10 Songs Challenge - Cristiana e Riccardo

di Dea Elisa
(/viewuser.php?uid=100271)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi Dispiace - Laura Pausini ***
Capitolo 2: *** Io Non Ti Sposerò - Marco Masini ***
Capitolo 3: *** Senza Fare Sul Serio - Malika Ayane ***
Capitolo 4: *** Il Diluvio Universale - Annalisa ***
Capitolo 5: *** Io Ricomincerei - Nek ***
Capitolo 6: *** Era Una Vita Che Ti Stavo Aspettando - Francesco Renga ***
Capitolo 7: *** Sei Come Me - L'Aura ***
Capitolo 8: *** E Penso A Te - Fiorella Mannoia (cover) ***
Capitolo 9: *** Come Un Pittore - Modà ***
Capitolo 10: *** La Fine - Tiziano Ferro ***



Capitolo 1
*** Mi Dispiace - Laura Pausini ***


1 - Scegli un personaggio, una coppia o un fandom.

2 - Apri la tua cartella di musica e seleziona la modalità di riproduzione casuale e fai partire.

3 - Scrivi una drabble-flashfic che sia collegata alla canzone che sta andando. Hai tempo fino al termine della canzone per terminare la drabble: inizi con l’inizio della canzone e finisci quando finisce, niente esitazioni! Non importa quanto scombussolata è la tua drabble.

4 - Scrivine 10, poi pubblicale.




Mi Dispiace – Laura Pausini

 

Note. In occasione della festa della mamma, perché non parlare di Cristiana come madre?

 

«Mamma, hai comprato i cereali?» Senti la voce di Elena dal piano di sopra, seguita subito dopo dal rumore sordo dei suoi piedi coperti dai calzini correre giù per le scale di parquet.

«Guarda nella busta della spesa, spero di aver-»

«Ma sono al cioccolato, iper-calorici, mamma!»

«C’erano solo questi.» Sistemi il cappotto all’appendiabiti e prendi un bel respiro senza farle capire la stanchezza, la poca voglia di discutere, le poche ore che mancavano al tuo turno successivo, la cena ancora da preparare…

«Ma non sei andata al supermercato?»

«Ci siamo fermati ad un minimarket mentre tornavamo a casa.»

«Pasta di cacao, cacao in polvere, tonnellate di zucchero…!? Scusa aspetta un secondo» solleva gli occhi dalla lista ingredienti incriminata. «Vi siete fermati tu e chi

Sollevi gli occhi al cielo e prendi tempo, afferrando confezioni a caso dalle buste della spesa appoggiate sul tavolo. Per un attimo dimentichi quale fosse la disposizione dei prodotti nei vari ripiani della cucina, e te ne stai lì, in mezzo alla stanza, con la scatola di caffè in una mano e quella di uova dall’altra.

«Mamma?»

«Ti dispiace aiutarmi a mettere a posto?»

Elena mugugna controvoglia. «Devo finire i compiti. E mi dici con chi sei venuta a casa? Ancora lui?»

«Non ho intenzione di discuterne per l’ennesima volta.»

«Se tu credi che per te sia un bene frequentare quell’antipatico» alza la voce, «senza pensare minimamente a ciò che penso io…»

Sbatti sul tavolo la roba che avevi in mano. Poco male per le uova, stasera Elena si accontenterà di una frittata. «A te penso sempre. Al mattino, quando esco di casa prima di te e ti lascio apparecchiato per la colazione, e mi detesto perché non ho ancora capito quali accidenti di cereali ti piacciano. E poi mi chiedo cosa fai, con chi sei, se ti annoi a stare a sentire alle lezioni, se ti interrogano o se hai una verifica.»

«Non lo sai mai, non me lo chiedi mai!»

«E tu dimmelo.»

«Domani. Domani ho il compito di mate e non so un cavolo e tu invece te ne vai in giro con Malosti e-»

«Però ho preso il gelato, e se continui a lamentarti e non lo metti in freezer, non ci sarà di nessun aiuto stanotte.»

«Stanotte?»

«Non hai detto che domani hai matematica e non sai niente?»

 

***


L’orologio sul cellulare segna le 3 e 20 del mattino. Elena è stesa a pancia in giù sul divano, abbracciata ai cuscini. Sul tappeto sono sparsi fogli di calcoli e quaderni, e sulle tue gambe giace, aperto e scarabocchiato, il libro di testo di matematica. Sul tavolino troneggia la vaschetta di gelato, i residui a colorare le pareti sotto forma di gocce sciolte.

«Una vaschetta di gelato e cereali dietetici» sussurri sorridendo. «Miss coerenza.»

Elena si muove leggermente, nel dormiveglia. «Grazie mamma» borbotta, la voce impastata. «Ti voglio bene.»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Io Non Ti Sposerò - Marco Masini ***


Io Non Ti Sposerò – Marco Masini


Note. Ambientata in occasione del matrimonio di Valerio.

 

«L’ho visto un po’ titubante.»

«Ma che dici.»

