Semplicemente Noi

di Sisko31
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Decisioni ***
Capitolo 3: *** Che lo spettacolo abbia inizio ***
Capitolo 4: *** Incontri ***
Capitolo 5: *** Una nuova amica ***
Capitolo 6: *** Strani avvertimenti ***
Capitolo 7: *** Gente che va, gente che viene ***
Capitolo 8: *** Brutti incontri ***
Capitolo 9: *** Piccole riflessioni ***
Capitolo 10: *** Non dirlo in giro ma.. Grazie ***
Capitolo 11: *** Fastidiosi imprevisti ***
Capitolo 12: *** Ansia ***
Capitolo 13: *** Ultima notte di libertà ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Caro lettore premetto che riferimenti a cose o persone sono puramente casuali. Tutto è stato inventato da me. Buon proseguimento.

 

-Non ci posso credere! Un'altra volta!-
Sbraitava Samantha al telefono.
-E che cosa avrebbe fatto stavolta? No, non me lo dica. Arrivo fra dieci minuti-.
Era la polizia che informava la mia madre affidataria che ero stata beccata ancora una volta a rubacchiare in un negozio. Nulla di grave, solo quella giacca di jeans strappata che mi piaceva tanto ma che costava la bellezza di settanta euro. E ora mi trovavo seduta davanti alla scrivania del solito poliziotto. Io e Alessandro ci conoscevamo da qualche annetto e ora mi stava scrutando con l'aria di un padre che aveva beccato il proprio figlio dopo il coprifuoco.
Mise a posto il telefono e sospirò
-Lia, non te lo ripeto più. Smettila di combinare guai. Sei una ragazza intelligente. Smettila di frequentare brutta gente-.
Più che arrabbiato sembrava amareggiato. Si passava continuamente una mano tra i capelli biondo cenere. Io me ne stavo zitta a guardarlo. Ci aveva messo una buona mezz'ora per convincere il tipo del negozio a non denunciarmi. Fino ad ora era sempre riuscito a farmi uscire pulita ma stavo diventando grande e la gente non mi vedeva più come una povera bambina disagiata ma come una delinquente recidiva.
-Davvero Lia, cambia strada. Sei ancora in tempo. Non lo dico per me ma per il tuo futuro. Se io non dovessi esserci un giorno per pararti il culo sarebbero guai seri-.
Stava cercando di convincermi che ero una brava ragazza e che potevo ancora essere salvata dal mio destino.

 In realtà sapevo perfettamente che la cosa era impossibile. Il mio destino era stato scritto parecchio tempo fa quando ero stata data in affidamento. Erano quasi dodici anni che cambiavo famiglia praticamente una volta all'anno. Samantha e Vittorio, i miei attuali genitori affidatari, stavano battendo ogni record. Qualunque cosa facessi non mi riportavano indietro. Non che non mi piacessero, solamente non volevo una finta famiglia. Preferivo starmene da sola. 

Sentimmo il ticchettio dei suoi tacchi salire le scale. Io e Alessandro ci guardammo in faccia, eravamo tutti e due a disagio. Era arrivato il momento della scenata della signora Tosetti.
La porta si spalancò di botto ed eccola lì, alta, magra e bionda con un vestitino che lasciava poco all'immaginazione. Probabilmente l'avevano chiamata mentre era a fare shopping con le sue stupide amiche.  
-Lia! Stavolta hai davvero esagerato! E' la quarta volta in due mesi che mi telefona la polizia per dirmi che ti hanno beccato a rubare qualcosa. Stavolta l'hai fatta grossa!- urlò con quella sua vocetta stridula.
Si girò verso Alessandro con sguardo truce. Quella donna non risparmiava proprio nessuno -L'hanno denunciata?- chiese con voce strozzata.  
Ale, dopo i primi cinque secondi di panico, si ricompose e con il suo solito tono da poliziotto buono rispose
-No signora. Il proprietario ha deciso di graziarla. Può portarsela a casa tranquillamente-.
Samantha sospirò e mi afferrò un braccio. Non sembrava tanto contenta di riportarmi a casa. 
-Ti è andata bene questa volta. Ma non so se Vittorio sarà contento di sapere che ti ho ripescata in questura anche stavolta-.
Non feci in tempo ad alzarmi che mi trascinò giù per le scale e mi scaraventò in auto. Non disse una parola per tutto il viaggio. 

Arrivate a casa mi infilai in camera mia e aspettai che Vittorio tornasse a casa. Sapevo che questa volta era quella buona e mi avrebbero rispedito in casa famiglia. Ne ero certa.
Cominciai a fare le valigie. Non avevo molto. Tre paia di jeans strappati, qualche maglietta e tre o quattro felpe. Una manciata di calzini e intimo. Cinque minuti dopo avevo impacchettato tutto.
Mi guardai attorno per vedere se avevo dimenticato niente ma non c'era nulla che valesse la pena portarsi dietro.
Mi sdraiai sul letto e aspettai che rincasasse il padrone di casa.

 

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Capitolo 2
*** Decisioni ***


Alle sette in punto la porta d'ingresso si aprì e dei passi pesanti entrarono in cucina.
-Lia! Vieni qui! Immediatamente!- gridò.

 Cazzo, era proprio nero dalla rabbia. Sorrisi tra me e me e scesi le scale con la faccia più triste della terra. Forse, vedendomi triste e dispiaciuta, si sarebbe calmato. Mi sbagliavo di grosso. Girai l'angolo. 

Eccolo lì in piedi, mani sui fianchi e sguardo truce.
-Ragazzina stavolta sei nei guai seri. E togliti quella faccia dispiaciuta. Lo sappiamo perfettamente che ti piace torturarci con i tuoi stupidi passatempi-. 

Ok, la faccia della ragazzina dispiaciuta non aveva funzionato. L'avevo usata già troppe volte. Ero stufa di dovermi nascondere e trovare delle stupide scuse per tutto ciò che per loro non andava. 

Volevano vedere com'era la vera Lia? E va bene. Alzai la testa e sfoggiai il sorriso perfetto. Era ora di finirla. Lo fissai ancora per qualche istante e poi attaccai.

-Hai ragione Vittorio. Non me ne frega un cazzo di quello che pensate. Mi piace mettermi nei guai e farvi dannare. Mi ci è voluto un bel po' di tempo per portarvi all'esasperazione ma finalmente ce l'ho fatta. Le valigie sono pronte. Quando mi riportate in casa famiglia?-

Samantha aveva il volto che trasudava delusione. Quando mi avevano preso gli assistenti sociali gli avevano detto che ero una ragazza difficile da gestire ma si erano detti che ce la potevano fare. Ora, guardandola di sfuggita, capii che non era più tanto sicura della loro scelta. 

Intanto Vittorio mi squadrava dalla testa ai piedi e d'improvviso scoppiò a ridere. Mi stupii. Perché cazzo ride? E' impazzito? L'avevo portato così tanto all'esasperazione che era lo avevo portato alla pazzia? Tra una risata e l'altra disse:

-Tu credi davvero che ti rispedisca indietro così potrai divertirti a torturare un'altra povera famiglia? O diventare una delinquente a tutti gli effetti? Ma per favore- e giù a ridere di nuovo. 

 Non capivo se mi stesse prendendo in giro o se stesse facendo sul serio. Me ne stavo zitta a guardarlo. Non riuscivo a fare altro. Spostai lo sguardo su Samantha e lei guardò me con gli occhi fuori dalle orbite. Era sorpresa quanto me. 

Finalmente, dopo svariati minuti di pazze risate, si calmò. Si ricompose e divenne l'uomo che avevo visto rincasare. -Io e Samantha abbiamo deciso di mandarti in un centro per ragazzi con seri problemi sociali- dichiarò tutto d'un fiato. 

Mi ci volle qualche istante per comprendere quello che aveva appena detto. E quando capii non riuscii a dire nulla. Aprivo e chiudevo la bocca come un pesce rimasto senza ossigeno. Questo era puro sadismo!

 Ripresa dallo shock cominciai a gridare
-Cosa? Io non sono pazza! Solo perché non voglio una famiglia non vuol dire che ho seri problemi sociali! Non l'ho mai avuta e mai la vorrò! E voi non potete costringermi, non siete e non sarete mai i miei genitori! Quindi smettetela di comportarvi come se lo foste. Io non ho bisogno di nessuno tanto meno di voi! Io non ci vado!-

Ecco, l'avevo detto. Finalmente quel peso che mi gravava sul petto l'avevo tolto. Samantha distolse lo sguardo Le lacrime agli occhi. Al contrario Vittorio mi guardava così intensamente che avrebbe potuto vedere tutto ciò che mi passava per la testa se si concentrava ancora un po'. 

-Tu hai bisogno di una raddrizzata ragazzina e di certo noi non possiamo dartela. Quindi ci penseranno quelli del centro. Hai fatto bene a preparare le valigie. Partiamo domani mattina-. 

La stanza cominciò a girare. Non sapevo se ero più arrabbiata o stupita. Vomitai tutto quello che avevo mangiato la mattina. Nessuno mi aiutò a tenermi in piedi. Presi un fazzoletto e mi pulii la bocca e corsi in camera mia. Il mio zaino era pronto sul letto. 

Lo presi e mi infilai fuori dalla finestra, gettai lo zaino a terra e scesi aggrappandomi all'albero che stava affianco alla mia finestra. Raccolsi lo zaino e cominciai a correre. Non ci sarei mai andata in quel posto per pazzi. 

Dopo quindici minuti di sana corsa finalmente arrivai nel posto più sicuro che conoscevo. Mi fermai ansimante davanti a una porta rossa con un grosso batacchio arrugginito. Bussai più volte finché Dolores non aprì la porta.
-Ahi chica che succede?- chiese sorpresa di vedermi. Dolores era l'unica donna che in tutti questi anni si era avvicinata di più alla figura di madre. 

Con il fiatone riuscii a formulare solamente un flebile
-Carlos?- 
La donna si girò e sbraitò
-Carlos Josè Martinez vieni subito aqui!- 
Carlos arrivò lamentandosi come al solito
-Oye mamá no soy sordo!-

Portava solamente i pantaloni della tuta. Probabilmente si era appena fatto una doccia. Vedendomi sulla soglia si guardò attorno alla ricerca di una maglietta. Il suo affanno era esilarante. 

-Lia, che ci fai qui a quest'ora?- Era diventato rosso come un peperone. 

-Sam e Vittorio vogliono mandarmi in un manicomio-. Dolores e Carlos spalancarono occhi e bocca. 

-Oh Santa Vergine! Ma tu non sei pazza. Dove sono? Ci vado a parlare io- 
mamma Dolores, così voleva che la chiamasi, prendeva sempre le mie difese. Ormai ero di famiglia. 

-Un attimo. Non ingigantire le cose come tuo solito. Esattamente, di che si tratta?- Trovata la maglietta Carlos aveva ripreso anche la sua lucidità mentale. 

Possibile che doveva sempre prendere le mie parole con le pinze? Mi sedetti sul divano e Dolores mi portò un bicchiere d'acqua. 

-Oggi Sam mi è venuta a prendere in centrale e ha detto che quella era l'ultima volta che mi mettevo nei casini. Vittorio è tornato a casa e urlando mi ha detto di fare le valigie perché domani parto e vado in questo centro per ragazzi con problemi socialmente seri-.

Lo guardai con occhi imploranti.
-Io non ci voglio andare. Non ho seri problemi sociali. Io non voglio avere una famiglia. Gliel'ho detto ma loro non capiscono- piagnucolai. 

Si sedette di fianco a me e mi mise un braccio sulle spalle e mi tirò a se.
-Ohi Lia. Vedrai che non è nulla. Posso sapere dov'è questo centro e venirti a trovare. Non sarà così brutto. Dopotutto sei stata in casa famiglia per quasi tutta la vita. Di peggio credo esista solo il carcere- scherzò. 

Ma io non ridevo. Okay, ero stata spostata come un pacco postale da una città all'altra per tutta la vita ma non era stato così traumatico come entrare in un centro di recupero.
-Carlos, io non voglio andarci. Posso rimanere qui per stanotte?- chiesi senza mezzi termini. Dormivo più a casa sua che nelle case in cui venivo mandata. 

Avevo addirittura una stanza mia. Beh, non proprio. La sorella di Carlos era partita per l'università e mi aveva lasciato la stanza. 

Il poveretto sospirò alzando gli occhi al cielo
-Va bene ma domani torni a casa e vai in questo posto. Io ti seguirò e vedrò dov'è così potrò venirti a trovare-. 

E non c'erano ma che tenevano. Quando Carlos Josè Martinez prendeva una decisione nessuno poteva fargli cambiare idea. 

Provai a ribattere ma lui mi premette una mano sulla bocca.
-Non provare a dire di no. Tu ci vai-.
Gli tolsi la mano dalla mia bocca con uno strattone. L'odiavo quando faceva così.
-E va bene. Ma tu mi verrai a trovare ogni volta che puoi e se il posto non mi dovesse piacere tieni la stanza in ordine- dissi esasperata. 

