Quel manicomio in Corso Tre Novembre numero trentatrè di LaMarghe_e_LaGio (/viewuser.php?uid=933250)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuti in manicomio: l’estintore si trova nell'ingresso, in basso a destra ***
Capitolo 2: *** Le serate al manicomio sono sempre sovraffollate ***
Capitolo 3: *** La mattina, invece, in manicomio son tutti pigri. O quasi. ***
Capitolo 4: *** In manicomio è permessa anche l'ora d'aria ***
Capitolo 5: *** In manicomio l’ukulele onnisuonante cessa (temporaneamente?) la sua attività ***
Capitolo 6: *** Chi è talmente pazzo da rubare ad una pazza il suo strumento di follia? ***
Capitolo 7: *** Dal manicomio qualcuno riesce ad evadre... ***
Capitolo 8: *** ...anche se non per molto ***
Capitolo 9: *** Ti sono vicino... ***
Capitolo 10: *** ... anche se tu non vuoi ***
Capitolo 11: *** Il manicomio si rianima ***
Capitolo 12: *** Perché questo è il nostro manicomio, e noi lo amiamo così com'è ***
Capitolo 1 *** Benvenuti in manicomio: l’estintore si trova nell'ingresso, in basso a destra ***
Quel
manicomio in Corso Tre Novembre numero trentatré
1.
Benvenuti in manicomio: l’estintore si trova nell'ingresso,
in
basso a destra
Era
una bella giornata di sole: gli uccellini cinguettavano, le persone
che si erano appena alzate sorridevano, le caffettiere
fischiettavano… O, almeno, questo era quello che stava
accadendo in
qualsiasi appartamento che non fosse l'interno otto di Corso Tre
Novembre numero trentatré, secondo piano, prima porta a
destra, di
fianco all’ascensore, abitato a partire da quell'anno da
cinque
inquilini piuttosto particolari.
“Michele!”.
Il ragazzo rabbrividì: il suo nome urlato e scandito bene
significava sempre guai. “Dannazione, se decidi di cucinare i
pancake non sparire!”, gridò Margaret Arrigoni,
agitando le
braccia da destra a sinistra, nel tentativo di far sparire il fumo
che si era addensato nella cucina.
“Scusa
scusa scusa!”. La risposta del giovane si udì
forte e chiara dal
corridoio ed era accompagnata dai suoi passi pesanti. Michele
Rangotti non era assolutamente in grado di cucinare: anche quel
giorno, nonostante avesse acquistato il preparato per pancake al
supermercato e avesse incaricato Megan di finire di mescolare
l'impasto, non era riuscito a seguirne la cottura, poiché
era stato
distratto da un pensiero fulminante.
“Stavo
cucinando e mi è venuto in mente che dovevo farmi una
doccia!”,
esclamò, tentando di giustificarsi, passandosi
le dita in mezzo alle treccine nere.
“E
mentre ti fai la doccia pensi che i pancake si girino da
soli?!”.
Ok, l'amica era davvero alterata quella volta: di solito non alzava
la voce di due ottave.
“Sì?”,
tentò, mordendosi il labbro inferiore e provando a rendere
il suo
sguardo dolce come quello di un cucciolo indifeso.
“No,
cazzo! Sei un idiota, Mike!”, gridò Margaret, ma
dal fatto che lo
aveva chiamato con il suo soprannome lui comprese che era
già stato
perdonato, grazie al Cielo!
“Io
direi di punirlo costringendolo a lavare i piatti per una
settimana”,
si aggiunse intanto un’altra voce, mentre l'ombra del giovane
a cui
apparteneva si faceva largo nel fumo: un attimo dopo l'aria fresca
del mattino inondò la stanza, e a poco a poco
cominciò ad
intravedersi l'espressione compiaciuta di Margaret, che evidentemente
trovava l'idea del coinquilino molto allettante.
“Non
mi dispiace come pu-”, si bloccò a metà
frase, perché un urlo di
gioia la interruppe.
“Scacco
matto, pivello! E sono tre partite di fila che la grande Megan
vince!”.
A
quelle parole Mike e Margaret si affacciarono con sguardo confuso
alla porta del soggiorno, la quale confinava con quella della cucina,
mentre l'altro ragazzo sbiancava e balbettava sillabe sconnesse,
incredulo.
“Ma
come?! Stavo vincendo io!”.
“Ieri
sera a mezzanotte, forse! E solo perché stavo crollando dal
sonno”,
ribatté l'altra, senza ammettere repliche: amava vincere
contro
Jack, perché lui, a differenza di tutte le altre persone che
aveva
sfidato in passato, era un degno avversario. Ovviamente non lo
avrebbe mai ammesso davanti a lui.
“Ho
sentito come crollavi dal sonno quando all'una gli hai gridato che
stava barando”, borbottò Mike, beccandosi una
gomitata dalla donna
al suo fianco, la quale voleva evitare una rissa: Megan era su una
sedia a rotelle, ma le aveva dimostrato più volte di sapersi
difendere.
“Non
era l'una”, ribatté Jack sorridendo: le partite
sue e di Megan si
protraevano per ore, ma qualche giorno
prima avevano deciso che arrivati alla mezzanotte avrebbero
continuato la mattina. Ovviamente prima di andare a letto
fotografavano entrambi la scacchiera: si fidavano l'uno dell'altra,
ma un po’ meno confidavano nel fatto che Mike avrebbe
lasciato i
pezzi nella stessa posizione, se si fosse svegliato durante la notte.
“Sono
convintissimo che fosse l'una”.
“All'una
russavi come un trombone, te lo posso assicurare”, si
intromise
Margaret, che ogni tanto si svegliava nel bel mezzo della notte a
causa del sonno leggero: il minimo rumore la portava ad aprire gli
occhi, a meno che non si fosse infilata nelle orecchie le sue
inseparabili cuffiette color bordeaux, meglio se con sottofondo
musicale.
“Io
non russo!” protestò Michele, indignato, mentre
tutti gli altri
scoppiavano a ridere. “Comunque, cambiando argomento, io non
ho
ancora fatto colazione”.
“Puoi
prendere i miei biscotti!” propose Megan, ma sul viso
dell'altro
comparve un'espressione disgustata.
“Faccio
a meno dei biscotti integrali, grazie”.
“Ingrato”.
“Salutista”.
“Ingordo”.
“Credo
che possa bastare. Mike, ti offro la colazione quando arriviamo a
Povo”, li interruppe Jack, il ‘giudice di
pace’ della
compagnia, mentre si infilava le scarpe nere. “Preparati che
andiamo”.
“Siamo
in ritardo?”, esclamò a quel punto l'altro,
mettendosi
sull'attenti: Jack abitava con lui da ormai tre anni, e quella frase
era da tempo entrata nella sua routine.
“Il
cinque parte tra dieci minuti”, lo informò Megan,
che non lo
conosceva ancora abbastanza bene da sapere che lui sapeva
già la
risposta alla sua domanda. Senza contare che non era mai stanca di
battibeccare con lui e che, non avendo altre particolari occupazioni,
aveva imparato l'orario a memoria.
“Stalker”,
borbottò Mike in risposta, mentre cercava il cappotto sotto
a quelli
dei coinquilini: a sorpresa ne trovò uno di colore giallo,
che
evidentemente non apparteneva a nessuno di loro, ma non se ne
curò
più di tanto.
Seguì
a ruota l'amico già scomparso sulle scale, e si chiuse la
porta alle
spalle con un tonfo.
“Ciao,
ragazze, ci vediamo questa sera. Divertitevi a lezione!”.
Margaret
scimmiottò la voce di un uomo con fare teatrale, rimarcando
il fatto
che i due amici non le avessero salutate, mentre Megan rideva in
risposta, gli occhi azzurri che scintillavano.
“Ragazzi,
benvenuti al corso di fisica nucleare e subnucleare”. Il
professor
Franconi, un
uomo
brizzolato e sulla quarantina, stava introducendo il suo corso,
gesticolando animatamente e rischiando di rovesciare la bottiglia
verde di vetro contenente mezzo litro di chinotto che aveva
appoggiata sul tavolo a fianco a lui. Si interruppe alla fine della
frase, alzando gli occhi verso l'ingresso dell’aula, dopo
aver
udito la porta aprirsi: due ragazzi, uno dalla pelle scura e pieno di
treccine tra i capelli e l'altro moro e caucasico,
entrarono cercando di fare meno confusione possibile, maledicendo il
fatto che le porte fossero in cima all’aula invece che in
fondo, e
sgattaiolarono fino al posto libero più vicino.
“Benvenuti
anche ai nuovi arrivati: prego, venite pure più avanti, qui
ci sono
ancora delle sedie libere”, commentò sorridendo:
si divertiva
troppo a veder trasalire i poveri malcapitati. Nonostante se lo fosse
ripromesso più volte, non riusciva a far finta di niente
come
facevano i suoi colleghi, né ad evitare le frecciatine
scherzose.
Jack
sbuffò e, mentre si accomodava nei posti indicati dal
professore
tirò una gomitata a Mike: odiava arrivare in ritardo, lo
portava a
dire addio al suo amato anonimato.
Soprattutto,
però, odiava ritardare a causa del suo adorato coinquilino,
il quale
era troppo lento per prendere il primo cinque e pretendeva
addirittura di fiondarsi in caffetteria: lo odiava, oh, se lo odiava!
“Questa
sera ti insegno a giocare a scacchi, allora”. Durante la
pausa
pranzo Margaret e Megan quel giorno avevano deciso di evitare la
mensa universitaria sovraffollata, optando per il panificio
“Sosi”
di Via Belenzani, che esponeva sempre delle focacce fantastiche, e in
quel momento erano sedute a mangiare sui gradoni
dell’imponente
Fontana del Nettuno, in Piazza Duomo, e davano le spalle alla
cattedrale.
“Questa
sera è il turno di Harry Potter”,
puntualizzò Margaret,
contraddicendo l'amica.
“È
vero! Tu sei l'unica persona sulla faccia della terra che non ha mai
giocato a scacchi né ha visto HP. Dovremmo sfrattarti: mi
chiedo
perché sei ancora mia amica”.
“Perché
ti spingo per tutta la città?” propose l'altra,
retorica, mentre
addentava un pezzo della sua focaccia alle cipolle.
“Giusto:
perché non ci ho pensato prima?!” risero assieme,
mentre i minuti
passavano e si avvicinava l'ora di entrare tra le quattro mura
dell'università. Risero assieme in quel soleggiato
pomeriggio di
fine settembre, perché tra amiche è piacevole
trascorrere il tempo
anche in quel modo.
Alcune
ore dopo, invece, Jack non rideva, perché era stato
costretto a
scendere troppe fermate dopo quella di Piazza Fiera. Il suo presunto
amico, infatti, nel bel mezzo della lezione si era improvvisamente
ricordato che non possedevano ancora una connessione WiFi nel loro
palazzo storico, così lo stava trascinando verso la
biblioteca di
Via Roma, quella all'incrocio con Via Belenzani, per recuperare il
Dvd da guardare quella sera.
Non
appena entrarono nel palazzo Jack scomparve tra gli scaffali di Sala
Manzoni, alla ricerca di un buon libro in cui potersi rifugiare prima
di addormentarsi, mentre Mike si avvicinò sorridendo alla
donna
bassa e sulla cinquantina che sedeva sul lato del bancone circolare
che dava verso l'ingresso.
“Salve…
Pamela!” esclamò solare, dopo aver letto il nome
della
bibliotecaria sul cartellino che portava appuntato alla camicetta
bianca: l'altra alzò lo sguardo dal libro che stava
sfogliando e
piegò le labbra verso l'alto.
“Buongiorno”,
gli rispose, mentre Mike osservava curioso la copertina del volume e
cercava di decifrarne il titolo.
“Astrologia”,
spiegò l'altra, notando il suo interesse.
“Wow.
Sono un ariete: che cosa può dirmi sul mio segno
zodiacale?”. In
risposta Pamela cominciò ad elencargli una sfilza di
informazioni,
parlando come una macchinetta ed interrompendosi solo a tratti per
occuparsi di prestiti e restituzioni. Ad un certo punto Mike perse il
filo del discorso, cogliendo parole strane come ascendente ed ora di
nascita, così si limitò ad annuire e a fornirle
le informazioni che
gli richiedeva: mezz'ora dopo uscì dall'edificio con un
libro
sottobraccio, mentre Jack lo derideva e gli sventolava davanti al
naso il primo film di Harry Potter, che si era ritrovato a dover
chiedere ad una donna giovane e bionda di nome Ilena, dopo che la
bibliotecaria seduta accanto a Pamela lo aveva indirizzato con fare
brusco dalle sue colleghe. Si era spazientito, ma ne era valsa la
pena: vedere l'espressione imbronciata di Mike, combinata alle sue
braccia incrociate, non aveva prezzo.
Angoletto
di Gio e Marghe:
benvenuti
nel nostro amato manicomio!
Solo
alcune precisazioni:
la storia è ambientata a Trento: i luoghi in cui vivono e si
muovono i personaggi sono esattamente quelli della città, e
anche eventuali personaggi "famosi" che nomineremo esistono realmente.
Al contrario, i personaggi sono solo frutto della nostra fantasia,
così come le situazioni in cui si vanno a cacciare.
Speriamo
che continuerete a seguire questi ragazzi un po' matti: se, poi,
deciderete di lasciarci anche una piccola recensione, ci renderete
molto felici :)
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Capitolo 2 *** Le serate al manicomio sono sempre sovraffollate ***
2.
Le serate al manicomio sono sempre sovraffollate
All’interno
uno di Corso Tre Novembre numero trentatré, piano interrato,
seconda porta a sinistra, era tutto molto silenzioso. Non che fosse
strano per quel piccolo appartamento. Infatti, preciso come un orologio
svizzero, o, meglio, come Jack Davies alla consegna di un compito,
Nicola Ferrari, dottorando all’Università di
Matematica di Trento, era concentratissimo nel guardare
l’ultimo episodio di
Agent of Shield,
uscito la sera prima negli Stati Uniti. Aveva aspettato quella puntata
per ben due settimane, in quanto, per ragioni a lui sconosciute, la
settimana prima la serie aveva fatto una pausa, quindi niente e nessuno
doveva distrarlo da essa! Ma proprio niente; per nessuna ragione si
doveva distrar-
TOC
TOC TOC TOC
Il
ragazzo fece un balzo sulla sedia e si perse la scena
fondamentale su cui verteva tutta la puntata.
“Abbiamo
preso il film, manchi quasi solo tu!” Sentendo la voce di
Mike provenire dal corridoio del piano si alzò di scatto,
tutto preso da una furia omicida. Interruppe il telefilm: lo avrebbe
riguardato tutto quella notte, una volta andato a letto. In due passi
raggiunse la porta e la spalancò di scatto.
“QUANTE
VOLTE TI HO DETTO DI NON BUSSARE QUATTRO VOLTE!”,
esordì. Mike riuscì a contenersi a stento dal
ridacchiare: ancora non aveva capito cosa avesse contro il numero
quattro, ma il fatto che lo innervosisse così tanto era per
lui troppo divertente.
“... Sei fortunato che oggi non ne ho voglia, ma la prossima
volta giuro che ti concio per le feste! Tanto che quando
avrò finito non ricorderai neanche il tuo nome. Ti rendi
conto che mi hai interrotto nel punto più bello? A volte mi
chiedo se non hai installato da qualche parte una telecamera nascosta
per spiarmi e scegliere il momento meno opportuno per
disturbarmi…” Man mano che lo sproloquio
continuava, la vena omicida svaniva, tanto che nel momento in cui li
raggiunse Jack, che si era fermato ad avvertire Rosa, che abitava al
piano terra, i toni erano così calmi che non c'era bisogno
che intervenisse. Non che ci fosse mai la necessità di
farlo: Nick era così magro che anche colpendo più
forte che poteva non avrebbe mosso Mike di un millimetro. Il ragazzo di
colore, infatti, era robusto e molto atletico, complici i mille
allenamenti di basket a cui prendeva parte fin da quando era piccolo.