Malosti sistemò la stola di Cristiana, scivolata giù dalla spalla. Lei gli sorrise, con la sicurezza del viso leggermente nascosto dal cappello.

«Sì, insomma, sposarsi così, dopo neanche un anno.»

«Tu non lo faresti mai, non serve ricordarmelo ogni giorno.» Cristiana abbassò lo sguardo e si avviò verso la macchina. Niente rinfresco, niente ristorante; l’umore, sebbene fino a poco prima fosse sufficientemente in linea con l’aria di festa, si era rabbuiato. Al contrario del cielo, ora più limpido, che si preoccupava di bagnare gli invitati con le ultime gocce di pioggia.

«Vai a casa» la sua non era una domanda.

«Sì» confermò lei.

«Non resti» riformulò lui.

«Fate un po’ di baldoria anche per me.»

«L’ultimo matrimonio a cui sono andato era il mio.»

«Quindi? Non vuoi prendere spunto per il tuo prossimo? Ah no, scusa.»

«Mica ci si sposa così, da un giorno all’altro, solo perché si sta bene insieme.»

«Ah no, infatti» Cristiana gesticolò, le chiavi della macchina in mano. «Di quanti mesi – o anni – di prova avresti bisogno?»

«Da quant’è che ci conosciamo io e te?»

«Ma che c’entra?»

«Per capire. Siete voi donne che tenete il conto delle cose. Compleanni, anniversari, appuntamenti dal dentista…»

«Che romantico che sei. Il dentista.»

«Magari è più bello del marito. Con la scusa di un’otturazione…»

«Sei anni» tagliò corto lei.

«Mh.»

«Suppongo ancora troppo pochi. Non mi sposeresti mai, sono salva.» Gli volse le spalle con finta disinvoltura e indifferenza, e girò la chiave nella serratura. Due volte su tre si bloccava. Quella volta, quell’unica volta che avrebbe voluto lo facesse, ruotò silenziosa, e la portiera si sbloccò senza fatica. Quand’erano state le altre due? Certo: quella mattina presto partendo da casa, e un paio di ore prima, al parcheggio del Morandini. Merda.

«Cristiana.»

«Non si apre.» Adesso siamo passati alle bugie?

Riccardo si avvicinò e si sostituì alle sue mani. «Per forza, è già aperta.»

«Ah.» Complimenti per la sceneggiata.

«Comunque hai ragione, non ti sposerò.»

Cristiana appoggiò una mano aperta al finestrino, senza respiro, come se qualcuno le avesse inferto un pugno allo stomaco. Perché faceva così male? Non era niente che non ti aspettassi.

E l’avevi voluto tu.

Lui quasi non se ne accorse. «Non se ti presenti come questa sposa, con quell’orribile vestito e con quell’orribile pettinatura.»

«Allora verrò in camice.» Salì in fretta in macchina, riprendendo a respirare. Forse la situazione non era così irrecuperabile. Mise in moto e si allontanò con un rapido gesto di saluto.

Troppo rapido per vedere il sorriso divertito sul volto di Malosti. Troppo in fretta per potersi accorgere della sua mano in tasca a cercare il cellulare.

 

“Potrebbe essere un’idea.”

E poi schiacciò invia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Senza Fare Sul Serio - Malika Ayane ***


Senza Fare Sul Serio – Malika Ayane

 

Note. Non ce l’ho fatta a farla più corta; quando inizio non mi fermerai mai, e se volevo dare un senso alla cosa dovevo andare oltre i minuti della canzone.

 

«Questa è l’ultima, almeno per ora» consegni la cartella a Teresa, che ti sorride senza dire niente. Servono solo una manciata di secondi perché la sua espressione si rabbui.

«Tutto bene dottoressa?»

«Sì, perché?»

«Ha due occhiaie, la vedo stanca.»

«Si chiama ‘il mio letto mi sta aspettando’, in gergo tecnico, s’intende.»

«Sì, ‘occhiaie’ è brutto.»

Ti lasci andare ad una risata, implorando che nel frattempo l’orologio scorresse velocemente gli ultimi 5 minuti del turno.

Malosti si avvicina ad ampi passi, costeggiando il bancone dell’accettazione e tamburellando sulla sua superficie per tutta la lunghezza.

«E questo cos’era?» domanda Teresa non smettendo di sorridere. «Buon umore? Alle 8 di sera?»

«Quello è una prerogativa di voi donne, ve lo lascio volentieri.» Picchietta più forte sul bancone. «O almeno lo è 25 giorni al mese.»

«Ah, ci sta discriminando, dottor Malosti? La parità dei sessi, gli stessi diritti, posizioni e retribuzioni lavorative…»

Con due dita le fai segno di tagliare corto. Teresa mugugna dispiaciuta di non completare il suo monologo, si liscia la divisa con entrambe le mani e saluta con un cenno del capo, dichiarando, più a se stessa che ai due davanti a lei, che se voleva andare a casa doveva prima sistemare le cartelle degli ultimi pazienti.

«Si chiama ‘ho bisogno di un consulto’» ricomincia Riccardo.

