2015 - Storia di una squadra

di Blue13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

Prologo

 

 

La vita di un calciatore famoso non è come le altre. Per quanto uno si possa sforzare di seguire una routine semplice come tutti gli altri, la normalità si limiterà al caffè o al croissant della colazione. Non andrà a lavorare in un angusto ufficio, non prenderà la metro, non farà la fila al supermercato aspettando impaziente il proprio turno, non sentirà il peso angosciante di non vedersi arrivare la paga alla fine del mese. Si può pensare che la sua quindi sia una vita facile, in cui le salite della quotidianità altrui per lui sono discese. Ma ci si sbaglia. Il fatto che la sua vita sia diversa non significa che sia più facile.

Vivere non è mai facile, indipendentemente che quel tipo di vita si sia scelto consapevolmente o sia capitato. Soprattutto al giorno d’oggi, soprattutto nel nostro mondo moderno e senza pace.

 

 

 

 

 

Capitolo 1                                  

 

 

 Redazione del Süddeutsche Zeitung, Monaco di Baviera

 

 

Gennaio 2015

 

 

“Voglio l’articolo sul trasferimento di Wakabayashi entro la pausa pranzo.” Andandosene via il direttore diede un colpo alla scrivania, facendo cadere il fermacarte. Mi chinai a raccoglierlo e lo sguardo mi cadde sulle lettere nere stampate sopra. “Adrian Schröder”. Rimasi fermo imbambolato per qualche secondo, come se non sapessi nemmeno chi fosse quella persona. E invece quello era il mio nome.

A 17 anni avevo deciso che sarei diventato un giornalista sportivo. Mi sono sempre piaciuti gli sport, specialmente quelli invernali. Nato in un paesino della bassa Baviera incastonato tra i dolci pendii delle Alpi, sin da piccolo aspettavo l’arrivo della neve per fiondarmi sulle piste da sci. Non ho mai voluto entrare nell’agonismo o diventare un campione. Quello che mi affascinava era scrivere su questi sport. Dopo la laurea all’Università di Francoforte iniziai a lavorare per il Frankfurter Allgemeine, dapprima come segretario tuttofare, poi come aiutante e infine come giornalista vero e proprio. Lì scrissi i miei primi articoli sportivi. Sul calcio e la Formula 1, dal momento che altri sport sembravano non esistere, o almeno nel mio ufficio. Così ebbi la grande idea di tornare in Baviera e lavorare per il Süddeutsche Zeitung, credendo che essendo più vicino alle mie amate montagne avrei avuto più possibilità di scrivere sugli sport che preferivo. Mi sbagliavo. Certo, gli articoli sui campionati mondiali di sci e snowboard non potevano mancare, ma si trattava di una ventina di articoli l’anno. Per il resto calcio. Nemmeno più la Formula 1, che era rimasta a Francoforte. Solo calcio. Ma del resto, come può un giornale farne a meno? Lo sport più praticato in Germania e nel mondo e probabilmente lo sport con il maggior giro di soldi che sia mai esistito. Calciatori milionari, con più spot pubblicitari dei più famosi fotomodelli e con più auto di un concessionario. Per carità, c’erano anche i talenti. Come quelli che si stavano allegramente riunendo in Baviera.

Ebbi il tempismo perfetto di iniziare a lavorare a Monaco nel periodo d’oro della squadra della città. “Il Diamante d’Europa”, così i giornalisti e i telecronisti sportivi chiamavano il Bayern Monaco. L’allenatore Franz Schneider, oltre a riprendersi il figlio dall’Amburgo di Zeeman, stava spendendo una barca di soldi per accaparrarsi i migliori calciatori in Europa. Lo svedese Stefan Levin e il cinese Shunko Sho erano le ultime due stelle giunte a casa Bayern. Neanche a metà stagione si parlava già del Bayern come potenziale vincitrice della Bundesliga e della Champions League. Franz però ripeteva a ogni rassegna stampa una cosa, un dettaglio non ininfluente per una squadra con così alte aspettative e aulici obiettivi. E devo dire che io ero d’accordo con lui. Quello che ancora mancava al Bayern per essere davvero un diamante era la punta su cui poggiarsi e restare in equilibrio: il portiere.

E chi meglio del giapponese?”  pensai scrivendo le prime righe dell’articolo. Genzo Wakabayashi ormai aveva già un piede in Baviera e per come stavano andando le cose tra lui e l’allenatore dell’Amburgo le trattative non sarebbero durate ancora molto. Certo, l’aver abbandonato la porta proprio all’ultimo minuto e proprio contro il Bayern non era stata una mossa intelligente. Ma la scelta di Zeeman di relegarlo in panchina a tempo indeterminato lasciando la porta dell’Amburgo in mano a un demente non era stata da meno. L’Amburgo stava affondando sommersa dai goal delle squadre più disparate e la rottura tra allenatore e portiere era ormai irreparabile.

“… Wakabayashi si inserirà rapidamente nel nuovo ambiente, considerando soprattutto l’amicizia di lunga data con l’attaccante Schneider, ex capitano dell’Amburgo, con il quale il giovane giapponese ha legato sin dall’inizio della sua carriera in Europa…” continuavo a scrivere svogliato, chiedendomi come un portiere sconosciuto potesse essere piombato nel vecchio continente e aver fatto una tale carriera. Evidentemente il giapponese aveva talento.

Seh, giapponese. Di giapponese non c’ha proprio un bel niente”. Lo conoscevo solo tramite foto e video, ma da quel poco che avevo visto non assomigliava proprio a un giapponese. Era noto che la sua famiglia aveva origini tedesche e che i genitori vivessero a Londra, tuttavia me lo ero sempre immaginato con gli occhi a mandorla. Sebbene non trovassi in Wakabayashi un argomento interessante su cui scrivere, ammetto di aver avuto un briciolo di curiosità nei confronti di quel giovane campione del mondo ormai ventenne. Nei mesi seguenti l’avrei conosciuto sicuramente meglio.

 

 

Franz Josef Strauss International Airport, Monaco d Baviera

 

 

Febbraio 2015

 

 

Gentili passeggeri, siamo atterrati a Monaco di Baviera.

Continuai a tenere il cappuccio calato sulla fronte e rimasi immobile con la testa appoggiata al finestrino facendo finta di dormire, mentre gli altri passeggeri stavano già tirando giù le valigie dagli scomparti. Quando l’aereo iniziò a svuotarsi mi alzai, presi la valigia e il borsone con lo stemma dell’ormai passata Amburgo e scesi, salutando in modo svelto la giovane hostess all’uscita. Attraversai i controlli e schizzai fuori dall’aeroporto per respirare la nuova aria pungente di Monaco. Ad un tratto notai con la coda dell’occhio un uomo con degli occhiali da sole neri fermarsi accanto a me, anche lui incappucciato. Quando vidi un ciuffetto biondo spuntare furtivo dalla felpa sorrisi.

“Sei addirittura venuto a prendermi, notevole.”

“Alla fine hai ceduto.” Mi disse con piglio vincente.

“Preferisco dire che ho accettato una proposta vantaggiosa.” Risposi con tono disinteressato.

“Avanti, lo so che in altre circostanze non avresti accettato.” Si voltò e sebbene le lenti dei suoi occhiali fossero scurissime sentii comunque il suo sguardo fisso su di me. Erano passati anni dall’ultima partita giocata assieme, ma mi conosceva ancora bene. Sapeva che per me non era stato facile lasciare la squadra che mi aveva accolto al mio arrivo in Europa, la famiglia che negli anni mi aveva cresciuto fino a farmi diventare un vero professionista. Era vero, se la situazione fosse stata diversa non avrei ceduto alle richieste sue e di suo padre.

“Spero solo ne valga la pena.” Gli dissi serio, reggendo il suo sguardo nascosto dietro le lenti.

“Non te ne pentirai.” Alzò un braccio e mi tese la sua mano. “Benvenuto a casa Bayern, Genzo.” Sorrisi, ricambiando il gesto.

“Danke, Karl.”

 

 

Appartamento di Adrian

 

 

