Revolution

di Darkrystal Sky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PREMESSA ***
Capitolo 2: *** Il Portavoce di Dio ***
Capitolo 3: *** Colui che sfidò il sole ***
Capitolo 4: *** Il Corpo di un Peccatore ***
Capitolo 5: *** La Città dell'Eresia ***
Capitolo 6: *** Mamma ***
Capitolo 7: *** Percorsi ***
Capitolo 8: *** Determinazione ***
Capitolo 9: *** Obiettivi ***
Capitolo 10: *** La Città Fantasma ***
Capitolo 11: *** I falsi fratelli Elric ***
Capitolo 12: *** AM ***
Capitolo 13: *** Il Giuoco delle Parti (Atto Primo) ***
Capitolo 14: *** Il Giuoco delle Parti (Atto Secondo) ***
Capitolo 15: *** ART - PART 1 ***



Capitolo 1
*** PREMESSA ***


Premessa (leggere per favore)

Revolution è una fanfiction crossover che esplora il concetto di Alternate Universe What If partendo da un presupposto molto semplice: e se in certi ruoli ci fossero state persone diverse, come si sarebbe svolta in modo diverso la storia?

Eccetto Edward, Alphonse, Roy Mustang e pochi altri, tutti i ruoli principali o secondari in questa fanfiction sono stati attribuiti a personaggi che originariamente appartenevano ad altri fandom. Ora, non scoraggiatevi leggendo il primo capitolo, pensando che questa sia semplicemente una novellizzazione del primo anime (2003) con i nomi cambiati: andando avanti a leggere noterete come gli eventi e le conclusioni vengono stravolti da questi cambiamenti e molto presto (dal nono capitolo) gli avvenimenti saranno tanto diversi che la trama originale sarà appena discernibile.

In questa fanfiction non ci sono Original Characters, tutti i personaggi che non appartengono al mondo di Fullmetal alchemist provengono da uno dei seguenti anime/manga:
  • CLAMP universe
  • D.GRAY-MAN
  • HELLSING
  • TRINITY BLOOD
  • SOUL EATER
  • PANDORA HEARTS
  • PUELLA MAGI MADOKA MAGICA
  • BLEACH
  • 07-GHOST
Tuttavia, per apprezzare questa storia non serve conoscere le opere originali, addirittura oserei dire che non serve nemmeno conoscere Fullmetal Alchemist, perché è il mio obiettivo scrivere una storia a se stante che possa essere compresa anche dal lettore casuale. Per chi invece conosce le opere originali, è importante notare che la maggior parte dei personaggi sono versioni alternative di loro stessi, traslati nel mondo di Fullmetal Alchemist. Pochi di loro, invece, sono veri e propri crossover.
In ogni caso, una ricerca su Google Immagini basta per farsi un'idea di come il personaggio appare (tranne pochi personaggi di cui abbiamo cambiato o non menzionato il nome, la cui identità sarà rivelata in seguito).

Infine, una piccola nota: Revolution è una storia in evoluzione: ovvero, i capitoli già pubblicati potrebbero essere soggetti a variazioni. Vengono pubblicati blocchi di capitoli (4 o 5 capitoli, uno al giorno) ogni "pochi" mesi, in quanto la mia beta-reader legge a blocchi per avere una visione completa di ogni arco narrativo.

Vi invito a leggere e recensire: questa sciocca fanfiction è un progetto importante per me e la porterò avanti finchè ci sarà almeno una persona che so che apprezza.

Grazie,
 Chris.

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Capitolo 2
*** Il Portavoce di Dio ***


Revolution - Advanced Version
noun  rev·o·lu·tion  \ˌre-və-ˈlü-shən\
a. the usually violent attempt by many people to end a rule and start a new one
b. a sudden, extreme, or complete change.
c. the action of moving around something in a path that is similar to a circle

Capitolo 1 - Il Portavoce di Dio

When we've been there ten thousand years
bright shining as the sun.
We've no less days to sing God's praise
than when we've first begun.

John Newton - ‘Amazing Grace’
Villaggio di Reesembool, area sud-est di Amestris, Shambala. Anno 1910.
Il rumore prodotto dal gessetto sul pavimento era l’unico suono che rompeva il silenzio carico di tensione in cui era avvolta la stanza. Gli unici testimoni di ciò che stava per accadere erano alcune armature da collezione e numerosi libri aperti sparsi per terra. Due bambini stavano finendo di disegnare sul pavimento un enorme cerchio attraversato da linee geometriche e curiosi simboli, al centro del quale vi era un contenitore con al suo interno quella che sembrava sabbia. Uno scienziato probabilmente vi avrebbe riconosciuto una gran quantità e varietà di elementi chimici in polvere.
“Perfetto, è finito” disse il bambino più grande, posando il gessetto a terra. Aveva i capelli biondi e gli occhi color oro, e non dimostrava più di una decina d’anni. Lanciò un’occhiata all’altro bambino, il cui sguardo esprimeva nervosismo. Questo aveva i capelli castani e gli occhi dello stesso colore dell’altro bambino, doveva avere al massimo un paio d’anni meno del primo. I due si assomigliavano abbastanza da poter essere fratelli. “Non preoccuparti, andrà tutto bene” lo rassicurò il più grande con un sorriso.
 L’altro annuì e accennò un sorriso a sua volta.
Fuori iniziò a piovere.
Incuranti degli scrosci, i due poggiarono entrambe le mani sul cerchio. Le linee di gesso si illuminarono di una calda luce e sprigionarono un'energia potentissima, che si propagò in tutta la stanza: la trasmutazione alchemica aveva avuto inizio. Presto tutti quegli elementi chimici si sarebbero ricombinati in un’altra forma completamente diversa, e il loro desiderio sarebbe stato esaudito. Il bambino più grande sorrise tra sé: stava andando tutto come previsto.
Improvvisamente l’energia sprigionata dal cerchio alchemico aumentò d’intensità e la sua luce calda cambiò colore, tingendo la stanza di freddi riflessi viola. L’aria intorno ai due si saturò di elettricità statica e alcuni oggetti nella stanza cominciarono a cadere a terra e a frantumarsi. Il bambino biondo si guardò intorno, disorientato, ma un grido terrorizzato lo fece voltare verso il bambino più piccolo.
L’energia alchemica lo stava attaccando: quelli che sembravano tentacoli neri lo aveva circondato e gli si erano avvinghiati al braccio destro. Il bambino più grande fece per alzarsi e correre da lui, ma qualcosa lo trattenne per la gamba. Si voltò per tentare di liberarsi e si rese conto che a trattenerlo era la stessa entità oscura che aveva attaccato il fratello. Si voltò di nuovo verso l’altro bambino, tentando disperatamente di avvicinarsi, mentre questo veniva trascinato verso il vortice oscuro che si stava formando in mezzo alla stanza, in corrispondenza del contenitore degli elementi. L’energia lo stava letteralmente divorando, e ormai l’intera parte inferiore del corpo era scomparsa. Allungò disperatamente la mano verso il fratello maggiore, gli occhi pieni di terrore. Questo tentò di raggiungere la mano tesa, incurante del fatto che anche la sua gamba si stava velocemente scomponendo, ma quando credette di averla afferrata si ritrovò a stringere il nulla. Suo fratello era stato completamente risucchiato.
La luce diventò sempre più forte, e il bambino urlò con tutto il fiato che aveva.
Improvvisamente la luce diminuì d’intensità e si spense. Nella stanza satura di fumo rimasero le armature rovesciate, i libri strappati e parzialmente inceneriti, i frammenti di vetro delle lampade e... gli abiti del bambino più piccolo, che era scomparso nel vortice di luce.
“Non doveva andare così, maledizione!” gridò il bambino biondo, stringendosi la gamba sinistra: era amputata appena sopra il ginocchio e perdeva molto sangue.
Nel contenitore al centro della stanza, al posto degli elementi chimici, qualcosa si agitò debolmente ed emise un rantolo soffocato. Il bambino si voltò in quella direzione.
“...Mamma?” chiamò, incerto.
Ma l’essere che emerse dalle volute di fumo non poteva nemmeno definirsi umano. Lo fissava con un unico occhio, rosso come il sangue che continuava a sgorgare dalla sua ferita.
Anche l’ultima speranza del bambino s’infranse, e lui proruppe in un grido disperato.
-
Città di Istvàn, Frontiera meridionale di Amestris, Shambala. Anno 1914.
Gli abitanti di Istvàn erano abituati agli stranieri: pellegrini e viaggiatori passavano attraverso la modesta città per attraversare il confine tra lo Stato di Amestris e il deserto, oltre il quale si trovava l’Impero di Xing. Erano abituati a veder camminare per le strade della città le persone più strane, e ormai non si stupivano più di nulla. Il ragazzo che aveva appena fatto il suo ingresso in città, però, non passava certo inosservato, non tanto per il suo aspetto, quanto per il suo compagno di viaggio. Lui, infatti, dimostrava circa 15 anni, era piuttosto basso e indossava un lungo cappotto rosso con cappuccio. Sulla schiena aveva un curioso simbolo, una specie di croce con un serpente che vi si avviluppava intorno e sormontata da una corona alata. Sotto il cappotto era vestito di nero, ma portava un paio di guanti bianchi. I lunghi capelli biondi erano legati in una treccia, e i suoi occhi color oro erano stanchi.
“Stai bene, fratellone?” gli chiese il suo compagno di viaggio.
Si trattava di una persona infagottata in un’armatura di metallo alta almeno un paio di metri e con un elmo dotato di corno appuntito e lungo cimiero bianco, e a ogni passo produceva un rumore di ferraglia. A differenza del suo aspetto, che gli aveva guadagnato tutte quelle occhiate sorprese da parte dei cittadini di Istvàn, aveva una voce decisamente acuta, come quella di un ragazzino.
“Se non bevo subito qualcosa, svengo” replicò l’altro ragazzo, boccheggiando. Alzò la testa, riconoscendo in lontananza il rumore di acqua scrosciante, e alla fine della strada che stava percorrendo scorse una meravigliosa fontana di pietra. “Acqua!” esclamò.
Corse verso la fontana, già pregustando il sapore dell’acqua fresca, ma quando fu abbastanza vicino si rese conto che il liquido che ne sgorgava non era limpido, ma rossastro, ed emanava un pungente profumo di aromi. Troppo sorpreso per poter fare qualunque cosa, il ragazzo stava ancora fissando il contenuto della fontana con aria basita quando qualcuno gli strinse la spalla sinistra con la mano.
“Guarda che ai bambini è proibito bere dalla fontana!” esclamò l’uomo dalla pelle olivastra a cui apparteneva la mano.
Lo sguardo confuso del ragazzo fu abbastanza eloquente.
Poco dopo i tre erano al chiosco di bevande di proprietà dell’uomo, a pochi metri dalla fontana, il quale appoggiò un bicchiere pieno di succo di frutta davanti al ragazzo.
“Mi spiace di averti scambiato per un bambino” disse, rivolto al ragazzo. “Alcuni di loro si sfidano a bere dalla fontana, ma quando succede, visto che il mio chiosco è proprio qui davanti, i genitori vengono a lamentarsi da me.” Alzò lo sguardo sull’armatura. “A proposito, lei chi è, suo padre?”
“A dire la verità sono suo fratello minore” rispose l’armatura.
“Tu saresti il minore?” fece l’uomo, sgranando gli occhi. “Caspita, ma non siete un po’ piccoli per viaggiare da soli?”
“CHI SAREBBE IL FAGIOLINO MINUSCOLO INVISIBILE ALL’OCCHIO UMANO?!” gridò il ragazzo biondo, adirato. Si sarebbe lanciato verso il proprietario del chiosco se il fratello non l’avesse bloccato da dietro.
“Deve scusarlo…” fece la persona in armatura, imbarazzata. “Piuttosto, Istvàn dev’essere una città molto ricca per permettersi delle fontane simili” aggiunse, guardandosi intorno. Così facendo, si accorse che la maggior parte degli abitanti della città aveva la pelle scura come l’uomo che stava loro davanti, diversamente dalla popolazione di Amestris che i due erano abituati a vedere, che invece avevano la pelle bianca.
“È tutto merito di padre Alexander Anderson” spiegò il proprietario del chiosco. “Padre Anderson riesce a fare un sacco di miracoli, e se non fosse per lui questa città sarebbe stata dimenticata da tutti.”
Il ragazzo biondo mugugnò qualcosa d’incomprensibile e tornò a sedersi, afferrò il suo bicchiere di succo di frutta e prese una lunga sorsata.
“Sinceramente i miracoli sono l’ultima cosa che m’interessa” dichiarò, rimettendo il bicchiere vuoto sul tavolo. “Qui stiamo solo perdendo tempo. Che dici, Al, andiamo?”
Il ragazzino in armatura annuì. Quando si alzò, però, urtò con l’elmo la mensola su cui si trovava una radio che aveva appena cominciato a trasmettere un sermone di padre Anderson. L’apparecchio cadde a terra e si ruppe in mille pezzi.
“Guarda cosa ha combinato!” esclamò il proprietario, arrabbiato. “Ecco cosa succede ad andare in giro vestiti in quella maniera!”
“Mi dispiace molto” si scusò il ragazzino. “Gliela riparo subito.”
“La... ripari?” ripeté l’uomo, confuso.
Dopo aver estratto un gessetto da uno dei borsellini legati all’armatura, il ragazzo disegnò sulla pavimentazione di pietra della piazza, intorno alla radio distrutta, un cerchio perfetto e alcune linee e triangoli all’interno di esso, dopodiché posò le mani sul bordo. Con un bagliore bluastro e uno sbuffo di fumo, la radio tornò perfettamente funzionante.
“Anche tu puoi fare i miracoli?!” esclamò il gestore del chiosco, stupito.
“Siamo soltanto alchimisti, signore” lo corresse quello con un sorriso, restituendogli la radio che aveva ripreso a trasmettere il sermone di Anderson.
“Alchimisti, eh? Avrei detto che eravate artisti di strada o qualcosa di simile!” L’uomo rise, osservando la radio da vicino: sembrava come nuova. “E cosa ci fanno degli alchimisti come voi in questa città di frontiera?”
Al, il ragazzino in armatura, non disse nulla, limitandosi a girare la testa verso il compagno di viaggio, che alzò le spalle.
“Diciamo che stiamo cercando qualcosa” disse questo.
“Wow, che armatura enorme!” esclamò una voce alle spalle dei due ragazzi: dietro di loro stava arrivando una giovane donna vestita in abiti clericali, che guardava Al con ammirazione e stupore. A differenza degli abitanti di Istvàn, aveva la pelle candida e gli occhi blu come il cielo dopo il tramonto: dal velo scuro che le copriva la testa spuntavano alcune ciocche di capelli rosso fuoco.
“Eh…” fece Al, imbarazzato, senza sapere come rispondere.
“Oh, Esther!” la salutò il proprietario del chiosco, prendendo da sotto il bancone un sacchetto di carta e allungandolo alla giovane suora. “Ecco qui, dovrebbe esserci tutto. Sono riuscito a farti un prezzo speciale!”
“Che lei sia benedetto,” rispose lei con un sorriso caldo, tendendo all’uomo alcune banconote. Poi si voltò verso i due ragazzi. “Scusate, non volevo mettervi in imbarazzo. Siete i benvenuti nella santa città di Istvàn!”
“Ah, grazie…”
“Cosa vi porta da noi? Siete pellegrini? Avete avuto problemi ad arrivare da Amestris?”
“Dicono di essere alchimisti…” le cominciò a spiegare l’uomo, ripetendo le parole del ragazzo, ma qualcosa aveva attirato l’attenzione di quest’ultimo.
“Che genere di problemi avremmo dovuto avere arrivando da Amestris?” le domandò.
L’espressione della suora si rabbuiò.
“Quei maledetti soldati sono appostati alla stazione e controllano chiunque arrivi: non capisco chi o cosa stiano cercando, ma sicuramente la popolazione non è contenta”. I due ragazzi si guardarono per una frazione di secondo, prima che Esther tornasse a sorridere. “Ma non dovete preoccuparvi: Padre Anderson ci ha protetto fino ad oggi, sono sicura che non succederà nulla di brutto agli abitanti di questa città finché lui continuerà a guidarci secondo la parola di Dio!”
“Questo padre Anderson sembra essere un pezzo grosso…” commentò a bassa voce il ragazzo. Né la suora né l’uomo del chiosco sembrarono sentirlo o capire le sue parole.
“Oh, non ci posso credere, che maleducata che sono!” esclamò la donna tutto d’un tratto. “Mi chiamo Esther Blanchett, sono una suora novizia!”
“Ah, io sono Edward” rispose sorridendo il ragazzo. Successivamente indicò l’armatura gigante al suo fianco. “Questo è mio fratello minore, Alphonse”.
“Sei davvero tu il più grande?” fece Esther sorpresa. Edward le scoccò un’occhiataccia. La giovane suora ridacchiò. “Sembrate dei bravi ragazzi, che ne dite di venire con me alla chiesa? Abbiamo delle camere e una mensa per pellegrini e viaggiatori”.
“In realtà…” cominciò Alphonse, ma fu interrotto dal fratello.
“In effetti m’interesserebbe molto parlare con questo Anderson! È possibile incontrarlo?”
Esther sorrise, raggiante.
“Ti interessa la nostra Chiesa, allora! Certo! Posso portarvi da lui anche subito!”
“Li lascio nelle tue mani, allora” l’uomo annuì vigorosamente, salutando i tre ragazzi mentre si allontanavano. “È bello vedere Esther così vivace” aggiunse tra sé e sé. “Non si direbbe che siano passati solo pochi mesi dalla sua crisi depressiva...”
Mentre camminavano per le strade di Istvàn, Esther cominciò a raccontare ai due ragazzi di padre Anderson.
“È arrivato a Istvàn quasi un anno fa, prima gestiva un orfanotrofio ad Aerugo, dove si occupava dei bambini che hanno perso i genitori durante le ultime guerre. È una persona davvero gentile: mi ha aiutato molto dopo che il mio ragazzo, Dietrich, è morto in un incidente sul lavoro due anni fa.” Edward le lanciò un’occhiata compassionevole, ma la ragazza aveva uno sguardo determinato e fisso davanti a se. “È per questo che ho preso i voti: padre Anderson mi ha promesso che, se servirò Dio con passione e costanza, lui potrà restituirmi Dietrich.”
Edward alzò un sopracciglio, lanciando ad Esther un’occhiata scettica.
“Restituirti… Intendi riportarlo in vita?”
Esther annuì con vigore.
“Dio può tutto, non è così? Anche voi crederete quando vedrete i miracoli che Egli consente al padre di operare”.
-
“Ed è nelle parole del miscredente che giace l’inganno: ‘Cosa devo fare per ottenere la vita eterna?’ ha chiesto, pensando che la vita eterna possa essere ottenuta solo attraverso la cessione di un bene materiale. E qui io vi dico: solo attraverso la grazia di Dio voi sarete salvati, non attraverso voi stessi. L’immortalità è un dono di Dio, non qualcosa da comprare. Questa è la parola di Dio, andate in pace.”
Premendo un bottone sulla propria scrivania, padre Anderson spense il microfono che trasmetteva la sua voce alle radio di tutta la città.
“Un magnifico sermone, padre!” esclamò con entusiasmo una donna vestita da prete con gli occhi verdi e corti capelli color biondo paglia, che si trovava in piedi dietro di lui. Al collo portava una croce d'argento. Accanto a lei, una suora con i capelli neri coperti dal velo e un paio di grandi occhiali rotondi, talmente grandi e spessi da nasconderle la faccia, annuì in silenzio.
Si sentirono due colpi alla porta, che si aprì lasciando entrare Esther.
“Buona sera, padre Anderson!”
“Oh, Esther.” L’uomo sorrise dolcemente, alzandosi in piedi.
La giovane suora si avvicinò.
“In città sono arrivati due alchimisti, li possiamo ospitare negli alloggi del convento?”
L’uomo annuì.
“Le porte della nostra chiesa sono aperte a tutti”.
Esther sorrise, raggiante.
“Ah, e hanno chiesto di incontrarla: si trovano qui fuori in questo momento”.
“Padre Anderson è molto stanco” intervenne la donna vestita da prete, posandole una mano sulla spalla. “Possono tornare domani, dopo la dimostrazione pubblica”.
“No, sorella Heinkel” la interruppe Anderson. “Falli pure entrare, è sempre piacevole incontrare nuove anime.”
Esther annuì vigorosamente.
“Edward, Alphonse, entrate pure!” chiamò.
La porta si aprì nuovamente e i due apparvero.
“Con permesso…” disse Alphonse, imbarazzato, chinando la testa per attraversare la porta bassa.
“Un armatura?!” Sorella Heinkel fece un passo indietro, mentre Anderson si limitò ad alzare un sopracciglio.
Edward entrò dopo il fratello, tenendo le mani in tasca e la schiena dritta, e studiò il tanto menzionato padre Anderson: l’uomo dimostrava un po’ più di sessant’anni, aveva corti capelli grigi spettinati, gli occhi color azzurro ghiaccio e un paio di occhiali tondi. Era molto alto e indossava un modesto abito clericale di colore grigio. Una lunga cicatrice rossastra gli solcava la guancia sinistra, semi nascosta da una barba corta e rada. Al collo gli pendeva una pesante croce di metallo e alla mano sinistra portava un anello d’argento con una brillante gemma di colore rosso. Sembrava una persona severa, ma saggia.
“Benvenuti a Istvàn, figlioli” disse. “Che Dio vi accompagni nel vostro viaggio.”
“Grazie…” cominciò Alphonse, ma fu immediatamente interrotto da Edward.
“Puoi davvero compiere dei miracoli?” gli domandò questo a bruciapelo.
Anderson fece un lungo sospiro.
“La vera fede non richiede prove, ma se ho capito bene siete alchimisti, scienziati, giusto?”
“Già, ho la testa dura, faccio fatica a credere a quello che non posso vedere con questi occhi” ribatté Edward con un mezzo sorriso di sfida.
Anderson annuì.
“Venite domani a mezzogiorno alla piazza di fronte alla chiesa: vi mostrerò di cosa è capace Dio attraverso di me”.
“Per aver appena detto che la fede non ha bisogno di prove, sembra che queste dimostrazioni siano all'ordine del giorno” fece Edward con un sorrisetto. “In città non si parla d’altro”.
Anderson sorrise.
“I miracoli che Dio ci offre fungono da supporto alla nostra fede: ci donano fiducia e speranza, ed è tutto quello di cui Istvàn aveva bisogno per rifiorire”.
Edward annuì.
“Non è che le capita anche di riportare in vita i morti, eh?” aggiunse con pesante sarcasmo.
“Edward!” intervenne Esther, arrossendo imbarazzata. “Chiedo perdono, padre. Gli ho parlato di Dietrich e…”
“Non preoccuparti, figliola” la rassicurò Anderson, poi si voltò di nuovo verso Edward. “La Grazia di Dio mi consente talvolta di restituire ai loro cari persone il cui momento di ricongiungersi a Dio è stato malauguratamente anticipato. Il signor Tlipoca e il professor Barrett sono tra questi…”
L’espressione di Edward si fece totalmente sorpresa.
“No, aspetta, hai già resuscitato qualcuno?”
“Dio ha compiuto l’atto, io sono solo il suo portavoce” lo corresse Anderson. “Ma sì, il miracolo è già avvenuto”.
Edward boccheggiò per qualche secondo, prima di ricomporsi.
“E queste persone dove sono? Posso parlare con loro?”
“Sono partiti in pellegrinaggio qualche giorno dopo essere stati richiamati su questa terra” raccontò l’uomo. “Sebbene per volere di Dio, l’anima è pur sempre stata strappata dal regno dei cieli e ha subito un profondo trauma. La preghiera cura le ferite dello spirito, ma perché essa sia sincera bisogna allontanarsi dalle tentazioni terrene, e dunque dalle persone che si amano, almeno finché le ferite dell’anima non si saranno risanate. Solo Dio sa quanto tempo è necessario a ogni persona per guarire.”
Edward storse la bocca.
“Chissà perché, me lo immaginavo...” mormorò tra i denti.
“Adesso basta” intervenne sorella Heinkel. “State vessando padre Anderson con i vostri discorsi: cosa siete venuti a fare a Istvàn?”
Edward si grattò la nuca, sospirando.
“Semplice curiosità. Insomma, non capita tutti i giorni che qualcuno riporti in vita i morti, no?”
“La voce si è sparsa?” chiese la donna.
“Solo nelle città qui intorno, ma ancora qualche miracolo e lo sapranno anche a Central City.”
“A proposito, abbiamo sentito che avete dei problemi con l’esercito” intervenne Al.
Sorella Heinkel incrociò le braccia, sbuffando.
“A quegli stupidi militari non va a genio che questa città rimanga indipendente da Amestris, siamo troppo vicini ad Aerugo perché ci lascino in pace”.
Anderson si grattò la barba, annuendo gravemente.
“Non vi hanno fatto problemi quando siete arrivati in città, vero?”
“Ah, no, siamo arrivati a piedi da Est”.
“A piedi?!” esclamò Esther. “Dovete essere esausti! Lasciate che vi accompagni al vostro alloggio!” La ragazza si frappose tra loro e il sacerdote, spingendoli verso la porta.
“Ah, non è una cattiva idea in effetti. È troppo tempo che non dormo in un letto…” ridacchiò Edward, nervoso.
“Per qualunque cosa di cui abbiate bisogno, non esitate a chiedere” li salutò Anderson.
 I tre augurarono buona serata e si allontanarono lungo i corridoi dell’edificio annesso alla chiesa.
“Scusate per prima” disse Esther quando si furono allontanati abbastanza. “Sorella Heinkel non si fida molto degli sconosciuti, vi avrebbe continuato a interrogare fino a domani mattina, non voglio che la vostra prima impressione della nostra Chiesa sia così satura di diffidenza… e sto parlando troppo, vi prego, fermatemi se vi sto stancando”.
Edward rise.
“Tranquilla, anzi, devo ringraziarti: nemmeno io sapevo come tirarmi fuori da quella situazione”.
La stanza dove Esther li portò era sobria ma pulita, con due letti, due sedie, un tavolino su cui era appoggiata una bibbia e una finestra che dava sul cimitero annesso alla chiesa. Quando Esther lasciò i ragazzi da soli, Edward si lasciò cadere di faccia sul materasso, senza preoccuparsi di togliersi vestiti o scarpe.
“Che cosa ne pensi?” gli chiese Al, guardando fuori dalla finestra. Riusciva a vedere Esther, che si era portata di fronte ad una delle tombe, probabilmente quella del suo ex-fidanzato.
“O padre Anderson è il più grande artista della truffa che esista, oppure qualcuno più in alto di lui lo sta ingannando.” Ed si girò, rivolgendo uno sguardo pensieroso al soffitto. “Qualsiasi cosa si faccia, un morto non può ritornare in vita…”
-
Anderson si era appena ritirato nella sua stanza, sobria e spartana come tutti gli alloggi dell’edificio, dopo aver celebrato la messa serale. Stava per farsi mandare la cena dalle cucine, quando un rapido movimento gli annunciò di non essere solo. La porta-finestra del balcone era aperta e una leggera brezza muoveva le tende candide, tra le quali stava una figura apparentemente umana. Nel vederla, Anderson s’inginocchiò.
“Emissario del Signore” Anderson sorrise, congiungendo le mani in preghiera. “Cosa comanda Dio Onnipotente?”
Sulle labbra rosse dell’Emissario si dipinse un sorriso dolce.
-
“L’anima è immortale e attraverso la preghiera l’immortalità viene trasmessa alla carne.” Edward lesse un frammento dal libro sacro, prima di lasciarlo cadere sul tavolino con una smorfia. “Quante baggianate!”
“Non possiamo farci niente se le persone di questa città vogliono crederci, però” cercò di dire Al, che stava ancora guardando fuori dalla finestra. Sebbene fosse quasi ora di cena, Esther era ancora di fronte alla tomba, quando padre Anderson le corse in contro per dirle qualcosa che Al non riuscì a sentire a causa della distanza. La ragazza si portò le mani al viso e probabilmente scoppiò a piangere, perché il prete l’abbracciò e la strinse al petto, prima di accompagnarla di nuovo verso la chiesa. “Quell’uomo, padre Anderson, non mi sembra una cattiva persona” concluse il ragazzino in armatura.
“Non lo so… Vedremo domani di che cos’è capace.” Il fratello si tolse le scarpe, le gettò in malo modo sotto il letto.
“Fratellone, non vuoi andare in mensa a mangiare qualcosa?”
 “Stasera non ho fame” rispose il ragazzo, e si avvolse nelle coperte ruvide. “Buonanotte, Al.”
“Buonanotte” sospirò Al, e si sedette a terra.
La notte calò silenziosa sulla città di Istvàn.
 

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Capitolo 3
*** Colui che sfidò il sole ***


Capitolo 2 - Colui che sfidò il Sole

Nothing's gonna keep you down
Even if it's killing you
Because you know the truth
Listen up listen up
There's a devil in the church
Sixx A.M. - ‘This is Gonna Hurt’

La piazza era gremita di gente festosa e sorridente, come se fosse di un giorno di festa. Quella mattina la radio locale aveva annunciato che padre Anderson avrebbe compiuto miracoli davanti alla chiesa e i cittadini avevano immediatamente chiuso bottega e si erano recati in massa di fronte al sagrato. Ed e Al erano in mezzo alla folla, più incuriosita che intimorita dai due strani viandanti: una coppia di bambini aveva addirittura cominciato ad arrampicarsi sull’armatura, prima che i loro genitori li richiamassero. Non che Alphonse avesse disprezzato la loro compagnia.
“Al, guarda” fece il fratello maggiore, accennando ad alcune figure a bordo piazza: erano soldati di Amestris, con indosso una variante nera dell’uniforme militare, di norma blu. Se ne potevano contare una mezza dozzina, posizionati intorno alla piazza, e sembravano confusi dallo strano raggruppamento di persone. “Nel peggiore dei casi…” cominciò, ma fu interrotto da un’esplosione di voci esultanti proveniente dalla folla intorno a loro: padre Anderson era uscito sul sagrato e stava salendo su un palco di legno, accompagnato dalle due suore della sera prima e da Esther, che tuttavia non indossava più gli abiti clericali ma un semplice ed elegante abito bianco. Due uomini portarono sul palco, davanti ai quattro, una larga e pesante cassa di legno, prima che il prete facesse un segno con la mano per zittire la folla.
“Cosa sta facendo?” chiede Edward, che non riusciva a vedere bene il palco a causa della ressa.
La suora con i capelli neri e gli occhiali allungò ad Anderson un bicchiere trasparente e vuoto. L’uomo lo prese e, con un brevissimo lampo di luce rossa e uno sbuffo di fumo, esso si riempì di un liquido rosso, probabilmente vino. La folla accolse l’atto con un applauso scrosciante, mentre Anderson proseguiva e ricavava una gigantesca statua raffigurante Dio da un piccolo ceppo di legno. Anche in questo caso, il miracolo era accompagnato da lampi rossastri.
“Hai visto?” fece Al.
Edward annuì.
“Si tratta senza dubbio di alchimia, anche se non rispetta il principio dello Scambio Equivalente”.
Improvvisamente la folla si zittì di nuovo: Esther aveva allungato a padre Anderson un microfono, che fece rimbombare la sua voce in tutta la piazza.
“Cari fedeli, un Emissario del nostro Signore mi è di nuovo apparso portando la lieta novella: oggi Egli consentirà ad un suo discepolo di tornare a camminare tra noi!”
“Ehi, ehi! Stiamo scherzando? Lo sta per fare adesso?” esclamò Edward, scioccato. Cercò di arrampicarsi sull’armatura di Al, ignorando le proteste del fratello minore, per vedere meglio il palco. Dalla posizione rialzata poteva finalmente vedere la cassa di legno per quello che era: una bara. “Stiamo scherzando…?” ripeté il ragazzo, in egual misura sorpreso, inorridito e affascinato.
Padre Anderson alzò le mani al cielo e cominciò a cantare una litania, a cui presto si unirono  anche le persone della folla, chi con le braccia tese in maniera simile al prete, chi con le mani giunte in preghiera. Un denso fumo che profumava d’incenso si sparse rapidamente nella piazza, limitando notevolmente la visibilità. Lentamente, il fumo si diradò e quando padre Anderson fu di nuovo visibile, fece un cenno con le mani per fermare la litania. Un altro gesto e due uomini aprirono la bara sigillata. Edward trattenne il respiro, sentendo il cuore battergli forsennatamente nel petto: la copertura di legno saltò via ed Edward vide Esther portarsi le mani al viso e lanciarsi verso la bara con un sorriso gioioso. Una figura umana si alzò a sedere, guardandosi intorno disorientata, e la ragazza gli gettò le braccia al collo.
“Ce l’ha fatta…?” mormorò Al.
Edward riprese a respirare: no, c’era decisamente qualcosa di strano. Padre Anderson aiutò il ragazzo a mettersi in piedi: aveva i capelli castani che ricadevano scomposti sul viso, e indossava semplicemente una camicia bianca con pantaloni scuri eleganti e scarpe nere. L'abbigliamento di un morto. Timidamente, il ragazzo sollevò una mano per salutare la folla, che esplose in un baccano di esultazioni ed applausi.
“Voglio vederci chiaro” annunciò Edward, mentre i cinque si ritiravano all’interno della chiesa. “Vieni con me, Al!” esclamò, scendendo dalle spalle del fratello e cominciando a camminare a lunghe falcate in quella direzione.
Dopo un attimo di frastornamento, l’armatura seguì di corsa il ragazzo: i due si avvicinarono alla chiesa, ma invece di proseguire verso l’entrata principale dell’edificio, girarono attorno fino a trovare uno degli ingressi secondari. La porticina di legno li portò in un corridoio che proseguiva in due direzioni diverse.
“Separiamoci qui, vediamo di trovare Anderson alla svelta… o anche quel ragazzo” suggerì Edward, prima di allontanarsi di corsa lungo il corridoio.
“Insomma, che bisogno c’è di tutta questa fretta?” sospirò Al, camminando in direzione opposta.
 -
Anderson si lasciò cadere sulla poltrona del suo ufficio. Dalla finestra riusciva a scorgere la piazza che si andava svuotando.
“Ho visto quei ragazzi nella folla” disse alla suora con i capelli neri e gli occhiali, che al momento era l’unica nella stanza con lui. “Conto di averli tra i nostri fedeli molto presto.”
“Non ne sarei così sicura” esordì improvvisamente sorella Heinkel irrompendo nella stanza. “Ho appena avuto la conferma da uno dei miei contatti: ho fatto bene a non fidarmi del ragazzino”.
Anderson si alzò in piedi.
“Cosa vuoi dire?”
“Capelli e occhi color dell’oro, un cappotto rosso sangue, viaggia insieme ad un’armatura… La descrizione combacia perfettamente con quella di…” Allungò al prete un giornale piegato che aveva portato con sé. L’articolo risaliva a qualche settimana prima. Nel leggerlo, il volto di padre Anderson si contrasse in un’espressione di puro odio, prima che l’uomo sbattesse il giornale con forza sulla propria scrivania.
“Dove sono in questo momento?” sibilò con rabbia.
“Sono stati visti infiltrarsi all’interno della chiesa pochi minuti fa.” Heinkel fissò il prete. “Quali sono gli ordini, signore? Li facciamo sparire?”
“No, se facessimo così, avremmo il dannato esercito alle porte in pochissimo tempo.” Anderson sorrise, ma, a differenza dei precedenti, questo sorriso era sinistro e quasi maniacale. “Non sono mai stati qui” disse lentamente.
Heinkel annuì, poi estrasse da sotto il cappotto una pistola e lasciò la stanza.
“Yumiko” chiamò il prete. La suora coi capelli neri e gli occhiali alzò la testa. “Vieni con me, abbiamo dei miscredenti da portare davanti a Dio”.
La suora non disse nulla, ma annuì a sua volta.
-
Edward sbucò nella navata principale della gigantesca chiesa. Sembrava totalmente deserta, eccetto per una figura solitaria che puliva compulsivamente l’altare con uno straccio. A Edward bastò vedere un lampo di capelli rossi per identificare Esther, ancora in abiti civili, e con un sorriso estatico dipinto sul volto. Con un colpo di tosse attirò l’attenzione della ragazza, la quale si voltò e sorrise ancora più vivacemente quando lo riconobbe.
“Hai visto? Padre Anderson è davvero il portavoce di Dio! Il mio duro lavoro e dedizione sono stati finalmente ricompensati!” esclamò con le lacrime agli occhi.
Edward si strinse nelle spalle.
“Non ne sono sicuro, potrebbe anche essere una messinscena molto complessa”.
La ragazza strinse i pugni e lanciò un’occhiata furiosa a Edward.
“Ha riportato in vita Dietrich, l’hai visto anche tu! Saresti in grado di fare una cosa del genere?!”
Ed fece un’espressione scettica. Sospirò e da una tasca interna del cappotto prese un taccuino dall’aria vissuta, lo aprì ad una pagina alla quale era stato inserito un segno di stoffa e cominciò a leggere.
“35 litri d’acqua, 20 chili di carbonio, 4 litri di ammoniaca, 1,5 chili di calce, 800 grammi di fosforo, 250 grammi di sale, 100 grammi di salnitro, 80 grammi di zolfo, 7,5 grammi di fluoro, 5 grammi di ferro, 3 grammi di silicio... più altri 15  elementi in minima quantità” concluse chiudendo il taccuino, sotto lo sguardo confuso di Esther. “Un corpo umano adulto è composto dagli elementi che ti ho appena elencato, ma nonostante le nostre conoscenze nessuno è ancora stato in grado di compiere una trasmutazione umana. Manca ancora qualcosa, e di sicuro non sarà pregando o restando in attesa che arriveremo alla verità, ma cercando. Per un alchimista, e quindi uno scienziato, come me, è impossibile credere ad una cosa incerta come l'esistenza di Dio...”
“La tua è una semplice bestemmia!” lo accusò Esther
“...Ed è paradossale che proprio noi siamo quelli che si avvicinano di più al potere di un Dio” proseguì Ed, avvicinandosi all’altare, dietro al quale si trovava una gigantesca statua di Dio seduto su un trono con in mano un piccolo Sole. “Anche il Sole che tiene in mano il tuo Dio non è altro che una massa di gas ad alta temperatura. L’unico inconveniente è che se ti avvicini troppo rischi di rimanere bruciato...” concluse amaramente, sotto lo sguardo furioso di Esther.
-
Al camminò a lungo nei corridoi senza incontrare anima viva: sembrava che non fosse rimasto nessuno nell’edificio sacro. Non riusciva a fare a meno di sentirsi fuori luogo, ma finalmente, da una porta socchiusa sentì una voce.
“…pietà di me, custodiscimi con il potere che ti è stato dato, affinché io trionfi confondendo i miei nemici, rinvigorendo le mie forze…” Qualcuno stava pregando, ma dal tono della voce sembrava più seccato che altro. “Quante baggianate!” esclamò infine la voce, mentre Al apriva cautamente la porta e faceva capolino in quella che sembrava una piccola cappella. In quel momento, un fascicoletto sbatté sul muro a pochi centimetri dalla testa del ragazzino, che trasalì e si voltò nella direzione dalla quale era stato lanciato il libriccino. Limpidi e grandi occhi castani lo squadrarono con curiosità.
“Dietrich!” lo riconobbe Al.
Il giovane fischiò con ammirazione, poi sorrise e si avvicinò ad Al.
“Sei proprio gigantesco te, da dove diavolo sei sbucato?” domandò il ragazzo con tono divertito. Al notò che il ragazzo era a piedi scalzi sul freddo pavimento di pietra della cappella. Muovendosi a passi leggeri intorno ad Al, Dietrich studiò i dettagli della sua armatura. “Quella croce di Flamel sulla tua spalla… Sei un alchimista, vero?” gli chiese, indicando il simbolo dipinto in rosso sulla spalla dell’armatura, lo stesso simbolo che Ed portava sul suo cappotto. “A Istvàn non si pratica l’alchimia, soprattutto non in chiesa. Che cosa ci fai qui?”
Invece di rispondere e lasciarsi distrarre, Alphonse pose a sua volta una domanda.
“Sei davvero stato riportato in vita?”
Il ragazzo alzò le spalle e si lasciò cadere all’indietro su una delle panche della cappella.
“Credo di sì. Insomma, mi hanno detto che ero morto, mentre ora sono qui. Sto ancora cercando di farmene una ragione.”
“Cosa ricordi della tua morte?” insistette Alphonse.
“Molto poco. So che stavo manovrando una macchina in officina, ero solo, e poi... Poi ricordo una grande luce... Una musica eterea... E poi ero su quel palco fuori dalla chiesa.” Dietrich si passò una mano tra i capelli e rise, imbarazzato. “Che storia ridicola, eh? Ti capisco se non ci credi...”
“A quanto pare, non ci credi nemmeno tu” lo interruppe Alphonse. “È ciò che ti hanno detto di dire?”
Dopo un paio di secondi, durante i quali il ragazzo guardò Al con espressione basita, sul viso di Dietrich si dipinse un sorriso ostile, gli occhi assottigliati e fissi sull’armatura.
“Oh?” fece semplicemente, con tono divertito, ma prima che uno dei due potesse dire altro, si sentì un cigolio e il rumore secco di una pistola che veniva caricata. Alle spalle di Al comparve sorella Heinkel. Nella mano stringeva una pistola, e la teneva puntata contro la fessura dove l’elmo si connetteva al resto dell’armatura.
“Dietrich, allontanati” disse la donna, lo sguardo pieno d’odio fisso su Alphonse.
Il ragazzo, la cui espressione inquietante era già svanita come fumo, fece qualche passo indietro, sorpreso.
“So-sorella Heinkel?” chiamò Al, confuso. “Mi dispiace, volevo solo parlare con Dietrich prima che partisse per il suo pellegrinaggio, ero...”
“Non fare il finto tonto, sappiamo chi siete” lo interruppe sorella Heinkel. “Padre Anderson non tollera la presenza di militari nella sua città, specialmente se sono Alchimisti di Stato. Voi miscredenti siete la piaga contro cui padre Anderson sta combattendo la sua crociata. Avete fatto un grave errore a venire a Istvàn. Ora dovete morire.”
“Aspetti!” cercò di dire Al.
“Non temere, tuo fratello ti raggiungerà molto presto.”
-
Edward ed Esther sentirono distintamente il rumore di uno sparo provenire da una delle cappelle dietro l’abside della chiesa.
“Cos’è stato?” fece la ragazza, spaventata.
“Al!” esclamò immediatamente Edward, correndo verso la direzione del suono, che sembrava provenire da una porta non distante dall’altare. La porta era chiusa ma il ragazzo sfondò il legno con un calcio e si precipitò nella cappella adiacente, entrando nella stanza dalla parte opposta alla porta da cui era entrato Alphonse. Esther lo seguì a ruota.
“Dietrich!” esclamò la ragazza, correndo verso il giovane che dava loro le spalle.
Edward invece spalancò gli occhi nel vedere il corpo di Al, supino a terra, con l’elmo che era saltato dalla parte opposta della stanza. Sorella Heinkel aveva ancora la pistola dalla canna fumante in mano. La rivolse contro Edward e con la mano libera fece un gesto verso Esther e Dietrich, che erano stretti in un abbraccio.
“Esther, Dietrich, andatevene! Di questo eretico mi occuperò io.”
Non si accorse che, alle sue spalle, il corpo di Al si era rialzato da terra.
“Che spavento che mi sono preso” esclamò l’armatura priva di elmo.
Heinkel si voltò e rimase senza parole: l’armatura era vuota, dentro non c’era nessuno! Eppure parlava e si muoveva come se niente fosse.
“Tu sei…” cominciò Dietrich, ma fu interrotto dal grido terrorizzato di Esther alla vista innaturale che le si presentava davanti.
Approfittando del caos generale, Edward raccolse da terra l’elmo dell’armatura e, stringendo saldamente il pennacchio, lo fece roteare e lo lanciò con forza sulla testa della donna con la pistola, che cadde a terra priva di sensi.
“Strike!” esultò Edward.
“La mia testa!” esclamò Al con tono offeso, raccogliendo al volo l’elmo che era stato lanciato in aria.
Con un tonfo, Esther venne meno e scivolò a terra. Dietrich raccolse il corpo della ragazza e, senza degnare i due ragazzi di un’altra occhiata, corse fuori dalla porta dalla quale Alphonse era entrato.
“Che guaio…” sospirò Al, rimettendosi a posto l’elmo. “Cosa facciamo, fratellone?”
Ed scavalcò la donna sdraiata a terra, mettendosi di fianco ad Alphonse di fronte alla porta socchiusa.
“Direi che non abbiamo molta scelta”.
I due fratelli imboccarono nuovamente il corridoio e lo percorsero alla cieca finché, con un bagliore rossastro, una porta non apparve dal nulla alla loro sinistra. Edward sorrise.
“Un invito ad entrare…” rise, spalancando la porta, che dava su di una scalinata che scendeva sottoterra. La scalinata si fermava davanti ad un’altra porta, che dava su di un’immensa cripta sotterranea, il cui soffitto era sostenuto da quattro file di colonne. In fondo alla stanza c’era un palco rialzato dove stavano padre Anderson e la suora coi capelli neri e gli occhiali. Il prete sogghignò e con l’imposizione delle mani richiuse la porta dalla quale i due ragazzi erano entrati: il muro tornò liscio come se non ci fosse mai stato un ingresso. Edward non si fece sfuggire il bagliore della pietra che l’uomo portava al dito.
“Vi è stato offerto alloggio e ospitalità, la possibilità di abbracciare la nostra Chiesa e lasciarvi alle spalle i vostri peccati” dichiarò. “E voi come avete ripagato tutto ciò? Mentendo e ingannando, come si addice a voi luridi vermi, cani dell’esercito”.
“Senti da che pulpito!” replicò Ed. “Non stai facendo la stessa cosa? Non stai ingannando la popolazione di Istvàn?! I tuoi miracoli non sono altro che trasmutazioni alchemiche!”
Anderson digrignò i denti, furioso.
“Il mio potere deriva da Dio Onnipotente! Nessun alchimista potrebbe fare quello che è stato concesso a me! La vostra arte è sottomessa alla Legge dello Scambio Equivalente, non è così?”
“D’accordo, questo te lo concedo, ma io ho un’altra teoria.” Edward indicò l’anello che l’uomo portava al dito. “C’è un modo per aggirare questa Legge, anche se fino ad oggi è rimasta una leggenda: la Pietra Filosofale. È quell’anello, non è così?” Gli occhi di Edward brillavano di meraviglia. “Finalmente…”
Inaspettatamente, Anderson esplose in una risata maniacale.
“Anche se fosse come dici tu, questo anello è un dono dell’Emissario di Dio, ed è attraverso quest’oggetto sacro che riesco a compiere la Sua volontà”. Con un gesto dell’uomo, il pavimento della sala si tramutò in sabbia, dopodiché Anderson si lasciò cadere dal palco, davanti ai due alchimisti. Impugnava due corte spade piatte che a un esame più attento si rivelarono baionette. “Il mio nome è Alexander Anderson, portavoce del Verbo di Dio, ex-cavaliere dell’esercito del Re di Aerugo, e oggi sarò il vostro giustiziere. Che Dio abbia misericordia di voi. Cenere alla cenere. Polvere alla polvere. Noi, che siamo solo polvere, torneremo alla polvere”. Mentre recitava queste parole come un mantra, aveva spostato le spade a formare una croce davanti a se. “Amen” concluse, e si lanciò contro Edward, che fece appena in tempo ad abbassarsi per evitare le lame che altrimenti avrebbero staccato in modo netto e pulito la sua testa dal collo, ma che si limitarono a tagliargli una ciocca di capelli.
“Wow, d’accordo!” esclamò Edward. “Un avversario difficile da affrontare a mani nude” commentò sardonico.
Il ragazzo batté i palmi delle mani tra loro e li posò a terra. Senza servirsi di alcun cerchio alchemico, dalla sabbia si sprigionarono lampi bluastri di energia. Una lunga lancia si trasmutò tra le mani di Ed, che la usò per respingere l’attacco successivo del prete. Anderson era esterrefatto: non aveva mai visto nessun altro compiere trasmutazioni alchemiche semplicemente battendo le mani, ma non si lasciò turbare da questa rivelazione. Con un lampo di luce rossa, una delle sue spade si trasformò in un vortice di metallo acuminato che si diresse verso il ragazzo, ma fu bloccato da un muro di pietra che si formò a metà strada. Anderson si voltò e vide che il secondo alchimista, il ragazzo in armatura, era riuscito a disegnare un cerchio alchemico sulla pietra di una delle colonne. Con rabbia, Anderson lasciò andare l’impugnatura di quella che ormai era un’aberrazione di metallo ed estrasse una nuova spada da sotto il proprio cappotto, lanciandosi questa volta contro Alphonse.
“Non ci provare...” fece Edward, correndo dietro all’uomo. Il suo obiettivo era quello di farlo cadere utilizzando il manico della propria lancia. Anderson però sembrava aver previsto questa mossa, perché con un’abile movimento taglio in tre pezzi l’arma trasmutata. Edward rimase basito a fissare l’inutile pezzo di metallo che gli era rimasto tra le mani.
“Non sei tu che possiedi un’arma prodigiosa, Alchimista di Stato!” sputò Anderson con disprezzo, calando entrambe le spade su Edward con un movimento a forbice.
“Fratellone!” gridò Alphonse, allarmato.
Ci fu un clangore metallico che risuonò sinistro nella cripta, e ancora una volta Anderson sussultò, stupito: Edward aveva fermato le spade semplicemente interponendo il proprio braccio destro. La luce rossastra di cui si illuminò l’anello fu l’unico avvertimento prima che diverse picche di vetro spuntassero dalla sabbia, Edward arretrò di scatto, ma una di esse riuscì a dilaniare la stoffa sulla gamba sinistra. Tuttavia, non una sola goccia di sangue fu versata.
“Il tuo braccio, la tua gamba…” Anderson fissò il ragazzo con gli occhi ridotti a due fessure.
“Osserva attentamente, Anderson...” Ed si afferrò il cappotto stracciato e tirò per lacerarlo completamente: il braccio destro del ragazzo, così come la sua gamba sinistra, non erano di carne e ossa, bensì completamente di metallo. “Questo è ciò che succede quando si sconfina in un terreno sacro dove gli uomini non sono ammessi. Questo è il corpo di chi ha tentato una trasmutazione umana... Il corpo di un peccatore.” Lasciò cadere il cappotto a terra. “Attento, Anderson, che a giocare a fare Dio potresti ritrovarti come me” concluse il ragazzo con un sorriso triste.
“Una protesi meccanica, un automail” mormorò Anderson. “La trasmutazione umana è il più proibito dei tabù dell’alchimia, ma tu... hai osato violarlo! E per punizione ti sono stati sottratti due arti!” Edward ricambiò lo sguardo di Anderson con determinazione. “Per questo motivo ti hanno affibbiato quell’appellativo” proseguì l’uomo, guardando il ragazzo con disprezzo. “Edward Elric, l’Alchimista d’Acciaio!”
Il silenzio che seguì fu interrotto dal suono di un’esplosione, e il muro dietro il quale stava la scalinata dalla quale erano scesi i ragazzi venne ridotto in polvere, lasciando entrare nella cripta un piccolo manipolo di preti e suore armati di fucili e pistole, guidato da sorella Heinkel.
“Padre Anderson!” chiamò la donna, vedendo in che condizioni era il campo di battaglia.
L’uomo si ritirò velocemente sulla piattaforma sopraelevata. Passò accanto alla suora coi capelli neri e gli occhiali, che aveva estratto una katana ed era in posiziona, pronta per lanciarsi su Ed e Al. I religiosi accerchiarono i ragazzi formando un semicerchio tra loro e l’uscita. Anderson ghignò, soddisfatto.
“Cenere alla cenere” commentò, prima di urlare: “Fuoco!”
Una fitta sventagliata di colpi partì in direzione dei ragazzi.
 

