「Part One」—『Nameless - The days when I was a fading no one』

di Black Swallowtail
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I —Be careful about what you desire. ***
Capitolo 2: *** II —So please remember me, as vivid as I was. ***
Capitolo 3: *** III —To breathe, to live, to feel. ***
Capitolo 4: *** IV —A fading no one. ***



Capitolo 1
*** I —Be careful about what you desire. ***


Nameless - The days when I was a fading no one

 

I

Be careful about what you desire.

Non sono mai spiccata tra gli altri per le mie qualità. Sono sempre stata una di quelle persone che vengono definite "mediocri", talmente nella media da sparire nella massa delle altre persone, un viso come gli altri in un mare di individui, nessuno uguale, nessuno davvero differente. Non ho mai avuto un talento particolare per lo studio, né capacità fuori dal comune nello sport o in generale in qualsiasi attività; i miei voti non erano né alti, né bassi, ma sempre collocati a metà dell'asticella, variando leggermente da materia in materia, come se perfino anche in semplici termini numerici fossi incolore come in ogni altra cosa – perfino nei tratti del mio viso, ordinari fino all'esasperazione. Nemmeno degna del grigiore che si vuole attribuire alle persone vuote, di nessun colore. I miei compagni di classe, in alcune occasioni, dimenticavano perfino il mio nome; non parlavo molto, rimanevo sempre, per la maggior parte, in silenzio e da sola, in un angolo della classe, con il mento poggiato sul palmo della mano e la mente che vagava lontana, senza fermarsi precisamente su alcun pensiero, se non quella domanda che mi tormentava in alcuni momenti di solitudine – è davvero così importante che io esista, alla fine? Senza nessuno ad aspettarmi, nemmeno a casa, senza alcun compagno di classe a parlarmi più del necessario, limitandosi a formali domande e scambi di cortesie, senza alcun vero desiderio di sottrarmi da questa situazione alla quale mi ero rassegnata, rimanendo in perfetto equilibrio senza mai tendere né da una parte né dall'altra, in bilico nello spazio senza colore infinito ed assoluto, potevo effettivamente dire che vi fosse qualcuno a cui importi di me? Erano pensieri che balenavano nella mia mente, vaghi ed indefiniti, tremolanti, che scomparivano nel momento in cui la mia mente prendeva una qualsiasi direzione, ricadendo in banalità come una lista della spesa che avrei dovuto fare quel giorno, o come sarebbe stato il prossimo test di inglese della settimana successiva. Ma, nonostante questo, non potevo sentire che una profonda malinconia divorarmi dall'interno di me stessa, quando mi accorgevo di essere immobile, come pietrificata, in una situazione che mi avrebbe un giorno soffocata, convinta che avrei passato la mia intera vita nel limbo indefinito del nulla, condannata dal rimanere, per sempre, nulla più che una banale e scolorita macchia tra le altre, senza poter davvero essere qualcuno.

La verità, è che provavo una potente, schiacciante paura al solo pensiero di fallire nel tentativo. In me, palpitava il terrore di avventurarmi in territori sconosciuti e fuori dalla mia portata, che ai miei occhi apparivano tanto meravigliosi quanto irraggiungibili, e questo silente, subdolo presagio mi convinceva sempre più che per me non vi fosse speranza, a rimanere nella mia posizione, in quel territorio in cui mi ero rassegnata a stare, nonostante il conflitto che mi corrodeva quando lasciavo i miei pensieri liberi di muoversi, senza tenere le loro briglie. Temevo che, fallendo, avrei scoperto di essere condannata come scherzo crudele del destino a rimanere per sempre incolore e monotona, ed in quel caso, mi dicevo, avrei preferito rimanere nel dubbio e sopportare piuttosto questa bassa e continua vaga tristezza e malinconia nel guardare le persone attorno a me, come separate da un muro invisibile attraverso il quale non potevo passare. Ai miei occhi, ognuno di loro, seppur nella mediocrità, possedeva qualcosa che lo differenziasse e non capivo come facessero ad aver ottenuto quel qualcosa che mi sfuggiva, come una scintilla di luce nei loro animi che era fuori dalla mia portata, lontana dalla mia presa. Ogni giorno, il muro cresceva più spesso e più opprimente. Era un fattore che ritenevo, ormai, parte integrante ed inevitabile della mia esistenza. Ogni giorno, ogni singola volta, la scatola attorno a me diveniva così densa ed impenetrabile da deformare il mondo esterno un po' di più, come attraverso un opaco strato di vetro che mi rimandava una distorta immagine di quel che mi circondava.