Spensi il televisore alla fine del notiziario serale, restando sul divano a meditare sulle notizie della giornata. Ancora attentati in Medio Oriente, mentre le trattative procedevano lente e con difficoltà. Ancora problemi nell’Unione Europea. E ancora una vittoria schiacciante del Bayern. Certo, detto così mi rende un uomo alquanto superficiale, ma in quel momento era importante per me, perché ormai , volente o non, ero diventato il principale giornalista sportivo a occuparmi del percorso stellato del Diamante in Germania e in Europa. Era davvero una grande squadra, non c’era nulla da dire. Wakabayashi si era fatto notare da subito. Franz Schneider l’aveva piazzato in porta alla prima partita, contro il temibile Dortmund. Al terzo minuto il giovane aveva fatto sbiancare il mister in panchina e tremare gli spalti uscendo un’altra volta dai pali, correndo incontro al pallone a metà strada tra lui e la punta della squadra avversaria. Il suo tiro potentissimo fece svanire la paura e spedì il pallone dall’altra parte del campo, vicino all’area di rigore. Lì c’era Schneider ad aspettarlo, fermo tra la voragine della difesa che non l’aveva nemmeno notato, troppo concentrata a seguire l’azione dei compagni terminata nel peggiore dei modi. Aveva fermato il tiro con il petto, si era preparato a calciare e in un secondo il pallone era in rete. Ricordo di aver riguardato quell’azione per una decina di volte, per il semplice fatto che non riuscivo a credere che con due soli passaggi si potesse fare un goal del genere. La partita era finita con un 3-0. Ora a distanza di mesi la porta del Bayern era ancora inviolata grazie all’eccellente performance del suo portiere, e io continuavo a scrivere articoli su articoli colmi di lodi prima nei suoi confronti, poi nei confronti del capitano, poi sulle “meravigliose” cannonate di Levin che in ben due casi avevano infortunato i portieri avversari e infine sugli assist perfetti di Sho. Insomma, ormai ero conosciuto nel mondo del giornalismo (e credo anche tra i diretti interessati) come una sorta di guru del Bayern. Ma al mio direttore tutto questo non bastava. Per lui non era sufficiente guardarsi tutte le partite, le interviste e le discussioni negli studi televisivi fino alla nausea, per lui bisognava fare di più. Per riuscire a scrivere davvero sui campioni, per capire i loro comportamenti in campo bisognava entrare nelle loro vite e scrutarle più a fondo possibile, cosa che al giorno d’oggi risulta molto più semplice rispetto ai vecchi tempi senza internet. Fu così che fui costretto a mettere “mi piace” alle loro pagine ufficiali e seguire i loro profili sia su Facebook che su Twitter. Iniziavo a sentirmi una sorta di Gossip girl e allo stesso tempo un perseguitato: quando uscivo dagli studi del giornale e salivo sul bus mi capitava di dare un’occhiata ai social network per “distrarmi” un po’ e tutto quello che trovavo erano foto e post dei calciatori su cui avevo appena smesso di scrivere. Foto di allenamenti, foto di auto luccicanti, foto di feste. Ah, le feste del Bayern Monaco, solo su quelle si potrebbe scrivere un libro illustrato. Ogni volta che la squadra vinceva una partita importante, come una semifinale o una finale di campionato, i giocatori organizzavano questa specie di “team party”. Facevano tutto da soli, sceglievano il mega loft dove festeggiare, ma soprattutto con chi. Erano loro che invitavano gli esterni, o forse dovrei dire le esterne. Dopo attente ricerche e analisi la severissima giuria Schneider – Sho – Levin invitava personalmente una dozzina di fortunate, cosicché nessuno rimanesse a mani vuote. Inutile dire che nella maggior parte dei casi si trattava di modelle tedesche o inglesi sull’onda del successo. Neanche a dirlo giornalisti e fotografi erano banditi da questi eventi, più o meno come l’Anticristo a San Pietro a Roma. Quindi uno si potrebbe chiedere come faccia a sapere queste cose. No, non mi sono travestito, se è questa l’idea. Semplicemente vedevo le loro foto su Facebook e Instagram. Erano proprio i partecipanti a postare caste immagini di una gioventù sorridente e sobria, di camicie ancora abbottonate e di eleganti calici di champagne. Quello che succedeva dopo nel corso della nottata non sarebbe mai venuto fuori, lasciando gli amanti del gossip con la bocca asciutta, i giornalisti senza nulla di scioccante da scrivere e i giocatori delle altre squadre pieni di invidia a rosicare. Ma il bello è che era proprio l’allenatore a spronarli. Durante una conferenza stampa un giornalista inglese gli aveva chiesto se tutta questa storia non rovinasse l’immagine del Bayern. Franz Schneider aveva risposto tranquillo che non era assolutamente una cosa negativa e che “anche i migliori campioni, quelli che si allenano ogni giorno, persino sotto la neve, hanno bisogno di svagarsi come il resto dei giovani”. Un’affermazione giusta e sacrosanta, verrebbe da dire. Peccato che il resto dei giovani non vivono in lussuosi loft, non bevono champagne e soprattutto non conoscono gli ultimi volti di Chanel e Valentino.











Angolo autore

Ciao a tutti, sono Blue e questa è la prima storia che scrivo su Captain Tsubasa. Mi sono immaginata come sarebbero le vite di Genzo e dei suoi compagni di squadra, ma anche del resto dei calciatori, nell’Europa e nel mondo di oggi.

I personaggi appartengono all’autore del manga Captain Tsubasa ad eccezione di alcuni nuovi personaggi inventati da me, come Adrian.

Ringrazio coloro che leggeranno, se volete lasciate una recensione 

Buona lettura!

Blue :)


 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Loft di Schneider

Febbraio 2015

“Dai che ne manca solo una!” Dissi continuando a guardare le varie foto su Instagram e Facebook. A ogni serata da organizzare era sempre la stessa storia. “Quella si frequenta con quello, quella si è fidanzata tre mesi fa, quella questo e quella quell’altro”. Neanche a farlo apposta quasi tutte le ragazze che partecipavano alle nostre nottate di baldoria nel giro di poco tempo si trasferivano o, peggio, si buttavano in relazioni che nessuno di noi avrebbe mai immaginato, al punto che ormai più che una squadra di calcio ci sentivamo una squadra di wedding planners. Però dai, guardiamo il bicchiere mezzo pieno: ciò significava che a ogni festa del Bayern c’era sempre carne fresca a disposizione. No, non eravamo un branco di pervertiti, eravamo semplicemente giovani, belli e famosi. Avevamo dei mezzi e delle possibilità che gli altri non avevano, mica potevamo farcene una colpa. Calciatori e modelle, le due facce della stessa meschina medaglia del successo. Spesso la passione non basta e diventiamo famosi per caso, grazie a qualcuno che ci butta sotto i riflettori quasi a forza, obbligandoci a lanciarci nel mondo del professionismo quasi sempre senza paracadute. L’unico modo per atterrare in piedi è tirare fuori gli attributi e mostrare tutto il tuo talento, perché se è vero che una spinta iniziale può arrivare dall’esterno, è anche vero che poi devi imparare a camminare, anzi, a correre sulle tue gambe.

“L’ultima deve essere la ciliegina sulla torta!” Sho si sedette vicino a me sul divano, seguendo con lo sguardo le foto di quei bei volti perfettamente simmetrici che si susseguivano sullo schermo del Mac. Nel vederlo così concentrato e serio mi venne da ridere. Shunko era semplicemente il miglior compagno di giuria che potessi avere. “Lei è bella, intelligente, pensa che me la prenderei io, ma le manca l’esperienza. Mi dispiace che  possa restarci male, ma è una roba seria questa…magari alla prossima finale di Bundesliga!” Esigente, onesto, diplomatico. Dopo aver girato ancora un po’ sui social decidemmo di dare ancora un’occhiata a una compagnia londinese che ingaggiava modelle per le più importanti sfilate della London Fashion Week, una delle nostre migliori risorse. Iniziai a scorrere velocemente nella sezione dei nuovi volti, finché all’improvviso Shunko mi urlò nell’orecchio “Fermo! Torna indietro!”. Cristo, manco avesse visto la Madonna. Tornai su e cliccai sulla foto che mi indicò Shunko. Entrambi rimanemmo a fissarla come due dementi per alcuni secondi. Altro che la Madonna…
“… Dio…” sussurrammo entrambi con un filo di voce. Nella foto c’era solo il suo volto, ma quello fu più che sufficiente per convincerci. Capelli neri a caschetto, con le ciocche che dalla riga al centro scendevano lisce incorniciando la pelle chiara e limpida come la neve. Labbra fine, forse un po’ troppo per i miei gusti, ma in una linea perfettamente orizzontale che le conferivano un’espressione indecifrabile e terribilmente stuzzicante. E poi il colpo finale: due zaffiri che ti penetravano come lame affilate. In Germania le ragazze con gli occhi azzurri sono la normalità, ma la sua tonalità era diversa, un azzurro chiarissimo tendente al ghiaccio. Probabilmente il contrasto con i capelli corvini incrementava l’effetto. Una cosa era certa, sarebbe stata mia.

“Tanja Koval, 20 anni, 1 metro e 79. Nata in Ucraina, vive da quattro anni a Londra. Alla scorsa Milano Fashion Week ha sfilato per Valentino, Elie Saab, Gucci e ha chiuso la sfilata di Chanel..”, Shunko leggeva la didascalia accanto all’immagine stupito, “.. Ma come diamine è possibile che non l’abbiamo trovata prima?” Bella domanda! Cercai di mantenere la calma e volsi lo sguardo verso l’altro divano.

“Levin, che te ne pare?” Prima di procedere all’invito ufficiale bisognava avere il nullaosta da parte del terzo membro della nostra giuria. Il più freddo e cinico, Levin. Lui era diverso da me e Sho, lui non si faceva prendere dalle emozioni, non faceva commenti volgari, non si lasciava influenzare da quelle bellezze. Perché la sua bellezza l’aveva lasciato anni prima, in un incidente stradale. Da quel momento il mio grande compagno di squadra, il famigerato cannoniere svedese non si era più avvicinato a una donna, nemmeno alle più belle, nemmeno alle più intelligenti e colte. A ogni serata come minimo la metà delle invitate avrebbe dato oro, argento e mirra per avere anche solo un suo bacio. Del resto, come biasimarle: biondissimo, occhi azzurri e un fisico da far paura. Ammetto che in confronto a lui pure io a volte mi sono sentito uno sfigato. Mi era capitato di pensare a come si sentisse durante le nostre feste, a cosa si provasse a essere circondati da ragazze mentre si pensa a quell’unica donna che si ha amato nella propria vita e d’istinto la si cerca con lo sguardo tra quei volti sconosciuti. Una volta, alla fine di un normale allenamento, ci avevo pure parlato negli spogliatoi. Avevo aspettato che tutti uscissero per poi avvicinarmi, posargli una mano sulla spalla e parlargli. In fondo ero il capitano, e un capitano deve fare anche questo. “Stefan, io posso solo immaginareMa se ti fanno star male, possiamo anche non farle. Non è un problema né per me, né per la squadra.” Ricordo ancora la sua risposta. “Parli delle feste? Oh no, per carità..” Si era voltato, guardandomi negli occhi con uno sguardo quasi divertito e continuando con tono ironico. “Mi diverto troppo a vedervi limonare su quei bei divanetti in pelle, o ancora meglio, in quelle belle vasche ricoperte di mosaico.” Eccolo, il freddo e cinico Stephan in tutto il suo splendore. Rimasi per un istante in silenzio, sbattendo le palpebre come se stessi sognando ad occhi aperti. “Scusa... hai detto vasche?” Sulle sue labbra si era stampato un sorrisino soddisfatto. “Sì Karl, vasche.” Tentai di ricordarmi una simile scena ma non me ne veniva in mente nessuna. Esageravo sempre con l’alcol durante quelle notti. Con un cenno della testa mi avvicinai a lui, come per farmi dire un segreto. “…Ma chi?” Gli chiesi sottovoce, morto sia di curiosità che di paura di essere l’argomento della discussione senza neanche saperlo. Tutto, ma limonare in una vasca no dai. A quel punto Levin sospirò facendo il finto  affranto e mi diede un paio di pacche sulla spalla. “Grazie capitano, ma non serve che ti preoccupi per me.” Se ne andò via lasciandomi solo nello spogliatoio. Ancora adesso non so di chi stesse parlando quel giorno, ma di certo è successo davvero. Levin è un ragazzo di poche parole, ma quelle poche che dice sono vere. So solo che in quel momento mi resi conto che lui, lui sì che era un uomo forte. 

