sullo sgabello per osservare meglio l’altra metà della sala. Un ragazzo e una ragazza, sui venti o al massimo venticinque anni, chiacchieravano e ridacchiavano sgranocchiando delle patatine, seduti ad un tavolino rotondo. Sembravano spensierati e i loro occhi brillavano: erano di sicuro molto innamorati. “Zuccheroso” pensò a mezza voce Derek, ma in fondo in fondo invidiava le persone che sapevano trarre la loro felicità dall’altro, era un gesto di fiducia che per lui in quel momento sembrava impossibile. Infine rivolse lo sguardo ad un gruppo di ragazzi che potevano essere al massimo maggiorenni e che sembravano essere lì per festeggiare il compleanno di uno di loro. Lo individuò presto, abbastanza alto e magro, con una muscolatura appena accennata ma proporzionata per quel corpo filiforme. Rideva senza riuscire a trattenersi, i suoi amici gli dovevano aver appena detto qualcosa di esilarante e le sue mani continuavano a scorrere sullo stomaco, mentre il corpo veniva scosso e si piegava sotto i singhiozzi. Derek lo poteva vedere solo di schiena ma quell’esile figura catturò comunque la sua attenzione, tanto da fargliene studiare meglio i dettagli, mentre mordeva nervosamente la cannuccia del suo drink. Due particolari gli saltarono subito agli occhi: il primo erano i capelli setosi, lucidi e scompigliati sulla nuca, Derek poteva giurare che erano anche morbidi; ma il secondo era il culo piccolo, rotondo e sodo, Derek poteva mettere la mano sul fuoco anche su quel dettaglio. Se solo avesse potuto avere una conferma di quelle supposizioni…

 

A Derek sembrò di svegliarsi da un lungo sonno: da quando faceva fantasie sui capelli e sul sedere di sconosciuti visti in un bar? In realtà non le aveva mai fatte se non su una persona, quel ragazzo di cui non conosceva nulla, nemmeno il volto. Che diavolo! Non sapeva nemmeno se fosse maggiorenne! Ma non riusciva a spegnere il cervello, immaginava come potesse essere in volto quel ragazzino, i tratti del suo viso, il colore degli occhi. Non aveva mai provato un’attrazione simile, nemmeno per una donna. Era rapito dai piccoli movimenti, rapidi e concitati, che scuotevano quel corpo perfetto. Cosa gli stava prendendo? Lui era etero, o così aveva creduto fino a quel momento. Ma le sue certezze stavano per essere sgretolate, mentre la sua parte razionale sprofondava sotto emozioni capaci di far risvegliare una passione mai provata.

 

Sopraffatto completamente in quella marea di sensazioni, perse di vista il ragazzo: i suoi amici erano sempre allo stesso tavolo e sembravano ridacchiare e confabulare, ma lui era sparito. Fino a che Derek non si sentì battere sulla spalla. Trasalì, sapeva che poteva essere solo una persona; si girò cercando di ostentare una calma che non gli apparteneva, non in quel momento. «Sì…?» chiese, vantando sicurezza e mostrandosi un po’ scocciato, alzando visibilmente un sopracciglio. «I miei amici si chiedevano se il mio culo fosse diventato l’ottava meraviglia del mondo, visto come te lo mangiavi con gli occhi» disse sfacciato il ragazzo ma Derek aveva capito metà di quello che aveva detto. Nessuna delle sue precedenti fantasie sul viso di quel ragazzo era nemmeno lontanamente vicine alla bellezza di quella pelle diafana, costellata di piccoli e irregolari nei, della curva del labbro superiore che formava un adorabile cuoricino, del naso leggermente all’insù, piccolo e stretto. La cosa che tuttavia lo catturò più di tutto furono gli occhi: il colore era indescrivibile, virava dall’oro al caramello, le iridi sembravano chiamare Derek, avvolgerlo in un abbraccio caldo e intrigante. Non poteva più staccare gli occhi di dosso da quel ragazzo e sperava di tenerlo vicino per più tempo possibile, il suo profumo era inebriante e distruggeva qualsiasi suo tentativo di essere razionale. Derek stava crollando di fronte a una persona sconosciuta che gli aveva saputo dare più di tutte quelle che avesse mai incontrato. Era terrorizzato ed eccitato e ringraziava di essere l’unica creatura soprannaturale che potesse sentire il battito del suo cuore impazzito. Deglutì a vuoto, più volte, tentando di darsi un contegno. «Scusa e tu chi saresti?» replicò Derek, provando a darsi l’aria del ragazzaccio arrogante. Intanto così avrebbe potuto avere più informazioni su quel ragazzo che lo stava fissando in modo così buffo. In realtà era buffo perché si stava mettendo nuovamente a ridere. Ora che poteva vedere come il viso di quel ragazzo potesse ridere, Derek si sentì mancare l’aria nei polmoni: non solo gli occhi si illuminavano e sembravano sciogliersi nel color ambrato, le labbra di arricciavano in un’ondata di allegria, le sopracciglia si allontanavano dispiegando la fronte e mettendo in evidenza i piccoli nei, gli zigomi si alzavano tanto da arrivare a spingere verso l’alto la pelle sotto gli occhi. Avrebbe passato tutta la vita a sfiorare quel viso, avrebbe pagato qualsiasi cifra per riuscire ad essere il motivo di quella risata cristallina.

 

«Scusa, i-io in realtà» cominciò improvvisamente impacciato il ragazzo «era qualche minuto che mi preparavo questa frase e ora non so che altro dirti. Perché sei pure più sexy di quello che già eri visto da lontano…non so nemmeno se tu sia legale!» confessò senza filtri il giovane. «Questa te l’eri preparata!» lo accusò sorridendo Derek. «No, lo giuro! Questa invece» disse tirando fuori un pacchetto di Oreo dalla tasca dei pantaloni «me l’ero preparata!». Derek lo guardò con aria sconcertata, cercando di dare un senso a quel gesto. «Un Oreo per un bacio, non è ovvio?» decretò il ragazzo. Derek alzò le sopracciglia a tal punto che credette riuscissero a toccare l’attaccatura dei capelli. Amava gli Oreo e probabilmente anche quel ragazzo ma non sapeva nulla di lui, né un nome né l’età e accettare avrebbe voluto dire cedere ai suoi istinti e approfittare della situazione. No, non era decisamente giusto e non era il suo stile; nonostante fosse molto difficile rifiutare, Derek si alzò di scatto dallo sgabello. «Ho detto qualcosa di sbagliato o che ti ha offeso?» l’espressione del ragazzo mutò improvvisamente, tutta la luce che aveva illuminato quel viso scomparve e Derek si sentì morire all’idea di esserne stato la causa. «No, i-io devo andare…mi dispiace…» farfugliò Derek infilando la mano in tasca per depositare due banconote sul bancone per i suoi drink. Non aspettò nemmeno di ricevere il resto e si avviò verso l’uscita, senza guardare più in faccia il ragazzo. Se l’avesse fatto avrebbe finito per baciarlo, ormai l’aveva capito, non poteva resistere a quegli occhi.

 

Senza più volgersi indietro raggiunse a grandi passi la sua Camaro parcheggiata poco lontano. Si fermò davanti al cofano e si piegò appoggiandovi una mano sopra. Che gli prendeva? Aveva il fiatone, il cuore gli stava esplodendo nel petto e la bocca gli si era seccata. Forse cominciava a capire perché non era mai stato veramente interessato alle donne, perché non aveva mai saputo farsi coinvolgere da una relazione. Quel ragazzo sconosciuto gli aveva aperto gli occhi su tutto e lui non l’avrebbe più visto: a Derek si aprì una voragine al centro del petto, sentì l’aria mancargli e le gambe cedergli. Fino a che una mano non gli si appoggiò sulla spalla, per farlo voltare. Il ragazzino del bar era di fronte a lui col sorriso più bello che Derek avesse mai visto, era lì per lui e stringeva ancora in mano quel pacchetto con gli Oreo. Derek non sapeva che dire, ma come prima il ragazzo fu più veloce di lui e riempì il silenzio col suo fiume di parole. «Bastava dirlo che non ti piacevano gli Oreo, non si va via così quando si sta parlando con qualcuno, è da maleducati» lo rimproverò giocoso. «Io adoro gli Oreo» puntualizzò a quel punto Derek e gli strappò di mano il pacchetto, aprendolo davanti al suo naso. «Quasi nessuno sa come si mangiano davvero questi biscotti» cominciò rigirandone uno tra le dita, come se stesse per cominciare una lunga spiegazione. Ma prima ancora che potesse riaprire bocca, il ragazzo davanti a lui avvicinò di scatto il viso a Derek e ingoiò completamente il biscotto, arrivando a mordere la punta delle dita del licantropo. Derek fu così sconvolto da quel gesto che lasciò di colpo l’Oreo, mentre il ragazzo di fronte a lui indietreggiava piano, allentando la presa dei denti sulle dita e leccandole in modo molto lascivo, per poi staccarsene e cominciare a masticare. A conclusione di quel gesto, lo guardò con aria di sfida e strofinò la lingua da un angolo all’altro del labbro superiore: quel ragazzo era la provocazione fatta a persona. A quel punto Derek non seppe più resistere, lasciò che gli istinti agissero al posto suo. Appoggiò entrambe le mani sul viso del ragazzo, premendogli i pollici sugli zigomi e strofinandoli verso fuori, come a cancellare qualsiasi pensiero da quel viso: in quel momento c’erano loro due e nient’altro al mondo. Le loro labbra si unirono come se non ci fosse nulla di più giusto e bello, mentre Derek poteva confermare i suoi sospetti su quanto quelle labbra fossero soffici, morbide e calde, anche se non avrebbe mai potuto immaginare quanto sapessero di buono, con quel retrogusto di Oreo. Il ragazzo era stato preso alla sprovvista ma aveva reagito in maniera naturale e rapida, dimostrando di apprezzare il modo in cui Derek lo baciava. Si spinse più in avanti, facendo indietreggiare il più grande fino a farlo sedere sul cofano della Camaro. Intanto gli faceva scorrere una mano dalla spalla al fianco, mentre l’altra premeva la sua nuca contro la propria. Avevano silenziato il mondo intorno, non erano più Derek e il ragazzo del bar, erano due pezzi dello stesso puzzle, due facce della stessa medaglia, due lati dello stesso Oreo. E quel bacio era la loro crema, quello che li univa indissolubilmente, in modo bellissimo e perfetto e che impediva loro di staccarsi. O peggio di staccarsi senza rompersi. E fu così che si ruppero.

 

La parte razionale di Derek, quella che pensava, pensava tanto, pensava troppo, si destò all’improvviso, mentre le più belle sensazioni della sua vita gli attraversavano il petto come dolci frecce infuocate. Il cervello si rimise in moto con un rombo, provocando quasi un dolore fisico a Derek. Era felice e non accadeva da così tanto tempo che il ragazzo capì di aver superato quel limite e quella distanza che si era ripromesso di mantenere dalle cose belle, per evitare di soffrire. Si ritrovò piegato all’indietro, con un gomito sul cofano della Camaro con un ragazzo di cui non sapeva nulla che lo baciava con foga e capì due cose: che non desiderava altro e che non c’era nulla di più bello e sbagliato. Invece che continuare ad accarezzargli i capelli come stava facendo gli spinse piano indietro una spalla, invece che continuare a prendergli tra i denti le labbra lucide e calde si allontanò da esse. Abbassò lo sguardo, colpevole, incapace di formulare una vera scusa per abbandonare il suo angolo di paradiso. Si stava forzando, si stava facendo del male ma cercava a tutti i costi di convincersi che quel dolore era infinitamente più piccolo di quello che avrebbe provato se si fosse concesso quella felicità. La felicità non faceva per Derek Hale, si era chiuso da tanti, troppi anni nel suo dolore e non sapeva uscirne. Non sapeva cogliere le occasioni, si lasciava sfuggire il meglio della sua giovinezza e conviveva con un opprimente senso di colpa. E non aveva intenzione di trascinare con sé un ragazzo così giovane (non sapeva nemmeno quanto fosse giovane) solo per un capriccio. Doveva soffrire solo lui per entrambi e staccarsi dal magnetismo di quel viso era l’unica soluzione a cui riusciva a pensare. Il ragazzo di fronte a lui doveva aver assunto un’espressione che avrebbe spezzato il cuore a Derek, se solo avesse avuto il coraggio di guardarlo. Ma anche se non lo guardava Derek poteva sentire l’odore della tristezza, un misto di malinconia e senso di colpa che faceva bruciare gli occhi del licantropo. Non aveva mai vissuto un addio così doloroso. Come poteva quel ragazzo essergli entrato dentro in un attimo, come poteva scorrergli già nelle vene come linfa vitale? Derek era spaventato e l’unica cosa che seppe fare fu fuggire dai suoi demoni. «Non posso» disse asciutto e quasi glaciale, per togliersi di dosso il senso di colpa che gli toglieva il respiro. Aveva deluso così tanto quel ragazzo che era riuscito a togliergli il sorriso e ogni parola dalle labbra, lasciandolo in piedi davanti a lui senza sapere cosa controbattere. Derek prese di fretta le chiavi della Camaro dalla tasca, salì al posto di guida e fece manovra per andarsene via, via da tutto quello che gli stava dilaniando il petto. Coi fari illuminò una figura, al centro del parcheggio, con le spalle curve, lo sguardo basso, la testa reclinata: proprio mentre Derek stava per allontanarsi e non vederlo più il giovane alzò gli occhi. L’ultimo ricordo che Derek aveva del “ragazzino del bar” erano i suoi occhi caramello carichi di lacrime. Derek sentì gli occhi bruciare prima di svoltare e ripiombare nel buio dei suoi incubi.

 

Tirò su forte col naso un’altra volta, mentre parcheggiava la Camaro di fronte a casa, e si passò una mano rapida sugli occhi. Non aveva pianto, era rimasto solo nel silenzio della macchina, per l’intero viaggio. Derek non aveva pianto mai, nemmeno quando erano mancata la sua famiglia; nel suo cervello ora regnava solo la confusione. L’unica cosa certa era che doveva darsi un contegno prima di entrare in casa da Cora, non aveva voglia di raccontarle quello che era accaduto, non quella sera. Infilò piano le chiavi nella toppa, erano ormai quasi le due di notte, e richiuse la porta più piano che poté. Trovò Cora addormentata sul divano, la coperta le era scivolata su un fianco e stava per cadere per terra. Derek la tirò su piano, riadagiandola sulle spalle della ragazza che in quel momento mugugnò un lamento e si girò sull’altro fianco. Le aveva detto un sacco di volte di non aspettarlo alzata, ma lei si ostinava a lottare col sonno per vedere rientrare il fratello. Non approvava per nulla quel suo stile di vita, ma non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui. Spesso gli faceva trovare un biglietto con una parola dolce o un avanzo del dolce che aveva preparato per cena. Derek non si sarebbe mai abituato a quella dolcezza, lo lasciava sempre basito come Cora riuscisse sempre a trovare il tempo per prendersi cura di tutti. Capendo che era completamente immersa nei suoi sogni e non rischiava di svegliarla, le face scivolare un braccio sotto le spalle e uno sotto le ginocchia e delicatamente la riportò in camera, adagiandola sul letto. Prima di uscire la fissò a lungo, perso nei suoi pensieri malinconici, lasciandole infine un lieve bacio sulla tempia. Socchiuse la porta, entrò in camera sua e si gettò sul letto senza forze. Non si spogliò e non fece alcun rumore, rimase disteso a pancia in giù a fissare il vuoto, l’immagine di quegli occhi pieni di lacrime non voleva lasciare la sua testa.

 

Stiles si sarebbe aspettato di tutto dal suo diciottesimo compleanno, tranne quello che in realtà era successo. Aveva deciso di festeggiare coi suoi amici in un bar poco fuori dal centro di Beacon Hills, qualche drink e magari qualche bella vista. Si definiva bisessuale perché la sua prima cotta era stata Lydia Martin, irraggiungibile ed eterea creatura che mai lo aveva degnato di uno sguardo…finché era passato dall’invisibilità alla friendzone. E da quel momento in poi aveva capito che l’universo femminile non gli competeva: preferiva toccare degli addominali piuttosto che un paio di tette, come diceva scherzosamente a tutti. Fino a quando non se n’era uscito con questa frase con suo padre e lo aveva fatto quasi svenire; dopo il primo momento però lo sceriffo aveva preferito concentrarsi sulla felicità del figlio e conviveva bene con questa realtà. Dunque Stiles aveva evitato di finire in un bar gay per festeggiare la sua maggiore età, ma aveva comunque scelto un posto che, a detta dei ben informati, attirava molta clientela attratta dallo stesso sesso. Avevano ordinato un giro di drink per tutti e poi un bis per Stiles, inneggiando più volte al festeggiato. L’atmosfera era serena, le risate e le battute si susseguivano, aumentando di oscenità ad ogni giro di bevute. Fino a che il suo amico Jackson, senza peli sulla lingua, gli disse «Il tipo laggiù fa finta di niente ma vorrebbe sapere che sapore ha il tuo bel culetto» e scoppiò in una risata sguaiata. Stiles fece finta di cadere dal mondo delle nuvole, quando invece lo aveva puntato dal momento in cui erano entrati nel locale, tenendolo d’occhio senza mai voltarsi del tutto. Sentì il suo sguardo addosso per tutta la serata, ma evitò accuratamente di girarsi, sentiva che in quel modo lo stava attraendo ancora di più e la cosa lo eccitava parecchio, doveva ammetterlo.

 

Stiles aveva una tradizione il giorno del suo compleanno: qualsiasi cosa facesse o ovunque fosse, l’unica torta che aveva sempre voluto era stata quella con gli Oreo. Una volta gliela faceva sua madre, ma da quando era mancata, ormai dieci anni prima, Stiles era solito ricordare questa tradizione mangiando un pacchetto dei famosi biscotti. Nemmeno il fatto che compisse diciotto anni lo aveva trattenuto dal mantener fede alla tradizione: i suoi amici non si stupirono quando tirò fuori dalla tasca dei pantaloni gli Oreo impacchettati. Con sguardo commosso e un po’ disinibito dall’alcool guardò ad uno ad uno i ragazzi che lo stavano accompagnando nella transizione dall’infanzia alla maggiore età e cominciò «Ragazzi, mi avete seguito nella crescita, nei momenti belli e brutti…» e fece il gesto di tirare su col naso, fingendo di commuoversi. «Vado in bagno a vomitare, Stilinski. Fai un discorso serio. Dì che il prossimo anno ci porterai in un bar dove le ragazze sono più fighe, per esempio. Oppure vai a pomiciare con quel tipo del bar perché la vostra irrisolta tensione sessuale mi sta facendo irritare parecchio» sentenziò Jackson, che non si lasciava sfuggire una sola occasione per dire a chiunque come lui avrebbe fatto le cose. Se fosse stata una sera normale, Stiles avrebbe fatto entrare quelle parole da un orecchio e le avrebbe fatte uscire dall’altro; ma quella era la sua sera e se un figo da paura aveva così interesse per lui, perché non sfruttare quell’allentamento dei freni inibitori che percepiva nel suo corpo? Probabilmente da sobrio non avrebbe fatto mai nulla del genere, probabilmente avrebbe parlato tutta la serata ai suoi amici di quel ragazzo stupendo, di quel fisico da dio greco, di quel sorriso lucente, di quegli occhi color bosco. Ma lo avrebbe guardato da lontano, al massimo gli avrebbe lanciato qualche sguardo di sottecchi; se avesse visto che puntava lo sguardo nella sua direzione, avrebbe chinato la testa, diventando paonazzo e non avrebbe mai creduto che un tipo simile potesse interessarsi a lui. Quella sera non sarebbe andata così, Stiles decise che aveva aspettato troppo tempo per lasciarsi andare e se avesse fatto una brutta figura…beh, quello sarebbe diventato l’aneddoto da raccontare ai nipotini di lì a sessant’anni. E ci avrebbe riso sopra come la prima sera. Ma quello che successe dopo non fu nulla di quello che Stiles si sarebbe aspettato.

 

Tutto era successo molto in fretta, Stiles l’aveva abbordato con quella stupida battuta di Jackson sul suo culo. E dalla faccia del ragazzo doveva aver pure fatto centro! Stiles non poteva crederci, davvero un tipo figo come quello poteva avere un qualche interesse per lui? Quel pensiero gli diede il colpo di grazia al cervello, già un po’ confuso dai drink, e cominciò a parlare come un fiume in piena, mentre il cuore velocizzava i suoi battiti. E alla fine se ne uscì con quella storia sugli Oreo e sui baci. Doveva essere il suo cavallo di battaglia e invece era stato troppo avventato tanto da far fuggire il ragazzo dal locale. Stiles rimase qualche minuto al bancone del bar, sconvolto da come la sua più grande conquista fosse appena fuggita via da lui. Il fatto era che quel ragazzo non era una mera conquista, Stiles aveva provato qualcosa di diverso al solo parlargli: si era sentito nuovo e fresco, nessuno gli aveva mai fatto provare simili sensazioni. Capì che non poteva lasciar perdere, non quella volta; uscì così di fretta da far sbattere violentemente la porta del bar contro il muro. Uscire all’improvviso dal locale illuminato aveva portato i suoi occhi a non avere il tempo sufficiente per abituarsi al buio del parcheggio. Girò la testa un paio di volte, stropicciandosi forte le palpebre, finché vide una figura piegata sul cofano di una macchina. Non una macchina qualsiasi, una Camaro, e Stiles pensò che non poteva esserci auto più azzeccata per quel tipo, veloce e scattante, bella e dannata. Il solo fatto di rivederlo inondò Stiles di gioia e decise subito di raggiungerlo di corsa; doveva essere davvero sovrappensiero per non averlo sentito arrivare e così lo fece voltare posandogli una mano sulla spalla. Era abbastanza buio ma Stiles poté vedere gli occhi verdi del ragazzo brillare quando si rese conto che lo aveva seguito fino a fuori. Ma allora perché era scappato? Di nuovo lo travolse col suo fiume di parole, ma questa volta il ragazzo lo stupì, facendo ritornare l’attenzione sui biscotti, pur senza sapere quanto significavano per Stiles. Quando ne prese uno in mano per cominciare una spiegazione che solo dal preambolo si annunciava noiosa, Stiles decise che sarebbe stato meglio toglierglielo di mano…ma lo fece a modo suo.

 

Mordere le dita di Derek fu molto più sensuale di quanto avesse pensato e allontanarsi leccandogliele fu la ciliegina sulla torta. Aveva fatto centro, lo leggeva negli occhi del ragazzo di fronte a lui, limpidi, che riflettevano i suoi come se non esistesse nessun altro al mondo. A quel punto Stiles, che si era ripromesso uscendo di scoprire almeno il nome di quel ragazzo così bello e misterioso, perse completamente ogni capacità di parlare. Quegli occhi lo chiamarono come se non avessero mai visto nulla del genere in vita loro, si illuminarono su quel viso come se avessero vagato in un luogo oscuro fino a quella sera. Fu allora che il ragazzo di fronte a lui posò le sue mani calde sul suo viso, strofinando i pollici ruvidi sui suoi zigomi: Stiles trasalì a quel gesto, non se l’aspettava, era così intimo e sensuale che avrebbe potuto crogiolarsi l’intera notte in quel tocco. Le labbra si unirono senza preavviso, una spinta invisibile fece gettare Stiles su quel ragazzo perché era quello che volevano entrambi. Nella foga Stiles lo fece addirittura indietreggiare sul cofano della Camaro, costringendolo a sorreggersi su un gomito mentre le loro bocche danzavano alla luce della luna. Stiles era euforico, era sempre stato il suo sogno baciare a tradimento un figo sul cofano di una macchina sportiva…se poi era una Camaro, Stiles non connetteva più. Ma nessuna delle sue fantasie poteva uguagliare la realtà di quello che stava vivendo. Non c’era nulla di più naturale di quel gesto, niente che avesse a che fare con oscene fantasie sessuali, c’erano solo due pezzi dello stesso Oreo che avevano trovato la loro crema.

 

Fu così traumatico sentirsi allontanare, fu come perdere un battito del cuore: il sangue non arrivò alle vene, il cervello andò in corto circuito, la vita uscì dal corpo di Stiles. Il ragazzo voleva quello che voleva lui, su questo non poteva avere dubbi. Eppure in un attimo le mani di quel ragazzo erano passate dai suoi capelli al volante e prima che Stiles potesse aprire bocca l’aveva lasciato in un buio parcheggio, con uno stupido “non posso” come regalo d’addio. Alzò un’ultima volta lo sguardo offuscato da un’ondata di lacrime verso i fari gialli, abbaglianti, che facevano male alla vista e che si allontanavano nel buio. Ma nulla poteva anche minimamente competere col dolore sordo e opprimente al centro del suo petto. L’aveva perso, non sapeva perché, non sapeva come si chiamava, non sapeva come rintracciarlo: non sapeva nulla e al dolore si sommava sempre più dolore.

 

Derek aveva pensato al ragazzo con gli Oreo sempre in quell’anno, quando non riusciva a prendere sonno durante le notti di luna piena, quando ripensava al colore di quegli occhi e al sapore di quelle labbra, quando si sentiva triste e quando si sentiva meno triste. Non lo sfiorava nemmeno l’idea che avrebbe potuto sentirsi felice come quella sera, mai più in vita gli sarebbe successo. Alle volte lo pensava così intensamente che poteva risentire la sua pelle morbida sotto le dita, il suo delicato tocco su un fianco. Cercava di ricordarsi il suono della sua voce, quella voce che stava diventando quella di un uomo, il tono sprezzante con cui l’aveva avvicinato quella sera. Per quanto lo desiderasse, non l’aveva mai sognato, non aveva mai potuto rivivere qualche momento insieme a lui, seppur nella finzione onirica. Ogni felicità gli era preclusa.

 

Stiles aveva pensato al ragazzo con la Camaro sempre in quell’anno, quando non riusciva a prendere sonno e si metteva a fissare la luna, quando ripensava all’intensità del verde di quegli occhi e alla morbidezza di quelle labbra gonfie, quando si sentiva solo e tradito dal mondo. Non lo sfiorava nemmeno l’idea che un giorno avrebbe potuto rincontrarlo, mai più in vita avrebbe incontrato un ragazzo così. Alle volte lo pensava così intensamente che poteva risentire il sapore dolce della sue labbra, le mani di lui che si intrecciavano nei suoi capelli. Cercava di ricordarsi il suono della sua voce, quella voce da uomo, roca e profonda, il tono saccente con cui voleva fare il saputello sugli Oreo. Per quanto l’avesse sperato ogni notte con più ardore, per rivederlo almeno una volta, non lo aveva mai sognato. Ogni serenità gli era preclusa.

 

«Io non ti ho scordato» disse Derek fissando dalla sua finestra la luna alta nel cielo, come se potesse essere la messaggera silenziosa di quella frase mormorata a mezza voce.

 

«Io non ti ho scordato» disse Stiles dall’altra parte della città, ammirando la luna e la sua capacità di farci sentire così vicini e così distanti da una persona. Perché ovunque fosse quel ragazzo, stavano guardando lo stesso corpo celeste splendere su di loro.

 

 

Note finali: Allora che ne dite? Per adesso vi lascio, spero di aver soddisfatto le vostre aspettative. Un’ultima cosa: mi sembra una buona tempistica aggiornare ogni 5 giorni come ho fatto finora, per cui se tutto va bene sarà questo il ritmo delle pubblicazioni. A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tre trilli e un ululato ***


CAPITOLO 4: Tre trilli e un ululato

 

Derek non ebbe il tempo di digerire quell’arrivo improvviso, quello che più che un arrivo nella sua vita era un ritorno. L’unica cosa che poteva rincuorarlo era che Stiles in quel momento non l’avrebbe riconosciuto e che la sua forma di lupo gli stava permettendo di camuffare meglio le sue emozioni, anche se sapeva che avrebbe ricevuto un interrogatorio da Cora una volta rimasti soli: il naso di quella ragazza non si lasciava sfuggire nulla.

 

Fu come se il tempo si fosse fermato: Derek era tornato indietro a quella sera, a quei gesti, a quelle sensazioni. Fu percorso da un unico lungo brivido che lo sospese in un limbo di pensieri confusi ed emozioni passate. L’unica cosa che riusciva a fissare davanti a sé era quel ragazzo, a cui finalmente poteva dare un nome, Stiles. Era decisamente cresciuto nonostante fosse passato solo un anno. Si era fatto più uomo, aveva approfondito la voce, cambiato leggermente fisionomia e fisico: la muscolatura si era fatta più marcata, aveva fatto crescere un po’ i capelli mentre teneva rasata la barba. Il colore degli occhi era forse più caldo e liquido di quanto Derek ricordasse, ancora più bello, ancora più vivo.

 

Potevano essere passati secondi, minuti o anni ma Derek continuava a non riuscire a staccare gli occhi da quel viso pallido: era il suo Stiles, era davanti a lui, Derek non aveva voluto altro per un anno e ora era il momento sbagliato. Derek era un lupo, poteva dimenticarsene? Si sentì confuso da tutto, mentre si alzava barcollante sulle zampe. Prima di rientrare in un discreto possesso delle facoltà cognitive, lo sentì. Era un odore, un odore ben definito, inconfondibile, un odore che solo Stiles (quanto amava poter finalmente abbinare a quel volto un nome) poteva avere: nascondeva un pacchetto di Oreo nella tasca dei pantaloni. Derek si appigliò a quello, a quell’unico dato certo, per sollevarsi dalla valanga di pensieri che gli stavano attraversando il cervello, rimbalzando ovunque e stordendolo. Riacquistando una posa fiera, si avvicinò al ragazzo, cercando di non spaventarlo e abbassò la testa sotto la sua mano, leggermente contratta lungo il fianco. Fu il loro primo contatto dopo un anno e fu intenso come la prima volta: Derek poté sentire un brivido scuotere sia lui che Stiles, come se sfiorarsi avesse voluto dire riconoscere un tocco noto. Il battito cardiaco di Stiles accelerò, probabilmente perché aveva appena ammesso di essere un po’ spaventato da un cane che sembrava più un lupo, ma in fondo qualcos’altro aveva scosso per un attimo i pensieri del ragazzo: quello sfioramento gli aveva detto di più, gli era sembrato di entrare in contatto con una persona più che con un cane. Riscossosi in una frazione di secondo da quel pensiero, si era lasciato andare alla tenerezza e aveva risposto a quel gesto con una carezza calorosa sulla grande testa di Derek, affondando le dita affusolate nel pelo, prima piano e poi più intensamente, passando su e giù la mano e arrivando ad inginocchiarsi a terra, per essere allo stesso livello del cane. Avviluppato nei ricordi, Derek si lasciò andare ad una ondata di tenerezza, sfruttando le potenzialità del suo nuovo corpo: spinse la testa sempre più verso Stiles, per incitarlo ad accarezzarlo di più e per dimostrargli quanto stesse apprezzando quel contatto. Preferì non fissarlo troppo a lungo negli occhi, era un gesto umano e un cane non l’avrebbe mai fatto; si lasciò invece grattare dietro le orecchie, lungo la schiena e i fianchi, mentre teneva la fronte appoggiata sulla spalla di Stiles e annusava quegli odori che aveva sognato per così tanto tempo. Li selezionava piano perché sapeva quanto Stiles potesse entrargli nel cervello e sconvolgerlo, facendogli perdere la testa: in quel momento invece voleva solo godersi tutte le emozioni che quell’incontro gli stava dando, per una volta non voleva pensare alla felicità, al futuro o alle conseguenze.

