Quella Vecchia Storia su quel Vecchio Albero...

di Margarinas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E se gli astronauti non sognassero le stelle? ***
Capitolo 2: *** Anche se me ne andassi il mondo farebbe schifo comunque. ***
Capitolo 3: *** Se pensi di non poter cadere ancora più in basso allora sei al centro della Terra. ***



Capitolo 1
*** E se gli astronauti non sognassero le stelle? ***


E SE GLI ASTRONAUTI NON SOGNASSERO LE STELLE?

 Ero sdraiata a pancia in giù, sotto al letto. Stringevo convulsamente tra le braccia il mio peluche preferito. Mancava un occhio a quella brutta copia di un Pastore Tedesco, ma era, fin dalla mia nascita, il mio amico più caro. Mia sorella, di due anni più piccola di me, era di fianco a me, rannicchiata in posizione fetale con le mani sulle orecchie, perché così credeva che non avrebbe sentito nulla.
 Un colpo. Due. Tre. E poi urla. Era mia madre quella che urlava, ma avevo assistito a molte di quelle scene sa sapere che lei era completamente incolume, ovvio, se non si contava il dolore psicologico. Dolore che, le veniva provocato all'incirca ogni due settimane, quando mio padre, non riuscendo a pagare in tempo tutti i suoi debiti, veniva selvaggiamente picchiato dagli scagnozzi del suo aguzzino. Perché i veri signori non si abbassano a sporcarsi le mani per eseguire il lavoro personalmente.
 C'era anche da dire che se si vive nel quartiere più squallido, al di sotto del più squallido quartiere che vi viene in mente, non si poteva di certo pretendere di fare la bella vita. Non che non fosse colpa dei miei genitori, era ovvio, dovevano assurmersele, come io mi assumevo le mie. Nonostante ciò, trovavo oltremodo ingiusto che delle persone come noi, dovevano vivere così, e il resto del mondo chiudeva gli occhi e faceva finta di niente.
 Non ne potevo più di stare lì, sotto al letto, come se solo lì fossi al sicuro e nessuno avrebbe mai potuto prendermi, i ragionamente contorti di mia madre. Scivolai fuori, misi il buon caro e vecchio peluche sul letto e aprii la finestra facendo il meno rumore possibile. Non ero così scema da voler uscire fuori dalla mia stanza, entrare in soggiorno e prendere a pugni quei gorilla per proteggere mio padre. Avrei finito con il farmi ammazzare, o far ammazzare lui. Semplicemente a stare lì non avrei giovato a nessuno.
 «Dove vai?» piagnucolò mia sorella da sotto al letto.
 «Shhh» le feci io, saltando sul davanzale e quindi sulla scala antincendio al di fuori. Ero scalza e la grata mi fece male ai piedi. Richiusi la finestra e cominciai a scendere. Non avevo intenzione di scappare, ma volevo solo andarmene via per un po'.
 Camminai a piedi nudi fino alla periferia, non ci misi molto, visto che abitavo praticamente in periferia. La mia meta era un gigantesco prato, che distava pochi chilometri dal porto, la cosa più orrenda che potesse esistere, sempre pieno di gente rozza e odiosa, puzzava di pesce marcio e non potevi camminare nemmeno sulla strada asfaltata senza sprofondare in un liquame alquanto disgustoso. Eppure il Prato era l'unica cosa immacolata in quella città.