Stefan si alzò dal divano, la sua espressione era indifferente e non fece una piega nemmeno quando gli mostrammo la foto. Questo suo modo di fare distaccato e tremendamente calcolatore mi teneva ogni volta sulle spine. Del timore che incuteva ai nostri avversari non ne parliamo. Mano a mano che si avvicinava alla porta, correndo con l’eleganza e la velocità di un ghepardo, i portieri diventavano sempre più angosciati e venivano assaliti dalla paura di veder le proprie dita delle mani maciullate. Ai calci di rigore poi, da morire dalle risate! Poche volte siamo finiti ai rigori veri e propri, di solito vincevamo sempre nel tempo regolare o al massimo al primo tempo supplementare, ma quando capitava tutta la squadra dava spettacolo, sia nei tiri che nelle parate. Sho insisteva sempre per essere il primo, ogni volta diceva che era “per testare l’erba” (dopo averci corso sopra per due ore, chiaro), poi altri due nostri compagni, poi Levin e infine io, che avevo l’infausto compito di dare il colpo finale. Al turno di Levin ci mettevamo tutti a guardare le espressioni svampite dei portieri. Si era fatto conoscere nel mondo del calcio per averne infortunati alcuni tirando in porta. Di certo non un bel biglietto da visita… Il nostro svedese poggiava il pallone a terra, indietreggiava di qualche metro e a quel punto cominciava a fissare il portiere dritto negli occhi. Il suo sguardo gelido e serio non lasciava intravedere alcuna emozione, ma nella sua mente aveva già la traiettoria perfetta del pallone. Era semplicemente impossibile capire dove e come avrebbe tirato e ciò mandava già in crisi la maggior parte dei portieri. Poi, quando socchiudeva le palpebre affilando lo sguardo, i poveretti in porta iniziavano a deglutire e a sudar freddo, alcuni di loro impallidivano. Credo che fosse quello il momento clou, l’attimo in cui si rendevano conto che il loro destino fosse ormai segnato. E tutto d’un tratto le sue gambe scattavano in avanti, le maniche corte e il colletto aperto della maglietta lasciavano in bella vista i muscoli delle braccia e del collo contratti e in un secondo partiva la cannonata. Veloce, potente, credo allo stesso livello del mio tiro. Qui entrava in gioco il libero arbitrio del portiere: c’era chi si buttava dall’altra parte per la propria incolumità, chi si buttava dalla parte giusta ma un’ora dopo e poi c’erano i martiri coraggiosi, quelli che cercavano di pararla e che poi si ritrovavano con le mani doloranti o peggio con qualche distorsione al polso o qualche dito rotto. Del resto, non tutti potevano avere il privilegio di avere un Wakabayashi in porta. 

“Mmh…” Levin, in piedi dietro al nostro divano, incrociò le braccia pensieroso, mentre io e Sho aspettavamo agonizzanti il suo giudizio. Per quanto la mia Tanja fosse bella, il verdetto doveva essere unanime, era una questione di unità e fratellanza.
“Mmh…” Stefan inclinò la testa da un lato, dopo un po’ dall’altro. C’era poco da dire, si divertiva a vedere gli altri penare.
“Mmh…”
“Allora?!?” A quel punto entrambi ci girammo all’indietro verso di lui seccati.
“Ti serve un binocolo?” Chiese Sho serio, ma Levin non si mosse di una virgola, come se non ci avesse sentito. Dopo interminabili secondi dischiuse finalmente quelle labbra ermetiche.
“…Mh, può andare.”
 “OOOH! È finita!!” Io e Sho spalancammo le braccia come se fossimo appena stati miracolati. “Stampala Karl!” Con uno scatto mi alzai dal divano e andai alla stampante nello studio. Dopo un minuto tornai in soggiorno con la foto della bella Tanja su carta lucida, presi un pezzo di nastro adesivo e la appesi assieme alle altre 10 elette. All’FBI avevano attaccate al muro le foto dei peggiori terroristi e criminali, mentre noi avevamo attaccate alla parete di casa le foto delle migliori modelle d’Europa. Beh, a ognuno il suo! Dopo ore e ore di intense e scrupolose ricerche finalmente tutti i buchi erano stati riempiti. Ci ritrovammo tutti e tre ad ammirare il nostro lavoro, chi emozionato, chi orgoglioso, chi più o meno indifferente.

“Ragazzi miei..” Guardai prima Shunko e poi Stefan, pregustandomi già la serata. Quando i nostri sguardi si incrociarono ci capimmo al volo e sulle nostre labbra si stamparono sorrisi vincenti.
 “…questa volta ci sarà da divertirsi.”

 

 

Ciao!
Eccomi col secondo capitolo. Ho cercato di caratterizzare un po’ i personaggi, in particolare questo santo trio.. non so perché ma nel descrivere l’ultima scena mi sono venuti in mente i tre Minions … probabilmente sono un po’ stanca.. :S
Prossimamente ci tufferemo in un piccolo mare di lusso sfrenato (e chissà, magari la leggendaria vasca di mosaico farà di nuovo la sua comparsa) e vedremo se Adrian troverà qualcosa da scrivere nei suoi articoli a riguardo : )
Ringrazio tantissimo i due lettori che mi hanno lasciato una recensione e coloro che hanno letto il primo capitolo! Ogni tipo di feedback è ben accetto, purché non offensivo XD
Buona lettura!
Blue

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Redazione del Süddeutsche Zeitung, Monaco di Baviera

“Monaco - Il Bayern Monaco ormai è conosciuto a livelli internazionali con il fatidico soprannome di Diamante. In effetti sembra essere una squadra perfetta, senza difetti o limiti. Eppure anche il diamante più bello e pregiato ha i suoi difetti. Un esempio? Nella classifica dei giocatori europei più pagati del 2014 tre dei primi sei sono del Bayern Monaco. E quest’anno il nuovo acquisto, Genzo Wakabayashi, andrà sicuramente a inserirsi nella lista. Il “diamante” costa, e parecchio.
-6° posto: Shunko Sho – 7 milioni netti all’anno

Maximilianstraße*, Monaco di Baviera

“Pronto?” Non appena la sua voce calda e sensuale invase l’auto sentii mille brividi corrermi giù per la schiena.

“Hey bellezza, dove sei? Tokyo? Los Angeles?” Tra un set fotografico e una passerella quella era sempre in giro per il mondo e io speravo con tutto me stesso che non fosse eccessivamente lontana.

“Sono a casa tua, Sho” All’inizio non capii a che cosa si riferisse e per un attimo fui così idiota da credere che fosse davvero a casa mia lì in Germania. Ancora non riesco a spiegarmi come certe volte possa perdere la testa così, tra l’altro parlando semplicemente al telefono aspettando il semaforo verde.

“Come hai detto scusa?” Nel frattempo la gente si era iniziata ad ammassare sul marciapiede e scrutava curiosa attraverso il finestrino nero. Mi sistemai gli occhiali da sole, mentre il mio sguardo continuava a essere fisso sulla luce rossa del semaforo e le mie orecchie tese a sentire la sua risposta.

“Ho detto che sono a casa tua”, la sua voce calma si lasciò andare a una risata elegante e femminile, “Sono a Shanghai, tesoro.” Non appena sentii la parola Shanghai pronunciata con quel suo accento così maledettamente britannico un sorriso mi si stampò sulle labbra. Inarcai la schiena, poggiai la testa sul sedile di pelle nera e allungai le braccia stringendo forte il volante con gli inserti metallizzati per scaricare quel lampo di tensione improvviso, sentendomi totalmente appagato e rilassato. Mettere la mia stupenda e grandiosa città natale e lei in un unico pensiero era semplicemente paradisiaco. Ma bisognava anche fare i conti con la realtà.
Cazzo, è parecchio lontana…”  Lontana o no, avevo un compito da portare a termine.

“Tra dieci giorni esatti, al mio loft qui a Monaco. Festa del Bayern.” L’amo era stato buttato, a quel punto dovevo solo sperare che abboccasse senza fare troppe storie.
“Non mi chiedi nemmeno se posso venire o no?” Ecco, lo sapevo.

“Bellezza, non hai possibilità di scelta, mi sembrava chiaro.” Cercai di buttarla lì come meglio potevo. Il semaforo diventò finalmente verde e partii lasciandomi dietro la folla di fan accalcata sul marciapiede. Non avevo nemmeno fatto caso a loro, ero troppo intento a pregare che non avesse altre sfilate nelle settimane seguenti. In macchina calò il silenzio per qualche istante.

“Devo girare degli spot pubblicitari qui e a Hong Kong.”
Porca miseria, sta’ a vedere che mi dà buca per davvero!” Sarebbe stata la prima volta della mia vita, il mio primo fallimento con una donna.

“…Dovrei arrivare a Monaco giusto in tempo.”