“Allora
ti va di venire a fare cena più film?” chiese Jack
una volta che il ragazzo più grande ebbe finito.
“Basta che lui”, indicò con la testa
Mike. “Mi stia lontano”. Il ragazzo lo
guardò sorridendo innocentemente, come per dire:
ma se non faccio mai niente di male?
“Sarò un agnellino, parola di scout”,
rispose alzando il dito indice e medio nel segno della pace.
“Dai
andiamo, scout”, lo rimbeccò Jack incominciando a
salire le scale lì vicine.
Al
piano di sopra Megan e Margaret avevano appena incominciato a cucinare
quando la porta dell’appartamento si spalancò
facendo entrare Rosa, la ragazza spagnola in Erasmus che abitava al
piano seminterrato. Come a suo solito la giovane teneva tra le mani
Mima, il suo amato ukulele. La strimpellata velocissima tipica delle
musiche spagnole fece capire anche alle due cuoche
l’identità della nuova venuta.
“Ciao
ragazze! Como
estais?”.
Come al solito la sua entrata piena di vita non poté non
strappare un sorriso alle due ragazze.
“Molto
bene Rosa”, rispose Megan, mentre Margaret riprendeva il suo
ruolo di sbucciatrice di patate. “Vuoi aiutarci a
cucinare?”. La faccia che fece la ragazza in riposta
portò Megan, che ben prima di porre la domanda di rito era a
conoscenza del profondo odio che lei nutriva verso la sacra arte della
cucina, a scoppiare a ridere.
“Piuttosto preparo la
mesa”,
disse la Spagnola avviandosi verso i cassetti che ormai conosceva a
memoria. Proprio per questo suo odio la ragazza accettava ben
volentieri tutti gli inviti a cena dell’appartamento otto, e,
odiando non poter dare una mano ai fornelli, aiutava sempre ad
apparecchiare e sparecchiare, cosa che salvava sempre Mike, che di
solito era l’addetto al compito.
“Enrico
arriva stasera?”. Margaret lanciò
un’occhiata alla coinquilina: la divertiva il fatto che la
Spagnola fosse l’unica a chiamarlo con il suo nome, tranne
ovviamente sua madre. In più appena avrebbero detto al
ragazzo che Rosa aveva chiesto di lui, l’aspirante medico
avrebbe acquistato quel colore rosso scuro che alle due amiche piaceva
troppo.
“Sì,
anzi dovrebbe essere qui tra poco: il treno deve essere arrivato in
stazione da un po’ ormai”. Enrico, detto Henry,
Lagrande era probabilmente l’unico pazzo che avesse deciso di
prendere un appartamento a Trento pur frequentando
l’Università di medicina a Verona, per cui, tutte
le volte che aveva lezione, prendeva il treno o la sua inseparabile
Panda azzurra e scendeva, per poi tornare la sera. Aveva dato molte
motivazioni, sia ai suoi amici che ai suoi genitori, in merito a questa
scelta, ma nessuna aveva convinto del tutto nessuno: dopo tre anni,
però, sia gli uni che gli altri avevano rinunciato a
chiedere, facendosi ognuno la propria idea su quella scelta bizzarra.
Margaret non fece quasi tempo a finire la frase che la porta si
aprì di nuovo, lasciando entrare questa volta tutti e
quattro i ragazzi, che si erano incrociati subito prima della porta,
chi salendo dalle scale e chi, troppo pigro per farle, con
l’ascensore.
“È
mai possibile che non prendi mai le scale? Sei pigro da far paura Mr.
Medicus!”. Le ragazze sorrisero immaginando la scena senza
aver bisogno di vederla.
“Non
è vero! A volte le faccio!”, protestò
il biondo sistemandosi una ciocca che gli era arrivata davanti agli
occhi.
“Persino
Nick è meno pigro di te”, continuò
imperterrito l’altro come se non avesse sentito le parole
dell’amico.
“Rango,
zitto che tu ti lamenti per quel mezzo piano di scale a Povo che
dobbiamo fare di corsa perché
tu
non riesci ad essere puntuale la mattina”, si intromise Jack
ben sapendo che l’unico modo per interrompere il fiume di
prese in giro dell’amico era dargli pan per focaccia. Infatti
con un’ultima sghignazzata Mike la smise.
“Ciao ragazze, che preparate di buono?”. Nick
intanto aveva preceduto i tre litiganti in cucina e stava ispezionando
le padelle da cui usciva un ottimo profumino. Se non avesse sempre
avuto da recuperare qualche serie TV o da leggere qualche fumetto
probabilmente gli sarebbe anche piaciuto cucinare, invece che mangiare
sempre quei piatti pronti da riscaldare al microonde o una pasta con un
sugo già pronto.
“Megan mi ha insegnato a fare gli spätzle e come
contorno preparo un po’ di patate... Non è
tantissimo, ma per il film abbiamo comprato talmente tanti pop-corn che
ci basteranno per i prossimi dieci anni”, rispose Margaret
ridendo mentre continuava a fare il suo lavoro, cioè far
andare avanti e indietro lo strano strumento per fare gli
spätzle… Si trattava di una specie di grattugia,
che per quanto ne sapeva non aveva un nome.
“Ciao
Enrico”, salutò intanto Rosa vedendo Henry, il
quale arrossì subito.
“C-Ciao
Rosy, come va?”. Megan e Margaret non si perdevano una
parola, come fosse una delle loro
ship
dei telefilm. Purtroppo Jack e Mike non erano così
interessanti su quel fronte… Mike ogni tanto si trovava una
ragazza ma non durava mai molto, e soprattutto non riceveva mai
l’ok delle due coinquiline. Jack invece era il più
noioso: era carino come ragazzo, ma non sembrava interessato a trovarsi
una morosa; anzi quando loro provavano a chiedergli qualcosa in
proposto aveva la sfrontatezza di ribaltare la domanda!
Con suo disappunto Margaret scoprì che nel perdersi nei suoi
pensieri si era persa il piccolissimo scambio di battute di
quelli che lei definiva i “piccioncini” e, cosa
più importante, un’esclamazione di Jack, entrato
in quel momento, la portò a rendersi conto che se non avesse
raccolto i vari spätzle che incominciavano a riemergere
sarebbero rimasti con solo un po’ di patate e dei pop-corn
per cena.
Salvata quest’ultima pian piano arrivarono tutti per mettersi
a tavola. Sapevano di essere un appartamento un po’
particolare: non era da tutti cenare sempre tutti insieme e addirittura
invitare i propri vicini di casa, ma l’amicizia che si era
creata andava al di là di tutte le loro differenze e
così sembrava loro naturale farlo.
Mike
ripensò per un attimo all'anno prima, quando conviveva
solamente con Jack ed Enrico: cenavano assieme, ma preparavano
raramente qualcosa da mangiare tutti insieme. Senza contare che
vivevano a Povo, in un edificio abitato per lo più da
anziani e famiglie e, di conseguenza, non potevano festeggiare ed
invitavano raramente degli amici. Era stata una fortuna incontrare
Margaret, che era stanca delle sue coinquiline, e conoscere Megan, che
aveva trovato difficoltoso essere pendolare, nonostante vivesse in una
valle poco distante da Trento, a causa della sua sedia a rotelle. Si
erano trasferiti in uno stabile davvero fantastico e si erano resi
conto che senza la presenza delle donne negli anni precedenti era
mancato qualcosa alla convivenza.
Quella
sera Mike, come suo solito, fu il primo a finire, e così ne
approfittò per sistemare la stanza delle ragazze per il
film. Quella era la più grande dell’appartamento,
per cui si erano accordati per utilizzarla come cinema. Henry aveva
trovato a casa sua un proiettore che i suoi non usavano più
da anni, era vecchiotto ma serviva allo scopo: non avevano la TV, ma
quando volevano vedersi un film tutti insieme lo facevano in grande
stile.
Poco
dopo arrivò ad aiutarlo Nick, che non si fidava mai di quel
che faceva l’amico quando doveva armeggiare con
ciò che era nel suo campo di conoscenza.
Intanto nell’altra stanza le chiacchiere continuavano:
“Come
vi è sembrato ricominciare le lezioni?”, stava
chiedendo Margaret mangiandosi l’ultimo pezzetto di mela di
Jack, che in tutta riposta la guardò male.
“Mi
sono reso conto di aver già visto il professore di fisica
subnucleare, ma non riesco bene a capire dove”, disse alzando
le spalle. “E Mike mi ha fatto fare la brutta figura di
entrare in ritardo proprio con lui”, aggiunse facendo
sorridere gli altri alla vista della sua faccia rassegnata.
“Io e Margaret alla fine iniziamo domani”. Megan
incominciò a sbloccare le ruote della sua sedia avendo visto
Mike in corridoio: probabilmente avevano ultimato i preparativi.
“L’unico prof. che dovevamo avere oggi
non c’era per qualche ragione”.
“Così
ci siamo date allo shopping sfrenato”, intervenne Margaret.
“O almeno volevamo, ma essendo povere universitarie ci siamo
limitate a sbavare davanti alle vetrine”. Le ragazze risero
mentre Jack e Henry si guardavano perplessi. Fu Mike a salvarli:
infatti, come aveva pensato Megan, tutto era pronto per iniziare; alla
fine della serata anche Margaret sarebbe diventata cosciente di essere
una babbana.
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Capitolo 3 *** La mattina, invece, in manicomio son tutti pigri. O quasi. ***
3.
La mattina, invece, in manicomio son tutti pigri. O quasi.
Nel
silenzio della notte si udivano solamente i passi di Jack, che,
nonostante tentassero di essere felpati, facevano scricchiolare le assi
del pavimento in legno. Mentre raggiungeva la cucina, però,
il giovane si rese conto del fatto che un altro suono risuonava
nell’appartamento: quello di un ukulele. Di conseguenza, si
lasciò sfuggire una breve risata soffocata,
perché la Spagnola era davvero strana, poi notò
che la luce filtrava sotto alla porta socchiusa del soggiorno: curioso,
la aprì con cautela, e trovò l’ultima
persona che si aspettava di incrociare alle cinque e mezza del mattino.
Megan era seduta sul divano viola in pelle, le gambe stese sulla
lunghezza, la sedia a rotelle di fianco a lei, e gli dava le spalle:
mentre osservava la sua massa informe di capelli rossi, Jack
udì il lieve fruscio della carta che veniva mossa, e si
chiese che libro stesse leggendo.
"Ehi,
già sveglia?", le domandò invece in un sussurro,
e la notò sussultare lievemente al suono inaspettato della
sua voce.
“Già,
Miss Spagna ha rotto con quella chitarra”,
borbottò, nascondendogli il reale motivo del suo essere
alzata all'alba: le gambe le davano dei lancinanti dolori fantasma;
oltre al danno, la beffa!
"È
un ukulele”, puntualizzò Jack, mentre l'altra
roteava gli occhi per la sua pignoleria. "Strano che Margaret non si
sia svegliata”, osservò poi il ragazzo.
"Ha
le cuffie ed una musica molto rock a tutto volume: non sentirebbe
neppure lo scoppio della bomba atomica", gli spiegò Megan,
ricordando lo sgradevole insieme di rumori che l'aveva accolta non
appena si era svegliata.
"Potresti
evitare di parlare di nucleare e simili?", le chiese Jack in risposta,
mentre lei lo guardava alzando un sopracciglio, interrogativa.
“Diciamo
che il corso di fisica nucleare mi sta uscendo dalle
orecchie”, puntualizzò lui, grattandosi il collo
all'altezza dell'attaccatura dei capelli.
"Ricevuto.
Vuoi sederti?" gli chiese lei a quel punto, sorridendo e non appena
notò la testa inclinata del coinquilino si
affrettò ad aggiungere. "Se mi passi il cuscino che sta in
fondo al divano alzo le gambe, così ci stai". In risposta
lui annuì, ubbidendo ai suoi ordini, ma successivamente si
rese conto del fatto che si sentiva decisamente a disagio seduto
accanto ad una ragazza che quasi non conosceva: era strano come ci si
potesse sentire estranei pur vivendo nello stesso appartamento e
giocando a scacchi assieme. Si voltò per chiederle che cosa
stesse leggendo, tanto per rompere il silenzio imbarazzante che si era
creato, ma notò che lei stava disegnando: un mandala
colorato troneggiava sul foglio bianco, perfettamente geometrico. Si
lasciò sfuggire un fischio di ammirazione, ed in risposta
lei alzò lo sguardo, interrogativa: i suoi occhi blu lo
trafissero da parte a parte.
"Sei
brava", le spiegò, indicando il foglio con un cenno del
capo. Lei sorrise, ma gli sembrò lievemente amareggiata:
"Prima
dell'incidente ero una frana”.
"Oh”,
ecco, la paralisi di Megan non era un argomento che lo metteva
propriamente a suo agio. Avrebbe voluto chiederle qualcosa in
proposito, ma aveva il timore di risultare sgarbato: diamine, non
sapeva come comportarsi! Percepì le sue guance andare a
fuoco, mentre la ragazza scoppiava a ridere.
“Se
vuoi sapere qualcosa basta chiedere”, osservò:
ormai era piuttosto abile a notare quando la sua paralisi causava
disagio nelle persone. Lo guardò scuotere la testa, ma
cominciò ugualmente a parlare:
“Sono
paraplegica da quando avevo sedici anni: incidente d’auto.
Sono paralizzata all’altezza della vertebra sacrale L4, il
che significa che poteva andarmi molto peggio: non sento nulla solo da
qui in giù”, spiegò, portando entrambe
le mani all’altezza della metà dei suoi glutei.
“Quasi nulla, a dire la verità: quando qualcuno fa
una forte pressione a volte lo sento. E nei giorni buoni riesco anche a
muovere le dita dei piedi: è divertente”. Rise
brevemente, e Jack non poté fare a meno di chiedersi come
facesse a parlare della sua paralisi con tale facilità:
nonostante tutto, però, grazie a quel discorso cominciava a
sentirsi meno a disagio.
“Quindi
questo non lo senti?” le chiese, premendo il dito indice
sulla sua caviglia.
“No.
Però evita di pestarmi i piedi, perché anche se
non li sento potrebbe venirmi fuori un’emorragia o qualcosa
di simile”. Rise nuovamente, e quella volta il fisico rise
con lei.
Poco
dopo, però, si alzò in piedi.
“Dove
scappi?” gli chiese lei, curiosa.
“Scusa,
esco a farmi una corsa: a partire dalle otto sono reperibile in
caserma, quindi devo andare presto”.
“Aspetta,
quindi tu hai messo la sveglia per alzarti a
quest’ora?!” Megan lo guardò come se
fosse impazzito.
“Già”,
ribatté lui, sorridendo.
“Posso
venire con te? Prometto che non sarò di intralcio”.
Alcune
ore dopo Margaret stava percorrendo il corridoio: mentre sbadigliava
alzò le braccia sopra alla testa, stiracchiandosi. Il suono
di un ukulele accompagnava il suo cammino verso la cucina e arrivata
lì trovò Mike, seduto sulla panca
nell’angolo di fronte alla porta, con il giornale aperto sul
tavolo davanti a lui e una tazza piena di caffellatte tra le mani. Di
fianco a lui sedeva Nicola e stavano gridando qualcosa di
incomprensibile riguardo ad un film a lei sconosciuto. Beh, non era
difficile che lei non conoscesse un film: almeno ora quando si parlava
di Harry Potter riusciva a sostenere la conversazione, dato che in due
settimane aveva visto tutti i film assieme agli amici. Avevano concluso
l’ultimo all’una e mezza di quella notte.
“Buongiorno,
ragazzi”. Ormai il fatto che al tavolo della cucina ci fosse
gente che non viveva nel suo appartamento non la stupiva più.
