Togheter

di Mikky
(/viewuser.php?uid=170096)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il rito ***
Capitolo 2: *** Paura di... ***
Capitolo 3: *** Dichiarazioni ***



Capitolo 1
*** Il rito ***


Il rito

La squadra si era ritirata in albergo dopo una giornata spossante, ma nessuno avrebbe preso sonno, soprattutto sapendo che la fuori c’erano ancora sette bambini dispersi e che, con molta probabilità, avevano assistito all’assassinio dei loro genitori e quindi sotto shock.
Ognuno di loro continuava a lavorare al caso, ma sapevano fin troppo bene che la soluzione sarebbe giunta unicamente da Spencer e Minerva. Erano gli unici che potevano trovare un collegamento con le dieci frasi trovati all’interno dei corpi dei genitori dei bambini.
Il ragazzo camminava avanti e indietro per la sua stanza, mordendosi l’interno della guancia, mentre nella stanza affianco lei era distesa sul letto, le caviglie incrociate e le mani intrecciate sul ventre, gli occhi sotto le palpebre che si muovevano freneticamente.
Entrambi avevano la sensazione che la vita di quei bambini fosse unicamente nelle loro mani. Erano gli unici che potevano trovare la soluzione, erano gli unici che potevano mettere insieme i primi pezzi per risolvere quel mistero.
Avevano unito le frasi in diverse combinazioni, ma il discorso finale era sempre privo di senso, così avevano provato a mischiare le parole, ma non riuscirono comunque a trovare nulla che li aiutasse.
Ora da soli avevano provato a omettere lentamente alcune parole, cercando di trovare una luce che illuminasse la loro ricerca, un colpo di genio che arrivò ad entrambi nello stesso momento.
Entrambi si erano fermati e osservarono il muro, su cui la mente stava tracciando le parole necessarie per comporre la frase. L’unica frase che avesse finalmente un senso.
Spencer si precipitò fuori e trovò Minerva che saltellava sul posto per l’ansia. “L’hai capito anche tu”.
Non era una domanda, sapeva fin troppo bene che anche lei aveva visto la soluzione e si era data della stupida immediatamente, come lui del resto.
Minnie annuì “Dobbiamo dirlo agli altri”.

Il caso era apparso sui loro schermi come uno dei più cruenti a cui avessero mai lavorato.
A una settimana da ogni equinozio e solstizio, nella piccola città, di Nazareth, Pennsylvania, scomparivano sette bambini, che, poi, venivano ritrovati sgozzati e sventrati in zone sempre diverse della città il giorno dopo l’evento astrologico.
Anche Hotchner fece fatica a non vomitare di fronte a quei corpicini devastati e mutilati.
Era già la terza volta che succedeva, ma l’unità di Analisi Comportamentale aveva scoperto altri sette casi del tutto simili, ma che avevano colpito famiglie che non avrebbero mai denunciato la scomparsa, come immigrati, senzatetto o tossicodipendenti.
Indagando Blake e Rossi avevano trovato altri infanticidi che si collocavano nello stesso periodo dell’anno ma con un modus operandi diverso, come se il progetto fosse passato in mano a qualcun altro. Questa anche i genitori venivano massacrati e in questo ultimo ciclo di vittime all’interno dei tagli erano stati ritrovate delle frasi, criptiche su cui i due cervelloni si erano messi subito al lavoro.
Il profilo non era stato nemmeno reso noto alle autorità, perché era complesso e poco chiaro persino agli agenti della B.A.U., che avevano quindi deciso di mettere tutte le forze per cercare i bambini.
Il messaggio da cifrare li aveva bloccati per ore, ma finalmente avevano trovato una pista.
Spencer e Minerva erano tornati alla centrale di polizia, mentre gli altri erano andati alla centrale elettrica, dove l’indizio li aveva guidati. La frase Sono nella tua casa per aiutare ma anche per ucciderti era saltata fuori prendendo le prime parole dei bigliettini trovati all’interno dei padri e le ultime da quelle delle madri.
Doveva essere ovvio, ma non ci avevano pensato, e quella era la notte del solstizio. Poteva essere troppo tardi per i bambini.
Minerva si torturava le mani osservando la lavagna su cui avevano trascritto le frasi. Continuavano a osservarle cercando di capire se ci fosse un’altra chiave di lettura, un nuovo modo per decifrare quel mistero, ma non lo trovavano.