 Di giorno l'erba non aveva quel bel verde vivo, ma di un giallino tendente al verde, ma a me piaceva lo stesso, perché la terra era morbida e sapeva di terra, non di spazzatura. E cosa ancora più bella, non ci andava mai nessuno, tutti troppo occupati dalla loro miserabili vite per godersi qualcosa di vagamente bello nella nostra insulsa città.
 E poi al centro c'era una gigantesca quercia, doveva avere almeno 150 anni, era indistruttibile quell'albero. Metteva anche un po' timore, era come un guardiano silenzioso, un vecchio nonno burbero e severo che segue ogni tuo passo. Mi piaceva stare sdraiata sulle sue maestose radici a sonnecchiare, con le foglie che danzavano nel vento.
 Fu lì che andai. Mi arrampicai sull'albero con passo sicuro, nonostante fosse notte fonda, sapevo bene dove mettere mani e piedi, perché lo avevo scalato talmente tante volte che ormai era come se fosse casa mia. Ed era più casa quella che quello squallido appartamento in cui vivevamo. Salii fino in cima, sui rami più alti.
 Alzai la testa e volsi lo sguardo verso il cielo nero punteggiato da mille luci brillanti. Che cosa stupida le stelle. Di per sè le stelle non esitono, in fin dei conti ognuna di loro è un pianeta abitato da chissà cosa o disabitato. Eppure le persone si ostinano a volerle chiamare stelle, quelle così lì, che brillano lontane da noi, come per dire "Eh, guardami! Sono qui e tu se lì. Vieni a prendermi, piccola idiota!". Si prendono gioco di noi, quelle piccole stronze.
 Non ho mai pensato che gli astronauti sognano di poter vedere le stelle, andiamo, quale persona sana di mente vuole andare nello spazio per poter vedere... cosa? Una roba nera che è lo spazio e una piccola roccia che fluttua e poi si sgretole. Le suddette "stelle" non le vedranno mai, avrebbero potuto farlo benissimo da qui e non sarebbe cambiato nulla.
 Scendo dall'albero, contrariata. Probabilmente questi alieni di cui si parla tanto e che hanno queste tecnologie così avanzate si divertono a vederci scannare tra di noi per una misera moneta di rame come se ne valesse della nostra vita. Mi sdraio tra le radici del vecchio nonno brontolone e invece delle stelle mi metto a fissare le luci della città. Un alito di vento, l'erba ondeggia sotto ai miei piedi e mi fa solletico.
 Dovevo essere via già da un paio d'ore, decisi di tornare allo squallore più totale di casa mia. Salutai l'albero come se fosse un vecchio amico e tornai indietro. I miei genitori non si erano accorti di nulla, come al solito, troppo presi da loro stessi per potersi preoccupare di noi. Ammettiamolo, i miei genitori erano egoisti, se avessero veramente voluto il meglio per noi, be', ci avrebbero tirate fuori da questo buco non appena mia sorella avesse compiuto una settimana.
 Se l'essere umano non avesse questa brutta abitudine di voler soffrire e farsi vedere sofferenti per porter far sì che l'altro essere umano provi compassione, credo che il mondo sarebbe un posto migliore. O almeno, la mia famiglia sarebbe migliore.
 Mi infilo nel letto, di fianco a mia sorella, che si sveglia dal suo sonno agitato e si gira verso di me.
 «Dove sei stata?» domanda con la voce impastata dal sonno. Più curiosa che preoccupata.
 «Dormi» mi giro dall'altra parte, stringo al petto il mio peluche e chiudo gli occhi. Non voglio svegliarmi da un brutto sogno, voglio fare brutti sogni, di sicuro saranno meglio di questo.