 

Rimasero in quella posizione per un tempo che Derek non seppe quantificare, tutto intorno a lui si era annullato in quell’abbraccio. Ciò che lo fece riscuotere fu la voce di Cora. «Ehi, sembrate già andare molto d’accordo!» esclamò entusiasta battendo le mani. «Allora, Stiles, ti piace Derek?» chiese festosa la ragazza. Stiles e il lupo sembrarono riscuotersi e uscire dalla bolla di sentimenti in cui si erano chiusi. Il ragazzo era un po’ disorientato dalla situazione (quello era solo un cane, che gli era preso?) ma cercò di darsi un contegno, si rialzò in piedi e guardò serio Cora negli occhi. «Voglio aiutarti, se per te va bene decidiamo i dettagli. E lasciatelo dire, hai un lupo…sì, un cane stupendo» gli occhi di Stiles brillavano e Cora lo guardò un po’ confusa, ma non si lasciò sfuggire l’occasione. Aveva trovato una persona che si voleva occupare di Derek con così tanta passione e che Derek sembrava approvare e non le sembrava vero. Era troppo importante trovare la giusta connessione tra i due e Cora non sapeva bene perché ma qualcosa era scattato in quell’incontro e in quell’abbraccio.

 

Alla fine decisero che Stiles si sarebbe occupato di Derek dalle otto di mattina, ora in cui Cora partiva per andare a scuola, fino alle tre del pomeriggio, quando la ragazza rientrava. Ogni settimana si sarebbero messi d’accordo per eventuali pomeriggi aggiuntivi. Stiles aveva dato massima disponibilità, ma Cora aveva assicurato che, se non ci fossero state emergenze, i weekend sarebbero stati completamente liberi. Anche lei aveva bisogno di stare con…il suo cane, era pur sempre un membro della famiglia e, come aveva detto sfacciatamente, “è un po’ come se sostituisse Derek, ora che lui è lontano”. Stiles aveva sorriso e si era augurato di poter conoscere un giorno questo Derek, visto che riteneva Cora una splendida ragazza. «Oh, Stiles, non ti perdi nulla» disse ridacchiando Cora «Mio fratello è un orso, un gran brontolone e non sorride nemmeno a Natale!» ed era scoppiata a ridere insieme ad un divertito Stiles. Uno Stiles ignaro che quel cane nero che stava cercando di mordere la maglia di Cora era lo stesso Derek brontolone di cui stavano ridendo, lo stesso Derek che aveva baciato sul cofano di una Camaro nera mentre aveva ancora sulle labbra le briciole degli Oreo del suo compleanno.

 

Stiles era appena uscito dal loro appartamento, soddisfatto dell’incontro, emozionato per il particolare feeling con quel cane che lui preferiva chiamare “bel lupo nero”, orgoglioso di avere un lavoro appagante con una paga di tutto rispetto. Ogni singola emozione era stata scannerizzata e riposta con cura nel cervello di Derek, mentre il ragazzo del bar si appoggiava allo stipite della porta d’ingresso per dargli un’ultima vigorosa carezza sulla testa prima di uscire. Derek era già dipendente da quelle carezze e aveva deciso di non lottare con quel sentimento che si era risvegliato in lui…o meglio, che non si era mai sopito. Se doveva rimanere bloccato per sempre in quel corpo voleva almeno godersi la vicinanza con quel ragazzo che gli faceva così bene al cuore, che era la cura migliore. «È lui, non è vero?» Derek si sentì trapassare dalla domanda della sorella, nonostante se l’aspettasse da tutto il pomeriggio. Le aveva raccontato tutto la mattina successiva alla notte in cui l’aveva conosciuto, aveva raccontato per filo e per segno ogni gesto e ogni parola, ogni emozione e ogni dettaglio. Cora l’aveva ascoltato in silenzio, ponderando le sue parole e ciò che provava mentre lo raccontava. Era stato come se l’avesse rivissuto davanti a lei e la ragazza era rimasta scioccata dall’intensità di ciò che provava il fratello. Non le aveva mai parlato delle sue avventure, tutto rimaneva nella testa di Derek e la maggior parte delle volte erano brutti ricordi. Cora aveva sempre pensato che il genere di esperienze che faceva Derek con le donne nascondevano in realtà altri interessi, ma aveva sempre desiderato che il fratello arrivasse a queste conclusioni da solo, senza essere imbeccato. Non aveva mai parlato così di nessuna donna. Ma una sera un ragazzino in un bar era arrivato a sconvolgergli la vita. Cora non poteva esserne più felice, finalmente Derek sembrava avere un obiettivo; fino a quando il fratello non era arrivato a raccontare di come sapesse perfettamente il sapore di quelle calde labbra e non conoscesse invece il nome di quel ragazzo.

 

Derek si accoccolò sul divano accanto a lei, appoggiandole una zampa sulla coscia e abbassando impercettibilmente la testa, lasciando che le emozioni che emanava parlassero più dei suoi occhi turchesi. Cora inspirò a fondo ogni singola particella d’aria che poté incamerare e chiuse gli occhi. Era un bell’allenamento avere un fratello che poteva parlare solo in quel modo. Le informazioni arrivarono al cervello in un miscuglio indistinto e la ragazza cominciò a separarle e ad analizzarle. Derek era un po’ agitato, ma più di tutto era felice e quell’odore addosso a Derek Cora non lo sentiva da tanto, troppo tempo. Sorrise, continuando a tenere gli occhi chiusi e a concentrarsi sugli altri piccoli indizi che poteva estrapolare. Il lupo era spaventato da quello che provava, ma ne era anche eccitato e in fondo in fondo Cora poteva sentire anche una certa malinconia. «È proprio il ragazzino del bar, allora…io sapevo che quel tipo ti era rimasto nel cuore. Non lo ammettevi ma te lo leggevo negli occhi, tanti giorni e tante notti. Vedrai che si sistemerà tutto.» La ragazza gli allacciò le braccia al collo, affondando il viso nel pelo morbido che le fece così solletico al naso da farla starnutire. Spaventato dal rumore, Derek saltò in piedi sul divano mentre Cora rise così tanto da farsi venire i crampi allo stomaco, tenendosi le mani sulla pancia. Una volta riscosso, Derek non perse l’occasione per leccarle la faccia. Passarono la serata a mangiare muffin al limone sul divano. 

 

Tre trilli al campanello, così cominciavano tutte le mattine di Derek con Stiles. E il lupo rispondeva con un ululato che sapeva che il ragazzo avrebbe sentito anche dalla strada, soprattutto se, come accadeva spesso, Cora aveva già aperto le finestre dell’appartamento. La prima mattina Stiles arrivò con un leggero anticipo e tanta eccitazione addosso. Indossava una t-shirt bianca con i profili blu, una camicia a quadri sui toni del verde, un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Profumava di fresco e Derek adorava quel dettaglio. Cora gli spiegò cosa mangiava Derek, gli diede la corda per portarlo a passeggio e gli suggerì di andare nel bosco piuttosto che in centro, il cane era abituato e preferiva gli spazi aperti e la natura. Per qualsiasi emergenza Cora gli aveva lasciato il suo numero di telefono e comunque per quel giorno la ragazza sarebbe riuscita a rientrare per pranzo. Colse quindi l’occasione per invitarlo a restare a mangiare con loro, ma Stiles rifiutò garbatamente l’invito: si sentiva un ospite in quella casa e non voleva essere troppo invadente, non il primo giorno di lavoro. Avrebbe approfittato per portare il pranzo in centrale a suo padre, giusto per disintossicarlo ogni tanto dal cibo spazzatura che si ostinava a mangiare. Cora sembrò un po’ delusa dal rifiuto ma capì le motivazioni di Stiles. «Sappi che la prossima volta non ti sarà così facile scapolare un invito a pranzo!» gli disse infine sorridendo. «Non hai idea di che cuoca favolosa io sia» concluse saltellando verso la porta di casa mentre l’orologio della cucina segnava che mancavano pochi minuti alle otto. «Stiles, Derek, io vi saluto, buon primo giorno!» e chiuse la porta rapida dietro di sé. «Che ragazza effervescente» commentò Stiles a mezza voce quando la sentì uscire di casa. Come poteva essere un brontolone il fratello? Stiles era davvero incuriosito da questa mitologica figura descritta da Cora come “la reincarnazione bella del Grinch”. Perché secondo la ragazza se c’era qualcosa da lodare in Derek (oltre all’attaccamento protettivo alla famiglia), quello era l’aspetto fisico. Il carattere lasciava un po’ a desiderare, anche se Cora ammetteva di non potersi lamentare del rapporto che aveva col fratello: semplicemente non Derek riusciva ad esprimere le sue emozioni a parole. Ma i gesti erano molto più importanti.

 

Derek fece finta di continuare a sonnecchiare sul divano, in attesa che Stiles facesse la prima mossa. Per una volta l’essere lupo volgeva doppiamente a suo vantaggio: in primo luogo poteva restare sul divano senza essere obbligato a cominciare un’imbarazzante conversazione che si sarebbe conclusa dopo due minuti, di cui uno passato in un ancora più imbarazzante silenzio; in secondo luogo poteva continuare a controllare Stiles anche da un’altra stanza e prevedere alcune delle sue mosse. Stiles era leggermente agitato ma stava tenendo sotto controllo le sue emozioni, per essere professionale nel suo lavoro. Per scaricare un po’ di tensione cominciò a parlare da solo (indubbiamente una tipica “reazione in stile Stilinski”), facendo divertire parecchio Derek che lo ascoltava dall’altra stanza. «Allora, Stiles, tu te lo stai un po’ inventando questo lavoro, dovresti essere ben organizzato e invece ti trovi a non sapere cosa fare. Intanto potresti portare fuori il lupo…ehm, cane…beh tu lo chiami sempre lupo nella tua testa, perché non puoi farlo ora che sei da solo? Sì, Cora ha detto di portarlo nel bosco perché non è abituato al centro cittadino…non vorresti mai che quel lupo azzannasse qualcuno il tuo primo giorno di lavoro, vero Stiles? Ecco allora, anche se tu hai paura di perderti nel bosco lo porterai proprio lì dove ti hanno detto. E ti addentrerai poco perché il tuo senso dell’orientamento è quello di una pantegana morta. Ora prendi la corda e parti per questa nuova avventura» e concluse il soliloquio con uno “yeah” poco convinto.

 

Arrivarono al limitare del bosco con la jeep azzurra di Stiles, mentre Derek rimpiangeva i sedili di pelle e la silenziosità del motore della sua Camaro; almeno non era stato relegato nel bagagliaio ma aveva ottenuto il posto davanti. C’era voluto più di qualche ringhio, ma sembrava che lui e Stiles cominciassero ad intendersi anche senza parlare. Il bosco fuori Beacon Hills era il vero polmone verde della città: crescevano alberi secolari e addentrandovisi abbastanza si potevano raggiungere diverse radure e alcuni piccoli specchi d’acqua alimentati dai ruscelli che attraversavano la zona, irradiandosi come piccole vene nel folto della boscaglia. Per Derek quella era la sua vera casa, quella che conteneva alcuni dei suoi più dolci ricordi: la brina delle prime gelate mattutine di fine autunno che punteggiava l’erba fuori da casa Hale, la rugiada che gli bagnava il bordo dei pantaloni in primavera quando andava a passeggiare tra gli alberi all’alba. Quella foresta gli era entrata nel cuore e nelle vene e non avrebbe potuto sopravvivere lontano da quel posto. Cominciò a strattonare Stiles che lo teneva ancora legato con la corda per convincerlo a lasciarlo libero di correre. «Allora, sì, ok, ti libero ma tu devi stare qui vicin…» Stiles non fece nemmeno in tempo a finire la frase che Derek era già partito al galoppo verso il folto della boscaglia. Stiles strabuzzò gli occhi, terrorizzato all’idea di perdere il suo lupo il primo giorno in cui lo portava fuori. Aveva davvero detto “il suo lupo”? Cosa gli prendeva? Quello era il suo lavoro e basta, ma Stiles sapeva bene che aveva sentito un collegamento particolare con quell’animale, fin dal loro primo incontro, dal loro primo contatto. Quella scossa che aveva percepito non appena aveva affondato le dita nel pelo del lupo voleva dire qualcosa. Questi furono i pensieri che balenarono nella testa di Stiles in un millisecondo, prima di lanciarsi di corsa dietro Derek, chiamandolo fino a perdere la voce, dimenticandosi del fatto che non aveva idea di come uscire da un bosco del genere e che si sarebbe perso dopo cento metri. Non pensò neanche un secondo di rimanere sul suo posto e limitarsi a chiamare il lupo: e se non fosse tornato indietro? Non poteva permettersi nemmeno di immaginare una situazione del genere. In un attimo però il ragazzo perse Derek di vista e si ritrovò senza fiato ad appoggiarsi ad un albero, mentre il cuore gli martellava il petto e un’ansia lo dilaniava dentro. Era nel bel mezzo di una foresta sconosciuta e aveva appena perso Derek. Era terrorizzato e da lì ad avere un attacco di panico non sarebbe mancato molto.

 

Derek era partito senza pensare più a nulla, era abituato a girare da solo per la foresta, di solito Cora aspettava pazientemente il suo ritorno all’ombra della quercia dove lo lasciava libero. Aveva corso veloce, adorava sentire il vento che gli spingeva indietro il pelo, amava sfidare i propri limiti e vedere fin dove poteva arrivare. L’odore di legno bagnato e di erba fresca gli entrava nelle narici e lo inebriava, quello era il suo luogo, la sua casa, la foresta era sua madre. Appena si rese conto di essersi addentrato parecchio nel bosco fu folgorato da una consapevolezza: Stiles lo aveva seguito e si era perso. Poteva sentire il suo battito accelerato, poteva fiutare ansia, agitazione, panico. Si maledisse internamente: come aveva potuto partire dimenticandosi di lui? Improvvisamente gli tornarono in mente le parole del ragazzo quella mattina; Stiles non sapeva orientarsi nel bosco e Derek lo aveva lasciato solo, scappando appena ne aveva avuto la possibilità. Lo pervase un terribile senso di colpa ma decise che la cosa migliore da fare era agire, immediatamente; si mise sull’attenti e si concentrò completamente sui suoi sensi, eliminando qualsiasi altra cosa dalla testa. Poteva sentire ancora il battito cardiaco di Stiles, abbastanza distintamente, segno che non dovevano essere molto lontani l’uno dall’altro. Poteva anche fiutare il suo odore, ma con quello doveva andarci piano, avrebbe offuscato la concentrazione di cui aveva bisogno. Come sottofondo a tutto questo poteva sentire il respiro affannato di Stiles: doveva raggiungerlo immediatamente. Appena stabilì in che direzione muoversi, Derek partì di corsa, forse più veloce di quanto lo fosse stato mentre entrava nel bosco poche decine di minuti prima.

 

Trovò Stiles accasciato vicino ad un albero, in ginocchio, mentre continuava a ripetersi come un mantra “Respira Stiles, respira piano…”. Era a carponi, teneva una mano appoggiata alla corteccia di un pino e l’altra per terra, mentre il viso era rivolto verso il pavimento di foglie secche. Cercava di coordinare il respiro con i battiti cardiaci che tuttavia erano ancora troppo accelerati. La schiena del ragazzo si curvava sotto l’ansimare affannoso che gli opprimeva il petto, mentre un visibile tremore scuoteva tutte le sue membra a intervalli regolari. Derek gli si avvicinò piano, per evitare di spaventarlo ulteriormente; cercò di muovere un po’ le foglie per terra, in modo da ridestare l’attenzione di Stiles, che invece continuava a tenere la testa rivolta verso terra, mentre il suo respiro non accennava a rallentare. Derek cominciò a preoccuparsi seriamente: non aveva mai assistito ad un attacco di panico, non aveva la più pallida idea di come reagire ma soprattutto non era nelle condizioni fisiche per aiutare qualcuno. Quello che sapeva, però, era che un animale può entrare più facilmente in contatto con l’uomo, perché un animale si affida ai suoi istinti e sa cosa deve fare. Ma il cervello di Derek lavorava ancora come quello di un uomo e le uniche cose che gli venivano in mente necessitavano di arti umani. Doveva cominciare a pensare come un lupo e mettere da parte ogni emozione, soprattutto quelle che lo stavano travolgendo alla vista di Stiles in quelle condizioni: ad aggravare la situazione c’era il fatto che Stiles non fosse una persona qualsiasi per Derek e questo non lo faceva ragionare lucidamente. Improvvisamente, mentre il ragazzo era ancora appoggiato al grande pino, Derek prese il controllo della situazione e scrollò forte il capo, come a far uscire dalla testa ogni pensiero umano che potesse distrarlo; socchiuse gli occhi alla ricerca della giusta concentrazione e quando li riaprì il blu delle sue iridi lampeggiò maestoso, a indicare che la parte da lupo aveva prevalso su quella umana. Si avvicinò di più a Stiles, che non sembrava sentire nulla di ciò che accadeva intorno a lui, ancora scosso dai tremori e sempre più ansimante. Senza nemmeno pensarci si accucciò piano, incastrandosi tra il corpo di Stiles e il suo braccio appoggiato all’albero, cercando di strofinarsi piano sulla camicia del ragazzo, in modo da palesare la sua presenza. Come in una reazione spontanea Stiles alzò di scatto la schiena, sollevò il capo, cadde a sedere sulle foglie secche che coprivano il terreno e respirò. Ma non fu un respiro normale: il ragazzo respirò come se non l’avesse fatto per minuti, come se fosse stato tenuto sott’acqua per un tempo incalcolabile, come se quello fosse stato il suo primo vero respiro. Riempì i polmoni con tutta l’aria che poté incamerare, mentre sgranava gli occhi lucidi di fronte al lupo, ancora accucciato davanti a lui in silenzio. Il ragazzo stava ancora cercando di riprendere una regolarità nel respiro quando il lupo gli si avvicinò, titubante, come se stesse chiedendo il permesso di avvicinarsi di più. Stiles alzò una mano e la avvicinò al viso, per scacciare una lacrima, che calda stava solcando la sua pallida guancia, mentre allungò l’altra per avvicinarsi al muso di Derek. A quel punto, con una lentezza innaturale, il lupo avanzò un passo in avanti, poi un altro, finché senza nemmeno rendersene conto si ritrovò a sfiorare col naso umido la punta delle dita di Stiles: come la prima volta, da quel tocco suscitò una piccola scossa, che si propagò in direzioni opposte lungo la spina dorsale di entrambi; erano perfettamente connessi l’uno all’altro. Non importava cosa stesse accadendo intorno, non esisteva nulla se non quel contatto.

 

Rimasero una decina di minuti in silenzio, Derek accoccolato sulle gambe incrociate di Stiles, che nel frattempo continuava ad intrecciare le dita nel folto pelo dell’animale, prima sul collo, poi lungo la schiena, per poi risalire al muso, ridiscendere alle zampe e al petto, disegnando invisibili arabeschi che apparivano e sparivano nello stesso momento. Teneva gli occhi fissi su un punto imprecisato nel folto della foresta, ma in realtà non guardava nulla perché tutto ciò di cui aveva bisogno era disteso sulle sue gambe. Non riusciva a descrivere ciò che aveva provato quando non aveva più trovato Derek, ricordava ogni secondo in cui i pensieri gli affollavano la mente rubando sempre più spazio alla lucidità, fino a che il panico non si era impossessato del tutto del suo cervello. Allora Stiles era stato sicuro che quello fosse il suo punto di non ritorno, nessuno poteva aiutarlo ad uscire da un incubo del genere. Fino a che non aveva visto lampeggiare quegli occhi, blu come l’acqua che sembrava opprimergli i polmoni mentre annegava nel suo attacco di panico. Ma era anche il blu del cielo e dell’aria che improvvisamente si era introdotta nei suoi polmoni, senza preavviso, quasi senza il permesso di Stiles, che era rimasto passivo mentre tornava in sé senza accorgersene, incapace di staccare gli occhi dalla magnifica creatura che gli si era parata davanti, che lo aveva salvato e che ora che lo fissava con un carico di preoccupazione nelle iridi blu. Possibile che in una situazione del genere Stiles avesse potuto leggere preoccupazione in quegli occhi? Già non si spiegava come l’avesse trovato, ma quel dettaglio era davvero strano: il lupo poteva avere felicità negli occhi per averlo ritrovato, divertimento per averlo beffato e lasciato solo nella foresta per poi dimostrargli che lo poteva rintracciare in qualsiasi momento grazie ad udito e olfatto molto sviluppati. Ma la preoccupazione era una caratteristica più umana che animale, soprattutto per il fatto che lui non era il suo padrone, ma solo una persona che lo conosceva da due giorni appena. Non aveva già avuto quella sensazione, quella di conoscere non tanto il lupo ma lo sguardo che si celava dietro quel corpo? Ce l’aveva avuta quando si erano sfiorati, non sapeva perché ma avevano un’inspiegabile connessione. E ora il mondo poteva crollare sotto i loro piedi e non se ne sarebbero accorti. Perché Stiles sapeva che quando una cosa è sbagliata conosci il motivo per cui lo è, ma quando è giusta non c’è spiegazione: semplicemente si incastra perfettamente nella tua vita. E non hai bisogno di chiederti se sei felice.

 

Il cuore di Derek batteva troppo veloce mentre stava accoccolato tra le gambe di Stiles, ma sperò che il ragazzo non se ne accorgesse. Rimasero in quella posizione per un tempo che nessun dei due seppe quantificare, era semplicemente il tempo di cui avevano bisogno per stabilizzarsi. Poi Derek ebbe un’idea e si alzò piano sulle quattro zampe, pizzicando la camicia di Stiles per incoraggiarlo a fare lo stesso. Il ragazzo lo fermò. «Però non farlo più» disse piano. Derek incrociò il suo sguardo, era ancora presente un velo di angoscia e il lupo si sentì malissimo. Si rendeva perfettamente conto che tutto quello che era successo era colpa sua, lui era scappato nel bosco abbandonando Stiles. «Va tutto bene» si affrettò a dire il ragazzo, vedendo sparire la serenità dallo sguardo del lupo. «Solo non farlo più, per favore» concluse abbassando gli occhi. Mai avrebbe rimesso Stiles in quella situazione, di questo Derek era certo e lo promise abbassando il muso sotto la mano del ragazzo, che gli rispose con una calorosa carezza che gli scompigliò tutto il pelo sopra la testa.

 

Per farsi perdonare il lupo aveva già pensato dove portare Stiles e lo incitò a seguirlo tirandolo di nuovo per la camicia. «Mi ritroverò tutto il guardaroba con i buchi, già lo so!» disse il ragazzo scoppiando in una risata forte e liberatoria. La tensione ormai si era spezzata e quello era stato il modo migliore per scaricarla. Stiles seguì il lupo tra la boscaglia che man mano andava diradandosi, nonostante stessero andando verso il centro della foresta piuttosto che verso l’uscita. La meta era infatti una di quelle radure in cui Derek amava rilassarsi e che erano punteggiate di piccoli laghetti. L’acqua era cristallina e rifletteva in modo splendido le cime degli alberi e il cielo, solcato solamente da qualche impavido uccello e qualche nuvola solitaria. Il silenzio di quel posto era, se possibile, ancora più profondo del resto del bosco, la natura regnava sovrana e l’uomo poteva fruirne col dovuto rispetto. L’odore di muschio e di libertà si fondevano magicamente e Derek ne approfittò per prendere un respiro profondo, perché l’odore di casa lo sanasse. Stiles si bloccò a bocca aperta, incapace di proseguire: non aveva mai visto nulla di così bello in tutta la sua vita. Non sapeva nemmeno che un posto così speciale distasse solo qualche miglio da casa sua. Derek lasciò che il ragazzo si godesse i primi momenti alla scoperta di quel paradiso, mentre lui andava ad abbeverarsi al laghetto. Dopo poco sentì dei passi avvicinarsi e successivamente vide il riflesso del ragazzo specchiarsi nell’acqua accanto al suo. Il volto era ancora un po’ segnato dal recente attacco di panico, ma stava riprendendosi bene. Si persero l’uno a fissare gli occhi dell’altro nel riflesso dell’acqua, senza sapere quale forza magnetica li tenesse attaccati a quella visione. Stiles fissò così a lungo quel muso…che si trasformò in un viso. Ma non in un viso qualunque. No, quel viso non era un viso a caso, il viso che Stiles aveva visto riflesso nell’acqua, il viso che aveva associato al muso del lupo era il viso che da un anno desiderava visitasse i suoi sogni: era il viso del ragazzo che aveva baciato il giorno del suo compleanno, il ragazzo della Camaro, il ragazzo che sapeva di dolce e amaro allo stesso tempo. Stiles trasalì a quella vista, non poteva aver davvero visto quei lineamenti; improvvisamente infilò le mani nell’acqua, increspando il riflesso dei due e si buttò una generosa dose d’acqua ghiacciata sul viso, spingendo le dita in mezzo ai capelli, premendole fredde alla base del collo. Non sarebbe riuscito a togliersi quell’immagine dalla testa per tutto il giorno. Avrebbe avuto i brividi per tutto il giorno. Si sarebbe trovato con lo stomaco attorcigliato per tutto il giorno.

 

Derek sentì il cuore di Stiles fare un balzo nel petto, all’improvviso, e non seppe darsi una spiegazione. Ma quando alzò gli occhi verso il ragazzo per capire cosa fosse successo gli venne un capogiro. Una marea di minuscole goccioline costellavano i capelli del ragazzo come piccole stelle in una galassia sconosciuta. Qualcuna gli era addirittura caduta sul viso e alla luce del sole ognuna risplendeva come una piccola pietra preziosa, limpida e scintillante. I ciuffi di capelli bagnati si dimenavano scomposti sulla fronte di Stiles, rendendoli ancora più scuri e mettendoli ancora più in contrasto con il suo viso pallido. Su tutto questo campeggiavano gli occhi che avevano rubato a Derek il cuore la prima sera in cui si erano conosciuti, gli occhi che il lupo non aveva più potuto togliersi dalla memoria, l’oro colato nell’ambra. Derek poteva ancora sentire in sottofondo il cuore galoppante di Stiles, ma il tutto era ovattato nelle orecchie dal pulsare del suo stesso cuore; non pensava che quel ragazzo potesse essere ancora più bello. Quanto doveva ricredersi…uno Stiles bagnato era impareggiabile. Derek non avrebbe avuto parole nemmeno se avesse potuto parlare.

 

Il ragazzo fece in tempo a calmarsi che Derek ancora era intento a fissare quel viso magnetico, quella forza invisibile intorno alla quale non poteva più fare a meno di gravitare: era una questione di fisica, il suo centro di gravità era un logorroico ragazzo iperattivo dagli occhi dorati. «Come primo giorno abbiamo già dato abbastanza, non credi?» disse d’un tratto Stiles, lasciando scivolare la mano sotto il collo di Derek, per dargli una carezza leggera. Il lupo doveva ancora abituarsi a tutto quel contatto, ma sentiva di esserne già dipendente. Stiles si alzò in piedi, passandosi ancora una mano tra i capelli che ormai si stavano asciugando (a Derek balzò di nuovo il cuore in gola, non poteva fare nulla, era una reazione involontaria), e si diresse nella direzione opposta a dove erano venuti, cercando di ostentare un senso dell’orientamento che non aveva mai posseduto. «Allora, bel lupo, vuoi farmi strada o vuoi farmi perdere di nuovo??» lo canzonò senza voltarsi, allargando il braccio destro in attesa che il lupo vi passasse sotto e si affiancasse a lui. Derek non se lo fece ripetere due volte e si affiancò talmente tanto al ragazzo da sentire ad ogni passo il suo pelo strofinare contro la tela dei jeans di Stiles. Intanto la mano del giovane non smetteva di solleticare i ciuffi di pelo tra le scapole del lupo, tirandoli piano per far capire a Derek che non aveva intenzione di lasciarlo andare, non un’altra volta, mai più nella vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sotto il pino ***


Note iniziali: Lascio alla vostra lettura il quinto capitolo. Grazie ancora a tutti quelli che leggono, recensiscono, ricordano e preferiscono la storia, vi adoro :) Per le news dei prossimi aggiornamenti ci vediamo alla fine del capitolo!

 

 

CAPITOLO 5: Sotto il pino

 

Due settimane. Erano ormai passate due settimane dalla prima avventura nel bosco di Derek e Stiles. I due ormai vivevano insieme più di metà della giornata e in più di qualche occasione era capitato che Stiles implorasse Cora di potersi fermare anche nel pomeriggio, fuori dal suo orario di lavoro e quindi assolutamente non retribuito, solo per trascorrere più tempo col lupo. Alle volte Cora tornava a casa e loro non c’erano nemmeno: trascorrevano ore nella radura, Stiles cominciava a sviluppare un certo senso dell’orientamento e finalmente poteva dedicarsi ad una delle sue passioni, la botanica. Era sempre stato affascinato da piante e alberi ma non aveva mai avuto la possibilità di averne così tante varietà davanti agli occhi, o almeno non aveva idea di poterle trovare così vicine a casa. Con Derek ogni giorno era una scoperta: seguendolo imparava ad addentrarsi nella foresta senza perdersi, cominciava a prendere punti di riferimento, a guardare la posizione del sole a seconda dell’orario del giorno.

 

Stiles parlava senza sosta come al suo solito ma quando erano nella radura il silenzio li avvolgeva come una coperta; nessuno dei due aveva bisogno delle parole. Il ragazzo si stendeva supino tutte le volte all’ombra dello stesso pino e chiudeva gli occhi. La prima volta che si era sistemato lì, Derek si era accoccolato un po’ più distante, non sapendo bene come comportarsi. Purtroppo nemmeno da umano era mai stato un mago nella gestione dei sentimenti, aveva cominciato a lasciarsi andare con Cora da quando era diventato un lupo, ma con Stiles…con Stiles era tutto diverso. Non sapeva come muoversi, il cuore gli balzava in gola ogni volta che avevano un contatto più ravvicinato. Lui sapeva chi era, cosa rappresentava per lui, sapeva che era lo stesso ragazzo che l’aveva baciato sulla sua Camaro quella sera. E ogni volta che incrociava quegli occhi dorati sentiva in bocca il sapore delle labbra di Stiles. Succedeva spesso che Derek sognasse ad occhi aperti quello che avrebbe voluto fare se fosse stato umano, ma quella fu la prima volta in cui tutto si materializzò davanti ai suoi occhi in maniera così nitida e verosimile.