“Ciao!”
esclamò il dottorando, alzando gli occhi, mentre Michele
borbottava un “Buongiorno” distratto. Quando
sollevò anche lui il capo, però, quasi
scoppiò a ridere, perché Margaret indossava un
pigiama davvero buffo: era rosa con dei coniglietti in rilievo sulla
maglia, il che per lei era decisamente insolito. Non ricordava di
averla mai vista intenerirsi per un animaletto, da bambina.
“Conigli?”,
osservò, alzando un sopracciglio.
“Sì,
conigli: qualche problema?!”.
“No,
semplicemente non ricordavo che ti piacessero”.
“Invece
li adoro”, obiettò.
“Scusa
se nel mio ultimo ricordo ci sei tu con due trecce disordinate, un
enorme cappellino da baseball in testa, gli abiti di tuo fratello
indosso e un bastone in mano”, si giustificò.
Dall’altro lato, nominando la loro infanzia, sperava di
essere perdonato: Margaret si scioglieva sempre quando la ricordava. Da
bambini erano stati vicini di casa: avevano incominciato assieme il
corso di basket, quando lei era in prima elementare e lui in seconda,
avevano trascorso assieme ogni pomeriggio libero, e spesso la sera lei
entrava di soppiatto dalla finestra della camera di lui per una
battaglia con i cuscini. Avevano pianto entrambi lacrime amare quando,
a dieci anni lui si era dovuto trasferire vicino a Brescia a causa del
lavoro dei suoi e quasi altrettante ne avevano versate quando
l’anno prima si erano ritrovati per caso in stazione.
“Ok,
messaggio recepito”, borbottò lei, ma presto si
illuminò. “Potremmo comprare un
coniglio!”.
“Io
sono allergico”,commentò Henry, comparendo in quel
momento.
“Allora
una tartaruga”.
“Ne
ho il terrore”.
Margaret
sbuffò.
“Facciamo
che mi prendo quello che voglio e tu ti trasferisci da Nick?”.
“Anche
io ho paura delle tartarughe”, commentò a quel
punto Nicola.
“Ha
guardato troppe volte
Tartarughe Ninja”,
lo giustificò Mike, portandola a sorridere per un attimo, ma
beccandosi una gomitata nelle costole.
“Seriamente,
non puoi
bannarmi
da casa vostra, sennò quando Miss. Ukulele suona il suo
arnese come sopravvivo se non mi rifugio al piano
superiore?!”, osservò l'inquilino del piano
interrato, apparentemente disperato.
“Ti
metti un paio delle tue cuffie enormi”, propose Mike, ma
quando sia Henry che Nick gli lanciarono un’occhiataccia si
rese conto conto che con quelle parole sembrava essere passato dalla
parte di Margaret, il che non era del tutto vero.
“Trovato!”.
Il grido della mora lo portò a sussultare.
“Compriamo un gufo!”.
“Un
gufo”, ripeté Michele, pacato, chiedendosi che
cosa avesse in mente. “Sai che i gufi non vivono negli
appartamenti, vero?” continuò, mentre udiva la
porta dell’ingresso sbattere.
“Sarebbe
utile per mandarci i messaggi da un piano
all’altro”, esclamò la ragazza, felice
per la sua trovata.
“Che
cosa?” la voce di Megan li raggiunse.
“Un
gufo”, le spiegò la compagna di corso, mentre lei
compariva in cucina.
“Figo.
Lo troviamo su e-bay?”.
“Sì,
e io sono Silente”, borbottò Mike in risposta,
tentando di dissuaderle da quell’assurda idea, ma le due
erano già scomparse in camera, alla ricerca del PC di
Margaret, sepolto sotto metri e metri di vestiti.
Il
ragazzo dalla pelle scura sospirò, poi fissò la
tazza e alzò il dito indice:
“Wingardium
leviosà!”, esclamò, e subito la voce di
Margaret lo rimproverò. “È
leviòsa, non leviosà!”.
Lui
sorrise, poi scavalcò il tavolo, lasciò la tazza
nel lavello e raggiunse l'amica in corridoio, ma incrociò
solamente Jack in tenuta da corsa:
“Sei
ancora in pigiama?! Hai il tempo che impiego per farmi una doccia per
renderti presentabile!”.
“Ho
un appuntamento?”, chiese dopo qualche secondo
l’altro, mentre si domandava dove diavolo dovesse recarsi il
sabato mattina alle sette e mezza. Si beccò uno
scappellotto, e subito spalancò gli occhi, perché
ricordò che il sabato alle otto aveva il turno alla centrale
dei pompieri come volontario.
“Dove
vai?”, gli chiese Margaret quindici minuti dopo, notandolo
vestito.
“Pompieri”,
spiegò, mentre infilava le scarpe.
“E
il basket? Mi avevi promesso che andavamo al campo questo
pomeriggio”. Sospirò, amareggiata, mentre lui si
batteva una mano in fronte, dandosi dello stupido: odiava deluderla da
quando erano alti un metro e due tappi, ma era troppo sbadato per
ricordarsi tutto.
“Domani.
Promesso, domani sono a casa”, tentò di rimediare.
A
quelle parole lei annuì sorridendo e ritornò a
cercare gufi su e-bay.
Due parole della Marghe e della Gio:
ci chiedevamo se la storia stesse piacendo a qualcuno... ce lo fareste
sapere? :)
alla prossima settimana!
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Capitolo 4 *** In manicomio è permessa anche l'ora d'aria ***
4.
In manicomio
è permessa anche l'ora d'aria
Come
promesso il giorno prima, nel pomeriggio di domenica Mike e Margaret
erano sul campetto di basket all’aperto in piazza Venezia.
Con loro c’erano anche Megan e Jack: la prima assisteva a
tutte le sfide dei due e ne teneva il conto, mentre il secondo aveva
semplicemente voglia di prendere una boccata d’aria.
“Mi chiedo perché facciano queste
sfide”, commentò il ragazzo mentre osservava i due
giocatori prepararsi. “Mike è più forte
di Margaret, oltre al fatto che è molto più alto
di lei e più grosso, gioca a basket da
sempre…”. Megan scosse la testa.
“Primo:
anche la Marghe ha sempre giocato, secondo: Mike è molto
più lento di lei per via della sua stazza”. La
ragazza allargò le braccia e gonfiò le guance
facendo ridere Jack. “Non li hai mai visti giocare,
vero?”, chiese con l’aria da esperta. Jack scosse
la testa: era la prima volta che assisteva ad una delle famose sfide di
basket, anche se a volte era andato a vedere Mike giocare con la sua
squadra. “Si sfidano fin da quando erano piccoli, quindi
Margaret conosce bene come gioca Mike e questo rende meno scontata la
faccenda. Questo dovrebbe valere anche per Rango, ma a quanto pare
avvantaggia di più Marga”. Megan fece spallucce
per far capire che non aveva la più pallida idea di
perché fosse così, poi aggiunse. “E
poi…”, abbassò la voce.
“...Credo che Mike, per qualche ragione, ci vada leggero con
lei, mentre lei ci mette tutta sé stessa”.
“Leggero?”,
si stupì Jack abbassando anche lui la voce. Megan
annuì.
“Non
che non voglia vincere… Se dovessi dare una ragione forse
è perché essendo grande e grosso ha paura di far
male a Margaret, mentre lei non ha questo problema”. Jack
riportò lo sguardo ai due che si stavano scaldando
soppesando le parole dell’amica: in parte era
d’accordo, ma non lo convincevano del tutto. Strinse le
spalle arrivando alla conclusione che non lo avrebbe mai scoperto:
magari lo avrebbe chiesto dopo a Mike. Pensi al diavolo e ne spuntano
le corna, proprio in quel momento il giovane gli gridò di
passargli la palla, cosa che prontamente fece.
Si
sistemarono davanti al canestro fuori dalla linea dei tre punti.
Toccava a Margaret partire quella volta così Mike le
passò la palla e si mise in posizione di difesa.
“Pronto
ad essere battuto come un
bocia
alle prime armi?”, chiese lei sorridendogli. Il ragazzo la
guardò sorpreso.
“Come
chi, scusa?”. Approfittando della sua momentanea distrazione
Margaret partì velocemente battendolo al primo passo e
andando a fare il suo primo canestro senza che Mike potesse fare niente.
“Bocia.
Vuol dire ragazzino, me lo ha insegnato Megan”, rise lei
mentre riprendeva la posizione in attacco, essendoci la regola di
chi segna regna.
“Giochi
sporco, lo hai detto apposta per farmi distrarre”,
borbottò lui ripromettendosi di non farsi più
ingannare da lei.
“Ok,
ho capito cosa intendevi. Margaret usa questo”. Jack si
toccò la tempia mentre Megan annuiva per poi scoppiare a
ridere.
“È
divertente perché Mike ci casca sempre”,
spiegò, così anche Jack scoppiò a
ridere.
Ma
quella volta era destino finisse male per la ragazza, infatti Rango si
sentiva molto carico e, una volta conquistata la palla,
incominciò a segnare sia dentro che fuori
dall’area qualsiasi cosa facesse la sua avversaria.
“Avevi
le mani calde oggi”, commentò Margaret con il
fiatone, dopo che Mike aveva segnato la tripla che chiudeva
l’incontro.
“Esatto”. Mike prese la palla e se la fece girare
su un dito. “Ormai ti sto lasciando indietro!”,
aggiunse facendole la lingua.
“Mi
dispiace ma non è vero”. Megan entrò in
campo arrivando vicino a loro con un sola spinta sulle ruote.
“Prima di questa partita eravate pari, per cui ti distanzi
solo di uno”. Tirò fuori il suo taccuino
mostrandolo a Mike, che la guardava deluso e scettico allo stesso tempo.
“Sai
amico mio, dovresti venire ogni tanto con me a farti qualche vasca di
nuoto…”, intervenne anche Jack. “Un
attimo e avevi già la lingua a terra, ci mancava solo che ci
inciampassi sopra”. Tutti tranne il diretto interessato, che
lo guardò male, scoppiarono a ridere.
“...Non
puoi offendere Dada e poi pensare di passarla liscia”.
“Non
lo sto offendendo, dico solo che ha un tiro inguardabile”.
“Posso
venirti incontro e dirti che ha un tiro particolare…
Però li mette ed è questo
l’importante!”. Mentre passeggiavano più
o meno verso la strada di casa, Jack si stava quasi pentendo di essere
andato a vederli giocare al parco. Infatti, i due non avevano smesso un
attimo di parlare di basket. In particolare si concentravano sulla
squadra di Trento, che da quando si erano trasferiti li aveva
conquistati quasi quanto la “loro”
Tezenis Verona.
Margaret in particolare si era fissata su uno dei giocatori: un certo
Davide Pascolo detto Dada, che a quanto pare era davvero forte
nonostante il suo aspetto non del tutto aggraziato.
“Che
ne dite di un gelato da
Peterle?”,
chiese il castano, cercando di cambiare discorso. Nonostante fosse
già ottobre il tempo si manteneva inaspettatamente caldo
durante il giorno, per cui era ancora possibile godersi un buon gelato.
Gli occhi di Megan si illuminarono, sia perché anche lei era
ormai stufa dei discorsi dei due cestisti sia perché
l’idea del gelato le aveva fatto venire voglia di cioccolato
e pistacchio, che a suo parere l’ormai famosa gelateria
Peterle
preparava divinamente.
“Ci
sta, il meritato premio per la mia vittoria”,
commentò Mike gonfiando il petto. Margaret non perse la
propria occasione e lo colpì alla pancia scoperta facendolo
piegare con uno sbuffo.
“Mangia,
mangia, che alla prossima non vedrai neanche il canestro!”.
Il ragazzo la guardò male mentre si raddrizzava tenendosi la
pancia.
“Facciamo
che l’ultimo che arriva paga per tutti?”, chiese
Jack incominciando a correre spingendo la carrozzina di Megan. Gli
altri due, dopo un secondo di sorpresa, gli corsero dietro. Nonostante
Jack avesse l’ostacolo di portare anche la sedia a rotelle si
vedeva che andava a correre tutti i giorni e così vinse
quella piccola gara. Margaret arrivò poco dopo subito
seguita da Mike, il quale aveva reagito un attimo più tardi
della ragazza alla sfida dell’amico e poi, complice anche la
sua corporatura massiccia che lo rendeva più lento, non era
riuscito a superarla.
Qualche
minuto dopo i quattro stavano tornando finalmente verso casa, ognuno
con il proprio gelato in mano: yogurt e nocciola per Mike, cioccolato e
pistacchio per Megan, due palline di stracciatella per Margaret e il
classico fragola e limone per Jack.
Arrivati
vicino incrociarono Henry che usciva in quel momento: una volta che li
ebbe notati, e soprattutto ebbe notato ciò che stavano
finendo, li guardò male.
“Avete
preso il gelato senza di me!”, li accusò mettendo
il broncio. Jack, che era il più vicino, gli
scompigliò i lunghi capelli biondi beccandosi una seconda
occhiataccia.
“Povero
piccolo”, aggiunse Mike aggiudicandosi la terza.
“Cosa ti ha portato a mettere in pausa i tuoi
studi?”. Henry veniva spesso preso in giro dagli altri per la
mole di studio che aveva fin da subito e che a volte lo costringeva in
casa per tutto il giorno nonostante non fosse in sessione.
“Sta
per finire il caffè, pensavo di andarne a comprare
dell’altro”. Mike gli saltò addosso
abbracciandolo, cogliendolo di sorpresa.
“Questo è il mio uomo!”,
urlò. “Ti posso dire che ti adoro? Non so come
vivrei senza caffeina”. Tutti, nessuno escluso, risero: in
effetti il loro amico si poteva definire
caffeinomane.
“Si, si, ok, ora lasciami che mi stai soffocando”:
Mike lo lasciò andare dal suo abbraccio stritolatore.
“Vengo
con te”, si propose Jack. “Devo comprare due
quaderni per gli appunti”. Lanciò
un’occhiata al suo compagno di corso come per suggerirgli che
sarebbero serviti anche a lui e Mike, recepito il messaggio,
sbuffò.
“Non
è che me li puoi comprare tu? Ti restituisco tutto
dopo”, chiese guardandolo supplichevole. Jack
sospirò: ogni volta era la stessa storia. “Ok, ma
è l’ultima volta”, lo ammonì
per poi schivare sapientemente il suo abbraccio stritolatore. Poi lui e
Henry si avviarono. Gli altri invece salirono in casa incrociando sulla
porta Nick, la maglietta del quale quel giorno diceva:
le petit hobbit.
Per una volta era facile capire la citazione filmica/letteraria, chiaro
il riferimento al Piccolo principe e al Signore degli Anelli, con il
piccolo mondo e lo
Hobbit
disegnati nel caratteristico stile dei disegni del libro di de
Saint-Exupèry.
“Bella
la mia nuova maglietta, vero?”, disse con un sorriso enorme
prima di sorpassarli per uscire. I tre ragazzi si guardarono un secondo
prima di scoppiare a ridere. Quante magliette
Nerd
aveva il loro vicino? Probabilmente nel suo armadio c’erano
solo quelle perché da quando lo avevano conosciuto non lo
avevano mai visto indossare niente di diverso.
Alle
sette della mattina successiva Jack era già pronto per
uscire per andare a correre. Uscì piano della stanza per non
svegliare Mike, anche se il suo amico aveva un sonno così
pesante che non lo avrebbe svegliato neanche se fosse uscito suonando
una tromba a pieni polmoni. Sul corridoio, con sua sorpresa, lo
trovò ad aspettarlo Megan.
“Che
ci fai sveglia?”, le sussurrò incominciando a
cercare nello sgabuzzino le scarpe da corsa.
“Posso
venire con te a correre?”, chiese la ragazza, allo sguardo
stupito dell’altro sbuffò.
“Accompagnarti, non correre anche io! Prometto che me ne
starò buona come l’altra volta”,
aggiunse facendo gli occhioni dolci, Jack soffocò una risata
e annuì.
Era
ormai diventata una mania quello sguardo?
“Ok,
va bene. Ero solo stupito, già dicono che sono strano io che
mi alzo presto per andare a correre… Però tu mi
batti: ti alzi presto per vedere correre qualcun altro”. Jack
si infilò le scarpe mentre Megan, alzando le spalle per
quello che lui aveva detto, incominciava già ad uscire per
chiamare l’ascensore.