 Buonasera gente!
 Era da un po' che non pubblicavo qualcosa, e pochi giorni fa mi sono ritrovata a scrivere questa, è una piccola storia che ho inventato anni e anni fa, principalmente perché volevo due protagoniste che fossero gemelle. Non ho idea di quanto andrà avanti, per adesso è solo una specie di esperimento.
 In ogni caso, spero che vi piaccia. :3

 Buona lettura a voi, lasciate recensioni se vi va, brutte o belle che siano. <3
 I biscotti sono sul tavolo lì in fondo --------------->
-Marga.

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Capitolo 2
*** Anche se me ne andassi il mondo farebbe schifo comunque. ***


ANCHE SE ME NE ANDASSI IL MONDO FAREBBE SCHIFO COMUNQUE

 Eravamo tutti lì, noi cinque, sotto al vecchio nonno burbero che era la vecchia quercia in quello schifo di buco in cui vivevamo. Con il tempo in nostro gruppo si era allargato, non che avessimo un vero e proprio gruppo mia sorella ed io. Più che altro, ad un certo punto della nostra vita, era spuntati fuori questi due tizi e questa strana ragazza e in qualche modo riuscivamo a passare il tempo insieme. Non che facessimo chissà che, semplicemente stavamo lì, all'ombra, sotto ai grossi e rugosi rami del "nonno".
 Quella scema di mia sorella si era presa una cotta per uno di loro, Soso. Era l'ultimo arrivato e anche quello che mi irritava di più, sopportavo a stento la sua presenza, ogni volta che apriva bocca, cosa che, per mia fortuna faceva ben di rado, mi sarebbe piaciuto prenderlo a pugni. Non riuscivo proprio a concepire come ci si potesse innamorare di uno come quello, capelli neri e unti, era magro, ma non di quella magrezza che piace alla gente. Ero uno stecco, e di carnagione pallidissima, con i vestiti a brandelli. Sembrava più che altro un cadavere.
 In effetti non riuscivo proprio a concepire come ci si potesse innamorare in generale. Specialmente in una città-buco schifoso come la nostra. Non conoscevo una coppia che si fosse sposata per amore, o almeno, non ne conoscevo più da quanto avevo cinque anni, ormai tutti quegli adorabili vecchietti che ci davano le caramelle, erano morti. In quel momento, comunque, non ci si sposava nemmeno più. Si facevano figli a più non posso e si scaricavano dopo due giorni, da qualche parte a qualcuno, o anche così, nel primo vicolo che non fosse già occupato da un barbone mezzo congelato.
 Eppure, se quella scema di mia sorella Arbie si era innamorata, di speranza per qualcosa di più bello in un qualche futuro, ci poteva essere. Non che io ci sperassi, ovviamente. Probabilmente, il meno peggio che poteva capitare a mia sorella era di sposarsi con un uomo che non la ricambiava, essendo lui, innamorato della terza ragazza del nostro gruppo. Stando a quello che avevo sentito dire durante uno dei vaneggiamenti di Arbie, perché aveva preso la briga di svegliarmi, la notte, e di raccontarmi a cosa stava pensando in quel momento, e di solito pensava a Soso.
 La terza ragazza era Hosie, aveva un bel viso, il più delle volte, ogni tanto capitava che venisse al "ritrovo" con qualche livido sulle tempie, occhi neri e labbra spezzate. Aveva un bel fisico, prima che venisse accerchiata da quattro-cinque uomini di mezza età e stuprata, quindi rimasta incinta, e non potendosi permettere l'aborto, quel bambino, una volta nato, sarebbe finito come ho descritto qualche riga più sopra.
 Il giorno in cui ci raccontò cosa le fosse successo mi sentii morire, non per lei, perché nonostante ci vedessimo quasi sempre, non la consideravo un'amica o una conoscente. Solo qualcuno che vedevo spesso, nemmeno il suo nome vero sapevo. Avevo avuto quella reazione perché avevo iniziato ad avere paura per me stessa, non ero più vergine già da tempo, ma al solo pensiero di venir accerchiata da energumeri pronti a far di me solo un pezzo di stoffa lercio... Evitai di pensarci, ma evitai anche di uscire di casa di notte, da quel momento.
 «Dobbiamo andare» disse mia sorella ad alta voce. Senza salutare mi avviai verso la strada, mentre lei si attardò e dovette quindi rincorrermi. Iniziò a parlare, il solito monologo del pomeriggio e l'argomento era sempre e solo il solito. In verità la voce di mia sorella regalava un po' di atmosfera surreale in quel breve tragitto prato-casa, nonostante non la stessi a sentire.
 Osservai per un po' il tramonto, schifata dal colore grigio-arancio che aveva assunto il cielo. Come facesse mia sorella a capire quando era ora di rientrare non lo sapevo, non avevamo orologi da polso. Dopo la morte di nostra madre, avvenuta anni prima, avevamo imparato che era meglio farci trovare a casa al rientro di quell'alcolizzato di nostro padre. Ci mettemmo a cucinare, mangiammo in silenzio, come una vera famiglia cristiana, e quindi ci ritirammo in quello sgabuzzino che era camera nostra.
 Quella notte fui svegliata dalla famigliare mano di mia sorella sulla spalla.
 «Cosa?» grugnii infastidita.
 «Pensi che un giorno ce ne andremo mai da qui?» ogni tanto Arbie mi sorprendeva. Ogni tanto si poneva domande completamente insensate e mi sorprendeva ancora di più il fatto che queste domande non centrassero con Soso.
 «Anche se ce ne andassimo di qui il mondo farebbe schifo comunque» mi girai sulla schiena e richiusi gli occhi pronta a riaddormentarmi.
 «Come fai ad esserne così sicura, Yania?» aveva preso il vizio di chiamarmi con il nome da me inventato. Morto mio padre nessuno si sarebbe ricordato più chi ero in realtà.
 «Perché se non facesse schifo noi non vivremmo qui» risposi e con un cenno della mano le intimai di tacere.
 «Probabilmente non ne vale nemmeno la pena» si tirò su le coperte e appoggiò la fronte contro la mia spalla. Mi mossi per scrollarmela di dosso.
 «Siamo noi, per forza non ne vale la pena.»







