State sfidando la persona sbagliata!

di Kim WinterNight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Albertina, per gli amici Berty! ***
Capitolo 2: *** Routine scolastica ***
Capitolo 3: *** La sfida di Carlos Ruiz Zafón ***
Capitolo 4: *** Intanto, al parco si scommette... ***
Capitolo 5: *** «Scommetto che ti vuoi vendicare». ***
Capitolo 6: *** Sfide a suon di musica! ***
Capitolo 7: *** Un invito speciale, colmo di aspettative... ***
Capitolo 8: *** La festa di Mauro! ***
Capitolo 9: *** Checco?! ***
Capitolo 10: *** Incontri... 'Galanti'! ***
Capitolo 11: *** Sesso senz'amore... ***
Capitolo 12: *** Credi di essere libera? ***
Capitolo 13: *** Una vera stronza! ***
Capitolo 14: *** Una sfida con me stessa! ***
Capitolo 15: *** Maledetta emorragia mensile! ***
Capitolo 16: *** Così impari, idiota. ***
Capitolo 17: *** Qui e adesso ***
Capitolo 18: *** La mia morale ***



Capitolo 1
*** Albertina, per gli amici Berty! ***


Albertina, per gli amici Berty.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciao, cari lettori.

Mi presento: mi chiamo Albertina, per gli amici Berty. Ho quindici anni e vivo in Italia, precisamente in un paese fittizio che chiamerò… mmh… Bettola town.

Okay, lo so, il nome può sembrare buffo e non attinente al nostro caro Stato Italiano (Repubblica fondata sul Lavoro e bla bla bla), ma sfido chiunque a trovare un nome migliore di questo!

Ma, nel caso qualcuno di voi avesse da ridire, può benissimo avanzare delle proposte, prometterò di prenderle in considerazione (seh, come no, tanto per illudervi che siamo in Democrazia!).

In ogni caso, non divaghiamo troppo.

A Bettola town la vita si alterna tra mille peripezie che è mia intenzione narrarvi, sempre che la cosa vi interessi.

Per quanto mi riguarda, credo che lo farò in ogni caso, perché ho bisogno di sputtanarmi un po’ in giro e di raccontare gli affaracci miei al gentil mondo di EFP.

E dunque, partiamo dal mio nome.

Albertina Annetta Bartolini.

Può sembrare una coincidenza, ma vi giuro che io non ho nulla a che fare con le due sorelle Stevenson della Santacroce, sono innocente!

Vabbè, proprio innocente no, ma mio padre lavora per un famoso Corriere Espresso. Il che è tutto dire, benché non c’entrasse assolutamente niente con il fatto che mi abbiano appellato con i nomi di quelle sante e dolci ragazze.

E, se qualcuno di voi sa di cosa sto parlando, deve capire che NON faccio parte del Coro Amorino e che Padre Amos non si è approfittato di me.

Okay, spoiler a parte, sto di nuovo divagando e ciò nuoce gravemente alla salute di chi legge. Intenzione che, se devo dirla tutta, ho coltivato da quando ho deciso di farvi entrare nella mia vita.

Be’, se deciderete di seguire le mie vicende, dovrete abituarvi a questo mio modo di fare, perché sono purtroppo abituata a divagare e a fare riferimenti a faccende che ho letto in libri di vario genere; indipercui troverete alcuni spoiler o riferimenti che potreste non capire, perciò vedete di farvi una cultura!

Sono simpatica, lo so!

Bene, ora vi parlerò della mia famiglia.

Sono figlia unica (meglio così, non ho mai sopportato i marmocchi urlanti e avrei sicuramente ucciso il/la mio/a ipotetico/a fratello/sorella minore) e i miei genitori stanno ancora felicemente (anche troppo) insieme.

E voi ora direte: e quindi? Che cosa c’è di eccezionale in tutto ciò?

Be’, se consideriamo che i matrimoni attuali durano sì e no due anni (gravidanze comprese), ditemi un po’ voi se non è clamoroso che i miei siano sposati da ventun anni!

E poi vi starete chiedendo anche perché ho scritto che stanno insieme troppo felicemente e sicuramente starete pensando che sono un’ingrata perché non apprezzo il fatto di avere una famiglia felice e normale.

Vorrei che capiste una cosa, lettori miei: assistere tramite vie uditive all’atto sessuale dei vostri genitori, ogni notte, farebbe accapponare la pelle anche a voi.

Per fortuna ho la mia musica, che mi libera dal male!

(Amen!)

Quindi, mi posso definire una ragazza abbastanza matura e consapevole di ciò che è la vita sessuale, nonostante mi manchi ancora l’esperienza personale e, sapete, non ne voglio sentir parlare!

Soltanto l’idea mi disgusta!

Come traumatizzare i figli in una semplice mossa.

Ora mi porterò appresso questo fardello per tutta la vita e so che sarei capace di respingere anche Chad Michael Murray incontrato per caso in una spiaggia per nudisti (okay, non esageriamo ora!).

Mio padre, come accennavo prima, gira tutta l’Italia a bordo di un simpatico furgoncino rosso a consegnare pacchi e pacchetti everywhere.

La cosa mi è di grande aiuto, in quanto ordino almeno una volta al mese da vari siti di libri e di abbigliamento (scegliendo quelli che si servono della ditta in cui lavora mio padre) e ho le spese di spedizione gratis!

O almeno il contrassegno…

Insomma, non è che io tragga chissà quale giovamento dal lavoro di mio padre, che diamine!

Si chiama Alfredo, ha quarantacinque anni ed è un bell’uomo.

O meglio, deve esserlo per poter risultare così irresistibile agli occhi perennemente innamorati e appassionati di mia madre.

Lei si chiama Maria Vittoria ed è una rinomata insegnante di matematica al Liceo Scientifico e io non riesco proprio a capire come diamine possa sopportare quella marmaglia urlante.

In mezzo alla quale, ahimè, ci sono io.

Be’, sì, dovete sapere che anche io studio al Liceo Scientifico e sono al secondo anno.

Quando, con disappunto, ho scoperto che lei sarebbe stata la mia insegnante, ho pensato seriamente di suicidarmi gettandomi dal tetto della scuola, ma poi ci ho ripensato perché, effettivamente, ho ancora tanto da vivere.

E non avrei potuto parlarvi delle mie vicissitudini se mi fossi tolta la vita.

Pensavo di essermela scampata anche quest’anno, ma mia madre ha ben pensato di richiedere espressamente l’assegnazione della mia classe, ossia la 2^G.

Ebbene, questo è il mio triste destino e dovrò affrontarlo.

Per fortuna non sarò sola in quest’impresa.

Ma di questo ne parleremo la prossima volta, almeno potrò lasciarvi sulle spine.

Al prossimo capitolo, discepoli!

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Capitolo 2
*** Routine scolastica ***


Routine scolastica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bene, parliamo della mia classe, quindi.

La mia migliore amica, conosciuta l’anno scorso, si chiama Giuditta ma, dal momento che odio quel nome, la chiamo sempre Tita.

Lei, rispetto a me, è molto timida e quindi capita spesso che io debba portarla fuori dal suo diamine di guscio spinoso.

Però la adoro perché con me è sincera e spontanea e, soprattutto, è uno dei personaggi più importanti del mio racconto.

Se volete capire perché, vi accontento subito.

Ebbene, Giuditta mi lancia continuamente delle sfide assurde ed è sempre convinta che io non sia in grado di affrontarle e di vincerle.

Ma la mia cara amica sembra non aver ancora capito che io, Albertina Annetta Bartolini, non posso assolutamente perdere una sfida!

O forse, si diverte semplicemente a fare la stronza.

O, ancora, si diverte a ficcarmi nelle più improbabili situazioni e riderne beatamente.

Ma nella mia classe, non è solo lei a piacermi.

Generalmente, vado più d’accordo con il genere maschile, poiché trovo che siano nettamente più svegli, simpatici e divertenti di quelle femminucce delle mie compagne, le quali si danno un sacco di arie da prime donne in crisi ormonale.

Dannate oche giulive!

Nella mia classe, i ragazzi non sono tanti, nonostante il liceo ne sia sovraffollato.

Il più figo è Giacomo, il quale è tendenzialmente un cesso, ma è dotato di una simpatia senza pari.

È circa dieci centimetri più basso di me – il che significa che io, dall’alto del mio metro e sessanta, mi sento una pertica! – e ha degli occhiali bianchi che le mie compagne sofisticate definiscono ‘chic’, mentre io preferisco non esprimermi in merito, per non offendere la quasi inesistente autostima del mio compagno preferito.

Giaco mi piace perché, come me, non si tira mai indietro di fronte ad una sfida e spesso facciamo a gara a chi vince prima.

Poi c’è Gabriel, il braccio destro di Giaco. È follemente più alto di lui e follemente innamorato di Tita. Lei ricambia ma entrambi sono troppo timidi per ammetterlo. Roba da romanzetti rosa di quart’ordine.

Il terzo e ultimo giovine di sesso maschile si chiama Mauro ed è un bel ragazzo, davvero, anche se un po’ noioso e pieno di sé. io, certo, riesco a rimetterlo al suo posto, anche perché Giaco sospetta da sempre che lui voglia avere un incontro ravvicinato con me al di sotto di una fitta coltre di lenzuola, e allora mi dà sempre retta, perché crede così di rabbonirmi. Giaco dice che prima o poi ci riuscirà e minaccia spesso di lanciarmi una sfida che lo riguarda.

Vorrei tanto che non lo facesse, credetemi: non saprei resistere alla tentazione di aspettare, sono troppo orgogliosa per non farlo.

Per quanto riguarda il resto degli studenti, non ne voglio parlare perché si tratta, appunto, delle suddette oche screanzate e sexy, come amano definirsi quando, arrivate in classe, si atteggiano da top model e improvvisano sfilate di moda con tanto di sottofondo degli ultimi successi del pop/dance/merda mondiale.

Senza contare i vestiti stile Barbie e il trucco da geishe senza arte né parte!

Però avevo giusto promesso di non parlarne… scusate, come potrei continuare ad ammorbarvi con tali frivolezze?

Perfetto, descriverò qui di seguito una giornata tipo nella mia classe, tanto per darvi un’idea di che razza di trantran devo sopportare quotidianamente.

 

Ore 08:15

Arrivo in classe e trovo questa situazione: le mie compagne fanno il loro ingresso in grande stile, abbigliate alternativamente in rosa shocking/verde militare/celeste pastello/fiorellini/teschietti di paillettes/diamantini finti/farfalline e chi più ne ha più ne metta.

Compagna 1: “Ciao tesori miei, come state? Vi siete riprese dalla mega-serata dell’altro giorno?” (con tono cinguettante e stridulo)

Compagna 2: “Uh, sì, è stato strafico! Vi ricordate quanto eravamo sexy? Tutti ci guardavano!”

Compagna 3: “Sì, ma cicci, tu eri la più bella, con il tuo nuovo vestito di strass!”

Compagna 1: “Già e mi sto preparando per il prossimo party! Venerdì ho già una bella prenotazione dall’estetista!”

Compagna 3: “Farai la luce pulsata?”

Compagna 1: “Ovviamente!”

Compagna 2: “Io invece vado a fare la lampada, devo avere un’abbronzatura perfetta, anche perché dovrò rimorchiare il più possibile!”

In tutto questo, io e Tita ci sentiamo molto spesso come due aliene, ma in modo positivo; nel senso che comunque ci divertiamo a scimmiottarle e a prenderle per il culo, anche perché loro credono che noi siamo sfigate e non capiamo niente di moda e quant’altro.

 

Ore 08:30

Arriva Giaco trascinandosi dietro Gabri, mentre si insultano e parlando dell’ultima conquista che Giaco ha fatto sull’autobus, mentre arrivava a scuola.

“Giaco, bella!” grido io, dandogli il cinque. “Come si chiama la nuova vittima?”

“Oh, ha un nome dolcissimo, come quella di Dante, sai?”

“Beatrice?”

“No, Virgilia!”

Io e Tita ci fissiamo e scuotiamo il capo, esasperate.

Questo ragazzo non cambierà mai.

 

Ore 08:35

Entra mia madre, trafelata.

Al contrario di molti professori, lei è sempre mezzo svampita e si comporta perennemente come una quindicenne che non vuole saperne di crescere.

Tuttavia, è una brava insegnante e tutti l’adorano, nonostante si faccia rispettare più di molti altri.

La prenderei sul serio, ve lo giuro, se solo non fossi consapevole di come si comporta al di fuori di quel contesto.

Ha la cattiva abitudine di pretendere troppo da me, poiché vorrebbe che seguissi le sue orme ed è per questo che mi ha ficcato a forza allo Scientifico.

Peccato che non mi conosca affatto e che neanche le importi.

Io, Giaco e Tita ci divertiamo a farla infuriare, nonostante lei mantenga il controllo in maniera eccellente.

Il suo difetto più grande è che, nonostante abbia la fortuna di insegnare nel piccolo Liceo di Bettola Town, arriva puntualmente in ritardo. Può sembrare un gioco di parole, ma è un’incorreggibilie ritardataria e questo permette sempre ai suoi alunni di nutrire una vana speranza, di intravedere uno spiraglio di libertà.

Ma mia madre, purtroppo, non manca mai.

E io, di conseguenza, devo fare lo stesso e non me la scampo neanche quando è il suo giorno libero o quando la febbre a quaranta mi fa delirare come una folle.

È pura tirannia!

 

Ore 10:35

Dopo due ore di matematica, durante le quali la mia classe potrebbe essere scambiata per un gruppo di sordomuti, mia madre raccoglie le sue cose e se ne va di tutta fretta.

Le sue convinzioni lasciano basito chiunque, dal momento che è convinta di dover pontificare per due ore esatte e poco le importa se dalle 10:15 il puntualissimo insegnante di Chimica si ritrova accampato fuori dall’aula.

L’uomo, un vecchietto che credo dovrebbe essere in pensione da parecchi lustri, fa il suo ingresso appoggiandosi al bastone da passeggio, mentre un’aitante assistente di appena ventidue anni lo segue per aiutarlo a trasportare i suoi libri.

La scena è patetica, credetemi, soprattutto perché Giaco molla sempre una gomitata a Gabriel e insieme iniziano a sghignazzare, fantasticando sulle notti folli dei due, all’insegna di pastiglie blu e sadomaso.

Allora io e Tita trascorriamo le lezioni di Chimica a fissare convulsamente il quaderno e a prendere freneticamente appunti, come se fossimo realmente appassionate di questa ardua materia.

Sollevare lo sguardo su quei due ci farebbe rimettere la colazione.

 

Ore 11:10

Intervallo.

Io, Tita, Giaco e Gabriel ce ne andiamo in giardino.

Qui, si svolgono diverse attività: io mi ingozzo con tutto il cibo che ho portato da casa + il panino di Tita (è convinta di essere grassa e ne assaggia giusto qualche boccone) + un cracker dal pacchetto di Giaco + il tè al limone di Gabriel, che sua madre si ostina a buttargli in borsa senza rendersi conto che lui detesta il tè. Ma, poiché in casa mia certe “bevande indicibili” non sono concesse, lui non dice niente e cede la lattina alla sottoscritta.

Penserete che sono grassa, ma tutt’altro. Tita mi invidia perché mangio come un porco e non assimilo nulla.

Tita e Gabriel, invece, trascorrono l’intervallo a sbocconcellare la loro misera merenda e a lanciarsi occhiate di sottecchi, mentre Giaco gira per il cortile cercando di abbordare qualche ragazza, senza alcun risultato.

Dopo un po’, ci raggiunge anche Mauro, il quale sfodera il suo bel sorriso e si mette a scherzare con me, nonostante io possa rispondergli soltanto con dei mugugni indistinti tra un boccone e l’altro.

Che ragazzo determinato e paziente!

 

Ore 11:20

Italiano, ovvero:

- Io e Tita che giochiamo a tris;

- Giaco e Gabriel che dormono sul banco;

- Le mie numerose compagne che si truccano e si organizzano allegramente per il prossimo party;

- Mauro che scribacchia su un quadernetto, mentre una delle ragazze gli ronza intorno cercando di farsi notare;

- La professoressa Demartini si gira i pollici, osservando con orrore la classe ma non sapendo che fare per cambiare le cose.

 

Ore 13:15

Libertà!

Usciamo tutti da scuola, stanchi come se avessimo fatto una maratona di cinquemila metri o zappato quaranta ettari di terreno.

Ma le due ore di italiano/fancazzismo sono state devastanti e chiunque di noi preferirebbe le opzioni su citate.

A quel punto, mia madre mi raggiunge in macchina e mi porta via asserendo che, se rientriamo insieme, possiamo pranzare prima e lei poi deve guardare Master Chef e non ha intenzione di perdersene un solo minuto.

 

Così la mia giornata scolastica finisce.

E il tutto è, ovviamente, intervallato dalle continue sfide che vengono lanciate a me e Giaco.

Ma di questo parleremo la prossima volta, cari interessatissimi lettori.

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Capitolo 3
*** La sfida di Carlos Ruiz Zafón ***


La sfida di Carlos Ruiz Zafón

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel pomeriggio mia madre, dopo aver guardato MasterChef Italia/Australia/Spagna/America e quant’altro, mi obbliga a fare i compiti di matematica.

Sì, avete capito bene.

Per lei, potrei anche non studiare nessuna materia, ma sulla matematica non transige. Io cerco sempre di sgattaiolare via prima che sia troppo tardi, ma raramente mi riesce.

Il problema è che dopo pranzo mi viene un sonno incontrollabile e finisco per addormentarmi sul divano, mentre quell’isterica della mia genitrice strilla di fronte alla tv, inveisce e insulta questo o quel concorrente.

Quando alla fine mi risveglio – non chiedetemi come faccio a dormire con tutto quel caos – è perché mia madre mi scuote per le spalle, pronta a torturarmi.

Allora trascorriamo ore infinite sui libri e, una volta finiti tutti gli esercizi e ripetute tutte le formule a memoria e con la corretta pronuncia ed intonazione, sono talmente stanca che non ho più voglia di uscire e finisco la giornata in uno stato di semincoscienza che mi impedisce di ragionare lucidamente.

 

Quando, invece, riesco a fuggire, le cose vanno più o meno così.

 

“Guarda! Ma cosa cazzo sta facendo quello? No, non si caramellano così le cipolle, ma dai! Demente, sei un demente, Anselmo! Sì, ecco, guarda quell’altra cretina di Mariangela! Fate pena! Ah, se ci andassi io…” (mia madre di fronte alla tv, di pomeriggio. Una tortura.)

“Mamma, perché non ci vai allora?” la provoco spesso io, lanciandole un’occhiata annoiata. Il fatto è che mia madre non sa cucinare, compra spesso piatti pronti e roba surgelata, scalda tutto al microonde et voilà! Invidio mio padre che lavora tutto il giorno e si ferma a pranzo fuori, sicuramente ha un’alimentazione più sana della nostra. Anche il McDonald’s è più salutare del nostro regime alimentare.

“Oh, potessi lo farei! Ma poi chi penserebbe a te? E tuo padre? E il lavoro a scuola? Voi somari non trovereste mai una mia degna sostituta!”

Magre consolazioni, come si suol dire.

Se sapesse almeno friggere un uovo, sarei fiera di lei e mangerei uova fritte per il resto dei miei giorni.

“Hai ragione, mamma. Senti, io vado un po’ in camera, a schiacciare un pisolino, eh?” ammicco, alzandomi. “E, mi raccomando: svegliami quando è ora di fare i compiti!” aggiungo, giusto per rendere il tutto più credibile.

Preferirei morire piuttosto che sentirmi scuotere per le spalle da lei, ogni fottuto pomeriggio.

Razza di madre snaturata! Non capisce proprio le mie esigenze e mi maltratta! Un giorno o l’altro avviserò gli assistenti sociali e allora la smetterà di ossessionarmi!

Che poi, io sarei pure contenta se lei andasse a MasterChef (ammesso e non concesso che superi qualsiasi selezione). Sì, be’, quale figlia non sarebbe fiera di vedere la propria madre in televisione?

E poi, sapete che significherebbe per la sottoscritta non averla tra i piedi per un po’? Ma siccome dubito che rimarrebbe in gara abbastanza a lungo da darmi il tempo di abituarmi alla sua assenza, perciò tanto vale evitare di fare figuracce in pubblico.

Comunque…

Esco dalla cucina e mi dirigo furtivamente verso la mia stanza.

Ehi, credete davvero che metterò in pratica ciò che ho rifilato alla mamma?

Nah, vado a prendermi la borsa, darmi una sistemata e poi scappo di casa.

Avviso Tita con un sms. Lei è fantastica, sempre pronta ad accogliermi durante le mie fughe.

Poi mando un sms anche a Giaco e decidiamo di vederci nel suo paese, così saremo tranquilli e poi da lui ci sono dei bei posti, c’è più divertimento e gente interessante.

E, soprattutto, spunti per nuove scommesse.

Allora esco pian piano di casa, mentre ascolto mia madre che continua a sbraitare contro lo schermo e non si accorge di niente.

Quando finalmente raggiungo, strisciando lungo la parete come un ragno, l’angolo della mia via, tiro un sospiro di sollievo e mi rilasso.

Poi passeggio allegramente, dirigendomi verso il punto in cui io e Tita ci incontriamo di solito.

Intanto Giaco dice che ci aspetta con ansia e che ci sarà anche Gabri.

Oh, perfetto.

Che sia la volta buona che lui e Tita si decidano e si appartino da qualche parte?

Nah, troppe vane speranze, ahimè…

Incontro Tita e insieme raggiungiamo la fermata dell’autobus.

A quell’ora – precisamente le 15:20 del pomeriggio – ci sono ancora studenti solitari che si affannano verso la fermata, ansiosi di rientrare a casa. E io li invidio, naturalmente.

Perché diamine non ho scelto un liceo con zero matematica e con una distanza di almeno 100 km da casa?! Forse è il Paese dei Balocchi detto così, però sarebbe stata la cosa più bella che potesse capitarmi!

Io e Tita ridiamo come matte, finché ad una fermata non sale un uomo che attira subito la nostra attenzione.

Ci guardiamo: stiamo pensando la stessa, identica cosa.

“Assomiglia a Zafón!” esclamiamo all’unisono, esaltate come se fosse appena salito sul nostro autobus un funzionario del governo o il Papa.

Ora, non ditemi che non sapete chi sia Carlos Ruiz Zafón perché vi mangio!

Oh, be’, però non tutti sono intelligenti e colti come la sottoscritta, perciò la vostra Berty vi darà un piccolo aiuto:

http://it.wikipedia.org/wiki/Carlos_Ruiz_Zaf%C3%B3n

Ecco, vedete, quando siete appassionati di un qualsiasi artista e vedete un suo clone a pochi chilometri da casa vostra, non potete negare che la reazione sarebbe quella di gettarvi ai suoi piedi e di baciarli, fango o cacca di cane compresi.

Ma, siccome io e Tita non siamo persone dalle reazioni convenzionali (o almeno, io non lo sono, Tita viene soltanto trascinata nelle mie scorribande), la vicenda quel giorno è andata diversamente da ciò che vi aspettate.

Tita mi fissa con un’espressione indecifrabile, poi fa: “Oh, Berty, perché non gli parli?”

Ridacchio come una scema e le lancio un’occhiataccia.

“Sì, e cosa gli dico?”

“Gli dici: ehi, Carlos, me lo fai un autografo?”

“Diglielo tu!”

Ah-ha! Lo sapevo, non hai il coraggio!”

A quel punto il mio organismo si ribella. Mi viene quasi da vomitare ogni volta che qualcuno mi dà della codarda, anche se in maniera implicita.

È una questione di principio: non c’è nulla che io non possa fare, punto e basta.

“Giuditta, è una sfida questa?”

E lei sa benissimo che quando la chiamo con il suo nome di battesimo, ha innescato il lato più combattivo e orgoglioso di me.

E allora sbianca improvvisamente.

“Oh, no, non lo era! Ti prego, Berty, rifletti un attimo… oh mamma, cos’ho fatto?!”

Io intanto sono già in piedi che fisso Carlos (se scopro che si chiama Carlo, rido molto, giuro!) con circospezione, scegliendo il modo giusto per attaccare bottone.

Badate bene: non sono timida, specialmente quando si tratta di una sfida così misera ed insignificante, ma sono educata e non vorrei turbare l’animo tranquillo di un adulto, sapete com’è…

“E siediti, cazzarola! Non starai mica pensando sul serio di…

“Taci!” le ordino, tappandole la bocca con una mano.

Tita si dibatte per un po’ e prova pure a mordermi un dito, ma io fuggo via prima che possa commettere un simile errore.

Saltellando sul corridoio posto in mezzo alle due file di sedili e raggiungo con noncuranza il posto accanto a quello di Carlos.

Ho avuto culo: è libero.

“Salve, mi scusi… posso?” chiedo, indicandogli il sedile al suo fianco.

“Prego, vieni vieni, ché ti puoi sedere!”

Ehm, okay, lettori: io ci ho provato, dovete credermi, lo giuro! Ho provato a non ridere, ma vedere uno con la faccia di Zafón, pensare al suo genio, al suo intelletto e alla sua intelligenza e poi sentirlo parlare come mio nonno, be’… questo sarebbe troppo per chiunque, andiamo!

Ma del resto non gli ho mancato di rispetto, non così tanto. Mi sono lasciata sfuggire soltanto un piccolo sorriso. Come vi ho già detto, sono educata, quindi…

“E che hai da ridere, giovanotta? Si porta rispetto alle persone più grandi, ché ne sanno più di te!” prosegue Carlos/nonno con tono estremamente serio e concitato, quasi solenne, patriottico, manco stesse parlando con un ex generale in pensione.

“Mi scusi signor Carlos, signore!” butto lì, accennando a mettermi sull’attenti.

Lui mi guarda stralunato e sbatte le pesanti palpebre.

“Ah, già, capisco di doverle delle spiegazioni, sa. In effetti dubito che lei sappia perché l’ho appena chiamata signor Carlos. Bene, è bene che lei venga al corrente di essere il clone di uno dei miei scrittori preferiti, tale Carlos Ruiz Zafón, nato a Barcellona nel…

“Ma cosa stai blaterando, ché sei tutta rincitrullita!”

Era da una vita che non sentivo questa parola, vorrei che il signor Carlos non l’avesse pronunciata perché temo di aver perso anche l’ultimo briciolo di stima da parte sua, scoppiando a ridere fragorosamente, con tanto di testa rovesciata all’indietro e bocca spalancata.

E ho pure attirato l’attenzione di tutti, sull’autobus, sicuro!

“Razza d’impertinente! Ah, i giovani screanzati di oggi! Ma vi hanno insegnato le buone maniere, perbacco?”

Come posso smettere di ridere? Ditemelo voi, vi prego!

“Quando ero giovane io, si rigava dritto, eh! Adesso non vi si può più toccare, siete bestie, voi! Vorrei vedere che fareste, in Vietnam! Marmocchi, ché non capite niente!”

Vorrei davvero rispondergli, dirgli che tutto questo non ha niente a che vedere con Carlos Ruiz Zafón, che lui alla fine non gli somiglia poi tanto e che è un matusalemme in confronto e che non gli ho affatto mancato di rispetto come va blaterando.

Ma come posso?

Per fortuna, a salvarmi arriva Tita, che mi dice: “Dobbiamo scendere, Giaco ci aspetta!”

Carlos/non-poi-tanto-Carlos/nonno ci fissa con sguardo furente, mentre io riesco a malapena ad alzarmi, tanto sto ridendo!

Giaco ci fissa con aria interrogativa, mentre Gabri, al suo fianco, lancia occhiate furtive a Tita, la quale riesce per miracolo a non farmi ruzzolare giù dal pullman.

Poco prima che lo sportello si richiuda, mi volto e grido: “Arrivederci, nonno Carlos!”