Non sono mai riuscita ad essere qualcuno, per qualcuno – come se il mio viso, il mio nome, la mia esistenza, non potessero rimanere impresse nelle loro menti. Non ho mai avuto un rapporto duraturo e profondo con una persona, a causa della mia timidezza e del mio carattere che sembrava allontanare le persone tutt'attorno, chiusa in me stessa e non so dire se questo sia la causa o la conseguenza della mia incapacità di rimanere nelle menti, nelle anime e nei cuori degli altri; non so nemmeno dire se questa sia dovuta al mio aspetto, o viceversa. O forse, alla fine, è solo una mescolanza di tutto questo – il mio carattere, il mio aspetto, la poca fiducia negli altri, la mia tendenza a perdermi in me stessa e a guardare al mondo con sospetto. Tutto questo, ha piantato in me il seme della malinconia cresciuto fino ad ora, della tristezza, della rassegnazione. Ho desiderato che tutto ciò cessasse, perché se avessi dovuto soffrire così per tutta la mia vita, avrei preferito non sentire nulla ed andare avanti senza dovermi soffermare su me stessa o sugli altri e sentire la pessima sensazione attraversare il mio corpo dall'inizio alla fine, come un brivido gelido.

Per due anni, questa solitudine divorante è andata crescendo, ho sofferto questa incapacità di guardare avanti e di avvicinarmi agli altri, avvolta dal velo incolore che mi era caduto sulle spalle, finendo perfino per sentirmi disperata ancor prima di tentare di rassegnarmi e di sotterrare tutto sotto il pesante macigno della convinzione che non vi fosse via d'uscita.

Ed era così che mi sentivo, lacerata, desiderosa solo di lasciarmi tutto alle spalle, quando lo incontrai per la prima volta. Era quell'ora che sta tra il crepuscolo e la notte, quando ancora le stelle brillano tenui sul cielo che sfuma dall'arancione e dal rosato del tramonto morente al violaceo e poi al profondo blu, al nero della notte. È un'ora particolare, che, come me, camminava esattamente tra gli estremi senza cadere in nessuno dei due, un'ora di incertezza, tremolante, che può cambiare in un unico, gentile soffio – un'ora che qualcuno definisce incline alla stregoneria, ai peggiori prodotti del sovrannaturale.

Se ne stava cautamente poggiato sulle quattro zampe sull'orlo del marciapiede, e la sua figura ricordava quella di un gatto ma era talmente evanescente ed incerta, come se il mondo fosse sfocato, incerto attorno a lui; quasi come se la realtà fosse stata un vecchio televisore rotto attraversato da scariche elettriche che lo rendono tremante ed indefinito, quasi in pezzi, scosso da interferenze e statiche. Il suo muso era l'unica parte del suo corpo, che era di una sfumatura color inchiostro, più profonda del cielo che ormai andava versando verso la notte, ad essere più chiaramente riconoscibile – seppur non avesse veri e propri tratti facciali distintivi al di fuori di una trasversale bocca bianca più simile ad uno squarcio brutalmente aperto con un coltello nella sua non esistente carne, e due fori biancastri, privi di ogni emozione, completamente vuoti. Inespressivi. Stava lì, a soli tre passi di distanza, immobile come una statua, senza accennare nemmeno un singolo movimento e, ai miei occhi, non poteva che essere una allucinazione – se la sua sola presenza non mi avesse mandato una sensazione di attanagliante, totalmente cieca sensazione di soffocare. Per la prima volta nella vita, provai una paura così dirompente e potente da ardermi fin nelle viscere, congelandomi sul posto, sgombrando la mia mente da ogni pensiero, semplicemente lasciandomi paralizzata lì, in piedi, con il cuore che minacciava di esplodere e il mio corpo scosso da un vago, ma sempre più crescente e violento tremore. Congelata. Incapace di muovermi. Nonostante non avesse dei veri occhi, attraverso quelle due voragini era come se mi stesse scrutando fin nel profondo, esplorando i recessi più reconditi del mio spirito, quasi fossi trasparente, scoperta davanti al suo sguardo invisibile ma che avvertivo chiaramente attraversarmi la pelle.