 Buuuuonasera. Come ve la passate, care persone che leggete la roba che scrivo io? :')
 Vi dirò, io sto bene, sono stanca a pezzi, ma bene e avevo talmente bisogno di mettere giù questa roba che avevo paura mi scoppiasse il cervello.
 Chiedo venia, non è il massimo che posso fare, ma per una storia come questa, va benissimo così.

 Spero vi piaccia o che comunque le diate una possibilità.
 Buona lettura, lasciate qualche recensione se vi va (in cambio di biscottini). :3
-Marga.

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Capitolo 3
*** Se pensi di non poter cadere ancora più in basso allora sei al centro della Terra. ***


SE PENSI DI NON POTER CADERE ANCORA PIÙ IN BASSO ALLORA SEI AL CENTRO DELLA TERRA

 Ero rimasta a casa quel giorno, chissà perché. Semplicemente non avevo avuto voglia di uscire, tanto, o facevo niente a casa mia o facevo niente in altri posti. Mia sorella aveva seguito il mio esempio, ma stufatasi di rimanere in quel minuscolo appartamento, che puzzava di fumo di sigari e di umidità mista a muffa, era uscita per andare a fare della spesa, lasciandomi sola con i miei pensieri e il silenzio perenne di casa mia.
 Ero seduta sul sudicio divanetto, patria di milioni di germi mortali che sfortunatamente non avevano ancora preso possesso del mio organismo, leggevo una rivista vecchia di undici anni, come minimo, aspettando un probabile colpo d'infarto. Suonò il campanello, cosa che mi stupì per due ragioni: a) non credevo avessimo un campanello e b) a nessuno fregava di noi quindi perché venire a disturbarci in pieno giorno?
 Riluttante mi alzai e camminai fino alla porta. Non aveva lo spioncino, non c'era nemmeno il catenaccio, quindi la aprii, al massimo potevano essere dei ladri ben educati che se ne sarebbero andati con le tasche ancora più vuote di prima. Impietositi, ci avrebbero donato la loro refurtiva.
 Rimasi ferma mentre fissavo l'ultima persona che mi sarei aspettata di trovare lì, sulla soglia di casa mia, Jakaka. Era l'ultima persona del nostro "gruppo", nonostante fosse arrivato prima di altri. Non si vedeva quasi mai e quando c'era si lanciava in lunghi monologhi citando alcuni documentari che aveva visto anni prima, storpiando malamente la storia, senza accorgersi che nessuno di noi lo stava ad ascoltare.
 Non dissi nulla e lui nemmeno aprì bocca. Rimanevamo lì a fissarci, come due statue di pietra.
 «Mi fai entrare oppure no?» sbottò lui dopo quello che mi parve un secolo di silenzio, che rimpiansi non appena sentii la sua voce.
 «Dovrei?» continuavo a scrutarlo imperturbabile. Non avevo nessuno intenzione di lasciarlo entrare, non perché mi vergognassi di casa mia, probabilmente lui viveva in un posto fin troppo simile, ma semplicemente perché non avevo alcuna ragione valida per farlo. Jakaka capì dal mio sguardo che non lo avrei fatto passare, quindi si fece largo a forza, mi scansò, entrò in casa e richiuse la porta con un tonfo.
 «No, fai pure come se qualcuno ti avesse invitato» borbottai irritata dirigendomi verso il cassetto dei coltelli. «Come fai a sapere che viviamo qui?»
 «Yania. In uno schifo di città come questa tutti sanno dove vivono tutti» sbuffò come se stesse parlando con la persona più stupida del mondo. Pescai uno dei coltelli più affilati, e ne avevamo tanti, l'unica cosa vagamente importante in quel posto, e me lo rigirai tra le dita.
 «E per quale motivo saresti qui?»
 «Ah, sì» si guardò intorno con circospezione, ma non disgusto. Ci avevo preso sul suo appartamento. «Ho bisogno di rimanere "nascosto" per un paio di giorni.»
 «E avresti intenzione di stare qui?» domandai stupida soffocando una risata ironica. «Non se ne parla nemmeno. No.»
 «Posso ripagarti, mica voglio che lo fai gratis» sibiliò offeso.