 

Tornato umano Derek raggiunge Stiles e, dopo un lungo abbraccio e un bacio in cui entrambi trattengono il respiro per minuti, corrono nella loro radura. Arrivano senza fiato, per la corsa e per il fatto che ogni tanto finiscono contro un albero, avvinghiati, mentre i loro respiri si mescolano e le loro labbra si uniscono. Stiles si distende nella stessa posizione di sempre, all’ombra dello stesso pino, con lo stesso sorriso sulle labbra, con gli occhi chiusi come al solito. Fa finta di non essere ansioso di passare ogni secondo vicino a Derek, ma è solo un modo per provocarlo. E Derek cade nella sua trappola, ma sa a sua volta come tenerlo sulla corda: si distende accanto a lui, a pochi centimetri da Stiles, ma non lo sfiora, nonostante sia l’unica cosa che vorrebbe fare in quel momento. Si posiziona con le labbra che solleticano il lobo dell’orecchio del ragazzo, lo lambisce appena e sotto quel piccolissimo contatto può già sentire Stiles rabbrividire di piacere. Comincia a mormorare suoni appena sussurrati con voce roca, misti a piccoli ringhi gutturali; Stiles comincia a cedere, Derek lo vede increspare le labbra, quelle labbra piene e profumate, stringere gli occhi per costringersi a tenerli chiusi, arricciare il naso perché sente il profumo di Derek vicinissimo, tanto vicino che può quasi assaggiarlo. Derek non riesce a staccargli gli occhi di dosso, osserva ammaliato Stiles che si umetta appena le labbra con la punta della lingua e che improvvisamente non riesce più a resistere. Ma le schermaglie non sono finite e Stiles si gira ridendo su un fianco, dando la schiena a Derek. E Derek non vuole cedere, nonostante la voglia stia crescendo esponenzialmente: ansima sulla nuca di Stiles e a Stiles gira la testa da quanto desidera toccare Derek. Prova a resistere ancora, stringe i pugni fino a far diventare le nocche bianche e a lasciare il segno delle unghie sui palmi, poi scatta. In un attimo gli è sopra, con le ginocchia che stringono i fianchi di Derek, con le mani strette intorno al bavero della sua camicia. Quella presa gli permette di direzionare il viso di Derek ovunque voglia, ma c’è un solo posto dove vuole spostarla: tira il colletto verso l’alto e fa toccare le loro fronti, sfiorare i loro nasi, ansimare le loro bocche. Poi gli soffia sulle labbra un «Sei mio», lo bacia e Derek apre gli occhi. Stiles dorme sotto il pino e Derek è un lupo.

 

Da quel giorno in poi Stiles cominciò a notare che quando si distendevano all’ombra di quel pino nella radura, Derek diventava malinconico. Sembrava impossibile ma quel cane si comportava come un umano certe volte; Stiles era convinto di essere suggestionato da come lo trattava Cora (alle volte sembrava che si riferisse a lui come suo fratello!) e dal rapporto che avevano instaurato fin dal loro primo incontro. Ma sapeva che in fondo qualcosa di strano l’aveva sempre percepito: una certa connessione con gli animali ce l’aveva sempre avuta, aveva passato interi pomeriggi con i cani del dipartimento di polizia della contea dove lavorava suo padre, ma con Derek era cambiato tutto. Gli parlava e sembrava capisse ogni cosa, addirittura più di quanto possa capire un umano; capitava che il lupo si comportasse in maniera tale da cercare di migliorare l’umore di Stiles se era triste, farlo divertire se aveva appena litigato con suo padre. Come poteva percepire sempre perfettamente le sue emozioni, decifrarle e sapere come comportarsi di conseguenza? Non poteva essere che quel lupo sapesse sempre come si sentiva Stiles, non aveva alcun senso!

 

Ciò che notò Stiles fu che quando si distendeva sull’erba Derek si distendeva un po’ più lontano, non cercava lo stesso contatto di quando erano a passeggio o in casa. Stava sul fianco, appoggiava la testa sulle zampe anteriori, abbassava le orecchie e non dormiva mai. Lo sguardo rimaneva posato sul lago, non si spostava da quella posizione; una volta Stiles giurò di averlo sentito guaire, piano, sottovoce, come se cercasse di non farsi sentire. La reazione di Stiles fu quasi inconscia, si mosse senza nemmeno pensarci: si alzò di scatto e gli buttò le braccia al collo, nascondendo il viso nel folto del pelo dell’animale. «Perché piangi, Derek?» mugugnò inspirando il profumo di bosco sul mantello del lupo. Derek rimase pietrificato: non si era nemmeno reso conto di aver guaito, stava per l’ennesima volta pensando a quel sogno…e quando se lo immaginava non poteva fare a meno di sentire male, un male fisico, un pugno nello stomaco. Era privato dell’unica cosa che avesse mai fatto bene alla sua anima dopo l’incendio che si era portato via troppo presto la sua felicità. E la parte peggiore, la vera tortura, era poter avere quel ragazzo solo in quella maniera, a carezze sulla testa e biscotti per cena: era umiliante in certi momenti. Derek cominciava a sentire la difficoltà di quella situazione e di quella relazione che non si poteva definire relazione. Alle volte arrivava a pensare che avrebbe preferito non averlo mai incontrato, che quella notte non fosse mai accaduta: forse ora non avrebbe sofferto così tanto. Poi arrivavano questi momenti, in cui non importava nulla se non il fatto che Stiles lo stesse abbracciando, che stesse cercando di consolarlo perché lo aveva visto abbattuto. Perché per quanto quella relazione fosse strana e assurda, loro erano ancora la cosa più importante, loro erano comunque il condimento di quelle giornate e Stiles era pur sempre il ragazzino del bar che gli leggeva negli occhi ogni emozione senza bisogno di parole. E questa era la cosa che faceva andare avanti Derek.

 

Cora in tutto questo studiava da lontano entrambi: li osservava rientrare tardi dalla passeggiata, quando perdevano il senso del tempo e Stiles aprendo la porta dell’appartamento e vedendo la ragazza sul divano diceva «Ma che diavolo di ora abbiamo fatto?» e si girava scoppiando a ridere verso Derek, che per tutta risposta ululava. Stiles rideva forte e di gusto, senza freni, erano risate liberatorie che sapevano di felicità e amore, Cora lo percepiva nettamente. Immaginava che probabilmente il ragazzo non se ne rendesse conto o vivesse uno strano conflitto interiore, ma che sapesse in fondo che quel lupo non era un lupo. Cora li guardava con tenerezza, col sorriso sulle labbra ma quando Derek non era in giro si ritrovava a pensare che quella non era una situazione definitiva, che una soluzione andava trovata. E più i due si affezionavano più Derek avrebbe sofferto: questo Cora non poteva permetterlo, non dopo tutto quello che il fratello aveva fatto per lei.

 

Avendo sempre più tempo a disposizione (Stiles le chiedeva sempre più spesso di fermarsi oltre l’orario concordato) Cora continuava le sue ricerche, arrivando sempre a risultati infruttuosi: su internet si parlava poco del soprannaturale e ogni informazione andava vagliata con attenzione perché la maggior parte era frutto di superstizioni e rimedi casalinghi senza un riscontro reale. La loro unica speranza era la comunità sovrannaturale, con cui però avevano troncato i rapporti dopo l’incendio: nessuno si era preoccupato di aiutarli, erano due ragazzini rimasti orfani e nessuno aveva saputo fare altro se non inviare fredde condoglianze attraverso sterili telegrammi. Prima dell’incendio l’unica persona in grado di mantenere dei buoni rapporti era stata la matriarca degli Hale, Talia, madre di Derek e Cora e una delle persone più rispettate nella comunità, un punto di riferimento per tutti. Dopo la sua morte, l’orgoglio di Derek lo aveva spinto a non chiedere aiuto a nessuno, a chiudersi nel branco che gli era rimasto, lui e Cora. Riagganciare con la comunità dopo tre anni di silenzio non era facile ma la piccola Hale sapeva che se volevano avere delle risposte non avevano altra scelta: diplomazia e tanta pazienza.

 

Cora ritrovò facilmente negli scatoloni del seminterrato la rubrica telefonica della madre. Avevano chiuso i ricordi in grossi pacchi e non avevano più toccato nulla in quei tre anni: i due fratelli non erano pronti a riaprire quella ferita. Cora sapeva benissimo come erano ripartite le cose negli scatoloni e andò a colpo sicuro verso quelli chiuso col nastro adesivo rosso; ne accarezzò la superficie porosa, sollevando con la mano un discreto strato di polvere. Lo aprì delicatamente, come se stesse avendo a che fare con un oggetto molto prezioso e altrettanto delicato. Immediatamente la investì un odore di infanzia e ricordi: il profumo di Talia era ancora chiuso in quel seminterrato, era ancora vivo lì dentro; sapeva di fiori di campo appena colti, sapeva di lavanda selvatica, sapeva di tenerezza materna. Per un attimo Cora ne sentì la voce, quella voce che tante volte l’aveva chiamata, e una lacrima sfuggita dalle ciglia corse velocissima lungo la sua guancia per poi cadere su un piccolo quaderno nero, rilegato in pelle, chiuso da un elastico rosso cremisi. Cora lo prese delicatamente in mano, facendo scorrere leggere le dita sul disegno che ne contraddistingueva la copertina, i contorni rossi della maestosa testa di un lupo. Quella rubrica l’aveva vista così tante volte sulla scrivania di sua madre; conteneva tutti i contatti telefonici, le email e gli indirizzi dei maggiori esponenti della comunità sovrannaturale della contea e dello stato. Cora sapeva che doveva farlo, sapeva che non aveva scelta, ma la diplomazia non era il suo forte e aveva paura di rovinare tutto, anche quel poco che poteva essere rimasto. Con le dita che le tremavano aprì e scorse le pagine della rubrica, finché individuò il nome di un Alpha della contea, quello più stimato dopo la morte di Talia. Digitò i numeri sulla tastiera del telefono e attese che qualcuno rispondesse dall’altro capo della linea. «Pronto?» una voce dal timbro basso, forte e decisa. «Sono Cora. Cora Hale. E ho bisogno del vostro aiuto».

 

Cora salì le scale in fretta, asciugandosi gli occhi col bordo della felpa, sperando che non ci fosse nessuno in casa. Era venerdì pomeriggio e spesso Stiles, di rientro dalla passeggiata mattutina, passava con Derek a prendere un film da vedere con Cora in serata, giusto per passare un po’ di tempo insieme. Ancora leggermente scossa Cora entrò in salotto ma si fermò immediatamente, indietreggiando con cautela e cercando di fare il minor rumore possibile: Stiles dormiva abbracciato a Derek sul divano. Il ragazzo era disteso sul fianco e avvolgeva le lunghe braccia sottili attorno al collo del lupo, che teneva la testa sotto il mento di Stiles. Il respiro dei due era perfettamente sincronizzato, la coda di Derek posata sulle gambe di Stiles, come a proteggerlo. Sulla televisione scorrevano ancora i titoli di coda del film ma dalla posizione che avevano nessuno dei due ne era arrivato a vederne il finale. Cora sfilò con delicatezza il telecomando dalle mani di Stiles e spense il lettore DVD, avviandosi poi verso la cucina. Prima di uscire si fermò sulla porta, fece un passo indietro, tirò fuori dalla tasca il suo cellulare e scattò una foto. Aveva un nuovo pezzo di famiglia da attaccare al frigorifero. Chiuse la porta della cucina dietro di sé per non disturbare i due e cercò tra gli scaffali il libro di ricette di sua madre; lo scorse velocemente e si fermò a colpo sicuro sulla pagina su cui campeggiava a grandi lettere il titolo “Muffin al limone”.

 

Rumore di una terrina posata nel lavandino. Riempita l’acqua. Posate nello scolaposate. Il ticchettio del timer del forno. Un profumo intensissimo di limone. Il profumo di Stiles. La morbidezza di due braccia intorno al collo. Un respiro caldo sulla testa. Le informazioni arrivano frammentarie al cervello di Derek, ogni senso si sveglia e comincia a recepire il mondo che circonda il lupo. Derek aprì piano gli occhi, aspettandosi di essere investito dalla luce di metà pomeriggio. Quello che invece si trovarono a vedere i suoi occhi ancora appannati dal sonno fu una stanza semibuia: ma che ora era? Quanto avevano dormito? Derek si riscosse e finalmente si rese conto di essere abbracciato a Stiles; se fosse stato un umano sarebbe di sicuro arrossito fino alla punta delle orecchie…che gli diventarono comunque bollenti. Derek alzò piano la testa e il suo sguardo fu catturato dal viso angelico del ragazzo che dormiva accanto a lui: pelle diafana, labbra piene, qualche neo. Ogni volta che lo guardava non era più in grado di trattenere le sue emozioni, il cervello si rifiutava di collaborare e il lupo si trovava nella confusione più totale. Quello che non sapeva fare era comportarsi da lupo, si trovava a continuare a pensare da umano. Da umano lo avrebbe serrato tra le braccia. Da umano gli avrebbe spostato il ciuffo di capelli che gli lambiva la fronte. Da umano l’avrebbe baciato. Da lupo decise di farlo a modo suo. Gli leccò uno zigomo, piano, come se stesse curando una ferita, come se stesse toccando la cosa più preziosa e fragile del mondo. Stiles si svegliò di colpo, rischiando di far cadere se stesso e il lupo dal divano. «Io…scusa…cosa…» cominciò il ragazzo, con la voce ancora impastata dal sonno. Derek avrebbe voluto chiudergli quella bocca a suon di baci. «Allora siete ancora vivi?!» li interruppe Cora, buttando fuori la testa dalla cucina. «Stavo già pensando a dove seppellirvi! Muovetevi o i muffin al limone finiranno!» concluse rientrando in cucina con un sorriso sornione. Stiles si alzò di scatto, il suo stomaco cominciava già a brontolare rumorosamente e si avviò stropicciandosi gli occhi e tirandosi su i pantaloni verso la cucina, quando si accorse che Derek era rimasto fermo sul divano. «Derek, non hai sentito? Vieni dai!» disse per richiamarlo. Ma Derek sapeva che i muffin al limone non promettevano nulla di buono.

 

«Ho bisogno che mi aiuti con Derek questo weekend. So che è tardi per chiedertelo ma avrei davvero bisogno che ti occupassi di lui, possibilmente già da stasera. Ho un impegno urgente e devo andare via subito.» Cora abbassò lo sguardo, sapeva di chiedere tanto, forse troppo. Ma l’Alpha voleva vederla subito e lei aveva dovuto organizzare immediatamente la partenza. E certamente Derek non poteva andare con lei. Stiles stava inforchettando i fagiolini e si fermò con la posata a mezz’aria, alzando lo sguardo su Cora e incrociando i suoi grandi occhi da cerbiatta. «E c’è da chiederlo? Ovvio che sto io con questa bestiaccia!» ribatté ridacchiando e lanciando un’occhiata ad un Derek vistosamente indispettito. «Davvero, Cora, sai che puoi contare su di me in qualsiasi momento. Tra l’altro mio padre è fuori città per un caso importante questo weekend, quindi mi hai salvato da due notti passate in camera con la luce accesa perché se sono solo in casa ho il terrore che un assassino venga a tagliarmi la gola…ma come al solito parlo troppo e il discorso si è fatto parecchio imbarazzante…per cui sì, io e Derek passeremo un indimenticabile weekend» si affrettò a concludere Stiles, mentre le guance gli si chiazzavano leggermente di rosa. «Io non so che dire, grazie davvero Stiles, non so cosa farei senza di te, non so cos’avrei fatto in queste settimane» ribadì Cora, allungando la mano per poter stringere quella di Stiles all’altro capo del tavolo. «Solo grazie per esserci sempre» e i suoi occhi per un attimo si velarono di malinconia. Sembravano davvero una famiglia, riunita al tavolo per la cena, pronti ad aiutarsi l’un l’altro; era un’aria che in casa Hale non si respirava da un po’ di tempo. «Chi è pronto per i muffin?» cinguettò improvvisamente Cora, prendendo da sopra il bancone un’enorme teglia di dolcetti dall’aspetto incredibilmente invitante. Derek non ebbe bisogno di guardare la sorella negli occhi per capire che qualcosa non andava.

 

«È importante, Derek». Pausa. «Non posso dirti molto, Derek». Pausa. «Sarò di ritorno in men che non si dica». Cora si alzò e direzionò la mano verso la maniglia della porta, prima di fermarsi e impugnarla saldamente. Esitò, dando le spalle al lupo, e trasse un lungo e profondo respiro. «Sì, è per te che vado via. Non posso nascondertelo, so bene che me lo leggi negli occhi, che senti le mie emozioni, è sempre più difficile tenerti qualcosa nascosto. Ma non posso dirti altro, capisci?» La ragazza si voltò e in un battito di ciglia fu inginocchiata per terra davanti a Derek. Gli teneva le mani intorno al muso, perché i loro occhi si incrociassero mentre la ragazza li faceva lampeggiare di giallo e il lupo intensificava i suoi blu. «Il fatto è che non posso permettere che ti affidi a false piste. Voglio darti le notizie solo quando ne sono del tutto sicura. E per ora ci sono tanti interrogativi, sappi solo che una strada sembra aprirsi ma non voglio creare illusioni.» Cora si alzò in piedi e chiuse con delicatezza la zip della felpa. «Tu comportati bene con Stiles. Non ho bisogno di altri guai» concluse scherzosa, incalcandosi il cappello di lana fino a coprire le sopracciglia e scompigliando il pelo di Derek sulla cima della testa.

 

«Allora io vado» Cora era ancora sulla porta dell’appartamento, indecisa su quali altre raccomandazioni dovesse fare ai due. «Penso che tu ci abbia detto tutto…» provò titubante Stiles, appoggiato allo schienale della sedia della cucina. «Fate i bravi e non divertitevi troppo!» disse allora la ragazza, dando un sonoro bacio sulla guancia a Stiles e una pacca sulla testa a Derek. «Sarò qui prima ancora che ve ne accorgiate…» echeggiò nel corridoio vuoto e silenzioso, mentre Cora scendeva le scale. «Dunque stasera si riguarda “Star Wars” visto che ci siamo addormentati sul finale!» canticchiò al settimo cielo Stiles, sfregandosi in modo inquietante le mani l’una con l’altra. Derek gli pizzicò con disappunto il tessuto dei pantaloni, all’altezza del ginocchio. Gli mancava solo rivedere un film che non voleva vedere nemmeno la prima volta; Stiles al noleggio DVD era stato categorico e Derek non aveva grandi arti oratorie dalla sua parte per cui aveva dovuto soccombere alle idee del ragazzino. Grazie al cielo si erano addormentati entrambi, anche se c’erano volute quasi due ore (quel film non finiva più e Derek aspettava puntualmente una svolta che non arrivava mai) e ora era costretto a rivederlo? Già questa fuga repentina di Cora gli stava dando da pensare: aveva fatto i bagagli in fretta e furia, sicuramente era riuscita a contattare qualcuno che aveva avuto a che fare con licantropi intrappolati nella loro forma completa. Ma dove stava andando di preciso? Erano i primi di ottobre e sicuramente a Beacon Hills non serviva il cappello di lana, oltre al fatto che Derek aveva visto la sorella buttare il piumino nella borsa che si era preparata per partire. Tutto questo mistero non gli piaceva e il fatto che non potesse esprimere questo suo disappunto se non con lo sguardo e il linguaggio del corpo lo infastidiva. D’altro canto, l’idea di passare un intero weekend in compagnia di Stiles non gli dispiaceva affatto; non che la presenza di Cora impedisse ai due di essere spontanei e naturali (poteva dimenticarsi che era pur sempre un lupo e che Stiles non conosceva la sua vera identità?) ma il fatto che sarebbero rimasti insieme da soli aveva un che di eccitante. Non era tranquillo per Cora, ma aveva fiducia che la sorella se la sapesse cavare in ogni situazione ed era per questo che in quel momento si trovava seduto al centro del salotto nella sua posa più fiera e persuasiva per far capire chiaramente a Stiles che “no, non avrebbero riguardato quel noiosissimo film, nemmeno se fosse stato l’ultimo DVD sulla faccia della terra”. «Sei davvero un dannato “sourwolf”!!» sbottò innervosito Stiles, lanciandosi rumorosamente sul divano. «…un brontolone, Derek, un brontolone…» precisò svogliatamente dopo aver visto dipinta sul muso del lupo un’enorme espressione interrogativa, con tanto di testa inclinata di lato. «Ti piacesse almeno rincorrere la palla da baseball che ti ho regalato l’altra settimana» sbuffò il ragazzo, come se avesse finito le proposte e le forze, passandosi una mano tra i capelli. “Passerei ore ad accarezzarti i capelli, se solo potessi. Ad inspirare il tuo profumo e a baciarti la fronte” pensò tristemente Derek. «Dai non mettere quel muso lungo, su, “Sourwolf” è un soprannome simpatico e ti calza a pennello in una marea di situazioni» spiegò sghignazzando il ragazzo. Derek non poté trattenersi dal saltargli addosso e fargliela pagare, ingaggiando una vera e propria lotta sul divano. Quando il lupo si trovò a sovrastarlo mentre Stiles giaceva supino sotto di lui, con entrambe le braccia bloccate dalle pesanti zampe di Derek, il lupo provò l’impellente desiderio di fermare il fiume di “Ok, ti prego, Derek, mi arrendo, hai vinto, sei tu il più forte e il più Sourwolf” con un bacio, si sentì per l’ennesima volta confuso e inadatto alla situazione. Quella dannata condizione riusciva a mandarlo dalle stelle alle stalle in una frazione di secondo e quella sera Derek non riusciva a sopportarlo. Di colpo scese dal divano, liberando Stiles dalla salda presa con cui lo aveva atterrato e si diresse in camera sua. Salì sul letto e si raggomitolò, sperando di sparire tra quelle coperte.

 

Stiles rimase a lungo disteso sul divano, incapace di capire cosa fosse successo; era un gioco, cos’era successo a Derek improvvisamente? Tutto era sempre più strano, quel lupo aveva comportamenti animali e umani e li alternava nei momenti più disparati. Il fatto che giocassero sul divano era completamente naturale per un cane, ma lo sguardo che gli aveva puntato addosso prima di andarsene, quello era uno sguardo umano. Quello sguardo gridava frustrazione e sconfitta, dolore e inadeguatezza. Ma cosa rendeva doppio quell’animale, cosa lo rendeva così diverso nella stessa situazione? L’unica cosa di cui si stupiva Stiles era che lui comunque non riusciva ad esserne spaventato; non importava cosa nascondesse quello sguardo, Stiles amava quello sguardo così com’era, doppio e misterioso. Non riusciva a sentirsi in nessun modo se non al sicuro e a casa quando quello sguardo vegliava su di lui. E non si spiegava nemmeno questo ma andava bene lo stesso. Dopo alcuni minuti Stiles pensò di raggiungere Derek nella sua stanza: lo trovò accovacciato tra le coperte e si rese conto che il lupo aveva fatto finta di chiudere gli occhi e dormire non appena il ragazzo aveva aperto la porta della sua camera rimasta socchiusa. «Anche se stai dormendo te lo devo dire» Stiles era accucciato davanti al letto di Derek e teneva il viso a pochi centimetri dal muso del lupo. «Prima non hai fatto nulla di sbagliato, non so cosa ti sia preso ma ti assicuro che non è successo nulla» sussurrava così piano che solleticava Derek muovendo l’aria davanti a sé. «Quindi ora tu dormi pure, io sarò nella stanza di Cora visto che me l’ha gentilmente offerta. E non preoccuparti, nessun assassino si presenterà alla nostra porta…» la voce di Stiles aveva cominciato ad incrinarsi. «…nessuno si presenterebbe qui con un coltello, assolutamente no…e poi tu fai più paura di un coltello con quei denti…quindi magari tendi l’orecchio se senti rumori strani…e se hai paura puoi pure venire nel mio letto…sembra che debba fare piuttosto freddo stanotte…». Derek sentì che gli si stringeva il cuore: Stiles era terrorizzato all’idea di rimanere in una stanza buia da solo e cercava di dirglielo a modo suo. Il lupo decise che avrebbe teso l’orecchio: non l’avrebbe fatto per controllare se erano entrati in casa dei malviventi, l’avrebbe fatto per tenere sotto controllo il battito cardiaco di Stiles.

 

Stiles era durato meno di un’ora; poi il suo battito cardiaco era accelerato in maniera impressionante e da qualche minuto Derek lo sentiva rigirarsi nervosamente tra le lenzuola, senza possibilità che trovasse pace. Il lupo stava decidendo il da farsi, cercando di capire in che modo essere d’aiuto a Stiles e giurando a se stesso che non avrebbe fatto come poco prima, non avrebbe abbandonato il ragazzo in quelle condizioni, qualsiasi cosa fosse successa o qualsiasi pensiero gli fosse balenato in testa. Derek scese piano dal letto e scostò la porta appena socchiusa: la luce del comodino di Cora era accesa, almeno non avrebbe rischiato di far fare a Stiles un infarto infilandosi in camera sua al buio. Quando il ragazzo vide spuntare da dietro la porta due grandi occhi azzurri trasse un respiro di sollievo. «Anche tu sentivi rumori strani? Tipo coltelli che venivano affilati, sfregati l’uno contro l’altro …» disse abbassando man mano la voce, rendendosi conto di essere un po’ ridicolo. Gli sembrò quasi che Derek avesse alzato gli occhi al cielo. «Io non lo so, più cerco di calmarmi e più mi agito!» disse al culmine dell’esasperazione. Derek si affidò nuovamente all’istinto, a quella voce interiore animale che lo aveva guidato quando Stiles aveva avuto l’attacco di panico nel bosco. Si avvicinò al letto, dove il ragazzo stava seduto con le gambe ciondolanti che sfioravano il pavimento mentre si teneva la testa con entrambe le mani. Appoggiò la grande testa sulle ginocchia di Stiles, obbligandolo ad alzare il viso: lo fissò come quel pomeriggio, intensificando il colore dei suoi occhi. Sembrava impossibile ma era l’unica cosa che calmava il ragazzo, che lo faceva prendere coscienza della situazione. Stiles rimase impigliato in quello sguardo, ancora una volta quello sguardo era umano, lo capiva, lo comprendeva, lo consolava, e ancora una volta era il suo filo di sicurezza, ciò che lo teneva ancorato alla realtà. Tirò su forte col naso, cercando di darsi un contegno, risistemandosi la maglia del pigiama e provando a ridistendersi a letto. Derek cercò di capire se tutto era tornato alla normalità e decise quindi di avviarsi di nuovo a letto. Un attimo prima che varcasse la soglia della camera sentì un bisbiglio, un suono che un umano probabilmente non avrebbe colto ma che lui comprese benissimo. «Non è che resteresti qui a dormire con me?». Derek non se lo fece ripetere due volte, sempre che Stiles trovasse il coraggio di ripetere una frase del genere una seconda volta. In un solo balzò fu sul letto e sorrise mentalmente al vedere che il ragazzo si era già raggomitolato su un fianco per fargli posto. Il lupo si distese premendo la schiena sul petto ancora ansante di Stiles, appoggiando la testa sul cuscino proprio accanto a quella del ragazzo. Stiles allacciò immediatamente le braccia intorno al collo di Derek, affondando il viso nel soffice pelo dell’animale, inspirando a fondo e lasciando un piccolo bacio tra le due orecchie del lupo. La coda di Derek oscillò su e giù sulle gambe del ragazzo, provocandogli ogni volta un brivido che scendeva rapido lungo la schiena. Nel frattempo le mani di Stiles non sapevano stare ferme e per scaricare la tensione cominciò ad accarezzare il manto del lupo disegnando piccole spirali lungo il muso, le spalle, le zampe. Alla fine Derek decise di voltarsi perché non sopportava più di essere ad un soffio da quegli occhi e non ammirarli tutta la notte. Stiles cominciò a disegnare le sue invisibili spirali ovunque sul muso dell’animale, anche se adorava farle in mezzo agli occhi. Il riflesso involontario di Derek era quello di chiuderli ma Stiles amava la tenacia che metteva nel cercare di tenerli aperti, lottando con tutto se stesso. «Sai, potrei abituarmi a farti questo genere di coccole» disse Stiles in un soffio, ad un palmo dal naso di Derek, con la voce soffice e dolce quanto quegli occhi color caramello. “Sai, potrei abituarmi a darti il mio cuore tutte le notti, per tutta la vita” pensò Derek, finalmente sereno.

 

 

Note finali: Allora, il prossimo aggiornamento doveva essere a metà della settimana prossima. Il problema è che sarò via e senza Wi-Fi la settimana successiva alla prossima e vi assicuro che il sesto capitolo finisce con tante cose in sospeso. A questo punto, siccome non sono così crudele da lasciarvi su un punto cruciale della storia e andarmene via, ho deciso di sospendere al quinto capitolo la storia, per riprenderla tra quindici giorni. Spero capiate la situazione, ho cercato la soluzione migliore. Però queste non sono le uniche news! Ho scritto un paio di OS a tema invernale e ho deciso che le pubblicherò la settimana prossima, così non vi mancherò troppo :D A parte gli scherzi, spero che questo cambiamento non vi dispiaccia troppo e che seguiate anche le due storie Sterek piene di fluff che ho in serbo per voi. Ora penso di aver detto anche troppo, grazie per la pazienza e il supporto, mi state dando tutto quello che potrei volere! Alla prossima settimana con le one shot, spero vi piaceranno! ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Dimmi chi sei ***


Note iniziali: Sono tornata! :) Mi è mancato un sacco aggiornare ogni qualche giorno. Spero siate carichi dopo la pausa e pronti ad un capitolo bello tosto!

Questo capitolo segue parallelamente la giornata di Cora e quella di Derek e Stiles. Troverete i paragrafi dedicati a Cora con la scrittura normale e quelli dedicati a Derek e Stiles in corsivo.

 

 

 

CAPITOLO 6: Dimmi chi sei

 

Il sole aveva appena fatto capolino da dietro le montagne, a segnare l’inizio di una nuova giornata; i suoi raggi arrivarono a lambire la macchina di Cora, ancora rannicchiata sul sedile e immersa in un sonno abbastanza vigile. Si era fermata a tarda notte a lato della strada, aveva viaggiato parecchio verso nord e il paesaggio aveva cominciato a cambiare, insieme alla temperatura. La ragazza si stropicciò gli occhi stanchi, distese le braccia e chiudendosi il piumino scese dall’auto. Erano quasi le sette di mattina e soffiava già una brezza leggera, destinata a diventare più fredda una volta che il sole fosse sorto completamente e Cora avesse proseguito il viaggio verso nord, verso il confine dello stato. Aveva appuntamento con l’Alpha in mattinata, per cui la ragazza decise che poteva concedersi due passi per sgranchirsi le gambe. La strada che aveva percorso e a lato della quale si era fermata si insinuava in mezzo ad una estesa riserva naturale, dove gli alberi si susseguivano e si rincorrevano uno dietro l’altro. Cora camminò per qualche minuto, senza allontanarsi eccessivamente dal luogo dove aveva parcheggiato l’auto; voleva sentirsi ancora a casa, camminare nel bosco e sedersi ai piedi di un albero, respirare l’aria pungente a pieni polmoni. Si accovacciò per terra, su un tappeto di foglie secche, portandosi le ginocchia al petto: sarebbe stata una lunga giornata, pensò sospirando. Poi prese dalla tasca il suo telefono cellulare e osservò nuovamente la foto che faceva da sfondo al suo schermo: Stiles e Derek dormivano abbracciati. E Cora si sentiva a casa.

