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Capitolo 1 *** Albertina, per gli amici Berty! ***
Albertina, per gli amici Berty.
Ciao, cari lettori.
Mi presento: mi chiamo Albertina, per gli amici
Berty. Ho quindici anni e vivo in Italia,
precisamente in un paese fittizio che chiamerò…mmh… Bettola town.
Okay, lo so, il nome può sembrare buffo e non
attinente al nostro caro Stato Italiano (Repubblica fondata sul Lavoro e blablabla),
ma sfido chiunque a trovare un nome migliore di questo!
Ma, nel caso qualcuno di voi avesse da ridire,
può benissimo avanzare delle proposte, prometterò di prenderle in
considerazione (seh, come no, tanto per illudervi che
siamo in Democrazia!).
In ogni caso, non divaghiamo troppo.
A Bettola town la
vita si alterna tra mille peripezie che è mia intenzione narrarvi, sempre che la
cosa vi interessi.
Per quanto mi riguarda, credo che lo farò in
ogni caso, perché ho bisogno di sputtanarmi un po’ in giro e di raccontare gli affaracci miei al gentil mondo di EFP.
E dunque, partiamo dal mio nome.
Albertina Annetta Bartolini.
Può sembrare una coincidenza, ma vi giuro che
io non ho nulla a che fare con le due sorelle Stevenson della Santacroce, sono
innocente!
Vabbè, proprio innocente no, ma
mio padre lavora per un famoso Corriere Espresso. Il che è tutto dire, benché
non c’entrasse assolutamente niente con il fatto che mi abbiano appellato con i
nomi di quelle sante e dolci ragazze.
E, se qualcuno di voi sa di cosa sto parlando,
deve capire che NON faccio parte del Coro Amorino e che Padre Amos non si è
approfittato di me.
Okay, spoiler a parte, sto di nuovo divagando e
ciò nuoce gravemente alla salute di chi legge. Intenzione che, se devo dirla
tutta, ho coltivato da quando ho deciso di farvi entrare nella mia vita.
Be’, se deciderete di seguire le mie vicende,
dovrete abituarvi a questo mio modo di fare, perché sono purtroppo abituata a
divagare e a fare riferimenti a faccende che ho letto in libri di vario genere;
indipercui troverete alcuni spoiler o riferimenti che
potreste non capire, perciò vedete di farvi una cultura!
Sono simpatica, lo so!
Bene, ora vi parlerò della mia famiglia.
Sono figlia unica (meglio così, non ho mai
sopportato i marmocchi urlanti e avrei sicuramente ucciso il/la mio/a
ipotetico/a fratello/sorella minore) e i miei genitori stanno ancora
felicemente (anche troppo) insieme.
E voi ora direte: e quindi? Che cosa c’è di
eccezionale in tutto ciò?
Be’, se consideriamo che i matrimoni attuali
durano sì e no due anni (gravidanze comprese), ditemi un po’ voi se non è
clamoroso che i miei siano sposati da ventun anni!
E poi vi starete chiedendo anche perché ho
scritto che stanno insieme troppo felicemente e sicuramente starete pensando
che sono un’ingrata perché non apprezzo il fatto di avere una famiglia felice e
normale.
Vorrei che capiste una cosa, lettori miei:
assistere tramite vie uditive all’atto sessuale dei vostri genitori, ogni
notte, farebbe accapponare la pelle anche a voi.
Per fortuna ho la mia musica, che mi libera dal
male!
(Amen!)
Quindi, mi posso definire una ragazza
abbastanza matura e consapevole di ciò che è la vita sessuale, nonostante mi
manchi ancora l’esperienza personale e, sapete, non ne voglio sentir parlare!
Soltanto l’idea mi disgusta!
Come traumatizzare i figli in una semplice
mossa.
Ora mi porterò appresso questo fardello per
tutta la vita e so che sarei capace di respingere anche Chad
Michael Murray incontrato per caso in una spiaggia per nudisti (okay, non
esageriamo ora!).
Mio padre, come accennavo prima, gira tutta
l’Italia a bordo di un simpatico furgoncino rosso a consegnare pacchi e pacchetti
everywhere.
La cosa mi è di grande aiuto, in quanto ordino
almeno una volta al mese da vari siti di libri e di abbigliamento (scegliendo
quelli che si servono della ditta in cui lavora mio padre) e ho le spese di
spedizione gratis!
O almeno il contrassegno…
Insomma, non è che io tragga chissà quale
giovamento dal lavoro di mio padre, che diamine!
Si chiama Alfredo, ha quarantacinque anni ed è
un bell’uomo.
O meglio, deve esserlo per poter risultare così
irresistibile agli occhi perennemente innamorati e appassionati di mia madre.
Lei si chiama Maria Vittoria ed è una rinomata
insegnante di matematica al Liceo Scientifico e io non riesco proprio a capire
come diamine possa sopportare quella marmaglia urlante.
In mezzo alla quale, ahimè, ci sono io.
Be’, sì, dovete sapere che anche io studio al
Liceo Scientifico e sono al secondo anno.
Quando, con disappunto, ho scoperto che lei
sarebbe stata la mia insegnante, ho pensato seriamente di suicidarmi gettandomi
dal tetto della scuola, ma poi ci ho ripensato perché, effettivamente, ho
ancora tanto da vivere.
E non avrei potuto parlarvi delle mie
vicissitudini se mi fossi tolta la vita.
Pensavo di essermela scampata anche quest’anno,
ma mia madre ha ben pensato di richiedere espressamente l’assegnazione della mia
classe, ossia la 2^G.
Ebbene, questo è il mio triste destino e dovrò
affrontarlo.
Per fortuna non sarò sola in quest’impresa.
Ma di questo ne parleremo la prossima volta,
almeno potrò lasciarvi sulle spine.
La mia
migliore amica, conosciuta l’anno scorso, si chiama Giuditta ma, dal momento
che odio quel nome, la chiamo sempre Tita.
Lei,
rispetto a me, è molto timida e quindi capita spesso che io debba portarla
fuori dal suo diamine di guscio spinoso.
Però la
adoro perché con me è sincera e spontanea e, soprattutto, è uno dei personaggi
più importanti del mio racconto.
Se
volete capire perché, vi accontento subito.
Ebbene,
Giuditta mi lancia continuamente delle sfide assurde ed è sempre convinta che
io non sia in grado di affrontarle e di vincerle.
Ma la
mia cara amica sembra non aver ancora capito che io, Albertina Annetta
Bartolini, non posso assolutamente perdere una sfida!
O forse,
si diverte semplicemente a fare la stronza.
O,
ancora, si diverte a ficcarmi nelle più improbabili situazioni e riderne
beatamente.
Ma nella
mia classe, non è solo lei a piacermi.
Generalmente,
vado più d’accordo con il genere maschile, poiché trovo che siano nettamente
più svegli, simpatici e divertenti di quelle femminucce delle mie compagne, le
quali si danno un sacco di arie da prime donne in crisi ormonale.
Dannate
oche giulive!
Nella
mia classe, i ragazzi non sono tanti, nonostante il liceo ne sia sovraffollato.
Il più figo è Giacomo, il quale è tendenzialmente un cesso, ma è
dotato di una simpatia senza pari.
È circa
dieci centimetri più basso di me – il che significa che io, dall’alto del mio
metro e sessanta, mi sento una pertica! – e ha degli occhiali bianchi che le
mie compagne sofisticate definiscono ‘chic’, mentre io preferisco non
esprimermi in merito, per non offendere la quasi inesistente autostima del mio
compagno preferito.
Giaco mi
piace perché, come me, non si tira mai indietro di fronte ad una sfida e spesso
facciamo a gara a chi vince prima.
Poi c’è
Gabriel, il braccio destro di Giaco. È follemente più alto di lui e follemente
innamorato di Tita. Lei ricambia ma entrambi sono
troppo timidi per ammetterlo. Roba da romanzetti rosa di quart’ordine.
Il terzo
e ultimo giovine di sesso maschile si chiama Mauro ed è un bel ragazzo,
davvero, anche se un po’ noioso e pieno di sé. io, certo, riesco a rimetterlo
al suo posto, anche perché Giaco sospetta da sempre che lui voglia avere un
incontro ravvicinato con me al di sotto di una fitta coltre di lenzuola, e
allora mi dà sempre retta, perché crede così di rabbonirmi. Giaco dice che
prima o poi ci riuscirà e minaccia spesso di lanciarmi una sfida che lo
riguarda.
Vorrei
tanto che non lo facesse, credetemi: non saprei resistere alla tentazione di
aspettare, sono troppo orgogliosa per non farlo.
Per
quanto riguarda il resto degli studenti, non ne voglio parlare perché si
tratta, appunto, delle suddette oche screanzate e sexy, come amano definirsi quando,
arrivate in classe, si atteggiano da top model e
improvvisano sfilate di moda con tanto di sottofondo degli ultimi successi del
pop/dance/merda mondiale.
Senza
contare i vestiti stile Barbie e il trucco da geishe
senza arte né parte!
Però
avevo giusto promesso di non parlarne… scusate, come
potrei continuare ad ammorbarvi con tali frivolezze?
Perfetto,
descriverò qui di seguito una giornata tipo nella mia classe, tanto per darvi
un’idea di che razza di trantran devo sopportare quotidianamente.
Ore 08:15
Arrivo
in classe e trovo questa situazione: le mie compagne fanno il loro ingresso in
grande stile, abbigliate alternativamente in rosa shocking/verde
militare/celeste pastello/fiorellini/teschietti di
paillettes/diamantini finti/farfalline e chi più ne ha più ne metta.
Compagna
1: “Ciao tesori miei, come state? Vi siete riprese dalla mega-serata dell’altro
giorno?” (con tono cinguettante e stridulo)
Compagna
2: “Uh, sì, è stato strafico! Vi ricordate quanto eravamo sexy? Tutti ci
guardavano!”
Compagna
3: “Sì, ma cicci, tu eri la più bella, con il tuo
nuovo vestito di strass!”
Compagna
1: “Già e mi sto preparando per il prossimo party! Venerdì ho già una bella
prenotazione dall’estetista!”
Compagna
3: “Farai la luce pulsata?”
Compagna
1: “Ovviamente!”
Compagna
2: “Io invece vado a fare la lampada, devo avere un’abbronzatura perfetta,
anche perché dovrò rimorchiare il più possibile!”
In tutto
questo, io e Tita ci sentiamo molto spesso come due
aliene, ma in modo positivo; nel senso che comunque ci divertiamo a
scimmiottarle e a prenderle per il culo, anche perché loro credono che noi
siamo sfigate e non capiamo niente di moda e quant’altro.
Ore
08:30
Arriva
Giaco trascinandosi dietro Gabri, mentre si insultano
e parlando dell’ultima conquista che Giaco ha fatto sull’autobus, mentre
arrivava a scuola.
“Giaco,
bella!” grido io, dandogli il cinque. “Come si chiama la nuova vittima?”
“Oh, ha
un nome dolcissimo, come quella di Dante, sai?”
“Beatrice?”
“No, Virgilia!”
Io e Tita ci fissiamo e scuotiamo il capo, esasperate.
Questo
ragazzo non cambierà mai.
Ore 08:35
Entra
mia madre, trafelata.
Al
contrario di molti professori, lei è sempre mezzo svampita e si comporta
perennemente come una quindicenne che non vuole saperne di crescere.
Tuttavia,
è una brava insegnante e tutti l’adorano, nonostante si faccia rispettare più
di molti altri.
La
prenderei sul serio, ve lo giuro, se solo non fossi consapevole di come si
comporta al di fuori di quel contesto.
Ha la
cattiva abitudine di pretendere troppo da me, poiché vorrebbe che seguissi le
sue orme ed è per questo che mi ha ficcato a forza allo Scientifico.
Peccato
che non mi conosca affatto e che neanche le importi.
Io,
Giaco e Tita ci divertiamo a farla infuriare,
nonostante lei mantenga il controllo in maniera eccellente.
Il suo
difetto più grande è che, nonostante abbia la fortuna di insegnare nel piccolo
Liceo di Bettola Town, arriva puntualmente in ritardo. Può sembrare un gioco di
parole, ma è un’incorreggibilie ritardataria e questo
permette sempre ai suoi alunni di nutrire una vana speranza, di intravedere uno
spiraglio di libertà.
Ma mia
madre, purtroppo, non manca mai.
E io, di
conseguenza, devo fare lo stesso e non me la scampo neanche quando è il suo
giorno libero o quando la febbre a quaranta mi fa delirare come una folle.
È pura
tirannia!
Ore 10:35
Dopo due
ore di matematica, durante le quali la mia classe potrebbe essere scambiata per
un gruppo di sordomuti, mia madre raccoglie le sue cose e se ne va di tutta
fretta.
Le sue
convinzioni lasciano basito chiunque, dal momento che è convinta di dover
pontificare per due ore esatte e poco le importa se dalle 10:15 il
puntualissimo insegnante di Chimica si ritrova accampato fuori dall’aula.
L’uomo,
un vecchietto che credo dovrebbe essere in pensione da parecchi lustri, fa il
suo ingresso appoggiandosi al bastone da passeggio, mentre un’aitante
assistente di appena ventidue anni lo segue per aiutarlo a trasportare i suoi
libri.
La scena
è patetica, credetemi, soprattutto perché Giaco molla sempre una gomitata a
Gabriel e insieme iniziano a sghignazzare, fantasticando sulle notti folli dei
due, all’insegna di pastiglie blu e sadomaso.
Allora
io e Tita trascorriamo le lezioni di Chimica a
fissare convulsamente il quaderno e a prendere freneticamente appunti, come se
fossimo realmente appassionate di questa ardua materia.
Sollevare
lo sguardo su quei due ci farebbe rimettere la colazione.
Ore 11:10
Intervallo.
Io, Tita, Giaco e Gabriel ce ne andiamo in giardino.
Qui, si
svolgono diverse attività: io mi ingozzo con tutto il cibo che ho portato da
casa + il panino di Tita (è convinta di essere grassa
e ne assaggia giusto qualche boccone) + un cracker dal pacchetto di Giaco + il
tè al limone di Gabriel, che sua madre si ostina a buttargli in borsa senza
rendersi conto che lui detesta il tè. Ma, poiché in casa mia certe “bevande
indicibili” non sono concesse, lui non dice niente e cede la lattina alla
sottoscritta.
Penserete
che sono grassa, ma tutt’altro. Tita mi invidia
perché mangio come un porco e non assimilo nulla.
Tita e Gabriel, invece, trascorrono l’intervallo a
sbocconcellare la loro misera merenda e a lanciarsi occhiate di sottecchi,
mentre Giaco gira per il cortile cercando di abbordare qualche ragazza, senza
alcun risultato.
Dopo un
po’, ci raggiunge anche Mauro, il quale sfodera il suo bel sorriso e si mette a
scherzare con me, nonostante io possa rispondergli soltanto con dei mugugni
indistinti tra un boccone e l’altro.
Che
ragazzo determinato e paziente!
Ore 11:20
Italiano,
ovvero:
- Io e Tita che giochiamo a tris;
- Giaco
e Gabriel che dormono sul banco;
- Le mie
numerose compagne che si truccano e si organizzano allegramente per il prossimo
party;
- Mauro
che scribacchia su un quadernetto, mentre una delle ragazze gli ronza intorno
cercando di farsi notare;
- La
professoressa Demartini si gira i pollici, osservando
con orrore la classe ma non sapendo che fare per cambiare le cose.
Ore 13:15
Libertà!
Usciamo
tutti da scuola, stanchi come se avessimo fatto una maratona di cinquemila
metri o zappato quaranta ettari di terreno.
Ma le
due ore di italiano/fancazzismo sono state devastanti
e chiunque di noi preferirebbe le opzioni su citate.
A quel
punto, mia madre mi raggiunge in macchina e mi porta via asserendo che, se
rientriamo insieme, possiamo pranzare prima e lei poi deve guardare Master Chef
e non ha intenzione di perdersene un solo minuto.
Così la
mia giornata scolastica finisce.
E il
tutto è, ovviamente, intervallato dalle continue sfide che vengono lanciate a
me e Giaco.
Ma di
questo parleremo la prossima volta, cari interessatissimi lettori.
Nel pomeriggio
mia madre, dopo aver guardato MasterChef
Italia/Australia/Spagna/America e quant’altro, mi obbliga a fare i compiti di
matematica.
Sì,
avete capito bene.
Per lei,
potrei anche non studiare nessuna materia, ma sulla matematica non transige. Io
cerco sempre di sgattaiolare via prima che sia troppo tardi, ma raramente mi
riesce.
Il problema
è che dopo pranzo mi viene un sonno incontrollabile e finisco per addormentarmi
sul divano, mentre quell’isterica della mia genitrice strilla di fronte alla
tv, inveisce e insulta questo o quel concorrente.
Quando alla
fine mi risveglio – non chiedetemi come faccio a dormire con tutto quel caos –
è perché mia madre mi scuote per le spalle, pronta a torturarmi.
Allora trascorriamo
ore infinite sui libri e, una volta finiti tutti gli esercizi e ripetute tutte
le formule a memoria e con la corretta pronuncia ed intonazione, sono talmente
stanca che non ho più voglia di uscire e finisco la giornata in uno stato di semincoscienza che mi impedisce di ragionare lucidamente.
Quando,
invece, riesco a fuggire, le cose vanno più o meno così.
“Guarda!
Ma cosa cazzo sta facendo quello? No, non si caramellano così le cipolle, ma
dai! Demente, sei un demente, Anselmo! Sì, ecco, guarda quell’altra cretina di
Mariangela! Fate pena! Ah, se ci andassi io…” (mia
madre di fronte alla tv, di pomeriggio. Una tortura.)
“Mamma,
perché non ci vai allora?” la provoco spesso io, lanciandole un’occhiata
annoiata. Il fatto è che mia madre non sa cucinare, compra spesso piatti pronti
e roba surgelata, scalda tutto al microonde et voilà!
Invidio mio padre che lavora tutto il giorno e si ferma a pranzo fuori,
sicuramente ha un’alimentazione più sana della nostra. Anche il McDonald’s è
più salutare del nostro regime alimentare.
“Oh,
potessi lo farei! Ma poi chi penserebbe a te? E tuo padre? E il lavoro a
scuola? Voi somari non trovereste mai una mia degna sostituta!”
Magre consolazioni,
come si suol dire.
Se sapesse
almeno friggere un uovo, sarei fiera di lei e mangerei uova fritte per il resto
dei miei giorni.
“Hai
ragione, mamma. Senti, io vado un po’ in camera, a schiacciare un pisolino, eh?”
ammicco, alzandomi. “E, mi raccomando: svegliami quando è ora di fare i
compiti!” aggiungo, giusto per rendere il tutto più credibile.
Preferirei
morire piuttosto che sentirmi scuotere per le spalle da lei, ogni fottuto
pomeriggio.
Razza di
madre snaturata! Non capisce proprio le mie esigenze e mi maltratta! Un giorno
o l’altro avviserò gli assistenti sociali e allora la smetterà di
ossessionarmi!
Che poi,
io sarei pure contenta se lei andasse a MasterChef
(ammesso e non concesso che superi qualsiasi selezione). Sì, be’, quale figlia non sarebbe fiera di vedere la propria
madre in televisione?
E poi,
sapete che significherebbe per la sottoscritta non averla tra i piedi per un po’?
Ma siccome dubito che rimarrebbe in gara abbastanza a lungo da darmi il tempo
di abituarmi alla sua assenza, perciò tanto vale evitare di fare figuracce in
pubblico.
Comunque…
Esco dalla
cucina e mi dirigo furtivamente verso la mia stanza.
Ehi,
credete davvero che metterò in pratica ciò che ho rifilato alla mamma?
Nah, vado a prendermi la borsa, darmi una sistemata
e poi scappo di casa.
Avviso Tita con un sms. Lei è fantastica, sempre pronta ad
accogliermi durante le mie fughe.
Poi mando
un sms anche a Giaco e decidiamo di vederci nel suo paese, così saremo
tranquilli e poi da lui ci sono dei bei posti, c’è più divertimento e gente
interessante.
E,
soprattutto, spunti per nuove scommesse.
Allora esco
pian piano di casa, mentre ascolto mia madre che continua a sbraitare contro lo
schermo e non si accorge di niente.
Quando finalmente
raggiungo, strisciando lungo la parete come un ragno, l’angolo della mia via,
tiro un sospiro di sollievo e mi rilasso.
Poi passeggio
allegramente, dirigendomi verso il punto in cui io e Tita
ci incontriamo di solito.
Intanto Giaco
dice che ci aspetta con ansia e che ci sarà anche Gabri.
Oh,
perfetto.
Che sia
la volta buona che lui e Tita si decidano e si
appartino da qualche parte?
Nah, troppe vane speranze, ahimè…
Incontro
Tita e insieme raggiungiamo la fermata dell’autobus.
A quell’ora
– precisamente le 15:20 del pomeriggio – ci sono ancora studenti solitari che
si affannano verso la fermata, ansiosi di rientrare a casa. E io li invidio,
naturalmente.
Perché diamine
non ho scelto un liceo con zero matematica e con una distanza di almeno 100 km
da casa?! Forse è il Paese dei Balocchi detto così, però sarebbe stata la cosa
più bella che potesse capitarmi!
Io e Tita ridiamo come matte, finché ad una fermata non sale un
uomo che attira subito la nostra attenzione.
Ci guardiamo:
stiamo pensando la stessa, identica cosa.
“Assomiglia
a Zafón!” esclamiamo all’unisono, esaltate come se
fosse appena salito sul nostro autobus un funzionario del governo o il Papa.
Ora, non
ditemi che non sapete chi sia Carlos RuizZafón perché vi mangio!
Oh, be’, però non tutti sono intelligenti e colti come la
sottoscritta, perciò la vostra Berty vi darà un
piccolo aiuto:
Ecco,
vedete, quando siete appassionati di un qualsiasi artista e vedete un suo clone
a pochi chilometri da casa vostra, non potete negare che la reazione sarebbe
quella di gettarvi ai suoi piedi e di baciarli, fango o cacca di cane compresi.
Ma,
siccome io e Tita non siamo persone dalle reazioni
convenzionali (o almeno, io non lo sono, Tita viene
soltanto trascinata nelle mie scorribande), la vicenda quel giorno è andata
diversamente da ciò che vi aspettate.
Tita mi fissa con un’espressione indecifrabile, poi
fa: “Oh, Berty, perché non gli parli?”
Ridacchio
come una scema e le lancio un’occhiataccia.
“Sì, e
cosa gli dico?”
“Gli
dici: ehi, Carlos, me lo fai un autografo?”
“Diglielo
tu!”
“Ah-ha! Lo sapevo, non hai il coraggio!”
A quel
punto il mio organismo si ribella. Mi viene quasi da vomitare ogni volta che
qualcuno mi dà della codarda, anche se in maniera implicita.
È una
questione di principio: non c’è nulla che io non possa fare, punto e basta.
“Giuditta,
è una sfida questa?”
E lei sa
benissimo che quando la chiamo con il suo nome di battesimo, ha innescato il
lato più combattivo e orgoglioso di me.
E allora
sbianca improvvisamente.
“Oh, no,
non lo era! Ti prego, Berty, rifletti un attimo… oh mamma, cos’ho fatto?!”
Io intanto
sono già in piedi che fisso Carlos (se scopro che si chiama Carlo, rido molto,
giuro!) con circospezione, scegliendo il modo giusto per attaccare bottone.
Badate bene:
non sono timida, specialmente quando si tratta di una sfida così misera ed
insignificante, ma sono educata e non vorrei turbare l’animo tranquillo di un
adulto, sapete com’è…
“E
siediti, cazzarola! Non starai mica pensando sul
serio di…”
“Taci!”
le ordino, tappandole la bocca con una mano.
Tita si dibatte per un po’ e prova pure a mordermi
un dito, ma io fuggo via prima che possa commettere un simile errore.
Saltellando
sul corridoio posto in mezzo alle due file di sedili e raggiungo con noncuranza
il posto accanto a quello di Carlos.
Ho avuto
culo: è libero.
“Salve,
mi scusi… posso?” chiedo, indicandogli il sedile al
suo fianco.
“Prego,
vieni vieni, ché ti puoi sedere!”
Ehm,
okay, lettori: io ci ho provato, dovete credermi, lo giuro! Ho provato a non
ridere, ma vedere uno con la faccia di Zafón, pensare
al suo genio, al suo intelletto e alla sua intelligenza e poi sentirlo parlare
come mio nonno, be’… questo sarebbe troppo per
chiunque, andiamo!
Ma del
resto non gli ho mancato di rispetto, non così tanto. Mi sono lasciata sfuggire
soltanto un piccolo sorriso. Come vi ho già detto, sono educata, quindi…
“E che
hai da ridere, giovanotta? Si porta rispetto alle
persone più grandi, ché ne sanno più di te!” prosegue Carlos/nonno con tono
estremamente serio e concitato, quasi solenne, patriottico, manco stesse
parlando con un ex generale in pensione.
Lui mi guarda
stralunato e sbatte le pesanti palpebre.
“Ah,
già, capisco di doverle delle spiegazioni, sa. In effetti dubito che lei sappia
perché l’ho appena chiamata signor Carlos. Bene, è bene che lei venga al
corrente di essere il clone di uno dei miei scrittori preferiti, tale Carlos RuizZafón, nato a Barcellona nel…”
“Ma cosa
stai blaterando, ché sei tutta rincitrullita!”
Era da
una vita che non sentivo questa parola, vorrei che il signor Carlos non l’avesse
pronunciata perché temo di aver perso anche l’ultimo briciolo di stima da parte
sua, scoppiando a ridere fragorosamente, con tanto di testa rovesciata all’indietro
e bocca spalancata.
E ho
pure attirato l’attenzione di tutti, sull’autobus, sicuro!
“Razza d’impertinente!
Ah, i giovani screanzati di oggi! Ma vi hanno insegnato le buone maniere,
perbacco?”
Come posso
smettere di ridere? Ditemelo voi, vi prego!
“Quando
ero giovane io, si rigava dritto, eh! Adesso non vi si può più toccare, siete
bestie, voi! Vorrei vedere che fareste, in Vietnam! Marmocchi, ché non capite
niente!”
Vorrei davvero
rispondergli, dirgli che tutto questo non ha niente a che vedere con Carlos RuizZafón, che lui alla fine non
gli somiglia poi tanto e che è un matusalemme in confronto e che non gli ho
affatto mancato di rispetto come va blaterando.
Ma come
posso?
Per fortuna,
a salvarmi arriva Tita, che mi dice: “Dobbiamo
scendere, Giaco ci aspetta!”
Carlos/non-poi-tanto-Carlos/nonno ci fissa con sguardo furente,
mentre io riesco a malapena ad alzarmi, tanto sto ridendo!
Giaco ci
fissa con aria interrogativa, mentre Gabri, al suo
fianco, lancia occhiate furtive a Tita, la quale
riesce per miracolo a non farmi ruzzolare giù dal pullman.
Poco prima
che lo sportello si richiuda, mi volto e grido: “Arrivederci, nonno Carlos!”
“Aiutatemi!”
geme Tita, lasciandomi andare. Il suo tono implorante
non ottiene alcun riscontro, poiché Giaco è curiosissimo e mi obbliga subito a
raccontargli tutto per filo e per segno. Per quanto riguarda Gabri, lui semplicemente si limita a stare zitto, perché
non ha mai il coraggio di parlare con Tita.
Sembrano
due mummie, chissà che non debba arrivare ad escogitare qualcosa con Giaco per
farli accoppiare.
Chissà…
Bene,
quello che accade in seguito lo saprete la prossima volta, anche perché vi
aspetta un’altra delle sfide che mi vengono lanciate quotidianamente.
Quella di
abbordare il sosia di Zafón non è niente, in
confronto ai miei standard!
Capitolo 4 *** Intanto, al parco si scommette... ***
Intanto, al parco si scommette…
Io e
Giaco decidiamo immediatamente, scambiandoci un solo, fugace sguardo, di
rimanere indietro per permettere ai due piccioncini/mummie di provare a
parlare, che diamine!
Giaco è
contento, trotterella per la strada e io proprio non capisco perché. Dico, dopo
la mattinata trascorsa a scuola, tra cui le due ore con mia madre che
gracchiava matematica, ha ancora tutta quest’energia sfrenata. Be’, di certo
non ha dei genitori come i miei, una vita come la mia e…
basta lamentarsi, su.
Arriviamo
al parco, dove in genere c’era mezza scuola e quasi tutta la nostra classe.
Evviva.
«Ma dico
io, quelle oche non hanno altri posti dove andare?» fa Giaco, sospirando.