-Vedrai Lia, tutto si aggiusterà. La Santa Vergine sa quello che fa- mi rassicurò Dolores accarezzandomi i capelli. 

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Capitolo 3
*** Che lo spettacolo abbia inizio ***


Mi svegliai alle sette in punto. Aprii con fatica gli occhi. Si stava così bene a letto. Mi guardai attorno assonnata. Ero nella stanza di Eva. Come ci ero arrivata? Mi ero addormentata sul divano. 

Probabilmente Carlos mi ci aveva portata. Non era la prima volta che capitava.
-Ehi dormigliona. Mettiti qualcosa di carino. La colazione è pronta- disse Carlos stando sulla porta. 

Come faceva a essere sempre perfettamente sveglio e fresco come una rosa? Sbadigliai e mi grattai in testa. Non era un gesto molto femminile ma non m'importava. Lo consideravo una sorta di fratello maggiore. 

-E perché dovrei mettermi qualcosa di carino? Non vado bene così?- obbiettai acida. Di prima mattina era meglio starmi alla larga. 

-Guardati allo specchio chica. Io ti aspetto di sotto- e se ne andò ridendo sotto i baffi. 

Scesi dal letto e mi guardai allo specchio. Non aveva tutti i torti. Al posto dei capelli avevo un cespuglio castano e il trucco era tutto sbavato. E i vestiti erano tutti stropicciati e puzzavano. Sembravo un orrendo costume di Halloween. 

Okay, avevo bisogno di una bella ripulita. Mi infilai sotto la doccia e mi misi un paio di jeans neri di Eva, aderenti e strappati sulle ginocchia, una maglietta bianca aderente e un tantino scollata e un giubbino di pelle nero. Mi truccai particolarmente bene e legai i capelli in una coda alta. Mi scrutai allo specchio. Niente male per essere il mio ultimo giorno di libertà. 

Scesi le scale con lo zaino in spalla.
Dolores mi salutò calorosamente -Ohi Lia, sei meravigliosa-.
Carlos mi dava le spalle e quando si girò per poco non gli andò di traverso il caffè. 

-Wow Lia, ti avevo detto carino. Non sexy- Non mi toglieva gli occhi di dosso. 

Dovetti fare uno sforzo enorme per non ridergli in faccia.
-Beh, devo fare bella figura, no?- dissi alzando le spalle. 

Facemmo colazione parlando del più e del meno. -Dai, mettiti le scarpe. È ora di andare-.
Carlos, ovviamente già pronto, uscì in strada. Mi misi i miei stivaletti rigorosamente neri e uscii salutando Dolores. Quella donna era una santa. 

Uscita in strada trovai Carlos in sella a una moto semplicemente fantastica. 

-Se vogliamo fare bella figura dobbiamo arrivare in grande stile- disse come per scusarsi di avermi sempre tenuto nascosto quel gioiellino. 

-Mamma ha già avvisato Sam e Vittorio. Forza, ti porto io- e mi lanciò un casco. 

Salii e mise in moto. Il rombo echeggiò per tutta la via. Sfrecciammo tra il traffico mattutino fregandocene dei semafori e dei diritti di precedenza. Quella mattina la strada era nostra e tutti dovevano saperlo.

Arrivammo alle nove precise. 

L'edificio era enorme, grigio e un po'tetro. Dei ragazzi se ne stavano seduti sul muretto e altri gruppetti erano sparsi per tutto il piazzale. Sentendo il rombo di una moto tutti si girarono a guardare. Scesi dalla moto e Carlos spense il motore. 

-Che entrata trionfale sarebbe senza un cavaliere?- disse porgendomi il braccio.
-Non sono una donzella in pericolo. Stammi dietro e non fiatare-. Mi avviai a passo deciso e credetti di sentire un "con piacere" mormorato da Carlos. 

Tutti mi guardavano a bocca aperta. Se ero costretta a rimanere lì dentro per un bel po' di tempo avrei dovuto mettere subito in chiaro le cose. Io non avevo paura di loro. 

Entrammo in segreteria. Alla scrivania una signora ci squadrò dalla testa ai piedi.
-Nome?- gracchiò.
-Lia Rose Parker-. 

Vedendo che ero io a dover entrare in quel posto guardò prima me e poi Carlos.
-E tu ragazzo?- 
-No signora. Sono solo il suo accompagnatore-. 

La donna borbottò qualcosa tra se e aprì un grosso registro. Scorse le pagine e infine indicò il mio nome. 

<-Ah, eccoti qua. Lia Rose Parker. Stanza numero 317. Qui ci sono gli orari degli incontri- e mi allungò un foglietto e la chiave della mia stanza. 

-Vedo che non sei nella lista dei peggiori quindi hai libero accesso alla città. Puoi uscire dalle dieci di mattina alle nove di sera. Se rientri dopo il coprifuoco il permesso verrà revocato. Ci siamo capiti?- mi guardò da sopra i piccoli occhialetti. 

-Certo signora. Grazie per le informazioni- cercai di essere il più gentile possibile. Quella strega non aspettava altro di beccarmi fuori dopo l'orario. Ne ero certa. 

 -Non si preoccupi signora. Sarà sempre in orario altrimenti ci penso io a lei- le assicurò Carlos facendole l'occhiolino. 

Guardai il foglietto. Avevo un incontro alle nove e mezza il che voleva dire che mancavano esattamente dieci minuti. 

-Okay chica, io vado. Ci vediamo stasera se hai tempo. Chiamami- mi abbracciò e se ne andò. 

-Scusi, dove trovo l'aula F?- domandai alla tipa della segreteria.
-In fondo a questo corridoio. Ultima porta a destra-. 

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Capitolo 4
*** Incontri ***


Mi incamminai per il lungo corridoio. Guardando il foglietto che avevo tra le mani andai a sbattere contro qualcuno.

-Ehi, e stai attenta ragazzina. Il corridoio non è tuo- si lamentò qualcuno.

Non alzai nemmeno gli occhi per vedere chi fosse. Tirai dritta per la mia strada.

Arrivata davanti all'aula F sbirciai dentro. C'erano parecchie persone. Alcune se ne stavano sole altre facevano gruppo in un angolo. Di certo non sembravano felici di stare lì dentro. Appena entrai tutti si girarono.

I maschi mi guardavano con la bava alla bocca e le poche ragazze che c'erano mi squadravano dalla testa ai piedi. "Cominciamo bene", pensai. Andai a sedermi su una sedia un po' scassata e mi guardai attorno. Qualche ragazzo non smetteva di guardarmi.

A due minuti dalla riunione dei ragazzi salutarono qualcuno.

-Red! Come te la passi amico?-.

Girai la testa e vidi sulla soglia un ragazzo alto e ben messo dai capelli castani e intensi occhi verdi.

-Alex, tutto bene. Voi come ve la passate?- chiese al gruppetto nell'angolo.

-Bene, abbiamo carne fresca. Guarda un po' là- disse quello che si doveva chiamare Alex indicandomi con un movimento della testa.

Si voltò verso di me e il suo sguardo si fece più intenso di tutti gli altri. Mi sentivo un po' a disagio. Voleva farmi una radiografia? Non mi accorsi nemmeno che si era avvicinato.

-Bene bene. E tu saresti?-.

Porca miseria! Era la persona la quale ero andata addosso cinque minuti fa.

-Lia- dissi alzandomi. Mi si avvicinò ancora e mi guardò dalla testa ai piedi.

-Lia, i tuoi non ti hanno insegnato le buone maniere?- chiese indispettito. E lui chi era per dirmi una cosa del genere? Che cazzo voleva questo?

-No dato che non li ho mai avuti- marcai in tono indifferente. Fece un profondo respiro.

-E sai dire uno "scusa"? O non sai nemmeno cosa significhi?-. Si stava montando troppo la testa.

-Si, lo so dire ma non vedo perché lo debba dire proprio a te. Potevi anche evitarmi in corridoio- ribattei stizzita.

Si avvicinò ancora. Cavolo, era una spanna abbondante più alto di me. Non che io fossi un gigante dato che non arrivavo al metro e sessanta.

Incuteva un certo timore ma non potevo fare la cacasotto con lui. Il mio orgoglio non me lo permetteva.

-Ragazzina ti dirò una cosa che non ti piacerà. Qui comando io. Non sono io quello che devo spostarmi o chiedere scusa-.

Quasi scoppiai a ridere. Questa era bella. Lui comandava? Allora era esattamente come a scuola. I bulli erano ovunque, anche tra i ragazzi cosiddetti "speciali".

-Non sapevo che il centro fosse tuo. Ma stranamente non ho visto un tuo busto mentre entravo. Solo quello di un vecchio e non mi sembra che tu sia vecchio- dissi alzando le spalle e guardandolo con il mio solito sguardo provoca rissa.

-Chi mette in piedi un posto come questo non vuol dire che sia automaticamente il capo. Farai meglio a rispettarmi ragazzina-.

Il suo tono cominciava a farsi minaccioso. Se pensava che bastasse quello per spaventarmi si sbagliava di grosso.

-Solamente se mi rispetterai tu. Il rispetto va guadagnato. Io non lo regalo, specialmente a uno come te-.

Potevo vedere la rabbia che gli saliva fin sopra i capelli. Ero sempre stata brava a far arrabbiare la gente.
Se fosse stata una materia scolastica io avrei avuto il massimo dei voti.

-A uno come me? E che tipo sarei?- sibilò tra i denti. Mi misi in posa e feci finta di pensarci su mettendomi un dito sulle labbra. Lo stavo mandando in bestia e la cosa mi piaceva parecchio. Dopotutto in questo posto mi sarei divertita.

-Vediamo, sei egocentrico, maniaco del controllo e arrogante e aggiungerei patetico-. E sfoggiai uno scintillante sorriso.

Fortunatamente entrò qualcuno perché il tipo sembrava sul punto di esplodere.

-Ragazzi seduti. Oggi ci presenteremo tutti e lavoreremo un po' sul perché vi trovate qui-.

-Non finisce qui- bisbigliò fulminandomi con lo sguardo.

-Lo spero proprio- ribattei sorridendo beffardamente.

Il tipo che era entrato si sedette e cominciò a parlare

-Allora ragazzi, comincio io. Sono Luca e sono un tutore di questo centro. Sono ormai quindici anni che cerco di aiutare i ragazzi che vengono qui-.

Guardò in direzione di un ragazzo e questo comincio la solita trafila. Ciao sono bla bla. Vengo da bla bla, ho fatto bla bla e via dicendo.

Dopo una mezz'ora buona arrivò il mio turno. -E tu signorina?- mi chiese in tono amichevole.
-Sono Lia Parker e mi trovo qui perché i miei genitori affidatari non mi vogliono rispedire in casa famiglia- dissi in tono annoiato.

-Lia Parker. Tuo padre biologico era inglese?- m'incalzò il tipo.

-E io che ne so- odiavo quella domanda. Me l'avevano fatta così tante volte. Se voleva sapere qualcosa poteva chiedere agli assistenti sociali.

-E sei qui solamente perché pensi che i tuoi genitori affidatari non ti vogliano?-. Okay, ora stava facendo troppe domande. Era un giornalista o un tutor?

-Nessuno le ha mai detto che chi si fai cazzi propri campa cent'anni?- domandai stizzita. L'uomo sorrise quasi divertito dalla mia reazione.

-Me l'hanno detto in molti ma io sto solo cercando di fare la tua conoscenza- disse senza perdere la calma.

-E chi le ha detto che io voglia conoscere lei?- ribattei.

Il ragazzo che tutti chiamavano Red si alzò in piedi.

-Lia smettila di mancare di rispetto a Luca. Se sei qui è per un valido motivo -.

Mi alzai anche io dalla sedia -E tu di che ti impicci? Non stavo mica parlando con te- dissi alzando la voce.

Senza darmi il minimo ascolto continuò il suo monologo.

-Probabilmente non hai ancora una famiglia perché la tua merda di carattere non piace a nessuno. O magari sei qui perché sei una drogata o una ladra. Ma a giudicare da come ti vesti potresti benissimo battere in strada-.

Mi aveva appena dato della troia? Potevo sopportare tutto ma non che mi venisse dato della puttana. Senza pensarci due volte mi avvicinai a lui e gli sferrai uno schiaffo sonoro in faccia. Non fece una piega. Anzi, sorrise.

-Oh, mi mancavano gli schiaffeggi da parte delle puttanelle come te-. Stava continuando a insultarmi.

-Ragazzi state calmi, per favore- diceva Luca cercando di calmarci.

-Ah si? Allora perché non vai a farti quella troia di tua sorella? Quanto prende all'ora?- dissi gridando. Stavo scoppiando. Quel ragazzo doveva pagarla cara.

-Sicuramente molto più di te, ragazzina- ringhiò.

La tensione era così alta che non mi ero accorta che tutti gli altri avevano fatto due passi indietro.