Ah, adesso sì che si ragiona!” D’istinto sorrisi e premetti il pedale dell’acceleratore. Il rombo riecheggiò per l’intera via. Doveva ancora arrivare il giorno in cui Sho sarebbe rimasto a mani vuote! La voce mugugnò qualcosa, dopodiché chiese insicura.

“Ma… Hai cambiato di nuovo auto?” Strabuzzai gli occhi e fui talmente preso alla sprovvista che passai dritto col giallo senza rendermene conto. Mi aveva scoperto ascoltando unicamente il motore quando avevo scalato la marcia, incredibile! Del resto la sua passione per le quattro ruote era una delle svariate ragioni per cui lei era la mia prediletta. I capelli perfettamente lisci e quel bel tatuaggio a ideogrammi cinesi sul fondo schiena erano altre due.

“Sì, ho deciso di farmi un regalo col bonus delle pubblicità. Ho una figlioletta Maserati adesso.” Con tutti gli spot pubblicitari che io, Schneider e gli altri avevamo fatto durante l’anno passato ci eravamo guadagnati un bel gruzzolo a testa. Certo, dire addio a una Porsche non è mai facile, ma bisogna pur godere dei piaceri della vita! La sentii mugugnare qualcosa con fare pensieroso, immaginando già cosa mi avrebbe chiesto di lì a poco.

“Ora che ci penso avrò bisogno di un passaggio una volta arrivata in aeroporto…” La sua voce si era fatta così dolce che fu impossibile dire di no a quella ruffiana.

“Non ti preoccupare, basta che vieni.” Ci salutammo, il suo numero scomparve dallo schermo sul cruscotto e tornò la radio. Proprio in quell’istante iniziarono a mandare i titoli delle principali notizie del giorno. D’impulso feci per mettere dentro il cd, ma mi bloccai per qualche istante ascoltando la presentatrice.
“-Esplosa un’auto bomba a Damasco, circa una trentina le vittime. È già la seconda questa settimana-”
Inserii in maniera brusca il cd e alzai il volume, mentre mi immettevo nell’autostrada e acceleravo rapidamente.

Pazzoidi.”  Pensai senza preoccuparmene più di tanto e lasciando scorrere le dita lungo gli inserti metallizzati del volante della mia brillante Maserati.

 

“-3° posto: Stefan Levin – 9.4 milioni netti all’anno.”

Villa di Levin

Misi giù il telefono e cancellai con la penna anche il terzo nominativo. Ormai ne mancava solo una, dopodiché quello che sembrava un centralino telefonico sarebbe finalmente tornato il tranquillo e scarno tavolo del mio soggiorno. Detestavo chiamare quelle donne, così come detestavo sentire le loro voci emozionate e i loro innocenti “oh!” di stupore simili a quelli di un porno. Tutta questa tiritera si ripeteva ormai da un anno, ma io non ci avrei mai fatto l’abitudine. Era stata tutta opera del mister e di Karl. Metti insieme padre Schneider e figlio Schneider, chiedi loro di darti un’idea per svagarti un po’ assieme alla squadra e loro se ne verranno fuori con mega feste totalmente private, tutto libertà e zero pensieri. Se non ti basta chiedi pure al figlio Schneider come fare a invitare gli ospiti e lui ti trascinerà nei suoi piani di conquista dell’universo femminile, facendoti diventare il terzo membro di una giuria alquanto improbabile. Karl e Sho ormai si affidavano ai miei verdetti da freddo cinico per stilare la lista finale. Del resto io ero quello più oggettivo, schietto e stronzo. Di quelle giovani ragazze non me ne poteva fregare proprio un cazzo, diciamocelo. Qualcuno potrebbe pensare che ci stessi male, ma non è vero nemmeno questo. Non mi faceva né caldo né freddo, così come non mi faceva alcun effetto giocare con una squadra o con l’altra. Tutto quello che mi serviva per vivere era un campo e un pallone, il resto poteva anche andare all’inferno.
Cerchiai con la penna l’ultimo numero. Sarah Martini, così si chiamava la ragazza. Rimasi un secondo a fissare le lettere pensieroso. A giudicare dal cognome doveva avere origini italiane, ma una cosa era certa: non l’avevo mai sentita prima.
Buh..” Presi il cellulare e digitai il numero. Attesi qualche secondo, poi una voce piuttosto seccata rispose.

“Pronto?!”

“Parlo con Sarah Martini?” Chiesi in maniera schietta e atona. Niente buongiorno, niente buonasera, niente. Cercavo sempre di far durare quelle conversazioni il meno possibile e di mantenere le distanze da quelle arpie. Ma quella non era un’arpia, era peggio.

“SI' E LE HO GIA' DETTO CHE NON MI INTERESSA!!” Urlò così forte che dovetti allontanare il telefono dall’orecchio e quando lo riavvicinai e sentii che era caduta la linea rimasi incredulo. Quella lì mi aveva chiuso il telefono in faccia! Mi salì subito il nervoso, non avevo pazienza per certe cose. Beh, se devo dire la verità io non ho pazienza proprio per niente. Per un attimo non seppi bene cosa fare e per la prima volta mi sentii un po’ fuori luogo a chiamare di nuovo quella dolce Sarah, ma non avevo altra scelta. Schneider e Sho mi avrebbero fatto una testa così e io non avrei retto. Così mi feci forza e a fatica mi armai di pazienza, prevedendo già svariati insulti. Questa vota dovetti aspettare di più, ma poi rispose.

“Ma che problemi ha?” Schietta e brusca, senza neanche un buongiorno o una buonasera, come qualcuno di mia conoscenza. Ma io non mi facevo smuovere da così poco.

“Sono Stefan Levin.” Le dissi con tono glaciale, sperando che questa volta mi lasciasse finire.

“Certo, e io sono Karl Heinz Schneider.” Simpatica, molto. Per la prossima festa avrei chiesto a quei due di raccogliere informazioni anche sul carattere e non solo sulla taglia di reggiseno.

“Non credo proprio, Karl è a casa a fare la stessa cosa che sto facendo io. Se non mi credi metto giù e ti faccio chiamare da lui, perché io non ho tempo da perdere.” A volte riuscivo a essere proprio odioso, ma in fondo era proprio per questo che ero famoso. Ci furono degli attimi di silenzio, evidentemente stava decidendo se fidarsi o no.

“Non sei l’unico. Ok, Levin.” Pose l’accento sul mio cognome e la cosa mi diede fastidio.
“Cosa vuoi?”
Io non voglio proprio un bel niente, ragazzina.” Pensai tra me e me, ma fui abbastanza tollerante da non dirglielo. Andai dritto al punto.

“Sei ufficialmente invitata alla festa della mia squadra, il Bayern Monaco. Tra dieci giorni. Se accetti ti comunicherò l’indirizzo più avanti.”

“Ma dai!”, rispose con tono ironico, “Ti chiederei il motivo, ma come ho già detto nemmeno io ho tempo da perdere. Va bene.”

“Bene.” Dissi monotono. Non la salutai nemmeno, misi immediatamente giù il telefono sbattendolo sul tavolo sbuffando. Cancellai anche il suo nome con una sola linea, premendo così forte la penna che feci quasi il buco sul foglio. Grazie a Dio anche questa volta era finita.

 

“-1° posto: Karl Heinz Schneider – 11.5 milioni netti all’anno.”

Loft di Schneider

“Ok, ce l’hai fatta.” Mi dissi buttandomi sul divano dopo aver camminato su e giù per la casa per dieci minuti. D’altra parte avevo bisogno di muovermi per scaricare la tensione, stavo chiamando la mia prediletta! Mi aveva risposto con una vocina un po’ gracile che faceva trasparire la sua giovinezza. Da subito avevo sentito l’accento tipico delle lingue slave fare capolino tra una parola e l’altra e l’avevo trovato estremamente sensuale e allo stesso tempo misterioso. Sì, se c’era una cosa che mi tormentava era proprio il suo essere misteriosa. Spesso mi mettevo a chiacchierare con le ragazze che telefonavo per farmi un po’ un’idea o per conoscerle di più, specialmente se erano già state invitate alle feste precedenti. Il problema era che alcune si emozionavano così tanto del fatto che dessi loro corda che non la smettevano più di raccontarmi la loro vita e facevo davvero fatica a riattaccare. Lei invece non si era minimamente scomposta. Aveva risposto con estrema educazione, tanto che mi era sembrato di parlare con una donna in carriera dai modi professionali e non con una giovane modella. E io non avevo voluto essere da meno. Le avevo spiegato per bene lo scopo della serata (forse gliel’avevo presentata in una maniera fin troppo nobile rispetto a ciò che sarebbe stata in realtà) e come funzionava per l’indirizzo e per il tragitto da percorrere senza farsi vedere da possibili giornalisti. Lei mi aveva seguito per tutto il discorso, annuendo e senza interrompermi mai. Alla fine mi aveva salutato con un neutro “Grazie e a presto” che mi aveva fatto sentire un po’ un vecchio. D’altra parte non potevo pretendere che mi salutasse con baci e abbracci, per lei ero ancora un sconosciuto. Il punto è che tutta questa discretezza mi stuzzicava ancora di più. Sentivo che lei non sarebbe stata facile come le altre, l’avrei dovuta conquistare sul serio. Era da tempo che non mi sentivo messo alla prova da una donna, che non sentivo quella tensione e quell’ansia leggera e stimolante al pensiero del primo incontro e del possibile esito. Erano emozioni che mi facevano sentire vivo, come quelle che provavo quando scendevo in campo.
Sorrisi, presi il cellulare e feci il numero a memoria. Mi rispose una voce super affannata.

“Pronto?”

“Genzo, non sputarmi un polmone proprio adesso che abbiamo tutte le invitate!” Lo sentii ridere e respirare a fondo. Quello andava sempre a correre, in ogni momento della giornata e in ogni posto.