«Scusa?» ti eri persa nelle chiacchiere di Teresa e tra gli ingranaggi del tuo cervello, che cigolavano al ritmo di casa-cena-bagno caldo-letto. E Malosti ci aveva messo un dito in mezzo, e Malosti aveva fermato quell’orologio maledetto, e Malosti ti stava guardando, l’espressione dubbiosa e al tempo stesso impaziente.

«Vogliamo fare notte?» ti rimbecca.

«Hai visto che ore sono? Ti prego, chiedi a Valerio o Nicola, devo preparare la cena ad Elena, se arrivo in ritardo anche stasera potrebbe ripudiarmi come madre.»

«Un paio di ore fa non mi avevi detto che sarebbe andata a cenare fuori con suo padre?»

Brava.

Sei la madre migliore dell’anno, la bugiarda peggiore del secolo, la collega più collaborativa del giorno.

«Ecco, me n’ero già dimenticata.»

Non era una bugia, no? Forse piccola piccola

«L’età avanza, Gandini.»

«Rimango ancora più giovane di te.»

«E cos’è questa?»

Ti si avvicina lentamente, una mano alzata, lo sguardo assorto a fissarti il viso. Ti ritrovi a non pensare più a niente. Niente casa, niente bagno caldo – beh un bel bagno caldo, però… no, no, no –, niente letto – beh dipende all’uso che se ne fa… no Cristiana, a cosa vai a pensare –, solo Riccardo Riccardo Riccardo.

Socchiudi le labbra, così, tanto per poterti affidare alla tua testa un’ultima volta e proferire una parola che sia una, una frase qualsiasi. Ma l’unica cosa che fai è guardarlo, mentre lui guarda te.

La sua mano si avvicina alla tua guancia, e sei già pronta ad appoggiartici, e lasciarti accarezzare, mentre due o tre scimmiette-neuroni che ancora sopravvivono nella tua testa ti gridano che ci dev’essere una trappola.

Dov’è lo striscione ‘scherzi a parte’?

«Una ruga!» sfrega il suo pollice lungo il margine tra occhio tempia.

Niente striscione. Ma puoi immaginare tante bandierine bianche sventolare nel tuo cervello.

Ritrae in fretta la mano, e ti fa segno di seguirlo. «Prima mi dai la tua opinione sul versamento pleurico del letto 12, e poi chissà.» Si ferma e guarda indietro, sorpreso di trovarti appena dietro di lui. «Ti ho mai detto che mi piacciono le donne mature? Potrei anche invitarti fuori a cena.»

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il Diluvio Universale - Annalisa ***


Il Diluvio Universale – Annalisa

 

Ogni volta che tra noi due sembra comparire un gradino su cui alzarsi per andare avanti, ecco che scompare qualcos’altro. Un pezzo di ringhiera – e dove mai potrò aggrapparmi allora, a te? – o il pianerottolo precedente. Eccomi allora intrappolata tra un futuro a cui non posso correre incontro, e un passato a cui la mia testa non vuole far ritorno. Chi dice che è il presente ciò che conta, non credo abbia sempre ragione. Conta se del presente siamo soddisfatti, se non vorremmo mai cambiasse, se siamo così felici da essere terrorizzati che qualcosa possa minarlo. Io su questo presente galleggio, spesso indifferente, aspettando che un’onda più forte di un’altra mi trasporti più in là. O mi faccia affogare, giusto in attesa che tu possa salvarmi. Ma non mi abbandono a questa fiducia nei tuoi confronti, non adesso che ancora non capisco quale considerazione tu abbia di me.

Mi costringi così a sognare un futuro che tu adesso non sai offrirmi.

Ridi dei miei sbagli, prendi in giro il mio rapporto con gli uomini e addirittura consideri insufficiente il mio ruolo di madre. Ti permetti di criticare ogni cosa, giudichi come se i parametri dell’essere umano perfetto appartenessero a te; ciascuno che si allontana da questi termini di paragone non ha facoltà di concorrere per la tua approvazione.

E mentre ti guardo, seduto al tavolino della zona ristoro, in pausa pranzo – e ancora mi infastidisce che non mi abbia proposto di passarla con te –, mi chiedo cosa ci faccio, ancora qua, a studiare ogni tuo gesto, a calcolare quando potresti sorridere, a sperare che ti accorga di me, gettandomi magari un’occhiataccia.

Una delle cose che sai fare meglio.

 

«Hai mangiato?»

Riapro gli occhi. Avevo spento il cervello per qualche minuto, giusto il tempo perché ti accorgessi di una dottoressa appisolata ad un tavolino tristemente ingombrato da un'unica bottiglietta d’acqua. Mi preparo a una delle tue migliori battute, anzi, mi stupisco che la tua domanda non fosse andata dritta a chiedermi se ero pagata per dormire. E tu per vincere ogni giorno il premio empatia.

«No.»

«Ah, giusto: prova costume tra qualche mese.»

Odio questa realtà, odio te, che non mi lasci niente di concreto su cui gettare le mie speranze, odio volerti così bene, e odio stare così male.

«Ti offro un caffè, accelera il metabolismo.»