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Capitolo 5 *** In manicomio l’ukulele onnisuonante cessa (temporaneamente?) la sua attività ***
5.
In manicomio l’ukulele onnisuonante cessa (temporaneamente?)
la sua
attività
“Tre
minuti e trentaquattro secondi: stai diventando bravo,
Jackie”. La
voce di Megan risuonò nel parco confinante con il teatro
Santa
Chiara, mentre l'interessato era fermo a pochi metri da lei, con le
mani sulle ginocchia leggermente piegate e il viso arrossato nascosto
perché rivolto verso il terreno: il suo respiro ansante si
udiva
distintamente anche dalla cima del pino che lo copriva con la sua
ombra. Un chilometro di corsa veloce pesava anche ad uno sportivo
come lui.
“Non
chiamarmi Jackie”, riuscì a sussurrare, anche se a
fatica, alzando
il viso e fulminando la coinquilina con lo sguardo.
“Non
sei molto credibile in quelle condizioni, sai?”,
osservò lei in
risposta, raddrizzando gli occhiali quadrati con il dito indice.
“Comunque
sei andato bene”. Teneva i suoi tempi ormai da una settimana
e
mezza: assistere ai suoi allenamenti mattutini e prenderne nota era
ormai diventato un passatempo al pari del disegno e del tenere il
conto delle vittorie di Mike e Marghe.
“Ora,
però, prova a prendermi!”. Rise, mentre metteva
forza nelle
braccia e si allontanava, e poco dopo udì i passi del
corridore
cominciare a muoversi: ormai Megan aveva compreso che era un tipo
competitivo, così ne approfittava per divertirsi un poco.
Nonostante
lui fosse sfinito, trascorsero solamente pochi secondi prima che la
raggiungesse ed afferrasse le maniglie della sua sedia a rotelle,
bloccandola di colpo.
“Ehi,
non vale!”, protestò lei, come sempre.
“Sì
che vale”, obiettò Jack, mentre cominciava a
spingerla verso
l'uscita del parco.
“Ok,
ma lasciami, che so cavarmela da sola!”. Quando si trovava
solamente con un'altra persona la infastidiva essere spinta:
preferiva girare le ruote con le mani e camminare fianco a fianco.
Eccetto che con Marghe, ma solamente perché lei era bassetta
e, di
conseguenza, non occorreva urlare perché si udissero.
“Ok,
capo”, rise brevemente lui, affiancandosi a Megan.
“Devo ancora
capire perché non ti compri una sedia elettrica”.
“Perché
costa?”, ribatté lei, ironica, ma si rese presto
conto di essersi
comportata in modo eccessivamente brusco. “E poi devo pur
muovermi,
no? Prima avevo i muscoli delle braccia davvero flosci!”.
“Touché”.
Megan
osservò il suo coinquilino fare un bel sorriso, solo per poi
notare
quest’ultimo congelarsi sul suo volto. Seguì il
suo sguardo e vide
che stava fissando un uomo alto e distinto, tranne che per uno
zainetto rosa che portava sulla spalla, sicuramente di
proprietà
della bambina che saltellava allegramente accanto a lui cercando di
seguire la sua lunga falcata. Non era la prima volta che lo
incrociavano e Jack le aveva spiegato che era il suo professore di
fisica subnucleare, un certo Franconi, che lui stimava molto. Jack
però faceva sempre il timido, così spesso
ritardava o anticipava il
rientro a casa per non doverlo incrociare: una volta si era divertita
un mondo perché Jack l’aveva costretta a
nascondersi dietro ad un
cespuglio! Megan, che aveva imparato a conoscere il ragazzo in quelle
mattinate passate insieme, sospettava che Jack odiasse mettersi in
mostra tanto quanto Mike lo adorava, e incrociare il proprio
professore ogni mattina gli avrebbe tolto l’anonimato che
stare in
gruppo gli dava.
“Professor
Franconi, buongiorno”, lo salutò educatamente,
quando giunse a
pochi metri di distanza da lui, esattamente sotto al cartellino con
il numero trentatré stampato sopra.
“Signor
Davies, buongiorno”, sorrise lui facendogli capire che ormai
l’anonimato se ne era andato da tempo: Jack era molto sveglio
e
Megan sospettava che in aula non si facesse problemi a fare domande,
rendendosi, senza rendersene veramente conto, visibile. Ma
l’uso
del cognome la portò anche ad incuriosirsi:era raro infatti
che un
professore ricordasse il nome di uno studente in particolare.
“E
anche a Lei, Signorina”. Megan gli fece un cenno del capo,
mentre
notava una bambina nascondersi dietro alle gambe dell'uomo, accanto
ad una busta di plastica in cui, tra il resto, si intravedevano delle
bottiglie verdi.
“Ciao,
piccola”, la salutò, allegra, e notò i
suoi due occhietti
spuntare e fissarla intensamente.
“Su,
Luciana, saluta i ragazzi: non ti mangiano mica!”, la riprese
bonariamente suo padre. “È timida”,
aggiunse, quando notò che
la figlia non si sarebbe mossa di un millimetro.
“Abitate
qui nei dintorni anche voi?”, chiese poi, cambiando
argomento,
mentre il suono di un ukulele cominciava ad udirsi fin sulla strada.
“Già”,
rispose Megan, sorridendo, senza rivelare la precisa ubicazione del
loro appartamento.
“Quindi
sentite anche voi questo strazio tutti i santi giorni!”,
esclamò,
e ai due ragazzi occorsero alcuni secondi per comprendere a che cosa
si riferisse: lo capì per primo Jack, che si
voltò verso la
coinquilina con sguardo d'intesa. Scoppiarono a ridere all'istante.
“Non
è brutta!”, intervenne intanto Luciana, con la
vocina acuta tipica
dei bambini di sei anni.
“Oh,
sì”, la contrariò bonariamente il
professore. “Deve trattarsi
di uno studente”.
Megan
annuì lentamente. “Si tratta si una studentessa
spagnola”,
spiegò.
“Lo
sapevo! Maledetti Spagnoli e i loro ukulele!”,
borbottò, mentre
gli altri tre provavano a trattenere una risata: la bimba
scoppiò
poco dopo, ma per loro fortuna gli altri due riuscirono ad evitare la
figuraccia.
“Quanto
vorrei che le si staccasse una corda!”, continuò
intanto il
Franconi, imperterrito.
“Anche
noi…”, sussurrò Jack in risposta.
Il
professore, però, possedeva un udito molto sviluppato.
“Aha! Non
sono l'unico!”, esclamò, vittorioso, mentre
l’ukulele cessava
bruscamente la sua attività: si sentì il rumore
di una corda
saltata, seguita da un urlo agghiacciante.
Franconi,
Jack e Megan si guardarono per un attimo senza parlare, sentendosi
anche un po’ in colpa: era davvero possibile rompere qualcosa
con
la sola forza del pensiero?
“Bene,
ragazzi, vi saluto: vado ad accompagnare mia figlia a scuola: ci
vediamo dopo, Davies, non ritardi!”, ruppe il silenzio poco
dopo
l'uomo, ma prima di allontanarsi si avvicinò all'orecchio di
Jack.
“Comunque, è una bella ragazza: complimenti per la
scelta!”.
Jack
divenne del colore della sua camicia preferita, mentre il professore
si allontanava e Megan ridacchiava.
“Non
stiamo insieme!”, chiarì lei, rivolta a Franconi.
“No?
Beh, è un vero peccato”. commentò lui,
senza voltarsi e
continuando a camminare, per poi alzare un braccio in segno di
saluto.
Quando
rientrarono in casa vennero travolti da un uragano: le urla
incomprensibili di Rosa, che parlava in spagnolo troppo velocemente
perché chiunque potesse comprenderla, si udivano anche
nell'ingresso.
Jack
immaginò Nicola ridacchiare divertito mentre si immaginava
la scena
spaparanzato sul divano del piano interrato, felice perché
non
abitava nell'interno otto e perché l’ukulele era
stato messo a
tacere: probabilmente presto si sarebbe messo a guardare NCIS.
“Necesito
una cordita, non una cana
da pesca!”.
Jack
udì Megan, che era entrata in soggiorno, ridacchiare mentre
dava una
gomitata a Margaret, che invece stava roteando gli occhi. Quando
giunse anche lui nella stanza ne comprese il motivo: Michele era in
piedi proprio al centro dell’uragano, cioè davanti
alla Spagnola,
e brandiva tra le mani un rocchetto di filo di nylon, con
un’espressione vittoriosa stampata sul volto. Rosa, invece,
gli
stava urlando contro, mentre Henry le era vicino, una mano sul suo
braccio, il viso rosso come il mantello di un toreador,
e le
sussurrava alcune parole in spagnolo all'orecchio, nel tentativo di
calmarla per evitare lo scoppio della terza guerra mondiale.
“A
Rosa si è rotta una corda”, gli spiegò
Margaret non appena Jack
si fu seduto sul divano accanto a lei.
“Lo
so. Tu, invece, ti godi lo spettacolo”.
“Non
mi sembra che tu stia intervenendo”.
“Touché”.
Ad
un tratto, tutto tacque.
Gli
occhi dei quattro coinquilini di Enrico si spalancarono increduli
mentre Rosa gli gettava le braccia al collo e gli stampava un braccio
sulla guancia; subito dopo la giovane corse fuori, lasciando Mr.
Medicus a boccheggiare con una mano che sfiorava il punto in
cui
la Spagnola gli aveva lasciato lo stampo del rossetto.
Presto,
però, si riprese, e rispose con un'occhiataccia agli sguardi
interrogativi dei suoi amici, per poi allontanarsi.
“Beh?”,
esclamò Mike, indignato, mentre lo ricorreva. “Che
è successo?”.
“Nulla”,
borbottò l'altro, ma compì l'errore di voltarsi:
lo sguardo
supplichevole del giovane lo raggiunse. Sbuffò, poi
lanciò uno
sguardo verso il soggiorno, sbagliando nuovamente: anche le ragazze
lo guardarono piene di curiosità. Fu solo quando
notò gli occhi
fintamente disinteressati di Jack che decise di rivelare l'accaduto.
Il moro era suo amico da quando avevano quattordici anni, dall'anno
in cui lui si era trasferito a Bressanone, Alto Adige, città
di
provenienza del padre, da un paesino vicino a Londra, patria della
madre. Avevano frequentato assieme buona parte della scuola
superiore, erano diventati molto amici e ormai comprendevano quando
l'altro era curioso o preoccupato, così finivano per
rivelarsi
tutto: poco male se a volte c'erano persone moleste attorno,
soprattutto se si trattava di un argomento che a breve sarebbe stato
comunque sulla bocca di tutti.
“Le
ho proposto di venire con me giù a Verona oggi pomeriggio
per
cercare una corda”.
“Occorre
andare fino a Verona?!”. esclamò Margaret, ma lui
non fece in
tempo a risponderle, perché la pacca sulla spalla che
ricevette da
Mike gli tolse il fiato.
“E
bravo Mr. Medicus,
allora non
sei proprio irrecuperabile!”.
Forse
no, non era irrecuperabile, ma la mattina dopo, quando Rosa
piombò
nell'interno otto puntandogli un dito contro accusandolo di averle
rubato la sua querida Mima, Henry
ricordò improvvisamente
perché di solito preferiva lo studio alle ragazze.
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Capitolo 6 *** Chi è talmente pazzo da rubare ad una pazza il suo strumento di follia? ***
6.
Chi è talmente pazzo da rubare ad una pazza il suo strumento
di
follia?
“Ehi,
ehi, ehi!”, esclamò Mike mettendosi tra Rosa e
Henry, il quale
malauguratamente era andato ad aprire la porta ritrovandosi attaccato
da una spagnola inferocita che gridava qualcosa circa la sua querida
Mima, sul fatto che era sparita e di come fosse colpa sua.
Quando
anche Margaret arrivò di corsa a dare una mano e la ragazza
si fu
calmata poterono finalmente capire cosa stesse succedendo: alla fine
i due non erano riusciti a scendere a Verona il giorno prima e si
erano accordati per andarci quel pomeriggio; l’ukulele era
stato
messo direttamente nella macchina di Henry. Rosa con ancora le
lacrime agli occhi spiegò che quella mattina era scesa per
assicurarsi che Mima stesse bene, ma
non l’aveva
trovata.
“Sicuri
di averla messa veramente in macchina? Magari vi siete dimenticati di
aver deciso di metterla da un’altra parte”.
Margaret fu fulminata
dallo sguardo torvo della spagnola per aver potuto insinuare una cosa
di quel genere.
“Perché hai incolpato il povero Henry?”,
intervenne Jack, il quale collezionò anche lui
un’occhiataccia, ma
dall’amico, seccato per quel ‘povero’ non
del tutto
sincero.
“Solo lui ha le chiavi della macchina, chi altro
potrebbe averla presa?”, rispose Rosa sorpresa della domanda
che le
sembrava scontata; Henry arrossì mentre tossiva.
“A dir la
verità non ricordo di averla chiusa”,
borbottò imbarazzato. La
sua Panda era piuttosto scassata, senza niente di valore
all’interno,
a parte qualche quaderno di appunti che però era
più caro allo
studente che a chiunque altro: aggiungendo questo alla sbadataggine
del suo proprietario si poteva comprendere come fosse per lo
più
lasciata aperta.
“Henry!”, esclamò Jack scuotendo la
testa.
“Dovresti starci attento, sono secoli che te lo
dico”, aggiunse
guardandolo male. Lui ed Enrico erano migliori amici fin da quando
erano dei ragazzini eppure erano completamente diversi in tutto o
quasi: Jack era molto ordinato e le sue cose duravano negli anni,
mentre Enrico era probabilmente una delle persone più
disordinate
della Terra, e trascurava le sue cose senza farlo veramente apposta:
era semplicemente sbadato. Beh, tranne che con le sue adorate mazze
da golf.
Nella
stanza, intanto, era sceso il silenzio, e dopo alcuni minuti Rosa si
alzò attirando su di sé tutti gli sguardi.
“Vi
offro un tè da me, ci penseremo assieme e capiremo dove
è finita”.
Li guardò tutti male prima di continuare. “Oppure
il colpevole si
farà avanti”. Detto ciò, se ne
andò senza lasciare modo a
nessuno di replicare. Nel silenzio che seguì i cinque
sentirono la
Spagnola bussare alla porta del piano di sotto con tanta forza che la
sentirono distintamente per chiamare a rapporto anche Nick. A quel
punto non riuscirono più a trattenersi e scoppiarono in una
sonora
risata. Poi si alzarono per scendere, perché a loro poteva
sembrare
tutto divertente, ma era meglio non fare arrabbiare Rosa, o sarebbero
stati guai.
Dieci
minuti dopo erano tutti nell’appartamento della spagnola,
compreso
uno scocciato Nick, che fissava tutti con sguardo torvo e le braccia
incrociate.
“Ancora non capisco cosa ci faccio qui”,
commentò
sbuffando.
“Potrai andare quando ci darai la prova che non hai
preso tu Mima”, rispose Rosa rispondendo al suo sguardo
sospettosa.
“Ma hai già controllato tutto il mio
appartamento!”, protestò. “E poi sai
benissimo che sono stato
tutta la notte a lavorare e recuperare le puntate di Doctor
Who:
Classic.”. Aggiunse, ma Rosa non smise di fissarlo.
“Qui
secondo me c’è un grande equivoco: nessuno di noi
avrebbe preso il
tuo maledetto ukulele!”, disse pentendosi subito di aver
aperto
bocca. Rosa gli sarebbe saltata addosso se Jack e Mike non
l’avessero
intercettata in tempo.
“Nick si è espresso male, ma ha
ragione”, intervenne Megan. “Nessuno avrebbe mai
potuto farti una
cosa del genere sapendo quanto ci tieni”. Tutti annuirono
mentre la
ragazza si calmava.