“Tranquillo, non ho nessuna intenzione di morire prima del mio debutto nella vita brava del Bayern!” Vero, quella sarebbe stata la sua prima festa e già al pensiero di trascorrerla assieme bevendo e divertendoci come dei pazzi mi venne da ridere.

“Così ti voglio, portiere! Te ne ho tenute un paio, solo per te!” Rimase un attimo interdetto, poi mi disse titubante:

“Un…paio?” In effetti per come l’avevo detta non suonava molto bene.

“Sì, beh… poi scegli tu, ovvio..” Cercai di chiarire un po’ in imbarazzo. Io e Genzo ci eravamo conosciuti ancora da adolescenti e quindi ci era capitato di parlare di ragazze assieme, ma mai troppo nello specifico. Con lui non avevo la sfacciataggine di parlare di certe cose che avevo invece con Shunko, perché lui in un certo senso era ancora innocente e non si era ancora rovinato fino al midollo come noi due. Ma il momento sarebbe arrivato anche per lui, ne ero certo. Rise di nuovo e ciò mi fece sentire più a mio agio.

“Va bene amico, lo apprezzo.” Disse con tono scherzoso. Ci salutammo dandoci appuntamento all’allenamento del giorno seguente. Mancavano due giorni alla semifinale di Champions League contro l’Ajax. Sì, quella volta avevamo avuto una bella faccia tosta a organizzare la festa ancora prima di disputare la partita, ma eravamo sicuri di vincere. Avremmo vinto, perché noi eravamo i migliori. Noi eravamo il Diamante.

Ciao a tutti! Ho deciso di rimandare il lusso frenato al prossimo capitolo, intanto sappiamo che Sho ha un debole per le auto di lusso e Levin vive beato in una villa.. E sappiamo anche che questi grandi campioni non sembrano interessarsi molto a ciò che accade nel mondo… per ora :)

*Maximilianstraße è una delle strade principali di Monaco di Baviera dove ci sono boutique e negozi di brand famosi.

Grazie a chi legge, se volete lasciate un commentino :)
Baci,
Blue

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Appartamento di Adrian

30 marzo 2015, Semifinale di Champions League
 

Cross di Sho verso l’area avversaria, l’Ajax si chiude in difesa!” Continuavo a prendere appunti sul taccuino mentre seguivo il telecronista in tv. Erano le 22:30 di sera, mancava una ventina di minuti al fischio finale dell’arbitro. Quando sarebbe finita la partita avrei finalmente conosciuto la prima finalista della Champions League. A inizio partita davano la vittoria del Bayern per certa. Questa sicurezza però, dovevo dirlo, era un po’ svanita nel corso della partita e di sicuro ne avrei parlato nel mio articolo. Certo, stavano conducendo per 2 a 0, ma in svariati casi avevano rischiato il pareggio, o peggio, la sconfitta. Giocavano in una maniera decisamente troppo spavalda e ciò aveva causato degli errori di distrazione madornali, tanto che in due casi l’Ajax avrebbe sicuramente segnato se in porta non ci fosse stato il lucido Wakabayashi, che continuava a dar prova di essere il miglior acquisto che il club avesse potuto fare. A tre minuti dalla fine del primo tempo la squadra olandese si era creata una possibilità interessante con il capitano Krayfort, capocannoniere del campionato d’Olanda e nonostante ciò totalmente smarcato per tre quarti della partita. Con un paio di passaggi veloci e precisi avevano aperto una voragine nella difesa del Bayern, un po’ come Mosè con le acque d’Egitto. E la cosa più sconvolgente fu che né Schneider, né Levin indietreggiarono per dare una mano ai compagni e perfino Sho, conosciuto come il Jolly del Bayern per la sua abilità di dare spettacolo in ogni ruolo, era rimasto nella metà avversaria. Due erano le opzioni: o erano sicuri che la difesa (assente) avrebbe tenuto con la sola forza del pensiero, o stavano proprio pensando ad altro. Alla festa che si sarebbe tenuta la settimana successiva, per esempio. Altro atto di eccessiva spavalderia e, diciamolo, alquanto irrispettoso nei confronti degli avversari. Una foto postata dal Kaiser su Facebook e la notizia aveva fatto il giro del mondo calcistico (e non) rimbalzando da un tabloid all’altro. Il commento dell’allenatore dell’Ajax fu duro, critico soprattutto nei confronti del mister Franz Schneider.

È vergognoso che l’allenatore di una squadra così importante, che dovrebbe rappresentare il nostro calcio anche fuori dall’Europa, lasci i suoi giocatori liberi di fare qualsiasi cosa vogliano, specie quando di mezzo c’è un incontro così importante. Non si tratta di non lasciar loro organizzare bordelli, se li vogliono fare che li facciano! Qui si tratta di sportività e rispetto reciproco.”

Non sapevo se era stato peggio il fatto che avesse dato a Franz Schneider del maleducato e incapace o che i suoi ragazzi organizzassero dei bordelli. Di certo aveva fatto molto discutere e aveva inevitabilmente obbligato Schneider a replicare durante una conferenza stampa. Vi chiederete: “Beh, avrà chiesto scusa no?” Macché!

È altrettanto vergognoso che un allenatore dia degli scorretti e maleducati a giocatori che in campo si sono sempre comportati in maniera impeccabile e che dovrebbero essere presi d’esempio per il loro sano spirito di competizione.”

Ricordo che un giornalista a quel punto si era alzato e aveva gridato in faccia al mister. Lo ricordo perché in quella sala c’ero anch’io.

Stefan Levin ha infortunato tre portieri!!”Si era subito levato un brusio di sottofondo a favore del giovane ancora in piedi.

Signori, allora”, Franz aveva alzato le mani con fare innocente e sorridendo aveva continuato, “non è colpa mia se Levin ha uno dei tiri più potenti d’Europa e i portieri non sono in grado di pararlo senza farsi male.”

Quindi per lei Müller e Wakabayashi sono degli incapaci?” Si alzò un altro giornalista a dare man forte al collega, mentre molti altri li incitavano con dei “sì! Hanno ragione!”. Io me ne stavo seduto sulla mia seggiola facendomi sempre più piccolo. Ero ancora giovane allora, ma avevo già capito che quando si ha a che fare con certa gente è meglio restare in silenzio.

Il fatto che non siano stati in grado di parare un tiro non significa che siano degli incapaci. Müller e Wakabayashi sono due portieri fenomenali e mi stupisco che dei giornalisti, coloro che in teoria dovrebbero saper usare e capire le parole meglio di chiunque altro, arrivino a simili conclusioni partendo da – non essere in grado- per arrivare a  – essere degli incapaci –  cosa che vi rispecchia particolarmente in questo momento.”

Quando smise di tuonare il silenzio calò nella sala. I due giornalisti si sedettero, sentendo sulle loro spalle il peso della ramanzina e la vergogna per una simile figura. Ricordo che quel giorno nel mio onnipresente taccuino scrissi come titolo ideale del mio articolo “Bayern, la squadra del vecchio volpone.” Era inutile, non avremmo mai vinto una discussione contro di lui. Era un mister per certi versi controverso, ma con decine di anni di esperienza in campo alle spalle sapeva il fatto suo e stava facendo un lavoro eccezionale con quella squadra, sia dal punto di vista del calciomercato sia negli allenamenti e nelle partite.
 

Splendido dribbling di Levin che si libera del difensore! –continua la sua corsa verso l’area di rigore! – corre ancora, non lo ferma nessuno! – l’assist arriva a Schneider che carica il destro!”
Alzai la testa verso lo schermo proprio nel momento in cui partì la cannonata.

“GOAL!”

Un boato si scatenò nello stadio, il pubblico era in visibilio, mentre io annotai l’ennesimo splendido goal del Kaiser sul taccuino pieno di scarabocchi. Per i rimanenti dieci minuti non ci fu storia. I tedeschi avevano schiacciato la squadra più forte d’Olanda con un secco 3-0. Sospirai. Per quanto a volte i loro atteggiamenti potessero risultare irritanti, quei giocatori la sapevano lunga sul gioco del calcio. E per quanto mi irritasse vedere le loro foto sui social, sapevo bene che la settimana seguente me le sarei dovute sorbire tutte. Altro che festa di addio, quella sarebbe stata la festa con la quale il Bayern avrebbe fatto l’occhiolino alla coppa dei campioni. 

 

Franz Josef Strauss International Airport, Monaco di Baviera

6 aprile 2015

Ore 19:30
 

Controllai l’ora e mi sistemai gli occhiali da sole. In realtà era già scuro, ma io non mi fidavo mai totalmente dei finestrini oscurati delle auto e così li tenevo su comunque, per sentirmi più sicuro. Un altro pullman mi passò di fianco, stavolta parecchio vicino. D’istinto premetti il pulsante sulla portiera e lo specchietto si piegò verso l’interno. Mi sentii subito più tranquillo. Uno specchietto Maserati costa un sacco!! Se poi aggiungiamo anche il costo della vernice speciale laccata, siamo a posto. Ad un certo punto vidi una sagoma accanto alla macchina aprire prima il bagagliaio e poi la portiera.
Finalmente.” Si sedette sul sedile del passeggero, accavallando una gamba sull’altra con un movimento elegante e mettendo per un secondo in bella vista il tacco a stiletto dalla vernice rossa. Louboutin era il suo stilista preferito. Rimasi in silenzio per darle il tempo di guardarsi attorno. Anche lei indossava gli occhiali e non riuscii a decifrare la sua espressione mentre esaminava con attenzione gli interni dell’auto. Fece scorrere una mano lungo la portiera, poi si volse per vedere i posti dietro e alla fine afferrò il cambio in pelle. Io guardavo verso un punto non ben definito davanti a me, ma in quel momento l’occhio mi cadde sulla sua mano così ben curata e con le unghie smaltate di un rosso lucido e quei suoi movimenti mi fecero perdere per un attimo la lucidità. Deglutii cercando di non farmi sentire e di riprendere il controllo di me stesso, dopodiché arrivò il verdetto.