 

Derek aprì un occhio quando sentì il calore del primo raggio di sole mattutino scaldargli le zampe. Dovevano essere più o meno le sette, poteva dedurlo dalla quantità di luce che filtrava dalle tende della stanza di Cora…tende che Stiles si era dimenticato di chiudere, ecco perché ora il sole stava cominciando a inondare inesorabilmente la stanza. Ma Stiles sembrava non accorgersi di nulla, sembrava immerso in un sonno profondo e rilassato. Derek si prese tutto il tempo per ammirare il ragazzo che dormiva così vicino a lui: la pelle candida e liscia, i suoi caratteristici piccoli nei, la curvatura delle labbra che al centro sembravano formare un delizioso cuoricino, le lunghe ciglia che nascondevano al momento l’indescrivibile colore di occhi del ragazzo. Ma più di tutto, aveva un mezzo sorriso sulle labbra che faceva crollare ogni barriera di Derek, che lo faceva sentire allo stesso tempo così vulnerabile e così vivo. Poi quel sorriso si increspò per allargarsi in uno ancora più grande, mentre due occhi liquidi si aprivano per puntarsi in quelli blu mare del lupo. «Buongiorno Sourwolf! E così sei sveglio anche tu. Io senza il mio cuscino non so stare…anche se devo dire che sei stato un degno sostituto, grazie» e senza alcun preavviso gli sfiorò con le labbra il centro della fronte, proprio sopra gli occhi, lasciandogli sul pelo un casto e innocente bacio. Derek trasalì e non poté fare a meno di pensare che quello era il modo in cui avrebbe voluto svegliarsi ogni mattina per il resto della sua vita.

 

Cora aveva trovato un bar nella stessa cittadina dell’Alpha, poco distante dalla casa dove avrebbe dovuto incontrarlo. Aveva bisogno di una bella dose di caffè e qualcosa da mettere sotto i denti prima di incontrarlo. La porta della caffetteria si aprì, cigolando appena sui cardini arrugginiti, facendo entrare la ragazza in un ambiente semplice e ben sistemato. Non era un locale particolarmente grande, ma era arredato in maniera calda e accogliente, come una cucina domestica. I tavoli erano apparecchiati con delle tovaglie a scacchi bianchi e rossi e l’aroma di caffè nero si espandeva in tutto lo stabile: era così che sognava sarebbe stata la caffetteria del suo hotel, voleva che i suoi ospiti entrando si sentissero a casa. Si sedette al bancone, amava dondolare le gambe su quegli sgabelli altissimi, la faceva tornare indietro di anni e anni, quando Derek doveva aiutarla a salirci sopra mentre Talia preparava deliziosi pancakes per colazione. «Una porzione di pancakes con lo sciroppo e un caffè…fallo doppio, per piacere» chiese strizzando l’occhio al cameriere che stava pulendo il tavolo con uno straccio in attesa dell’ordinazione della ragazza. «Arrivano subito!» ribatté il ragazzo mettendosi subito al lavoro, non prima di averle ricambiato l’occhiolino. Cora abbassò lo sguardo, arrossendo appena e abbozzando un sorriso assonnato.

 

Derek entrò in cucina, mentre Stiles stava lavorando già da qualche minuto tra latte, cereali e tazze. Non avendo avuto tempo di ripassare da casa e prepararsi una borsa, Stiles aveva avuto l’ok da Cora per utilizzare il guardaroba di Derek. Il lupo lo trovò girato di spalle, di fronte al bancone della cucina, intento a gestire contemporaneamente il tostapane e la macchina del caffè. Aveva indossato i vecchi pantaloni della tuta di Derek che non poté fare a meno di notate che, nonostante gli stessero larghi, il sedere piccolo, tondo e sodo che si ritrovava ne usciva comunque esaltato, perché il tessuto gli cadeva perfettamente sopra e ne lasciava intravedere le giuste curve. I pantaloni erano però indubbiamente della taglia sbagliata, per cui in vita stavano troppo larghi al ragazzo, che continuava a cercare di tirarseli su ad ogni passo, rischiando di rovesciare scatole, tazze e posate. Se questo non fosse bastato a mandare già in ebollizione Derek, la maglia che Stiles aveva indossato si era appoggiata su un fianco e il continuo cadere dei pantaloni metteva in mostra quel lembo di pelle e l’elastico degli slip del ragazzo: se questa era solo la mattina del sabato, Derek pensò che non sarebbe arrivato vivo alla fine del weekend. In quello stesso momento Stiles si girò raggiante, tendando ancora goffamente di non far cadere né i piatti che teneva in mano né gli indumenti che teneva addosso. «Ed ecco la colazione, mio caro Derek!» esclamò eccitato posandogli davanti al muso un piatto di pancakes appena cucinati. Quello era il miglior profumo del mondo, dopo quello di Stiles.

 

Cora sorseggiò con calma il suo caffè, aspettando che la caffeina entrasse in circolo e le desse le forze che le sarebbero servite: sarebbe stata una giornata molto lunga. «…e così…sei qui di passaggio?» Il barista. Cora se n’era quasi completamente dimenticata, si era immersa nella marea di pensieri che le ingombravano la mente, lasciando che il suo sguardo si perdesse nel vuoto. Si riscosse improvvisamente, girandosi di scatto verso il suo interlocutore. «Oddio, scusa, sono stato indiscreto. Fai finta di non avermi sentito» si scusò subito il ragazzo. «No no, tranquillo. Ero solo ancora mezza addormentata. Comunque, beh, sono in città per degli affari di famiglia» e sorrise come per dire che non poteva aggiungere altro. «Mi piace un sacco l’arredamento di questo posto. Sei tu il proprietario?» chiese per cambiare argomento. Non voleva risultare sgarbata e preferiva spostare la conversazione su temi più leggeri. Inoltre era davvero interessata a quel posto, era solita fantasticare su come sarebbe stato un giorno un locale tutto suo, un hotel tutto suo. «In realtà è dei miei nonni, io aiuto in cucina solo da qualche anno» spiegò timidamente il barista. In effetti a prima vista poteva avere più o meno l’età di Cora mentre il posto, per quanto ben tenuto e sempre elegante, dimostrava abbastanza più anni. In quel momento a Cora suonò il cellulare: l’Alpha voleva confermare l’orario del loro incontro e la ragazza si rese conto che non mancava poi così tanto. Ringraziò calorosamente il barista per la colazione e per le chiacchiere e gli lasciò sul bancone una discreta mancia. Era stato un bell’incontro, la ragazza era riuscita a scaricare un po’ di tensione che si teneva dentro da quando era partita. Amava incontrare la gente e scambiare due parole, confrontarsi su un mondo in cui lei sognava un giorno di poter entrare.

 

Derek si avventò sul piatto immediatamente, non solo perché aveva parecchia fame ma anche perché sapeva delle doti culinarie di Stiles. Non capitava spesso che cucinasse per lui, ma quando lo faceva, soprattutto se si trattava di dolci, Derek andava fuori di testa: quel ragazzo sapeva come prenderlo per la gola. «Allora apprezzi i miei pancakes, eh lupastro?» scandì con una punta di soddisfazione Stiles. Derek alzò la testa dal piatto solo per dargli un piccolo abbaio, quasi a bocca chiusa; Stiles scoppiò a ridere per la situazione in cui si trovava il muso del lupo, completamente sporco e appiccicoso. «Fatti pulire un po’» provò a dirgli il ragazzo, posando la tazza di caffè che stava bevendo e girandosi sullo sgabello per prendere un paio di salviette. Ma Derek capì subito quello che stava per fare e afferrando coi denti l’ultimo pezzo di pancake saltò giù dalla sedia e schizzò sotto il tavolo. Stiles lo raggiunse in un attimo, tentando di afferrarlo per i fianchi; tuttavia il lupo riuscì a sfuggirgli, uscendo da sotto il tavolo e correndo dalla parte opposta della cucina. Stiles uscì goffamente passando in mezzo alle sedie e invece che rincorrere Derek si fiondò verso la porta della cucina: il lupo capì troppo tardi che gli stava togliendo ogni possibilità di fuga girando la chiave nella serratura e chiudendolo dentro la stanza. «E ora a noi due, Sourwolf!» e quello sembrava un vero e proprio grido di battaglia.

 

La casa dell’Alpha era poco fuori dalla città; Cora sapeva per esperienza personale che un branco di lupi mannari non ama vivere in centro, preferisce stabilirsi nella periferia, possibilmente più vicino alla natura che agli umani. Non fu difficile trovare l’abitazione, la strada sterrata che la ragazza aveva imboccato appena le ultime case avevano cominciato a diradarsi l’aveva portata direttamente di fronte al caseggiato. L’edificio si sviluppava più in lunghezza che in altezza, a giudicare dal numero di finestre possedeva un piano terra, un primo piano e un attico. Cora parcheggiò l’auto accanto alle altre tre vetture che erano poste accanto alla casa; poco più in là si estendeva un lungo steccato, oltre il quale solo la natura aveva potere. Il verde brillante dei prati e degli alberi stonava con il grigiore tetro dell’abitazione, che doveva essere parecchio vecchia o quantomeno mal tenuta. In diversi punti la vernice era scostata e si poteva intravedere il colore del legno che però nei punti scoperti si stava riempiendo di muschio o stava marcendo. Cora inspirò a fondo, il cuore le batteva forte nel petto e la cosa peggiore era che sapeva benissimo che l’Alpha sapeva che lei era lì e che era agitata: non poteva fare un’entrata in scena peggiore. Scrollò le spalle, cercando di togliersi quella sensazione di dosso e si concentrò sull’unica cosa che sapeva riusciva sempre a rimetterla in carreggiata: lo stava facendo per suo fratello, ogni cosa era per Derek. Non poteva fare altro che andare avanti a testa alta, esitare ancora sulla porta di casa non era contemplabile; si sistemò la giacca, sfilò il cappello di lana e passò rapida una mano tra i capelli mentre l’altra premeva forte e a lungo il campanello.

 

«Non hai via di scampo, sai cosa vuol dire Derek? Che ti prenderò e ti laverò, dovessi radere al suolo questa cucina!» La risata che seguì questa frase fu talmente perfida che Derek sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Ma non era uno dei soliti brividi che provava quando era con Stiles, quella era terrore puro, perché sapeva che in un modo o nell’altro quel maledetto ragazzino avrebbe vinto. L’unica cosa da fare era almeno non dargli la soddisfazione di vincere facile, aveva pur sempre sfidato un Hale e un Hale raccoglie sempre il guanto di sfida. Stiles si avventò senza preavviso su Derek, che scattò facilmente in direzione opposta, posizionandosi esattamente sotto il piano cottura, progettando in un attimo un piccolo piano di vendetta: se doveva essere costretto a fare un bagno, non sarebbe stato l’unico. Se avesse potuto avrebbe sorriso, anzi ghignato al ragazzo che stava per scaraventarglisi addosso, nel modo più goffo e più “alla Stilinski” che Derek avesse mai visto. Derek aveva intenzione di scartare all’ultimo secondo e Stiles si sarebbe trovato ad aggrapparsi al piano cottura e a rompere le uova che aveva lasciato lì. “Mai mettersi a mangiare senza aver risistemato gli ingredienti al loro posto” pensò soddisfatto e pronto a godersi la scena Derek. Quello che il lupo non aveva calcolato era che il ragazzo potesse, durante la corsa, scivolare su una salvietta (caduta a terra nella foga di rincorrersi intorno al tavolo) e appendersi alla terrina (piena di farina, immaginava) che aveva appoggiato sul bancone. Stiles scivolò direttamente disteso per terra, ai piedi di Derek, e fece catapultare il contenitore in faccia ai due. Derek dovette rettificare la sua ipotesi: la terrina era piena di farina e rossi d’uovo. Quella era decisamente una mossa “alla Stilinski”.

 

L’Alpha lasciò passare un po’ di tempo prima di raggiungere l’ingresso e aprire la porta, nonostante Cora sapesse che l’aveva sentita arrivare; questo dettaglio le ricordò molto sua madre: un Alpha che vive in mezzo agli umani non deve mai lasciar trasparire nulla di sovrannaturale nelle sue azioni. Cora aveva potuto solo immaginare, attraverso la voce al telefono, la fisionomia di quell’uomo, ma non era andata tanto lontana da quello che si trovava davanti: un uomo sui trentacinque anni, alto e piazzato. I capelli corvini erano sistemati perfettamente all’indietro e la barba era accuratamente rasata; i suoi occhi, neri e profondi come la notte, squadrarono con diffidenza Cora, che sostenne fiera lo sguardo: era sempre una Hale, non aveva nulla da nascondere o di cui vergognarsi. L’Alpha era vestito con un paio di pantaloni non troppo attillati neri e una maglia di lana color antracite, che lasciava intravedere la forte muscolatura; niente di cui Cora si meravigliasse, aveva conosciuto altri Alpha e sapeva che una volta acquisito il nuovo potere la muscolatura aumentava di conseguenza, soprattutto se il nuovo branco era numeroso e particolarmente legato. Non ne aveva ragione, ma alla piccola Cora, abituata ad un branco “familiare” e ad un Alpha disponibile e protettivo come Talia, quell’uomo incuteva più paura che rispetto. «Piacere, sono Cora Hale» esordì, sperando con tutta se stessa che non le tremasse la voce proprio in quel momento. «So chi sei. E tu sai chi sono io. Non ci servono presentazioni. Andiamo diretti al punto per cui mi hai contattato» rispose secco e tagliente l’Alpha, indicando l’interno dell’abitazione. Cora varcò la soglia e pregò di non essere appena entrata nella tana del lupo…metaforicamente, visto che letteralmente l’aveva appena fatto.

 

«Mi sa che questa volta ho combinato un bel casino…» balbettò Stiles, ancora disteso per terra, non sapendo nemmeno come rialzarsi in quel disastro di uova e farina. “Mi sa che questa è la volta buona che lo uccido” pensò furibondo Derek, aprendo un occhio e vedendo bianco e rosso ovunque. Stiles era a pochi centimetri dal suo viso e…e nonostante tutto Derek doveva ammettere che era ridicolmente divertente vederlo in quella condizione. I capelli che un volta erano castani erano ricoperti da una spessa coltre di polvere bianca, mentre i ciuffi che di solito gli ricadevano scomposti sulla fronte sembravano incollati alla pelle da coli viscosi che gli rigavano tutto il viso. Tuttavia la parte più impagabile della scena era l’espressione serafica e a tratti un po’ preoccupata che il ragazzo stava sfoggiando, come se si fosse trovato magicamente in quella situazione, come se non si rendesse conto che la sua goffaggine ce l’aveva cacciato dentro fino al collo. Quando finalmente Stiles si girò e incrociò lo sguardo di Derek, scoppiò in una risata scomposta, portando immediatamente le mani allo stomaco e strizzando gli occhi, incapace di fermarsi. Derek infatti non era per nulla messo meglio di Stiles: il lucido manto nero era quasi completamente ricoperto di un appiccicoso misto delle due sostanze, ma la cosa più divertente era lo schizzo di rosso d’uovo che campeggiava al centro della fronte del lupo. «Namasté, Derek, cosa può vedere il tuo potente terzo occhio?» farfugliò il ragazzo tra le lacrime, portando i palmi uno contro l’altro al centro del petto, imitando il tipico saluto indiano.

 

Cora aveva passato l’ultimo quarto d’ora seduta su un vecchio divano a raccontare ogni più piccolo particolare di quelle due settimane di allenamenti, fino a descrivere minuziosamente il giorno in cui Derek era rimasto prigioniero del suo stesso corpo. Aveva rivissuto l’accaduto con la stessa ansia e lo stesso senso di colpa che si portava dietro da quel momento: era stata lei a forzare la mano, a convincere uno scettico Derek a provare una cosa tanto difficile quanto poco conosciuta. L’Alpha aveva ascoltato in silenzio, con uno sguardo severo che non aveva mai staccato da Cora, mentre la ragazza ripercorreva quei giorni, torturandosi le mani, i vestiti e i ciuffi di capelli sfuggiti all’improvvisata coda che aveva legato appena seduta. Quello sguardo inquisitorio sicuramente non aiutava la sua agitazione, ma cercò in tutti i modi di darlo a vedere il meno possibile, rallentando i battiti ed evitando di far percepire la voce che in certi momenti calava e tremava. Dopo una lunga pausa, alla fine del racconto di Cora, finalmente l’Alpha prese la parola «Perché?» chiese, ma il suo tono era leggermente troppo alto perché la ragazza potesse pensare che fosse una domanda accorata. Cora optò per la sincerità totale, non aveva alcun senso mentire «Quest’anno divento maggiorenne, è finita la storia degli orfanelli Beta, diventiamo due Omega a questo punto e possiamo dimenticarci di avere un branco. Speravo che la trasformazione totale potesse far capire a chiunque avesse intenzione di attaccarci che non siamo due cani abbandonati a loro stessi. E magari avrebbe portato Derek ad ereditare lo status di Alpha, dopo mamma e Laura. Dobbiamo uscire dalla spirale di sensi di colpa per il fatto che noi non eravamo nella casa durante l’incendio e che non abbiamo potuto fare altro che guardare morire il nostro branco, la nostra intera famiglia!» Cora sputò le parole con rabbia, trovandosi ad ansimare, con gli occhi fissi su quelli inespressivi del suo interlocutore. «Perché siete venuti da me dopo tre anni di silenzio con tutta la comunità» sillabò piano l’uomo, senza staccare mai gli occhi da quelli di Cora. La ragazza boccheggiò: si aspettava una reazione diffidente ma non completamente ostile. «Qualcuno di voi si è mai preoccupato di sapere come ce la stavamo cavando, come un ragazzo appena maggiorenne potesse prendersi cura della sorella dopo che avevamo perso tutto quello che avevamo sulla faccia della terra?? Scusate se non vi abbiamo portato personalmente una torta per ringraziarvi dei vostri miseri telegrammi!» urlò Cora scattando in piedi. Decisamente questa era la mossa che non doveva fare. In un attimo l’Alpha le fu ad un soffio dal viso, la ragazza ne poteva sentire il respiro caldo sul viso; era terrorizzata ma l’orgoglio le impedì di chiudere gli occhi, continuò a puntarli dritti in quelli minacciosi del licantropo (che lampeggiavano di rosso) stringendo forte le labbra. «Chiariamo, sei in casa mia, ragazzina. Questo tono non è accettabile. Sei qui per chiedere aiuto o per dichiarare guerra? Sappi che siamo pronti ad entrambi» e detto ciò allentò la presa sul bordo della felpa di Cora, lasciandola ricadere inerte sul divano di pelle.

 

Stiles girò il rubinetto dell’acqua calda fino a fine corsa e chiuse il tappo della vasca, mentre cercava negli armadietti del bagno qualche genere di detergente da buttarci dentro. Derek era seduto sulla soglia della stanza, con una faccia che esprimeva un misto di disapprovazione e rassegnazione; il ragazzo lo aveva fatto sedere su un paio di giornali perché aveva detto “Se devo lavare la cucina da cima a fondo non ti farò certo sporcare il resto della casa”. “Come se fosse stata colpa di Derek!”, il lupo avrebbe voluto proprio dirglielo e invece doveva limitarsi a fissarlo con quello sguardo. Quando Stiles se ne accorse fece un balzò indietro, rischiando quasi di finire dentro la vasca. «Sei davvero inquietante, Sourwolf! Sei un pericoloso misto tra un Grumpy Cat e un gatto assassino! Mi fai venire i brividi» concluse con un’aria davvero terrorizzata. «Allora l’acqua è calda e piena di schiuma, chi vuole farsi un bagnetto??» chiese rivolto al suo unico interlocutore, che ora aveva cambiato il suo sguardo in uno che diceva chiaramente “Dog sitter, non baby sitter, Stiles. Ricordati che ho le zanne” e che era esattamente quello che stava passando nel cervello di Derek. Dieci minuti più tardi Stiles stava divertendosi come un pazzo a mettere tutta la schiuma che poteva sulla testa del lupo, canticchiando un’improvvisata canzoncina che recitava “Quanto sei sporco Sourwolf, Stiles lavanderino è qui per te!”. Derek stava già progettando di azzannarlo quando Stiles cominciò a sfilarsi la maglia con cui aveva dormito e il lupo si pietrificò. Era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da quella situazione. «Questa è meglio buttarla nel lavandino prima che il proprietario sappia cosa le ho fatto passare» e strizzò l’occhio al lupo. Derek perse un battito e rimase ancora immobilizzato nella stessa posizione, finché Stiles pensò bene di togliersi anche i pantaloni della tuta e rimanere in aderenti boxer neri. Il lupo progettò di infilare la testa sott’acqua e non riemergere finché non fosse stato cadavere pur di togliersi dalla testa le immagini pornografiche che gli stavano venendo in mente una dopo l’altra. L’acqua era per caso diventata bollente? Se un lembo di pelle appena scoperto lo aveva sconvolto solo un’ora prima, questa situazione era decisamente molto peggiore. L’incarnato decisamente pallido del ragazzo era esaltato dal colore scuro dell’intimo, che data la sua aderenza lasciava ben poco all’immaginazione di Derek, che in quel momento non poteva che essere fervida. Quel ragazzo era paradiso e inferno fusi insieme e Derek non poteva esserne più innamorato.

 

Dopo quello sfogo la situazione sembrava essersi placata, Cora aveva smussato per il momento il suo carattere e optato per un basso profilo mentre l’Alpha sembrava soddisfatto dopo aver rivendicato ciò che era suo e sottolineato di avere il coltello dalla parte del manico. Cora iniziava ad odiare quella giornata, ma doveva proseguire a tutti i costi. «Sono qui per chiederti se hai mai avuto a che fare con casi del genere o se hai sentito parlare di situazioni simili a quella di mio fratello» riprese Cora, cercando di utilizzare il tono più umile che potesse conoscere. L’Alpha inspirò e si alzò dalla poltrona su cui era seduto, di fronte alla ragazza, raggiungendo la gigantesca libreria che si innalzava dietro di lei; scorse col dito i titoli sullo spessore degli antichi volumi, cercando un tomo in particolare. Una volta trovatolo lo fece uscire e lo aprì verso la fine: l’odore di carta antica raggiunse le narici di Cora, insieme ad una buona quantità di polvere, che la fece starnutire. «Conosci il mito di Licaone?» chiese, ancora rivolto verso l’immensa scaffalatura di libri. Senza lasciarla rispondere proseguì «Licaone è stato trasformato in lupo per la sua empietà, per aver sfidato gli dei e le leggi della natura. Per aver forzato ciò che doveva essere naturale» e qui puntò lo sguardo in quello di Cora, facendo scivolare sul tavolo il libro, aperto su una pagina che riproduceva un’incisione rappresentante il banchetto di carni umane e la trasformazione di Licaone. «Ti ricorda nulla? Anche tu e tuo fratello avete forzato le leggi naturali, o meglio, quelle sovrannaturali.» Cora ammutolì, incapace di replicare. «Sai cosa succedeva, a coloro che si cibavano delle viscere delle vittime umane sacrificate a Zeus Liceo in Arcadia? Venivano trasformati in lupi. Per otto anni. Otto lunghi anni. Questo secondo un’altra versione del mito: ma anche noi licantropi siamo un mito, non credi Cora?» concluse l’Alpha risedendosi al suo posto, con un enigmatico sorriso sul volto. «Otto anni…» sussurrò Cora, più a se stessa che altro. «E non c’è alcun modo di tornare indietro? Nulla che possiamo più fare? Nulla??» chiese disperata la ragazza, senza nemmeno rendersi conto che l’ultima domanda era stata come una disperata richiesta d’aiuto in uno scenario senza speranze.

 

Derek sopravvisse alla prova costume di Stiles. Non seppe come ma sopravvisse anche quando il ragazzo decise che non c’era niente di sconveniente a darsi una sciacquata a gambe, braccia e testa nella stessa vasca in cui c’era Derek, tanto non si spogliava del tutto e Derek era un lupo. Un lupo che trattenne il respiro per tutto il tempo in cui il ragazzo di cui si era innamorato un anno prima si lavava nella stessa vasca con lui, con un paio di boxer neri, attillati e bagnati davanti ai suoi occhi.

 

«Ho sentito di un licantropo, una volta, intrappolato nel suo stesso corpo di lupo, che è riuscito a invertire la trasformazione» a Cora si illuminarono gli occhi, ma l’Alpha mise subito le mani avanti. «Devi sapere che ha avuto dalla sua parte un tassello fondamentale della sua vita, senza il quale non avrebbe mai potuto sovvertire le regole del sovrannaturale. L’unica cosa che può farlo è l’amore: questo licantropo aveva la sua compagna.» Cora si infossò nella poltrona. «Deduco che tuo fratello non abbia ancora alcuna compagna…o compagno» le lesse nel pensiero l’Alpha. «Sappi solo che se Derek vuole tornare umano ha bisogno del suo “soulmate”. Quella persona che non solo lo attrae fisicamente…»

 

Derek pensò davvero che sarebbe morto. Una volta uscito da quella situazione seppe perfettamente che non avrebbe più dormito la notte, troppe immagini gli sarebbero passate davanti agli occhi una volta disteso a letto o rientrato in quel (porno) bagno.

 

«…ma che si prenda cura di lui in ogni situazione e che condivida con lui ogni gesto, per quanto piccolo o insignificante possa sembrare, anche nella quotidianità…»

 

Ancora sotto shock, Derek uscì dalla vasca insieme a Stiles che lo avvolse in un soffice asciugamano, intrufolandosi poi nella sua camera per rubargli altri vestiti puliti e ne uscì con una Henley bordeaux (che gli stava un po’ meno attillata rispetto a come stava al proprietario, ma che gli donava parecchio, si ritrovò a pensare Derek) e un paio di pantaloni della felpa, perché diceva che con quelli era comodo sempre, anche se gli cadevano da tutte le parti in continuazione.

 

«…che passi del tempo con lui, che lo incuriosisca e lo sorprenda, che lo faccia sentire amato anche se non è umano…»

 

Derek lo seguì in corridoio, curioso di sapere cosa frullava in quella testolina tutta spettinata; Stiles appoggiò la mano sulla porta della cucina, indeciso sul da farsi. «Naaah, andiamo fuori, qui sistemerò dopo!» propose girandosi verso Derek, a cui venne spontaneo scodinzolare, si sentiva di poter essere se stesso, il se stesso lupo, se Stiles era con lui.

 

«…di cui Derek si fidi senza nemmeno dover pensare a dove sta andando…»

 

Uscirono con la Jeep di Stiles come sempre e la lasciarono nel solito punto; quel giorno però Stiles voleva esplorare nuovi posti, per testare il suo neo sviluppato senso dell’orientamento e Derek era così assorto nei suoi pensieri che lo seguiva senza fare caso a dove stavano andando.

 

«…che sappia esserci per lui anche nei momenti peggiori, in quelli in cui tutto sembra crollargli addosso, senza alcuna logica…»

 

Fu solo quando si trovarono in un grande spazio verde in cui non erano mai stati, dove il bosco si diradava e gli arbusti crescevano bassi e radi, che Derek alzò lo sguardo e fu come se fosse stato colpito da un pugno nello stomaco: erano di fronte a ciò che restava di casa Hale.

 

«…una persona che sappia chi è il lupo e chi è Derek» concluse l’Alpha e il silenzio avvolse la stanza.

 

Derek si paralizzò, seduto di fronte alle macerie della sua infanzia, della sua vita. Stiles non se ne rese conto finché non lo vide più accanto a sé; corse indietro e lo chiamò, ma il lupo sembrava non sentire nulla. Solo un attimo dopo Stiles si rese conto che Derek non era solo pietrificato, no, Derek stava piangendo, stava piangendo lacrime vere, lacrime umane. In una frazione di secondo gli scorsero davanti tutte le immagini e i pensieri riguardo al fatto che tante cose in quel lupo sembravano umane, che aveva comportamenti strani, ambigui. Gli si inginocchiò di fronte, gli prese il muso tra le mani e lo fissò dritto negli occhi blu, riuscendo a specchiare i suoi dorati nelle lacrime che continuavano a solcare il muso del lupo. Sgorgavano una dietro l’altra, si rincorrevano senza sosta, scorrevano sulle mani di Stiles, che continuava a tenergli il muso a pochi centimetri dal suo viso. Avrebbe voluto chiedere a quello sguardo inerte perché ogni volta che si toccavano aveva un brivido, perché gli sembrava di averlo già conosciuto, perché il solo contatto coi suoi occhi gli aveva bloccato l’attacco di panico, perché sembrava sempre leggergli dentro ogni emozione, perché avevano instaurato in così poco tempo un collegamento così speciale, perché erano così legati, perché sentiva che non voleva nient’altro se non passare del tempo con lui, perché dovevano esserci tutti quei perché in sospeso. La frase che in quel tornado di domande uscì dalle labbra soffici di Stiles fu solamente una. E non era una domanda, non era nessuno degli interrogativi che da settimane lo facevano riflettere. Era un’affermazione che suonava come un imperativo, un ordine alla persona che gli stava davanti. «Dimmi chi sei» Stiles lo sillabò impercettibilmente e Derek sentì il suo respiro caldo addosso. «Dimmi chi sei» questa volta Stiles lo sussurrò, come se lo dicesse a se stesso, mentre le lacrime del lupo continuavano a bagnargli le mani. «Dimmi chi sei» questa volta Stiles lo disse a voce alta. Strinse le labbra aspettò in silenzio una risposta.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** O su o giù ***


Note iniziali: Volevo aggiornare un po’ prima…ma alla fine ho anticipato solo di un giorno! Spero che vi faccia comunque piacere, sono state giornate abbastanza piene. Per il prossimo aggiornamento dovrete avere un po’ di pazienza, non so esattamente quando riuscirò a pubblicare. Ma non temete, farò di tutto per non farvi aspettare troppo! ;)

Spero apprezziate anche questo capitolo. La parte in corsivo è un flashback rispetto alla narrazione con la scrittura normale.

Buona lettura, grazie come sempre per il supporto! :D

 

 

 

CAPITOLO 7: O su o giù

 

Cora corse su per le scale, affannata, verso la porta del suo appartamento, inciampando più volte sugli ultimi gradini. Era tornata di corsa a Beacon Hills subito dopo la conversazione con l’Alpha; era ancora sabato e il sole stava appena tramontando, lambendo con i suoi raggi di fuoco le ultime case, i tetti e le finestre. Non aveva trovato una soluzione definitiva ma dopo settimane di ricerche quello era il primo dato certo su cui poteva basarsi: aveva bisogno di raccontare tutto a Derek, l’aveva tenuto all’oscuro delle sue scoperte per troppo tempo. Non sapeva perché ma sentiva che avevano qualche speranza ed era sicura che Stiles potesse essere un tassello fondamentale ora che era una parte così importante nella vita di suo fratello. La ragazza aveva già le chiavi in mano ma appena le infilò nella serratura fu come bloccata: un odore strano, una brutta sensazione, un brivido gelato lungo la schiena. Probabilmente lei non era l’unica ad avere novità ma l’unica certezza era che dentro quella casa nulla sapeva più di felicità come quando l’aveva lasciata.