«Ne ho già preso uno. Mi verrà la tachicardia.» Ci viene così naturale, estraniarci dalla realtà anche solo rientrando nella disciplina che pratichiamo ogni giorno. Basta un riferimento qualsiasi e torniamo ad essere medici, se mai è possibile smetterlo di esserlo. Possibile e conveniente, dati gli esiti spesso disastrosi dei nostri dialoghi ‘senza camice’.

«La tachicardia? Quella ti viene perché ci sono io.»

«Ti definisci anche causa dei miei mali, adesso?»

«E se fossi il tuo medico ti prescriverei di starmi lontano.» Faccio per aprire bocca, per dire che ci starei volentieri se non fossimo obbligati da contratto, che quando riesco a farlo sei tu a cercarmi. Ma mi anticipi, dopo esserti avvicinato a me. «Però non saresti una paziente modello.»

Strano, che tu abbia ragione. Continuiamo a guardarci in silenzio per decine di secondi, l’offerta di un caffè ancora in sospeso, il turno ancora lungo che mi avrebbe portata molte altre volte a scontrarmi con te, il desiderio di sentirmi completamente apatica quando siamo a meno di un paio di metri di distanza.

Mi alzo, scansandoti con una mano all’altezza del tuo petto, senza mai sfiorarti.

«Dove vai?»

«A farmi prescrivere da Sergio un beta-bloccante.» Voleva essere un modo per ribattere provocatoriamente alle tue battutine da quindicenne, ma uscì come un’ammissione in piena regola dei tuoi sospetti.

 

Se non fossi voltata di spalle ti vedrei ora sorridere.

Se non fossi già lontana ti sentirei sussurrare «Prendine una confezione anche per me.»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Io Ricomincerei - Nek ***


Io Ricomincerei – Nek

 

Note. Ennesima licenza out-of-challenge, perché è eternamente lunga.

 

Tecnicamente Cristiana avrebbe dovuto interpretare con arte magistrale la donna soddisfatta della propria vita sentimentale, a maggior ragione se supportata da un giovane e vivace specializzando, in ritardo e distratto sul lavoro, ma mai quando si trattava di accompagnarla per locali e passare fuori gran parte della notte.

Ed era proprio questo piccolo particolare che a Riccardo non sfuggiva mai, ogni mattina, neanche con tutta la volontà del mondo per trattenersi dal farglielo notare – sinceramente, di quale volontà stiamo parlando? Lo stesso stava per ripetersi quella mattina, con occhiate (o sarebbe stato meglio parlare di occhiaie?), parole e gesti sovrapponibili a quelli di tutte le altre mattine.

 

Eccoli a salutarsi, e lui a fissarla con l’espressione dubbiosa.

«Non dire niente, già lo so» l’ammonì Cristiana, senza nemmeno prendersi il cruccio di guardarlo, ma solo scuotendo per aria una mano come ad allontanare da sé lui e quell’argomento.

Stava infatti litigando con il lucchetto del proprio armadietto, e non aveva tempo da perdere ad occupare la mente in funzioni cognitive superiori. Almeno non prima di rifornirsi della seconda dose di caffeina.

Ci pensò Riccardo, a strapparle d’in mano chiave e lucchetto, e a risolvere il problema.

«Non riesco a pensarti a suturare un fegato sanguinante» considerò Riccardo.

«E io a farti gli affari tuoi.»

Era stanca abbastanza dal non mettere in conto che chiunque, Malosti o non Malosti, sarebbe stato in grado di farglielo notare.

«I miei sono consigli dal punto di vista professionale.»

«Non ti sei mai preoccupato di fornirmeli precedentemente al suo arrivo. È come se… oh, che sciocchezza.»

«Rendimi partecipe. Me la dimenticherò tra esattamente 120 secondi, perciò non temere, il tuo segreto sarà protetto da Teresa.»

Cristiana rispose senza pensarci troppo. Perché, se ci avesse pensato, sarebbe uscita da quella stanza troncando la discussione. Che forse sarebbe stato meglio. «Da quando sto con Daniele è come se sbandierassi un cartello con su scritto ‘Esisto anche io’.» Sagomò per aria un rettangolo all’altezza della sua testa. «Prima di tutto questo non eri affatto interessato alla mia vita sentimentale, a come passavo le mie serate, a quanti caffè avrei dovuto prendere per ristabilire un contatto con il mondo, alla mia performance in sala operatoria. Ero io e basta, una collega come tante.» Sospirò, pronta a dire qualcosa di cui si pentì subito dopo. «Se non ti conoscessi direi che sei geloso, solo perché sto con un altro.»

Infatti Riccardo rise. E lei scosse la testa, rassegnata al suo comportamento infantile, una delle tante cose che non sarebbero mai cambiate di lui.

«Aspetta, ho capito. Sapevo foste complicate, voi donne, ma mi stai mettendo alla prova più che mai» l’ultima osservazione la fece in un borbottio, non mancando di alterare ulteriormente il già pessimo umore di Cristiana. «Mi stai dicendo che sto usando il tuo ragazzino come pretesto per ammettere di avere qualche interesse nei tuoi confronti».