“Aiutatemi!” geme Tita, lasciandomi andare. Il suo tono implorante non ottiene alcun riscontro, poiché Giaco è curiosissimo e mi obbliga subito a raccontargli tutto per filo e per segno. Per quanto riguarda Gabri, lui semplicemente si limita a stare zitto, perché non ha mai il coraggio di parlare con Tita.

Sembrano due mummie, chissà che non debba arrivare ad escogitare qualcosa con Giaco per farli accoppiare.

Chissà…

 

Bene, quello che accade in seguito lo saprete la prossima volta, anche perché vi aspetta un’altra delle sfide che mi vengono lanciate quotidianamente.

Quella di abbordare il sosia di Zafón non è niente, in confronto ai miei standard!

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Capitolo 4
*** Intanto, al parco si scommette... ***


Intanto, al parco si scommette…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io e Giaco decidiamo immediatamente, scambiandoci un solo, fugace sguardo, di rimanere indietro per permettere ai due piccioncini/mummie di provare a parlare, che diamine!

Giaco è contento, trotterella per la strada e io proprio non capisco perché. Dico, dopo la mattinata trascorsa a scuola, tra cui le due ore con mia madre che gracchiava matematica, ha ancora tutta quest’energia sfrenata. Be’, di certo non ha dei genitori come i miei, una vita come la mia e… basta lamentarsi, su.

Arriviamo al parco, dove in genere c’era mezza scuola e quasi tutta la nostra classe. Evviva.

«Ma dico io, quelle oche non hanno altri posti dove andare?» fa Giaco, sospirando.

«C’è anche il tuo ragazzo, Berty!» esclama Gabri, battendomi una mano sulla spalla.

«Geloso?» lo punzecchio.

«Smettetela, dai! Berty, quindi quel nonno sull’autobus è rimasto traumatizzato?» mi interroga per l’ennesima volta quel rompiscatole di Giaco.

«Sai che sei palloso?» lo accuso, sbuffando.

Ci sediamo.

Il pomeriggio, in confronto all’avventura appena vissuto in pullman, mi sembra noioso. Devo assolutamente fare qualcosa per questa situazione di estrema noia.

In genere ci divertivamo un mondo. La nostra occupazione preferita era andare a rubare gli skateboard ai ragazzini delle medie e andare in giro sghignazzando.

In quei momenti mi sentivo un po’ scema, ma che male c’era se mi divertivo? Giaco mi dava manforte e questo mi bastava. Tita, dal canto suo, era spesso contrariata, ma io ridevo e le dicevo di star zitta e di pensare ad un modo per poter uscire con Gabri, perché il tempo trascorreva veloce.

Gabri, invece, si divertiva e spesso ci seguiva. Tita era la più seria. Forse così sperava di fare colpo su Gabri in quel modo. Chissà.

«Uff, facciamo qualcosa di divertente. I teppistelli con lo skate non sono ancora arrivati» dico d’un tratto, alzandomi.

«Che hai in mente, principessa?» mi domanda Mauro, materializzandosi all’improvviso di fronte a me.

«Oh, vedi di non farmi spaventare!»

«Permalosa. Comunque… ciao, cari compagni. Come vi sentite, quest’oggi?» ci chiede Mauro, sorridendo appena, con fare teatrale.

Perché questo cretino deve sempre mettersi in mezzo alle palle? Io non lo capisco. Qui, dalla regia, continuano a ripetermi che Mauro prova qualcosa per me, ma non ci voglio pensare. Quel tipo proprio non fa per me.

«Falla breve, che vuoi?» sbotto, scacciandolo con un gesto della mano.

«Niente, solo una sfida per la principessina Bartolini» risponde, con gli occhi che gli brillano.

Mi avvicino di scatto e sollevo un pugno, decisa a colpirlo.

«Prova a ripeterlo» grugnisco tra i denti.

«Una sfida!» strilla d’un tratto Giaco, afferrandomi per un braccio e scaraventandomi di lato per poter sentire meglio le parole di quel deficiente del nostro compagno. «Che sfida? Che sfida? Parla, idiota!» prosegue Giaco, senza abbassare la voce.

«Ah, tu ti chiami Albertina da oggi. Interessante» commenta Mauro, stampandosi in faccia un sorriso beffardo.

«Giaco, sei una merda, levati! Allora, Mauro, di che si tratta?» incalzo.

«Be’, di là c’è una ragazza che vorrebbe uscire con lui» spiega, indicando Gabri e scuotendo il capo. «Vorrei farmi due risate, sai com’è. Devi andare e fingere di essere la ragazza di Gab, ci stai?» propone, sorridendo maliziosamente.

Io? La tipa di Gabri?!

Scambio un veloce sguardo con Tita, la quale è impercettibilmente impallidita. Poi, sempre in maniera molto discreta, annuisce.

«Non dirmi che hai paura!» mi punzecchia Mauro, divertito.

«Berty non ha mai paura di niente, pezzente! Su, Berty, andiamo!» strilla ancora Giaco.

Mi volto completamente nella sua direzione e lo afferro per le spalle, avvicinando il mio viso al suo con fare minaccioso.

«Sai, Giacomino bello, i miei timpani sono abbastanza buoni, sai, utili… non so a te, ma a me servono e, quindi, gradirei che tu, razza di imbecille, non li trapanassi con quella voce da pazzo che ti ritrovi!»

Detto questo, lo lascio andare e guardo Gabri, lanciandogli un sorriso, già eccitata per la sfida.

Di colpo mi rendo conto dell’allusione che Mauro aveva fatto poco prima, a proposito della mia paura.

Gli mollo un pugno sul braccio.

«Io non ho paura» sibilo, poi prendo la mano di Gabri e gli sorrido, calandomi immediatamente nella parte della fidanzata perfetta. «Andiamo, tesoro» mormoro, melliflua.

Gabri è strano, non si lascia trasportare dalle emozioni, per quanto false possano essere.

Mauro ci segue e mi indica discretamente la tipa che, appena vede Gabri, si volta immediatamente dall’altra parte, cinguettando qualcosa alle sue amiche. Alcune di esse sono nostre compagne di classe. Perfetto.

«Gabri, impegnati, su. O vuoi davvero che quella ci provi con te?» gli sussurro, stringendogli di più la mano.

«No… no, Berty, ti prego! Sai che…»

«Vuoi Tita, lo so.»

«Be’… io…»

«Zitto, ci guarda!»

Mi fermo e mi volto verso Gabri, poi gli accarezzo una guancia e lui fa per ritrarsi.

«Potresti almeno fingere di essere innamorato, avanti. Non essere così rigido, diamine! Perché devi essere così idiota, Gabri

Lui mi guarda strano, poi di colpo mi stringe a se e mi accarezza i capelli, senza però appiccicarsi a me.

Spero proprio che Tita non ci guardi e che non se la prenda.

«Oh, per favore. È difficile recitare per me, Berty

Lo zittisco e rido, forte, in modo da farmi sentire dall’oca.

«Oh, tesoro, che sciocco che sei!» cinguetto, arruffandogli i capelli.

Mauro, intanto, è tornato da quelle ragazze, così decido di mettere in atto il piano nel momento stesso in cui il mio compagno di classe si siede vicino a lei e le sorride.

Afferro nuovamente la mano di Gabri e mi avvicino con disinvoltura al muretto su cui è seduto il gruppetto.

«Ciao, ragazzi. Come va?» esordisco, accoccolandomi contro il braccio di Gabri.

«Ohi, ciao Berty. Come ti dicevo, volevo presentarti la mia amica Michela…» dice Mauro, indicando la ragazza che vuole Gabri.

Lei si alza e mi tende la mano.

«Io sono Michela, piacere.»

«Piacere, Albertina. Lui invece è Gabriel, il mio ragazzo» rispondo, stringendole la mano e rivolgendo un sorriso dolce al mio amico.

«E da quando?» interviene Rossana, una delle nostre compagne.

«Be’…» attacca Gabri.

Gli stritolo una mano e fulmino Rossana con un’occhiata, poi sorrido, evitando di rispondere alla mia compagna di classe.

Che gente odiosa.

Proprio in quel momento, proprio nell’istante migliore di tutto, in cui stavo per dare il meglio di me, mi squilla il telefono. La mia suoneria, “Mi chiamo Virgola”, fa inorridire molti dei presenti, mentre Mauro sghignazza e mi strizza l’occhio.

So esattamente di chi si tratta.

Mia madre in versione belva della savana, scegliete voi a che animale accostarla.

La conversazione si svolge così:

«Albertina Annetta, dove accidenti sei finita?»

«Sono venuta da Giaco, fuori paese.»

«Torna subito a casa!»

«Scordatelo, Maria Vittoria!»

«Non ti permettere, sai? Figlia snaturata!»

«Ho il diritto di avere la mia vita, mamma! Non puoi segregarmi in casa a studiare matematica con te, cacchio!»

«Domani abbiamo la verifica, asina!»

«Me ne frego della tua stupida verifica, domani non verrò a scuola!»

«Non contarci, signorina. TORNA. A. CASA. SUBITO.»

«No, ti ho detto che te lo puoi scordare. TE. LO. PUOI. SCORDARE.»

«Ti vengo a prendere, vedi che ti faccio!»

«Come no. Ciao, divertiti a preparare le tue stupide verifiche!»

Chiudo la chiamata e subito spengo il cellulare, stizzita.

Poi, sputo per terra, incazzata come una belva.

Il fatto più schifoso e frustrante è che quel gruppetto di oche + Mauro + Gabri hanno assistito a quella scena improponibile.

«Sapete, io e Gabri non stiamo insieme!» ammetto, scuotendo la testa.

Vedo che tutti mi guardano male, eppure me ne fotto altamente.

C’è solo una persona che mi fa perdere la pazienza in quel modo, ovvero mia madre, Maria Vittoria, la signora Bartolini.

Certo è che, seppure stavo fingendo di avere uina romantica relazione con Gabri, dopo aver sputato per terra stile scaricatore di porto, la mia scenetta risultava molto poco credibile.

«Come!» strilla Michela, isterica, alzandosi di scatto dal muretto.

«Già, dolcezza. È tutto tuo, ammesso e non concesso che ti voglia e, sai, ne dubito fortemente» concludo, mollando la mano di Gabri e, facendo dietrofront, li pianto tutti lì come allocchi e torno da Tita e Giaco.

I due, con aria incuriosita, mi scrutano.

«La scommessa l’ho vinta, cari, anche se poi ho smascherato Mauro per colpa di Maria Vittoria» borbotto, abbandonandomi sulla panchina accanto a Giaco.

«Tu!» inveisce Gabri, avviandosi verso di me a passo di marcia. «Ti faccio vedere io, adesso!»

Sotto lo sguardo confuso e stupefatto di Giaco e Tita – soprattutto di Tita –, Gabri mi afferra per le spalle e mi costringe ad alzarmi.

«Ti deve passare questo vizio di merda!» sbraita, poi mi immobilizza e, con gesto rapido, fulmineo, mi bacia con prepotenza, infilandomi violentemente la lingua in bocca.

Poi mi molla, mi guarda con disprezzo e, senza degnare nessun altro con lo sguardo, se ne va, imbufalito.

Io, intanto, non so proprio cosa dire.

Poi mi esce, spontaneo e vibrante: «Coglione, sei soltanto un coglione!»

Perché si è comportato così con me? E di fronte a Tita, per giunta! Tutto per una stupida scommessa!

«Oh, dannazione, Giuditta, calmati! Oh, Berty, svegliati! Che devo fare?» farfuglia Giaco.

Quando finalmente mi volto, lo vedo che accarezza con evidente imbarazzo e riluttanza la spalla di Tita, mentre lei piange disperata, con il viso tra le mani, scossa da profondi tremiti.

«Maledetto schifoso di un Gabriel! Giaco, senti, anziché perdere tempo, vai a comprare dell’acqua, Tita non sta bene» ordino, sedendomi accanto alla mia amica.

Avverto un senso di nausea per ciò che Gabriel ha appena combinato. Come ha potuto baciarmi? Io di certe cose non ne voglio sapere, possibile che non lo capisca nessuno? Mi viene la nausea, seriamente.

Mi alzo, barcollando incerta. Meno male che Giaco è ancora lì, immobile, con la mano sollevata dopo averla scostata dalla spalla di Tita.

«Neanche tu sembri in forma» osserva.

Di scatto, mi precipito verso il cespuglio più vicino e mi butto con la testa tra le foglie, rimettendo quel poco di pranzo che mi era rimasto in corpo.

Non capisco neanche dove sono messa, cacchio. Quanto detesto Gabriel, quanto detesto gli uomini prepotenti e coglioni come lui!

Ad un tratto, sento delle braccia che mi sollevano i capelli dalla fronte e mi sostengono, mentre continuo a vomitare. Che schifo, cazzo, spero proprio di non stare dando spettacolo.

Quando mi metto a sedere, intontita, noto che Mauro mi osserva, con una smorfia incredibilmente indecifrabile sulla sua nota faccia da schiaffi.

Poi, ad un certo punto, il suono di un clacson a me fin troppo familiare si espande per il parco.

Così capisco che ho due alternative: scappare o arrendermi.

Ma, dal momento che sono talmente debole e stanca per pensare di muovermi, rimango dove sono, attendendo che Maria Vittoria scenda dall’auto e mi venga a prelevare.

Tita sta ancora piangendo e Giaco si è rassegnato a lasciarla perdere, avvicinandosi a me e spingendo via Mauro.

Mia madre, dopo un minuto, è di fronte a me e mi afferra per un braccio, costringendomi a sollevarmi da terra.

La nausea non mi ha del tutto abbandonato, mi viene quasi voglia di vomitarle addosso. Detesto tutti in questo momento.

«Prof, sua figlia non sta bene, forse» le dice Giaco, con tono preoccupato.

Okay, forse non detesto proprio tutti. Giaco è dolcissimo, un dolce e tenero sgorbio che potrebbe essere scambiato per un nano da giardino. Ma pur sempre dolce.

«Mia figlia sta benissimo, Meucci! Se ne torni a casa, piuttosto! Domani c’è…»

«…la verifica, sì, mamma, l’abbiamo capito!» biascico. Mi divincolo dalla sua presa e mi avvicino a Tita, aiutandola ad alzarsi.

Lei mi regala una smorfia, forse puzzo di vomito. Pazienza.

Così, saliamo in macchina e ce ne andiamo, io incazzata e nauseata come non mai, Tita delusa e triste e mia madre inviperita come un bue muschiato.

Perfetto.

Mentre ci dirigiamo verso a casa, mi viene in mentre che Maria Vittoria non aveva mai messo in pratica una minaccia del genere.

Che stia cambiando qualcosa?

 

 

 

 

NdA:

Salve a tutti coloro che leggono questa storia!

Vorrei informarvi, in caso non ve ne foste resi conto, che ho finalmente potuto cambiare le virgolette tra cui racchiudo i dialoghi.

Amo molto questo nuovo modo e sono felice di essere riuscita a metterlo in pratica, dal momento che avrei sempre voluto farlo. Trovo che il tutto risulti molto più ordinato e simile alla grafica dei libri cartacei che, per la maggior parte, utilizzano questo tipo di virgolette.

Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!

Al prossimo capitolo =)

 

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Capitolo 5
*** «Scommetto che ti vuoi vendicare». ***


«Scommetto che ti vuoi vendicare».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo quella sera passata a vomitare per svariati motivi, mi sono sentita una merda.

Non per altro, ma per il semplice fatto che io non ne voglio sapere di tizi che si sbaciucchiano, ragazzi che ti baciano, ti scopano e poi, puff, ti abbandonano.

Tanto la trafila è sempre la stessa.

E Gabri è proprio uno stronzo.

Ha commesso un’azione riprovevole di fronte alla ragazza che lo vuole e che lui vuole.

Ma cos’hanno questi maschi in testa? Merda, di sicuro.

Che poi, io non sono una di quelle femministe convinte, basta vedere cosa penso di mia madre… però non voglio fare né la sua fine, né avere tra i piedi un tizio a caso che ha solo una cosa in mente e che ha i neuroni in mezzo alle gambe.

Più ci penso e più mi innervosisco.

A scuola, il giorno dopo, fingo che non sia successo niente, ma la maggior parte dei miei compagni erano presenti al momento del misfatto.

«Tita, ce l’hai con me?» continuo a ripeterle per tutta la mattinata.

E lei ogni volta scuote il capo e mi dice: «No, Berty. È tutta colpa di quello stupido».

In effetti è vero, è tutta colpa sua e della sua coglionaggine.

Pezzo di merda, devo vendicarmi.

Così, durante l’intervallo, trascino via Giaco, con fare cospiratorio. Appartati in un angolo del cortile, ci guardiamo in faccia, in silenzio.

Poi Giaco mi fa: «Scommetto che ti vuoi vendicare».

Quanto adoro questo dolce e diabolico nanetto, sa sempre esattamente cosa voglio. Potrei sposarmi con lui e farne uno schiavetto perfetto. Giaco è come se vivesse per me, che carino!

«Detesto Gabri, mi ha proprio nauseato» rispondo, digrignando i denti.

«E che vuoi fare?»

«Me la pagherà cara. Tita non si merita uno del genere, perché tutti si innamorano? È frustrante. Io rimarrò da sola, sai? Al massimo potremmo andare a convivere io, te e Tita. Sarebbe bellissimo, come fratelli…» Sospiro, con aria sognante. «Ma dato che Tita è cotta di quel pirla, be’… devo fargli passare i bollenti spiriti» aggiungo, con tono fermo.

«Io sono con te. Ci facciamo due risate.»

Una lampadina si accende nella mia mente e le mie labbra si increspano in un bel sorriso.

«Parla, ti prego!» mi implora Giaco, a mani giunte.

«Lo umilierò di fronte a tutti, sta’ a vedere.»

Detto questo, raggiungo nuovamente Gabri, Tita e Mauro.

«Gabri, potresti venire con me un attimo? Dovrei parlarti di una cosa» mormoro, fintamente imbarazzata. In realtà, sto ribollendo di rabbia. Lo prenderei a schiaffi seduta stante.

Ma mi trattengo e, mentre lui sbuffa e annuisce controvoglia, strizzo l’occhio a Tita e mi allontano, seguita da Gabri.

Mi fermo intenzionalmente in mezzo al cortile, in modo da avere l’attenzione di gran parte degli studenti della scuola.

«Senti, se è per ieri, non ti chiederò scusa. Mi hai messo in imbarazzo, mi hai fatto fare la figura del fesso davanti a tutti, anche a quello sborone di Mauro» dice, guardandomi male.

Non so come riesco a non mollargli un pugno. Invece, gli sorrido con finta dolcezza.

«Ma no, Gabri. Sai…» mi avvicino a lui, posandogli una mano sulla spalla. Gli voglio distruggere quel dannato avambraccio, se solo penso che mi ha baciato… un brivido di disgusto mi percorre e sento l’impulso di scaraventarlo a terra e scalciarlo fino a che… ma non posso, devo stare calma. «Non importa, in fondo mi è piaciuto. È solo che non me l’aspettavo, sai… poi c’era Tita…»

«M-ma… ma Berty, i-io… non… non volevo farlo, ero arrabbiato. Tu non mi piaci!»

«Come sarebbe a dire?» grido, alzando intenzionalmente il tono di voce. «Cosa significa che non ti piaccio, Gabriel?» continuo, fingendomi isterica.

Sì, effettivamente mi sto divertendo. Dovrei fare l’attrice, quasi quasi ci credo pure io a questa messinscena… non posso vedere l’espressione di Giaco, ma sono sicura che stia trattenendo una grossa e sonora risata. Mi ritrovo spesso a pensare che è incredibile quanto quel nanetto possa avere un timbro vocale così potente e fastidioso, ma è tanto adorabile… forse l’unico essere di sesso maschile che potrei mai sopportare nella mia vita.

Intanto, Gabri mi fissa, terrorizzato.

“Su, Berty, vai avanti” mi dico, assumendo un’espressione sempre più accigliata.

«Sei come tutti gli altri, Gabri! Mi hai illuso… come hai potuto? Ieri mi hai baciato di fronte a tutti, poi quei messaggi che mi hai scritto, e ora…»

«Cosa stai blaterando?» sbraita, indietreggiando.

Lo afferro per il bevero della giacchetta e pianto i miei occhi nei suoi.

«Mi hai preso per il culo, Gabri!» lo accuso, riuscendo addirittura a farmi salire le lacrime agli occhi. Attorno a noi, noto distrattamente che si è creato un capannello silenzioso di spettatori molto, molto curiosi ed interessati. Proprio come volevo io.

«No…»

«Non negarlo, hanno visto tutti come mi hai baciato ieri! È vero, io ho reagito male, ma poi mi hai scritto quegli sms e il mio cuore è esploso…»

Lo lascio andare e faccio un passo indietro, con le mani che mi tremano. Forse potrebbe sembrare che io stia tremando perché mi sento scossa e turbata, perfino delusa, ma in realtà sono incazzata come non mai.

«Smettila di dire cazzate!»

Come si permette? Ho un autocontrollo da far invidia, lo so. Ma come posso rovinare tutto? Ho fatto una silenziosa scommessa con me stessa e voi, cari lettori, sapete bene quanto io detesti perdere o rifiutare le scommesse.

«Oh, bene! Allora ti devo rinfrescare la memoria? “Berty, non sai da quanto tempo volevo baciarti… sei bellissima, non posso credere che le nostre labbra si siano sfiorate!” “Sei così dolce… non sai quanto vorrei fossi qui con me, per poterti accarezzare… mi fai impazzire…” Questi messaggi li hai dimenticati, eh? Oppure quando mi hai scritto “Bertina mia, non vedo l’ora di rivederti, domani a scuola… ma non ti assicurò che saprò resistere… ho una voglia matta di trascinarti nello sgabuzzino dei bidelli e…”»

«Basta, basta, ti prego, smettila subito! Sei una fottuta stronza, vaffanculo!» grida Gabri, per poi scappare all’interno della struttura.

Intorno a me, sento molte risatine divertite e molti sguardi sono puntati su di me.

Con un’espressione fintamente offesa e imbarazzata, mi volto e corro ad abbracciare Giaco.

Mentre tutti credono che io stia singhiozzando, scoppio a ridere contro la spalla del mio amico e lui fa lo stesso, cercando di non farsi sentire dagli altri.

«Ben gli sta, a quel coglione!» esclama Tita, raggiungendoci e unendosi all’abbraccio. «Grazie Berty, ti voglio così tanto bene!»

Mi scosto da Giaco e do le spalle al resto dei ragazzi presenti in cortile.

Sorrido ai miei amici.

«Vi sono piaciuti i messaggi erotici che mi sono inventata? Per questo devo ringraziare quei maiali dei miei genitori» dico, divertita.

«Sul serio si dicono queste cose mentre…?» fa Giaco, mentre la stessa domanda si dipinge sul voolto di Tita, la quale però non apre bocca.

«Questo è niente. La frase preferita della nostra dolce prof di matematica è “Fottimi, ti prego, ti scongiuro, ti supplico”! Non avete idea di quanto mi senta male, quando capita che sento queste porcherie. Sto cercando ancora la soluzione più adatta, ma quei due sembrano bestie in preda alle convulsioni…»

«Bleah, Berty! Che schifo!» esclama Tita, con una smorfia disgustata.

«Non ti invidio» commenta Giaco, poi scoppia a ridere e insieme cominciamo a scimmiottare mia madre nel momento dell’orgasmo.

Non siamo normali, lo so, ma una volta Giaco è venuto da me a studiare e mio padre era in casa per le ferie di Natale, così ha udito uno dei loro amplessi più clamorosi e da allora è mio complice e alleato.

Proprio in quel momento mi accorgo che Mauro, lì accanto, è rimasto impalato per tutto il tempo a fissarmi.

Sbatto le ciglia e gli sorrido, accattivante.

«Che c’è, Mauretto? Ne vuoi un po’ anche tu?»

«Fossi pazzo!»

«Piaciuta la mia performance, eh?»

«Sei un genio, Albertina. Ma dove trovi il coraggio?»

«Sono peggio di un maschio. Mi sento proprio bene» ammetto, sollevando il pollice della mano destra.

«Povero Gabri, non vorrei essere al suo posto.»

«Allora sta’ attento a come ti comporti con me, altrimenti potresti fare una brutta fine» lo minaccio, per poi strizzargli l’occhio.

Dopodiché prendo Giaco e Tita sottobraccio e mi avvio verso l’interno.

Sì, mi sento molto soddisfatta: Gabri ha proprio sbagliato a mettersi contro di me.

Forse, non ha ancora capito con chi ha a che fare.

Spero solo che Tita non se la prenda e non soffro per questo troglodita, altrimenti mi sentirò in colpa, nonostante io sappia di aver fatto la cosa giusta.

Io faccio SEMPRE la cosa giusta, cacchio.

Tita si riprenderà, tutto andrà a posto e Gabri sprofonderà nella sua stessa vergogna.

Io sono contenta, però…

C’è ancora qualcuno su cui vendicarmi.

Detesto chi mi umilia pubblicamente.

Vedrete presto cos’ho in mente.

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Capitolo 6
*** Sfide a suon di musica! ***


Sfide a suon di musica!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sento che questo periodo della mia vita si sta complicando sempre più e non so come spiegarmelo.

Sono una ragazza così tranquilla, pacifica, calma…

«Come un calcio nelle palle» dice sempre Giaco, ma il suo parere lascia il tempo che trova, perché lui è decisamente peggio di me e certamente non può giudicarmi.

Stronzetto, anziché sostenermi, amico snaturato!

Sta di fatto che Tita non ne vuole più sapere di Gabri, dice che è un idiota senza cervello.

E voi direte: non è quello che volevi, Berty?

Eh, no, lettori miei, no!

Insomma, okay, Gabri è davvero un cerebroleso, non avrebbe dovuto baciarmi, ma… Tita lo ama davvero, capisco che sia triste e io non la voglio vedere così.

Insomma, io sono disillusa e cinica, ma lei è diversa, non riesce a farsene una ragione.

Finge di odiarlo, però io so benissimo che gli muore ancora dietro, poveretta. Se potessi decidere io di chi farla innamorare, non sceglierei mai uno come Gabri. Lui non va bene. O forse, se dovessi scegliere io, la lascerei single a vita, proprio come la sottoscritta.

Ribadisco il concetto: io di queste smancerie, di sesso, di uomini e di stronzate simili non ne voglio sapere, figurarsi mettere su famiglia, partorire dei figli… roba da femminucce.

Dai, non vi offendete, donne lettrici! Io sono un mezzo-maschio, mi mancano solo gli attributi giusti, ma per il resto non c’è nulla di femminile in me.

Forse capisco più la mentalità maschile che quella femminile, che trovo spesso frivola e troppo sdolcinata, mielosa, rivoltante.

Poi ognuno è come è, quindi rispettatemi!

Scusate se mi sfogo, ma sono – in un certo senso – arrabbiata con Tita.

Lei potrebbe essere perfetta, potrebbe essere forte e conquistare il mondo, invece continua a pensare che l’amore vero esiste, che Gabri è quello giusto, che senza di lui non può vivere.

Quante idiozie!

E ha solo quindici anni!

Io credo di avere qualche problema, non capisco se sono cresciuta troppo in fretta o se devo ancora farlo, sta di fatto che di tutte queste sciocchezze non mi interessa assolutamente niente.

Ma passiamo ai fatti.

Siccome so di dover fare qualcosa per la mia amica, il pomeriggio, dopo essermi comportata da brava figlia e alunna e aver resistito all’impulso di piantare il righello in bocca a mia madre che blaterava algebra, esco a cercare Gabri.

Vado alla fermata dell’autobus e aspetto che arrivi. Non ho detto niente a Tita perché non è proprio il caso che assista a tutto quello che succederà.

Comunque, in autobus incontro un ragazzo che studia nella mia scuola e mi siedo vicino a lui. Parlaimo di mia madre che è anche la sua prof di matematica.

«Io, cioè… non voglio offenderti, ma… tua madre mi sta rendendo la vita impossibile…»

«Offendermi? Non potevi farmi complimento migliore.»

«Come sarebbe a dire?»