 

Sul divano, Derek stava seduto immobile, il viso rigato a ritmo continuo dalle lacrime; aveva gli occhi gonfi di chi non ha smesso di piangere per ore, il verde delle iridi quasi cancellato dal rossore che si irradiava da esse. Sedeva a gambe incrociate, le braccia abbandonate inerti sulle ginocchia, lo sguardo appannato perso nel vuoto oltre la finestra. Un raggio di sole, tagliente, affilato, rosso quanto il sangue, gli colpiva direttamente gli occhi; non sembrava preoccuparlo. Il ritmico scorrere delle lacrime era alternato dai singhiozzi che, sordi, scuotevano con forti tremori il corpo di Derek; lui li subiva passivamente, senza tentare nemmeno di reprimerli o di contenere gli spasmi che agitavano i suoi muscoli in tensione. Ogni tanto socchiudeva gli occhi e altre piccole lacrime si staccavano dalle sue ciglia per cadere sulla maglia o sui pantaloni; tutto sembrava fermarsi in quel momento, cercava di prolungare il tempo in cui teneva gli occhi chiusi, come se farlo cancellasse quello che era successo o il dolore che gli lacerava il petto. Non sembrava accorgersi di nulla di ciò che gli accadeva intorno, era completamente esternato da se stesso e dal suo corpo: sarebbe rimasto giorni su quel divano se non fosse arrivata Cora. «Derek?? Derek?? DEREK!!» Cora gli teneva il viso con entrambe le mani, cercando di raggiungere un contatto con i suoi occhi, tentando di asciugargli alla buona il viso bagnato di lacrime. Lo prese per le spalle, lo scosse, gli urlò, nulla lo faceva reagire, era come bloccato da qualcosa. «Derek sei umano, dimmi cos’è successo!» chiese ancora Cora, al limite delle lacrime per l’impotenza che sentiva crescere dentro.

 

La cosa che ovviamente aveva notato per prima appena varcato l’ingresso di casa era stata che suo fratello era seduto sul divano, suo fratello umano, in carne ed ossa, niente lupo, nulla del genere. Cosa poteva essere cambiato nelle ventiquattr’ore in cui era stata assente? La cosa preoccupante era però che Derek non sembrava più reagire ad alcuno stimolo. Ma ciò che più terrorizzava nel profondo Cora era che non aveva mai visto piangere Derek, nemmeno dopo l’incendio: Derek poteva essere devastato dentro ma fuori non lo mostrava mai. Quell’incendio aveva portato loro via ogni speranza e ogni felicità e lui non era riuscito a versare una lacrima. Cora sapeva che non era perché non soffrisse: probabilmente Derek era quello che soffriva di più perché non era mai riuscito ad esternarlo. E continuare a tenere tutto dentro aveva fatto crescere in lui il senso di colpa. La terribile sensazione di essere la causa di quello che era successo solo perché lui non c’era quando era accaduto era ciò che lo aveva distrutto dentro per anni, il peso di aver allontanato da quella maledetta casa solo una parte della sua famiglia. Non c’era stato bisogno che glielo dicesse ma Cora sapeva che il fratello avrebbe preferito bruciare con quei ricordi quella notte piuttosto che sopravvivere con quel fardello nel petto. La ragazza aveva provato a farlo parlare, tante volte, ma Derek aveva sempre chiuso il discorso dicendo che lui stava bene così, che non tutti elaboravano l’accaduto alla stessa maniera; non lo chiamava mai lutto, non gli riusciva e preferiva cambiare discorso. Una volta aveva semplicemente abbracciato forte Cora, sperando che capisse: da quel giorno lei non aveva più nominato quella notte.

 

Cora stava ancora cercando di riscuotere Derek quando finalmente il ragazzo puntò i suoi occhi verdi, profondi, che in quel momento spaventavano quasi Cora, in quelli nocciola di lei e mosse impercettibilmente le labbra. «Derek, ti prego, dimmi qualcosa, qualsiasi cosa, fammi capire cos’è successo, altrimenti non posso aiutarti. Per una volta confidati con me, dimmi cosa senti» Cora era allo stremo delle forze, non sapeva più che fare. Di nuovo Derek mosse le labbra, cercando di dire qualcosa che tuttavia gli morì ancora in gola. Cora prese dalla borsa la mezza bottiglietta d’acqua che le era avanzata dal viaggio e la porse a Derek che era completamente disidratato: le sue labbra secche sembravano quasi essersi assottigliate. Come un automa, il ragazzo prese l’acqua e ne bevve un piccolo sorso, poi tornò a fissare la sorella, che attendeva ancora un segno da lui, una parola. «L’ho…io l’ho…l’ho perso» disse in un soffio, con un filo di voce. Cora capì che non riusciva nemmeno a pronunciare il nome di Stiles, ma lo vide scosso da un altro lungo tremore al solo pensiero. «Ti prego, Derek, ho bisogno che tu mi racconti tutto ora, per quanto faccia male, altrimenti non saprò mai come aiutarti» gli sussurrò prendendogli le mani e intrecciandole nelle sue, assorbendo parte del dolore che stava provando Derek: era il minimo che poteva fare in quel momento. Lui rovesciò la testa all’indietro, appoggiandosi al divano, come se raccontarlo dividesse una parte del peso e monocorde cominciò a descrivere ogni dettaglio di quella giornata. Si concesse una risata che sapeva di amaro quando le disse cos’era successo la notte, come avevano dormito abbracciati, il pasticcio che avevano combinato in cucina e la decisione di andare nel bosco. E l’arrivo davanti alla vecchia casa degli Hale, un posto che l’aveva tradito per la seconda volta, portandogli via prima la sua famiglia e poi l’unica persona che avesse mai davvero amato.

 

Derek cammina e gli sembra di volare, non si è mai sentito così, si è quasi dimenticato che sapore ha la felicità. E Stiles gli sta insegnando anche questo, gli sta insegnando a sperare, a vivere, ad amare. Non importa che lui sia un lupo, Derek ha comunque bisogno di lui, lo vuole accanto qualsiasi cosa succeda e la cosa che più lo eccita e lo terrorizza allo stesso tempo è che sente lo stesso sentimento in quel ragazzino. Lo annusa nell’aria proprio in quel momento, mentre si avviano nel bosco, il loro posto, il luogo che li ha uniti così indissolubilmente e la sua mente è cullata da tutti i ricordi che hanno condiviso. L’aria è fresca, sta arrivando ormai l’autunno e Derek ama vedere come si trasforma la natura, come gli alberi si svestano e il terreno si ricopra di foglie. La natura è uno spettacolo meraviglioso e i due hanno imparato a farne parte, rispettandola e ammirandola. L’unico rumore che si sente in quel momento sono i loro passi, sincronizzati, sul pavimento di foglie secche. Derek butta un occhio su Stiles, anche se non ha bisogno di guardarlo per sapere che è accanto a lui: ha l’abitudine di tenergli una mano sulla schiena, tra le scapole; ogni tanto gli prende un ciuffo di pelo e lo arrotola tra le dita, senza mai tirare. Per tutta risposta Derek gli si strofina sulla gamba, alle volte rallenta il passo e alza il muso per dargli un buffetto sulla punta delle dita col naso. E Stiles sorride, guardandolo di sottecchi. E Derek sorride, muovendo lateralmente la coda. E il cielo sorride, facendo passare un raggio di sole tra le nubi, che buca la volta celeste contro ogni previsione.

 

Derek è davvero stordito da quella felicità, non riesce a capacitarsi di quello che gli sta succedendo. Lui non è mai stato felice, sicuramente mai da dopo l’incendio; non vuole pensarci ma sa che quel fuoco dentro di lui non si è mai spento, le braci scottano ancora in fondo al suo cuore. Stiles lo sta aiutando a spegnere o almeno a lenire quel dolore ma Derek sa che non basta, sa che un passo deve farlo anche lui se vuole uscire da quel circolo vizioso di sensi di colpa e dolore. Derek non ha mai pianto: è stato per settimane la spalla su cui Cora ha versato tante, troppe lacrime, fino a quando ha creduto che non potesse averne più. Ma lui non ha il carattere di sua sorella, a lui non viene da piangere, non sa sfogarsi e non l’ha mai fatto; sua madre diceva sempre che ognuno accetta e subisce i colpi della vita a modo proprio ma nessuno è immune alle lacrime: alla fine tutti piangono. Sua madre era una delle persone più sagge che Derek abbia mai conosciuto ma ha sempre ritenuto che su questo punto si sbagliasse: non piangere non vuol dire non soffrire, vuol dire soffrire in un altro modo. E a lui le lacrime agli occhi non sono mai venute. Non è sicuro che questo lo abbia fatto vivere meglio. Forse aveva ragione sua madre quando diceva che “finché non piangi non l’hai accettato”. Lui non ci crede, ma quella mattina gli insinua improvvisamente un dubbio; non sa perché ma sente che sua madre ha ragione: Derek non ha mai accettato l’incendio. Non ha mai accettato di aver perso la sua famiglia. Non ha mai accettato di essere dovuto diventare una guida per sua sorella quando non si sentiva nemmeno di saper guidare se stesso. Non ha mai accettato di essere sopravvissuto. E viene folgorato da tutto questo mentre cammina con Stiles al suo fianco, mentre sembra che tutta la sua vita stia finalmente volgendo dalla parte giusta; viene folgorato dalla consapevolezza che quell’incendio influenza ancora la sua vita e non gli permette di voltare pagina: Derek è bloccato sull’introduzione, è bloccato dove il libro della sua vita comincia. E non può proseguire oltre.

 

“Finché non piangi non l’hai accettato”. Ora gli è sembrato di sentirla, nel suo orecchio, la dolce voce che ha cullato la sua infanzia.

 

“Finché non piangi non l’hai accettato”. Derek si è bloccato, incapace di andare avanti, sta ascoltando la voce e non bada a dove si trova.

 

“Finché non piangi non l’hai accettato”. Il tono della voce è sempre più alto, possibile che Stiles non lo senta? Ma dov’è Stiles?

 

Derek sgrana gli occhi, come un cieco che vede per la prima volta, colpito da quel timido raggio di sole. Fruga con lo sguardo il posto dov’è arrivato, ci mette un po’ a realizzare: Stiles non è più al suo fianco, è poco più avanti; forse sta parlando, Derek non può sentirlo. I rumori della natura sono ovattati, silenziati, non esiste più il bosco sonoro dove lui e Stiles passavano pomeriggi interi. Il tempo si ferma e Derek non può più muovere un muscolo, persino la voce di Talia tace. Derek sbatte ancora le palpebre, cerca ancora di definire il posto dove si trova. Poi la vede, davanti a sé, ancora imponente nonostante tutto, ancora minacciosa, tetra, pronta a risucchiare nel baratro Derek un’altra volta, ancora una e forse questa volta sarà per sempre. Non la vede da tre anni, dalla mattina dopo quella notte: il tempo ha aggravato le condizioni precarie in cui era stata ridotta. Davanti agli occhi Derek ha una carcassa, il cadavere della sua giovinezza, quel posto che per diciott’anni ha chiamato casa e che poi è diventato il suo incubo peggiore. Casa Hale si erge oscura dal passato del lupo, pronta a dargli il colpo finale.

 

Non è un semplice dolore fisico. Non è semplicemente sentirsi mancare il fiato. Non è solo sentire crollare ogni certezza da sotto i piedi. È tutto questo e molto peggio. È essere traditi dal passato due volte consecutive, è sentire di non avere più nulla per poter lottare, è essere sopraffatto e cominciare ad annegare. Insieme alla voragine che si apre nel cuore di Derek la cosa più terrificante sono le immagini che riaffiorano freschissime alla memoria. È come rivivere tutto una seconda volta sapendo che questa volta Derek non sarà il sopravvissuto della storia.

 

Fuoco. Derek è di fronte a casa Hale e casa Hale brucia. Odore di fumo. A Derek bruciano gli occhi, piccolissimi lapilli infuocati continuano a posarglisi sulle ciglia. Fuoco. Derek vede crollare i pezzi della casa, l’architrave della porta, un pilastro del portico, una parte del tetto. Legno che brucia. Derek continua a starnutire, l’odore acre gli si insinua fin sotto la pelle. Fuoco. Derek prova ad avvicinarsi, impotente, alla ricerca del punto in cui si è scatenato l’inferno. Urla di persone intrappolate. Anche Derek urla, chiama i loro nomi, cerca di capire da che parte entrare e da quale uscire per non rimanere anche lui imprigionato. Fuoco. Derek cerca di avanzare e più prosegue più si trova lontano dalla casa, lontano dalle persone che più ama, lontano da tutto ciò che fino a quel momento ha chiamato famiglia. Pelle che brucia. A Derek pizzicano gli occhi e le braccia, le fiamme si alzano metri in altezza e alle volte arrivano a squarciare il cielo nero e profondo, quel cielo silenzioso e immobile di fronte alla catastrofe. Fuoco. Derek odia quel calore, odia quel cielo, odia essere solo, odia essere l’unico fuori dalla casa. Urla spezzate, sempre più deboli. Urla ancora anche Derek, fino a farsi male alla gola, fino a perdere la voce, fino a tossire accasciato a terra. Fuoco. Derek non intende mollare, non fino a che le persone che ama sono dentro quell’inferno di fiamme e morte. Odore di pelle bruciata. Derek sa che non ce la farà mai, sa che non c’è più speranza ora che le voci si affievoliscono; non per questo smette di bruciarsi le braccia per aprirsi un varco verso l’interno dell’abitazione. Fuoco. Derek sa di aver perso quando ancora le fiamme sferzano le pareti di casa Hale, quando ancora il legno brucia e l’odore del fuoco intossica l’aria. Sangue. A Derek sanguinano le mani sporche di fuliggine, le braccia sbucciate, i piedi scalzi, anche se ciò che sanguina di più è il cuore. Fuoco. Derek muore in mezzo a quel fuoco e in sottofondo Cora piange.

 

Fino a quel momento quello che rivive Derek è esattamente quello che ha vissuto quella sera, ogni minimo particolare è rimesso in scena dalla sua memoria. Si rannicchia a terra, ha male ovunque, gli occhi gli bruciano ma non piange. Come quella sera, rimane per un tempo indeterminato lì, sull’erba consumata dalle fiamme, si copre le orecchie ma continua a sentire quelle urla strazianti, si sfrega gli occhi fino a farsi male ma continua a vedere il fuoco che divora ogni cosa. Ogni rumore cessa nella natura che lo circonda, ma all’interno Derek vive il caos. Ancora urla, ancora fuoco e ancora dolore, fisico e psicologico. Dopo tre anni quelle sensazioni sembrano non essersi mai affievolite, sembrano permeare il corpo di Derek e adattarsi alla sua anima, come un abito di spine impossibile da rimuovere. Monta il senso di colpa, romba la bestia mai sopita, soccombe il lupo che non ha mai accettato quella notte. Derek vorrebbe rompere tutto e morire allo stesso tempo, l’anima gli si lacera e nulla può lenire le sue sofferenze. Ma nulla di tutto questo fa scendere una sola lacrima dai suoi occhi. Derek sa che piangere servirebbe a tutto e a niente e comunque non riesce a sfogarsi.

 

Derek non sa quanto tempo sia passato, potrebbero essere secondi, minuti o mesi, nulla ha più senso dopo aver riprovato tali dolori due volte in vita. Continua ad essere bloccato in quella maledetta notte, rannicchiato sulla terra fredda e insensibile. Stringe ancora le palpebre, più che può, come se potesse evitare di avere ancora il fuoco negli occhi e nel cuore. Non può vedere che ora non è più solo, che una figura eterea esce dal buio per affiancarlo. Porta un lungo vestito candido, che ha la stessa consistenza delle nuvole ma un colore ancora più chiaro e sfavillante. Nonostante ciò la luce che emana non è sufficiente a rischiarare tutto il bosco, si limita a fluttuarle intorno, a sfiorarle le vesti e le braccia nude, svanendo al suo passaggio. Porta i capelli corvini alle spalle, voluminosi e lisci, sapientemente appuntati dietro un orecchio. Cammina leggera e a prima vista si direbbe che quasi non tocchi per terra; ad ogni passo la veste, che assomiglia a quella di una dea greca, si solleva un po’, scoprendo le caviglie e i piedi scalzi, che sembrano non sporcarsi mai. Con grazia sovrannaturale si accovaccia accanto a Derek e delicatamente gli prende il viso tra le mani, mentre lui continua a serrare le palpebre, come faceva quando combinava qualche marachella in casa. Derek ha paura, paura che aprendo gli occhi le tragedie della sua vita non possano che peggiorare, gli sembra che stringendo le palpebre possano invece scomparire del tutto. Ma quando finalmente cede a quel tocco noto e si lascia andare aprendo piano gli occhi, le sue iridi verdi incontrano quelle profonde e scure di Talia, togliendogli per qualche secondo il fiato dai polmoni.

 

«Ti ricordi quando ti leggevo la storia della buonanotte, Derek?» Non se la ricordava così soffice la voce di sua madre, aveva dimenticato quanto potesse curargli l’anima quel suono. Derek annuisce, muovendo impercettibilmente il mento, incapace di formulare qualsiasi altro tipo di risposta. «Ti ricordi cosa diceva Rafiki a proposito del passato?» Questa volta non lo lascia rispondere, lo anticipa, senza lasciare nemmeno per un istante lo sguardo dai suoi occhi. «Diceva “Oh sì, il passato può far male. Ma per come la vedo io da esso puoi scappare o imparare qualcosa”.» Quelle parole colpiscono Derek al centro del petto, come se le leggesse in quel momento per la prima volta, come se la capisse in quel momento per la prima volta. «Smettila di scappare dal tuo passato, da tutto questo, Derek.» Talia si gira verso ciò che resta di casa Hale, annerita dal fumo e dalla cenere, che per un attimo, per un secondo solo, prende nuovamente fuoco, tornando un attimo dopo al suo grigiore. È in quel momento, in quell’istante che tutto il mondo di Derek vacilla, spostandosi finalmente dall’orlo del baratro dove è rimasto per tre anni. O su o giù. E Derek cade.

 

Dicono che per rialzarsi bisogna essere prima caduti. Derek ora lo sa, ha dovuto cadere per poter tornare in superficie, per poter respirare di nuovo, per poter vivere di nuovo. Ma cadere richiede un prezzo, il prezzo che Derek non ha mai voluto pagare al passato: le lacrime. Quando rivolge lo sguardo verso la madre, non vede più nulla non solo perché Talia non c’è più ma perché i suoi occhi si appannano. È la cosa più normale del mondo e Derek piange. Le lacrime si susseguono e si rincorrono, scivolano staccandosi dalle ciglia e scorrendo come gocce di rugiada in una mattina d’aprile. Pian piano il cielo si rischiara, Derek non trattiene le lacrime che finalmente gli scendono copiose sul viso. La notte si trasforma in mattina, le fiamme sono scomparse, il bosco è nuovamente ospitale. E all’improvviso le lacrime non scivolano più sul viso ma si bloccano sul pelo nero, ognuna riflette l’arcobaleno di colori offerto dalla natura. Derek non smette di piangere ma finalmente vede davanti a sé. Derek vede Stiles e per la prima volta si sente leggero.

 

Lacrime. Quelle non si fermano. Continuano, imperterrite, mentre lo sguardo di Derek diviene sempre più limpido. Stanno lavando via il dolore, il senso di colpa, la rabbia, tutto quello che in quegli anni non era riuscito ad esternare e di cui non aveva potuto liberarsi. E tutto questo è accaduto grazie ad una persona: Stiles. Gli sta tenendo il muso tra le mani, forse gli sta anche parlando; Derek non può prestargli attenzione, si è perso in quegli occhi e per la seconda volta dopo il loro primo incontro se ne innamora di nuovo. Non servono spiegazioni, sa che è la persona giusta perché lo sente dentro di sé, sente il posto che quel ragazzo si è scavato nel suo cuore. Lui l’ha seguito nel percorso di liberazione, lui l’ha portato davanti ai suoi incubi e glieli ha fatti affrontare come un vero lupo. Ora non c’è più necessità di essere un lupo, ora Derek può vivere la sua vita da umano. Non lo sceglie Derek ma succede, come se fosse la cosa più naturale e automatica del mondo. Sente un formicolio dappertutto, lungo le zampe, sul muso, sul corpo. Non se ne rende conto subito ma vede cambiare l’espressione del ragazzo davanti a sé.

 

Il pelo si accorcia fino a scomparire in numerosi punti. Le dita si allungano, le unghie si accorciano. La folta coda scompare. Si sviluppano muscoli forti e ben definiti sulle gambe e sulle braccia. Le orecchie si abbassano e si posizionano ai lati della testa. Il muso di accorcia e si allarga, prendendo fattezze umane: si definisce un naso netto, delle sopracciglia folte e nere, delle labbra carnose e dalla linea dolce, degli zigomi alti. Gli occhi sono gli ultimi a trasformarsi: le iridi lampeggiano ancora un po’ del blu elettrico a cui Stiles era ormai abituato e poi si stabilizzano in un verde smeraldo, cangiante, che vira nello stesso momento al verde bosco e al verde prato, al chiaro e allo scuro. Occhi che ora lo fissano, vivaci, limpidi, occhi che lo conoscono. Occhi che lo stesso Stiles riconosce. Gli occhi del ragazzo della Camaro. Stiles fatica a respirare.

 

Derek vede Stiles, che trema visibilmente, allontanare piano le sue mani che ora accarezzano la barba appena sfatta del licantropo e muovere le labbra a vuoto, mentre la voce si rifiuta di uscire dalla gola. Sgrana gli occhi, se possibile sono ancora più grandi e liquidi, lo fissa quasi senza sbattere le palpebre. A Derek non sfugge che lo sguardo di Stiles cala un attimo sul suo corpo, è consapevole della sua nudità ma non gli importa in questo momento. Vorrebbe approcciare Stiles nel modo giusto ma in questo momento sente che l’unica cosa da fare è rimanere immobile e provare a fargli capire che non c’è nulla di diverso, nulla da temere. Stiles cade seduto, con un tonfo sordo e appoggia le mani dietro la schiena, per appoggiarsi. Trema ancora, la bocca è aperta ma non esce nessun suono, gli occhi spalancati. Derek non sa quanto dovrà aspettare per una reazione ma è paziente, non mette fretta al ragazzo, può solo immaginare cosa gli passa per il cervello in quel momento. Stiles continua a muovere la labbra a vuoto, Derek comincia a chiedersi se non abbia ancora preso un vero respiro. Stiles alza una mano, per cercare di spiegarsi, ma fallisce di nuovo; la mano ricade sul prato, come se il ragazzo fosse svuotato di ogni sillaba. Alla fine si passa la lingua nervosa e rapida sul profilo delle labbra (Derek muore un po’ a quel gesto), apre nuovamente la bocca e dice poche parole. «Devo…devo davvero andare, scusa». Si volta di scatto e corre come non ha mai fatto in vita sua.

 

Derek rimane seduto sull’erba, per un tempo indeterminato, incapace di capire ciò che sta succedendo. Tutto sembrava perfetto, tutto stava andando al suo posto, Derek stava trovando il suo posto nel mondo. E invece Stiles è appena scappato. Aveva uno sguardo sconvolto e terrorizzato, Derek non si è mai reso conto di poter fare quell’effetto alla gente. Si sente un mostro, un abominio. Non è mai stato guardato in quel modo, tanto meno da Stiles; la semplicità con cui lo accettava era aria fresca per i polmoni di Derek, era il suo balsamo. Ora invece Stiles l’ha visto come un mostro, il mostro che lui è in realtà, l’ha visto per la minaccia che è. Ed è fuggito, è fuggito perché non sapeva se Derek potesse fargli del male: ha perso la fiducia che aveva in lui. Il petto di Derek è dentro una morsa che si sta stringendo sempre di più intorno alle sue costole, ai suoi polmoni, al suo cuore, mozzandogli il respiro. Ha sempre avuto problemi a fidarsi delle persone, sa qual è la sensazione che percorre le ossa, l’amaro in bocca che ti lascia. Gli occhi di Stiles, gli occhi che Derek guarderebbe per ore, all’infinito, si sono svuotati della felicità e riempiti di terrore: Stiles non può più fidarsi di Derek.

 

Il licantropo non si rende conto che sta mordendo con forza le labbra finché il sapore metallico del sangue non gli invade la bocca; in un attimo la ferita si rimargina ma il sapore resta. Ecco cosa è successo al loro rapporto: qualcosa è cambiato, si sistemerà all’esterno ma all’interno rimarrà sempre qualcosa di sbagliato. Derek è stato lupo, è tornato umano ma non potrà recuperare la spontaneità del rapporto con Stiles. Come potrà mai farsi credere da lui dopo averlo catapultato in maniera così traumatica nella realtà sovrannaturale? Il sole è scomparso, le nuvole si sono addensate e il cielo minaccia di rovesciare a terra la sua pioggia a breve. Derek si alza, stordito, incespica nei suoi stessi passi. Raccoglie la coperta che aveva portato Stiles e che nella fretta ha lasciato cadere per terra e se la avvolge intorno ai fianchi. La pioggia cade forte e dritta, scroscia per pochi minuti lasciando poi di nuovo lo spazio al debole sole del pomeriggio. Mentre piove, Derek corre a casa e la pioggia gli bagna il volto, confondendo le dolci gocce di pioggia con le salate lacrime che gli rigano nuovamente il viso. L’acqua gli scorre addosso e mescola i sapori delle gocce che gli lambiscono i lati della bocca: il suo cuore sente solo un sapore amaro.

 

Una volta rincasato, mette addosso una maglia e un paio di pantaloni, scegliendoli sulla base di un unico criterio: che non abbiano l’odore di Stiles. È stato difficile, soprattutto perché molte di quelle maglie Stiles le ha toccate, le ha indossate, ci ha lasciato sopra il suo odore. Quel profumo che inebria e sconvolge Derek, che si insinua silenzioso nel suo cervello e lo manda fuori di testa. Quel profumo Derek lo sente sul divano dove si sono addormentati abbracciati, nella camera di Cora dove Stiles ha dormito solo poche ore fa, in cucina dove hanno fatto colazione così tante mattine, nella sua camera e nel suo armadio, in ogni angolo della casa. È quell’odore che ora Derek vorrebbe poter non sentire, perché ogni sua sfumatura gli fa venire in mente un diverso momento passato insieme, un sorriso, una carezza, uno sguardo. Un semplice gesto che diceva tutto quello che non potevano e non avevano bisogno di dirsi a parole. Ogni particella di Stiles aleggia in quella casa, ogni sua emozione è rimasta lì, a tormentare ora Derek con la sua immaterialità: sente l’odore di Stiles e l’unica cosa che vorrebbe fare è abbracciarlo, averlo accanto a sé, strofinare il naso sulla linea della sua mandibola.

 

Sente squillare il telefono, ci sono un paio di messaggi di Cora ma non ha nemmeno voglia di aprirli, non ha voglia di alzarsi, di muoversi o di parlare. Vorrebbe anche smettere di pensare, ma non gli è concesso. Continua a ricordare quelle ultime settimane, quelle ultime ore. L’incontro con sua madre, il fuoco di casa Hale, il volto di Stiles. Continua a vederlo, a vedere quei grandi occhi pieni di paura, paura per Derek, per l’abominio che si è trovato di fronte. Lo vede nonostante il suo sguardo continui ad appannarsi per le lacrime che gli rigano senza pietà il volto.

 

Cora rimase in silenzio, impassibile; nemmeno se avesse avuto qualcosa da dire avrebbe interrotto il racconto. Derek aveva smesso di piangere, anche se ancora ogni tanto le lacrime scendevano dai suoi occhi e cadevano leggere sul divano, ma lui sembrava non accorgersene nemmeno più. Cora aveva seguito ogni battito cardiaco di Derek, aveva trattenuto il respiro ogni volta in cui a lui era mancato il fiato e aveva finalmente avuto la conferma di ciò che aveva ipotizzato dopo la discussione con l’Alpha: Stiles era il compagno che Derek aveva inconsapevolmente scelto, era lui la sua ancora. Come svuotato, Derek terminò la frase e spostò nuovamente gli occhi verso la finestra, lasciando che vagassero nel vuoto.

 

D’istinto Cora prese le mani di Derek tra le sue, le strinse forte continuando a fissare gli occhi verdi che l’avevano vista cadere e rialzarsi tante volte; quelle mani avevano asciugato migliaia di sue lacrime e ora Cora sapeva di poter fare qualcosa per Derek. Si rese subito conto che il licantropo stava provando così tanto dolore da non riuscire a “curarlo” come al solito. Immediatamente le vene di Cora si gonfiarono, sotto l’afflusso di intense ondate di dolore che annerirono temporaneamente il suo sangue; Derek sembrò svuotato o almeno sollevato, mentre alla ragazza mancò il fiato: come poteva Derek reggere anche un solo minuto tutto quello? Cora strinse la mascella, per reggere una seconda dose di dolore, riuscendo a respirare a fatica. Dopo pochi secondi la presa di Derek si fece più leggera e il ragazzo reclinò la testa all’indietro, mentre le palpebre gli calavano e veniva avvolto da un sonno senza sogni. Prima di accasciarsi sfinita sul divano, Cora prese una coperta e coprì se stessa e Derek, appoggiando la testa sulla spalla del fratello, come faceva quando tornava stanca da una giornata di scuola. Prima di cedere completamente al sonno, Cora sentì un flebile «Grazie» uscire in un soffio dalle labbra di Derek.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Nessuno ha detto che sarebbe stato facile ***


Note iniziali: Nuovo aggiornamento! Scusate per l’attesa ma l’università mi risucchia l’anima :D Eccoci alla storia vista dalla parte di Stiles. Il testo in corsivo riguarda il suo personale flashback.

Buona lettura, alla prossima!

 

 

 

CAPITOLO 8: Nessuno ha detto che sarebbe stato facile


Stiles corre. Corre. Corre come non ha corso mai. Non è nemmeno sicuro di quello da cui sta scappando ma il suo cervello gli sta inviando un solo ordine: correre. Andare via da quello che gli fa paura, da quello che lo sconvolge, da quello che gli toglie il respiro. E Stiles si trova davvero senza fiato, ma la corsa non c’entra. Gli toglie il fiato quello a cui ha appena assistito, a cui non sa dare un nome né una spiegazione. Più probabilmente potrebbe farlo ma non osa. Si appoggia alla fiancata della Jeep, piegato in due, scosso da tremori e schiacciato dalle troppe informazioni. Le immagini gli si ripropongono davanti agli occhi, come in un cinema della tortura che non gli permette di recuperare lucidità. Ha negli occhi Derek, il lupo nero, la sera di un anno prima, i pomeriggi nel bosco. Il lupo e l’uomo. La razionalità è l’irrazionalità. Non, non c’è una spiegazione razionale. Stiles si tira uno schiaffo, un altro e un altro ancora, incapace di riprendersi; si specchia sul finestrino dell’auto e non si riconosce: sembra parecchio pallido, i suoi capelli sono spettinati e sudati, gli occhi sono così sgranati che sembrano uscire dalle orbite. Si passa una mano sul volto, come se per spazzare via quello sguardo e quello che è successo bastasse una mano sul viso, un colpo di spugna.