Ed in quel momento, un'ondata di malinconia, quasi pietà, si abbatté su di me, come se una diga posta attorno alle mie sensazioni fosse improvvisamente crollata, sommergendomi tutto d'un tratto, attraversando ogni parte del mio essere, da cima a fondo, in uno scorrere potente ed impetuoso. In quel momento, era come se avessi sentito, dopo così tanto tempo, dopo anni di solitudine, di schiacciante abbandono della comprensione, della consolazione – una pietà così carezzevole da aver confortato il mio cuore. Non proferii una sola parola, travolta da quell'improvvisa cascata di emozioni che si intrecciavano tra di loro, ma potei sentire chiaramente qualcosa spezzarsi con un sordo rumore che, tuttavia, esplose solo nella mia mente, un distinto infrangersi di qualcosa. A quel rumore, l'intero mondo davanti ai miei occhi fu come attraversato da un'onda, che lo increspò, lo fece tremolare come uno specchio d'acqua scosso da un sasso che affonda, e nell'istante seguente, il gatto che era comparso dal nulla, non era più lì. Rimasi sola, ancora paralizzata, a chiedermi se quel che era appena accaduto fosse reale, non un prodotto della mia immaginazione, ma qualcosa di realmente accaduto; un mio lungo, strano sogno, talmente realistico da apparire vero, ingannando la mia mente ed i miei sensi.

L'unica cosa di cui sono certa è che, quando mi svegliai il giorno seguente alle prime luci dell'alba che entra gentilmente attraverso la finestra lasciata aperta, filtrando per le tende e rifrangendosi di un caleidoscopio multicolore, non riuscivo a sentire nulla. Per quanto cercassi, mi sentivo vuota, priva di ogni preoccupazione, di ogni problema, di ogni pensiero – priva di sensazioni. In un modo che non riesco ancora a comprendere, quel giorno, persi la capacità di provare emozioni, come se in qualche modo un mio desiderio fosse stato esaudito e tutto quel che mi infliggeva dolore mi fosse stato strappato via, lasciando nient'altro che, al suo posto, un immenso e sconfinato nulla. Incapace di sentire qualunque cosa, vuota, non potevo nemmeno dispiacermi o rimpiangere quel che era accaduto. Da una parte, pensai che fosse meglio così, perché non avrei più sofferto. L'immagine del gatto e del suo sguardo rimasero impresse nella mia mente, insieme al rumore secco che avevo udito dopo quella tempesta improvvisa che aveva travolto la mia anima. Non sapevo cosa fosse accaduto, l'unica cosa che potei fare fu andare avanti con la mia vita. Il mondo sembrava un po' più grigio, quel giorno.

Un anno fa, ho incontrato in un sogno un'ombra indefinita, dalle vaghe sembianze di un gatto, senza occhi né bocca, senza corpo né forma.

Un anno fa, qualcosa mi è stato strappato via senza che riuscissi ad accorgermene.

Un anno fa—ho perso tutte le mie emozioni.

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Capitolo 2
*** II —So please remember me, as vivid as I was. ***


II

So please remember me, as vivid as I was.