«La sopporto a malapena, quindi puoi dire quello che vuoi. Fino a poco fa mi ha assillato perché studiassi per recuperare il quattro che ho preso stamattina.»

«Scommetto che sei la prima a cui corregge i compiti» dice, con una smorfia.

«Che perspicace.»

«Io non ce la faccio più. Mi rompe le palle ogni giorno perché dice che potrei fare di più, che quest’anno dovrò fare l’esame e che non posso permettermi di non studiare. Non ti invidio, se vivessi con lei, non so cosa farei.»

«Allora mi aspetta un futuro tortuoso e senza gioia. Evviva.»

Lui ride e si alza, perché deve scendere.

Lo osservo e sospiro, scuotendo il capo. Miaa madre non è un mostro, non proprio, bisogna soltanto saperla prendere.

Dopo circa dieci minuti scendo anch’io e, prima di farlo, mi guardo attorno per vedere se c’è zio Carlos anche oggi, ma non è sempre festa, quindi…

Raggiungo in fretta la piazzetta dove siamo usciti ieri, è un posto frequentato da tutti i ragazzini della zona, nel mio paese non esiste un punto di ritrovo così pieno di adolescenti urlanti.

Individuo Gabri, il quale non è in compagnia di Giaco, ma di alcuni compagni di classe, tra cui l’immancabile Mauro aka Piattola.

Piattola mi vede e mi saluta con un ampio gesto del braccio e con un: «Ciao, Albertina! Siamo qui!» che attira l’attenzione di tutti i presenti, cosa che avrei volentieri evitato, ma vabbè, dettagli.

«Ciao» dico, raggiungendo il gruppetto.

«Oggi non c’è Tita?» domanda Piattola, alzandosi e piazzandosi di fronte a me.

Io indietreggio, chiedendomi pigramente se ha intenzione di farmi la respirazione bocca a bocca e se abbia un’idea di quanto mi infastidisca avere gente appiccicata che mi parla a due millimetri dalla faccia.

Non rispondo perché trovo che sia inutile, poi rivolgo uno sguardo a Gabriel, che intanto mi sta fissando con odio. Possibile che se la sia presa così tanto? Cosa si aspettava, che gli ficcassi la lingua in bocca di fronte a Tita? Mi vengono i brividi al sol pensiero, non scherziamo.

Non ho mai provato il famoso desiderio di baciare qualcuno, né tantomeno di avere una di quelle relazioni ammorbanti e oppressive che piacciono tanto a tutti ma delle quali tutti si lamentano in continuazione. La coerenza è sempre un male, purtroppo.

Insomma, mi ha fatto schifo quello che Gabri ha fatto ieri, non sono cose che fanno per me.

«Possiamo parlare? E, no, non ho intenzione di umiliarti, stamattina mi è bastato» gli dico, cercando di non farmi sentire dagli altri.

«Come no» risponde, strafottente.

«Dai, non rompere, Gabri

«No, non ho niente da dirti.»

«Io sì.»

«Non me ne frega un cazzo.»

«O ti alzi, o parlo qui di fronte a tutti. Non ho nessun problema.»

In realtà vorrei evitarlo, ma so che questo mio metodo funziona sempre. Gabri mi conosce e non è così stupido da farsi umiliare una seconda volta.

E, infatti, si alza e mi segue come un cane bastonato.

Ecco un altro motivo per cui non voglio un uomo nella mia vita: sono troppo deboli e poco intelligenti, si fanno mettere i piedi in testa da me e questo mi fa provare davvero pena nei loro confronti.

Camminiamo per un po’ in silenzio, lasciandoci alle spalle la piazzetta.

«Gabri, parliamo di Tita» esordisco, andando dritta al punto. Non ho tempo da perdere, vorrei tornare a casa per continuare a leggere ‘Innamorata di un angelo’ di Federica Bosco.

Potrà sembrarvi strano, ma solo nei libri sopporto le storie d’amore, al di fuori di essi mi danno il voltastomaco.

Passiamo di fronte ad un negozio di dischi – uno dei pochi superstiti, ormai – e io dimentico completamente Gabriel e tutto il resto.

Nella vetrina spicca un album dei Rage Against The Machine e io credo di star impazzendo dalla gioia.

Peccato che non ho neanche un centesimo appresso, li ho spesi tutti per il biglietto dell’autobus.

Impreco tra i denti e sento Gabriel dire qualcosa che, però, non capisco, presa come sono dalla mia attività di mosca attaccata al vetro.

VOGLIO QUELL’ALBUM.

Okay, domani torno a comprarlo, lo stanno praticamente regalando e io non ho la possibilità di portarmelo via.

Gabri si avvicina e mi guarda, poi segue il mio sguardo.

«Sono disposto a dimenticare tutto, ma a una condizione» dice, guardando dentro il negozio.

Io mi riscuoto improvvisamente dalla fase di trance, accantonando per un attimo il mio attuale dramma esistenziale, e gli lancio un’occhiata interrogativa.

«Devi provarci con il commesso e farti regalare il CD che stai mangiando con gli occhi» spiega lui, mentre sul suo viso si dipinge un gigno malefico.

«Non me lo stai chiedendo davvero, Gabriel» affermo, sbalordita.

Poi capisco, subito dopo, che mi ha teso una trappola.

Sa benissimo che non posso rifiutare una sfida e che adoro alla follia i Rage Against The Machine. Bastardo, prima o poi me la paga, questa volta l’ha combinata proprio grossa, lo stronzo. Sarà la buona volta che Tita si ricrederà sul suo conto.

Mentre penso a Tita, mi viene in mente un modo disperato per cercare di fargli cambiare idea.

«Se Tita lo sa, non penserà più a te, Gabri. L’hai già delusa ieri, comportandosi in quel modo.»

La sua espressione mostra segno di cedimento per un attimo, ma subito torna a sorridere, beffardo.

«Tita non pensa a me neanche per sbaglio, quindi non ho niente da perdere. Se farai quello che ti ho appena detto, rinuncerò all’allettante idea di vendicarmi per come mi hai trattato stamattina. Sei una stronza, Albertina, qualcuno prima o poi te lo farà capire.»

«La mia vita è molto più divertente della tua, grazie al fatto che sono stronza, come dici tu. Non hai il coraggio di provarci con Tita, però mi molesti davanti a tutti, che figura credi di aver fatto?»

«Racconterò a tutti che Albertina Annetta Bartolini è una codarda e non ha accettato una stupida sfida» prosegue, ignorando completamente quello che gli ho appena detto.

Okay, ha vinto, aveva già vinto in partenza, però io ci ho provato.

«Provaci e tua madre non ti riconoscerà per i prossimi dieci anni» sibilo tra i denti, poi entro a passo di marcia nel negozio di dischi.

Devo solo pensare che, se vincerò la sfida – anzi, no, quando vincerò la sfida –, avrò il CD dei RATM senza sborsare un centesimo, il che non è del tutto negativo. Posso farcela, non è niente di che.

Quando, però, mi ritrovo di fronte al bancone e individuo il commesso, sbianco come mai mi era successo prima d’ora. certo, non posso vedermi, però avverto chiaramente la sensazione del sangue che abbandona il mio viso e la pelle diventa gelida.

Lui si gira e vedo lo specchio della mia espressione sulla sua faccia raggrinzita.

«Tu!» grida lui.

«Lei!» grido io in contemporanea.

Il sosia di Carlos Ruiz Zafón mi guarda allibito, poi arrabbiato.

«Sei venuta a chiedere scusa, eh?»

Ora, voi ditemi: come posso provarci con LUI?

Solo ora capisco che avrei dovuto dare un’occhiata al soggetto in questione, prima di accettare la sfida di Gabri. Mi ha tirato proprio un brutto colpo, pezzo di merda sconsiderato! Lo odio, giuro che lo prendo a calci in culo appena esco!

Poi sento una risata alle mie spalle.

Il beota è pure entrato nel negozio per godersi appieno la scena.

«Ciao Gabriele, come sta tuo nonno?» chiede zio Carlos, non appena individua il bastardo.

Io lo ammazzo.

«Salve, mio nonno se la passa bene, si ricorda sempre di lei e di quando eravate militari» risponde Gabri con disinvoltura, ignorando il fatto che zio Carlos abbia sbagliato il suo nome.

«Salutamelo tanto, eh! Tu sì che sei un ragazzino bravo, non come questa screanzata! Ieri mi ha importunato in autobus, maleducata come una capra, anzi, le capre sono più a modo di certe teppiste, eh, ai miei tempi… Ma tu la conosci, eh, Gabrielino

«Siamo compagni di classe, purtroppo» risponde con tono desolato Gabri, scuotendo la testa.

«Evitala, evitala…» blatera zio Carlos, battendo le mani sul bancone.

«Sì, sì, senz’altro! Non c’è suo nipote?»

«Giorgio è andato all’ingrosso oggi, bravo ragazzo! Ce ne fossero di più come voi!» declama, con tono da comandante dell’esercito.

Qualcuno mi aiuti!

Gabri mi strizza l’occhio, come a voler dire “Accontentati di lui, la sfida è ancora aperta” e poi scompare tra gli scaffali. Sono sicura che rimarrà in ascolto per tutto il tempo, senza minimamente guardare i CD e senza riuscire più di tanto a trattenersi dal ridere. Ho voglia di insultarlo, però adesso devo risolvere questo guaio.

VOGLIO IL CD DEI RATM!

«Senta, zio Ca… ehm, signore… sì, sono venuta a scusarmi, il mio comportamento di ieri è stato oltraggioso nei suoi confronti, mi rincresce proprio di averla disturbata, può perdonarmi?» dico, trattenendo una risata. Quanto vorrei ancora una volta chiamarlo zio Carlos, è troppo divertente! Sperò che Zafón, da vecchio, non diventi come lui, intendo anche di carattere.

«I tuoi genitori non ti hanno insegnato a rispettare le persone più grandi?»

«Certo, ma sa com’è… io a volte sono sbadata, avevo litigato con il mio fidanzato e…»

«Addirittura, una bambina come te sta già pensando agli uomini?»

«Ma no, è solo un ragazzino che mi piace, non so neanche cosa voglia dire avere un fidanzato.»

Questa non è poi una bugia, in effetti. Questa farsa non è poi così farsa, alla fin fine.

«Eh, tu la siai lunga…»

«Senta, vorrei chiederle un favore, signore.»

«Sentiamo» borbotta.

«Vede, quel CD in vetrina… è il mio preferito, però… non ho abbastanza soldi per comprarlo…»

«Io non te lo regalo di certo, vai a lavorare e poi torna quando avrai i soldi!»

«Ma…»

«Sparisci!»

«Ciao Gabri, ciao nonno… insomma, si trattano così le clienti?»

Una voce maschile alle mie spalle mi fa sobbalzare. Il ragazzo che ha appena rimproverato zio Carlos si fa avanti e appogglia uno scatolone sul bancone.

«Nipote! Non ti permetto di mettere in dubbio i miei metodi in fatto di vendite e di educazione!»

«Su, non essere così duro. Ricordati che ora il negozio è mio, anche se tu l’hai gestito egregiamente per quarant’anni. Ti ho chiesto soltanto di sostituirmi, non costringermi a chiederlo a zio Angelo la prossima volta.»

«Dio mi perdoni se dico che preferirei vederlo morto, quel buono a nulla di tuo zio!» strilla il vecchio, mettendosi le mani in testa.

Mi viene da ridere un’altra volta, ma evito perché, ora che è arrivato il famoso nipote Giorgio, devo giocarmi il tutto e per tutto per avere il CD dei RATM.

«Sì, infatti… io dicevo a tuo nonno che vorrei tanto il CD dei Rage Against The Machine ma non ho neanche un centesimo, mi dispiace tanto non poterlo comprare. Potrei portarti i soldi domani, ti va bene? Non vorrei rischiare di non trovarlo più…»

«Tranquilla, davvero. Puoi prenderlo, è l’ultima copia ed è in vetrina da mesi e mesi, nessuno lo compra perché è proprio vecchio. Se non fosse che ce l’ho già, lo comprerei io stesso» dice Giorgio, regalandomi un mega sorriso che, in un’altra occasione, avrei criticato a non finire, definendolo mellifluo e fuori luogo.

Ma ora sono troppo felice per pensare a questo, mi verrebbe quasi voglia di saltargli addosso.

Quando esco dal negozio, Gabri non è molto contento, perché ho vinto la scommessa, in un modo o nell’altro.

Mi avvio alla fermata dell’autobus stringendo tra le mani l’omonimo album dei RATM e mi rendo conto che la serata non poteva andare meglio.

Gabri mi dice: «Non mi vendicherò, ottimo lavoro».

«Grazie» rispondo, salendo i gradini dell’autobus. Prima che le porte si richiudano, mi affaccio e grido: «Tita ti pensa anche troppo, e non per sbaglio! Datti una mossa!» e me ne vado a sedermi, sfinita ma soddisfatta.

Certo è che non entrerò più in quel negozio, sostenere una conversazione con zio Carlos è sfiancante.

E poi non vorrei che Giorgio ci stesse provando con me, per carità!

Non ne voglio sapere.

E quando torno a casa e mi sparo i RATM a palla, non penso più a niente e sento che la giornata è stata stupenda, punto e basta.

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Capitolo 7
*** Un invito speciale, colmo di aspettative... ***


Un invito speciale, colmo di aspettative…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E dunque, dopo aver risolto tutto (o quasi) con Gabri, mi ritrovo ad affrontare un’altra giornata di scuola.

L’ennesima.

Non c’è niente di bello tra queste quattro mura, anche se può sembrare una di quelle frasette scontate.

Insomma, qui viene il bello.

Solita solfa e solite ore passate a distrarmi con Tita e Giaco.

Però io non sono contenta.

Vedo quei due cretini che si lanciano occhiate furtive, mentre Tita ha messo su un’espressione perennemente imbronciata e Gabri non sa proprio come comportarsi.

Certo che quell’idiota l’ha combinata grossa!

Durante l’intervallo, Giaco saltella come una cavalletta e mi si piazza di fronte e mi rivolge un’occhiata maliziosa, furbetta, che gli conferisce un’aria ancora meno attraente.

Mi piacerebbe che trovasse una ragazza, ma temo che per lui sarà ardua, se non migliora almeno un po’. In tutto, non solo fisicamente.

«Berty, questa non te la puoi perdere!»

«Di che parli?»

«Domani c’è il compleanno di Mauro, ha organizzato una festa imperiale!»

«Non sono stata invitata…» gli faccio notare, lanciandogli un’occhiata interrogativa con la quale intendevo dire: “E quindi? Vuole pure il regalo?”

«Ti sbagli!»

Non capisco.

Ma ecco che, poco dopo, arriva Mauro con un sorrisone.

Lui, a differenza di Giaco, non ha nessun problema a trovare una ragazza, ne ha sempre un sacco che gli girano intorno.

«Ciao, Berty. Sono venuto a dirti una cosa importante.»

Importantissima, proprio.

«Parli della tua imperiale festa di compleanno?» faccio, tanto per dargli l’illusione di essere importante.

E infatti…

«Oh, ti sei ricordata? Wow, mi sento onorato, mi hai fatto emozionare!» esclama, con gli occhi che brillano e un’espressione da pesce lesso stamapata in faccia, quell’espressione che farebbe perdere la testa a qualunque ragazza.

Ma non a me. Mi fa quasi pena.

«No, me l’ha appena detto lui» ribatto, indicando Giaco e rivolgendo a Mauro un sorriso dolcissimo, il più dolce – e crudele – che mi viene.

Sul viso bello e pulito di Mauro passa una fugace ombra di delusione, ma lui cerca di nasconderla dietro una scrollata di spalle e un sorriso tirato.

Non può ingannarmi, quelli come lui li capisco al volo.

E ho appena demolito la sua piramide di orgoglio super pompato appena cinque secondi fa.

«E ci vieni?» mi chiede poi, leggermente in imbarazzo.

«Vedremo, non lo so ancora» butto lì, sapendo già che andrò alla sua stupida festa, ma solo per due fondamentali ragioni:

1)      Giaco mi ha praticamente chiesto di andarci, anche se l’arrivo di Mauro l’ha fermato

2)      Ci sarà SICURAMENTE sia Gabri che Tita, perciò una festa è il luogo perfetto per cercare di combinare qualcosa per  quei due

Lui annuisce e batte in ritirata.

Mauro, con me, ne ha da imparare, decisamente.

«Ovviamente verrai» afferma Giaco, battendomi sulla spalla.

E la sua non è una domanda, bensì un’affermazione.

Ne sa una più del diavolo, il mio nanetto da giardino.

 

Il problema si pone su un altro fronte, purtroppo.

Devo fare i conti con quella brava e dolce madre che, all’uscita, mi preleva come se volesse rapirmi, impedendomi di rientrare a piedi.

Quando si dice: genitori iperprotettivi nei momenti meno opportuni.

Secondo Giaco, non riuscirò a convincere la prof di matematica a lasciarmi andare alla festa, visti i precedenti.

Ma io, al solito, l’ho presa male. Molto male.

Se Mauro lascia che chiunque ferisca il suo orgoglio, be’, io non sono Mauro.

E dunque, la convincerò, a costo di passare tutto il tempo che mi separa dall’inizio della festa a pregarla in ginocchio e a lustrare la casa come Cenerentola.

Questo, per chi ha un orgoglio come il mio, potrebbe sembrare un discorso contorto e paradossale, ma preferisco vincere la scommessa che mi ha lanciato Giaco, anche se questo significherà fare dei piccoli/grandi sacrifici – ovvero, prostrarmi a mia madre come una serva della gleba.

Ma torniamo a noi.

«Mamma?»

«Sì, Albertina?»

Passo sopra al fatto che sia l’unica (o quasi) a chiamarmi in quel modo, visto che per tutti sono Berty. Ma lei queste abbreviazioni non le ha mai sopportate, o almeno, non nei confronti di sua figlia.

Con le sue amiche cinguettanti, be’… con loro è tutta un’altra storia.

«Senti, domani Mauro compie gli anni…» attacco.

«Mauro? Intendi il tuo compagno, Marzi?»

«Sì, Mauro Marzi, mamma.»

«Ah, auguri!»

Cominciamo male.

«Sì, certo… ma, organizza una festa, domani sera… mi ha invitato» dico, rimanendo poi col fiato sospeso, in attesa della sua reazione.

Ho scelto questo momento perché, mentre mia madre guida, certe volte risponde in maniera distratta e accetta cose che, in altri momenti, non si sognerebbe neanche di prendere in considerazione. E, quando riesco a strapparle un sì, non le permetto di tornare indietro.

«Mmh

«Posso andarci?»

Maria Vittoria, d’un tratto, pesta il piede sul freno, eseguendo una manovra impossibile da descrivere a parole, in modo da fermarsi poco prima di andare a schiantarsi contro il muro di un’abitazione.

Si volta nella mia direzione e mi guarda, con un’espressione imperscrutabile.

«Mamma… stai calma, okay?»

«Cosa hai detto? Ripeti» dice, con tono basso, controllato (o, almeno, così sembra). Se non la conoscessi, direi sicuramente che non potrebbe essere più tranquilla di così. Ma vista la brusca frenata di poco fa, non sono certa di tornare sana e salva a casa.

«A cosa ti riferisci?»

«Cosa mi stavi dicendo di Marzi?» domanda, addolcendo un po’ il tono.

La quiete prima della tempesta.

«Ma no, niente, sai… dicevo solo che mi hanno invitato ma… non intendo andarci, scherzi? Non me ne frega niente!» esclamo, sarcastica.

Ma mia madre il sarcasmo non lo pratica, ahimè, perciò tira un sospiro di sollievo e sorride, rimettendo in moto. Poi afferma: «Certe volte, Albertina, sono proprio fiera di te».

E io mi sento un’idiota perché sto perdendo la scommessa e il tempo stringe.

 

Non gliene parlo più per il resto della giornata e neanche nei pochi momenti che trascorriamo in macchina, mentre andiamo a scuola.

Cerco di pensare a come prenderla e i miei amici se la ridono, sicuri che non riuscirò a farcela, stavolta.

Ma io non perderò, no, è diventato più importante vincere quest’accidenti di scommessa che andare a quella stupida festa.

Che poi, in effetti, ci sto ancora pensando: Tita e Gabri devono avvicinarsi, quindi io non posso mancare. Se lasciassi tutto in mano a Giaco, sarebbe la rovina della storia d’amore più sfigata del globo terrestre.

Così, dopo pranzo, vado da mamma, che sta caricando la lavastoviglie e le do una mano, tanto per guadagnare tempo e rompere il ghiaccio.

«Oggi ho visto Marzi, in corridoio.»

Questa non me l’aspettavo, tuttavia rimango impassibile, devo dare l’impressione che non me ne importi niente.

«Mmh» mugugno, afferrando i bicchieri da sopra il tavolo.

«Mi ha pregato di lasciarti andare alla sua festa di compleanno.»

Colpo di scena numero due: perché diamine Mauro ha fatto una simile stupidaggine?

Opzione 1: vuole somministrarmi qualche sfida mozzafiato di fronte a tutti;

Opzione 2: è un idiota e cercava di rabbonire la prof di matematica (ma si vede che non la conoscere, ecco spiegata la sua idiozia, che peraltro prescinde dalla suddetta opzione);

Opzione 3: Vuole davvero che io ci sia.

E perché vuole che io ci sia?

Siamo amici? No, purtroppo siamo in classe insieme.

Allora, che vuole da me?

Un pensiero orrendo e spaventoso cerca di farsi largo tra questi pensieri, ma io lo scaccio con forza.

Sono sorpresa, ma fingo ancora indifferenza.

«Ah, pensa te…»

«Ma tu non vuoi andare, vero?»

«No, no, figurati!» esclamo, facendo spallucce.

«A chi vuoi darla a bere, Albertina?»

Touché.

«Io? Ma no, è vero, poi figurati, io e Mauro Marzi non siamo neanche amici!»

Almeno questo è uno straccio di verità.

«Scarlatti e Zunino ci vanno?»

Per un attimo, rimango perplessa, poi mi rendo conto che mia madre, ancora una volta, ha chiamato per cognome i miei amici, Giuditta Scarlatti e Giacomo Zunino.

Tita e Giaco.

«Sì, sì, anche Gabri… cioè, Mela» rispondo, dopo alcuni secondi di riflessione.

Non sono proprio abituata ad abbinare i nomi e cognomi delle persone che frequento. Se non fosse per l’appello fatto in classe, probabilmente non saprei neanche come sono registrati all’anagrafe. Cose superflue, del resto.

Ma torniamo a Maria Vittoria, ovvero mia madre, che annuisce con aria seria, neanche stesse decidendo se concedere o meno l’eutanasia ad un malato terminale.

Mi fa quasi paura.

«Se vuoi andare, vai, però devi essere a casa alle sette.»

La guardo, stralunata. Sta scherzando.

«Ehm, mamma?»

«Che c’è ancora?» sbuffa, sedendosi sul divano e accendendo il televisore.

«La festa comincia alle otto, mi viene difficile rientrare un’ora prima» spiego.

«Alle dieci.»

E sia.

In due ore non riuscirò a fare granché, però è meglio di niente.

E, in ogni caso, ho vinto la scommessa.

Esco dalla cucina, soddisfatta, e mi preparo per andare a comprare il regalo per Mauro insieme a Tita, Giaco e Gabri.

 

Andiamo in un centro commerciale e decidiamo di girare un po’, perché non abbiamo proprio idea di cosa regalare a quel montato di Mauro.

«Che ne dite di una scatola di preservativi?» se ne esce Giaco, trotterellandomi accanto.

«Io proporrei un vibratore» interviene Gabri, per poi cominciare a sghignazzare.

«Ragazzi!» squittisce Tita, sperando di non attirare l’attenzione di qualcuno.

Pensa sempre troppo a come potrebbe essere giudicata, mi spiace tanto che lei viva con questo cruccio.

«Ho un’idea migliore» strillo, sorridendo. «Regaliamogli un completino sadomaso.»

«Per carità!» si scandalizza la mia amica, tappandosi le orecchie.

«GENIALE!» ruggiscono gli altri due, battendomi sulla spalla.

Un’ora dopo, siamo seduti al tavolino di un bar e abbiamo comprato un libro altamente tematico: “Come pompare il proprio ego fino alle stelle”.

Sono certa che gli piacerà!

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Capitolo 8
*** La festa di Mauro! ***


La festa di Mauro!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Arriviamo alla festa di Mauro che sono quasi le otto e un quarto.

Sempre in ritardo, noi.

«Colpa di Giaco» esordisce Tita, non appena Mauro apre la porta e ci rivolge un’occhiataccia.

Entriamo in casa sua e gli consegnamo subito il regalo.

«Siete grandi! Mamma, che bel regalo!» grida, avvolgendoci tutti in un abbraccio impossibile. Ci ritroviamo attorcigliati in cinque: io, Tita, Giaco, Gabri e Mauro.

Tita è la prima a divincolarsi, imbarazzatissima per la vicinanza di Gabri. Irrecuperabile.

Devo fare qualcosa, ho deciso.

Il festeggiato ci accompagna nello scantinato in cui ha organizzato la festa e noto che c’è un bel po’ di gente, tra cui molti delle nostre compagne di classe.

Perfetto.

«Tita, mi accompagni in bagno?» le chiedo.

«Adesso… subito?»

«No, tra due anni! Certo!» esclamo, trascinandola via.

Chiediamo indicazioni a Mauro e ci fiondiamo su per le scale.

«Senti, vai, io mi sono dimenticata le salviette!» dico, all’improvviso.

Mi è venuta un’idea, devo metterla subito in pratica.

«Dai, ti accompagno giù e torniamo insieme» propone.

«Ma no, figurati! Dai, vai, ti raggiungo subito» la esorto, spingendola su e tornando nello scantinato.

Mi dirigo immediatamente da Giaco, non vedendo Gabri nei paraggi.

«Oh Giaco, ma Gabri dov’è finito?»

«Non lo so proprio. A che ti serve?» domanda, fissandomi attentamente. «Cos’hai in mente? E dove hai lasciato Tita

Sto per rispondergli, quando una tizia carina ma troppo montata che credo sia al primo anno, si avvicina a noi e sorride a Giaco.

Oh, no. Le piace il mio nanetto diabolico?!

«Ciao» esordisce, facendo gli occhi dolci a Giaco. Lui sembra non capire niente, rimane impassibile e la fissa.

«Ciao… Antonietta?» intervengo, per cercare di rompere il ghiaccio.

«Marianna» abbaia lei, fissandomi con un’occhiata che lascia poco spazio all’interpretazione. Vuole che me ne vada.

Sarei felice di accontentarla, ma non permetto a nessuno di trattarmi in quel modo.

«Marianna… mmh, no, non mi dice niente. Si vede che sei così insignificante che non ti fai ricordare.» Detto questo, le scocco un sorriso e me ne vado, partendo alla ricerca di Gabri.

Chi si crede di essere questa gallina?

Se deve provarci con Giaco, lo faccia pure: non sarò di certo io a fermarla, per carità. Magari è pure la volta buona.

Però non sopporto che mi si tratti con sufficienza, quella ragazzina ha sbagliato persona. Si vede che non sa chi sono.

Mi viene in mente Tita e affretto il passo, girando per i due locali che compongono lo scantinato.

Finalmente, trovo Gabri che parla con un tipo di nome Ambrogio o qualcosa del genere.

«Gabri!» esclamo, raggiungendolo e fingendomi trafelata. Devo convincerlo fin da subito, altrimento anche questo tentativo risulterà inutile.

«Che succede, Berty

«Si tratta di Tita! Non so che fine abbia fatto, lei… credo che stia poco bene, è andata in bagno e non rientra più! Aiutami, ti prego, vieni con me!»

Spero di essere abbastanza convincente, ma Gabri reagisce non appena sente il nome della mia amica e dubito che abbia ascoltato il resto della frase.

«Andiamo» dice Gabri.

E mi trascina letteralmente verso le scale.