 

Non è stata questione di paura; probabilmente la paura ha influito, quanto meno nei primissimi momenti, quando Derek si è trasformato (non può ancora credere di aver usato questo verbo) davanti ai suoi occhi. Quella è stata una paura dettata dallo shock: chi avrebbe detto che quel lupo era un uomo?! Non aveva mai davvero preso inconsiderazione quella possibilità. Tutto questo dando per scontato che alcuni uomini possano trasformarsi in lupi. Successivamente alla paura è venuto lo sgomento, le certezze di una vita che cadono come birilli, travolte da un evento senza voce che è giunto a minare la corazza di Stiles. Dopo la morte della madre Stiles non voleva farsi prendere alla sprovvista da nulla, non voleva che nulla lo pugnalasse alle spalle come aveva fatto quella scomparsa. Sua madre Claudia se n’era andata così, due mesi dopo aver scoperto di essere malata, senza nemmeno dare il tempo ad uno Stiles di otto anni di capire la situazione. Il destino si era permesso di coglierlo alla sprovvista una volta ma Stiles si è promesso di non permettergli di farlo di nuovo. Ha fatto ricerche sulla malattia della madre fino a che suo padre una sera, in lacrime, gli ha sequestrato il computer. Non l’aveva mai visto piangere, nemmeno quando gli stringeva la spalla e guardava il prete benedire la tomba della moglie.

 

Da quel giorno Stiles aveva creato il suo mondo invisibile: era sempre il solito bambino iperattivo, aveva addirittura ritrovato la sua vivacità dopo qualche mese in cui si era lentamente spento. Ma ogni cosa nuova lo spaventava, temeva che potesse portargli via di nuovo tutto ciò che gli era rimasto, in un soffio. E così faceva ricerche sul suo nuovo computer, nella biblioteca di Beacon Hills, sui vecchi e polverosi libri appartenuti a sua madre e che aveva trovato in soffitta. Cercava ogni parola che gli era sconosciuta, ogni significato particolare, studiava antiche civiltà e miti del passato; voleva pianificare la sua vita e avere tutto a sua diposizione: se qualcosa fosse accaduto nella sua vita avrebbe saputo come reagire.

 

I miti e le loro ripercussioni sulla cultura contemporanea, cosa c’era di vero e cos’era invece stato inventato, tutto l’ambito sovrannaturale o irrazionale lo aveva sempre affascinato: il suo metodo scientifico e rigoroso, l’applicazione della ragione ad ogni campo di ricerca, doveva essere stravolto quando si avvicinava a questo ambito. Aveva imparato ad essere meticoloso nelle sue ricerche ma a sospendere temporaneamente il suo giudizio, almeno fino a quando non aveva in mano il maggior numero di elementi possibili. A quel punto riprendeva in considerazione tutte le informazioni che aveva raccolto e su quelle basava una sua opinione, anche se non archiviava mai il fascicolo come faceva con le altre ricerche; era sempre pronto a riprendere tutto in mano e ricominciare da capo, nonostante questo volesse dire scalfire il mondo di certezze che cercava in tutti i modi di costruire. Era sempre molto attento quando prendeva dallo scaffale la cartella rossa con scritto “SOVRANNATURALE” e quei pomeriggi erano i più difficili per uno Stiles che faticava a concentrarsi per più di qualche decina di minuti.

 

I miti gli piacevano principalmente per due motivi: in primo luogo perché leggere tutte quelle storie gli ricordava i pomeriggi in cui sua madre gli leggeva decine di storie, mimando dialoghi e gesti, alzando il tono della voce o bisbigliando, e a Stiles sembrava di averla ancora accanto a lui quando si soffermava sulle narrazioni più avvincenti, immaginava come lei avrebbe letto certi passaggi; in secondo luogo perché era incredibile come ogni mito nascondesse una verità, più o meno velata, che spiegava e dava risposta almeno in parte ai dubbi di Stiles. Un pomeriggio autunnale e tristemente piovoso in cui Scott si era preso la febbre e non poteva raggiungerlo per giocare al computer, uno Stiles di sedici anni si era chiuso in camera dopo che suo padre era partito per il turno pomeridiano in centrale. Non era da lui ma aveva fatto tutti i compiti il giorno prima, per potersi godere il pomeriggio intero con Scott; ora invece si trovava a casa da solo e senza nulla da fare fino all’ora di cena. Aveva automaticamente aperto il computer e mentre si caricavano i suoi dati si era alzato dalla sedia e si era diretto verso lo scaffale dove erano messi in ordine alfabetico le cartelle delle sue ricerche: “Botanica”, “Geografia”, “Mineralogia”, “Patologia”, “Zoologia” e tutte le altre. Fece scorrere il dito sui fascicoli come se non avesse già scelto quale prendere; solo dopo un minuto buono si decise a fermarsi, facendo uscire dalla libreria l’unica cartellina rossa. La appoggiò accanto al computer e si immerse quella giungla di informazioni meglio conosciuta come internet.

 

L’ultima volta che aveva aperto quella cartellina si era fermato sulla singolare somiglianza di miti tra la civiltà greca e le tribù dei nativi americani. Aveva lasciato molti fogli svolazzanti, perché non c’era un vero percorso strutturato, c’erano solo tante informazioni su fogli e post-it che cercavano un filo logico. Il vero raccordo tra quelle due popolazioni, così distanti geograficamente e temporalmente, erano i racconti a proposito di uomini simili a lupi, che potevano trasformarsi a piacimento in animali e tornare allo stesso modo umani. I greci narravano della maledizione scagliata da Zeus su Licaone per il suo affronto al re degli dei; in America si parlava sempre di maledizione, dovuta questa volta a matrimoni misti tra coloni e indiani. In tutte e due le culture gli uomini-lupo erano destinati a trasformarsi ogni luna piena in un mostri più o meno consapevoli della loro forma demoniaca. Addirittura una tribù americana, quella dei Pawnee, si riteneva imparentata con i lupi e ne indossava le pelli per impadronirsi delle doti di questo predatore. Per lunghi minuti Stiles si era fermato a guardare un’immagine che rappresentava uno di questi “licantropi”, chiedendosi dove si trovava la sottile linea di confine tra realtà e mito. Non sapeva perché ma su quel tema ci ritornava spesso e ci sarebbe ritornato per molto tempo a venire, anche negli anni successivi. Quella sera suo padre tornò tardi, aveva dovuto occuparsi di un incendio avvenuto la notte precedente, al limitare del bosco: una casa distrutta e una famiglia dimezzata, per motivi che lo sceriffo provò per anni a ricercare senza arrivare mai ad una vera e propria soluzione del caso. Tuttavia non raccontò mai al figlio i dettagli, cercava di tenerlo lontano da tutte quelle informazioni che avrebbero potuto portarlo ad indagare e fare ancora più ricerche di quelle che già faceva.

 

Stiles si passa una mano, che trema visibilmente, in mezzo ai capelli, mentre con l’altra apre lo sportello della Jeep e si mette al posto di guida. Non è per nulla nelle condizioni di guidare ma escludendo quella le opzioni sono due: tornare da Derek o chiamare qualcuno. Entrambe prevedono spiegazioni e Stiles non ha intenzione di dare spiegazioni a nessuno. Non sa come ma arriva a casa e benedice il fatto che suo padre sia al lavoro. Altre spiegazioni evitate. In un attimo è in camera sua e di nuovo il suo respiro è accelerato. Sa benissimo quello che sta per fare eppure gli sembra di non aver controllo sul suo corpo. Deglutisce forte per spingere giù il groppo che ha in gola mentre avvicina la mano allo scaffale delle ricerche. Il cuore gli batte forte nel petto e gli rimbomba nelle orecchie, mentre la mano non accenna a smettere di essere scossa da piccoli movimenti inconsulti. Si sofferma parecchio ad osservarla, cercando di calmare ogni segno fisico del fatto che sia contemporaneamente terrorizzato e sotto shock. Alla fine si ridesta, mordendosi forte il labbro inferiore e si decide a prendere quel maledetto fascicolo rosso.

 

Stiles rilegge quei fogli tutta la notte, solo in casa perché suo padre lo avverte che dovrà fermarsi di più in centrale. Non si stupisce del fatto che ogni volta in cui legge una frase che può ricollegare a Derek i fogli gli cadano dalle mani, che ancora tremano. Alle due di notte Stiles è ancora in mezzo a quei fogli, sparpagliati ovunque sulla sua scrivania, sul suo letto e sul pavimento, mentre il ragazzo continua a sottolineare informazioni col pennarello rosso, a prendere appunti su una quantità inimmaginabile di post-it, cerchiando parole e facendo migliaia di nuove ricerche su internet. Gli bruciano gli occhi, ma non è solo la stanchezza a provocargli quel fastidio: si sente beffato e impotente, di nuovo le certezze che credeva di avere gli sono state portate via. Stiles però si conosce, sa benissimo che si sta tenendo sveglio per un motivo molto particolare; fare ricerche è il suo modo di crearsi una barriera, ma questa barriera è spesso rappresentata da se stesso. Stiles sa che occuparsi di ricerche gli permette di non pensare, di non angosciarsi, di non trovarsi disteso sul letto a pensare alla sua vita. Perché Stiles in questo momento è schiacciato da due pensieri: il primo è che Derek è un licantropo, ma il secondo è che Derek è il suo bacio dei diciott’anni. Ad un certo punto Stiles si ferma, il pennarello cremisi ancora aperto in mano, si passa rapido la lingua sulle labbra socchiuse, non può continuare così. Davanti a lui c’è una foto, un disegno in bianco e nero in realtà, di una “bestia” con gli occhi fuori dalle orbite, la bava alla bocca, le zanne scoperte e minacciosamente rivolte verso gli osservatori. Sembra addirittura avere dei brandelli di carne tra i denti, mentre la sua vittima dilaniata si trova ai suoi piedi. Le zampe anteriori, antropomorfe, sono rilassate lungo i fianchi perché si regge solamente su quelle posteriori; alle estremità di tutti e quattro gli arti pendono lunghi e acuminati artigli, che ancora colano il sangue della vittima. Stiles d’istinto segna due punti rossi, i due occhi del licantropo, poi chiude con il tappo il pennarello e lo appoggia accanto al foglio stampato. Lo fissa intensamente, cerca di scrutare e scavare dentro quei tratti disegnati chissà quante decine o centinaia di anni prima e finalmente capisce dove sta la differenza, finalmente comprende perché tutte le ricerche che ha svolto sono solo una parte marginale di quello che sta succedendo a lui. Quel lupo ha gli occhi rossi, iniettati di sangue, le mani sporche di tutto ciò che è sbagliato e raccapricciante. Quello che però Stiles ha capito è che ciò che è sbagliato in quel lupo è il modo in cui è stato rappresentato, l’abominio è nel disegno, non nella sua vera natura. I miti sono nati per spaventare, per mettere in guardia da quello che faceva paura perché sconosciuto. Ma se c’è qualcosa che Stiles sa è che Derek non è pericoloso e i suoi occhi sono blu come un oceano profondo. Sono ormai passate le tre di notte quando Stiles cede al sonno e crolla addormentato, ancora seduto a terra, con la schiena premuta sul bordo del letto e la testa reclinata all’indietro. Gli sfugge una lacrima che gli riga il volto, per la tensione, la paura, la confusione: ci penserà domani a cacciarla via dal viso.

 

La luce del mattino coglie Stiles ancora addormentato nella stessa posizione e il raggio di sole che entra dalla finestra è tagliente quando lo colpisce negli occhi e cerca di insinuarsi sotto le sue ciglia. Decisamente essere rimasti svegli per metà della notte facendo ricerche non ha aiutato, ora Stiles ne ha la conferma. Un cerchio alla testa gli riporta alla mente tutto ciò che è successo il giorno prima e, man mano che le immagini tornano vivide nel suo cervello, il cerchio si stringe intorno al cranio del ragazzo. Stiles si passa una mano sulla fronte, spostando leggermente i capelli e massaggiandosi piano le tempie, indeciso ancora sull’idea di aprire o meno gli occhi. Dischiude le palpebre con lentezza innaturale, le sbatte un po’ per mettere a fuoco la sua stanza e preferirebbe non averlo fatto. I fogli e gli appunti della notte prima sono ovunque ma non vuole più leggerli; senza nemmeno curarsi di trovare un ordine che in realtà non c’è li prende uno dopo l’altro e li raggruppa nervoso. Si alza di scatto, prende il contenitore rosso e cerca di metterli dentro, piegando alcuni angoli e rendendo impossibile la chiusura della cartellina. Frustrato lancia tutto sulla scrivania, alcuni fogli cadono, raggiungendo con movimenti leggeri il pavimento della stanza. Stiles stesso si lascia cadere, seduto sul letto; si accascia, piegato sulle ginocchia e infila le dita affusolate nei capelli, tirando forte il cuoio capelluto: almeno piangerà per un motivo valido, pensa. Tutte le lacrime che non sono uscite la sera precedente sgorgano calde e copiose sulle sue guance ora, gli rigano il volto, bagnano i pantaloni e il pavimento. Alle tre di notte sembrava tutto semplice, la stanchezza lo ha portato a conclusioni affrettate, lui tutto quello non può reggerlo. Aveva difficoltà solo all’idea di essere un diciannovenne nel mondo normale, come può esserlo nel mondo sovrannaturale? Stiles tira su forte col naso, cercando di fermare il pianto di rabbia e i singhiozzi che gli sconvolgono la gabbia toracica, ma non è mai stato bravo ad avere controllo sul suo corpo. Scaraventa un pugno sul letto, stringe le dita fino a piantarsi le unghie nel palmo della mano ma nessun dolore è paragonabile a quello che gli squarcia il petto. Alla fine si fa largo nella sua mente un pensiero ancora più devastante, che aleggia nella sua mente dal pomeriggio precedente ma che si concretizza solo ora: Derek dev’essere in condizioni molto peggiori in quel momento, deve sopportare il trauma della trasformazione e l’abbandono di Stiles. Stiles che ora si sente una persona orribile.

 

Una morsa allo stomaco ricorda al ragazzo che non mangia da quasi un giorno, ma allo stesso tempo una nausea gli fa capire che è meglio che non tocchi ancora cibo. Decide di prendere alcuni biscotti dalla credenza e metterli in un sacchetto, mangerà per strada se ne avrà voglia. Entrando in cucina però incontra il primo ostacolo, suo padre, che non vede da più di ventiquattr’ore. Stiles si blocca sulla porta, incapace di formulare una qualsiasi frase; lo sceriffo è seduto al tavolo, con una tazza di caffè e il giornale davanti agli occhi. «Buongiorno figliolo!» esordisce finendo di leggere la notizia in prima pagina, prima di alzare lo sguardo sul ragazzo. «Come…» la domanda gli muore in gola quando vede le condizioni in cui versa il figlio, pallido e con gli occhi cerchiati di viola. Stiles non aveva calcolato di dover dare spiegazioni quella mattina, non si era nemmeno preoccupato di guardare che ore erano per capire se suo padre poteva essere già sveglio. Evidentemente è abbastanza tardi perché si sia già riposato dal turno di notte. «Cosa ti è successo? Sei stato al lavoro? Sei stato da Derek?» la sua voce trasuda preoccupazione e rabbia, si è alzato di scatto e tiene il volto del figlio tra le mani, mentre Stiles cerca di sottrarsi al contatto. Non è pronto a sentire il nome di Derek senza che le lacrime gli salgano agli occhi; decide di ricacciarle indietro abbassando lo sguardo e subito tenta di imbastire una storia per tranquillizzare suo padre. Non gli viene in mente nulla e mugugna un po’ di parole per prendere tempo. «No no, papà, sono solo un po’ stanco, va tutto bene, non è successo nulla…» prova a giustificarsi. «Senti, Stiles, non raccontarmi balle. Qualcuno ti ha preso di mira? C’entra l’outing??» ora la preoccupazione si sta trasformando in una rabbia sorda e molto poco velata. Da quando Stiles ha fatto outing lo sceriffo è diventato ancora più protettivo verso il figlio; la morte di Claudia li ha legati molto ma non è sempre facile relazionarsi da soli con un figlio adolescente, tanto meno con un adolescente come Stiles. Quando invece, più di due anni prima, Stiles si è confidato in maniera così intima e sincera con suo padre a proposito di un tema così delicato, lo sceriffo ha capito che il loro rapporto è più solido che mai. Non se l’aspettava come notizia, ma la cosa non l’ha turbato particolarmente: l’amore per un figlio è legato solo a quanto lo si vuole vedere felice e non deve essere condizionato da nessun altro fattore esterno. Ma lo sceriffo sa bene che questo non è il pensiero di tutti e, anche in una cittadina di provincia piccola e tranquilla come Beacon Hills, esiste la concreta possibilità che Stiles venga preso di mira per la sua bisessualità. Lo sceriffo ha sempre cura di informarsi su chi gli chiede cosa, se qualcuno dice qualcosa di offensivo, lo motteggia o semplicemente gli lancia sguardi che lo mettono a disagio. Per fortuna niente di tutto ciò è mai successo, ma lo sceriffo mantiene sempre la guardia alzata, una deformazione professionale che lo condiziona da sempre. E vederlo in quello stato, pallido ed emaciato, come se avesse appena smesso di piangere, con le occhiaie segnate e lo sguardo spento, lo fa subito agitare.

 

«Scherzi, papà? Assolutamente no, non potresti essere più fuori strada» cerca di tranquillizzarlo Stiles. «Solo, non avevo sonno stanotte, sono rimasto a vagare su internet davanti al computer e ho perso la cognizione del tempo…queste» e si appoggia un indice all’altezza dello zigomo, dove le occhiaie segnano la pelle sottile «sono frutto solo di una brutta nottata» conclude sospirando, lasciando trasparire tutta la stanchezza che si porta in corpo. «Adesso sono un po’ di fretta, devo vedere…devo vedere Scott» dice abbozzando un sorriso stanco. Nel dubbio che suo padre sappia di qualche impegno del suo migliore amico da Melissa, aggiunge «…sempre che mi risponda al cellulare!». Infila la mano in tasca e agita l’apparecchio di fronte al viso del padre, che intanto si sta rilassando, abbastanza convinto da quella farsa. Stiles è diventato proprio bravo a mentire, non sa se esserne tristemente soddisfatto o parecchio amareggiato. Per ora i pensieri che affollando la sua mente sono altri; sale nella Jeep e si rende conto di non aver nemmeno preso i biscotti, ma tanto non ne avrà bisogno dove sta andando.

 

«Avevo bisogno di parlarti» Stiles lo dice come una sentenza, serio, ritto, cercando di nascondere il tremore che sente nella sua voce. «Sei l’unica persona che può capirmi…anche se io faccio un po’ più di fatica a capire le tue risposte…cercherò di essere chiaro, ma provaci anche tu!» il ragazzo sbuffa in una risata nervosa che finisce per diventare un singhiozzo. Si passa il palmo della mano sotto il naso, deglutendo un paio di volte per ricacciare indietro il groppo che gli si è formato in gola. Si siede per terra e incrocia le gambe; non alza ancora il viso di fronte alla sua muta interlocutrice, prende invece a torturarsi le mani e i lacci delle scarpe. «Ti ricordi» Stiles rompe il silenzio all’improvviso «ti ricordi quando mi allacciavi le scarpe la mattina?» deve fare una pausa e questa volta una lacrima riesce a sfuggire al suo controllo. Il terreno è ancora umido, nonostante il sole sia sorto da un bel pezzo; Stiles si chiede se sia a causa di tutte le persone che arrivano in quel posto e non riescono a trattenere le lacrime, proprio come sta facendo lui in quel momento. «Ecco, io me lo ricordo bene» prosegue Stiles, senza più preoccuparsi se la sua voce trema o le sue guance si bagnano «me lo ricordo perché delle mattine ti dicevo che camminando mi si erano slacciate. Non era vero, le slacciavo io in macchina perché tu rimanessi ancora qualche secondo con me prima della scuola». A Stiles sembra di ricordare il suono della risata di sua madre, una risata vera, che riservava solo ai momenti in cui era davvero felice o divertita da qualcosa. Quella risata che faceva sempre quando il piccolo Stiles le faceva una confessione, serissimo, temendo il rimprovero della madre; Claudia invece lo sorprendeva con la sua voce cristallina, allentando la tensione e facendogli capire che non aveva nulla da temere, che non era nulla di grave. Probabilmente quel tipo di risata sarebbe stata la sua reazione in quel momento, per sciogliere l’aura di serietà che quella conversazione stava prendendo. Il silenzio invece continua ad avvolgere quel posto desolato e nessuno ride.

 

Stiles passa qualche minuto in silenzio, cercando di ricomporsi; finalmente alza gli occhi e la lapide della madre svetta davanti a lui, silenziosa e fredda, il contrario di quello che era Claudia. A Stiles però piace la foto che hanno messo, l’hanno presa da una in cui loro due erano insieme. Claudia l’aveva portato al parco, era una soleggiata mattina di maggio e Stiles aveva cinque anni; quel giorno la donna non poteva essere più felice, aveva appena avuto il suo primo incarico dopo la nascita del figlio. I primi anni aveva voluto dedicarsi completamente a Stiles ma adesso era il momento di tornare alla sua grande passione: il giornalismo. Era una donna che non mandava niente a dire, senza peli sulla lingua e sempre pronta ad impegnarsi per far venir fuori la verità; era così che si era perdutamente innamorata del nuovo sceriffo di Beacon Hills. Quella mattina aveva ricevuto la chiamata dal giornale dove aveva sostenuto un colloquio qualche settimana prima e aveva ricevuto l’incarico di scrivere quattro articoli di varia natura, per un impegno totale di un paio di mesi. Non era nulla di importantissimo o stabile, ma era il primo passo per tornare ad immergersi nella sua vera passione, la scrittura: avrebbe passato (e in realtà l’aveva anche fatto molto spesso) nottate in bianco continuando a scrivere, fino a perdere la cognizione del tempo. Purtroppo lo sceriffo era rientrato quella mattina da un massacrante turno di notte e non aveva potuto andare con loro al parco, ma sarebbero andati tutti e tre a cena fuori quella sera per festeggiare. Stiles però era molto pensieroso e Claudia sapeva leggergli così bene in quegli occhi color caramello che sapeva perfettamente cos’era successo, ma voleva che fosse Stiles a confessarglielo. Ad un certo punto il bambino si bloccò di colpo, sfilò la piccola mano da quella della madre e si posizionò davanti a lei, fissandola in quegli occhi che erano lo specchio dei suoi. «Cosa succede, tesoro?» chiese Claudia, non particolarmente preoccupata della risposta del piccolo. «Ho fatto una brutta azione» sputò alla fine fuori Stiles, abbassando lo sguardo e spingendo fuori il labbro inferiore, cosa che faceva sempre sciogliere Claudia. «Sai quei due biscotti che c’erano sulla tavola? Io ho lasciato che papà si prendesse la colpa ma in realtà uno l’avevo mangiato io» proseguì abbassando sempre di più la testa: odiava deludere la madre che gli aveva sempre insegnato che dire la verità era la cosa giusta da fare. Ed eccola, la sua risata, argentina, limpida e serena; era il suono più bello che Stiles potesse sentire, mentre Claudia gli alzava il mento con l’indice, facendo incrociare i loro sguardi complici. Stiles amava vedere come la madre fosse capace di ridere anche con gli occhi. «Sai l’altro biscotto? L’ho mangiato io!» confessò allora Claudia, senza smettere di ridere. «E così io dovrei prendermi la colpa per entrambi??» la voce dello sceriffo li raggiunse all’improvviso e mentre Stiles e Claudia si stavano girando il flash della macchina fotografica era già partito.

 

«Stai ridendo, vero?» a Stiles viene da sorridere al dirlo, il primo sorriso rilassato che fa quel giorno, ma sa che sua madre reagirebbe proprio così. L’ha conosciuta per pochi anni ma non ha alcun dubbio su come avrebbe agito lei in certe situazioni e su cosa gli avrebbe consigliato di fare. Gli sembra di sentirla sussurragli qualcosa all’orecchio, mentre il vento gli accarezza i capelli proprio come faceva lei; Stiles socchiude gli occhi e ascolta. «Nessuno ha detto che sarebbe stato facile» è proprio la voce che Stiles ricorda «ma sai che le cose migliori meritano un po’ di fatica. Nessuno ha detto che valeva la pena mollare alla prima difficoltà. Quindi non farlo, non mollare. Nessuno ti promette che andrà tutto bene, ma vuoi davvero privarti della possibilità di scoprirlo, per la seconda volta? È questo che vuoi, Stiles?». Il vento cessa improvvisamente e Stiles sta piangendo. Raccoglie le ginocchia verso il petto e le stringe a sé, forte quanto vorrebbe stringere sua madre; piange come piangerebbe sulla sua spalla e per una volta quel pianto non è distruttivo ma liberatorio. Sorride mentre piange, tira su forte col naso proprio mentre un singhiozzo gli sta facendo sobbalzare il petto. È incredibile come la persona che dovrebbe essergli più lontana gli risulti invece così vicina, così comprensiva, così materna. Stiles sta ancora sorridendo, sorride nonostante tutto, sorride contro il mondo, sorride contro il destino che ora intende fronteggiare, senza più nascondersi. Sa quello che vuole, sa perché lo vuole, sa come lo vuole, deve solo andargli incontro. Lascia un bacio a fior di labbra sulla mano e la posa sulla foto, sussurrando un «grazie mamma» che sentono solo lui e Claudia.

 

Decisamente ora lo stomaco di Stiles si era deciso ad aprirsi, nel senso che si era aperta una voragine al posto del suo stomaco e doveva assolutamente trovare un bar dove prendere qualcosa da mettere sotto i denti. Parcheggiò la Jeep nel primo posto auto libero che vide di fronte al primo bar che incontrò sulla strada dal cimitero e fatalità era anche uno dei suoi preferiti, sapeva che facevano delle brioche da leccarsi i baffi. Spense il motore prima ancora di aver fermato del tutto la macchina e si avviò leggero e spedito verso l’entrata del bar. All’interno il chiacchiericcio era abbastanza moderato, un brusio di sottofondo che andava a mescolarsi con la musica che proveniva dalla televisione appesa sulla parete in fondo a sinistra. Il bancone si offriva a Stiles con ogni delizia possibile e immaginabile, ma il ragazzo non aveva tempo di perdersi in tanta “zuccherosità”. «Un cappuccino e una brioche alla marmellata, per piacere» chiese alla cameriera che lo fissava in attesa del suo ordine. «Anzi, facciamo due!» si corresse Stiles sentendo il suo stomaco brontolare sonoramente e sorridendo colpevole verso la barista.

 

La ragazza gli preparò tutto diligentemente e gli appoggiò di fronte, nel giro di un paio di minuti, una tazza fumante e un piattino con i due cornetti e qualche tovagliolino. Stiles divorò tutto in un attimo, aveva davvero troppa fame; sentendosi però un po’ maleducato, prese delicatamente una salvietta e se la portò alla bocca, pulendosi il contorno delle labbra costellate di briciole di brioche. Per sembrare ancora più educato ne prese una seconda e la strofinò nuovamente sulle labbra. Quando fece per accartocciarla e appoggiarla nel piattino si accorse che la terza aveva qualcosa scritto sopra: un numero di telefono e un nome. Allibito e non potendo credere a quello che stava succedendo (non poteva essere che fosse per lui, forse la ragazza l’aveva portato alla persona sbagliata), alzò gli occhi verso la cameriera che ancora lo fissava, probabilmente attendendo una risposta o un cenno di assenso. Con la bocca ancora spalancata e il tovagliolino stropicciato nella mano destra, raccolse quello scritto e lo porse alla ragazza dicendole «…penso…penso che tu abbia sbagliato persona…» e divenne rosso fino alle punte delle orecchie «…io, io ho un’altra persona in testa ora…» aggiunse senza nemmeno accorgersene, come se lo dicesse più a se stesso che a lei. «Niente, oggi dev’essere una brutta giornata. Adesso il figlio dello sceriffo che rifiuta il mio numero, stamattina la notizia che quel ragazzo, Hale, se ne va dalla città…» sospirò sconsolata girando i tacchi e andando a pulire la macchina del caffè dietro di lei. Stiles si allungò oltre il bancone e le afferrò al volo il bordo della maglia, per richiamarla indietro. «Hale? Hai detto Hale?? Derek Hale???» Stiles stava praticamente urlando ma non gli importava. «Quanti Hale vivi conosci in questa città? Ora che hai avuto le tue notizie, lasciami lavorare» rispose acida la ragazza e, sfilando la maglia dalle mani di Stiles, andò alla cassa, dove un cliente aspettava il conto.

 

Stiles non poteva crederci, Derek stava partendo. Se ne stava andando. E, se lo conosceva abbastanza bene, lo stava facendo per sempre. Non se n’era andato quando la sua famiglia era stata bruciata viva e voleva mollare ora. La situazione doveva essere molto più grave di quanto pensasse Stiles. Doveva vederlo, parlargli, subito. Un peso gli si piazzò di nuovo sullo stomaco, un nuovo macigno sul suo cuore. Lasciò i soldi sul bancone e corse via. Prima ancora di rendersene conto stava davanti al portone del condominio di Derek. Probabilmente non avrebbe voluto aprirgli, probabilmente non avrebbe voluto parlargli, probabilmente aveva già sentito la Jeep mentre a parcheggiava.

 

Nessuno ha detto che sarebbe stato facile, rimbombò nella testa di Stiles, mentre si apprestava a suonare il campanello.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Quel che sarà di noi ***


Note iniziali: Ciao a tutti! Non ho molto da aggiungere a questo capitolo, volevo solo dirvi che è il penultimo, ovvero il prossimo, il decimo, sarà quello finale!

Spero che come sempre vi piaccia, buona lettura! Al prossimo (e ultimo) aggiornamento!

 

 

 

 

CAPITOLO 9: Quel che sarà di noi

 

Derek si era svegliato con un’insistente emicrania che gli opprimeva le tempie; non poteva aspettarsi nulla di diverso dopo la giornata che aveva trascorso. Come prima cosa, alzandosi dal divano dove aveva dormito, prese il cellulare di Cora, che ancora riposava nella sua camera. Si sentiva indolenzito e i suoi muscoli erano perennemente in tensione, non riusciva a rilassarsi, non poteva farlo. Sbloccò il telefono della sorella con cuore in gola; desiderava così tanto trovare una chiamata o almeno un messaggio di Stiles. Voleva solo sapere come stava, voleva solo sapere se aveva pensato a ciò che era successo, voleva sapere se aveva pensato a lui. C’erano due chiamate e tre messaggi: Derek rimase a lungo a fissare lo schermo delle notifiche, cercando di togliersi di dosso quella sensazione di attesa, quel desiderio, quell’illusione che ci fosse una traccia di Stiles. Anche un messaggio in cui si licenziava, sarebbe già stato un contatto. Il fatto era che Derek non doveva illudersi, non voleva sperare e trovarsi deluso, voleva essere distaccato. Ma non poteva farcela, non poteva chiedere una cosa del genere a se stesso.