Guardò il suo collega e lo vide mordicchiare la penna, anche lui concentrato nel cercare una seconda ipotesi.
Quando il telefono suonò entrambi saltarono. Esitarono nel premere il pulsante, temevano di sentire che i bambini non c’erano o che, peggio, erano morti… Fu Reid alla fine a rispondere.
“Ne abbiamo trovati due” la voce di JJ faceva trasparire del sollievo “Sono spaventati ma stanno bene. Abbiamo trovato un secondo indizio”.
“Mandacelo. Appena lo risolviamo vi chiamiamo”.
“Intanto noi cerchiamo indizi, magari ci sono altri bambini o l’S.I. è ancora qui” e la chiamata si interrompe.
Pochi secondi dopo arrivò una foto al telefono di Hunter, che cominciò a cancellare la lavagna e trascrivere l’indizio. Era composto da una quindicina di macrogruppi numerici, composti da altri due gruppi divisi da un puntino. Il primo microgruppo era composto da due numeri o da due coppie di numeri divisi da un trattino, il secondo, quello dopo il puntino, era sempre un numero lunghissimo, che andava dalle sei alle dieci cifre.
Spencer si sistemò vicino alla ragazza con le braccia incrociate sul petto “Che cosa particolare. Può essere un codice binario”.
“Non lo so. Il primo indizio alla fine era semplice. Abbiamo sempre pensato che il padre venisse ucciso per primo perché l’S.I. voleva togliere la minaccia maggiore, invece ci indicava il modo per risolvere l’enigma. Potrebbe essere così anche questa volta”.
Il giovane dottore prese in mano i fascicoli e li scorse più velocemente del solito “Non ci sono collegamenti con quei numeri”.
“E se fosse legato alle vittime?” Minnie lo guardò premendosi un dito contro le labbra.
Altri calcoli riempirono la testa del dottor Reid, che poi scosse “Non ne vedo”.
La ragazza sottolineò il primi microgruppi numerici “Alcuni si ripetono e, guarda caso, corrispondono al numero di quattro lettere con cui si indicano le coordinate”.
“S,N,E,O. Sud, Nord, Est e Ovest” Spencer si avvicinò e si sistemò gli occhiali “Sono le direzioni, quindi questi potrebbero essere” e indicò i secondi microgruppi “i chilometri o i metri da percorrere per raggiungere gli altri bambini!”.
“Non esattamente. Sono i passi”.
“Ma che tipo di passo? I bambini non hanno un’ampiezza precisa, dipende dalla costituzione, dalla lunghezza delle gambe…Ma potrebbe essere la misura. Il passo l’unità di misura romana!”.
La ragazza annuì “E il passo semplice corrisponde a 47centimentri”.

Passarono la notte, così.
A ogni indizio trovarono uno o due bambini, ancora interi, solo spaventati e affamati. Solo una bambina era messa male, ma era dovuta alla mancata iniezione di insulina per il diabete e con le adeguate cure si sarebbe ripresa.
Quando tutti i bimbi furono al sicuro, la squadra decise che era il momento di trovare e prendere il mostro che aveva rapito quelle povere creature.
Hotchner aveva appena elencato quello che sapevano sulla vittimologia e quel poco che avevano trovato sul S.I., eppure il profilo rimaneva un po’ troppo nebuloso. Un uomo che conosceva bene le sue vittime, tanto da poter entrare senza problemi nelle case, tanto da dover celare il suo volto ai bambini per evitare che lo riconoscesse.
Inoltre c’era un elemento rituale nelle uccisioni e nella loro collocazione, ma che continuava a sfuggire.
Minerva sfogliò con distrazione il libro che Spencer stava leggendo, pensando di cosa di potesse trattare, quando trovò un’immagine particolare. “E se si trattasse di un percorso iniziatico?”.
“Un percorso iniziatico?” chiese Morgan perplesso.
“Sì, per entrare nelle sette massoniche è necessario” spiegò Reid “fare un percorso che comprendeva il raggiungimento di alcuni luoghi, fisici o mentali, di grande importanza spirituale,in cui, a volte, si compievano dei sacrifici, per dimostrare la fedeltà verso la confraternita”.
“Per raggiungere questi luoghi” aggiunse Hunter “venivano dati degli indizi difficili da decifrare, se non per gli adepti e per chi era degno di entrare nella confraternita”.