«C’è
anche il tuo ragazzo, Berty!» esclama Gabri, battendomi una mano sulla spalla.
«Geloso?»
lo punzecchio.
«Smettetela,
dai! Berty, quindi quel nonno sull’autobus è rimasto
traumatizzato?» mi interroga per l’ennesima volta quel rompiscatole di Giaco.
«Sai che
sei palloso?» lo accuso, sbuffando.
Ci
sediamo.
Il
pomeriggio, in confronto all’avventura appena vissuto in pullman, mi sembra
noioso. Devo assolutamente fare qualcosa per questa situazione di estrema noia.
In
genere ci divertivamo un mondo. La nostra occupazione preferita era andare a
rubare gli skateboard ai ragazzini delle medie e andare in giro sghignazzando.
In quei
momenti mi sentivo un po’ scema, ma che male c’era se mi divertivo? Giaco mi
dava manforte e questo mi bastava. Tita, dal canto
suo, era spesso contrariata, ma io ridevo e le dicevo di star zitta e di
pensare ad un modo per poter uscire con Gabri, perché
il tempo trascorreva veloce.
Gabri, invece, si divertiva e spesso ci seguiva. Tita era la più seria. Forse così sperava di fare colpo su Gabri in quel modo. Chissà.
«Uff, facciamo qualcosa di divertente. I teppistelli
con lo skate non sono ancora arrivati» dico d’un tratto, alzandomi.
«Che hai
in mente, principessa?» mi domanda Mauro, materializzandosi all’improvviso di
fronte a me.
«Oh,
vedi di non farmi spaventare!»
«Permalosa.
Comunque… ciao, cari compagni. Come vi sentite,
quest’oggi?» ci chiede Mauro, sorridendo appena, con fare teatrale.
Perché
questo cretino deve sempre mettersi in mezzo alle palle? Io non lo capisco.
Qui, dalla regia, continuano a ripetermi che Mauro prova qualcosa per me, ma
non ci voglio pensare. Quel tipo proprio non fa per me.
«Falla
breve, che vuoi?» sbotto, scacciandolo con un gesto della mano.
«Niente,
solo una sfida per la principessina Bartolini» risponde, con gli occhi che gli
brillano.
Mi
avvicino di scatto e sollevo un pugno, decisa a colpirlo.
«Prova a
ripeterlo» grugnisco tra i denti.
«Una
sfida!» strilla d’un tratto Giaco, afferrandomi per un braccio e
scaraventandomi di lato per poter sentire meglio le parole di quel deficiente
del nostro compagno. «Che sfida? Che sfida? Parla, idiota!» prosegue Giaco,
senza abbassare la voce.
«Ah, tu
ti chiami Albertina da oggi. Interessante» commenta Mauro, stampandosi in
faccia un sorriso beffardo.
«Giaco,
sei una merda, levati! Allora, Mauro, di che si tratta?» incalzo.
«Be’, di
là c’è una ragazza che vorrebbe uscire con lui» spiega, indicando Gabri e scuotendo il capo. «Vorrei farmi due risate, sai
com’è. Devi andare e fingere di essere la ragazza di Gab,
ci stai?» propone, sorridendo maliziosamente.
Io? La
tipa di Gabri?!
Scambio
un veloce sguardo con Tita, la quale è
impercettibilmente impallidita. Poi, sempre in maniera molto discreta,
annuisce.
«Non
dirmi che hai paura!» mi punzecchia Mauro, divertito.
«Berty non ha mai paura di niente, pezzente! Su, Berty, andiamo!» strilla ancora Giaco.
Mi volto
completamente nella sua direzione e lo afferro per le spalle, avvicinando il
mio viso al suo con fare minaccioso.
«Sai, Giacomino bello, i miei timpani sono abbastanza buoni, sai,
utili… non so a te, ma a me servono e, quindi,
gradirei che tu, razza di imbecille, non li trapanassi con quella voce da pazzo
che ti ritrovi!»
Detto
questo, lo lascio andare e guardo Gabri, lanciandogli
un sorriso, già eccitata per la sfida.
Di colpo
mi rendo conto dell’allusione che Mauro aveva fatto poco prima, a proposito
della mia paura.
Gli
mollo un pugno sul braccio.
«Io non
ho paura» sibilo, poi prendo la mano di Gabri e gli
sorrido, calandomi immediatamente nella parte della fidanzata perfetta.
«Andiamo, tesoro» mormoro, melliflua.
Gabri è strano, non si lascia trasportare dalle
emozioni, per quanto false possano essere.
Mauro ci
segue e mi indica discretamente la tipa che, appena vede Gabri,
si volta immediatamente dall’altra parte, cinguettando qualcosa alle sue
amiche. Alcune di esse sono nostre compagne di classe. Perfetto.
«Gabri, impegnati, su. O vuoi davvero che quella ci provi
con te?» gli sussurro, stringendogli di più la mano.
«No… no, Berty, ti prego! Sai che…»
«Vuoi Tita, lo so.»
«Be’… io…»
«Zitto,
ci guarda!»
Mi fermo
e mi volto verso Gabri, poi gli accarezzo una guancia
e lui fa per ritrarsi.
«Potresti
almeno fingere di essere innamorato, avanti. Non essere così rigido, diamine!
Perché devi essere così idiota, Gabri?»
Lui mi
guarda strano, poi di colpo mi stringe a se e mi accarezza i capelli, senza
però appiccicarsi a me.
Spero
proprio che Tita non ci guardi e che non se la
prenda.
«Oh, per
favore. È difficile recitare per me, Berty.»
Lo
zittisco e rido, forte, in modo da farmi sentire dall’oca.
«Oh,
tesoro, che sciocco che sei!» cinguetto, arruffandogli i capelli.
Mauro,
intanto, è tornato da quelle ragazze, così decido di mettere in atto il piano
nel momento stesso in cui il mio compagno di classe si siede vicino a lei e le
sorride.
Afferro
nuovamente la mano di Gabri e mi avvicino con
disinvoltura al muretto su cui è seduto il gruppetto.
«Ciao,
ragazzi. Come va?» esordisco, accoccolandomi contro il braccio di Gabri.
«Ohi,
ciao Berty. Come ti dicevo, volevo presentarti la mia
amica Michela…» dice Mauro, indicando la ragazza che
vuole Gabri.
Lei si
alza e mi tende la mano.
«Io sono
Michela, piacere.»
«Piacere,
Albertina. Lui invece è Gabriel, il mio ragazzo» rispondo, stringendole la mano
e rivolgendo un sorriso dolce al mio amico.
«E da quando?»
interviene Rossana, una delle nostre compagne.
«Be’…»
attacca Gabri.
Gli
stritolo una mano e fulmino Rossana con un’occhiata, poi sorrido, evitando di
rispondere alla mia compagna di classe.
Che
gente odiosa.
Proprio
in quel momento, proprio nell’istante migliore di tutto, in cui stavo per dare
il meglio di me, mi squilla il telefono. La mia suoneria, “Mi chiamo Virgola”,
fa inorridire molti dei presenti, mentre Mauro sghignazza e mi strizza
l’occhio.
So
esattamente di chi si tratta.
Mia
madre in versione belva della savana, scegliete voi a che animale accostarla.
La
conversazione si svolge così:
«Albertina
Annetta, dove accidenti sei finita?»
«Sono
venuta da Giaco, fuori paese.»
«Torna
subito a casa!»
«Scordatelo,
Maria Vittoria!»
«Non ti permettere,
sai? Figlia snaturata!»
«Ho il
diritto di avere la mia vita, mamma! Non puoi segregarmi in casa a studiare
matematica con te, cacchio!»
«Domani
abbiamo la verifica, asina!»
«Me ne
frego della tua stupida verifica, domani non verrò a scuola!»
«Non
contarci, signorina. TORNA. A. CASA. SUBITO.»
«No, ti
ho detto che te lo puoi scordare. TE. LO. PUOI. SCORDARE.»
«Ti
vengo a prendere, vedi che ti faccio!»
«Come
no. Ciao, divertiti a preparare le tue stupide verifiche!»
Chiudo
la chiamata e subito spengo il cellulare, stizzita.
Poi,
sputo per terra, incazzata come una belva.
Il fatto
più schifoso e frustrante è che quel gruppetto di oche + Mauro + Gabri hanno assistito a quella scena improponibile.
«Sapete,
io e Gabri non stiamo insieme!» ammetto, scuotendo la
testa.
Vedo che
tutti mi guardano male, eppure me ne fotto altamente.
C’è solo
una persona che mi fa perdere la pazienza in quel modo, ovvero mia madre, Maria
Vittoria, la signora Bartolini.
Certo è
che, seppure stavo fingendo di avere uina romantica
relazione con Gabri, dopo aver sputato per terra
stile scaricatore di porto, la mia scenetta risultava molto poco credibile.
«Come!»
strilla Michela, isterica, alzandosi di scatto dal muretto.
«Già,
dolcezza. È tutto tuo, ammesso e non concesso che ti voglia e, sai, ne dubito
fortemente» concludo, mollando la mano di Gabri e,
facendo dietrofront, li pianto tutti lì come allocchi e torno da Tita e Giaco.
I due,
con aria incuriosita, mi scrutano.
«La
scommessa l’ho vinta, cari, anche se poi ho smascherato Mauro per colpa di
Maria Vittoria» borbotto, abbandonandomi sulla panchina accanto a Giaco.
«Tu!»
inveisce Gabri, avviandosi verso di me a passo di
marcia. «Ti faccio vedere io, adesso!»
Sotto lo
sguardo confuso e stupefatto di Giaco e Tita –
soprattutto di Tita –, Gabri
mi afferra per le spalle e mi costringe ad alzarmi.
«Ti deve
passare questo vizio di merda!» sbraita, poi mi immobilizza e, con gesto
rapido, fulmineo, mi bacia con prepotenza, infilandomi violentemente la lingua
in bocca.
Poi mi
molla, mi guarda con disprezzo e, senza degnare nessun altro con lo sguardo, se
ne va, imbufalito.
Io,
intanto, non so proprio cosa dire.
Poi mi
esce, spontaneo e vibrante: «Coglione, sei soltanto un coglione!»
Perché
si è comportato così con me? E di fronte a Tita, per
giunta! Tutto per una stupida scommessa!
Quando
finalmente mi volto, lo vedo che accarezza con evidente imbarazzo e riluttanza
la spalla di Tita, mentre lei piange disperata, con
il viso tra le mani, scossa da profondi tremiti.
«Maledetto
schifoso di un Gabriel! Giaco, senti, anziché perdere tempo, vai a comprare
dell’acqua, Tita non sta bene» ordino, sedendomi
accanto alla mia amica.
Avverto
un senso di nausea per ciò che Gabriel ha appena combinato. Come ha potuto
baciarmi? Io di certe cose non ne voglio sapere, possibile che non lo capisca
nessuno? Mi viene la nausea, seriamente.
Mi alzo,
barcollando incerta. Meno male che Giaco è ancora lì, immobile, con la mano
sollevata dopo averla scostata dalla spalla di Tita.
«Neanche
tu sembri in forma» osserva.
Di
scatto, mi precipito verso il cespuglio più vicino e mi butto con la testa tra
le foglie, rimettendo quel poco di pranzo che mi era rimasto in corpo.
Non capisco
neanche dove sono messa, cacchio. Quanto detesto Gabriel, quanto detesto gli
uomini prepotenti e coglioni come lui!
Ad un
tratto, sento delle braccia che mi sollevano i capelli dalla fronte e mi
sostengono, mentre continuo a vomitare. Che schifo, cazzo, spero proprio di non
stare dando spettacolo.
Quando
mi metto a sedere, intontita, noto che Mauro mi osserva, con una smorfia
incredibilmente indecifrabile sulla sua nota faccia da schiaffi.
Poi, ad
un certo punto, il suono di un clacson a me fin troppo familiare si espande per
il parco.
Così
capisco che ho due alternative: scappare o arrendermi.
Ma, dal
momento che sono talmente debole e stanca per pensare di muovermi, rimango dove
sono, attendendo che Maria Vittoria scenda dall’auto e mi venga a prelevare.
Tita sta ancora piangendo e Giaco si è rassegnato a
lasciarla perdere, avvicinandosi a me e spingendo via Mauro.
Mia
madre, dopo un minuto, è di fronte a me e mi afferra per un braccio,
costringendomi a sollevarmi da terra.
La
nausea non mi ha del tutto abbandonato, mi viene quasi voglia di vomitarle
addosso. Detesto tutti in questo momento.
«Prof,
sua figlia non sta bene, forse» le dice Giaco, con tono preoccupato.
Okay,
forse non detesto proprio tutti. Giaco è dolcissimo, un dolce e tenero sgorbio
che potrebbe essere scambiato per un nano da giardino. Ma pur sempre dolce.
«Mia
figlia sta benissimo, Meucci! Se ne torni a casa,
piuttosto! Domani c’è…»
«…la verifica, sì, mamma, l’abbiamo capito!» biascico. Mi
divincolo dalla sua presa e mi avvicino a Tita,
aiutandola ad alzarsi.
Lei mi
regala una smorfia, forse puzzo di vomito. Pazienza.
Così,
saliamo in macchina e ce ne andiamo, io incazzata e nauseata come non mai, Tita delusa e triste e mia madre inviperita come un bue
muschiato.
Perfetto.
Mentre
ci dirigiamo verso a casa, mi viene in mentre che Maria Vittoria non aveva mai
messo in pratica una minaccia del genere.
Che stia
cambiando qualcosa?
NdA:
Salve a tutti coloro che leggono
questa storia!
Vorrei informarvi, in caso non ve
ne foste resi conto, che ho finalmente potuto cambiare le virgolette tra cui
racchiudo i dialoghi.
Amo molto questo nuovo modo e
sono felice di essere riuscita a metterlo in pratica, dal momento che avrei
sempre voluto farlo. Trovo che il tutto risulti molto più ordinato e simile
alla grafica dei libri cartacei che, per la maggior parte, utilizzano questo
tipo di virgolette.
Capitolo 5 *** «Scommetto che ti vuoi vendicare». ***
«Scommetto che ti vuoi vendicare».
Dopo
quella sera passata a vomitare per svariati motivi, mi sono sentita una merda.
Non per
altro, ma per il semplice fatto che io non ne voglio sapere di tizi che si
sbaciucchiano, ragazzi che ti baciano, ti scopano e poi, puff,
ti abbandonano.
Tanto la
trafila è sempre la stessa.
E Gabri è proprio uno stronzo.
Ha
commesso un’azione riprovevole di fronte alla ragazza che lo vuole e che lui
vuole.
Ma
cos’hanno questi maschi in testa? Merda, di sicuro.
Che poi,
io non sono una di quelle femministe convinte, basta vedere cosa penso di mia madre… però non voglio fare né la sua fine, né avere tra i
piedi un tizio a caso che ha solo una cosa in mente e che ha i neuroni in mezzo
alle gambe.
Più ci
penso e più mi innervosisco.
A
scuola, il giorno dopo, fingo che non sia successo niente, ma la maggior parte
dei miei compagni erano presenti al momento del misfatto.
«Tita, ce l’hai con me?» continuo a ripeterle per tutta la
mattinata.
E lei
ogni volta scuote il capo e mi dice: «No, Berty. È
tutta colpa di quello stupido».
In
effetti è vero, è tutta colpa sua e della sua coglionaggine.
Pezzo di
merda, devo vendicarmi.
Così,
durante l’intervallo, trascino via Giaco, con fare cospiratorio. Appartati in
un angolo del cortile, ci guardiamo in faccia, in silenzio.
Poi
Giaco mi fa: «Scommetto che ti vuoi vendicare».
Quanto
adoro questo dolce e diabolico nanetto, sa sempre esattamente cosa voglio.
Potrei sposarmi con lui e farne uno schiavetto perfetto. Giaco è come se
vivesse per me, che carino!
«Detesto
Gabri, mi ha proprio nauseato» rispondo, digrignando
i denti.
«E che
vuoi fare?»
«Me la
pagherà cara. Tita non si merita uno del genere,
perché tutti si innamorano? È frustrante. Io rimarrò da sola, sai? Al massimo
potremmo andare a convivere io, te e Tita. Sarebbe
bellissimo, come fratelli…» Sospiro, con aria
sognante. «Ma dato che Tita è cotta di quel pirla, be’… devo fargli passare i bollenti spiriti» aggiungo, con
tono fermo.
«Io sono
con te. Ci facciamo due risate.»
Una
lampadina si accende nella mia mente e le mie labbra si increspano in un bel
sorriso.
«Parla,
ti prego!» mi implora Giaco, a mani giunte.
«Lo
umilierò di fronte a tutti, sta’ a vedere.»
Detto
questo, raggiungo nuovamente Gabri, Tita e Mauro.
«Gabri, potresti venire con me un attimo? Dovrei parlarti di
una cosa» mormoro, fintamente imbarazzata. In realtà, sto ribollendo di rabbia.
Lo prenderei a schiaffi seduta stante.
Ma mi
trattengo e, mentre lui sbuffa e annuisce controvoglia, strizzo l’occhio a Tita e mi allontano, seguita da Gabri.
Mi fermo
intenzionalmente in mezzo al cortile, in modo da avere l’attenzione di gran
parte degli studenti della scuola.
«Senti,
se è per ieri, non ti chiederò scusa. Mi hai messo in imbarazzo, mi hai fatto
fare la figura del fesso davanti a tutti, anche a quello sborone
di Mauro» dice, guardandomi male.
Non so
come riesco a non mollargli un pugno. Invece, gli sorrido con finta dolcezza.
«Ma no, Gabri. Sai…» mi avvicino a lui,
posandogli una mano sulla spalla. Gli voglio distruggere quel dannato
avambraccio, se solo penso che mi ha baciato… un brivido
di disgusto mi percorre e sento l’impulso di scaraventarlo a terra e scalciarlo fino a che… ma non
posso, devo stare calma. «Non importa, in fondo mi è piaciuto. È solo che non
me l’aspettavo, sai… poi c’era Tita…»
«M-ma… ma Berty, i-io…non… non volevo farlo, ero
arrabbiato. Tu non mi piaci!»
«Come
sarebbe a dire?» grido, alzando intenzionalmente il tono di voce. «Cosa
significa che non ti piaccio, Gabriel?» continuo, fingendomi isterica.
Sì,
effettivamente mi sto divertendo. Dovrei fare l’attrice, quasi quasi ci credo pure io a questa messinscena…
non posso vedere l’espressione di Giaco, ma sono sicura che stia trattenendo
una grossa e sonora risata. Mi ritrovo spesso a pensare che è incredibile
quanto quel nanetto possa avere un timbro vocale così potente e fastidioso, ma
è tanto adorabile… forse l’unico essere di sesso
maschile che potrei mai sopportare nella mia vita.
Intanto,
Gabri mi fissa, terrorizzato.
“Su, Berty, vai avanti” mi dico, assumendo un’espressione sempre
più accigliata.
«Sei
come tutti gli altri, Gabri! Mi hai illuso… come hai potuto? Ieri mi hai baciato di fronte a
tutti, poi quei messaggi che mi hai scritto, e ora…»
«Cosa
stai blaterando?» sbraita, indietreggiando.
Lo
afferro per il bevero della giacchetta e pianto i
miei occhi nei suoi.
«Mi hai
preso per il culo, Gabri!» lo accuso, riuscendo addirittura
a farmi salire le lacrime agli occhi. Attorno a noi, noto distrattamente che si
è creato un capannello silenzioso di spettatori molto, molto curiosi ed
interessati. Proprio come volevo io.
«No…»
«Non
negarlo, hanno visto tutti come mi hai baciato ieri! È vero, io ho reagito
male, ma poi mi hai scritto quegli sms e il mio cuore è esploso…»
Lo
lascio andare e faccio un passo indietro, con le mani che mi tremano. Forse
potrebbe sembrare che io stia tremando perché mi sento scossa e turbata,
perfino delusa, ma in realtà sono incazzata come non mai.
«Smettila
di dire cazzate!»
Come si
permette? Ho un autocontrollo da far invidia, lo so. Ma come posso rovinare
tutto? Ho fatto una silenziosa scommessa con me stessa e voi, cari lettori,
sapete bene quanto io detesti perdere o rifiutare le scommesse.
«Oh,
bene! Allora ti devo rinfrescare la memoria? “Berty,
non sai da quanto tempo volevo baciarti… sei
bellissima, non posso credere che le nostre labbra si siano sfiorate!” “Sei
così dolce… non sai quanto vorrei fossi qui con me,
per poterti accarezzare… mi fai impazzire…”
Questi messaggi li hai dimenticati, eh? Oppure quando mi hai scritto “Bertina mia, non vedo l’ora di rivederti, domani a scuola… ma non ti assicurò che saprò resistere…
ho una voglia matta di trascinarti nello sgabuzzino dei bidelli e…”»
«Basta,
basta, ti prego, smettila subito! Sei una fottuta stronza, vaffanculo!»
grida Gabri, per poi scappare all’interno della
struttura.
Intorno
a me, sento molte risatine divertite e molti sguardi sono puntati su di me.
Con
un’espressione fintamente offesa e imbarazzata, mi volto e corro ad abbracciare
Giaco.
Mentre
tutti credono che io stia singhiozzando, scoppio a ridere contro la spalla del
mio amico e lui fa lo stesso, cercando di non farsi sentire dagli altri.
«Ben gli
sta, a quel coglione!» esclama Tita, raggiungendoci e
unendosi all’abbraccio. «Grazie Berty, ti voglio così
tanto bene!»
Mi
scosto da Giaco e do le spalle al resto dei ragazzi presenti in cortile.
Sorrido
ai miei amici.
«Vi sono
piaciuti i messaggi erotici che mi sono inventata? Per questo devo ringraziare
quei maiali dei miei genitori» dico, divertita.
«Sul
serio si dicono queste cose mentre…?» fa Giaco,
mentre la stessa domanda si dipinge sul voolto di Tita, la quale però non apre bocca.
«Questo
è niente. La frase preferita della nostra dolce prof di matematica è “Fottimi,
ti prego, ti scongiuro, ti supplico”! Non avete idea di quanto mi senta male,
quando capita che sento queste porcherie. Sto cercando ancora la soluzione più
adatta, ma quei due sembrano bestie in preda alle convulsioni…»
«Bleah, Berty! Che schifo!»
esclama Tita, con una smorfia disgustata.
«Non ti
invidio» commenta Giaco, poi scoppia a ridere e insieme cominciamo a
scimmiottare mia madre nel momento dell’orgasmo.
Non
siamo normali, lo so, ma una volta Giaco è venuto da me a studiare e mio padre
era in casa per le ferie di Natale, così ha udito uno dei loro amplessi più
clamorosi e da allora è mio complice e alleato.
Proprio
in quel momento mi accorgo che Mauro, lì accanto, è rimasto impalato per tutto
il tempo a fissarmi.
Sbatto
le ciglia e gli sorrido, accattivante.
«Che
c’è, Mauretto? Ne vuoi un po’ anche tu?»
«Fossi
pazzo!»
«Piaciuta
la mia performance, eh?»
«Sei un
genio, Albertina. Ma dove trovi il coraggio?»
«Sono
peggio di un maschio. Mi sento proprio bene» ammetto, sollevando il pollice
della mano destra.
«Povero Gabri, non vorrei essere al suo posto.»
«Allora
sta’ attento a come ti comporti con me, altrimenti potresti fare una brutta
fine» lo minaccio, per poi strizzargli l’occhio.
Dopodiché
prendo Giaco e Tita sottobraccio e mi avvio verso
l’interno.
Sì, mi
sento molto soddisfatta: Gabri ha proprio sbagliato a
mettersi contro di me.
Forse,
non ha ancora capito con chi ha a che fare.
Spero
solo che Tita non se la prenda e non soffro per
questo troglodita, altrimenti mi sentirò in colpa, nonostante io sappia di aver
fatto la cosa giusta.
Io
faccio SEMPRE la cosa giusta, cacchio.
Tita si riprenderà, tutto andrà a posto e Gabri sprofonderà nella sua stessa vergogna.
Sento
che questo periodo della mia vita si sta complicando sempre più e non so come
spiegarmelo.
Sono una
ragazza così tranquilla, pacifica, calma…
«Come un
calcio nelle palle» dice sempre Giaco, ma il suo parere lascia il tempo che
trova, perché lui è decisamente peggio di me e certamente non può giudicarmi.
Stronzetto,
anziché sostenermi, amico snaturato!
Sta di
fatto che Tita non ne vuole più sapere di Gabri, dice che è un idiota senza cervello.
E voi
direte: non è quello che volevi, Berty?
Eh, no,
lettori miei, no!
Insomma,
okay, Gabri è davvero un cerebroleso, non avrebbe
dovuto baciarmi, ma…Tita
lo ama davvero, capisco che sia triste e io non la voglio vedere così.
Insomma,
io sono disillusa e cinica, ma lei è diversa, non riesce a farsene una ragione.
Finge di
odiarlo, però io so benissimo che gli muore ancora dietro, poveretta. Se potessi
decidere io di chi farla innamorare, non sceglierei mai uno come Gabri. Lui non va bene. O forse, se dovessi scegliere io,
la lascerei single a vita, proprio come la sottoscritta.
Ribadisco
il concetto: io di queste smancerie, di sesso, di uomini e di stronzate simili
non ne voglio sapere, figurarsi mettere su famiglia, partorire dei figli… roba da femminucce.
Dai, non
vi offendete, donne lettrici! Io sono un mezzo-maschio, mi mancano solo gli
attributi giusti, ma per il resto non c’è nulla di femminile in me.
Forse capisco
più la mentalità maschile che quella femminile, che trovo spesso frivola e
troppo sdolcinata, mielosa, rivoltante.
Poi ognuno
è come è, quindi rispettatemi!
Scusate se
mi sfogo, ma sono – in un certo senso – arrabbiata con Tita.
Lei potrebbe
essere perfetta, potrebbe essere forte e conquistare il mondo, invece continua
a pensare che l’amore vero esiste, che Gabri è quello
giusto, che senza di lui non può vivere.
Quante idiozie!
E ha
solo quindici anni!
Io credo
di avere qualche problema, non capisco se sono cresciuta troppo in fretta o se
devo ancora farlo, sta di fatto che di tutte queste sciocchezze non mi
interessa assolutamente niente.
Ma passiamo
ai fatti.
Siccome so
di dover fare qualcosa per la mia amica, il pomeriggio, dopo essermi comportata
da brava figlia e alunna e aver resistito all’impulso di piantare il righello
in bocca a mia madre che blaterava algebra, esco a cercare Gabri.
Vado alla
fermata dell’autobus e aspetto che arrivi. Non ho detto niente a Tita perché non è proprio il caso che assista a tutto
quello che succederà.
Comunque,
in autobus incontro un ragazzo che studia nella mia scuola e mi siedo vicino a
lui. Parlaimo di mia madre che è anche la sua prof di
matematica.
«Io, cioè… non voglio offenderti, ma…
tua madre mi sta rendendo la vita impossibile…»
«Offendermi?
Non potevi farmi complimento migliore.»
«Come
sarebbe a dire?»
«La
sopporto a malapena, quindi puoi dire quello che vuoi. Fino a poco fa mi ha
assillato perché studiassi per recuperare il quattro che ho preso stamattina.»
«Scommetto
che sei la prima a cui corregge i compiti» dice, con una smorfia.
«Che
perspicace.»
«Io non
ce la faccio più. Mi rompe le palle ogni giorno perché dice che potrei fare di
più, che quest’anno dovrò fare l’esame e che non posso permettermi di non
studiare. Non ti invidio, se vivessi con lei, non so cosa farei.»
«Allora
mi aspetta un futuro tortuoso e senza gioia. Evviva.»
Lui ride
e si alza, perché deve scendere.
Lo osservo
e sospiro, scuotendo il capo. Miaa madre non è un
mostro, non proprio, bisogna soltanto saperla prendere.
Dopo circa
dieci minuti scendo anch’io e, prima di farlo, mi guardo attorno per vedere se
c’è zio Carlos anche oggi, ma non è sempre festa, quindi…
Raggiungo
in fretta la piazzetta dove siamo usciti ieri, è un posto frequentato da tutti
i ragazzini della zona, nel mio paese non esiste un punto di ritrovo così pieno
di adolescenti urlanti.
Individuo
Gabri, il quale non è in compagnia di Giaco, ma di
alcuni compagni di classe, tra cui l’immancabile Mauro aka
Piattola.
Piattola
mi vede e mi saluta con un ampio gesto del braccio e con un: «Ciao, Albertina! Siamo
qui!» che attira l’attenzione di tutti i presenti, cosa che avrei volentieri
evitato, ma vabbè, dettagli.