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Capitolo 4
*** Il Corpo di un Peccatore ***


Capitolo 3 - Il corpo di un peccatore

Rabbia, stupore, la parte, l'attore.
Dottore, che sintomi ha la felicità?
Evoluzione, il cielo in prigione,
questa non è un'esercitazione .

Lorenzo ‘Jovanotti’ Cherubini - ‘Mi Fido Di Te”


Onestamente, Edward e Alphonse non erano del tutto sicuri di ciò che era appena accaduto: la schiera di preti e suore armati che si era frapposta tra loro e l’ingresso era a terra, debilitata da diverse ferite, prevalentemente alle gambe, dove una raffica di proiettili li aveva colpiti.
“Co-cosa vuol dire questo?” fece Anderson, esterrefatto.
Si voltò nella direzione dalla quale erano stati esplosi i colpi e incrociò lo sguardo con la suora con gli occhiali: questa ora impugnava una gigantesca gatling, comparsa chissà da dove. La sollevò e la sbatté in testa all’uomo, tramortendolo. La giovane donna saltò giù dalla piattaforma rialzata e si diresse a grandi passi verso i due ragazzi.
“Insomma!” sbottò, strappandosi il velo dalla testa e lanciandolo a terra. “Non vi chiedo molto, ma un po’ di discrezione?!” Si tolse gli occhiali e li ripose in una tasca dell’abito. “Per colpa vostra ho dovuto bruciare la mia copertura, due mesi interi di lavoro…”
“Ciao, Oriel…” fece Al, con aria mortificata.
Tolti velo e occhiali, la ragazza prese dalla tasca un nastro rosso e se lo legò come fascia facendosi il fiocco sul lato, i suoi occhi a mandorla, scuri ma con una curiosa sfumatura violetta, che scrutavano tutt’intorno.
“Tu non sei Yumiko!” esclamò sorella Heinkel, ferita e a terra, guardando la scena con aria confusa.
Scusa, Heinkel” fece la ragazza, con aria dispiaciuta. “Sorella Yumiko non è mai partita da Aerugo.”
“Ma allora tu chi diavolo sei?!”
“Maggiore Oriel Eckhart, Alchimista di Stato” si presentò la ragazza.
“Un altro cane dell’esercito…” la voce di Anderson, colma d’ira, rimbombò nella cripta.
Scheiße! Eri st noch wach!” esclamò la ragazza, voltandosi di scatto.
“Ecco, magari ripetilo in una lingua comprensibile ai comuni mortali?!” sbottò Edward.
“Ho semplicemente inveito: credevo di averlo steso.”
“Maledetti vermi, falsi, subdoli” ringhiò l’uomo, tenendosi il naso rotto e sanguinante mentre si alzava. “Dio non perdonerà la vostra insolenza, serpenti dalla lingua avvelenata!” Con un lampo della Pietra, le ferite sparirono dal suo volto e l’uomo fu di nuovo in piedi pronto a combattere. “Tutti gli Alchimisti di Stato devono morire!” gridò. Afferrò una manciata di sabbia e la trasmutò in una baionetta, che scagliò verso i tre ragazzi.
Edward batté immediatamente le mani e creò con la sabbia un muro per proteggere sé stesso, suo fratello e la ragazza. Anderson prese un’altra manciata di sabbia, la tramutò di nuovo in una baionetta e scagliò anche quella contro il muro di sabbia, tentando di attraversarlo, e continuò a farlo, crivellando il riparo dei tre alchimisti.
“Non ci posso credere che ti facevi passare per una suora!” esclamò Edward. “Avresti almeno potuto dircelo quando ci hai inviato quel telegramma!”
“Un telegramma ha un numero limitato di parole, Ed! Sprecarle per darti un’informazione inutile sarebbe stato da stupidi” replicò la ragazza, strappandosi la manica dell’abito, sotto alla quale portava, intorno all’avambraccio, un complesso bracciale argentato con sezioni circolari rotanti. “Ho già avuto abbastanza difficoltà a fartelo arrivare, visto che giri il Paese come un forsennato, ringrazia che ti ho fornito una pista interessante, almeno!” Con una capriola, la ragazza uscì allo scoperto e si accucciò rivolta verso Anderson: gli anelli del bracciale si erano incastrati per formare un cerchio alchemico, che si illuminò con lampi bluastri e permise alla ragazza di trasmutare un cannone dal pavimento, che sparò verso il palco rialzato, distruggendolo. “Suggerisco la ritirata!” esclamò poi la ragazza rialzandosi in piedi.
“Sono d’accordo” esclamarono in coro i due fratelli, alzandosi in piedi a loro volta e dirigendosi verso l’apertura nel muro.
“Non così facilmente!” Sorella Heinkel e alcuni uomini erano riusciti a rialzarsi in piedi e a posizionarsi davanti all’unica uscita. Tuttavia, i tre ragazzi corsero verso una delle pareti laterali, lasciando i religiosi di stucco. Edward batté le mani e le posò sul muro per trasmutare istantaneamente un portone con degli orrendi batacchi a forma di teschio di animale, che aprì su di un corridoio dentro il quale i tre si catapultarono, scomparendo nel labirinto di corridoi sotterranei.
-
Il sole era tramontato da poco su Istvàn quando i tre riuscirono finalmente a nascondersi dagli occhi dei cittadini curiosi e dai religiosi armati che li stavano cercando: il vicolo in cui si erano rifugiati era stato mimetizzato da muri creati con l’alchimia e finalmente i tre ragazzi poterono riposarsi.
Oriel arrangiò i cerchi del suo bracciale in modo diverso, prima di posare la mano sull’abito nero, sporco e strappato, e trasmutarlo in un paio di pantaloni e una camicia senza maniche che le garantivano una maggiore libertà di movimento.
“Cosa facciamo adesso?” domandò Alphonse.
“Aspettiamo l’alba, poi cerchiamo di metterci in contatto con le truppe stanziate a Istvàn” disse Edward. “Tra la Pietra Filosofale e quel manipolo di preti e suore, non possiamo permetterci di affrontarli di nuovo.”
“Assolutamente no” lo interruppe Oriel con tono categorico. Edward le scoccò un’occhiataccia. “Coinvolgere l’esercito in questo momento è una pessima idea” spiegò la ragazza. “L’ostilità dei militari ha già indisposto i civili, rischiamo di fomentare scontri inutili!”
Edward borbottò qualcosa di incomprensibile, ma non ribatté.
“Perché sei stata mandata a Istvàn, e sotto copertura per di più?” chiese invece.
“Il colonnello voleva sapere chi c’era alla guida di questa città e se costituiva un pericolo” raccontò Oriel. “Stiamo parlando di un culto religioso, e visto il pessimo precedente con Ishbal, Amestris non vuole avere problemi. Anderson sembrava una persona normale, all’inizio, nonostante il suo odio per i militari. Poi, quattro settimane fa, ha ricevuto quell’anello, da un ‘Emissario di Dio’ ha detto, ed ha cominciato a compiere miracoli…”
“Ed è allora che hai pensato di inviarci il telegramma” concluse Al, ma la ragazza scosse la testa.
“No, per quello ho voluto aspettare. Avete visto la dimostrazione stamattina: questa è la terza volta che Anderson riporta qualcuno in vita…”
“Hai incontrato gli altri due?” domandò Ed, con improvviso interesse.
Oriel annuì.
“Brevemente e di sfuggita: dopo essere tornati in vita, i redivivi vengono accompagnati in una stanza preparata per loro, e qui ricevono la visita dell’Emissario. Questo ordina loro di ritirarsi in preghiera per tre giorni e tre notti, dopodiché essi devono recarsi in pellegrinaggio presso una città sacra di Aerugo finché la loro anima non sarà guarita... ma nessuno di loro è ancora tornato. Capisci che non mi fido dell’arrosto, ma...”
“Non ti fidi di cosa?”
“Dell’arrosto. Voglio dire, non ho avuto la possibilità di investigare più a fondo. La cosa che non mi torna è che, quando Anderson riporta in vita qualcuno, il potere dell’anello non si attiva: non c’è nessuna trasmutazione, solo quel fumo strano…”
“È una messinscena, come pensavo… Ma come ci riesce?”
“Però, Edward…” cominciò Oriel, dondolandosi sui tacchi, incerta. “Non sono per niente convinta che il padre sia colui che orchestra questa messinscena: la sua fede lo rende cieco. Se riuscissimo a fargli vedere la verità, potremmo evitare inutili…”
La ragazza fu interrotta dalla voce di Anderson: proveniva da numerosi altoparlanti disseminati per la città ed era udibile probabilmente anche a qualche chilometro di distanza dal centro abitato.
“Cittadini, oggi tre militari infedeli hanno attentato alla mia vita. Sono ancora in città e sono molto pericolosi, perciò, fino al loro arresto e confinamento, vi chiedo di non lasciare le vostre case per nessun motivo.” L’annuncio proseguiva con la descrizione dei tre alchimisti.
“Dicevi?” fece Edward, sarcasticamente. La ragazza gli lanciò un’occhiataccia. “Quel maledetto occhialuto sa benissimo che in questo modo i suoi fedeli non ci penseranno due volte prima di venire a cercarci per un bel linciaggio” proseguì Ed tra i denti. “Voi due andate a nascondervi, ho un piano” aggiunse poi, con un sorriso furbo.
Oriel guardò Al, poi alzò le spalle con un sospiro.
“Fai come ti pare, ti verremo a salvare quando sarai nella cacca”.
“Grazie per la fiducia” borbottò il ragazzo.
I tre si divisero. Nessuno di loro si accorse che due figure umane, una splendida donna e un uomo piuttosto grasso, li stavano spiando, appollaiati su una struttura di ferro che collegava due palazzi.
Quando arrivarono i cittadini di Istvàn, armati di scope, vanghe, padelle, picconi e altre armi improvvisate, trovarono Edward e Alphonse in piedi in mezzo a un crocevia ad aspettarli.
“Ascoltatemi: i miracoli che fa quell’uomo non sono nient’altro che alchimia!” annunciò Ed, cercando di risolvere la situazione in maniera diplomatica.
“Bugiardo!” gridò una voce. La folla si aprì per far passare Esther. “Gli alchimisti sono dei miscredenti che cercano di innalzarsi al di sopra di Dio, ma sono destinati a cadere!”
“Queste sono parole tue o di padre Anderson?” le chiese Ed.
“Le mie parole dicono solo la verità: nessun alchimista sarà mai in grado di eguagliare il potere di Dio. Lo dimostra il fatto che il mio Dietrich è tornato a me.”
“E magari ti ha anche detto che tra poco dovrà lasciarti per compiere un lungo pellegrinaggio, non è vero?” insistette. “Esther, sei davvero sicura che quello sia il tuo fidanzato?”
La risposta della ragazza fu coperta dal chiasso degli abitanti, che avevano ripreso ad agitare le armi improvvisate verso i fratelli Elric, ma a Edward non sfuggì il suo sguardo confuso. Riuscì a malapena a scorgere Esther che si voltava e si allontanava di corsa, quando improvvisamente il terreno cominciò a tremare. Una gigantesca statua raffigurante Dio, apparentemente formata da alberi e arbusti intrecciati, camminava a passi pesanti verso i due alchimisti. Edward spalancò gli occhi, sorpreso e terrorizzato allo stesso tempo. Trasmutare materia organica era molto difficile, molto dispendioso e molto pericoloso. Ed non fece in tempo a gridare un avvertimento, né a reagire: una gigantesca mano chiusa a pugno si abbatté sull’armatura di Al, riducendola a un cumulo di rottami, mentre la seconda mano afferrava il ragazzo e lo imprigionava nel suo gigantesco pugno. La folla acclamò la miracolosa apparizione, mentre la statua riportava Edward verso la chiesa.
-
Esther tornò nella sua stanza. Alle persone che aveva incontrato lungo la strada aveva rivolto sorrisi e saluti educati, ma in realtà era molto turbata: non riusciva a togliersi le parole di Edward dalla testa. Già quella mattina, nei pochi momenti che aveva potuto passare insieme a Dietrich prima che Anderson lo accompagnasse nella stanza dove avrebbe trascorso i tre giorni in preghiera, aveva notato qualcosa di strano nel comportamento del suo ragazzo, in particolare nel modo in cui la guardava. Tutti dettagli che erano stati trascurati nell’euforia del momento, ma che il calare della notte e i recenti inquietanti avvenimenti, l’attacco dei due alchimisti a padre Anderson e il tradimento di sorella Yumiko, avevano in qualche modo messo in luce. Con un lungo sospiro, Esther chiuse le mani a pugno, aggiustò il proprio vestito e aprì la cassapanca di legno che teneva ai piedi nel letto.
Pochi minuti dopo, la ragazza camminava lungo il corridoio di pietra che andava verso la stanza dove Dietrich avrebbe dovuto trovarsi in preghiera. Esther aprì cautamente la porticina di legno e sbirciò dentro: sembrava deserta.
“Esther?” Non lo era. Esther si voltò, i nervi a fior di pelle. Forse se l’era immaginato, ma per un attimo le era sembrato di vedere con la coda dell’occhio alcune scintille rosse prima di mettere a fuoco la figura snella del suo fidanzato. “Non dovresti essere qui” le disse lui con un sorriso dolce, simile a quello che lei ricordava. Lo stesso sorriso che aveva quando lei tornava a casa con ferite di cui non voleva parlare, o quando le preparava i panini con il burro d’arachidi che lei tanto amava. Simile, ma dolorosamente diverso.
“Dietrich” cominciò lei, cercando di tenere la voce ferma. “Ti ricordi come ci siamo incontrati?”
Silenzio, un silenzio troppo teso perché fosse tranquillo.
“Perché mi fai una domanda del genere?” rise lui con leggerezza, ma senza rispondere.
Esther deglutì: nel migliore dei casi ci avrebbe solo fatto una figuraccia, e non voleva nemmeno pensare al peggiore.
“Ero solo una ragazzina della resistenza, senza genitori, senza speranze, senza futuro” raccontò. “Un’arma mossa da un odio verso persone che nemmeno conoscevo. E quando hanno bruciato la mia casa, tu mi hai accolto, anche se ero tua nemica, anche se non sapevi nulla di me, anche se…” Esther ringraziò la penombra in cui la cappella era immersa, e sperò che le lacrime che le rigavano il viso sembrassero di dolore, e non di rabbia. “E mi hai promesso che saresti sempre stato dalla mia parte”.
Mentre parlava, Dietrich non aveva smesso di guardarla, sul volto un’espressione fredda, vagamente persa, quasi che non capisse ciò che lei stava dicendo. Poi quell’espressione che non apparteneva a Dietrich si trasformò nel solito sorriso del ragazzo, quello che lei amava tanto e che era riuscita a immortalare in una fotografia che teneva sul comodino accanto al letto.
“Vale ancora, Esther. Quella promessa varrà per sempre” le disse, asciugandole con una mano fredda le lacrime dal viso.
Esther singhiozzò, ma non per la commozione: lentamente, sollevò l’unica arma che possedeva, una balestra che la sera prima aveva sottratto dalla stanza di sorella Heinkel, e la puntò verso Dietrich.
“Chi sei?” domandò, con la voce spezzata. Dietrich s’immobilizzò. “Chi sei veramente? Io e Dietrich ci siamo incontrati in tempi di pace, quello che ti ho raccontato non è mai successo. E nessuno, nemmeno Dietrich sapeva che un tempo ero nella Resistenza di Aerugo... Avresti potuto mostrarti almeno un po' sorpreso.”
La mano di Dietrich, che ancora sfiorava la guancia di lei, gli ricadde lentamente lungo il fianco. Il ragazzo abbassò lo sguardo, le spalle curve.
“Mi dispiace, non volevo farti soffrire” cominciò. “La mia memoria non è ancora tornata completamente a fuoco da quando sono stato... riportato qui” mormorò, la testa incassata tra le spalle. “Per questo ho cercato di evitarti...” Sollevò appena lo sguardo per incontrare quello della ragazza. “Sono io che non so chi sei: io... non mi ricordo di te.” Per Esther fu come essere colpita da una stilettata al cuore. “Mi dici che eri la mia ragazza, ma io non me lo ricordo” proseguì Dietrich, abbassando di nuovo lo sguardo. “Non ricordo i momenti che abbiamo passato insieme, non ricordo nulla di te...” Chiuse gli occhi e strinse forte le palpebre. “Non ricordo cosa significava amarti.”
La balestra nella mano di Esther tremava. Non sapeva più cosa pensare. Quando il ragazzo mosse un passo incerto verso di lei, Esther si trovò a indietreggiare.
“Tu non mi credi” constatò lui con un’espressione così triste da spezzare il cuore.
Esther scosse la testa.
“Voglio crederti, voglio disperatamente crederti, Dietrich, ma…”
“Ho capito” la interruppe lui, posandole un dito sulle sue labbra. “Allora lascia che te lo dimostri. Vieni con me”.
-
Anderson si svegliò da un sonno agitato popolato da un enorme serpente rosso avviluppato intorno a un albero carico di frutti d’oro. Il serpente inarcò la schiena e gli soffiò contro, i denti scoperti. Aperti gli occhi si trovò davanti una donna mora molto affascinante che indossava un abito bianco che la copriva dalla gola ai piedi.
“Emissario divino!” esclamò Anderson alzandosi dal letto e inginocchiandosi davanti alla donna. “Quale novella?”
Le labbra rosse dell’emissario si curvarono in un sorriso dolce, ma gli occhi viola erano stretti in due fessure. Quando Anderson alzò di nuovo la testa, la donna era scomparsa.
-
Dietrich aprì la porta della stanza buia, illuminandone appena i muri con la luce della candela che teneva in mano. Esther lo seguì, la balestra ancora in mano, seppur non puntata verso il ragazzo. Qualcosa si mosse in fondo alla stanza con un fruscio, e la ragazza si fermò. Con nonchalance, Dietrich scivolò alle sue spalle, frapponendosi tra la ragazza e la porta.
“Cosa stai facendo?” fece lei, stringendo la presa sulla propria arma.
Dietrich tirò un lungo sospiro, grattandosi la nuca con la mano che non reggeva la candela.
“Io l’avevo detto che era una pessima idea” commentò con un tono seccato. “Ma no! Quella puttana era tipo: ‘Nooo, dobbiamo lavorarci la ragazza!’ Fanculo la ragazza, dico io!”
Esther fissò il ragazzo, confusa.
“Non capisco… di cosa stai parlando? Avevi detto che mi avresti mostrato una prova…”
Il ragazzo le appoggiò una mano sulla spalla.
“Tutte bugie” le sussurrò dolcemente all’orecchio, prima di scostarsi, sorridendole. Esther si accorse troppo tardi che con quel movimento le aveva sottratto la balestra.
“Tu non sei Dietrich…”
Il ragazzo alzò le braccia al cielo, lanciando la balestra sul pavimento dietro di lui, che si ruppe in mille pezzi.
“Che brava! Hai indovinato! Abbiamo una vincitrice!” esclamò con un sorriso idiota sul volto, poi ruotò il busto e mandò la ragazza a terra con un potente calcio laterale.
Esther andò a sbattere con la schiena contro la parete della stanza. Il fruscio di poco prima si ripeté, pericolosamente vicino. Il ragazzo che non era Dietrich camminò verso il fondo della stanza, e la fioca luce della candela andò a illuminare una sagoma tozza e sgraziata: era un uomo calvo e grasso.
“Hai fame, Gluttony?” sogghignò il ragazzo. “Ma certo che sì, tu hai sempre fame... Ti ho portato uno spuntino.”
“Davvero posso mangiarla?” chiese l’uomo grasso. Guardò Esther con occhi vuoti ma pieni di bramosia, la saliva che gli colava dalla bocca.
Il volto del ragazzo che non era Dietrich si deformò in un ghigno malvagio, mentre si dirigeva verso la porta della stanza e l’apriva.
“Non lasciarne nemmeno un brandello.”
Esther scattò in piedi, ignorando il dolore causatole dal calcio, e corse verso la porta, ma il ragazzo se l’era già chiusa alle spalle. Un rumore metallico indicò che l’aveva bloccata.
“Comunque devo ammettere che mi piacciono le ragazze piene di grinta come te, Esther” disse il ragazzo, la voce attutita. “Se fossi stata appena un po’più stupida, ti avrei lasciato in vita.”
Esther si voltò a fronteggiare l’uomo grasso di nome Gluttony, che stava avanzando lentamente verso di lei.
“Carne... tenera...” mormorò quello, mostrandole i denti, un sorriso disumano sul volto.
La ragazza urlò terrorizzata, mentre l’uomo le si avventava contro. Proprio in quel momento, il soffitto crollò, e un grosso frammento di pietra colpì Gluttony sulla testa calva, tramortendolo.
Alphonse Elric tese una mano a Esther.
“Qui è pericoloso” disse tranquillamente, come se cadere dal soffitto sopra un uomo mostruoso fosse cosa di tutti i giorni. “Andiamo.”
Dopo un attimo di esitazione Esther afferrò la mano di Alphonse.
-
Dietrich camminava fischiettando per i corridoi della chiesa, quando sentì dei passi avvicinarsi dietro l’angolo successivo.
Padre Anderson svoltò l’angolo, incrociando brevemente un anonimo chierico con i capelli chiari a cui non prestò la minima attenzione.
 

 

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Capitolo 5
*** La Città dell'Eresia ***


Capitolo 4 - La Città dell’Eresia

Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato
e non ascoltò il mio dolore,
ma forse era stanco, forse troppo lontano
davvero, lo nominai invano.

Fabrizio De André - ‘Il Testamento Di Tito’
 
Alcune ore prima…
“Ascoltatemi: i miracoli che fa quell’uomo non sono nient’altro che alchimia!” annunciò Ed, cercando di risolvere la situazione in maniera diplomatica.
 “Bugiardo!” gridò una voce. La folla si aprì per far passare Esther. “Gli alchimisti sono dei miscredenti che cercano di innalzarsi al di sopra di Dio, ma sono destinati a cadere!”
“Queste sono parole tue o di padre Anderson?” le chiese Ed.
“Le mie parole dicono solo la verità: nessun alchimista sarà mai in grado di eguagliare il potere di Dio. Lo dimostra il fatto che il mio Dietrich è tornato a me.”
Dal tetto di un palazzo proprio sopra il crocevia, Oriel e Alphonse osservavano Edward, con al suo fianco una perfetta ma taciturna riproduzione dell’armatura di Al, confrontarsi con i cittadini di Istvàn.
“Non mi ero aspettata l’arrivo di Esther” bisbigliò Oriel. In quel momento, la discrezione era fondamentale.
“Nemmeno io. Comunque sta andando tutto secondo i piani, no?” rispose Alphonse, sempre sottovoce.
Proprio in quel momento, la terra prese a tremare e comparve una statua semovente che raffigurava Dio, formata da alberi e arbusti intrecciati.
Oriel scoccò ad Alphonse uno sguardo truce.
“Ti prego, la prossima volta non dire nulla...”
Se avesse potuto farlo, l’armatura sarebbe arrossita.
“Non ho mai visto un’alchimia del genere: non sapevo si potesse animare della materia vivente” disse Al, per cambiare discorso, indicando la statua-pianta.
Oriel scosse la testa. “Nemmeno io, la quantità di energia necessaria sarebbe esorbitante…ma dev’essere un qualche tipo di Alchimia Organica.”
“Alchimia organica? Ma certo…” mormorò Alphonse. “Come quella che si usa per compiere trasmutazioni umane…”
“A proposito di trasmutazione umana...” fece Oriel lanciando un’occhiata di sbieco al ragazzino in armatura. “Quello che Edward ha detto prima... è vero?” Alphonse non rispose. Oriel fissò l’amico per qualche secondo, in attesa, ma lui non si voltò verso di lei, e non era possibile capire cosa gli stesse passando per la testa. “Riprenderemo questo discorso in un altro momento” cedette la ragazza.
Alphonse fece un breve cenno d’assenso. Proprio in quel momento, la statua-pianta distrusse il falso Al con un semplice gesto della mano, e lui non poté fare a meno di sussultare.
“Ah, fratellone!” esclamò, preoccupato, mentre l’altra mano afferrava Edward e lo portava via.
“Dobbiamo aiutarlo. Immagino che dovremo dividerci…” Oriel si mordicchiò il labbro inferiore. “Questo non lo avevo previsto…”
La folla si disperse. Oriel e Alphonse attesero ancora qualche minuto per essere certi che nessuno potesse vederli. Quando si alzarono, con l’intenzione di scendere dal tetto, una figura apparve nella piazza ormai deserta, costringendoli ad accucciarsi di nuovo: era padre Anderson. L’uomo esaminò da vicino la copia distrutta dell’armatura di Al e, apparentemente soddisfatto, lasciò la piazza in silenzio. Quando il prete si fu allontanato, Oriel si alzò finalmente in piedi.
“Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile” disse la ragazza. “E dobbiamo liberare Edward. Potremmo unire le due cose…”
“E come?”
Oriel sorrise maliziosamente.
“Ho una mezza idea…”
-
Ora
Alphonse ed Esther si arrampicarono sulla torre del campanile, dove Al aveva posizionato un altoparlante ricavato dalla campana. Lo collegò ad alcuni fili che gli aveva procurato Oriel, quindi lo accese.
“Cosa hai intenzione di fare con me?” La voce di Edward, amplificata dalla campana, risuonò per tutta la città.
“Ma questo è tuo fratello!” esclamò Esther.
“Farti semplicemente scomparire adesso susciterebbe il dubbio nella gente di Istvàn: sono ancora acerbi, deboli, ignoranti, hanno bisogno di qualcosa che infiammi la loro fede. Solo così potranno essere salvati.”
“E questo… è padre Anderson!” riconobbe Esther.
“Questo altoparlante è collegato con la cella in cui ha fatto rinchiudere il fratellone” spiegò Alphonse.
“Padre Anderson ha imprigionato Edward?”
“Già. Ha mandato una statua fatta di piante a fare il lavoro sporco.”
“E tu come hai fatto a non essere catturato?”
“Mi sono finto morto.”
Esther lo guardò con espressione sorpresa.
-
Edward era stato rinchiuso in una cella e gli avevano incatenato entrambe le mani sopra la testa, in modo che non potesse né muoversi, né usare l’alchimia.
“Si può sapere perché ce l’hai così tanto con i militari?” chiese Edward, fissando il prete negli occhi.
L’uomo, completamente all’oscuro del fatto che tutta la città lo stesse ascoltando, gli scoccò un’occhiata gelida.
“Voi bastardi, specialmente gli Alchimisti di Stato, sottraete alla Chiesa preziosi servitori. Questi idioti vi seguono, strabiliati dalle vostre capacità sovrumane: una mente semplice potrebbe cominciare a pensare che il potere di un alchimista è simile a quello di Dio. E voi, con la promessa del vile denaro, comprate la fede del prossimo. Pugnale e veleno, trenta denari e una rozza fune!” Nei suoi occhi passò un lampo di rabbia. “Dichiarate di essere al servizio della popolazione, mentre in realtà esercitate solamente potere e violenza. Pensi che non lo sappia? È solo grazie a me che la gente di Istvàn non è stata ancora ridotta come quei cani infedeli di Ishbal.”
Edward strinse gli occhi.
“Sei a favore delle politiche contro Ishbal?”
“La violenza contro un popolo non è mai giustificata, ma l’arroganza degli Ishbaliani di dare un nome a Dio è stata giustamente punita” replicò l’uomo. “Se quel popolo ha sofferto, è anche per Suo volere.”
“Tutto questo non ti sembra un poco ipocrita?  Ti lamenti del potere dell’esercito, però ti sei auto-proclamato leader e guida di questa gente e pretendi di controllarli attraverso la tua religione!”
“Ti sbagli!” esclamò Anderson, alzando il tono della voce e torreggiando minacciosamente sul ragazzo. “Questo ruolo, questo potere, mi sono stati legittimamente assegnati da un Emissario di Dio!”
“Un Emissario di Dio, eh?” mormorò Ed, abbassando il braccio per afferrare un pezzo di pane dal vassoio che gli avevano portato per colazione. “Interessante… Sei assolutamente certo che non si tratti di un impostore?” chiese, addentando la pagnotta.
Anderson non si fece turbare da questa domanda.
“Non negherò di averci pensato, soprattutto all’inizio, quando ero pieno di dubbi: perché ero stato scelto io, perché l’Emissario mi aveva mandato proprio in una cittadina insignificante come Istvàn, perché il potere che mi aveva donato si manifestava solo attraverso questo anello?” disse, sollevando la mano, al cui dito brillava l’anello con incastonata la pietra rossa. “Ma le vie del Signore sono infinite, e finché la gente di Istvàn penserà di avere un Dio onnipotente che resuscita i morti e che veglia su di loro, non sarà spaventata da nulla se non dall’agonia eterna della loro anima immortale, e io potrò mostrare loro la via per la salvezza. Perché la salvezza è nell’unico, vero Dio, e…” Padre Anderson ammutolì: finalmente si era accorto che Edward era libero dalle catene e stava sbocconcellando la sua colazione. “Ma che…”
“Perché ti sei fermato? Stava diventando interessante!” esclamò il ragazzo. “E credo proprio che lo pensino anche tutte le persone che hai definito ‘deboli’ e ‘ignoranti’ e che vivono in una, a detta tua, ‘cittadina insignificante’…”
Con un sorriso furbo, Ed si fece da parte per mostrare all’uomo il buco nel muro dentro al quale era appoggiato il microfono collegato alla campana-altoparlante, che aveva tenuto nascosto per tutto il tempo standoci seduto davanti.
Anderson ringhiò, mentre trasmutava dalla polvere del pavimento delle baionette, con le quali attaccò Edward. Con una di esse tranciò il cavo del microfono, ma ormai era troppo tardi. Edward si scansò per evitare le baionette del prete, poi batté le mani e trasmutò il suo braccio automail in una lama, con la quale parò il secondo attacco di padre Anderson. I due si scambiarono diversi colpi senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere. Il prete, però, era molto più anziano dell’alchimista, e dopo alcuni minuti di confronto, vedendosi in difficoltà, non poté fare altro che darsi alla fuga. Passò accanto a sorella Heinkel e ad altri religiosi, confusi e spaventati, ma li ignorò e corse fuori dalla chiesa. Giunto sul sagrato, fu costretto a fermarsi: tutta Istvàn si accalcava davanti all’edificio agitando i pugni e gridando. In mezzo alla folla c’era anche Oriel, di nuovo in abito da suora e con i grandi occhiali tondi.
“Padre Anderson, pensate davvero ciò che avete detto dei vostri cari fedeli?” gridò in tono accorato. Era tornata a interpretare il ruolo di sorella Yumiko. “Come potete essere così crudele?”
La folla gridò e avanzò verso il prete, e Oriel-Yumiko fu inghiottita dal flusso di persone che si stavano riversando sul sagrato della chiesa. Vedendosi circondato, Anderson non riuscì a mantenere il proprio autocontrollo.
“Voi non siete nulla! Siete cenere! Siete polvere!” sbraitò alla folla. “È solo per grazia divina che ho deciso di fermarmi in questa città a proteggere voi, che discendete dallo stesso popolo da cui hanno avuto origine gli infedeli Ishbaliani! Ringraziate la misericordia Divina e temete la sua ira!”
Con un gesto della mano e un bagliore dell’anello, fece crescere a dismisura gli alberi che circondavano la piazza, che con le loro radici fecero saltare via le pietre della pavimentazione. Rovi taglienti come acciaio minacciarono la folla, che arretrò, spaventata. Edward, che aveva seguito il prete fin sul sagrato, intervenne in difesa della popolazione, tagliando gli arbusti senza pietà con la lama del suo braccio destro.
“Mi hai proprio stufato con le tue spacconate, vecchio” ringhiò il ragazzo. “Ora goditi il mio spettacolo!”
Batté le mani e le posò a terra. Dietro di lui si udì un boato, e l’enorme statua di Dio col sole in mano, che stava seduta sul trono dietro all’altare della chiesa, si alzò in piedi e, sfondando il tetto dell’edificio e parte della parete, uscì sul piazzale.
Alphonse osservava compiaciuto la scena dall’alto del campanile.
“Anderson non sarà mai in grado di muovere un oggetto così grande” disse. “Mio fratello sì, perché lui è un genio.”
Inginocchiata accanto a lui, Esther piangeva silenziosamente, condividendo con i suoi concittadini il sentimento di paura e disgusto che li aveva colti quando padre Anderson si era rivelato per ciò che era veramente: un fanatico religioso che li considerava feccia.
La statua di Dio abbassò un braccio e bloccò padre Anderson a terra. Il prete si aggrappò alla mano della statua per tentare di distruggerla e liberarsi, ma quando utilizzò il potere dell’anello con la pietra rossa, questo, inaspettatamente, gli trasmutò il braccio in un orrendo ammasso di carne e pietra. L’uomo gridò per il dolore e lo shock, e si strinse il braccio al petto. Ed gli corse incontro e gli afferrò la mano per osservare meglio l’anello. La sua luce smise di pulsare, quindi la pietra rossa s’incrinò e poi si ruppe.
“Ma cosa...” farfugliò, scioccato. “Questa non è la Pietra Filosofale!” Subito dopo lo stupore si tramutò in rabbia. “Abbiamo fatto questo gran putiferio... e abbiamo perso tutto questo tempo... per una patacca?!” gridò.
La rabbia lasciò ben presto il posto alla depressione. In silenzio, il ragazzo si voltò e si allontanò dal sagrato. La folla si apriva al suo passaggio, ma nessuno disse nulla. Passò accanto a Oriel, che gli si affiancò.
“Mi dispiace che non fosse la vera Pietra, Ed” disse, posandogli una mano sulla spalla. “Ma guarda il lato positivo: hai liberato la città da un fanatico megalomane!” Edward ignorò le sue parole, e la ragazza capì che non c’era altro da dire.
Giunti ormai alle porte della città, furono raggiunti da Alphonse ed Esther. La ragazza aveva il viso rigato dalle lacrime, ma l’espressione risoluta e furiosa.
“Perché ci avete fatto questo?!” li attaccò la ragazza. “I miracoli di padre Anderson rappresentavano la nostra unica speranza!”
“Stai dicendo che sarebbe stato meglio lasciare tutto com’era?” replicò Ed, serio.
Esther finse di non averlo sentito.
“Ora io che farò? Quale sarà la mia ragione di vita da questo momento in avanti? Forza, ditemelo!” gridò, guardandoli uno alla volta.
Ed la fissò per qualche istante, poi si voltò.
“Devi scoprirlo da sola” disse senza guardarla. “Alzati e cammina. Se non altro, tu hai ancora tutte e due le tue vere gambe...”
Detto questo, riprese a camminare, diretto verso la meta successiva. Dopo pochi secondi, Oriel lo seguì, e poi anche Al, mentre Esther si accasciava a terra, in lacrime.
-
Sorella Heinkel era comparsa al momento giusto e aveva aiutato padre Anderson a scampare al linciaggio, trascinandolo insieme a lei all’interno della chiesa, sbarrando le porte e portandolo nella stanza privata dell’uomo, dove qualcuno stava già aspettando.
“Emissario di Dio, perché mi hai mentito?” chiese padre Anderson all’angelo coi capelli scuri e gli occhi viola. “Quell’oggetto non conteneva potere divino, ma lurida alchimia! Credevo di essere stato scelto per diventare uno strumento di Dio!”
Sorella Heinkel rimase in piedi davanti alla porta, sul viso un’espressione indecifrabile.
“Certo che era alchimia” rispose l’Emissario, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. “Per la precisione, era una Pietra Filosofale incompleta. Questa città non era altro che una semplice esca per attirare quanti fossero stati interessati a quell’oggetto...”
“Cosa?!” gridò Anderson.
Dall’ombra spuntò l’uomo grasso e calvo che aveva tentato di mangiare Esther.
“Lust, che dici, adesso posso mangiarlo, il signore?” chiese con la bava alla bocca.
“E quest’essere che cosa sarebbe?” fece Anderson, arretrando di un passo. “Perché ti ha chiamata Lust?”
La donna sorrise.
“Perché è il mio nome.”
Si sbottonò il collo dell’abito bianco e Anderson si accorse con orrore che sul petto della donna era tatuato un piccolo serpente rosso che si mordeva la coda.
“Tu… non sei un angelo… sei un demone!” gridò.
“Allora, Lust?” si intromise il grassone. “Posso mangiarlo?” Tirò fuori la lingua, e Anderson vide che anche su di essa era tatuato lo stesso serpente.
Il sorriso della donna si fece crudele. Alle sue spalle, sorella Heinkel scoppiò in una risata, mentre i suoi occhi, dietro gli occhiali da sole, si tingevano di viola. Padre Anderson si voltò verso di lei, scioccato.
“Sorella Heinkel...” mormorò. “Anche tu...”
“Spiacente, padre, ma se avessi fatto più attenzione ti saresti accorto che c’erano due sorelle Heinkel fuori sul sagrato.”
 “Voi siete… demoni!” esclamò padre Anderson.
L’Emissario di Dio fece un gesto con la mano.
 “Mangialo pure, Gluttony.”
-
Il gruppo di preti, suore e chierici della Chiesa di Istvàn si era riunito dietro l’altare della chiesa, tanto confuso quanto la popolazione dai recenti avvenimenti. Sorella Heinkel aveva cercato di calmare la folla, ma invano, e aveva dovuto ripiegare a sua volta all’interno della chiesa. Improvvisamente, padre Anderson comparve da dietro l’abside, scuro in volto e col braccio ferito fasciato.
“Padre! La prego, ci dica cosa fare? La gente è fuori controllo!” esclamò sorella Heinkel non appena lo vide.
L’uomo trasse un lungo sospiro prima di parlare.
“Aprite le porte: parlerò io con loro” ordinò. I religiosi obbedirono e aiutarono l’uomo ferito a salire sul pulpito, mentre la gente arrabbiata e confusa si riversava nella navata. “Gente di Istvàn, vi devo delle scuse.” Anderson parlò nel microfono non appena vide che la chiesa cominciava a riempirsi: la sua voce risuonò in tutto l’edificio e anche all’esterno. “Ho peccato di arroganza, ho lasciato che la rabbia del mio passato prendesse il sopravvento e ho usato il potere di Dio per i miei fini e scopi, invece di usarlo per diffondere il Suo verbo e aiutare voi... e di conseguenza, l’ho perduto” raccontò con rammarico. “Non sono che un uomo” sospirò, scendendo lentamente gli scalini del pulpito per portarsi tra la folla. “Ed ora non posso che scendere al vostro livello per chiedervi aiuto per percorrere una via più pura. Vi prego, accompagnatemi in una rivoluzione della nostra Chiesa, una Chiesa al servizio della gente, una Chiesa dove tutti sono davvero uguali e nessuno viene discriminato per il suo sesso, il suo livello di cultura o il colore della sua pelle.”
La folla si guardò intorno, senza che nessuno sapesse bene come rispondere: l’uomo sembrava davvero pentito. Una bambina si fece avanti e afferrò la mano dell’uomo, che le sorrise caldamente, sollevandola da terra e prendendola in braccio. La piccola fece un gridolino di gioia, e padre Anderson le accarezzò la testa con dolcezza. Il gesto spontaneo dell’uomo scaldò il cuore dei presenti, che si avvicinarono ad Anderson con più fiducia.
Da una delle arcate superiori, insieme all’uomo grasso che stava ancora finendo di divorare un braccio del prete, la donna di nome Lust osservava la scena.
“Mi spiace Envy, ma a quanto pare dovrai mantenere quel ruolo per qualche tempo…” disse con voce atona.
Come se l’avesse sentita, ‘Anderson’ alzò lo sguardo verso di lei e sorrise. 