 

Decise che avrebbe prima aperto la lista delle chiamate: una era della migliore amica di Cora e l’altra di un numero sconosciuto. Derek incassò il primo colpo, cercando di esalare un respiro che gli bruciò i polmoni. Proseguì aprendo la cartella dei messaggi, le chat aperte erano due: una di un compagno di scuola di Cora (Derek aveva notato che si stavano stuzzicando da un bel po’) e una di un numero sconosciuto, lo stesso che l’aveva chiamata. Il messaggio cominciava con “Allora cos’è successo con Der…” ma non aveva potuto aprirlo per leggerne l’intero contenuto perché la sorella l’avrebbe scoperto subito. Era quasi certo, però, che quel Der stesse per Derek; sarebbe arrivato al fondo della questione. Tuttavia decise che avrebbe affrontato quel discorso con Cora più tardi, voleva capire se stava succedendo qualcosa di cui lui non era a conoscenza. Mentre era rimasto imprigionato nel suo corpo, Cora aveva portato avanti le ricerche ma non aveva riferito pressoché nulla a Derek; ora che era tornato umano voleva capire cos’era successo. In quel momento però la sua mente era occupata da altri pensieri: non c’era traccia di Stiles nel telefono di Cora, non si era fatto sentire, Derek non avrebbe nemmeno saputo dove cercarlo. Ma cercarlo era fuori discussione, se non si era fatto vivo voleva dire che non voleva essere rintracciato e per quanto fosse straziante l’attesa (Derek non sapeva nemmeno se sarebbe stata un’attesa o una condizione definitiva) lui doveva rispettare la scelta di Stiles. Crollò sul divano, appoggiando con la mano tremante il cellulare di Cora sul divano.

 

Derek sapeva che non doveva farlo, sapeva che era sbagliato e scorretto eppure non aveva potuto trattenersi dal farlo. Dopotutto la decisione che aveva preso era drastica e almeno voleva lasciare un ricordo, per quanto potesse essere freddo. Aveva sentito Cora rigirarsi nel letto un paio di volte, segno che ormai stava per alzarsi; non aveva molto tempo se voleva farlo. Prese di nuovo il telefono della ragazza, lo riappoggiò sul divano e lo riprese in mano. O adesso o mai più, si disse mentalmente, mordendosi il labbro inferiore e decidendosi finalmente a sbloccare la tastiera. Scorse rapidamente la rubrica della sorella, sentendosi terribilmente in colpa; questo però non lo fece desistere. Magari non l’avrebbe usato, ma almeno sapeva di averlo. Si fermò sulla lettera “S” e trovò a colpo sicuro la scheda del contatto di Stiles. Si bloccò davanti alla foto che Cora aveva associato al ragazzo: erano lui e Stiles, sotto il loro pino. Stiles sorrideva spensierato guardando la fotocamera interna che aveva utilizzato per catturare quello scatto; il ragazzo faceva l’occhiolino, indicando divertito Derek che dormiva sul suo stomaco. Derek non sapeva nemmeno che Stiles avesse scattato quella foto, chissà di quante altre non era a conoscenza. Una fitta al cuore gli trapassò il petto, ricordandogli quello che stava per fare. Frettolosamente trascrisse il numero di telefono sul suo cellulare, decidendo per il momento di salvarlo come “S.”. Quando Cora arrivò in cucina Derek stava alzandosi dal divano, strofinandosi gli occhi che gli pizzicavano, tenendosi la testa e sentendosi dannatamente sporco e colpevole. 

 

Cora annusò l’aria appena entrata in salotto, a pieni polmoni, per capire com’era la situazione quella mattina. Rilevò che l’umore di Derek non era poi così cambiato, la tristezza pervadeva ancora quella stanza, impregnandola allo stesso tempo anche di malinconia e senso di colpa. Un classico di Derek. Doveva assolutamente parlare con lui, provare a fargli vedere la situazione da un altro punto di vista. Quando vide che il suo cellulare era sul divano e non sul mobile del soggiorno dove lo aveva lasciato la sera prima, Cora si bloccò e fissò il suo sguardo prima sul telefono e poi su Derek. «Cosa ti serviva che non potevi chiedere a me?» sputò, diretta e un po’ irritata. Derek la guardò tentando di assumere uno sguardo perso e innocente, fallendo miseramente; Cora sembrava parecchio seria e ciò mise Derek sulla difensiva, ma decise di non aprire ancora bocca, non aveva scuse. «Sai che non ho segreti con te, ma questo non vuol dire che io non abbia una privacy. Per piacere, Derek, vuoi dirmi cos’hai cercato?» insistette la ragazza. «O cos’hai trovato, vista la tua faccia…» esalò abbassando la voce, cominciando a pensare alla questione dell’Alpha. Passarono ancora alcuni momenti di silenzio, in cui gli occhi di Derek non lasciarono lo sguardo di Cora, alla ricerca del punto da cui iniziare. Alla fine decise di partire prima dalle spiegazioni che la sorella gli doveva (o quantomeno che lui voleva) a proposito di quel numero sconosciuto che la chiamava e le lasciava messaggi. «Chi hai contattato quando sono diventato lupo?» Derek aveva pensato che essere diretti sarebbe stata la cosa migliore da fare.

 

 «Sediamoci» lo invitò Cora indicando il divano. Derek prese posto accanto a lei, un po’ più distaccato rispetto al solito, tenendo ancore le spalle in tensione. «All’inizio ho pensato di poter fare da sola. Ho consultato tutti i libri di mamma, ho fatto ricerche su internet, ho cercato informazioni ovunque. Ma conosci internet, è tutto troppo poco sicuro, le informazioni possono essere facilmente distorte, ingigantite, modificate a seconda dell’uso che se ne vuole fare. A quel punto le notizie sul caso erano poche e le certezze quasi nulle.» Cora fece una pausa, indecisa sul modo in cui proseguire, sapeva che il fratello era contrario alla linea d’azione che aveva perseguito lei. Ma lei che poteva fare?? Era stata lasciata sola in una questione così cruciale, aveva dovuto scegliere da sola! E qualcuno ogni tanto si poteva anche ricordare che lei aveva solo diciott’anni?! Cora inspirò profondamente e, abbassando gli occhi e la voce, disse «Ho preso la rubrica di mamma e ho chiamato un Alpha, quello più accreditato dopo…» la ragazza deglutì rumorosamente, per evitare di dover completare la frase. «…gli ho chiesto un incontro, ecco perché sono stata via questo weekend, per capire se nel suo branco o nella sua esperienza aveva mai avuto a che fare con questo genere di avvenimenti» concluse tutto d’un fiato Cora, come a togliersi il peso di quella confessione. Solo allora alzò lo sguardo sul fratello, per saggiare la sua reazione alla notizia. Derek teneva ancora le spalle contratte e aveva sbiancato le nocche per la forza con cui stringeva i pugni, posati sopra le ginocchia. Teneva gli occhi puntati verso l’ingresso, nel vuoto, e si vedeva facilmente che stava cercando di rallentare il respiro sbuffando deciso dalle narici. Ma non apriva bocca. Quel silenzio stava uccidendo Cora.

 

«Sai che io non l’avrei mai fatto, vero??» disse infine Derek, con un tono un po’ di alto di quello che avrebbe voluto usare in realtà. «Ma posso capire, eri sola, in un momento in cui chiunque sarebbe andato fuori di testa. Tu invece hai preso la situazione in mano, hai affrontato il problema di petto, hai cercato le soluzioni e ti sei fatta in quattro. E hai fatto tutto questo per me. Non mi importa il fatto che io avrei agito diversamente, probabilmente con la mia testardaggine non saremmo arrivati da nessuna parte. L’importante è che tu l’hai fatto per me e io non posso che ringraziarti ed essere fiero di te» concluse Derek, con la voce leggermente incrinata. «Mamma sarebbe stata fiera di te» aggiunse infine in un soffio. Cora lo abbracciò con tutta la forza che aveva, stringendo con una mano il bordo della maglia di Derek dietro il collo, mentre nascondeva gli occhi nell’incavo del suo collo, per non fargli vedere le lacrime che le erano salite agli occhi.

 

Nessuno disse più nulla dopo quel lungo abbraccio, entrambi i fratelli sapevano che c’era bisogno di riordinare un po’ i pensieri nel silenzio della propria interiorità. Cora si avviò in cucina, mise a scaldare la macchina del caffè e si appoggiò stanca al bancone, dove Derek si stava appollaiando mogio. Doveva parlare, oppure sarebbe scoppiato. Tenendo lo sguardo sul tavolo di legno aprì finalmente bocca. «Sto per partire, sai il perché. Non voglio chiederti di seguirmi, non potrei mai farlo. Qui hai la tua vita, le tue amicizie, i tuoi amori. Non voglio portati via più di quello di cui la vita ti ha già privata. Se vorrai resteremo in contatto, se vorrai mi raggiungerai. Potrei stare via giorni o anni, io ora non so stabilirlo. Ma quello che so è che ho bisogno di staccare da questo posto dove i ricordi mi stanno divorando» prese fiato solo alla fine, senza riuscire davvero a respirare. «Se qui ti divorano i ricordi da un’altra parte ti divoreranno i rimorsi. Sono contraria ad ogni parola che hai appena detto ma non ho alcun potere di fermarti. Sapevo che avresti fatto così, ormai ti conosco, non sono serviti i miei sensi sovrannaturali per leggerti dentro stamattina. Ieri sera eri disperato, ma stamattina la rassegnazione era la grande protagonista dei tuoi occhi. Sappi che non ti supporto, penso sia la peggior scelta della tua vita. Scelta di cui ti pentirai ogni minuto dal momento in cui varcherai il confine della contea» qui Cora fece una piccola pausa, «ma sei mio fratello per cui se vorrai sarò sempre qui, ad aspettarti, ad accoglierti a braccia aperte. Perché la nostra casa siamo noi, la nostra famiglia siamo noi e il tuo posto è qui». La stanza ripiombò nel silenzio, un silenzio che era il preludio di un addio. Derek allungò la mano sul tavolo per raggiungere e stringere forte quella di Cora. Non c’era altro da aggiungere.

 

Cora era andata per schiarirsi le idee a far colazione fuori, al bar poco lontano che lei e il fratello frequentavano ogni tanto e dove c’era un’insistente cameriera che da anni faceva il filo a Derek, irritandolo parecchio. Intanto a casa Derek si preparò una borsa, i vestiti che aveva nell’armadio non erano molti; non sapeva se e quando sarebbe tornato ma non svuotò completamente la sua camera, voleva dare una speranza a Cora. O voleva darla a se stesso, questo Derek non seppe deciderlo. Piegò accuratamente tutto, raccolse alcuni libri di Talia e li mise da parte; prese la sciarpa che Cora gli aveva fatto a ferri l’inverno prima e la mise da parte con delicatezza, accarezzando le fibre che pungevano un po’ sotto le sue dita. Alla fine prese anche la felpa che si era messo Stiles la mattina in cui si era fermato a dormire all’appartamento: potevano davvero essere passati solo un paio di giorni? Rimase indeciso con quell’indumento in mano, mentre riaffioravano di nuovo i ricordi…e poi non poté fare a meno di portarla al viso, di affondarci il naso e respirare a pieni polmoni. Faceva un male del diavolo ma continuava a farlo, anche se i polmoni bruciavano, non poteva staccare dal viso quel pezzo di stoffa, non poteva staccare dal cuore quel ragazzo. Ma era proprio per questo che partiva. Non poteva dimenticarlo ma avrebbe provato a farsi dimenticare. Si appuntò mentalmente di non lavare mai quella felpa. Una volta chiusa la zip del borsone, Derek si sedette sul letto: sapeva benissimo qual era il passo successivo, aveva elaborato quel progetto tutta la notte e non poteva saltare quella parte. Solo che era la parte più difficile e dolorosa. Tirò fuori dalla tasca il cellulare, ritrovò il contatto “S.” salvato quella mattina e cominciò a digitare un SMS.

 

Sto partendo. Troppo crudo, Stiles meritava molto di più. Cancellò.

Devo andare. Non cercarmi. Dimenticami. Perdonami, se puoi. Cancellò di nuovo e si passò una mano sul viso sospirando.

Ho bisogno di smettere di far soffrire la gente, è una mia brutta abitudine. Derek Hale al 100%.

Vorrei non averti ferito come faccio sempre con tutti. Ancora Derek Hale, c’era la sua firma ovunque.

Ho sperato davvero che con te sarebbe andata diversamente. Come si fa a dire che si è innamorati e che si sta mollando tutto proprio per questo?

Ma forse non merito la felicità da questa vita. Aggiunse.

Chissà se ti incontrerò di nuovo in un’altra vita: io ti riconoscerò, ne sono certo. Forse tu no, o forse farai finta di non riconoscermi e io non potrò fare altro che accettare la tua decisione e darti ragione. Poteva sembrare sciocco ma ci credeva davvero. Anche se alla fine cancellò di nuovo l’intero testo del messaggio. Voleva scrivere che con lui aveva trovato la sua casa, ma avrebbe rovinato la vita di Stiles. Di vita rovinata gli bastava la sua, non voleva coinvolgere nessun altro, non poteva permetterlo.

Vado fuori città, forse per ora, forse per sempre. Non avrei mai dovuto coinvolgerti in tutto questo e non potrò mai perdonarmi per quello che ho fatto. Non posso chiederti di perdonarmi, posso chiederti di dimenticarmi, di vivere i tuoi giorni migliori con le persone che meriti accanto. Una sola lacrima bagnò lo schermo del cellulare. Forse era l’ultima che gli era rimasta.

Sappi che io non dimenticherò, non dimenticherò nulla. Avrei solo voluto essere diverso, migliore, più adatto a te. Avrei voluto portare solo il sorriso sulle tue labbra. Derek dovette fermarsi un attimo prima di scrivere la frase finale.

Avrei voluto essere per te quello che sei stato per me: la possibilità di essere felice di nuovo. La meritavi. Rimase a lungo di fronte a quelle parole, senza riuscire a premete il tasto “Invia”. Le osservò così a lungo che le imparò a memoria. Se le scandì nella sua mente, si immaginò Stiles a leggerle. Immaginò la sua voce, quella calda voce, quelle voce che avrebbe voluto ascoltare per sempre. E che invece non avrebbe ascoltato più. Sul domani non ti viene sottoscritta nessuna assicurazione, probabilmente questa doveva essere la frase che caratterizzava l’intera vita di Derek Hale.

 

Quando finalmente riuscì a premere il tasto “Invia” si lasciò cadere sfinito sul letto, con gli occhi chiusi. Lasciò andare un respiro che aveva trattenuto da troppo tempo, ma un secondo dopo gli si bloccò in gola. Un rumore. Poteva essere un rumore qualsiasi. Ma Derek sapeva che non lo era, quella era la suoneria di un cellulare. Quella era la suoneria di un messaggio su un cellulare. Quella era la suoneria di un messaggio sul cellulare di Stiles. Quella era la suoneria di un messaggio sul cellulare di Stiles da parte di Derek. Quella suoneria proveniva dal suo pianerottolo, il suo udito da lupo glielo poteva garantire. Il suo cuore perse un battito prima che il cervello gli ordinasse una sola cosa: andare alla porta dell’appartamento.

 

Ma come faceva ad essere davanti alla sua porta? Derek poteva accettare di non aver sentito la Jeep arrivare, era completamente assorbito dallo scrivere quel dannato messaggio. Oppure poteva essere arrivato a piedi. O forse lo aveva accompagnato qualcuno. Chi si permetteva di accompagnarlo? Derek non si rese nemmeno conto di quante supposizioni stava facendo, stringendo spasmodicamente la maniglia della porta d’ingresso, incapace di muovere un altro muscolo, paralizzato. Non era una cosa a cui Derek era abituato, andare nel pallone ed essere bloccato non era da lui, non sapeva come reagire e si stava agitando. Cosa doveva fare? Finalmente decise di abbassare la maniglia, ma prima di riuscire ad aprire la porta una voce lo bloccò di nuovo sul posto. «Ho appena letto il tuo messaggio, Derek». Derek aveva cercato di ripetersi in testa quel tono di voce per tutta la notte, ma non era mai riuscito a sentirlo così chiaro. Si era arreso al fatto che non l’avrebbe più riascoltato e ora giungeva alle sue orecchie come una frusta. Nonostante fosse l’unico suono che volesse davvero sentire in quel momento, le parole gli bruciavano dentro come fuoco acceso, come un marchio, come una ferita aperta e sanguinante. Stiles era andato da lui; non importa con che intenzioni, Stiles era andato da lui ed era l’ultima cosa che Derek si aspettava perché lui non l’avrebbe mai fatto in quella situazione. Derek nella stessa situazione sarebbe scappato. Come stava facendo nella situazione attuale. Derek sapeva solo scappare, accusarsi di tutto e chiudersi in se stesso, ferendo se stesso e tutti quelli che lo circondavano. Era l’unica cosa che sapeva fare. Stiles invece era alla sua porta, era lì per lui; forse era lì per dirgli che non voleva più parlargli e voleva tirargli un pugno; forse voleva solo dirgli quanto gli aveva fatto male e quanto non avrebbe più voluto avere a che fare con lui. Ma almeno Stiles era lì, era lì per lui. Forse per la prima volta Derek capì che Stiles era la parte migliore di lui.

 

Stiles aveva letto il messaggio, sapeva che Derek voleva andarsene e Derek aveva potuto sentire la sua delusione dal tono di voce, senza nemmeno averne la certezza annusando l’aria. Aveva deluso Stiles, aveva deluso se stesso. Gli aveva fatto del male e continuava a non riuscire a rimediare; sentire dolore e delusione nel timbro di voce di Stiles era probabilmente la peggiore delle sensazioni che il lupo potesse provare. Passarono lunghi secondi di silenzio, in cui ognuno dei due calibrava la mossa successiva e cercava di prevedere quella dell’altro. Erano in bilico su un baratro, camminavano su una corda tesa tra due universi, opposti e in lotta, ma proprio per questo in perpetua attrazione. Non era una cosa che decidevano loro, accadeva e basta. Derek si rese conto di avere ancora la mano stretta alla maniglia della porta e la spalla contratta, ma non osava muovere un muscolo prima di capire cosa avrebbe fatto Stiles. Dal canto suo, Stiles stringeva ancora in mano il cellulare, leggendo e rileggendo quelle righe di testo, cercando di scavarci dentro per trovare il Derek vero e cercando di evitare il Derek terrorizzato. Perché anche lui era terrorizzato e non sarebbero andati da nessuna parte in quel modo.

 

«Posso parlare?» Stiles ruppe il silenzio all’improvviso, ostentando abbastanza sicurezza, nascondendo un po’ la voce ancora incrinata. E prima che Derek potesse rispondere, aggiunse «Sì sì, è proprio un “posso” parlare, non “possiamo” parlare. Io sono quello logorroico, quindi lasciami fare ciò che faccio meglio. Tu scappi? Io parlo» lo disse un po’ piccato, ma non c’era traccia di risentimento nella sua voce. Derek era un po’ perplesso e non sapeva esattamente come fare ma capì che la cosa migliore era assecondare Stiles. «Allora tu ti siedi e io mi siedo…e io parlo. Ma la condizione inderogabile è una: non ci guarderemo in faccia, io ti parlerò attraverso la porta e solo alla fine decideremo se aprirla. Ci stai? Batti un colpo. Anzi facciamo due, altrimenti potresti anche essere collassato a terra per quanto ne so e questo discorso lo farò una volta sola» aggiunse deciso, cercando di sdrammatizzare la situazione. In effetti, il ragazzo poteva anche parlare ad un tono di voce abbastanza basso, il suo udito da lupo lo avrebbe sentito comunque attraverso la porta. Derek batté due colpi sul muro.

 

Derek sentì la schiena di Stiles scivolare pigramente lungo la porta mentre il ragazzo vi si appoggiava di peso. Lui invece preferì posarsi con la schiena contro lo stipite destro, reclinando la testa all’indietro e socchiudendo gli occhi per potersi concentrare di più sulla voce di Stiles. Lo sentì prendere un respiro profondo, trattenere un attimo il fiato e poi partire spedito. «Ti racconterò una storia. È una storia che conosci…da una certa prospettiva. Circa un anno fa era il mio compleanno. I miei amici mi avevano convinto a festeggiare in un bar gay, ma io non ne avevo nessuna intenzione. Ok, ho fatto outing, ma non mi volevo vendere proprio così, in un bar palesemente nato per incontrare persone del mio stesso sesso…e non solo incontrare. Sapevo che mi avrebbero fatto bere…e diciamocelo, ho diciannove anni, i miei ormoni avrebbero agito al posto del mio cervello. E sinceramente non volevo buttare via la mia dignità non ricordando nemmeno il nome della mia prima volta. Mi sono puntato e ho deciso di andare nel bar che conosciamo bene entrambi: si sa da chi è frequentato ma non è l’unico scopo della serata se vai a berti una cosa lì. Abbiamo fatto un paio di giri di drink fino a quando il mio amico Jackson non se n’è uscito con la storia che mi mangiavi con gli occhi da tutta la serata. Ho fatto finta di cadere dal mondo delle nuvole, ma come potevo non essermene accorto? Cosa credi, ti avevo puntato anch’io, non è cosa da tutti i giorni vedere un dio greco appollaiato al bancone, tutto solo, e che per di più ti lancia certi sguardi. Certi sguardi che se solo ci penso ho ancora i brividi lungo la spina dorsale. Non sono un tipo abituato a ricevere particolari attenzioni, sai.» Stiles fece una piccola pausa, solo per riprendere fiato e Derek avrebbe potuto giurare che dai piccoli rumori che aveva sentito si era anche umettato le labbra e passato una mano a scompigliarsi i capelli. «E così ho preso un altro sorso del mio drink e mi sono alzato dal tavolo dove stavo festeggiando. Non ero ubriaco, ma ti assicuro che senza quei due drink non avrei mai avuto il coraggio di fare quello che ho fatto. Ho cercato di mantenere la mia facciata sprezzante, ma hai capito subito che io in realtà sono molto diverso. Mi hai letto subito dentro, non so come tu faccia. Non penso di doverti dire nulla sul nostro bacio…» e qui Derek lo sentì chiaramente deglutire, anche perché a quel ricordo deglutì forte anche lui «…non avevo mai provato nulla del genere. Non me ne intendo di droghe ma penso che le tue labbra mi facciano un po’ quell’effetto stupefacente e di dipendenza. Quando te ne sei andato mi è crollato il mondo sotto i piedi. Quella volta sei scappato, non capirò mai perché ma non sono qui a chiederti il perché di quel gesto. Sono qui a dirti che l’hai fatto una volta ma non puoi permetterti di farlo di nuovo, non puoi spezzarmi il cuore due volte. Forse non sai quante notti ho passato alla finestra, a maledire quella luna silenziosa. Quella luna che magari stavi osservando anche tu. Quella luna a cui confidavo i miei segreti. Quella luna che magari custodiva anche i tuoi. Quella luna che non ha fatto nulla per farci incontrare di nuovo. Per un anno intero è stata la testimone silenziosa del mio dolore.» La pausa che si prese qui Stiles fu più lunga, come se stesse rivivendo quei momenti.

 

«Ho provato a riprendere in mano la mia vita, ho provato ad uscire, a svagarmi come facevo una volta. Ma c’era sempre qualcosa che mi mancava, mi avevi lasciato un vuoto dentro che nessuno poteva colmare. Poi, un giorno, dopo il diploma, ho deciso di reinventarmi: non volevo andare al college, io e mio padre non viviamo esattamente nell’oro. Mi andava bene restare qui, restare con lui, lasciarlo sarebbe stato troppo difficile. Sai, mia madre è morta ormai tanti anni fa, ma lui non l’ha mai dimenticata, soffre ancora della sua mancanza, ne soffriamo entrambi. E allora ho optato per il dog sitter: mi piacciono i cani, avrei avuto una retribuzione discreta per una cosa che mi fa piacere, avrei avuto abbastanza tempo libero. Più di tutto avrei occupato il cervello con qualcosa: dovevo smettere di pensare perennemente a te oppure sarei finito al manicomio. Nemmeno se me l’avessero detto avrei creduto al fatto che ti avrei incontrato di nuovo…in quelle condizioni. Quando ho varcato per la prima volta questa soglia» Derek lo sentì accarezzare malinconico la porta con la mano, come a ricordare quel momento «ero parecchio agitato. Probabilmente non devo nemmeno dirtelo: puoi sentire le mie emozioni, vero? Ho fatto parecchie ricerche, ben prima di conoscerti, è la mia passione. Scoprire tutto quello che si può scoprire, tutto quello che succede nel mondo, tutto quello che la gente non vuole raccontarti. Ti ho visto lì, con quegli occhi blu e ho capito che dovevo accettare questo lavoro, non c’era una spiegazione, dovevo e basta. Che altro devo aggiungere su quello che abbiamo vissuto insieme in queste settimane? Devo davvero dirti che non ero così sereno da tanto tempo? Che sentivo di aver trovato il mio posto? Che dopo un anno non ti avevo dimenticato ma riuscivo a sopravvivere alla distanza che avevi messo tra noi? Dovevo capirlo che questa distanza era in realtà il periodo più vicino che avessimo mai vissuto. Quando ho avuto quell’attacco di panico…non ne avevo uno così dalla morte di mia madre. Mi sono sentito impotente e svuotato. Mi è bastato un tuo sguardo, un tuo tocco: sei il mio collegamento con la realtà, io sono il palloncino e tu il filo che mi permette di non perdermi nell’immensità del cielo. Perché il cielo è stupendo, ma è spaventosamente grande». Stiles non sembrava particolarmente affaticato, ma si sentiva che certe volte alcuni dettagli del racconto gli pesavano, erano ricordi difficili da raccontare. Derek continuava a stupirsi di come quel ragazzo si stava aprendo, senza filtri, di come si stava donando completamente a lui: Derek non avrebbe mai dimenticato il calore che sentiva nel petto mentre Stiles parlava, nessuno aveva mai creduto così tanto in lui da consegnargli la parte più nascosta e recondita di sé. Ci fu un attimo di silenzio, in cui Stiles sembrava essere alla ricerca delle parole giuste per proseguire, probabilmente stava per arrivare alla parte più difficile del suo racconto. Derek ne approfittò per battere due colpi, a significare che era ancora lì. Stiles sbuffò una risata e ringraziò Derek per aver allentato la tensione.

 

«E poi è arrivato il bosco. Io non avevo idea di dove ti stessi portando fino a che entrambi non ci siamo accorti di cosa incombesse davanti a noi. Credimi, non ti avrei mai fatto del male deliberatamente portandoti in un posto così traumatico per te. Quando ti sei bloccato non potevo ovviamente capire tutto quello che stava succedendo nella tua testa, provavo a capire ma mi mancava il tassello fondamentale che legava la tua persona a quel lupo dagli occhi blu. Da un lato è stato come se l’avessi sempre saputo, sentivo nel profondo che avevi qualcosa di speciale, qualcosa che ti distingueva da tutti gli altri lupi. Nel momento in cui però avrei dovuto fare il passo in più per avvicinarmi alla verità il mio cervello si è bloccato: stavi piangendo. Non ho avuto nemmeno il tempo di reagire all’accaduto, ti ho preso istintivamente il muso tra le mani, ho cercato le risposte in quegli occhi in cui stavi rischiando di annegare. E poi è stato tutto surreale, in un attimo sotto le mie mani non c’era più un lupo nero ma un giovane uomo con la barba sfatta. In un attimo ho dovuto imparare che non ululi ma parli, che non hai gli oceani blu negli occhi ma i prati verdi, che non ti affezioni ma ami. E ho avuto paura di ogni cosa e del contrario di ogni cosa. Ho finalmente compreso perché tu ogni volta scappi, ho capito qual è il sentimento che si prova, l’idea che sia l’unica cosa che può proteggerti dal mondo e dalle cose che ti terrorizzano, dalle cose che ci terrorizzano. Ma non esiste sensazione più illusoria Derek, il vuoto che ti lascia dentro l’essere scappato non lo riempirai mai: vale sempre la pena di lottare. Ora io di paura non ne ho più perché so che anche se si spegnessero tutte le stelle nell’universo tu rimarresti la mia unica fonte di luce, per sempre».

 

Derek aveva smesso di respirare. Aveva smesso di respirare quando Stiles aveva pronunciato le ultime due frasi. Aveva sentito il cuore perdere un battito, poi un altro. A quel punto aveva trattenuto il respiro, involontariamente. Stiles dall’altra parte della porta aveva finito le forze e si mordeva disperatamente il labbro inferiore, in attesa almeno di una doppia bussata, per sapere che Derek aveva sentito, ascoltato, capito. Ma non arrivò nessun colpo sulla porta. Derek, restando seduto, alzò il braccio e abbassò la maniglia; la porta si aprì sotto il peso di Stiles che vi si era appoggiato. A quel punto il ragazzo cadde all’indietro, ma prima che andasse a sbattere con la testa sul pavimento, Derek lo prese al volo, si avventò sulle sue labbra e respirò. Respirò per la prima volta dopo la notte in cui l’aveva baciato, respirò per la prima volta dopo che la sua famiglia era stata bruciata viva, respirò per la prima volta in vita sua.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Questo momento è solo nostro ***


Note iniziali: Ultimo capitolo *sigh*! Spero vi piaccia anche questo, ci vediamo alla fine!

Buona lettura :)

 

 

 

CAPITOLO 10: Questo momento è solo nostro

 

La porta si era aperta all’improvviso, Stiles non aveva avuto il tempo di accorgersene e infatti era caduto come una pera cotta. Era crollato all’indietro senza tentare nemmeno di attutire la caduta, era scivolato verso il pavimento senza forze, svuotato dalle sue stesse parole. L’unica cosa che era riuscito a fare era stato irrigidire di colpo i muscoli e stringere forte le palpebre, in attesa del tonfo sordo che sarebbe seguito. Tonfo che non arrivò perché due forti braccia stavano sostenendo il suo fragile corpo, una dietro la schiena, da una spalla all’altra passando per le scapole, e una dietro la nuca, proprio all’attaccatura dei capelli. Quella dietro le spalle era ferma e salda, come una roccia resistente a qualsiasi intemperia, mentre quella dietro la nuca era molto più morbida; le dita scorrevano lente e leggere, accarezzavano e sfioravano con delicatezza la base del collo di Stiles, come a voler conoscere di lui ogni minimo particolare, come a volersi imprimere nel cervello ogni dettaglio del suo corpo. Stiles poteva sentire quanto le mani di Derek fossero calde, sia sul suo collo che sulla sua spalla, e questo gli provocava una stranissima sensazione, un calore che gli partiva dal centro del petto e si irradiava ovunque.

 

La cosa che però in quel momento più bruciava erano le sue labbra, le labbra che erano premute (finalmente!) su quelle di Derek. Per quanto tempo aveva sognato quel momento? Lo stava ancora sognando? Era davvero possibile che Derek lo stesse baciando? Aveva avuto una miriade di fantasie in quel lungo anno sull’ipotetico momento in cui si sarebbero rincontrati, fantasie che comprendevano ogni scenario possibile. Derek che lo incrociava per strada, lo seguiva fino ad un vicolo e lo prendeva per il colletto, baciandolo con foga contro il muro. Derek che lo vedeva in un bar, gli si avvicinava e con un sospiro caldo gli sussurrava all’orecchio un indirizzo a cui raggiungerlo, lasciandogli un piccolo morso sul padiglione auricolare prima di uscire come se nulla fosse dal locale. Derek che lo incontrava in biblioteca e che gli lasciava cadere sul tavolo un libro al cui interno aveva lasciato un post-it con il suo numero di telefono. Derek che si faceva trovare sotto casa sua (perché Derek investigatore che scopriva il suo indirizzo di casa era sexy il doppio) con la Camaro nera, pronto a partire per qualsiasi posto Stiles avesse scelto. E Stiles che gli saltava in braccio, strofinando il naso sul suo collo, dicendogli che qualsiasi posto andava bene purché fossero insieme. E poi lo baciava, lo baciava fino a perdere il controllo, fino a perdere il respiro, fino a perdere il senso del tempo, fino a perdere la cognizione di dove finiva Stiles e dove iniziava Derek.