«Ciao»
dico, raggiungendo il gruppetto.
«Oggi
non c’è Tita?» domanda Piattola, alzandosi e
piazzandosi di fronte a me.
Io indietreggio,
chiedendomi pigramente se ha intenzione di farmi la respirazione bocca a bocca e
se abbia un’idea di quanto mi infastidisca avere gente appiccicata che mi parla
a due millimetri dalla faccia.
Non rispondo
perché trovo che sia inutile, poi rivolgo uno sguardo a Gabriel, che intanto mi
sta fissando con odio. Possibile che se la sia presa così tanto? Cosa si
aspettava, che gli ficcassi la lingua in bocca di fronte a Tita?
Mi vengono i brividi al sol pensiero, non scherziamo.
Non ho
mai provato il famoso desiderio di baciare qualcuno, né tantomeno di avere una
di quelle relazioni ammorbanti e oppressive che piacciono tanto a tutti ma
delle quali tutti si lamentano in continuazione. La coerenza è sempre un male,
purtroppo.
Insomma,
mi ha fatto schifo quello che Gabri ha fatto ieri,
non sono cose che fanno per me.
«Possiamo
parlare? E, no, non ho intenzione di umiliarti, stamattina mi è bastato» gli
dico, cercando di non farmi sentire dagli altri.
«Come
no» risponde, strafottente.
«Dai,
non rompere, Gabri.»
«No, non
ho niente da dirti.»
«Io sì.»
«Non me
ne frega un cazzo.»
«O ti
alzi, o parlo qui di fronte a tutti. Non ho nessun problema.»
In realtà
vorrei evitarlo, ma so che questo mio metodo funziona sempre. Gabri mi conosce e non è così stupido da farsi umiliare una
seconda volta.
E,
infatti, si alza e mi segue come un cane bastonato.
Ecco un
altro motivo per cui non voglio un uomo nella mia vita: sono troppo deboli e
poco intelligenti, si fanno mettere i piedi in testa da me e questo mi fa
provare davvero pena nei loro confronti.
Camminiamo
per un po’ in silenzio, lasciandoci alle spalle la piazzetta.
«Gabri, parliamo di Tita»
esordisco, andando dritta al punto. Non ho tempo da perdere, vorrei tornare a
casa per continuare a leggere ‘Innamorata di un angelo’ di Federica Bosco.
Potrà sembrarvi
strano, ma solo nei libri sopporto le storie d’amore, al di fuori di essi mi
danno il voltastomaco.
Passiamo
di fronte ad un negozio di dischi – uno dei pochi superstiti, ormai – e io
dimentico completamente Gabriel e tutto il resto.
Nella vetrina
spicca un album dei RageAgainst
The Machine e io credo di star impazzendo dalla
gioia.
Peccato che
non ho neanche un centesimo appresso, li ho spesi tutti per il biglietto dell’autobus.
Impreco tra
i denti e sento Gabriel dire qualcosa che, però, non capisco, presa come sono
dalla mia attività di mosca attaccata al vetro.
VOGLIO
QUELL’ALBUM.
Okay,
domani torno a comprarlo, lo stanno praticamente regalando e io non ho la
possibilità di portarmelo via.
Gabri si avvicina e mi guarda, poi segue il mio
sguardo.
«Sono
disposto a dimenticare tutto, ma a una condizione» dice, guardando dentro il
negozio.
Io mi
riscuoto improvvisamente dalla fase di trance, accantonando per un attimo il
mio attuale dramma esistenziale, e gli lancio un’occhiata interrogativa.
«Devi
provarci con il commesso e farti regalare il CD che
stai mangiando con gli occhi» spiega lui, mentre sul suo viso si dipinge un gigno malefico.
«Non me
lo stai chiedendo davvero, Gabriel» affermo, sbalordita.
Poi capisco,
subito dopo, che mi ha teso una trappola.
Sa benissimo
che non posso rifiutare una sfida e che adoro alla follia i RageAgainst The Machine. Bastardo,
prima o poi me la paga, questa volta l’ha combinata proprio grossa, lo stronzo.
Sarà la buona volta che Tita si ricrederà sul suo
conto.
Mentre penso
a Tita, mi viene in mente un modo disperato per
cercare di fargli cambiare idea.
«Se Tita lo sa, non penserà più a te, Gabri.
L’hai già delusa ieri, comportandosi in quel modo.»
La sua
espressione mostra segno di cedimento per un attimo, ma subito torna a
sorridere, beffardo.
«Tita non pensa a me neanche per sbaglio, quindi non ho
niente da perdere. Se farai quello che ti ho appena detto, rinuncerò all’allettante
idea di vendicarmi per come mi hai trattato stamattina. Sei una stronza,
Albertina, qualcuno prima o poi te lo farà capire.»
«La mia
vita è molto più divertente della tua, grazie al fatto che sono stronza, come
dici tu. Non hai il coraggio di provarci con Tita,
però mi molesti davanti a tutti, che figura credi di aver fatto?»
«Racconterò
a tutti che Albertina Annetta Bartolini è una codarda e non ha accettato una
stupida sfida» prosegue, ignorando completamente quello che gli ho appena
detto.
Okay, ha
vinto, aveva già vinto in partenza, però io ci ho provato.
«Provaci
e tua madre non ti riconoscerà per i prossimi dieci anni» sibilo tra i denti,
poi entro a passo di marcia nel negozio di dischi.
Devo solo
pensare che, se vincerò la sfida – anzi, no, quando vincerò la sfida –, avrò il
CD dei RATM senza sborsare un centesimo, il che non è
del tutto negativo. Posso farcela, non è niente di che.
Quando,
però, mi ritrovo di fronte al bancone e individuo il commesso, sbianco come mai
mi era successo prima d’ora. certo, non posso vedermi, però avverto chiaramente
la sensazione del sangue che abbandona il mio viso e la pelle diventa gelida.
Lui si
gira e vedo lo specchio della mia espressione sulla sua faccia raggrinzita.
«Tu!»
grida lui.
«Lei!»
grido io in contemporanea.
Il sosia
di Carlos RuizZafón mi
guarda allibito, poi arrabbiato.
«Sei
venuta a chiedere scusa, eh?»
Ora, voi
ditemi: come posso provarci con LUI?
Solo ora
capisco che avrei dovuto dare un’occhiata al soggetto in questione, prima di
accettare la sfida di Gabri. Mi ha tirato proprio un
brutto colpo, pezzo di merda sconsiderato! Lo odio, giuro che lo prendo a calci
in culo appena esco!
Poi sento
una risata alle mie spalle.
Il beota
è pure entrato nel negozio per godersi appieno la scena.
«Ciao
Gabriele, come sta tuo nonno?» chiede zio Carlos, non appena individua il
bastardo.
Io lo
ammazzo.
«Salve,
mio nonno se la passa bene, si ricorda sempre di lei e di quando eravate
militari» risponde Gabri con disinvoltura, ignorando
il fatto che zio Carlos abbia sbagliato il suo nome.
«Salutamelo
tanto, eh! Tu sì che sei un ragazzino bravo, non come questa screanzata! Ieri mi
ha importunato in autobus, maleducata come una capra, anzi, le capre sono più a
modo di certe teppiste, eh, ai miei tempi… Ma tu la
conosci, eh, Gabrielino?»
«Siamo
compagni di classe, purtroppo» risponde con tono desolato Gabri,
scuotendo la testa.
«Evitala,
evitala…» blatera zio Carlos, battendo le mani sul
bancone.
«Sì, sì,
senz’altro! Non c’è suo nipote?»
«Giorgio
è andato all’ingrosso oggi, bravo ragazzo! Ce ne fossero di più come voi!»
declama, con tono da comandante dell’esercito.
Qualcuno
mi aiuti!
Gabri mi strizza l’occhio, come a voler dire “Accontentati
di lui, la sfida è ancora aperta” e poi scompare tra gli scaffali. Sono sicura
che rimarrà in ascolto per tutto il tempo, senza minimamente guardare i CD e senza riuscire più di tanto a trattenersi dal ridere. Ho
voglia di insultarlo, però adesso devo risolvere questo guaio.
VOGLIO
IL CD DEI RATM!
«Senta,
zio Ca… ehm, signore… sì,
sono venuta a scusarmi, il mio comportamento di ieri è stato oltraggioso nei
suoi confronti, mi rincresce proprio di averla disturbata, può perdonarmi?»
dico, trattenendo una risata. Quanto vorrei ancora una volta chiamarlo zio
Carlos, è troppo divertente! Sperò che Zafón, da
vecchio, non diventi come lui, intendo anche di carattere.
«I tuoi
genitori non ti hanno insegnato a rispettare le persone più grandi?»
«Certo,
ma sa com’è… io a volte sono sbadata, avevo litigato
con il mio fidanzato e…»
«Addirittura,
una bambina come te sta già pensando agli uomini?»
«Ma no,
è solo un ragazzino che mi piace, non so neanche cosa voglia dire avere un
fidanzato.»
Questa non
è poi una bugia, in effetti. Questa farsa non è poi così farsa, alla fin fine.
«Eh, tu
la siailunga…»
«Senta,
vorrei chiederle un favore, signore.»
«Sentiamo»
borbotta.
«Vede,
quel CD in vetrina… è il
mio preferito, però… non ho abbastanza soldi per comprarlo…»
«Io non
te lo regalo di certo, vai a lavorare e poi torna quando avrai i soldi!»
«Ma…»
«Sparisci!»
«Ciao Gabri, ciao nonno… insomma, si
trattano così le clienti?»
Una voce
maschile alle mie spalle mi fa sobbalzare. Il ragazzo che ha appena
rimproverato zio Carlos si fa avanti e appogglia uno
scatolone sul bancone.
«Nipote!
Non ti permetto di mettere in dubbio i miei metodi in fatto di vendite e di
educazione!»
«Su, non
essere così duro. Ricordati che ora il negozio è mio, anche se tu l’hai gestito
egregiamente per quarant’anni. Ti ho chiesto soltanto di sostituirmi, non
costringermi a chiederlo a zio Angelo la prossima volta.»
«Dio mi
perdoni se dico che preferirei vederlo morto, quel buono a nulla di tuo zio!»
strilla il vecchio, mettendosi le mani in testa.
Mi viene
da ridere un’altra volta, ma evito perché, ora che è arrivato il famoso nipote
Giorgio, devo giocarmi il tutto e per tutto per avere il CD
dei RATM.
«Sì, infatti… io dicevo a tuo nonno che vorrei tanto il CD dei RageAgainst
The Machine ma non ho neanche un centesimo, mi
dispiace tanto non poterlo comprare. Potrei portarti i soldi domani, ti va
bene? Non vorrei rischiare di non trovarlo più…»
«Tranquilla,
davvero. Puoi prenderlo, è l’ultima copia ed è in vetrina da mesi e mesi,
nessuno lo compra perché è proprio vecchio. Se non fosse che ce l’ho già, lo
comprerei io stesso» dice Giorgio, regalandomi un mega sorriso che, in un’altra
occasione, avrei criticato a non finire, definendolo mellifluo e fuori luogo.
Ma ora
sono troppo felice per pensare a questo, mi verrebbe quasi voglia di saltargli
addosso.
Quando esco
dal negozio, Gabri non è molto contento, perché ho
vinto la scommessa, in un modo o nell’altro.
Mi avvio
alla fermata dell’autobus stringendo tra le mani l’omonimo album dei RATM e mi
rendo conto che la serata non poteva andare meglio.
Gabri mi dice: «Non mi vendicherò, ottimo lavoro».
«Grazie»
rispondo, salendo i gradini dell’autobus. Prima che le porte si richiudano, mi
affaccio e grido: «Tita ti pensa anche troppo, e non
per sbaglio! Datti una mossa!» e me ne vado a sedermi, sfinita ma soddisfatta.
Certo è
che non entrerò più in quel negozio, sostenere una conversazione con zio Carlos
è sfiancante.
E poi
non vorrei che Giorgio ci stesse provando con me, per carità!
Non ne
voglio sapere.
E quando
torno a casa e mi sparo i RATM a palla, non penso più a niente e sento che la
giornata è stata stupenda, punto e basta.
Capitolo 7 *** Un invito speciale, colmo di aspettative... ***
Un invito speciale, colmo di aspettative…
E
dunque, dopo aver risolto tutto (o quasi) con Gabri,
mi ritrovo ad affrontare un’altra giornata di scuola.
L’ennesima.
Non c’è
niente di bello tra queste quattro mura, anche se può sembrare una di quelle frasette scontate.
Insomma,
qui viene il bello.
Solita
solfa e solite ore passate a distrarmi con Tita e
Giaco.
Però io
non sono contenta.
Vedo
quei due cretini che si lanciano occhiate furtive, mentre Tita
ha messo su un’espressione perennemente imbronciata e Gabri
non sa proprio come comportarsi.
Certo
che quell’idiota l’ha combinata grossa!
Durante
l’intervallo, Giaco saltella come una cavalletta e mi si piazza di fronte e mi
rivolge un’occhiata maliziosa, furbetta, che gli conferisce un’aria ancora meno
attraente.
Mi
piacerebbe che trovasse una ragazza, ma temo che per lui sarà ardua, se non
migliora almeno un po’. In tutto, non solo fisicamente.
«Berty, questa non te la puoi perdere!»
«Di che
parli?»
«Domani
c’è il compleanno di Mauro, ha organizzato una festa imperiale!»
«Non
sono stata invitata…» gli faccio notare, lanciandogli
un’occhiata interrogativa con la quale intendevo dire: “E quindi? Vuole pure il
regalo?”
«Ti
sbagli!»
Non
capisco.
Ma ecco
che, poco dopo, arriva Mauro con un sorrisone.
Lui, a
differenza di Giaco, non ha nessun problema a trovare una ragazza, ne ha sempre
un sacco che gli girano intorno.
«Ciao, Berty. Sono venuto a dirti una cosa importante.»
Importantissima,
proprio.
«Parli
della tua imperiale festa di compleanno?» faccio, tanto per dargli l’illusione
di essere importante.
E infatti…
«Oh, ti
sei ricordata? Wow, mi sento onorato, mi hai fatto emozionare!» esclama, con
gli occhi che brillano e un’espressione da pesce lesso stamapata
in faccia, quell’espressione che farebbe perdere la testa a qualunque ragazza.
Ma non a
me. Mi fa quasi pena.
«No, me
l’ha appena detto lui» ribatto, indicando Giaco e rivolgendo a Mauro un sorriso
dolcissimo, il più dolce – e crudele – che mi viene.
Sul viso
bello e pulito di Mauro passa una fugace ombra di delusione, ma lui cerca di
nasconderla dietro una scrollata di spalle e un sorriso tirato.
Non può
ingannarmi, quelli come lui li capisco al volo.
E ho
appena demolito la sua piramide di orgoglio super pompato appena cinque secondi
fa.
«E ci
vieni?» mi chiede poi, leggermente in imbarazzo.
«Vedremo,
non lo so ancora» butto lì, sapendo già che andrò alla sua stupida festa, ma
solo per due fondamentali ragioni:
1)Giaco mi ha praticamente chiesto di andarci,
anche se l’arrivo di Mauro l’ha fermato
2)Ci sarà SICURAMENTE sia Gabri
che Tita, perciò una festa è il luogo perfetto per
cercare di combinare qualcosa perquei
due
Lui
annuisce e batte in ritirata.
Mauro,
con me, ne ha da imparare, decisamente.
«Ovviamente
verrai» afferma Giaco, battendomi sulla spalla.
E la sua
non è una domanda, bensì un’affermazione.
Ne sa
una più del diavolo, il mio nanetto da giardino.
Il
problema si pone su un altro fronte, purtroppo.
Devo
fare i conti con quella brava e dolce madre che, all’uscita, mi preleva come se
volesse rapirmi, impedendomi di rientrare a piedi.
Quando
si dice: genitori iperprotettivi nei momenti meno opportuni.
Secondo
Giaco, non riuscirò a convincere la prof di matematica a lasciarmi andare alla
festa, visti i precedenti.
Ma io,
al solito, l’ho presa male. Molto male.
Se Mauro
lascia che chiunque ferisca il suo orgoglio, be’, io
non sono Mauro.
E
dunque, la convincerò, a costo di passare tutto il tempo che mi separa
dall’inizio della festa a pregarla in ginocchio e a lustrare la casa come
Cenerentola.
Questo,
per chi ha un orgoglio come il mio, potrebbe sembrare un discorso contorto e
paradossale, ma preferisco vincere la scommessa che mi ha lanciato Giaco, anche
se questo significherà fare dei piccoli/grandi sacrifici – ovvero, prostrarmi a
mia madre come una serva della gleba.
Ma
torniamo a noi.
«Mamma?»
«Sì,
Albertina?»
Passo
sopra al fatto che sia l’unica (o quasi) a chiamarmi in quel modo, visto che
per tutti sono Berty. Ma lei queste abbreviazioni non
le ha mai sopportate, o almeno, non nei confronti di sua figlia.
Con le
sue amiche cinguettanti, be’… con loro è tutta
un’altra storia.
«Senti,
domani Mauro compie gli anni…» attacco.
«Mauro?
Intendi il tuo compagno, Marzi?»
«Sì,
Mauro Marzi, mamma.»
«Ah,
auguri!»
Cominciamo
male.
«Sì, certo… ma, organizza una festa, domani sera…
mi ha invitato» dico, rimanendo poi col fiato sospeso, in attesa della sua
reazione.
Ho
scelto questo momento perché, mentre mia madre guida, certe volte risponde in
maniera distratta e accetta cose che, in altri momenti, non si sognerebbe
neanche di prendere in considerazione. E, quando riesco a strapparle un sì, non
le permetto di tornare indietro.
«Mmh?»
«Posso
andarci?»
Maria
Vittoria, d’un tratto, pesta il piede sul freno, eseguendo una manovra
impossibile da descrivere a parole, in modo da fermarsi poco prima di andare a
schiantarsi contro il muro di un’abitazione.
Si volta
nella mia direzione e mi guarda, con un’espressione imperscrutabile.
«Mamma… stai calma, okay?»
«Cosa
hai detto? Ripeti» dice, con tono basso, controllato (o, almeno, così sembra). Se
non la conoscessi, direi sicuramente che non potrebbe essere più tranquilla di
così. Ma vista la brusca frenata di poco fa, non sono certa di tornare sana e
salva a casa.
«A cosa
ti riferisci?»
«Cosa mi
stavi dicendo di Marzi?» domanda, addolcendo un po’ il tono.
La quiete
prima della tempesta.
«Ma no,
niente, sai… dicevo solo che mi hanno invitato ma… non intendo andarci, scherzi? Non me ne frega niente!»
esclamo, sarcastica.
Ma mia
madre il sarcasmo non lo pratica, ahimè, perciò tira un sospiro di sollievo e
sorride, rimettendo in moto. Poi afferma: «Certe volte, Albertina, sono proprio
fiera di te».
E io mi
sento un’idiota perché sto perdendo la scommessa e il tempo stringe.
Non
gliene parlo più per il resto della giornata e neanche nei pochi momenti che
trascorriamo in macchina, mentre andiamo a scuola.
Cerco di
pensare a come prenderla e i miei amici se la ridono, sicuri che non riuscirò a
farcela, stavolta.
Ma io
non perderò, no, è diventato più importante vincere quest’accidenti di
scommessa che andare a quella stupida festa.
Che poi,
in effetti, ci sto ancora pensando: Tita e Gabri devono avvicinarsi, quindi io non posso mancare. Se lasciassi
tutto in mano a Giaco, sarebbe la rovina della storia d’amore più sfigata del
globo terrestre.
Così,
dopo pranzo, vado da mamma, che sta caricando la lavastoviglie e le do una
mano, tanto per guadagnare tempo e rompere il ghiaccio.
«Oggi ho
visto Marzi, in corridoio.»
Questa non
me l’aspettavo, tuttavia rimango impassibile, devo dare l’impressione che non
me ne importi niente.
«Mmh» mugugno, afferrando i bicchieri da sopra il tavolo.
«Mi ha
pregato di lasciarti andare alla sua festa di compleanno.»
Colpo di
scena numero due: perché diamine Mauro ha fatto una simile stupidaggine?
Opzione
1: vuole somministrarmi qualche sfida mozzafiato di fronte a tutti;
Opzione
2: è un idiota e cercava di rabbonire la prof di matematica (ma si vede che non
la conoscere, ecco spiegata la sua idiozia, che peraltro prescinde dalla
suddetta opzione);
Opzione
3: Vuole davvero che io ci sia.
E perché
vuole che io ci sia?
Siamo amici?
No, purtroppo siamo in classe insieme.
Allora,
che vuole da me?
Un pensiero
orrendo e spaventoso cerca di farsi largo tra questi pensieri, ma io lo scaccio
con forza.
Sono sorpresa,
ma fingo ancora indifferenza.
«Ah,
pensa te…»
«Ma tu
non vuoi andare, vero?»
«No, no,
figurati!» esclamo, facendo spallucce.
«A chi
vuoi darla a bere, Albertina?»
Touché.
«Io? Ma no,
è vero, poi figurati, io e Mauro Marzi non siamo neanche amici!»
Almeno questo
è uno straccio di verità.
«Scarlatti
e Zunino ci vanno?»
Per un
attimo, rimango perplessa, poi mi rendo conto che mia madre, ancora una volta,
ha chiamato per cognome i miei amici, Giuditta Scarlatti e Giacomo Zunino.
Tita e Giaco.
«Sì, sì,
anche Gabri… cioè, Mela» rispondo, dopo alcuni
secondi di riflessione.
Non sono
proprio abituata ad abbinare i nomi e cognomi delle persone che frequento. Se non
fosse per l’appello fatto in classe, probabilmente non saprei neanche come sono
registrati all’anagrafe. Cose superflue, del resto.
Ma torniamo
a Maria Vittoria, ovvero mia madre, che annuisce con aria seria, neanche stesse
decidendo se concedere o meno l’eutanasia ad un malato terminale.
Mi fa
quasi paura.
«Se vuoi
andare, vai, però devi essere a casa alle sette.»
La guardo,
stralunata. Sta scherzando.
«Ehm,
mamma?»
«Che c’è
ancora?» sbuffa, sedendosi sul divano e accendendo il televisore.
«La
festa comincia alle otto, mi viene difficile rientrare un’ora prima» spiego.
«Alle
dieci.»
E sia.
In due
ore non riuscirò a fare granché, però è meglio di niente.
E, in
ogni caso, ho vinto la scommessa.
Esco dalla
cucina, soddisfatta, e mi preparo per andare a comprare il regalo per Mauro
insieme a Tita, Giaco e Gabri.
Andiamo in
un centro commerciale e decidiamo di girare un po’, perché non abbiamo proprio
idea di cosa regalare a quel montato di Mauro.
«Che ne
dite di una scatola di preservativi?» se ne esce Giaco, trotterellandomi
accanto.
«Io
proporrei un vibratore» interviene Gabri, per poi
cominciare a sghignazzare.
«Ragazzi!»
squittisce Tita, sperando di non attirare l’attenzione
di qualcuno.
Pensa sempre
troppo a come potrebbe essere giudicata, mi spiace tanto che lei viva con
questo cruccio.
«Ho un’idea
migliore» strillo, sorridendo. «Regaliamogli un completino sadomaso.»
«Per carità!»
si scandalizza la mia amica, tappandosi le orecchie.
«GENIALE!»
ruggiscono gli altri due, battendomi sulla spalla.
Un’ora
dopo, siamo seduti al tavolino di un bar e abbiamo comprato un libro altamente tematico:
“Come pompare il proprio ego fino alle stelle”.
Arriviamo
alla festa di Mauro che sono quasi le otto e un quarto.
Sempre in
ritardo, noi.
«Colpa
di Giaco» esordisce Tita, non appena Mauro apre la
porta e ci rivolge un’occhiataccia.
Entriamo
in casa sua e gli consegnamo subito il regalo.
«Siete
grandi! Mamma, che bel regalo!» grida, avvolgendoci tutti in un abbraccio
impossibile. Ci ritroviamo attorcigliati in cinque: io, Tita,
Giaco, Gabri e Mauro.
Tita è la prima a divincolarsi, imbarazzatissima
per la vicinanza di Gabri. Irrecuperabile.
Devo fare
qualcosa, ho deciso.
Il festeggiato
ci accompagna nello scantinato in cui ha organizzato la festa e noto che c’è un
bel po’ di gente, tra cui molti delle nostre compagne di classe.
Perfetto.
«Tita, mi accompagni in bagno?» le chiedo.
«Adesso… subito?»
«No, tra
due anni! Certo!» esclamo, trascinandola via.
Chiediamo
indicazioni a Mauro e ci fiondiamo su per le scale.
«Senti,
vai, io mi sono dimenticata le salviette!» dico, all’improvviso.
Mi è
venuta un’idea, devo metterla subito in pratica.
«Dai, ti
accompagno giù e torniamo insieme» propone.
«Ma no,
figurati! Dai, vai, ti raggiungo subito» la esorto, spingendola su e tornando
nello scantinato.
Mi dirigo
immediatamente da Giaco, non vedendo Gabri nei
paraggi.
«Oh
Giaco, ma Gabri dov’è finito?»
«Non lo
so proprio. A che ti serve?» domanda, fissandomi attentamente. «Cos’hai in
mente? E dove hai lasciato Tita?»
Sto per
rispondergli, quando una tizia carina ma troppo montata che credo sia al primo
anno, si avvicina a noi e sorride a Giaco.
Oh, no. Le
piace il mio nanetto diabolico?!
«Ciao»
esordisce, facendo gli occhi dolci a Giaco. Lui sembra non capire niente,
rimane impassibile e la fissa.
«Ciao… Antonietta?» intervengo, per cercare di rompere il
ghiaccio.
«Marianna»
abbaia lei, fissandomi con un’occhiata che lascia poco spazio all’interpretazione.
Vuole che me ne vada.
Sarei felice
di accontentarla, ma non permetto a nessuno di trattarmi in quel modo.
«Marianna…mmh, no, non mi dice
niente. Si vede che sei così insignificante che non ti fai ricordare.» Detto
questo, le scocco un sorriso e me ne vado, partendo alla ricerca di Gabri.
Chi si
crede di essere questa gallina?
Se deve
provarci con Giaco, lo faccia pure: non sarò di certo io a fermarla, per
carità. Magari è pure la volta buona.
Però non
sopporto che mi si tratti con sufficienza, quella ragazzina ha sbagliato
persona. Si vede che non sa chi sono.
Mi viene
in mente Tita e affretto il passo, girando per i due
locali che compongono lo scantinato.
Finalmente,
trovo Gabri che parla con un tipo di nome Ambrogio o
qualcosa del genere.
«Gabri!» esclamo, raggiungendolo e fingendomi trafelata. Devo
convincerlo fin da subito, altrimento anche questo
tentativo risulterà inutile.
«Che
succede, Berty?»
«Si
tratta di Tita! Non so che fine abbia fatto, lei… credo che stia poco bene, è andata in bagno e non
rientra più! Aiutami, ti prego, vieni con me!»
Spero di
essere abbastanza convincente, ma Gabri reagisce non
appena sente il nome della mia amica e dubito che abbia ascoltato il resto
della frase.
«Andiamo»
dice Gabri.
E mi
trascina letteralmente verso le scale.
Saliamo i
gradini due alla volta e io, alle spalle di Gabri,
faccio di tutto per non ridacchiare, compiaciuta. Sono contenta che lui non
riesca a nascondere quanto ci tiene a lei.
Mi divincolo
dalla sua stretta e lo seguo, poi noto Tita che esce
dal bagno e si guarda intorno.
«Tita! Come stai? Che è successo?» la travolge Gabri, afferrandola per i polsi.
Lei lo
fissa con espressione stralunata.
Io,
prontamente, mi dileguo dietro un pilastro e mi schiaccio contro la parete,
aspettando che qualcosa accada.
Questi due
riusciranno a combinare qualcosa?
«Berty ha detto che…Berty?» mi chiama lui.
Io rimango
immobile e trattengo il respiro.
«Che sta
succedendo?» si informa Tita.
La immagino
arrossire e fissare i polsi che Gabri le stringe con
preoccupazione.
Mi sento
quasi emozionata quanto lei.
Ma quasi,
eh!
«Non lo so…Berty era qui, poi si è
volatilizzata!»
«Mi ha
detto che aveva dimenticato le salviette e che mi avrebbe raggiunto subito in
bagno!»
«E a me
ha detto che non stavi bene e che voleva che venissimo a controllare!»