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Capitolo 6
*** Mamma ***


Capitolo 5 - Mamma

And once again mother,
You are right there mother,
You are my guiding light,
My shoulder, my shelter, my satellite,
I'm weak, you're bright.

Axel Hirsoux - ‘Mother’

 

“Sentite,” cominciò Oriel. “Voi due avevate in programma di andare da qualche parte?”
Lei e i due ragazzi si trovavano alla stazione, in attesa del treno di mezzogiorno. Dopo tutto quello che era successo volevano lasciare Istvàn il prima possibile.
“Ma tu non dovevi tornare a fare rapporto a East City?” fece Ed, allungando il collo per vedere se il treno spuntava da dietro la curva.
“Eh, sì…” fece lei. “Ma non voglio” aggiunse dopo una breve pausa. Edward le scoccò un’occhiataccia. “Non ancora… East City in questo periodo dell’anno è terribilmente umida…”
“Hai chiamato il colonnello per fare rapporto, almeno?” le chiese il ragazzo, ormai intuendo in che direzione stava andando il discorso.
 La ragazza, infatti, annuì vigorosamente.
“Ha detto che finché sto dietro a voi due e mi assicuro che alla fine torniate con me a East City posso girare ancora un po’. Tu da quando è che non scrivi un rapporto?”
“A questo punto torniamo subito a East City. Non abbiamo più piste da seguire in ogni caso…” sbuffò Edward, che preferiva fare rapporto ai suoi superiori piuttosto che trascinarsi Oriel in giro. Oriel aveva talento per l’alchimia, ma era anche capace di perdere totalmente il controllo quando si trovava di fronte a tecniche alchemiche particolari.
“No, dai! Tanto è sulla strada!” esclamò la ragazza.
“Cosa è sulla strada?” domandarono i due ragazzi, confusi.
“Karakura, anche detta la Città dell’Oro!” esclamò lei, sbattendo il palmo della mano sul tabellone degli orari del treno. La città di Karakura figurava sulla traiettoria verso East City. “Aggiungerei che questo titolo è alquanto ironico, visto che le sue miniere sono esaurite da un pezzo… Comunque, ho saputo che ci vive una famiglia di medici alchimisti, la famiglia Ishida, e volevo dare un’occhiata alle loro ricerche prima di tornare al Quartier Generale. Venite con me?”
“Karakura, ho già sentito questo nome… “ rifletté Alphonse, mentre Edward sembrava  interessato a qualcos’altro. “Medici alchimisti, hai detto? L’alchimia medica appartiene al Secondo Ramo, non è così?”
“Già, ci sono poche persone che la praticano qui ad Amestris, non voglio perdere questa occasione.”
“D’accordo, veniamo con te” disse Edward improvvisamente, lasciando di stucco la ragazza.
“Fantastico!” esclamò lei, felice.
Il treno arrivò pochi minuti dopo. Una volta saliti, Oriel estrasse dalla bisaccia che portava a tracolla alcuni libri, un taccuino e una matita, facendo fuoriuscire nel mentre diversi fogli, tra cui lettere, comunicazioni militari, appunti di alchimia e un manifesto da ricercato per le famigerate Sorelle Thompson, abilissime e imprendibili ladre con una  taglia da 800.000 Cenz. Edward si mise a guardare fuori dal finestrino la città che si allontanava, mentre Alphonse, abituato ad essere al centro dell’attenzione per via del suo aspetto, si lanciò un’occhiata ansiosa attorno. Così facendo gli cadde l’occhio sui libri che Oriel stava usando come base per scrivere.
“Oh!” esclamò lui, riconoscendo il titolo del volume in cima alla pila. “Fratellone, guarda!” Ed si voltò verso di lui. “È il nostro primo libro di alchimia!”
“Sul serio? Fa vedere...”
Oriel estrasse il libro che Al aveva notato e lo porse ad Edward, che si mise a sfogliarlo con un mezzo sorriso.
“Ti ricordi? Era finito tra i libri di ricette della mamma…” continuò Al, ma Edward stava fissando un cerchio alchemico molto semplice mostrato in un’immagine del libro, e si era perso nei suoi pensieri...
-
Villaggio di Reesembool, area sud-est di Amestris, Shambala. Anno 1905.
“Io mi sto annoiando!” si lamentò la bambina bionda.
“Aspetta ancora un momento, Winry!” le disse Alphonse.
Lei sbuffò. Era a casa dei suoi amici Ed e Al, che stavano disegnando sul pavimento un’immagine presa da un libro. Le avevano detto che era un regalo per lei, ma la bambina non capiva. Strinse tra le braccia il suo cucciolo di cane, un bastardino dal pelo bianco e nero e l’aria allegra.
Quando il cerchio fu terminato, i due presero qualche manciata di sabbia e la posero al centro, poi si misero ai due lati opposti e lo attivarono: era la loro prima trasmutazione alchemica in assoluto.
Winry indietreggiò, spaventata dalla luce emanata dalla trasmutazione. La sabbia al centro del cerchio cominciò a vorticare e a prendere la forma di qualcosa... qualcosa di forma vagamente umana... che la fissava con occhi vuoti. La bambina strillò e corse via terrorizzata, gli occhi azzurri pieni di lacrime.
“Winry!” la chiamò Ed, mentre la reazione alchemica terminava e al centro del cerchio compariva una piccola bambola.
“Cosa sta succedendo qui?” esclamò Trisha, la mamma dei fratelli, entrando nella stanza.
Era una bella donna coi capelli castani e gli occhi verdi e indossava un grembiule sopra un abito a mezze maniche. Winry era dietro di lei, aggrappata al suo vestito.
“Noi volevamo solo farle un regalo!” esclamò Edward.
“E che regalo!” intervenne una voce. Tutti si voltarono verso l’anziana donna che aveva fatto il suo ingresso nella stanza. Era Pinako Rockbell, la nonna di Winry, proprietaria del negozio Rockbell Automail dove costruiva, vendeva e installava le protesi meccaniche. Era anche una vecchia amica del padre dei fratelli, ed era per questo che i due bambini la chiamavano zia. La donna andò verso il centro del cerchio alchemico e raccolse da terra la bambola. “Siete già due alchimisti provetti” aggiunse, rigirandosela tra le mani.
I bambini arrossirono.
“Ero convinta che non sapessero nulla di alchimia” rifletté Trisha ad alta voce.
“Evidentemente hanno preso tutto dal padre” fu il commento della zia.
“E quand’è che papà vi avrebbe insegnato?” chiese allora la donna, rivolta ai suoi figli.
“Non l’abbiamo imparata da lui, visto che non c’è mai” rispose subito Ed. Indicò il volume di alchimia ancora aperto sul pavimento. “Abbiamo solo letto quel libro.”
“E siete riusciti a capirlo?”
I due bambini alzarono le spalle.
“Insomma...”
Trisha scambiò un’occhiata con zia Pinako.
“Winry, tesoro, perché non torni a casa con la nonna?” le disse accarezzandole la testa. “Voi due venite con me” disse poi rivolta ai suoi figli.
Poco dopo la donna aveva aperto la porta dello studio. Era la stanza in cui suo marito passava la maggior parte del tempo quando era a casa e non era impegnato in uno dei suoi continui viaggi, viaggi improvvisi di cui non diceva mai la meta o quanto tempo sarebbero durati.
I bambini rimasero fermi sulla soglia, timorosi di entrare.
“Ricordatevi che i libri vanno rimessi al loro posto” disse Trisha, aprendo le tende per far entrare più luce nella stanza, così che Ed e Al potessero vedere l’enorme libreria in fondo alla stanza. “Inoltre, quando papà tornerà a casa, ricordatevi di ringraziarlo.”
“Sì!” esclamarono i due bambini, azzardandosi ad entrare.
La donna rimase ad osservarli mentre prendevano alcuni libri e si mettevano per terra a leggerli. Le ricordavano tanto suo marito, specialmente Edward, che gli somigliava molto anche fisicamente. E quando lui alzò la testa dal libro, lei gli sorrise.
-
Nei due anni successivi i bambini impararono moltissime cose grazie ai libri di alchimia. Il padre non era ancora tornato a casa, e questo rendeva Trisha sempre più triste. Cercava di non farlo vedere ai bambini, ma Edward in particolare aveva cominciato a nutrire un profondo odio nei confronti di quell’uomo. Gli dava quasi fastidio che la mamma spesso li paragonasse a lui. In quei momenti preferiva distrarsi andando a trovare Winry.
Un giorno, però, appena lui e suo fratello entrarono in casa Rockbell, capirono che qualcosa non andava. La bambina era in lacrime e zia Pinako stringeva una lettera di condoglianze.
-
“Fratellone?” chiamò Al. “Tutto bene?”
Edward si riscosse dai suoi pensieri.
“Al, ti ricordi di quando Winry ci disse che i suoi erano morti nella guerra di Ishbal?” gli chiese.
Al abbassò la testa.
“Sì... Come piangeva. E dire che solo il giorno prima era così felice…” Si interruppe. “Quella fu la prima volta che parlasti di homunculus, o sbaglio?”
“Homunculus? Intendi gli uomini artificiali creati con l’alchimia?” chiese Oriel.
“Erano solo le stupide illusioni di un bambino” si affrettò a rispondere Ed. “Qualunque cosa si faccia, un morto non può ritornare in vita” aggiunse con freddezza.
Oriel fissò l’espressione cupa dell’amico ripensando a quello che aveva detto nei sotterranei della chiesa di Istvàn e chiedendosi quando sarebbe arrivato il momento giusto per parlarne seriamente.
-
Villaggio di Reesembool. Anno 1909.
Edward spalancò la porta di casa, seguito da Alphonse.
“Scusaci, mamma! Abbiamo fatto tardi perché...”cominciò Ed, ma le parole gli morirono in gola.
Trisha era stesa a terra priva di sensi.
“Mamma!” gridarono i bambini, correndo verso di lei.
Chiamarono immediatamente un dottore, ma l’uomo non poteva fare nulla per lei. Il dolore provato per l'allontanamento del marito l’aveva logorata per anni, finché il corpo della donna non aveva ceduto.
Trisha morì poco tempo dopo. A nulla valsero i tentativi di Ed e Al di contattare le persone che conoscevano il padre per chiedere aiuto.
Ora erano soli.
Fu in quel periodo disperato che Edward cominciò a pensare seriamente alla trasmutazione umana, sebbene fosse il più grande tabù dell’alchimia. Lui e suo fratello recuperarono ogni singolo libro in cui era citato l’argomento, diventarono gli apprendisti di un’alchimista, senza rivelarle il loro vero obiettivo, e quando finalmente tornarono a Reesembool erano cambiati sia fisicamente che psicologicamente. Ed erano determinati ad andare fino in fondo.
-
Villaggio di Reesembool. Anno 1910.
La sera si preannunciava cupa e piovosa. Il rumore prodotto dal gessetto sul pavimento era l’unico suono che rompeva il silenzio carico di tensione in cui era avvolta la stanza. Gli unici testimoni di ciò che stava per accadere erano alcune armature da collezione e numerosi libri aperti sparsi per terra. Edward e Alphonse stavano finendo di disegnare un enorme cerchio alchemico sul pavimento, al centro del quale vi era un contenitore con al suo interno gli elementi chimici necessari per creare un corpo umano adulto, più due gocce di sangue per richiamare l’anima di Trisha.
Fuori iniziò a piovere.
Incuranti degli scrosci, i due poggiarono entrambe le mani sul cerchio. Le linee di gesso si illuminarono di una calda luce e sprigionarono un'energia potentissima, che si propagò in tutta la stanza: la trasmutazione alchemica aveva avuto inizio. Presto tutti quegli elementi chimici si sarebbero ricombinati in un’altra forma completamente diversa, e il loro desiderio sarebbe stato esaudito. Edward sorrise tra sé: stava andando tutto come previsto.
Improvvisamente l’energia sprigionata dal cerchio alchemico aumentò d’intensità e la sua luce calda cambiò colore, tingendo la stanza di freddi riflessi viola. L’aria intorno ai due si saturò di elettricità statica e alcuni oggetti nella stanza cominciarono a cadere a terra e a frantumarsi. Edward si guardò intorno, disorientato, ma un grido terrorizzato lo fece voltare verso Alphonse.
L’energia alchemica lo stava attaccando: quelli che sembravano tentacoli neri lo aveva circondato e gli si erano avvinghiati al braccio destro. Edward fece per alzarsi e correre da lui, ma qualcosa lo trattenne per la gamba. Si voltò per tentare di liberarsi e si rese conto che a trattenerlo era la stessa entità oscura che aveva attaccato il fratello. Si voltò di nuovo verso Alphonse, tentando disperatamente di avvicinarsi, mentre questo veniva trascinato verso il vortice oscuro che si stava formando in mezzo alla stanza, in corrispondenza del contenitore degli elementi. L’energia lo stava letteralmente divorando, e ormai l’intera parte inferiore del corpo era scomparsa. Allungò disperatamente la mano verso il fratello maggiore, gli occhi pieni di terrore. Questo tentò di raggiungere la mano tesa, incurante del fatto che anche la sua gamba si stava velocemente scomponendo, ma quando credette di averla afferrata si ritrovò a stringere il nulla. Suo fratello era stato completamente risucchiato.
La luce diventò sempre più forte, e Edward urlò con tutto il fiato che aveva.
-
Alphonse riprese coscienza. Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto privo di sensi, ma si rese immediatamente conto che c’era qualcosa di strano: non sentiva più il suo corpo. Sollevò un braccio e si accorse di essere all’interno di una delle armature da collezione nello studio del padre. No, era peggio di così: lui era l’armatura.
Edward era seduto a terra poco distante da lui e si stringeva la spalla destra.
“Mi dispiace, Al...” mormorò con voce rotta.
Alphonse sussultò: il braccio destro e la gamba sinistra del fratello erano scomparsi. Il sangue che sgorgava dalle ferite si stava spargendo su tutto il pavimento.
“Fratellone!” esclamò Al, afferrando Ed prima che si accasciasse a terra.
“Con un braccio... sono riuscito solo a... a legare la tua anima a quell’armatura...” spiegò il bambino debolmente. “E per quanto riguarda la mamma... lei... non era... umana...”
Al guardò verso il punto dove avrebbe dovuto esserci il contenitore degli elementi, e desiderò di non averlo mai fatto. Quello che sembrava un grumo di carne, ossa e organi lo fissava con un unico occhio rosso.
“Com’è possibile?! La tua formula era perfetta!” gridò.
“Sì... La formula era giusta... Siamo noi che... che abbiamo sbagliato...”
-
Quando Winry e la nonna Pinako si trovarono di fronte un’armatura di due metri che teneva tra le braccia Edward, sanguinante, senza due arti e quasi privo di sensi, faticarono a riconoscere in lui Alphonse. Prestarono immediatamente le prime cure a Ed, poi cercarono di farsi raccontare cos’era successo dal fratello.
In quel momento qualcuno bussò alla porta. Pinako andò ad aprire e si trovò davanti un giovane uomo che indossava l’uniforme militare blu dell’esercito di Amestris. Era bagnato fradicio, nonostante l’impermeabile.
“È permesso?” chiese abbassandosi il cappuccio. I capelli neri gli ricaddero sulla fronte, senza però coprire gli occhi scuri a mandorla, una caratteristica più che rara tra gli abitanti di Amestris a cui gli abitanti di Reesembool erano abituati.
Alphonse si accorse che l’uomo aveva in tasca un grosso orologio, assicurato ai pantaloni da una catenella. “È un Alchimista di Stato!” realizzò.
“Cosa vuole l’esercito da noi?” chiese la signora anziana.
L’uomo si frugò in tasca ed estrasse una busta spiegazzata. “Un mio conoscente ha ricevuto questa lettera” spiegò, mostrandola ai tre.
“È una di quelle che abbiamo mandato io e Edward” esclamò Al, riconoscendola.
“Anche a me interesserebbe sapere dove si trovi vostro padre” annuì l’uomo.
“Sì, ma noi non sappiamo dove si trovi” intervenne Pinako con tono irritato. “Come può vedere siamo alle prese con un’emergenza, perciò, se non c’è altro, la prego di andarsene.”
Il militare spostò lo sguardo su Edward, sdraiato sul letto con gli occhi chiusi.
“Questo ragazzino è sopravvissuto nonostante abbia tentato una trasmutazione umana...” mormorò.
“Come ha fatto a capirlo?!”esclamò Pinako.
 “Mentre venivo qui ho visto da lontano la luce sprigionata dalla vostra reazione alchemica: solo una trasmutazione umana può generare una reazione così intensa e avere conseguenze simili.” Guardò nuovamente Edward con le sopracciglia aggrottate. “Questo ragazzino m’interessa anche più di suo padre... Potrebbe diventare un Alchimista di Stato.”
A quel punto Pinako esplose. “Non vede che questi due ragazzi sono gravemente feriti?! Se ne vada!” gridò, indicando la porta con un cenno sdegnato.
L’uomo posò un’ultima volta lo sguardo sui presenti, poi voltò loro le spalle e si diresse verso la porta. “Ad ogni modo, sono il tenente colonnello Roy Mustang. Mi troverete a Central City...” si presentò, dopodiché uscì dalla casa.
Pinako, Winry e Alphonse si guardarono.
“Zia...” chiamò Edward debolmente.
“Ed! Eri sveglio?” fece subito Winry, correndo verso di lui.
Ma Edward stava fissando l’anziana donna.
“Zia... Vorrei che tu m’impiantassi degli automail” disse serio. “Pensavo di andare a trovare quel tizio... e diventare Alchimista di Stato. Forse diventerò un cane dell’esercito, ma non m’importa. C’è una cosa che devo fare a qualsiasi costo.”
Pinako lo guardò negli occhi.
“Non vorrai tentare nuovamente di...”
“No” la interruppe subito lui. “Non è questo.”
Pinako sospirò, poi annuì.
-
L’operazione fu dolorosissima: doveva essere fatta senza anestesia per poter collegare efficacemente tutti i nervi, ma Edward non gridò nemmeno una volta, sopportando in silenzio. Sapeva che il dolore fisico che provava lui non era nemmeno paragonabile a quello spirituale che provava Alphonse, costretto a vivere in quel corpo di metallo.
La riabilitazione dopo un’operazione del genere richiedeva un anno: Edward ci mise solo sei mesi. Era determinato a raggiungere il suo scopo il prima possibile, perciò, non appena si fu completamente abituato agli automail, lui e Alphonse decisero di partire alla volta di Central City. Avrebbero provato a diventare Alchimisti di Stato insieme, ma non per riuscire a riportare in vita la loro madre: avevano capito che non esiste nulla di abbastanza prezioso da essere accettato come merce di scambio per una vita. No, sarebbero diventati Alchimisti di Stato per tentare di riavere indietro i loro vecchi corpi, di tornare come prima.
Quella sera stessa i due diedero fuoco alla loro casa e a tutto ciò che conteneva e iniziarono il loro viaggio.
Era il 3 ottobre 1911.
 

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Capitolo 7
*** Percorsi ***


Capitolo 6 - Percorsi

Many times I've been alone and many times I've cried,
Anyway you'll never know the many ways I've tried.
And still they lead me back to the long and winding road.
You left me standing here a long, long time ago.
Don't leave me waiting here, lead me to your door.

The Beatles - ‘The Long and Winding Road’
 
“È stato davvero Mustang a reclutarvi, allora...” rifletté Oriel. “Cosa gli è saltato in mente di proporre a due ragazzini di diventare Alchimisti di Stato, poi?” continuò, sfogliando il libro che Al le aveva restituito. Per essere il loro “primo libro di alchimia” era piuttosto avanzato, constatò tra sé e sé.
“Eri una ragazzina anche tu quando hai fatto l’esame, o sbaglio?” ribatté Edward aspramente.
“Sì, ma ero già un soldato. Cadetto dell’accademia militare, per la precisione” replicò lei. “Ed ero arrabbiata con la biblioteca di Central City”.
Central City, capitale di Amestris, Shambala. Anno 1911.
Oriel sapeva che, con il suo comportamento, stava facendo preoccupare il giovane bibliotecario di Central City. Aveva sempre evitato di guardarlo direttamente, per il timore che lui le si avvicinasse e attaccasse bottone, ma con la coda dell’occhio aveva notato che l’uomo si fermava spesso a osservarla, la maggior parte delle volte da dietro un libro per non farsi vedere. Forse era sorpreso dal fatto che lei si fosse praticamente trasferita nell’ala consultazione della Biblioteca, visto che restava lì dall’ora di apertura fino all’ora di chiusura. Forse era irritato dal fatto che, da sola, occupava un intero tavolo, disseminandolo di decine di volumi aperti. Magari era confuso dal fatto che dimostrasse solo 15 anni, ma che dedicasse tutte le sue giornate alla lettura di libri di storia o alchimia decisamente troppo avanzati per la sua età, e che divorava pagine su pagine con un’espressione quasi maniacale. Oppure si preoccupava perché ultimamente era dimagrita molto e, a furia di restare al chiuso, era diventata pallidissima, e perciò non sembrava molto in salute. Il bibliotecario la seguiva con lo sguardo anche quando lei si incamminava verso il dormitorio presso il quale alloggiava, forse aspettandosi che venisse qualcuno a prenderla, invece la ragazza era sempre sola.
Un pomeriggio, il giovane entrò nell’ala consultazione per rimettere al loro posto una pila di libri che erano appena stati restituiti. La catasta di volumi che portava tra le braccia era molto alta e gli copriva parzialmente la visuale, così non si accorse che una sedia era stata rimessa a posto in malo modo e ci inciampò. Tutti i libri caddero a terra, seguiti dal bibliotecario. Oriel fu riscossa dal trambusto e si voltò a guardare la persona a terra, intento a massaggiarsi un ginocchio. Non poteva avere più di venti, venticinque anni, era magro, non troppo alto e ben vestito. Aveva lunghi capelli color rosso scuro che gli erano ricaduti davanti alla faccia e un paio di occhiali da lettura tondi, chiusi ed infilati nel taschino del gilet. Scostò una ciocca di capelli, scoprendo due intelligenti  occhi a mandorla con l’iride grigia. Questo particolare la colpì: era la prima persona che incontrava in quel Paese che non avesse gli occhi verdi o azzurri. Forse fu quello il motivo che la spinse ad alzarsi per aiutarlo.
“Lei non è di Amestris, vero?” gli chiese, accovacciandosi accanto a lui e cominciando a impilare i libri su un angolino libero del tavolo.
“Cosa?” fece lui, sorpreso dal fatto che quella strana ragazza gli avesse rivolto la parola. Oriel gli ripeté la domanda. “Ah, no. I miei antenati provenivano da Xing” rispose lui.
“Sa, sto leggendo un libro molto interessante che menziona le etnie sparse per il mondo” proseguì Oriel.  “È una storia affascinante, mi chiedo se abbia un fondo di verità.” Quando tutti i libri furono di nuovo in una pila ordinata, la ragazza tornò a sedersi al suo tavolo e indicò un passaggio sul libro aperto davanti a sé.  “Sapeva che il Saggio dell’Est, colui che ha portato l’Alchimia e fondato Amestris, è considerato l’uomo perfetto?”
“L’uomo perfetto?” ripeté il bibliotecario.
La ragazza annuì.
“In tempi antichi, i popoli dell’Est, in particolare quelli che abitavano a Xerxes, consideravano l’oro il metallo perfetto. Le antiche leggende descrivono il Saggio come un uomo fatto d’oro”.
Il bibliotecario si appoggiò al tavolo senza sedersi.
“Ricordo quella leggenda: avere gli occhi e i capelli color dell’oro era una caratteristica delle genti di Xerxes. Gli Ishbaliani hanno la pelle olivastra e le iridi rosse, gli Amestriani hanno gli occhi blu o verdi e la pelle chiara, i popoli di Xing hanno capelli neri e occhi a mandorla...” Inclinò la testa da un lato, e una singola ciocca di capelli rossi gli ricadde sul volto. Se la mise dietro l’orecchio. “Negli ultimi secoli le caratteristiche si sono fuse. Se ci fossero ancora persone che possono vantare antenati Xerxiani, sarebbero immediatamente riconoscibili.”
“Che peccato che siano scomparsi, dovevano essere un popolo meraviglioso” commentò Oriel, lo sguardo perso nel vuoto.
Il bibliotecario attese che la ragazza proseguisse, ma lei sembrava essere sprofondata nei suoi pensieri, e lui cominciò a sentirsi un po’ fuori luogo. Aspettò ancora qualche secondo, poi, in silenzio, recuperò i suoi libri e lasciò la sala di lettura per andare a riporli al loro posto, in altre ali della biblioteca.
Oriel lo seguì con lo sguardo, quasi pentita di aver usato quel trucco per farlo allontanare, poi tornò a dedicarsi ai suoi libri.
Qualche giorno dopo le capitò per le mani un’informazione molto interessante a proposito di un’opera del famoso alchimista Theophrastus sulle rune utilizzabili nei cerchi alchemici. Il libro era apparentemente disponibile presso la biblioteca, ma per quanto lo avesse cercato, la ragazza non era stata in grado di trovarlo. Decise di andare a chiedere informazioni al bibliotecario, così ne avrebbe approfittato anche per scusarsi con lui per il suo comportamento. Quando arrivò alla biblioteca, però, dietro al bancone di ricevimento non c’era il giovane coi capelli rossi, ma un ragazzo della sua età coi capelli neri, gli occhi scuri e gli occhiali. Aveva la tipica aria del secchione, e stava cucendo impassibilmente quello che aveva tutto l’aspetto di un abitino per bambole.
“Salve” salutò la ragazza, un po’ incerta.
“Buongiorno” rispose il ragazzo, senza alzare lo sguardo dal suo lavoro.
“Il suo collega non c’è?”
“Oggi arriva un po’ più tardi. Ha bisogno di aiuto?”
Oriel era quasi tentata di dirgli che sarebbe passata dopo, ma la curiosità per il libro la stava divorando.
“Sì. Sto cercando Il Museo delle Immagini di Theophrastus...”
“Non è in possesso dei requisiti per consultare questo libro” disse lui, seccamente.
Oriel sollevò un sopracciglio.
“Questa è una biblioteca pubblica...” fece.
“Indubbiamente” replicò il ragazzo con tono piatto.
“Avete Il Museo delle Immagini di Theophrastus nel vostro catalogo...”
“Innegabilmente.”
“Allora, in quanto cittadina di Amestris e soldato dell’esercito, direi che ho il diritto di consultarlo!”
Il ragazzo smise per un attimo di ricamare e le lanciò un’occhiata di sufficienza.
“Grado Militare?”
“…Allievo Ufficiale” rispose lei a bassa voce dopo un attimo di silenzio.
 “La consultazione di quel testo è riservata ai soli ufficiali militari e Alchimisti di Stato” disse il ragazzo, tornando al suo lavoro.
“Accidenti alla privatizzazione culturale di questo paese!” mugugnò la ragazza, sporgendosi sul bancone. “Scher dich zum Teufel, hauptdick!” aggiunse, parlando in uno strano dialetto incomprensibile.
In quel momento fece il suo ingresso il bibliotecario coi capelli rossi, ma Oriel era troppo arrabbiata per fermarsi parlare con lui, perciò girò sui tacchi, lo superò e si diresse verso l’uscita della biblioteca.
-
 “Fammi capire bene” balbettò Edward, incredulo. “Sei diventata Alchimista di Stato per consultare un libro?!”
“Per consultare dei libri“ precisò la ragazza. “Hai idea di quanti testi sono accessibili solo ai ‘cani dell’esercito’? È ridicolo!”
Qualcosa di piccolo e bianco si mosse ai piedi dei tre ragazzi in quel momento e Alphonse trillò di eccitazione, sollevando da terra un grosso gatto bianco. Oriel si sistemò nel suo sedile a disagio, e ad Edward non fuggì il fatto che la mano della ragazza era subito andata verso la pistola di ordinanza.
“Tutto bene?” le chiese.
“Non mi piacciono i gatti” mugugnò lei.
“Ma sono così morbidi e adorabili!” ribatté Alphonse.
“Al, mettilo giù, non è tuo” gli intimò il fratello. Al obbedì, sebbene con riluttanza, e mise a terra il gatto, che torno trotterellando dai suoi padroni, qualche posto più in là. Oriel gli lanciò un ultima occhiata diffidente, prima di tornare a scarabocchiare strani simboli sul suo taccuino. “E così ti sei preparata per l’esame studiando alla Biblioteca di Central City...” Edward riprese il discorso. “Ma dai, non ti facevo topo di biblioteca.”
“Non sono un topo di biblioteca” ribatté lei con tono offeso. “La biblioteca di Central è molto più fornita dei dormitori ad Ovest, tutto qui”. Con un sospiro, chiuse il taccuino: ormai era evidente che non sarebbe riuscita a concludere il suo rapporto durante il viaggio. “Voi invece dove avete studiato?”
I fratelli Elric si scambiarono un’occhiata complice.
-
Quartier Generale di Central City, capitale di Amestris, Shambala. Anno 1911.
Roy Mustang spinse un fascicolo verso Edward e Alphonse, seduti dall’altra parte della scrivania del suo ufficio di Central City.
“Ho fatto in modo che possiate prepararvi alla prova per diventare Alchimisti di Stato studiando nell’ambiente più adatto a voi” disse senza preamboli.
Ed prese il fascicolo e lo sfogliò.
“Chi sarebbe Sewing-Life Alchemist?” chiese incuriosito.
Roy incrociò le braccia sul tavolo.
“Si chiama Shou Tucker, ed è il più grande esperto di trasmutazione organica. Il secondo nome da Alchimista non viene mai dato per caso: Sewing-Life Alchemist, l’Alchimista Intrecciavite.”
“Trasmutazione Organica? Il Secondo Livello?”
“Ho pensato che le sue ricerche avrebbero potuto interessarvi” commentò Mustang con un sorrisino beffardo, prima di continuare a spiegare. “È considerato un’autorità nel campo dell’Alchimia Organica di Secondo Livello: l’alterazione o fusione di uno o più organismi viventi. Due anni fa è stato in grado di creare un essere artificiale, una chimera, in grado di parlare.”
Edward fece tanto d’occhi.
“In grado di parlare? E che cosa ha detto?”
“Solo una cosa: ‘voglio morire’. Dopodiché si è rifiutata di mangiare ed è morta in pochi giorni.” Le parole di Mustang aleggiarono nell’aria, che improvvisamente sembrò diventare più fredda, e i due ragazzi rimasero in silenzio, senza sapere che cosa rispondere. “Sarete ospiti del signor Tucker fino al giorno dell’esame” continuò Mustang, quando capì che i due non avrebbero continuato a fare domande. “Prendete le vostre cose, vi porto subito a casa sua.”
Dopo un breve viaggio in macchina, i tre giunsero all’enorme villa di Tucker. Quando suonarono il campanello furono letteralmente travolti da un enorme cane color crema sbucato da dietro un cespuglio, che smise di fare le feste agli ospiti solo quando la porta di casa si aprì e ne spuntarono fuori Tucker in persona e la figlia Nina, di soli quattro anni.
“Vi chiedo scusa per Alexander” esclamò l’uomo, mentre la figlia bloccava il cane. “Prego, entrate.”
La casa era ancora più grande di quanto sembrasse da fuori, anche se molto in disordine: c’erano libri sparsi ovunque, in particolare sul pavimento. L’uomo si chinò a raccoglierne alcuni con aria imbarazzata.
“Si vede che manca una mano femminile...” commentò.
Edward si guardò intorno incuriosito.
“Ehm... La signora Tucker dov’è?”
L’alchimista smise di raccogliere libri per un momento e il suo sguardo si perse nel vuoto.
“Se n’è andata un paio d’anni fa” disse piano. Subito dopo alzò di nuovo lo sguardo sui fratelli e sorrise. “Ma non voglio rattristarvi con questi discorsi. Prego, venite, vi mostro la biblioteca.”
-
 “Abbiamo viaggiato in lungo e in largo e visto decine di biblioteche, ma quella di Tucker era incredibile” commentò Alphonse. “Studiare da lui è stato utile: abbiamo imparato entrambi moltissimo.”
“Sì, ma non dimenticarti di Nina e Alexander” aggiunse il fratello. “Anche passare il tempo con loro era fantastico...”
-
Il giorno del compleanno di Edward ci fu la prima nevicata della stagione. Il ragazzino, che nei giorni precedenti non si era mai preso un giorno di riposo, decise che non avrebbe studiato e passò tutta la giornata a giocare in giardino con suo fratello, Nina e Alexander. La bambina gli si era affezionata molto e aveva cominciato a chiamarlo “fratellone”, cosa che lo rendeva felicissimo.
Nel pomeriggio si presentò alla villa un soldato in uniforme. Era piuttosto alto, aveva i capelli neri tirati indietro con un singolo ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, la barba non troppo curata e occhiali squadrati.
“Ehilà, ragazzi!” li salutò l’uomo con aria amichevole. “Sono venuto a prendervi! Se non sbaglio, oggi è il tuo compleanno, Edward!”
Ed era confuso.
“Mi scusi, ma... lei chi è? E come fa a sapere che oggi compio gli anni?”
L’uomo sorrise.
“Non ti ricordi di me, eh? Ci siamo visti di sfuggita al Quartier Generale qualche giorno fa. Sono il maggiore Maes Hughes, e anche se non sembra sono del reparto investigazioni: sapere tutto di tutti è il mio mestiere!”
I fratelli si lanciarono un’occhiata scettica.
“Non è molto rassicurante…” fece Edward con schiettezza.
Dopo un attimo di sorpresa, l’uomo scoppiò a ridere, scavalcò la recinzione come se avesse la metà dei suoi anni e, avvicinandosi a Edward gli batté una manata sulla schiena.
“Bando alle ciance!” esclamò gioiosamente. “Mia moglie Gracia ci sta aspettando! Ha preparato una buonissima torta di mele. La mia adorata mogliettina ha un talento straordinario in cucina. Giuro che tutto quello che prepara ha un sapore delizioso.” L’uomo estrasse dal proprio taschino la foto di una donna con i capelli biondo paglia e gli occhi verdi, evidentemente incinta a giudicare dal pancione che aveva nella foto. “Non è semplicemente deliziosa?” gongolò l’uomo. “E dal vivo è ancora più bella. Forza, venite con me.” Così dicendo afferrò Edward per entrambe le spalle e lo spinse verso la propria macchina. Quando Al si alzò per seguirli, però, sentì una piccola resistenza e vide Nina aggrappata al lembo di stoffa che faceva parte dell’armatura.
“Dove andate?” domandò la bambina con gli occhi spalancati.
“Ovviamente è invitata anche la piccola Nina Tucker!” esclamò Hughes accorgendosi della scena. “Non preoccuparti, il tuo papà ha già detto di sì!”
Sul viso della bambina si dipinse il più radioso dei sorrisi.
-
“La figlia di Hughes venne alla luce proprio quel giorno” raccontò Alphonse. “Abbiamo rinunciato ai festeggiamenti per accompagnare Gracia all’ospedale. Non ho mai visto Hughes tanto felice quanto mentre teneva la piccola Elicia tra le braccia.”
“Avete visto Elicia nascere… Che cosa strana” mormorò Oriel con tono sognante. “I membri della mia squadra conoscono tutti più o meno bene il signor Hughes e riceviamo periodicamente delle cartoline con fotografie della moglie e della figlia: sono adorabili!”
“Io trovo il suo comportamento leggermente seccante” aggiunse Edward, stizzito, ma con una nota divertita nella voce.
“Avete entrambi studiato per l’esame, ma alla fine l’hai sostenuto solo tu, Edward, non è vero?” fece Oriel. “Mi ricorderei se avessi visto un’armatura gigantesca!”
“Ehm, no, io non ho potuto sostenerlo per via della visita medica” spiegò Alphonse. “Io, ecco...”
“Al...” lo fermò Edward, lanciando un’occhiata di traverso a Oriel. “Non è né il momento né il luogo” aggiunse a bassa voce.
“Ha ragione Ed, ne parleremo con calma quando saremo da soli” disse la ragazza con lo stesso tono.
Al annuì. Per qualche minuto cadde il silenzio.
“Perciò voi due vi siete incontrati alla prova scritta?” domandò Al, incuriosito.
Ed aggrottò la fronte, pensieroso.
“È possibile, ma ero talmente agitato che mi sono seduto, ho svolto l’esame e sono andato via senza guardarmi intorno.”
“Anche io!” rise la ragazza. “Però alla prova orale c’era questo bimbetto con un vistoso cappotto rosso che attirava l’attenzione ed era impossibile da ignorare...”
-
Oriel uscì dalla stanza dove una commissione di anziani alchimisti e generali, incluso il Comandante Supremo King Bradley, l’aveva appena, per mancanza di un termine migliore, interrogata. Non era mai stata così sollevata dall’avere tutte le carte in regola: non avevano trascurato nulla. Referti medici, allenamenti, dichiarazioni e certificati vari erano stati analizzati e confrontati attentamente, roba che nemmeno alla frontiera sarebbero stati così puntigliosi. Le avevano fatto domande di alchimia, ovviamente, come anche domande personali, domande mirate a capire se possedeva le qualità psicologiche per diventare Alchimista di Stato. Per questo motivo, dopo essere uscita dalla stanza, non tornò subito al suo alloggio al dormitorio, crollando a sedere invece su uno dei divanetti insieme agli altri alchimisti che aspettavano di essere convocati. C’erano militari di diversi gradi, come anche alcuni civili, ma erano perlopiù persone anziane o comunque adulte: la ragazza non riusciva a non sentirsi fuori luogo.
“Edward Elric” chiamò una donna dalla stanza dell’esame.
Accompagnato da un mormorio di voci incuriosite, un ragazzino col cappotto rosso camminò a grandi passi verso la porta. Oriel, come il resto della folla, lo seguì con lo sguardo: perché ad un bambino era permesso sostenere l’esame? L’età minima per diventare Alchimista di Stato era 16 anni e anche a lei avevano notevolmente complicato la vita mentre svolgeva le procedure necessarie a svolgere l’esame, perché soddisfaceva appena questa richiesta. Il piccoletto non poteva già avere 16 anni, no? Doveva assolutamente saperne di più.
Quando il ragazzino uscì dalla stanza, però, sembravano essere passare ore, e Oriel si era addormentata sul divanetto. Si svegliò di soprassalto sentendo la porta chiudersi e vide che il ragazzino si stava allontanando verso l’uscita.
 “Ehi! Ehi, scusa, Edward!” chiamò, saltando su dal divanetto e correndogli dietro.
Il ragazzino si fermò.
“Ci conosciamo?” fece lui, perplesso.
Oriel stava per rispondere che aveva solo sentito chiamare il suo nome dall’attendente, ma non uscì alcun suono dalla sua bocca: il ragazzino la stava guardando con due incredibili occhi dall’iride dorata.
“Xerxes…” si trovò a mormorare lei, prima che le apparisse un enorme sorriso in volto. “Sei un discendente di gente di Xerxes, vero? Credevo non ce ne fossero ancora in giro!”
Edward la guardò con gli occhi sgranati, come se alla ragazza fossero appena spuntate delle aragoste al posto delle orecchie.
“Cosa?”
“Insomma, Xerxes! ...Il grande regno che sorgeva a Est, dove oggi c’è il deserto?” continuò lei, sperando di ottenere un qualche tipo di reazione. Invece, il ragazzino continuava a guardarla basito. “Scusa” ridacchiò nervosamente. “Sono Oriel Eckhart, ho fatto il colloquio orale prima di te.” I due si strinsero la mano. “Scusa per il discorso strano. Il fatto è che sei un tipo che non passa inosservato. Voglio dire, non sei un po’ bassino per avere sedici anni?”
Alla menzione della sua statura, Edward diventò tutto rosso in faccia.
“CHI SAREBBE IL FAGIOLINO TANTO MINUSCOLO DA ESSERE INVISIBILE?!” gridò, accaparrandosi delle occhiate infastidite e sorprese dai presenti.
Oriel lo osservo sbigottita per qualche istante prima di sorridere.
Mein Gott. Du bist lustig” esclamò con tono divertito.
“Cosa?” fece Edward, senza capire una parola di quello che la ragazza aveva detto.
“Nulla...”
Il ragazzino la squadrò.
“Comunque non ho sedici anni, ne ho dodici” disse con voce più calma.
“Dodici anni?” esclamò Oriel sorpresa. “Ma l’età minima per svolgere l’esame è sedici anni…” Sorrise. “O meglio, se hai superato la prova scritta a dodici anni, devi essere una specie di prodigio!”
Edward raddrizzò la schiena e non poté fare a meno di gonfiarsi d’orgoglio al complimento.
-
“E quindi? Vi siete salutati così?” domandò Alphonse, affascinato dal sentire raccontare di suo fratello da un altro punto di vista.
“Più o meno, in realtà abbiamo girovagato un po’ nelle sale del Laboratorio Uno, l’edificio dove si tenevano gli esami” raccontò la ragazza.
“Non svolgono ricerche interessanti, ma il posto è fantastico!” esclamò Edward, interrompendo il racconto. “La prossima volta che siamo a Central ti ci devo assolutamente portare, Al! È il Laboratorio Alchemico più vecchio di Amestris, e ciascuna delle sale più importanti è in tema con le varie branche di studio o tecniche alchemiche sviluppatesi negli ultimi secoli...”
Edward fu interrotto da una leggera ma decisa botta in testa da parte di Al.
“Non ci posso credere, fratellone!” esclamò il fratello, offeso. “Sei stato in un posto così bello e non me ne hai mai parlato prima!”
“Avevamo altro a cui pensare” replicò il ragazzo massaggiandosi la testa.
Oriel osservò i due fratelli bisticciare con un sorriso sul volto, ma presto perse il filo del discorso e si mise a guardare fuori dal finestrino del treno, ripensando a come proprio quel giorno, entrando nella sala dedicata all’Alchimia di Fuoco, aveva finalmente rivisto un volto che cercava da molto tempo. Il volto di una persona che, senza saperlo, presto avrebbe rincontrato faccia a faccia.