 

Ora però lo stava facendo davvero, stava davvero baciando Derek, praticamente disteso per terra, nel suo appartamento: non poteva esserci nulla di più perfetto. Rispose subito al bacio, come se le loro labbra non fossero state create per nient’altro se non per unirsi e completarsi. Il labbro inferiore di Stiles tremava appena, sfiorando quello di Derek, sentendo il suo sapore mischiarsi con quello del lupo. Le loro bocche si muovevano in sincrono e in modo completamente opposto, si prendevano e si lasciavano, si sfioravano appena e poi, avide, si assaggiavano di nuovo. Il corpo di Stiles stava reagendo a blocchi: prima la bocca sulla sua bocca, poi le mani sul suo corpo. Una scivolò sulla nuca di Derek, spingendolo forte in avanti e allo stesso tempo risalendo verso la sommità della testa con le dita in mezzo ai capelli, accarezzandone la setosa consistenza. L’altra scivolò sul fianco di Derek, che ne sembrò piacevolmente sorpreso, visto il mugolio di piacere che rilasciò immediatamente sulle labbra di Stiles, senza però staccarsene mai. Il ragazzo lo prese per un invito a continuare, ma lo fece a modo suo: con una leggerezza che non era da lui, alzò piano la maglia di Derek e gli sfiorò l’osso del bacino, con la punta delle dita, risalendo poi verso le costole. Constatò con enorme piacere che questo eccitava parecchio sia lui che Derek, doveva tenerlo a mente per quando le cose si sarebbero scaldate; anche se cominciava seriamente a pensare che quel giorno non fosse poi così lontano.

 

Derek a quel punto cercò una posizione migliore, soprattutto per poter a sua volta cominciare a toccare il corpo di Stiles: lo fece scivolare di peso verso l’interno dell’appartamento, riuscendo a non staccarsi mai da quelle labbra soffici. Stiles si issò su di lui per potersi mettere a cavalcioni sulle sue gambe, trovandosi col petto a pochi centimetri da quello di Derek: le loro casse toraciche si alzavano e si abbassavano velocemente, stavano ansimando entrambi ma nessuno aveva intenzione di rallentare il ritmo, era troppo tempo che desideravano tutto quello che finalmente stava accadendo. Stiles approfittò della posizione più libera che aveva guadagnato per posare entrambe le mani sul volto di Derek, premendo i pollici sui suoi zigomi e accarezzando quella barba ispida che lo faceva impazzire. Derek intanto aveva fatto scendere le sue mani lungo i fianchi di Stiles, per sistemarlo meglio sulle sue gambe e ridurre al minimo la distanza tra loro, sollevandolo con una naturalezza che subito il ragazzo ricollegò alla sua forza da lupo mannaro. «Dio, Derek, tutto questo…tutto questo è mille volte meglio delle mie sciatte fantasie erotiche su di te…» esalò Stiles sulla sua bocca. Derek aprì gli occhi e scese con le labbra e la bocca lungo la giugulare del ragazzo, lasciando una scia umida al suo passaggio; mantenne però lo sguardo sul viso di Stiles, chiazzato di rosso, leggermente sudato, con le labbra gonfie. Ma la cosa che più immagò Derek furono gli occhi, quegli occhi color caramello che Stiles stava roteando all’indietro dal piacere: nessuna visione avrebbe mai appagato Derek quanto vedere Stiles in quelle condizioni per “merito” suo. Arrivato alla clavicola risalì leggermente e lasciò un piccolo morso e un succhiotto sul lato sinistro del collo di Stiles: la sua parte animale aveva bisogno di lasciare un marchio, perché c’erano cose che ormai erano sue e nessuno doveva azzardarsi a toccare. Stiles dimostrò subito di apprezzare quel genere di attenzioni, perché rilasciò un verso abbastanza gutturale, che spiazzò entrambi e li fece scoppiare in una risata leggera.

 

«Sono stato un idiota, un enorme idiota» confessò Derek, incupendosi e fermandosi un attimo, premendo la punta del naso nel punto in cui aveva appena lasciato il suo segno. «Abbiamo perso un anno per colpa mia, perché sono scappato. E se non fossi rimasto bloccato nel mio corpo sotto forma di lupo avrei anche potuto non incontrarti più. Ti rendi conto? Stavo per rovinare la cosa più bella della mia vita, stavo per perdere te, stavo per…» Derek stringeva gli occhi, non osando nemmeno aprirli, si sentiva troppo in colpa e continuava a nascondersi nel collo di Stiles. Stiles gli alzò il viso a due mani e gli sussurrò piano «Apri gli occhi, Derek». Il lupo obbedì, schiudendo le palpebre ai due smeraldi che gli splendevano in viso. «Mi vedi? Mi stai vedendo, Derek? Sono qui davanti a te, sono reale, non mi hai perso. Non importa cosa sarebbe potuto succedere, non mi importa se la prima volta sei scappato tu e la seconda sono scappato io. Eravamo destinati a incontrarci di nuovo, eravamo destinati a questo» gli disse allontanandosi un po’ dal suo viso. «Sì, eravamo destinati a pomiciare per terra, sullo stipite di una porta, come due quindicenni arrapati» e qui non poté che scoppiare in una risata leggermente isterica. «E non mi importa quanto tempo ci abbiamo messo a capirlo, con te ne sarebbe valsa la pena anche se ci fossimo rivisti solo sul letto di morte, anche se ci fossimo potuti solo stringere la mano o sfiorare le labbra. Per cui, siccome ora ci siamo trovati e non siamo ancora esattamente decrepiti, non ho intenzione di perdere un altro minuto a discutere sulla questione “sensi di colpa”» concluse deciso. Derek lo fissava con la bocca socchiusa, senza parole. Alla fine deglutì rumorosamente e replicò «Mostrami ancora come sai prendere in mano la situazione con decisione» e poi abbassando la voce fino a renderla roca aggiunse «fallo Stiles e raccontami ancora delle tue fantasie erotiche su di me, su di noi…». Il ragazzo fu scosso da un lungo brivido e maledisse Derek per essere il dio della voce da orgasmo.

 

«Prima di tutto non sarà possibile nessuna fantasia erotica finché sei così tanto vestito» sbuffò Stiles, pizzicando la maglia di Derek proprio al centro del petto. «Queste maglie aderenti, queste henley che ti ostini a portare sono molto sexy, lo riconosco» e qui gli lasciò un languido bacio sull’angolo destro della bocca, facendogli spuntare un sorriso furbo sulle labbra «ma penso che tu sia ancora meglio senza» proseguì alzandogli leggermente la maglia all’altezza degli addominali, solo per inserire sotto il tessuto le sue mani e risalire l’addome di Derek con lentezza. Il lupo ringhiò di un sordo piacere e le sue mani corsero subito al collo della maglia per potersela sfilare, ma Stiles gliele bloccò improvvisamente. «No no no, mie le fantasie erotiche, mie le regole» disse schioccando soddisfatto la lingua, in maniera provocatoria e un po’ oscena. «Questa maglia la toglierai quando lo dirò io» concluse con un sorriso malefico sulle labbra. Derek cominciò a pensare che ne sarebbe morto, Stiles sapeva come portarlo al limite. «Intanto ci dovremmo spostare in un punto più…comodo» esordì Stiles, guardandosi un po’ intorno, alla ricerca di un posto dove sistemarsi meglio. A quel punto Derek prese la situazione in mano, raccolse le gambe e, spingendo con la schiena sulla parete fece per alzarsi da terra. Stiles fece per scostarsi da lui per aiutarlo ad alzarsi ma Derek lo afferrò per i fianchi e lo bloccò; con un movimento di sopracciglia gli intimò di restare dov’era, non aveva intenzione di lasciarlo allontanarsi da lui. Fece scivolare le mani dai fianchi verso il basso, arrivando a bloccarsi solo quando ebbe una buona presa sulle natiche di Stiles. Decisamente quella sera in cui l’aveva visto al bar c’aveva preso a proposito di quel sedere. Come l’aveva definito? Rotondo, piccolo e sodo, sì sì, era proprio così. Stiles gli lesse tante di quelle cose negli occhi che a stento trattenne una risata, stringendogli le braccia attorno al torace e cominciando a baciargli avido il collo.

 

Crollarono sul divano così violentemente da farlo sbattere contro la parete, Derek disteso di schiena e Stiles sopra di lui. Non avevano mai staccato gli occhi l’uno dall’altro, con quel sorriso stupido sulle labbra che non potevano e non volevano ricacciare indietro. Volevano studiare ogni particolare del viso l’uno dell’altro: Derek voleva sapere quante sfumature poteva avere il sorriso di Stiles e Stiles voleva sapere in quante maniere potevano parlare le sopracciglia di Derek. Il rumore che fece il divano contro il muro li distrasse solo un attimo, facendo sbuffare una risata nasale a Derek, mentre Stiles ne approfittava per tornare sul suo collo. Cercava nuovi posti in cui far gemere forte il suo lupo, come quando risalì languido fino a dietro il suo orecchio, sussurrando in un soffio «Ok, questa maglia ha fatto il suo tempo». Derek non se lo fece ripetere due volte e se la sfilò, aiutato da Stiles che stava a cavalcioni su di lui e lo ammirava senza parole. «Dimmi che patto col diavolo hai fatto per avere degli addominali così perfetti» esalò Stiles, umettandosi istintivamente le labbra. Derek scosse la testa e prese a due mani il viso di Stiles, avvicinandoselo fino a baciarlo con trasporto, cercando di fargli capire che in quel momento la lingua poteva essere usata in modo molto più proficuo e fantasioso. Stiles appoggiò le mani sul torace di Derek, facendolo gemere leggermente sulle sue labbra, continuando comunque a far danzare le loro lingue e le loro bocche con schiocchi umidi e sensuali. Derek poteva sentire la pelle d’oca che era venuta a Stiles sui lati del collo, mentre Stiles poteva sentire Derek fremere leggermente sotto il suo tocco.

 

Baciare Derek era inebriante e travolgente, era come la prima volta e allo stesso tempo era mille volte meglio. E ad ogni bacio tutto sembrava girare sempre più forte, la terra sotto i piedi di Stiles sembrava correre più veloce dei suoi pensieri. Ma le mani di Derek, forti, sul suo corpo, lo tenevano saldo all’unica cosa a cui voleva ancorarsi per il resto della vita.

 

Baciare Stiles era assuefacente e disarmante, Derek si sentiva privo di ogni difesa e per la prima volta questa sensazione non lo spaventava, lo faceva sentire ancora più forte. E ad ogni bacio era come spezzarsi in mille parti per ricomporsi insieme, in un unico pezzo. E le mani di Stiles erano perfette per rimodellare e ricostruire il loro futuro.

 

Lasciando per un attimo le sue labbra per riprendere fiato e per far riprendere fiato a Stiles, Derek si mise a guardarlo negli occhi e ad accarezzargli una guancia; di riflesso Stiles gli passò un dito su una tempia, a risistemargli un ciuffo disordinato. Si fissarono a lungo, in silenzio, parlandosi più di quanto non avessero mai fatto. Derek scorreva il pollice sul labbro inferiore di Stiles, univa con dei tratti immaginari i piccoli e irregolari nei sul viso del ragazzo; Stiles scorreva il dorso delle dita sulla barba di Derek, tracciava la linea delle sue sopracciglia folte. Poi prese il bordo inferiore della sua maglia e fece per sfilarsela, con movimenti lenti, senza mai lasciare lo sguardo di Derek che nel frattempo era sceso a guardargli il petto. Poteva davvero fare quell’effetto il suo corpo, il corpo di Stiles? Perché Stiles vedeva in Derek la stessa espressione che lui aveva fatto quando il lupo si era tolto la maglia. Derek era affascinato da ogni parte del corpo di quel ragazzo; quei nei, che lui tanto amava sul suo viso, erano riprodotti in larga scala su tutto il torace candido, alcuni più grandi, altri del diametro di una capocchia di spillo. Stiles tornò sul collo di Derek, questa volta con meno foga e più attenzione ai dettagli; fece in modo che i loro corpi strofinassero l’uno contro l’altro, fece scivolare la sua pelle contro il torace di Derek, sentendo come entrambi emanavano calore e come entrambi allo stesso tempo fossero percorsi da un brivido. Le mani di Derek furono di nuovo sui suoi fianchi e poi risalirono e riscesero la schiena senza mai fermarsi, a tratti più leggere e a tratti più desiderose di contatto. Mentre Stiles gli divorava il collo, Derek posò la punta del naso sulla sua spalla, inspirando a fondo quell’odore che lo aveva sempre fatto calmare e che gli era mancato così tanto in quegli ultimi giorni.

 

«OH DIO! Ma che diavolo…?!» un rumore di oggetti caduti per terra li fece ritornare alla realtà e Stiles istintivamente scattò a sedere sul divano, ancora a cavalcioni di Derek. Era senza maglia (quella sua e quella di Derek erano malamente accartocciate sul pavimento), aveva i pantaloni appena allentati e leggermente scesi lungo i fianchi, così da lasciare intravedere appena l’elastico blu dei boxer. I suoi capelli erano irrimediabilmente scomposti e arruffati, aveva il viso arrossato, le labbra umide e sul suo collo campeggiava un circoletto violaceo grande quanto un penny. E, nonostante tutto ciò, Stiles stava fissando Cora con uno sguardo innocente e da cucciolo che voleva dire “Non è assolutamente come sembra”. Cora, dal canto suo, aveva uno sguardo che virava dallo shock alla confusione. Non aveva nulla contro quello che stavano facendo, ma per Dio, lei non doveva sapere se lo facevano! Non potevano trovare un altro posto? Ma soprattutto, come poteva aver lasciato mezz’ora prima un Derek depresso a fare le valige e ritrovare in quel momento Derek eccitato intento a fare…? Ok, non aveva nessuna intenzione di soffermarsi ad immaginare nulla sulla vita sessuale di suo fratello. Già respirare l’aria in quella stanza stava facendo sorgere in lei immagini che difficilmente avrebbe dimenticato. «Vi amo ragazzi, mi auguravo che alla fine vi sareste ritrovati, ma capitemi, non volevo essere la testimone di tutto questo…per cui» disse sospirando e puntando il dito verso le maglie sul pavimento «che ne dite se vi rivestite mentre io raccolgo la spesa e mi raggiungete in cucina che vi preparo qualcosa da mangiare? Intanto mi raccontate un po’ come sono andate le cose» concluse inginocchiandosi a raccogliere pomodori e scatole di tonno.

 

«Devo chiederti scusa, Cora» esordì Stiles entrando in cucina, mentre ancora si tirava giù la maglia sui fianchi e cercava inutilmente di ridare una piega decente ai suoi capelli. Derek, che era entrato pochi passi avanti a lui nella stanza, si girò e dolcemente gli spostò gli ultimi ciuffi dalla fronte, col viso a pochissimi centimetri da quello di Stiles tanto che il ragazzo poteva sentire il suo respiro caldo sulle labbra. Era stato un gesto semplice ma pieno di dolcezza, una quotidianità di movimenti a cui Stiles non era abituato e per il quale perse un battito del cuore. Derek se ne accorse immediatamente e questo gli fece nascere un sorriso ampio sulle labbra, mentre le posava su quelle di Stiles. «E io sono ancora qui!» aggiunse con un colpo di tosse Cora. «Per la cronaca, Stiles, sento anch’io le tue emozioni e il tuo battito cardiaco, quindi per me sei già un libro aperto. Non serve che ti scusi, ti adoro da quando hai varcato la soglia di questa casa e soprattutto hai guadagnato una valanga di punti quando hai portato quel sorriso ebete sulla faccia di mio fratello. Cosa per cui (sappilo, Derek) ti prenderò in giro fino alla fine dei tuoi giorni» concluse soddisfatta, girandosi con in mano una padella bollente su cui soffriggevano uova e pancetta. «Su, Derek, avrai pure la faccia da ebete ma mamma ti ha fatto anche delle mani con cui apparecchiare per tre persone su questo bancone. E fallo ad una velocità mannara, per favore» gli ordinò severa, prima di strizzargli l’occhio complice.

 

Fecero colazione come una famiglia: questo fu l’unico pensiero che attraversò la mente di Derek mentre fissava Stiles che raccontava a Cora tutto quello che avevano passato per arrivare a quel momento. Derek si crogiolava nella risata cristallina di Stiles, nel rossore che gli saliva alle guance quando raccontava certi particolari della storia, nel modo in cui aveva cominciato a chiamarlo “Der” nei racconti. Diceva che se non cominciava ad abbreviare i nomi avrebbe dovuto passare tutta la notte a riassumere la loro storia ma Derek aveva sentito il suo cuore accelerare mentre lo diceva; doveva ricordargli che con lui non si poteva mentire. E poi il modo in cui Stiles si era seduto sullo sgabello accanto al suo, “Così posso parlare con Cora che mi sta di fronte” aveva detto, quando in realtà aveva solo voluto tenere la sua coscia premuta contro quella di Derek. Ogni tanto, poi, Stiles lasciava penzolare il suo piede scalzo accanto a quello di Derek, spingendolo giocosamente sul malleolo mentre continuava a spiegare tutto quello che era capitato loro ad una entusiasta e attentissima Cora. Derek si perse più volte ad osservare e studiare i suoi piccoli movimenti, come si passava le dita nei capelli quando raccontava qualcosa di cui andava fiero, come si strofinava la palpebra dell’occhio destro quando raccontava qualcosa di imbarazzante, come si torturava le dita quando nominava Derek. Più di una volta Stiles si girò verso di lui per chiedergli conferma di ciò che aveva appena detto e ogni volta Derek cadeva dal mondo delle nuvole, perché concentrarsi su Stiles e sul suo racconto allo stesso tempo non era possibile. Alla fine Derek si ritrovò a chiedersi come avesse potuto mai chiamare “casa” qualcosa che non comprendesse Stiles.

 

10 mesi dopo…

Derek entra in cucina stropicciandosi gli occhi, non ha nemmeno avuto la forza di mettersi una maglia, ha semplicemente indossato i pantaloni della tuta e ha seguito il profumo che si è propagato in tutto l’appartamento. Davanti ai fornelli sta un giovane uomo, nel fiore dei suoi vent’anni, con una canottiera grigia scura e un paio di pantaloni della tuta appena posati sulle ossa del bacino. Ha le spalle abbastanza larghe e, mentre armeggia tra le pentole, Derek può ammirargli i bicipiti scolpiti sotto la pelle tesa e i muscoli della schiena esaltati dal tessuto della canotta. Ha i capelli un po’ troppo lunghi, Derek continua a ripetergli di andare a tagliarseli ma alla fine gli piace con qualsiasi taglio; non è riuscito a trattenersi dal dirglielo, ieri sera, mentre erano a letto e quel ciuffo gli solleticava la fronte, la spalla, gli addominali, l’ombelico, l’inguine… Il ragazzo si sposta verso il lavandino, per lavare il cucchiaio che ha appena utilizzato per guarnire con la glassa i piattini con la colazione. Derek gli si avvicina e nota con piacere che porta gli occhiali; anche quello è un dettaglio che gli piace, vederlo con gli occhiali è come vederlo sotto la luce più quotidiana e semplice possibile. Anche se non ha i sensi sviluppati come quelli di Derek, sa benissimo che l’ha sentito entrare in cucina, quindi non si preoccupa di spaventarlo quando lo abbraccia da dietro, appoggiando il suo petto sulla schiena del ragazzo. Gli bacia una spalla solamente appoggiando le labbra socchiuse sulla pelle che sa di fresco e di menta; si inebria un po’ annusando quell’aroma, che nelle sue narici si mescola con quello dolce della colazione appena sfornata e con l’odore di felicità che il ragazzo emana.

 

«Buongiorno ragazzone. Pensavo che dormissi di più stamattina, dopo ieri notte…» Stiles fa spuntare sul viso quel ghigno che fa andare Derek fuori di testa. «Devo ricordarti che quello con la resistenza da lupo mannaro sono io?» gli mormora Derek sul collo, con quel fiato caldo che fa rabbrividire Stiles, mentre il lupo gli riempie di piccoli baci umidi il collo e arriva a mordicchiargli piano il lobo dell’orecchio. Nel frattempo incrocia le braccia sul petto di Stiles, concedendosi senza pudore di scorrere le dita sui suoi pettorali e di sfiorare i capezzoli che stanno diventando turgidi sotto la canottiera leggera e aderente. Derek chiude gli occhi perché tutto quello gli sta facendo perdere il controllo sulla realtà e l’unico modo per riprendersi è inspirare di nuovo il profumo di Stiles, il profumo che gli indica la strada, che gli dice chi è. Intanto il ragazzo reclina la testa all’indietro, per appoggiare la nuca sulla spalla muscolosa di Derek, lasciandosi andare anche lui al piacere e al calore che quel loro abbraccio gli sta infondendo. Stiles socchiude gli occhi ed espira forte, non riuscirà mai a rallentare il battito cardiaco quando sono così vicini; ci prova da dieci mesi eppure non è nemmeno minimamente vicino a farcela. L’effetto Derek, come lo chiama lui, sarà sempre il suo punto debole. Ma alla fine non gli importa, quella è solo un’ulteriore prova di quanto ami stare con il suo lupo. Con gli occhi ancora chiusi, alza a casaccio una mano e cerca di premere un pulsante sulla radio che sta sulla mensola di fronte a lui; conoscendo la sua sbadataggine riesce a farla scivolare fino al bordo e poi farla cadere. Prontamente la mano di Derek l’afferra al volo e la salva da morte certa. «Ci tengo a questa radiolina, lo sai?» gli mormora Derek sul collo, col naso ancora posato sul suo incavo, sbuffando una piccola risata. Appoggia la radio sul piano della cucina e preme il tasto di accensione: subito parte una canzone dal ritmo latino americano. Derek comincia a muovere il bacino contro il sedere di Stiles, prima con dei piccoli movimenti, poi con degli ancheggiamenti più decisi. Stiles risponde a tono, seguendo il ritmo dettato da Derek, spingendo piano verso di lui, muovendosi lento e sensuale. «Stavo pensando» la voce di Derek si fa roca e Stiles potrebbe giurare che sta per dire qualcosa che gli farà venire la pelle d’oca «che potrei ricambiare un po’ quello che ieri sera hai fatto per me» e Stiles lo sente sorridere sornione alle sue spalle. E sente anche come il lupo continui a strofinarsi su di lui, come se il messaggio non fosse già abbastanza chiaro. Stiles sta per perdere il controllo, sta seriamente pensando di girarsi e baciarlo con foga, sopra il bancone, mentre si lascia fare quello che vuole da Derek, qualsiasi cosa voglia. Si sta già immaginando la scena, Derek continua ad ancheggiargli dietro, sempre più premuto su di lui, sempre più vicino, sempre più presente…

 

Un colpo di tosse li fa tornare alla realtà. «Voi siete erotomani. Volete smetterla di sbattervi su ogni superficie orizzontale, verticale e obliqua, con o senza vestiti? Vestitevi di pudore per una volta» Cora sa essere piuttosto acida di prima mattina ma entrambi sanno che è la loro prima sostenitrice. Certo che dopo dieci mesi di convivenza a tre è normale che lei sia un po’ stufa, anche perché preferirebbe mille volte condividere l’appartamento con il fidanzato con cui si è messa insieme quasi otto mesi fa; ma Derek è così geloso di lei, la considera sempre la sua sorellina nonostante abbia ormai diciannove anni e Stiles ne è quasi commosso. Anche se alla fine parteggia per Cora e utilizza i suoi trucchi perché lui la lasci un po’ più libera. «Allora, Stiles pasticcere, cosa ci hai preparato stamattina?» continua la ragazza leccandosi il labbro superiore e ammirando i tre piatti appoggiati sul piano cottura. Ha i capelli raccolti in una coda alta e morbida, gli occhi truccati in maniera molto leggera ed emana un’aura di eleganza tutta firmata Hale. «Beh, per un giorno così importante ho preparato il tuo piatto preferito, Cora. I pancakes con la glassa al cioccolato!» esclama Stiles orgoglioso, indicando i piatti come se fosse uno chef stellato, con la mano destra. L’altra mano è rimasta sul petto, sopra quelle di Derek che non ha nessuna intenzione di smettere di abbracciarlo.

 

Cora si è diplomata qualche mese prima e ha passato l’estate ad organizzare il suo futuro: l’Hale Phoenix. Ha contattato restauratori, pittori, decoratori, tutti quelli che avrebbero potuto aiutarla a far diventare quel posto il suo sogno. Per Derek non è stato facile, la prima volta voleva entrarci da solo, ma alla fine ha preso la mano di Stiles, l’ha stretta piano e l’ha portato dentro con sé. È stata una visita breve e silenziosa e in quel silenzio Derek ha chiuso un capitolo della sua vita e ne ha iniziato un altro. Ne è uscito col sorriso sulle labbra e Stiles era al suo fianco, a sorridere con lui. Da quel momento si sono messi tutti e tre al lavoro, ognuno su quello che sapeva fare meglio: Derek aiutava gli operai con i lavori più pesanti, Cora dirigeva le operazioni e teneva i contatti con le varie persone che lavoravano al progetto, Stiles l’aiutava nelle decorazioni, dava idee e aggiungeva un tocco colorato e spiritoso ovunque. È stato un lavoro impegnativo ma ha riempito tutti di una nuova speranza, speranza in un futuro che finalmente potrà splendere anche per loro. L’inaugurazione è un successo che Derek non avrebbe mai potuto immaginare, Beacon Hills ha saputo rivelare il suo lato più familiare. Tutti i suoi abitanti hanno sostenuto, in maniera più o meno diretta, l’apertura della loro attività e quel giorno sono lì a festeggiare con loro l’evento. L’atmosfera di festa, l’atmosfera calda e familiare è una cosa che ancora stranisce e un po’ spaventa Derek, ma sa che non c’è nulla da temere, non finché Stiles sarà al suo fianco.

 

Sì, ma Stiles dov’è finito? Nella confusione Derek l’ha perso di vista da una decina di minuti, pensava andasse a prendere da bere al buffet ma non è più tornato. Derek si congeda gentilmente da Melissa McCall (che è stata molto contenta di vederlo tornare in città e che ha fatto parecchie domande sul cane nero, mentre Derek fulminava Cora per averlo lasciato in quella situazione) e sale le scale, un po’ affannato. In cima ad esse trova Stiles, col sorriso sulle labbra: non promette nulla di buono, Derek lo sa, mentre anche a lui sale un ghigno sulle labbra. «Non ti trovavo più…ma dalla tua faccia sembra che tu volessi farti cercare» gli dice Derek restando un gradino più in basso rispetto a quello su cui sta Stiles. «Avevo da mostrarti una cosa qui di sopra» gli risponde lui prendendolo delicatamente per mano. «Ma prima chiudi gli occhi» gli sussurra sfiorando con l’altra le palpebre di Derek e invitandolo a chiuderle. A quel punto lo trascina con sé fino alla porta della prima camera, lo fa posizionare davanti e lo invita ad aprire gli occhi. Stiles ha realizzato il profilo di un lupo sulla porta di ogni stanza dell’hotel quella notte. Derek rimane qualche secondo senza parole di fronte a quel disegno, col fiato in gola. Alla fine si volta piano ed esala un «Grazie» premuto sulla bocca di Stiles. Rimangono così, con il brusio in sottofondo dei partecipanti al buffet, abbracciati in silenzio, in un silenzio in cui non c’è nulla da aggiungere.

 

«Non ti ho più detto come si mangia un Oreo» Derek se ne esce così, dal nulla, puntando gli occhi verdi in quelli liquidi di Stiles, che lo guarda interrogativo. «La sera in cui ci siamo conosciuti non mi hai lasciato finire la spiegazione su come si mangiano gli Oreo» spiega allora Derek, mentre un piccolo sorriso gli spunta all’angolo della bocca. «Vuoi mostrarmelo ora?» gli chiede Stiles tirandone fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto. Quel ragazzo non smetterà mai di stupirlo. «Andiamo, te lo spiego strada facendo» Derek gli prende la mano e si avviano giù per le scale, cercando di trattenere le risate come due adolescenti in fuga.

 

Un’ora dopo Derek e Stiles sono seduti nella Camaro, con i sedili reclinati; Stiles è appoggiato col viso sul petto di Derek, che tiene un braccio intorno alle sue spalle. Mangiano Oreo davanti ad un tramonto sulla spiaggia e non potrebbero volere nient’altro da quel momento che è solo loro e che nessuno potrà mai portargli via.

 

 

 

Note finali: Oddio, non posso crederci. Sono arrivata alla fine di questa storia. Sono felice e triste allo stesso tempo. È stata la mia prima long e quando ho cominciato a scriverla non sapevo dove sarei arrivata o se l’avrei portata a termine. Ero partita con l’idea di tre-quattro capitoli e poi la storia è scivolata via dal mio controllo…ed ecco che ne sono usciti 10 capitoli! Sarò sincera, sono orgogliosa di questa storia e di come è venuta, non cambierei nulla. Probabilmente (anzi sicuramente) c’è gente su questo fandom che scrive mille volte meglio di me…ma sapete? Sono soddisfatta del mio lavoro, per migliorare c’è sempre tempo! ;)

 

Prima di lasciarci (mi viene la lacrimuccia a dirlo) devo dire un G R A Z I E enorme a tutte le persone che hanno recensito, leggere le vostre bellissime parole ad ogni capitolo è stata la felicità più grande: ogni frase era un sorriso sulle mie labbra.

G R A Z I E alle persone che hanno seguito, ricordato e preferito la storia: siete un numero che non avrei mai nemmeno potuto sognare.

G R A Z I E a quelli che mi hanno messa tra gli autori preferiti, è un grande onore per me.

G R A Z I E a tutti quelli che hanno letto silenziosamente ogni capitolo, spero di non aver mai deluso le vostre aspettative. E se volete lasciare un commento sono sempre qui! ;)

G R A Z I E infine a tutte le persone che, a vario titolo, mi hanno seguito in questo percorso. È stato un viaggio emozionante e non vedo l’ora di imbarcarmi sul prossimo.

 

Per i prossimi progetti, ho una OS/mini long già quasi finita ma è così strana che…boh, chissà se un giorno la vedrete mai su questo sito! E poi ho tante idee random che aspettano solo di essere sviluppate, spero di avere tempo e inventiva :) Per ora spero che questo viaggio vi abbia emozionato quanto ha emozionato me, speriamo di rivederci presto!

Un abbraccio grandissimo e un bacione a tutti <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3357641