Ecco, mi
sono un po’ data la zappa sui piedi, però un giorno questi due mi
ringrazieranno.
Li immagino
che si fissano con un’espressione confusa, poi di colpo capiscono. Conoscendoli,
si sentono in un mare di imbarazzo, ma ora non si possono più evitare.
«Ci ha
fregati» commenta Gabri.
«Già. Ehm… torniamo giù?» propone lei. So che vorrebbe scappare,
probabilmente sta per farlo. Gabri, ti prego, non
fare il coglione. Questa scommessa l’ho fatta con me stessa, non lo sa neanche
Giaco cos’ho in mente, anche se lui a volte è come se mi leggesse nel pernsiero.
Chissà come
gli starà andando con quella tipa del primo anno? Marina? Già, è proprio
insignificante, non ricordo già più il suo nome.
Sento una
risata provenire dalle scale e sbianco. No, nessuno può interrompere il momento
idilliaco tra Gabri e Tita –
sempre che di questo si tratti. Dal mio angolo di spionaggio, non riesco a
capire cosa sta succedendo. Maledizione, chi cazzo sta salendo adesso a rompere
le palle?
«Aspetta.»
È stato Gabri a parlare, ha ordinato a Tita
di aspettare. E lei DEVE aspettare, per dio!
E io
devo evitare che qualcuno li interrompa.
Così, mi
appiattisco contro la parete e comincio a strisciare verso le scale; spero
proprio che quei due – e che nessuno – si accorga di quello che sto facendo, mi
sento una perfetta idiota, ma non ho alternative.
Quando sto
per arrivare, sento le risate farsi più vicine. Spero che Gabri
e Tita non si siano accorti che sta arrivando
qualcuno. Se credessi in dio, pregherei con tutta me stessa. Ma, dal momento
che in questa vita bisogna arrangiarsi, mi tuffo di getto giù dalle scale e
travolgo chiunque avesse intenzione di salire.
Mi ritrovo
tra le braccia di un ragazzo che mi fissa con aria perplessa, mentre un
gruppetto di ragazze, dietro di lui, si fermano di botto e smettono di ridere.
«Toh,
Albertina e Mauro: la nuova coppia dell’anno!» gracchia una di loro,
ridacchiando e sghignazzando come un’oca giuliva.
Sollevo lo
sguardo e incrocio gli occhi scuri e curiosi di Mauro. Per poco non mi viene da
vomitare.
«Ah,
lasciami!» esclamo, saltando indietro e cadendo con il culo per terra. Le figure
di merda non si contano oggi, a quanto vedo.
«Tutto
bene, Berty?» mi chiede Mauro, tendendomi la mano per
aiutarmi a rialzarmi. Devo prendere tempo, tra Tita e
Gabri deve scappare almeno un bacio, diamine.
«No, che
non va tutto bene! Voi, ochette, perché non tornate nel laghetto, eh? Aria, aria!
Ho bisogno di parlare con il mio nuovo ragazzo!» ordino, rivolta al gruppetto
di ragazze, le quali si scambiano occhiate interrogative e fanno per salire le
scale. «No, tornate alla festa! Su non ci fate niente!» salto su, sbarrando
loro la strada.
Quelle
mi guardano male, poi fanno dietrofront e io torno a sedermi, lanciando
occhiate alle mie spalle. Dio, se esisti, fa’ che quei due si stiano
accoppiando in bagno e in santa pace!
«Scusa, Berty… da quando io e te stiamo insieme?» domanda Mauro, accovacciandosi
di fronte a me.
«Relazione
lampo. È nata esattamente un minuto fa e si conclude esattamente ora.»
«Però
non era una cattiva idea» mormora, afferrandomi una mano.
Oh,
madonna, ma che gli passa per la testa? Perché deve provarci per forza con
chiunque? Ma dov’è Giaco? E perché Gabri e Tita ci mettono tanto? Mi viene voglia di richiamare le
oche giulive. Quando penso di star risolvendo un problema, se ne crea subito un
altro.
Dalla scala
si sente una canzone romantica, qualcosa che dovrebbe invogliare le eventuali
coppie presenti alla festa a gettarsi in pista. Certo, come no.
«Oh, sì
che lo è. Su, lasciami, torniamo giù!»
«Che
fretta c’è, Albertina? Perché devi sempre essere così acida? Ammettilo, ti
piaccio. Lo sanno tutti a scuola, ormai.»
Cerco di
trattenere un conato di vomito, ci provo davvero. E pensare che non ho neanche
bevuto, dannazione! Perché oggi sta succedendo tutto a me?
Spero che
tutti questi sacrifici stiano servendo a qualcosa.
E poi:
possibile che ogni volta che un ragazzo ci prova con me mi debba venire da vomitare?
Evidentemente…
Rimetto ciò
che ho mangiato al bar, quel pomeriggio, dopo aver acquistato quello stupido
libro per quell’altrettanto stupido di Mauro che, intanto, si è spostato e mi
sostiene i capelli mentre insudicio tutta la sua scala con i miei succhi
gastrici.
Il che –
mi ritrovo a pensare – potrebbe giocare a mio favore, perché potrebbe impedire
a Gabri e Tita di passare
e, quindi, di lasciarsi. Oh, che romantico!
No,
forse romantico no, ma fa lo stesso.
Sta di
fatto che mi viene voglia di mettermi due dita in gola, per prolungare quell’impedimento
non proprio romantico ma di sicuro efficace.
«Come
stai? Hai bevuto?» sussurra Mauro al mio orecchio, senza neanche preoccuparsi
di quanto questa scena faccia ribrezzo.
Scuoto la
testa, respirando a fatica. Tutte quelle attenzioni contribuiscono alla nausea
che, ancora, mi scombussola lo stomaco. Perché non mi lascia in pace e se ne
va?
«Oh,
cazzo, Albertina!» strilla una voce alle mie spalle. Poco dopo, Gabri mi si materializza accanto e mi aiuta a sollevarmi. Tita si precipita dall’altro lato e insieme mi trascinano
fino al bagno.
«Gabri, la aiuto io. Vai pure» dice Tita,
scostandomi i capelli dal viso. Temo seriamente di avere seri problemi, ho un
po’ paura della reazione che ho appena avuto.
«Allora,
che è successo?» mi chiede Tita, aiutandomi a
sciacquarmi.
«Mauro
ci provava con me e lo sai come reagisco io a queste cose» spiego.
«Santo
cielo! Si sono messi tutti d’accordo oggi?»
«Cosa
intendi?»
«Be’…» Tita arrossisce e io mi devo trattenere per non esultare. Penso
di aver già capito cosa vuole dirmi. «Anche Gabri ci
ha provato… con me.»
«COOOOOOSA?»
strillo, saltandole addosso e stritolandola. «Oh, finalmente! Eh che cazzo! Non
l’hai rifiutato, vero?»
«Come
avrei potuto? Sai che mi piace tantissimo, mi fa proprio impazzire. Oh, Berty! L’amore è una cosa indescrivibilmente magica!»
Okay,
non esageriamo, se continua così, rischio di vomitare di nuovo.
«Sì,
certo, ci credo. Almeno, per te dev’esserlo! Meno male,
i miei sforzi sono serviti a qualcosa. Non sei arrabbiata?»
«Ma no,
alla fine hai fatto bene.»
«Sì, mi
è successo di tutto, però diciamo che ne è valsa la pena. Tu e Gabri siete due rincoglioniti, fortunatamente ci sono io a
risolvere tutto! Vi siete accoppiati in questo bagno? No, perché se è così,
scusa, ma io esco! Senza offesa, eh!»
«Ma che
dici, su, Berty! Ferma lì! Lui mi ha baciato, tutto qui.
È stato il mio primo bacio, mamma che emozione, e che imbarazzo! Non sapevo
cosa fare, però… l’ho abbracciato, lui è stato molto
dolce! Oh quanto mi piace!»
Tita sorride come non ha mai sorriso in vita sua.
sì, è vero, a volte – anzi, quasi sempre – sono cinica e acida come uno yogurt
andato a male da tre mesi, però sono sempre contenta quando vedo le persone che
amo star bene. qualunque sia il motivo.
Dopo essermi
data una sistemata, la abbraccio forte, non pensavo che sarebbe successo davvero,
anche se ci ho sperato moltissimo.
«Sono
davvero felice per te.»
Quando usciamo
dal bagno, Gabri è lì che ci aspetta.
Lo guardo
negli occhi e vedo che qualcosa è cambiato anche nel suo sguardo.
«Se le
fai del male, ti ammazzo. Chiaro?» lo ammonisco, per poi avviarmi giù per le
scale.
Sento,
alle mie spalle, le loro risate e anche io sorrido.
Forse la
felicità non esiste, ma chi può dirlo?
Le scale
sono state accuratamente pulite e io riesco a scendere senza problemi. Recupero
Giaco, che stava accuratamente sbaciucchiando la tizia del primo anno –
Mariella, sì, dev’essere questo il nome – e saluto
Mauro con un cenno, prima di andarmene con i miei amici.
«Insomma,
voi due state insieme quindi?» chiede Giaco, una volta giunti in strada,
osservando Gabri e Tita che
si tengono timidamente per mano.
Quanto sono
felice!
«A
quanto pare» risponde lei, sorridendo al suo nuovo ragazzo.
Be’,
alla fin fine questa cavolo di festa ha portato qualcosa di buono, anche se chi
ci ha rimesso sono stata io.
Le mie
figuracce rimarranno nella storia, credo. E meno male che sono solo io,
Albertina Annetta Bartolini, che non se la prende per niente e se ne fotte di
tutto e tutti.
Quando torno
a casa, sono davvero contenta, nonostante tutto.
Non
è che il compleanno di Mauro abbia migliorato le cose, anzi.
Certo,
per Tita e Gabri è tutto una favola, ma si sa, loro sono
rammolliti innamorati, cosa ci si poteva aspettare?
Be',
anche se sono cinica, voglio che tra loro due duri, anche se non
posso perdonare Gabriel per avermi baciato. Che schifo, ho i brividi
al solo pensiero.
Cosa
possono trovare, comunque, di attraente in me? Niente, certo.
Mi
vesto e mi comporto come un appartenente al genere maschile, non so
come potrei suscitare pensieri scabrosi e seghe di fronte ad una mia
foto...
Queste
porcherie mi fanno sentire sporca, anche se non c'entro niente con
certe frivolezze.
Quando
rientro a scuola, lunedì, so già che mi romperanno le
palle.
«Albertina,
stai bene?»
«Ehi,
Berty! Avevi bevuto troppo alla festa?»
«Mauro
è una schiappa a letto, eh?»
«Non
capisco come tu possa aver vomitato... chinque pagherebbe per
guadagnare le avances di un ragazzo come lui!»
«Non
sei gelosa di Giuditta e Gabriel?»
Alt!
Quest'ultima frase la pronuncia una delle galline della mia classe,
che osserva con sguardo malizioso le dita intrecciate dei miei amici.
Questo è veramente troppo.
«No,
tesoro» ribatto, sfoderando un dolce sorriso innocente, «sono
gelosa di te.»
Lei
mi guarda stranita e se ne torna al suo posto, scuotendo il capo.
È
talmente stupida che non perdo neanche tempo a spiegarle il concetto.
«State
tranquilli» dico a Tita e Gabri, che si scambiano occhiate
preoccupate. Sorrido e aggiungo: «Non sono gelosa».
Poi
esco dall'aula.
La
ricreazione è cominciata da poco e incontro mia madre di
fronte ai distributori automatici.
«Non
vorrai prenderti un caffè, Albertina» mi rimprovera,
pigiando convulsamente sul tastierino numerico.
«Mi
perseguiti?»
«Certo
che no! Penso solo al tuo bene» ribatte, voltandosi a
guardarmi. Con quel completo austero e serioso, sembra quasi
credibile come severa e rispettabile professoressa di matematica.
Sto
per dire qualcosa, quando accade un fatto inspiegabilmente
meraviglioso.
«Scusi,
prof, si sposta? Devo prendermi un caffè. E comunque lasci in
pace gli studenti, ha sempre da ridire su tutto, insomma!»
Un
ragazzo dall'aria simpatica e i capelli arruffati si palesa accanto a
mia madre. Sembra essere dell'ultimo anno, ma non mi sembra di averlo
mai visto in giro.
L'espressione
della mia genitrice, mentre lo fissa, muta rapidamente. Se prima era
sorpresa, ora ho l'impressione che sia felice... felice?
Un
momento, il mondo ha cambiato direzione?
Se
qualcuno si rivolge a lei in quel modo, di solito sclera come pochi
esseri umani sono capaci di fare e comincia a sbavare come un cane
rabbioso, con tanti di occhi iniettati di sangue. Okay, ammetto che
quest'immagine è un po' stomachevole, ma non trovo altro modo
per descrivere i deliri di mia madre in preda all'ira.
In
questo caso, invece, sembra un cagnolino bastonato e devoto al
padrone. Sono allibita.
«Checco?
Ah!!!!!» strilla, rischiando di rovesciare il decaffeinato che
ha appena estratto dalla macchinetta. Afferro giusto in tempo il suo
bicchiere, poi osservo inorridita la scena di lei che si getta come
uno squalo al collo di quel giovane e aitante Checco.
Checco?!
Lo
stomaco mi si contorce e sarei tentata di buttar giù quella
brodaglia sine caffeina con bicchiere a corredo.
«Ti
sei ricordato di noi, giovanotto? Ah, che bello vederti!»
continua a squittire Maria Vittoria, stritolando il malcapitato.
Qualcuno
mi prenda a schiaffi, ne ho bisogno.
«Prof,
non le sembra un po' eccessivo? Potrebbe perdere la sua reputazione
per colpa mia, non sia mai» commenta lui, con tono altamente
sarcastico. Non ho mai visto nessuno trattare così mia madre,
eppure lei sembra non farci caso.
«Chi
se ne fotte della reputazione?» risponde, allegramente.
Io,
rendendomi conto che sono lì come un palo nel deserto, mi
schiarisco rumorosamente la voce.
«Mamma?»
il
tizio – tale Checco – mi rivolge un'occhiata strana, come
se stesse guardando un alieno appena sbarcato da Marte. Ottimo.
«Lei
è sua figlia?» domanda, rivolgendosi a mia madre, mentre
lei si degna di lasciarlo andare e mi strappa il bicchiere rovente
dalle mani. Per lo shock che provo, sono diventata insensibile al
dolore della plastica che si stava squagliando sulle mie dita.
Sentendomi
improvvisamente più sicura e tirata in causa, sollevo il mento
e lo squadro con il mio solito disinteresse, poi intervengo: «No,
Frankestein, sono una senzatetto che cerca di farsi adottare da una
professoressa squilibrata».
Checco
spalanca i suoi piccoli occhi azzurri e scoppia a ridere. A ridere di
gusto, come un idiota e come...
Come,
probabilmente, riderei io ad una battuta del genere.
Mi
sento improvvisamente allarmata, come se qualcosa non andasse. Non
credo che nel mondo possa esistere qualcuno capace di ridere ad una
delle mie battute infelici, quelle fatte apposta per ferire gli
altri. In quel momento stavo cercando di ferire mia madre, che mi
stava deliberatamente ignorando e mi aveva – per giunta –
usato come porta bicchieri personalizzato. Poi, volevo anche umiliare
quel troglodita con le sopracciglia che sembravano spazzolini da
denti e l'espressione rapace, mentre se la spassava alle mie spalle
con Maria Vittoria alias mia madre.
Okay,
forse sto esagerando, però io sono fatta così, non
posso cambiare per nessuna ragione al mondo, specialmente quando
voglio che qualcuno mi stia alla larga. Portare fuori il peggio di se
stessi è un'arte che bisogna imparare e non metterla mai da
parte, se capite cosa intendo.
Insomma,
Checco Spazzolino sta ancora ridendo, quando io scrollo le spalle e
mi volto verso la macchinetta, irritata. Ovviamente non lo do a
vedere, figuriamoci. Mai dare soddisfazioni a tali esemplari,
specialmente se se l'intendono con la propria genitrice fuori di
testa.
«Sveglia
sua figlia, prof. Quanti anni ha? Le assomiglia.»
Questo
è il colmo.
Io
assomiglio a lei? Sono sempre più convinta di essere stata
adottata/trovata sotto un cavolo/portata dalla cicogna/abbandonata
dentro un cassonetto, ma evito di fare commenti. Oggi mi sto
controllando bene, sono abbastanza fiera di me.
«Sai,
Albertina» strilla mia madre, appropriandosi con un gesto
rapido delle monete che sto per introdurre nel distributore (gazza
ladra senza scrupoli!), «Checco è stato uno dei miei
studenti migliori.»
«Peggiori,
prof, vorrà dire!»
Qualcosa
non quadra.
«È
stato?» chiedo, stranita, poi sbuffo e incenerisco Maria
Vittoria con lo sguardo. Ha deciso che non devo bere il caffè
e non demorde neanche di fronte a quell'estraneo. Devo inventarmi
qualcosa e subito.
«Oh
sì, ormai si è diplomato. L'anno scorso.»
«Ma
pensa» borbotto.
«Su,
un po' di entusiasmo, signorina!» mi schernisce quel Checco,
passandosi una mano tra i capelli un po' ricci e scuri che gli
arrivano quasi alle spalle.
«Vorresti
che mi mettessi a saltellarti intorno, facendo le feste? Mi chiamo
Albertina, non Maria Vittoria.»
«Prof,
sua figlia è proprio forte! Cavoli! Bene, io adesso me ne
vado, eh? Ci si vede, mi stia bene!» afferma lui, sorridendo
come un ebete di fronte a mia madre.
«Anche
io devo scappare» dice lei, mostrandomi discretamente le monete
che mi ha rubato. Mi viene voglia di strapparle la mano a morsi.
«Ciao, caro, passa presto a trovarmi» aggiunge, per poi
baciarlo su entrambe le guance e volare via, leggiadra come una
falena. Mi immagino di schiacciarla con il pollice e un sorriso
soddisfatto si dipinge sul mio viso, mentre estraggo altri cinquanta
centesimi dalla tasca dei jeans. Gazza ladra 0 – Albertina 1.
Checco,
intanto, è ancora lì imbambolato e mi fissa con
un'espressione che trasuda ammirazione.
Ammirazione?
«Che
guardi? Su di me il tuo fascino non attacca. Maria Vittoria sembra
soggiogata da te, invece. Pensa che onore.»
«Il
tuo sarcasmo verrà domato, ragazzina» dice di punto in
bianco, fissandomi negli occhi.
Senza
battere ciglio, ritiro trionfante il mio caffè, pensando
soltanto alla soddisfazione di aver messo al tappeto il presunto
potere sconfinato della prof Bartolini (non chiedetemi perché
mia madre utilizzi da sempre il cognome di mio padre, non ne ho idea
e preferisco non pensare a chissà quale promessa d'amore si
sono fatti o al significato scabroso di questo dettaglio).
«Ma
non te ne stavi andando?» gli chiedo con noncuranza,
sorseggiando la mia bevanda. Sussulto quando mi scotto la lingua e
trattengo a stento un'esclamazione infelice.
Lui
mi guarda e sorride. È un osso duro, non sembra affatto
impressionato dal mio modo di fare.
La
cosa, lo ammetto, un po' mi spiazza, eppure non glielo do a vedere
neanche se mi paga tre milioni di euro in contanti.
«Faccio
il tecnico del suono, sai.»
«Interessante.»
«Vero?
Be', non si sa mai che ti serva per qualche festa... in ogni caso,
sì, me ne stavo andando.»
Quel
suo tono impertinente mi fa innervosire, ma rimango comunque
impassibile e finisco in fretta di bere il caffè.
Checco
mi sorride ancora, strizzandomi l'occhio, poi conclude: «Temo
che ci vedremo spesso, prossimamente. Collaboro con la scuola per
l'assemblea musicale».
E
se ne va, lasciandomi lì.
Come
una deficiente.
Sì,
mi sento proprio così in questo momento.
Fortunatamente,
non sono una che si lascia influenzare da certe cazzate, così
getto con calma il bicchiere vuoto e, dopo essermi leccata le labbra,
me ne torno in classe.
Ma
poi... Checco... come cazzo si chiama davvero?!
«Mamma,
mi vuoi spiegare cosa significa la scenetta patetica dell'altro
giorno?» le chiedo, gironzolandole intorno come un'invasata,
mentre lei cercava invano di correggere le verifiche di una quarta.
«Non
capisco cosa ci sia di patetico nel parlare con un vecchio alunno»
risponde, profondamente irritata.
Il
fatto è che a me, tendenzialmente, non me ne frega un
accidente di lei e dei suoi rapporti con gli ex alunni. Ho già
i miei casini a causa del suo essere la mia professoressa di
matematica nonché genitrice apprensiva, però quel
Checco mi nasconde qualcosa, qualcosa che non mi passa neanche per la
mente di ignorare.
Il
fatto che mia madre eluda le mie domande ed eviti di rispondermi
neanche avessi la peste bubbonica, non mi invoglia certo a lasciar
perdere.
«Il
problema è il come, mamma! Tu e lui sembravate...
quasi... intimi...»
«Ah,
ma insomma, Albertina! Cosa stai dicendo? E comunque, mi vuoi lasciar
lavorare?» si lamenta, sbattendo senza alcuna grazia il pugno
sul tavolo.
«Non
finisce qui, Maria Vittoria!» affermo, e me ne vado in camera
mia.
Devo
ammettere che aspettavo da un po' di giorni di rivedere quel Checco.
Non so perché, ma ho trascorso qualche momento delle mie
impegnative giornate a pensare a cosa diavolo mi nascondono lui e
quella scellerata di mia madre.
Comunque
avrei altro a cui pensare, qualcosa di molto più importante,
come ad esempio le interrogazioni di fine anno che si avvicinano.
Ma,
onestamente, mi interessa di più l'assemblea musicale che si
terrà tra un mese.
Oggi
mi sento di buonumore, una delle ragioni – e direi la più
importante – è che mia madre non è a scuola. Il
suo giorno libero è anche il mio giorno libero, ormai questo è
un rituale settimanale a cui non potrei rinunciare per nulla al
mondo. Sono inoltre contenta che l'estate si avvicini, perché
ciò significa che Maria Vittoria lavorerà per tutto
giugno e io potrò godermi giornate di riposo assoluto e di
dolce far nulla.
Almeno
finché non rientra, sia chiaro.
Be',
in ogni caso, dicevo... oggi sono proprio di buonumore, tant'è
che mi avvio allegramente ai distributori automatici, dopo tre ore di
lezione che non hanno contemplato scene imbarazzanti durante
matematica.
Tita
è con me, dal momento che Gabriel è assente e
ovviamente lei non sa con chi stare.
«Non
te la prendi davvero? Insomma, sto sempre con Bibbi e oggi che lui
non c'è...»
«Bibbi?!»
strillo, fermandomi in mezzo al corridoio e attirando l'attenzione di
tutti, neanche a dirlo.
«Gabriel,
no?»
«E
tu lo chiami... Bibbi?»
Ho
nuovamente alzato la voce sull'ultima parola, ma a me sinceramente
quel nomignolo fa venire la pelle d'oca.
«Ma
cosa importa? Rispondi alla mia domanda!» si spazientisce lei,
scuotendo il capo e riprendendo a camminare.
«Ma
ti pare che me la prendo? Ho fatto di tutto perché voi due vi
accoppiaste...»
«Ehm,
Berty?»
«Sì,
Tita?»
«Ti
faccio notare che l'amore non è soltanto un fatto di
accoppiamento. Fino a prova contraria, io e Bibbi... ehm, cioè,
io e lui non siamo animali.»
«Sì,
vabbè, mi hai capito... ho fatto di tutto, no? E ora me la
prendo? È giusto che voi due state insieme finché sarà
tutto rose e fiori. Avrete tempo per separarvi, litigare,
ammazzarvi...»
«Uff,
quanto sei cinica! Uh... e quello chi è?» cambia
discorso Tita, fissando dritto di fronte a sé.
Seguo
il suo sguardo, incuriosita, e quasi rimango senza fiato nel vedere
Checco di fronte alla macchinetta del caffè. Okay, volevo
rivederlo, ma non mi aspettavo accadesse oggi. Era una così
bella giornata...
«Oh,
Berty! Vedessi che faccia hai!»
«Che
faccia ho?» chiedo a Tita, stridula.
«Sembra...
sembra...» tentenna lei.
«Sembra
cosa?» insisto, irritata.
«Sembra...»
Intanto,
Checco si accorge di me e interrompe bruscamente ciò che Tita
stava per dire. Vorrei ucciderlo.
«Ciao,
signorina! Tutto bene?» esordisce, avvicinandosi a me e
guardandomi dall'alto verso il basso, con quegli occhi azzurri che
sembrano scorci di cielo estivo. Sì, tutte queste stronzate
non sono affatto da me, infatti ho paura. Cosa diavolo sto dicendo?
Quasi quasi, vorrei che Maria Vittoria fosse qui...
Okay,
sto impazzendo.
«Ciao,
Francesco... così ti chiami? Tutto bene fino a pochi attimi
fa. Incontrarti rende la mia giornata improvvisamente pessima»
ribatto, senza scompormi troppo. Chi si crede di essere?
E
poi... come mi ha chiamato? Signorina? È pazzo? Se va tanto
d'accordo con mia madre, evidentemente sì.
«Wow,
non pensavo di essere così importante per te, quale onore!»
Rimango
immobile, mentre noto con disappunto che Tita se la ride sotto i
baffi.
«Sì...
eh, lei è Giuditta, comunque, una mia amica» cambio
discorso io, cercando di non perdere la calma. Questo deficiente mi
fa innervosire come pochi al mondo.
Tita
gli fa un cenno con il capo e si avvicina a prendere una cioccolata
dal distributore.
«Carina,
la tua amica» commenta Checco, attirando subito la mia
attenzione.
«Ha
un ragazzo» dico, senza sapere neanche perché.
Non
può pensare di provarci con Tita, quel Checco.
«Peccato.
Comunque, non mi chiamo Francesco.»
«Interessante.
Piuttosto, cosa ci fai qui?» domando, facendo per avvicinarmi
alla mia amica.
«Ho
un incontro con i rappresentanti d'istituto tra dieci minuti. Mi
accompagni?»
«Scordatelo.
Ho un'interrogazione alla prossima ora» mento.
«Peccato,
signorina. Tua madre come sta?»
«Lei
sta sempre alla grande. Mangia, dorme, pontifica, scopa...»
«Che
caratterino» dice, scoppiando a ridere.
Lo
fisso, senza cambiare espressione.
«Ti
va un caffè? So che la prof non vuole, ma non le diremo
niente, eh?»
«Grazie,
ma me lo prendo da sola. Non sono una morta di fame, sai?»
Checco
scuote il capo e si avvicina nuovamente alla macchinetta. Tita ha
appena ritirato la sua bevanda e la rimesta nel bicchiere, spostando
lo sguardo da me a lui, confusa.
Poi,
cosa che non è esattamente da lei, gli chiede: «Quindi
tu... com'è che ti chiami?».
Non
ci credo, mi ha appena tradito! Comunica con il nemico, ci intavola
conversazioni, approfondisce la conoscenza! Mi sento quasi ferita, ma
è pur sempre dell'ingenua Giuditta che stiamo parlando, perciò
posso passarci sopra.
«Filippo»
fa lui.
Io
mi immobilizzo e smetto di respirare, mentre Tita rischia di
strozzarsi con la cioccolata e sputacchia senza ritegno,
imbrattandosi come una bambina.
«C-come?»
balbetto, sinceramente sconcertata.
No,
adesso qualcuno di voi mi spiega perché diamine questo beota
si chiama Filippo ma da tutti è conosciuto come Checco. Vi
prego, liberatemi dal male, ne ho bisogno! Cioè, tipo, non per
dire, ma... Pippo era troppo scontato? O Fili? O in qualunque altro
modo, insomma! Che schifo è?
«Sì,
mi chiamo Filippo Marzani, piacere!» esclama lui tutto
contento, ignorando le nostre espressioni sconcertate e lo scempio
che sta combinando Tita a causa sua.
La
domanda, a questo punto, sorge spontanea: «Scusa, che cosa
c'entra Checco con Filippo?».
Fortunatamente,
sono riuscita a formulare questo interrogativo, perché
cominciavo a pensare che la mia mascella si fosse pietrificata.
Checco
sospira.
«Storia
lunga...»
«Racconta,
abbiamo tempo» taglio corto, poi attiro l'attenzione di una mia
compagna, la quale non si sposta mai dalla classe se non ha appresso
la borsa in spalla. Le chiedo un fazzoletto per Tita, poi torno dai
due dopo aver trafugato l'intero pacchetto, mentre la gallina di
turno mi sbraita contro, dicendo qualcosa sul fatto che non aveva
altri fazzoletti.