Blake sembrava scettica “Eppure negli altri omicidi non erano stati trovati indizi”.
“Ma i corpi dei bambini sono stati trovati dopo la strage, quindi gli indizi possono essere stati raccolti dagli iniziati” propose Rossi.
“E come mai questa volta li abbiamo trovati?”.
I due ragazzi rimasero in silenzio per pochi secondi, finché Spencer non finì di percorrere tutta la vicenda nella sua mente “Non ci ha chiamati la polizia…”.
“No” JJ aveva interpretato la frase come una domanda “Bensì la guardia nazionale, perché sono stati loro a trovare la prima coppia massacrata”.
Minerva guardò negli occhi Spencer. Entrambi avevano tralasciato un dettaglio che ora cominciava ad avere un certo peso. Con nonchalance la ragazza di fianco a Reid prese la borsa e uscì dalla stanza e andò a parlare con uno dei poliziotti più giovani della cittadina. Fu una questione di qualche secondo; il tempo di riempire due tazze di caffè, salutare e tornare dentro. “Due volte all’anno” iniziò Minerva avvicinandosi al tavolo “vengono inseriti all’interno del corpo di polizia nuovi agenti, ovvero pochi giorni dopo il solstizio e l’equinozio”.
“Gli incartamenti della polizia sono così ridotti perché sono loro a commettere questi omicidi” finì Spencer.
Hotchner aveva un tono di voce piuttosto grave “E’ un’accusa piuttosto pesante da fare, dovette esserne sicuri”.
“L’anello dello sceriffo Cormet” disse semplicemente Reid.
“Quello del padre?” disse Rossi.
Minerva annuì seria, anche se nessuno poteva vederla tranne il collega vicino a lei “Andate nel parco è là che inizia e finisce l’iniziazione, dovrebbero esserci gli adepti pronti per seguire il percorso”.
“Come fai a esserne sicura?”.
“Perché il percorso è quasi sempre un cerchio, soprattutto se i futuri membri devono uccidere le vittime. E i nuovi poliziotti ricevono il distintivo lì”.
“Se è vera la vostra ipotesi” disse Blake “Dovremmo arrestare l’intero dipartimento”.
Hunter sospirò rassegnata “E tutti coloro che sono andati in pensione e che hanno fatto il percorso”.
Morgan prese in mano la situazione “Andiamo e cerchiamo di farla finita”.
La telefonata finì e i due ragazzi rimasero in silenzio a osservarsi. Quello che avevano scoperto faceva paura: dei poliziotti, persone che avevano giurato di proteggere i civili, avevano ucciso bambini innocenti per entrare nell’arma.
Era sconvolgente.
Sapevano, anche, che sarebbe toccato a loro arrestare tutti quelli che erano all’interno della caserma e dovevano evitare che alcuni di loro fuggissero. Quando arrivò il messaggio di Rossi che confermava che avevano trovato un gruppo composto da cadetti, comandati dallo sceriffo e da suo padre, i due si mossero.
Bloccarono le porte senza attirare lo sguardo di quella decina di agenti all’interno della piccola struttura e diedero all’annuncio: erano tutti in arresto per pluriomicidio.
Nessuno provò a scappare, ma parlarono di come quella pratica li rendesse un vero gruppo unito e dedito alla salvezza degli abitati della loro città. Senza di loro sarebbe andato tutto a rotoli.
Fu agghiacciante ascoltarli e quando arrivò la guardia nazionale a prenderli in custodia Minerva si sentì molto meglio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Paura di... ***


Paura di…

Ritornarono in albergo stremati. Il jet sarebbe potuto partire quella stessa mattina, ma tutti furono contenti di optare per una doccia calda e una dormita su un letto vero, prima di rimettersi in viaggio.
I due ragazzi avevano salutato gli altri con un sorriso, mentre questi s’infilavano uno alla volta dentro la propria stanza. Le loro camere erano le ultime del corridoio, perciò rimasero da soli per gli ultimi metri.
Quando arrivarono, appoggiarono la schiena contro la porzione di parete che divideva le due porte e rimasero a osservare il soffitto.
“Non trovo il senso in questo” mormorò Minerva “Avevano promesso di difendere la città, allora perché hanno ucciso dentro di essa?”.
“Per loro non erano membri della comunità, Garcia ha detto che si erano trasferiti da altre città” precisò il giovane dottore “E poi un evento del genere, uccidere insieme, rende immediatamente più legato un gruppo”.