“Piuttosto potrebbe averla rubata uno di
quei barboni per usarla per cantare nelle strade”. Margaret
ricevette una gomitata da Henry, che era seduto vicino a lei: non era
certamente la prospettiva migliore, e infatti Rosa la guardò
sgomentata.
“Oppure è stato Luca, che abita qui a fianco: ha
sempre detto di volere andare alle Hawaii, un ukulele potrebbe farlo
sentire più vicino”, disse Megan più
per scherzare che per altro.
In verità tutti stavano pensando che lo strumento si
trovasse da
qualche parte in casa, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo,
così
tutti avevano autonomamente deciso di assecondare la Spagnola
inventandosi le scuse più assurde. Prima che Rosa potesse
alzarsi
per andare a spaventare a morte il povero Luca intervenne Jack.
“Però
considera che è un bello strumento, il tuo in particolare, e
che è
tenuto benissimo, chiunque passando avrebbe potuto prenderlo. In
più
Luca ieri non era a casa, è tornato questa mattina:
l’ho visto
quando sono uscito a correre”
“Oh, sì! È così bello che
sicuramente saranno arrivati i siluriani a rubarlo”,
commentò
svogliatamente Nick, e nonostante nessuno tranne lui fosse un esperto
di Doctor Who non fu difficile capire che si
trattava di un
qualche tipo di alieni: la situazione stava degenerando. Ci fu un
momento di silenzio dopo il commento del matematico, interrotto
improvvisamente da Mike, che si alzò addirittura in piedi.
Jack si
mise già la testa fra le mani: sapeva che avrebbe sparato
una
cazzata colossale.
“L’ha rubata il prof. Franconi! L’altro
giorno ha detto a Jack e Megan che odia profondamente Mima e abita
qui vicino!”. A Jack scappò una risatina, non era
riuscito a
resistere: l’immagine del prof. che apriva la macchina di
nascosto
per rubare l’odiato strumento gli era passata davanti agli
occhi
non appena Mike aveva spiegato la sua teoria.
“Ok, dopo questa
mi serve una pausa”. Ancora ridacchiando il fisico si
alzò. “Rosa,
posso usare un attimo il bagno?”, chiese educatamente e,
ricevuto
ovviamente il cenno positivo, si diresse verso il bagno, situato
vicino alla camera da letto. Quando uscì non poté
fare a meno di
lanciare un’occhiata dentro la stanza, ma si sentì
in dovere di
guardare con più attenzione quando, con la coda
dell’occhio, notò
un pezzo di quello che sembrava un ukulele che spuntava dalla coperta
caduta per terra e non ancora sistemata. Il suo animo da amante
dell’ordine fu disturbato dal caos che regnava in quella
stanza
colorata, ancor di più per il fatto che probabilmente tutta
quella
situazione assurda era nata dal fatto che Rosa non si facesse il
letto. Infatti, sollevata la coperta trovò proprio
l’ukulele:
probabilmente la Spagnola nella notte aveva dato il meglio nel suo
sonnambulismo ed era scesa a recuperarla.
Trionfante,
Jack rientrò nel soggiorno dove le teorie andavano a farsi
sempre
più assurde. L’ultima che sentì fu di
Nick, il quale stava
incominciando a divertirsi, che arrivò a sostenere che
Franconi in
verità era una reincarnazione del Maestro a
cui serviva, per
chissà quale ragione, Mima per
sconfiggere il Dottore,
chiunque fossero quei due.
“Ehi!”,
esclamò per attirare l’attenzione su di
sé, lo strumento ben
nascosto dietro la schiena. “Guardate cosa ho
trovato”. Gli occhi
di Rosa si spalancarono riconoscendo il suo amato ukulele, mentre
tutti gli altri, che si aspettavano un finale del genere, scoppiarono
a ridere. Jack consegnò Mima nelle mani della proprietaria
che
incominciò, senza curarsi troppo della mancanza di una
corda, a
strimpellare qualcosa.
“Dove l’hai trovata?”. Lo sguardo
colmo di adorazione che rivolse a Jack sembrò infastidire
Henry,
cosa che non sfuggì a Megan e Margaret. Si lanciarono un
occhiata
piena di significato: probabilmente avrebbe voluto ritrovare lui lo
strumento e ricevere quello sguardo
Mike e Nick invece sembravano
delusi: si erano appassionati troppo a inventarsi le ragioni
più
assurde per la scomparsa di Mima e per i loro gusti Jack era arrivato
troppo presto.
Franconi,
intanto, ignaro delle teorie che lo riguardavano che erano state
proposte, stava accompagnando la figlia a scuola, quando udì
un
grido di gioia che lo portò istintivamente a tapparsi le
orecchie,
presto seguito dal peggiore dei suoi incubi: l'ukulele aveva
ricominciato a suonare, stonato più che mai a causa della
corda
ancora mancante.
Alzò
gli occhi al cielo e sospirò, mentre Luciana ridacchiava, i
suoi
occhioni chiari che brillavano.
“Papà,
mi compri un ukulululele?” chiese, e
scoppiò in una sonora
risata non appena il padre le lanciò un'occhiataccia.
“No.”
rispose, secco: era rimasto talmente tanto sotto shock che non si era
neppure reso conto del fatto che la sua piccola peste lo stava
prendendo in giro.
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Capitolo 7 *** Dal manicomio qualcuno riesce ad evadre... ***
7.
Dal manicomio qualcuno riesce ad evadere…
“Henry
non ha proferito parola per tutto il viaggio, tutto!”,
esclamò
Mike, mettendo l'accento sull'ultima parola.
Il
viso sconcertato del giovane era ben visibile su un quarto dello
schermo del computer di Margaret, la quale si trovava sdraiata a
pancia in giù sul letto e chiacchierava con l'amico via
Skype.
“Mi
sembra ovvio”. Queste furono le parole che la giovane
udì in
risposta: proveniva dal riquadro in basso a destra, da Jack.
“Concordo”.
Questa era Megan, dal quarto in alto a sinistra.
“No
che non è ovvio! Ragazzi, un po’ di
comprensione…”.
“Niente
comprensione: gli hai rovinato il pomeriggio con la sua Rosa”.
“Frena
frena frena: non ho rovinato proprio nulla. Gli ho chiesto solo un
passaggio andata-ritorno per me e Marga per Verona. Un mese
fa”.
“Potevamo
prendere il treno, ma sei un testardo patentato”.
“Oh,
ma c'è l'avete tutti con me?!”.
Mike
poté notare tutti e tre i visi nei riquadri della schermata
di Skype
annuire all'unisono.
Guai
ne combinava spesso, ma quello Henry non glielo avrebbe perdonato
facilmente: due pomeriggi prima, per la precisione il giorno in cui
l'ukulele era stato ritrovato, quello della gita programmata per
comprare una corda, infatti, Mike si era presentato davanti
all'automobile dell'amico in cerca di un passaggio per andare a
vedere la partita di basket della sua squadra del cuore. Margaret lo
aveva seguito a braccia incrociate e con un'espressione imbronciata
stampata sul viso.
Come
se non bastasse, in viaggio verso Verona Michele non solo si era
seduto accanto ad Henry, ma non era neppure rimasto un attimo in
silenzio. La scena si era ripetuta al ritorno.
Rosa
si era divertita molto, ma Enrico non era della sua stessa opinione:
si era pregustato ore di chiacchierate con la sua Rosita, si era
immaginato di farla innamorare di lui durante il viaggio, ed era
andato tutto in fumo.
Senza
contare che, arrivati a Verona, Rosa aveva incontrato una sua
compagna di università spagnola, in Erasmus nel veronese.
Il
pomeriggio dopo Enrico aveva accompagnato nuovamente Michele, che
voleva risparmiare parte dei soldi del biglietto del treno per
Brescia, a Verona, ma lo aveva ignorato per tutto il tempo: di
conseguenza, il fisico, appena giunto a casa, aveva chiamato in
soccorso gli amici via Skype, interrompendo il fine settimana
brissinese di Jack e quello caldonazzese di Megan.
“Io
sì che sono arrabbiata con te, perché Enrico
è ancora arrabbiato e
io sono l'unica che è rimasta con lui in casa.”
borbottò
Margaret.
“Preparagli
i canederli con la ricetta che ti ho insegnato e vedrai che si
rilassa.” suggerì a quel punto Megan.
“Ehi,
e io?” la interruppe Michele.
“Stai
a casa per le prossime due settimane”, intervenne Jack.
“Concordo!”,
una voce arrivò da dietro la schiena di Margaret, che la
zittì
prontamente.
“Che
ci fa lì Nick?”.
“Sei
geloso, Mike?” lo provocò il ragazzo appena
nominato.
“No”.
“Non
sei sdraiato sul mio letto, vero?”, commentò la
Caldonazzese,
preoccupata.
“Sono
sul pavimento e il tuo PC è quasi come nuovo”.
Margaret
tossì rumorosamente per coprire la sua voce, ma non ci
riuscì.
“Il
mio computer cosa?”. Anche Rosa udì quel grido
incredulo.
“Credo
che Margaret lo abbia fatto cadere. Oppure ci ha versato sopra
qualcosa”.
L'interessata,
però, non udì l'intervento di Jack,
perché aveva già salutato
velocemente gli amici e aveva chiuso la chiamata.
Mentre
Megan continuava a chiedere spiegazioni al rettangolino ormai buio e
Mike sperava ancora di ricevere qualche consiglio,
l’Anglo-brissinese
alzò gli occhi al cielo, chiedendosi perché
continuasse a vivere in
Corso Tre Novembre numero trentatré.
Quel
pomeriggio era tiepido e soleggiato: Henry passeggiava fischiettando,
di ritorno da una vittoriosa partita a golf, ed intanto ripensava al
disastroso viaggio a Verona. Un lato positivo, però, quella
faccenda
lo aveva: quando era arrabbiato riusciva a giocare piuttosto bene.
All'improvviso, mentre si crogiolava nei suoi pensieri cupi, un'idea
lo illuminò: avrebbe potuto portare Rosa a giocare a
minigolf! Come
aveva fatto a non pensarci prima?
Altro che aggiustare l'ukulele:
quello era un campo in cui non avrebbe commesso errori, la spagnola
si sarebbe finalmente innamorata di lui!
In fondo, però, quello
strumento gli piaceva: era ormai diventato un punto fermo della sua
vita udire il suono perenne delle corde che vibravano veloci.
Quando
arrivò al suo palazzo, però, quel giorno le sue
orecchie
stranamente non lo captarono: al suo posto, il giovane ne
udì uno
che giudicava ancora più soave, quello della risata di Rosa.
Proveniva dal retro del palazzo, così aggirò la
costruzione grigia
e giunse nel cortile asfaltato, pentendosene all'istante: avrebbe
preferito vedere la sua Spagnola baciare un altro uomo. Invece, la
trovò accucciata ai piedi del palazzo, mentre armeggiava con
una
sottile corda verde, il colore preferito di Margaret: doveva
trattarsi di un'idea di quest'ultima. Come volevasi dimostrare,
alzò
lo sguardo e la trovò: si stava sporgendo dal balcone del
secondo
piano e reggeva l'altro capo del filo.
Henry sbuffò, chiedendosi
il senso di quelle azioni: aveva dei coinquilini davvero troppo
strani, maledetto il giorno in cui Jack lo aveva convinto del fatto
che cambiare appartamento non sarebbe stata una cattiva idea. La
stramberia di Mike gli era già sufficiente, non pensava che
avrebbe
dovuto reggere altri tre Mike in versione donna!
"Enrico”.
Un sussurro lo raggiunse, distogliendolo dai suoi pensieri:
l'interessato iniziò a guardarsi attorno, confuso e alla
ricerca del
proprietario della voce, finché non si convinse di essere
diventato
pazzo.
"Guarda giù, Mr. Medicus!".
Sì, stava
decisamente impazzendo: l'asfalto aveva deciso di cominciare a
parlargli. Poco dopo, però, ricordò che il loro
palazzo possedeva
un piano interrato con delle minuscole finestre in vetro smerigliato
all'altezza del terreno: proprio da una di queste spuntavano le dita
e gli occhi di Nicola. Henry giudicò tutto questo
inquietante, ma
alla fine si avvicinò al matematico.
"Ciao. Potresti anche
uscire per parlare, così non mi spacco la
schiena”. Per rivolgersi
a lui, infatti, si era dovuto accucciare.
"Troppo semplice”,
ribatté tranquillamente l'altro, prima di indicare Rosa.
"Che
cosa sta facendo? Mi sono preso un colpo quando ho notato quel filo
fuori dalla finestra della cucina!".
"Sì, sono arrivati
gli extraterrestri: credici”.
"Ha.ha. Molto divertente. Il
tuo sarcasmo ferisce questo prode cavaliere più dell'ironia
di
Michele”.
"Stai giocando a Age?".
"Sì,
problemi?".
La risposta spiazzò il nerd. "Posso unirmi
a te?".
Gli sorrise: "Ti sto istruendo bene, Mr.
Medicus!".
Mentre si stava alzando, però, Rosa corse loro
incontro.
"Advinate! Abbiamo messo un filo”.
"Brave.
Ora potete toglierlo”. A causa delle sue parole, Nick si
beccò
un'occhiataccia.
"Stava scherzando”, lo difese Henry,
sentendosi all'improvviso il sostituto del loro abituale giudice di
pace.
"No invece: toglilo subito!".
"Non sai
neanche a cosa serve!". La voce di Margaret li raggiunse da
qualche piano più in alto.
"Spiegamelo, allora, genio”.
In
risposta, si udì un tonfo sul terreno, e per un attimo Henry
pensò
che la giovane si fosse buttata dal balcone: quando ebbe il coraggio
di guardare, però, notò un secchiello d'acciaio.
"Così ci
passiamo i le comunicazioni: è meglio del gufo! Quando gli
altri
torneranno ne saranno entusiasti”.
Di sicuro, pensò Henry, ma
saggiamente non espresse i suoi commenti sarcastici a voce
alta.
"Lasciate perdere i bigliettini e venite giù fa me:
partitaccia ad Age of empires II e poi ordiniamo
una pizza per
cena”. Mentre parlava, il secchiello stava lentamente
ritornando al
secondo piano; scivolò verso il basso poco dopo, assieme ad
un
biglietto:
"Preferirei andare a giocare a basket al
campetto, ma visto che non ho un avversario arrivo."
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Capitolo 8 *** ...anche se non per molto ***
8. ...anche
se non per molto
"Margaret,
no. Marga!". Le grida contrariate di Nick si udivano fino al corridoio,
assieme alle risate delle giovane.
I due ragazzi si trovavano davanti alla televisione di Nick, seduti sul
tappeto e collegati alla Wii, mentre giocavano a
Mario Cart,
un must per la consolle. Tra loro e la TV, sul tappeto giacevano due
cartoni di pizza ormai vuoti, che ben si abbinavano al disordine che
regnava nel soggiorno dell'appartamento del matematico.
"Marga!".
Un secondo grido contrariato venne pronunciato dal ragazzo: la
Veronese, infatti, lo stava spingendo barbaramente a terra, nel
tentativo di conquistarsi la vittoria, che non tardò ad
arrivare. Margaret batté le mani felice, fiera di aver
sconfitto il mago dei videogiochi, che se ne stava ad occhi spalancati,
ancora incredulo. La giovane si voltò in direzione del
divano dove erano seduti Henry e Rosa, che avevano abbandonato i
videogiochi ad ora di cena, stanchi del monopolio che Nick deteneva
sulle vittorie, e subito notò che i due stavano
chiacchierando amabilmente: sorrise, fiera di aver rimediato al
pasticcio compiuto dal suo migliore amico.
L'incanto,
però, fu presto spezzato dal suono dell'ukulele della
studentessa Erasmus, suoneria del suo cellulare: la giovane, infatti,
fuggì immediatamente nel suo appartamento, ansiosa di
chiamare via Skype il suo ragazzo.