«Tempo
non ce n'è poi tanto, tra quattro minuti...»
«Senti,
Pippo, comincia a parlare, prima che mi stanchi e ti mandi
all'inferno senza ascoltare la tua storia. Tieni, Tita, pulisciti
bene. Guarda te che disastro...»
«Okay,
il fatto è che... è stata tua madre a darmi questo
soprannome per niente azzeccato.»
«Motivo?
Tita, sei ancora sporca, qui, ecco, sul labbro!»
«Bleah...
tutta colpa di quello lì...» biascica lei, passandosi
con cura il fazzoletto sulle labbra.
«Lei
diceva che ero simpatico come Checco Zalone, così...»
«Uh,
Tita, hai sentito? Che storia avvincente! Pensa che Maria Vittoria me
l'ha tenuto nascosto per più di una settimana, neanche fosse
un segreto nazionale o avesse a che fare con la mafia russa. Tutto
qui?»
«Eh,
sì... questo è essenzialmente il motivo.»
«Non
è trascorso neanche un minuto. Hai ancora più di
centottanta secondi per trovare una motivazione valida al tuo nome
d'arte, Pippo» osservo, poi strappo i fazzoletti dalle mani di
Tita e individuo nuovamente la gallina. Non appena lei si accorge che
la sto guardando e fa per avvicinarsi, le lancio il pacchetto,
centrandola in pieno viso.
Da
quel momento, una serie di strilli e imprecazioni si diffonde
nell'atrio, facendomi pensare che in classe ho a che fare con delfini
spiaggiati e pollai OGM.
Il
che non mi rincuora, ma mi permette di farmi due risate, poi
commento: «Canestro! Michael Jordan mi fa un baffo».
«Imparerai
mai ad avere un po' di riguardo per gli altri, signorina?»
«Pippo,
sparisci. Mi hai sconvolto l'esistenza fin troppo. Tita, andiamo in
bagno, così ti dai una lavata, sei in uno stato pietoso. Ci si
vede, Zalone!» concludo, poi mi allontano con Tita
sottobraccio.
Una
volta giunta in bagno, mi rendo conto che, per colpa di quel demente,
non ho preso neanche oggi il caffè.
E
allora capisco: dev'essere una cospirazione architettata da Maria
Vittoria per evitare che io assuma caffeina in sua assenza! Brutta
strega, come ho fatto a non pensarci prima? Essendo oggi il suo
fottuto giorno libero, ha inviato Pippo/Checco a rompermi le palle.
Si è scelta uno scagnozzo degno di nota, a quanto pare; sì,
perché a causa delle sue chiacchiere sono rimasta fregata
anche questa volta.
Una
volta uscite dal bagno, veniamo intercettate da Mauro, il quale sta
ridacchiando come suo solito. Cos'avrà in mente?
«Ciao,
belle ragazze! Oh, Berty, ti ho visto in compagnia di un bel
giovanotto, che ti sta succedendo? Lui non ti fa vomitare quanto me?»
mi punzecchia, lanciandomi un'occhiata colma di qualcosa che
riconosco come disprezzo. Spero di sbagliarmi, ma temo di no. Mauro
ce l'ha con me? Possibile che io gli piaccia davvero? No, certo, mi
prende in giro. È pur sempre Mauro, il senza cervello più
egocentrico dell'Universo. Ah, ecco, ora capisco perché ce
l'ha con me: ho scalfito il suo ego smisurato, povero cucciolo.
Evidentemente non ha ancora aperto il libro che gli abbiamo regalato
per il compleanno, altrimenti saprebbe come recuperare i punti
perduti in poche e semplici mosse.
«Non
essere geloso, tra lui e te non saprei chi scegliere. Siete due
campioni dell'idiozia fai-da-te» rispondo, senza troppo
entusiasmo.
«Piccola
ingrata. Ho una sfida per te, però ho una condizione.»
Nell'udire
quella parola, quelle cinque dolci lettere, la mia attenzione viene
catturata completamente e l'adrenalina comincia a scorrere nelle
vene, come sempre accade in questi casi. Eh sì, cari
EFP-spettatori, le sfide sono le uniche cose capaci di farmi provare
delle vere e proprie emozioni, non so cosa ci sia di meglio di un bel
traguardo da superare e raggiungere ad ogni costo!
«Spara,
Marzi!» sbotto.
È
inquietante quanto il cognome di Mauro e quello di Checco si
somiglino, comunque...
«La
mia condizione è che tu devi accettare la sfida prima di
sapere di cosa si tratta» annuncia fiero Mauro, sorridendo come
non mai.
Il
cervello di una persona normale funzionerebbe così: Non
accetto neanche se mi paghi per farlo, come posso fidarmi di un
troglodita come te?
Il mio, invece, ha
espresso soltanto questo pensiero: Non rifiuterei neanche per
idea, una sfida è pur sempre una sfida e va vinta, AD OGNI
COSTO!
Il che è
grave, perché, dopo aver annunciato a Mauro che avrei
accettato, lui mi guarda con aria estremamente soddisfatta, poi
strizza l'occhio a Tita e mi si avvicina, afferrandomi il mento con
la mano.
Per
poco non mi metto a strillare in mezzo al corridoio.
Mi
sento come se qualcuno mi avesse appena violentato, nonostante Mauro
se ne stia lì fermo con la sua solita faccia da viscido
depravato e non abbia osato avvicinarsi più del necessario.
Fosse per me, dovrebbe stare almeno a cento metri dalla mia sfera
personale, ma se voglio ottenere un simile risultato mi tocca
denunciarlo alla polizia per stalking, prima o poi.
Tita
sta seriamente per preoccuparsi, non tanto per il modo in cui potrei
reagire, ma per il semplice fatto che sono zitta e impalata, incapace
di ribattere.
Ultimamente
la gente si sta mettendo d'impegno per ficcarmi in situazioni più
impossibili che rare, ma cos'hanno tutti?
Prima
Pippo/Checco, ora questo deficiente patentato di Mauro...
Devo
dire qualcosa, cacchio.
Deglutisco
a fatica, grata ancora una volta per l'assenza di mia madre
dall'edificio scolastico.«
«Ripeti»
è tutto ciò che riesco a sibilare.
«Hai
capito, piccola innocente Berty. Vieni a letto con me, ci
divertiremo... o almeno, io mi divertirò di sicuro!»
«Ma
Mauro!» interviene Tita, tappandosi le orecchie con le mani e
scuotendo il capo.
«Oh,
Giudy, vuoi unirti anche tu? Dipende tutto da Berty, per me non ci
sono problemi... sono una persona socievole, io.»
«Ah,
sta' zitto, idiota!» sbotto, afferrando la mia amica per un
braccio, per evitare che scappi via scandalizzata.
«Allora?
Questa è la tua sfida di oggi» insiste il depravato,
guardandomi a lungo negli occhi.
«Accetto,
ci mancherebbe altro» grugnisco tra i denti.
Lui
sgrana incredulo gli occhi, incapace di ribattere.
«Ci
vediamo nell'ala abbandonata tra quarantacinque minuti. Non tardare,
codardo» concludo, poi me ne vado impettita, trascinandomi
dietro Giuditta, che non ha più aperto bocca da quando Mauro
le ha fatto quella proposta indecente.
«Sei
impazzita? Non funzionerà mai! Tu non vuoi andare con... oh,
mamma... ti sta fissando» mormora Tita, mentre siamo sedute in
classe durante l'ora di religione.
«Lascialo
fare. Senti, Tita, tu ti fidi di me?» le domando, con fare un
po' melodrammatico.
Ogni
tanto qualcuna delle nostre compagne mi lancia un'occhiata colma di
disprezzo, segno che quell'imbecille di Mauro ha già sparso la
voce in tutta la scuola. Così ci sia da vantarsi tanto,
proprio non lo capisco. E comunque, dopo questa giornata, le sue
speranze di fare una buona impressione in giro saranno proprio pari a
zero.
Non
sono così sprovveduta. Forse all'inizio la sua proposta mi ha
preso in contropiede, ma poi il mio cervello mi ha ricordato che
anche lui esiste e lavora.
La
prof di religione è intenta a spiegare come si svolge la vita
di un musulmano praticante, quando capisco che è il momento di
agire.
Lancio
un'occhiata a Mauro, poi comincio a fare delle smorfie.
Do
di gomito a Tita e lei esclama: «Prof! Scusi, credo che
Albertina non si senta bene...».
Non
è il massimo come bugiarda, ma io mi concentro sulla parte che
devo recitare.
«Cosa
succede, Bartolini?»
«Mi
viene... mi viene da vomitare...» balbetto, ripensando al primo
giorno che udii i miei genitori accoppiarsi nella stanza accanto alla
mia. Era la prima volta che davo di stomaco senza aver esagerato con
qualche cibo prelibato, e da allora quello era il mio cavallo di
battaglia per chiarire il disgusto che provavo per svariate
situazioni della mia quotidianetà.
«Vuoi
andare in bagno? Giuditta può accompagnarti» risponde la
professoressa, senza scomporsi. Non capisco ancora perché
tutti i professori mi chiamino per cognome, sono l'unica eccezione in
tutta la classe. Peccato che mia madre utilizzi i soliti nomignoli
orrendi, sottolineando di fronte a tutti che sono sua figlia. Sai che
fortuna.
«No,
non vorrei... non vorrei che perdesse la sua lezione, ce la faccio
anche... da sola...» continuo a farfugliare, alzandomi con
difficoltà simulata dalla sedia.
Barcollo
verso la porta ed esco, senza guardarmi indietro. Sento gli occhi di
tutti puntati addosso, ma i più pungenti sono quelli di Mauro.
Una
volta in corridoio, smetto di fingere. Afferro in fretta il cellulare
e comincio ad armeggiarci, dirigendomi lo stesso in bagno. Non si sa
mai che qualcuno mi veda e mi chieda spiegazioni che non ho voglia di
dare.
Mi
sento pronta, non mi lascerò prendere per il culo da quel
cretino di Mauro. È un ingenuo se crede che il suo ricatto
porterà dei frutti.
Ormai
mancano appena cinque minuti all'appuntamento, perciò mi frugo
in tasca per controllare che ci sia tutto e mi avvio all'ala
abbandonata della scuola.
Si
tratta di poche aule che non vengono utilizzate perché non c'è
un sovraffollamento di studenti, quest'anno. In queste aule, molte
storie d'amore e passione vengono consumate, all'insaputa del
personale dell'edificio. Nessuno dei bidelli ci passa mai, da queste
parti, le pulizie di questi ambienti si fanno ogni quindici giorni e
chi li frequenta clandestinamente è finora riuscito a non
farsi scoprire, non abbandonando rifiuti o altri indizi all'interno
delle aule.
Mi
fermo all'inizio del corridoio, appiattendomi contro la parete.
Aspetto Mauro, sorridendo.
Poco
dopo, lo vedo arrivare.
«Ci
sei allora?» sussurra.
Mi
piazzo davanti a lui, fingendo di essere mortalmente offesa con lui.
«Mi
vedi, no?» borbotto, incrociando le mani sul petto.
«Su,
piccola, ti piacerà. Hai mai scopato prima d'ora?»
«Ti
sembro il tipo?»
«Se
non lo hai mai fatto, mi vai anche meglio. Posso insegnarti tutto io,
tu dovrai soltanto obbedire ai miei ordini e vedrai che andrà
tutto per il meglio.»
Certo,
e poi devo diventare la tua schiava sessuale per il resto dei miei
giorni e finché morte non ti separi dal tuo uccello.
«Non
l'ho mai fatto, Mauro, perciò sii carino con me. Vorrei
sperimentare una cosa di cui ho sentito parlare» lo punzecchio.
In
realtà mi sento disgustata, però devo reggere finché
tutto questo scempio non sarà finito.
«Di
cosa si tratta?»
«Sorpresa.
Adesso entriamo.»
Mauro
mi appoggia una mano sul sedere e mi spinge avanti. Mi trattengo a
stento, ma vorrei mordergli le dita fino a staccargliele, per poi
infilargliele in qualche altro simpatico orifizio che gli
appartiene...
«Chiudi
a chiave, sì... la prof ha fatto domande?» cerco di
distrarlo, cambiando momentaneamente argomento.
«Sì,
ma Giuditta l'ha rassicurata e ha promesso che sarebbe andata a
controllare come stavi.»
Annuisco.
Figuriamoci se me ne frega qualcosa della prof!
Spingo
Mauro contro un banco e poi infilo la mano in tasca. Porto fuori un
fazzoletto spiegazzato e glielo sventolo di fronte agli occhi.
«E
quello cos'è? Eh, porcellina» ammicca, afferrando il
fazzoletto.
Quel
coso di cotone l'ho rubato alla bidella mentre tornavo in classe,
circa un'ora fa. Chissà quante volte ci si sarà
soffiata in naso sopra. Respingo con forza un conato di vomito e mi
costringo a guardare Mauro negli occhi.
«Ora
spogliati e lascia che io ti metta questo sugli occhi» gli
ordino con finta dolcezza, afferrando nuovamente la benda.
«Cosa
dici? Sei sicura di sapere...»
Mi
chino su di lui e gli abbasso la cerniera dei jeans, sentendomi molto
audace e schifata. So esattamente come si fa sesso, anche se non mi
ci sono ritrovata in mezzo.
Mauro
trattiene il fiato e mi osserva, stupito.
«Ho
detto: spogliati e lasciati bendare» ripeto, con voce suadente.
Gli
lego il fazzoletto dietro la nuca e mi allontano, evitando di
guardarlo mentre si toglie i vestiti. La cosa però è
inevitabile, perciò alla fine l'occhio mi cade sul suo petto,
sulle braccia e poi ancora più giù... vedere un ragazzo
nudo dal vivo è tutta un'altra cosa, quasi quasi una
bottarella a Mauro gliela darei...
No,
non a lui. A nessuno, non ci penso neanche a diventare come mia
madre.
Con
un moto di repulsione, distolgo lo sguardo e fisso il cellulare. Il
messaggio è arrivato.
«Berty?
Dove sei? Toccami come prima, ti prego...» mugola Mauro.
Mi
fa proprio pena e mi viene da ridere, ma proprio non posso. Tutto sta
andando a gonfie vele.
«No,
dovrai convincermi» blatero, avvicinandomi alla porta.
Mauro
è nudo e io non lo guardo più. Non ci penso neanche.
«Come?
Che cazzo...?»
Fa
per slacciarsi la benda e io lo fermo con un gridolino, posando la
mano sulla maniglia. Riesco ad abbassarla senza che lui lo senta,
coprendo lo scricchiolio con inutili chiacchiere e false promesse.
Il
mio ospite entra nella stanza in punta di piedi e strabuzza gli occhi
quando nota Mauro svestito e disteso sul banco.
«Convincimi,
su, Mauro! Sono una ragazza difficile, lo sai... anche se guardarti
mi piace!» mento, scambiando occhiate con la persona che mi
affianca.
Mi
fa un cenno verso il cellulare e io annuisco, sorridendo.
«Berty...
vieni qui, ti prego...»
Sollevo
il cellulare e premo sullo schermo.
«Sei
bellissima, lo sai? Non mi aspettavo un giochino del genere da te...
mi hai sorpreso, tutto questo mi piace, ma adesso diamoci da fare...
altrimenti la prof di religione penserà male...»
Comincio
ad avvicinarmi a lui seguita dal visitatore misterioso. Mauro non
immagina neanche della sua esistenza.
«Arrivo»
mormoro.
Sto
per scoppiare a ridere, seriamente. Tutto quello che sta succedendo è
irreale, eppure io non faccio altro che compiacermene. La mia
scommessa l'ho vinta, non importa come stanno andando le cose. Io ho
accettato di andare a letto con lui, i dettagli sono solo dettagli.
La
persona che ho fatto entrare si inginocchia di fronte a Mauro e gli
apre le gambe.
Io
cerco di non guardare, ma mi serve restare lì ancora un
attimo.
Quando
poi le cose cominciano a farsi serie e sporche per il mio debole
stomaco, smetto di riprendere.
Sgattaiolo
fuori dalla stanza mentre sento Mauro gemere mentre il ragazzo più
gay di questo mondo gli fa un bel servizietto degno di nota. Il
demente crede che quella sia opera mia, non oso immaginare cosa
accadrà quando Cristiano gli toglierà la benda.
E
io, in ogni caso, ho il mio video. Ora posso ricattarlo a mio
piacimento, perché nel video si vede chiaramente che sta
lasciando che un altro ragazzo lo sevizi per bene.
Me
ne fotto, io, delle convenzioni.
Comunque,
vado in bagno perché non ce la faccio più: devo
vomitare.
Ed
è lì che mi trova la professoressa di religione, quando
la sua ora finisce e lei viene a cercarmi. Mi trova china sul
lavandino a vomitare e tutti i dubbi che aveva nutrito sulle mie
reali condizioni di salute sviniscono come neve al sole.
È
incredibile come il tempismo ti salvi il culo, certe volte.
Quando
rientro in classe, Tita è preoccupatissima e le mie compagne
mi guardano con aria perplessa.
Mi
schiarisco la voce e sventolo il cellulare.
«Volete
vedere un video divertente? Però non lo posso divulgare, è
mio!» affermo.
E
tutte mi accerchiano, curiose di sapere cos'ho da mostrare.
Mi
sento così bene che quasi mi dimentico dell'esistenza di Mauro
e di ciò che accadrà quando anche lui tornerà in
classe.
Le
mie compagne strillano come ossesse e cominciano a ridacchiare come
galline, anche dopo che ho finito di sputtanare il nostro compagno di
classe.
Tita,
improvvisamente, mi picchietta sulla spalla.
Rimango
sbalordita nel trovarmi di fronte Checco che mi osserva con un
sorriso enigmatico. Cosa faccia nella mia classe, questo è un
mistero.
Mi
aspettavo che fosse arrivato quello sfigato di Mauro, evidentemente è
ancora impegnato con il suo dolce intrattenitore.
Rispondo
all'occhiata di Filippo/Checco con uno sguardo interrogativo, faccio
per aprire bocca, ma qualcosa interrompe quella scena che
dall'esterno potrebbe sembrare idilliaca.
«Tu!
Schifosa, mi fai schifo, io ti denuncio, come hai osato! Albertina
Annetta Bartolini, come hai potuto farmi questo? Io ti ammazzo, ti
ammazzo!»
La
voce di Mauro è talmente stridula e colma d'ira che mi viene
quasi paura. Quasi, perché poi mi ricordo di che esemplare si
tratta e una risata sorge spontanea dalla mia gola. Mi ricorda tanto
una canzone di Caparezza intitolata “Compro Horror”, in
cui lui si esibisce in una performance simile gridando “Io ti
ammazzo!”. Be', ascoltatela e capirete a cosa mi riferisco,
perché spiegare il modo scomposto e iracondo che Mauro sta
usando per strillare non rende certo giustizia alla realtà.
Comunque,
sembra una gallina in confronto a Caparezza e il ricordo di quello
che è successo mi fa piombare in una reazione talmente ilare
che fatico a trattenermi.
Sventolando
il cellulare con fare annoiato, dico: «Ciao, Mauretto. Devi
sapere che tutta la classe ha già visto il video che conferma
la tua malcelata omosessualità, quindi non ti conviene
continuare a renderti ridicolo».
A
questo punto, Mauro diventa paonazzo per la rabbia e spinge da una
parte il povero Filippo, che intanto stava assistendo alla scena con
aria confusa. Preso alla sprovvista, l'ex alunno di mia madre molla
un pugno sulla spalla del mio compagno di classe e comincia ad
imprecare come se non ci fosse un domani.
Intorno
a noi tutti cominciano a ridere, segno che tutta questa situazione
risulta molto divertente per l'intera classe.
«Razza
di stupido, levati dalle palle!» abbaia Mauro in direzione di
Filippo.
Io
ridacchio e avanzo verso il pazzo, sbuffando.
«Mauro,
hai finito con lo spettacolo? Vai a prendere aria, lo dico per il tuo
bene.»
«Non
provarci!»
Gabriel
e Giacomo entrano in aula e subito si fermano, trovandosi di fronte
questa patetica baraonda.
«Cosa
state combinando?» domanda Giaco, trotterellando per la classe,
per poi raggiungermi.
Gabriel
rimane impalato in attesa di una risposta, mentre con la coda
dell'occhio noto Giuditta che si avvicina con cautela a lui.
Questi
due impareranno mai ad essere un po' più spontanei e meno
pudici? Forse no. Sono due casi persi, si sono proprio trovati.
E
tuttavia...
«Sei
una porca schifosa, mi hai fatto fare una figura orribile... io...»
Mauro
si interrompe all'improvviso e i suoi occhi si velano
improvvisamente. Oh merda, se si mette a piangere ora, giuro che
vomito.
Tutti
i nostri compagni continuano a ridere, mentre lui continua a
sprofondare in un mare di umiliazione e boccheggia a fatica per
tornare in superficie.
«Ma
che gli hai fatto?» bisbiglià Giaco, mollandomi una
gomitata.
Lo
ignoro e mi avvicino ancora a Mauro. Lo squadro dalla testa ai piedi,
poi attacco: «Senti, Mauro, non provarci neancha a fare la
vittima, perché proprio non lo sei. Mi hai lanciato una sfida
assurda e io non mi sono tirata indietro, tu sapevi che non l'avrei
mai fatto e te ne sei approfittato. Io l'ho vinta a modo mio e mi
sono comportata di conseguenza, ho fatto ciò che era giusto
nei confronti di un essere viscido e schifoso come te. Ma dai, Mauro!
Credevi davvero che sarei venuta a letto con te? Ma è mai
possibile che tu non abbia ancora capito con chi hai a che fare?
Nessuno mi mette i piedi in testa e mi costringe a fare ciò
che desidera, nessuno! Cerca di ficcartelo bene in testa, okay? E
adesso... vai a prendere aria, ti farà bene, vedrai».
Detto questo, gli indirizzo un sorriso innocente e affettuoso, giusto
per illuderlo che mi importa davvero qualcosa di lui.
Sì,
come no.
Mauro
scoppia a piangere come un bambino e quasi mi dispiace per lui. Già,
quasi: Giaco corre in suo soccorso e si offre di accompagnarlo fuori.
Non c'è bisogno che io finga preoccupazione, c'è chi lo
fa al posto di tutti, quel povero martire di Giaco! Che caro ragazzo!
Stimo
molto Gabriel in questo momento: abbracciato a Tita, non si accorge
che forse il suo amico avrebbe gradito la sua presenza per consolare
il povero disgraziato pseudo-omosessuale.
Solo
ora mi ricordo che Filippo/Checco è ancora in piedi vicino
alla cattedra e ha assistito a tutto questo sfacelo. Poveretto, non
lo invidio.
«Ehm...
Albertina?» mi chiama.
«Sì?»
«Ho
sentito bene? Penso che dovrò fare rapporto a Maria Vittoria
per questo tuo comportamento riprovevole» blatera Filippo,
avvicinandosi a me.
Io
sbuffo e sollevo una mano con gesto noncurante.
«Piantala,
Pippo. Cosa diamine ci fai qui?» gli chiedo, conducendolo fuori
dall'aula.
L'ora
buca sta anche per finire, io non ho mangiato e sono indisposta a
causa di quel deficiente di Mauro. È meglio che Filippo si dia
una mossa, se non vuole che lo riduca in poltiglia seduta stante.
«Passavo
da queste parti e ho pensato di venire a trovarti.»
«Che
carino» commento, con tono ironico.
«Non
offendermi così, Albertina. Ci rimango male!» finge di
lagnarsi.
Perché
dev'essere così deliziosamente idiota e simile a me? No,
rettifico: nessun “deliziosamente”, non esageriamo.
«Adesso
che mi hai visto, puoi andartene? Io devo strafogarmi di cibo, ho una
fame...»
Filippo
mi spinge verso i distributori automatici e se la ride.
«C'è
anche un altro motivo, in realtà» prosegue, frugandosi
in tasca con un impegno che non riesco a spiegarmi. Neanche fosse
Mary Poppins e le sue tasche equivalessero alla famosa borsa.
«Sarebbe?»
Faccio per infilare qualche moneta nella macchinetta ma Filippo
scaccia la mia mano e fa scivolare nella fessura una moneta da due
euro. «Cosa stai facendo, Checco?»
«Ti
offro la merenda. Scegli ciò che vuoi. Comunque, questo sabato
c'è un concerto interessante in zona, credi di essere libera
per accompagnarmi?»
Mi
blocco interiormente, ma a lui faccio credere che sto scrutando i
prodotti al di là del vetro per decidere cosa prendere. Non
posso credere alle mie orecchie: perché oggi vogliono
abbordarmi tutti?! Questo qui crede forse di avere una corsia
preferenziale perché è entrato nelle grazie di Maria
Vittoria? Povero illuso.
Digito
un codice sul tastierino e me ne esco con: «Mmh... dicevi?
Scusa, non ti stavo ascoltando».
«Albertina,
con me non attacca. Se vuoi venire con me al concerto, ti divertirai.
Altrimenti sei libera di rimanere a casa con la prof a farti rompere
le palle per tutto il fine settimane.»
Mi
chino per estrarre i miei cracker dalla macchinetta. Sta dicendo sul
serio e ha toccato proprio il tasto giusto, questo bastardo.
«Sai,
Checco» rispondo, voltandomi nella sua direzione, «ho
altro da fare nella mia vita, non esiste soltanto casa mia e Maria
Vittoria».
«Sarà»
commenta facendo spallucce.
Ci
spostiamo nuovamente nel corridoio e io mi vado a sedere su un banco
addossato alla parete. Apro i cracker e ne sgranocchio uno.
Filippo
mi raggiunge, ne ruba uno e se lo ficca in bocca.
«Non
te l'avevo offerto, mi pare» lo rimprovero, ritrovandomi però
a sorridere.
«Sei
sempre così acida, Albertina. Rilassati, okay? Non ti voglio
saltare addosso come quel tuo compagno... ehi, poveretto! L'hai
proprio umiliato, dammi il cinque!» esclama, sollevando la
mano.
Faccio
come mi dice, ma lui trattiene la mia mano nella sua e ridacchia.
«Si
può sapere cosa vuoi, Pippo?» domando leggermente
sorpresa da quel contatto. Sta decisamente esagerando.
«Niente,
ti ho solo fatto una proposta. Devi essere tu a volerlo, cara
ragazza. Io non ti posso obbligare.» Detto questo, mi lascia la
mano e mi guarda con aria divertita.
Ha
un modo di fare davvero strano, tuttavia lo trovo abbastanza
interessante rispetto alla maggior parte degli esseri umani.
«Certo,
nessuno mi obbliga a fare qualcosa se non sono io a volerlo»
affermo. «E comunque non sono acida, diciamo che cerco di
sopravvivere. Hai saputo anche tu cosa voleva quel viscido di Mauro
da me. Qualche altra ragazza ci sarebbe cascata e avrebbe lasciato
che la ricattasse.»
«Già,
ma non tu. Questo ti dovrebbe far capire perché lui si
comporta così con te.»
«Abbiamo
qui il nuovo prof di psicologia o cosa?» ironizzo, continuando
a mangiare la mia merenda. Poi mi viene in mente una cosa e balzo giù
dal banco, gridando: «Hai dimenticato il resto nella
macchinetta!».
«Eh?
Sei sicura?»
«Sì,
corri!» lo incito, afferrandolo per un braccio e
trascinandomelo dietro. Tutto questo è alquanto comico, ma la
cosa peggiore è che tra noi si stanno susseguendo troppi
contatti fisici non esattamente casuali.
Purtroppo
il resto non c'è più, come c'era da aspettarsi. Dicasi
sfiga o semplice senso di sopravvivenza. Anch'io li avrei presi, se
li avessi trovati là dentro, quei poveri piccoli spiccioli.
Filippo
borbotta qualcosa con aria contrariata, poi la campana suona con un
trillo infernale sulle nostre teste, facendoci sobbalzare.
«Adesso
devo andarmene» annuncia Filippo, rubandomi un altro pezzo di
cracker.
«E
quindi per il concerto?» mi ritrovo a chiedere.
In
quel momento noto Giaco e Mauro passarci accanto; quest'ultimo non
solleva neanche lo sguardo e cammina a testa bassa. Giaco gli dice
qualcosa, poi ci raggiunge trotterellando come suo solito.
«Ciao!
Come va?» domanda, rivolto a Filippo.
«Ciao.
Bene, ehm... tu sei?»