“Niente male.” Esclamò con voce allegra. Mi volsi verso di lei e abbassai gli occhiali sorridendole. Lei se li tirò su, scoprendo i suoi scuri occhi a mandorla e aprendo la bocca in un sorriso. Da quanto non vedevo quelle dolci fossette sulle guance!

“Ciao bellezza.” Le diedi un veloce bacio sulla guancia, poi mi allacciai la cintura di sicurezza e misi in moto.

“Su, fammi sentire questa nuova figlioletta!” Partii con un rombo che credo riecheggiò per tutto l’aeroporto. Avranno pensato a un attacco terroristico quando in realtà avevo solo lasciato il parcheggio per dirigermi a casa, lì dove dopo qualche ora ci sarebbe stato il finimondo. Durante il tragitto parlammo del più e del meno, di Shanghai, dei nostri prossimi impegni. Con lei era sempre bello parlare.

 

Liu Zhang, modella di successo ventenne nata a Manchester con genitori cinesi. La conobbi circa due anni prima durante una serata passata fuori con Schneider in un locale chic di Londra. La nostra squadra era in trasferta, io ero ancora nuovo, ma con Karl fu subito una grande amicizia. Ci somigliavano caratterialmente, entrambi volevamo divertirci, vedere più posti possibili e goderci gli anni migliori della nostra vita e la carriera stellare nel mondo del calcio. Fu così che quella sera Karl mi portò in quella discoteca londinese che ospitava eventi di tutti i tipi e gente di tutti i tipi, da altri calciatori famosi a attori e modelle. E fu così che la vidi e la conobbi, così, un po’ a caso, complice l’alcol. Mi fu subito simpatica e instaurammo una bella amicizia. Sarà perché mi trovavo in un ambiente nuovo, sarà perché avevo difficoltà con la lingua e sentivo la mancanza della mie terra natia, sarà perché con quei suoi occhi a mandorla e il suo sorriso mi faceva sentire un po’ più a casa, ma io ebbi sempre una preferenza nei suoi confronti. Era in gamba, era bellissima ed era passionale. Dal mio debutto nel Bayern sono andato a letto con un numero non ben definito di donne, ma la prima notte trascorsa con lei fu come la prima della mia vita. Bello, davvero. E quella sera non l’avrei lasciata a nessuno, neanche se mi avessero dato oro in cambio.
 

Parcheggiai l’auto nel garage coperto, le aprii la porta per farla scendere, le presi il mini trolley dal bagagliaio e ci dirigemmo verso l’ascensore. Iniziammo a salire i 10 piani del palazzo. Avevo acquistato quel loft in centro a Monaco quando avevo concluso con successo il primo anno col Bayern, il mio primo milione e passa di euro ben spesi. Poi durante la ristrutturazione spesi altro mezzo milione per insonorizzarlo come si deve. Sarà che sentivo già i festini del Bayern nell’aria, ma l’avevo fatto principalmente perché da piccolo ero cresciuto in quegli enormi condomini sovraffollati di Shanghai: un casino dalla mattina alla sera e zero privacy. La cosa mi aveva traumatizzato e l’idea di avere gente sopra e sotto che potesse sentire ogni cosa, disturbare o peggio farmi storie non mi andava molto a genio. Meglio mettere a posto certe cose subito che tirarsele avanti.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono e ci ritrovammo nel loft la feci accomodare, le offrii qualcosa da bere e le mostrai il bagno per farsi una doccia veloce e riprendersi un po’ dal viaggio.

“Sto ancora aspettando che tu mi faccia provare la jacuzzi!”, mi urlò dal bagno mentre io ero già in cucina.

“La proveremo bellezza, non preoccuparti.” In effetti sarebbe stata una vera bomba, ma non quella sera. Guardai l’orologio, erano le 20:20. Di lì a poco sarebbero arrivati Karl, Genzo e Stefan e la mia casa sarebbe stata inondata da uno tsunami di alcol.
 

Ore 20:35
 

Scesi la rampa all’entrata del garage e parcheggiai a fianco dell’auto di Sho. Accanto a me si fermò anche l’enorme BMW nera che mi aveva seguito per tutto il tragitto.  Scesi e mi avvicinai al SUV, soffermandomi sui cerchi personalizzati e lucenti.

“Niente male, ma non pensi che sia giunto il momento di prenderti una bella Porsche? Non sei più nella lontana e piovosa Amburgo!” Genzo sorrise scendendo e fece cenno di no con la testa, indicando la Porsche alle mie spalle.

“No amico, non mi comprerò mai una Porsche…”, poi si avvicinò all’auto, il cui tetto arrivava ai suoi fianchi, “Non ci entro nemmeno!” In effetti quello non era il modello ideale per uno spilungone come lui.

“Ok, questo lo posso accettare, ma resta comunque il fatto che sei uno del Bayern adesso! E ci sono un sacco di belle auto che aspettano solo di essere comprate da noi!” In quel momento sentimmo un rombo riecheggiare nel garage e un’ombra nera sfrecciarci accanto e fermarsi a fianco del SUV di Genzo.
“Ecco, una Lamborghini farebbe più per me!” Mi disse facendomi l’occhiolino.

“Genzo, se non ci entri nella mia figuriamoci in una Lamborghini!” Gli dissi un po’invidioso. L’auto di Levin aveva sempre un grande successo, non so perché. Forse perché trasudava lusso da ogni minuscolo pezzo della sua carrozzeria. Mezzo milione di euro, vernice nera lucida, cerchi in lega brillanti come quattro stelle, interni in pelle e il gioco era fatto. Ah, il fascino dei soldi!

“Intendo come stile di auto. Quando vedo una Porsche mi vengono sempre in mente i pensionati ricconi che non sanno più come spendere i loro soldi.” Genzo mi guardò ironico, per poi scoppiare a ridere vedendo la mia faccia sconvolta. Ero rimasto a bocca aperta.

“Voglio proprio vedere che auto ti comprerai tu da pensionato!”

“Invece di parlare di pensioni perché non vi date una mossa?” Levin aveva già aperto il bagagliaio dell’auto e aveva tirato fuori una cassa piena di bottiglie di Absolut. Ormai funzionava sempre così: la vodka la portava lui, ed era rigorosamente svedese. E portava sempre guai. Genzo aprì il bagagliaio della BMW e tutti e tre guardammo dentro. C’era un intero reparto di alcolici lì: birra, tequila, rum, vini, champagne. Eravamo peggio dei più esperti contrabbandieri della storia.

“Beh”, disse Levin guardando il mega SUV, “Quest’auto è davvero comoda per certe cose, bravo Genzo!” Gli diede un pacca sulla spalla per poi prendere la prima cassa di tequila, mentre Genzo si girò verso di me guardandomi divertito come per dirmi “visto??”. Alzai gli occhi verso l’alto e iniziai a scaricare anche io.


Ore 21:00
 

“Funziona!!!” Sho aveva gli occhi che brillavano.

“Che cosa trash..” Levin aveva un’espressione tra il pietoso e lo schifato.

“Non è trash, è chic!” Replicò Shunko, ferito nell’animo. Stephan  si voltò verso di lui e lo guardò mesto con un sopracciglio alzato.

“Sei serio? Una fontana di champagne in mezzo al soggiorno?!?”

“Dai, è originale!”, disse Schneider per smorzare i toni, poi si volse verso di me,  “Genzo, che ne pensi?” E io dissi l’unica cosa che mi venne in mente in quel momento.

“Non ho mai visto nulla del genere.”

“Visto?”, esclamò con tono trionfante Sho guardando Stephan dall’alto verso il basso, “È una cosa nuova, e le cose nuove sono sempre le migliori!”

Quello che avevo detto era la pura e semplice verità. Ero a Monaco da due mesi e dal primo giorno mi ero ritrovato catapultato in un mondo completamente diverso, circondato da cose e persone che non avrei mai immaginato di vedere. Auto da corsa, appartamenti infiniti con ogni comodità possibile e immaginabile, ma soprattutto il tipo di persone: giornalisti che ti assaltavano alla fine di ogni partita, paparazzi che ti fotografavano in macchina anche quando andavi semplicemente a prendere qualcosa da mangiare (perché sì, puoi anche essere il portiere migliore del mondo, ma il frigo resta vuoto comunque), donne che cercavano in qualsiasi modo di mettere anche solo un piede nel tuo letto riducendosi a livelli di bassezza e civetteria disarmanti. Ad Amburgo tutto questo non esisteva. Certo, le conferenze stampa c’erano e magari si prendeva parte a qualche intervista, ma non in modo così esagerato come a Monaco. E in quel momento, guardando litri e litri di champagne sgorgare da quella fontana al centro di un soggiorno grande almeno il doppio dell’appartamento in cui vivevo fino a due mesi prima, mi resi conto che essere un calciatore a Monaco, o comunque in un grande club europeo, aveva lo stesso significato di “essere esagerato”. Tutto di te veniva portato all’esasperazione, all’idolatria. Privacy? Parola che dovevo dimenticare il più presto possibile. La mia vita da calciatore famoso avrebbe presto inglobato anche quella personale, tutto sarebbe diventato pubblico, un argomento come altri di cui si sarebbe letto sulle riviste più disparate.

“Oh, eccola!” Sho si girò verso il corridoio, dove una giovane in tubino blu stava camminando verso di noi. Vidi Schneider e Levin salutarla e capii che la conoscevano parecchio bene. Poi arrivò il mio turno.