Henry
si alzò dal divano, sconsolato, e Margaret tornò
con lui al primo piano: la felice serata si era conclusa in
modo disastroso.
Quando
Enrico Lagrande era depresso, si tuffava nei libri e non riemergeva
almeno per qualche ora; c'era un solo problema: quando studiava
diventava molto, troppo, ipocondriaco. In proposito ne sapeva qualcosa
Luciano, il suo fedele vicino di banco, che aveva il compito di
rassicurarlo ogni volta che ripassavano assieme in biblioteca.
Anche
in Corso Tre Novembre, però, gli inquilini avevano
adottato delle strategie per frenare l'ansia di Henry: nonostante
ciò, quella sera Margaret venne quasi presa alla sprovvista.
Si
stava asciugando i capelli davanti allo specchio con indosso soltanto i
jeans e il reggiseno color nero, quando l'aspirante medico
bussò alla porta del bagno, distogliendola dalla
macchinazione di un piano per tirare su di morale l'amico.
"Che
c'è?", chiese, spegnendo il phon.
"Margaret,
secondo te mi sta venendo un infarto?". La sua voce era ansante.
La
giovane sbuffò: "Stai studiando il cuore?".
"No".
"Che
cosa ti senti?".
"Dolore
al petto e al braccio destro e la testa che gira: si tratta di un
infarto, Marga”.
"Sei
stanco e stai studiando: ecco il perché dei capogiri. Il
braccio perché scrivi”. Il giovane, infatti, era
mancino. "E il petto perché Rosa ti ha spezzato il
cuore”, concluse, ironica.
"Non
mi ha spezzato il cuore!", gridò, e nel mentre
udì la porta dell'ingresso sbattere: Mike lo
guardò malissimo, mentre Jack sospirò e
attraversò il corridoio, raggiungendolo ancora con la giacca
indosso e la valigia in mano.
"Tutto
bene?".
"Sì”,
borbottò l'altro, ritornando in camera sua. I due fisici si
guardarono negli occhi, poi alzarono le spalle e si diressero nella
loro stanza subito dopo aver salutato Margaret, che stava ridacchiando
dietro alla porta del bagno.
"Ricordati
che devi farti perdonare”, osservò Jack poco dopo,
mentre riponeva gli abiti puliti nell'armadio.
"Sì,
lo so”, sbuffò l'altro: aveva anche una mezz'idea
sul da farsi, architettata assieme al coinquilino sulla strada dalla
stazione a casa; sperava solo che funzionasse.
"Vado
a sentire che cosa è successo”,
continuò l'Anglo-brissinese poco dopo. "Tu stai qui fermo e
non intrometterti”.
Michele
annuì:
"Intercederai
per me?", chiese subito dopo con occhi da cucciolo all'amico, che lo
fissò con sguardo perplesso dalla porta.
"No”,
esclamò infine, ma entrambi sapevano che alla fine, come
sempre, lo avrebbe fatto.
Bussò
alla camera di Henry, ma non aspettò il suo permesso per
entrare: lo studente di medicina, seduto alla scrivania, lo
fissò per un momento, poi si rituffò nei libri.
Jack, a quel punto, si sedette sul letto e aspettò,
guardandosi attorno, che l'amico proferisse parola; poco dopo lo
udì sbuffare.
"Sì,
lo so, devo riordinare". La sua stanza, come del resto tutte le altre,
ad eccezione dell'angolino di Jack, erano un disastro.
Il
fisico alzò le spalle: "Non mi fa differenza: questa
settimana le pulizie toccano a te e a Mike”.
Si
guardarono negli occhi per alcuni secondi, finché Enrico non
aprì nuovamente bocca:
"Ho
chiacchierato con Rosa questa sera”.
"Ed
è un bene?".
"Certo.
Solo che poi l'ha chiamata il suo ragazzo”.
"Sai
che ha un ragazzo: non puoi prendertela per quello”,
osservò Jack, imperturbabile.
"Tu
sì che sai come rincuorarmi”, borbottò
l'altro, e notò l'amico abbozzare un sorriso: era
così strano vederlo piegare le labbra all'insù.
"Sempre”.
"Scherzi
a parte, uomo dalla risposta sempre per tutto: che devo fare, lasciar
perdere o provare?".
"Io
non ho sempre la risposta per tutto”. Jack si
rabbuiò e l’amico non insisté sapendo a
cosa stesse pensando il castano. "Per le ragazze, poi!",
esclamò però poco dopo, sorprendendo Henry, ancor
di più per il mezzo sorriso che gli rivolse.
"Ma
davvero? Con Jessica Lawrence avevi sempre la risposta pronta se non
erro... ‘Jack, e dopo averla baciata che farai?' 'Ovvio, la
porto da Ivan'".
"Tralasciando
il fatto che l'appuntamento al Bar Centrale non era di sicuro l'opzione
migliore, avevo quindici anni e mi sentivo fin troppo sicuro di me. Con
Catarina non era andato tutto così liscio, ti
ricordo”.
L'altro
fece spallucce. "Catarina era una psicopatica”.
"Forse
un po', ma anche Rosa lo è. Con quell'ukulele, poi!",
osservò l'amico, riportando l'attenzione dalle sue ex alla
Spagnola. Come se lo avesse udito e lo avesse voluto provocare,
l'inquilina del piano inferiore cominciò a suonare: Jack
alzò gli occhi al cielo.
"Decisamente
pazza, ma è questo che la rende fantastica",
ribatté Enrico, sognante.
"Ok,
sei proprio partito... che pensi di fare, ragazzo innamorato?".
"Invitarla
al minigolf”, ribatté l'altro all'istante.
"Approvo.
Stai solo attento che Mike non si trovi nei paraggi...".
"Stanne
certo", borbottò Henry.
"Perdonalo,
però”.
"Forse”.
"La
convivenza è ancora lunga, En”. Perché
si ritrovava sempre nelle vesti di giudice di pace nelle liti tra i
suoi due amici? Era davvero stressante...
"Lo
so”.
"Ok,
indovina un po'!"; riprese la parola poco dopo Jack: doveva lasciar
germogliare l'argomento 'perdoniamo Mike', per il momento lo aveva
annaffiato a dovere.
"Cosa?".
"Ieri
sono stato ai mercatini a Bressanone: pensavo che un week-end potremmo
invitare su gli altri. Ci porti Rosa e con quell'atmosfera sei a
cavallo", osservò: i mercatini di Natale nei paesi dell'Alto
Adige, seppur piccoli, con le loro luci, i suoni e le casette, erano
sempre uno spettacolo che portava gli occhi di grandi e piccini a
luccicare. Anche buona parte dei residenti, che potevano ammirare le
piazze addobbate a festa da metà novembre all'inizio di
gennaio, non ne era mai stanca. "Oppure si potrebbe andare anche nella
cittadina vicino al paese in cui vive Megan: ha detto che lì
installano le casette in un grande parco”.
"Domani
a cena ne parliamo a tutti, allora!", esclamò l'altro,
entusiasta. "A proposito di domani: Nick propone di andare a vedere
Star Wars
al Nuovo Roma”. Casa loro si trovava ad una decina di metri
dal suddetto cinema, ma, poiché erano studenti squattrinati
fuori sede, per il momento non ne avevano ancora approfittato. Nessuno
eccetto Mike che, da grande appassionato di filmografia, ogni tanto la
sera spariva per accomodarsi su una poltrona nera con un cartone di
popcorn tra le mani.
"Domani
devo finire la partita a scacchi con Megan”.
Henry
alzò gli occhi al cielo. "Megan di qua, Megan di
là”.
"Enrico,
che caz-", il fisico venne interrotto da un grido acuto di Michele: i
due si fissarono, poi corsero ad affacciarsi in corridoio.
Lì notarono Mike, in piedi davanti alla porta del bagno, che
fissava Margaret ad occhi spalancati; la giovane, dal canto suo, lo
stava guardando con un sopracciglio alzato.
"Che
succede?", domandò Jack.
"Chiedilo
a lui!", borbottò lei, puntando il phon contro il petto del
suo amico. "Voleva lavarsi le mani e quando gli ho aperto si
è bloccato”.
"Ti
ho chiesto se eri nuda!", protestò il giovane con le lunghe
trecce nere.
"Non
sono nuda! Mi hai vista mille volte più svestita di
così!".
"Sì,
ma-", iniziò Michele, ma le parole gli morirono in gola: e
ora come avrebbe potuto spiegarsi?
"Quello
che Mike vuole dire è che quando ti vedeva mezza nuda
eravate bambini, mentre ora è un uomo, e un uomo se ti vede
il seno-". A quelle parole Margaret arrossì di brutto e
guardò incredula Enrico, che aveva parlato. "Beh, immagino
che tu possa immaginare il resto”, concluse lui,
improvvisamente in imbarazzo.
"Uomini!",
esclamò lei in risposta, per poi rientrare in bagno
sbattendo la porta.
"Stai
per dare l'esame sull'apparato riproduttivo, Mr. Medicus?",
cercò di sdrammatizzare Mike.
"Non
ti ho ancora perdonato”, ribatté l'altro,
rientrando nella sua stanza: nonostante ciò,
però, sorrise senza farsi notare alla battuta.
Michele
guardò Jack.
"Lo
farà presto”, osservò quest'ultimo. "Ti
ha salvato la pelle, dopotutto. Ci guardiamo un film sul mio PC?".
L'altro annuì, così l'Anglo-brissinese
alzò il tono della voce. "Marga, ti unisci a noi?", le
chiese, certo che li avesse uditi: il phon non aveva ancora ripreso a
funzionare.
"Solo
quando sarà buio pesto: non ho alcuna intenzione di
guardarvi negli occhi”. Si fermò un attimo. "E a
patto che non mettiate un horror o una romanticheria oscena”.
"Ok,
capo!", esclamò Mike, portandola quasi a ridere.
"Henry,
tu vieni?", domandò invece l'altro.
"No”.
Alcuni
minuti dopo, però, Enrico era nella loro stanza e stava
discutendo con Michele riguardo al film da guardare, mentre Jack, con
il portatile in mano, li osservava perplesso. Tuttavia, fu il primo a
notare Margaret sulla soglia, il viso pallido, il cellulare in mano.
"Henry?",
lo chiamò lei, e i due litiganti si bloccarono all'istante e
la osservarono, l'uno incuriosito e l'altro preoccupato: Michele,
infatti, sapeva che quello sguardo spento si presentava sul volto
dell'amica solo quando era in pena per uno dei suoi cari. L'ultima
volta che lo aveva visto era stato a dieci anni, quando gli aveva
confidato che suo fratello maggiore aveva intenzione di arruolarsi
nell'esercito.
"Domani
mi accompagni a Verona?".
L'interessato
annuì. "Con piacere. Non hai lezione?".
La
mora mentì scuotendo la testa.
"Tutto
bene?", le chiese Jack.
"Sì”,
sussurrò lei, ma era sull'orlo delle lacrime. Il fisico,
però, comprese che non aveva voglia di parlarne,
così agì come avrebbe voluto che gli altri
avessero agito quando lui stava male per sua madre: niente compassione,
solo sostegno.
"Ok.
Ti fermi per il film?", quando lei annuì, lui
continuò. "Che ne dite di
Sole a catinelle?".
Anche Mike, che nutriva un odio profondo nei confronti dei film
italiani, si proclamò favorevole alla commedia. Inoltre,
quando Margaret si sedette a gambe incrociate sul suo letto, accanto a
lui, Michele coprì la sua piccola mano con la sua e le
sorrise al buio. Poco dopo lei appoggiò la testa sulla sua
spalla e, come accadeva un tempo, si sentì subito meglio.
Angoletto della Marghe e
della Gio:
toc toc: c'è nessuno? Qualcuno ci legge? Ha un senso
continuare a pubblicare?
Ci piacerebbe avere qualche riscontro, insomma :)
Al prossimo capitolo!
|
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Capitolo 9 *** Ti sono vicino... ***
9.
Ti sono vicino…
Dopo
il film tutti se ne andarono nella propria camera: le prove
intermedie si avvicinavano e avevano molto da studiare. Jack
però
decise di andare a bussare alla camera che Margaret divideva con
Megan, la quale non era ancora ritornata all’appartamento. La
ragazza era stata silenziosa per tutta la serata e nessuno aveva
voluto chiederle niente, ma tutti si erano accorti che c’era
qualcosa che la preoccupava.
Aprì piano la porta e la trovò
sdraiata sul letto ancora vestita. Non disse niente, entrò e
chiuse
piano mentre lei lo guardava con lo sguardo preoccupato che aveva da
quando aveva ricevuto la telefonata qualche ora prima.
“Allora,
che succede?”. Le chiese quasi sottovoce sedendosi sul letto
vicino
a lei. L’aveva capita quando non se l’era sentita
di dire cosa la
turbava davanti a tutti, ma sapeva che faccia a faccia le cose erano
diverse, e probabilmente subito dopo di lui sarebbe andato a parlarle
anche Mike, mentre Henry avrebbe deciso di parlarle nel viaggio fino
a Verona del giorno seguente.
“M-mio fratello…”, incominciò
sconnessamente, quasi che dirlo ad alta voce avrebbe reso la cosa in
qualche modo più vera. “... Ha fatto un incidente questa
sera, è all’ospedale. Non sanno ancora se
riesce…”. La voce si
spense prima di finire la frase, non che ce ne fosse bisogno.
Jack
non disse niente in un primo momento, sapeva per esperienza che era
inutile rassicurarla che sarebbe andato tutto bene.
“Marga...”,
la chiamò per far tornare il suo sguardo su di
sé, dopo che era
andato inevitabilmente a finire sul cellulare che rimaneva zitto.
“Ci
conosciamo da poco, ma voglio dirti che ti sono vicino, per qualsiasi
cosa”. Lo disse guardandola dritta negli occhi e Margaret
annuì.
“Grazie”, mormorò. Poi il ragazzo si
alzò.
“Credo
che ci sia anche Michele che voglia sapere cosa succede, so che lui
conosce tutta la tua famiglia”. Margaret annuì: il
fratello era
più grande di loro di cinque anni, ma nonostante questo non
aveva
mai disdegnato di giocare con la sorellina e Mike.
Detto questo
uscì e, come aveva appena predetto, trovò il suo
compagno di corso
fuori dalla porta. Non gli disse niente, era meglio che fosse
Margaret a parlargli.
Quando anche Mike entrò nella stanza
Margaret si alzò ed andò ad abbracciarlo.
“Roberta mi ha
chiamato”. La ragazza annuì, era normale che sua
madre avesse
chiamato anche lui e questo la salvava dal doverlo spiegare
un’altra
volta. Chiarito questo fatto non ci fu bisogno di aggiungere altro:
si sedettero sul letto rimanendo abbracciati e Margaret
sfogò le
lacrime che fino a quel momento aveva trattenuto. Quando la ragazza
si fu calmata a sufficienza Mike si slegò
dall’abbraccio e ordinò
a Margaret di cambiarsi e mettersi a dormire.
“Quando domani
andremo a salutare tuo fratello non puoi presentarti come se avessi
litigando con un panda inferocito”. Con quelle parole il
ragazzo
riuscì a scucirle un sorriso. Quando erano piccoli si
azzuffavano
spesso per gioco e, per chissà quale ragione, Matteo, che
ormai si
considerava il fratellone di entrambi, usava sempre i Panda
inferociti come termine di paragone di una furibonda lotta
che
aveva lasciato i due un po’ ammaccati. Se Margaret fece caso
al
fatto che Michele le avesse detto implicitamente che
l’avrebbe
accompagnata a Verona non lo diede vedere.
Il ragazzo aspettò che
la ragazza fosse uscita dal bagno e si fosse messa a letto e, senza
bisogno che glielo chiedesse, rimase con lei fino a che non si fu
addormentata.
La
mattina dopo Margaret, Henry e Mike partirono lasciando Jack a badare
alla casa e ad accogliere Megan, che sarebbe ritornata quel giorno.