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Capitolo 8
*** Determinazione ***


Capitolo 7 - Determinazione

Stand my ground, I won't give in
No more denying, I've got to face it
Won't close my eyes and hide the truth inside
If I don't make it, someone else will
Stand my ground...
All I know for sure is I'm trying
I will always stand my ground
Within Temptation - ‘Stand My Ground’
 

“Oriel!”
La ragazza sussultò, bruscamente distolta dai suoi pensieri dalla voce di Ed e Al che la chiamavano.
“Cosa c’è?” rispose lei, più sgarbatamente di quanto avrebbe voluto.
“Stavamo parlando della prova pratica dell’esame” spiegò Alphonse. Sospirò. “Avrei voluto assistere, peccato che si sia svolto a porte chiuse.”
Oriel affondò di nuovo nel sedile del treno, mentre i ricordi le riaffioravano alla memoria.
-
Per la prova pratica, i candidati furono condotti in un’arena nella quale era stato ricreato un ambiente naturale con tanto di rocce, alberi e un laghetto. Lì fu annunciato che la prova consisteva nell’esecuzione di una trasmutazione di fronte a una giuria composta dal Comandante Supremo e alcuni suoi sottoposti, inclusi il colonnello Mustang e il generale Basque Grand, eroe della recente Grande Guerra dell’Est. Mentre aspettava il suo turno, Ed si mise una mano in tasca e prese il gessetto che avrebbe utilizzato per tracciare il suo cerchio alchemico. Se lo rigirò nervosamente tra le mani mentre ripensava mentalmente alla trasmutazione che voleva eseguire, poi se lo rimise in tasca.
Il primo candidato, un uomo di mezza età visibilmente emozionato, tracciò velocemente il suo cerchio alchemico intorno ad alcune rocce. Appoggiò le mani tremanti a terra e trasmutò una torre maestosa, che crebbe un piano dopo l’altro, sempre più alta, fino a raggiungere almeno cento metri. L’uomo si rialzò e s’inchinò di fronte ai giudici, ma aveva il fiato corto e la fronte imperlata di sudore. Era visibilmente senza forze. I giudici si scambiarono uno sguardo e molti di loro scossero la testa: un bravo alchimista doveva essere in grado di compiere trasmutazioni alla sua portata anche in termini di sforzo fisico. L’uomo fu congedato con un gesto e, a capo chino, lasciò l’arena e si sedette sugli spalti.
La seconda persona a farsi avanti fu Oriel. Non indossava la giacca dell’uniforme, e avviluppato intorno all’avambraccio sinistro portava un elaborato bracciale d’argento composto da segmenti circolari sui quali erano incise curve e linee ad una prima occhiata casuali. La ragazza si guardò intorno con imbarazzo per qualche secondo prima di chinarsi a terra e posare le mani sul terreno:  il bracciale d’argento rivelò il suo uso quando alcune linee si illuminarono, componendo un cerchio alchemico. Lampi di energia bluastra percorsero il terreno davanti a lei, ma quando si spensero non era avvenuta nessuna trasmutazione visibile. Alcuni candidati ridacchiarono, ed Edward vide alcuni giudici scuotere la testa, prima di rendersi conto che Oriel teneva in mano una pistola. Trasmutare un’arma da fuoco era mediamente complesso, ma niente di eccezionale, e non giustificava il grande dispendio di energia a cui avevano appena assistito. Oriel, però, non sembrava aver concluso la sua prova: con un respiro profondo, sparò un singolo colpo a terra. Lo sparo risuonò nella piazza, seguito da un silenzio imbarazzato. Un generale fece per alzare la mano e congedare la ragazza, quando questa sparò un secondo colpo, a un metro scarso di distanza dal primo. Dal punto in cui il proiettile era venuto a contatto col terreno scaturì una grossa esplosione che sollevò roccia e terriccio per diversi metri. Era una mina: Oriel aveva creato un campo minato. La ragazza cominciò a camminare al suo interno. Sembrava sapere perfettamente quali punti evitare, perché si muoveva con eleganza, seppur leggermente impacciata per l’agitazione. Sembrava quasi che stesse danzando. Altri colpi della pistola colpirono altre mine, facendole detonare, mentre lei volteggiava tra le esplosioni senza perdere il ritmo. I detriti che avevano invaso la piazza non si erano ancora posati quando la ragazza,  coperta di polvere da capo a piedi,  si fermò e fece un inchino. I giudici sembravano soddisfatti e la congedarono con un gesto.
Il terzo candidato era visibilmente irritato dallo spettacolo di Oriel, ma sembrava impaziente di mettersi in mostra. Per prima cosa tracciò un grande cerchio molto elaborato intorno a un albero e alla pozza d’acqua, poi posò le mani a terra e trasmutò un enorme pallone di carta variopinto pieno di idrogeno. Questo si librò in aria, volteggiando intorno alla torre, quasi a volerla scalare. I giudici annuirono vigorosamente: saper calibrare lo spessore della carta ricavata da un intero albero e la giusta quantità di idrogeno estratto dall’acqua in modo così preciso richiedeva grande abilità, per non parlare del pigmento colorato ottenuto dai muschi e dai licheni che crescevano sull’albero stesso. L’uomo s’inchinò e fu congedato.
Era il turno di Edward. Il ragazzino fece un passo all’interno dell’arena, ben sapendo di avere gli occhi della giuria puntati addosso. Non poteva deluderli. Prima che potesse fare qualunque cosa, però, il pallone di carta, che non era ancorato a niente, fu investito da una folata di vento e finì contro la torre di roccia. La carta si squarciò, liberando con un’esplosione l’idrogeno, e il pallone rovinò a terra insieme ai detriti della torre, dritti verso gli spalti dove erano seduti gli aspiranti alchimisti. Molti di loro scapparono, ma il primo candidato, il creatore della torre, era ancora privo di forze, e Edward realizzò che non sarebbe mai riuscito a spostarsi in tempo. Fu come se tutto si muovesse al rallentatore: carbonio, idrogeno, ossigeno, silicio, alluminio, sodio… In una frazione di secondo, gli elementi coinvolti si fecero chiari nella mente di Edward, insieme alle linee e alle formule necessarie alla trasmutazione. Batté le mani e, senza alcun cerchio alchemico né catalizzatore, trasmutò torre e pallone in cenere.
Nell’arena cadde il silenzio, mentre la cenere scendeva dal cielo come neve e si posava sui capelli e gli abiti dei presenti. Poi qualcuno nel gruppetto dei candidati cominciò a battere le mani, seguito da qualcun altro, finché lo scroscio degli applausi non coinvolse tutti i presenti. Edward rimase immobile al centro del campo, fissandosi le mani con gli occhi sgranati. Non riusciva a capire cosa fosse appena successo: aveva semplicemente battuto le mani e pensato intensamente a cosa avrebbe voluto trasmutare e come. E aveva funzionato.
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“Come tu sia in grado di trasmutare senza cerchio alchemico per me rimane un mistero” esclamò Oriel, scuotendo la testa. “Va contro tutto ciò che si sa dell’alchimia.”
“L’hai detto tu stessa” Edward alzò le spalle, con un sorrisino. “Sono un prodigio.”
Oriel roteò gli occhi, ma non riuscì a nascondere un sorriso.
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Alcuni giorni dopo la prova pratica, gli aspiranti Alchimisti di Stato furono convocati da Roy Mustang, che era stato incaricato di comunicare loro i risultati dell’esame. Lo stesso gruppetto che qualche giorno prima si era ritrovato nell’arena si riunì davanti alla porta dell’ufficio del colonnello. Edward si ritrovò sommerso di complimenti: in particolare l’uomo di mezza età che aveva salvato grazie alla sua trasmutazione non la smetteva più di dirgli quanto fosse stato strabiliante.
“A me interesserebbe sapere come hai fatto” commentò Oriel.
Edward fece un sorrisetto.
“Segreto professionale” rispose enigmatico.
“Parli come mio fratello quando faceva esperimenti nel seminterrato” rise lei.
“Anche tuo fratello è un alchimista?”
Oriel alzò le spalle, ma non aggiunse altro.
La porta dell’ufficio si aprì e comparve una soldatessa con in mano la lista dei candidati e l’esito dell’esame, e cominciò a leggerla ad alta voce. Tra i bocciati ci furono sia l’alchimista che aveva creato la torre, sia quello che aveva trasmutato il pallone di carta, e furono accompagnati fuori dalla stanza. I due ragazzi, ovviamente, erano stati promossi. La soldatessa fece entrare uno per volta i nuovi Alchimisti di Stato nell’ufficio del colonello Mustang, in ordine alfabetico inverso. Quando fu il turno di Edward, il ragazzino fece il suo ingresso a testa alta. Il colonnello lo squadrò da capo a piedi.
“Edward Elric, ti è stato assegnato il secondo nome di Fullmetal Alchemist, l’Alchimista d’Acciaio” disse con tono distaccato, consegnandogli una busta.
Poi rovistò in un cassetto e gli lanciò qualcosa che Edward riuscì a non far cadere per un pelo. Era l’orologio d’argento da Alchimista.
“Colonnello, non poteva consegnarmelo con un po’ più di entusiasmo?!” esclamò.
Mustang lo guardò con espressione neutra.
“Complimenti. Anche tu sei diventato un cane dell’esercito” disse, poi abbassò lo sguardo su un foglio che aveva sulla sua scrivania. Edward aggrottò la fronte, confuso: era stato il colonnello a chiedergli di tentare l’esame per diventare Alchimista di Stato, perché adesso si comportava così? O il suo pessimo umore aveva a che fare con qualche altra questione? Abbassò anche lui lo sguardo sul foglio che stava leggendo Mustang, ma era semplicemente la lista coi nomi dei nuovi Alchimisti di Stato.  “Grazie, Fullmetal” concluse l’uomo senza guardarlo. “Puoi andare.”
Edward rimase immobile per qualche istante, poi fece un veloce inchino e uscì dalla stanza. Incrociò lo sguardo di Oriel, che veniva dopo di lui, e le fece un cenno con la testa. La soldatessa fece entrare la ragazza, e lei ubbidì, richiudendosi la porta alle spalle. Si voltò verso la scrivania dietro la quale era seduto Mustang e i due si fissarono negli occhi a lungo prima che Oriel rompesse il silenzio.
Roy Mustang?” esclamò in tono ironico.
“Ti rivolgerai ai tuoi superiori tramite il loro grado militare e solo ai tuoi sottoposti con il loro nome e cognome” la corresse lui in tono freddo. “Il grado che viene assegnato agli Alchimisti di Stato è equivalente a quello di maggiore, tieni bene a mente la tua posizione.”
Oriel esitò, confusa, ma si riprese in fretta.
“Sì, colonnello.”
Passarono una decina di secondi in cui entrambi rimasero in silenzio, poi Mustang prese un foglio di carta.
“In quanto ufficiale ed Alchimista di Stato, sono stato ritenuto dal Comandante Supremo Bradley la persona più qualificata per fare da mentore ai più giovani Alchimisti di Stato che Amestris abbia mai reclutato. D’ora in poi lavorerai sotto il mio comando, è tutto chiaro?”
“S-sì.”
“Sissignore” la corresse lui.
“Sissignore!” esclamò lei a voce forse troppo alta e facendo una veloce inchino, un abitudine di cui sarebbe stato difficile sbarazzarsi. In quell’atmosfera distaccata e pesante, la ragazza cominciava a sentirsi a disagio.
“Perché hai scelto di diventare Alchimista di Stato?” le chiese lui, ancora con tono brusco, anche se non tanto quanto poco prima.
Se glielo avessero chiesto anche solo 5 minuti prima, la ragazza avrebbe immediatamente risposto: ‘Per consultare i testi riservati e imparare il più possibile sull’alchimia e sulla storia di questo mondo.’ In quel momento, però, le sembrava una ragione stupida e futile. Visto che Oriel non sembrava intenzionata a rispondere, Mustang riprese a spiegare.
"Avrai accesso ai fondi dell’esercito per svolgere le tue ricerche, e potrai usare liberamente le attrezzature e le aree dei quattro Laboratori. In cambio, i tuoi risultati saranno di proprietà esclusiva dell’esercito e dei suoi membri. Ci sono domande?” Oriel rimase in silenzio. Finalmente Mustang sorrise, rilassando le spalle. “Non c’è motivo di essere così nervosa. La prova pratica di quest’anno è stata uno spettacolo eccezionale, specialmente grazie a te e ad Edward Elric. Le tue trasmutazioni sono veloci, precise e versatili. Generare esplosioni controllate è tanto pericoloso quanto utile. Persino il generale Basque Grand è rimasto impressionato, e non è una missione facile.” Oriel rimase impassibile. “Ma ora passiamo alla burocrazia, non posso perdere troppo tempo, purtroppo. Die wände haben ohren" aggiunse velocemente, prendendo un fascicolo. Oriel alzò la testa e spalancò gli occhi nell’udire quei suoni familiari, ma l’espressione del colonnello Mustang era tornata seria. “Oriel Eckhart, ti è stato assegnato il secondo nome di Silver Bullet Alchemist, l’Alchimista Proiettile d’Argento” annunciò l'uomo allungandole l’orologio d’argento.
Oriel lo prese e se lo rigirò tra le mani: era più pesante di quello che aveva creduto, e non solo per una questione di massa.
"Ich glaubte, an der falschen Stelle zu sein” mormorò a voce bassa.
Mustang alzò un sopracciglio, poi sorrise e si alzò, tendendole la mano.
“Rimani nelle vicinanze, ti presenterò i tuoi futuri colleghi una volta concluse tutte le formalità” disse, mentre la ragazza gliela stringeva.
Oriel uscì dalla stanza. Appena uscita, vide che Edward si trovava ancora lì e stava chiacchierando animatamente con un militare.
“Ooh! E così questa è Oriel!” esclamò l’uomo quando la vide. “Sono il maggiore Maes Hughes! Ho sentito moltissimo parlare di te!” esclamò, stringendole vigorosamente la mano.
“Un’altra delle sue uscite da “io so tutto di tutti”, signor Hughes?” fece Edward, ironico.
“No, no,  è diverso! Ich bin Freund…von dich Bruder… L’ho detto bene? Spero di sì!” rise l’uomo con imbarazzo. Edward lo fissò perplesso, mentre Oriel sembrò capire quegli strani suoni e annuì, rilassandosi.
L’ultimo neo Alchimista di Stato uscì dall’ufficio di Mustang col suo orologio d’argento, e la testa del colonnello fece capolino dalla soglia.
“Hughes!” chiamò, seccato. “Se dovete chiacchierare, non fatelo davanti al mio ufficio: qui si lavora!”
Hughes rise.
“Scusa, scusa. Porto fuori a pranzo i tuoi nuovi sottoposti per festeggiare, d’accordo? Tra un’oretta te li riporto...”
“Mi perdoni, signor Hughes, ma avevo promesso a Nina e al signor Tucker che avrei detto loro immediatamente il risultato dell’esame… e Al mi sta aspettando qua fuori... Grazie lo stesso...” disse Edward con un sorriso falsissimo, allontanandosi lungo il corridoio sempre più in fretta, finché non scomparve dietro l’angolo.
Oriel seguì il ragazzino con lo sguardo, ma improvvisamente davanti ai suoi occhi apparve l’immagine di una donna sorridente con in braccio un neonato.
“Guarda com’è carina la mia piccola Elicia!” esclamò Hughes. “Non vedi l’ora di vederla dal vivo, vero? È appena nata, ma si vede già che diventerà bellissima, proprio come la sua mamma!” Oriel sorrise, imbarazzata, senza sapere come rispondere. “È deciso! La cena fuori ve la offrirò la prossima volta, intanto ti accompagno al negozio di giocattoli, poi vieni a casa mia, d’accordo?”
“Perché dovrei voler andare al negozio di giocattoli?” chiese la ragazza, ma l’uomo la stava già trascinando per i corridoi del Quartier Generale.
“Beh, perché devi comprare un regalo alla mia piccola! Chissà cosa sceglierai... Un pigiamino nuovo? O forse un orsacchiotto gigante?”
La ragazza non ebbe la possibilità di ribattere.
-
Ed e Al tornarono a casa Tucker a piedi dal Quartier Generale. Il ragazzino più piccolo voleva sapere tutti i dettagli dell’esame da parte del fratello, mentre quest’ultimo, dopo giorni e giorni di studio, voleva sgranchirsi un poco le gambe. Quando finalmente attraversarono i cancelli della villa dei Tucker, però, si resero subito conto che c’era qualcosa che non andava: era tutto troppo silenzioso e Alexander non li aveva assaliti come al solito. Preoccupati, i due entrarono in casa, ma anche lì il silenzio era totale.
“Nina? Dove sei?” chiamò Alphonse.
Nessuna risposta.
I due fratelli si avventurarono giù per le scale che portavano nei sotterranei dove Tucker svolgeva i suoi esperimenti, una parte della casa che non avevano mai avuto modo di visitare. Giunsero in un corridoio ingombro di gabbie nelle quali si agitavano esseri mostruosi creati con l’alchimia: gli esperimenti malriusciti dell’Alchimista Intrecciavite.
“Signor Tucker?” chiamò di nuovo Edward, ma questa volta il suo tono era nervoso.
“Da questa parte” disse la voce di Tucker proveniente da una stanza in fondo al corridoio.
I fratelli entrarono in quello che era il laboratorio vero e proprio dell’alchimista: le pareti erano ricoperte di cerchi alchemici, c’erano libri e appunti ovunque e, in mezzo alla stanza, c’era Tucker in compagnia di una chimera. Quando Edward la vide, spalancò gli occhi per lo stupore.
“Guardate!” esclamò l’uomo, indicando la chimera. “È perfetta! È una chimera in grado di capire la nostra lingua!” Si accovacciò vicino alla creatura. “Ascoltami: quel ragazzo che vedi si chiama Edward.”
“Edward?” ripeté la chimera con voce roca.
“Sì, esatto!”
“È incredibile!” esclamò Alphonse. “Parla e capisce sul serio!”
Edward si avvicinò alla creatura e si accovacciò davanti a lei per osservarla meglio. Sembrava una specie di grosso cane color crema con dei lunghi peli castani sulla testa che le ricadevano davanti al muso come i capelli di una bambina. Sgranò gli occhi.
“Non è possibile...” mormorò.
Tucker si passò una mano tra i corti capelli castani.
“Ho finito appena in tempo per la verifica annuale. Sapete, l’anno scorso non ho avuto un buon punteggio, ma con questa dovrei passare senza problemi...”
La chimera afferrò coi denti la catenella dell’orologio d’argento che Edward si era messo in tasca.
“Questo è il mio orologio da Alchimista di Stato” spiegò Ed con un tremito nella voce. “Volevo mostrarlo a Nina e ad Alexander.”
La chimera lasciò andare l’oggetto.
“Orologio” disse. “Alchimista.”
“Sì, sì, bravissima!” disse Tucker, fuori di sé dalla gioia.
“Bravissima...” ripeté la chimera. Guardò Ed. “Bravissimo... fratellone.”
Edward chiuse gli occhi. Poi si rialzò lentamente.
“Signor Tucker...” cominciò con voce rotta. “Ha trasmutato la prima chimera in grado di parlare due anni fa, giusto?”
“Sì, perché?”
“E sempre due anni fa sua moglie se n’è andata, giusto?”
“Sì, ma non capisco, cosa...”
“Un’ultima domanda” lo interruppe Ed. Puntò il suo sguardo sull’uomo. “Che fine hanno fatto Nina e Alexander?”
Alphonse sussultò: finalmente aveva capito anche lui. L’espressione di Tucker si fece dura.
“Non ho mai sopportato i ragazzini perspicaci come te” disse con tono piatto.
In pochi passi Edward lo raggiunse e lo prese per il bavero della camicia, sbattendolo contro il muro. Tucker scoppiò a ridere come un folle, e Ed gli tirò un pugno in faccia, facendogli volare via gli occhiali.
“Signor Tucker, lei ha...” mormorò Al, ancora incapace di credere a ciò che aveva di fronte.
“Sì, Al, hai capito bene: prima la moglie, ora la figlia e il cane!” gridò Edward. Lo strinse più forte. “È comodo servirsi degli altri, vero?! Giocare con la vita umana!”
“Non capisco perché ti arrabbi tanto!” si difese l’alchimista. “Il tuo braccio, la tua gamba, l’intero corpo di tuo fratello... Non sono forse il risultato dei vostri giochi con la vita umana?” Edward sussultò. L’uomo sorrise con aria folle. “So bene quali sono le conseguenze di una trasmutazione umana, l’ho studiata per anni. Ho capito fin dal primo momento che vi ho visti cos’avevate tentato di fare. È per questo che voi dovreste capirmi: semplicemente, a me era venuta l’idea di creare una chimera che parlava, tutto qui. Avevo a portata di mano la possibilità di crearla e l’ho sfruttata.” I suoi occhi lampeggiarono. “Sapevamo entrambi che era proibito ma l’abbiamo fatto lo stesso! Tu e io in fondo... siamo uguali!”
Edward lo colpì di nuovo, facendolo crollare a terra.
“Io non sono come te!” urlò, colpendolo ancora, e ancora. “Non sono come te!”
Sollevò nuovamente il braccio per colpire quel volto un’ultima volta, ma si sentì afferrare per il cappotto e si fermò: Nina, o per meglio dire la chimera, aveva un lembo del suo abito tra i denti. Edward abbassò il braccio e si voltò verso di lei.
“Ascolta, Nina... Adesso forse sentirai un po’ male, ma... devi resistere. Ti ritrasmuterò, vedrai...” disse con tono rassicurante, sollevando le mani e preparandosi a batterle.
Tucker scoppiò a ridere.
“Fai attenzione, Edward... o avrai anche lei sulla coscienza.”
Il ragazzino sussultò. Tucker aveva ragione: non aveva mai sciolto una trasmutazione effettuata da qualcun altro, rischiava di peggiorare le cose... sempre che fosse possibile peggiorarle ulteriormente. Rimase immobile per qualche istante, poi abbassò le braccia. Si sentiva impotente.
Alphonse telefonò al Quartier Generale dell’esercito e poco dopo un drappello di militari fecero irruzione nel sotterraneo. Davanti a tutti stava un uomo imponente completamente calvo ma con due appuntiti baffi neri. Edward lo riconobbe come uno dei militari che avevano composto la giuria durante il suo esame pratico.
“Sono il generale di brigata Basque Grand, il responsabile delle ricerche di Tucker, e voglio sapere cosa sta succedendo qui dentro” ringhiò l’uomo.
“Questo mostro... ha usato sua figlia... per la chimera...” riuscì a dire Edward, poi gli mancarono le parole.
Il generale Grand, però, non aveva bisogno di altre spiegazioni.
“Shou Tucker... L’anno passato sono riuscito a coprirti perché le tue ricerche sono uno dei più grandi segreti militari di Amestris, ma questo... questo è troppo.”
-
Oriel e Maes Hughes erano arrivati da pochissimo a casa di quest’ultimo con un gigantesco orsetto di peluche, che avevano posato sul resto della pila di regali che amici e conoscenti avevano portato alla neonata. Gracia non aveva fatto in tempo a mettere la cena sul fuoco che un giovane militare biondo aveva bussato alla loro porta: fuori aveva cominciato a piovere e l’uomo era bagnato fradicio, ma l’espressione sul suo volto lasciava intuire che fosse successo qualcosa di grave.
“Devi proprio andare?” gli chiese la moglie, intuendo la situazione. Hughes annuì gravemente, ma le sorrise lo stesso. “Tornerò presto.”
“Maggiore, il colonnello Mustang sta aspettando” lo incitò il giovane militare sulla porta.
“Vengo anch’io” disse Oriel in tono asciutto.
Hughes scoccò un’occhiata al giovane militare biondo, che alzò le spalle, e poi alla moglie, che annuì con un sorriso triste. Fece un cenno a Oriel, e i tre salirono sull’automobile con cui era arrivato il soldato.
-
Nuvole grigie si ammassavano in cielo mentre Shou Tucker veniva ammanettato e Nina veniva chiusa in una gabbia. Entrambi furono caricati su un furgone militare parcheggiato fuori dalla casa.
“Di questa faccenda se ne occuperà il tribunale militare” disse il generale Grand a Edward. “Tutto ciò che hai visto dovrà rimanere un segreto.”
“Cosa?!” sbottò il ragazzino.
“Non ho altro da dire” lo liquidò Grand, salendo a bordo di una delle auto dell’esercito che scortavano Tucker e la chimera.
“Aspetti un momento!” gridò ancora il ragazzino, ma i veicoli si misero in moto uno dopo l’altro e si allontanarono.
Furioso, Edward batté le mani e utilizzò l’alchimia per rovesciare il furgone su cui era stata caricata Nina. La gabbia si aprì e la chimera riuscì a saltare giù dal mezzo.
“Nina!” la chiamò Ed, facendole un cenno per invitarla a raggiungerlo, ma la creatura, confusa e spaventata, scappò via, costringendo Ed e Al a correrle dietro.
Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere mentre la distanza tra Nina e i due fratelli aumentava. La chimera s’infilò in un vicolo dopo l’altro fino a scontrarsi con la figura rannicchiata di un uomo coperto di sangue, avvolto in un cappotto chiaro. L’uomo aveva la pelle scura e i capelli mossi e fradici che gli cadevano sugli occhi erano talmente chiari da sembrare bianchi. Quando alzò lo sguardo per vedere cosa si era scontrato contro di lui, i suoi occhi dalle iridi rosse sembrarono quasi brillare al buio.
“Fa…male…fa…ma…mamma…” mormorò la chimera con voce roca.
“Ma tu sei…un essere umano e un cane che sono stati fusi insieme…” mormorò, intuendo subito la natura dell’essere. La chimera lo guardò, curiosa. “Un altro dei loro crudeli giochi, sicuramente. Povera creatura…” sussurrò l’uomo. Le appoggiò la mano destra sul muso, come per accarezzarla, e chiuse gli occhi. “Oh Ishbala, ti imploro, accogli questa povera creatura tra le tue generose braccia...” pregò.
Quando Ed e Al arrivarono, scorsero una figura immobile alla fine del vicolo e si avvicinarono cauti.
“...Nina?” mormorò Edward, con la voce spezzata. Dopo ancora pochi passi, però, il ragazzino si congelò. Il vicolo buio era inondato di sangue, il corpo di della chimera lacerato, i brandelli sparsi per diversi metri.
“Sembra l’opera di... di un animale selvaggio…” mormorò Alphonse, orripilato.
Edward uscì di corsa dal vicolo e vomitò sull’acciottolato, incapace di concepire la scena che gli si era presentata davanti agli occhi. Si pulì la bocca col dorso del guanto, poi, con una determinazione che non credeva di possedere, tornò nel vicolo. Lacrime miste a pioggia gli rigavano il volto mentre batteva le mani e le appoggiava su ciò che restava di Nina e Alexander, tentando disperatamente di attivare la sua alchimia, quell’alchimia che riusciva a usare senza cerchio alchemico ma che non era stata in grado di fare nulla per una piccola bambina. Provò e riprovò, mentre la pioggia lo inzuppava completamente e Alphonse lo osservava in silenzio, incapace di accettare ciò che era appena accaduto.
“Stai sprecando le forze” disse una voce dietro di lui. Edward si voltò e vide che Roy Mustang, bagnato fradicio, era in piedi in mezzo al vicolo a pochi passi da lui. “Per quanto tu possa essere un alchimista esperto, è assolutamente impossibile ricostruire un organismo che ha perso la vita. E a chi gioverebbe se riuscissi a far rivivere quella povera chimera? Sicuramente non a lei.” Le parole dell’uomo furono come una pugnalata al cuore. Edward si lanciò verso Mustang con l’intenzione di colpirlo come aveva colpito Tucker, ma lui lo afferrò per il braccio meccanico e lo bloccò. “Hai un obiettivo preciso da raggiungere, giusto?” gli disse con tono duro. “Perciò non hai tempo da perdere, Alchimista di Stato!”
Il ragazzino lo fissò ancora per qualche istante, poi corse via, seguito dal fratello. Il maggiore Hughes e altri militari si avvicinarono a Mustang. Tra di loro c’era anche Oriel. La ragazza osservò la scena con sguardo distaccato e poco impressionato.
“E così la bambina è morta. Un’altra” mormorò in tono piatto.
Mustang le scoccò un’occhiata perplessa.
 

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Capitolo 9
*** Obiettivi ***


Capitolo 8 - Obiettivi

But no more worries, rest your head and go to sleep
Maybe one day we'll wake up and this will all just be a dream
Now hush little baby, don't you cry
Everything's gonna be alright
Mockingbird - Eminem

 