“Lei è Liu Zhang, una delle ospiti di stasera.” Mi disse Sho, mentre le stringevo la mano presentandomi. Rimasi per un attimo in silenzio, guardando il suo volto praticamente perfetto. Non avevo mai visto una donna così bella. Shunko deve essersene accorto, perché subito dopo si avvicinò a me e mi sussurrò all’orecchio ridacchiando: “Ed è mia.”

“Ah, non ascoltarlo Genzo!” ,Schneider mi mise un braccio attorno al collo allontanandomi verso le vetrate del soggiorno che davano sulla città, “Questa sera ce se saranno di ancora più belle, tutte unicamente per noi!” Mi fece l’occhiolino e io capii quello che intendeva e onestamente la cosa mi fece rabbrividire. Intendeva che volendo me le sarei potute portare a letto tutte, avrei potuto chiedere a ognuna di loro di spogliarsi davanti a tutti, avrei potuto far fare loro qualsiasi cosa, anche umiliarle, senza che nessuno mi dicesse nulla.

“Karl, non so se approvo ..” Gli dissi onesto sottovoce e lui mi guardò per nulla stupito, rispondendomi con un tono così tranquillo che mi impressionò. Stavamo parlando di ragazze che manco conoscevamo usate a mo’ di escort e lui non faceva una piega!

“Gen, è semplice la cosa. Siamo giovani, siamo belli”, un sorrisino spavaldo si stampò sulle sue labbra, “e siamo forti.” Poi si fece serio. “E non sto parlando del calcio. Noi siamo forti nella società. Guarda i nostri profili Facebook, i nostri post hanno più like di quelli del capo delle Nazioni Unite o del Premier britannico. Fa pena, ma è così. La gente non segue i politici, la gente segue noi. Calciatori, attori, modelle, cantanti. Siamo noi che dettiamo legge nel mondo tecnologico di oggi, siamo noi che lanciamo le nuove mode, siamo noi che decidiamo se una cosa è in o è out. Alla gente non frega niente di quello di cui parlano i telegiornali, ne ha fin sopra i capelli di guerre e catastrofi. Al giorno d’oggi i modelli a cui aspirano i giovani siamo noi. Soldi, donne e una bella vita senza che nessuno ti venga a rompere i coglioni, altro che carità.” Si fermò per un attimo, mentre io non sapevo che cosa pensare. “Tu sei appena entrato nel Bayern Genzo, arrivi da un club relativamente piccolo e certe cose le devi ancora capire. Poi sei giapponese, voi avete una mentalità diversa da noi europei. Ciò che ti ho detto ora potrà sembrarti orribile, superficiale e stronzo, ma man mano che ti abituerai alla vita di un calciatore famoso capirai che è la stramaledetta verità. Lo vedrai da solo, anche solo guardando il tuo profilo Twitter.” Abbassai lo sguardo, imprimendomi quelle sue schiette parole nella testa. Erano dure sì, ma mi rendevo anche conto che erano utili. Mi posò una mano sulla spalla, guardandomi negli occhi e sorridendomi, stavolta non con spavalderia, ma con gentilezza e sincerità. “E ricordati che per quanto possa fare il figo con la Porsche o il deficiente alle feste e per quanto possano chiamarmi tutti il Kaiser, io resto sempre Karl, il tuo primo amico che hai avuto qui in Germania. Posso cambiare auto e donna anche tre volte al mese, ma non cambio i sentimenti di amicizia che provo per i miei compagni. Potrai sempre contare su di me, lo sai.”

Lo guardai dritto negli occhi azzurri e alla fine sorrisi, un po’ rincuorato dopo quella conversazione. “Lo so.” In quell’istante si aprirono le porte dell’ascensore ed entrarono un bel gruppetto di compagni di squadra, tutti con qualche bottiglia in mano. Cormann, bravissimo centravanti danese, ci salutò spalancando le braccia tutto contento. Vedendo i miei compagni mettersi a chiacchierare del più e del meno, con Sho che faceva il perfetto uomo di casa con Liu e Levin stranamente rilassato e disposto a conversare pensai che forse dovevo provare a vedere il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto. Sì, c’erano un sacco di cose che avevo lasciato ad Amburgo e che mi sarebbero mancate, ma altrettante ne avrei ricevute in futuro grazie al Bayern. Fu proprio in quel momento che le porte dell’ascensore si spalancarono di nuovo, questa volta varcate da tre paia di tacchi a spillo e caviglie sinuose. Una la riconobbi subito, era il volto del nuovo profumo di Dolce e Gabbana e il suo spot andava in onda su qualsiasi canale della televisione. Modelle che la maggior parte della gente vedono solamente in tv o sui cartelloni pubblicitari, mentre io me le ritrovavo in un soggiorno con una fontana. Schneider mi guardò allegro, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse sorridendo: “Buon debutto nella bella vita, amico!”

Altro che bicchiere mezzo pieno… Questo è un bicchiere strapieno…” Non potei fare a meno di pensarlo.

Appartamento di Adrian

Ore 23:30
 

Dai, ancora una mezz’oretta e poi potrai andare a dormire…” Cercavo di farmi forza mentre osservavo la foto postata da Shunko Sho che lo ritraeva elegantemente avvinghiato a Liu Zhang con una stranissima e esageratissima fontana di champagne stile “Matrimonio gipsy” da una parte e il più grande schermo tv a cristalli liquidi che avessi mai visto dall’altra. Sorridente, con quel suo bel faccino fresco come una rosa e l’espressione da gentiluomo. Chiaramente era stata scattata come minimo due ore prima, così come le foto di Schneider. Anche lui avvinghiato in una maniera meno elegante e tipicamente più esuberante a due famose personalità del mondo della moda, molto in voga a quel tempo, la tedesca Birgit Klein e l’inconfondibile irlandese dai capelli rossi Eva Walsh. Valentino da una parte e Gucci dall’altra. Anche quello un trio troppo sobrio per essere quasi mezzanotte. I furbetti postavano le foto scattate all’inizio durante l’arco della serata per far credere che quella fosse una tranquilla serata di gala, quando invece non era così. Infatti di solito dopo la mezzanotte non giungeva più alcuna notizia, nemmeno uno straccio di foto, probabilmente perché il mix di champagne e vodka (cautamente nascosta in occasione delle foto, ne sono sicuro) iniziava a fare effetto e si scordavano di noi poveri comuni mortali. Dopo una ventina di minuti decisi di spegnere il computer e andare a dormire. Posai il cellulare sul comodino, così nel caso in cui mi fossi svegliato durante la notte avrei potuto dare un’occhiata. Ero peggio delle quattordicenni follemente innamorate dei loro campioni.

Loft di Sho

Ore 00:15
 

“Ragazzi, non so voi ma io sono ancora lucido!” Schneider si avvicinò al tavolo della cucina con un’espressione cupa, mentre io stavo stappando l’ennesima bottiglia di Absolut. Avevo fatto bene a portarne di più, i miei compagni ne avevano già finite cinque, non so come. Arrivarono anche Sho e Genzo, entrambi ancora ben messi. Schneider aveva ragione, non eravamo nemmeno allegri. Ormai il nostro fisico era abituato ai ritmi della squadra, sia sportivi che alcolici. Certo, non bevevamo ogni giorno, anzi, le feste erano praticamente le uniche occasioni, altrimenti eravamo sempre ad ammazzarci sul campo da gioco. Sarà stato qualcosa di psicologico, non lo so. So solo che facevamo sempre più fatica a sballarci. Non che io mi ubriacassi come un idiota, sia chiaro. Essendo l’unico della squadra a non finire in qualche stanza o angolo buio della casa a farmi una delle invitate, avevo un ruolo fondamentale: salvavo i miei compagni dal coma etilico. Sì, di base ero più o meno una specie di babysitter, anche se a volte alcuni della squadra, ormai immersi nel limbo della tequila fino al collo, mi prendevano per un’infermiera sexy. Io mi vedevo più semplicemente come il martire protettore del Bayern. Mi verrebbe quasi da dire che mi preoccupavo per i miei compagni…strano eh? Sì, fa venire la pelle d’oca anche a me ora che ci penso.
Mi riempii un altro bicchierino di vodka. Stavo per buttarlo giù quando Sho me lo strappò via dalle mani e lo sbatté sul tavolo. Lo guardai con un istinto omicida, ma lui mi fece cenno di stare zitto, dopodiché posò le mani sul tavolo e ci disse serio.

“Ragazzi, ho io la soluzione.” Ricordo che Schneider scambiò un’occhiata dubbiosa prima con Genzo e poi con me, come per chiederci “ma voi vi fidate?”. La risposta era no, ovvio, ma non avevamo altra scelta. Shunko prese quattro bicchierini da shot, ci fece cenno con la testa di seguirlo e insieme lasciammo il soggiorno senza che nessuno se ne accorgesse. Percorremmo il corridoio infinito e dalle mille porte per poi entrare in camera sua. Lui si diresse verso un quadro appeso alla parete, lo tirò giù con delicatezza e poi si girò verso di noi con un sorriso mesto. Dietro c’era una cassaforte degna di una banca. Genzo era a bocca aperta, mentre Karl continuava a guardarmi dubbioso. Shunko digitò il codice su un piccolo display touch, che probabilmente riconosceva solo le impronte digitali di quel pazzo. Con un click i meccanismi della cassaforte si mossero e l’anta si aprì. Non è che vidi molto, c’erano solo vari documenti, alcune chiavi di riserva e dei pacchetti. Niente droga e niente pistole, grazie al cielo. Rimase lì a cercare per un po’ tra le varie scartoffie con un intero braccio infilato nella cassaforte e mugugnando “Mmh..”  con gli occhi socchiusi fissi su un punto non ben definito del soffitto. Più che un calciatore milionario in quel momento sembrava un Sherlock Holmes scapestrato che cercava l’arma di un omicidio in un cassonetto della spazzatura. E poi ecco il suo volto illuminarsi ed esclamare “Aha! Trovata!” Ciò che tirò fuori ci lasciò a bocca aperta. Una minuscola bottiglietta di vetro marrone, senza etichetta né logo sul tappo, simile alle bottigliette dei vecchi sciroppi per la tosse. In effetti dava l’impressione di avere parecchi anni.