-Ragazzi ora basta. Red, smettila di infastidire Lia. E' nuova-

Luca cercava in tutti i modi di evitare l'inevitabile. Lo guardai solo per un attimo.

Se avessi potuto avrei fulminato quell'omuncolo. Anche Red lo guardò con lo stesso sguardo.

-Luca non ti mettere in mezzo. E' una faccenda tra me e la ragazzina- disse con rabbia.

Il silenzio era calato nella stanza. Le ragazze si erano messe in un angolo vicino alla porta, pronte a scappare appena le cose si fossero messe male. I ragazzi invece ci guardavano stupiti. Forse non pensavano che una ragazzina tanto piccola potesse avere un carattere così forte da sfidare quello che doveva essere il capo.

-Allora perché sei ancora qui se la tua dolce sorella è ricca sfondata?- 

La domanda era lecita. Perché era li se sua sorella era una puttana di prima categoria? Non mi rispose. Mi guardò e basta.

Il mio orgoglio saltellava dalla gioia. Stavo vincendo la battaglia.

-Oh, oh. Forse ho capito. Tu non sei con lei perché non ti vuole intorno. Preferisce la bella vita anziché avere una bocca in più da sfamare, non è così?- centro prefetto.

-Touché piccola Lia. Ma non è così. Sono io che ho scelto di andarmene. Invece tu sei stata abbandonata. Non ti volevano e nessuno ti vorrà mai perché sei una piccola puttanella orgogliosa- sibilò sorridendo.

Non ascoltai più nessun commento. Questo era troppo. Gli saltai addosso e cominciai a prenderlo a calci e pugni. Lui cadde a terra e rise. Nonostante fosse disteso a terra e usassi la sua faccia come sacco da boxe non si fermava.

-Ah ti piace il sadomaso, vedo. Continua pure se è questo quello che ti fa bagnare le mutandine-. Gli sferrai un calcio alle palle e lui quasi vomitò.

-Brava bambina, più forte se ci riesci- diceva sputando sangue.

Lo pestai ancora più forte. La sua faccia era un grumo di sangue. Gli avevo rotto il labbro e forse il naso. E lui rideva. Rideva di me.

-Ora che ti sei sfogata tocca a me-.

In un solo movimento mi bloccò le braccia e mi scaraventò a terra. Ora era lui sopra di me. Cercai di calciarlo ma mi bloccò le gambe tra le sue. Eravamo l'uno sopra l'altra. I nostri corpi appiccicati. Potevo sentire il suo respiro sul mio collo.

La cosa mi mise addosso una strana sensazione. Non era paura. Era un misto di terrore e nausea. L'avevo già avuta questa sensazione ma non riuscivo a ricordare quando. Vedendo che non mi muovevo mi sorrise.

-E adesso? Come la mettiamo? Cosa dovrei farti?- domandò più a se stesso che a me.

Io rimasi zitta. La maglietta si era sporcata del suo sangue che gli gocciolava dal labbro.

-Cosa dovrei farti eh Rose?- tuonò.

Un brivido mi corse lungo la schiena. Mi aveva chiamato Rose? Lo guardai negli occhi. Sembrava sul punto di piangere. Come faceva a sapere il mio secondo nome? Non lo avevo detto a nessuno.

-Come fai a sapere il mio secondo nome?- mormorai soffocando le lacrime.

Nessuno mi aveva mai chiamata Rose. O forse si? Il mio stomaco venne attanagliato da un senso di nausea crescente. Red mi fissava senza dire una parola.

Si alzò di scatto e mi tirò su come se non pesassi niente. Nessuno aveva sentito l'ultima frase che avevo detto. Mi guardò un'ultima volta e se ne andò.

Io rimasi lì, impietrita. Solo dopo pochi istanti mi accorsi che mi stavano fissando tutti.

Luca si avvicinò a me. 

-Lia, tutto bene?- disse in tono dolce.

Quando provò a toccarmi mi ritrassi come se fosse fuoco.

Che mi stava succedendo? Presi lo zainetto di corsa e sfrecciai come un missile in corridoio. Avevo bisogno di stare da sola.

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Capitolo 5
*** Una nuova amica ***


Arrivai davanti a una porta a vetri. Mi gettai sulla maniglia anti-panico e mi fiondai fuori. Volevo scappare, sparire. Il cuore mi martellava nel petto e quella maledetta sensazione non se ne voleva andare. Mi guardai attorno per vedere se ci fosse qualcuno nei paraggi. Il piccolo cortile dov'ero finita era completamente vuoto. Forse era il retro. 

Mi sedetti con le ginocchia attaccate al petto e cominciai a piangere disperatamente. Volevo togliermi di dosso quello schifo ma non ci riuscivo. La nausea mi attanagliava lo stomaco. Mi girai e vomitai l'anima. 

Cosa mi era preso? Ero lì dentro da meno di un'ora e avevo già preso a cazzotti qualcuno. Per colpa sua ora mi ero messa nei guai. Perché mi aveva insultata così? Che cazzo gli avevo fatto? Okay gli ero finita addosso e non gli avevo chiesto scusa ma non per questo doveva aggredirmi così. Quando mi aveva guardata nei suoi occhi avevo visto puro disprezzo e delusione. Lui mi odiava. Non mi conosceva e già mi odiava. Perché? 

Ma soprattutto, perché sapeva il mio secondo nome? A quell'idiota di Luca avevo detto di chiamarmi solo Lia Parker. Come faceva a saperlo? Cominciai a tremare come una foglia. 

-Ehi tesoro, che è successo?- una voce femminile mi fece trasalire.

Alzai la testa di scatto. Di fronte a me stava una ragazza dai lunghi capelli biondi e due fanali azzurri che avrebbero fatto invidia a chiunque. Si inginocchiò accanto a me. 

-Su dai, non piangere. Il primo giorno è duro per tutti ma poi tutto diventa più facile. Ecco, tieni- e mi allungò un fazzolettino di carta profumato. Mi asciugai le lacrime con la manica del giubbetto di pelle. 

-Grazie- riuscii soltanto a dire. Speravo che si eclissasse da un momento all'altro. Non volevo l'aiuto di nessuno. E invece lei si sedette affianco a me e guardò l'alta siepe di fronte a noi.

-Questo è uno dei miei posti preferiti. Nessuno ti disturba e puoi piangere quanto vuoi- mormorò. 

E a me che cazzo me ne fregava che quello fosse il suo posto preferito?

-Buona a sapersi- dissi freddamente. 

-Forse so perché stai piangendo- esordì.

Perfetto, era una ficcanaso. Alzai gli occhi lucidi al cielo.

-Tu sei la ragazza nuova. Quella che ha preso a pugni Red-.

Wow, le voci in questo posto giravano parecchio in fretta.

-Si, sono io. E tu sei?- 

Si girò di scatto e mi guardò come se fosse appena caduta dalle nuvole.

-Oh cielo, che sbadata. Mi dispiace tanto non essermi presentata prima. Io sono Sofia- disse tendendomi la mano.

Strana la ragazza.

-Lia- e le strinsi la mano controvoglia. Lia devi essere un minimo gentile se vuoi sopravvivere in questo posto, mi dissi. 

-Che stanza hai?- mi chiese a un tratto. Stanza? Quale stanza? La fissai perplessa.

-La stanza che ti hanno dato quando sei entrata- mi incalzò. 

Cavolo, mi ero dimenticata che avevo una stanza! Chissà dove avevo ficcato la chiave.

-Ehm, un attimo- rovistai nello zaino alla ricerca di quella dannata chiave. Con un po' di fortuna la trovai e lessi il cartellino che pendeva a mo' di portachiavi. 

-Stanza 317-.

Sofia gridò e si alzò in piedi.

-Sei la mia nuova vicina! Io sono nella 316. Che bello. Avevo perso le speranze di avere qualcuno come vicino- e mi abbracciò di slancio. Strinsi gli occhi. Odiavo gli abbracci a sorpresa.

-Vieni, ti mostro la stanza- mi prese per mano e mi trascinò nell'edificio di corsa. 

Fanali azzurri correva veloce. Se non fosse stato per tutte le corse fatte da me e Carlos per scappare dalla polizia sarei morta d'infarto.

Salimmo tre rampe di scale e ci infilammo in un lungo corridoio. Le pareti erano tutte color giallo crema sbiadito. Uno schifo. Le porte erano forse peggio. Marroni con maniglie bianche. Ma un minimo di senso estetico? I divani che stavano ai lati, tra le porte, erano messi abbastanza male. Dovevano avere parecchi anni. 

-La tua è l'ultima in fondo e la mia è di fronte alla tua. Vieni-.

Arrivate davanti alla stanza 317 infilai la chiave nella toppa e aprii la porta. La puzza da chiuso quasi mi stordì. Nella stanza c'erano solamente un vecchio letto pieno di polvere, un comò mezzo mangiato dai tarli e un comodino scassato. 

-Beh, non è una stanza di lusso ma non si sta poi così male- cercò di consolarmi Sofia tossendo.

-Ho visto di peggio-.

Andai verso la finestra. Era sbarrata da un'asse.

-Sofia mi dai una mano?- dissi iniziando a tirare. Si aggrappò all'asse e cominciò a tirare assieme a me. Dopo vari sforzi l'asse cedette. Ci ritrovammo con il culo per terra e l'asse tra le mani.

-Questa può esserci utile per sistemare il comò e il comodino- disse tutta contenta. 

Questa ragazza era fuori di testa. Non so perché ma cominciava a starmi simpatica. Di solito odiavo la compagnia delle ragazze. Tutte a pensare solamente a scarpe e borsette e soprattutto ragazzi come se fossero dei trofei. Sofia era diversa e questo mi piaceva. Forse mi ero fatta un'amica. 

-Ci vorrà ben altro per sistemarli a dovere ma possiamo fare un tentativo-.

Mi guardò e sorrise. Mi alzai e aprii la finestra. L'aria m'invase i polmoni e la luce invase la stanza.

-Penso che andrò a chiedere agli inservienti scopa e paletta- dissi.

-E io ti do una mano a sistemare- disse tutta felice. 

Come faceva a essere sempre così felice? Scendemmo al pianoterra e, armate di scopa e paletta e qualche panno cattura polvere, andammo in camera mia. 

Ci vollero parecchie ore e tanto sudore ma alla fine la stanza brillava e profumava di pulito.

-Ecco fatto. Ora si che è una stanza- affermò soddisfatta Sofia.

-Ti lascio sistemare la tua roba. Ti chiamo quando servono la cena-. Chiuse la porta e io mi trovai sola in quella che sarebbe stata la mia nuova casa. Almeno finché non avrei trovato il modo di andarmene senza problemi. 

Misi nei cassetti quei pochi abiti che avevo e mi sdraiai sul letto ad aspettare. Sofia mi chiamò verso le sette e mezza.

-Fatto tutto? Bene, andiamo- e scendemmo al pianoterra. 

-Sofia, chi c'è di solito a cena?- chiesi pensando a Red. Attorcigliandosi i capelli tra le dita borbottò qualcosa. 

-Mmm.. Diciamo più o meno tutti. Quelli che possono uscire spesso rimangono fuori o con i loro genitori o con i loro amici. Ma almeno una volta a settimana devono restare-. 

-Red?- le chiesi guardandola dritta negli occhi. 

-Può darsi- mormorò mordendosi il labbro.

Sospirai. Sofia mi guardò preoccupata.

-Forse oggi non ci sarà. Lui può uscire qualche volta. Magari oggi non c'è-. Non era brava a mentire. 

Arrivate davanti alla porta della mensa pregai che le parole di Sofia fossero vere. Ma le mie preghiere non furono ascoltate.

Eccolo lì, seduto tra i ragazzi di stamattina. La faccia ricoperta di lividi e il labbro rotto. Appena entrai lui alzò gli occhi e mi fissò con sguardo truce.

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Capitolo 6
*** Strani avvertimenti ***


Stavo per andare a dirgliene quattro quando qualcuno mi prese il braccio e mi fermò.

-Lia Parker, posso parlarti?- 

Luca? E adesso che voleva? Ritrassi il braccio bruscamente. Odiavo quando la gente mi toccava senza il mio permesso. Io mica andavo in giro a toccare gli altri! 

-Dimmi- sbuffai.

-Sarebbe meglio in privato- disse guardando la porta.

Uh, allora doveva essere qualcosa di veramente serio. Gettai un'occhiata a Red. Non mi mollava un attimo. Luca era ancora in attesa di una mia risposta. Male non poteva farmi uscire da quella stanza e togliermi il suo sguardo di dosso.

-Okay, andiamo-. Ci avviammo lungo il corridoio, verso la segreteria e gli uffici del personale. 

-Sai Lia, sei una ragazza molto aggressiva. Dovresti calmarti un po'. Questa mattina ti ho solamente fatto alcune domande e tu mi hai subito aggredito- disse.

-Beh, si. Sono prepotente ma se ti ho risposto in quel modo una ragione c'è-. 