“Ma dovevano salvarle quelle persone, non ucciderle. E i bambini? Loro…”.
“Minerva, questo è il nostro lavoro. Vediamo cose orribili ogni giorno”.
Lei si girò verso di lui, appoggiando la spalla contro il muro “Come fai a resistere?”.
“Cerco di non pensarci una volta a casa”.
“E ci riesci?”.
Reid si sistemò come lei, guardandola negli occhi e sorrise. Era un sorriso tirato, malinconico. Era il sorriso che ormai aveva imparato ad associare esclusivamente a lui. “Non sempre”.
“E quando non ci riesci vieni a casa mia?”.
Il ragazzo sembrò in imbarazzo. “Scusa, forse te lo dovevo dire…”.
“Non preoccuparti” fu lei questa volta a sorridere, ma dolcemente “Se ci sei tu sono più tranquilla anch’io, mi dimentico di quello che c’è là fuori”.
Questa volta il ragazzo sorrise realmente, felice e sollevato. Era la prima volta che lo vedeva così tranquillo. Avrebbe fatto di tutto per farlo addormentare, svegliare, vivere con quell’espressione sul viso.
“Sai…” iniziò, ma non riuscì a continuare. Spencer le aveva appoggiato una mano sulla guancia, fissandola dritta negli occhi. Non aveva più trovato le parole, era rimasta con le labbra schiuse-probabilmente sembrava un pesce-a osservarlo. Il cuore era a mille, era quasi certa di non riuscire nemmeno più a respirare.
E poi Spencer si chinò su di lei e la baciò, dolcemente. Un semplice contatto di labbra che lentamente si approfondiva.
Avanzò di un passo, avvicinandosi a lui, al suo corpo, cercando altro contatto. Appoggiò le mani sulle spalle, con delicatezza, ma immediatamente lui si ritrasse. Aveva lo sguardo confuso e spaventato.
“No, no, no” sussurrò Spencer.
“Che cè?”.
“Io…” si allontanò ulteriormente “E’ sbagliato, è inappropriato, molto inappropriato”.
“Spencey…” fece un passo verso di lui, ma appena lo vide allontanarsi ancora, si fermò.
Rimasero in silenzio in quel corridoio scuro, guardandosi negli occhi. Di solito basta uno sguardo per capirsi, per sapere cosa stava pensando l’altro, ma in quel momento c’era un’enorme barriera che glielo impediva.
Fu Minnie a capitolare. “Parlami, ti prego” lo pregò.
“Scusami, è stata una cosa sconveniente e inappropriata. Perdonami” e con rapidità, Reid, entrò nella sua stanza, lasciandola sola.
Minerva mise le mani sui fianchi, mordendosi il labbro inferiore, cercando di trattenere le lacrime, ma non ci riuscì. Cominciarono a scendere copiosamente sulle guancie. Sembravano quasi bruciare di rabbia e di sconforto. Si sentiva in imbarazzo, perché ci aveva creduto. Aveva pensato per quell’intero attimo che Spencer avesse deciso di mettere in chiaro quello che provava, di prendere in mano la situazione e risolverla.
Erano ormai mesi che le cose continuavano oscillare nell’ambiguità. Quegli abbracci così lunghi, più del solito, Spencer che l’attirava sempre dietro di sé per proteggerla, la continua preoccupazione per la sua incolumità…
Forse era lei che ci aveva visto troppo. In fin dei conti era lei che aveva il cuore che batteva a raffica quando erano vicini, era lei che cercava altro contatto quando erano nel jet, era lei che appoggiava la testa contro la sua spalla o lo abbracciava da dietro quando lui leggeva.
Sì, forse era stata tutta una sua fantasia.
Con rabbia si asciugò le lacrime e andò in camera. Buttò la borsa in malo modo sulla sedia e si spogliò, sparpagliando gli abiti sul pavimento. S’infilò dentro la doccia e rimase immobile ad ascoltare le gocce di acqua calda scivolarle sul corpo. Si beò pochi minuti di quel dolce tamburellare sulla sua pelle, per poi iniziare a piangere, non più silenziosamente, come aveva fatto in corridoio, bensì apertamente. I singhiozzi le toglievano spesso il respiro e le facevano sobbalzare il corpo.