Lei non rispose. Detto così, senza giri di parole, non sapeva più se fosse la sintesi più giusta da estrapolare da quel discorso. Non gli diede una conferma, tanto non sarebbe servita a cambiare le sue idee.

«Spiegami perché il pretesto non possa essere invece il tuo.» Malosti che si impegnava a strutturare un dialogo formativo con lei non era da tutti i giorni. Forse davvero gli interessava venirne a capo. No, probabilmente stava gettando le basi per confutare la tesi di Cristiana e perciò liberarsi dalle accuse di ‘interesse sentimentale nei confronti di una collega’. «Escludiamo un attimo la mia ingombrante presenza dalla vostra idilliaca coppia, e parliamo di te.» Si appoggiò al tavolo in mezzo alla stanza. Sarebbe stata una cosa lunga? Cristiana rimase comunque in piedi, accanto all’armadietto aperto. «Qual è l’obiettivo che ti sei prefissata stando insieme a lui? Sposarti, farti una famiglia, dare un fratellino ad Elena?»

Cristiana chiuse gli occhi deglutendo a fatica, ma si costrinse ad ascoltare quelle parole, le stesse che quando tornava a casa alle 3 di notte la sua testa le martellava nelle orecchie. Solo che, ascoltate a voce alta, avevano un impatto ben più violento.

«Non lo possiamo forse chiamare ‘solo un gioco’?» continuò Riccardo. «E allora torniamo a prima: tu credi che sia io, l’uomo dei pretesti, quando il pretesto l’hai scelto tu, forse perché non puoi avere chi davvero vuoi.»

«No» ribatté automaticamente, a voce più alta e roca. «No, non c’è nessuno che voglio più di lui. È quello che ho adesso, ed entrambi sappiamo che questa relazione si limita qui, al presente. Nessuno dei due vuole guardare un po’ più in là.»

«Vorrei solo avere uno specchio per mostrare anche a te l’espressione con cui mi stai deliziando in questo istante.»

Poco credibile, sicuramente. In un film di ultima categoria avrebbero saputo interpretarla meglio.

«Cristiana, lui vuole qualcosa di più serio di quanto tu gli voglia offrire.»

«E se anche ammettessi che è così, e se anche ci lasciassimo, cosa importerebbe a te?»

Riccardo sorrise. Quanto poteva essere legata a lui, se da quell’unico dialogo la sua mente stava già rincorrendo l’idea di separarsi da lui?

«Almeno sul lavoro non saresti più così distratta, lui gira sempre attaccato alle tue gonne. Sono io il suo tutor.»

«Passiamo dall’essere geloso di me all’essere geloso di un tuo studente. Tanto sei tu che gli firmi le ore, sei tu che gli dici quello che deve fare. E se quello che deve fare è leggere cartelle cliniche di 3 anni fa in archivio per farsi una cultura, non è la strategia ideale per invogliarlo a continuare la sua specializzazione.»

«Tanto ci pensi tu ad invogliarlo. A fare cosa non è dato atto di saperlo.»

«Sei sgradevole, antipatico, odioso. Quando parliamo di lui o di me, si va sempre a finire lì. Ti dà fastidio? Non pensarci, trovati una donna, così smetterai di essere così acido.»

«Acido? Sono le donne ad essere acide.»

«E gli uomini che si chiamano Riccardo Malosti e che una donna non ce l’hanno.»

«Sono una specie protetta.»

«E perché non sei in gabbia?»

«Oh-oh, Gandini, bel tentativo. Non siamo allo zoo. Devo potermi muovere, ho bisogno di spazio, altrimenti ne soffro.»

«E fai soffrire anche noi.»

«Adesso c’è un voi? Do ut des, ma senza troppa simmetria. Non sei forse il ritratto della felicità? E per compenso, chi dovrebbe risentirne di più tra me e te?»

«Non c’è una quantità fissata di gioia nel mondo, da ripartire tra tutti gli esseri umani.»

«Sono convinto del contrario.» “Almeno tra noi due”. «Perciò, visto che non sono io il disagiato, in tutto questo, e dunque stamattina mi sono alzato con la mia dose ottimale di felicità, forse sotto questa tua maschera nascondi giusto un po’ di turbamento e insoddisfazione. E non parlo dello strato di fondotinta con cui hai esagerato stamattina per coprire la ristrettezza di sonno. Il sonno profondo ne risente, se vai a letto alle 4 e ti alzi alle 6.»

«C’ero anch’io alle lezioni di neurofisiologia.»

«Qui di fisiologico non c’è niente, mi pare. E di neuro forse meno ancora.»

«E questo ti disturba.»

«Curo i miei pazienti apposta. Dalla patologia alla fisiologia, dalla patologia alla fisiologia.»

«Non sono una tua paziente.»

«Il medico è prima di tutto un analizzatore della psiche altrui. Lo sai percentualmente quanta gente soffre di disturbi psichici prima di quelli fisici?»

«Qui dentro il 50%.»

«Sono d’accordo.» Rise.