Saliamo i gradini due alla volta e io, alle spalle di Gabri, faccio di tutto per non ridacchiare, compiaciuta. Sono contenta che lui non riesca a nascondere quanto ci tiene a lei.

Mi divincolo dalla sua stretta e lo seguo, poi noto Tita che esce dal bagno e si guarda intorno.

«Tita! Come stai? Che è successo?» la travolge Gabri, afferrandola per i polsi.

Lei lo fissa con espressione stralunata.

Io, prontamente, mi dileguo dietro un pilastro e mi schiaccio contro la parete, aspettando che qualcosa accada.

Questi due riusciranno a combinare qualcosa?

«Berty ha detto che… Berty?» mi chiama lui.

Io rimango immobile e trattengo il respiro.

«Che sta succedendo?» si informa Tita.

La immagino arrossire e fissare i polsi che Gabri le stringe con preoccupazione.

Mi sento quasi emozionata quanto lei.

Ma quasi, eh!

«Non lo so… Berty era qui, poi si è volatilizzata!»

«Mi ha detto che aveva dimenticato le salviette e che mi avrebbe raggiunto subito in bagno!»

«E a me ha detto che non stavi bene e che voleva che venissimo a controllare!»

Ecco, mi sono un po’ data la zappa sui piedi, però un giorno questi due mi ringrazieranno.

Li immagino che si fissano con un’espressione confusa, poi di colpo capiscono. Conoscendoli, si sentono in un mare di imbarazzo, ma ora non si possono più evitare.

«Ci ha fregati» commenta Gabri.

«Già. Ehm… torniamo giù?» propone lei. So che vorrebbe scappare, probabilmente sta per farlo. Gabri, ti prego, non fare il coglione. Questa scommessa l’ho fatta con me stessa, non lo sa neanche Giaco cos’ho in mente, anche se lui a volte è come se mi leggesse nel pernsiero.

Chissà come gli starà andando con quella tipa del primo anno? Marina? Già, è proprio insignificante, non ricordo già più il suo nome.

Sento una risata provenire dalle scale e sbianco. No, nessuno può interrompere il momento idilliaco tra Gabri e Tita – sempre che di questo si tratti. Dal mio angolo di spionaggio, non riesco a capire cosa sta succedendo. Maledizione, chi cazzo sta salendo adesso a rompere le palle?

«Aspetta.»

È stato Gabri a parlare, ha ordinato a Tita di aspettare. E lei DEVE aspettare, per dio!

E io devo evitare che qualcuno li interrompa.

Così, mi appiattisco contro la parete e comincio a strisciare verso le scale; spero proprio che quei due – e che nessuno – si accorga di quello che sto facendo, mi sento una perfetta idiota, ma non ho alternative.

Quando sto per arrivare, sento le risate farsi più vicine. Spero che Gabri e Tita non si siano accorti che sta arrivando qualcuno. Se credessi in dio, pregherei con tutta me stessa. Ma, dal momento che in questa vita bisogna arrangiarsi, mi tuffo di getto giù dalle scale e travolgo chiunque avesse intenzione di salire.

Mi ritrovo tra le braccia di un ragazzo che mi fissa con aria perplessa, mentre un gruppetto di ragazze, dietro di lui, si fermano di botto e smettono di ridere.

«Toh, Albertina e Mauro: la nuova coppia dell’anno!» gracchia una di loro, ridacchiando e sghignazzando come un’oca giuliva.

Sollevo lo sguardo e incrocio gli occhi scuri e curiosi di Mauro. Per poco non mi viene da vomitare.

«Ah, lasciami!» esclamo, saltando indietro e cadendo con il culo per terra. Le figure di merda non si contano oggi, a quanto vedo.

«Tutto bene, Berty?» mi chiede Mauro, tendendomi la mano per aiutarmi a rialzarmi. Devo prendere tempo, tra Tita e Gabri deve scappare almeno un bacio, diamine.

«No, che non va tutto bene! Voi, ochette, perché non tornate nel laghetto, eh? Aria, aria! Ho bisogno di parlare con il mio nuovo ragazzo!» ordino, rivolta al gruppetto di ragazze, le quali si scambiano occhiate interrogative e fanno per salire le scale. «No, tornate alla festa! Su non ci fate niente!» salto su, sbarrando loro la strada.

Quelle mi guardano male, poi fanno dietrofront e io torno a sedermi, lanciando occhiate alle mie spalle. Dio, se esisti, fa’ che quei due si stiano accoppiando in bagno e in santa pace!

«Scusa, Berty… da quando io e te stiamo insieme?» domanda Mauro, accovacciandosi di fronte a me.

«Relazione lampo. È nata esattamente un minuto fa e si conclude esattamente ora.»

«Però non era una cattiva idea» mormora, afferrandomi una mano.

Oh, madonna, ma che gli passa per la testa? Perché deve provarci per forza con chiunque? Ma dov’è Giaco? E perché Gabri e Tita ci mettono tanto? Mi viene voglia di richiamare le oche giulive. Quando penso di star risolvendo un problema, se ne crea subito un altro.

Dalla scala si sente una canzone romantica, qualcosa che dovrebbe invogliare le eventuali coppie presenti alla festa a gettarsi in pista. Certo, come no.

«Oh, sì che lo è. Su, lasciami, torniamo giù!»

«Che fretta c’è, Albertina? Perché devi sempre essere così acida? Ammettilo, ti piaccio. Lo sanno tutti a scuola, ormai.»

Cerco di trattenere un conato di vomito, ci provo davvero. E pensare che non ho neanche bevuto, dannazione! Perché oggi sta succedendo tutto a me?

Spero che tutti questi sacrifici stiano servendo a qualcosa.

E poi: possibile che ogni volta che un ragazzo ci prova con me mi debba venire da vomitare?

Evidentemente…

Rimetto ciò che ho mangiato al bar, quel pomeriggio, dopo aver acquistato quello stupido libro per quell’altrettanto stupido di Mauro che, intanto, si è spostato e mi sostiene i capelli mentre insudicio tutta la sua scala con i miei succhi gastrici.

Il che – mi ritrovo a pensare – potrebbe giocare a mio favore, perché potrebbe impedire a Gabri e Tita di passare e, quindi, di lasciarsi. Oh, che romantico!

No, forse romantico no, ma fa lo stesso.

Sta di fatto che mi viene voglia di mettermi due dita in gola, per prolungare quell’impedimento non proprio romantico ma di sicuro efficace.

«Come stai? Hai bevuto?» sussurra Mauro al mio orecchio, senza neanche preoccuparsi di quanto questa scena faccia ribrezzo.

Scuoto la testa, respirando a fatica. Tutte quelle attenzioni contribuiscono alla nausea che, ancora, mi scombussola lo stomaco. Perché non mi lascia in pace e se ne va?

«Oh, cazzo, Albertina!» strilla una voce alle mie spalle. Poco dopo, Gabri mi si materializza accanto e mi aiuta a sollevarmi. Tita si precipita dall’altro lato e insieme mi trascinano fino al bagno.

«Gabri, la aiuto io. Vai pure» dice Tita, scostandomi i capelli dal viso. Temo seriamente di avere seri problemi, ho un po’ paura della reazione che ho appena avuto.

«Allora, che è successo?» mi chiede Tita, aiutandomi a sciacquarmi.

«Mauro ci provava con me e lo sai come reagisco io a queste cose» spiego.

«Santo cielo! Si sono messi tutti d’accordo oggi?»

«Cosa intendi?»

«Be’…» Tita arrossisce e io mi devo trattenere per non esultare. Penso di aver già capito cosa vuole dirmi. «Anche Gabri ci ha provato… con me.»

«COOOOOOSA?» strillo, saltandole addosso e stritolandola. «Oh, finalmente! Eh che cazzo! Non l’hai rifiutato, vero?»

«Come avrei potuto? Sai che mi piace tantissimo, mi fa proprio impazzire. Oh, Berty! L’amore è una cosa indescrivibilmente magica!»

Okay, non esageriamo, se continua così, rischio di vomitare di nuovo.

«Sì, certo, ci credo. Almeno, per te dev’esserlo! Meno male, i miei sforzi sono serviti a qualcosa. Non sei arrabbiata?»

«Ma no, alla fine hai fatto bene.»

«Sì, mi è successo di tutto, però diciamo che ne è valsa la pena. Tu e Gabri siete due rincoglioniti, fortunatamente ci sono io a risolvere tutto! Vi siete accoppiati in questo bagno? No, perché se è così, scusa, ma io esco! Senza offesa, eh!»

«Ma che dici, su, Berty! Ferma lì! Lui mi ha baciato, tutto qui. È stato il mio primo bacio, mamma che emozione, e che imbarazzo! Non sapevo cosa fare, però… l’ho abbracciato, lui è stato molto dolce! Oh quanto mi piace!»

Tita sorride come non ha mai sorriso in vita sua. sì, è vero, a volte – anzi, quasi sempre – sono cinica e acida come uno yogurt andato a male da tre mesi, però sono sempre contenta quando vedo le persone che amo star bene. qualunque sia il motivo.

Dopo essermi data una sistemata, la abbraccio forte, non pensavo che sarebbe successo davvero, anche se ci ho sperato moltissimo.

«Sono davvero felice per te.»

Quando usciamo dal bagno, Gabri è lì che ci aspetta.

Lo guardo negli occhi e vedo che qualcosa è cambiato anche nel suo sguardo.

«Se le fai del male, ti ammazzo. Chiaro?» lo ammonisco, per poi avviarmi giù per le scale.

Sento, alle mie spalle, le loro risate e anche io sorrido.

Forse la felicità non esiste, ma chi può dirlo?

Le scale sono state accuratamente pulite e io riesco a scendere senza problemi. Recupero Giaco, che stava accuratamente sbaciucchiando la tizia del primo anno – Mariella, sì, dev’essere questo il nome – e saluto Mauro con un cenno, prima di andarmene con i miei amici.

«Insomma, voi due state insieme quindi?» chiede Giaco, una volta giunti in strada, osservando Gabri e Tita che si tengono timidamente per mano.

Quanto sono felice!

«A quanto pare» risponde lei, sorridendo al suo nuovo ragazzo.

Be’, alla fin fine questa cavolo di festa ha portato qualcosa di buono, anche se chi ci ha rimesso sono stata io.

Le mie figuracce rimarranno nella storia, credo. E meno male che sono solo io, Albertina Annetta Bartolini, che non se la prende per niente e se ne fotte di tutto e tutti.

Quando torno a casa, sono davvero contenta, nonostante tutto.

Ho vinto un’altra scommessa.

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Capitolo 9
*** Checco?! ***


Checco?!










Non è che il compleanno di Mauro abbia migliorato le cose, anzi.

Certo, per Tita e Gabri è tutto una favola, ma si sa, loro sono rammolliti innamorati, cosa ci si poteva aspettare?

Be', anche se sono cinica, voglio che tra loro due duri, anche se non posso perdonare Gabriel per avermi baciato. Che schifo, ho i brividi al solo pensiero.

Cosa possono trovare, comunque, di attraente in me? Niente, certo.

Mi vesto e mi comporto come un appartenente al genere maschile, non so come potrei suscitare pensieri scabrosi e seghe di fronte ad una mia foto...

Queste porcherie mi fanno sentire sporca, anche se non c'entro niente con certe frivolezze.

Quando rientro a scuola, lunedì, so già che mi romperanno le palle.

«Albertina, stai bene?»

«Ehi, Berty! Avevi bevuto troppo alla festa?»

«Mauro è una schiappa a letto, eh?»

«Non capisco come tu possa aver vomitato... chinque pagherebbe per guadagnare le avances di un ragazzo come lui!»

«Non sei gelosa di Giuditta e Gabriel?»

Alt! Quest'ultima frase la pronuncia una delle galline della mia classe, che osserva con sguardo malizioso le dita intrecciate dei miei amici. Questo è veramente troppo.

«No, tesoro» ribatto, sfoderando un dolce sorriso innocente, «sono gelosa di te.»

Lei mi guarda stranita e se ne torna al suo posto, scuotendo il capo.

È talmente stupida che non perdo neanche tempo a spiegarle il concetto.

«State tranquilli» dico a Tita e Gabri, che si scambiano occhiate preoccupate. Sorrido e aggiungo: «Non sono gelosa».

Poi esco dall'aula.

La ricreazione è cominciata da poco e incontro mia madre di fronte ai distributori automatici.

«Non vorrai prenderti un caffè, Albertina» mi rimprovera, pigiando convulsamente sul tastierino numerico.

«Mi perseguiti?»

«Certo che no! Penso solo al tuo bene» ribatte, voltandosi a guardarmi. Con quel completo austero e serioso, sembra quasi credibile come severa e rispettabile professoressa di matematica.

Sto per dire qualcosa, quando accade un fatto inspiegabilmente meraviglioso.

«Scusi, prof, si sposta? Devo prendermi un caffè. E comunque lasci in pace gli studenti, ha sempre da ridire su tutto, insomma!»

Un ragazzo dall'aria simpatica e i capelli arruffati si palesa accanto a mia madre. Sembra essere dell'ultimo anno, ma non mi sembra di averlo mai visto in giro.

L'espressione della mia genitrice, mentre lo fissa, muta rapidamente. Se prima era sorpresa, ora ho l'impressione che sia felice... felice?

Un momento, il mondo ha cambiato direzione?

Se qualcuno si rivolge a lei in quel modo, di solito sclera come pochi esseri umani sono capaci di fare e comincia a sbavare come un cane rabbioso, con tanti di occhi iniettati di sangue. Okay, ammetto che quest'immagine è un po' stomachevole, ma non trovo altro modo per descrivere i deliri di mia madre in preda all'ira.

In questo caso, invece, sembra un cagnolino bastonato e devoto al padrone. Sono allibita.

«Checco? Ah!!!!!» strilla, rischiando di rovesciare il decaffeinato che ha appena estratto dalla macchinetta. Afferro giusto in tempo il suo bicchiere, poi osservo inorridita la scena di lei che si getta come uno squalo al collo di quel giovane e aitante Checco.

Checco?!

Lo stomaco mi si contorce e sarei tentata di buttar giù quella brodaglia sine caffeina con bicchiere a corredo.

«Ti sei ricordato di noi, giovanotto? Ah, che bello vederti!» continua a squittire Maria Vittoria, stritolando il malcapitato.

Qualcuno mi prenda a schiaffi, ne ho bisogno.

«Prof, non le sembra un po' eccessivo? Potrebbe perdere la sua reputazione per colpa mia, non sia mai» commenta lui, con tono altamente sarcastico. Non ho mai visto nessuno trattare così mia madre, eppure lei sembra non farci caso.

«Chi se ne fotte della reputazione?» risponde, allegramente.

Io, rendendomi conto che sono lì come un palo nel deserto, mi schiarisco rumorosamente la voce.

«Mamma?»

il tizio – tale Checco – mi rivolge un'occhiata strana, come se stesse guardando un alieno appena sbarcato da Marte. Ottimo.

«Lei è sua figlia?» domanda, rivolgendosi a mia madre, mentre lei si degna di lasciarlo andare e mi strappa il bicchiere rovente dalle mani. Per lo shock che provo, sono diventata insensibile al dolore della plastica che si stava squagliando sulle mie dita.

Sentendomi improvvisamente più sicura e tirata in causa, sollevo il mento e lo squadro con il mio solito disinteresse, poi intervengo: «No, Frankestein, sono una senzatetto che cerca di farsi adottare da una professoressa squilibrata».

Checco spalanca i suoi piccoli occhi azzurri e scoppia a ridere. A ridere di gusto, come un idiota e come...

Come, probabilmente, riderei io ad una battuta del genere.

Mi sento improvvisamente allarmata, come se qualcosa non andasse. Non credo che nel mondo possa esistere qualcuno capace di ridere ad una delle mie battute infelici, quelle fatte apposta per ferire gli altri. In quel momento stavo cercando di ferire mia madre, che mi stava deliberatamente ignorando e mi aveva – per giunta – usato come porta bicchieri personalizzato. Poi, volevo anche umiliare quel troglodita con le sopracciglia che sembravano spazzolini da denti e l'espressione rapace, mentre se la spassava alle mie spalle con Maria Vittoria alias mia madre.

Okay, forse sto esagerando, però io sono fatta così, non posso cambiare per nessuna ragione al mondo, specialmente quando voglio che qualcuno mi stia alla larga. Portare fuori il peggio di se stessi è un'arte che bisogna imparare e non metterla mai da parte, se capite cosa intendo.

Insomma, Checco Spazzolino sta ancora ridendo, quando io scrollo le spalle e mi volto verso la macchinetta, irritata. Ovviamente non lo do a vedere, figuriamoci. Mai dare soddisfazioni a tali esemplari, specialmente se se l'intendono con la propria genitrice fuori di testa.

«Sveglia sua figlia, prof. Quanti anni ha? Le assomiglia.»

Questo è il colmo.

Io assomiglio a lei? Sono sempre più convinta di essere stata adottata/trovata sotto un cavolo/portata dalla cicogna/abbandonata dentro un cassonetto, ma evito di fare commenti. Oggi mi sto controllando bene, sono abbastanza fiera di me.

«Sai, Albertina» strilla mia madre, appropriandosi con un gesto rapido delle monete che sto per introdurre nel distributore (gazza ladra senza scrupoli!), «Checco è stato uno dei miei studenti migliori.»

«Peggiori, prof, vorrà dire!»

Qualcosa non quadra.

«È stato?» chiedo, stranita, poi sbuffo e incenerisco Maria Vittoria con lo sguardo. Ha deciso che non devo bere il caffè e non demorde neanche di fronte a quell'estraneo. Devo inventarmi qualcosa e subito.

«Oh sì, ormai si è diplomato. L'anno scorso.»

«Ma pensa» borbotto.

«Su, un po' di entusiasmo, signorina!» mi schernisce quel Checco, passandosi una mano tra i capelli un po' ricci e scuri che gli arrivano quasi alle spalle.

«Vorresti che mi mettessi a saltellarti intorno, facendo le feste? Mi chiamo Albertina, non Maria Vittoria.»

«Prof, sua figlia è proprio forte! Cavoli! Bene, io adesso me ne vado, eh? Ci si vede, mi stia bene!» afferma lui, sorridendo come un ebete di fronte a mia madre.

«Anche io devo scappare» dice lei, mostrandomi discretamente le monete che mi ha rubato. Mi viene voglia di strapparle la mano a morsi. «Ciao, caro, passa presto a trovarmi» aggiunge, per poi baciarlo su entrambe le guance e volare via, leggiadra come una falena. Mi immagino di schiacciarla con il pollice e un sorriso soddisfatto si dipinge sul mio viso, mentre estraggo altri cinquanta centesimi dalla tasca dei jeans. Gazza ladra 0 – Albertina 1.

Checco, intanto, è ancora lì imbambolato e mi fissa con un'espressione che trasuda ammirazione.

Ammirazione?

«Che guardi? Su di me il tuo fascino non attacca. Maria Vittoria sembra soggiogata da te, invece. Pensa che onore.»

«Il tuo sarcasmo verrà domato, ragazzina» dice di punto in bianco, fissandomi negli occhi.

Senza battere ciglio, ritiro trionfante il mio caffè, pensando soltanto alla soddisfazione di aver messo al tappeto il presunto potere sconfinato della prof Bartolini (non chiedetemi perché mia madre utilizzi da sempre il cognome di mio padre, non ne ho idea e preferisco non pensare a chissà quale promessa d'amore si sono fatti o al significato scabroso di questo dettaglio).

«Ma non te ne stavi andando?» gli chiedo con noncuranza, sorseggiando la mia bevanda. Sussulto quando mi scotto la lingua e trattengo a stento un'esclamazione infelice.

Lui mi guarda e sorride. È un osso duro, non sembra affatto impressionato dal mio modo di fare.

La cosa, lo ammetto, un po' mi spiazza, eppure non glielo do a vedere neanche se mi paga tre milioni di euro in contanti.

«Faccio il tecnico del suono, sai.»

«Interessante.»

«Vero? Be', non si sa mai che ti serva per qualche festa... in ogni caso, sì, me ne stavo andando.»

Quel suo tono impertinente mi fa innervosire, ma rimango comunque impassibile e finisco in fretta di bere il caffè.

Checco mi sorride ancora, strizzandomi l'occhio, poi conclude: «Temo che ci vedremo spesso, prossimamente. Collaboro con la scuola per l'assemblea musicale».

E se ne va, lasciandomi lì.

Come una deficiente.

Sì, mi sento proprio così in questo momento.

Fortunatamente, non sono una che si lascia influenzare da certe cazzate, così getto con calma il bicchiere vuoto e, dopo essermi leccata le labbra, me ne torno in classe.

Ma poi... Checco... come cazzo si chiama davvero?!

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Capitolo 10
*** Incontri... 'Galanti'! ***


Incontri... “Galanti”!







«Mamma, mi vuoi spiegare cosa significa la scenetta patetica dell'altro giorno?» le chiedo, gironzolandole intorno come un'invasata, mentre lei cercava invano di correggere le verifiche di una quarta.

«Non capisco cosa ci sia di patetico nel parlare con un vecchio alunno» risponde, profondamente irritata.

Il fatto è che a me, tendenzialmente, non me ne frega un accidente di lei e dei suoi rapporti con gli ex alunni. Ho già i miei casini a causa del suo essere la mia professoressa di matematica nonché genitrice apprensiva, però quel Checco mi nasconde qualcosa, qualcosa che non mi passa neanche per la mente di ignorare.

Il fatto che mia madre eluda le mie domande ed eviti di rispondermi neanche avessi la peste bubbonica, non mi invoglia certo a lasciar perdere.

«Il problema è il come, mamma! Tu e lui sembravate... quasi... intimi...»

«Ah, ma insomma, Albertina! Cosa stai dicendo? E comunque, mi vuoi lasciar lavorare?» si lamenta, sbattendo senza alcuna grazia il pugno sul tavolo.

«Non finisce qui, Maria Vittoria!» affermo, e me ne vado in camera mia.



Devo ammettere che aspettavo da un po' di giorni di rivedere quel Checco. Non so perché, ma ho trascorso qualche momento delle mie impegnative giornate a pensare a cosa diavolo mi nascondono lui e quella scellerata di mia madre.

Comunque avrei altro a cui pensare, qualcosa di molto più importante, come ad esempio le interrogazioni di fine anno che si avvicinano.

Ma, onestamente, mi interessa di più l'assemblea musicale che si terrà tra un mese.

Oggi mi sento di buonumore, una delle ragioni – e direi la più importante – è che mia madre non è a scuola. Il suo giorno libero è anche il mio giorno libero, ormai questo è un rituale settimanale a cui non potrei rinunciare per nulla al mondo. Sono inoltre contenta che l'estate si avvicini, perché ciò significa che Maria Vittoria lavorerà per tutto giugno e io potrò godermi giornate di riposo assoluto e di dolce far nulla.

Almeno finché non rientra, sia chiaro.

Be', in ogni caso, dicevo... oggi sono proprio di buonumore, tant'è che mi avvio allegramente ai distributori automatici, dopo tre ore di lezione che non hanno contemplato scene imbarazzanti durante matematica.

Tita è con me, dal momento che Gabriel è assente e ovviamente lei non sa con chi stare.

«Non te la prendi davvero? Insomma, sto sempre con Bibbi e oggi che lui non c'è...»

«Bibbi?!» strillo, fermandomi in mezzo al corridoio e attirando l'attenzione di tutti, neanche a dirlo.

«Gabriel, no?»

«E tu lo chiami... Bibbi?»

Ho nuovamente alzato la voce sull'ultima parola, ma a me sinceramente quel nomignolo fa venire la pelle d'oca.

«Ma cosa importa? Rispondi alla mia domanda!» si spazientisce lei, scuotendo il capo e riprendendo a camminare.

«Ma ti pare che me la prendo? Ho fatto di tutto perché voi due vi accoppiaste...»

«Ehm, Berty?»

«Sì, Tita?»

«Ti faccio notare che l'amore non è soltanto un fatto di accoppiamento. Fino a prova contraria, io e Bibbi... ehm, cioè, io e lui non siamo animali.»

«Sì, vabbè, mi hai capito... ho fatto di tutto, no? E ora me la prendo? È giusto che voi due state insieme finché sarà tutto rose e fiori. Avrete tempo per separarvi, litigare, ammazzarvi...»

«Uff, quanto sei cinica! Uh... e quello chi è?» cambia discorso Tita, fissando dritto di fronte a sé.

Seguo il suo sguardo, incuriosita, e quasi rimango senza fiato nel vedere Checco di fronte alla macchinetta del caffè. Okay, volevo rivederlo, ma non mi aspettavo accadesse oggi. Era una così bella giornata...

«Oh, Berty! Vedessi che faccia hai!»

«Che faccia ho?» chiedo a Tita, stridula.

«Sembra... sembra...» tentenna lei.

«Sembra cosa?» insisto, irritata.

«Sembra...»

Intanto, Checco si accorge di me e interrompe bruscamente ciò che Tita stava per dire. Vorrei ucciderlo.

«Ciao, signorina! Tutto bene?» esordisce, avvicinandosi a me e guardandomi dall'alto verso il basso, con quegli occhi azzurri che sembrano scorci di cielo estivo. Sì, tutte queste stronzate non sono affatto da me, infatti ho paura. Cosa diavolo sto dicendo? Quasi quasi, vorrei che Maria Vittoria fosse qui...

Okay, sto impazzendo.

«Ciao, Francesco... così ti chiami? Tutto bene fino a pochi attimi fa. Incontrarti rende la mia giornata improvvisamente pessima» ribatto, senza scompormi troppo. Chi si crede di essere?

E poi... come mi ha chiamato? Signorina? È pazzo? Se va tanto d'accordo con mia madre, evidentemente sì.

«Wow, non pensavo di essere così importante per te, quale onore!»

Rimango immobile, mentre noto con disappunto che Tita se la ride sotto i baffi.

«Sì... eh, lei è Giuditta, comunque, una mia amica» cambio discorso io, cercando di non perdere la calma. Questo deficiente mi fa innervosire come pochi al mondo.

Tita gli fa un cenno con il capo e si avvicina a prendere una cioccolata dal distributore.

«Carina, la tua amica» commenta Checco, attirando subito la mia attenzione.

«Ha un ragazzo» dico, senza sapere neanche perché.

Non può pensare di provarci con Tita, quel Checco.

«Peccato. Comunque, non mi chiamo Francesco.»

«Interessante. Piuttosto, cosa ci fai qui?» domando, facendo per avvicinarmi alla mia amica.

«Ho un incontro con i rappresentanti d'istituto tra dieci minuti. Mi accompagni?»

«Scordatelo. Ho un'interrogazione alla prossima ora» mento.

«Peccato, signorina. Tua madre come sta?»

«Lei sta sempre alla grande. Mangia, dorme, pontifica, scopa...»

«Che caratterino» dice, scoppiando a ridere.

Lo fisso, senza cambiare espressione.

«Ti va un caffè? So che la prof non vuole, ma non le diremo niente, eh?»

«Grazie, ma me lo prendo da sola. Non sono una morta di fame, sai?»

Checco scuote il capo e si avvicina nuovamente alla macchinetta. Tita ha appena ritirato la sua bevanda e la rimesta nel bicchiere, spostando lo sguardo da me a lui, confusa.

Poi, cosa che non è esattamente da lei, gli chiede: «Quindi tu... com'è che ti chiami?».

Non ci credo, mi ha appena tradito! Comunica con il nemico, ci intavola conversazioni, approfondisce la conoscenza! Mi sento quasi ferita, ma è pur sempre dell'ingenua Giuditta che stiamo parlando, perciò posso passarci sopra.

«Filippo» fa lui.

Io mi immobilizzo e smetto di respirare, mentre Tita rischia di strozzarsi con la cioccolata e sputacchia senza ritegno, imbrattandosi come una bambina.

«C-come?» balbetto, sinceramente sconcertata.