Quando rimase senza più lacrime e si sentiva pervasa da un senso di spossatezza uscì dalla doccia. Si asciugò e indossò la camicia da notte. Avrebbe voluto dormire, ma sapeva che non ci sarebbe riuscita, così cominciò a rifare la valigia. Quando finì, prese il blocco da disegno e la matita, ma non disegnò nulla di particolare, solo scarabocchi.
Le ultime ore a Nazareth passarono così.

I posti in fondo, quelli vicini alla cambusa del jet, erano quelli dove di solito si accomodavano Hunter e Reid, ma quella mattina nessuno dei due si sedette lì.
Spencer si sedette davanti al tavolo, mentre Minerva si andò a sedere sul posto singolo dall’altra parte, in fondo, quasi nascosta.
Rimasero tutti un po’ spiazzati, ma decisero di non indagare. Erano decisi a non interessarsi alla loro vita privata, essendo entrambi due ragazzi molto riservati su qualsiasi aspetto della loro vita privata, temevano che intromettendosi li avrebbero messi sulla difensiva o sotto pressione.
Il viaggio fu molto silenzioso, forse troppo, ma dopo la decima volta che Spencer si sporgeva dal suo sedile per vedere cosa faceva la ragazza, Hotch decise che era tempo di intervenire. Con tranquillità piegò il giornale e lo sistemò sul tavolo “Reid, va tutto bene?”.
“Sì, certo”.
“Anche con Hunter?”.
Il ragazzo annuì, mentre ritornava a leggere, era sulla stessa pagina da ormai un quarto d’ora.
Morgan scivolò sul posto vicino al loro capo e incrociò le braccia “Lo sai, vero, che puoi dirci tutto?”.
“Certamente. Anche se trovo terribilmente scorretta questa affermazione, perché implicherebbe che non dovrei mai smettere di parlare e informarvi di tutte le mie attività, anche quelle più logiche, come respirare e pensare”.
“Sei sulla difensiva” s’intromise Alex “Spencer, cosa non vuoi dirci?”.
Il ragazzo sospirò, si sporse dal sedile e osservò Minerva che era ancora intenta a osservare fuori dal finestrino, con le cuffie nelle orecchie e la musica sparata al massimo come al solito. Si girò e guardò i suoi amici, i suoi colleghi, la sua famiglia, e decise che era tempo di parlare. Era il tempo di aprirsi con qualcuno. Chiuse il libro e lo mise davanti a sé.
“Ieri sera” disse lentamente “io e Minerva siamo rimasti nel corridoio a parlare un po’ del caso. Lei era confusa sulle motivazioni di quegli uomini, ma anche sul fatto che una volta a casa non sarebbe riuscita a non pensare a quello che abbiamo visto”.
“E’ una cosa con cui conviviamo tutti” disse JJ “Le potrei parlare…”.
“No, lo sa. Non glielo ho mai detto, mai spiegato, ma ha capito che era così perché vado tutte le sere a casa sua e le parlo di come il caso sia rimasto nella mia testa, di come faccia fatica a non prendere il…” sorrise imbarazzato “Il fatto è che mi ha detto che riesce ad essere più tranquilla se sto con lei, che non ci pensa se ci sono io”.
JJ sorrise, mentre Morgan si sporse dandogli un pugno divertito sulla spalla “Bel colpo ragazzo!”.
“E quindi il problema dove sta?” chiese Rossi.
“Sul fatto che l’ho baciata e quando ho capito che la cosa stava andando oltre…cioè quando ha cominciato a rispondere e a stringersi…sì, insomma, mi sono tirato indietro”.
“Perché?”.
Il giovane dottore cercò lo sguardo di Hotch, la conferma di quello che stava per dire. Era la sua ancora di salvezza, era l’unico modo per sentirsi dire di aver fatto bene. “E’ inopportuno che si stringano delle relazioni amorose con i propri colleghi”.
Il supervisore annuì “Sì è vero, ma lei è una consulente dell’F.B.I., non un’agente”.
“Ma…ma…”boccheggiò Reid “Il lavoro che facciamo distrugge le relazioni, ci toglie il tempo per i stare con i nostri cari…”.
“Il fallimento del mio matrimonio e di quelli di Rossi non è una regola, Reid” disse Hotch, capendo quel’era la paura del ragazzo di fronte a lui. Questo provò a parlare, ma fu interrotto immediatamente da Dave.
“I nostri fallimenti sono colpa puramente nostra, non del lavoro. Abbiamo messo davanti quest’ultimo senza pensare alle nostre famiglie. Guarda JJ, ha un meraviglioso bambino e un marito che la ama”.