Cristiana venne sopraffatta dal desiderio di tirargli un pugno. Ma non era mai stata tanto forte, non gli avrebbe fatto tutto il male che voleva. Così decise di concludere con una smorfia, che voleva mostrare risentimento, rabbia, fastidio, irritazione, antipatia. Ma che semplicemente esitò in un tentativo poco riuscito di copertura di una risata.

«Ah!» le puntò un dito accusatore. «Ho ragione.»

«Nel tuo mondo ce l’hai sempre, nel mio un po’ meno.»

Si zittirono entrambi, a guardarsi, a chiedersi se ci fosse altro da dirsi, e dove fosse nascosta la verità in tutte le parole pronunciate che vagavano ora per la stanza.

 

Riccardo si avvicinò a lei, che, già pronta a indietreggiare, si trovò bloccata dalla fila di armadietti. «Io ricomincerei daccapo, che dici?»

«Forse» farfugliò Cristiana, scossa da un brivido.

«Allora» riprese lui, sempre più vicino, e sempre più sorridente. «Io ti piaccio?»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Era Una Vita Che Ti Stavo Aspettando - Francesco Renga ***


Era Una Vita Che Ti Stavo Aspettando – Francesco Renga

 

Note. Re-interpretazione della scena finale del terzo episodio (La notte dei morti viventi).

 

Seduti sulla panchina, guardi il cielo, e guardi me, e non lo sai quello che è successo stanotte, perché se lo sapessi non continueresti a guardarmi e sorridere, a scorrere gli occhi sul mio corpo, contornato da quest’abito. So che mi sta bene, e lo sai anche tu, ma non vuoi dirmelo, e se fossi in te non me lo direi, perché io saprei.

Saprei quello che ti ho fatto stanotte, saprei che sono la donna più stupida di questa terra, saprei che tu mi stai guardando, che tu sei qui per me e con me, io che non merito i tuoi occhi e il tuo sorriso.

Il vento mi scompiglia i capelli, e io li risistemo dietro l’orecchio, mentre tu segui ogni mio gesto.

Se fossi in te mi darei uno schiaffo, fisico e astratto, me ne andrei da questa panchina, mi lascerei da sola. Non stiamo insieme, non lo siamo stati in passato, eppure c’è solo una parola che mi sta vorticando in testa: tradimento.

Ti ho tradito perché avrei voluto e dovuto essere insieme a te, nel cuore e in sala operatoria. Ti ho tradito e ho tradito me stessa e il coraggio di affrontarti, preferendo la strada più facile, quella per cui non c’è bisogno di pensare e studiare e inventare e inseguirti e capirti.

Ma se fossi in te forse saprei cosa stai pensando adesso. Saprei che non stanno sorridendo solo le tue labbra, ma anche il tuo cuore, che mi sta dicendo che sono bellissima, che ti dà fastidio non essertene accorto prima. Ho sciupato una vita inseguendo sogni, pochi dei quali si sono realizzati. Tu sei il mio prossimo sogno, e mentre ti sogno, qui, su questa panchina, tu continui a guardarmi e sorridermi, e a dirmi che era una vita che mi stavi aspettando.

Così mi scende una lacrima, e te ne accorgi, e l’asciughi col pollice. Ma non sono pronta al contatto con le tue mani, così finisco per scattare indietro.

«Gandini, non credevo di fare quest’effetto alle donne.»

«Hai le mani fredde.»

«Intendevo piangere. A quanto pare l’appellativo ‘mostro’ si riscontra nei suoi effetti.» Fai una pausa, e cerco di tenere la testa bassa. Non voglio farti capire che di mostro ci sono solo io. «E non ho mai avuto le mani fredde. Hai paura di me?»

Di dirti la verità.

«Ciao Riccardo» mi alzo dalla panchina, ma mi blocchi trattenendomi per una mano.

«Sei tu, quella che ha le mani gelate.»

Mi risiedo, mentre mi dici di aspettare un attimo. Ma lo sappiamo entrambi che ti aspetterei anche per tutta la vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sei Come Me - L'Aura ***


Sei Come Me – L’Aura

 

Ho provato ad essere un’altra, diversa dalla donna che sono, a nascondere le emozioni, che siano il batticuore dell’amore che provo per te, o le lacrime della rassegnazione di avere perso un figlio.

Ho provato ad essere cattiva, a passare sopra a tutto, a reagire con disprezzo, a risponderti a tono, anche male, per poi questo male provarlo io stessa tornando a casa. Ce n’era il bisogno, di essere così per poter vincere la realtà di ciò che ho dentro e che vorrebbe urlare?

Ho provato ad essere come te, freddo e cinico, indifferente alla sofferenza del mondo. Ma testardo, forte, lucido in ogni occasione – quasi: coi figli non ci si riesce, e questo perlomeno puoi insegnarmelo anche tu.

Prendere le distanze, o recitare sono le armi che indosso ogni giorno per combattere la guerra con me stessa e sopravvivere alla voglia di parlare, di lasciarmi andare, di staccare questa flebo che mi infonde parole e frasi fatte. Questa non si chiama sincerità.