Oriel si svegliò ad uno scossone del treno, con la schiena indolenzita ed un emicrania dovuta al poco sonno. Era quasi l’alba, il cielo cominciava già a schiarire sui campi verdi che avevano sostituito la sabbia mentre si allontanavano dal deserto. Edward, per conto suo, sembrava dormire profondamente, a bocca aperta e pancia scoperta. Oriel si chiedeva come facesse a dormire con gli automail indosso e sulle scomode panche di legno del treno per di più.
“Ormai dobbiamo essere quasi arrivati” commentò Alphonse quando la vide sveglia. Il ragazzino si era seduto da solo dalla parte opposta della corsia per lasciare agli altri due abbastanza spazio per sdraiarsi e dormire.
Per tutta risposta, Oriel emise un lamento e sbatté la testa contro il vetro: avrebbe voluto aprire il finestrino per respirare un po’ d’aria fresca, ma le volute di fumo nero che provenivano dalla locomotiva le fecero cambiare idea.
“Odio viaggiare in treno, non potevamo prendere un’automobile militare?” si lamentò, cercando alla bell’e meglio di sistemarsi i capelli spettinati senza uno specchio. “O forse no, non sarebbe stata l’idea migliore, avrei dovuto guidare io…”
“Il mio fratellone sa guidare,” la corresse Al. “Anche se non può ancora ottenere la certificazione, il signor Hughes gli ha insegnato lo stesso.”
Oriel sorrise.
“Ma ci arriva ai pedali?” ridacchiò.
Edward mugugnò nel sonno.
-
Il giorno dopo aver ricevuto il titolo, a causa della recente tragedia, Oriel non aveva ancora ricevuto nessuna convocazione da parte di Mustang: in un altro momento si sarebbe rimessa a studiare, e aveva avuto una mezza idea di andare in biblioteca e sbattere in faccia al bibliotecario occhialuto il suo nuovo orologio d’argento, ma alla fine aveva preferito ritornare sui suoi passi al Laboratorio numero 1 per vedere se effettivamente vi era conservato del materiale interessante. Mentre stava studiando attentamente un’antica pergamena contenuta in una teca di vetro, la ragazza non si accorse della figura che le si stava avvicinando da dietro finché questa non attirò la sua attenzione.
“Miss Eckhart?” chiamò. Oriel sussultò e si voltò di scatto per trovarsi faccia a faccia con un anziano militare coi capelli e i folti baffi completamente bianchi. La ragazza non lo conosceva, ma una veloce occhiata alle strisce sulla sua uniforme bastò come campanello d’allarme per identificarlo come un generale, Oriel si mise quindi immediatamente sull’attenti, quasi dando una ginocchiata al mobile dietro di lei. “Riposo” le ordino l’uomo pacatamente, dopo un veloce cenno di approvazione con la testa. Oriel abbassò la mano ma non rilassò le spalle. “Sai chi sono?”
Mentire avrebbe potuto evitarle una figuraccia immediata, ma dire la verità le avrebbe evitato di dover rispondere ad altre domande, quindi optò per la seconda.
“No, signore. Non ne ho la più pallida idea, signore” esclamò.
Dopo un attimo di sbigottimento, l’uomo sorrise sotto i baffi.
“Apprezzo l’onestà, se non altro.” Oriel arrossì. “Sono il generale d’armata Miroku Barsburg, e ti sono collega in quanto Alchimista di Stato, col nome di Diamond Alchemist, l’Alchimista di Diamante” si presentò l’uomo, sempre con tono cortese.
“È un onore fare la sua conoscenza, signore” replicò Oriel, sempre più confusa dalla presenza dell’uomo lì e dal fatto che sapeva chi fosse.
“Vuoi una tazza di tè? Ho un paio di argomenti da discutere con te, se hai tempo.” Il generale la invitò in una delle stanze adiacenti, posandole una mano sulla spalla. Il gesto era delicato, ma non lasciava spazio a compromessi: un ordine mascherato da richiesta.
Il generale aprì una porta che dava su una grande stanza circolare, illuminata da ampie vetrate: sul pavimento era inciso un cerchio alchemico molto complesso, mentre il soffitto era affrescato come una volta arborea. Al centro della sala, diversi divanetti di pelle circondavano un basso tavolino di legno intagliato: probabilmente quel luogo era usato spesso dalle alte cariche per prendere il tè e scambiare pettegolezzi come vecchie signore. Barsburg la fece accomodare su uno dei divanetti al centro della stanza, mentre prendeva da un mobiletto una teiera sulla quale era inciso un cerchio alchemico e vi versò dell’acqua da una caraffa. L’uomo sfiorò il cerchio e, con un brevissimo lampo di energia, dalla teiera si alzarono volute di vapore. Oriel sorrise, e il generale sembrò notarlo perché ridacchiò a sua volta.
“È ironico come la grande arte dell’Alchimia possa essere usata per qualcosa di così semplice e mondano, non è vero? La stessa arte che ci ha permesso di vincere nella Guerra dell’Est viene usata…” alzò la teiera, nella quale aveva gettato alcune foglie, “...per fare il tè.”
Oriel continuò a sorridere, educatamente, ma sempre a disagio.
“Signore, di cosa voleva parlarmi?”
“Hai ragione...” L’uomo si sedette di fronte a lei, mentre lasciava le foglie in infusione. “Sedici anni, è sorprendente come tu sia riuscita a diventare Alchimista di Stato ad una tanto giovane età” si complimentò. Oriel stava per ribattere che l’età minima era stata decisa dalle alte sfere, e che comunque Edward era addirittura più giovane di lei, ma il generale non aveva ancora finito di parlare. “A che età hai cominciato a praticare l’alchimia?” le chiese.
“A sei anni già leggevo dei semplici testi, ma non ho cominciato a studiare seriamente fino a dieci. Da allora ho imparato piuttosto velocemente, ho sempre amato la scienza e i libri e ho avuto una tutrice… motivante.” Oriel cercò di non lasciare trapelare il suo disagio nel parlare della sua istruzione.
“Ieri hai trasmutato delle mine e un’arma da fuoco funzionanti, posso vedere il cerchio?”
“Certamente,” annuì lei, arrotolando la manica della camicia, sotto alla quale portava ancora il bracciale di metallo. Organizzò i cerchi in modo che costituissero la stessa disposizione utilizzata il giorno prima.
Barsburg le prese il polso con delicatezza, esaminando le linee e simboli di cui era costellato.
“Questo strumento… lo hai costruito tu?” le domandò infine, lasciandole andare la mano, che le ricadde in grembo.
Oriel scosse la testa.
“La mia tutrice ha creato la cianografia, l’ho fatto realizzare a Rush Valley, di mio c’è solo l’idea” spiegò
 Il generale annuì ancora, poi si alzò per versare il tè in un paio di tazze.
“Ho sentito che Mustang ha fatto richiesta di averti nella sua squadra” riprese l’uomo, tornando a sedersi e porgendole una delle due tazze di tè fumante. “Abbastanza… avido da parte sua, non credi?”
“Mi scusi?” fece Oriel, basita dall’affermazione.
“Pretendere di avere sotto la propria ala entrambi i giovani prodigi di quest’anno è stato incredibilmente arrogante. Vada per l’Alchimista d’Acciaio, che era la sua raccomandazione fin dall’inizio, ma lascia che ti dia una mia opinione personale: il tuo talento e potenziale bellico sono sprecati al seguito di un uomo come Mustang. Invece, non vorresti lavorare per me?”
Oriel nascose il sorrisetto che le era spuntato sul viso sorseggiando lentamente il suo tè insipido e posò la tazza sul tavolo prima di parlare nuovamente.
“Che tipo di lavoro?”
Il generale sorrise.
“Sai in che stanza siamo?”
Oriel si guardò intorno: la stanza era decorata da numerose e inquietanti figure di chimere imbalsamate, oltre a queste una grande teca conteneva volumi e pergamene, un’altra un complesso sistema di boccette ed alambicchi che doveva essere appartenuto ad un alchimista che aveva studiato in quel campo. Una parete era interamente occupata da diversi dipinti e più recenti fotografie di alchimisti che Oriel non riconobbe, ma il tema della sala cominciava ad essere evidente.
“Alchimia Organica?” tentò.
“Alchimia Organica” confermò Barsburg. “Serve qualcuno che riprenda quello che Shou Tucker ha lasciato in sospeso, ti senti in grado di farlo?”
Oriel strinse gli occhi. Ne aveva abbastanza di fare buon viso a cattivo gioco, e il gioco che il generale le stava proponendo non era uno di cui le interessava far parte.
“Con tutto il rispetto, signore” cominciò con determinazione. “Sotto a chi lavorare mi interessa poco, ma non ho alcuna intenzione di creare o studiare chimere. L’Alchimia Organica è un campo tanto vasto quanto interessante, ma se ritiene che le ricerche di Shou Tucker valgano la pena di essere continuate, perché non farle continuare a lui stesso?”
“Shou Tucker è stato fucilato questa mattina all’alba” ribatté l’uomo, secco. “Gli è stata concessa la possibilità di continuare, ma apparentemente il senso di colpa verso le proprie azioni gli ha impedito di accettare.”
Oriel si alzò e cominciò a camminare nervosamente per la stanza.
“Come ho già detto, non sono interessata a creare chimere, ma posso dare un’occhiata a quei documenti” disse alla fine, fermandosi davanti a una teca che esponeva una ricostruzione in legno di un cuore umano. “Non riesco a credere che l’Alchimia Organica si limiti solo a quello” proseguì, senza distogliere lo sguardo dal macabro modellino mentre parlava.
“Altre tecniche che rientrano in questo campo sono ritenute troppo complesse o pericolosamente vicine alla trasmutazione umana” spiegò il generale. “Probabilmente, se esistono, i documenti relativi sono conservati alla Biblioteca Centrale. Immagino che potresti essere interessata a darci un’occhiata.”
Oriel si allontanò dalla teca per studiare i volti dipinti e fotografati degli alchimisti che avevano dedicato la loro vita all’Alchimia Organica. Tra loro spiccava anche quello scialbo e trasandato di Shou Tucker, in uniforme militare. In un angolo poco illuminato della parete era appeso un quadro coperto da un grande lenzuolo grigio, tutto sporco e impolverato.
“E questo?” fece la ragazza, scostando appena il telo per vedere cosa nascondeva.
“Rovinato da un atto di vandalismo perpetrato da ignoti. La divisione investigativa dovrebbe avere i dettagli relativi. Purtroppo è stato giudicato irrecuperabile anche dai migliori restauratori.” L’uomo anziano finì di sorseggiare il proprio tè. “Il patrocinatore che l’ha donato, però, ha chiesto che rimanesse comunque appeso.”
Incuriosita, la ragazza scostò appena la stoffa, scoprendo una tela squarciata e rovinata a tal punto che era impossibile riconoscere che cosa vi fosse dipinto prima che fosse ridotta a quel modo. Il danno sembrava però limitato alla sola metà sinistra del quadro. Oriel alzò ancora la stoffa, curiosa di scoprire cosa vi fosse raffigurato sulla destra, senza rendersi conto che così facendo l’aveva disincastrata dalla sua posizione. Prima che potesse sorprendersi, l’intero lenzuolo le cadde addosso e la ragazza si trovò a cadere all’indietro.
“Signorina, tutto bene?” esclamò Barsburg in tono sorpreso e leggermente divertito.
“Sì” riuscì a rispondere la ragazza tra un colpo di tosse e l’altro: aveva respirato talmente tanta polvere che era un miracolo che non fosse soffocata.
Quando finalmente riuscì a rimettersi in piedi, alzò lo sguardo verso il dipinto. Sulla parte destra del quadro era rappresentato, tra volute di tessuto rosso ed elaborati decori, un ragazzo, fasciato in un elegante abito d’epoca. I lunghi capelli color dell’oro, corti solo intorno al volto, erano legati strettamente in una treccia che gli ricadeva sulla spalla, i brillanti occhi verdi sembravano quasi fissare lo spettatore con aria di sfida. Una mano era posata sulla spalla del ragazzo, probabilmente appartenente alla figura più alta al suo fianco, i cui dettagli erano talmente rovinati che era impossibile discernere qualunque particolare.
“Chi era?” domandò dopo un lungo silenzio.
“Un esponente di questa branca, apparentemente” rispose il generale, alzandosi per rimettere le tazze al loro posto. “Vogliamo andare?” disse poi. “Ti lascerò vedere di persona se le ricerche di Tucker sono degne del tuo interesse oppure no.”
La ragazza appallottolò il lenzuolo ai piedi del quadro e seguì il generale fuori dalla stanza. Durante il tragitto verso il Quartier Generale, Barsburg scambiò ben poche parole con la giovane alchimista, limitandosi a discorsi di circostanza. Oriel stava cercando di mettere a fuoco le intenzioni del suo superiore, ma con poco successo. Quando giunsero al quartier generale, l’edificio che sorgeva nel centro esatto della città, l’uomo anziano la guidò verso un magazzino, le cui porte in metallo erano già socchiuse e la luce al suo interno accesa. Perplesso, Barsburg spalancò la porta: all’interno della stanza, tra pile di libri e gabbie contenenti chimere ringhianti, sedeva una figura infagottata in una possente armatura, che si alzò di scatto in piedi non appena vide il generale.
“E tu saresti?” fece il vecchio, con sospetto.
“Uh… Alphonse Elric… stavo aiutando mio fratello a riordinare questi appunti” spiegò con imbarazzo.
Oriel lo squadrò con curiosità: non era certo quella la voce che si sarebbe aspettata di sentir venire da un’armatura di quelle dimensioni.
Il generale si rilassò.
“Oh, il fratello dell’Alchimista d’Acciaio. Che coincidenza…” Si voltò verso Oriel e, con una mano sulla spalla della ragazza, la accompagnò nella stanza. “Hai la piena libertà di consultazione. Mi aspetto di sentire tue notizie molto presto. Dopotutto, dubito che all’Est ci sia una biblioteca fornita come quella di Central City.” Con un cenno di saluto, uscì dalla stanza e si allontanò lungo il corridoio.
Oriel era perplessa: perché il generale aveva nominato l’Est? Si accorse che qualcuno la stava fissando e si voltò verso Alphonse.
“Uh… Perciò Edward è il tuo fratellino?” gli chiese, un po’ imbarazzata. “Ci siamo conosciuti qualche giorno fa, io mi chiamo Oriel.”
“Edward è mio fratello maggiore” la corresse lui, alzandosi in piedi per stringerle la mano.
L’armatura torreggiava inquietante su di lei, ma la ragazza sorrise e gli strinse la mano fasciata di metallo e cuoio lavorato con fermezza.
“Fratello maggiore? Allora tu hai…”
“Undici anni” confermò lui timidamente.
Un ragazzino gigante. Oriel aveva visto cose più strane, ma questa era unica nel suo genere. Sorrise: questa esperienza si prospettava molto più interessante di quanto alcun libro avrebbe potuto anticiparle.
“Allora, dov’è il piccolo genio?” domandò dirigendosi verso una pila di quaderni e sfogliandone il primo distrattamente.
“Credo sia andato dal colonnello Mustang. Se n’è andato quando gli ho parlato della Pietra Filosofale” spiegò il ragazzino.
Le ultime parole attirarono l’attenzione di Oriel.
“La Pietra Filosofale? Non è una leggenda? ‘Chi cerca la Pietra è destinato a scomparire’ o qualcosa di simile?” ridacchiò facendo la voce grossa, mentre sfogliava un quaderno pieno di disordinati appunti e cerchi alchemici incompleti.
“Però, se il signor Tucker, un Alchimista di Stato, la stava studiando, deve avere un fondo di verità…” tentò il ragazzino. “La Pietra Filosofale è il segreto finale per ogni alchimista: aumenta le capacità a dismisura e permette di aggirare i principi alla base dell’alchimia. Uno strumento simile ha un che di miracoloso.”
Oriel si voltò a fronteggiare il ragazzino.
“Se fossi in te, non mi fiderei dei miracoli.” Sovrappensiero, giunse le mani e si strofino con il pollice il dorso della mano sinistra, dove aveva una vistosa cicatrice allungata. “Non si scappa dallo Scambio Equivalente, c’è sempre un prezzo da pagare per esaudire i propri desideri.”
-
“Assolutamente no. Sei un ricercatore alle dipendenze dello Stato, non un Vigilante o un poliziotto. Non è compito tuo trovare un assassino.” Roy Mustang mise da parte i documenti che stava leggendo e firmando, per incrociare le mani sotto il mento e squadrare Edward. Il ragazzino era corso da lui non appena aveva saputo che avevano archiviato il caso di Nina come dovuto a un gruppo di violenti cani randagi che apparentemente avevano già causato disturbi nella città.
“Perché?!” esclamò il ragazzo, furioso, stringendo i pugni. “Il responsabile della morte di Nina non è stato affatto un animale! Un animale sarebbe rimasto a finire il lavoro, chiunque l’abbia uccisa ha solo voluto nascondere le sue tracce! Voglio aiutarvi a trovarlo!”
“Interessante teoria, ma del tutto superflua. Se vuoi indagare di testa tua, non sarò io a fermarti, ma dovrai lasciare quello qui.” Mustang indicò l’orologio d’argento la cui catenella sporgeva dal taschino del ragazzo.
Lui lo afferrò e lo sganciò dal passante dei pantaloni.
“È quello che avevo intenzione di fare” mormorò, facendo per posare il simbolo della sua carica sulla scrivania dell’uomo.
“Se il segreto della tua trasmutazione umana venisse alla luce, tuo fratello verrebbe rinchiuso in un qualche laboratorio e analizzato come il risultato di una trasmutazione portentosa, mentre tu verresti processato e probabilmente incarcerato, indipendentemente dalla tua età” disse Mustang, freddamente. Edward rimase paralizzato e ritrasse la mano, l’orologio ancora stretto, fissando il suo superiore con odio. Il colonnello lo fissò con volto serio per pochi istanti, prima di rilassarsi e sorridere. “O almeno è quello con cui potrei ricattarti, se volessi farti obbedire agli ordini a tutti i costi. Per tua fortuna, non sono quel tipo di persona.”
Edward rilassò le spalle e fece per ribattere, quando fu interrotto da due decisi colpi alla porta. Nel piccolo ufficio fece il suo ingresso un uomo anziano che Edward ricordava aver visto nella commissione d’esame il giorno prima.
“Generale Barsburg, signore!” esclamò Mustang alzandosi in piedi e facendo il saluto militare.
Edward lo imitò, impacciatamente.
“Riposo, colonnello. Alchimista d’Acciaio” fece Barsburg, voltandosi verso il ragazzino. “Tuo fratello ti sta aspettando, raggiungilo.”
Edward si ritrovò improvvisamente tra l’incudine e il martello: non aveva ancora detto a Mustang quello che voleva dire e non si trovava nella posizione di restare. Con una smorfia, si rimise l’orologio in tasca, si voltò e uscì dall’ufficio. Appena fuori dal corridoio, però, si trovò davanti lo stesso Al e Oriel, che ascoltavano con la testa appoggiata al muro: il generale sapeva che si trovavano lì? Apparentemente no, perché Al gli fece segno di rimanere in silenzio prima di invitarlo ad origliare con loro.
“…trasferimento a East City è imminente” stava dicendo il generale. “Hai già selezionato la squadra che intendi portare con te?”
Un fruscio di carta.
“Riza Hawkeye, Jean Havoc, Vato Fallman, Heymans Breda, Kain Fury e, ovviamente, Oriel Eckhart e i fratelli Elric.”
“Il fratello più piccolo non è un militare, mi sembra. E non sono sicuro che miss Eckhart voglia trasferirsi nello sperduto e pericoloso Est con lei, colonnello.”
“Il Comandante Supremo King Bradley ha assegnato i due alchimisti a me e inoltre, come stavo dicendo prima all’Alchimista d’Acciaio, non sono quel tipo di persona.”
“Quale tipo di persona?” domando l’uomo più anziano, confuso.
“Il tipo di persona che dividerebbe una famiglia solo per ottenere un eccellente sottoposto.”
Dall’altra parte del muro, Oriel si allontanò dal muro, sorridendo tra sé. Aveva ascoltato abbastanza.
Fece un cenno ai due ragazzi per fargli capire che a breve il generale sarebbe uscito. I tre si salutarono e la ragazza andò da una parte, i fratelli dall’altra. Avevano tutti alcune faccende da sbrigare e poi, apparentemente, i bagagli da fare.
-
Oriel raggiunse l’ultima carrozza del treno, nella quale erano trasportati i bagagli più voluminosi, aprì la porta sul retro, dove non arrivava il fumo nero della locomotiva, e respirò finalmente una boccata d’aria fresca, che le aiutò a scacciare completamente i postumi della nottataccia. Con un sospiro, scivolò a sedere sul pavimento, fissando le rotaie che scorrevano sotto di lei e il panorama illuminato dal sole che sorgeva alla sua sinistra. Le parole di Mustang, quel giorno, le erano rimaste impresse, ed erano il motivo principale per cui aveva preferito seguire il suo superiore ad East City piuttosto che continuare le sue ricerche alla biblioteca di Central City. Il tipo di persona che dividerebbe una famiglia solo per ottenere un eccellente sottoposto. Oriel conosceva bene quel tipo di persona. Chissà cosa ne sarebbe stato dei fratelli Elric se Mustang fosse davvero stato come il Maggiore...
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Oriel aveva 10 anni ed era a casa di sua zia quando era arrivata la notizia che i suoi genitori erano morti sul fronte. Nessun giro di parole, nessuna condoglianza, nessun corpo. Solo un postino e un telegramma. Oriel ricordava di aver pianto a lungo, stretta tra le braccia di suo fratello. Anche se era solo una bambina, capiva che la zia non si sarebbe potuta occupare di loro.
Al funerale comparvero amici, parenti e colleghi dei genitori, che non ebbero altro da dire che poche frasi di circostanza ai due fratelli. I membri dell’esercito, nelle loro uniformi color cenere, osservavano stoicamente le bare che venivano calate nel terreno, una a fianco all’altra. Il fratello di Oriel, occhi asciutti e schiena dritta come un fuso, era al loro fianco, mentre la bambina sedeva a fianco di sua zia, tirandosi nervosamente una delle trecce: avrebbe voluto stare a fianco del suo fratellone, specialmente in quel momento.
Alla fine della cerimonia, Oriel raggiunse il fratello, che era stato avvicinato da un militare grassoccio.
“Ero un caro amico di tuo padre” stava dicendo l’uomo. Sebbene stesse sorridendo, i suoi occhi brillavano di una luce inquietante dietro alle lenti degli occhiali. “Mio caro ragazzo, riesco a vedere il tuo talento: un giorno potresti diventare un eccellente ufficiale, proprio come lui.” A quelle parole, il ragazzo si gonfiò d’orgoglio, sorridendo per la prima volta da quando era arrivata quella brutta notizia. “Non vorresti venire con me alla capitale? Sponsorizzerò volentieri i tuoi studi all’Accademia!” continuò l’uomo, mentre un sorriso si allargava sempre di più sul suo volto. Il ragazzo annuì vigorosamente e gli strinse la mano. “Bene. Ti farò sapere dove farti trovare e quando.”
Oriel tirò suo fratello maggiore per una manica, attirando la sua attenzione.
“Perciò d’ora in poi si occuperà lei di noi, giusto?” chiese il ragazzo quando l’uomo aveva già cominciato ad allontanarsi.
Questi si fermò, ma non si voltò a guardare in faccia il ragazzo.
“Sei già maggiorenne, non è così?” chiese invece.
“Sì, ma mia sorella ha dieci anni, devo occuparmi di lei in vece dei nostri genitori. Nostra zia non è nello stato mentale adatto a occuparsi di un minore, mentre la famiglia della mamma è oltreoceano e non posso mandare Oriel da sola in un paese sconosciuto.”
“Dunque getteresti al vento questa opportunità per una sciocchezza simile?” Finalmente l’uomo si voltò. Sorrideva ancora, ma la sua espressione aveva assunto una sfumatura minacciosa.
“Voglio solo assicurarmi che Oriel sia al sicuro.”
“Per raggiungere la gloria si devono compiere dei sacrifici, mio caro ragazzo. La bambina starà bene, verrà educata in uno dei migliori Convitti del Paese, se è questo che desideri.”
Il ragazzo strinse gli occhi.
“Oriel non andrà in un collegio. Mi scusi, ma se questi sono i suoi termini, preferisco rimanere qui. Raggiungerò ‘la gloria’ come dice lei, con i miei propri mezzi.”
“Davvero pensi di esserne in grado? Davvero pensi di essere in grado di ottenere qualcosa senza sacrificare nulla?”
Il ragazzo tentennò.
“No…”
“Allora scegli: scegli cosa vuoi avere e scegli cosa vuoi sacrificare.”
Il ragazzo guardò negli occhi la sorellina, che lo fissava con sguardo implorante da dietro le lenti degli occhiali.
“Vogliamo restare insieme. Non importa cosa dovremo affrontare, ma non lascerò che le nostre strade si separino. Noi due siamo tutta la famiglia che abbiamo.”
Esaudirò il vostro desiderio.
Per un attimo, Oriel pensò che l’uomo fosse rimasto paralizzato dalle parole di suo fratello, ma non ci mise molto a rendersi conto che non era così: tutte le persone intorno a loro erano rimaste immobili. La donna che aveva parlato, però, non era bloccata come tutti gli altri, e certamente non si trovava tra i presenti prima dell’istante in cui il tempo sembrava essersi fermato. I suoi lunghi capelli neri ondeggiavano come mossi da un vento inesistente e i veli del lungo kimono che indossava sembravano delle ali di farfalla.
“È un sogno, dev’essere per forza un sogno” mormorò il ragazzo facendo un passo indietro.
La donna chinò leggermente la testa.
“Questo non è un sogno: ci troviamo in un’increspatura nel tempo. È l’unico modo in cui potevo contattarvi dal Mondo da cui provengo.”
“Chi sei?” domandò Oriel, senza riuscire a staccare gli occhi dalla donna.
“Potete chiamarmi Yuuko. Sono una Strega delle Dimensioni, sono venuta perché ho sentito il vostro desiderio e sono in grado di esaudirlo.”
 Oriel sentì suo fratello che si inginocchiava e le prendeva entrambe le spalle saldamente con fare protettivo.
 “Perché noi?” chiese, con aria di sfida.
La donna pronunciò una sola parola. Un nome. Un nome che evocava giornate passate a disegnare e raccontare storie. Un nome letto male dalla piccola Oriel in uno dei libri che le facevano compagnia mentre i loro genitori erano al fronte.
“Se accetterete questo prezzo, esaudirò il vostro desiderio.”
-
“Oriel! Dove sei?”
La ragazza sorrise, sentendo la voce di Edward che la chiamava dalla carrozza. Che carini i fratelli Elric a preoccuparsi per lei.
“Sono qui fuori!” rispose. “E non ho nessuna intenzione di tornare in quello scomodo e bollente vagone!”
“Come ti pare...”
Oriel tornò a guardare il panorama intorno a lei. Presto avrebbe incontrato la famiglia Ishida, la cui alchimia era elogiata in molteplici testi, e presentato una ricerca che le avrebbe portato lodi e rispetto dai suoi superiori. E molto presto avrebbe rivisto suo fratello.
-
Città di Karakura, area Est di Amestris
L’alchimista camminava per i corridoi della villa, abituandosi ai ricchi tendaggi e marmi pregiati che aveva acquistato. La villa era assolutamente perfetta per i suoi obiettivi, ma ancora migliore era ciò che stava al di sotto di essa.
Con condiscendenza e senza farsi annunciare, spalancò la porta su quello che sembrava un laboratorio di alchimia. La stanza era piena di boccette e piante. L’uomo osservò il contenuto di alcune fiale ed annotò le proprie osservazioni in un taccuino, dopodiché scese le scale che dal laboratorio portavano al seminterrato. Qui, in una grande sala, trovò il ragazzo.
“Affascinante, non è vero? Ho sentito che quello vero è ancora più imponente.” L’opera che il giovane stava osservando era la riproduzione di una gigantesca porta in pietra. Da essa e attorno alla cornice sporgevano molteplici figure umane nelle posizioni più diverse, ma che davano nell’insieme una sensazione di caos e inquietudine. “Forza, è ora di mettersi al lavoro,” lo incitò l’uomo, cominciando a risalire le scale. “Mi aspetto molto da te, Alchimista d’Acciaio.”
Il giovane strinse i pugni e seguì l’uomo, lasciandosi alle spalle la minacciosa scultura.

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Capitolo 10
*** La Città Fantasma ***


Capitolo 9 - La città fantasma

First comes the blessing of all that you've dreamed,
But then comes the curses of diamonds and rings.
Only at first did it have its appeal, but now you can't tell the false from the real.
Who can you trust?
Imagine Dragons - ‘Gold’
 
[…]Anno 1806, la nazione di Amestris riconosce pubblicamente l’esistenza e possibilità del Viaggio Inter-Dimensionale da parte di Individui con le capacità per effettuarli.
L’esistenza dei Viaggiatori viene resa nota insieme a nove leggi inviolabili:
  1.             L’Universo è molteplice.
  2.             Il Multiverso è costituito da Dimensioni o Mondi differenti.
  3.             Il Tempo tra due Mondi differenti può scorrere più o meno velocemente, ma sempre in un’unica direzione.
  4.             Ogni Mondo è unico e distinto. (Due Mondi uguali o simili collassano in un’unica realtà).
  5.             Due Mondi possono essere identici fino ad un evento che cambia radicalmente la realtà di uno di essi: questo evento è detto Fulcro.
  6.             Il non-spazio tra due mondi è detto Medium.
  7.             Due Mondi diversi possono essere messi in comunicazione tramite passaggi attraverso il Medium, detti Gate.
  8.             Un Individuo in grado di passare da un Mondo all’altro è detto Viaggiatore. (L’atto è detto Viaggio).
  9.             Due sono le condizioni necessarie per un Viaggio: uno Strumento per aprire un Gate e l’Abilità per attraversarlo […]
Estratto da “Storia di Amestris” di Arthur Rubeus Barma.
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“Come sarebbe a dire: ‘ Non c’è più la fermata?’ Che razza di posto è questo?!” sbraitò Edward.
Dopo aver scoperto con loro grande rammarico che la città di Karakura non aveva una propria stazione ferroviaria e che la fermata più vicina a cui i tre erano potuti scendere era un borgo di montagna distante quasi tre ore di cammino, tra salite e tornanti, ognuno dei tre alchimisti aveva reagito in modo diverso. Edward aveva cominciato a litigare con l’anziano capostazione, che ci sentiva pure male e continuava a chiedergli di ripetere le frasi, ma che infine aveva regalato loro una mappa dei sentieri di montagna della zona, incluso quello che portava alle miniere e alla città mineraria. Alphonse aveva reagito con rassegnazione: in fondo, era l’unico per cui tre ore di cammino non rappresentavano minimamente una fatica. Oriel era rimasta in silenzio a osservare Edward che inveiva contro il vecchio. Quando Edward si fu sfogato, i tre si addentrarono nel bosco. Presto furono abbastanza lontani dal centro abitato da non sentirne più i rumori e il vociare.
“Maledetta, lo sapevi che c’era da fare questa strada” disse Edward tra i denti, camminando a lunghe falcate davanti al gruppetto.
“La stazione di Karakura è stata chiusa quando la città ha cominciato il suo declino, ma non ritenevo fosse un problema per voi. Questa strada è percorsa raramente e solo dai carri che portano le materie di scarto a valle. Possiamo parlare senza che orecchie indiscrete ci ascoltino.”
“Di cosa vorresti parlare?”
Oriel gli lanciò un’occhiata significativa e accennò ai suoi automail.
“Non ti sembra il caso di raccontarmi finalmente cosa avete combinato voi due?”
Edward si fermò di scatto e si voltò verso la ragazza, subito imitato da Alphonse.
“Era questo il tuo obiettivo, allora!”
Oriel alzò le spalle.
“Sarei comunque andata a Karakura, prima o poi. Ho solo pensato che avrei potuto prendere due uccelli con una pietra.”
I due fratelli la guardarono allontanarsi. Dopo essersi scambiati un’occhiata, ripresero a camminare. La raggiunsero e, senza soffermarsi troppo sui particolari, le raccontarono della loro trasmutazione umana, di cosa avevano perso e del vero motivo per cui si erano messi alla ricerca della Pietra Filosofale. La ragazza ascoltò rispettosamente in silenzio finché Edward non sembrò voler aggiungere altro.
“Anch’io ho dei segreti, e visto che voi mi avete svelato i vostri, vi svelerò i miei” disse senza guardarli. “Non sono di Amestris. I miei documenti sono per lo più falsi, ma ho dovuto prendere le dovute precauzioni, specialmente dopo la guerra dell’Est.” Ed e Al si scambiarono un’occhiata. “E allora? Niente commenti?” esclamò la ragazza. “Mi aspettavo almeno un po’ di sorpresa da parte vostra...”
“Insomma…” cominciò Al con imbarazzo. “Diciamo che ce lo aspettavamo: parli sempre in un dialetto strano quando sei nervosa, non hai parenti ad Amestris, a parte un fratello di cui non parli mai... Scusa, ma mi sembrava abbastanza ovvio.”
Oriel si fermò e guardò il ragazzino a bocca aperta, e fu il suo turno di essere lasciata indietro dai suoi compagni di viaggio.
“Grazie per non aver detto nulla, allora” mugugnò con imbarazzo quando li raggiunse.
Il gruppo di alchimisti giunse alla città che ormai era tardo pomeriggio. La prima cosa che più li colpì fu l’evidente povertà del luogo: molte delle miniere erano crollate e in disuso, così come un gran numero di abitazioni. L’unico edificio che stonava era una grande villa che svettava in posizione rialzata rispetto al resto degli edifici. I minatori al lavoro lanciarono ai ragazzi le peggiori occhiate, evitandoli e allontanandosi anche quando essi tentarono di fare loro qualunque tipo di domanda.
“Per essere una città che estrae oro è ridotta piuttosto male” commentò Edward, preoccupato. “I minatori, in particolare, sembrano tutti malati.” Gli uomini e le donne che avevano visto fino a quel momento, infatti, indossavano mascherine protettive ed erano smunti e pallidi. Non si vedevano bambini in giro.
“Come ho detto, la città è in declino” spiegò Oriel. “Non estraggono più oro da quando i filoni si sono esauriti, circa quarant’anni fa, o almeno questo è ciò che ho letto. Non so cosa facciano adesso di preciso.”
Edward sbuffò, cercando di non prendersela per il comportamento degli operai.
“E allora? Come li troviamo gli alchimisti che cerchi?”
Oriel indicò la villa.
“La famiglia Ishida è proprietaria delle miniere, perciò, se le mie informazioni sono corrette, sarà meglio cominciare a cercarli andando lassù.”
“Grandioso, un’altra scarpinata” mugugnò Edward.
Mentre imboccavano la scalinata per la villa che supponevano essere dei proprietari del luogo, la gente nelle case sprangava porte e finestre al loro passaggio.
“Non so voi, ma io non mi sento per niente a mio agio qui” mormorò Al, intimorito dal comportamento dei locali.
Edward si guardò intorno sospettoso, ma non aggiunse altro. Oriel, da parte sua, teneva il passo qualche metro più avanti: nonostante la sua determinazione, stava cominciando a pentirsi di essere venuta fin lì. In quel momento avrebbe solo voluto sbrigarsi e tornare a East City il prima possibile.
Quando finalmente i tre giunsero in cima alla scalinata, trovarono un muro di protezione alto diversi metri e sormontato da filo spinato, con un gigantesco cancello di ferro sprangato come unico ingresso. Oriel sbirciò tra le sbarre, mentre i ragazzi la raggiungevano. Le finestre erano tutte oscurate da pesanti tendaggi ed era impossibile sapere se ci fosse qualcuno all’interno.
“Cosa facciamo?” chiese Al, esaminando la villa a sua volta.
“Ci invitiamo dentro” replicò Oriel trasmutando il cancello per aprirlo.
I ragazzi rimasero basiti: da Edward ci si sarebbe aspettata un’azione temeraria simile, ma Oriel era sempre sembrata coi piedi per terra. Che cos’aveva veramente questa famiglia che la ragazza voleva ottenere? Giunti al portone principale, i ragazzi temettero che Oriel stesse per trasmutare anche quello, prima che effettivamente la porta si aprisse e ne emergesse una donna con i capelli neri raccolti in uno chignon e la stessa espressione stanca e malaticcia degli altri cittadini.
“Sono il maggiore Eckhart, alchimista di stato” si presentò Oriel mostrando l’orologio d’argento. “Vorrei parlare con un membro della famiglia Ishida.”
L’espressione della donna fu attraversata da un moto di sorpresa, talmente rapido da essere quasi impercettibile
“La famiglia Ishida non vive più qui da anni, la prego di andarsene” mormorò, poi accennò a chiudere la porta.
Edward infilò il proprio braccio destro nella fessura, impedendo alla porta di chiudersi.
“Perché in questa città sembrano tutti malati? Cosa succede qui?” domandò con veemenza, ignorando l’evidente disagio della donna.
Da dentro la villa si sentirono dei passi avvicinarsi. La donna assunse un’espressione agitata e spinse con forza il braccio di Edward fuori dalla porta.
“Andatevene!” esclamò. “E, per l’amor del cielo, non dite…”
Prima che potesse finire la frase, la porta si spalancò. Un uomo imponente, con i capelli scuri legati in treccine e piccoli occhiali da vista, comparve davanti a loro, squadrandoli con una espressione indecifrabile.
“Chi siete?” domandò guardando Edward dall’alto verso il basso.
“Alchimisti di Stato…” cominciò Oriel, ma il ragazzo la interruppe.
“Io sono l’Alchimista d’Acciaio, Edward Elric” si presentò con boria.
La reazione dei due fu immediata: la donna spalancò gli occhi, mentre l’uomo si irrigidì prima di afferrare Edward per il bavero e sollevarlo da terra.
“Andatevene, ne abbiamo abbastanza degli imbroglioni come voi!” gli gridò in faccia.
Prima che Edward o gli altri potessero reagire in qualsiasi modo, l’uomo lanciò letteralmente Edward in direzione del cancello aperto, e il ragazzo atterrò sulla strada sabbiosa.
“Fratellone!” esclamò Alphonse, correndo verso di lui.
“Chi hai chiamato imbroglione?!” esclamò Edward, accettando la mano che il fratello gli tendeva per aiutarlo a rialzarsi in piedi. Era un po’ ammaccato e sconvolto, ma altrimenti illeso.
L’uomo afferrò Oriel per il braccio e la trascinò fuori dalla cancellata senza troppi complimenti.
“I fratelli Elric lavorano per noi già da alcuni mesi. Un nanerottolo come te non può farsi passare per l’Alchimista d’Acciaio, inventati una scusa migliore la prossima volta!” suggerì, mentre chiudeva i due battenti del cancello con una catena di metallo alla quale fissò un grosso lucchetto.
“CHI HAI CHIAMATO NANEROTTOLO MINUSCOLO CHE SI MIMETIZZA TRA I GRANELLI DI SABBIA, VECCHIO SCEMO?!” gridò Edward battendo i palmi e facendo per lanciarsi nuovamente verso il cancello, prima che Alphonse lo bloccasse afferrandolo per il colletto del cappotto.
Il portone si richiuse e i due scomparvero alla vista.
“Che cosa è appena successo?” mormorò Oriel, incredula.
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“Sono arrivati. ♥”
L’uomo alzò la testa, smettendo immediatamente di scrivere. Sul suo volto si dipinse un sorrisetto che lasciava a malapena trapelare l’entusiasmo che sentiva.
“Sono in tre?”
“Esatto. ♥ Finalmente possiamo concludere quest’opera meravigliosa.”
L’uomo si alzò con calma e uscì dalla stanza, camminando a passo veloce lungo i corridoi fino ad arrivare alla scala davanti al portone principale. La donna con i capelli neri stava parlando con una delle guardie in modo concitato, quando lui arrivò.
“Kanae,” chiamò l’uomo. La donna si voltò di scatto, stringendo strettamente le pieghe del vestito. “È il momento. Ricordi il nostro patto?”
“Sì, dottor Aizen,” rispose lei, la voce ridotta ad un sussurro.
-
“Mi ci sta volendo ogni briciola di autocontrollo per non fare dietro front e pestare sul muso chiunque si stia facendo passare per me” ringhiò Edward, percorrendo a grandi falcate la strada principale.
“A questo punto non mi sembra l’idea migliore” considerò la ragazza. “Potremmo venire sbattuti in galera per violazione della privacy, rissa aggravata e un mucchio di altri reati minori, e sai quante scartoffie ci sarebbero da far firmare prima che l’esercito mandi un avvocato in questo posto da lupi?” Alphonse annuì, perfettamente d’accordo con la ragazza. Stava per aggiungere qualcosa, ma lei riprese. “Meglio aspettare la notte, almeno avremo l’oscurità a coprirci.”
“Ho a che fare con due giovani delinquenti” pensò Al, sconsolato.
“Pssst, ehi!” Una voce fece fermare i tre ragazzi. Davanti a una delle tante abitazioni grigie sedeva un uomo il cui volto era quasi completamente nascosto da un cappello da pescatore a righe verdi e bianche calcato in testa. Era il primo a rivolgere loro la parola di propria volontà. “Vi starete chiedendo perché vi ho rivolto la parola quando tutti gli altri cittadini sembrano volervi evitare” cominciò, facendo loro segno di avvicinarsi. L’uomo, i cui capelli biondo paglia spettinati arrivavano alle spalle, indossava quello che sembrava un pigiama sotto un’ampia vestaglia nera. “Posso fare luce sui vostri dubbi...” Infilò la mano all’interno della vestaglia, come per prendere un’arma. Il gesto mise in guardia i tre ragazzi, che si prepararono al peggio, ma l’uomo estraesse dalla vestaglia un oggetto di plastica bianca. “...Con questa bellissima lampada portatile a forma di sedere!” concluse, trionfale, dando uno schiaffo all’oggetto dalla forma non poco ambigua, che si accese di una luce rosata. Vittima dell’improvviso calo di tensione, Oriel non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere, guadagnandosi due occhiatacce da parte di Ed e Al. “Oppure siete forse più interessati a questo?” continuò l’uomo, imperterrito, estraendo da dietro la schiena quello che a prima vista sembrava un semplice automail bianco. “Potete attaccarlo alla sedia o alla scrivania ed avere una mano in più a cui appoggiarvi nei momenti di stanchezza.” Edward allargò le braccia, basito. “E che ne dite di queste strisce pedonali srotolabili? Per attraversare la strada in ogni…”
“Basta!” esplose Edward. “Non ce ne frega nulla delle tue chincaglierie, vecchio! Ci puoi dire che cosa succede qui?”
Il viso dell’uomo si illuminò di un sorriso furbo.
“Voi compratemi qualcosa e vi dirò cosa so.”
Edward sbuffò, ma si mise le mani nelle tasche per estrarre le poche monete che gli erano avanzate dall’acquisto dei biglietti del treno.
“Cosa ci puoi dare per queste?” fece bruscamente, lanciandole all’uomo, che le osservò meticolosamente prima di farle sparire in un taschino della camicia da notte.
“Posso darti del filo interdentale al bacon o una roccia domestica…”
“Cosa diavolo è una roccia domestica?” chiese Edward. Per tutta risposta, l’uomo gli lanciò qualcosa che lui prese al volo: era un normalissimo sasso, grande più o meno come un’arancia, con un piccolo collare legato intorno.
“È stato un piacere fare affari con voi, arrivederci!” esclamò l’uomo, poi si alzò in piedi e fece per entrare nella sua misera abitazione, ma Alphonse lo afferrò per un braccio.
“Non è molto corretto da parte sua andarsene senza rispettare la promessa” fece il ragazzo, una sfumatura minacciosa nella voce. “Non le pare?” aggiunse, stringendogli di più il braccio. Torreggiava sull’uomo in modo inquietante.
“V-venite dentro” cedette quest’ultimo.
L’angusto monolocale era inaspettatamente vuoto, eccetto che per una pila di oggetti tra i più disparati che erano stati accatastati su un telo di stoffa. Ed e Al seguirono l’uomo, mentre Oriel si fermò ad esaminare la pila di oggetti. Per essere un negozio era piuttosto nuovo oppure piuttosto trascurato.
“In verità non posso dirvi molto, sono arrivato qui da poco e l’accoglienza non è delle migliori” cominciò a spiegare l’uomo, sedendosi sul pavimento a gambe incrociate. L’abitazione era totalmente vuota di mobilio o decorazioni, e non assomigliava per niente a un locale in uso.
“Arrivato? Da dove?” chiese Edward.
Prima che l’uomo potesse rispondere, la porta da cui i ragazzi erano appena entrati si spalancò ed un bambino con un ciuffo di capelli rossi arruffati sparato in alto e laceri vestiti di tela irruppe nella stanza. Portava sulle spalle il corpicino magro di una bambina dai capelli neri raccolti in due codini.
“Ururu sta male di nuovo!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola, senza prestare la minima attenzione ai tre estranei.
L’uomo col cappello raddrizzò la schiena, immediatamente vigile.
“Falla stendere” ordinò al ragazzino, che appoggiò la bambina sul pavimento. La piccola era pallida e sudaticcia e tossiva in continuazione. “Siete andati di nuovo a ficcare il naso nelle miniere, vero?”
“Stavamo solo cercando la porta di cui ci aveva parlato Tessai! Non pensavamo che fosse così pericoloso!” replicò lui, prima di cominciare a tossire a sua volta.
I tre alchimisti osservavano la scena che si stava svolgendo davanti ai loro occhi senza sapere bene come intervenire finché non vennero chiamati in causa.
“Tu” l’uomo col cappello indicò Oriel improvvisamente, scarabocchiando qualcosa su un foglietto che le allungò insieme ai pochi soldi che Edward gli aveva appena dato. “Vai a comprare queste medicine, fai alla svelta…”
Oriel annuì e, dopo un cenno nella direzione dei due fratelli, corse all’esterno.
“Ma cosa sta succedendo qui?” fece Alphonse.
Il bambino coi capelli rossi gli lanciò un’occhiataccia.
“Da quando siamo arrivati in questo Mondo, Ururu ha cominciato a stare male. Tessai allora si è messo a lavorare alla villa per scoprire cosa sta succedendo, ma senza nessun risultato.”
“In questo Mondo” ripetè Al, cominciando a capire che genere di persone si trovava davanti.
“Siete Viaggiatori?!” esclamò Edward, incredulo.
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Oriel corse per qualche minuto per le strade della città mineraria, cercando con gli occhi un qualunque segno che le indicasse un ospedale o un’infermeria. Possibile che una città si riducesse in quello stato? Gli edifici sembravano per la maggior parte diroccati o disabitati, i pochi negozi erano chiusi o deserti. Sembrava di camminare in una città fantasma se non per le poche persone che voltavano le spalle o chiudevano le finestre al passaggio della ragazza. I cittadini non sembravano dei cadaveri viventi come i minatori, ma erano evidentemente messi male a loro volta: si sentivano spesso risuonare del colpi di tosse per le strade polverose e la città erano pervase da un odore dolciastro che le faceva girare la testa. Finalmente, dopo diversi minuti che girovagava a vuoto, gli occhi di Oriel caddero su un edificio sulla cui facciata era dipinta rozzamente una croce con della vernice verde. Con un sospiro di sollievo, la ragazza si precipitò all’interno. La porta si aprì con un tintinnio su un ambiente angusto ma privo di polvere e sporcizia. Dietro ad un bancone sedeva da solo un uomo di mezz’età, che alzò gli occhi dal libro che stava leggendo quando Oriel fece il suo ingresso. I sottili occhi blu, mezzi nascosti dai capelli grigi e dalle lenti degli occhiali scrutarono la ragazza con onesta curiosità, e a differenza degli altri paesani, vestiva in giacca e cravatta come un gentiluomo di Central City.
“Salve” cominciò Oriel. “È un ospedale questo, vero? Voglio dire, ho visto il simbolo fuori…” L’uomo fece un breve sorriso divertito, ma non rispose. “Uh, ecco, c’è una bambina che si è sentita male, ho bisogno di sciroppo o brospamina per farle passare la tosse” spiegò, leggendo quello che le aveva appuntato l’uomo col cappello.
L’uomo annuì, posò il libro sul bancone e si alzò in piedi, allungandosi per prendere una boccetta di liquido color miele da una credenza alle sue spalle.
“Non sei di queste parti” mormorò lui, allungandole la medicina.
La ragazza scosse la testa, sollevata dal fatto che almeno questa persona non sembrava avere diffidenza nei suoi confronti.
“Io e miei amici siamo in viaggio,” spiegò semplicemente, senza perdersi nei dettagli. “Quanto le devo?”
“Siamo in un ospedale, non in una farmacia. Non preoccuparti, vai a portare quella medicina alla bambina. Se ci sono peggioramenti, portala qui.” Il suo tono era gentile, ma la sua espressione era neutra. Oriel sorrise, accennando un breve inchino, e si diresse verso l’uscita, ma la voce dell’uomo la fermò. “Un’altra cosa... Tu e i tuoi amici fareste meglio a lasciare Karakura prima possibile.”
Oriel, la cui mano era già sulla maniglia della porta, tornò a voltarsi verso di lui.
“Che cosa sta succedendo qui, esattamente?” chiese. “I minatori sembrano degli scheletri, la gente ha paura...”
L’uomo aggrottò la fronte.
“I problemi di questa città sono tanti, ma ti consiglio di lasciar perdere. Non farti carico di ciò che non ti riguarda.”
“Ma gli alchimisti esistono per aiutare le persone, non è così? Se c’è qualcosa che possiamo fare…”
“Sei un’alchimista?” la interruppe lui, sorpreso. Sul suo volto si dipinse un mezzo sorriso pieno di rammarico. “Gli alchimisti esistono per aiutare…” ripeté. “Se solo altri la pensassero come te…” Le fece un cenno con la testa. “Come ti chiami?”
La ragazza allungò la mano per stringere quella dell’uomo.
“Oriel Eckhart.”
Aurildis, fiamma. Un nome audace” commentò lui. “Io sono Ryuken Ishida.”
Oriel non riuscì a trattenere il sorriso che le si formò sul viso, mentre stringeva la mano dell’uomo che, per caso, era riuscita ad incontrare.
-
Il giovane alchimista, che indossava una complessa maschera antigas, sollevò un alambicco pieno di liquido nero denso che pareva olio e l’osservò in controluce: sul fondo si era formata una piccola pietruzza dai bordi smussati. Cautamente, posò il contenitore sul tavolo e si fece passare un paio di lunghe pinze dall’altra persona nella stanza, prelevando con esse la pietruzza dal fondo del liquido.
La pietra sembrava assorbire totalmente la luce, come un buco senza fondo.