“Alcune cose te le perdi, è inevitabile” disse la ragazza “Ma è una cosa che capita indipendentemente dal lavoro. Posso tornare per pranzo o prima la sera, ma perderò sempre qualcosa di mio figlio, ma quando sono a casa mi concentro totalmente su di lui e su Will”.
“E’ necessario un equilibrio” continuò Rossi “Che dovete trovare voi”.
Morgan annuì “E non sarà facile, ma partite avvantaggiati perché lavorate insieme e sapete entrambi cosa richiede questo lavoro” .
Spencer annuì incerto. Bisognava trovare un equilibrio, sembrava semplice, ma era certo che non fosse così. Aveva fatto fatica a ricostruire qualcosa dopo la sua dipendenza da farmaci, ma c’era lentamente riuscito, anche se si sentiva continuamente instabile e a un passo dal tornare dentro quel tunnel.
Fu annunciato l’atterraggio dell’aereo e tutti si sistemarono la cintura di sicurezza. L’aereo rimbalzò leggermente prima di fermarsi sulla pista.
Il ragazzo fece un respiro profondo, deciso ad affrontarla subito, prima di scendere dal jet, mentre gli altri si precipitavano fuori a firmare i vari documenti e a prendere le loro valigie, ma Minnie fu più rapida.
Aveva raccolto la valigetta velocemente, aveva salutato ed era scesa di corsa dall’aereo, lasciando il dottore confuso.
Piegò le spalle sotto il peso di aver perso un’occasione d’oro, di aver lasciato andare l’unica persona in grado di capirlo e forse amarlo per quello che era. Prese la sua borsa e scese le scale, raccolse la valigia che gli addetti avevano depositato lì vicino e si diresse al piccolo aeroporto. JJ lo raggiunse e gli afferrò un braccio appena firmò il foglio di arrivo. “C’è qualcuno che ti vuole vedere” gli disse raggiante.
Davanti all’uscita c’erano Will e Henry. Il bambino corse incontro a entrambi, abbracciò la mamma e poi il padrino, prima di mostrare tutto orgoglioso il suo giocatolo nuovo.
Reid sorrise, sentendo una certa malinconia. Aveva sempre desiderato essere circondato dalle persone che amava, ma non c’era mai riuscito: suo padre era scomparso per anni, sua madre era malata e…non c’era nessun altro intorno a lui. Non ci sarebbe mai stato.
Non era in grado di tenersi nessuno al suo fianco. Sarebbe rimasto solo.
“Spenc” lo chiamò dolcemente la bionda “Sei preoccupato?”.
“No, spaventato”.
“Di cosa?” Will si era avvicinato e aveva preso per mano il bambino, che si osservava intorno rapito dagli aerei e dalla gente che si muoveva intorno a lui.
Spencer infilò le mani in tasca “Il lavoro che facciamo non ci permette di avere una vita normale, di poter stare con le persone che amiamo. Unito alla mia incapacità di stringere rapporti con l’altro sesso, le mie probabilità di avere una famiglia si riducono”.
“C’entra una ragazza?” chiese l’uomo. Sua moglie annuì, mentre accarezzava dolcemente la spalla del collega. “Che è successo?” continuò Will.
Non se la sentiva di ripetere la storia e passare ancora per stupido, ma JJ lo aiutò “E’ complicato, ma Spence ha paura che potrebbe andare qualcosa storto e rimanere da solo come Rossi e Hotch”.
Will annuì “Ti do un consiglio, Spencer. Non avere mai e poi mai paura di amare, di metterti in gioco per amore. Può andare bene, può andare male, ma potrai dire di averci almeno provato e di aver vissuto”.
Una strana sensazione di forza lo pervase e decise che era il caso di sfruttare quel energia. Con un sorriso salutò la famigliola e si diresse alla macchina, con una sola destinazione in testa.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Dichiarazioni ***


Dichiarazioni

Seduta sul divano, osservava le luci della città sotto di lei.
Voleva dimenticarsi di tutto e di tutti, voleva trovare la quiete, ma non ci riusciva. Si sentiva svuotata, come se qualcuno avesse aspirato ogni emozione da lei. Aveva provato a prendere in mano i colori, nel suo piccolo studio, ma era rimasta senza energie di fronte alla tela bianca. Dentro di lei c’era il vuoto!