No, adesso qualcuno di voi mi spiega perché diamine questo beota si chiama Filippo ma da tutti è conosciuto come Checco. Vi prego, liberatemi dal male, ne ho bisogno! Cioè, tipo, non per dire, ma... Pippo era troppo scontato? O Fili? O in qualunque altro modo, insomma! Che schifo è?

«Sì, mi chiamo Filippo Marzani, piacere!» esclama lui tutto contento, ignorando le nostre espressioni sconcertate e lo scempio che sta combinando Tita a causa sua.

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: «Scusa, che cosa c'entra Checco con Filippo?».

Fortunatamente, sono riuscita a formulare questo interrogativo, perché cominciavo a pensare che la mia mascella si fosse pietrificata.

Checco sospira.

«Storia lunga...»

«Racconta, abbiamo tempo» taglio corto, poi attiro l'attenzione di una mia compagna, la quale non si sposta mai dalla classe se non ha appresso la borsa in spalla. Le chiedo un fazzoletto per Tita, poi torno dai due dopo aver trafugato l'intero pacchetto, mentre la gallina di turno mi sbraita contro, dicendo qualcosa sul fatto che non aveva altri fazzoletti.

«Tempo non ce n'è poi tanto, tra quattro minuti...»

«Senti, Pippo, comincia a parlare, prima che mi stanchi e ti mandi all'inferno senza ascoltare la tua storia. Tieni, Tita, pulisciti bene. Guarda te che disastro...»

«Okay, il fatto è che... è stata tua madre a darmi questo soprannome per niente azzeccato.»

«Motivo? Tita, sei ancora sporca, qui, ecco, sul labbro!»

«Bleah... tutta colpa di quello lì...» biascica lei, passandosi con cura il fazzoletto sulle labbra.

«Lei diceva che ero simpatico come Checco Zalone, così...»

«Uh, Tita, hai sentito? Che storia avvincente! Pensa che Maria Vittoria me l'ha tenuto nascosto per più di una settimana, neanche fosse un segreto nazionale o avesse a che fare con la mafia russa. Tutto qui?»

«Eh, sì... questo è essenzialmente il motivo.»

«Non è trascorso neanche un minuto. Hai ancora più di centottanta secondi per trovare una motivazione valida al tuo nome d'arte, Pippo» osservo, poi strappo i fazzoletti dalle mani di Tita e individuo nuovamente la gallina. Non appena lei si accorge che la sto guardando e fa per avvicinarsi, le lancio il pacchetto, centrandola in pieno viso.

Da quel momento, una serie di strilli e imprecazioni si diffonde nell'atrio, facendomi pensare che in classe ho a che fare con delfini spiaggiati e pollai OGM.

Il che non mi rincuora, ma mi permette di farmi due risate, poi commento: «Canestro! Michael Jordan mi fa un baffo».

«Imparerai mai ad avere un po' di riguardo per gli altri, signorina?»

«Pippo, sparisci. Mi hai sconvolto l'esistenza fin troppo. Tita, andiamo in bagno, così ti dai una lavata, sei in uno stato pietoso. Ci si vede, Zalone!» concludo, poi mi allontano con Tita sottobraccio.

Una volta giunta in bagno, mi rendo conto che, per colpa di quel demente, non ho preso neanche oggi il caffè.

E allora capisco: dev'essere una cospirazione architettata da Maria Vittoria per evitare che io assuma caffeina in sua assenza! Brutta strega, come ho fatto a non pensarci prima? Essendo oggi il suo fottuto giorno libero, ha inviato Pippo/Checco a rompermi le palle. Si è scelta uno scagnozzo degno di nota, a quanto pare; sì, perché a causa delle sue chiacchiere sono rimasta fregata anche questa volta.

Una volta uscite dal bagno, veniamo intercettate da Mauro, il quale sta ridacchiando come suo solito. Cos'avrà in mente?

«Ciao, belle ragazze! Oh, Berty, ti ho visto in compagnia di un bel giovanotto, che ti sta succedendo? Lui non ti fa vomitare quanto me?» mi punzecchia, lanciandomi un'occhiata colma di qualcosa che riconosco come disprezzo. Spero di sbagliarmi, ma temo di no. Mauro ce l'ha con me? Possibile che io gli piaccia davvero? No, certo, mi prende in giro. È pur sempre Mauro, il senza cervello più egocentrico dell'Universo. Ah, ecco, ora capisco perché ce l'ha con me: ho scalfito il suo ego smisurato, povero cucciolo. Evidentemente non ha ancora aperto il libro che gli abbiamo regalato per il compleanno, altrimenti saprebbe come recuperare i punti perduti in poche e semplici mosse.

«Non essere geloso, tra lui e te non saprei chi scegliere. Siete due campioni dell'idiozia fai-da-te» rispondo, senza troppo entusiasmo.

«Piccola ingrata. Ho una sfida per te, però ho una condizione.»

Nell'udire quella parola, quelle cinque dolci lettere, la mia attenzione viene catturata completamente e l'adrenalina comincia a scorrere nelle vene, come sempre accade in questi casi. Eh sì, cari EFP-spettatori, le sfide sono le uniche cose capaci di farmi provare delle vere e proprie emozioni, non so cosa ci sia di meglio di un bel traguardo da superare e raggiungere ad ogni costo!

«Spara, Marzi!» sbotto.

È inquietante quanto il cognome di Mauro e quello di Checco si somiglino, comunque...

«La mia condizione è che tu devi accettare la sfida prima di sapere di cosa si tratta» annuncia fiero Mauro, sorridendo come non mai.

Il cervello di una persona normale funzionerebbe così: Non accetto neanche se mi paghi per farlo, come posso fidarmi di un troglodita come te?

Il mio, invece, ha espresso soltanto questo pensiero: Non rifiuterei neanche per idea, una sfida è pur sempre una sfida e va vinta, AD OGNI COSTO!

Il che è grave, perché, dopo aver annunciato a Mauro che avrei accettato, lui mi guarda con aria estremamente soddisfatta, poi strizza l'occhio a Tita e mi si avvicina, afferrandomi il mento con la mano.

Poi dice: «Vieni a letto con me».

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Capitolo 11
*** Sesso senz'amore... ***


Sesso senz'amore...








Per poco non mi metto a strillare in mezzo al corridoio.

Mi sento come se qualcuno mi avesse appena violentato, nonostante Mauro se ne stia lì fermo con la sua solita faccia da viscido depravato e non abbia osato avvicinarsi più del necessario. Fosse per me, dovrebbe stare almeno a cento metri dalla mia sfera personale, ma se voglio ottenere un simile risultato mi tocca denunciarlo alla polizia per stalking, prima o poi.

Tita sta seriamente per preoccuparsi, non tanto per il modo in cui potrei reagire, ma per il semplice fatto che sono zitta e impalata, incapace di ribattere.

Ultimamente la gente si sta mettendo d'impegno per ficcarmi in situazioni più impossibili che rare, ma cos'hanno tutti?

Prima Pippo/Checco, ora questo deficiente patentato di Mauro...

Devo dire qualcosa, cacchio.

Deglutisco a fatica, grata ancora una volta per l'assenza di mia madre dall'edificio scolastico.«

«Ripeti» è tutto ciò che riesco a sibilare.

«Hai capito, piccola innocente Berty. Vieni a letto con me, ci divertiremo... o almeno, io mi divertirò di sicuro!»

«Ma Mauro!» interviene Tita, tappandosi le orecchie con le mani e scuotendo il capo.

«Oh, Giudy, vuoi unirti anche tu? Dipende tutto da Berty, per me non ci sono problemi... sono una persona socievole, io.»

«Ah, sta' zitto, idiota!» sbotto, afferrando la mia amica per un braccio, per evitare che scappi via scandalizzata.

«Allora? Questa è la tua sfida di oggi» insiste il depravato, guardandomi a lungo negli occhi.

«Accetto, ci mancherebbe altro» grugnisco tra i denti.

Lui sgrana incredulo gli occhi, incapace di ribattere.

«Ci vediamo nell'ala abbandonata tra quarantacinque minuti. Non tardare, codardo» concludo, poi me ne vado impettita, trascinandomi dietro Giuditta, che non ha più aperto bocca da quando Mauro le ha fatto quella proposta indecente.


«Sei impazzita? Non funzionerà mai! Tu non vuoi andare con... oh, mamma... ti sta fissando» mormora Tita, mentre siamo sedute in classe durante l'ora di religione.

«Lascialo fare. Senti, Tita, tu ti fidi di me?» le domando, con fare un po' melodrammatico.

Ogni tanto qualcuna delle nostre compagne mi lancia un'occhiata colma di disprezzo, segno che quell'imbecille di Mauro ha già sparso la voce in tutta la scuola. Così ci sia da vantarsi tanto, proprio non lo capisco. E comunque, dopo questa giornata, le sue speranze di fare una buona impressione in giro saranno proprio pari a zero.

Non sono così sprovveduta. Forse all'inizio la sua proposta mi ha preso in contropiede, ma poi il mio cervello mi ha ricordato che anche lui esiste e lavora.

La prof di religione è intenta a spiegare come si svolge la vita di un musulmano praticante, quando capisco che è il momento di agire.

Lancio un'occhiata a Mauro, poi comincio a fare delle smorfie.

Do di gomito a Tita e lei esclama: «Prof! Scusi, credo che Albertina non si senta bene...».

Non è il massimo come bugiarda, ma io mi concentro sulla parte che devo recitare.

«Cosa succede, Bartolini?»

«Mi viene... mi viene da vomitare...» balbetto, ripensando al primo giorno che udii i miei genitori accoppiarsi nella stanza accanto alla mia. Era la prima volta che davo di stomaco senza aver esagerato con qualche cibo prelibato, e da allora quello era il mio cavallo di battaglia per chiarire il disgusto che provavo per svariate situazioni della mia quotidianetà.

«Vuoi andare in bagno? Giuditta può accompagnarti» risponde la professoressa, senza scomporsi. Non capisco ancora perché tutti i professori mi chiamino per cognome, sono l'unica eccezione in tutta la classe. Peccato che mia madre utilizzi i soliti nomignoli orrendi, sottolineando di fronte a tutti che sono sua figlia. Sai che fortuna.

«No, non vorrei... non vorrei che perdesse la sua lezione, ce la faccio anche... da sola...» continuo a farfugliare, alzandomi con difficoltà simulata dalla sedia.

Barcollo verso la porta ed esco, senza guardarmi indietro. Sento gli occhi di tutti puntati addosso, ma i più pungenti sono quelli di Mauro.

Una volta in corridoio, smetto di fingere. Afferro in fretta il cellulare e comincio ad armeggiarci, dirigendomi lo stesso in bagno. Non si sa mai che qualcuno mi veda e mi chieda spiegazioni che non ho voglia di dare.

Mi sento pronta, non mi lascerò prendere per il culo da quel cretino di Mauro. È un ingenuo se crede che il suo ricatto porterà dei frutti.

Ormai mancano appena cinque minuti all'appuntamento, perciò mi frugo in tasca per controllare che ci sia tutto e mi avvio all'ala abbandonata della scuola.


Si tratta di poche aule che non vengono utilizzate perché non c'è un sovraffollamento di studenti, quest'anno. In queste aule, molte storie d'amore e passione vengono consumate, all'insaputa del personale dell'edificio. Nessuno dei bidelli ci passa mai, da queste parti, le pulizie di questi ambienti si fanno ogni quindici giorni e chi li frequenta clandestinamente è finora riuscito a non farsi scoprire, non abbandonando rifiuti o altri indizi all'interno delle aule.

Mi fermo all'inizio del corridoio, appiattendomi contro la parete. Aspetto Mauro, sorridendo.

Poco dopo, lo vedo arrivare.

«Ci sei allora?» sussurra.

Mi piazzo davanti a lui, fingendo di essere mortalmente offesa con lui.

«Mi vedi, no?» borbotto, incrociando le mani sul petto.

«Su, piccola, ti piacerà. Hai mai scopato prima d'ora?»

«Ti sembro il tipo?»

«Se non lo hai mai fatto, mi vai anche meglio. Posso insegnarti tutto io, tu dovrai soltanto obbedire ai miei ordini e vedrai che andrà tutto per il meglio.»

Certo, e poi devo diventare la tua schiava sessuale per il resto dei miei giorni e finché morte non ti separi dal tuo uccello.

«Non l'ho mai fatto, Mauro, perciò sii carino con me. Vorrei sperimentare una cosa di cui ho sentito parlare» lo punzecchio.

In realtà mi sento disgustata, però devo reggere finché tutto questo scempio non sarà finito.

«Di cosa si tratta?»

«Sorpresa. Adesso entriamo.»

Mauro mi appoggia una mano sul sedere e mi spinge avanti. Mi trattengo a stento, ma vorrei mordergli le dita fino a staccargliele, per poi infilargliele in qualche altro simpatico orifizio che gli appartiene...

«Chiudi a chiave, sì... la prof ha fatto domande?» cerco di distrarlo, cambiando momentaneamente argomento.

«Sì, ma Giuditta l'ha rassicurata e ha promesso che sarebbe andata a controllare come stavi.»

Annuisco. Figuriamoci se me ne frega qualcosa della prof!

Spingo Mauro contro un banco e poi infilo la mano in tasca. Porto fuori un fazzoletto spiegazzato e glielo sventolo di fronte agli occhi.

«E quello cos'è? Eh, porcellina» ammicca, afferrando il fazzoletto.

Quel coso di cotone l'ho rubato alla bidella mentre tornavo in classe, circa un'ora fa. Chissà quante volte ci si sarà soffiata in naso sopra. Respingo con forza un conato di vomito e mi costringo a guardare Mauro negli occhi.

«Ora spogliati e lascia che io ti metta questo sugli occhi» gli ordino con finta dolcezza, afferrando nuovamente la benda.

«Cosa dici? Sei sicura di sapere...»

Mi chino su di lui e gli abbasso la cerniera dei jeans, sentendomi molto audace e schifata. So esattamente come si fa sesso, anche se non mi ci sono ritrovata in mezzo.

Mauro trattiene il fiato e mi osserva, stupito.

«Ho detto: spogliati e lasciati bendare» ripeto, con voce suadente.

Gli lego il fazzoletto dietro la nuca e mi allontano, evitando di guardarlo mentre si toglie i vestiti. La cosa però è inevitabile, perciò alla fine l'occhio mi cade sul suo petto, sulle braccia e poi ancora più giù... vedere un ragazzo nudo dal vivo è tutta un'altra cosa, quasi quasi una bottarella a Mauro gliela darei...

No, non a lui. A nessuno, non ci penso neanche a diventare come mia madre.

Con un moto di repulsione, distolgo lo sguardo e fisso il cellulare. Il messaggio è arrivato.

«Berty? Dove sei? Toccami come prima, ti prego...» mugola Mauro.

Mi fa proprio pena e mi viene da ridere, ma proprio non posso. Tutto sta andando a gonfie vele.

«No, dovrai convincermi» blatero, avvicinandomi alla porta.

Mauro è nudo e io non lo guardo più. Non ci penso neanche.

«Come? Che cazzo...?»

Fa per slacciarsi la benda e io lo fermo con un gridolino, posando la mano sulla maniglia. Riesco ad abbassarla senza che lui lo senta, coprendo lo scricchiolio con inutili chiacchiere e false promesse.

Il mio ospite entra nella stanza in punta di piedi e strabuzza gli occhi quando nota Mauro svestito e disteso sul banco.

«Convincimi, su, Mauro! Sono una ragazza difficile, lo sai... anche se guardarti mi piace!» mento, scambiando occhiate con la persona che mi affianca.

Mi fa un cenno verso il cellulare e io annuisco, sorridendo.

«Berty... vieni qui, ti prego...»

Sollevo il cellulare e premo sullo schermo.

«Sei bellissima, lo sai? Non mi aspettavo un giochino del genere da te... mi hai sorpreso, tutto questo mi piace, ma adesso diamoci da fare... altrimenti la prof di religione penserà male...»

Comincio ad avvicinarmi a lui seguita dal visitatore misterioso. Mauro non immagina neanche della sua esistenza.

«Arrivo» mormoro.

Sto per scoppiare a ridere, seriamente. Tutto quello che sta succedendo è irreale, eppure io non faccio altro che compiacermene. La mia scommessa l'ho vinta, non importa come stanno andando le cose. Io ho accettato di andare a letto con lui, i dettagli sono solo dettagli.

La persona che ho fatto entrare si inginocchia di fronte a Mauro e gli apre le gambe.

Io cerco di non guardare, ma mi serve restare lì ancora un attimo.

Quando poi le cose cominciano a farsi serie e sporche per il mio debole stomaco, smetto di riprendere.

Sgattaiolo fuori dalla stanza mentre sento Mauro gemere mentre il ragazzo più gay di questo mondo gli fa un bel servizietto degno di nota. Il demente crede che quella sia opera mia, non oso immaginare cosa accadrà quando Cristiano gli toglierà la benda.

E io, in ogni caso, ho il mio video. Ora posso ricattarlo a mio piacimento, perché nel video si vede chiaramente che sta lasciando che un altro ragazzo lo sevizi per bene.

Me ne fotto, io, delle convenzioni.

Comunque, vado in bagno perché non ce la faccio più: devo vomitare.

Ed è lì che mi trova la professoressa di religione, quando la sua ora finisce e lei viene a cercarmi. Mi trova china sul lavandino a vomitare e tutti i dubbi che aveva nutrito sulle mie reali condizioni di salute sviniscono come neve al sole.

È incredibile come il tempismo ti salvi il culo, certe volte.

Quando rientro in classe, Tita è preoccupatissima e le mie compagne mi guardano con aria perplessa.

Mi schiarisco la voce e sventolo il cellulare.

«Volete vedere un video divertente? Però non lo posso divulgare, è mio!» affermo.

E tutte mi accerchiano, curiose di sapere cos'ho da mostrare.

Mi sento così bene che quasi mi dimentico dell'esistenza di Mauro e di ciò che accadrà quando anche lui tornerà in classe.

Le mie compagne strillano come ossesse e cominciano a ridacchiare come galline, anche dopo che ho finito di sputtanare il nostro compagno di classe.

Tita, improvvisamente, mi picchietta sulla spalla.

Mi volto.

E lo vedo.

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Capitolo 12
*** Credi di essere libera? ***


Credi di essere libera?








Rimango sbalordita nel trovarmi di fronte Checco che mi osserva con un sorriso enigmatico. Cosa faccia nella mia classe, questo è un mistero.

Mi aspettavo che fosse arrivato quello sfigato di Mauro, evidentemente è ancora impegnato con il suo dolce intrattenitore.

Rispondo all'occhiata di Filippo/Checco con uno sguardo interrogativo, faccio per aprire bocca, ma qualcosa interrompe quella scena che dall'esterno potrebbe sembrare idilliaca.

«Tu! Schifosa, mi fai schifo, io ti denuncio, come hai osato! Albertina Annetta Bartolini, come hai potuto farmi questo? Io ti ammazzo, ti ammazzo!»

La voce di Mauro è talmente stridula e colma d'ira che mi viene quasi paura. Quasi, perché poi mi ricordo di che esemplare si tratta e una risata sorge spontanea dalla mia gola. Mi ricorda tanto una canzone di Caparezza intitolata “Compro Horror”, in cui lui si esibisce in una performance simile gridando “Io ti ammazzo!”. Be', ascoltatela e capirete a cosa mi riferisco, perché spiegare il modo scomposto e iracondo che Mauro sta usando per strillare non rende certo giustizia alla realtà.

Comunque, sembra una gallina in confronto a Caparezza e il ricordo di quello che è successo mi fa piombare in una reazione talmente ilare che fatico a trattenermi.

Sventolando il cellulare con fare annoiato, dico: «Ciao, Mauretto. Devi sapere che tutta la classe ha già visto il video che conferma la tua malcelata omosessualità, quindi non ti conviene continuare a renderti ridicolo».

A questo punto, Mauro diventa paonazzo per la rabbia e spinge da una parte il povero Filippo, che intanto stava assistendo alla scena con aria confusa. Preso alla sprovvista, l'ex alunno di mia madre molla un pugno sulla spalla del mio compagno di classe e comincia ad imprecare come se non ci fosse un domani.

Intorno a noi tutti cominciano a ridere, segno che tutta questa situazione risulta molto divertente per l'intera classe.

«Razza di stupido, levati dalle palle!» abbaia Mauro in direzione di Filippo.

Io ridacchio e avanzo verso il pazzo, sbuffando.

«Mauro, hai finito con lo spettacolo? Vai a prendere aria, lo dico per il tuo bene.»

«Non provarci!»

Gabriel e Giacomo entrano in aula e subito si fermano, trovandosi di fronte questa patetica baraonda.

«Cosa state combinando?» domanda Giaco, trotterellando per la classe, per poi raggiungermi.

Gabriel rimane impalato in attesa di una risposta, mentre con la coda dell'occhio noto Giuditta che si avvicina con cautela a lui.

Questi due impareranno mai ad essere un po' più spontanei e meno pudici? Forse no. Sono due casi persi, si sono proprio trovati.

E tuttavia...

«Sei una porca schifosa, mi hai fatto fare una figura orribile... io...»

Mauro si interrompe all'improvviso e i suoi occhi si velano improvvisamente. Oh merda, se si mette a piangere ora, giuro che vomito.

Tutti i nostri compagni continuano a ridere, mentre lui continua a sprofondare in un mare di umiliazione e boccheggia a fatica per tornare in superficie.

«Ma che gli hai fatto?» bisbiglià Giaco, mollandomi una gomitata.

Lo ignoro e mi avvicino ancora a Mauro. Lo squadro dalla testa ai piedi, poi attacco: «Senti, Mauro, non provarci neancha a fare la vittima, perché proprio non lo sei. Mi hai lanciato una sfida assurda e io non mi sono tirata indietro, tu sapevi che non l'avrei mai fatto e te ne sei approfittato. Io l'ho vinta a modo mio e mi sono comportata di conseguenza, ho fatto ciò che era giusto nei confronti di un essere viscido e schifoso come te. Ma dai, Mauro! Credevi davvero che sarei venuta a letto con te? Ma è mai possibile che tu non abbia ancora capito con chi hai a che fare? Nessuno mi mette i piedi in testa e mi costringe a fare ciò che desidera, nessuno! Cerca di ficcartelo bene in testa, okay? E adesso... vai a prendere aria, ti farà bene, vedrai». Detto questo, gli indirizzo un sorriso innocente e affettuoso, giusto per illuderlo che mi importa davvero qualcosa di lui.

Sì, come no.

Mauro scoppia a piangere come un bambino e quasi mi dispiace per lui. Già, quasi: Giaco corre in suo soccorso e si offre di accompagnarlo fuori. Non c'è bisogno che io finga preoccupazione, c'è chi lo fa al posto di tutti, quel povero martire di Giaco! Che caro ragazzo!

Stimo molto Gabriel in questo momento: abbracciato a Tita, non si accorge che forse il suo amico avrebbe gradito la sua presenza per consolare il povero disgraziato pseudo-omosessuale.

Solo ora mi ricordo che Filippo/Checco è ancora in piedi vicino alla cattedra e ha assistito a tutto questo sfacelo. Poveretto, non lo invidio.

«Ehm... Albertina?» mi chiama.

«Sì?»

«Ho sentito bene? Penso che dovrò fare rapporto a Maria Vittoria per questo tuo comportamento riprovevole» blatera Filippo, avvicinandosi a me.

Io sbuffo e sollevo una mano con gesto noncurante.

«Piantala, Pippo. Cosa diamine ci fai qui?» gli chiedo, conducendolo fuori dall'aula.

L'ora buca sta anche per finire, io non ho mangiato e sono indisposta a causa di quel deficiente di Mauro. È meglio che Filippo si dia una mossa, se non vuole che lo riduca in poltiglia seduta stante.

«Passavo da queste parti e ho pensato di venire a trovarti.»

«Che carino» commento, con tono ironico.

«Non offendermi così, Albertina. Ci rimango male!» finge di lagnarsi.

Perché dev'essere così deliziosamente idiota e simile a me? No, rettifico: nessun “deliziosamente”, non esageriamo.

«Adesso che mi hai visto, puoi andartene? Io devo strafogarmi di cibo, ho una fame...»

Filippo mi spinge verso i distributori automatici e se la ride.

«C'è anche un altro motivo, in realtà» prosegue, frugandosi in tasca con un impegno che non riesco a spiegarmi. Neanche fosse Mary Poppins e le sue tasche equivalessero alla famosa borsa.

«Sarebbe?» Faccio per infilare qualche moneta nella macchinetta ma Filippo scaccia la mia mano e fa scivolare nella fessura una moneta da due euro. «Cosa stai facendo, Checco?»

«Ti offro la merenda. Scegli ciò che vuoi. Comunque, questo sabato c'è un concerto interessante in zona, credi di essere libera per accompagnarmi?»

Mi blocco interiormente, ma a lui faccio credere che sto scrutando i prodotti al di là del vetro per decidere cosa prendere. Non posso credere alle mie orecchie: perché oggi vogliono abbordarmi tutti?! Questo qui crede forse di avere una corsia preferenziale perché è entrato nelle grazie di Maria Vittoria? Povero illuso.

Digito un codice sul tastierino e me ne esco con: «Mmh... dicevi? Scusa, non ti stavo ascoltando».

«Albertina, con me non attacca. Se vuoi venire con me al concerto, ti divertirai. Altrimenti sei libera di rimanere a casa con la prof a farti rompere le palle per tutto il fine settimane.»

Mi chino per estrarre i miei cracker dalla macchinetta. Sta dicendo sul serio e ha toccato proprio il tasto giusto, questo bastardo.

«Sai, Checco» rispondo, voltandomi nella sua direzione, «ho altro da fare nella mia vita, non esiste soltanto casa mia e Maria Vittoria».

«Sarà» commenta facendo spallucce.

Ci spostiamo nuovamente nel corridoio e io mi vado a sedere su un banco addossato alla parete. Apro i cracker e ne sgranocchio uno.

Filippo mi raggiunge, ne ruba uno e se lo ficca in bocca.

«Non te l'avevo offerto, mi pare» lo rimprovero, ritrovandomi però a sorridere.

«Sei sempre così acida, Albertina. Rilassati, okay? Non ti voglio saltare addosso come quel tuo compagno... ehi, poveretto! L'hai proprio umiliato, dammi il cinque!» esclama, sollevando la mano.

Faccio come mi dice, ma lui trattiene la mia mano nella sua e ridacchia.

«Si può sapere cosa vuoi, Pippo?» domando leggermente sorpresa da quel contatto. Sta decisamente esagerando.

«Niente, ti ho solo fatto una proposta. Devi essere tu a volerlo, cara ragazza. Io non ti posso obbligare.» Detto questo, mi lascia la mano e mi guarda con aria divertita.

Ha un modo di fare davvero strano, tuttavia lo trovo abbastanza interessante rispetto alla maggior parte degli esseri umani.

«Certo, nessuno mi obbliga a fare qualcosa se non sono io a volerlo» affermo. «E comunque non sono acida, diciamo che cerco di sopravvivere. Hai saputo anche tu cosa voleva quel viscido di Mauro da me. Qualche altra ragazza ci sarebbe cascata e avrebbe lasciato che la ricattasse.»

«Già, ma non tu. Questo ti dovrebbe far capire perché lui si comporta così con te.»

«Abbiamo qui il nuovo prof di psicologia o cosa?» ironizzo, continuando a mangiare la mia merenda. Poi mi viene in mente una cosa e balzo giù dal banco, gridando: «Hai dimenticato il resto nella macchinetta!».

«Eh? Sei sicura?»

«Sì, corri!» lo incito, afferrandolo per un braccio e trascinandomelo dietro. Tutto questo è alquanto comico, ma la cosa peggiore è che tra noi si stanno susseguendo troppi contatti fisici non esattamente casuali.

Purtroppo il resto non c'è più, come c'era da aspettarsi. Dicasi sfiga o semplice senso di sopravvivenza. Anch'io li avrei presi, se li avessi trovati là dentro, quei poveri piccoli spiccioli.

Filippo borbotta qualcosa con aria contrariata, poi la campana suona con un trillo infernale sulle nostre teste, facendoci sobbalzare.