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Capitolo 11
*** I falsi fratelli Elric ***


Capitolo 10 - I falsi fratelli Elric

I said momma was insane and daddy was a criminal
I grew up in a trailer with a dream of fucking centerfolds
Now I'm making money experimenting with chemicals
The fact I'm still alive is why I still believe in miracles

Zella Day - ‘Mustang Kids’

Nei tuoi sogni vedi spesso tua sorella in deliziosi abiti femminili che le calzano a pennello, mentre balla in una stanza dipinta di rosa e circondata da decine di bellissimi giocattoli che ogni bambina desidererebbe.
“Sei adorabile” le dici, la tua voce piena di affetto, e lei ti sorride radiosa come non mai.
La vedi abbuffarsi di deliziose pietanze, ce n’è a volontà, senza paura che non bastino per arrivare all’indomani. Ha le guance rosee e piene, l’espressione soddisfatta.
“Mangia pure, ce n’è ancora!” esclami porgendole un piatto di succulento arrosto.
“Yum!” esclama lei.
La vedi dormire tranquilla in un morbido letto di piume, dopo averle raccontato una favola della buona notte. Le accarezzi la fronte, scostandole le ciocche bionde dagli occhi.
Da sogni del genere non vorresti svegliarti mai.
-
“Siete Viaggiatori?!”
L’uomo si voltò verso i ragazzi.
“Dipende da cosa intendete.”
“Il piccoletto ha detto che siete venuti da un altro Mondo, non è così?” insistette Edward.
“Oh?” fece lui con un sorrisetto. “Questo semplificherà di molto le cose… Come mai conoscete la possibilità di Viaggiare?”
“È abbastanza risaputo, all’inizio del secolo scorso è stato reso pubblico che…” Edward si interruppe. “Ma questo non è il momento di parlarne! Come sta la bambina?”
“Non appena avrà la sua medicina, Ururu starà bene, è una ragazzina forte… e comunque posso farle lasciare questo mondo in qualunque momento.” La bambina aveva smesso di tossire e stava parlando sottovoce col ragazzino che l’aveva portata lì. “Piuttosto, in questa città la maggior parte delle persone è nelle sue stesse condizioni, non vi chiedete perché?”
“Beh, sì” cominciò Al. “Ma piuttosto, mi sto chiedendo cos’è che scavano nelle miniere, se non c’è più oro?”
L’uomo scrollò le spalle.
“Chiedilo ai meno indisponenti e ti diranno che stanno ancora cercando l’oro, ma andando in profondità abbiamo scoperto qualcosa di molto strano.”
“Cosa?” fecero i fratelli, in coro, sporgendosi in avanti con curiosità.
L’uomo fece un sorrisetto.
“Perché non comprate una cuccia di paglia per la vostra roccia domestica? È così bello fare affari con voi!”
Alphonse si trovò per la seconda volta in pochi minuti a dover bloccare suo fratello perché non compiesse qualche atto violento estremamente prossimo all’omicidio.
“Signor Urahara, perché sta dicendo queste cose a questi tizi sospetti?” intervenne il ragazzino coi capelli rossi. “Pensavo che fosse una nostra indagine!”
Alle parole ‘tizi sospetti’, Al si congelò e ritrasse tristemente in un angolino della stanza, mormorando qualcosa sull’accomunarlo al proprio violento fratello.
“Saremmo noi i sospetti?! E voialtri, allora?” sbottò Edward. “Siete tanto interessati alla situazione, e non siete nemmeno di questo Mondo!”
Lui e il bambino, che si era piazzato con fare protettivo davanti a Ururu, si fissarono con aria di sfida.
“Il fatto è che, quando siamo arrivati, ci hanno rubato un oggetto pericoloso” disse la bambina, parlando per la prima volta. La sua voce era fioca, il suo tono apatico, e fu interrotta da un nuovo attacco di tosse.
“Già, già, proprio così” Urahara annuì vigorosamente. “Siamo arrivati in questa grotta, no? Ci sono state un po’ di turbolenze durante il Viaggio per cui eravamo tutti e quattro un po’ scossi, e abbiamo visto una persona frugare nel bagaglio che Tessai aveva fatto cadere e andarsene con un oggetto” spiegò, indicando con un cenno, la pila di oggetti.
“Cioè una delle vostre cianfrusaglie…”
“Non era una cianfrusaglia!” sbottò il bambino. “Quel golem ci serviva a contattare…” Fu interrotto dall’uomo che gli mise una mano davanti alla bocca.
“Diciamo che è una cianfrusaglia che ci serve” tagliò corto l’uomo, poi sorrise con aria furba. “Ci date una mano? In cambio aiuterò voi, scambio equivalente…”
Ed e Al si scambiarono un’occhiata.
“Aiutarci in che modo?”
Nel momento in cui l’uomo cominciò a parlare, Oriel rientrò con un sacchetto di carta in mano.
“Se volete entrare nella villa, posso chiedere a Tessai di aiutarvi” spiegò, allungando la mano per prendere il sacchetto che la ragazza gli tendeva. “Ti ringrazio” le disse, facendo cenno a Ururu di avvicinarsi. “In cambio, recupererete ciò che è stato rubato, e che si trova proprio là” proseguì, versando una piccola quantità della medicina acquistata da Oriel in un bicchierino per alcolici che aveva recuperato dal mucchio di oggetti. Lo tese alla bambinda, che lo mandò giù tutto d’un fiato.
“Come fa a essere sicuro che si trova alla villa?” domandò Oriel.
“L’uomo che ha preso il golem è la stessa persona che pochi mesi fa ha acquistato la villa e le miniere, un proprietario terriero con la passione per l’alchimia che si fa chiamare Aizen” rispose l’uomo dopo un attimo di silenzio.
“Ho già sentito questo nome” cominciò Al, ma a voce troppo bassa, e nessuno lo udì.
Oriel alzò un sopracciglio.
“Acquistato dalla famiglia Ishida, immagino...”
L’uomo scrollò le spalle.
“Non so come si chiamassero i precedenti proprietari, onestamente. Fatto sta che quell’uomo è inavvicinabile…”
“Sì, abbiamo incontrato la sua guardia del corpo” mugugnò Ed.
“Guardia del corpo?” I tre alchimisti descrissero il loro recente tentativo di entrare nella villa, ma quando arrivarono a descrivere l’omaccione che li aveva gettati fuori dal cancello, Urahara cominciò a ridere. “Non c’è che dire, si è proprio immedesimato nella parte!” esclamò. “Quello era Tessai, il quarto membro della nostra comitiva! Come ho già spiegato, si trova sotto copertura alla villa.”
“Perché non recupera direttamente lui l’affare che vi hanno rubato?”
“Purtroppo Aizen lo tiene ben nascosto... e poi c’è il problema dei fratelli Elric.” Guardò i due ragazzi. “O i non-fratelli Elric, se voi, come dite, siete quelli veri…”
“Lo siamo!” esclamarono i due in coro.
Urahara alzò le braccia in modo difensivo.
“Per me è indifferente… Comunque quei due sono degli ossi duri, ci hanno cacciato dalla villa più di una volta. Tessai può aprirvi la porta di servizio, se ci bussate in un certo modo…”
Edward scrocchiò le nocche della mano sinistra.
“Benissimo. Quei due stanno per ricevere una bella punizione per aver osato infangare il mio nome…”
“Io passo” disse improvvisamente Oriel, alzando una mano. Edward la guardò con aria basita.
“Co… perché?! Sei stata tu a proporre di introdurti nella villa col favore del buio! Non posso permettere ad uno stronzo di disonorarmi con delle ricerche losche!”
“Perché invece le tue ricerche non hanno assolutamente nulla di losco” commentò sarcasticamente, la ragazza, poi voltò loro le spalle e uscì. “Comunque, per stavolta siete da soli, io devo andare a parlare con una persona.”
-
Il sole era ormai calato dietro le colline, ma dentro la villa i “fratelli Elric” stavano lavorando nel laboratorio dal quale partivano le scale per il sotterraneo. Il più alto stava armeggiando con dei contenitori pieni di liquido nero, mentre l’altro stava curando delle piante con aria annoiata.
“Ehi, io mi annoio… Lee, dobbiamo stare ancora qui a lungo?” fece l’altro, che sembrava poco più che un bambino. Entrambi indossavano delle maschere protettive di cuoio e stoffa.
“Sai bene in che situazione siamo... e chiamami Ed, non si sa mai chi stia ascoltando!” lo corresse l’altro a voce bassa. “Nel peggiore dei casi, ce la filiamo con una borsa di queste e punto” mormorò, sollevando la pietra scura che aveva realizzato poco prima.
“E Kanae?” mormorò il bambino. “Non possiamo lasciarla in quello stato… È colpa nostra se…” Il silenzio della notte fu interrotto da un fragore metallico proveniente dal fondo delle scale. “Cos’è stato?!” esclamò il ragazzino balzando in piedi.
Il ragazzo più alto appoggiò gli strumenti di lavoro e si diresse verso le scale.
“Vado a controllare. Probabilmente sono ancora Cappello Idiota e i due piccoletti che vengono a rompere i coglioni…”
“Ah! Non è giusto, voglio venire anche io!” esclamò il ragazzino seguendo il fratello. Sul suo volto apparve un sorriso quasi maniacale. “Questa volta voglio piantargli un proiettile in testa!”
Per niente turbato dalle intenzioni violente del fratellino, il ragazzo che fingeva di essere Edward Elric sorrise.
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Quando era calato il buio, il ragazzino con i capelli rossi, che aveva detto di chiamarsi Jinta, aveva guidato i due alchimisti a una capanna di legno sul bordo della montagna vicino alla villa e bussato con un ritmo particolare prima di volatilizzarsi nella boscaglia. La porta si era aperta pochi minuti dopo e la testa dell’omone con i baffi e i capelli a treccine aveva fatto capolino. Dopo un’accesa discussione durante la quale avevano con difficoltà convinto l’uomo di essere lì per conto di Urahara, erano finalmente riusciti ad entrare nella capanna, che nascondeva l’ingresso di un vecchio tunnel minerario che entrava dentro la montagna e sotto la villa stessa. Dopo aver camminato per alcuni minuti nel cunicolo, illuminato solo dalla luce della lampada a gas che Tessai teneva in mano, Al fu il primo a notare una fine nebbiolina che copriva il pavimento del tunnel.
“Cos’è questa roba?” domandò.
Tessai strinse i denti e da una sacca che portava a tracolla prese una maschera di pelle e la indossò in modo da coprirsi la parte inferiore del volto.
“Copritevi bocca e naso” ordinò ai ragazzi, tendendo loro due lembi di stoffa strappata. Edward si legò la mascherina improvvisata sul volto, mentre Al la fece scivolare dentro l’elmo per salvaguardare le apparenze. “Muovetevi, più avanti ci sono le stanze della servitù. Da lì posso farvi vedere come accedere ai magazzini. In questo momento ci troviamo esattamente sotto di essi.”
“Uh, buono a sapersi” commentò Ed, fermandosi sul posto.
Il ragazzo batté le mani e le posò sul muro. Ci fu il lampo di una trasmutazione alchemica, e la roccia si aprì con un rombo, formando una rampa di scale che saliva verso l’alto.
“Ah!” sbottò l’uomo. “Io cercavo di farvi passare inosservati, ma voi preferite farvi notare! Fate come vi pare, io me ne vado” disse, proseguendo lungo il corridoio portandosi via la torcia. Se non fosse stato per la luce che veniva dalla stanza in cima alle scale, il tunnel sarebbe stato velocemente di nuovo buio.
Con cautela, i due fratelli salirono i gradini e sbucarono in una lunga stanza disseminata di scaffali contenenti libri, pergamene e fogli di ogni tipo e stato. Alcune luci elettriche illuminavano la stanza, che possedeva, oltre all’ingresso che Ed aveva appena creato, solo un’altra uscita: una porta di legno che, socchiusa, dava su una sala buia.
“È ora di scoprire che cos’è che fanno qui” disse Ed, cominciando a sfogliare un libro. Dopo alcuni secondi, però sembrò realizzare qualcosa e lo lasciò cadere, afferrandone immediatamente un altro. Con ansia crescente, aprì un volume dopo l’altro, mentre sudore freddo cominciava ad imperlargli la fronte. “Ma questi…” cominciò, guardandosi intorno per cercare Al. Il ragazzino nell’armatura stava sbirciando nella stanza adiacente, sperando di distinguere qualcosa nell’oscurità, quando Edward gli arrivò letteralmente addosso, mandandoli entrambi a terra con un fragore metallico.
“Fratellone!” protestò, Al, alzandosi in piedi indignato.
“Al, molti di questi volumi sono rari o antichi!” sibilò il ragazzo. “Ci sono anche testi proibiti sulla trasmutazione umana!”
Il fratello rimase senza parole per alcuni secondi prima che le luci nella sala si accendessero. Quando i suoi occhi si abituarono alla luce, Edward si guardò intorno, osservando alti scaffali che invece di libri contenevano alambicchi e gli oggetti più diversi: sembrava una specie di collezione di oggetti rari. In fondo alla sala e alla fila di scaffali saliva una scalinata ai piedi della quale stavano due figure in piedi.
 “E voi chi diavolo siete?” esclamò uno dei nuovi arrivati.
Avevano entrambi i capelli biondo scuro e gli occhi azzurri, ma quello che aveva parlato li teneva molto più lunghi e legati a coda di cavallo ed era notevolmente più alto dell’altro. Indossava anche una giacca rossa le cui maniche arrotolate scoprivano uno strano e massiccio automail al posto del braccio sinistro.
 “Voi siete…” cominciò Al.
“Siamo i fratelli Elric” affermò il più basso con aria stranamente gioviale.
“Il mio nome è Edward, e lui è mio fratello minore Alphonse” continuò l’altro.
“No, siete due impostori!” esclamò Edward. “Noi siamo i fratelli Elric!”
Dopo alcuni secondi di silenzio sbigottito, il ragazzino più piccolo cominciò a ridacchiare.
“Oh, merda. Lee, sono quelli veri!”
“Taci!” esclamò l’altro tra i denti. Sembrava in egual misura preoccupato ed infastidito dalla situazione. “Quindi tu con l’armatura sei il vero Alchimista d’Acciaio?” disse infine.
“NO, NO, NO! Edward sono IO! IO! IO!” esclamò Ed, indicandosi furiosamente.
“Tu? Quindi le nostre informazioni erano incomplete: il fratello maggiore è quello più basso” commentò con un sorrisetto. “Comunque, vi dispiace lasciarci usare i vostri nomi ancora per un po’? C’è qualcosa che dobbiamo fare qui…”
“Qualcosa di proibito, scommetto” fece Edward. “In tal caso non possiamo assolutamente permettervelo!”
L’impostore sospirò.
“Io ci ho provato a farvi andar via con le buone…” cominciò.  Con la mano destra si afferrò l’automail e tirò una leva all’interno dell’avambraccio. Le parti meccaniche che componevano l’automail si riarrangiarono finché al posto di mano e avambraccio non ci fu la canna di un’arma da fuoco. Un ghigno inquietante apparve su entrambi i volti degli impostori. “Fine della corsa, Edward Elric.”
“Seriamente?!” esclamò il ragazzo prima che un proiettile lo colpisse di striscio alla fronte, facendolo sanguinare. Dopo un secondo di sbigottimento, batté le mani e trasmutò una barriera di roccia tra sé e gli impostori.
“E pensare che bastavano solo un po’ di buone maniere” esclamò il falso Edward, la voce attutita dal muro.
Ci fu un clangore metallico e Edward si voltò per vedere Al che veniva atterrato dal ragazzino: al braccio destro aveva lo stesso tipo di automail del fratello. Si era arrampicato sopra gli scaffali per sfruttare l’effetto sorpresa e lanciarsi sopra al ragazzo in armatura per gettarlo a terra. Con un calcio, gli fece volare via l’elmo e puntò la pistola dove si aspettava di vedere il volto del ragazzino. Rimase però interdetto quando si trovò davanti a nulla. Alphonse approfittò della sua distrazione per afferrarlo e gettarlo a terra, immobilizzandogli il braccio meccanico appoggiandosi ad esso con tutto il proprio peso.
Nel mentre, il fratello maggiore aveva fatto il giro degli scaffali per andare incontro ad Edward, il quale, però, non si fece sorprendere: trasmutò il mobile in delle corde, che usò per immobilizzarlo.
“Niente male” disse l’impostore, sorridendo nonostante fosse stato immobilizzato. Edward stava per ribattere quando si accorse che il ragazzo, con la mano destra ancora libera, aveva afferrato un oggetto che teneva nella propria tasca, dal quale si sprigionarono lampi di luce rossa.
“Quella è…” fece Al, mentre si rialzava e riprendeva in mano l’elmo.
Le corde che legavano il braccio del ragazzo si scomposero e ricomposero in acuminate lance di pietra che andarono verso Edward. Il ragazzo le schivò per un pelo, lanciandosi di lato e lasciando così libero il ragazzino più piccolo.
“Anche lui non usa il cerchio alchemico?!” esclamò Al, rialzandosi e sistemandosi l’elmo. L’impostore si limitò a sorridere enigmaticamente.
“No, guarda bene” disse Ed. Il falso Edward stringeva nel pugno destro una pietra che brillava di lampi rossi.  “Quella luce, quel tipo di energia...” L’alchimista ghignò. “È come quella di Anderson: una finta Pietra Filosofale. Scommetto che senza di quella non riesci nemmeno a fare trasmutazioni…”
Il ragazzo fece una smorfia, segno che Edward ci aveva preso. Prima di ribattere o contrattaccare, però, dalla scala si sentirono avvicinarsi dei passi e voci.
“Signor Alchimista di Stato, cosa succede?” chiamò qualcuno.
Ed e Al si scambiarono un’occhiata prima di fare dietro front e correre verso la scala che loro stessi avevano creato. Non avevano intenzione di lasciare perdere, ma fronteggiare altre persone e mettersi nei guai non era la migliore delle idee. I due si lanciarono giù per le scale, sigillando l’uscita con l’alchimia dietro di loro. Dal buio corridoio minerario sentirono le voci di due o tre persone arrivare in soccorso ai due impostori.
“Bastardi, non erano nemmeno così forti, avrei potuto suonargliele di santa ragione” disse Edward tra i denti.
“Uh, fratellone… Non ci abbiamo pensato, ma… non abbiamo fonti di luce.”
Edward alzò la testa e si guardò intorno: erano circondati dall’oscurità più completa. Andando per tentativi, allungò una mano finché non trovò l’armatura di Al e vi batté le nocche.
“Tranquillo, il tunnel non ha diramazioni, se ci teniamo vicini al muro dovremmo riuscire a tornare sui nostri passi…”
I ragazzi si misero cautamente in marcia, ignari che ancora più in profondità del tunnel dove si trovavano, un uomo in camice bianco e mascherina stava osservando un macchinario pompare dalle profondità della terra un liquido denso e nero che confluiva in una fontana e veniva distribuito in diversi canali e tubature che si diramavano in tutte le direzioni. Al suo fianco fluttuava quello che sembrava un piccolo pipistrello, ma il cui corpo sferico era completamente privo di arti o volto.
“Chiedo perdono, Conte, si sono comportati in modo imprevedibile e non siamo riusciti a portarli dove volevamo,” spiegò l’uomo.
La risposta venne proprio dallo strano essere fluttuante, come se fosse una specie di radio.
“Non preoccuparti, ♥ in ogni caso il Catalizzatore non è ancora pronto quindi sarebbe stato prematuro.”
“Le prometto che a breve riuscirò ad aprire quel Gate.” Aizen sorrise. “...E a trascinare quel Falso Dio nella sabbia.”

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Capitolo 12
*** AM ***


Capitolo 11 - AM

I'm losing sight of this eerily familiar pain,
so I wander about. Should I go right or left?
While voices of wishing blend with the ringing in my ears,
the speed of my fall does not change.
Meisa Kuroki - ‘Wired Life’
 
Van Hohenheim,
                il processo alla base dell’alchimia è piuttosto semplice se ci pensi: comprensione, distruzione, ricostruzione. Ciò che nessuno menziona mai è l’attitudine, il talento richiesto per riconoscere e manipolare l’energia alla base del cambiamento. Nel
Liquor Alchahest, Philalethes propone un’origine di questa energia nei movimenti della crosta terrestre e placche tettoniche, mentre Wei Bo Yang introduce il concetto chiamato Lung Mei, un torrente di vita che scorre metaforicamente dalla cima dei monti fino a valle, nutrendo tutto come sangue che scorre nel corpo. Qualunque sia la natura di questa energia, che cosa rende una persona in grado di piegarla alla propria volontà? L’alchimia richiede una completa comprensione della chimica, fisica e teoria alchemica, ma non basta studiare per diventare un competente alchimista. Qual è la sorgente di questo talento intrinseco nella manipolazione di materia ed energia? Questo è l’obiettivo della mia ricerca.
S. Aizen, 17 Ottobre 1889


Van Hohenheim,
                la teoria da te esposta è certamente illuminante, ma ho alcune domande rispetto alle tue considerazioni. L’uomo, l’individuo è indubbiamente composto dagli elementi distinti del corpo materiale e la mente immateriale, ma non credi che parlare di “anima” dal punto di vista alchemico sia alquanto offensivo? L’anima è un concetto religioso, oltraggioso per uno scienziato. Considerarla, come hai scritto nella tua ultima lettera, la fonte di energia o perlomeno il tramite attraverso cui possiamo accedere ad essa mi sembra alquanto strano. Non c’è dubbio che il concetto di un’individualità disconnessa dagli impulsi elettromagnetici del cervello sia affascinante e certamente intrigante, ma servono delle prove per accettarlo come fatto.

S. Aizen, 7 Gennaio 1900


Van Hohenheim,
                non so se ti è mai capitato di leggere le considerazioni di Arthur Barma sul Viaggio Dimensionale, contenute nel “Storia di Amestris”: viene menzionato un potenziale per Viaggiare presente in ogni individuo ma l’abilità di pochi di effettivamente farne uso. Non ti nascondo che in parte ho sempre trovato affascinante la possibilità di visitare una realtà alternativa, ma la mia curiosità nei confronti delle leggi di
questo Mondo è sufficiente a tenermi ancorato, o perlomeno a non farmi rodere troppo il fegato cercando di capire come ottenere l’abilità di Viaggiare. Questa digressione per sottolineare che probabilmente c’è un legame tra l’abilità di usare l’alchimia e quella di Viaggiare. Mi è capitato di parlare con un Viaggiatore di recente, che mi ha reso nota un’informazione molto interessante: l’alchimia come viene praticata in Amestris non è utilizzabile in alcuno degli altri Mondi da lui visitato. Lascio a te le conclusioni.
S. Aizen, 13 Marzo 1900


Van Hohenheim,
                innanzitutto ti faccio i miei più sinceri complimenti per la nascita di tuo figlio, spero di riuscire a venire presto nell’Est per conoscere la tua nuova famiglia, ma il lavoro all’ufficio e le mie ricerche mi tengono incredibilmente occupato. Quest’anno vorrei riprovare l’esame per diventare Alchimista di Stato, a quel punto potrò finalmente ottenere la strumentazione di ricerca di cui ho bisogno per ottenere dei risultati degni di questo nome. In secondo luogo, per quanto riguarda i tuoi commenti alle considerazioni nella mia ultima lettera: ho bisogno di pensarci. Ho come l’impressione che tu sappia di più sull’argomento di quanto mi voglia dire. Deve per forza esistere un legame tra l’abilità di usare l’alchimia e la capacità di Viaggiare, se riuscissi a capire come è definita l’una, sono sicuro che sarebbe possibile rendere entrambe accessibili a chiunque.

S. Aizen, 21 Aprile 1900
Van Hohenheim,
                 scusami se non mi sono più fatto sentire. Apparentemente essere un ricercatore, per quanto capace, non è sufficientemente a diventare Alchimista di Stato senza essere in grado di operare trasmutazioni. Inoltre sono finito nei guai con i miei superiori per essere in possesso di testi considerati illegali. Sarò mandato in assistenza al fronte ad Ishbal, non so se ci vedremo ancora.

S. Aizen, 3 Novembre 1901


Van Hohenheim,
                un’incredibile fortuna mi è venuta incontro: sono stato stanziato sulle retrovie del conflitto civile in quanto ricercatore, piuttosto che sul fronte. La guerra civile è più violenta di quanto non vogliano lasciar trapelare, ma l’esercito sta facendo un discreto lavoro di confinamento delle celle terroristiche più attive. Il nostro lavoro qui è confidenziale, ma posso dirti questo: uno dei nostri obiettivi è il potenziamento dei soldati di Amestris per poter concludere questo conflitto prima possibile. I miei colleghi, Stein e Grantz, sono Alchimisti di Stato di incredibile talento: sono sicuro che sotto la loro guida sarà in grado di ottenere risultati straordinari.

S. Aizen, 28 Settembre 1903


Van Hohenheim,
                il Comandante Supremo Bradley ha deciso di militarizzare gli alchimisti di Stato: ora coloro che si vantano di questo titolo non sono più solo ricercatori come me, ma soldati in grado di sprigionare una potenza distruttiva incredibile. Prevedo la fine di questa guerra in pochissimi giorni ora che loro sono al fronte. Non vedo l’ora di tornare a casa, anche se senz’ombra di dubbio questo conflitto mi ha consentito di ottenere dei soggetti su cui sperimentare le mie teorie senza che l’esercito o i civili venissero a ficcanasare: sono sicuro di aver fatto un incredibile passo avanti rispetto a quando lavoravo a Central. Ho parlato con qualcuno che sembra essere in grado di capire per quale motivo la mia ricerca mi sta così a cuore: non so se posso confidarmi con te riguardo a questa “persona”, ma è qualcuno dall’immensa conoscenza e potere.

S. Aizen, 6 Ottobre 1908


Van Hohenheim,
                le ultime lettere che ti ho inviato sono tornate indietro, cos’è successo? Continuo a scriverti nella speranza che si sia trattato di un disguido delle comunicazioni. La persona di cui ti avevo parlato si sta rivelando altrettanto difficile da contattare, ma ogni volta che ne sono in grado faccio passi da gigante: la creazione di un catalizzatore è ora per me solo un piccolo passo verso un obiettivo molto più grande. Ricordi di quando parlavamo della possibilità di usare l’alchimia per aprire Porte verso altri mondi? La possibilità è più che concreta adesso, ma ogni passo in avanti richiede un sacrificio e presto potrei non essere più in grado di creare un catalizzatore da solo.

S. Aizen, 19 Dicembre 1908


Van Hohenheim,
                chi siede sul Trono del Mondo? Chi ci lega con le sue stupide leggi se non un Falso Dio che ha abbandonato il suo ruolo e si beffa delle nostre esistenze? Ho raggiunto il picco delle mie ricerche, presto aprirò quel Gate e siederò su quel trono vuoto per distruggere le nostre catene.

S. Aizen, 7 Gennaio 1912


“Ti avevo detto di andartene dalla città,” fu la prima cosa che Ryuken disse quando, al tramonto del sole, si ritrovò di nuovo Oriel sulla porta. L’uomo si stava infilando un cappotto, preparandosi a lasciare il piccolo ospedale.
La ragazza scrollò le spalle.
“I miei compagni di viaggio hanno qualcosa da fare, e io voglio capire che cosa succede qui.”
Per un lungo intervallo di tempo, l’uomo la squadrò in silenzio. Infine, con un sospiro rassegnato, richiuse a chiave la porta e le fece un cenno.
“Sei davvero testarda. Seguimi, ti dirò quello che so.”
-
Ed e Al sedevano sul prato scosceso al di sotto della villa. Sotto di loro, scorgevano i tetti delle case dei minatori, avvolti nelle tenebre. Non se la sentivano di tornare da Urahara a chiedere ospitalità dopo aver fallito così miseramente e, anche se Edward non lo avrebbe mai ammesso, si sentiva in parte responsabile per essersi fatto beccare dagli impostori prima di scoprire qualcosa di importante. Al momento Edward, la cui ferita sulla guancia aveva smesso di sanguinare ma si era gonfiata e pulsava dolorosamente, rimaneva appoggiato all’armatura di Al, alleviando il dolore tramite il contatto col metallo freddo.
“Cosa facciamo adesso?” domandò Alphonse, pensieroso.
“In questo momento saranno tutti in guardia là dentro” mugugnò. “Se vogliamo riprovare ad entrare, direi di aspettare domani notte. Intanto, dobbiamo decidere cosa rispondere a Pigiama quando torniamo…”
“Pigiama…” Al ripeté con tono divertito l’appropriato soprannome che il fratello aveva usato per il signor Urahara. Sotto di loro, pochissime luci rimanevano accese nelle casupole, e anche quelle andavano spegnendosi velocemente. Se non fosse stato per la brillante luna piena, la valle mineraria sarebbe stata buia come il tunnel da cui erano appena usciti. “I minatori vanno a letto presto, a quanto pare… tutte le luci sono spente.”
“Non tutte.”
I fratelli Elric scattarono immediatamente in piedi, allarmati dalla voce sconosciuta che avevano appena sentito. Edward si guardò intorno, frenetico, ma non vide anima viva.
“Chi ha parlato?” esclamò Alphonse, ma nessuno rispose.
“Al” mormorò Edward, indicando al fratello un casolare sul fianco della montagna dall’altra parte della valle, le cui finestre erano ancora illuminate.
I due fratelli si scambiarono un’occhiata di intesa: seguire il consiglio di una voce fantasma non era certo allettante, ma il casolare li incuriosiva. Mentre i due scendevano il sentiero, dai cespugli alle loro spalle sbucò un piccolo cagnolino marrone che cominciò a seguirli.
-
Da una parte, Oriel avrebbe dovuto aspettarsi di non ottenere nulla per nulla. Dall’altra, non si aspettava che il dottor Ishida l’avrebbe impiegata come infermiera nel casolare che aveva adattato per ospitare i pazienti più gravi. La mezza dozzina di persone ricoverata era priva di sensi o, nel caso di un paio di loro, delirante. Tutti loro presentavano macchie nere sulla pelle e, in alcuni casi, perdita di dita o estremità. Diverse volte, mentre sistemava letti e bende, Oriel dovette uscire all’aperto e prendere dei respiri profondi per non vomitare.
“No” Ishida ripeté con tono sempre più scocciato all’ennesima benda legata male. “Troppo stretta, in questo modo blocchi la circolazione e ottieni l’effetto opposto a quello voluto!”
Oriel sbuffò ma slegò la benda sulla carne secca e scura e ricominciò il lavoro senza lamentarsi. Doveva lavorarsi il medico prima di chiedergli qualunque cosa sulla sua alchimia, o avrebbe davvero fatto tutto quel viaggio a vuoto. Mentre portava una caraffa d’acqua sul comodino di uno dei letti, le capitò di lanciare un’occhiata fuori dalla finestra e quasi si prese un infarto quando vide Ed e Al fuori dal vetro. Rovesciandosi l’acqua sulle scarpe, si riscosse appena in tempo per non far cadere l’intera brocca a terra.
“Cos…?!” esclamò Ryuken quando vide a sua volta i due ragazzi.
“Sono i miei compagni di viaggio” spiegò Oriel con un grosso sospiro, mentre posava la caraffa ed andava ad aprire la porta. “Com’è andata?” domandò sarcasticamente una volta fuori dal casolare, incrociando le braccia.
Edward sbuffò, ma non rispose.
“Che cosa ci fai qui?”
“Non bene, eh?” lo ignorò lei, riconoscendo che il ragazzo stava cercando di evitare di rispondere. Edward mugugnò qualcosa di incomprensibile prima che Ryuken apparisse sulla porta dietro alla ragazza.
“Falli accomodare di sopra, qui finisco da solo” disse dopo una veloce occhiata ai fratelli. L’armatura di Al non sembrava turbarlo in alcun modo. “Vi raggiungo dopo.”
“Veramente non credo…” cominciò Al, ma l’uomo stava già tornando dai propri pazienti. Oriel lanciò loro un’occhiata prima di farli entrare e salire sulle scale che portavano al piano superiore.
Il sottotetto del capanno era arredato come una modesta abitazione, con una piccola libreria, due divani ed un letto a due piazze. I ragazzi si sedettero sui divani, rimanendo in un silenzio imbarazzato per alcuni secondi.
“Sentite…” Oriel ruppe il silenzio, parlando a voce bassa. “Per favore, non dite che sono un’alchimista di stato o il motivo per cui vi ho trascinati qui, d’accordo?”
“Ma quel medico è per caso…?” cominciò Al, Oriel annuì.
“Ishida. Ma prima di fare qualsiasi richiesta, voglio guadagnarmi la sua fiducia” concluse, rilassandosi contro lo schienale. “Avete incontrato gli impostori?” domandò poi, in tono più alto.
“Due pazzi. Ci hanno sparato contro senza preavviso! E hanno un sacco di libri sulla trasmutazione umana ed esperimenti su chimere e…” Le parole uscirono come un fiume in piena. “Sarebbe abbastanza per sbatterli in galera a vita, ma prima voglio capire esattamente cosa stanno cercando di fare” borbottò infine con tono scocciato ma più tranquillo.
“Almeno è un passo avanti dal ‘voglio riempirli di botte’…” sospirò Al.
“Quand’è che avrei detto una cosa del genere?!” Edward esclamò, con tono offeso.
“L’hai pensato. Sicuramente.”
Un rumore di passi sulle scale annunciò l’arrivo di Ishida, che portava con sé una scatola di metallo. L’uomo rimase in piedi, osservando Edward per una manciata di secondi.
“Quel taglio si sta infettando, lascia che ci dia un occhio” esordì. Alphonse si alzò in piedi lasciando il posto al medico che esaminò il taglio. Edward si irrigidì sulla poltrona mentre l’uomo puliva e disinfettava la ferita: non era abituato ad essere trattato come un bambino, soprattutto da un estraneo. Ad interrompere il silenzio imbarazzato fu inaspettatamente proprio il dottor Ishida. “Voi siete i veri fratelli Elric?” chiese, lasciando i tre di stucco.
“Come ha fatto a…”
“Sapevo che i ragazzi alla villa non erano l’Alchimista d’Acciaio e suo fratello: sono abbastanza simili alle voci, ma certamente non hanno tratti Xerxiani” spiegò. “Oltre a questo... vi ho sentiti parlare di ‘impostori’ pochi secondi fa” concluse, mettendo un cerotto sulla guancia del ragazzo. “Ora, mi piacerebbe sapere perché un Alchimista di Stato si trova in questo posto dimenticato da tutti, ma è mio dovere in quanto medico preoccuparmi prima di tutto della vostra salute.” L’uomo fece una pausa, assicurandosi di avere l’attenzione di tutti i presenti. “Andatevene da Karakura: se credessi in cose simili, direi che questa città è maledetta. Quello che avete visto al piano di sotto è probabilmente l’effetto di un agente patogeno, ma non ho mai visto niente di simile in vita mia.  Sto facendo del mio meglio per aiutare i pazienti, ma al momento non ho potuto che assistere alla morte di un minatore dopo l’altro…”
“Non è possibile nemmeno curarli con l’alchimia?” fece Al.
Il medico gli scoccò un’occhiata perplessa.
“L’alchimia medica è incredibilmente complessa e poco praticata ad Amestris, non mi sentirei in grado di…”
“Aspetti, aspetti un minuto” lo interruppe Edward. “La famiglia Ishida non pratica forse l’alchimia medica?”
Oriel resistette l’impulso di coprirsi il volto con le mani: come aveva potuto credere che Edward Elric, tra tutte le persone, sarebbe stato in grado di tenere un profilo basso? L’uomo alzò un sopracciglio, cercando di mettere insieme i pezzi del discorso che avevano portato il ragazzo a porgli quella domanda.
“No, siamo medici da generazioni e alchimisti, ma chiunque ti abbia dato questa informazione era fuori strada. Dimmi, da chi hai sentito una cosa simile?”
“Un collega alchimista di stato,” disse Ed, rimanendo vago. Oriel tirò un sospiro di sollievo. “Che tipo di alchimia praticate, allora?”
“Questo è il motivo che ti ha portato qui?” il tono dell’uomo si era fatto più secco. Si alzò in piedi per riporre la cassetta di metallo. “La nostra arte è stata tramandata di generazione in generazione, a me da mio padre, da me a mio figlio. Non lascerò che cada nelle mani dell’esercito per soddisfare la curiosità di un ragazzino.”
Edward si accigliò. Resistette all’impulso di voltarsi verso Oriel.
“Non sia egocentrico, siamo giunti in questa città per caso” mentì. “Onestamente, al momento vorrei solo mettere in luce cosa stanno facendo in quella villa.”
“E restituire l’oggetto rubato al signor Urahara” aggiunse Alphonse, tornando a sedersi accanto al fratello.
“Ah, già, quello” annuì Edward. “Me n’ero quasi dimenticato.”
“Il tizio che pretende di essere te ha rubato qualcosa a quel Viaggiatore mezzo matto?” domandò il medico.
“No, secondo lui è stato Aizen. Il proprietario della villa, giusto?”
L’uomo sembrò genuinamente sorpreso da questa affermazione.
“Aizen avrebbe rubato qualcosa ad un Viaggiatore?” esclamò, prima di portarsi una mano al mento e mormorare qualcosa tra sé e sé. “Avrebbe senso se…”
“Aizen ha comprato la villa da lei, non è così? Lei forse può aiutarci a capire le sue intenzioni…” azzardò Oriel, che era rimasta in silenzio fino a quel momento.
Ishida annuì, dopodiché avvicinò una sedia ai divani, sedendosi di fronte ai ragazzi.
“Non avrei mai voluto trascinare dei ragazzi in questa storia, ma… forse potete davvero aiutare me e le persone di questa città.” Dopo un lungo sospiro, guardò i tre ragazzi negli occhi con uno sguardo di ghiaccio. “Promettetemi che le informazioni che vi darò non raggiungeranno i vostri superiori. Non avrò parte nel riconquistare la mia reputazione o riprendere il controllo su questa città, voglio solo aiutare i miei concittadini.”
“Promesso!” esclamarono immediatamente Al e Oriel.
“Mi sembra che stiamo facendo un sacco di promesse di recente…” borbottò Edward prima che una gomitata del fratello gli facesse promettere a sua volta.
“Fino a una dozzina di anni fa, la villa e le miniere che ci circondano sono sempre appartenute alla mia famiglia” raccontò. “La città dell’oro, chiamavano Karakura, ma quando le miniere si esaurirono, la città cadde in povertà. Poiché si rifiutò di trasmutare oro con l’alchimia, mio padre attirò l’odio dei minatori verso di noi e ci ritirammo in questa casa, lontano da occhi indiscreti. Abbandonò il suo compito di medico, perseguendo invece la strada di Alchimista tramite gli insegnamenti del nostro capostipite. Io non ero d’accordo, volevo continuare ad aiutare le persone, quindi andai a Central City per studiare medicina…e quando tornai, mio padre aveva venduto la villa e le miniere ad un giovane scienziato che si era stabilito a Karakura.”
“Aizen?” indovinò Oriel. “Perché comprare le miniere se non c’era più oro?”
Ryuken si alzò nuovamente in piedi, aprendo un cassetto del comodino mentre continuava a raccontare.
“Poche settimane dopo il trasferimento di proprietà, Aizen forzò la riapertura delle miniere, sfruttando la povertà degli operai per indurli a tornare a lavorarci. Improvvisamente cominciarono a estrarre dal sottosuolo un liquido nero. Pensavamo che fosse petrolio, oro nero, ma non era possibile, non avevamo mai trovato nulla di simile sotto Karakura.” L’uomo tornò a sedersi, tenendo in mano un portagioie. “Quello che stavano estraendo era una sostanza che, concentrata e trasmutata nel modo corretto, diventava quelle che oggi sul mercato sono conosciute come Düsternis.”
L’uomo aprì il portagioie, che conteneva una collana d’argento con un pendente nero. Edward si avvicinò per osservarlo meglio: la pietra non rifletteva la luce circostante, dando l’illusione di essere un buco nero.
“Posso?” fece Edward, e aspettò che l’uomo annuisse per prendere delicatamente in mano il gioiello. Come lo strinse tra le dita, sentì un brivido freddo lungo la schiena e, cautamente, ripose la gemma nel portagioie. La strana sensazione scomparve immediatamente. Se l’era immaginato?
“Ne ho sentito parlare” commentò Oriel, che, seduta di fronte a lui, non sembrava essersi accorta di nulla. “Sono molto in voga tra le nobildonne di Central City. Fammi vedere…” La ragazza si alzò per guardare all’interno del portagioie, ma, esattamente come era accaduto a Edward poco prima, si immobilizzò come paralizzata, e impallidì. “Trauer…” gemette, prima di scuotere la testa e sedersi con un’espressione che, se Edward non avesse conosciuto la ragazza, avrebbe definito terrorizzata. “Non dovrebbero esistere, non dovrebbero essere qui” continuò a voce bassa. Ryuken chiuse il portagioie, scoccando alla ragazza un’occhiata perplessa. “Le Düsternis, accuratamente trattate, sono addirittura più resistenti del diamante. C’è solo un modo per distruggerle.” Estraendo il pendente dal portagioie, lo posò sul tavolino di legno davanti a sé e, con un gessetto che aveva estratto dal taschino della giacca, vi disegnò attorno un semplice cerchio, senza diagrammi ne formule tipici dei cerchi alchemici che erano abituati a vedere. Prima che i ragazzi potessero studiarlo e capirne lo scopo, Ryuken lo attivò. Il gioiello perse la sua opacità e cominciò a brillare di lampi rossastri: in pochi secondi dal legno del tavolo crebbe una piantina dalle foglie verdi che appassirono immediatamente quando l’energia si esaurì. L’uomo si accigliò. “Chiedo scusa. Nonostante amplifichi l’energia alchemica, non sono davvero portato per l’alchimia organica.”
Alzò la testa e vide che i tre ragazzi avevano lo sguardo fisso sul tavolo e l’espressione basita.
“Ma certo! Ha senso!” esclamò Ed. “Non è la stessa cosa di Anderson, ma ci va molto vicino! L’impostore doveva avere una Düsternis con sé in quel momento!” Dopo un attimo di silenzio, il ragazzo realizzò. “Hai detto che questi gioielli vanno trasmutati… Non è che quei due stanno usando i nostri nomi per creare un catalizzatore?!”
“È possibile, e già di per sé questo sarebbe abbastanza problematico. Ma non è tutto: da quando hanno cominciato ad estrarre la materia prima delle Perle dal sottosuolo, tra i minatori si è cominciato a diffondere un morbo misterioso che in poco tempo ha mietuto decine di vittime, specialmente tra i bambini. Avete visto i pazienti di sotto, presentano tutti gli stessi sintomi, ma nonostante questo non sono riuscito a trovare un collegamento tra la sostanza e il morbo. L’unica cosa che so è che non si trasmette come una normale malattia, mentre infetta solamente chi si reca nel sottosuolo per un periodo di tempo prolungato. Non sono riuscito a trovare una cura, posso solamente aiutare ad alleviare il dolore dei casi più disperati: sono un fallimento come medico.” Fece una pausa, l’espressione calma velata da tristezza e rabbia.  “Ho mandato mio figlio e mio padre a Central City, lontano da questo inferno, ma pochi giorni fa mia moglie, che lavora come domestica per Aizen, cercando di scoprire qualcosa di più sul morbo, non è più tornata a casa.”
Edward incrociò le braccia e si lasciò cadere contro lo schienale del divano, la fronte aggrottata in un’espressione pensierosa.
“Sua moglie, l’oggetto rubato a Urahara, la possibilità di un prototipo di Pietra Filosofale…” borbottò. “Non basta fare irruzione, dobbiamo trovare il modo di infiltrarci nella villa in modo permanente. Dobbiamo smascherare quei due impostori e convincere Aizen che vogliamo lavorare con lui.”
Mentre Ed parlava con il fratello e Ryuken, Oriel si alzò in piedi e, a bassa voce, disse di aver bisogno di una boccata d’aria fresca. La ragazza uscì dal casolare senza prestare alcuno sguardo ai pazienti al piano terra e, una volta fuori, camminò per alcuni metri prima di appoggiarsi al tronco di un albero. Stava tremando. Aveva sentito parlare delle Düsternis, ma se avesse avuto l’occasione di vederle di persona, avrebbe certamente riconosciuto prima quell’oscurità che nessun materiale poteva realmente ottenere. Quella vista, innaturale eppure familiare, le aveva fatto gelare il sangue nelle vene. La cicatrice sul dorso della mano sinistra le sembrava tornare a pulsare dolorosamente e in quel momento, nonostante il desiderio di conoscere l’alchimia di Ishida e il suo senso morale che la obbligava ad aiutare gli sventurati minatori, voleva semplicemente andarsene alla svelta da quel posto. Le mancava suo fratello, avrebbe voluto andare da lui per avere un po’ di conforto.
Ma lui non avrebbe potuto aiutarla. Non gli aveva mai detto niente.
“Sai cosa devi fare.” Oriel si voltò di scatto, verso la sorgente della voce che aveva appena sentito, ma non vide nessuno nelle vicinanze. “Qui,” disse ancora la voce, Oriel abbassò lo sguardo. Sul prato, di fianco a lei, sedeva con aria tranquilla un piccolo cagnolino col pelo marrone e strani disegni rosso scuro sulla pelliccia. L’animale la fissava scodinzolando, gli occhi che brillavano con intelligenza. La ragazza si guardò un ultima volta attorno, prima che la voce parlasse ancora. “Hai già intuito che cosa sta succedendo in questa città,” il muso del cagnolino si muoveva in sintonia con la voce, quindi non c’era dubbio che fosse stato lui a parlare. “Mi dispiace che sia stata tu ad arrivare qui per prima, avrei mandato gli altri due se avessi potuto, ma questa situazione ha bisogno di essere risolta.”
Oriel stava per fare dietro front e scappare da quella che probabilmente era una grave allucinazione e, anche se non lo fosse stata, l’esperienza le diceva di stare molto lontano dai piccoli animali parlanti, quando realizzò di conoscere quella voce.
“Watanuki?” Il cagnolino scodinzolò. Oriel sbatté gli occhi diverse volte, lo sguardo perso nel vuoto. “Ti dispiace spiegarmi perché sei un cagnolino?”
“Era l’unico modo per venire qui di persona. Come puoi intuire, sono qui per un cliente…” continuò, grattandosi un orecchio. Se non fosse stato per la voce, sembrava comportarsi come un normale cucciolo.
Oriel aprì e chiuse la bocca diverse volte prima di chinarsi al suolo, avvicinando il volto al cagnolino.
“Le Düsternis… sono Grief Seed, uova di Strega, non è così?”
“No,” rispose immediatamente Watanuki. “Anche se hanno un’origine comune: paura, ansia, disperazione. Le peggiori emozioni umane condensate costituiscono quel liquido che viene usato per trasmutare le Düsternis.”
Oriel era tornata a strofinarsi nervosamente il dorso della mano.
“I minatori non stanno solo estraendo quella sostanza, la stanno creando.”
“Se vuoi, è un modo semplificato di vederlo” confermò il cagnolino. “Ma in questo Mondo non dovrebbe essere possibile una cosa del genere: chi ha cominciato a produrre Dark Matter è entrato in possesso di un potere o una conoscenza che nessuno dovrebbe possedere.”
“Chi è il tuo cliente?” fece Oriel.
“Non posso dirtelo.”
“Il desiderio?”
“Non posso dirtelo. Fermare l’uomo di nome Aizen costituirebbe però un notevole passo in avanti” concluse, restando poi a fissare la ragazza per un lungo periodo di tempo.
Oriel ricambiò lo sguardo, perplessa, e passarono diversi secondi prima che riuscisse a realizzare cosa implicavano le parole di Watanuki.
“No,” disse tra i denti. “Non se ne parla. Non farò di nuovo il lavoro sporco per voi.”
“Non te l’ho chiesto. Anche se l’hai già fatto una volta.”
“Quella è stata una mia scelta. Il mio unico rimpianto è di non essere rimasta al suo fianco...”
“Non avresti mai rivisto tuo fratello.” Oriel si fermò, mordendosi la lingua. “Yuuko teneva in conto anche il suo desiderio, ricordatelo,” continuò il cagnolino, finché Oriel non scattò in piedi bruscamente.
“Andrò ad investigare, solo piantala di farmi pressione” sbottò, allontanandosi dal casolare a grandi passi, verso la villa stessa. Mentre camminava nella notte, un piano cominciava già a farsi strada nella sua mente.
E questa volta avrebbe tenuto conto dell’impulsività di Edward.