“Sho…”, chiese Schneider titubante, indicando col dito la bottiglietta, “Da dove salta fuori quella cosa?”

“Dalla Cina!”

Perfetto!” pensai, mettendomi le mani nei capelli mentre Karl sbiancò. Non c’era risposta peggiore. Le cose che portava Sho dalla Cina erano sempre pericolose. Ricordo ancora quando prima della pausa di Natale provò ad accendere in mezzo al campo di allenamento del Bayern un fuoco d’artificio artigianale fatto da suo zio, che viveva in una di quelle immense regioni rurali cinesi dimenticate da Dio e che si chiamava Ping. Minchia, un nome un programma. Non so nemmeno come abbia fatto a passare la dogana e non lo voglio nemmeno sapere. So solo che se il mister è ancora vivo è solo perché quel giorno è stato graziato dal Signore. Il razzo era grazioso, colorato, sembrava un giocattolo, ma non aveva assolutamente alcuna sicura. Figuriamoci se il buon vecchio zio Ping ci aveva pensato… Già stava in piedi dritto per miracolo, ma quando Sho accese la miccia diede i primi segni di cedimento. La miccia arrivò fino alla fine, ma il razzo non partì. Tutta la squadra, mister compreso, era rimasta a fissarlo imbambolata, non capendo bene che cosa bisognava fare. A quel punto Sho si avvicinò, ma quando era a due passi dal razzo questo si inclinò. Lì ebbe inizio il cataclisma. Con uno scoppio luminosissimo che fece urlare Shunko dalla spavento il razzo partì come un missile dritto verso la panchina, dove il mister si era seduto per ammirare lo spettacolo. Altro che spettacolo, se si fosse spostato un secondo dopo ora il Bayern avrebbe un altro allenatore e probabilmente non sarebbe in finale di Champions League. Da degno fuoco di artificio quando colpì una delle sedie esplose in mille colori, mentre noi vedevamo il nostro mister volare a terra.

“PAPA’!!!” Karl si fiondò verso suo padre come nella scena di un film drammatico, mentre Sho in ginocchioni si stava ancora strofinando gli occhi accanto a una macchia nera di erba bruciata. Lo scoppio doveva averlo momentaneamente accecato e quando li aprì di nuovo e vide la panchina mezza distrutta e il mister spalmato a terra dalla sua bocca uscì un innocente  “Oh mannaggia!”
Alla fine sopravvivemmo tutti. Qualcuno potrebbe dire che in fondo è stata una scena divertente. Io dico solo che nella mia vita sono davvero poche le volte in cui mi sono cagato sotto dallo spavento. Quella fu una di queste.

“Non dirmi che è di tuo zio Ping!” Gli dissi minaccioso, già sul punto di incazzarmi. Per carità, il loft era suo e poteva farci quello che voleva, ma c’eravamo anche noi lì dentro.

“No, è di mia nonna Ying!” esclamò Sho tutto contento. Lo guardai esterrefatto. Cazzo, ma avevano tutti lo stesso nome in famiglia? Come diamine faceva lui a chiamarsi “Shunko”? Per caso i suoi genitori avevamo bevuto anche loro dalla magica bottiglietta della nonna come anche noi stavamo per fare? A volte quel cinese mi mandava fuori di testa. 
Dopo alcune difficoltà riuscì a svitare il tappo incrostato e versò un liquido viscoso e scuro nei bicchierini. A vederla quella melma era tutto tranne che invitante.

“Che…cos’è?” chiese Genzo afferrando il bicchierino e osservando il liquido colloso con timore.

“Eh, se solo sapessi! Ci sono tipo erbe cinesi e una specie di grappa distillata tipica della regione in cui vivono i miei parenti. È una roba che fa solo mia nonna!”

“Ovviamente..”, dissi io a bassa voce ormai esasperato, cercando di annusare quella roba. In effetti l’odore di erbe c’era, ma era un odore strano e dannatamente forte. Se la sniffavi più di una volta ti andava dritto in testa. Alzammo i quattro bicchierini poco convinti e il fatto che anche Shunko fosse un po’ titubante ci preoccupava parecchio.

“Alla coppa dei campioni!”, esclamò Schneider ottimista.

“Alla mia carriera nel Bayern!”, lo seguì Genzo, anche lui parecchio speranzoso.

“A mia nonna Ying!”, urlò entusiasta Sho, mentre tutti e tre ci voltammo verso di lui con gli occhi sgranati. Poi gli sguardi si posarono su di me, che non sapevo davvero a che cosa brindare. Alla mia vita? Proprio no. A quella sera? Ancor meno. Alla fine dissi quello che si dice sempre a un brindisi e che forse può apparire scontato, ma che in quel momento non era scontato per nulla, visto la schifezza sconosciuta che stavamo per bere.

“Alla salute” , dissi sospirando per nulla ottimista e toccando i bicchieri dei miei compagni.

Che se ne va…”, pensai poi tra me e me.

Buttammo giù quell’obbrobrio tutti insieme contemporaneamente. Due secondi dopo stavamo morendo agonizzanti.

“Porca puttana!!!”, urlò Schneider tossendo, mentre Genzo si era fiondato in bagno a sciacquarsi la bocca. Io non riuscivo nemmeno a parlare. Con un unico bicchierino nonna Ying ci aveva fatto fare un viaggio tra le fiamme dell’inferno, andata e ritorno. Sentivo la gola, i polmoni e lo stomaco in fiamme e per un attimo pensai davvero di essermi ustionato qualche tessuto interno. Poi facevo anche fatica a respirare, perché inspirando l’aria aumentava quell’effetto di bruciore rendendolo davvero doloroso. Se avessi avuto le forze, giuro che avrei strozzato Sho. Sho che era rimasto come pietrificato con la bottiglietta ormai quasi vuota in mano e la bocca spalancata. Guardandolo meglio notai che aveva gli occhi lucidi e quando li sbatté una lacrimuccia gli scese lungo la guancia. Tutto quello che riuscì a dire fu: “Accidenti! Brucia!” Lì non riuscii a trattenermi.

“Brucia?! BRUCIA?!? Abbiamo l’inferno in bocca, coglione!”

“Shunko, adesso mi dici di preciso che cosa c’era lì dentro!”, disse Genzo uscendo dal bagno reggendosi con un braccio sul muro.

“Ma ve l’ho già detto!”, rispose lui innocente, mentre noi gli urlammo in faccia incazzati neri: “No, non ce l’hai detto!”

“Ma come no! Vi ho detto eh, se lo sapessi!” Vidi il braccio di Genzo cedere e lui accasciarsi contro il muro con un tonfo, mentre Schneider sbiancò di nuovo incredulo.

“Quindi.. tu prima non parlavi di me”, sussurrò Genzo, “Parlavi di te! Che non hai la più pallida idea di che cosa c’è davvero lì dentro!” Sho fece le spallucce e cercò di sminuire l’accaduto.

“Avanti ragazzi, ne abbiamo passate tante, figuriamoci se sarà ‘sta roba di nonna Ying a farci problemi!”, poi guardò la bottiglietta, notando che ne era rimasta ancora un po’, “Qualcuno vuole finirlo?” Non gli risposi neanche, mi presi e uscii dalla camera. Percorrendo il corridoio , seguito a ruota da Karl e Genzo, lo sentii gridare: “Allora lo tengo per la prossima occasione!!” Tutti e tre ci voltammo per un istante atterriti e d’istinto iniziammo a correre per il corridoio come se stessimo scappando da Satana. Beh, più o meno il sentimento era quello.

Quando arrivammo in soggiorno ci ritrovammo di fronte al devasto totale. Bottiglie per terra, incastrate tra i bracci dei lampadari, sotto i divani, dietro la tv che non so come era ancora intera, ragazze mezze nude che ballavano sui raffinati tavolini per il thè in cristallo, altre sedute in modo ben poco casto sulle gambe dei nostri compagni ai quali iniziavano a sbottonare le camice. Vidi Karl e Genzo raggiungere il gruppetto, mentre io rimasi lì in disparte, appoggiando la schiena al muro, senza sapere bene che cosa fare. E proprio in quel momento, quando ancora facevo fatica a deglutire normalmente, si aprirono le porte dell’ascensore e fecero capolino un paio di All Stars nere. Mi parve strano, perché tutti i miei compagni erano già in casa da un pezzo, ma poi quando vidi i jeans neri avvolgere due gambe lunghe e sinuose capii che si trattava di una ragazza. Proprio mentre mise piede nel loft le passò davanti una con mezzo culo di fuori, uno spettacolo orribile. Poteva anche essere una modella strapagata, ma per quanto mi riguardava era solo volgare. E a giudicare dal sopracciglio alzato e dall’espressione schifata che fece la nuova arrivata osservandola camminare via sculettando in maniera esagerata credo che anche lei pensasse più o meno la stessa cosa, o forse anche peggio. Anzi, sicuramente peggio, perché io avevo capito chi era. Lei era la dolce Sarah Martini.


Salve!
Ecco a voi un capitolo un po’ più corposo rispetto a quelli precedenti. Dopotutto è cominciata la festa e, per la gioia di Adrian che nel frattempo dorme alla grande, la notte è ancora giovane! L’ “arpia” Martini è appena arrivata, ma deve ancora arrivare la bella Tanja. I loro nomi e quelli di altre eventuali modelle / ragazze sono inventati da me, mentre i nomi degli altri giocatori, come Cormann, appartengono al manga Captain Tsubasa.
Ringrazio tantissimo i lettori e coloro che hanno o vorranno lasciare una recensione.
Buona lettura, spero vi piaccia!

Blue :)

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