«Adesso devo andarmene» annuncia Filippo, rubandomi un altro pezzo di cracker.

«E quindi per il concerto?» mi ritrovo a chiedere.

In quel momento noto Giaco e Mauro passarci accanto; quest'ultimo non solleva neanche lo sguardo e cammina a testa bassa. Giaco gli dice qualcosa, poi ci raggiunge trotterellando come suo solito.

«Ciao! Come va?» domanda, rivolto a Filippo.

«Ciao. Bene, ehm... tu sei?»

«Giacomo, piacere, sono un amico di Berty! A proposito, dovremmo tornare in classe, svampita! Oggi ti sei presa un po' troppo tempo libero!»

«Ma sta' zitto, Giaco! Io e quest'esemplare stavamo organizzando per andare ad un concerto sabato, sai?» lo informo, scompigliandogli i capelli con fare materno.

«E io non sono stato invitato, come al solito! Ah, dovrei proprio trovarmi una con cui divertirmi, anche Gabri non mi considera più da quando fa le fusa per Tita» afferma con aria disgustata, scuotendo il capo.

Scoppio a ridere.

«“Esemplare” mi mancava nella lista degli appellativi che utilizzi con me. Ricordami di aggiungerlo all'elenco.»

«E di che concerto si tratta?»

«Il gruppo si chiama Scarti del Caseificio, fanno punk o qualcosa del genere, credo...» risponde Filippo vago.

Io e Giaco ci fissiamo con aria perplessa, poi cominciamo a sghignazzare come due pazzi furiosi, fingendo di strapparci i capelli.

«Non me li posso perdere, Pippo! Mi hai convinto, per sabato ci sto!» esclamo, poi prendo Giaco sottobraccio e faccio per andarmene.

«Ti cerco su facebook per i dettagli, allora!» mi dice Filippo prima di uscire dalla scuola.

Mentre cammino con Giaco, lui mi fa promettere di portarmi dietro attrezzature tecnologiche in grado di riprendere e scattare fotografie, perché non può proprio pensare di non dare un'occhiata e un ascolto al gruppo che io andrò a vedere.

Mi viene da pensare che purtroppo mia madre sarà strafelice di sapere che esco con il suo pupillo, cosa che mi fa venire il voltastomaco: non sono abituata a fare qualcosa che mia madre approva, è del tutto politicamente scorretto!

Inoltre, lei e Alfonso (mio padre) saranno al corrente che io esco con un tipo e penseranno che mi sto rammollendo e che si tratta di un appuntamento romantico.

Be', se pure Checco avesse strane intenzioni con me, saprei benissimo come gestirlo: non ho certamente paura di un essere di sesso maschile che non spera altro che mettermi le mani addosso.

Oh, quanto gli piacerebbe!

Ma hanno sbagliato: stanno proprio sfidando la persona sbagliata, e Mauro ci è cascato anche stavolta!



♣ ♣ ♣



Cari lettori e seguaci di questa storia,

mi rendo conto che questo capitolo non è un granché, ma vi prometto che farò del mio meglio per regalarvene uno più divertente per la prossima volta!

Sono passata solo per precisare una cosetta: il nome del gruppo che Albertina e Filippo andranno a sentire – gli Scarti del Caseificio – è un'idea interamente del mio collega e stimato autore Frenzthedreamer. Lui hai ideato questo nome e l'ha inserito in un capitolo della sua “Rising Phoenix – Ragazzi nati dalle ceneri” (andatela a leggere, ve la consiglio caldamente!), così gli ho chiesto se potevo usufruire di questa geniale creazione per inserirla nella storia di Albertina, perché ci stava proprio bene! E lui è stato così gentile da concedermelo :)

Quindi, ricapitolando, questo è un piccolo omaggio a Frenz, che spero apprezzerà!

Bene, gente, grazie ancora di tutto e a presto :3

E ricordatevi che le recensioni sono sempre ben accette, il vostro parere mi è sempre utile, anche se dovesse essere negativo!


Kim ♥

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Capitolo 13
*** Una vera stronza! ***


Una vera stronza!







Il fatto di dover uscire con quel tipo mi indispone.

Io non esco con i ragazzi, è una cosa che fanno quelle che poi, volente o nolente, diventano come mia madre. Oppure quelle come Tita, che hanno una predisposizione per le storie d'amore alla Shakespeare. Be', spero di non trovare mai lei e Gabri in stile Romeo e Giulietta, non potrei sopportare di perderli per ragioni così stupide.

L'amore – o quello che la gente crede che sia l'amore – è una ragione stupida per morire, insomma! Si può vivere anche da soli, senza avere una persona che ti stalkera giorno e notte per il resto della tua vita, io ne sono la prova, guardatemi!

Ma del resto, io sono strana, o forse il mondo è strano e io sono già proiettata verso il futuro. Fossi vissuta nel Seicento, probabilmente avrei già preso i voti e condurrei la vita di clausura, ma questo non c'entra con il mio imminente avvenire.

Devo uscire con Filippo detto Checco e mia madre fa i salti di gioia, come mi aspettavo.

«Che caro ragazzo, che bellezza! Oh, Albertina! Finalmente hai deciso di mettere la testa a posto, eh? Finalmente hai capito qualcosa della vita... mi aspettavo che gli avresti vomitato sulle scarpe...» sta blaterando, mentre il campanello di casa suona.

Per l'occasione, mi sono vestita a caso, niente trucco, niente adito a fraintendimenti: sono me stessa punto e basta. Tra l'altro, questo non è un appuntamento romantico, dannazione!

«Mamma, prenditi un sedativo» borbotto.

Neanche a dirlo, si precipita fuori di casa e quando esco la ritrovo che abbraccia Checco manco dovesse uscirci lei!

Mi sento imbarazzata per colpa di quella donna che sembra sempre più una schizzata fuori di testa, perché non posso essere orfana?!

«Sono così felice che tu esca con la mia bambina pestifera, Checco! Saprai come rimetterla in riga» strilla Maria Vittoria, stritolando il malcapitato.

«Come no... senti, vuoi tornare dentro e lasciarci andare? Ci tengo a vedere il concerto!» sbotto, afferrandola per un braccio e spintonandola verso casa.

«Albertina Annetta Bartolini! Non permetterti di...»

La lascio perdere e salgo in macchina sbattendo la portiera. Non sento più quello che sta dicendo, fortunatamente Checco ha in messo su un po' di musica metal che copre la voce spiritata di mia madre.

Sospiro pesantemente e ringrazio tutto il creato quando quel ragazzo parte e finalmente ci lasciamo alle spalle il manicomio che è casa mia.

«Sei sempre così cinica con tua madre?» domanda Pippo ironico.

«Non parliamone! Oh, questa canzone è forte!» esclamo, tagliando corto. È appena partita “Youth of the Nation” dei P.O.D.

Mi allungo sull'autoradio e alzo il volume al massimo, apro il finestrino perché a maggio fa già fin troppo caldo, e comincio a cantare come una pazza liberando la mente da tutto.

Arriviamo al luogo del concerto, una piazza che ospita una festa paesana di dubbia importanza, che ridiamo come due scemi.

«Tu non sei normale» commenta lui, chiudendo a chiave la sua Punto verde pisello.

«Almeno sai quali sono i rischi di questa uscita.»

Riconosco subito persone che frequentano la mia scuola e comincio a salutare chiunque come se fossimo amici di una vita. I P.O.D. mi hanno messo di buonumore!

Io e Checco ci avviciniamo al palco, osservando i musicisti che cominciano a sistemarsi e a fare un soundcheck a scazzo. Non sono per niente seri, lo noto dalle loro espressioni e, per questo, già li amo.

«Cazzo fai?» sento dire al chitarrista, il quale incarna il classico metallaro con tanto di capelli lunghi, abbigliamento che sponsorizza varie band famose e spille sulla tracolla del suo strumento.

Il bassista, con l'aria da scemo, alza lo sguardo e lo guarda allucinato, si dev'essere calato un acido o qualcosa di fottutamente illegale e controproducente per i suoi già scarsi neuroni.

Scoppio letteralmente a ridere quando sul palchetto compare un colosso di circa due metri che va a sistemarsi dietro la batteria. Ha la faccia seria all'inizio, ma io lo so che non lo è, si nota troppo.

Il chitarrista lo raggiunge e si mette a urlare cose incomprensibili.

«Ah, il batterista, Francesco, lo conosco!» dice Checco al mio fianco.

«Suona bene?»

«Se la cava. Ed è un bravo ragazzo.»

«Ma pensa! Bravo come te?» lo punzecchio, per poi dirigermi a prendere qualcosa da bere.

«No, di più.»

«Allora non fa per me» ribatto.

«Io invece faccio per te?»

Mi blocco e lo guardo malissimo, sta già esagerando.

«Checco, nessuno fa per me, questo te lo devi ricordare.»

In quel momento parte la prima canzone degli Scarti del Caseificio e io capisco immediatamente che sono degli sfigati, adorabili sfigati.

Francesco – il batterista – ci sa fare, tutti sono abbastanza bravi tecnicamente, ma il loro genere non si capisce. Fanno qualcosa che potrebbe essere definito folk metal/viking punk, che di per sé non è assolutamente niente. Che casino stanno combinando?

Eppure... il cantante alterna growl a voce pulita stile power metal, ma siccome è stonato come una campana viene fuori qualcosa di indicibile che mi fa trascorrere tutto il concerto a ridere e prenderli apertamente per il culo. Perché, ovviamente, io e Checco siamo in prima fila e i componenti del gruppo vedono esattamente cosa facciamo.

La componente folk è dettata dalla presenza di una ragazza – povera malcapitata! – che suona l'arpa. È veramente brava, potrebbe decisamente far parte di una band migliore, eppure si ritrova con questi matti e si diverte un sacco a far musica – o un surrogato di essa – con loro.

«Sono una meraviglia!» esclamo, mettendomi a ballare mentre faccio gestacci in direzione del bassista che è l'unico rincoglionito del gruppo, ma anche uno dei più dotati.

«Smetti subito di importunarli!» scherza Filippo.

«E tu smettila di parlare come mia madre» lo rimprovero.

Poco dopo il cantante, durante la pausa tra un pezzo e l'altro, annuncia: «Bestie feroci che siete qui presenti! Che cazzo fate? Non lo comprate il nostro EP? Siamo venuti da Imola apposta per voi, cazzo! E dai!».

Tutti i presenti gridano e io faccio lo stesso, perché ovviamente quell'EP sarà mio!

Quando il live finisce, dico a Checco: «Andiamo, voglio comprarmi il disco di questi».

«Sì, poi dopo andiamo a salutare Fra» accetta, dirigendosi con me al banchetto che gli Scarti hanno allestito per l'occasione.

«Ciao!» esordisco, guardando la tizia che penso sia l'addetta alle vendite.

«Ciao tesoro, vuoi comprare il meraviglioso disco degli Scarti del Caseificio? In regalo anche la spilletta!» cinguetta lei, tutta sofisticata nel vestire e nell'atteggiarsi che pare stia vendendo gioielli o abiti firmati anziché musica pseudo-spazzatura.

«Secondo te perché sono venuta, bella?» rispondo, regalandole un sorriso colmo d'ironia.

«Datti una calmata, eh!»

Ignoro la sua acidità premestruale e domando: «Quant'è?».

«5 euro, grazie» borbotta, ficcandomi in mano EP e spilla.

A quel punto noto Checco che le porge una banconota da 10 euro e mi incazzo sul serio.

«Cosa stai facendo?»

«La tua perspicacia ha un limite, quindi» commenta, senza rispondere. Ritira il resto e ci allontaniamo.

«Te li rendo, non esiste» protesto.

«Senti, Albertina.» Facendosi serio, si china su di me e mi guarda dritto negli occhi, posandomi una mano sotto il mento. «Se non stai un po' zitta, dovrò trovare il modo per obbligarti a farlo e non so se ti piacerà» prosegue, posando poi – fugacemente – un dito sulle mie labbra.

Poi si allontana bruscamente e continua a camminare in direzione di Francesco il batterista.

Non avvertito per niente il familiare senso di nausea che mi provoca generalmente quel tipo di situazione, sì, devo essere malata o avere la febbre a 50, sto per morire. Tutta colpa di Maria Vittoria che mi fa seguire una scorretta alimentazione.

Arrivati da quel tipo, io sono stralunata e cerco di calmarmi.

Francesco è veramente alto, io mi sento un tappo in confronto a lui e invidio i tacchi di quella scema che mi ha venduto il CD, perché con quelli avrei avuto perlomeno un'altezza dignitosa e adatta alla situazione.

«Ciao stronzo! Quanto tempo che non ci si vede!» o apostrofa Filippo, mollandogli una pacca sulla spalla. Anche lui non è tanto alto, ma almeno raggiunge il mentro e settantacinque e non sembra una cimice accanto a questo gigante!

«Vedi, alla fine siamo riusciti a suonare qui da voi» risponde Francesco, per poi lanciarmi – letteralmente – un'occhiata dall'alto in basso.

«Ehi, energumeno, cos'hai da guardare?» sbotto in tono scherzoso.

«Che caratterino...» borbotta.

«Lei è Albertina, una mia amica» mi presenta Filippo ridendo.

«Piacere, Francesco. Perché facevi gestacci mentre suonavamo?»

«Perché siete degli idioti, per questo mi siete piaciuti tanto» dico, sventolandogli il disco della sua band sotto il naso. Devo, ovviamente, allungare il braccio più del dovuto, mi sento una completa rincoglionita in crisi di altezza.

«Ah bene, che bei complimenti... ehm, grazie» farfuglia Francesco con imbarazzo.

«Non farci caso, lei è fatta così...»

In quel momento arriva il chitarrista ubriaco e barcollante.

Solleva la mano libera e me la piazza davanti alla faccia, poi grida: «Batti cinque, sorella! Sei una gnocca da paura, hai da fare stanotte?».

Di rimando, gli pesto la mano con forza inaudita e lui barcolla ancora di più, frastornato dall'inaspettato dolore.

«Non ho niente da fare, ma proprio niente» rispondo e lo fulmino con lo sguardo. «Ora anche di meno.»

Filippo e Francesco ridono, poi Pippo mi afferra per il polso e fa: «Devo riportarla a casa, sennò sua madre – nonché la mia ex prof di matematica – mi lincia. Quando ripartite?».

«Domani sera» risponde Francesco, sorreggendo quella spugna del suo amico che continua a bere imperterrito.

«Allora ci aggiorniamo e ci becchiamo prima della partenza?»

«Ovvio! Ciao Pippo, ciao Albertina!» conclude Francesco e noi ce ne andiamo verso la macchina.

Il mio cellulare senga le 00:27 e non ho molta voglia di rientrare a casa e subirmi il terzo grado della scellerata.

Saliamo in macchina e Checco dice: «Spero ti sia divertita».

«Certo, perché non avrei dovuto? Con quelli che facevano un genere indefinito poi!» rispondo continuando a ridere.

«Sai cosa vorrei?» aggiunge lui dopo un po', per poi parcheggiare poco lontano da casa mia.

«Sentiamo.»

«Vorrei baciarti fino a soffocarti» sussurra.

Io mi irrigidisco sul sedile, divento un manico di scopa per alcuni interminabili istanti, poi scoppio letteralmente a ridergli in faccia mentre lo osservo che mi guarda, allibito da quella mia reazione. Qualche lacrima accompagna le troppe risate, non ci posso credere che questo ha veramente certe idee bizzarre in testa! È duro di comprendonio, non ci arriva proprio.

«Perché ridi? Non riesci a rimanere seria neanche per un momento, vero?»

«Ma scusa, perché dovrei se tu dici certe cazzate?»

«Non sono cazzate, Albertina.»

Anche io torno seria, molto seria, serissima. È lui quello che non capisce, non io.

«Ora sono seria, Filippo. E ti dico esattamente cosa penso e cosa ti devi ficcare in quella testa una volta per tutte: fatti passare certe idee di mente, non sono cose che mi interessano e non diventerò come mia madre, non mi interessa complicarmi la vita con queste frivolezze da ragazzine, chiaro? Poi, rischieresti che ti vomiti addosso e la cosa non è carina, vero? Ti saluto, sono stanca e me ne vado a casa. Ci vediamo!» concludo, uscendo subito dall'abitacolo e lasciandolo lì come un coglione, lasciandolo per quello che è.

Forse lui è proprio coglione, ma io sono una vera e propria stronza.

E me ne accorgo per un istante, poi scaccio quel pensiero ed entro in casa preparandomi al peggio.







NDA: Grazie ancora a Frenz che mi ha concesso di inserire il suo gruppo Scarti del Caseificio nella mia storia, oltre ad avermi concesso di inserirlo come batterista!

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Capitolo 14
*** Una sfida con me stessa! ***


Una sfida con me stessa!




L'assemblea musicale si avvicina e io sono costretta a vedere Pippo quasi ogni giorno. Ha molto da fare a scuola, si occuperò di tutta la parte tecnica dell'organizzazione. In genere il tutto viene messo nelle mani poco esperte di studenti dilettanti, ma quest'anno a quanto pare vogliono che si concluda con il botto.

A me la cosa non interessa. Parlo di Checco ovviamente, di lui non mi importa. Da quando ha detto che avrebbe voluto baciarmi, non gli ho più rivolto la parola. Queste cose non fanno per me e non voglio assolutamente che gli passino certe idee per la testa.

Intanto, mia madre ne sarebbe troppo contenta e orgogliosa e questo mi fa venire il voltastomaco già di per sé; inoltre, il mondo maschile è qualcosa che non rientra nei miei pensieri, come invece succede a tutte le mie coetanee. Anche Tita dice sempre che sono un caso perso, ma parla bene lei che ha trovato la sua felicità con Gabri e sembrava non desiderare altro! Ecco, non la giudico, ognuno è giusto che trovi il suo equilibrio nel modo che ritiene più appropriato, e se per lei questo significa stare con Gabriel, affari suoi. Sono felice per loro, sono due persone che da sole non riuscirebbero a combinare niente di sensato, ma che insieme si completano e sono una forza.

Io invece non sono così e pare che molte persone fatichino a capirlo.

Mauro, ad esempio. Dopo quel brutto incidente – brutto per lui, divertentissimo per me ed eccitate per il ragazzo più gay dell'istituto che mi ha dato una mano – mi lancia occhiate di fuoco come se stesse meditando qualcosa, come se tramasse alle mie spalle ma non riuscisse a mettere in atto un bel niente. Lui è un buono a nulla, un inetto sociale che spera sempre di attirare l'attenzione e di coltivare il suo ego all'infinito.

Camminando in corridoio durante la ricreazione, muoio di caldo. Giugno è iniziato due giorni fa e io non ne posso più di venire in questa schifosissima scuola.

Maria Vittoria mi sta opprimendo con le sue stupidaggini su quanto sia importante avere la media del nove in matematica, solo perché lei la insegna. Pretende forse che io diventi come lei anche in campo professionale, ma è un'altra di quelle persone che non hanno ancora capito effettivamente come sono fatta.

Non capisco neanche perché Checco la idolatri così tanto, possibile che non abbia mai subito le angherie di mia madre e non l'abbia odiata come succede a me? Ma pensare a lui non mi aiuta certo a sentirmi meno nervosa.

E non mi aiuta neanche il fatto che l'ho appena visto entrare nell'atrio e mi sono leggermente irrigidita.

Giaco, che mi sta accanto, sembra accorgersene e la cosa mi irrita. Gli ho semplicemente accennato che siamo usciti insieme, ma solo per raccontargli del concerto folle a cui ho assistito. Giaco è appassionata di situazioni strane, lui per certi aspetti mi somiglia e sa come divertirsi.

Il problema è che io non voglio neanche vedere Checco, ormai è sulla mia lista nera e lo vedo allo stesso livello di Mauro.

E in questo momento cruciale, proprio mentre i nostri sguardi per un attimo si incrociano, mi viene un'idea geniale. Già, Mauro è sempre una buona fonte d'ispirazione per i miei piani colmi di malefica dolcezza.

«Ecco il tuo fidanzato!» grida Giaco.

Gli mollo una gomitata a caso e lo sento imprecare malamente, ma lo ignoro. Oggi è particolarmente irritante.

«Brutta stronza!» mi insulta.

«Te la sei cercata, ignorante!»

In quel momento passa Mauro accanto a noi e la mia idea prende ancora più forma nella mia mente, è arrivato un momento in cui sento di dover mettere da parte per un attimo la mia dignità.

Lascio Giaco a massaggiarsi le costole e mi fiondo vicino a Mauro, lanciando un'occhiata a Checco che si avvicina alla macchinetta del caffè.

Afferro il braccio di Mauro e lui, spaventato, si volta e rimane sorpreso nel trovarmi accanto a lui che gli sorrido a trentadue denti.

«Ciao Mauro, lo so che probabilmente mi odi...» comincio.

«No, macché, figurati! Mi hai ridicolizzato di fronte a tutti, ma questo per te non ha alcuna importanza, Albertina» mi accusa con tono acido.

Reprimo l'istinto di sputargli in faccia e di dirgli tutto quello che penso di lui, compreso il fatto che mi fa schifo e che gli rivolgo la parola solo perché mi serve.

«Lo so, sono stata pessima, ma tu sai come sono fatta. Mi perdoni?» me ne esco invece, sperando di risultare convincente. Il tempo stringe, ma se Checco mi vede mentre parlo con Mauro e gli stringo il braccio, dovrebbe già bastare.

«Perché dovrei?»

«Perché sei un bravo ragazzo... lo so, mi dispiace di averti combinato quello scherzo, a volte mi comporto come una bambina!»

Sto continuando a gettarmi merda addosso, ma questo è per una giusta causa, sfido chiunque di voi a dirmi il contrario!

«Ma...»

«Ci tengo!» salto su avvicinandomi ancora a lui. «Mi sono accorta di che brava persona tu sia» sussurro, reprimendo un conato di vomito. Stare così vicino a quest'essere mi costa fatica, ma io sono una persona abbastanza coraggiosa, non ho apura delle sfide e questo è risaputo. Così, mentre notavo Checco entrare a scuola, mi sono detta: “Albertina, dannazione, ti sfido! Fa' vedere a quello sbruffone di Filippo con chi ha a che fare!”. E per questo, Mauro è la persona giusta, me lo sento.

«Posso provarci...» cede Mauro, da perfetto idiota. Ecco, vedete cosa intendo quando dico che è perfetto per questo ruolo?!

«Sì, ti prego!» squittisco.

Sento lo sguardo di Giaco addosso, so che mi sta prendendo per pazza, ma io ho qualcosa di importante da raggiungere! Prima o poi capirà!

«Mauro», deglutisco, sperando che lui interpreti quest'esitazione in amniera positiva, «la verità è che... tu mi piaci, però in quel momento non ero... pronta ad ammetterlo» concludo.

Non faccio in tempo a riprendere fiato che Mauro si avventa su di me, e riesco a malapena ad evitare che mi baci. Non posso proprio sopportare anche questo, è già troppo che io stia fingendo di desiderarlo.

Lascio che mi abbracci e per evitare che avvicini la sua bocca alla mia, nascondo il viso sul suo petto tentando di non inspirare troppo. Mi sta seriamente prendendo male, la nausea è qualcosa che non sono mai stata brava a controllare, specialmente se di mezzo ci sono dei ragazzi – Mauro in particolare è un altissimo conduttore di questo fenomeno.

L'unico che non mi ha provocato quest'effetto collaterale è Checco, ma io non lascerò che qualcosa di anomalo mi faccia diventare come mia madre nei confronti di mio padre. Io di uomini non ne voglio sapere, a volte penso che sarei dovuta nascere lesbica. Peccato che non lo si possa diventare dall'oggi al domani, sono certa che una ragazza potrebbe andarmi meglio per molti motivi.

Ma per ora devo fare i conti con Mauro che sembra un animale in calore e mi tocca in maniera fastidiosa la schiena, i fianchi, i capelli...

La colazione rischia di venir sprecata, cerco di appigliarmi al mio senso civico e di pensare a quante persone avrebbero voluto mangiare quello che ho mangiato io stamattina e non si sognerebbero mai di rimetterlo per colpa di un essere spregevole come Mauro. La tecnica sperimentata sul momento sembra funzionare, però mi scosto lo stesso da Mauro e gli afferro riluttante la mano.

«Ci prendiamo un caffè, ti va?» domando, sperando non gli venga in mente di fare qualcosa di cui potrebbe pentirsi. Penso che per i prossimi giorni dovrò girare con un coltello a serramanico appresso, ho la vaga impressione che sarà molto difficile sbarazzarmi nuovamente di lui dopo questa messinscena. Perché finisco sempre per impantanarmi in queste situazioni di merda?

E pensare che all'inizio sembrava tutto così semplice: fingere di essere innamorata di Mauro, sfilare mano nella mano con lui di fronte a quell'allocco di Checco e fargli così passare la voglia di rompermi le palle. Non avevo però messo in conto il fatto che Mauro è un adolescente egocentrico e in preda agli ormoni che non vedeva l'ora di mettermi le mani addosso, provocandomi un fastidio indescrivibile.

La vita è una grande puttana, ragazzi miei!

Giaco mi fulmina con una lunga e significativa occhiata, mentre Tita e Gabri lo raggiungono. Tutti e tre mi guardano come se fossi appena scesa da una navicella spaziale, così lancio loro uno sguardo che spero gli faccia capire che sto fingendo, che potrò spiegargli tutto in un secondo momento.

Loro sono gli unici di cui mi importa, il parere del resto della scuola mi lascia del tutto indifferente, non ci presto minimamente attenzione.

Io e Mauro arriviamo di fronte alla macchinetta e proprio in quel momento Checco, dopo essersi chinato per ritirare il suo caffè, si volta nella nostra direzione e ci nota.

Non saprei proprio descrivere la sua espressione, sta di fatto che sento un disagio diverso, che unito al disgusto che già sto provando da un po', mi convince a mollare la mano di quel viscido di Mauro. Con la scusa di cercare qualche moneta, mi allontano leggermente da lui.

Improvvisamente non ho più tanta voglia di recitare, ma il ricordo della sfida che mi sono lanciata mi fa capire che non posso più tirarmi indietro. Solo i vigliacchi abbandonano il campo di battaglia!

«Ciao» fa Mauro beffardo, rivolto a Checco. So che sta facendo l'idiota perché crede davvero che io ormai sia sua e che quindi il suo “rivale” non ha più alcuna speranza. Il problema è che nessuno dei due ha ancora afferrato il concetto: non c'è anima viva che abbia una minima speranza di accoppiarsi con me, punto e basta.

Evito di farlo presente, mi limito ad osservare la scena, mentre Checco fa un semplice cenno con il capo e ci oltrepassa senza neanche degnarmi di uno sguardo.

Rimango basita, c'è qualcosa nel suo atteggiamento che mi fa incazzare, incazzare sul serio.

Come si permette di trattarmi con sufficienza? Quello ad essere fuori di sé, ora, dovrebbe essere lui, non io! Ha un modo di fare che non sopporto, così do accidentalmente un colpo a Mauro, il quale si rovescia il caffè macchiato appena preso sulla maglietta e comincia a borbottare cose incomprensibili.

Non me ne frega un cazzo, ecco la verità.

«Ciao, Filippo! Tutto bene? Non si saluta più?» sbotto facendo un passo avanti.

Lui si ferma e, dopo essersi girato, fa un sorrisetto idiota e scuote il capo.

«Non hai niente da dire?» aggiungo. Questa situazione surreale mi fa sentire strana, è come se Mauro non esistesse neanche più.

«Fa male essere ignorati, vero?» dice Checco con ironia, ma nei suoi occhi non c'è alcuna traccia di sorriso né divertimento.

E poi se ne va, lasciandomi qui a strepitare come una deficiente. Non fa male, è fastidioso, non si doveva permettere! Ma crede davvero di essere così importante? Povero illuso!

Mauro mi circonda le spalle con un braccio e io subito mi irrigidisco. Ne ho abbastanza, così me lo scrollo di dosso e balzo indietro.