Voleva farmi la paternale? Allora doveva mettersi in fila. Troppe persone ci avevano provato e avevano fallito miseramente.

-E che motivo è? Non ti piace la compagnia? O non ti è piaciuto il mio tono?- Sembrava confuso. Davvero non l'aveva ancora capito?

-Non sopporto le persone che fanno domande-. 

Arrivammo nel suo ufficio e ci sedemmo uno di fronte all'altra. Era un ufficio abbastanza spoglio. Rispecchiava l'aspetto del proprietario.

-Ma la gente le domande le fa per conoscersi-. 

Esatto, le fa per conoscersi. Era proprio questo che non sopportavo. Io non avevo mai chiesto nulla a Carlos. Era stato lui a raccontarsi e a presentarmi alla sua famiglia. Una volta aveva provato a chiedermi qualcosa del mio passato ma il poveretto, oltre a non essere riuscito a cavarmi una sola parola di bocca, si era beccato un bel pugno il faccia. Da allora non mi aveva più chiesto nulla. 

-Per conoscere le persone non servono le domande- dissi meravigliandomi delle mie stesse parole.

E chi ero io per dirlo? Un' intellettuale? Luca si appoggiò allo schienale della sua sedia e mi fissò in silenzio.

-E come si fa a conoscere a fondo una persona, Lia?- il suo tono ora era diventato più basso.

Cominciai a sentirmi a disagio. Dove voleva andare a parare? Stavo per rispondergli quando qualcuno bussò alla porta. 

-Luca? In mensa due ragazzi si stanno menando. Potresti intervenire?- chiese Sofia.

Grazie a dio era arrivata in tempo. Luca sospirò e si alzò dalla sedia.

-Chi sono?-. Sofia guardò me e poi Luca rimanendo in silenzio.

-Chi?- la incalzò il tutor.

-Non lo so. Forse Robi e Dario- mormorò. Sembrava spaventata.

-Arrivo subito- s'incamminò verso la porta e uscì. 

-Stai bene?- mi chiese Sofia.

Perché quella domanda? Ero sbiancata così tanto? Okay, mi ero trovata in difficoltà a rispondere a una domanda ma non era la prima volta che mi tartassavano di domande.

-Io sto bene. Tu piuttosto? Sembra che tu abbia appena visto un fantasma- scherzai. Sofia non rise.

-Si, sto bene. Beh, vedere una rissa non è il mio hobby-. 

Qualcosa non mi tornava. O forse era lei a essere lunatica. Mi alzai e la raggiunsi sulla porta.

-Io devo ancora cenare. Andiamo?- e le sorrisi.

-Certo!- esclamò sorridendo. Eccola, questa era la ragazza che avevo conosciuto questo pomeriggio.

Rientrammo in mensa. La rissa era finita. Guardai attentamente tutti i tavoli. Di Red non c'era traccia. Molto meglio. Potevo finalmente mangiare in pace. Seguii Sofia ad un tavolo in un angolo. Lì di certo nessuno ci avrebbe dato fastidio.

-Vado a prendere da mangiare- e sparì tra i tavoli. 

Mi guardai attorno. C'era un mucchio di gente. Non avrei mai pensato che così tanti ragazzi venissero mandati in questo genere di posto per le ragioni più disparate. Sofia era solamente un po' svampita ma non aveva nulla che non andasse. E sicuramente non era la sola. Ah, certi genitori o tutori sono così stupidi e ignoranti! Per fortuna io non li avevo mai avuti. O forse li avevo avuti ma non me li ricordavo. 

A dire il vero non ricordavo parecchie cose. I dottori mi avevano detto che avevo un buco di ben quattro anni. Praticamente il mio cervello si era rincretinito e aveva lasciato da qualche parte i miei primi quattro anni di vita. E pensare che non mi ero mai fatta di acidi, quelli si che ti stendevano. Un amico di Carlos non era più tornato dal suo "viaggio". 

Stavo pensando ai fatti miei quando un ragazzo si sedette di fronte a me. Era parecchio carino. Capelli biondi, occhi nocciola e un sorrisetto da furbetto. Niente male.

-Ehi tu sei Lia, vero?- mi chiese sorridendo. 

Ma perché in questo posto tutti sorridevano? Di che si facevano?

-A chi interessa saperlo?-. Di certo non andavo a sbandierare il mio nome ai quattro venti.

-Scusa, non volevo offenderti. Io sono Alex-. 

Ah, l'amichetto di quel bastardo di Red. Perfetto, di male in peggio.

-Oh, ora ricordo. Beh, la carne fresca non ha intenzione di parlare con te-. E sfoderai il mio sorrisetto strafottente.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli. Era evidentemente imbarazzato.

-Scusami per stamattina. Io non pensavo che..- 

-Che cosa? Che questa ragazzina avesse le palle di rispondere agli insulti di un patetico cazzone?-. 

Mi stavo arrabbiando. Alex rimase in silenzio. Era diventato rosso come un peperone.

-Cosa vuoi Alex?- sbottai.

-Qualcuno vorrebbe parlarti. In privato- mormorò così piano che in mezzo al casino della mensa quasi non lo sentii.

-E chi sarebbe questo qualcuno?-. Alex distolse lo sguardo. 

Proprio non ce la faceva a sostenere il mio sguardo. Molto meglio. Aveva capito chi reggeva la conversazione.

-Esci e lo scoprirai. Ti aspetta davanti alla tua stanza-. 

Okay, questo era inquietante. Chiunque fosse, come cazzo faceva a sapere dove stavo? Mi voltai per cercare Sofia. Si era persa a chiacchierare con il personale della mensa. Perfetto, avrei saltato la cena. Mi alzai senza salutare il poveretto e mi avviai in camera.

Il corridoio era poco illuminato e metteva una certa ansia. Sembrava quei corridoi da film dell'orrore. Ammetto di essermi persa qualche volta. C'erano troppe scale in quel posto. Finalmente, dopo una buona mezz'ora, arrivai davanti ai dormitori femminili. Percorsi il lungo corridoio e vidi qualcuno davanti alla mia porta. Man mano che mi avvicinavo potevo vedere sempre più dettagli. 

Oh no. Ma non si faceva mai i cazzi suoi?! Red mi stava aspettando. Collegai solo in quel momento Alex a lui. Perché non l'avevo capito prima? La rabbia mi ribollì nelle vene. Se ne stava tranquillamente spaparanzato sulla mia porta. La cosa mi diede sui nervi. 

-Ce ne ha messo Alex a convincerti- esordì divertito. Dio, persino la sua voce mi infastidiva.

-Non ti sono bastate le legnate di stamattina?- chiesi inviperita. Mi sorrise. Mi stava pigliando per il culo.

-Le tue carezze non mi bastano mai. Ma stasera non cerco botte-. Ad un tratto si fece serio. 

-Che cazzo vuoi Red?- chiesi trattenendomi a stento. Mi guardò e scoppiò a ridere.

Ma che cosa..? Perché? Tra una risata e l'altra riuscì a dire

-Ma tu sei sempre così scontrosa?- e poi di nuovo giù a ridere. 

-Ora basta! Smettila di ridere! Ti ho fatto una domanda. Rispondi!- gridai. Red smise di ridere di botto. Certo che in questo posto di lunatici ce n'erano. Ritornò serio.

-Okay, facciamo le persone serie-. Mi si avvicinò fino a sovrastarmi. 

-Qualcuno ti ha preso di mira- disse a voce bassa.

-Certo, sei tu- sibilai. Red scosse la testa.

-No, qualcuno di più in alto di me. Stai attenta a come ti comporti. E' già tanto che non ti abbiano revocato il permesso di uscita-. 

E con questo che voleva dirmi? Che sarei finita nei guai? E perché mi stava così vicino?

-Io sono fatta così. Se a qualcuno non vado bene che mi ignori. Non sentirò la sua mancanza-. Red sbuffò.

-Ma che cazzo, Lia! Ti sto facendo un favore dicendoti queste cose e tu lo prendi come uno scherzo? Non sto scherzando. Smettila di fare l'idiota- i suoi occhi si accesero di rabbia. Era bravo a sopportarmi. 

-Okay, grazie dell'avvertimento. Che vuoi in cambio? Non sono una puttana quindi non chiedermi nulla di indecente-.

Era esasperante. Lo guardai dritta negli occhi. Silenzio. Non disse nulla.

-Allora?- lo incalzai.

-Ma possibile che per te sia tutto uno scambio di favori? Non potrei essere solamente gentile?- si lamentò. 

Gentile? Lui? Per poco non scoppiai io a ridere.

-Tu gentile? Dimmi Red, dai della puttana succhia cazzi a tutte le nuove arrivate o solo a me?- chiesi in tono amaro.

-Vuoi delle scuse? E va bene, scusa! Scusami se stamattina ti ho insultata! Scusami tanto. Va meglio così Rose?!- 

Lo aveva detto di nuovo. Il mio secondo nome. Spalancai gli occhi.

-Lo hai detto di nuovo-. Red chiuse subito la bocca e s'irrigidì.

-Cosa?- 

-Il mio secondo nome. Come fai a conoscerlo?- chiesi un po' intimorita. 

Mi guardò dritta negli occhi. Aveva lo sguardo triste, ferito.

-E come faccio a conoscere il tuo numero di stanza? L'ho letto sul tuo foglio di iscrizione. Lia Rose Parker, stanza 317-. Il suo tono non era più provocatorio. Si era addolcito e la cosa cominciava a essere strana.

-Dovrebbero chiudere meglio gli archivi. E tu dovresti farti una sportina di cavoli tuoi ogni tanto. Di sicuro non ti farebbe male-. 

Ecco spiegato il motivo. Era uno stalker.

-Oh credimi se ti dico che sono tutti affari miei-. 

Continuavo a non capire. Che voleva insinuare? Che tutte le ragazze erano sotto il suo comando? Che in realtà era uno sbirro sotto copertura? Il solo pensiero che fosse andato a rovistare tra le carte per trovare la mia scheda mi fece arrabbiare ancora di più. 

-Non sono affari tuoi. Stai fuori dalla mia vita. Tu non centri un cazzo con me e io non ti ho dato il permesso di leggere il mio fascicolo. Ritieniti fortunato che non ti ammazzi per questo-. Lo stavo minacciando. 

Torreggiava su di me ma non me ne poteva fregare di meno. La privacy era privacy.

-Mi stai minacciando?- mi sussurrò.

-Forse. Sparisci dalla mia vita. Tu per me non sei nessuno-. 

Successe qualcosa in quel momento dentro di lui. Potevo capirlo dai suoi occhi. Divennero più tristi. Forse se ne accorse perché staccò gli occhi dai miei.

-Hai ragione Lia. Io non sono nessuno. Buonanotte-. Mi passò accanto e scese le scale sparendo dalla mia vista. 

Rimasi imbambolata per diversi minuti. Ma che gli era preso? E che era preso a me? Alzai le spalle ed entrai in camera. Mi misi a letto e sprofondai nel sonno.

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Capitolo 7
*** Gente che va, gente che viene ***


Il primo giorno era andato. Avevo conosciuto una ragazza abbastanza lunatica e avevo già pestato a sangue un coglione. Non male come inizio.

Qualcuno bussò alla porta. Guardai la sveglia, erano le sette e mezza della mattina. 

 -Chi è?- gridai stizzita. Si stava così bene sotto le coperte. 

-Lia andiamo. C'è lezione oggi- rispose Sofia tutta felice da dietro la porta. 

-Entra ma non rompere-. Mi rigirai sotto le coperte e sprofondai nel vecchio cuscino. 

-Buongiorno splendore. Forza, vestiti altrimenti faremo tardi- disse spalancando la finestra e gettandomi addosso una maglietta. 

Non dissi nulla. Stavo cercando in tutti i modi di reprimere i miei istinti omicidi. Odiavo l'allegria di prima mattina. Nessuno può essere allegro di prima mattina. Mi infilai svogliatamente la maglia e i jeans. 

-Io ho fame e quindi prima faccio colazione- decisi.

Non c'erano storie. Non mangiavo da un giorno e il mio stomaco brontolava come un dannato. Io quella mattina avrei mangiato. Fosse stata l'ultima cosa che avrei fatto. Sofia cominciò a tormentarsi i capelli. Cosa c'era adesso?

 -Se arrivi in ritardo ti tolgono il permesso d'uscita-.

Cosa? Una secchiata d'acqua fredda mi arrivò sulla schiena. Potevano togliermi tutto ma non il mio permesso. Dovevo fuggire da quella gabbia di matti almeno per qualche ora. Gettai un'occhiata alla sveglia. Cazzo, erano già i quarantacinque. Le lezioni cominciavano alle otto. Non sarei mai riuscita ad arrivare in tempo se mi fossi fermata a mangiare. Sospirai delusa. 

-Okay, mangio dopo. Forza, siamo in ritardo-. La presi per un braccio e la trascinai fuori.

Arrivammo appena in tempo. Luca entrò subito dopo di noi.