Quando il mio telefono ha vibrato nella mia tasca, probabilmente sarei sobbalzata, se avessi avuto ancora emozioni. Non ricevo mai chiamate, figuriamoci messaggi, visto che non ho nessuno con cui comunicare davvero, se non qualche sporadica richiesta necessaria dei compagni di classe. Essendo tuttavia a scuola, difficilmente qualcuno di loro mi può aver scritto, quando potrebbe semplicemente venire da me per parlarne faccia a faccia. Per questo motivo, è stata con trepidante attesa che ho estratto il cellulare, le mani tremanti e la gola secca – o quanto meno, immagino questa dovrebbe essere una reazione appropriata. In realtà, non sentendo nulla, ho semplicemente, meccanicamente sbloccato lo schermo, osservando per un lungo istante l'icona della notifica sul lato alto del display, senza toccarla. Per un istante, sono stata tentata di non aprirla, ma è una cosa immensamente stupida da fare; dopotutto, qualcosa di così insolito presuppone che vi sia dietro quanto meno una ragione importante ed altrettanto fuori dal comune.

Tutto quel che c'è scritto è una semplice frase, una unica riga di testo dai caratteri neri sullo sfondo bianco ed asettico della schermata: “Il Gatto Nero ed Altri Racconti, A18”. Il numero da cui è arrivato il messaggio è sconosciuto; non che conti, visto che nella mia rubrica non ho salvato alcun numero. Non avrei nemmeno un motivo, dopotutto, di utilizzarlo visto che non ho comunque nessuno da chiamare. L'unico motivo per cui lo possiedo è per le situazioni di emergenza. E questa situazione, forse, è una di queste emergenze, seppur non il tipo per il quale possa chiamare la polizia. Chiunque lo abbia inviato, è chiaro che sia a conoscenza della mia situazione, quel che è accaduto un anno fa, quando ho incontrato il gatto nero senza volto, e il messaggio in apparenza senza senso, solo il titolo di un libro per qualcun altro, letto da me acquista totalmente un altro significato. Eppure, sono sicura che in quel momento, quando l'incontro si è verificato, non vi fosse nessuno se non me stessa: era come se fossimo in un altro mondo, lontano da questa realtà, in uno spazio ritagliato solo per me e per quella anormale creatura silenziosa ed inquietante.

Il mio primo sospetto è stato Aidan; da un anno a questa parte, proprio dai giorni seguenti l'incidente, l'ho notato osservarmi intensamente per alcuni attimi; o meglio, guardare qualcosa attorno a me, come catturato da un evento insolito ed incredibile. I suoi occhi socchiusi hanno seguito i movimenti invisibili che, tuttavia, non si sono mai allontanati da me, rimanendo sempre in prossimità della mia figura. Ma quando ho chiesto ad altri compagni che hanno già conversato con lui, ho ricevuto sempre la stessa risposta: non è il suo numero di telefono. Ho scartato l'opzione che si possa trattare di lui, tenendolo in un angolo della mia mente,e sono passata all'azione: A18 è, presumibilmente, uno scaffale della nostra biblioteca. Fortunatamente è sempre aperta, anche ora che l'orario scolastico è vicino alla chiusura, e quindi posso entrare senza alcun problema con la scusa di prendere in prestito proprio quel libro e dargli una rapida occhiata, per scoprire il significato del messaggio. È chiaro che chiunque lo abbia inviato voglia che io trovi quel libro – al punto da inviarmi questo messaggio che funziona come un'esca per i pesci. Un'esca a cui sto abboccando, ogni istante di più, ogni passo che mi avvicina alla biblioteca.