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Capitolo 13
*** Il Giuoco delle Parti (Atto Primo) ***


Capitolo 12 - Il Giuoco Delle Parti (Atto Primo)

Embrace the dark you call a home
Gaze upon an empty white throne
A legacy of lies
A familiar disguise
Rena Strober - ‘Lost in Thoughts All Alone’

 
Oriel si aspettava che l’idea di Edward per smascherare gli impostori sarebbe stata, come al solito, appariscente e sopra le righe. Certamente non aveva nemmeno considerato la possibilità di uno stunt pubblicitario.
I due ragazzi erano tornati da Urahara dopo aver discusso con Ryuken e, dopo una ramanzina che aveva un che di canzonatorio, erano riusciti a convincere il Viaggiatore a prendere parte al loro piano. Alle prime luci dell’alba, quando i minatori uscirono dalle loro case per tornare al lavoro, Ed e Al erano sulla strada principale che portava alle miniere.
Inizialmente, i minatori ignorarono i ragazzi, se non per lanciare loro delle occhiate ostili, ma Edward scorreva lo sguardo sulla fila di gente, attento ai più piccoli dettagli finché finalmente non individuò l’occasione che stava aspettando. Un uomo dai capelli castani spingeva una carriola vuota la cui ruota ondeggiava pericolosamente, minacciando di staccarsi.
Senza dire parola, senza esitare, si fece largo tra la folla e, rapidamente, battendo le mani, trasmutò la carriola senza fermarla. Uno sbuffo di fumo causato dall’acqua evaporata nella trasmutazione della ruggine in ferro attirò l’attenzione di altri uomini, che rallentarono il passo o si fermarono per osservare cos’era successo. Dalla nebbiolina emerse una carriola nuova di zecca, color rosso fuoco e con complesse e pacchiane decorazioni a forma di ossa.
Il minatore che ancora teneva saldamente i manici fissò la propria carriola allibito, prima di allentare la presa e lasciarla cadere, mormorando a voce tanto bassa che Edward fece fatica a capire.
“Io non posso pagarla…” mugugnò, prima di allontanarsi come se volesse stare il più lontano possibile dalla carriola e dall’alchimista. Si diffuse un brusio tra la folla che si era fermata ad osservare.
“Pagarmi? Non mi sognerei mai di chiedere dei soldi!” esclamò Edward, con fare teatrale e alzando la voce affinché più persone possibile potessero sentirlo. “Una cosa del genere,” cominciò, “la sistemo in un momento!”
Alphonse, che era rimasto in disparte, trattenne l’impulso di nascondersi per l’imbarazzo e scoppiare a ridere simultaneamente. Peccato che Oriel si stava perdendo questa pagliacciata, probabilmente l’avrebbe adorata.
“Se è così,” cominciò un altro lavoratore, avvicinandosi al ragazzo, “puoi riparare il mio piccone? Si è rotta la punta e…”
Edward non lo lasciò finire e non solo riparò il piccone, ma ne affilò le punte e gli diede un’impugnatura più stabile. In pochissimi secondi i minatori lo assaltarono, chi chiedendo aiuto per trasmutare i loro strumenti, chi per andargli a riparare la casa.
A mezzogiorno, l’aspetto del paese era cambiato. Non solo molte meno abitazioni erano crollate o in rovina, ma gli abitanti avevano cominciato ad uscire e si potevano vedere molti più volti sorridenti o sollevati in giro.
Come d’accordo, appena il sole giunse allo zenit, Jinta e Ururu sfrecciarono verso la villa per fare arrivare la voce a Tessai, che avrebbe dovuto trasmetterla ad Aizen per farlo scendere a controllare di persona.
Quello di cui tutti erano ignari, però, era che l’alchimista alla villa si era già accorto che qualcosa non andava. L’uomo stava supervisionando la pompa che estraeva Dark Matter dal terreno, quando la macchina sputacchiò e cominciò a riversare una quantità molto minore di sostanza oleosa.
Aizen aggrottò la fronte, controllando la macchina nei più piccoli dettagli: non sembrava mal funzionare, ma qualcosa era definitivamente successo. L’uomo lasciò la fontana sotterranea e salì le scale, sbucando da dietro una libreria nell’abitazione sovrastante.
I fratelli Elric stavano lavorando nel laboratorio che l’uomo attraversò. La più recente partita di Düsternis trasmutate era stata riposta in una valigetta aperta. Piuttosto che esaminarle, Aizen ci lanciò solamente un’occhiata distratta. Dopotutto, vendere quei refusi era solo un escamotage per raccogliere fondi, nulla di più. Il loro progetto era molto più importante.
“Come sta venendo?” chiese al ragazzo più grande, accennando con la testa ad una pietra nera di forma più irregolare delle Perle ma di dimensioni maggiori.
Il ragazzino più piccolo gli lanciò un’occhiata di sbieco, mentre continuava a giocherellare con il proprio automail. Non aveva doti alchemiche pari a quelle del fratello, ma questi aveva insistito per lavorarci insieme e Aizen non aveva potuto che concederglielo.
“È molto stabile,” rispose il ragazzo. “dopo cinque trasmutazioni del primo livello Comune non mostra segni di perdita di energia.”
Aizen prese la pietra dal piedistallo per osservarla.
“Ah, però” cominciò il ragazzo, muovendosi verso di lui come a volersela riprendere indietro. “Non abbiamo ancora tentato nulla nel campo Organico.”
“Molto bene, proveremo subito. Dopotutto abbiamo un soggetto a nostra disposizione,” Aizen sorrise, era un sorriso tranquillo e rilassato, ma i fratelli avevano imparato presto a non fidarsi dell’espressione dell’uomo.
Qualcuno bussò piano alla porta del laboratorio. Il suono era appena udibile, e sarebbe stato ignorato se fosse avvenuto in un momento meno silenzioso.
“Sì?” fece Aizen, senza distogliere lo sguardo dai ragazzi.
La porta in legno si socchiuse, lasciando entrare una donna vestita da cameriera.
“Signor Aizen, Tessai la sta cercando” mormorò a voce bassa, balbettando. I capelli neri erano legati in due trecce che le ricadevano ai lati del viso e, insieme ad un paio di spessi occhiali tondi le oscuravano il volto.
L’uomo sospirò, prima di voltarsi verso la porta.
“Edward, raggiungimi nell’altro laboratorio. Comincia senza di me se necessario” ordinò, senza curarsi di un eventuale risposta. Si fermò improvvisamente sulla porta, osservando la cameriera, che aveva lo sguardo basso e le mani nervosamente strette sul vestito. “Non ti ho mai visto. Sei nuova?” domandò Aizen.
Il volto della ragazza si accese d’imbarazzo e lei sembrò voler sprofondare nel pavimento.
“Tre giorni” riuscì a dire, balbettando. “Ho cominciato a lavorare qui tre giorni fa.”
L’uomo annuì brevemente, prima di ordinarle di tornare a qualunque lavoro stava svolgendo prima di venire a chiamarlo. La domestica ubbidì, ma si fermò dopo pochi passi a osservare Aizen allontanarsi lungo il corridoio. Solo quando ebbe svoltato un angolo, Oriel tirò un sospiro di sollievo: sperava che il proprietario della villa non interagisse a sufficienza con la servitù per notare un volto nuovo, ma apparentemente si era bevuto la storia della nuova domestica.
Ora, era meglio proseguire prima che le cose cominciassero a muoversi. La ragazza tornò sui suoi passi, verso la porta del laboratorio, da cui il falso Edward uscì e si incamminò nella direzione opposta a quella dalla quale Oriel stava arrivando. Oriel aspettò che il ragazzo si allontanasse prima di rientrare nella stanza e chiudersi la porta alle spalle: come aveva previsto, il ragazzino più piccolo era ancora all’interno del laboratorio.
Da dietro le lenti degli occhiali, gli occhi della ragazza si spalancarono: per un qualche motivo, il volto del falso Alphonse le era incredibilmente familiare.
“Cosa c’è? Ed è andato da Kanae…” fece il ragazzino, con aria perplessa.
Kanae. La moglie di Ryuken. Era ancora viva, buono a sapersi.
Oriel alzò un sopracciglio e dovette trattenersi dal correre dietro al fratello maggiore, ma per il momento era meglio attenersi al proprio piano, altrimenti rischiava di mandare tutto a rotoli. Sotto la manica dell’uniforme, portava ancora il bracciale di metallo e lo utilizzò per trasmutare la serratura della porta in un blocco unico.
La reazione del falso Alphonse fu immediata e quando Oriel alzò ancora una volta lo sguarda verso di lui, la mano meccanica dell’automail aveva lasciato il posto ad un’arma da fuoco. Oriel si lanciò di lato appena in tempo perché il proiettile colpisse il legno della porta invece che la sua testa: Ed e Al avevano ragione a dire che gli impostori avevano il grilletto facile.
Ma lei non era da meno.
La capriola le permise di raggiungere più facilmente la pistola che teneva nascosta sotto la gonna e in un attimo i due raggiunsero una posizione di stallo, entrambe le armi puntate su un punto vitale dell’avversario.
“Chi sei?” fece il ragazzino, immobile. I suoi occhi saettavano per la stanza in cerca di un qualunque modo per rimettersi in vantaggio.
Oriel, tenendo fermamente la pistola d’ordinanza nella mano destra, mosse l’altra, a cui portava il bracciale, verso il tavolo alla sua sinistra: i cerchi erano ancora posizionati per trasmutare metalli, e per fortuna i tavoli di lavoro sembravano fatti di ferro.
“Alchimista di Stato” si presentò lei semplicemente, prima di trasmutare il tavolo in un groviglio di acciaio che si avvinghiò al ragazzino, immobilizzandolo. “E tu farai meglio a venire con me.”
-
Edward sedeva a lato della piazza, crogiolandosi dei complimenti e delle occhiate sbalordite e adoranti dei paesani.
“Tutta la vallata sta parlando di me!” rise, con boria.
“Beh, come previsto…” commentò Al, guardandosi intorno con aria pensierosa.
“Adesso dobbiamo solo aspettare che le voci arrivino alle orecchie giuste...” commentò Ed, ridacchiando. Al fece un breve suono di assenso. “Ehi, tutto bene?” chiese il fratello maggiore a voce più bassa, sporgendosi verso di lui.
“Sì, sì” rispose immediatamente Al. “Stavo solo pensando che quello che stai facendo qui non è poi tanto diverso dai ‘miracoli’ che Anderson compiva per la gente di Istvàn.”
Edward fissò Al con espressione sbalordita: quelle erano le ultime parole che si aspettava di sentir dire dal fratello.
“È totalmente diverso!” esclamò, irritato. “In primo luogo non li sto ingannando, sto solo cercando di farmi conoscere perché Aizen capisca chi siano i veri impostori.”
“Non era un insulto!” lo interruppe Al, forse con troppa foga, in quanto diversi passanti lanciarono loro un’occhiataccia. “Stavo solo riflettendo sul fatto che quel prete era accecato dalla propria fede, ma non puoi negare che ha cambiato in meglio la vita per gli Istvàniani. Forse non meritava di essere svergognato in pubblico a quel modo.”
“Se avesse continuato a compiere ‘miracoli’, la gente avrebbe presto dipeso da lui per qualunque piccola cosa invece di andare avanti con le proprie forze. Quando la falsa Pietra Filosofale avesse smesso di funzionare, la città sarebbe caduta in disgrazia. Come Karakura quando le miniere si sono esaurite.” Edward incrociò le braccia, distogliendo lo sguardo. “Sono convinto di aver fatto la scelta giusta.”
Alphonse stava per ribattere nuovamente, quando i due ragazzi notarono del movimento poco lontano. Attorno ad Urahara, che aveva esposto su un tappeto a lato della piazza alcune delle sue cianfrusaglie, si era formata una piccola folla: con un brusio e rapidi movimenti questa si disperse quando fece il suo ingresso nella piazza, accompagnato da due alti uomini muscolosi, un uomo in camice bianco.
L’uomo camminò guardandosi intorno e non si fermò finché gli occhi non caddero sui fratelli Elric. Dopo una breve pausa, si avvicinò lentamente, facendo segno alle guardie di restare sul posto.
“Mi dicono che sei un alchimista,” cominciò l’uomo. Aveva un tono e un’espressione affabile che spiazzarono Edward per qualche secondo: non era assolutamente il tipo di persona che si erano immaginati controllare le miniere.
Edward scosse la testa prima di alzarsi in piedi.
“Sono l’Alchimista d’Acciaio, Edward Elric! Avrà sicuramente sentito parlare di me!” esclamò presentando immediatamente l’orologio d’argento. “Questo è mio fratello minore Alphonse.”
Il cambiamento nell’espressione nell’uomo fu fulmineo: gli occhi castani, dietro le lenti degli occhiali saettarono dall’orologio al viso di Edward ripetutamente per alcuni secondi prima che parlasse di nuovo.
“L’Alchimista d’Acciaio,” ripeté.
“Posso lasciarle un autografo?” Edward ghignò, mentre Alphonse trattenne l’istinto di dargli un pugno in testa.
“Edward…ora che finalmente ti vedo con i miei occhi è ovvio, e tuttavia…” Si interruppe. “Scusatemi un momento,” mormorò prima di voltarsi e fare un cenno alle guardie di avvicinarsi. I due uomini si avvicinarono e ascoltarono le istruzioni che Aizen diede loro, prima di annuire ed allontanarsi di corsa nella direzione da cui erano venuti. “Chiedo perdono,” si scusò Aizen ridacchiando, quando fu tornato dai ragazzi. “Il vostro arrivo mi lascia estremamente sorpreso, anche perché alcuni mesi fa due impostori si sono presentati alla mia porta dichiarando di essere voi… Credendo alla loro storia li ho ospitati nella mia casa in cambio del loro aiuto con le mie ricerche. Quanto sono stato cieco…” La sua voce era piena di rammarico.
“Impostori!” esclamò Edward, fingendosi sorpreso. “Però sembra aver capito subito che noi stiamo dicendo la verità?”
“L’orologio d’argento è una prova convincente,” rise Aizen. “E in effetti ho un altro motivo per riconoscervi.” Il sorriso dell’uomo era malinconico quando prese una sedia per sedersi di fronte a Ed. “Ho sentito molto parlare di voi, ben prima che Edward prendesse il titolo di Alchimista di Stato,” raccontò. “Edward, somigli veramente molto a tuo padre.”
I due ragazzi scattarono in piedi, colti di sorpresa.
“Conosce papà?!” esclamò Alphonse. “Sa dove si trova?”
“Io e Van Hohenheim ci conosciamo da molto tempo, ma diversi anni fa ho perso del tutto i contatti con lui. Se venite con me, posso mostrarvi le sue lettere.”
Questo cambiava tutto. Le ricerche dell’uomo, lo stato di Karakura e la famiglia Ishida erano tutti eventi che avevano un qualche collegamento tra loro, ma se anche il padre dei ragazzi era invischiato in quella vicenda losca era tutto un altro paio di maniche.
“No” rispose Edward, improvvisamente freddo. “Non voglio avere nulla a che fare con il lavoro di quel bastardo.”
“Fratellone!” esclamò Alphonse. Edward era disposto a bruciare completamente il loro piano pur di non venire coinvolto in una ricerca a cui il padre aveva preso parte?
“Credo che ci sia una piccola incomprensione,” sorrise Aizen, apparentemente per nulla turbato dalla risposta del ragazzo. “Hohenheim ed io siamo stati amici e corrispondenti, ma la ricerca che svolgo qui non lo ha mai visto coinvolto, con mio grande disappunto…”
Edward rimase sovrappensiero per alcuni secondi prima di tirare un lungo sospiro e rispondere. “D’accordo,” disse infine. “Questa fantomatica ricerca mi incuriosisce. Che cosa sta ricercando, esattamente?”
C’era qualcosa di diverso nel sorriso del ricercatore quando rispose alla domanda.
“Avete mai sentito parlare della Pietra Filosofale?”
-
“Puoi almeno aiutarmi a tenere il braccio? Pesa!”
“No”
Oriel faceva camminare avanti a sé il falso Alphonse lungo i corridoi della villa. Le finestre oscurate da pesanti tendaggi davano agli androni un’aria tetra e inquietante, come se ad ogni angolo dovesse sbucare qualcosa. Ciononostante, non avevano incontrato nessuno. Per essere tanto grande, la villa certamente era vuota.
“Ti da fastidio camminare di fianco a me?”
“In caso di emergenza posso usarti come scudo umano,” replicò la ragazza in tono piatto, ma senza pensarlo sul serio. L’automail del ragazzino era stato neutralizzato inglobandolo in uno stretto guanto di metallo che aderiva perfettamente alla protesi senza però danneggiarne la struttura. Nonostante fosse un’alchimista specializzata nella trasmutazione di armi da fuoco, Oriel non si azzardava a trasmutare un ordigno contenente polvere da sparo e fili elettrici senza conoscerne la struttura nei minimi dettagli.
“Manca molto?” insistette la ragazza, dopo aver svoltato l’ennesimo angolo.
“L’infermeria è dall’altra parte della casa, siamo quasi arrivati.”
Perché tenere la donna così lontano dai laboratori? C’era qualcosa di inquietante in tutta quella storia.
“Tu non sei un alchimista,” commentò Oriel.
“Cosa ne sai?”
“In una stanza piena di catalizzatori, la tua prima autodifesa è stata l’arma nel tuo automail. Non sai usare l’alchimia, oppure non ti senti in grado di usarla in battaglia” constatò, orgogliosa di aver fatto quella deduzione. “Non sei un alchimista.”
Il ragazzino la guardò di sbieco e le mostrò la lingua.
“Lo sono!” ribatté. “È solo che la mia alchimia non è adatta per combattere!  Ma non sono come il dottor Aizen…”
Oriel alzò un sopracciglio, ma non commentò. Questo era interessante: Aizen non era in grado di usare l’alchimia? Come aveva sviluppato le ricerche sulle Düsternis allora? Che fossero state rubate o sottratte agli Ishida, o erano farina del sacco dei due impostori? In tal caso, forse valeva la pena tenere un occhio sui due? O forse, come la presenza di Watanuki suggeriva, c’era qualcosa di più oscuro in quella città?
“Questa è la porta dell’infermeria,” la voce del ragazzino la riscosse dai suoi pensieri. Oriel alzò lo sguardo verso una porta di legno con decisamente troppi lucchetti per essere la porta di un’infermeria. Che cosa Aizen voleva tenere nascosto a tutti costi? O imprigionato a tutti i costi.
Il ragazzino ancora non si era mosso.
“Allora?” lo incitò Oriel.
“Non ho le chiavi, non sono mai stato nell’infermeria!” replicò l’altro, dondolandosi sulle gambe.
Oriel sospirò e stava per fare un passo avanti e trasmutare i lucchetti per entrare quando in lontananza si sentì un rumore di passi che si avvicinavano di corsa.
“Dietro la tenda, svelto!” Oriel prese il ragazzino per il bavero e gli mise saldamente una mano davanti alla bocca per tappargliela mentre si nascondeva insieme a lui dietro una pesante tenda di fronte alla porta chiusa a chiave. L’improvviso passaggio dal corridoio buio alla luce del sole accecò i ragazzi per il momento: dall’esterno erano ora pienamente visibili, ma fortunatamente la finestra dava sul lato della villa e solo avvicinandosi molto si sarebbe potuto scorgerli tra la fitta vegetazione che circondava la villa. Ora, Oriel sperava solo che le loro sagome non si vedessero attraverso la stoffa.
Davanti alla porta si fermarono due persone, a giudicare dai passi. Una delle due aprì velocemente una ad una le serrature ed entrambi si fiondarono dentro la stanza. I ragazzi udirono delle grida di protesta e dei suoni di colluttazione.
“Non potete fare questo! Aizen!” chiamò una voce sconosciuta ad Oriel. Il falso Alphonse spalancò gli occhi e cercò di divincolarsi, ma Oriel lo strinse ancora di più a se, impedendogli di sfuggirle. Solo quando fu completamente sicura che quelle persone se ne fossero andate, lo lasciò andare.
Il ragazzino si fiondò nuovamente nel corridoio, guardandosi intorno con aria smarrita. Quando gli occhi di Oriel si furono abituati alla penombra, vide immediatamente che la porta dell’infermeria era rimasta spalancata. Al di là di essa c’era solo la più completa oscurità. Prima che potesse muovere anche un solo passo verso la porta, però, il ragazzino le fu addosso e la sbatté contro il muro col braccio libero, cogliendola di sorpresa.
“Toglimi questo affare,” ringhiò, improvvisamente furioso.
“No” rispose immediatamente la ragazza. Nel corridoio non aveva metallo a portata di mano e voleva evitare un altro scontro.
“Ti prego,” il tono del ragazzino divenne disperato. “Hanno preso mia sorella! Devo andare ad aiutarla!”
“Tua sorella…?” Oriel ripeté, confusa.
Le seguenti parole del ragazzino sgorgarono come un fiume in piena.
“Mia sorella, Lee, Liz! Siamo venute a svaligiare la villa qualche mese fa, ma siamo state scoperte. Abbiamo finto di essere militari per non essere consegnate all’esercito e le uniche persone per cui potevamo farci passare erano l’Alchimista d’Acciaio e suo fratello! Il dottor Aizen non ci ha nemmeno fatto domande, ci ha accolto nella sua casa e condiviso le sue scoperte con noi! Volevamo andarcene ma qui avevamo un letto e cibo caldo come non ne abbiamo avuti per anni, cosa dovevamo fare?!” Ad un certo punto del discorso, la ragazzina aveva cominciato a piangere. “Hanno portato via Liz, vuol dire che ci hanno scoperte! Devo aiutarla, ti prego,” singhiozzò. “Lei è tutta la famiglia che ho.”
Quest’ultima frase sembrò entrare in risonanza con Oriel, che trattenne involontariamente il respiro. Dopo alcuni secondi, sospirò e con l’alchimia distrusse il guanto di metallo, che cadde a terra sotto forma di polvere.
“Va bene, ti aiuterò,” si arrese. “Lasciami dare un’occhiata all’infermeria, poi seguiamo chiunque abbia portato via tua sorella.”
La ragazzina si asciugò le lacrime con la manica della camicia e annuì vigorosamente. Sembrava poco più che una bambina, in quel momento: distante anni luce dalla persona che solo pochi minuti prima era impegnata in uno scontro a fuoco contro di lei.
Oriel fece un passo nella stanza, tastando la parete accanto a lei finché le sue dita incontrarono un piccolo interruttore sul muro: una debole luce sul soffitto si accese quando Oriel abbassò la levetta. L’infermeria era piuttosto piccola, ospitava sei letti bianchi, tre per ogni lato, e un armadietto vuoto. Una seconda porta di legno sottile si apriva in fondo alla stanza: al di là di essa, si sentiva nel silenzio della stanza, un debole e roco respiro.
“Miss Kanae?” tentò Oriel, muovendo alcuni passi verso la seconda stanza. Un movimento veloce alle sue spalle la fece voltare, ma non abbastanza in fretta. Qualcosa di pesante la colpì violentemente in testa, facendole perdere i sensi.
 

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Capitolo 14
*** Il Giuoco delle Parti (Atto Secondo) ***


Capitolo 13 - Il Giuoco Delle Parti (Atto Secondo)

It’s a cruel, cruel trick
How we find ourselves
When we lose everything else
Like a train wreck
Sleeping at Last- ‘Woodwork’