 -Buongiorno ragazzi. Oggi cercheremo di conoscerci meglio e di non concludere la lezione come la scorsa volta- disse trafiggendomi con lo sguardo. Però, se l'era presa male.

Mi guardai attorno. Red non c'era. Luca poteva stare tranquillo per la sua inutile lezione. In un angolo, in fondo alla stanza stava Alex, l'amichetto senza spina dorsale di Red. Non mi staccava gli occhi di dosso. 

-Sofia, che problemi ha Alex stamattina? Si è incantato?- scherzai. Sofia guardò Alex. Sembrava preoccupata. 

-Tu resta qui, vado a parlargli- e si allontanò. Mentre quei due parlavano di fatti che non mi riguardavano Luca mi si avvicinò. 

-Ciao Lia, com'è stata la tua prima notte al centro?-. E a lui cosa gli importava? Quell'omuncolo non si faceva mai gli affaracci suoi? 

-Benissimo, grazie- e mi voltai. Non avevo intenzione di dargli corda nemmeno per un attimo.

Sofia tornò a sedersi accanto a me. Non sorrideva. Alex le aveva detto qualcosa che a Sofia non era piaciuto. 

-Sofi che hai? Che ti ha detto il bastardo?-. Sofia guardava il pavimento. Accidenti, doveva essere qualcosa di serio. Le toccai la spalla e si ridestò dalla sua trance. 

-Cosa? Scusa Lia non ti ho sentita-. 

-Cosa ti ha detto Alex? E non dirmi niente-. Cominciò a rigirarsi una ciocca di capelli. Bruttissimo segno. 

-Te lo dico dopo- sussurrò svelta. 

-Allora Alex, raccontaci un po' di te- disse Luca sovrastando il brusio. 

-E che dovrei raccontare che lei non sa già? Ha letto tutti i nostri fascicoli. Non le è bastato quello che ci ha trovato dentro?- disse Alex in tono di sfida. Wow, allora sotto, sotto la spina dorsale ce l'aveva. Luca non fece una piega. 

-Consultare i vostri fascicoli fa parte del mio lavoro. Non lo faccio di certo per noia-.

Alex rimase in silenzio. Quel coglione si era tirato la zappa sui piedi. Tutti sapevano che i tutor potevano leggere i nostri fascicoli per capire con che ragazzi avevano a che fare. Povero idiota. 

-Di certo non per noia. Li sceglie molto accuratamente però-. Alex conteneva a stento la rabbia. La lezione si faceva sempre più interessante. 

-Luca se vuoi posso cominciare io a parlare- propose Sofia con voce tremante. I due la guardarono, Alex la fulminò con lo sguardo. Luca sorrise e le fece cenno di cominciare. 

-Beh, sono Sofia Mancini e mi trovo qui perché i miei genitori non ci sono più e mia zia non riusciva più a mantenermi e a sopportarmi- concluse sorridendo. Okay, la ragazza era andata. I suoi erano morti e l'unica parente non la sopportava e lei sorrideva ogni giorno? I miei dubbi divennero certezze. Sofia era pazza. 

-E non vuoi aggiungere altro cara Sofia?- chiese mellifluo Luca. Dio, quando usava quel tono mi saliva il diabete alle stelle. La pazza si agitò sulla sedia. 

-Sai che a noi puoi dire tutto. Sfogati, coraggio- e le appoggiò una mano sulle ginocchia. Sofia tremò. Qui, qualcosa non andava. 

-Senti, se non ha voglia di parlarne è inutile che insisti- sbottai. Alex scosse la testa. Forse la lezione non sarebbe finita con rose e fiori. 

-Lia, le ho solo fatto una domanda. Non c'è bisogno di prendere le sue difese. Non la mangio mica- disse in tono innocente. A me sembrava più viscido del solito. 

-Allora cambia persona. Se le viene in mente qualcosa la dirà la prossima volta-. Il mio ragionamento non faceva una piega. 

-Bene, continua tu. Raccontaci qualcosa di te-. Merda, perché dovevo sempre incasinarmi la vita? Potevo starmene zitta? 

-Okay. Non ho mai conosciuto i miei genitori e, da che ho memoria, sono stata spedita come un pacco postale da una famiglia affidataria all'altra. E non è poi così brutto come si pensa-. Avevo risposto a due domande in un colpo solo. Non male come inizio. 

-E tu sei sicura di non averli mai conosciuti?-. Ma che cazzo! Se li avessi conosciuti avrei avuto dei ricordi. Quanto erano stupidi gli uomini. 

-Certo che non li ho mai conosciuti. Me li ricorderei altrimenti-. Quest'uomo mi stava dando sui nervi. Se avesse fatto altre domande insulse non mi sarei trattenuta.

Fortunatamente una buon'anima suonò la campanella. La lezione era finita. L'aula si svuotò in fretta. Rimanemmo solo io, Sofia e Alex. 

-Allora? Cosa ti ha detto Alex?- richiesi nuovamente alla pazza. 

-Abbiamo un problema. Red è sparito. Alex dorme in camera con lui e stanotte non l'ha sentito rientrare e non risponde al cellulare-. E lei era così preoccupata per lui? Ma andiamo! 

-E quindi? E' adulto, può fare ciò che vuole-. 

-Lia, non è semplice da spiegare. Red ha parecchi problemi di cui non posso parlare. So solo che dobbiamo trovarlo- disse Alex tutto serio. 

-I problemi ce li abbiamo tutti. Si sarà andato a bucare in qualche vicolo e si starà facendo un viaggio o è così sbronzo da non capire nemmeno su che mondo è. Non è un vostro parente quindi non è un vostro problema-.

Che mi importava di quel idiota? Io avevo fame. 

-Lia è sempre un nostro amico. Tu non l'hai mai visto quando è strafatto o ubriaco. Potrebbe fare cose che..- Sofia non finì la frase. Potevo vedere il panico nei suoi occhi. Basta, ero stanca delle loro inutili preoccupazioni. 

-Sentite, se volete andare a cercarlo prego, quella è la strada. Io me ne vado in mensa a vedere che c'è rimasto. Ci vediamo stasera a cena Sofia- mi avviai lungo il corridoio. 

-Lia dovrebbe interessare anche a te!- mi gridò dietro Alex.

Non mi girai nemmeno. Alzai il braccio e gli feci un bel vaffanculo. Che ci pensassero loro a quel delinquente. Io oggi avrei visto il mio. 

In mensa c'era rimasto poco o niente. Sgranocchiai qualche biscotto e andai in segreteria. 

-Dovrei fare una telefonata- dissi nel tono più gentile. La segretaria mi allungò il telefono senza dire una parola. Digitai il numero di Carlos in fretta e furia. Al terzo squillo rispose. 

-Pronto, chi è?- 

-Hombre sono io. Facciamo un giro?-.

Non mi rispose nemmeno. Sentii il rombo della moto appena fuori il cortile. Riattaccai e uscii tutta felice. Eccolo là, con il suo giubbino di pelle e i suoi Ray-Ban. Sembrava quasi figo. Le ragazze gli morivano tutte dietro. Lo abbracciai forte. 

-Lia non ci vediamo da un giorno. Che ti prende?-. Il poveretto era sorpreso del mio abbraccio. Non amavo dimostrare affetto in pubblico. 

-TI racconterò. Andiamo- lo esortai salendo e allacciandomi il casco.

Carlos sfoggiò uno dei suoi sorrisi e partì. Sfrecciammo per tutta la città. Ad un tratto svoltò a destra, in una via più piccola. Sapevo esattamente dove stavamo andando. Ci fermammo davanti a un negozio di gelati. Qui avevano il mio gusto preferito. Cioccolato fondente e Rum. Finalmente cibo! Entrammo e ci sedemmo al solito tavolo. La ragazza prese le ordinazioni e quando io ordinai una doppia porzione a Carlos per poco non venne un colpo. 

-Dios mio Lia! Ma ti danno da mangiare in quel posto?-. 

-Certo che mi danno da mangiare. Sono io che arrivo sempre in ritardo. Hanno orari stranissimi-.

Vidi arrivare la mia doppia porzione di gelato e staccai la spina del cervello. Per un momento mi sentii in paradiso. Il gusto del cioccolato al retrogusto di rum mi fece andare in brodo di giuggiole. 

-Certo niña che non hai un minimo di contegno quando hai del cibo davanti- disse ridendo. Diventai un tantino rossa. Aveva ragione. Io adoravo il cibo. 

-E che mi importa? Mi hai visto in situazioni peggiori- lo rimbeccai scherzando.

Mentre mangiavo mi raccontò di sua sorella che tornava a casa per le vacanze e che mamma Dolores era già in pena per me. 

-Allora, raccontami di questo posto per psicopatici-.

Oh, non poteva nemmeno immaginare che gente girava là dentro. Cominciai a raccontargli del tutor e di Sofia. Di Luca e il suo modo viscido e strano che aveva di comportarsi. 

-E non hai combinato nemmeno un guaio? Non ci credo-. Non gli si poteva nascondere proprio nulla. Mi conosceva troppo bene. 

-Ah si e alla prima lezione ho pestato a sangue uno- dissi con nonchalance.

 -Ora si che ti riconosco. E che ti aveva fatto questo poveretto?- chiese tutto eccitato.

Mi sembrava un bambino intento ad ascoltare la sua storia preferita. Appoggiò il mento sulle nocche e mi guardò con il suo solito sguardo curioso. 

-Beh, mi ha insultata e non si è scusato per essermi venuto addosso in corridoio. La cosa che non ho capito è come faceva a conoscere il mio secondo nome. Ma poi l'ho rivisto la sera, davanti alla mia stanza, e mi ha detto che lo aveva letto sul mio fascicolo. E' uno stalker-. Carlos aggrottò la fronte. Qualcosa gli frullava nel cervello. 

-E come si chiama questo tipo?-. Alzai gli occhi al cielo. No, questa volta me la sarei vista da sola. Non poteva proteggermi sempre. 

-Eh no. Questa volta non te lo dico. Mi arrangio io- dissi decisa. Stavolta non provò nemmeno a controbattere. 

-E va bene. Hai vinto. Arrangiati. Ora andiamo, devo fare delle commissioni con Jorge-.

Non mi era mai piaciuto quel tipo. Guardai distrattamente l'orologio. Cazzo erano già le sei! Avevo promesso a Sofia di mangiare insieme. 

-Senti non è che prima di incontrare Jorge riusciresti a portarmi al centro? Ho promesso a Sofia di mangiare insieme-. Carlos mi prese il mento e mi guardò negli occhi. 

-Per te tutto mi corazón- e mi baciò la fronte. Carlos spinse tanto sull'acceleratore che arrivammo in un battibaleno. 

Scesi di fretta e lo salutai. Sofia mi stava aspettando sulla soglia e la sua faccia non prometteva nulla di buono.

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Capitolo 8
*** Brutti incontri ***


Non avevo voglia di discutere così cercai di ignorarla. Le passai di fianco senza nemmeno rivolgerle uno sguardo ma Sofia mi afferrò il braccio. Mi girai inviperita. Odio quando le persone mi toccano senza il mio consenso. Se non ti calcolo minimamente cosa mi chiami a fare?

-Sofia, non me ne frega un cazzo di quel idiota, okay?- dissi scrollandomela di dosso.

-E’ andato in overdose Lia. Potresti avere la decenza di dirmi almeno “Mi dispiace per il tuo amico” o far finta di fregartene di come io mi senta in questo momento?- sbottò piangendo come una fontana. Stavo quasi per scusarmi ma un pensiero mi frenò.

E a me chi ci pensava? Chi mi tirava su il morale quando ero veramente triste o arrabbiata? Carlos? No, Carlos era solo il mio migliore amico ma molte cose di me non le sapeva e non potrà mai saperle. Non capirebbe. Io sono sempre stata sola. Nessuno mi ha mai aiutato quindi perché io avrei dovuto? Non sono mica Madre Teresa di Calcutta! La guardai con sguardo scocciato. Lei mi fissava con i suoi occhi lucidi e speranzosi di qualche risposta da film melodrammatici e strappa lacrime.

-Mmm.. No, non mi dispiace per Red perché poteva evitarlo. Non posso dispiacermi per una cosa che non mi sfiora nemmeno. In quanto ai tuoi sentimenti non li capisco quindi no, nemmeno questo mi frega. Ora scusami, vado a cena. Puoi venire con me e mangiare qualcosa o rimanere qui e piangere per quel coglione. A te la scelta-. Mi guardò incredula.

Sembrava avesse visto la madonna e tutti i santi partecipare a un rave party. Non disse una parola. Aspettai davanti a lei qualche secondo ma non si mosse. Forse l’avevo un po’ scioccata. Fanculo, alzai i tacchi e andai in mensa.

L’aria che tirava era la solita. Tesa e piena di bisbigli e.. Perché tutti mi stavano fissando? La cosa cominciava a farsi inquietante. Passai tra i tavoli guardando dritta davanti a me. Presi un panino e mi sedetti in fondo. Il tavolo mio e di Sofia. Non mi aveva seguita. Forse non aveva fame o forse non mi voleva più vedere.