Il padre di Margaret e Matteo aveva chiamato in mattinata presto per
dire che quest’ultimo era ammaccato, ma stava bene, quindi i
tre
erano partiti con l’animo molto più leggero.
Michele si era
seduto, incredibilmente, dietro e poco dopo essere partiti si
addormentò: gli altri due compagni di viaggio si scambiarono
un’occhiata divertita. Il ragazzo era famoso per non riuscire
a
tenere gli occhi aperti la mattina neppure se dormiva più di
otto
ore: non li sorprese vedere che non era riuscito a resistere neanche
fino al confine del Trentino.
Dopo un attimo di silenzio Margaret
riuscì a tirar fuori la questione che si teneva dentro dalla
sera
prima.
“Tu conosci Jack da molto, vero?”. Henry
annuì.
“Fin
da quando si è trasferito da Londra: eravamo vicini di
casa”,
rispose dandole una veloce occhiata prima di riportare gli occhi
sulla strada. “Perché?”.
continuò.
“Io… Ieri sera è
venuto a chiedermi cosa succedeva e come stessi”,
incominciò lei
non sapendo bene come porre la sua domanda. “E mi
è sembrato che
sapesse esattamente come mi sentivo…”. Guardando
Enrico capì che
aveva compreso quale fosse la domanda che non aveva avuto il coraggio
di porre al mezzo Inglese quella mattina prima di partire.
Il
ragazzo non rispose subito: fin da quando lei gli aveva fatto la
prima domanda sospettava dove volesse andare a parare, e riusciva
bene a figurarsi cosa fosse successo il giorno prima. Jack era di
poche parole già normalmente, ma anche fosse stato
più simile a
Michele in quelle situazioni sapeva benissimo che c’erano
poche
cose che valeva la pena dire, lo sapeva purtroppo troppo bene.
“...
Come se lo avesse vissuto anche lui?”, completò al
suo posto e la
ragazza annuì. Ci fu dell’altro silenzio mentre
l’aspirante
medico decideva che parole usare. “È successo a
Londra, credo che
sia in parte il motivo per cui si è trasferito a Bressanone.
Non mi
ha mai raccontato molto. Anzi, ora che ci penso credo che sia stato
suo padre a parlarmene veramente dopo un accenno di Jack”.
Come
prima Margaret anche Enrico si trovò a prendere tempo prima
di dire
ciò che contava veramente. “È anche il
motivo profondo per cui
Jack è entrato nei pompieri volontari... Sua… Sua
madre è morta
in un incendio che ha distrutto la sua casa quando aveva undici
anni”. Calò di nuovo il silenzio. Margaret non fu
sorpresa del
fatto che il ragazzo non avesse confidato una cosa così
grande:
anche con le cose molto meno gravi era molto riservato, addirittura
spesso venivano a sapere come erano andati i suoi esami da
Michele.
“Ugh”. Fu quest’ultimo a rompere il
silenzio con un
grugnito degno del più grosso babbuino selvatico.
“Siamo
arrivati?”, chiese con faccia assonnata. Gli altri due
scoppiarono
a ridere.
“No, bella addormentata, manca ancora almeno una
mezz’oretta”, lo prese in giro Margaret beccandosi
un’occhiataccia assonnata.
“Bene allora, c’è tempo per
sentire la musica!”. Rapidamente prese il cd che aveva
portato con
sé e lo allungò a Margaret, che riconoscendolo
sbuffò.
“Neanche
morta mi ascolto ancora quel cd di Max Pezzali”. Glielo mise
sotto
il naso cercando di farglielo riprendere.
“Mi avevi detto che ti
piaceva Pezzali!”, esclamò l’altro
mentre Henry ridacchiava:
Michele era famoso per ascoltare per mesi le stesse dieci canzoni
facendole pian piano odiare agli altri coinquilini.
“Esatto!
Per questo ho Spotify sul cellulare, cosa che mi
impedisce di
ascoltare solo dieci canzoni allo sfinimento”. Prese la sua
piccola
cassa per la musica e fissò il cellulare pensierosa.
“Però oggi
preferisco ascoltare Jannacci”. Subito la voce del cantante
riempì
la piccola macchina sulle note di Messico e Nuvole. Per
fortuna di Enrico Michele non protestò e così il
viaggio continuò
in tutta tranquillità.
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Capitolo 10 *** ... anche se tu non vuoi ***
10.
...anche se tu non vuoi
A
casa Jack era pensieroso. In teoria stava studiando per la prova
parziale che avrebbe avuto la settimana dopo, ma non riusciva molto a
concentrarsi. Ciò che era successo a Margaret gli aveva
ricordato
ciò che era successo a lui tanti anni prima. Era solo
contento che
l’amica non avesse dovuto vivere anche il lutto.
Era
così preso dai suoi pensieri che non notò Megan
finché lei non gli
passò la mano davanti agli occhi.
“Ehi! Sono ore che ti chiamo,
dove sei?”, scherzò lei ridendo, ma il ragazzo
rispose solo con un
debole sorriso.
“Scusa, stavo studiando”, mentì. Poi
però
entrambi abbassarono gli occhi sul tavolo, dove tutti i libri erano
chiusi.
“Stavi studiando i titoli?”. Megan provò
a dirlo in
una maniera scherzosa, ma aveva capito che c’era qualcosa che
non
andava. Margaret le aveva telefonato quella mattina e le aveva
raccontato quel che era successo, ma era chiaro che Jack avesse
qualcosa d’altro. Non tanto per il fatto che avesse provato
con
scarsissimi risultati a nascondere il fatto, anche Mike le aveva
detto che da quando si conoscevano Jack non si era quasi mai
confidato con lui delle cose a lui più vicine. Sapeva che
con Henry
si apriva di più, ma loro erano amici dall'infanzia.
“No, hai
ragione, devo essermi incantato”. Megan fu risvegliata dai
suoi
pensieri quando Jack riprovò a fare un sorriso
tranquillizzante,
come per dire: sto bene, non fare domande. Ma
quella volta la
ragazza decise che non si sarebbe arresa.
“A cosa stavi
pensando?”. Mentre parlava andò ad appendere la
giacca ed ad
appoggiare la borsa in un angolo; la valigia era già stata
portata
in camera della giovane alcune ore prima, prima di recarsi a lezione,
quando era passata a casa assieme a suo padre, che l'aveva
accompagnata in auto.
“Niente di importante”. Il fisico scosse
la testa aprendo il libro che aveva davanti, forse sperando che in
questo modo Megan avrebbe desistito, cosa che la ragazza non era
intenzionata a fare.
“Ti ho chiamato almeno una decina di volte
e non mi hai neanche sentito. Non ti estranei così tanto dal
mondo
per una cosa poco importante”. Si riavvicinò.
“Neanche se ti
chiami Jack sognatore ad occhi aperti Davies”.
Gli spettinò
il ciuffo che spesso copriva i suoi occhi azzurri cielo.
“Credo
che saremo soli a cena stasera, potrei cucinare un po’ di
crepes
che ti piacciono tanto”. Non si stupì quando lui
provò a cambiare
così repentinamente discorso.
“C’entra con ciò che è
successo al fratello della Marghe?”. Jack si alzò
prendendo i
libri sparpagliati sul tavolo e mai aperti senza rispondere. Ci fu un
attimo di silenzio.
“Allora le vuoi le crepes?”.
Male,
incomincia a far finta di non sentire le mie domande. Pensò
Megan. Mise la mano sull’ultimo libro che Jack si stava
allungando
per prendere.
“Ha qualcosa a che fare con l’incidente del
fratello della Marghe?”, ripeté guardandolo dritto
negli occhi.
“Perché anche a me non è indifferente.
Non è molto diverso da
ciò che è successo a me”. Incominciava
a stancarsi di essere
sempre respinta quando provava ad avvicinarsi, così il suo
tono
incominciò a farsi più secco. “Ma ho
imparato che chiudersi così,
far finta di stare bene, senza parlarne con nessuno, non aiuta. Non
aiuta per niente!”. Stettero così a guardarsi
negli occhi qualche
secondo e Megan poté vedere come il ragazzo non stesse
prendendo le
sue parole come un aiuto, si stava chiudendo ancora di più,
ma in un
atteggiamento di sfida. “Te lo dico perché ti
voglio bene, Jack.
Non è tanto che ci conosciamo ma ti considero un grande
amico”,
aggiunse più dolcemente, ma l’espressione di Jack
non mutò e
preso finalmente l’ultimo libro li infilò tutti
nel suo zaino e
senza più guardarla andò verso la porta.
“Vado a studiare in
biblioteca, mi sa che mi fermerò da qualche parte a
mangiare, se
vuoi c’è qualcosa di pronto in frigo”.
Senza aggiungere
nient’altro uscì chiudendo semplicemente la porta
dietro di sé,
ma per Megan fu come se l’avesse sbattuta con tutta la sua
forza.
Megan
stava ripassando svogliata quando sentì bussare alla sua
porta, che
subito dopo si aprì, lasciando entrare Jack. Megan non disse
niente
lasciando al ragazzo la prima parola.
“Volevo chiederti scusa
per come mi sono comportato prima”. La ragazza scosse la
testa.
“Non ti dovevo spingere così. Ci conosciamo solo
da
qualche mese in fondo, hai diritto di tenere le cose a te care per
te”. Jack si sedette sul suo letto e dal sorriso triste che
le
fece, Megan capì che le cose si erano sistemate tra loro,
Jack non
ce l’aveva più con lei per averlo stuzzicato, e
questo la
rincuorò.
“Stavo pensando a cosa mi hai detto”. Aveva gli
occhi fissi sulle mani intrecciate sulle sue ginocchia con fare
pensieroso. “Volevo chiederti come stavi”. La
ragazza non dovette
pensarci su molto per capire che stava parlando di quando gli aveva
riferito che l’incidente le aveva ricordato il suo. Megan
sospirò.
“La Marghe mi ha telefonato prima, mi ha detto che suo
fratello si riprenderà completamente…”.
Non era una vera
risposta alla domanda di Jack, ma il ragazzo capì che la
notizia
l’aveva confortata. Megan alzò lo sguardo per
incrociare il suo.
“I giorni dopo l'incidente, in particolare quando mi hanno
detto
che non avrei più potuto camminare, sono stati molto duri.
Non mi
piace ricordarli…”. Fece un'altra pausa prima di
riprendere: si
rivide in quel maledetto letto d’ospedale, provò
nuovamente
l’angosciante sensazione di non sentire più le
gambe per la prima
volta, e rabbrividì. Subito cercò di scacciare il
pensiero. “Ma
ricordo anche il sostegno che mi hanno dato i miei genitori e gli
amici. Questo mi aiuta ogni volta”. Lo guardò come
se l'ultima
frase fosse diretta verso di lui, ed in parte era proprio
così.
Capendolo Jack distolse lo sguardo dal suo. Non era mai stato molto
aperto con nessuno, su ogni argomento, ma in particolare con quello,
forse era così proprio per quella ragione, o meglio,
probabilmente
quello che era successo aveva acutizzato quella parte della sua
personalità. Capiva che Megan voleva solo aiutarlo, ma
questo non
voleva dire che per lui fosse più facile aprirsi. Quello che
lo
spinse a parlare fu piuttosto il vedere come lei si era aperta con
lui su quel tema altrettanto doloroso.
“È successo quando
abitavo ancora a Londra. Nell’appartamento sotto il nostro
è
scoppiato un incendio, non so il perché e non mi
è mai importato,
so però che non c’era nessuno in quel momento, per
cui non si sono
accorti di niente se non quando dei passanti non hanno notato il fumo
dalla strada. Io e mia mamma stavamo giocando nella mia stanza, che
non aveva finestre se non un abbaino, per cui non ci siamo accorti di
nulla in un primo momento. Quando siamo usciti dalla camera abbiamo
visto che era impossibile prendere le scale. Però erano
arrivati i
pompieri e così mi disse di andare alla finestra per
attirare la
loro attenzione mentre lei andava a prendere Giulia, la mia
sorellina. Mio papà era ed è un pompiere, per cui
sapevo come
comportarmi. Poi ho sentito mia madre che mi chiamava, mi sono girato
e l’ho vista tendere Giulia davanti a sé
perché io la prendessi.
Poi non ricordo molto: so di aver tenuto stretta la mia sorellina, e
di aver sentito delle braccia afferrarmi e portarmi fuori”.
Fece
una lunga pausa. Aveva detto tutto quasi senza respirare, e anche
Megan sembrava aver trattenuto il fiato da tanto era silenziosa.
“Non
ho ricordi chiari di ciò che è successo dopo, se
non mio padre che
mi diceva che mia madre non era riuscita a sopravvivere
all’incendio”. Megan gli si avvicinò
piano e gli mise una mano
sul ginocchio, riuscendo così a far rialzare il suo sguardo
per
incrociare il suo. Jack sollevato non ci lesse la pietà che
di
solito sentiva su di sé quando gli altri venivano a sapere
cosa
fosse successo. Non riuscì a comprendere esattamente cosa
gli stesse
trasmettendo, forse era comprensione, perché anche lei aveva
subito
qualcosa che le aveva cambiato totalmente la vita, ma non ne era
sicuro. Ma quello sguardo lo rassicurò, era vero
ciò che gli aveva
detto prima la ragazza: non era solo.
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Capitolo 11 *** Il manicomio si rianima ***
11.
Il manicomio si rianima
A
Michele non erano mai piaciuti gli ospedali; lo ricordò non
appena
il forte odore di disinfettante lo investì e quando
percepì le
infinite pareti bianche opprimerlo. L'unica cosa che gli impediva di
scappare era Margaret, che camminava a testa bassa al suo fianco,
trascinando i piedi.
Riuscì a farla ridere quando si persero e
lui borbottò che quel posto era più labirintico
di Hogwarts, ma la
notò scurirsi in volto non appena incrociò gli
occhi di sua madre,
seduta in una saletta d'attesa vicina alla stanza in cui doveva
essere ricoverato suo fratello.
Le due si fissarono a lungo,
separate solo da un vetro, mentre sia Margaret che Mike intuivano che
qualcosa non andasse: Roberta aveva gli occhi rossi.
"Che
succede?" le chiese la giovane, entrando nella saletta; il
ragazzo rimase sulla soglia.
"Hanno di nuovo portato Matte in
sala operatoria", riferì l'altra, lentamente, e la figlia
sussultò immediatamente. "Nulla di grave: dovevano finire di
sistemare le ossa del bacino. Dovrebbe essere fuori tra qualche
ora".
Margaret annuì impercettibilmente. "Papà?"
"È
sceso un attimo a prendere un caffè."
"Ok".
"Ok",
le fece eco la madre.
Avvertendo i brividi per il gelo che si era
creato tra le due, Mike intervenne:
"Roberta!" esclamò,
per poi gettarsi tra le braccia della donna; quando si allontanarono
l'uno dall'altra, la madre della migliore amica di Michele lo
squadrò
da capo a piedi, felice della distrazione: constatò che era
diventato alto, molto alto, e muscoloso. E che i suoi capelli erano,
a suo parere, peggiorati.
"Guarda chi si vede!" sorrise,
allegra. "Sei diventato un bell'uomo, Michelino", continuò,
mentre l'altro gongolava. "Però sappi che quelle treccine ti
stanno malissimo", concluse. Toccò a Margaret scoppiare a
ridere.
Roberta era sempre stata una donna senza peli sulla
lingua: tale madre, tale figlia.
Mike la guardò spalancando gli
occhi, e solo il giungere di una nuova voce lo portò a
serrare la
bocca rimasta socchiusa per la sorpresa.
"Toh, Michele!",
esclamò un uomo sulla quarantina, dai corti capelli
brizzolati: con
il suo sorriso a trentaquattro denti, il viso arrotondato e la bassa
statura era la copia della figlia.
"Leonardo!" . Michele
abbracciò anche lui, felice: aveva ritrovato la sua seconda
famiglia; quella brutta faccenda, in fondo, aveva un lato
positivo.
"Ha delle brutte treccine, non trovi?",
intervenne Roberta.