«Giacomo,
piacere, sono un amico di Berty! A proposito, dovremmo tornare in
classe, svampita! Oggi ti sei presa un po' troppo tempo libero!»
«Ma
sta' zitto, Giaco! Io e quest'esemplare stavamo organizzando per
andare ad un concerto sabato, sai?» lo informo,
scompigliandogli i capelli con fare materno.
«E
io non sono stato invitato, come al solito! Ah, dovrei proprio
trovarmi una con cui divertirmi, anche Gabri non mi considera più
da quando fa le fusa per Tita» afferma con aria disgustata,
scuotendo il capo.
Scoppio
a ridere.
«“Esemplare”
mi mancava nella lista degli appellativi che utilizzi con me.
Ricordami di aggiungerlo all'elenco.»
«E
di che concerto si tratta?»
«Il
gruppo si chiama Scarti del Caseificio, fanno punk o qualcosa del
genere, credo...» risponde Filippo vago.
Io
e Giaco ci fissiamo con aria perplessa, poi cominciamo a sghignazzare
come due pazzi furiosi, fingendo di strapparci i capelli.
«Non
me li posso perdere, Pippo! Mi hai convinto, per sabato ci sto!»
esclamo, poi prendo Giaco sottobraccio e faccio per andarmene.
«Ti
cerco su facebook per i dettagli, allora!» mi dice Filippo
prima di uscire dalla scuola.
Mentre
cammino con Giaco, lui mi fa promettere di portarmi dietro
attrezzature tecnologiche in grado di riprendere e scattare
fotografie, perché non può proprio pensare di non dare
un'occhiata e un ascolto al gruppo che io andrò a vedere.
Mi
viene da pensare che purtroppo mia madre sarà strafelice di
sapere che esco con il suo pupillo, cosa che mi fa venire il
voltastomaco: non sono abituata a fare qualcosa che mia madre
approva, è del tutto politicamente scorretto!
Inoltre,
lei e Alfonso (mio padre) saranno al corrente che io esco con un tipo
e penseranno che mi sto rammollendo e che si tratta di un
appuntamento romantico.
Be',
se pure Checco avesse strane intenzioni con me, saprei benissimo come
gestirlo: non ho certamente paura di un essere di sesso maschile che
non spera altro che mettermi le mani addosso.
Oh,
quanto gli piacerebbe!
Ma
hanno sbagliato: stanno proprio sfidando la persona sbagliata, e
Mauro ci è cascato anche stavolta!
♣ ♣ ♣
Cari
lettori e seguaci di questa storia,
mi
rendo conto che questo capitolo non è un granché, ma vi
prometto che farò del mio meglio per regalarvene uno più
divertente per la prossima volta!
Sono
passata solo per precisare una cosetta: il nome del gruppo che
Albertina e Filippo andranno a sentire – gli Scarti del
Caseificio – è un'idea interamente del mio collega e
stimato autore Frenzthedreamer.
Lui hai ideato questo nome e l'ha inserito in un capitolo della sua
“Rising
Phoenix – Ragazzi nati dalle ceneri”
(andatela a leggere, ve la consiglio caldamente!), così gli ho
chiesto se potevo usufruire di questa geniale creazione per inserirla
nella storia di Albertina, perché ci stava proprio bene! E lui
è stato così gentile da concedermelo :)
Quindi,
ricapitolando, questo è un piccolo omaggio a Frenz, che spero
apprezzerà!
Bene,
gente, grazie ancora di tutto e a presto :3
E
ricordatevi che le recensioni sono sempre ben accette, il vostro
parere mi è sempre utile, anche se dovesse essere negativo!
Il
fatto di dover uscire con quel tipo mi indispone.
Io
non esco con i ragazzi, è una cosa che fanno quelle che poi,
volente o nolente, diventano come mia madre. Oppure quelle come Tita,
che hanno una predisposizione per le storie d'amore alla Shakespeare.
Be', spero di non trovare mai lei e Gabri in stile Romeo e Giulietta,
non potrei sopportare di perderli per ragioni così stupide.
L'amore
– o quello che la gente crede che sia l'amore – è
una ragione stupida per morire, insomma! Si può vivere anche
da soli, senza avere una persona che ti stalkera giorno e notte per
il resto della tua vita, io ne sono la prova, guardatemi!
Ma
del resto, io sono strana, o forse il mondo è strano e io sono
già proiettata verso il futuro. Fossi vissuta nel Seicento,
probabilmente avrei già preso i voti e condurrei la vita di
clausura, ma questo non c'entra con il mio imminente avvenire.
Devo
uscire con Filippo detto Checco e mia madre fa i salti di gioia, come
mi aspettavo.
«Che
caro ragazzo, che bellezza! Oh, Albertina! Finalmente hai deciso di
mettere la testa a posto, eh? Finalmente hai capito qualcosa della
vita... mi aspettavo che gli avresti vomitato sulle scarpe...»
sta blaterando, mentre il campanello di casa suona.
Per
l'occasione, mi sono vestita a caso, niente trucco, niente adito a
fraintendimenti: sono me stessa punto e basta. Tra l'altro, questo
non è un appuntamento romantico, dannazione!
«Mamma,
prenditi un sedativo» borbotto.
Neanche
a dirlo, si precipita fuori di casa e quando esco la ritrovo che
abbraccia Checco manco dovesse uscirci lei!
Mi
sento imbarazzata per colpa di quella donna che sembra sempre più
una schizzata fuori di testa, perché non posso essere orfana?!
«Sono
così felice che tu esca con la mia bambina pestifera, Checco!
Saprai come rimetterla in riga» strilla Maria Vittoria,
stritolando il malcapitato.
«Come
no... senti, vuoi tornare dentro e lasciarci andare? Ci tengo a
vedere il concerto!» sbotto, afferrandola per un braccio e
spintonandola verso casa.
«Albertina
Annetta Bartolini! Non permetterti di...»
La
lascio perdere e salgo in macchina sbattendo la portiera. Non sento
più quello che sta dicendo, fortunatamente Checco ha in messo
su un po' di musica metal che copre la voce spiritata di mia madre.
Sospiro
pesantemente e ringrazio tutto il creato quando quel ragazzo parte e
finalmente ci lasciamo alle spalle il manicomio che è casa
mia.
«Sei
sempre così cinica con tua madre?» domanda Pippo
ironico.
«Non
parliamone! Oh, questa canzone è forte!» esclamo,
tagliando corto. È appena partita “Youth of the Nation”
dei P.O.D.
Mi
allungo sull'autoradio e alzo il volume al massimo, apro il
finestrino perché a maggio fa già fin troppo caldo, e
comincio a cantare come una pazza liberando la mente da tutto.
Arriviamo
al luogo del concerto, una piazza che ospita una festa paesana di
dubbia importanza, che ridiamo come due scemi.
«Tu
non sei normale» commenta lui, chiudendo a chiave la sua Punto
verde pisello.
«Almeno
sai quali sono i rischi di questa uscita.»
Riconosco
subito persone che frequentano la mia scuola e comincio a salutare
chiunque come se fossimo amici di una vita. I P.O.D. mi hanno messo
di buonumore!
Io
e Checco ci avviciniamo al palco, osservando i musicisti che
cominciano a sistemarsi e a fare un soundcheck a scazzo. Non sono per
niente seri, lo noto dalle loro espressioni e, per questo, già
li amo.
«Cazzo
fai?» sento dire al chitarrista, il quale incarna il classico
metallaro con tanto di capelli lunghi, abbigliamento che sponsorizza
varie band famose e spille sulla tracolla del suo strumento.
Il
bassista, con l'aria da scemo, alza lo sguardo e lo guarda
allucinato, si dev'essere calato un acido o qualcosa di fottutamente
illegale e controproducente per i suoi già scarsi neuroni.
Scoppio
letteralmente a ridere quando sul palchetto compare un colosso di
circa due metri che va a sistemarsi dietro la batteria. Ha la faccia
seria all'inizio, ma io lo so che non lo è, si nota troppo.
Il
chitarrista lo raggiunge e si mette a urlare cose incomprensibili.
«Ah,
il batterista, Francesco, lo conosco!» dice Checco al mio
fianco.
«Suona
bene?»
«Se
la cava. Ed è un bravo ragazzo.»
«Ma
pensa! Bravo come te?» lo punzecchio, per poi dirigermi a
prendere qualcosa da bere.
«No,
di più.»
«Allora
non fa per me» ribatto.
«Io
invece faccio per te?»
Mi
blocco e lo guardo malissimo, sta già esagerando.
«Checco,
nessuno fa per me, questo te lo devi ricordare.»
In
quel momento parte la prima canzone degli Scarti del Caseificio e io
capisco immediatamente che sono degli sfigati, adorabili sfigati.
Francesco
– il batterista – ci sa fare, tutti sono abbastanza bravi
tecnicamente, ma il loro genere non si capisce. Fanno qualcosa che
potrebbe essere definito folk metal/viking punk, che di per sé
non è assolutamente niente. Che casino stanno combinando?
Eppure...
il cantante alterna growl a voce pulita stile power metal, ma siccome
è stonato come una campana viene fuori qualcosa di indicibile
che mi fa trascorrere tutto il concerto a ridere e prenderli
apertamente per il culo. Perché, ovviamente, io e Checco siamo
in prima fila e i componenti del gruppo vedono esattamente cosa
facciamo.
La
componente folk è dettata dalla presenza di una ragazza –
povera malcapitata! – che suona l'arpa. È veramente
brava, potrebbe decisamente far parte di una band migliore, eppure si
ritrova con questi matti e si diverte un sacco a far musica – o
un surrogato di essa – con loro.
«Sono
una meraviglia!» esclamo, mettendomi a ballare mentre faccio
gestacci in direzione del bassista che è l'unico rincoglionito
del gruppo, ma anche uno dei più dotati.
«Smetti
subito di importunarli!» scherza Filippo.
«E
tu smettila di parlare come mia madre» lo rimprovero.
Poco
dopo il cantante, durante la pausa tra un pezzo e l'altro, annuncia:
«Bestie feroci che siete qui presenti! Che cazzo fate? Non lo
comprate il nostro EP? Siamo venuti da Imola apposta per voi, cazzo!
E dai!».
Tutti
i presenti gridano e io faccio lo stesso, perché ovviamente
quell'EP sarà mio!
Quando
il live finisce, dico a Checco: «Andiamo, voglio comprarmi il
disco di questi».
«Sì,
poi dopo andiamo a salutare Fra» accetta, dirigendosi con me al
banchetto che gli Scarti hanno allestito per l'occasione.
«Ciao!»
esordisco, guardando la tizia che penso sia l'addetta alle vendite.
«Ciao
tesoro, vuoi comprare il meraviglioso disco degli Scarti del
Caseificio? In regalo anche la spilletta!» cinguetta lei, tutta
sofisticata nel vestire e nell'atteggiarsi che pare stia vendendo
gioielli o abiti firmati anziché musica pseudo-spazzatura.
«Secondo
te perché sono venuta, bella?» rispondo, regalandole un
sorriso colmo d'ironia.
«Datti
una calmata, eh!»
Ignoro
la sua acidità premestruale e domando: «Quant'è?».
«5
euro, grazie» borbotta, ficcandomi in mano EP e spilla.
A
quel punto noto Checco che le porge una banconota da 10 euro e mi
incazzo sul serio.
«Cosa
stai facendo?»
«La
tua perspicacia ha un limite, quindi» commenta, senza
rispondere. Ritira il resto e ci allontaniamo.
«Te
li rendo, non esiste» protesto.
«Senti,
Albertina.» Facendosi serio, si china su di me e mi guarda
dritto negli occhi, posandomi una mano sotto il mento. «Se non
stai un po' zitta, dovrò trovare il modo per obbligarti a
farlo e non so se ti piacerà» prosegue, posando poi –
fugacemente – un dito sulle mie labbra.
Poi
si allontana bruscamente e continua a camminare in direzione di
Francesco il batterista.
Non
avvertito per niente il familiare senso di nausea che mi provoca
generalmente quel tipo di situazione, sì, devo essere malata o
avere la febbre a 50, sto per morire. Tutta colpa di Maria Vittoria
che mi fa seguire una scorretta alimentazione.
Arrivati
da quel tipo, io sono stralunata e cerco di calmarmi.
Francesco
è veramente alto, io mi sento un tappo in confronto a lui e
invidio i tacchi di quella scema che mi ha venduto il CD, perché
con quelli avrei avuto perlomeno un'altezza dignitosa e adatta alla
situazione.
«Ciao
stronzo! Quanto tempo che non ci si vede!» o apostrofa Filippo,
mollandogli una pacca sulla spalla. Anche lui non è tanto
alto, ma almeno raggiunge il mentro e settantacinque e non sembra una
cimice accanto a questo gigante!
«Vedi,
alla fine siamo riusciti a suonare qui da voi» risponde
Francesco, per poi lanciarmi – letteralmente –
un'occhiata dall'alto in basso.
«Ehi,
energumeno, cos'hai da guardare?» sbotto in tono scherzoso.
«Che
caratterino...» borbotta.
«Lei
è Albertina, una mia amica» mi presenta Filippo ridendo.
«Piacere,
Francesco. Perché facevi gestacci mentre suonavamo?»
«Perché
siete degli idioti, per questo mi siete piaciuti tanto» dico,
sventolandogli il disco della sua band sotto il naso. Devo,
ovviamente, allungare il braccio più del dovuto, mi sento una
completa rincoglionita in crisi di altezza.
«Ah
bene, che bei complimenti... ehm, grazie» farfuglia Francesco
con imbarazzo.
«Non
farci caso, lei è fatta così...»
In
quel momento arriva il chitarrista ubriaco e barcollante.
Solleva
la mano libera e me la piazza davanti alla faccia, poi grida: «Batti
cinque, sorella! Sei una gnocca da paura, hai da fare stanotte?».
Di
rimando, gli pesto la mano con forza inaudita e lui barcolla ancora
di più, frastornato dall'inaspettato dolore.
«Non
ho niente da fare, ma proprio niente» rispondo e lo fulmino con
lo sguardo. «Ora anche di meno.»
Filippo
e Francesco ridono, poi Pippo mi afferra per il polso e fa: «Devo
riportarla a casa, sennò sua madre – nonché la
mia ex prof di matematica – mi lincia. Quando ripartite?».
«Domani
sera» risponde Francesco, sorreggendo quella spugna del suo
amico che continua a bere imperterrito.
«Allora
ci aggiorniamo e ci becchiamo prima della partenza?»
«Ovvio!
Ciao Pippo, ciao Albertina!» conclude Francesco e noi ce ne
andiamo verso la macchina.
Il
mio cellulare senga le 00:27 e non ho molta voglia di rientrare a
casa e subirmi il terzo grado della scellerata.
Saliamo
in macchina e Checco dice: «Spero ti sia divertita».
«Certo,
perché non avrei dovuto? Con quelli che facevano un genere
indefinito poi!» rispondo continuando a ridere.
«Sai
cosa vorrei?» aggiunge lui dopo un po', per poi parcheggiare
poco lontano da casa mia.
«Sentiamo.»
«Vorrei
baciarti fino a soffocarti» sussurra.
Io
mi irrigidisco sul sedile, divento un manico di scopa per alcuni
interminabili istanti, poi scoppio letteralmente a ridergli in faccia
mentre lo osservo che mi guarda, allibito da quella mia reazione.
Qualche lacrima accompagna le troppe risate, non ci posso credere che
questo ha veramente certe idee bizzarre in testa! È duro di
comprendonio, non ci arriva proprio.
«Perché
ridi? Non riesci a rimanere seria neanche per un momento, vero?»
«Ma
scusa, perché dovrei se tu dici certe cazzate?»
«Non
sono cazzate, Albertina.»
Anche
io torno seria, molto seria, serissima. È lui quello che non
capisce, non io.
«Ora
sono seria, Filippo. E ti dico esattamente cosa penso e cosa ti devi
ficcare in quella testa una volta per tutte: fatti passare certe idee
di mente, non sono cose che mi interessano e non diventerò
come mia madre, non mi interessa complicarmi la vita con queste
frivolezze da ragazzine, chiaro? Poi, rischieresti che ti vomiti
addosso e la cosa non è carina, vero? Ti saluto, sono stanca e
me ne vado a casa. Ci vediamo!» concludo, uscendo subito
dall'abitacolo e lasciandolo lì come un coglione, lasciandolo
per quello che è.
Forse
lui è proprio coglione, ma io sono una vera e propria stronza.
E
me ne accorgo per un istante, poi scaccio quel pensiero ed entro in
casa preparandomi al peggio.
NDA:
Grazie ancora a Frenz che mi ha concesso di inserire il suo gruppo
Scarti del Caseificio nella mia storia, oltre ad avermi concesso di
inserirlo come batterista!
L'assemblea
musicale si avvicina e io sono costretta a vedere Pippo quasi ogni
giorno. Ha molto da fare a scuola, si occuperò di tutta la
parte tecnica dell'organizzazione. In genere il tutto viene messo
nelle mani poco esperte di studenti dilettanti, ma quest'anno a
quanto pare vogliono che si concluda con il botto.
A
me la cosa non interessa. Parlo di Checco ovviamente, di lui non mi
importa. Da quando ha detto che avrebbe voluto baciarmi, non gli ho
più rivolto la parola. Queste cose non fanno per me e non
voglio assolutamente che gli passino certe idee per la testa.
Intanto,
mia madre ne sarebbe troppo contenta e orgogliosa e questo mi fa
venire il voltastomaco già di per sé; inoltre, il mondo
maschile è qualcosa che non rientra nei miei pensieri, come
invece succede a tutte le mie coetanee. Anche Tita dice sempre che
sono un caso perso, ma parla bene lei che ha trovato la sua felicità
con Gabri e sembrava non desiderare altro! Ecco, non la giudico,
ognuno è giusto che trovi il suo equilibrio nel modo che
ritiene più appropriato, e se per lei questo significa stare
con Gabriel, affari suoi. Sono felice per loro, sono due persone che
da sole non riuscirebbero a combinare niente di sensato, ma che
insieme si completano e sono una forza.
Io
invece non sono così e pare che molte persone fatichino a
capirlo.
Mauro,
ad esempio. Dopo quel brutto incidente – brutto per lui,
divertentissimo per me ed eccitate per il ragazzo più gay
dell'istituto che mi ha dato una mano – mi lancia occhiate di
fuoco come se stesse meditando qualcosa, come se tramasse alle mie
spalle ma non riuscisse a mettere in atto un bel niente. Lui è
un buono a nulla, un inetto sociale che spera sempre di attirare
l'attenzione e di coltivare il suo ego all'infinito.
Camminando
in corridoio durante la ricreazione, muoio di caldo. Giugno è
iniziato due giorni fa e io non ne posso più di venire in
questa schifosissima scuola.
Maria
Vittoria mi sta opprimendo con le sue stupidaggini su quanto sia
importante avere la media del nove in matematica, solo perché
lei la insegna. Pretende forse che io diventi come lei anche in campo
professionale, ma è un'altra di quelle persone che non hanno
ancora capito effettivamente come sono fatta.
Non
capisco neanche perché Checco la idolatri così tanto,
possibile che non abbia mai subito le angherie di mia madre e non
l'abbia odiata come succede a me? Ma pensare a lui non mi aiuta certo
a sentirmi meno nervosa.
E
non mi aiuta neanche il fatto che l'ho appena visto entrare
nell'atrio e mi sono leggermente irrigidita.
Giaco,
che mi sta accanto, sembra accorgersene e la cosa mi irrita. Gli ho
semplicemente accennato che siamo usciti insieme, ma solo per
raccontargli del concerto folle a cui ho assistito. Giaco è
appassionata di situazioni strane, lui per certi aspetti mi somiglia
e sa come divertirsi.
Il
problema è che io non voglio neanche vedere Checco, ormai è
sulla mia lista nera e lo vedo allo stesso livello di Mauro.
E
in questo momento cruciale, proprio mentre i nostri sguardi per un
attimo si incrociano, mi viene un'idea geniale. Già, Mauro è
sempre una buona fonte d'ispirazione per i miei piani colmi di
malefica dolcezza.
«Ecco
il tuo fidanzato!» grida Giaco.
Gli
mollo una gomitata a caso e lo sento imprecare malamente, ma lo
ignoro. Oggi è particolarmente irritante.
«Brutta
stronza!» mi insulta.
«Te
la sei cercata, ignorante!»
In
quel momento passa Mauro accanto a noi e la mia idea prende ancora
più forma nella mia mente, è arrivato un momento in cui
sento di dover mettere da parte per un attimo la mia dignità.
Lascio
Giaco a massaggiarsi le costole e mi fiondo vicino a Mauro, lanciando
un'occhiata a Checco che si avvicina alla macchinetta del caffè.
Afferro
il braccio di Mauro e lui, spaventato, si volta e rimane sorpreso nel
trovarmi accanto a lui che gli sorrido a trentadue denti.
«Ciao
Mauro, lo so che probabilmente mi odi...» comincio.
«No,
macché, figurati! Mi hai ridicolizzato di fronte a tutti, ma
questo per te non ha alcuna importanza, Albertina» mi accusa
con tono acido.
Reprimo
l'istinto di sputargli in faccia e di dirgli tutto quello che penso
di lui, compreso il fatto che mi fa schifo e che gli rivolgo la
parola solo perché mi serve.
«Lo
so, sono stata pessima, ma tu sai come sono fatta. Mi perdoni?»
me ne esco invece, sperando di risultare convincente. Il tempo
stringe, ma se Checco mi vede mentre parlo con Mauro e gli stringo il
braccio, dovrebbe già bastare.
«Perché
dovrei?»
«Perché
sei un bravo ragazzo... lo so, mi dispiace di averti combinato quello
scherzo, a volte mi comporto come una bambina!»
Sto
continuando a gettarmi merda addosso, ma questo è per una
giusta causa, sfido chiunque di voi a dirmi il contrario!
«Ma...»
«Ci
tengo!» salto su avvicinandomi ancora a lui. «Mi sono
accorta di che brava persona tu sia» sussurro, reprimendo un
conato di vomito. Stare così vicino a quest'essere mi costa
fatica, ma io sono una persona abbastanza coraggiosa, non ho apura
delle sfide e questo è risaputo. Così, mentre notavo
Checco entrare a scuola, mi sono detta: “Albertina, dannazione,
ti sfido! Fa' vedere a quello sbruffone di Filippo con chi ha a che
fare!”. E per questo, Mauro è la persona giusta, me lo
sento.
«Posso
provarci...» cede Mauro, da perfetto idiota. Ecco, vedete cosa
intendo quando dico che è perfetto per questo ruolo?!
«Sì,
ti prego!» squittisco.
Sento
lo sguardo di Giaco addosso, so che mi sta prendendo per pazza, ma io
ho qualcosa di importante da raggiungere! Prima o poi capirà!
«Mauro»,
deglutisco, sperando che lui interpreti quest'esitazione in amniera
positiva, «la verità è che... tu mi piaci, però
in quel momento non ero... pronta ad ammetterlo» concludo.
Non
faccio in tempo a riprendere fiato che Mauro si avventa su di me, e
riesco a malapena ad evitare che mi baci. Non posso proprio
sopportare anche questo, è già troppo che io
stia fingendo di desiderarlo.
Lascio
che mi abbracci e per evitare che avvicini la sua bocca alla mia,
nascondo il viso sul suo petto tentando di non inspirare troppo. Mi
sta seriamente prendendo male, la nausea è qualcosa che non
sono mai stata brava a controllare, specialmente se di mezzo ci sono
dei ragazzi – Mauro in particolare è un altissimo
conduttore di questo fenomeno.
L'unico
che non mi ha provocato quest'effetto collaterale è Checco, ma
io non lascerò che qualcosa di anomalo mi faccia diventare
come mia madre nei confronti di mio padre. Io di uomini non ne voglio
sapere, a volte penso che sarei dovuta nascere lesbica. Peccato che
non lo si possa diventare dall'oggi al domani, sono certa che una
ragazza potrebbe andarmi meglio per molti motivi.
Ma
per ora devo fare i conti con Mauro che sembra un animale in calore e
mi tocca in maniera fastidiosa la schiena, i fianchi, i capelli...
La
colazione rischia di venir sprecata, cerco di appigliarmi al mio
senso civico e di pensare a quante persone avrebbero voluto mangiare
quello che ho mangiato io stamattina e non si sognerebbero mai di
rimetterlo per colpa di un essere spregevole come Mauro. La tecnica
sperimentata sul momento sembra funzionare, però mi scosto lo
stesso da Mauro e gli afferro riluttante la mano.
«Ci
prendiamo un caffè, ti va?» domando, sperando non gli
venga in mente di fare qualcosa di cui potrebbe pentirsi. Penso che
per i prossimi giorni dovrò girare con un coltello a
serramanico appresso, ho la vaga impressione che sarà molto
difficile sbarazzarmi nuovamente di lui dopo questa messinscena.
Perché finisco sempre per impantanarmi in queste situazioni di
merda?
E
pensare che all'inizio sembrava tutto così semplice: fingere
di essere innamorata di Mauro, sfilare mano nella mano con lui di
fronte a quell'allocco di Checco e fargli così passare la
voglia di rompermi le palle. Non avevo però messo in conto il
fatto che Mauro è un adolescente egocentrico e in preda agli
ormoni che non vedeva l'ora di mettermi le mani addosso, provocandomi
un fastidio indescrivibile.
La
vita è una grande puttana, ragazzi miei!
Giaco
mi fulmina con una lunga e significativa occhiata, mentre Tita e
Gabri lo raggiungono. Tutti e tre mi guardano come se fossi appena
scesa da una navicella spaziale, così lancio loro uno sguardo
che spero gli faccia capire che sto fingendo, che potrò
spiegargli tutto in un secondo momento.
Loro
sono gli unici di cui mi importa, il parere del resto della scuola mi
lascia del tutto indifferente, non ci presto minimamente attenzione.
Io
e Mauro arriviamo di fronte alla macchinetta e proprio in quel
momento Checco, dopo essersi chinato per ritirare il suo caffè,
si volta nella nostra direzione e ci nota.
Non
saprei proprio descrivere la sua espressione, sta di fatto che sento
un disagio diverso, che unito al disgusto che già sto provando
da un po', mi convince a mollare la mano di quel viscido di Mauro.
Con la scusa di cercare qualche moneta, mi allontano leggermente da
lui.
Improvvisamente
non ho più tanta voglia di recitare, ma il ricordo della sfida
che mi sono lanciata mi fa capire che non posso più tirarmi
indietro. Solo i vigliacchi abbandonano il campo di battaglia!
«Ciao»
fa Mauro beffardo, rivolto a Checco. So che sta facendo l'idiota
perché crede davvero che io ormai sia sua e che quindi il suo
“rivale” non ha più alcuna speranza. Il problema è
che nessuno dei due ha ancora afferrato il concetto: non c'è
anima viva che abbia una minima speranza di accoppiarsi con me, punto
e basta.
Evito
di farlo presente, mi limito ad osservare la scena, mentre Checco fa
un semplice cenno con il capo e ci oltrepassa senza neanche degnarmi
di uno sguardo.
Rimango
basita, c'è qualcosa nel suo atteggiamento che mi fa
incazzare, incazzare sul serio.
Come
si permette di trattarmi con sufficienza? Quello ad essere fuori di
sé, ora, dovrebbe essere lui, non io! Ha un modo di fare che
non sopporto, così do accidentalmente un colpo a Mauro, il
quale si rovescia il caffè macchiato appena preso sulla
maglietta e comincia a borbottare cose incomprensibili.
Non
me ne frega un cazzo, ecco la verità.
«Ciao,
Filippo! Tutto bene? Non si saluta più?» sbotto facendo
un passo avanti.
Lui
si ferma e, dopo essersi girato, fa un sorrisetto idiota e scuote il
capo.
«Non
hai niente da dire?» aggiungo. Questa situazione surreale mi fa
sentire strana, è come se Mauro non esistesse neanche più.
«Fa
male essere ignorati, vero?» dice Checco con ironia, ma nei
suoi occhi non c'è alcuna traccia di sorriso né
divertimento.
E
poi se ne va, lasciandomi qui a strepitare come una deficiente. Non
fa male, è fastidioso, non si doveva permettere! Ma crede
davvero di essere così importante? Povero illuso!
Mauro
mi circonda le spalle con un braccio e io subito mi irrigidisco. Ne
ho abbastanza, così me lo scrollo di dosso e balzo indietro.
«Non
toccarmi, idiota! Pensi davvero che volessi stare con te? Ma vedi di
riprenderti!» sbraito, strappandogli di mano il bicchiere
semivuoto e scagliandoglielo addosso senza alcun ritegno.