Non feci in tempo ad addentare il panino che tre ragazzi si alzarono e mi vennero in contro. E adesso cosa c’è? Erano tre tizi abbastanza alti e ben messi. Non bellissimi ma passabili. Di certo non mi stavano venendo a chiedere il numero di telefono. Dalla faccia sembravano leggermente incazzati con me. Si fermarono davanti al tavolino.

-Sei tu Lia?- chiese uno.

-Chi lo vuole sapere?- chiesi gentilmente addentando il mio panino. Il gelato del pomeriggio ormai era bello che andato. Ero affamata. Il tizio che stava in mezzo si avvicinò ancora di più. Il tavolino fungeva da divisorio.

-Questo non ti deve importare. Abbiamo sentito il discorso che hai fatto a Sofia- disse tra i denti. Si stava trattenendo. Oh, adoro tirare la gente a cemento. Gli altri stavano pian piano uscendo dalla stanza. Le cose si stavano mettendo maluccio. Diedi un altro morso al mio panino. Dio, quanto era buono.

-Ragazzi, sapete che è maleducazione origliare le conversazioni degli altri? E poi a voi cosa cazzo vi interessa? Ho soltanto detto quello che pensavo- sostenni la mia tesi come una professoressa. Calma e sorridendo. Forse è stato il mio falso sorriso a irritarlo.

Il tipo che aveva parlato mi inchiodò al muro con una sola mano. Mi stava soffocando. Senza farmi prendere dal panico gli tirai un calcio nelle palle. Lui gemette e mollò la presa ma gli altri due mi bloccarono tenendomi per le braccia. La situazione stava diventando critica.

-Stupida troia tu non sai ancora come funziona in questo posto. Avresti dovuto essere più carina con Sofia e ora ti aspetta una bella lezione. Non sei tu la cagna a cui piace il sadomaso?- disse guardandomi con sguardo viscido.

Cosa voleva farmi? Finché c’era da picchiare non avevo problemi ma il suo sguardo non mi diceva nulla di simile. L’ansia cominciò ad attanagliarmi lo stomaco. Il tizio mi si avvicinò fino a trovarsi a un palmo dal mio naso. Il suo alito puzzava di formaggio e salame. Dovetti trattenere il respiro per non morire. Cercai di divincolarmi ma i tizi strinsero ancora di più. Potevo sentire dove le loro unghie mi erano entrate sotto pelle.

-E adesso dove vuoi andare troietta?- mi canzonò. Gli sputai in un occhio e lui cominciò a ridere istericamente. Si fermò di colpo e mi tirò un ceffone così forte da girarmi la testa di lato. La guancia mi andava a fuoco. Cercai di non urlare. Faceva un male cane.

-Ne vuoi ancora? Forse questo è l’unico modo per riuscire a metterti in testa chi comanda qui- e me ne tirò un altro. Il labbro cominciò a sanguinare. Strinsi i denti per non gemere.

-Pensavo che il capo della baracca fosse Red-.

-Red non c’è e quindi ora sono io a comandare-. Questa volta mi diede un pugno allo stomaco. Vomitai il mio adorato panino. Le gambe mi cedettero un istante. Poi arrivò il secondo cazzotto. Questa volta urlai.

-Ah, allora non sei poi così dura come dicono- disse in tono trionfante.

-E tu non sei poi così tanto forte se per sottomettere una ragazza hai bisogno dei tuoi amici-. Il cazzotto stavolta mi arrivò dritto in un occhio. La vista mi si appannò. Potevo solo distinguere delle ombre.

-Piccola serpe. Ora ti faccio vedere come so sottomettere una puttana- ringhiò. Qualcosa lo bloccò di colpo e lo fece accasciare. Mi sforzai di capire chi fosse ma vidi solo una chiazza rossa.

-Ne vuoi ancora bastardo? Sei solo un gran figlio di puttana. Girate al largo e sparite dalla mia vista!- . La voce mi era famigliare. I due che mi tenevano ferma mi mollarono e corsero fuori seguiti dal tipo simpatico che mi aveva scambiato per un sacco da boxe.

-Lia tutto bene?- Alex! Ecco chi era. Cercai di rispondere ma vomitai ancora. Cazzo se sapeva darli i cazzotti quel tipo. Mi prese in braccio e mi portò fuori.

-Resta qui. Arrivo subito-. Mi mise su una panchina.

Il marmo mi congelò le chiappe. Cominciava a non esserci caldo. L’estate era ormai finita. Sentii la voce della signora della segreteria discutere con Alex poi dei passi.

-Ti porto via da qui- mi riprese e mi mise un casco in testa. Non ero in vena di fare un giro in moto. Farfugliai qualcosa ma tra gli schiaffi e il cazzotto avevo la faccia gonfia e non riuscivo a parlare.

-Tranquilla, presto starai meglio- disse assicurandomi a sé con una cintura. Partimmo sgommando. Svenni subito dopo essere partiti. 

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Capitolo 9
*** Piccole riflessioni ***


Mi risvegliai in un lettino di ospedale. La vista mi era tornata ma la faccia mi faceva ancora male. Un’infermiera mi stava visitando.

-Salve Lia. Per stanotte rimani qui in osservazione. Sei stata fortunata. Qualche altro pugno e avremmo dovuto operarti. Hai solo una costola fratturata ma guarirai in fretta. Vuoi denunciare chi ti ha fatto del male?- chiese dolcemente stringendosi la cartellina al petto. Era tanto dolce e carina. Mi veniva il diabete solo a guardarla. E chi avrei denunciato? I signori nessuno? Manco sapevo come si chiamavano.

-No signorina. E’ stata solo una scaramuccia- minimizzai.

Ormai la mia cartella clinica parlava da sola. Era ridotta peggio di quelle di un soldato in tempo di guerra. Solo la lista di ossa rotte occupava una pagina.

-Va bene tesoro. Come vuoi. Ci vediamo domani-. Il suo sorriso era pacifico e tranquillo. Tipico delle infermiere.

-Posso restare con lei?- chiese Alex. Non mi ero nemmeno accorta che fosse nella stanza. L’infermiera mi guardò e poi guardò lui.

-E’ un amico. Non mi farà del male- dissi sforzandomi di sembrare gentile. L’infermiera annuì e uscì dalla stanza. Mi girai verso Alex.

-Chi cazzo erano quei bastardi?- gli chiesi schiumando di rabbia. Dio, se solo l’omicidio non fosse un crimine! Alex era scuro in volto. Silenzio.

-Che c’è? Anche tu ce l’hai con me per come ho risposto a Sofia?- gridai. Niente, silenzio assoluto. Alzai gli occhi al cielo e mi sdraiai sul lettino.

-Tu non ti rendi conto, vero?- parlò alla fine Alex.

-Di cosa dovrei rendermi conto?-.

-Tu non ti rendi conto che ogni volta che apri bocca senza pensare ferisci la gente. Non ti importa nemmeno delle conseguenze che hanno certe tue risposte. Ti metti nei guai solo perché non sai frenarti- era partito con la paternale.

-Senti Alex..- non mi fece parlare.

-Dio Lia! Così ti farai ammazzare! Se solo tu riuscissi a esprimerti con un po’ più di tatto forse potresti addirittura avere degli amici. Perché fai la scontrosa con tutti?- il suo tono lamentoso non mi piaceva affatto.

Io ero così e basta. Non avevo tatto ed ero molto diretta. Okay, forse a volte esageravo un po’ ma non potevo farci nulla.

-Alex tu non puoi capire..- cominciai la frase ma mi fermò.

-Già, io non posso capire. Come non posso capire perché il mio migliore amico si sia sparato in vena così tanta roba da quasi ucciderlo. Non si faceva da quasi sei mesi. Poi arrivi tu e tutto cambia-.

Ah, ecco. Ora era colpa mia se il deficiente si era drogato. Era colpa mia se i tizi mi avevano pestato ed era colpa mia se Sofia era troppo emotiva o se Alex era ancora sveglio a quell’ora di notte.

-Mi fai parlare o no?! Primo non ti ho chiesto io di portarmi in ospedale, secondo non è colpa mia se quel drogato di Red si è quasi ucciso e terzo, se Sofia è così emotiva forse dovrebbe farsi vedere da uno bravo. Il mondo non è affatto gentile. E’ perfido e infimo. Io sono così proprio per evitare di stare male- conclusi. Alex mi guardò con occhi tristi e pieni di rancore

-E ci riesci? Riesci a non soffrire mai? Riesci a sentirti in pace con il mondo? A sentirti bene con te stessa?-.

Ma chi era? Uno psicologo? La discussione stava prendendo una piega che non mi piaceva per niente. Guardai l’orologio. Erano le undici e mezza. Alex non se ne sarebbe andato e io dovevo sopportarlo per almeno altre nove ore. La notte sarebbe stata molto lunga. Non risposi alle sue domande. Non avevano importanza per me e non aveva il diritto di sapere.

Restammo in silenzio per svariati minuti. Nessuno dei due guardava l’altro.

-Ce la fai ad alzarti?- mi chiese improvvisamente. Mi sedetti sul letto e provai ad alzarmi. Le gambe non mi tenevano e le fitte all’addome mi fecero trattenere il respiro dal dolore.

Alex prese una sedia a rotelle e mi ci adagiò sopra. Attaccò la sacca della flebo all’apposito supporto e mi portò fuori. C’era un sacco di gente tra infermieri e pazienti. Il pronto soccorso era gremito. Svoltammo a destra e prendemmo l’ascensore. Nessuno fece caso a noi. Percorremmo vada corridoi e alla fine arrivammo al reparto di terapia intensiva. Stanza numero 26.

-Guarda- disse trattenendo le lacrime. Red era steso sul lettino attaccato a un respiratore. Era in coma.

-I medici hanno detto che se passa la notte e si sveglia è salvo, altrimenti è spacciato-. Aprì lentamente la porta e mi spinse dentro.

Non sapevo cosa provare. Era un misto di tristezza e pietà. Ora non faceva più il gradasso con me. Era un ragazzo come gli altri. Non sembrava più lui. Dormiva pacifico. Il cuore batteva a ritmo regolare. Quel bip mi ipnotizzava. Mi sembrava di essere in un sogno.

Ad un tratto ebbi un flash. Una stanza di ospedale con qualcuno dentro e qualcuno affianco a me mi teneva per mano chiamandomi per nome. Scossi la testa.

-Qualcosa non va?- chiese prontamente Alex. Non lo sapevo. Era stato strano.

-Si tranquillo. Va tutto bene-. Non riuscivo a staccare gli occhi dal corpo di Red. Qualcosa dentro di me si sbloccò.

-Posso restare sola con lui un attimo?- chiesi. Alex mi guardò incerto. Di cosa aveva paura? Che dessi la grazia al suo migliore amico? Andiamo, non ero così spietata.

Dopo qualche incertezza annuì e uscì dalla porta. Le parole di Alex mi giravano per la testa “se non si sveglia è spacciato”. Volevo davvero che morisse? Se non ci fosse stato più con chi avrei litigato? Con i ragazzi sleali di qualche ora fa? E perché non aveva reagito quando lo avevo pestato? E perché sapeva il mio secondo nome? La storia della segreteria mi sembrava una balla. La tipa non si staccava mai da quella sedia. Troppe cose non mi andavano. Feci un sospiro e mi appoggiai sul letto.

-Ehi, so che non ci conosciamo ma per favore, svegliati. Con chi litigherò poi? E non pensi ad Alex e Sofia? E che cazzo Red, la spietata e perfida tra noi due sono io. Svegliati deficiente!- e gli diedi un buffetto sulla guancia. Era ruvida, segno che gli stava ricrescendo la barba.

Appena gli toccai la guancia presi la scossa. Eravamo del tutto incompatibili. Lo guardai per alcuni istanti e poi mi riappoggiai sul letto. Cominciavo ad avere sonno. Forse mi addormentai un attimo. Qualcuno mi toccò un braccio.

-Alex lasciami in pace- dissi mezza addormentata. Guardai meglio ma Alex non c’era. Stava ancora sulla porta. Mi guardai il braccio e sgranai gli occhi. Mi girai lentamente.

Red mi stava guardando. 

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Capitolo 10
*** Non dirlo in giro ma.. Grazie ***


Ero come pietrificata. Lo guardavo con occhi sgranati. E adesso? Poi tornai me stessa. Mi staccai dal letto e andai a chiamare Alex.

-E’ sveglio- dissi con nonchalance. Alex  dovette far scontrare i suoi ultimi due neuroni rimasti per capire quello che avevo detto. Ora capisco perché lo avevano mandato in istituto. Era un ritardato.

-Cos.. Cos’hai detto?- mi chiese balbettando. Si, si. Era davvero ritardato. Alzai gli occhi al cielo.

-Ho detto che quel coglione del tuo amico è sveglio- e indicai Red per essere sicura che capisse.