 
Non aveva mai sopportato il proprio nome. Un nome da principessa, un nome da bambina educata e di buona famiglia.
Sua madre le aveva dato quel nome, la stessa madre che aveva lasciato lei e sua sorella da sole in una stazione ferroviaria, senza l’intenzione di tornare da loro. Si era sempre occupata lei di sua sorella e continuò a farlo nell’unico modo che conosceva.
Per anni avevano vagabondato di città in città, cercando di tirare avanti derubando passanti ignari in vicoli e anfratti: avevano scampato la prigione per un soffio più di una volta.
Avrebbero continuato, se non per l’incidente ferroviario che lasciò sua sorella gravemente ferita e con le ossa del braccio destro polverizzate al punto che nessun medico avrebbe potuto far nulla. Un boss della malavita nel sud di Amestris si offrì di pagare per impiantarle un automail armato, a patto che le ragazze lavorassero per lui.
In una clinica che aveva poco di legale, si fece amputare il braccio sinistro e impiantare un automail simile a quello della sorella. Il boss che aveva coordinato l’operazione morì con una pallottola in testa pochi giorni dopo.
Nel paese si cominciò a parlare di una coppia di criminali che vagava senza meta: le sorelle Thompson. Non avevano veramente un cognome, era solo il nome del boss che avevano ucciso e che aveva donato loro le braccia di metallo, ma a loro andava bene.
‘Liz Thompson’ suonava molto meglio di ‘Elizabeth’.
Liz si svegliò all’improvviso, solo per essere accolta da un dolore lancinante a lato della testa e dalla più completa oscurità. I suoi occhi si abituarono lentamente al buio, e le permisero di scorgere una luce fioca proveniente da una finestrella sbarrata sopra di lei. Le mura di pietra erano impregnate di umidità e il pavimento aveva un odore di muschio e feci.
Si alzò a sedere di scatto, ignorando il dolore, e si alzò in punta di piedi per guardare tra le sbarre al di fuori della piccola apertura. Il sole era appena tramontato, doveva essere rimasta priva di sensi a lungo. Quando si ritrasse dalla finestrella, lo sguardo le cadde verso il basso e si accorse immediatamente che le era stata aperta la camicia e rimosso il binder che le aveva permesso di spacciarsi per un ragazzo: istintivamente cercò di coprirsi, anche se non c’era nessuno intorno.
“Patty?!” chiamò, sperando che la sorella fosse perlomeno nella cella accanto. Non ci fu risposta.
C’erano due possibilità: la migliore era che fosse riuscita a scappare, ma conoscendo Patty avrebbe fatto qualcosa di stupido nel cercare di venirla a salvare. Non voleva nemmeno pensare alla seconda possibilità: se fosse finita come Kanae non se lo sarebbe mai perdonato.
E avrebbe dedicato la sua vita a far soffrire quel malato di Aizen come il mostro che era.
-
Alphonse strinse tra le mani il pacco di lettere che l’uomo gli aveva allungato. A differenza di Edward, lui non ricordava nemmeno il volto del loro padre. Per lui, Hohenheim era un’ombra sull’uscio di casa, il profumo di acqua di colonia nel suo studio, una coppia di armature nel seminterrato. Perso tra i suoi pensieri, non riusciva nemmeno a prestare completamente attenzione a quello di cui suo fratello e Aizen stavano parlando. I due erano seduti comodamente su un paio di poltrone.
“Quindi le Düsternis non hanno nulla a che fare con il malessere in città?”
“I fumi della materia prima possono causare leggeri problemi respiratori se inalati in quantità eccessive e molto a lungo, ma non deteriorano l’organismo nel modo che dite di aver visto presso l’ospedale,” spiegò in modo conciliatorio. “Se non mi credete, ho i referti medici del dottor Grantz di Central City, che viene periodicamente per accertarsi della sicurezza nelle miniere.” Edward sospirò: quel discorso andava avanti da ore e non era ancora riuscito a ricavare un ragno dal buco. “Detto ciò, la posizione è rimasta aperta” propose improvvisamente Aizen.
“Posizione?” fece Al, che era rimasto in silenzio fino ad allora.
“Ho la necessità di un alchimista per produrre le Düsternis e continuare la ricerca sul Catalizzatore. Gli impostori verranno consegnati alle autorità, e io non riesco ad usare l’alchimia. Mi sento un po’ imbarazzato a chiederlo ma,” una breve pausa, “non riprendereste la loro ricerca?”
Edward si sforzò di sorridere, cercando di non alzare gli occhi al cielo: finalmente.
“Va bene,” annuì, “ma prima di tutto: dove sono i due truffatori?” chiese con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
“Perché vuoi saperlo?” domandò Aizen, sorpreso dall’improvviso cambio di espressione di Edward.
“Le sembro il tipo che perdona le menzogne? Creare il Catalizzatore sarà per noi un gioco da ragazzi, ma prima… ci vuole una bella punizione per quei due impostori. Già mi prudono le mani!” aggiunse facendo scricchiolare le nocche. “Lei vuole assistere?” chiese, tornando improvvisamente serio.
“No, grazie, ne faccio volentieri a meno” rispose l’uomo, anche se il sorriso perverso che gli era spuntato sul viso sembrava intendere ben altro.
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Oriel si svegliò con un dolore pulsante alla nuca e la pelle imperlata di sudore freddo. Era stesa sul pavimento della stanza buia che aveva visto prima, ma in quel momento era rischiarata dalla luce di una lampada a gas. La porta che portava all’infermeria era chiusa a chiave.
Oriel si alzò a sedere, appoggiandosi alla parete per non cadere di nuovo. Sul pavimento, intorno a lei turbinavano volute di fumo: la ragazza tossì istintivamente, anche se riusciva a respirare bene, aver respirato quel fumo mentre era svenuta non poteva certo averle fatto bene.
La ragazza si guardò attorno: nella stanza c’era un solo largo letto a baldacchino, un tavolo con diversi alambicchi e pagine scarabocchiate e una scala a chiocciola di metallo che scendeva ancora più in profondità.
“Vai…via…” la voce roca prese Oriel di sorpresa, al punto che la ragazza scattò in piedi di soprassalto, per poi pentirsene amaramente quando un giramento di testa la fece barcollare al punto che dovette appoggiarsi alle tende del letto per non cadere
“Chi c’è?” chiamò Oriel. Accanto a lei, sul muro, c’erano due ganci vuoti. A terra, sotto uno di essi, una maschera a gas. La ragazza la raccolse e se la mise, perlomeno per evitare di continuare a respirare quella roba.
Le tende del letto a baldacchino si mossero e finalmente Oriel si allontanò dal muro per avvicinarsi al letto.
Con difficoltà riconobbe che quella tra i tendaggi era una persona: la pelle era quasi completamente ricoperta di incrostazioni cristalline simili ad ematite grezza che sembravano crescere da sottopelle, ma il volto era riconoscibile: era la cameriera che aveva aperto loro la porta il giorno prima.
“Kanae?” mormorò tentativamente. Lo sguardo della donna si posò su di lei. “Sono venuta da parte di tuo marito, ti porterò fuori di qui,” spiegò, sapendo benissimo di non suonare molto convinta: la donna sembrava moribonda e non sapeva nemmeno da dove cominciare per spostarla da quel letto.
“No…” fece lei, debolmente. “Ti prego…finisci tutto questo. Lasciami…dormire…”
 Oriel sussultò: il senso di quelle parole era chiaro, ma ancora si rifiutò di accettarlo.
“No! Ryuken sta cercando una cura, se ti porto da lui…” la ragazza si interruppe quando la donna, a fatica, le prese un lembo del camice da cameriera.
“Ryuken…Uryu…dì loro che li amo tanto.” Aggiunse con un debole sorriso. “Non devono sapere…che ho voluto…” le ultime parole della frase si persero in un gemito di dolore. “Ti prego…ho solo questa richiesta…”
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“Posso farti un’altra richiesta?”
Lacrime e gocce di pioggia sulle lenti degli occhiali, Oriel alzò la pistola e sparò. Il suono dell’arma da fuoco perso tra le sue urla di dolore.
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“Non posso,” replicò la ragazza, ma aveva già preso in mano la pistola. “Non di nuovo,” aggiunse, mentre una singola lacrima le cominciava a scendere lungo il viso.
La donna non rispose, ma continuò a fissarla con quello sguardo pieno di disperazione e rassegnazione, la mano ancora aggrappata al lembo di tessuto. Oriel aveva visto i pazienti di Ryuken e sapeva che se per loro non c’era più nulla da fare allora la donna davanti a lei…
Ucciderla le avrebbe solo risparmiato ulteriori sofferenze.
Oriel caricò il colpo e puntò la canna verso la testa della donna: un colpo al cervello avrebbe dovuto uccidere immediatamente, era la scelta migliore.
“Questa volta non puoi tornare indietro, però ♥”
La nuova, inaspettata, voce fece sobbalzare Oriel e il proiettile si conficcò nella parete. La ragazza si voltò, esaminando la stanza, ma non c’era nessuno dietro di lei. Solo dopo alcuni secondi si accorse che sopra il letto fluttuava uno strano essere: un pipistrello, o qualcosa che ci somigliava, dal corpo sferico quasi completamente occupato da un singolo occhio.
“Chi sei?” lo interpellò lei, con la voce che ancora le tremava per la paura e lo sgomento.
“Oh ♥” fece questo, svolazzando davanti al viso di lei. “Io sono solo uno spettatore, il mio nome non è importante, ne ho avuti tanti negli anni.” C’era qualcosa di orrendamente familiare nel tono di voce neutro e leggermente divertito che veniva dallo strano essere. No, non dall’essere, quello doveva essere il golem sottratto ad Urahara, ma se era così con chi era in contatto?
“La domanda giusta è ‘chi sei tu?’” continuò, ignorando il fatto che la pistola di Oriel era ora puntata verso il golem. “Sorella Yumiko, fino a poco tempo fa. Adesso ti fai chiamare Oriel Eckhart, ma per la memoria dei miei animaletti tra le pieghe del tempo il tuo nome…”
“Taci.” Lo interruppe lei, sparando una serie di colpi che però non andarono mai a segno: il golem piccolo e agile, sfuggì a tutti i proiettili finché la pistola non fu scarica e la ragazza non si trovò a premere il grilletto a vuoto diverse volte prima di arrendersi.
“Homura Akemi” la voce che venne dal golem era diversa da quella che aveva parlato fino a quel momento, era acuta e infantile, ma seria come quella di un adulto. “È certamente una sorpresa sapere che esisti ancora…”
La ragazza sentì il sangue gelarle nelle vene. Boccheggiò, incapace di rispondere o persino respirare correttamente. Ringraziò in silenzio la maschera che le permetteva di nascondere la propria espressione agghiacciata in quel momento.
“Incubator…” riuscì finalmente a mormorare.
“No, no, non mi confondere con quelle sciocche marionette” la prima voce riprese a parlare, o forse era stata sempre la stessa persona? “Quel progetto è stato un fallimento, e oltretutto mi sono state sottratte da quel demone…Io sono semplicemente il burattinaio, il regista, lo sceneggiatore, lo scrittore, il creatore e il distruttore. Mi hanno chiamato Lord, mi hanno chiamato Mago, mi hanno chiamato Conte, ma tu puoi semplicemente chiamarmi Adam♥”.
Finalmente la voce aveva un nome, un nome che suonava come un campanello d’allarme nella mente della ragazza, come se avesse saputo qualcosa di molto importante legato a quel nome che in quel momento non riusciva a ricordare. Ma qualcos’altro in quell’introduzione aveva attirato la sua attenzione.
“…Un demone?” ripeté piano.
“Non lo sai? Non lo sai! ♥” Suonava sorpreso e divertito. “Forse, dopotutto, tu non sei tu ma solo un’ombra alla fine… Wo ist dein Kern?” Il golem volò accanto alla mano sinistra della ragazza, dove la cicatrice a forma di diamante risaltava bianca sulla pelle. Oriel si mosse di scatto, sbattendo il golem contro il muro col dorso della mano.
“Adesso basta!” asserì Oriel, con ritrovata fermezza. Non c’era abbastanza metallo nella stanza per trasmutare una nuova arma, ma con il bracciale riuscì a trasmutare la parete in modo che formasse una gabbia semisferica che intrappolò il golem, che volava ancora rasente al muro.
“È stata quella strega a farti questo? La strega nel negozio…” la voce continuò, seppur smorzata dalla roccia dietro la quale il golem era rinchiuso.
“Non so di cosa stai parlando” replicò lei, eppure con strega nel negozio c’era una sola persona a cui poteva riferirsi, e fu proprio quel pensiero a farle ricordare dove aveva già sentito il nome Adam. “Ho capito chi sei,” aggiunse con voce dura. “Il Nemico dell’Umanità, Adam, il Conte del Millennio. Yuuko mi ha messo in guardia da te e dalle tue menzogne…”
“Uh uh uh♥” ridacchiò Il Conte, per nulla turbato di essere stato riconosciuto. “Menzogne? Forse è vero, ma di chi?”
In quel preciso momento la porta che dava sull’infermeria si spalancò.
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La porta della piccola cella si aprì e Liz scattò immediatamente in piedi: al di là di essa i fratelli Elric bloccavano l’uscita, specialmente Alphonse con la sua gigantesca armatura, occupava l’intero corridoio. Anche volendo, non sarebbe riuscita a scappare in quelle condizioni.
“Uh, sei una ragazza.” Fu la prima cosa che Edward le disse, e Liz non poté che rivolgergli un sorrisetto provocante: aveva legato i lembi della propria camicia, tenendo la pancia scoperta. Senza smettere di sorridere, si appoggiò alla parete con le braccia incrociate.
“Sei venuto a sfottere?” chiese, “’Bohoo guarda che bravo ho smascherato gli impostori’. Sì, bravo, bravo, ora perché non mi dici che diavolo ne avete fatto di mia sorella?”
“Tua sorella?” Edward ripeté, confuso. “Ah, il falso Al…non è stata catturata con te?”
“No, eravamo separate quando mi hanno presa.” Liz rimase in apparenza calma per qualche istante, prima di scattare verso Edward, afferrandolo per il bavero e sbattendolo contro il muro. “Se voi stronzi le torcete anche solo un capello, vi prometto che dedicherò il resto della mia vita a farvi soffrire…” disse in un sussurro minaccioso. Alphonse si intromise e separò i due a forza prima che lo scontro di intensificasse.
“Non sappiamo dove sia tua sorella, però siamo venuti a farti delle domande” spiegò il ragazzino.
“Già, per esempio, chi siete?” continuò Edward, sistemandosi la giacca. “Perché siete venute a Karakura e vi siete spacciate per noi? Cosa sta succedendo alla gente di questa città?”
“Se rispondo, mi aiuterete a trovare Patty?” replicò la ragazza. “Voi alchimisti sembrate adorare lo scambio equivalente…” aggiunse con un sorrisetto.
Edward esitò, ma fu Alphonse a rispondere per lui.
“Affare fatto,” esclamò. “Inoltre se ci aiuterai, non vi consegneremo alle autorità…”
“Al, mi sembra un po’…” cominciò Edward.
“La condizione delle persone in città è più importante di una piccola truffa. L’importante” Alphonse fece alcuni passi avanti, torreggiando sulla ragazza in modo da intimidirla, “è che voi non abbiate preso parte nel creare quell’orribile malattia in città.”
“La città era già in questo stato da prima che arrivassimo,” replicò Liz, cercando di non lasciar trapelare il suo disagio. “Aizen produceva già Düsternis, il che mi fa chiedere perché non ne sia in grado ora. Fatto sta che io e Patty ci siamo travestite da minatori, abbiamo attraversato i tunnel e siamo riuscite ad entrare nei sotterranei della villa.” La ragazza sospirò. “Patty voleva prendere dei libri di alchimia, oltre alle Düsternis, e questo ci ha fatte sgamare. Nella foga del momento, per non farci arrestare, ho detto di essere un alchimista di stato e l’unico per cui potevo passare eri tu. Niente di personale.”
“Sai che c’è anche un’alchimista di stato donna della nostra età, vero?”
“Ah, sì?”
“Oriel Eckhart?” tentò Edward. “Silver Bullet Alchemist?” continuò, quando non ricevette nessuna risposta.
“Mai sentita nominare.”
“A differenza di te, Oriel tende a tenere un basso profilo, fratellone” commentò Al.
“Cosa vorresti dire con questo?!”
Uno sparo improvviso riecheggiò lungo il corridoio: distante ma nitido.
“Cos’è stato?” esclamò Edward, voltandosi immediatamente verso Liz. “Tua sorella?”
La ragazza scosse la testa.
“Riconoscerei ovunque gli spari del suo automail, non è lei.”
“Allora è Oriel!” esclamò Ed. I due fratelli cominciarono a correre verso l’uscita, ma si fermarono immediatamente quando fu chiaro che Liz non li stava seguendo.
“Cosa aspetti, vuoi rimanere lì o aiutarci?”
“Perché tutto questo altruismo? Perdonatemi se non mi fido, ma fino ad ora sono sopravvissuta non fidandomi delle persone. Perché vorreste aiutarci?”
“Perché gli alchimisti esistono per aiutare le persone” rispose Edward con naturalezza.
Liz sorrise.
“Non voglio sentirmelo dire da un cane dell’esercito…” ribatté. “Ma non posso uscire da questa situazione da sola, quindi per adesso vi aiuterò.” Tese verso i ragazzi il braccio destro. “Ho bisogno di proiettili, e di polvere da sparo. Sono completamente a secco.”
“Se ne vedo te li passo, ora però possiamo sbrigarci?!” strillò Edward, spazientito, appena prima che una successione di spari risuonasse di nuovo nel corridoio.
“Meglio sbrigarci, non può voler dire niente di buono!”
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L’uomo che fece irruzione nella stanza a malapena prestò attenzione ad Oriel. Invece, sotto lo sguardo esterrefatto della ragazza, camminò lentamente verso il letto dove giaceva Kanae.
“Oh, che disastro…” mormorò, scrutando la massa di cristalli che cresceva sulla carne della donna. “Quell’incapace non è stato nemmeno in grado di finire il lavoro…”
“Non capisco…” mormorò Oriel, finalmente l’uomo si voltò verso di lei. Capelli biondi che scendevano irregolari sul volto senza il cappello che gli copriva gli occhi color cenere; indossava ancora il kimono nero che aveva la prima volta che lo avevano incontrato, ma invece di sembrare ridicolo, in quella stanza semibuia e col fumo che spiraleggiava intorno a loro, gli dava un’aura di mistero.
Urahara, dopo un momento di confusione, capì chi si trovava davanti a lui.
“Oh! Miss Eckhart!” la salutò con un largo sorriso, come se la situazione fosse totalmente normale. “L’uniforme da cameriera le sta davvero bene, purtroppo non posso dire lo stesso per quell’inguardabile maschera anti gas, perché non se la toglie?” domandò, muovendosi verso di lei. Le sfilò la maschera con tale nonchalance e leggerezza che la ragazza non ebbe il tempo di reagire.
“Ora, se non sbaglio tu dovevi cercare il mio golem, cosa ci fai qui dentro?” domandò, rigirandosi la maschera tra le mani senza indossarla.
“In un certo senso lo ha fatto♥” ridacchiò la voce del Conte, attutita dall’involucro di calcestruzzo.
“Oh, capisco.” Annuì, sorridendo, per poi tornare a voltarsi verso Kanae. “Ora scusate, ho una trasmutazione da concludere.”
“No!” gridò Oriel, uscendo dalla trance in cui l’apparizione inaspettata dell’uomo l’aveva gettata. Alzò la pistola verso la tempia dell’uomo, ma questi non si mosse.
“Una pistola FS d’ordinanza, nove proiettili giusto? Li hai scaricati tutti poco fa contro” si guardò velocemente intorno, “i muri, apparentemente? Ahah, non preoccuparti, ci vorrà solo un secondo.”
L’uomo posò gentilmente una mano sulla fronte della donna sdraiata nel letto con un gesto apparentemente compassionevole prima che il cerchiò alchemico impresso sul pavimento si attivasse sotto di lei. Kanae spalancò la bocca come per urlare, senza però emettere alcun suono, mentre i cristalli continuavano a crescere, lacerandole la carne. Oriel continuò a fissare la scena, come ipnotizzata: l’energia rossastra sembrò lentamente concentrarsi in un punto finché l’intero cristallo implose su se stesso rilasciando un’onda di energia che mandò Oriel a sbattere contro il muro e incrinò le pareti, permettendo al golem di sgusciare fuori dalla sua prigione attraverso una crepa.
Sul letto era rimasto solo il corpo insanguinato e senza vita di Kanae, mentre i cristalli erano scomparsi, sostituiti da una piccola pietra che brillava di luce propria.
“Grazie Kanae, puoi dormire ora.” Mormorò l’uomo, prendendo dolcemente in mano la pietra. “Tessai, porta la ragazza nel laboratorio.”
L’uomo gigantesco era comparso sull’uscio, probabilmente stava aspettando nell’infermeria. Si diresse a passi lenti verso Oriel, che si stava rialzando dopo la botta, e le prese con una sola mano entrambi i polsi, tenendoli dietro la schiena.
Urahara cominciò a scendere lentamente la scala a chiocciola, seguito da Tessai e Oriel e infine dal golem, dal quale veniva la voce del Conte che aveva cominciato a canticchiare.
“La scacchiera bianca e nera sembra finta invece è vera. ♥ Case bianche ad un alfiere, a quell’altro case nere. ♥ Di traverso si muoveranno, tante spine sembreranno. ♥ Dio muove il giocatore che muove il pezzo. Ma quale dio, dietro Dio, questa trama tesse di polvere e di tempo, di sogno e di agonia?
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Ryuken non poteva che osservare la villa dalla finestra del piccolo ospedale, sperando che i ragazzi al suo interno fossero sani e salvi. Si sentiva in colpa per aver mandato avanti dei ragazzi così giovani, ma se fosse successo qualcosa a lui, chi sarebbe rimasto per badare ai suoi pazienti?
La reazione iniziò senza preavviso: tutte le persone ricoverate cominciarono a lamentarsi e contorcersi, mentre il medico osservava in soggezione due fenomeni completamente distinti. Sui pazienti più gravi, dalle macchie nere sulla pelle cominciarono a crescere dei cristalli che distrussero muscoli e ossa nel processo, mentre su quelli con sintomi più leggeri, le macchie evaporarono lasciando macchie biancastre simili a vecchie cicatrici. In pochi secondi i cristalli scomparvero: immediatamente Ryuken corse al soccorso dei pazienti più gravi, pregando ripetutamente tra sé e sé che sua moglie stesse bene.
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La cosa strana di quel sotterraneo non era tanto che la porta da cui i fratelli Elric erano entrati era chiusa a chiave, dopotutto con l’alchimia sarebbe stato facile riaprirla, ma il fatto che determinate porte sembravano essere state chiuse o spalancate per guidare i tre in una direzione specifica. La curiosità aveva avuto la meglio e i ragazzi avevano seguito il percorso che qualcuno aveva aperto per loro finché finalmente non erano arrivati in una stanza dalle dimensioni tali che era difficile credere che un tale ambiente si trovasse al di sotto della villa.
La grotta era enorme e di forma pressappoco cilindrica e dal soffitto alto, illuminata da una serie di piccola luci elettriche come quelle delle miniere e da due sottili finestre da cui entrava la luce del tramonto. Dai macchinari in legno e le numerose rotaie che vi convergevano doveva un tempo essere stata il fulcro o l’ingresso delle miniere, ma era stata allargata e convertita a qualunque scopo avesse in quel momento.
La luce del sole morente, riflessa da specchi verso il pavimento, andava ad illuminare le righe e formule di un complesso cerchio alchemico disegnato sul pavimento in vernice bianca: riempiva la stanza quasi totalmente e approssimativamente al suo centro ospitava una gigantesca scultura di pietra tanto alta da sfiorare il soffitto.
“No…” Edward mormorò, indietreggiando.
“Fratellone…?” lo chiamò Alphonse, confuso. Non vedeva un’espressione simile sul volto del fratello da molto tempo, terrorizzata ed impotente.
“Che hai? Capisco che è brutto, ma stai esagerando…” fece Liz superando i due ragazzi e dirigendosi verso la scultura di pietra, prima di fermarsi all’improvviso. Qualcun altro era già nella stanza con loro, in piedi davanti ad essa.
“Ah, finalmente: stavo perdendo la pazienza. L’avete portata? Bene…” commentò Aizen quando si accorse del loro arrivo. “È magnifica, vero? Ci sono molte teorie su questa porta, non ci crederete come ho fatto ad ottenere questa riproduzione.”
“Bastardi!” ringhiò la ragazza voltandosi verso i fratelli Elric. “Eravate d’accordo con lui?”
“Cosa? No!” esclamò Edward, scuotendosi di dosso lo stato di shock.
“Come sapeva che mi avreste portato qui allora?”
“Perché siete prevedibili,” rispose Aizen per lui. “Anche se devo ammetterlo: il vostro arrivo è stato provvidenziale. Senza voi due, no, voi tre, non sarei mai riuscito a concludere il progetto.”
“Quindi quando prima parlava di ‘fase conclusiva’ intendeva…”
“Ora.” Finì l’uomo. O forse fu un segnale, perché nel secondo immediatamente successivo due piccole figure sgusciarono fuori dall’ombra.
La piccola Ururu, con espressione piatta, volò contro Liz e la scagliò lontano con un calcio la cui potenza era decisamente spropositata rispetto alla sua figura minuta. Liz strisciò a terra per diversi metri, fermandosi in prossimità di uno dei cinque angoli del cerchio alchemico. Mentre cercava di rimettersi in piedi, Aizen le si era avvicinato con passi tranquilli. Una catena con una singola manetta spuntava dal pavimento in corrispondenza dell’estremità del cerchio. Prima che la ragazza si potesse alzare, l’uomo aveva già chiuso la manetta intorno al suo braccio sinistro.
Mentre Liz cercava di rompere la catena invano, dall’altra parte della stanza. Ururu stava combattendo Al, che riusciva a tenerle testa, ma stava venendo spinto sempre di più verso un altro degli angoli del cerchio.
Edward tentò di andare a dargli man forte prima che una pesante mazza di metallo si schiantasse al suolo di fronte a lui.
“Jinta, attento al cerchio.” Aizen suonava leggermente infastidito, ma altrimenti completamente a suo agio in quella situazione a cui Edward stava cercando disperatamente di dare un senso.
Perché i due bambini stavano aiutando Aizen? Non erano Viaggiatori e non erano dalla loro parte? Aizen aveva detto che ‘loro tre’ gli servivano, ma si riferiva a Liz o ad Oriel? E soprattutto, perché quel Portale, quella gigantesca e orripilante struttura, che Edward aveva visto durante la trasmutazione di sua madre e non era mai riuscito a dimenticare, si trovava lì, anche solo come replica?
Aizen aveva dei libri sulla trasmutazione umana: cosa stava cercando di fare?! Edward glielo avrebbe chiesto di persona, normalmente, ma in quel momento era troppo impegnato a schivare i colpi della mazza, che il bambino sbatteva a destra e manca come se fosse di gommapiuma.
Con un clangore metallico, Alphonse cadde a terra. Ururu gli si arrampicò addosso e cominciò a sganciare i fermi, ma quando la aprì completamente rimase immobile a fissare l’interno.
“Dottore, qui non c’è nessuno” mormorò, senza alcuna nota espressiva nella voce. Aizen la raggiunse dall’angolo dove si trovava Liz e osservò l’inspiegabile armatura vuota che  si era mossa fino a pochi momenti prima.
“Molto interessante…” commentò.
“Allontanati da lui, bastardo!” urlò Edward, voltando le spalle a Jinta per correre verso Al. Fu un errore fatale, perché il ragazzino roteò la mazza colpendolo alla nuca. Edward cadde a terra con la testa che gli pulsava e un ronzio costante nelle orecchie e si accorse a malapena della porta che si apriva.
“Hola, Sosuke,” esclamò giovialmente Urahara entrando nella sala dall’ingresso principale dalla porta principale. “Ti ho portato un regalino,” annunciò sollevando la mano che stringeva il Catalizzatore.
Anche con la vista offuscata a causa della botta, Edward riuscì a riconoscere i lampi rossastri che la pietra spesso rilasciava, nonostante non stesse avvenendo nessuna trasmutazione. Il Catalizzatore doveva essere molto instabile per rilasciare tutta quell’energia. Il ragazzo sentì qualcuno che lo trascinava e gli agganciava una manetta di metallo al braccio: tentò di ribellarsi ma venne assalito da un pesante senso di nausea appena alzò la testa.
Urahara camminò verso il portale ed incastonò il cristallo in un’apertura apposita sulla scultura al centro del cerchio. Tessai entrò dopo di lui, portando Oriel, legata mani e piedi, in spalla. L’omone lasciò cadere la ragazza sull’angolo del cerchio più vicino all’entrata e la legò in maniera simile agli altri.
“Hey!” esclamò Liz quando la vide. “Nuova cameriera un corno: sei venuta con loro? Dov’è mia sorella?”
Sparita nel nulla dopo avermi lasciato svenuta in un’infermeria con un presto cadavere. O almeno così avrebbe voluto rispondere Oriel, ma in quel momento aveva tutt’altro per la testa.
“Signor Urahara?” fece Alphonse, incredulo, quando realizzò chi era l’uomo che gli si era avvicinato.
“Questo qui è senza corpo?” fece il Viaggiatore, rivolto ad Aizen, ignorando il ragazzino.
“Andra bene lo stesso, no? Quello che serve è l’anima.”
L’uomo fece spallucce.
“Eh, forse. Stai solo attento a non coinvolgere Ururu.”
Al guardò la ragazzina che lo teneva fermo al suolo: se i Viaggiatori erano stati alleati di Aizen fin dall’inizio, allora i ragazzi avevano giocato sul palmo della loro mano. Non avevano mai avuto bisogno del loro aiuto, solo che si trovassero tutti e cinque lì in quel momento.
“Giusto, dov’è tua sorella?” domandò Aizen avvicinandosi a Liz. “Non possiamo cominciare senza di lei.”
“Se non lo sai nemmeno tu, allora vuol dire che è scappata,” ghignò la ragazza. “Buon per lei, ora non puoi finire il tuo progettino, vero?”
Il volto dell’uomo ebbe un breve spasimo, come se stesse per perdere la compostezza che aveva mantenuto fino a quel momento, ma con un sospiro si passò la mano sugli occhi e riprese a sorridere.
“No, ci tiene troppo a te per lasciarti qui. Arriverà in tempo.”
“Ci puoi giurare, figlio di puttana” confermò una voce, prima che una sfilza di proiettili si abbattesse dall’alto sull’uomo che si scansò appena in tempo per non essere colpito gravemente.
“Jinta!” gridò Urahara. Il ragazzino con i capelli rossi corse verso Tessai, che lo lanciò verso l’alto in direzione di uno dei tunnel minerari da cui erano arrivati i proiettili. Il ragazzino si trovò davanti Patty, che lo guardò con fugace sorpresa prima di cominciare a sparargli contro.
Jinta agitò la mazza finché non riuscì a colpire l’automail, schiacciandolo contro il muro. Il metallo si piegò con un suono terrificante, mettendo fuori uso l’arma. Il ragazzino concluse il combattimento dando una ginocchiata in pancia a Patty e lasciandola cadere dall’apertura verso la sala. Tessai la prese al volo, portandola verso l’ultimo vertice rimasto libero.
“Visto?”
“Patty…” mormorò Liz. “Stupida! Perché non sei fuggita?!”
“Pensavi che ti avrei abbandonato nelle mani di questi psicopatici?!” ribatté lei, scalciando mentre Tessai la fermava, mettendole la manetta tra il gomito e la spalla, visto che la parte anteriore del braccio meccanico era maciullata.
Aizen, nel mentre, si era rialzato e, spazzando via la polvere dai vestiti, fece scorrere lo sguardo sulla sala con un sorriso compiaciuto. Ururu stava finendo di legare Al al pavimento con diverse catene, non sapendo come altro tenerlo fermo.
“Quindi voi eravate d’accordo fin dall’inizio…” cominciò Oriel. “Perché questa sceneggiata? Che bisogno c’era? Perché non ci avete semplicemente catturato?” chiese, mentre con lo sguardo che saettava da un punto all’altro della stanza, cercava un qualunque spunto, punto debole o idea per uscire da quella situazione. Il bracciale glielo aveva sfilato Tessai e non aveva con se né armi né qualcosa per disegnare un cerchio alchemico.
Il muro dalla parte opposta della sala aveva delle finestrelle. Il sole stava ormai tramontando e si vedeva la luce rossastra illuminare i granelli di polvere: oltre quel muro c’era l’esterno.
“Non ce l’avremmo mai fatta a portare cinque alchimisti qui con la forza!” rise Urahara, con leggerezza. “Il piano originale prevedeva la presenza dei tre Ishida, ma Kanae si è offerta di fare da catalizzatore purché non li coinvolgessimo…”
“Cazzate!” si intromise Liz. “Kanae non avrebbe mai collaborato con voi, e poi perché avreste dovuto onorare la parola data?”
“Perché la creazione di quel catalizzatore richiedeva una partecipazione volontaria…” realizzò Oriel, ricordando le ultime parole della donna. “E perché il Conte onora sempre i suoi contratti, non è così?”
“Chi diavolo è Il Conte?!” fece Liz, notando con la coda dell’occhio, che Patty stava  lavorando a qualcosa con la schiena rivolta verso di loro. Meglio attirare l’attenzione su di sé, se stava cercando un modo di fuggire.
“Il mio maestro,” spiegò Aizen, guardando il golem, che era stato in silenzio per tutto quel tempo. “Un Mago delle Dimensioni dall’immensa conoscenza e potere, che mi ha rivelato la verità sul Gate e su questo Mondo. In cambio, aprirò quel cancello e siederò sul Trono del Mondo…”
“Cos…” cominciò Liz, confusa, ma Oriel la interruppe.
“Il Conte non è generoso, né sincero. Ti ha riempito di stupidaggini per renderti la sua marionetta.”
Aizen le si avvicinò e chinò di fronte, prendendole con decisione il mento tra le mani: “Per essere così saccente, sei davvero ingenua. Non esistono la ‘verità’ o le ‘bugie’ in questo mondo; non c’è mai stato niente del genere. Esistono solo fatti. Gli ingenui e gli ignoranti hanno l’abitudine di prendere da parte solo i ‘fatti’ che gli fanno comodo e renderli la propria ‘verità’, lo fanno perché non conoscono nessun altro modo di vivere, non hanno idea del proprio potenziale.  Io aprirò la Porta che esiste in ciascuno di noi, diffonderò la verità, la mia verità, per unificare questo mondo sotto di me.”
Oriel non ribatté immediatamente, qualcosa di quel discorso l’aveva in qualche modo turbata. Il suo momento di esitazione però consentì ad Aizen di distogliere lo sguardo per un momento e notare che Patty, nel mentre, stava correndo verso di lui.
La ragazzina si era sganciata l’automail, che rimaneva incatenato al pavimento in fondo alla sala, e correva stringendo al petto con l’altra mano un oggetto grande come un pugno. In quei secondi durante i quali il tempo sembrò rallentare, ad Oriel non sfuggì il sorriso di Urahara.
“Patty, no!” chiamò la sorella. Seguendo il suo esempio sganciò l’attacco dell’automail e corse verso di lei, intercettandola ad un paio di metri da Aizen ed Oriel. L’oggetto che la ragazzina teneva in mano volò sopra la testa di Oriel, che riconobbe una granata mentre realizzava che sarebbe esplosa di fronte a lei senza che potesse fare nulla per difendersi.
“Reim…” il suo primo pensiero andò a suo fratello, ma pochi istanti prima che la granata esplodesse, dal terreno tra se ed Aizen si innalzò un muro, che protesse dall’esplosione lei e le sorelle Thompson. Con le orecchie che fischiavano, Oriel guardò verso l’unica persona che poteva averla salvata.
Edward era ancora supino a terra, ma rivolto verso di loro e con i palmi appoggiati a terra: grazie al cielo aveva recuperato lucidità appena in tempo per reagire alla situazione. Oriel sentì lacrime di sollievo scenderle lungo le guance. Anche le due sorelle avevano notato come l’alchimista aveva appena salvato loro la vita.
“…” Edward gridò qualcosa, con espressione improvvisamente allarmata. Le parole si persero per le ragazze, troppo vicine all’esplosione per sentirci bene, ma non sfuggirono i lampi rossastri che si erano cominciati a propagare dal Catalizzatore.
L’energia del cristallo era stata attivata dalla trasmutazione di Ed, e stava cominciando a fluire lungo le linee del cerchio.
“Tiratemi via da qui!” gridò Oriel, strattonando la catena. Le ragazze si lanciarono un’occhiata di intesa e , mentre Patty correva verso Edward, Liz rimase e cominciò ad aiutare Oriel a tirare la catena, la cui base stava lentamente cedendo. Grazie ad un paio di calci di Liz alla catena tesa, uno degli anelli più arrugginiti si spezzò con un suono secco, facendo cadere Oriel all’indietro fuori dal cerchio poco prima che le linee sotto di lei si illuminassero.
Schwein gehabt…” gemette la ragazza, sollevata. Alzandosi in piedi, si guardò intorno. Patty aveva liberato Edward e i due stavano correndo verso Alphonse. La nebbia di polvere sollevata dall’esplosione si stava depositando e Oriel strinse gli occhi per cercare di scorgere le sagome di Urahara e i suoi complici. Non poteva assolutamente permettersi di lasciare il bracciale nelle loro mani, doveva recuperarlo a tutti i costi.
Un bizzarro bagliore fendette la polvere ed Oriel si gettò di lato appena in tempo per evitare un fendente della mazza di Jinta che si abbatté violentemente al suolo. Oriel si rialzò velocemente in piedi, preparandosi al peggio dovendo affrontare il ragazzino senza armi o alchimia, ma fortunatamente Liz era scivolata silenziosamente dietro di lui, bloccandolo in una morsa che gli fece mollare la presa sull’arma.
“Jinta!” a chiamare il suo nome era stata la bambina di nome Ururu, che ora che l’aria stava finalmente diventando più limpida, era visibile insieme ad i suoi compagni pochi metri più in là, vicino alla porta principale.
Quando la polvere si fu posata, alle due ragazze fu immediatamente chiara un’altra cosa oltre alla posizione dei Viaggiatori: ad attivare il cerchio non era stata la trasmutazione di Edward, ma lo stesso Aizen.
L’uomo, ricoperto di sangue e ferito, era riuscito a trascinarsi dal punto dove era stato colpito dall’esplosione fino al bordo del cerchio. Il braccio con cui si era riparato dalla granata era ridotto a brandelli e si intravedevano le ossa, ma in qualche modo era riuscito ad inginocchiarsi ed attivare il cerchio. L’uomo stava ripetendo qualcosa in una sottospecie di delirio.
“…sedere sul trono del Falso Dio…”
“Ma ce la potrà fare?”
Oriel si voltò di scatto: Urahara le si era avvicinato all’improvviso, muovendosi silenziosamente come uno spettro.
“L’energia è appena sufficiente, i Sacrifici sono scappati. Non basterà per aprire il Gate” commentò, rattristato ma tranquillo.
“Non è un problema ♥” commentò dal golem la voce del Conte. “Questo era solo un esperimento per vedere quanto potevamo avvicinarci al Falso Dio. Sousuke è sempre stato troppo zelante…non è affatto la persona di cui abbiamo bisogno. ♥”
“S-signore?” mormorò Aizen, che nonostante le ferite aveva sentito le parole dei due.
“Gioisci, Sousuke! ♥” esclamò il Conte, mentre la luce del cerchio cominciava ad avvilupparsi in volute attorno ad Aizen. “Il cerchio ti poterà di fronte al Falso Dio: nel momento in cui ne conoscerai l’identità, saremo un passo più vicini alla vittoria.”
Dalla parte opposta della sala, Ed, Al e Patty stavano camminando rasenti al muro per non toccare i bordi del cerchio attivo: non sarebbero arrivati in tempo. Oriel decise di tentare il tutto per tutto e, mentre i Viaggiatori erano concentrati su Aizen, tirò con tutta la forza che aveva un calcio in mezzo alle gambe a Tessai. L’uomo fece una smorfia di dolore cadendo in ginocchio, il bracciale di Oriel gli cadde di mano roteando a terra e la ragazza lo afferrò.
“Coprimi!” gridò a Liz, mentre infilava il bracciale e si preparava ad una trasmutazione. Liz, che ancora teneva stretto Jinta, le si mosse davanti, usando il ragazzino come scudo.
Oriel preparò velocemente i cerchi e in una manciata di secondi trasmutò dal terreno un fucile a pompa, che puntò alla testa del ragazzino.
“Non lo faresti…” commentò Urahara con un mezzo sorriso. Oriel caricò il fucile tanto per risposta.
“Andatevene da questo Mondo e lasciateci andare.”
“Avete già servito al vostro scopo, nessuno vi trattiene qui. Ora l’unico che dovrebbe preoccuparsi è il Creatore di questo Mondo.”
“Creatore?” ripeté Liz, confusa. “Ma di che cazzo siete fatti voialtri? Si può sapere cosa volete?”
Urahara lanciò un’occhiata al golem, come ad aspettarsi di essere interrotto o che fosse il Conte a rispondere, ma l’unico occhio dell’essere era puntato verso Aizen, che si stava dimenando nel tentativo di sfuggire alla luce che lo stava lentamente consumando.
“Ogni Mondo ha un Creatore. Un Falso Dio che lo ha generato, ma di Vero Dio ne esiste uno solo e sua eccellenza il Conte ha intenzione di trascinarlo giù dal suo piedistallo di onnipotenza. Per fare ciò, crediamo di aver bisogno del potere di un Falso Dio per metterci sullo stesso piano.”
Liz scosse la testa.
“No, ok, mi sono persa. Ho sempre preferito i fatti concreti alle speculazioni e i fatti concreti sono: state facendo crollare le fottute miniere e noi abbiamo uno dei vostri, fermate tutto o gli facciamo esplodere le cervella.”
“Insomma,” rise l’uomo, “una ragazza non dovrebbe parlare così.”
Mentre l’uomo parlava, Oriel aveva lentamente abbassato il fucile.
“Oriel!” chiamò Edward, che si stava lentamente avvicinando. “Fermali, qua sta per crollare tutto!” gridò il ragazzo. Come a confermare le sue parole, una delle grottesche figure umanoidi in cima alla porta di pietra si staccò e frantumò al suolo.  “Interrompi la reazione, distruggi il cerchio!”
Oriel lanciò una veloce occhiata a Liz, che annuì e lanciò Jinta verso Ururu. Oriel scattò verso il cerchio, ma quando Tessai, che nel mentre si era ripreso, le bloccò la strada, lei voltò bruscamente e senza la minima esitazione sparò con il fucile in testa ad Aizen.
La luce del cerchio si estinse immediatamente come il corpo dell’uomo cadde a terra con un tonfo. Il catalizzatore sembrò implodere su se stesso e scomparve, lasciando la sala illuminata dalle sole luci di emergenza. Il tempo sembrò fermarsi per alcuni secondi, finché Oriel non scorse un movimento con la coda dell’occhio e vide Tessai avanzare verso di lei.
“Fermo,” gli ordinò Urahara. L’uomo non stava più sorridendo. “Abbiamo finito qui, ce ne andiamo.”
“Insomma, devi sempre mettere i bastoni tra le ruote, Homura Akemi, ♥” commentò il Conte.
“Non chiamarmi così,” sibilò la ragazza, a voce bassa.
L’occhio del golem si illuminò e l’aria alle spalle del piccolo essere sembrò essere squarciata da una crepa sospesa a mezz’aria che si allargò sempre di più. Oltre la crepa si vedeva un ambiente illuminato dalla luce del sole.
Tessai scivolò oltre la strana apertura, seguito da Urahara e dal golem. Ururu si lanciò verso Liz, colpendola in testa nel preciso momento in cui Jinta la colpì alla gamba: ancora confusa e colta di sorpresa dall’attacco simultaneo, la ragazza lo lasciò andare e i due ragazzini si precipitarono oltre la crepa, che si stava già chiudendo.
“Ci rivedremo, Alchimisti” salutò Urahara. “Non abbiamo ancora finito con quel mondo, quindi cercate di non morire…”
Il Gate si richiuse completamente, senza lasciare traccia che i Viaggiatori fossero mai stati lì.
“Cosa diavolo hai fatto, Oriel?!” la voce di Edward colse la ragazza di sorpresa. Ed la stava guardando, a pochi metri dal corpo di Aizen, con espressione orripilata.
La ragazza si sentiva la bocca secca, le mani tremanti non di paura ma per l’ansia che le si era annidata in petto. Prima che potesse dare una qualsiasi risposa ad Edward, però, le scosse che sembravano essersi acquietate quando il Catalizzatore era scomparso, aumentarono di intensità. Pezzi di soffitto caddero intorno a loro, minacciando di seppellirli vivi.
“Andiamocene di qui!” gridò Patty, che nel mentre si era gettata tra le braccia della sorella. Senza esitazione, i cinque corsero verso l’uscita principale: Al sfondò la porta di metallo con tutto il suo peso e il gruppetto salì le scale in fretta e furia, il rombo della grotta artificiale che crollava dietro di loro.
Tornare negli ambienti della villa dopo gli avvenimenti frenetici dei pochi minuti appena trascorsi aveva un che di innaturale: i pochi membri della servitù erano scappati nel cortile esterno, dove i ragazzi li raggiunsero per sfuggire all’edificio pericolante.
La montagna continuava a tremare: dalla città e dalle entrate delle miniere più in basso si vedevano alzarsi volute di fumo dovute a numerosi crolli.
Si sentì un rombo come di una lontana esplosione e una parte della montagna crollò su se stessa. Numerosi grossi massi si staccarono e, poco lontano da loro, cominciarono a rotolare a valle in un vero e proprio fiume di detriti.
“La città verrà travolta!” gridò Alphonse allarmato. “Fratellone! Dobbiamo-“
“Non posso,” lo interruppe il ragazzo, “destabilizzerei ancora di più il terreno e…”
“Fatevi indietro!” esclamò improvvisamente Patty: la ragazzina aveva tracciato nel terreno della strada sterrata un cerchio alchemico con un bastone di ferro. Prima che chiunque potesse dire qualunque cosa, Patty si lasciò cadere in ginocchio e posò la propria mano sul cerchio.
Uno strano battito sembrò pervadere il terreno nel momento in cui le linee si illuminarono. Prima lentamente, poi sempre più veloce, erba e piante cominciarono a crescere dalla terra secca, ma l’avvenimento era solo la cima dell’iceberg: intorno a loro, sull’intero fianco della montagna, gli alberi crebbero a vista d’occhio, alzandosi ed infittendosi e piantando radici sempre più robuste nel terreno. I tronchi sempre più spessi e fitti fermarono velocemente la frana prima che arrivasse a valle.
La crescita miracolosa si fermò dopo pochissimi secondi quando la luce del cerchio si spense. Patty si alzò barcollante in piedi e sfoderò un sorriso orgoglioso prima che le cominciasse a sanguinare il naso e le gambe le cedessero. Liz la afferrò prima che cadesse a terra priva di sensi.
“Credevo che non fosse un alchimista…” il commento incredulo di Oriel fu il primo ad interrompere il silenzio.
“Mia sorella è un genio dell’alchimia per quanto riguarda le piante. Sarà anche l’unica cosa che sa fare, ma non ho mai visto nessuno con questo talento: l’ho sempre protetta dall’esercito e da altri che la vorrebbero per i propri scopi e non mi fermerò ora.” Lanciò loro un’occhiata di fuoco, prima che Edward capisse il messaggio e replicasse.
“Non la menzioneremo ai nostri superiori,” annuì.
“In effetti sono tante le cose che dovremo omettere nel nostro rapporto…” aggiunse Oriel.
“Già,” confermò Ed, con tono gelido. “Per esempio il fatto che hai ucciso una persona?! Cosa diavolo ti è saltato in mente?!” la attaccò improvvisamente.
“Ho fatto quello che era necessario,” rispose lei, cercando di mantenere un tono fermo.
“Necessario?!” ripeté Ed con tono ancora più alto ed incredulo. “Non riesco a credere alle mie orecchie! Potevi distruggere il cerchio, potevi trasmutare una gabbia, potevi fare letteralmente qualsiasi cosa che non fosse fargli esplodere le cervella!”
“Tu non hai idea…” cominciò lentamente la ragazza, a denti stretti. “No hai la minima idea della gravità di quella situazione.”
“Tu si invece!” Edward suonava esasperato oltre che furioso. “Tu sembri sempre sapere tutto…quando fa comodo a te!”
“E questo cosa vorrebbe dire?!”
“Ora che ci penso sei stata tu a convincerci a venire qui: tutto per la tua stupida ricerca, così potevi brillare davanti ai tuoi superiori presentando la storia degli Ishida! O c’era un altro motivo?” Edward le chiese a bruciapelo, ma continuò a parlare prima che lei potesse rispondergli. “È stata davvero una coincidenza che noi tre siamo arrivati qui esattamente quando Aizen…Urahara…chiunque fosse dietro a questo macello, aveva bisogno di tre alchimisti?!”
“Non ne avevo idea!” esclamò Oriel, oltraggiata dall’accusa. “È stata una coincidenza!” esclamò prima di mordersi la lingua.
Coincidenza? Oriel avrebbe dovuto saperlo che non esistono coincidenze, e la sua ultima frase non era suonata affatto decisa.
“Non mi sembri sicura,” commentò Edward, infatti.
“Adesso basta, tutti e due.” Li fermò Alphonse, con una mano sulla spalla di entrambi. “Le miniere e la città hanno subito danni, dovremmo cercare di fare il possibile per aiutarli.”
Edward annuì, voltandosi verso la strada che ora era poco più di uno stretto sentiero tra la fitta vegetazione. Oriel non si mosse.
“È il minimo che possiamo fare,” la intimò il ragazzo senza guardarla in faccia.
“Ti reggi a malapena in piedi e anche noi siamo esauste,” ribatté accennando alle sorelle Thompson. “Non cercare di fare l’eroe, Edward e non cercare di trascinarmi nei tuoi atti di generosità. Non sono un paladino della giustizia o un salvatore dei popoli. Sono un soldato, ed è quello che dovresti cominciare a realizzare anche tu.” Oriel pensava quelle cose, eppure le si spezzò la voce un paio di volte mentre le diceva. Non sapeva a che punto aveva cominciato a pensare così e in parte la spaventava.
“Fai come ti pare,” rispose stancamente Edward, senza nemmeno voltarsi a guardarla. Alphonse guardò i due per una manciata di secondi prima di correre dietro al fratello.
Oriel si lasciò cadere nell’erba di fianco a Liz.
“Forse non dovrei intromettermi,” cominciò Liz quando i due ragazzi si furono allontanati. “Ma secondo me, hai ragione.”
Oriel scosse la testa.
“Lascia perdere.”
“Scusa.”
Il silenzio imbarazzato tra le due crebbe senza diventare pesante. Dal loro punto di vista, circondate da alberi e vegetazione rigogliosa, poteva sembrare un normale pomeriggio tranquillo.
“Quindi sei un’alchimista di stato anche tu?” Liz ruppe di nuovo il ghiaccio.
Ja” confermò Oriel sovrappensiero, prima di correggersi e ripeterlo nella lingua di Amestris.
“Silver Bullet Alchemist,” realizzò Liz. “Sai, non sapevo ci fossero donne Alchimisti di Stato.”
“Ci sono,” confermò lei, prima di correggersi. “Ci sono state, anche se poche. Corniche Royce una trentina di anni fa, Diana McFlamel nel secolo scorso…”
[Corniche Royce è canon, non mi ricordo se di una light novel o simili]
“Uhu, sicuramente nessuna di loro stava tanto bene in un’uniforme da cameriera,” commentò Liz con un sorrisetto civettuolo.
Oriel guardò i propri vestiti, per poi mugugnare qualcosa di incomprensibile.
“Ho lasciato i miei vestiti negli alloggi della servitù.”
La ragazza fece per alzarsi in piedi, quando ci fu un movimento tra gli alberi e Al spuntò dal sentiero lungo il quale era sparito con Ed.
“Oriel,” cominciò. “Scusa, non voglio lasciare questo discorso in sospeso, ho qualcosa da dirti.”
Oriel aggrottò la fronte, senza rispondere. Non voleva altre ramanzine da parte di ragazzini più giovani di lei per quel giorno.
“Il mio fratellone…non è un eroe. Su questo hai ragione” disse infine, sorprendendo le due ragazze. Oriel stava per rispondere, ma il ragazzino la interruppe. “Però ci prova ad esserlo, e credo che sia questa la cosa importante.”
Oriel fissò l’armatura a lungo prima che le sfuggisse un sorriso rassegnato.
“Ho capito, vengo ad aiutare” si arrese. “Fammi recuperare la mia roba, prima.”
“Ah, per le case crollate e le miniere ci sta dando una mano il dottor Ishida!” esclamò Al, come se si fosse ricordato in quel momento la cosa più importante. “E Ed ha perso i sensi.”
-
Fortunatamente, fu chiaro in poco tempo che lo stato di Edward era solo dovuto all’incredibile tensione e alla brutta botta in testa, che però non aveva causato danni permanenti.
Nei due giorni successivi, Edward e Patty si riposarono, il resto del gruppo di alchimisti continuò ad estrarre sopravvissuti e cadaveri dalle macerie, riparare case e aiutare la popolazione a riprendersi. La miracolosa crescita della vegetazione causata dall’alchimia di Patty aveva coinvolto anche vecchi orti e frutteti, che furono fondamentali nella distribuzione del cibo tra la popolazione.
Quarantotto ore dopo dalla tragedia, la città sembrava essere sulla buona strada per una rifioritura.
Ryuken aveva accettato stoicamente la notizia della morte della moglie. Insieme ad Oriel, ne aveva recuperato i resti dalla villa e l’aveva sepolta nel cimitero di Karakura. Era senza dubbio addolorato, ma i ragazzi non poterono che ammirare la sua dedizione nel voler salvare i sopravvissuti, dopo una così grande tragedia personale.
Ryuken fu anche l’unica persona a cui i ragazzi decisero di raccontare tutta la verità, o quasi. Oriel continuò a nascondere il coinvolgimento di Watanuki e il suo legame con le Düsternis ed il Conte del Millennio, ma non poteva continuare a fingere ignoranza per quanto riguardava l’identità del Mago.
“Per quanto ne so” aveva cominciato, davanti agli altri quattro alchimisti, nel salotto sopra la clinica di Ryuken, “esistono tre individui in grado di controllare il Viaggio tra le Dimensioni, di conferire il potere di Viaggiare e di controllare l’equilibrio tra i Mondi. Questi sono chiamati Maghi Dimensionali.”
“Questa roba non c’è scritta da nessuna parte, vero?”
Oriel scosse la testa.
“Solo i Viaggiatori ne sono al corrente. E nemmeno io conosco il quadro completo della vicenda.”
“Quindi tu sei una Viaggiatrice?” le domandò Patty.
“No” rispose immediatamente Oriel. “Non ho il potere di aprire Porte o attraversarle. Ho ottenuto queste informazioni di seconda mano.”
Edward le scoccò un’occhiata perplessa: era chiaro che nonostante non avessero più litigato, il ragazzo non si fidava completamente di lei. Questo, ad Oriel, andava bene: si era lasciata coinvolgere troppo ed era il momento di tornare a porre una distanza tra se stessa e i fratelli Elric.
“Per quanto ho sentito dire, il Conte del Millennio è una creatura malvagia, corrotta, bugiarda. Un essere alla continua ricerca di modi per incrementare il proprio potere ed influenza. Da quello che abbiamo visto, non c’è dubbio che il gruppo di Urahara siano dei suoi scagnozzi. Aizen…era solo una pedina.”
“Siamo state le pedine di una pedina,” sospirò Liz. “Ha un che di umiliante.”
Oriel le sorrise brevemente. Per il resto del discorso, non rivelò altre informazioni: raccontò quello che era successo nell’infermeria, omettendo i dettagli che riguardavano la sua esperienza con gli Incubator. All’alba del terzo giorno, i ragazzi lasciarono definitivamente Karakura per dirigersi verso la stazione del treno. Le sorelle Thompson li accompagnarono fino alle rotaie, anche se era evidente che non avevano ancora intenzione di lasciare l’ex città mineraria.
“Siete sicure di voler rimanere in questo posto?” domandò Edward, sporgendosi dal finestrino del treno in partenza.
“Siamo ancora criminali ricercate. Finché non segnalerete la nostra posizione alle autorità, questo è un posto perfetto per nascondersi!” esclamò Patty.
Liz annuì.
“E abbiamo un debito verso la popolazione di Karakura, che lo sappiano o no,” aggiunse. Con un sorriso malinconico, arruffò i capelli di Patty. “Scusate per il casino in cui vi abbiamo coinvolti, mi avete stimolato ad essere una migliore sorella maggiore per Patty e farò del mio meglio per diventarlo”  commentò. Patty si sottrasse dal gesto affettuoso come se si vergognasse di essere trattata come una bambina, ma stava sorridendo quando si allontanò per seguire un gatto randagio. “Edward,” continuò Liz, ma a voce più bassa. “Hai davvero intenzione di cercare la Pietra Filosofale? Le Düsternis in città sono esplose, ma la materia prima è rimasta, posso trovare il modo di…”
Edward la interruppe scuotendo la testa.
“Grazie della proposta, ma troveremo la Pietra Filosofale da soli: non possiamo accontentarci di un surrogato.” Le ragioni che lo spinsero a rifiutare erano ben altre e più complesse, ma non aveva bisogno di spiegarle ad alta voce.
Infatti, Liz annuì severamente.
“Ehi, mi raccomando!” si intromise Patty tornando di corsa verso di loro. “Tornate a trovarci!”
“Sicuro!” esclamò Al, “E voi due mi raccomando, basta vita di criminalità!”
“Croce sul cuore!” esclamarono le due in perfetta sincronia, con tanto di gesto ed espressione solenne, prima di scoppiare a ridere.
Il fischio del controllore annunciò che il treno era in partenza. Proprio in quell’istante, Ryuken apparve sulla banchina, affannato come se avesse corso: portava con se un voluminoso e lungo oggetto avvolto in diversi strati di stoffa bianca.
“Per il tuo aiuto all’ospedale e…tutto il resto” spiego, porgendolo ad Oriel dal finestrino aperto. “Non volevo separarmene per orgoglio, ma probabilmente non sono più la persona giusta per utilizzarlo.”
Il treno cominciò a muoversi, allontanandosi dalla banchina. Presto, la stazione scomparve tra le montagne, lasciando solo il verde della boscaglia a nascondere la città dove il male aveva inflitto profonde ferite.
“Credi…che se la caveranno?” domandò Oriel, stringendo l’oggetto tra le sue mani con esitazione. La forma e le dimensioni non lasciavano dubbio sul fatto che si trattasse di un arco. Un piccolo foglietto era legato alla corda che teneva chiusa la stoffa: su di esso, un indirizzo di Central City e la frase “chi ti può insegnare ad usarlo, buona fortuna”.
“Sicuro” rispose Ed. “Ce l’hanno scritto in faccia: se la caveranno eccome!”
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Carissimo Sousuke,
immagina l’essere umano come una moneta di ferro: essa ha due facce, che da sole non sono la moneta, ma insieme la compongono. Queste due facce sono, secondo la mia teoria, il corpo fisico e la mente. Senz’anima il corpo è un contenitore vuoto che ritorna alla terra, senza corpo la mente è una serie di impulsi elettromagnetici ed elementi chimici che però non costituiscono la vita. Esiste però un terzo elemento, ed è il materiale di cui la moneta è fatta: questo, secondo me, costituisce una metafora per l’anima. La mente decide come plasmare l’energia alchemica ma è l’anima che funge da materiale conduttore per l’utilizzo di questa energia, esattamente come fa una moneta per una corrente elettrica. Possiamo quindi dire che esistono materiali “conduttori” e “non conduttori” come persone che possono usare l’alchimia e persone senza questa capacità.
Ovviamente, che l’anima sia materiale implica che sia possibile trasmutarla. Resta la domanda, “di cosa è composta”?
Van Hohenheim, 11 Dicembre 1889.
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In uno dei tanti vicoli di Central City, un uomo con un lungo cappotto fissava dall’alto la figura di un secondo uomo, in uniforme militare, che si contorceva terrorizzato con la schiena premuta contro il muro. Al militare mancavano entrambe le gambe ed aveva i vestiti lacerati e sporchi di sangue.
“No, ti prego, no! Non è colpa mia, non sono stato io!” ripeteva gemendo, cercando di trascinarsi lontano dall’altra persona con le sole braccia. I moncherini lasciavano sull’asfalto una scia di sangue denso.
Le ombre della strada sembrarono infittirsi.
“Stein! L’uomo che cerchi è Stein! Ma nessuno sa dove sia andato! Ha disertato dopo la guerra dell’Est! Dicono si sia nascosto vicino ad East City! Non so altro, te lo giuro!” gemette, piangendo di dolore e disperazione.
Un basso ringhio, come quello di un animale selvaggio, appena udibile, precedette il grido straziante che attraversò il quartiere prima del silenzio.
Pochi secondi dopo, l’uomo con il cappotto uscì dal vicolo da solo, alzando il colletto della giacca per coprire le macchie di sangue intorno al proprio viso.
“East City…” mormorò.
Era lo stesso uomo che aveva incontrato la chimera nata dalla fusione di Nina ed Alexander momenti prima della sua morte.
 

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Capitolo 15
*** ART - PART 1 ***



Oriel Eckhart (19)


Liz Thompson (16)


Patty Thompson (14)

 

Art by Erica D'Urso.

 

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