«Non
ci posso credere, io...» farfuglia sgranando gli occhi.
«Ti
ripeto ancora una volta che devi scendere dal piedistallo, non ti
sopporto e non cambierò mai idea!»
«Mi
hai usato per far ingelosire quel... tipo!»
«Faccio
come mi pare, non sono affari tuoi, Mauro! Cavoli tuoi che credi a
tutto e basta veramente poco per alimentare quell'ego che ti ritrovi!
Lasciami in pace!»
Me
ne vado incazzata come una belva, ma i miei amici mi bloccano
all'inizio del corridoio.
«Devi
darci delle spiegazioni, è un must!» strilla Giaco
afferrandomi per un braccio.
Così,
mentre racconto quello che è successo per filo e per segno,
non riesco a far a meno di pensare alle motivazioni che mi hanno
spinto a comportarmi in questo modo.
Checco
mi ha fatto innervosire parecchio, inoltre è stato un vero
maleducato a non salutarmi e a non reagire minimamente a quello che è
successo, speravo di fargli capire che non può avermi ma lui
sembra non essersi neanche accorto che stavo passeggiando con Mauro
come se stessimo insieme.
L'unico
problema è che alla fine non ho risolto niente, non ho
raggiunto nessun obiettivo, se non quello di vincere la scommessa con
me stessa.
Peccato
che stavolta la cosa non riesce ad assumere la solita importanza.
«Si
può sapere cosa diamine state facendo? No, quell'amplificatore
va sistemato lì, altrimenti sta in mezzo ai piedi per tutto il
tempo! Perché questa dannata scuola è piena di
incompetenti?»
«Ma
sentilo» commento stizzita, mentre Checco non fa che sbraitare
come un pazzo, inveendo contro chiunque gli capiti a tiro. Non ho mai
conosciuto una persona tanto piena di sé in vita mia, giuro.
A
volte penso che queste assemblee diverse dal solito servano solo a
creare problemi a chi le organizza, ma ovviamente non posso certo
fare la guastafeste e quella iena della mia genitrice mi costringe ad
assistervi perché, del resto, «anche questa è
un'attività scolastica, Albertina!». E 'sti gran cazzi.
«Smettila
di fissarlo, altrimenti lo capisce!» gracchia Giaco al
mio fianco, mollandomi una gomitata, mentre aspira il suo succo alla
mela verde dal contenitore.
«Eh?
Chi capisce cosa?»
«Quel
tipo, il tuo Checco! Capisce che lo vuoi se non la pianti
di...»
«Taci,
Giacomo. Adesso» taglio corto, distogliendo comunque lo sguardo
dal cocco di mia madre. Possibile che lo stessi davvero fissando?
Intanto
Mauro si aggira per il cortile come un'anima in pena e, ripensando a
tutto quello che gli ho fatto passare, non mi sento affatto in colpa.
Lui si merita tutto quello che ha subito, ogni singola cosa se l'è
cercata e ha decisamente sfidato la persona sbagliata.
«Berty,
guarda!» strepita Tita al mio fianco, afferrandomi il polso.
Seguo
il suo sguardo e noto che Checco sta parlando con una ragazza. Un
attimo, non una ragazza qualsiasi, ma una delle mie compagne più
zoccole, una di quelle che – con la scusa che oggi è il
dieci di giugno – se ne va in giro con il culo in bella mostra
e una canottiera che lascia ben poco all'immaginazione. Mentre parla
con Checco, gesticola con fare studiato e presumibilmente
sensuale, posando ogni tanto una mano sul braccio muscoloso di lui.
Non
so perché, oggi fa proprio caldo. Troppo caldo, sicuramente mi
deve arrivare il ciclo e ho perso il conto dei giorni. Maledetta
emorragia mensile!
«Hai
una faccia» commenta ancora Giaco con tono divertito.
«La
mia faccia è normalissima!» sbotto, incrociando le
braccia al petto con nonchalance. Questo nanetto pensa davvero di
sapere cosa mi passa per la testa?
Sarebbe
pressoché impossibile, dato che nemmeno io ne ho la più
pallida idea.
«Certo
che è proprio una gallina» borbotta Tita. «E tu
smettila di guardarle il culo!» aggiunge poi stizzita,
rivolgendosi al suo ragazzo.
Gabri
scrolla le spalle e la bacia teneramente, facendola zittire in un
colpo solo.
Sospiro.
Sarebbe facile se anche io potessi essere domata in quel modo, no?
No, certo. A me queste cose danno il voltastomaco, ma stranamente
mi dà il voltastomaco anche constatare che Marianna – la
mia compagna zoccola – si è chinata a sussurrare
qualcosa nell'orecchio di Checco, mettendo ancora più in
mostra la sua scandalosa scollatura.
«Non
ha un minimo di pudore!» sbotto, senza neanche rendermene
conto.
«Chi?»
chiede Giaco, distratto dallo schermo del suo smartphone.
«Marianna!»
rispondo con tono melliflue, mentre il reflusso gastrico si affaccia
non troppo timidamente. Io quella la odio, l'ho sempre odiata, ma ora
la odio il doppio. Non lo so perché, cazzo, ma è così.
«Dove
stai andando?»
Senza
neanche accorgermene, mi sono alzata in piedi e Giaco, al mio fianco,
si preoccupa, forse perché mi conosce fin troppo bene.
«Da
nessuna parte» mi giustifico, tornando a sedermi senza troppa
convinzione. Sto impazzendo, è ufficiale.
«Oh,
Fily, quanto sei divertente!» sento gemere Marianna, poi
scoppia a ridere come un'oca starnazzante. Sembra che abbia le
convulsioni e sembra lo faccia apposta. Tutto il suo corpo si muove
in maniera sinuosa e i seni tremolano mentre si lascia travolgere da
quella risata così falsa.
La
vedo avvicinarsi sempre più e solo dopo qualche istante
capisco che, non solo mi sono alzata nuovamente, ma sto anche
avanzando verso quei due. Ormai è troppo tardi per tornare
indietro, lui mi ha già notato e, dopo aver seguito il suo
sguardo, anche lei mi osserva, inclinando leggermente la testa di
lato.
Cazzo,
mi sono impantanata in un bel casino. E adesso?
Adesso
escine, cretina, ti sfido!
«Ciao
Marianna, ciao Pippo. Che fate? Ah, cara compagnetta, Pippo ti ha
detto che usciamo insieme, vero? Lui è il mio ragazzo, sai?
Perciò, sei pregata di togliere la mano dalla sua spalla,
grazie» mi ritrovo a ringhiare, fulminando la tipa con lo
sguardo. Non ho minimamente idea di che espressione ho dipinta in
viso, ma so con certezza che mi pentirò per il resto dei miei
giorni di queste parole.
Marianna mi scruta
allucinata, come se le avessi appena detto che stiamo per essere
invasi da un esercito di zombie assassini, poi comincia a dire: «No,
cioè, scusa? Tu e lui? Scusa se non ci credo, ma tu sei famosa
per inventarti relazioni inesistenti!».
Ma io subito lo
interrompo: «Senti, tesoro, te lo ripeto perché
voglio essere sicura che il tuo cervello da gallina abbia ben chiaro
il concetto: luista con me. Ora hai capito?».
Non lo so proprio
cosa mi sta prendendo, credo che dopo questa performance, andrò
a nascondermi in bagno in preda all'autocommiserazione, ma almeno mia
madre sarà fiera di me per aver liberato il suo adorato Checco
dalle grinfie di una come quella.
«Mari, puoi
lasciarci soli?» aggiunge infine Checco, rivolgendole un
sorriso stanco. Vorrei strozzarlo, giuro, lo desidero ardentemente,
ma almeno su questo punto mi risparmio, ho già fatto
abbastanza stronzate per oggi.
La tipa sposta lo
sguardo da me a lui, poi fa spallucce e torna dalle sue amiche
sculettando, neanche si trovasse in passerella. Mi fa proprio schifo,
la odio. Ops, forse l'ho già detto, rischio di diventare
monotona.
«Ascoltami
bene» comincia Checco, passandosi una mano tra i capelli in un
gesto che non riesco a decifrare. «Cosa significa questa
scenetta?»
«Assolutamente
niente!» mi affretto a rispondere, incrociando le braccia al
petto e lanciandogli un'occhiataccia. Meglio che non si illuda,
inoltre ho una voglia matta di ficcarmi la testa nel cesso e non
pensare più a quanto sono diventata patetica negli ultimi
cinque minuti della mia esistenza.
«Roba da
matti» commenta il ragazzo.
Sto per aggiungere
qualcosa, ma uno dei rappresentanti d'istituto si avvicina a lui e i
due cominciano a discutere della scaletta, snocciolando nomi di
gruppi sconosciuti che suoneranno a breve, proprio per l'assemblea
musicale.
Quando il tizio se
ne va annuendo, Checco riporta l'attenzione – e gli occhi
azzurri – su di me, facendomi sentire tremendamente a disagio.
Detesto questa condizione e so che in questi casi l'unica arma di
difesa è l'attacco: non mi lascio certo incantare da lui, non
esiste!
«Senti un po',
non lamentarti e pensa che ti ho fatto un favore» lo apostrofo,
sbuffando.
«Un favore?»
«Ti ho
liberato da quella sgualdrina» spiego con semplicità.
Lui ride di gusto,
poi domanda: «Chi ti dice che volessi essere liberato? Da oggi
sei anche diventata l'avvocato delle mie cause perse, Albertina?».
Lo odio, io lo
detesto con tutta me stessa e vorrei prenderlo a pugni, giuro! Ma
come si permette? Mi sta facendo incazzare, ma la cosa più
grave è che non so assolutamente cosa ribattere.
Per la prima volta
nella mia vita, rimango in silenzio e mi limito a fissarlo senza
spiccicare parola, neanche per sbaglio. Non capisco perché tra
noi si sia scatenata questa guerra, ma direi che non siamo affatto
d'accordo sul dichiarare una tregua.
D'improvviso Checco
mi afferra per i polsi e mi attira a sé, piantando i suoi
occhi nei miei e stringendo con forza. Mi fa male, ma mi tiene
immobilizzata e non riesco a reagire, perché non capisco un
cazzo di tutta questa storia. Il sole mi batte sulla testa e ho il
ciclo in agguato, sicuramente sto finendo di rincoglionirmi per
questi motivi. Ma anche se il mio cervello lavora, non riesce a
connettersi con il corpo, che rimane inerte sotto la morsa di quello
strano tipo.
«Adesso
dimostriamo a Mari quello che tu le hai detto» mormora con un
luccichio strano – pericoloso? – negli occhi, poi in un
attimo è su di me.
Le sue labbra
schiacciate contro le mie, poi all'improvviso mi ritrovo a schiuderle
e a giocare con la sua lingua, in un modo così nuovo, strano,
pazzesco e rivoltante allo stesso tempo. Non riesco a respingerlo,
non riesco a staccarmi, non riesco a pensare.
Checco fa scivolare
con audacia una mano sulla mia natica sinistra, la strizza senza fare
complimenti e io non mi oppongo in nessun modo, come una perfetta
zoccola, come Marianna – come mia madre!
Poi, di botto, mi
lascia andare e mi rivolge un'improvvisa ed inaspettata occhiata
sprezzante, colma di disgusto, non so se per me o per se stesso.
Barcollo leggermente
all'indietro e rischio di perdere l'equilibrio, quel gesto mi ha
destabilizzato e non so proprio dove appigliarmi per non rovinare a
terra. Riesco miracolosamente a riprendermi, tuttavia non smetto di
tremare per la sorpresa e lo shock. Ho tanto su cui riflettere, ho
tanto da capire, ma in questo momento mi sento completamente
svuotata.
«Ti è
piaciuto, eh?» mi chiede bruscamente Filippo, stavolta è
lui ad incrociare le braccia al petto, osservandomi con sufficienza.
Potrei preoccuparmi
del fatto che tutto questo sia capitato in pubblico, potrei
preoccuparmi per qualunque motivo, ma non lo faccio, anche perché
del parere degli altri non me ne fotte un cazzo. Devo fare soltanto i
conti con me stessa, questo non ha niente a che vedere con il mondo
attorno.
«Sì, lo
so. Ma sai, Albertina, ora che l'hai assaggiato... non sarà
tuo. Mai.»
In un attimo è
sparito, non so neanche come abbia fatto ad andarsene o dove si sia
cacciato. So solo che, guardando di fronte a me, vedo il vuoto.
Subito decido che
devo uscire di scena, non c'è tempo da perdere.
E mentre corro verso
l'interno della scuola, noto Mauro che, appoggiato alla parete, mi
fissa con un sorriso soddisfatto stampato in viso, per poi mimare il
segno della vittoria con entrambe le mani.
Lo detesto, detesto
tutti, detesto me stessa.
«Berty, esci
dal bagno, ti prego!» mi supplica Tita.
Non so da quanto
tempo sono rinchiusa qui dentro. La puzza è infernale, il
caldo anche, ma non me ne può fregar di meno. Appoggiata con
la schiena contro la porta del bagno, fisso il vuoto e cerco di
capire perché non ho ancora vomitato. Questo è
estremamente grave, forse dovrei ficcarmi due dita in gola e...
«Berty, vuoi
uscire da quel bagno?» comincia ad irritarsi la mia amica,
mollando un pugno alla porta; così facendo fa vibrare tutto il
mio corpo e mi fa sentire destabilizzata, come se quel pugno mi fosse
arrivato in pieno viso. Devo avere la febbre, sì, di sicuro.
«Berty!»
grida esasperata Tita. «Giuro che se non esci subito da quel
cazzo di bagno, chiamo Maria Vittoria!»
Tita non è
una ragazza sboccata né rozza come in genere sono io, ma
quando si arrabbia non pensa al suo linguaggio; spesso è
capitato che si pentisse per ore, dopo aver imprecato come uno
scaricatore di porto. Adorabile.
La sua minaccia fa
subito effetto. Tutto, giuro, tutto posso accettare, ma non che lei
tiri in ballo quella scellerata della mia genitrice!
«No!»
sbotto, presa dal panico, e mi precipito immediatamente fuori da quel
buco puzzolente, ritrovandomi di fronte il viso preoccupato della mia
migliore amica.
«Berty, cos'è
successo? Ho visto che...»
«Tita?»
«Dimmi»
risponde, prendendomi per le spalle.
«Sono una
zoccola» annuncio frustrata.
«Ma no!»
sdrammatizza lei, sorridendo radiosa. «Sei solo innamorata.»
Mi
guardo attorno, è pieno di studenti impazziti, mentre un
gruppo di ragazzini suona in maniera alquanto discutibili svariati
successi rock e metal. Preferirei non dover ascoltare questo scempio,
ma Tita mi ha nuovamente trascinato fuori, dopo che entrambe siamo
uscite dal bagno.
Un
po' ci siamo confidate, il che non accade spesso, almeno non per
quanto mi riguarda; Tita dice che non è così terribile
avere un ragazzo, che lei e Gabri stanno bene e lei non si sento
assolutamente obbligata a fare qualcosa che non vuole.
Okay,
ma questo cos'ha a che fare con me? Io non voglio mettermi con
Checco, non esiste. Quello è pazzo se crede di avermi
sconvolto così, e magari pensa pure che io sia
imbarazzatissima e non abbia più il coraggio di guardarlo o di
farmi vedere all'assemblea. Forse inizialmente ho reagito male,
d'impulso, sono andata un po' nel pallone, ma ora è tutto
passato.
Io
e Tita raggiungiamo nuovamente Gabri e Giaco, i quali stanno ridendo
come scimmie mentre commentano la band che sta suonando. In realtà
non capisco chi abbia avuto il coraggio di farli esibire, sono un
vero e proprio oltraggio all'udito e alla musica. Scommetto che
Checco non lo avrebbe mai permesso, almeno in quanto a gusti musicali
non posso dire nulla di male su di lui.
Io
sono contrariata da svariate situazioni che si stanno svolgendo
intorno a me: noto che Marianna sta nuovamente civettando con
Checco, anche se si trova ad una distanza di sicurezza accettabile;
la musica non è musica, il caldo è asfissiante e sembra
che tutto intorno sia troppo luminoso.
Forse
mi stavo abituando a quel cesso dall'odore pestilenziale, ma sento
che quest'assemblea sta diventando una tortura per me, e non riesco
neanche a capire perché.
Lungi
da me dare soddisfazioni a chicchessia, non esiste proprio, non è
da Albertina Annetta Bartolini.
Intanto
il gruppo se ne va al diavolo e si preparano altri studenti che, a
quanto pare, vogliono fare un live acustico. Io ho paura, ma ormai
non mi importa più.
Lancio
continuamente occhiate di fuoco a Checco e alla sua nuova amichetta e
mi domando perché lo sto facendo.
«Albertina!»
tuona una voce alla mia sinistra.
Sobbalzo.
Sono così impegnata ad incenerire chiunque rientri nel mio
campo visivo, che non mi sono minimamente accorta della presenza di
mia madre. Non so quando sia giunta, ma mi pare sia molto interessata
alla direzione su cui era puntato il mio sguardo fino a poco fa.
«Salve,
prof!» ammicca Giaco, ridendosela. Lo odio quando fa così,
sa quanto io detesti la mia genitrice. Perché tutti cercano di
tenersela buona? Ah, già, perché è l'insegnante
di matematica e, fattore non trascurabile, perché non la
conoscono come la sottoscritta.
«Mi
è giunta voce che tu e Checco vi siete baciati, finalmente!
Aspettavo con ansia questo momento, sapevo che prima o poi avresti
capito quanto è affascinante e giusto per te quel ragazzo!»
squittisce Maria Vittoria, ignorando completamente il saluto del mio
amico e i cenni di Tita e Gabri.
In
ogni caso, impallidisco. Sento che il sangue ha improvvismente
abbandonato la mia faccia, facendomi assomigliare sicuramente ad un
fantasma. Non ci posso credere, questo è troppo!
«Senti
un po', hai capito male...»
«Ed
è proprio per questo...» mi interrompe ancora mia madre,
senza degnarmi di attenzione. Sembra che stia parlando da sola e che
io sia solo una decorazione in mezzo al cortile della scuola.
«Mamma...»
ritento.
«Insomma,
lasciami dire! È proprio per questo che ora andrò ad
invitarlo a pranzo da noi, questa domenica. Voglio che si festeggi al
meglio, Albertina, in modo che anche tuo padre possa conoscere il tuo
uomo!» blatera.
E
io mi sento sprofondare, mi sento veramente male e non ce la faccio
più, vorrei poter essere autolesionista, depressa, stupida,
sorda... vorrei essere un sacco di cose e non esserne nessuna, eppure
devo stare qui a sentire le sue cazzate, con la voglia di afferrare
Giaco – che intanto sghignazza al mio fianco, divertito dalla
scena –, baciarlo e poi lanciarlo addosso a quella donna
orribile e gridare: «Ehi, stronza, lui è il mio uomo!».
Solo per avere la soddisfazione di vedere quel sorrisetto compiaciuto
dalle sue labbra, fingerei di amare follemente anche quel reietto di
Mauro.
Invece
sto zitta e la fisso basita, senza neanche aprire la bocca nel
tentativo di contraddirla.
«Anzi,
figlia mia, vieni con me: annunciamo insieme la bella notizia a
Checco!» grida, che sembra in preda al demonio e io vorrei
essere un esorcista per farla tacere.
«Crede
che sia la cosa giusta, prof?» cerca di intervenire Tita. Io
amo Tita, è veramente un'amica, la migliore che si possa
desiderare. Lei sa che le sue parole sono totalmente inutili, ma
comunque prova ad aiutarmi. È formidabile.
«Ma
certo! Su, Albertina, alzati da quella sedia e vieni con me!»
mi ordina, come se fosse un generale dell'esercito.
Giuro,
non lo so, proprio non lo so perché cazzo la sto assecondando,
eppure la sto fottutamente assecondando: mi sono alzata, ora sto
camminando appresso a lei come un cane bastonato, mentre qualcosa di
simile all'umiliazione mi brucia nel petto.
Checco,
non appena vede mia madre, si apre in un largo e luminoso sorriso, le
va subito incontro e proprio in quel momento un ragazzino lagnoso
comincia a cantare una canzone accompagnato dal suono di una chitarra
acustica scordatissima.
«Caro,
carissimo Checco! Sono così felice che tu e la mia disgraziata
figlia vi siate fidanzati, sono certa che sia la cosa più
sensata per lei. Sai, è molto ribelle, ingestibile, indomabile
quasi... ma tu, tu sei la persona giusta per lei!» esordisce la
pazza, schioccando due baci sulle guance del suo ex alunno.
L'espressione
di Checco cambia leggermente, nei suoi occhi passa un lampo di
confusione per un nanosecondo – me ne accorgo solo perché
non faccio che fissarlo, maledizione! Poi tutto torna noramle, lui
sembra completamente a suo agio e annuisce amabilmente mentre Maria
Vittoria non fa che blaterare cose che neanche sto ascoltando.
Vorrei
dirgli che mi dispiace, ma non è così: improvvisamente,
dentro me si sta facendo strada una sensazione familiare e
meravigliosa, sulla lingua sento quella punta di soddisfazione che
solo la vendetta sa farmi provare. Quando vinco una sfida è la
stessa cosa: mi sento sempre molto orgogliosa di me stessa,
l'autostima sale alle stelle e un senso di onnipotenza mi avvolge,
scaldandomi l'anima.
E
adesso ho capito, ho capito che per la prima volta nella mia vita
devo essere estremamente grata a mia madre. Lei, con la sua stupida
ingenuità e con il desiderio latente di vedermi accoppiata con
un maschio, mi ha procurato una meravigliosa occasione per prendermi
la mia bella vendetta nei confronti di quello stronzo di Checco.
Lei
non lo conosce veramente, non sa che lui mi ha baciato per poi dirmi
delle cose orribili, ma ora come ora non avrebbe potuto fare di
meglio. L'idiota è talmente idiota che non ha messo in conto
il fatto che mia madre insegna nel mio liceo, che sarebbe stata
presente all'assemblea e avrebbe saputo del nostro bacio. Ma, cosa
più grave, neanche lui conosce bene Maria Vittoria: non sa –
o meglio, non sapeva finora – che lei non aspettava altro, fin
dal primo giorno in cui lui è ricomparso, presentandosi a
scuola come tecnico del suono per l'assemblea musicale di fine anno.
Non
appena l'ha visto accanto a me, nella sua mente si è formata
la scabrosa trama di un harmony di quart'ordine ed ecco che, secondo
i suoi piani, finalmente il suo sogno a luci rosse si sta
realizzando.
Stupido
Checco, ben ti sta. Vieni pure a pranzo da noi, ora sei ufficialmente
il mio partner – e, soprattutto, agli occhi di mia madre, il
mio amante – e non puoi assolutamente tirarti indietro, perché
Maria Vittoria ti stima e tu non osi deluderla.
Quanto
è bella la vita, cazzo.
Così,
spinta dalla mia nuova convinzione, comincio ad appoggiare pienamente
le parole di mia madre, così quel cafone impara. Lui è
un altro che non sa con chi ha a che fare, alla fin fine Albertina
Annetta Bartolini vince sempre.
«Ma
sì, vieni a pranzo da noi Checco! A papà farà
piacere conoscerti» concordo con la pazza, sorridendogli con
rinnovata convinzione.
Così
impari, idiota.
«Ehm... sì,
perché no? Non c'è problema, mi farebbe piacere...»
farfuglia lui, messo alle strette.
Lo so, si sente
veramente braccato, specialmente da mia madre che è un
predatore nato, sa il fatto suo e in questo caso non potrei stimarla
più di così.
«Allora è
deciso! Ti aspettiamo domenica per mezzogiorno, ci conto!»
pigola la scellerata, baciandolo nuovamente su entrambe le guance.
Poi accampa una scusa – scommetterei entrambi i polmoni che lo
sta facendo per lasciarci soli – e torna verso l'edificio
scolastico, tutta impettita come al solito.
A quel punto è
il mio momento, lo sento: sento che prima di uscire di scena, devo
infierire, infliggergli il colpo di grazie e poi lasciarlo lì,
come il decerebrato che è.
Allora lo guardo,
sbatto le ciglia in pieno stile Marianna, poi mormoro: «Anche
io ci conto, dolcezza, non mancare».
E me ne torno dai
miei amici, con un senso di soddisfazione che non si può
spiegare, non si può descrivere a parole.
Sono queste le
occasioni in cui sento di amarmi.
Domenica arriva
presto. La scuola è finita, sono veramente contenta, al
settimo cielo. Non c'è niente di meglio del dolce far nulla,
nessuno può capirmi.
La più scarsa
comprensione la ricevo da Maria Vittoria, che dalle sette di questa
mattina non fa altro che sfaccendare per casa, coinvolgendo anche la
sottoscritta nelle sue follie esistenziali. Mi ha buttato giù
dal letto con un grido animalesco e ora mi sento tanto Cenerentola in
attesa del suo Principe, ma solo per il fatto che sto strofinando
pavimenti da tempo incalcolabile.
Se pochi giorni fa
ho amato Maria Vittoria, ora me ne pento con tutta me stessa: non
avevo pensato alla sua mania per l'ordine e la pulizia, specialmente
nel momento in cui è certa che stia per arrivare un ospite. Se
l'ospite è da lei ritenuto importante, sembra di vivere una
vera e propria rivoluzione industriale. Santa pazienza.
Quando Checco
arriva, lei e mio padre gli vanno incontro, mentre io finisco per
seguirli controvoglia. Devo capire che sto vivendo una vendetta, quel
cretino si merita tutto questo, è stato lui a dare inizio alla
messinscena che ancora stiamo vivendo.
Il pranzo è
uno scempio, almeno per lui: i miei gli fanno un sacco di domande –
mio padre perché non lo conosce, mia madre perché è
semplicemente se stessa e non sa stare zitta – e io me la godo,
mi va proprio di lusso perché non devo far altro che ammiccare
ogni tanto e lasciargli qualche carezza sul braccio, facendo credere
a tutti che io non voglia assolutamente che i miei lo mettano in
imbarazzo.
Quando arriviamo al
caffè, noto che Checco è sfinito, ma scommetto che i
miei genitori non se ne accorgono affatto.
«Allora,
Albertina, vuoi mostrare a Checco la tua stanza? Vi lasciamo andare,
così potete stare un po' da soli» dice mia madre,
strizzandomi l'occhio. Non può farlo, ma sono pronta a giurare
che si sfregherebbe le mani colma di soddisfazione, se solo Checco
non fosse presente.
A questo punto
vorrei evitare di darle retta, ma ormai sono con le mani in pasta e
quindi... impasto.
«Ma certo,
grazie mamma! Dai, Checco, andiamo» lo esorto, ridacchiando
come fanno tutte le ragazzine stupidamente innamorate. Sono
un'attrice nata, dovrei fare un pensierino ad un'eventuale carriera
in campo teatrale/cinematografico.
Ci alziamo dal
divano e io, per rendere ancor più credibile il teatrino, lo
prendo per mano e lo conduco verso camera mia.
Una volta fuori dal
salotto, lo lascio andare immediatamente, non ho nessuna intenzione
di dimostrargli qualcosa che non esiste.
Giunti in cima alle
scale, gli indico la porta della mia stanza e lo osservo con un
sorrisetto.
Sono
ferma davanti alla porta della mia stanza, Checco mi osserva con
un'espressione indecifrabile.
Non
è facile capirlo, certe volte. Eppure adesso vorrei proprio
poter entrare nella sua testa, comprenderlo, perché non so
proprio cosa aspettarmi. Ammesso e non concesso che ci sia qualcosa
da aspettarsi.
«Cosa
dobbiamo fare?» sbotto, non potendone più di questo
silenzio assordante. So che magari può sembrare paradossale,
ma mi sento oppressa da tutto questo. Non capisco perché.
«Niente»
ribatte Checco senza battere ciglio. Sembra essere indifferente a
tutto, ma ci dev'essere qualcosa sotto quella maschera di noncuranza
che mi sta mostrando.
«Mia
madre ha voluto...»
«Mandarci
qui, lo so. Almeno sediamoci allora» conclude, poi spinge la
porta della mia stanza ed entra senza che io gli abbia dato il
permesso.
«Scusa!»
protesto, afferrandolo con impeto per il polso.
Checco
mi ignora e prosegue, strattonandomi. Pur di non lasciargli fare
quello che vuole, lo seguo e sbatto la porta.