Nemmeno il giorno in cui aveva abbandonato la sua famiglia si era sentita così. Perciò aveva deciso che l’unico posto in cui poteva trovare rifugio era il divano, davanti alla luce di quei palazzi che la circondavano.
Rimaneva lì, facendosi scorrere addosso i rumori e i movimenti che percepiva, concentrandosi solo sul respiro e sul battito del suo cuore. Poi all’improvviso sentì qualcuno bussare.
Non aveva le forse per alzarsi e non aspettava nessuno, quindi decise che chiunque fosse poteva stare fuori e passare un altro giorno. Chiuse gli occhi e tornò a respirare profondamente, ma di nuovo qualcuno bussò. Nuovamente finse di non sentire.
“Minerva sono io, Spencer”.
Aprì gli occhi di scatto e si girò verso la porta. Cosa ci faceva lì? Perché era lì?
Non gli bastava averla respinta in quel modo dopo che lui, sì lui, l’aveva baciata?
Avrebbe voluto urlargli che doveva andarsene, che quello che le aveva fatto era stato crudele e che non lo voleva più vedere, ma una forza misteriosa la spinse ad alzarsi e aprirgli.
Lui era lì, con ancora gli abiti del viaggio di quella mattina e i capelli scompigliati. Sembrava imbarazzato e aveva quello sguardo malinconico che adorava e che la faceva capitolare sempre, ma in quel momento no, non ci sarebbe cascata. “Cosa vuoi, dottor Reid?”.
“Vorrei parlarti”.
“Di cosa?”.
“Di quello che è successo ieri notte…”.
“Non ce n’è bisogno, hai già messo in chiaro cosa ne pensi al riguardo. Era qualcosa d’inopportuno e inappropriato. Quindi, se non ti dispiace, vorrei andare a letto e buttare tutta questa storia dietro la schiena e dimenticarmene” provò a chiudere la porta, ma lui la bloccò.
“Ascoltami, ti prego”.
La ragazza lasciò la presa sulla maniglia, così lui poté entrare. Chiuse dietro di sé la porta e si guardò intorno imbarazzato, vide che la valigia era stata buttata su un angolo e il contenuto era sparpagliato a terra “Non hai ancora messo a posto…”.
“Non ho avuto tempo” rispose lei incrociando le braccia, cercando di difendersi e allontanarsi da lui.
Spencer si passò una mano tra i capelli “Più del 50% delle storie finiscono a causa di una separazione o per omicidio e questo mi porta a dubitare in un lieto finale in ogni rapporto amoroso” la guardò negli occhi e si avvicinò “Ho usato questa scusa insieme a tante altre per non mettermi mai a gioco”.
“Sono felice che sei arrivato a questa conclusione, ma non capisco cosa c’entra con me”.
Dovette respirare a fondo prima di fare un passo verso Minerva, prenderle il volto tra le mani e baciarla. Questa volta non si ritrasse quando sentì le sue mani dolcemente salire sulle sue spalle e permise al suo istinto naturale di prendere il controllo del suo corpo, stringendola a sé e approfondendo quel contatto. Era strano come per la prima volta nella sua vita si stesse lasciando tutto alle spalle, permettendo a qualcuno di entrare nella sua sfera privata, di farsi strappare quel guscio con cui si era sempre difeso da quando era piccolo, da quando aveva capito che era speciale.
Ma fu soprattutto strano non sentire più la sua testa pensare, sentire che era il suo corpo a muoversi, a fare qualsiasi cosa in modo primitivo, arrivando a quelle conseguenze logiche e naturali che troppo spesso aveva ignorato.

La mattina successiva si svegliarono al suono dei loro cellulari. Entrambi si sporsero verso il comodino e afferrarono i due apparecchi, per poi lasciarsi cadere di nuovo tra le coperte e i cuscini.
“Reid”.
“Hunter”.
Il dottore avvampò appena sentì la voce dall’altro capo, mentre la ragazza sorrise e si scambiarono i telefoni.
Spencer sentì la risata divertita di Morgan dall’altro capo del suo cellulare “Pensavo che la ragazzina non ti volesse più parlare e invece sei a casa sua. Cos’è successo, bambino?”.
“Nulla che ti deve interessa Morgan” rispose in malo modo Spencer.
“Nulla eh? Siamo sicuri?”.
“Non è successo assolutamente nulla! Perché hai chiamato?”.