«Non toccarmi, idiota! Pensi davvero che volessi stare con te? Ma vedi di riprenderti!» sbraito, strappandogli di mano il bicchiere semivuoto e scagliandoglielo addosso senza alcun ritegno.

«Non ci posso credere, io...» farfuglia sgranando gli occhi.

«Ti ripeto ancora una volta che devi scendere dal piedistallo, non ti sopporto e non cambierò mai idea!»

«Mi hai usato per far ingelosire quel... tipo!»

«Faccio come mi pare, non sono affari tuoi, Mauro! Cavoli tuoi che credi a tutto e basta veramente poco per alimentare quell'ego che ti ritrovi! Lasciami in pace!»

Me ne vado incazzata come una belva, ma i miei amici mi bloccano all'inizio del corridoio.

«Cos'hai combinato Berty? Oh dio...» sospira Tita esasperata.

«Sei impazzita?» domanda Gabri indignato.

«Devi darci delle spiegazioni, è un must!» strilla Giaco afferrandomi per un braccio.

Così, mentre racconto quello che è successo per filo e per segno, non riesco a far a meno di pensare alle motivazioni che mi hanno spinto a comportarmi in questo modo.

Checco mi ha fatto innervosire parecchio, inoltre è stato un vero maleducato a non salutarmi e a non reagire minimamente a quello che è successo, speravo di fargli capire che non può avermi ma lui sembra non essersi neanche accorto che stavo passeggiando con Mauro come se stessimo insieme.

L'unico problema è che alla fine non ho risolto niente, non ho raggiunto nessun obiettivo, se non quello di vincere la scommessa con me stessa.

Peccato che stavolta la cosa non riesce ad assumere la solita importanza.

Perché? Cosa sta succedendo? Sto impazzendo?

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Capitolo 15
*** Maledetta emorragia mensile! ***


Maledetta emorragia mensile!




«Si può sapere cosa diamine state facendo? No, quell'amplificatore va sistemato lì, altrimenti sta in mezzo ai piedi per tutto il tempo! Perché questa dannata scuola è piena di incompetenti?»

«Ma sentilo» commento stizzita, mentre Checco non fa che sbraitare come un pazzo, inveendo contro chiunque gli capiti a tiro. Non ho mai conosciuto una persona tanto piena di sé in vita mia, giuro.

A volte penso che queste assemblee diverse dal solito servano solo a creare problemi a chi le organizza, ma ovviamente non posso certo fare la guastafeste e quella iena della mia genitrice mi costringe ad assistervi perché, del resto, «anche questa è un'attività scolastica, Albertina!». E 'sti gran cazzi.

«Smettila di fissarlo, altrimenti lo capisce!» gracchia Giaco al mio fianco, mollandomi una gomitata, mentre aspira il suo succo alla mela verde dal contenitore.

«Eh? Chi capisce cosa?»

«Quel tipo, il tuo Checco! Capisce che lo vuoi se non la pianti di...»

«Taci, Giacomo. Adesso» taglio corto, distogliendo comunque lo sguardo dal cocco di mia madre. Possibile che lo stessi davvero fissando?

Intanto Mauro si aggira per il cortile come un'anima in pena e, ripensando a tutto quello che gli ho fatto passare, non mi sento affatto in colpa. Lui si merita tutto quello che ha subito, ogni singola cosa se l'è cercata e ha decisamente sfidato la persona sbagliata.

«Berty, guarda!» strepita Tita al mio fianco, afferrandomi il polso.

Seguo il suo sguardo e noto che Checco sta parlando con una ragazza. Un attimo, non una ragazza qualsiasi, ma una delle mie compagne più zoccole, una di quelle che – con la scusa che oggi è il dieci di giugno – se ne va in giro con il culo in bella mostra e una canottiera che lascia ben poco all'immaginazione. Mentre parla con Checco, gesticola con fare studiato e presumibilmente sensuale, posando ogni tanto una mano sul braccio muscoloso di lui.

Non so perché, oggi fa proprio caldo. Troppo caldo, sicuramente mi deve arrivare il ciclo e ho perso il conto dei giorni. Maledetta emorragia mensile!

«Hai una faccia» commenta ancora Giaco con tono divertito.

«La mia faccia è normalissima!» sbotto, incrociando le braccia al petto con nonchalance. Questo nanetto pensa davvero di sapere cosa mi passa per la testa?

Sarebbe pressoché impossibile, dato che nemmeno io ne ho la più pallida idea.

«Certo che è proprio una gallina» borbotta Tita. «E tu smettila di guardarle il culo!» aggiunge poi stizzita, rivolgendosi al suo ragazzo.

Gabri scrolla le spalle e la bacia teneramente, facendola zittire in un colpo solo.

Sospiro. Sarebbe facile se anche io potessi essere domata in quel modo, no? No, certo. A me queste cose danno il voltastomaco, ma stranamente mi dà il voltastomaco anche constatare che Marianna – la mia compagna zoccola – si è chinata a sussurrare qualcosa nell'orecchio di Checco, mettendo ancora più in mostra la sua scandalosa scollatura.

«Non ha un minimo di pudore!» sbotto, senza neanche rendermene conto.

«Chi?» chiede Giaco, distratto dallo schermo del suo smartphone.

«Marianna!» rispondo con tono melliflue, mentre il reflusso gastrico si affaccia non troppo timidamente. Io quella la odio, l'ho sempre odiata, ma ora la odio il doppio. Non lo so perché, cazzo, ma è così.

«Dove stai andando?»

Senza neanche accorgermene, mi sono alzata in piedi e Giaco, al mio fianco, si preoccupa, forse perché mi conosce fin troppo bene.

«Da nessuna parte» mi giustifico, tornando a sedermi senza troppa convinzione. Sto impazzendo, è ufficiale.

«Oh, Fily, quanto sei divertente!» sento gemere Marianna, poi scoppia a ridere come un'oca starnazzante. Sembra che abbia le convulsioni e sembra lo faccia apposta. Tutto il suo corpo si muove in maniera sinuosa e i seni tremolano mentre si lascia travolgere da quella risata così falsa.

La vedo avvicinarsi sempre più e solo dopo qualche istante capisco che, non solo mi sono alzata nuovamente, ma sto anche avanzando verso quei due. Ormai è troppo tardi per tornare indietro, lui mi ha già notato e, dopo aver seguito il suo sguardo, anche lei mi osserva, inclinando leggermente la testa di lato.

Cazzo, mi sono impantanata in un bel casino. E adesso?

Adesso escine, cretina, ti sfido!

«Ciao Marianna, ciao Pippo. Che fate? Ah, cara compagnetta, Pippo ti ha detto che usciamo insieme, vero? Lui è il mio ragazzo, sai? Perciò, sei pregata di togliere la mano dalla sua spalla, grazie» mi ritrovo a ringhiare, fulminando la tipa con lo sguardo. Non ho minimamente idea di che espressione ho dipinta in viso, ma so con certezza che mi pentirò per il resto dei miei giorni di queste parole.

Marianna mi scruta allucinata, come se le avessi appena detto che stiamo per essere invasi da un esercito di zombie assassini, poi comincia a dire: «No, cioè, scusa? Tu e lui? Scusa se non ci credo, ma tu sei famosa per inventarti relazioni inesistenti!».

«Marianna, lascia perdere...» interloquisce Checco.

Ma io subito lo interrompo: «Senti, tesoro, te lo ripeto perché voglio essere sicura che il tuo cervello da gallina abbia ben chiaro il concetto: lui sta con me. Ora hai capito?».

Non lo so proprio cosa mi sta prendendo, credo che dopo questa performance, andrò a nascondermi in bagno in preda all'autocommiserazione, ma almeno mia madre sarà fiera di me per aver liberato il suo adorato Checco dalle grinfie di una come quella.

«Mari, puoi lasciarci soli?» aggiunge infine Checco, rivolgendole un sorriso stanco. Vorrei strozzarlo, giuro, lo desidero ardentemente, ma almeno su questo punto mi risparmio, ho già fatto abbastanza stronzate per oggi.

La tipa sposta lo sguardo da me a lui, poi fa spallucce e torna dalle sue amiche sculettando, neanche si trovasse in passerella. Mi fa proprio schifo, la odio. Ops, forse l'ho già detto, rischio di diventare monotona.

«Ascoltami bene» comincia Checco, passandosi una mano tra i capelli in un gesto che non riesco a decifrare. «Cosa significa questa scenetta?»

«Assolutamente niente!» mi affretto a rispondere, incrociando le braccia al petto e lanciandogli un'occhiataccia. Meglio che non si illuda, inoltre ho una voglia matta di ficcarmi la testa nel cesso e non pensare più a quanto sono diventata patetica negli ultimi cinque minuti della mia esistenza.

«Roba da matti» commenta il ragazzo.

Sto per aggiungere qualcosa, ma uno dei rappresentanti d'istituto si avvicina a lui e i due cominciano a discutere della scaletta, snocciolando nomi di gruppi sconosciuti che suoneranno a breve, proprio per l'assemblea musicale.

Quando il tizio se ne va annuendo, Checco riporta l'attenzione – e gli occhi azzurri – su di me, facendomi sentire tremendamente a disagio. Detesto questa condizione e so che in questi casi l'unica arma di difesa è l'attacco: non mi lascio certo incantare da lui, non esiste!

«Senti un po', non lamentarti e pensa che ti ho fatto un favore» lo apostrofo, sbuffando.

«Un favore?»

«Ti ho liberato da quella sgualdrina» spiego con semplicità.

Lui ride di gusto, poi domanda: «Chi ti dice che volessi essere liberato? Da oggi sei anche diventata l'avvocato delle mie cause perse, Albertina?».

Lo odio, io lo detesto con tutta me stessa e vorrei prenderlo a pugni, giuro! Ma come si permette? Mi sta facendo incazzare, ma la cosa più grave è che non so assolutamente cosa ribattere.

Per la prima volta nella mia vita, rimango in silenzio e mi limito a fissarlo senza spiccicare parola, neanche per sbaglio. Non capisco perché tra noi si sia scatenata questa guerra, ma direi che non siamo affatto d'accordo sul dichiarare una tregua.

D'improvviso Checco mi afferra per i polsi e mi attira a sé, piantando i suoi occhi nei miei e stringendo con forza. Mi fa male, ma mi tiene immobilizzata e non riesco a reagire, perché non capisco un cazzo di tutta questa storia. Il sole mi batte sulla testa e ho il ciclo in agguato, sicuramente sto finendo di rincoglionirmi per questi motivi. Ma anche se il mio cervello lavora, non riesce a connettersi con il corpo, che rimane inerte sotto la morsa di quello strano tipo.

«Adesso dimostriamo a Mari quello che tu le hai detto» mormora con un luccichio strano – pericoloso? – negli occhi, poi in un attimo è su di me.

Le sue labbra schiacciate contro le mie, poi all'improvviso mi ritrovo a schiuderle e a giocare con la sua lingua, in un modo così nuovo, strano, pazzesco e rivoltante allo stesso tempo. Non riesco a respingerlo, non riesco a staccarmi, non riesco a pensare.

Checco fa scivolare con audacia una mano sulla mia natica sinistra, la strizza senza fare complimenti e io non mi oppongo in nessun modo, come una perfetta zoccola, come Marianna – come mia madre!

Poi, di botto, mi lascia andare e mi rivolge un'improvvisa ed inaspettata occhiata sprezzante, colma di disgusto, non so se per me o per se stesso.

Barcollo leggermente all'indietro e rischio di perdere l'equilibrio, quel gesto mi ha destabilizzato e non so proprio dove appigliarmi per non rovinare a terra. Riesco miracolosamente a riprendermi, tuttavia non smetto di tremare per la sorpresa e lo shock. Ho tanto su cui riflettere, ho tanto da capire, ma in questo momento mi sento completamente svuotata.

«Ti è piaciuto, eh?» mi chiede bruscamente Filippo, stavolta è lui ad incrociare le braccia al petto, osservandomi con sufficienza.

Potrei preoccuparmi del fatto che tutto questo sia capitato in pubblico, potrei preoccuparmi per qualunque motivo, ma non lo faccio, anche perché del parere degli altri non me ne fotte un cazzo. Devo fare soltanto i conti con me stessa, questo non ha niente a che vedere con il mondo attorno.

«Sì, lo so. Ma sai, Albertina, ora che l'hai assaggiato... non sarà tuo. Mai.»

In un attimo è sparito, non so neanche come abbia fatto ad andarsene o dove si sia cacciato. So solo che, guardando di fronte a me, vedo il vuoto.

Subito decido che devo uscire di scena, non c'è tempo da perdere.

E mentre corro verso l'interno della scuola, noto Mauro che, appoggiato alla parete, mi fissa con un sorriso soddisfatto stampato in viso, per poi mimare il segno della vittoria con entrambe le mani.

Lo detesto, detesto tutti, detesto me stessa.


«Berty, esci dal bagno, ti prego!» mi supplica Tita.

Non so da quanto tempo sono rinchiusa qui dentro. La puzza è infernale, il caldo anche, ma non me ne può fregar di meno. Appoggiata con la schiena contro la porta del bagno, fisso il vuoto e cerco di capire perché non ho ancora vomitato. Questo è estremamente grave, forse dovrei ficcarmi due dita in gola e...

«Berty, vuoi uscire da quel bagno?» comincia ad irritarsi la mia amica, mollando un pugno alla porta; così facendo fa vibrare tutto il mio corpo e mi fa sentire destabilizzata, come se quel pugno mi fosse arrivato in pieno viso. Devo avere la febbre, sì, di sicuro.

«Berty!» grida esasperata Tita. «Giuro che se non esci subito da quel cazzo di bagno, chiamo Maria Vittoria!»

Tita non è una ragazza sboccata né rozza come in genere sono io, ma quando si arrabbia non pensa al suo linguaggio; spesso è capitato che si pentisse per ore, dopo aver imprecato come uno scaricatore di porto. Adorabile.

La sua minaccia fa subito effetto. Tutto, giuro, tutto posso accettare, ma non che lei tiri in ballo quella scellerata della mia genitrice!

«No!» sbotto, presa dal panico, e mi precipito immediatamente fuori da quel buco puzzolente, ritrovandomi di fronte il viso preoccupato della mia migliore amica.

«Berty, cos'è successo? Ho visto che...»

«Tita?»

«Dimmi» risponde, prendendomi per le spalle.

«Sono una zoccola» annuncio frustrata.

«Ma no!» sdrammatizza lei, sorridendo radiosa. «Sei solo innamorata.»

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Capitolo 16
*** Così impari, idiota. ***


Così impari, idiota.





Mi guardo attorno, è pieno di studenti impazziti, mentre un gruppo di ragazzini suona in maniera alquanto discutibili svariati successi rock e metal. Preferirei non dover ascoltare questo scempio, ma Tita mi ha nuovamente trascinato fuori, dopo che entrambe siamo uscite dal bagno.

Un po' ci siamo confidate, il che non accade spesso, almeno non per quanto mi riguarda; Tita dice che non è così terribile avere un ragazzo, che lei e Gabri stanno bene e lei non si sento assolutamente obbligata a fare qualcosa che non vuole.

Okay, ma questo cos'ha a che fare con me? Io non voglio mettermi con Checco, non esiste. Quello è pazzo se crede di avermi sconvolto così, e magari pensa pure che io sia imbarazzatissima e non abbia più il coraggio di guardarlo o di farmi vedere all'assemblea. Forse inizialmente ho reagito male, d'impulso, sono andata un po' nel pallone, ma ora è tutto passato.

Io e Tita raggiungiamo nuovamente Gabri e Giaco, i quali stanno ridendo come scimmie mentre commentano la band che sta suonando. In realtà non capisco chi abbia avuto il coraggio di farli esibire, sono un vero e proprio oltraggio all'udito e alla musica. Scommetto che Checco non lo avrebbe mai permesso, almeno in quanto a gusti musicali non posso dire nulla di male su di lui.

Io sono contrariata da svariate situazioni che si stanno svolgendo intorno a me: noto che Marianna sta nuovamente civettando con Checco, anche se si trova ad una distanza di sicurezza accettabile; la musica non è musica, il caldo è asfissiante e sembra che tutto intorno sia troppo luminoso.

Forse mi stavo abituando a quel cesso dall'odore pestilenziale, ma sento che quest'assemblea sta diventando una tortura per me, e non riesco neanche a capire perché.

Lungi da me dare soddisfazioni a chicchessia, non esiste proprio, non è da Albertina Annetta Bartolini.

Intanto il gruppo se ne va al diavolo e si preparano altri studenti che, a quanto pare, vogliono fare un live acustico. Io ho paura, ma ormai non mi importa più.

Lancio continuamente occhiate di fuoco a Checco e alla sua nuova amichetta e mi domando perché lo sto facendo.

«Albertina!» tuona una voce alla mia sinistra.

Sobbalzo. Sono così impegnata ad incenerire chiunque rientri nel mio campo visivo, che non mi sono minimamente accorta della presenza di mia madre. Non so quando sia giunta, ma mi pare sia molto interessata alla direzione su cui era puntato il mio sguardo fino a poco fa.

«Salve, prof!» ammicca Giaco, ridendosela. Lo odio quando fa così, sa quanto io detesti la mia genitrice. Perché tutti cercano di tenersela buona? Ah, già, perché è l'insegnante di matematica e, fattore non trascurabile, perché non la conoscono come la sottoscritta.

«Mi è giunta voce che tu e Checco vi siete baciati, finalmente! Aspettavo con ansia questo momento, sapevo che prima o poi avresti capito quanto è affascinante e giusto per te quel ragazzo!» squittisce Maria Vittoria, ignorando completamente il saluto del mio amico e i cenni di Tita e Gabri.

In ogni caso, impallidisco. Sento che il sangue ha improvvismente abbandonato la mia faccia, facendomi assomigliare sicuramente ad un fantasma. Non ci posso credere, questo è troppo!

«Senti un po', hai capito male...»

«Ed è proprio per questo...» mi interrompe ancora mia madre, senza degnarmi di attenzione. Sembra che stia parlando da sola e che io sia solo una decorazione in mezzo al cortile della scuola.

«Mamma...» ritento.

«Insomma, lasciami dire! È proprio per questo che ora andrò ad invitarlo a pranzo da noi, questa domenica. Voglio che si festeggi al meglio, Albertina, in modo che anche tuo padre possa conoscere il tuo uomo!» blatera.

E io mi sento sprofondare, mi sento veramente male e non ce la faccio più, vorrei poter essere autolesionista, depressa, stupida, sorda... vorrei essere un sacco di cose e non esserne nessuna, eppure devo stare qui a sentire le sue cazzate, con la voglia di afferrare Giaco – che intanto sghignazza al mio fianco, divertito dalla scena –, baciarlo e poi lanciarlo addosso a quella donna orribile e gridare: «Ehi, stronza, lui è il mio uomo!». Solo per avere la soddisfazione di vedere quel sorrisetto compiaciuto dalle sue labbra, fingerei di amare follemente anche quel reietto di Mauro.

Invece sto zitta e la fisso basita, senza neanche aprire la bocca nel tentativo di contraddirla.

«Anzi, figlia mia, vieni con me: annunciamo insieme la bella notizia a Checco!» grida, che sembra in preda al demonio e io vorrei essere un esorcista per farla tacere.

«Crede che sia la cosa giusta, prof?» cerca di intervenire Tita. Io amo Tita, è veramente un'amica, la migliore che si possa desiderare. Lei sa che le sue parole sono totalmente inutili, ma comunque prova ad aiutarmi. È formidabile.

«Ma certo! Su, Albertina, alzati da quella sedia e vieni con me!» mi ordina, come se fosse un generale dell'esercito.

Giuro, non lo so, proprio non lo so perché cazzo la sto assecondando, eppure la sto fottutamente assecondando: mi sono alzata, ora sto camminando appresso a lei come un cane bastonato, mentre qualcosa di simile all'umiliazione mi brucia nel petto.

Checco, non appena vede mia madre, si apre in un largo e luminoso sorriso, le va subito incontro e proprio in quel momento un ragazzino lagnoso comincia a cantare una canzone accompagnato dal suono di una chitarra acustica scordatissima.

«Caro, carissimo Checco! Sono così felice che tu e la mia disgraziata figlia vi siate fidanzati, sono certa che sia la cosa più sensata per lei. Sai, è molto ribelle, ingestibile, indomabile quasi... ma tu, tu sei la persona giusta per lei!» esordisce la pazza, schioccando due baci sulle guance del suo ex alunno.

L'espressione di Checco cambia leggermente, nei suoi occhi passa un lampo di confusione per un nanosecondo – me ne accorgo solo perché non faccio che fissarlo, maledizione! Poi tutto torna noramle, lui sembra completamente a suo agio e annuisce amabilmente mentre Maria Vittoria non fa che blaterare cose che neanche sto ascoltando.

Vorrei dirgli che mi dispiace, ma non è così: improvvisamente, dentro me si sta facendo strada una sensazione familiare e meravigliosa, sulla lingua sento quella punta di soddisfazione che solo la vendetta sa farmi provare. Quando vinco una sfida è la stessa cosa: mi sento sempre molto orgogliosa di me stessa, l'autostima sale alle stelle e un senso di onnipotenza mi avvolge, scaldandomi l'anima.

E adesso ho capito, ho capito che per la prima volta nella mia vita devo essere estremamente grata a mia madre. Lei, con la sua stupida ingenuità e con il desiderio latente di vedermi accoppiata con un maschio, mi ha procurato una meravigliosa occasione per prendermi la mia bella vendetta nei confronti di quello stronzo di Checco.

Lei non lo conosce veramente, non sa che lui mi ha baciato per poi dirmi delle cose orribili, ma ora come ora non avrebbe potuto fare di meglio. L'idiota è talmente idiota che non ha messo in conto il fatto che mia madre insegna nel mio liceo, che sarebbe stata presente all'assemblea e avrebbe saputo del nostro bacio. Ma, cosa più grave, neanche lui conosce bene Maria Vittoria: non sa – o meglio, non sapeva finora – che lei non aspettava altro, fin dal primo giorno in cui lui è ricomparso, presentandosi a scuola come tecnico del suono per l'assemblea musicale di fine anno.

Non appena l'ha visto accanto a me, nella sua mente si è formata la scabrosa trama di un harmony di quart'ordine ed ecco che, secondo i suoi piani, finalmente il suo sogno a luci rosse si sta realizzando.

Stupido Checco, ben ti sta. Vieni pure a pranzo da noi, ora sei ufficialmente il mio partner – e, soprattutto, agli occhi di mia madre, il mio amante – e non puoi assolutamente tirarti indietro, perché Maria Vittoria ti stima e tu non osi deluderla.

Quanto è bella la vita, cazzo.

Così, spinta dalla mia nuova convinzione, comincio ad appoggiare pienamente le parole di mia madre, così quel cafone impara. Lui è un altro che non sa con chi ha a che fare, alla fin fine Albertina Annetta Bartolini vince sempre.

«Ma sì, vieni a pranzo da noi Checco! A papà farà piacere conoscerti» concordo con la pazza, sorridendogli con rinnovata convinzione.

Così impari, idiota.

«Ehm... sì, perché no? Non c'è problema, mi farebbe piacere...» farfuglia lui, messo alle strette.

Lo so, si sente veramente braccato, specialmente da mia madre che è un predatore nato, sa il fatto suo e in questo caso non potrei stimarla più di così.

«Allora è deciso! Ti aspettiamo domenica per mezzogiorno, ci conto!» pigola la scellerata, baciandolo nuovamente su entrambe le guance. Poi accampa una scusa – scommetterei entrambi i polmoni che lo sta facendo per lasciarci soli – e torna verso l'edificio scolastico, tutta impettita come al solito.

A quel punto è il mio momento, lo sento: sento che prima di uscire di scena, devo infierire, infliggergli il colpo di grazie e poi lasciarlo lì, come il decerebrato che è.

Allora lo guardo, sbatto le ciglia in pieno stile Marianna, poi mormoro: «Anche io ci conto, dolcezza, non mancare».

E me ne torno dai miei amici, con un senso di soddisfazione che non si può spiegare, non si può descrivere a parole.

Sono queste le occasioni in cui sento di amarmi.


Domenica arriva presto. La scuola è finita, sono veramente contenta, al settimo cielo. Non c'è niente di meglio del dolce far nulla, nessuno può capirmi.

La più scarsa comprensione la ricevo da Maria Vittoria, che dalle sette di questa mattina non fa altro che sfaccendare per casa, coinvolgendo anche la sottoscritta nelle sue follie esistenziali. Mi ha buttato giù dal letto con un grido animalesco e ora mi sento tanto Cenerentola in attesa del suo Principe, ma solo per il fatto che sto strofinando pavimenti da tempo incalcolabile.

Se pochi giorni fa ho amato Maria Vittoria, ora me ne pento con tutta me stessa: non avevo pensato alla sua mania per l'ordine e la pulizia, specialmente nel momento in cui è certa che stia per arrivare un ospite. Se l'ospite è da lei ritenuto importante, sembra di vivere una vera e propria rivoluzione industriale. Santa pazienza.

Quando Checco arriva, lei e mio padre gli vanno incontro, mentre io finisco per seguirli controvoglia. Devo capire che sto vivendo una vendetta, quel cretino si merita tutto questo, è stato lui a dare inizio alla messinscena che ancora stiamo vivendo.

Il pranzo è uno scempio, almeno per lui: i miei gli fanno un sacco di domande – mio padre perché non lo conosce, mia madre perché è semplicemente se stessa e non sa stare zitta – e io me la godo, mi va proprio di lusso perché non devo far altro che ammiccare ogni tanto e lasciargli qualche carezza sul braccio, facendo credere a tutti che io non voglia assolutamente che i miei lo mettano in imbarazzo.

Quando arriviamo al caffè, noto che Checco è sfinito, ma scommetto che i miei genitori non se ne accorgono affatto.

«Allora, Albertina, vuoi mostrare a Checco la tua stanza? Vi lasciamo andare, così potete stare un po' da soli» dice mia madre, strizzandomi l'occhio. Non può farlo, ma sono pronta a giurare che si sfregherebbe le mani colma di soddisfazione, se solo Checco non fosse presente.

A questo punto vorrei evitare di darle retta, ma ormai sono con le mani in pasta e quindi... impasto.

«Ma certo, grazie mamma! Dai, Checco, andiamo» lo esorto, ridacchiando come fanno tutte le ragazzine stupidamente innamorate. Sono un'attrice nata, dovrei fare un pensierino ad un'eventuale carriera in campo teatrale/cinematografico.

Ci alziamo dal divano e io, per rendere ancor più credibile il teatrino, lo prendo per mano e lo conduco verso camera mia.

Una volta fuori dal salotto, lo lascio andare immediatamente, non ho nessuna intenzione di dimostrargli qualcosa che non esiste.

Giunti in cima alle scale, gli indico la porta della mia stanza e lo osservo con un sorrisetto.

E ora?

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Capitolo 17
*** Qui e adesso ***


Qui e adesso





Sono ferma davanti alla porta della mia stanza, Checco mi osserva con un'espressione indecifrabile.

Non è facile capirlo, certe volte. Eppure adesso vorrei proprio poter entrare nella sua testa, comprenderlo, perché non so proprio cosa aspettarmi. Ammesso e non concesso che ci sia qualcosa da aspettarsi.

«Cosa dobbiamo fare?» sbotto, non potendone più di questo silenzio assordante. So che magari può sembrare paradossale, ma mi sento oppressa da tutto questo. Non capisco perché.

«Niente» ribatte Checco senza battere ciglio. Sembra essere indifferente a tutto, ma ci dev'essere qualcosa sotto quella maschera di noncuranza che mi sta mostrando.

«Mia madre ha voluto...»

«Mandarci qui, lo so. Almeno sediamoci allora» conclude, poi spinge la porta della mia stanza ed entra senza che io gli abbia dato il permesso.

«Scusa!» protesto, afferrandolo con impeto per il polso.