Ma oggi, mentre mi abbracci, il foglio del risultato del test stropicciato tra noi, ho capito che tu sei come me, con la voglia di inseguire un sogno, anche se non lo vuoi dire ad alta voce. Con la voglia di essere felice, anche se per te la felicità è una condizione irraggiungibile. Ma esserlo vuol dire anche sorridere guardandosi, tornare a casa insieme, cenare allo stesso tavolo dei nostri figli senza battibecchi o musi lunghi.

Con la convinzione di non voler più cambiare le persone, perché sono anche i loro pensieri e le loro opinioni a renderci quello che siamo. E un mondo fatto di gente uguale a noi non avrebbe senso di esistere.

Mi sussurri che vorresti portarmi a casa, festeggiare, e poi mi baci ancora, e ammetti di sentirti come all’uscita da un incubo. Tutto questo è così strano, e tutto questo è così bello: mi sembra di rivedermi in te, atteggiamenti e reazioni simili, aperte, senza vergogna, dire ciò che piace, dire ciò che serve.

Mi ripeti grazie grazie grazie, le tue mani solide attorno al mio volto, e io che non so se piangere, sorridere, o semplicemente ringraziarti di rimando, per avere avuto fiducia in noi.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** E Penso A Te - Fiorella Mannoia (cover) ***


E Penso A Te – Fiorella Mannoia (cover)

 

«Stamattina sei più orribile del solito.»

«E tu stranamente delicato.»

«Una delle mie migliori qualità.»

«Non oso immaginare le peggiori.»

«Neanche la mia ex moglie ne ha avuto esperienza.»

«Le è bastato l’indispensabile per decidere di salvarsi la vita.»

Cristiana sbadigliò, gli occhi in procinto di chiudersi spontaneamente.

«Prima della tua ultima insinuazione stavo per offrirti un caffè.»

«Prima del tuo primo complimento stavo per iniziare la giornata col sorriso.»

«Al pensiero che sarei stata la prima persona che avresti incontrato.»

«Sì, Riccardo, sei il mio primo pensiero appena mi sveglio: come sopportare, per l’ennesima volta, la tua dolcezza e comprensione.»

«Sembra il titolo di un manuale d’istruzioni. Fortunatamente per te, non sono così complicato da averne uno.»

«Te ne servirebbe una biblioteca, infatti.»

«Io con te risparmio sulla tessera, invece. Non c’è bisogno neanche di un foglietto dei baci Perugina.»

«A volte mi piace essere prevedibile. Do meno da pensar male agli altri.»

Strano, perché Riccardo invece si dannava.

A conoscere tutto di quella donna.

E comunque mai abbastanza.

«Stanotte sei uscita con il ragazzino che ti è venuto a prendere in moto.»

Cristiana scrollò le spalle, indifferente.

L’avevano vista numerosi colleghi.

Si distrasse a infilarsi il camice, compiaciuta che lui avesse scelto di farglielo notare.

«Ti ha fatto fare tardi, oggi penserai a lui tutto il giorno, ma è a me che starai accanto.»

Non è vero.

È sempre a lui, cui dirotterà l’attenzione ogni ora di quel turno.

E non vede l’ora di farlo, ogni giorno. Muore dalla voglia di sopportarlo, di essere rimproverata per ogni minima questione in disaccordo, di aggirarsi al suo fianco per i corridoi, come coppia fissa che di fatto non è.

«Ma non c’è niente tra voi.»

Cristiana si avvolse il fonendoscopio al collo e si bloccò a guardarlo. Le piaceva da impazzire, quel suo sguardo corrucciato, l’aspetto un poco disordinato, la camminata dinoccolata che stava facendo nei passi per raggiungerla.

«Ti lascio il beneficio del dubbio» lo liquidò.

«Non ne ho bisogno. Io non ho mai dubbi.»

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Come Un Pittore - Modà ***


Come Un Pittore – Modà

 

A volte mi chiedo quante donne appartengano alla mia categoria.

E non intendo chirurghe generali, bensì innamorate e non corrisposte. Stamattina mi sono svegliata così, con questo tarlo in testa. Quante donne amano un uomo senza la reciprocità del sentimento?

Poi mi rispondo da sola. Tante.

E io sono una di queste.

E mi urlo in testa che sono solo una gran sfigata. Una delle tante, ma poco importa: io sono una, e già così è sufficiente per sentirsi sciocca e inutile allo stesso tempo.

E illusa, tra l'altro, perché non passa giorno che Malosti non mi tratti con saccenza e bisogno di rassicurazione sulla sua posizione di dominanza. Come fossi un comparatore, per poter dire che lui è meglio di me sul lavoro, o addirittura come genitore – e su questo ultimo punto avrei da dissentire. Per cui, peggio che poter sperare in una relazione è sapere che tra noi non sussiste neanche una forma di vera amicizia, o di stima.

Oppure sono solo io che ho le idee contorte in merito al rapporto di coppia.

Ma è frustrante, in un ambito lavorativo di questo tipo, dover impegnare la testa anche per capire come approcciarsi a lui, cosa dire per non rischiare brutte figure, per non farlo arrabbiare, per guadagnare un po’ di rispetto e considerazione.