Certi ragazzi sono peggio dei bambini. Alex si precipitò nella stanza, si accasciò affianco al letto e pianse. Sembrava le cascate del Niagara. E ora che si faceva? Dovevo chiamare qualcuno? Se ci avessero beccati a bazzicare a quest’ora di notte ci avrebbero sicuramente cazziato. Cercai di pensare a un modo intelligente per chiamare qualcuno. Ad un tratto mi venne un lampo di genio. Mi spinsi nella stanza e cercai di comunicare il mio piano ad Alex. Stava ancora piangendo e farfugliava qualcosa.

-Alex, dobbiamo avvisare i medici-. Cercai di essere il più carina possibile. Mi guardò e si asciugò le lacrime.

-Hai ragione ma come facciamo? Se ci beccano sono guai-. Guardai Red e poi Alex. Davvero non aveva un piano? Sbuffai e mi avvicinai all’orecchio del bell’addormentato

-Tu resta sveglio. Se ci dovessero beccare, appena ti rimettono in piedi, finisco io quello che non sei riuscito a portare a termine, capito?- dissi a Red. Intravidi un sorriso sulle sue labbra o forse stava solo cercando di dire qualcosa.

-Pronto a correre? Dobbiamo prendere il primo ascensore- dissi ad Alex.

-Ho capito ma cosa vuoi fare?- disse alzando le spalle guardandomi incuriosito. Perché Dio mi aveva mandato un essere così inutile?

-Chiamo i medici- dissi suonando la campanella d’emergenza. Il rumore era assordante. Alex mi spinse fino all’ascensore e lo prendemmo al volo.

Un attimo prima che le porte si chiudessero vidi un’infermiera e due medici correre in corridoio. Il piano aveva funzionato. Tornammo nella mia stanza in silenzio. Appena chiuse la porta ci cacciammo a ridere come due pazzi. Era stata una bell’avventura notturna e soprattutto, ce l’avevamo fatta.

-Grazie Lia- disse tra le risate. Smisi di ridere di botto.

Perché mi ringraziava? Non avevo fatto nulla di speciale. La cosa mi mise a disagio. Forse perché nessuno mi aveva mai ringraziata davvero. Carlos me lo diceva sempre ma sapevo perfettamente che non era vero. O forse no? Non avevo mai dato peso a quella parola. Nel mio vocabolario non esisteva perché non mi era mai servita. Cominciai a tormentarmi il labbro. Dovevo cambiare discorso e subito.

-L’ho fatto così almeno tu e Sofia la smettete di rompere le palle. Diciamo che è stata un’opera di carità che non si ripeterà più- misi in chiaro le cose. Sentii ancora in bocca il sapore del sangue. Mi ero tolta involontariamente i punti e la ferita aveva ricominciato a sanguinare. Alex se ne accorse e prese un pezzo di garza. Stava per tamponarmi la ferita ma gli strappai dalle mani la garza.

-Faccio io. Non sono una bambina-. Fece una smorfia d’indifferenza e si sedette sul letto. Avevo una repulsione innata per il contatto fisico. Potevo sopportarlo solo quando litigavo o lo volevo io. Mi metteva a disagio.

-Non è ora di dormire?- mi chiese sbadigliando. Nella sua voce c’era una sfumatura di dolcezza. Guardai l’ora. Erano quasi le tre. Dovevo togliermelo dai piedi. Avevo passato anche troppo tempo insieme a lui.

-Hai ragione. Notte- dissi tentando di alzarmi da sola. Una fitta allucinante mi tolse il respiro.

-Posso metterti a nanna? Giuro che non tocco nulla di quello che non devo toccare- scherzò Alex alzando le mani in segno di resa. Annuii e mi lasciai mettere a letto. Lui si sedette sulla poltrona affianco a me e chiuse gli occhi.

-Alex?- lo chiamai sottovoce.

-Si Lia?- ribatté senza aprire gli occhi.

-Non dirlo in giro ma.. Grazie-. Lo vidi sorridere.

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Capitolo 11
*** Fastidiosi imprevisti ***


L’infermiera ci svegliò alle otto e mezza. Con gli occhi ancora impastati di sonno guardai in direzione di Alex. Era mezzo spettinato e la maglietta era tutta stropicciata.

-Buongiorno ragazzi. Allora Lia, come ti senti oggi?- mi chiese tutta allegra. Ma come faceva ad essere allegra a quell’ora? Mi misi a sedere. Le fitte non erano passate ma erano migliorate. Non mi facevano più così male.

-Meglio, non fa male come ieri sera- dissi sbadigliando rumorosamente. Lei scrisse qualcosa sulla mai cartella e sorrise.

-La colazione arriverà fra poco ragazzi. Intanto Lia, puoi vestirti. Ti dimettiamo-. Grazie a Dio!

Odiavo gli ospedali. Ci passavo sempre un sacco di tempo. Ormai lo conoscevo a memoria. Se non era per me era per Carlos o uno dei suoi amici. Mi guardai attorno alla ricerca dei miei vestiti.

-Cerchi questi?- Alex me li sventolò davanti agli occhi. Erano stropicciati fino alla morte.

-Mi ci sono addormentato sopra, scusa-. Il nervoso mi salì alle stelle. Ma non guardava dove si buttava? Ah, giusto, è un po’ ritardato. Li presi senza dire nulla. Mi infilai i pantaloni con fatica.

-Girati. Devo mettermi la maglia-. Alex si girò facendo mani in alto.

-Mi dica lei quando girarmi signorina Parker-. Dopotutto non era così malaccio. M’infilai la maglietta di fretta. Lo guardai ancora un po’.

Non era mica un brutto ragazzo. Capelli arruffati e scuri, due occhi profondi come l’oceano e un corpo atletico. Dopotutto non ero l’unica a tenermi in esercizio scappando dalla polizia.

-Fatto- esclamai. Si girò lentamente tenendo gli occhi chiusi. Almeno era leale. Ne aprì uno lentamente e poi l’altro.

-Pensavo fosse una prova- scherzò. La colazione arrivò assieme al mio foglio di via. Spazzolai tutto quanto. Avevo una gran fame. Alex avrebbe mangiato all’istituto. Mi pulii la bocca e uscii dalla stanza. Mi stavo già incamminando verso l’uscita quando Alex mi chiamò.

-Io vado a vedere Red. Vieni anche tu?-. Stava scherzando? Davvero me lo stava chiedendo? Ma per favore! Lo guardai in faccia con una smorfia. Alex alzò le spalle e andò nella direzione opposta.

Non potevo chiamare Carlos, avrebbe voluto solo delle spiegazioni e si sarebbe messo nei guai. Camminai su e giù per l’atrio fissando l’orologio. I minuti passavano lenti. Era da ormai quasi mezz’ora che Alex era andato a trovare Red. Ne avevo abbastanza. Presi l’ascensore e salii.
Quando le porte si chiusero mi guardai allo specchio. Ero conciata maluccio. L’occhio destro era violaceo e un po’ gonfio e il labbro gonfio e rosso. Almeno non avrei dovuto mettere il rossetto per quella settimana. Le porte si aprirono e andai verso la stanza 26. Un’infermiera mi bloccò.

-E tu che ci fai qui? Non sono ammessi visitatori. Solo i famigliari- disse in tono di rimprovero. Io volevo solo tornare all’istituto per farmi una doccia e dormire.

-Ah eccoti qui. Stia tranquilla, è mia sorella- disse Alex alle spalle dell’infermiera. Guardò me e poi Alex.

-Fratellastri, stesso padre- aggiunse.

-Siete in tanti in famiglia- bofonchiò lei. Cosa voleva dire? Feci un rapido calcolo. Ecco come Alex aveva potuto vedere Red! Allora funzionava ancora la lampadina del suo cervello! Non dissi nulla per non metterlo in difficoltà.

-Vieni, saluta nostro fratello che poi andiamo-. Il suo tono da fratello maggiore mi diede sui nervi. Non ce lo vedevo proprio a farmi da fratello maggiore. Gli andai incontro ed entrammo nella stanza di Red.

-Alex, ti vuoi dare una mossa? Voglio andare a farmi una doccia!- gli urlai in faccia entrando.

-Con chi hai fatto a botte?!- chiese immediatamente Red con voce dura e roca. Mi girai a guardarlo. Il suo sguardo era pieno di rabbia. Ma possibile che ce l’avesse sempre con me?

-Non sono affari tuoi - dissi rivolta a Red - Andiamo per favore?-.

-Lia, chi è stato?- mi ringhiò contro. Stavo perdendo la pazienza. Anzi, l’avevo già persa in atrio venti minuti fa.  

-Ma che cazzo ne so! Amichetti tuoi all’istituto-. Ma perché mi stava facendo il terzo grado? Mica era mio padre!

-Sono stati Niko e i suoi amici. Sai che quando non ci sei fanno quel cazzo che gli pare-intervenne Alex. Red tacque di colpo, smise persino di guardarmi. Strinse i pugni fino a farsi scrocchiare le nocche.

-Non impari mai la lezione, vero? La prossima volta potrebbe andarti molto peggio- 

-E a te che cazzo te ne frega? Te l’ho detto, stai fuori dalla mia vita!- gridai. Con uno scatto Red mi prese la maglietta e mi avvicinò alla sua faccia. I nostri nasi si sfioravano.

-Ascoltami bene ragazzina, ci sei dentro fino al collo quindi ora smettila di fare la bambina viziata, dacci un taglio con le risse e, per favore, tieni a bada la tua lingua biforcuta vipera che non sei altro-.  Ah, se non avessi avuto la costola incrinata! Erano stati loro a venire da me e a mandarmi all’ospedale e non ero una bambina viziata!

-Smettila di chiamarmi bambina viziata. Sei solo fortunato che io non pesto gli infermi e te lo ripeto ancora una volta; resta fuori dalla mia vita che tu per me non sei nessuno- sibilai a denti stretti. Un lampo gli illuminò gli occhi. 

-Se davvero non sono nessuno per te allora come mai ieri notte sei stata affianco a me?-. Già, perché? Rimasi in silenzio per qualche istante.

-Perché mi facevi pena ma poi me ne sono pentita. Ti sei messo tu in questa situazione, tu hai fatto il coglione quindi perché provare pietà quando mi fai solo schifo?-. Le mie parole lo ferirono in qualche modo perché mi lasciò andare senza guardarmi in faccia.

-Bene, allora lo schifo ti saluta. Alex portala in istituto. Io e te ci vediamo appena esco di qui-. Il sangue mi ribolliva nelle vene. Mi spintonò fino all’ascensore. Potevo percepire tutto il suo disgusto nei miei confronti. Quando entrammo in ascensore mi chiese schifato
-Devi proprio sputare veleno su tutti?-.

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Capitolo 12
*** Ansia ***


Non lo ascoltai nemmeno. Ero stanca di essere chiamata vipera da persone che nemmeno mi conoscevano. Aveva ragione Carlos quando mi diceva che le persone giudicano senza nemmeno pensare alle conseguenze delle loro parole. E di giudizi ne avevo ricevuti abbastanza per oggi.

Arrivati all’istituto m’infilai in camera di corsa. Non volevo sentire nessuno. Feci una doccia veloce e mi buttai sul letto. Cazzo! Mi ero dimenticata di essere mezza rotta. Presi il cellulare e cominciai a sfogliare la rubrica. Avevo bisogno di parlare con qualcuno. Carlos? Se mi avesse vista conciata così avrebbe messo a ferro e fuoco l’istituto. Non potevo rischiare. Eva, la sorella di Carlos? Nah, lei era all’università. L’unica della sua famiglia a non aver mai preso una denuncia. Meglio che rigasse dritto. La sfogliai nuovamente. Nomi di persone più o meno amiche o gente che non sentivo più da una vita. Troppe cose erano cambiate per poter tornare indietro. Avevo ancora i numeri di qualche famiglia che mi aveva ospitato. Le cancellai immediatamente. Non potevo permettermi di pensare al passato e agli errori che avevo commesso. Scocciata buttai il telefono a terra. Qualcuno bussò alla porta. Sbuffai.

–Lia! So che sei lì. Me lo ha detto Alex!- strillò Sofia dietro la porta. Non mi mossi. Era l’ultima persona che volevo vedere. Bussò di nuovo, più forte.

–Vattene! Non voglio parlare con te!- le urlai dietro coprendomi la testa con il cuscino.

–Mi dispiace per quello che è successo! Non volevo!- e cominciò a piangere. Ringhiai di rabbia. Ero tentata di aprire ma si stava troppo bene a letto.

–La prossima volta che hai un problema con me, me lo vieni a dire in faccia! Non mandi i tuoi stupidi amici ad ammazzarmi di botte-. Calò il silenzio. Non sentivo più niente. Aveva smesso di piangere ma sapevo che era ancora lì, potevo scorgere la sua ombra da sotto la porta.

–Botte? Chi.. chi è stato?- mormorò così piano che quasi non la sentii.