 «Non voglio i soldi che non hai, nemmeno accetto un "pagherò"» mimai l'ultima parola facendo le virgolette con le dita. Jakaka frugò all'interno delle tasche della sua giacca malridotta e tirò fuori un sacchetto di plastica che buttò sul tavolo della cucina. Era pesante, nonostante contenesse solo polvere.
 «No grazie» questa volta ero io l'offesa. «Che razza di pagamento sarebbe della droga?»
 «La usano tutti, qui» scrollò le spalle, evidentemente per lui era uno scambio equo. «Persino tua sorella.»
 «Per prima cosa, quello che fa mia sorella non mi interessa» allugai una mano e spinsi il pacco verso di lui, al bordo del tavolo. «E secondo, quello che fa mia sorella non è affare che ti possa riguardare.»
 «Come fai la difficile» riprese il pacco e se lo reinfilò nelle tasche. «Sono sicuro che se facessi la stessa offerta ad Arbie accetterebbe.»
 «Scusa, ma preferisco una droga più legale come l'alcool o le sigarette, e in ogni caso mia sorella adesso non c'è. Ci sono io e io dico di no.»
 Incociai le braccia sul petto mettendo bene in vista il mio amico coltello. Jakaka non parve cogliere la minaccia. Un briciolo di amor proprio ce l'avevo ancora, se non ero scesa tanto in basso da adolescente e provare una droga allora, non lo avrei fatto nemmeno in quel momento. Di certo, più in basso di un drogato, alcolizzato, fumatore incallito che vivava in una città come questa c'era solo il centro stesso della Terra. Per quanto mi riguardava non avevo alcuna intenzione di finire a marcire in un angolo sull'asfalto umido dei miei stessi escrementi. Molto meglio un infarto, o un suicidio, o un cancro, o un ictus, o venire assassinati.
 «Non so tu, ma io non ho mai visto nemmeno l'ombra di un poliziotto, qui» prese una sedia e vi ci sedette. Fu troppo. Lanciai il coltello sul tavolo che andò a conficcarsi sul ripiano di legno. Jakaka sussultò.
 «Vattene fuori di qui» sibilai. Riluttante, si alzò e senza combattere se ne andò. Avevo sperato in una specie di combattimento in cui io ne sarei uscita vincitrice, ma mi andava bene così, eppure una strana sensazione si fece strada attraverso di me e la odiai fin da subito.
 Raccontai la vicenda ad Arbie, quella notte. Eravamo entrambe girate di schiena e fissavamo il soffitto macchiato d'umido, nel dormiveglia.
 «Avrei potuto accettare» borbottai scendendo sempre di più verso l'oblio causato dal sonno.
 «Avrei potuto sì» concordò mia sorella sbadigliando.
 «Non so cosa mi sia preso» ammisi.
 «Dì un po', Yania» scattò lei girandosi su un fianco verso di me, che sobbalzai dallo spavento svegliandomi di colpo. «Non è che stai iniziando ad avere voglia di vivere?»
 «Ma che, vuoi scherzare!» scattai io, questa volta. Ci ritrovammo a fissarci negli occhi. «Se questo è vivere allora non vedo l'ora di scoprire quale divertimento sarà morire.»




 Buonasera signore e signori.
 Non ho idea di quanto tempo sia passato da quando ho pubblicato il vecchio capitolo (purtroppo non sono un calendario vivente), e vi dirò che ero un pochettino preoccupata di non riuscire a scrivere niente di sensato per questo capitolo fino a che, quando l'ispirazione chiama bisogna accendere il computer.
 Sono ossessionata dall'idea di aver fatto tipo 7483730 errori, chiedo scusa, sono stanca e anche avendolo riletto due volte probabilmente qualcosa mi è sfuggito. Vi prego di farmelo notare e non vogliatemene male. çç
 Comunque, come avete notato sono delle piccole storielle quasi autoconclusive, che nell'insieme ne formano una più grande. Detto fra noi, quando inventai questa storia era del tutto diversa, ma era una fantasia infantile e quindi mi sono decisa a cambiarne la trama, mantenendo però l'ambiente e i personaggi, che fino a qualche giorno fa erano senza nome e inventati sul momento, a parte quello di Jakaka, per il quale ho chiesto aiuto al mio vecchio gruppo, che saluto.

 Buona lettura a voi, e possano i biscotti portarvi fortuna.
 -Marga.

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