 

L'osservo entrare con la sua solita calma, e con l'atteggiamento di chi non verrebbe a lavorare il lunedì mattina nemmeno sotto tortura, soprattutto dopo una domenica in cui non era di turno.

E non è quello che sembra: non mi sono preoccupata di controllare i suoi turni settimanali.

Li ho solo imparati a memoria.

 

«'Giorno» borbotta secondo le mie aspettative, dopo essersi appoggiato al bancone dell’ingresso.

Continuo a fissarlo davanti alle porte del corridoio, qualche metro più in là, sperando che si volti nella mia direzione.

Perché voglio che mi saluti.

Ma sparisce in sala d'attesa dopo aver strappato dalle mani di Teresa una cartella azzurra.

Chissà se mi ha evitata di proposito.

 

«Ah buongiorno Gandini.»

La stessa cartella azzurra in mano, ora rincorso da un genitore che stringe a sé il figlio.

Sorrido, o rido, non so precisamente ciò che sto facendo.

«Fammi un fischio quando deciderai di renderti utile alla sanità pubblica.»

La giornata non poteva iniziare meglio.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La Fine - Tiziano Ferro ***


La Fine – Tiziano Ferro

 

«E vaffanculo.»

«Eh no!»

La porta già tra le mani, pronta ad essere sbattuta, la rabbia addosso, il cuore in gola.

E lui che si alza, la tua vista offuscata dal nervosismo, la sua mano a sbattere la porta al tuo posto.

Ma in quella stanza rimanete entrambi, più vicini e più arrabbiati.

«Che vuoi?»

«Avevamo promesso a Sergio di chiarire la situazione.»

«Io non avevo promesso niente.»

«Ma io sì, e non voglio fare brutta figura.»

Aspetti istruzioni. Visto che era lui il direttore dei lavori, visto che erano sue le decisioni, visto che erano sempre gli altri a sbagliare. Quando non seguivano le sue disposizioni.

«Che cosa ti fa incazzare così?»

Ti accorgi che, pur di distanziarti da lui, hai concluso la tua corsa quando la schiena si appoggia agli armadietti dietro di te, e fai un balzo in avanti senza volerlo, quasi scottassero. Ma non sai che sarebbe servito solo a peggiorare la situazione, e ora ancora più di prima cerchi un modo per non lasciarti intrappolare e condizionare da quegli occhi. Apri le mani davanti a te, segno universale per mantenere le distanze, ma lui non è universale, lui è Malosti, e a Malosti non importa. Anzi, metterti a disagio era uno dei suoi primi obiettivi.

«Quindi? Ho dei pazienti da salvare, rispondimi.»

Poggia una mano sulla superficie di un armadietto, passando col braccio sopra la tua spalla sinistra. Osservi il suo gesto come diversivo per distogliere lo sguardo dalla sua espressione irritata e al contempo divertita.

Dove vuoi arrivare?

«Incompatibilità di carattere» ammetti, a bassa voce.

«Tra me e Guidi, tra me e te o tra noi e Sergio?»

«Certe volte sei così…»

«Così come? Su, Cristiana, ho quello con la colica che-»

«Insopportabile!» sbotti finalmente. «Non ti va mai bene quello che faccio, quello che dico, cosa faccio fuori da qui, e con chi lo faccio. Perché? Cosa ti ho fatto?»

Riccardo ridacchia. «Mi piace quando fai la vittima. Imposti anche la voce, sai, un po’ rauca, come se avessi pianto.»

Ma quelle lacrime le trattieni. «Sei uno stronzo.»

«Come dovrei interpretarlo nel dizionario donne-uomini?»

Non tolleri più le sue parole, e la sua prepotenza, e quel braccio, e quell’angolo in cui sei incastrata, e quel sorriso, e glielo afferri, quel braccio, cercando di scollarlo da lì, inutilmente. Opti allora per la strada meno pericolosa, trovando un varco dalla parte opposta, ma stavolta sono entrambe le sue braccia a trattenerti, bloccata con la schiena contro il suo torace.

«Credo che ‘stronzo’ sia intraducibile» rispondi, senza fargli capire che quelle mani sul tuo corpo suscitano in te sensazioni agli antipodi rispetto alle grida che ti riempiono la testa. «Potrei denunciarti per sequestro di persona.»

«Ti stai facendo sequestrare molto volentieri.»

«‘Non muoverti o sarà peggio’, come con le api» ti difendi. Ruoti la testa verso di lui. «Ti chiedo per cortesia di togliermi le mani di dosso e farò finta che gli ultimi 10 minuti non siano mai esistiti.»

«Tra 10 minuti potresti pentirtene.»

Prima che il tuo cervello possa elaborare la frase, hai la sua bocca sulla tua.






La canzone parla per me: è arrivata la fine anche di questa avventura. Grazie a voi lettori, silenziosi o meno, e grazie a te (sì, proprio a te, glorypong14!), che mi hai sempre recensito, e scritto, accompagnandomi anche con le tue, di storie.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3444515