Checco mi ignora e prosegue, strattonandomi. Pur di non lasciargli fare quello che vuole, lo seguo e sbatto la porta.

Riesce a liberarsi dalla mia presa e si accomoda sul letto. Per fortuna Maria Vittoria mi ha obbligato a rifarlo stamattina, altrimenti sarebbe disgustoso vedere quel tipo seduto sulle mie lenzuola. Non capisco cosa voglia, perché ci tenga tanto a conquistare ulteriormente la fiducia di mia madre.

«Ascolta... possiamo parlarne. Ci inventiamo che hai un impegno e te ne vai, cosa ne pensi? Diciamo alla pazza che ti hanno telefonato da casa...» faccio, cercando una soluzione equa per entrambi.

«Per me è indifferente, posso stare tranquillamente qui a riposare, non ho niente da fare» mi interrompe, per poi sdraiarsi comodamente sul materasso e fissare il soffitto, con le braccia incrociate dietro la testa.

Questa cosa mi fa irritare tantissimo, come si permette di fare come se fosse a casa sua? Razza di deficiente decerebrato, vorrei veramente dirgliene di tutti i colori, ma non voglio che mia madre ci senta litigare. È una ficcanaso, sono certa che stia in agguato con le orecchie tese ad aspettare che le giungano i rumori del nostro accoppiamento, cosa che sembra aspettare come se dovesse essere lei a viverlo. Che strazio!

«Per favore, Filippo! Mi stai disturbando. È meglio se vai a casa, il teatrino è durato abbastanza» replico con tono rassegnato. Non ne posso più, ormai possiamo parlarci chiaramente e non c'è più bisogno di fingere.

«Voglio restare.»

Questo è troppo. Ma chi si crede di essere? Oggi non ho voglia di scherzare, né di discutere con gente che non capisce un accidente. Devo assolutamente cacciarlo di casa prima che succeda il finimondo.

«Spiegami perché mai dovresti volerlo!»

«Ti piace scappare, vero Albertina?»

La domanda mi coglie alla sprovvista e gli lancio un'occhiataccia. Questo non ha nessuna attinenza con il discorso che stavamo facendo, e non ho neanche capito a cosa si sta riferendo. Io non scappo, sono qui, è lui che tra poco dovrà scappare se non vuole che lo scaraventi giù dalla finestra, infischiandomene di ciò che penseranno i miei.

«Ti piace scappare dalle situazioni, piuttosto che affrontarle. Questo non fa di te una persona matura, non ti rende migliore, non ti rende forte come vuoi dimostrare» prosegue, ignorando la mia faccia stranita. Del resto non mi sta neanche osservando, intendo com'è a esaminare le crepe del mio soffitto. È un grandissimo maleducato.

Oltre a questo, non posso pensare all'eventualità che abbia ragione. Sta parlando a vanvera, sta dicendo un mare di cazzate e continua a stazionare sul mio fottuto letto e io non lo sopporto più.

Stringo i pugni e glielo dico: «Stai parlando a vanvera, non ti sopporto più».

«Non è questo che conta. Fingi, fingi sempre Albertina. Io non sopporto te, perché so che ti sei costruita un personaggio, indossi una maschera ogni giorno della tua vita. Credi di essere intoccabile, pensi di essere superiore a qualsiasi tipo di sentimento ed emozione vagamente umana. Ma credi di venire da Marte per caso? Sei esattamente come tutti gli altri, mettitelo in testa» mi gela lui, continuando a non guardarmi.

Non ci posso credere, lui sta dicendo a me queste cose? Ma come osa? Non ho parole. La cosa più grave – anzi, che dico, la cosa gravissima! – è che sento, da qualche parte dentro me, che lui ha ragione, ma non capisco perché mi stia rendendo conto di queste cose solo ora, solo adesso che lo osservo disteso sul mio letto e vorrei spingerlo via, ma allo stesso tempo sento montare in me qualcos'altro... qualcosa a cui non sono disposta a dare un nome, né tanto meno ad accettare.

Mi avvicino al mio giaciglio e mi decido a catturare il suo sguardo, perché voglio comprendere se sta dicendo sul serio o se mi sta prendendo per il culo. Quasi quasi spero che sia la seconda, così potrei semplicemente mandarlo al diavolo e sbraitargli contro – ormai non me ne frega più niente di mia madre, che ci senta pure gridarci contro –, ma nei suoi occhi chiari e fin troppo limpidi leggo soltanto sincerità. Ci fissiamo per un po' e quel qualcosa continua a tormentarmi, mentre le mani prendono a tremarmi e per nasconderlo le nascondo dietro la schiena.

«Stai perdendo tempo Filippo» mormoro mentre continuo a fissarlo, del resto non riesco a fare altrimenti – cazzo!

Albertina, riprenditi! Smettila subito!

Filippo, d'improvviso, solleva un braccio – non tanto all'improvviso, in effetti, a me però sembra che tutto accada in fretta e furia, dato che non ho il coraggio di muovermi o reagire in nessun modo e mi afferra saldamente il mento, costringendomi a guardarlo ancora un po', a fare proprio quello che non vorrei fare assolutamente, per nessun motivo al mondo.

«Non penso, sai? Ora hai uno sguardo così smarrito e dolce... cosa ti succede?» mi dice, mentre le sue labbra si inarcano in un sorriso quasi compiaciuto. Ha un'espressione strana, non sopporto di vederla e di averla così vicina, quella faccia da schiaffi. Perché è compiaciuto? Maledizione, non c'è niente di cui compiacersi, razza di idiota!

Adorabile idiota, mormora qualcosa dentro di me.

Mi rendo conto che sto trattenendo il fiato e che la pelle su cui le sue dita sono posate brucia in maniera impressionante, non è possibile e concepibile!

Finalmente riesco a ritrarmi, o almeno ci provo: sollevo il viso e faccio per indietreggiare, ma lui con un gesto fulmineo mi afferra per le braccia e in un batter d'occhio mi ritrovo distesa sopra di lui, con gli occhi sgranati – cazzo, mi fanno quasi male tanto li sto spalancando – e il viso premuto contro la sua spalla.

Merda, merdaccia schifosa! Devi alzarti, devi sollevarti subito, subito, subito! Albertina...

Poi le sue braccia mi avvolgono come se niente fosse, come se fosse una cosa normale e naturale, come se l'avesse sempre fatto e quella non fosse una novità. Rimango immobile, ancora una volta, e allora il suo odore mi invade i sensi e non ho più tanta voglia di andarmene da lì.

No, cosa cazzo sto pensando? Non è da me, non sono assolutamente io questa, questa... questa cretina in brodo di giuggiole! Porca puttana, devo fare qualcosa.

«Cosa stai facendo?» biascico. Non ho assolutamente la forza di gridare, di ribellarmi, di spingerlo via e dirgliene di tutti i colori. Sono una rammollita, sono diventata una fottuta rammollita e sembro Tita quando è insieme a Gabri. Che vergogna!

Io non sono così.

«Non sei così... come?» mi sento chiedere dalla voce preoccupata di Checco.

Merda, l'hai detto ad alta voce, razza di stupida imbecille!

«Dicevo così, per dire... non... non lo so» borbotto, senza sapere effettivamente cosa rispondere. Non ci sto assolutamente capendo niente, ma niente di niente! Cazzo, devo alzarmi.

Adesso.

«Bene, il teatrino è finito» comincio a dire, posando i palmi delle mani sul suo petto. Poco prima di riuscire a tirarmi su, lo sento: un rumore fottutamente familiare, uno di quei suoni che riconoscerei ovunque e che immediatamente mi afferra alla bocca dello stomaco e mi fa rivoltare qualunque cosa si trovi al suo interno. Non è possibile, non è concepibile, mi sto sentendo male, mi sento male, mi sento male...

«No, cazzo» impreco tra i denti.

«Albertina, cosa...»

«Stai zitto!» sibilo. Poi ci ripenso e aggiungo: «No, parliamo!».

Mi sollevo finalmente da lui e mi pare quasi che manchi qualcosa, non riesco a collocare questa strana sensazione, eppure c'è e non posso ignorarla.

«Vuoi parlare? Ti sei decisa allora?»

No, deficiente, è solo che tu non devi sentire quello schifo, non devi assolutamente!

«Ah, sì! Dai, mettiamo su un po' di musica... ti va di ascoltare...» Balzo giù dal letto e mi guardo intorno mentre il rumore aumenta, mi sembra assordante, insopportabile. Individuo il CD dei Rage Against The Machine che ho preso in quel negozio tempo fa, l'avrò ascoltato già duemila volte. «Questo?» aggiungo, sventolandolo in direzione di Checco.

Lui intanto si è messo a sedere e mi sta guardando con aria interrogativa ed espressione confusa, come se avessi appena detto qualcosa di inaudito, incredibile e fuori luogo.

Mentre armeggio con il disco, quel rumore mi assorda e improvvisamente so con certezza che anche Checco lo ha udito, forte e chiaro. I suoi occhi si scontrano con i miei e vi leggo qualcosa di simile alla compassione. No, forse alla comprensione?

«Io... mi... mi dispiace...» balbetto, mentre sento mia madre e mio padre che scopano nella stanza accanto e i loro gemiti sono una tortura per le mie povere orecchie.

Questa è la figura di merda più grossa della mia vita. Io li sento sempre, ma come hanno potuto farmi questo? Come hanno potuto mettersi a fare porcate mentre in casa c'è un ospite, il quale dovrebbe in teoria essere il mio ragazzo? Loro credono e sanno questo, anche se in realtà non è così. Però Filippo è un ospite, un estraneo, lui non c'entra niente con queste cose.

Le mani mi stanno tremando, sono costretta ad appoggiare il disco sulla scrivania se non voglio che cada per terra e si sfasci. Non potrei permettere ai miei genitori di rovinare anche questo.

«Albertina, sono i tuoi genitori...?» mormora come se avesse paura che qualcuno lo senta.

Non dico niente, non credo sia necessario. Mi viene da vomitare, sento quasi l'impellenza di correre in bagno e rimettere tutto quello che ho buttato giù durante il pranzo.

Sono in piedi in mezzo alla stanza e, nel silenzio che è calato, sento i gemiti di quei due maiali perdersi nell'aria, fino a scomparire del tutto tra le pareti sottili della nostra casa.

«Dai, metti un po' di musica. Quello va benissimo» mi sollecita Filippo, sollevandosi dal mio letto e avvicinandosi pericolosamente a me. Penso che voglia nuovamente toccarmi, invece afferra il disco e lo sistema nel lettore che sta sulla scrivania. Anche lui si è accorto che sono praticamente paralizzata e non riesco neanche ad agire come dovrei.

Bombtrack parte con tutta la sua energia, e non appena la musica mi scuote mi ritrovo a tremare e le sensazioni tornano a invadermi, scuotendomi pericolosamente.

Filippo sembra accorgersene e mi raggiunge, afferrandomi per le spalle e cercando di farmi reagire.

«Non ti ho mai visto così, Albertina. Non pensavo soffrissi tanto» dice.

E come potrei dargli torto? Neanche io sapevo di essere in queste condizioni! Cazzo, com'è possibile? Io so benissimo che questa cosa dei miei che lo fanno sempre inibizioni mi fa schifo ed è insopportabile, ma non ha niente a che vedere con quello che sto provando adesso. Raccontarlo a Tita e i miei amici è un conto, ma trovarmi in questa situazione insieme a Filippo... no, non posso farcela.

«Non so che fare» riesco solo a dire. Sto vivendo una lotta interiore, un qualcosa che mi fa veramente rabbrividire fino in fondo.

Lui si guarda intorno, scuote leggermente il capo e poi mi attira nuovamente a sé. Mentre la musica riempie la stanza e non sento più quei rumori schifosi, mi sento meglio e mi lascio inspiegabilmente andare tra le sue braccia, ricambiando la stretta. Per la prima volta non oppongo resistenza, neanche mentalmente. È quello il posto dove voglio stare adesso, sono troppo scossa per affrontare tutto da sola.

Poi dopo si vedrà, ci sarà un altro luogo dove rifugiarmi come ho sempre fatto. Chiamerò Tita, forse Giaco, uscirò a fare un giro e a prendermi un gelato con loro, ma adesso sono qui e non sento la necessità di andarmene.

Forse non è una situazione romantica, non è una cosa da me, però sento che Filippo, qui e ora, è l'unica persona in grado di capire come mi sento senza giudicarmi, perché ha vissuto con me quest'orrore e ha potuto osservare la mia reazione.

Il futuro è incerto, ma ora non ha poi tanta importanza.

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Capitolo 18
*** La mia morale ***


La mia morale





«Dai, ragazze, volete decidervi?»

«Senti un po', datti una calmata Giaco!» sbotta Tita, lanciando un'occhiataccia al nostro amico che ci richiama dall'interno della piscina.

Io li osservo divertita, ma per qualche motivo non riesco a muovermi dalla sdraio. Sono troppo comoda e non ho voglia di andare in acqua.

«Ma smettetela! Sembrate balene spiaggiate!» rimarca lui, facendoci la linguaccia.

Balzo in piedi e lo fisso malissimo; da quando siamo arrivati in piscina non fa che rompere le palle, non so perché sia così intrattabile, ma pare in fase premestruale più di me.

«Hai rotto Giaco! Senti, vuoi farti il bagno? Fattelo e lasciaci perdere!» ribatto acida.

Gabri, dal canto suo, lancia un'occhiata interrogativa a Tita, poi interviene: «Su, non litigate. Ragazze, se entrate in acqua, promettiamo di non schizzarvi!».

«Ma chi ci crede?» sospira la mia amica, sfilandosi il prendisole color sabbia.

«Appunto» concludo.

Dopo altri battibecchi riescono a trascinarci in piscina, anche se io so che sarei dovuta rimanere sulla sdraio a fare l'indifferente, ma questo non rientra nel mio carattere.

Non appena sfioro l'acqua con la punta del piede, sia Giaco che Gabri cominciano a inondare sia me che Tita, che finiamo per tuffarci cercando di vendicarci.

Ma ora non ha più senso: loro hanno raggiunto il loro scopo e noi siamo fregate. Che sfiga.

Quando finalmente usciamo, sono sfinita ma felice, perché alla fin fine mi sono divertita con i miei amici. Loro sono le persone che non mi giudicano, che non invadono i miei spazi e a cui riesco a tenere testa come se niente fosse. Tita, in particolare, sa quando non voglio essere disturbata, quando sono in un momento negativo o cosa può usare per minacciarmi quando mi rifiuto di dirle cosa mi affligge.

Come quella mattina nel bagno della scuola.

Non devo pensarci, lo so. Però, anche se non sembra, qualcuno mi ha dato le facoltà mentali per elaborare pensieri, e spesso questi pensieri sono fastidiosi e poco piacevoli.

Quando io e Tita riusciamo a spedire i ragazzi al bar perché devono farsi perdonare e un gelato è la cosa più adatta a tale scopo, la mia amica mi osserva con uno sguardo un po' preoccupato, che non riesco tanto a interpretare.

«Tita, cosa c'è?»

«Tu pensi che Gabri mi ami, Berty?» mi chiede a bruciapelo.

«Ma certo!» salto su senza esitazioni. Non ho alcun dubbio a riguardo, quei due sono fatti l'uno per l'altra, perché mai si mette certe stronzate in testa?

«Sono confusa, mi sembra...»

Mi guardo intorno per paura che i ragazzi siano di ritorno, poi ribatto: «Senti, non devi avere dubbi! Lo vedo come si comporta. Forse non sono adatta a queste cose, non sono esperta e non ne voglio sapere... però non sono cieca, né rincoglionita! Ma ti dico una cosa: parlagli. Solo così potrai capire se ti nasconde qualcosa, se ci tiene davvero. Parla con lui e guardalo negli occhi, non permettergli di scansare lo sguardo».

Da dove viene tutta questa saggezza? Mentre questa domanda prende forma, vedo che anche Tita sta pensando la stessa identica cosa, dato che mi fissa a bocca aperta senza sapere cosa ribattere.

«I consigli sono più facile da dare che da seguire» ammette infine chinando il capo.

«Lo so, ma bisogna provarci. Cosa ti fa pensare che lui...»

«Lo sento distante Berty, tutto qui. Ma tu hai ragione, ne discuterò con lui e si vedrà.»

Ci guardiamo in silenzio e sento che mi dispiace davvero che Tita abbia dei dubbi su Gabri, perché a me pare che tra loro vada tutto benissimo e che non potrebbero mai stare separati.

«Ma dovresti seguire anche tu il consiglio che mi hai dato» se ne esce lei all'improvviso.

«Eh?» sbotto sorpresa.

«Con Filippo. Dovresti parlarci.»

Non capisco cosa dovrei dirgli. Io non volevo pensare a lui, non ora, non più. Ma lei sembra volermi indurre verso questa direzione e io non so cosa dirle. Da quando lui è venuto a pranzo a casa mia e dopo che insieme abbiamo vissuto quello schifo, non abbiamo più parlato.

Non ho voluto farlo io e lui ha rispettato la mia decisione, semplicemente perché è convinto che tornerò da lui non appena me la sentirò. Non ha ancora capito che non dipendo da lui, che la mia vita va avanti e non c'è niente che possa accomunarmi a una persona del genere.

«Per dirgli cosa?»

«Che ti dispiace» mormora Tita serissima.

«Ma non mi dispiace» sibilo tra i denti, rendendomi conto troppo tardi di aver stretto i pugni e che lei se n'è subito accorta. «Semplicemente non ha senso, io e lui non abbiamo niente da spartire» aggiungo, e mi sento piuttosto patetica. Cerco sempre di mentire a Tita, ma ormai dovrei sapere che lei – come nessun altro – mi conosce troppo bene.

«Albertina, ascoltami» dice lei con tono solenne, allungandosi per afferrarmi le mani e stringerle tra le sue.

La scena mi preoccupa, è un momento molto strano e ho anche paura di ciò che lei sta per dirmi, ma mi limito ad annuire e attendere. Inoltre spero che i ragazzi non tornino proprio ora da noi.

Ma ovviamente, proprio in quel momento, quei due cretini piombano da noi sventolandoci davanti agli occhi due cornetti. Quando io e Tita li osserviamo, hanno dipinto in faccia un sorriso troppo stupido che ci fa scoppiare a ridere, perciò non riusciamo a incazzarci per aver interrotto il nostro momento.

Cominciamo tutti insieme a fare merenda, ma io sono curiosa di sapere cosa voleva dirmi la mia amica.

Non appena finisco di mangiare, mi alzo per andare a buttare la carta del gelato in un cestino e i miei occhi incontrano quelli azzurri di Checco. Cerco di non paralizzarmi in mezzo al nulla, però è fottutamente difficile, merda.

Faccio tutto di fretta e distolgo subito lo sguardo, non ho proprio voglia di incasinarmi.

Tita invece sta guardando proprio in quella direzione e non mi dà neanche il tempo di tornare a sedermi, afferra la sua borsa, si alza e annuncia: «Ragazzi, noi andiamo in bagno. Grazie ancora per il gelato, siete dei tesori!».

E poco dopo mi sento trascinare verso la toilette delle donne. So cosa sta succedendo, ma non ne ho voglia, ora non me la sento di affrontare cose poco importanti e che potrei affrontare con calma prima o poi. Perché non lo capisce?

«Ti dicevo prima, appunto, che devi fare qualcosa!» mi incita Tita senza neanche entrare in bagno. «Ma hai visto come ti ha guardato?» aggiunge fermandosi di botto e afferrandomi per le spalle.

«E come?»

«Ti stava mangiando con gli occhi, ti stava...»

«Okay, stop! Non voglio vomitare, ti prego» la blocco, sollevando le mani in segno di resa.

Ho capito il concetto, ma non lo accetto.

«Insomma, si nota che c'è qualcosa tra di voi! Sai, è un po' come quando tu parli di me e Gabri: cosa mi hai detto poco fa?»

Rimango basita da quelle parole, faccio per dire qualcosa, ma lei subito mi ferma con un gesto della mano.

«Non sono cieca Albertina, anche io mi rendo conto delle cose, sai?»

«Ma tu lo sai come sono fatta» mi arrendo, stanca di negare l'evidenza. Non so perché, ma quel ragazzo mi fa uno strano effetto e io non posso negarlo neanche se lo volessi con tutta me stessa. Ci ho provato, ho fatto di tutto per allontanare il pensieri, ma purtroppo è evidente.

«Puoi migliorare, puoi farcela! Devi darti un'opportunità, e darla anche a lui» sorride lei con una dolcezza infinita. «Quel ragazzo stravede per te, lo vuoi capire una buona volta?»

Mi volto nella direzione in cui ho visto Checco poco fa: è seduto su una sdraio e scherza con i suoi amici, i capelli scompigliati dalla brezza e la pelle abbronzata esposta al sole; mi soffermo a osservare i suoi movimenti e all'improvviso avverto come l'impellente necessità di essere accanto a lui e di toccarlo.

Mi riscuoto con violenza e fisso Tita, dopo aver preso la mia decisione.

«No» dico con fermezza. «Non funzionerà.»

Poi le do le spalle, osservo la piscina e comincio a correre ancor prima che lei possa aggiungere altro. La sento chiamare il mio nome, ma mi getto in acqua e dimentico tutto ciò che mi circonda.

Non funzionerà mai.

Chiudo gli occhi e comincio a nuotare per tutta la piscina come una forsennata, scaricando così tutta la tensione che il farneticare di Tita mi ha scaraventato addosso.

Mi conosco. Posso capire il romanticismo di Tita, posso capire le sue speranze e posso capire anche che tra me e Checco c'è irrimediabilmente qualcosa. Ma la realtà è un'altra cosa, la realtà è fatta di traumi da dover superare, traumi che non si riescono a superare.

E il fatto che mia madre si sia già fatta le pippe mentali su me e il suo adorato allievo mi fa ribrezzo, oltre che irritarmi all'inverosimile.

Ogni tanto quel terribile momento in camera mia torna a tormentarmi, il ricordo di me e Checco che ci guardiamo impietriti mentre quelle due bestie si accoppiavano come se non ci fosse un domani. Quell'abominio che mi rende così inavvicinabile.

Quando riemergo, mi viene quasi un colpo e d'istinto cerco di indietreggiare, ma in acqua – e soprattutto in un punto così profondo – mi risulta veramente impossibile.

Filippo è di fronte a me e mi sorride tristemente, tenendosi a galla senza quasi muoversi.

«Vuoi farmi morire?» lo aggredisco cercando di calmarmi prima che lui si renda conto di qualcosa.

«No» risponde semplicemente, poi mi afferra per un polso e mi trascina verso un punto meno profondo della piscina, poco distante dal bordo.

Non oso sollevare lo sguardo verso i miei amici, perché non so cosa stanno pensando e ho paura di scoprirlo.

Quando ci fermiamo, lui subito mi lascia andare e spiega: «Avevo paura che non saresti più riemersa».

Rimango spiazzatissima, non me l'aspettavo minimamente e credevo che avesse delle intenzioni completamente diverse.

«Cercavo solo di dimenticare» mi sento dire, e non so perché cazzo l'ho detto. Sto diventando cretina e la cosa peggiore è che questo è anche e soprattutto causato dalla sua presenza.

«Dimenticare non è mai facile, a volte è inutile provarci» commenta.

Senza accorgermene, mi ritrovo con le mani intrecciate alle sue sott'acqua e la cosa non mi sembra poi così male; è come se avessi l'impressione che nessuno può saperlo, nessuno se ne può accorgere. Sì, sono proprio andata, completamente!

«Perché non lasci che io ti eviti?» gli chiedo stancamente, non sapendo più cosa utilizzare per difendermi da questa situazione impossibile.

«Perché non voglio» ribatte subito. «Perché ti voglio» aggiunge in un sussurro.

Mi sento invadere da una sensazione incredibile, indescrivibile, qualcosa che non avevo mai provato prima e che non sono sicura di star provando adesso. Sembra paradossale, qualcosa di così strano che non riesco neanche a sentire reale, ma che è reale eccome!

«Albertina, lasciati amare, ti prego» continua a dire, stringendo più forte le mie mani tra le sue. Mi strattona leggermente e mi fa avvicinare di più a lui.

Sono impotente, non posso impedirglielo, non voglio impedirglielo, dannazione! Non devo permettere a Maria Vittoria di rovinarmi la vita più di quanto non abbia già fatto. Non è detto che stare con Checco significhi che io e lui ci accoppieremo come bestie, no, assolutamente no. Lo sento, sento che lui avrà rispetto nei miei confronti, per la prima volta lo capisco. Sa cosa vivo ogni giorno con i miei genitori, non farebbe mai nulla per farmi soffrire e per farmi sentire a disagio. Avrei dovuto capirlo da quell'abbraccio in camera mia, ma ero troppo scossa e cocciuta per ascoltare le sensazioni che stavano più in profondità.

«Non qui» sussurro soltanto, poi mi allontano da lui ed esco dalla piscina, sconfitta per la prima volta nella mia vita, anche se mi sento tutto fuorché perdente.


Ho capito qualcosa di me stessa, devo soltanto metterla in pratica. Forse questo è solo uno dei piccoli passi che dovrò fare nella mia vita, ma da qualcosa si deve pur cominciare.

Lo so che voi, cari lettori, stavate leggendo una storia comica, ma c'è sempre una morale anche nelle scene più divertenti e nelle situazioni più buffe.

La mia morale è questa: i mostri non spariscono da soli, bisogna combatterli; ed è sempre meglio quando qualcuno accanto a noi ci tiene la mano e ci dà la forza per affrontarli, perché noi esseri umani non siamo fatti per vivere in solitudine e abbiamo tanto da imparare da chi ci circonda.

Albertina vi saluta, augurando buona vita a tutti voi.

Siate forti, abbiate fiducia nel prossimo, ma soprattutto in voi stessi.



Lo so, lo so... non vi aspettavate che la storia di Albertina finisse così, immagino.

Be', neanche io, devo essere sincera: pensavo che si sarebbe conclusa presto, ma non così presto. Non odiatemi, vi prego.

So che i più romantici avrebbero voluto saperne di più di Berty e Checco, ma vi dico fin da ora che ho altri progetti per loro e che quindi vi conviene stare all'erta! ;)

Per il resto, la storia – come vi ha detto Berty stessa – è nata come una comica e come tale dev'essere letta e interpretata, ma diciamo che non sono portata per le nonsense o le demenziali che non hanno un messaggio tra le righe, se capite cosa intendo. La mia intenzione è sempre quella di far crescere i miei personaggi, spesso facendo capire a loro e a me stessa cose che senza la scrittura e senza un cammino di questo tipo non verrebbero mai comprese.

Spero che questa idea di comico/morale sia piaciuta a tutti e che non mi uccidiate per aver già concluso la narrazione XD

Bene, ora passiamo ai ringraziamenti! Un grazie, innanzitutto, a chi ha seguito questa storia, anche senza mai commentare: se l'avete letta e vi ha fatto piacere farlo, ben venga. Io comunque sono qui se volete lasciare una recensione, non la rifiuto e non vi mangio! :P

Ma il grazie più grande va a DreamNini, Seiyako, Marss, Soul_Shine, nanami02, Frenzthedreamer (anche per avermi concesso di utilizzare i suoi Scarti del Caseificio), Hanna McHonnor, Milkendy, Martinez_, MaximWalker, ToraStrife. Ognuno di voi mi ha dato tanto e mi ha sostenuto durante la stesura della storia, che non è stata per me affatto semplice. Chi più chi meno ha recensito i miei capitoli e qualcuno di voi c'è stato dall'inizio alla fine, senza lasciarmi neanche un attimo da sola, ma per me siete stati importanti tutti. Grazie di cuore, davvero, se Berty è cresciuta ed è arrivata fin qui non è solo merito mio, lo sapete bene.

Ora mi ritiro e vi saluto tutti, alla prossima e non dimenticatevi di stare attenti, perché Berty potrebbe spuntare da un momento all'altro nel mio profilo e lanciarvi una delle sue assurde sfide :D

A presto,

Kim ♥

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