–Vallo a chiedere ai tuoi amichetti. E ora lasciami in pace!- Finalmente se ne andò. Non avrei potuto vederla senza spaccarle la faccia. Mi salirono le lacrime agli occhi dalla rabbia. Porca puttana!

Ogni volta che pensavo di aver trovato un’amica, questa si rivelava uno schifo di persona. Era sempre stato così, fin dal primo giorno in casa famiglia. Dopo anni passati a piangere e a prendermela con me stessa, finalmente mi svegliai e cominciai a trattarle esattamente, se non peggio, come mi avevano trattato loro. Da quel momento ci avevo preso gusto e non mi ero più fermata. Carlos fu l’unico a non trattarmi di merda. Il ricordo di quando diventammo amici mi passò davanti agli occhi. Io stavo piangendo dietro le scale della casa famiglia e lui si è seduto affianco a me e mi ha abbracciato, senza dire una parola. Avevo dieci anni.
Mi accorsi che stavo piangendo come una fontana. Il cuscino era zuppo. Lo girai e chiusi gli occhi. Mi addormentai di botto.

Sognai una cameretta con i muri bianchi, due lettini e un morbido tappeto colorato. Due bambini che giocavano al centro con qualcosa di morbido e blu. Ridevano a crepapelle. Erano felici. Mi svegliai di soprassalto. Poteva essere un ricordo? Era così vivido. Così.. reale. Qualcosa di blu, perché mi era tanto famigliare? Guardai l’ora. La sveglia sul comodino segnava le sei e mezza. In quel momento il mio stomaco brontolò.

A malavoglia scesi dal letto, indossai una felpa con cappuccio e un paio di jeans. Ripescai il cellulare da terra e schiusi la porta. Andai a sbattere contro qualcuno.

–Ahi! Ma che cazz..- ma perché la gente non stava attenta a dove andava?

–Scusa, ero venuto a chiamarti per la cena- ancora lui? Alzai la testa. Ero praticamente spalmata su Alex. Visto da quella prospettiva non era per niente male. Mi staccai immediatamente. Non potevo pensare a quelle cose.

–Non sei il mio babysitter. Stavo scendendo- non sapevo cosa dire. Volevo davvero giocarmi anche la sua amicizia? Dopotutto era stato gentile con me.

–Ah, okay- bofonchiò voltandosi. Forse ero stata un tantino acida. Non aveva tutti i torti Carlos quando mi dava del barattolo di yogurt scaduto. Alex se ne stava andando. E ora che faccio?

–Ehi, aspettami- dissi correndogli dietro. Mi sentii una stupida ma misi l’orgoglio da parte. Si voltò guardandomi come se fossi un alieno. Cavolo, ero umana anche io! Lo affiancai.

–Andiamo?- chiesi senza guardarlo in faccia. Mi sentivo a disagio. Lui alzò le spalle e si avviò giù per le scale. In mensa tirava la solita aria. Gente che parlava dei fatti propri o che si urlava addosso. Quando entrammo tutti si girarono a guardarmi. Odiavo essere al centro dell’attenzione di così tanta gente.

–Beh? Che avete da guardare? Volete una foto?- chiesi acida. La gente a volte è così irritante. Tutti tornarono a farsi i cazzi propri. Alex prese da mangiare e ci sedemmo in un angolo. Mi avventai sul cibo come se non mangiassi da giorni.

–Cavolo Lia, non hai mangiato a pranzo?- chiese in tono, forse schifato? Non ero mai stata attenta all’etichetta o galateo. Mi pulii la bocca con il tovagliolo per darmi contegno.

–No, dormivo- . Adocchiai un pezzo di cotoletta nel suo piatto.

–La mangi quella?- gli chiesi facendo gli occhioni e tenendo la forchetta già pronta. Alex sbuffò divertito e mi allungò il piatto. Non me lo feci ripetere due volte. Spazzolai tutto.

–Dimettono Red- Per poco non mi strozzai. Di già? Tossicchiai e bevvi un lungo sorso d’acqua. Se voleva farmi fuori c’era quasi riuscito.

–Non è troppo presto? Ha rischiato di rimanerci secco- non volevo che tornasse.

–E’ maggiorenne. Ha firmato le carte d’uscita- disse alzando le mani. E io che pensavo che i guai se ne fossero andati.

–E quando torna?-

-Domani-. Domani? Non avevo voglia di tornare a litigare di nuovo. Un po’ di tranquillità non si poteva avere? Mi era persino passata la fame.

–Lia dai, non fare quella faccia. Se proprio non lo sopporti, evitalo. La struttura è grande e tu non hai l’obbligo di frequentazione dei corsi- mi disse alzando gli occhi al cielo. Io non ne ero così convinta. Dopotutto non era la prima volta che mi veniva a cercare. Mi guardai attorno. Avevo bisogno di passare una notte fuori da questo posto. Un’ultima notte di libertà. 

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Capitolo 13
*** Ultima notte di libertà ***


Vidi Sofia seduta ad un tavolo con quattro ochette tutte trucco e vestiti. Non ce la vedevo proprio a parlare della nuova collezione di questo e quel altro. Potevo riallacciare una sottospecie di rapporto con lei? Tanto valeva provarci. Mi alzai senza dare retta ad Alex. Mi avvicinai al loro tavolo. Sofia era evidentemente in difficoltà. Si vedeva lontano un miglio che non s’intendeva di quella roba.

–Posso parlarti?- le chiesi. Le altre mi squadrarono dalla testa ai piedi. Non sembravano contente di vedermi. Problemi loro. Sofia era sorpresa ma prese al volo l’occasione di andarsene. Appena fummo fuori dalla mensa cominciò con tutti gli scusa possibili. La fermai

–Sofia, okay, ti scuso. Dopotutto ho fatto di peggio. Ho bisogno del tuo aiuto-.

–Cosa ti serve?- chiese con voce triste. Ma che aveva quella ragazza? L’avevo perdonata. Bah.

-Ho bisogno di uscire da qui. Passare una notte fuori-. Per poco non le uscirono gli occhi dalle orbite. Non era un buon segno. –Lia.. Non puoi uscire domani?- chiese sommessamente. Non aveva tutti i torti. Ma le pareti mi stavano soffocando. Non ero mai stata alle regole di qualcuno e, se proprio dovevo rimanerci fino alla maggiore età, dio speriamo di no, volevo passare un’ultima notte a modo mio.

–Non te lo chiederei se non fosse importante. Ci sarà pure un modo per uscire di qui senza essere visti-. La guardai implorante. Ci pensò su per un tempo decisamente troppo lungo. Poi cedette.

–Beh, un modo ci sarebbe. Ma devi promettermi che tornerai per colazione-. Sembrava una mamma chioccia.

–Ma si dai, non ti preoccupare. Ora, fammi vedere questa via d’uscita-. Senza dire altro Sofia si avviò lungo un corridoio. In fondo c’era uno stanzino per le scope. Scassinò la serratura ed entrammo. Bene, una cosa buona la sapeva fare.

–Chi ti ha insegnato a scassinare le porte?- le chiesi curiosa.

–Se te lo dicessi non saresti tanto contenta- ribatté in tono scherzoso. Mi rannuvolai. Red, ecco chi era stato. Andò alla piccola finestra. L’aprì senza fatica. Un venticello fresco entrava e mi accarezzava il viso. Libertà.

– Grazie, Sofia - le dissi scavalcando a fatica il davanzale.

-Torna per colazione e non lo dirò a nessuno- replicò. Appena toccai  terra corsi a perdifiato tra le vie della città. Chiamai Carlos.

–Dove sei?- gli chiesi con il fiatone.

–Lia, tutto bene?-. Ma perché doveva sempre fare domande? Non poteva semplicemente rispondere?

–Si, dove sei?- dissi stizzita.

–Al locale-. Chiusi la chiamata.

Camminai tra le viuzze e i vicoli stretti che nessuno conosceva. Dopo mezz’ora arrivai al locale. Non era un granché ma l’alcool era buono. Entrai. Le pareti erano ingiallite dagli anni di fumo, sedie di diverse misure e generi. Carlos era seduto al bancone. Davanti a lui un bicchiere di Jack Daniel’s.

–Ehi Lia, che ti è successo alla faccia?- chiese Jurij, il barista tanto carino. Carlos si voltò.

–Ma che cazzo ti hanno fatto in quel posto di merda?- Era evidentemente arrabbiato.

–Ma niente. Ho litigato con dei ragazzi- minimizzai agitandogli una mano davanti alla faccia. Presi il suo bicchiere e buttai giù tutto di un colpo.

–Lia! Quello era mio!-Si era già dimenticato della mia brutta faccia. –Jurij, fanne un altro e portami un gin tonic- dissi ridendo.

–Sai che non dovrei darti da bere, vero? Sei ancora minorenne- disse Jurij versando il liquore nel bicchiere.

–Ma vai a farti fottere!- risposi indietro.

–Molto volentieri se vieni anche tu-. Solo perché avevamo avuto una piccola storia non voleva dire nulla.

–Jurij! Dalle da bere e stai zitto- ringhiò Carlos. Adoravo quando faceva il geloso. Senza proferire parola Jurij mi allungò il bicchiere. Buttai tutto giù d’un fiato.

-Cazzo Lia, deve essere proprio uno schifo quel posto- constatò Carlos. Oh, non poteva nemmeno immaginarlo. Non volevo pensare al domani. Stasera era la mia serata.

–Shh.. Non parliamo di dove sto per ora. Piuttosto, come vanno gli affari?- gli chiesi appoggiando la testa sulla sua spalla. Era la mia posizione preferita e soprattutto comoda.

–Bene diciamo. Ho fatto su un bel gruzzoletto. In stazione si fanno affari- disse felice.

–Bene, allora dobbiamo festeggiare. Jurij, un altro giro, di quello che ti pare- esordii.

–Ma certo principessa, tutto quello che vuoi-. Non guardai nemmeno a quello che mi aveva versato nel bicchiere. Brindammo e buttai giù. L’alcool scendeva bruciandomi la gola. Era una sensazione piacevolissima.
La testa era leggera e i pensieri erano spariti. Verso il quinto giro Carlos mi cinse la vita e andammo a fare un giro.

–Ma come fai a sopportarmi Carlos?- gli chiesi strisciando le parole. Lui sorrise. Aveva un bellissimo sorriso.

–Perché io e te siamo simili, Lia. Sei la mia piccolina. Non potrei mai abbandonarti- mi sussurrò all’orecchio. Eravamo mezzi sbronzi. Un brivido mi scese lungo la schiena. Era una cosa buona, no?

–Fumiamo?- chiesi buttandogli le braccia al collo. I nostri corpi erano appiccicati, potevo sentire il suo respiro su di me. Mi abbracciò stretta.

–Tutto ciò che vuoi mi corazon-. Aveva il respiro corto. Faceva un caldo pazzesco. Andammo in un parchetto abbandonato e ci sdraiammo sull’erba. Com’era fresca. Carlos tirò fuori dalla tasca la canna già rollata. L’accese e me la passò. Il fumo mi riempì i polmoni. I pensieri si spensero del tutto. Mi sembrava di volare.

–Non fa caldo?- chiesi un po’ troppo entusiasta. Eravamo a metà settembre ma l’estate non se ne voleva andare. Cominciai a togliermi la felpa.

–Ma che fai Lia?- chiese Carlos ridendo.

–Mi tolgo la felpa perché ho caldo. Tu non hai caldo?- gli chiesi avvicinandomi. Eravamo a un palmo dal naso. Gli occhi di Carlos erano due pozze scure.

–Abbastanza- e si tolse la maglia. Erano rare le volte che si faceva vedere mezzo nudo da me. Feci scivolare un dito sugli addominali scolpiti. Non li avevo mai visti da così vicino. Carlos inspirò forte. Mi prese la mano e la strinse.

–Cosa stai facendo?-mi chiese ansimando. Lo guardai dritto negli occhi. Qualcosa dentro di me, nel profondo, mi diceva di smetterla, di andarmene. Non gli diedi retta. Fu un attimo. Mi attirò a se e mi baciò, intensamente. Non feci resistenza. Dopotutto era il mio migliore amico. Mi strinse forte. Le sue mani scivolarono lungo la schiena e s’infilarono nei jeans. Si staccò di colpo.

–Sei sicura?- mi chiese.

–Di cosa?- dissi baciandogli il collo. Ero fuori controllo.

–Cazzo Lia!- mormorò. D’un tratto le sue mani non erano più sul mio fondoschiena. L’aria fredda mi fece rabbrividire.

–Carlos?- chiesi confusa. Si era voltato di spalle.

–Non così mi corazon- . Ma cosa stava dicendo? Non stavo facendo nulla di male, no? Ad un tratto quel qualcosa che urlava dentro di me esplose. Vomitai anche l’anima. Carlos si mise la maglietta e quando finii di vomitare mi mise la felpa.

–Andiamo a casa-. Mi prese in braccio e io chiusi gli occhi.

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