Derek tornò serio di colpo “Abbiamo un caso a Philadephia. Un S.I. sta prendendo di mira degli omosessuali ammalati di H.I.V., dovremmo partire tra mezz’ora, ma dirò a Hotch di ritardare la partenza di un’ora e mezza, così fate con calma. Ma siate puntuali”.
La chiamata s’interruppe di colpo, lasciando al ragazzo confuso. Chissà cosa intendeva?
Dall’altra parte del letto Minerva era a pancia in giù e ascoltava JJ che le stava spiegando del caso e di cosa avevano trovato sulla scena del crimine. La ragazza annuiva e sovrappensiero si spostò i capelli da un lato, esponendo la schiena nuda ai raggi del sole che entravano dalla parete di vetro.
Ok, adesso aveva capito a cosa si riferiva Morgan. Il suo corpo si era risvegliato di colpo.
“Vedrò cosa posso fare, ma devo vedere dal vivo il calco. Sì, certo, a dopo” la ragazza mise giù e guardò il display sovra pensiero.
“Che c’è?”.
“Te l’ha detto JJ di venire qui?” chiese la ragazza a bruciapelo.
Spencer si girò verso i lei, puntandosi con il gomito sul materasso “Non esattamente…mi ha solo detto che ne vale la pena”.
“Cosa?”.
Gli spostò una ciocca dai capelli e le sorrise dolcemente. Minerva chiuse gli occhi e sembrò bearsi di quel contatto, quando li riaprì sorrise dolcemente. “Ne vale sempre la pena amare qualcuno” spiegò il giovane dottore.
Minerva schiuse le labbra, prima di tuffarsi su di lui e baciarlo appassionatamente, poi con un movimento deciso si mise a cavalcioni sopra di lui, che avvampò, prima di cedersi nuovamente a lei.

Un’ora dopo erano in macchina di Reid, entrambi con i capelli bagnati ma un sorriso luminoso sulla faccia.
Per risparmiare tempo si erano fatti la doccia insieme e, be’, era stato fantastico. Ora capiva cosa intendeva Morgan quando diceva che alcune ragazze ti fanno salire il fuoco dentro e anche perché li avesse dato un’ora e mezza di tempo per prepararsi.
I due salirono le scale fino all’appartamento di Spencer, che cercò di prendere la valigia di scorta il più velocemente possibile, prima che ci fosse un terzo ‘round’, come diceva Minnie. Quest’ultima si stava guardando attorno, analizzando tutto quello che c’era nel salotto del ragazzo. Prese dalla libreria un libro e cominciò a sfogliarlo con non curanza. “Spenc” lo chiamò, senza staccare gli occhi dalle pagine.
“Un attimo! Sto prendendo il maglione” urlò il padrone di casa dalla stanza da letto.
“Cosa siamo adesso, io e te?”.
“In che senso?”.
“E’ stata una ‘toccata e fuga’, anche se è poco adatto con quello che è successo poco fa, oppure è qualcosa tipo ‘ci sposeremo e avremo tanti bimbi’?”. Spencer lasciò cadere la borsa avvampando “Non capisco…”.
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sconsolata. Alcune volte si chiedeva come poteva essere il genio della squadra se alcune volte non capiva nemmeno l’ovvio. “Cosa sono? La tua fidanzata, la tua ragazza, la tua amica con privilegi?”.
“L’amica con privilegi è quella con cui non condividi sentimenti, ma hai solo rapporti…”.
“Sì, esatto, geniaccio” tagliò corto Minnie “Allora?”.
Reid la osservò per un po’ prima di rispondere “Non sono bravo in queste cose, non ho mai avuto una ragazza nella mia vita”.
“Ma ieri non era la tua prima volta”.
“No, infatti. E’ una storia complicata” questa volta fu lui a troncare il discorso “Credo che dovremmo lasciar passare del tempo e capire cosa succede tra di noi”.
“Quindi lo terremmo per noi”.
Spencer annuì “Sempre se non ti dispiace”.
“Ma stai scherzando?” si drizzò e gli andò incontro. Gli sistemò il colletto della camicia e lo baciò a fior di labbra “Sarà interessante non farsi scoprire questa sera mentre m’intrufolerò in camera tua”.
“Ma dobbiamo lavorare” protestò.
“Ma una pausa ci sta”.
Spencer Reid sorrise, era finito in un grosso guaio, ma gli piaceva assai.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3430778