Riesce
a liberarsi dalla mia presa e si accomoda sul letto. Per fortuna
Maria Vittoria mi ha obbligato a rifarlo stamattina, altrimenti
sarebbe disgustoso vedere quel tipo seduto sulle mie lenzuola. Non
capisco cosa voglia, perché ci tenga tanto a conquistare
ulteriormente la fiducia di mia madre.
«Ascolta...
possiamo parlarne. Ci inventiamo che hai un impegno e te ne vai, cosa
ne pensi? Diciamo alla pazza che ti hanno telefonato da casa...»
faccio, cercando una soluzione equa per entrambi.
«Per
me è indifferente, posso stare tranquillamente qui a riposare,
non ho niente da fare» mi interrompe, per poi sdraiarsi
comodamente sul materasso e fissare il soffitto, con le braccia
incrociate dietro la testa.
Questa
cosa mi fa irritare tantissimo, come si permette di fare come se
fosse a casa sua? Razza di deficiente decerebrato, vorrei veramente
dirgliene di tutti i colori, ma non voglio che mia madre ci senta
litigare. È una ficcanaso, sono certa che stia in agguato con
le orecchie tese ad aspettare che le giungano i rumori del nostro
accoppiamento, cosa che sembra aspettare come se dovesse essere lei a
viverlo. Che strazio!
«Per
favore, Filippo! Mi stai disturbando. È meglio se vai a casa,
il teatrino è durato abbastanza» replico con tono
rassegnato. Non ne posso più, ormai possiamo parlarci
chiaramente e non c'è più bisogno di fingere.
«Voglio
restare.»
Questo
è troppo. Ma chi si crede di essere? Oggi non ho voglia di
scherzare, né di discutere con gente che non capisce un
accidente. Devo assolutamente cacciarlo di casa prima che succeda il
finimondo.
«Spiegami
perché mai dovresti volerlo!»
«Ti
piace scappare, vero Albertina?»
La
domanda mi coglie alla sprovvista e gli lancio un'occhiataccia.
Questo non ha nessuna attinenza con il discorso che stavamo facendo,
e non ho neanche capito a cosa si sta riferendo. Io non scappo, sono
qui, è lui che tra poco dovrà scappare se non vuole che
lo scaraventi giù dalla finestra, infischiandomene di ciò
che penseranno i miei.
«Ti
piace scappare dalle situazioni, piuttosto che affrontarle. Questo
non fa di te una persona matura, non ti rende migliore, non ti rende
forte come vuoi dimostrare» prosegue, ignorando la mia faccia
stranita. Del resto non mi sta neanche osservando, intendo com'è
a esaminare le crepe del mio soffitto. È un grandissimo
maleducato.
Oltre
a questo, non posso pensare all'eventualità che abbia ragione.
Sta parlando a vanvera, sta dicendo un mare di cazzate e continua a
stazionare sul mio fottuto letto e io non lo sopporto più.
Stringo
i pugni e glielo dico: «Stai parlando a vanvera, non ti
sopporto più».
«Non
è questo che conta. Fingi, fingi sempre Albertina. Io non
sopporto te, perché so che ti sei costruita un personaggio,
indossi una maschera ogni giorno della tua vita. Credi di essere
intoccabile, pensi di essere superiore a qualsiasi tipo di sentimento
ed emozione vagamente umana. Ma credi di venire da Marte per
caso? Sei esattamente come tutti gli altri, mettitelo in testa»
mi gela lui, continuando a non guardarmi.
Non
ci posso credere, lui sta dicendo a me queste cose? Ma come osa? Non
ho parole. La cosa più grave – anzi, che dico, la cosa
gravissima! – è
che sento, da qualche parte dentro me, che lui ha ragione, ma non
capisco perché mi stia rendendo conto di queste cose solo ora,
solo adesso che lo osservo disteso sul mio letto e vorrei spingerlo
via, ma allo stesso tempo sento montare in me qualcos'altro...
qualcosa a cui non sono disposta a dare un nome, né tanto meno
ad accettare.
Mi
avvicino al mio giaciglio e mi decido a catturare il suo sguardo,
perché voglio comprendere se sta dicendo sul serio o se mi sta
prendendo per il culo. Quasi quasi spero che sia la seconda, così
potrei semplicemente mandarlo al diavolo e sbraitargli contro –
ormai non me ne frega più niente di mia madre, che ci senta
pure gridarci contro –, ma nei suoi occhi chiari e fin troppo
limpidi leggo soltanto sincerità. Ci fissiamo per un po' e
quel qualcosacontinua
a tormentarmi, mentre le mani prendono a tremarmi e per nasconderlo
le nascondo dietro la schiena.
«Stai perdendo
tempo Filippo» mormoro mentre continuo a fissarlo, del resto
non riesco a fare altrimenti – cazzo!
Albertina,
riprenditi! Smettila subito!
Filippo,
d'improvviso, solleva un braccio – non tanto all'improvviso, in
effetti, a me però sembra che tutto accada in fretta e furia,
dato che non ho il coraggio di muovermi o reagire in nessun modo –
e mi afferra saldamente il mento,
costringendomi a guardarlo ancora un po', a fare proprio quello che
non vorrei fare assolutamente, per nessun motivo al mondo.
«Non penso,
sai? Ora hai uno sguardo così smarrito e dolce... cosa ti
succede?» mi dice, mentre le sue labbra si inarcano in un
sorriso quasi compiaciuto. Ha un'espressione strana, non sopporto di
vederla e di averla così vicina, quella faccia da schiaffi.
Perché è compiaciuto? Maledizione, non c'è
niente di cui compiacersi, razza di idiota!
Adorabile
idiota, mormora qualcosa dentro
di me.
Mi rendo conto che
sto trattenendo il fiato e che la pelle su cui le sue dita sono
posate brucia in maniera impressionante, non è possibile e
concepibile!
Finalmente riesco a
ritrarmi, o almeno ci provo: sollevo il viso e faccio per
indietreggiare, ma lui con un gesto fulmineo mi afferra per le
braccia e in un batter d'occhio mi ritrovo distesa sopra di lui, con
gli occhi sgranati – cazzo, mi fanno quasi male tanto li sto
spalancando – e il viso premuto contro la sua spalla.
Poi
le sue braccia mi avvolgono come se niente fosse, come se fosse una
cosa normale e naturale, come se l'avesse sempre fatto e quella non
fosse una novità. Rimango immobile, ancora una volta, e allora
il suo odore mi invade i sensi e non ho più tanta voglia di
andarmene da lì.
No, cosa cazzo sto
pensando? Non è da me, non sono assolutamente io questa,
questa... questa cretina in brodo di giuggiole! Porca puttana, devo
fare qualcosa.
«Cosa stai
facendo?» biascico. Non ho assolutamente la forza di gridare,
di ribellarmi, di spingerlo via e dirgliene di tutti i colori. Sono
una rammollita, sono diventata una fottuta rammollita e sembro Tita
quando è insieme a Gabri. Che vergogna!
Io
non sono così.
«Non sei
così... come?» mi sento chiedere dalla voce preoccupata
di Checco.
Merda,
l'hai detto ad alta voce, razza di stupida imbecille!
«Dicevo così,
per dire... non... non lo so» borbotto, senza sapere
effettivamente cosa rispondere. Non ci sto assolutamente capendo
niente, ma niente di niente! Cazzo, devo alzarmi.
Adesso.
«Bene, il
teatrino è finito» comincio a dire, posando i palmi
delle mani sul suo petto. Poco prima di riuscire a tirarmi su, lo
sento: un rumore fottutamente familiare, uno di quei suoni che
riconoscerei ovunque e che immediatamente mi afferra alla bocca dello
stomaco e mi fa rivoltare qualunque cosa si trovi al suo interno. Non
è possibile, non è concepibile, mi sto sentendo male,
mi sento male, mi sento male...
«No, cazzo»
impreco tra i denti.
«Albertina,
cosa...»
«Stai zitto!»
sibilo. Poi ci ripenso e aggiungo: «No, parliamo!».
Mi sollevo
finalmente da lui e mi pare quasi che manchi qualcosa, non riesco a
collocare questa strana sensazione, eppure c'è e non posso
ignorarla.
«Vuoi parlare?
Ti sei decisa allora?»
No,
deficiente, è solo che tu non devi sentire quello schifo, non
devi assolutamente!
«Ah, sì!
Dai, mettiamo su un po' di musica... ti va di ascoltare...»
Balzo giù dal letto e mi guardo intorno mentre il rumore
aumenta, mi sembra assordante, insopportabile. Individuo il CD dei
Rage Against The Machine che ho preso in quel negozio tempo fa,
l'avrò ascoltato già duemila volte. «Questo?»
aggiungo, sventolandolo in direzione di Checco.
Lui intanto si è
messo a sedere e mi sta guardando con aria interrogativa ed
espressione confusa, come se avessi appena detto qualcosa di
inaudito, incredibile e fuori luogo.
Mentre armeggio con
il disco, quel rumore mi assorda e improvvisamente so con certezza
che anche Checco lo ha udito, forte e chiaro. I suoi occhi si
scontrano con i miei e vi leggo qualcosa di simile alla compassione.
No, forse alla comprensione?
«Io... mi...
mi dispiace...» balbetto, mentre sento mia madre e mio padre
che scopano nella stanza accanto e i loro gemiti sono una tortura per
le mie povere orecchie.
Questa è la
figura di merda più grossa della mia vita. Io li sento sempre,
ma come hanno potuto farmi questo? Come hanno potuto mettersi a fare
porcate mentre in casa c'è un ospite, il quale dovrebbe in
teoria essere il mio ragazzo? Loro credono e sanno questo, anche se
in realtà non è così. Però Filippo è
un ospite, un estraneo, lui non c'entra niente con queste cose.
Le mani mi stanno
tremando, sono costretta ad appoggiare il disco sulla scrivania se
non voglio che cada per terra e si sfasci. Non potrei permettere ai
miei genitori di rovinare anche questo.
«Albertina,
sono i tuoi genitori...?» mormora come se avesse paura che
qualcuno lo senta.
Non dico niente, non
credo sia necessario. Mi viene da vomitare, sento quasi l'impellenza
di correre in bagno e rimettere tutto quello che ho buttato giù
durante il pranzo.
Sono in piedi in
mezzo alla stanza e, nel silenzio che è calato, sento i gemiti
di quei due maiali perdersi nell'aria, fino a scomparire del tutto
tra le pareti sottili della nostra casa.
«Dai, metti un
po' di musica. Quello va benissimo» mi sollecita Filippo,
sollevandosi dal mio letto e avvicinandosi pericolosamente a
me. Penso che voglia nuovamente toccarmi, invece afferra il disco e
lo sistema nel lettore che sta sulla scrivania. Anche lui si è
accorto che sono praticamente paralizzata e non riesco neanche ad
agire come dovrei.
Bombtrack
parte con tutta la sua energia, e non appena la musica mi scuote mi
ritrovo a tremare e le sensazioni tornano a invadermi, scuotendomi
pericolosamente.
Filippo sembra
accorgersene e mi raggiunge, afferrandomi per le spalle e cercando di
farmi reagire.
«Non ti ho mai
visto così, Albertina. Non pensavo soffrissi tanto»
dice.
E come potrei dargli
torto? Neanche io sapevo di essere in queste condizioni! Cazzo, com'è
possibile? Io so benissimo che questa cosa dei miei che lo fanno
sempre inibizioni mi fa schifo ed è insopportabile, ma non ha
niente a che vedere con quello che sto provando adesso. Raccontarlo a
Tita e i miei amici è un conto, ma trovarmi in questa
situazione insieme a Filippo... no, non posso farcela.
«Non so che
fare» riesco solo a dire. Sto vivendo una lotta interiore, un
qualcosa che mi fa veramente rabbrividire fino in fondo.
Lui si guarda
intorno, scuote leggermente il capo e poi mi attira nuovamente a sé.
Mentre la musica riempie la stanza e non sento più quei rumori
schifosi, mi sento meglio e mi lascio inspiegabilmente andare tra le
sue braccia, ricambiando la stretta. Per la prima volta non oppongo
resistenza, neanche mentalmente. È quello il posto dove voglio
stare adesso, sono troppo scossa per affrontare tutto da sola.
Poi dopo si vedrà,
ci sarà un altro luogo dove rifugiarmi come ho sempre fatto.
Chiamerò Tita, forse Giaco, uscirò a fare un giro e a
prendermi un gelato con loro, ma adesso sono qui e non sento la
necessità di andarmene.
Forse non è
una situazione romantica, non è una cosa da me, però
sento che Filippo, qui e ora, è l'unica persona in grado di
capire come mi sento senza giudicarmi, perché ha vissuto con
me quest'orrore e ha potuto osservare la mia reazione.
Il futuro è
incerto, ma ora non ha poi tanta importanza.
«Senti
un po', datti una calmata Giaco!» sbotta Tita, lanciando
un'occhiataccia al nostro amico che ci richiama dall'interno della
piscina.
Io
li osservo divertita, ma per qualche motivo non riesco a muovermi
dalla sdraio. Sono troppo comoda e non ho voglia di andare in acqua.
«Ma
smettetela! Sembrate balene spiaggiate!» rimarca lui,
facendoci la linguaccia.
Balzo
in piedi e lo fisso malissimo; da quando siamo arrivati in piscina
non fa che rompere le palle, non so perché sia così
intrattabile, ma pare in fase premestruale più di me.
«Hai
rotto Giaco! Senti, vuoi farti il bagno? Fattelo e lasciaci perdere!»
ribatto acida.
Gabri,
dal canto suo, lancia un'occhiata interrogativa a Tita, poi
interviene: «Su, non litigate. Ragazze, se entrate in acqua,
promettiamo di non schizzarvi!».
«Ma
chi ci crede?» sospira la mia amica, sfilandosi il prendisole
color sabbia.
«Appunto»
concludo.
Dopo
altri battibecchi riescono a trascinarci in piscina, anche se io so
che sarei dovuta rimanere sulla sdraio a fare l'indifferente, ma
questo non rientra nel mio carattere.
Non
appena sfioro l'acqua con la punta del piede, sia Giaco che Gabri
cominciano a inondare sia me che Tita, che finiamo per tuffarci
cercando di vendicarci.
Ma
ora non ha più senso: loro hanno raggiunto il loro scopo e noi
siamo fregate. Che sfiga.
Quando
finalmente usciamo, sono sfinita ma felice, perché alla fin
fine mi sono divertita con i miei amici. Loro sono le persone che non
mi giudicano, che non invadono i miei spazi e a cui riesco a tenere
testa come se niente fosse. Tita, in particolare, sa quando non
voglio essere disturbata, quando sono in un momento negativo o cosa
può usare per minacciarmi quando mi rifiuto di dirle cosa mi
affligge.
Come
quella mattina nel bagno della scuola.
Non
devo pensarci, lo so. Però, anche se non sembra, qualcuno mi
ha dato le facoltà mentali per elaborare pensieri, e spesso
questi pensieri sono fastidiosi e poco piacevoli.
Quando
io e Tita riusciamo a spedire i ragazzi al bar perché devono
farsi perdonare e un gelato è la cosa più adatta a tale
scopo, la mia amica mi osserva con uno sguardo un po' preoccupato,
che non riesco tanto a interpretare.
«Tita,
cosa c'è?»
«Tu
pensi che Gabri mi ami, Berty?» mi chiede a bruciapelo.
«Ma
certo!» salto su senza esitazioni. Non ho alcun dubbio a
riguardo, quei due sono fatti l'uno per l'altra, perché mai si
mette certe stronzate in testa?
«Sono
confusa, mi sembra...»
Mi
guardo intorno per paura che i ragazzi siano di ritorno, poi ribatto:
«Senti, non devi avere dubbi! Lo vedo come si comporta. Forse
non sono adatta a queste cose, non sono esperta e non ne voglio
sapere... però non sono cieca, né rincoglionita! Ma ti
dico una cosa: parlagli. Solo così potrai capire se ti
nasconde qualcosa, se ci tiene davvero. Parla con lui e guardalo
negli occhi, non permettergli di scansare lo sguardo».
Da
dove viene tutta questa saggezza? Mentre questa domanda prende forma,
vedo che anche Tita sta pensando la stessa identica cosa, dato che mi
fissa a bocca aperta senza sapere cosa ribattere.
«I
consigli sono più facile da dare che da seguire» ammette
infine chinando il capo.
«Lo
so, ma bisogna provarci. Cosa ti fa pensare che lui...»
«Lo
sento distante Berty, tutto qui. Ma tu hai ragione, ne discuterò
con lui e si vedrà.»
Ci
guardiamo in silenzio e sento che mi dispiace davvero che Tita abbia
dei dubbi su Gabri, perché a me pare che tra loro vada tutto
benissimo e che non potrebbero mai stare separati.
«Ma
dovresti seguire anche tu il consiglio che mi hai dato» se ne
esce lei all'improvviso.
«Eh?»
sbotto sorpresa.
«Con
Filippo. Dovresti parlarci.»
Non
capisco cosa dovrei dirgli. Io non volevo pensare a lui, non ora, non
più. Ma lei sembra volermi indurre verso questa direzione e io
non so cosa dirle. Da quando lui è venuto a pranzo a casa mia
e dopo che insieme abbiamo vissuto quello schifo, non abbiamo più
parlato.
Non
ho voluto farlo io e lui ha rispettato la mia decisione,
semplicemente perché è convinto che tornerò da
lui non appena me la sentirò. Non ha ancora capito che non
dipendo da lui, che la mia vita va avanti e non c'è niente che
possa accomunarmi a una persona del genere.
«Per
dirgli cosa?»
«Che
ti dispiace» mormora Tita serissima.
«Ma
non mi dispiace» sibilo tra i denti, rendendomi conto
troppo tardi di aver stretto i pugni e che lei se n'è subito
accorta. «Semplicemente non ha senso, io e lui non abbiamo
niente da spartire» aggiungo, e mi sento piuttosto patetica.
Cerco sempre di mentire a Tita, ma ormai dovrei sapere che lei –
come nessun altro – mi conosce troppo bene.
«Albertina,
ascoltami» dice lei con tono solenne, allungandosi per
afferrarmi le mani e stringerle tra le sue.
La
scena mi preoccupa, è un momento molto strano e ho anche paura
di ciò che lei sta per dirmi, ma mi limito ad annuire e
attendere. Inoltre spero che i ragazzi non tornino proprio ora
da noi.
Ma
ovviamente, proprio in quel momento, quei due cretini piombano da noi
sventolandoci davanti agli occhi due cornetti. Quando io e Tita li
osserviamo, hanno dipinto in faccia un sorriso troppo stupido che ci
fa scoppiare a ridere, perciò non riusciamo a incazzarci per
aver interrotto il nostro momento.
Cominciamo
tutti insieme a fare merenda, ma io sono curiosa di sapere cosa
voleva dirmi la mia amica.
Non
appena finisco di mangiare, mi alzo per andare a buttare la carta del
gelato in un cestino e i miei occhi incontrano quelli azzurri di
Checco. Cerco di non paralizzarmi in mezzo al nulla, però è
fottutamente difficile, merda.
Faccio
tutto di fretta e distolgo subito lo sguardo, non ho proprio voglia
di incasinarmi.
Tita
invece sta guardando proprio in quella direzione e non mi dà
neanche il tempo di tornare a sedermi, afferra la sua borsa, si alza
e annuncia: «Ragazzi, noi andiamo in bagno. Grazie ancora per
il gelato, siete dei tesori!».
E
poco dopo mi sento trascinare verso la toilette delle donne. So cosa
sta succedendo, ma non ne ho voglia, ora non me la sento di
affrontare cose poco importanti e che potrei affrontare con calma
prima o poi. Perché non lo capisce?
«Ti
dicevo prima, appunto, che devi fare qualcosa!»
mi incita Tita senza neanche entrare in bagno. «Ma hai visto
come ti ha guardato?» aggiunge fermandosi di botto e
afferrandomi per le spalle.
«E
come?»
«Ti
stava mangiando con gli occhi, ti stava...»
«Okay,
stop! Non voglio vomitare, ti prego» la blocco, sollevando le
mani in segno di resa.
Ho
capito il concetto, ma non lo accetto.
«Insomma, si
nota che c'è qualcosa tra di voi! Sai, è un po' come
quando tu parli di me e Gabri: cosa mi hai detto poco fa?»
Rimango basita da
quelle parole, faccio per dire qualcosa, ma lei subito mi ferma con
un gesto della mano.
«Non sono
cieca Albertina, anche io mi rendo conto delle cose, sai?»
«Ma tu lo sai
come sono fatta» mi arrendo, stanca di negare l'evidenza. Non
so perché, ma quel ragazzo mi fa uno strano effetto e io non
posso negarlo neanche se lo volessi con tutta me stessa. Ci ho
provato, ho fatto di tutto per allontanare il pensieri, ma purtroppo
è evidente.
«Puoi
migliorare, puoi farcela! Devi darti un'opportunità, e darla
anche a lui» sorride lei con una dolcezza infinita. «Quel
ragazzo stravede per te, lo vuoi capire una buona volta?»
Mi volto nella
direzione in cui ho visto Checco poco fa: è seduto su una
sdraio e scherza con i suoi amici, i capelli scompigliati dalla
brezza e la pelle abbronzata esposta al sole; mi soffermo a osservare
i suoi movimenti e all'improvviso avverto come l'impellente necessità
di essere accanto a lui e di toccarlo.
Mi riscuoto con
violenza e fisso Tita, dopo aver preso la mia decisione.
«No»
dico con fermezza. «Non funzionerà.»
Poi le do le spalle,
osservo la piscina e comincio a correre ancor prima che lei possa
aggiungere altro. La sento chiamare il mio nome, ma mi getto in acqua
e dimentico tutto ciò che mi circonda.
Non
funzionerà mai.
Chiudo gli occhi e
comincio a nuotare per tutta la piscina come una forsennata,
scaricando così tutta la tensione che il farneticare di Tita
mi ha scaraventato addosso.
Mi conosco. Posso
capire il romanticismo di Tita, posso capire le sue speranze e posso
capire anche che tra me e Checco c'è irrimediabilmente
qualcosa. Ma la realtà è un'altra cosa, la
realtà è fatta di traumi da dover superare, traumi che
non si riescono a superare.
E il fatto che mia
madre si sia già fatta le pippe mentali su me e il suo adorato
allievo mi fa ribrezzo, oltre che irritarmi all'inverosimile.
Ogni tanto quel
terribile momento in camera mia torna a tormentarmi, il ricordo di me
e Checco che ci guardiamo impietriti mentre quelle due bestie si
accoppiavano come se non ci fosse un domani. Quell'abominio che mi
rende così inavvicinabile.
Quando riemergo, mi
viene quasi un colpo e d'istinto cerco di indietreggiare, ma in acqua
– e soprattutto in un punto così profondo –
mi risulta veramente impossibile.
Filippo è di
fronte a me e mi sorride tristemente, tenendosi a galla senza quasi
muoversi.
«Vuoi farmi
morire?» lo aggredisco cercando di calmarmi prima che lui si
renda conto di qualcosa.
«No»
risponde semplicemente, poi mi afferra per un polso e mi trascina
verso un punto meno profondo della piscina, poco distante dal bordo.
Non oso sollevare lo
sguardo verso i miei amici, perché non so cosa stanno pensando
e ho paura di scoprirlo.
Quando ci fermiamo,
lui subito mi lascia andare e spiega: «Avevo paura che non
saresti più riemersa».
Rimango
spiazzatissima, non me l'aspettavo minimamente e credevo che avesse
delle intenzioni completamente diverse.
«Cercavo solo
di dimenticare» mi sento dire, e non so perché cazzo
l'ho detto. Sto diventando cretina e la cosa peggiore è che
questo è anche e soprattutto causato dalla sua presenza.
«Dimenticare
non è mai facile, a volte è inutile provarci»
commenta.
Senza accorgermene,
mi ritrovo con le mani intrecciate alle sue sott'acqua e la cosa non
mi sembra poi così male; è come se avessi l'impressione
che nessuno può saperlo, nessuno se ne può accorgere.
Sì, sono proprio andata, completamente!
«Perché
non lasci che io ti eviti?» gli chiedo stancamente, non sapendo
più cosa utilizzare per difendermi da questa situazione
impossibile.
«Perché
non voglio» ribatte subito. «Perché ti
voglio» aggiunge in un sussurro.
Mi sento invadere da
una sensazione incredibile, indescrivibile, qualcosa che non avevo
mai provato prima e che non sono sicura di star provando adesso.
Sembra paradossale, qualcosa di così strano che non riesco
neanche a sentire reale, ma che è reale eccome!
«Albertina,
lasciati amare, ti prego» continua a dire, stringendo più
forte le mie mani tra le sue. Mi strattona leggermente e mi fa
avvicinare di più a lui.
Sono impotente, non
posso impedirglielo, non voglio impedirglielo, dannazione! Non
devo permettere a Maria Vittoria di rovinarmi la vita più di
quanto non abbia già fatto. Non è detto che stare con
Checco significhi che io e lui ci accoppieremo come bestie, no,
assolutamente no. Lo sento, sento che lui avrà rispetto nei
miei confronti, per la prima volta lo capisco. Sa cosa vivo ogni
giorno con i miei genitori, non farebbe mai nulla per farmi soffrire
e per farmi sentire a disagio. Avrei dovuto capirlo da
quell'abbraccio in camera mia, ma ero troppo scossa e cocciuta per
ascoltare le sensazioni che stavano più in profondità.
«Non qui»
sussurro soltanto, poi mi allontano da lui ed esco dalla piscina,
sconfitta per la prima volta nella mia vita, anche se mi sento tutto
fuorché perdente.
Ho capito qualcosa
di me stessa, devo soltanto metterla in pratica. Forse questo è
solo uno dei piccoli passi che dovrò fare nella mia vita, ma
da qualcosa si deve pur cominciare.
Lo so che voi, cari
lettori, stavate leggendo una storia comica, ma c'è sempre una
morale anche nelle scene più divertenti e nelle situazioni più
buffe.
La mia morale è
questa: i mostri non spariscono da soli, bisogna combatterli; ed è
sempre meglio quando qualcuno accanto a noi ci tiene la mano e ci dà
la forza per affrontarli, perché noi esseri umani non siamo
fatti per vivere in solitudine e abbiamo tanto da imparare da chi ci
circonda.
Albertina vi saluta,
augurando buona vita a tutti voi.
Siate forti, abbiate
fiducia nel prossimo, ma soprattutto in voi stessi.
Lo
so, lo so... non vi aspettavate che la storia di Albertina finisse
così, immagino.
Be',
neanche io, devo essere sincera: pensavo che si sarebbe conclusa
presto, ma non così presto. Non odiatemi, vi prego.
So
che i più romantici avrebbero voluto saperne di più di
Berty e Checco, ma vi dico fin da ora che ho altri progetti per loro
e che quindi vi conviene stare all'erta! ;)
Per
il resto, la storia – come vi ha detto Berty stessa – è
nata come una comica e come tale dev'essere letta e interpretata, ma
diciamo che non sono portata per le nonsense o le demenziali che non
hanno un messaggio tra le righe, se capite cosa intendo. La mia
intenzione è sempre quella di far crescere i miei personaggi,
spesso facendo capire a loro e a me stessa cose che senza la
scrittura e senza un cammino di questo tipo non verrebbero mai
comprese.
Spero
che questa idea di comico/morale sia piaciuta a tutti e che non mi
uccidiate per aver già concluso la narrazione XD
Bene,
ora passiamo ai ringraziamenti! Un grazie, innanzitutto, a chi ha
seguito questa storia, anche senza mai commentare: se l'avete letta e
vi ha fatto piacere farlo, ben venga. Io comunque sono qui se volete
lasciare una recensione, non la rifiuto e non vi mangio! :P
Ma
il grazie più grande va a DreamNini,
Seiyako,
Marss,
Soul_Shine,
nanami02,
Frenzthedreamer
(anche per avermi concesso di utilizzare i suoi Scarti del
Caseificio), Hanna
McHonnor,
Milkendy,
Martinez_,
MaximWalker,
ToraStrife.
Ognuno di voi mi ha dato tanto e mi ha sostenuto durante la stesura
della storia, che non è stata per me affatto semplice. Chi più
chi meno ha recensito i miei capitoli e qualcuno di voi c'è
stato dall'inizio
alla fine, senza lasciarmi neanche un attimo da sola, ma per me siete
stati importanti tutti. Grazie di cuore, davvero, se Berty è
cresciuta ed è arrivata fin qui non è solo merito mio,
lo sapete bene.
Ora
mi ritiro e vi saluto tutti, alla prossima e non dimenticatevi di
stare attenti, perché Berty potrebbe spuntare da un momento
all'altro nel mio profilo e lanciarvi una delle sue assurde sfide :D