"Mamma, piantala!", esclamò la
figlia, ma intanto rideva sotto i baffi; di conseguenza, Michele le
fece segno che avrebbero regolato i conti più tardi. A tutti
e
quattro per un attimo sembrò di essere tornati indietro nel
tempo, a
quando i bambini combinavano una marachella, Roberta li sgridava e
Leonardo prendeva le loro difese.
"No, dai: gli stanno bene",
provò a dire infatti.
"Bah!". Roberta non era per
niente convinta, ma strizzò un occhio a Michele, facendo
vedere che
in parte lo stava semplicemente prendendo in giro.
"È solo
strano vederlo cambiato, Robe". Leonardo strinse le spalle
mentre alzava una mano sopra la sua testa ad indicare che Mike era
enormemente cresciuto dall’ultima volta che si erano visti.
"Credo
che papà abbia ragione", commentò Margaret,
ricordando il
giorno in cui aveva ritrovato il suo amico.
Suo padre scoppiò a
ridere, a sorpresa, mentre gli altri lo guardavano male. "Michele,
te la sei persa quel weekend che è tornata a casa dopo
averti
incontrato... era tutta saltelli e 'Che strano, papà;
è stato
stranissimo!'. E poi-". Prima che potesse concludere la figlia
gli saltò prontamente addosso e gli tappò la
bocca.
"Dai,
Marga, era divertente!", protestò il ragazzo, ricevendo
un'occhiataccia.
"Eccomi".
Circa
una mezz'oretta dopo, erano tutti e quattro seduti sulle sedie in
plastica color verde: alle risate e ai ricordi era subentrata
lentamente la preoccupazione per Matteo; inoltre, si erano sentiti un
po' in colpa a ridere mentre lui si trovava sotto i ferri, nonostante
nessuno lo avesse ammesso.
Margaret alzò lo sguardo verso
Michele, che, in piedi davanti a lei, gli stava porgendo un bicchiere
di tè.
"Posso il caffè?" chiese indicando l’altro
bicchiere che teneva in mano, sentendosi uno schifo per avergli
chiesto il tè, per poi domandargli il suo caffè,
pur sapendo quanto
il suo amico necessitasse delle sue cinque dosi di caffeina
quotidiane.
Mike, però, le sorrise, comprendendo che non lo stava
facendo con cattiveria, e le porse l'altro bicchiere di plastica, per
poi sedersi al suo fianco.
"È peggio starsene qui invece che
a Trento: ci si sente molto più impotenti qui..."
sussurrò
poco dopo la ragazza, appoggiando la testa sulla spalla di
Michele.
"Concordo".
"Se preoccupato anche tu".
Margaret lo guardò sorpresa, ma Mike rispose al suo sguardo
ancora
più stupito.
"Perché non dovrei?".
"Vero: per
te noi facciamo un po' parte della tua famiglia".
"Già".
Il
silenzio calò di nuovo, interrotto solamente dalle lancette
dell'orologio a muro, che scandivano il tempo, facendolo sembrare
ancora più lungo.
Fu in quel momento che arrivò un medico ad
informarli che l'intervento si era concluso con successo, e che
Matteo sarebbe ritornato presto nella sua stanza. Fu solo dopo averlo
visto vivo, vegeto e sorridente che Margaret credette alle sue
parole.
Alcune ore dopo, nel tardo pomeriggio, i due giovani erano
seduti su una panchina fuori dall'ospedale, mentre attendevano Henry
che li avrebbe riportati a casa, quando le risate che uscivano
leggere dalle loro labbra si smorzarono.
"Sai, Mike, per un
attimo ho davvero creduto che sarebbe morto".
"Dai, non
pensarci più!", ribatté lui, senza rivelarle che
lo aveva
creduto anche lui lo stesso.
"Ci penso, invece! Anche perché
non me ne sarei neppure accorta: avrei continuato a ridere e
scherzare, e a progettare cose idiote, a giocare a videogiochi
idioti, mentre lui era morto. Poteva morire sul colpo ed io non lo
avrei percepito, non avrei avuto nessun presentimento!" ora
stava quasi gridando, e quando si fermò il suo corpo
cominciò ad
essere scosso dai singhiozzi.
Michele l'abbracciò. "Sai, io
guardo moltissimi film; troppi. Tutti dicono che quando qualcuno
muore lo senti, ti senti quantomeno un tuffo al cuore. Cazzo se
mentono!", per un attimo la portò a ridere in mezzo alle
lacrime. "Ricordi quando è morto mio nonno, in terza
elementare? Stavamo giocando a basket", si interruppe, per poi
riprendere. "Lo so che non posso paragonare il nonno a Matte,
voglio solo dire che le disgrazie purtroppo non riusciamo a
percepirle, neppure se siamo legati da un legame molto forte.
Purtroppo", Margaret tirò su con il naso, e sorrise
lievemente:
Michele si comportava sempre come uno sciocco, ma all'occorrenza era
in grado di essere anche molto serio. "Mi preoccuperei del
contrario!", concluse ridendo. "Non vorrei avere un cyborg
come amica", continuò, portandola a ridere brevemente. "O
forse sì", concluse, mentre lei si staccava lentamente
dall'abbraccio e si asciugava le lacrime.
"Comunque sappi che
mi hai annerito la maglia: maledetto mascara!" Margaret rise
nuovamente, ma lui rimase serio. "Davvero, come lo spiego a
Henry ora?" borbottò, mentre notava l'auto dell'amico
avvicinarsi.
"È un problema tuo!" esclamò lei,
alzandosi e finendo di asciugarsi gli occhi con una salvietta
umidificata, ma alla fine, persa da pura pietà, gliene porse
una per
arginare almeno in parte il danno.
"Grazie".
Si
sorrisero, mentre lui si alzava in piedi e la precedeva. "Comunque
fai sapere a Roberta che le treccine non le taglio. E dì a
Leonardo
che anch'io un po' saltellavo: chiedi a Henry e Jack",
rivelò,
camminando all'indietro, per poi provare a salire in automobile:
trovò il sedile accanto al guidatore occupato.
"Hola, Rosa!"
esclamò, tra il sorpreso e il divertito.
"Hola, chicos!"
"E
lei che ci fa qui?" sussurrò il Bresciano a Margaret poco
dopo.
"Ti scoccia che ti abbia rubato il posto, vero?"
commentò, prendendolo in giro. "Rosa, che cosa ci fai a
Verona?" chiese poi alla Spagnola.
"Sono venuta a
salutare una mia amiga, poi ho telefonato a Enrico.
Sai che
andiamo al minigolf sabato?" esclamò, felice, mentre
Margaret
rifilava una gomitata ad un Mike che voleva provare ad
autoinvitarsi.
"Che bello!".
"Volete
venire?".
"Io e Mike scendiamo di nuovo a Verona",
rispose.
"Oh... possiamo fare un'altra volta, così ci siete
anche voi!" esclamò la Spagnola, felice per la sua
trovata.
"No, andate voi... il minigolf chiude per l'inverno
questa settimana", commentò l'altra: una piccola bugia non
aveva mai fatto male a nessuno. Puntando gli occhi nello specchietto
retrovisore notò Henry sorridere luminoso, e non se ne
pentì.
Nel
mentre, in Corso Tre Novembre numero trentatré si stava
svolgendo
un'importante partita a scacchi: a seguito della confessione di Jack,
infatti, Megan aveva proposto di distrarsi dai loro pensieri cupi
recuperando la scacchiera. In realtà, in primo luogo aveva
suggerito
di cucinare i canederli, dei grandi gnocchi composti da pangrattato,
farina, lucanica, formaggio, prezzemolo e cipolle, piatto tipico
dell'intero Trentino Alto Adige: dopo essere scesi a comprare gli
ingredienti ed aver messo il pane raffermo a bagno, però, i
due si
erano resi conto che avrebbero dovuto attendere per concludere la
preparazione; infatti, il pane doveva rimanere nel composto di sale,
uova e latte per almeno due ore per diventare sufficientemente
morbido.
"Dai, Megan, non puoi metterci così tanto a fare
una mossa!".
L'interessata alzò gli occhi dalla scacchiera,
notando Nick in piedi sulla soglia del soggiorno; sbuffò,
poi si
voltò verso il coinquilino.
"Non hai chiuso la porta a
chiave", lo rimproverò.
"Sì che l'ho-", cominciò
a controbattere, ma si bloccò di colpo: ricordava di aver
infilato
le chiavi nella toppa, ma non di averle girate. Alzò le
spalle:
"Può
aiutarci con i canederli".
"No, io in cucina non lo
voglio!".
"Sono bravissimo in cucina!", intervenne
Nicola, beccandosi un'occhiata assassina.
"Hai imparato
guardando Masterchef?", lo provocò
l'altra, mentre Jack
alzava gli occhi al cielo: ecco che cominciava un'altra
battaglia...
"Vado a controllare come va con il pane, tu
muovi", borbottò, chiamandosi fuori dalla lite, mentre si
alzava e si dirigeva verso la cucina. "E mi ricordo come ti sto
facendo scacco: non provare a muovere i miei pezzi!",
aggiunse.
"Non sono Mike!", ribatté lei, portandolo a
soffocare una risata.
"Regina E3, comunque! Il re è salvo ed
è anche scacco!", la voce entusiasta di Megan lo raggiunse
nuovamente mentre rientrava in soggiorno e si appoggiava allo stipite
della porta, accanto a Nick.
"Come diavolo fate a rimanere
così concentrati?", gli chiese il matematico, quasi
retorico.
"Pratica. Gli scacchi rilassano, sai?".
"Rilassano
solo due squinternati come voi!", esclamò, e Jack dovette
impedire a Megan di investirlo con la sedia a rotelle.
"Il
pane è pronto: Megan, fotografa la scacchiera, che
continuiamo dopo.
Tu, Nick, lavati le mani", disse poi, non ammettendo
repliche.
"Dispotico il ragazzo...", borbottò Nicola,
allontanandosi in corridoio. "Sai almeno come si preparano i
canederli?".
"Non è impedito come te in cucina!",
lo rimbeccò la Caldonazzese al posto dell'amico, e lui
sorrise.
"Ho
avuto l'occasione per fare pratica", commentò poi sottovoce,
nostalgico: da quando era morta la madre, in casa aveva cucinato
sempre lui, dato che il padre lavorava troppo e Giulia i primi anni
era troppo piccola. Gli unici ricordi piacevoli che risalivano a quel
periodo erano quelli che ritraevano lui e la sua sorellina a cucinare
i biscotti.
"Per motivi diversi, ma anch'io", ribatté
Megan, ripensando a come a sedici anni la cucina fosse stata la sua
ancora di salvezza dalla depressione. "Comunque sappi che sono
più brava di te!", esclamò poco dopo, riportando
il sorriso
sulle labbra di entrambi.
"Non dire baggianate!".
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Capitolo 12 *** Perché questo è il nostro manicomio, e noi lo amiamo così com'è ***
10.
Perché questo è il nostro manicomio, e noi lo
amiamo così com'è
Per
fare dei canederli
col
brodo e col ragù
se
ciapa del prezemolo
e
se lo taia su;
Nick
non sapeva bene se disperarsi per dove si era andato a cacciare,
rimanere sorpreso o incuriosito. Era ormai un bel po’ che
viveva in Trentino e aveva assaggiato i Canederli svariate volte:
dunque doveva ammettere che quelli usciti dagli sforzi di Jack e Megan
erano davvero buoni. Jack poteva anche essere mezzo inglese, ma sua
nonna, madre di sua madre e originaria di Povo, doveva avergli
trasmesso tutta la sua
trentinità,
si ritrovò a pensare il matematico. Di Megan poi non se ne
parlava: a discapito del nome straniero che le avevano dato i suoi, lei
era una vera Caldonazzese, o meglio
Panizzara,
utilizzando il termine dialettale che lei preferiva.
Con
questi preposti, mentre cenava assieme agli amici il ragazzo aveva
pensato di togliersi finalmente una sua curiosità: davvero
esisteva una canzone sui Canederli, addirittura sulla ricetta? Ne aveva
sentito parlare, ma per una ragione o per l’altra non
l’aveva mai cercata, ascoltata. Non lo avesse mai chiesto. Se
avesse potuto Megan si sarebbe probabilmente alzata in piedi, mentre
iniziava ad intonare la famosa canzone con orgoglio. Jack non
l’aveva seguita inizialmente nel suo slancio, ma si vedeva
bene che anche lui la conosceva perfettamente.
farina,
oio e zigole,
luganeghe
col speck,
pan
vecio senza migole
e
‘n toc de formai sgnèck
Jack
se la rideva sotto i baffi. Megan stava cantando entusiasta, era quasi
stupito che non si mettesse la mano sul cuore. Doveva ammettere
però che cantava piuttosto bene: non aveva mai pensato fosse
intonata, ma in effetti non l'aveva proprio mai sentita.
Guardò
Nick trovandolo come incantato e gli venne ancor più da
ridere immaginando i pensieri del matematico. Incrociando lo sguardo
con la ragazza capì che si aspettava fosse accompagnata,
così, per nulla dispiaciuto, si unì a lei.
Se
fa balotole
con
pan gratà
tre-quatro
frègole
de
ài pestà;
‘na
meza chichera
de
lat e vin…
Megan
se la stava proprio godendo. Le piaceva cantare nonostante non lo
facesse praticamente mai. Quindi quando Nick le aveva fatto quella
domanda non aveva saputo resistere. Ma non le piaceva cantare da sola
quindi squadrò Jack cercando una mano, cosa che per fortuna
(del ragazzo) egli prontamente diede.
Eco
i Canederli de noi trentin!
Prima
che Megan potesse anche
solo
pensare di continuare con la seconda strofa un battito di mani la
interruppe. Proprio in quel momento erano ritornati a casa Mike,
Margaret e anche Rosa ed Enrico.
Era
stato Michele ad applaudire e incominciare a gridare.
“Grandi! Biis!!”. Megan lo guardò male
intuendo ci fosse sotto anche un pizzico di presa in giro, ma prima che
potesse rispondere qualcosa fu Margaret a zittirlo con una sberla ben
assestata sulla pancia.
“Lasciatelo
perdere, voi cantate muy
bien”,
disse Rosa mentre tutta la comitiva li raggiungeva al tavolo.
“E
voi siete arrivati giusti in tempo per mettervi a tavola”,
disse invece Jack prendendo in mano la ciotola su cui avevano messo i
Canederli pronti per essere cotti. Con la loro cottura veloce erano
comodissimi in quelle situazioni in cui non si sapeva bene a che ora
sarebbero arrivati gli altri. Con un “yuppie!” Mike
corse a lavarsi le mani, seguito dagli altri tre in maniera un
po’ meno euforica. Intanto Jack incominciò la
cottura.
In
poco tempo tutti furono seduti in tavola con la prima razione di balote,
come
le aveva definite Megan, nel piatto. Jack sorrise pensando a come, dopo
tutto ciò che era successo negli ultimi giorni: gli
spaventi, le preoccupazioni, le confessioni e le scoperte, tutto fosse
tornato alla tranquillità. O
meglio ciò che si considera tale in questo appartamento di
pazzi.
Si ritrovò a correggere dovendo intervenire per
l’ennesima volta da giudice di pace quando i toni della
discussione tra Michele ed Enrico si fecero sempre più
accesi. Ma
era per questo che non avrebbe mai desiderato un altro appartamento in
cui vivere.
L'angolo
delle creatrici del Manicomio:
bene,
eccoci giunte alla conclusione di questa storia: è nata come
una sfida, ma ci siamo davvero divertite e questi persoanggi sono
entrati nei nostri cuori... speriamo anche nei vostri :)
Ogni
tipo di parere è sempre gradito!
Alla
prossima!
Marghe&Gio
PS: Ah, quasi ci sfuggiva... la canzone di Megan
è tipica delle nostre parti: vi invitiamo ad ascoltarla e a
cantarla a squarciagola (magari Jack si unirà anche a voi!)
https://www.youtube.com/watch?v=D0hubjnlK-w
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