La targhetta in plastica trasparente sopra la doppia porta recita “Biblioteca scolastica”, ed appena sotto una nota avvisa che il bibliotecario in questo momento è fuori; sono le tre di pomeriggio, quindi non è così insolito che sia da qualche altra parte, forse è già tornato a casa, o semplicemente si stanno dando il cambio di turno con qualche altro studente. Comunque stiano le cose, ora come ora non c'è nessuno all'interno, ma la porta è ancora aperta. Mi basta spingerla appena, perché si apra docilmente senza un rumore, restituendomi attraverso uno spiraglio l'immagine dei tavoli disposti accanto agli innumerevoli scaffali ricolmi di libri. Ho sentito più di una volta il professore di letteratura vantarsi della gran quantità di libri posseduti dalla scuola, ma non vi ho mai prestato troppa attenzione, almeno fino a questo momento; alle mie spalle, la porta si chiude con un tonfo appena percettibile, e davanti ai miei occhi si aprono file e file di tomi uno accanto all'alto, tenuti rigorosamente in ordine dal lavoro costante degli studenti addetti, tutti membri del club del libro ed amatori della lettura di ogni tipo; non mi è troppo difficile, quindi, individuare subito lo scaffale A18. Il mio dito inizia a scorrere rapidamente di dorso in dorso, mentre a fior di labbra ripeto silenziosamente il titolo del libro. Quando, infine, l'indice si poggia sul tomo che cerco, pur non potendo provare alcuna emozione, mi blocco per un istante, quasi esitando. I dubbi sull'identità di colui che conosca il mio segreto non sono scomparsi; in me, persiste debolmente la convinzione che si tratti di Reiss, ma non ho alcuna evidenza di questa mia teoria se non quel che riesco a ricordare, indizi che sono pallidi e forse mero prodotto della mia mente, della mia autosuggestione.

Nel momento in cui lo tolgo dallo scaffale, in quel preciso istante, quando la copertina si è rivelata insieme al libro, scivolando fuori dall'alloggiamento, ho ricordato distintamente questo libretto non troppo spesso che Aidan stava leggendo, qualche mese fa. Dal rigido rivestimento del libro, un gatto dal pelo come inchiostro, arruffato, la bocca spalancata a mostrare i denti affilati e gli occhi colmi di rabbia e sdegno, mi getta uno sguardo sprezzante e furioso. Non posso sentire niente, certo, ma è questo il momento adatto per la delusione – non vi è alcuna somiglianza tra il disegno e quell'essere dall'aspetto felino che ho incontrato. In lui, non c'era crudeltà, né ira, ma solo il nulla, un vuoto perfetto perfino nel taglio orizzonte della sua bocca; al massimo, ora che lo riesco a ricordare, posso rivedere un sorriso beffardo piegarsi appena, distruggendone la completa neutralità, ma comunque qualcosa di totalmente diverso dall'aspetto infastidito dell'animale rappresentato in copertina. Da quell'essere ho sentito provenire comprensione, una sorta di consolazione, che non ho mai privato prima d'ora, e che non troverò mai in questo fatidico Gatto Nero del libriccino stretto tra le mie mani.

Mossa dalla curiosità, inizio meccanicamente a sfogliare le pagine senza soffermarmi su una in particolare, semplicemente lasciando che la carta scorra tra le mie dita, con la marea di simboli e parole disposti uno dopo l'altro, senza riuscire a trovarvi nulla di eccezionale o particolare. Dopotutto, da quando ho perso le emozioni, per me leggere è divenuto qualcosa di inutile, nulla più che un mero fluire di lettere e parole una dopo l'altra, incapaci di intrattenermi perché impossibilitata a sentire cosa voglia trasmettere quel che ho tra le mani. A volte, in momenti come questo, mi chiedo se non si sia trattata più di una condanna, che di una benedizione. Non riesco più a vivere così, priva di ogni sfumatura, in un mondo che va gradualmente perdendo le sue tinte perché nulla mi risulta davvero appieno godibile – e come potrebbe esserlo, se l'emozioni stessa dell'appagamento della gioia, sono scomparse? Ho voluto così tanto, per così tanto tempo, poter smettere di soffrire in quel modo, ignorata da tutti e perennemente malinconica, rassegnata ad una vita in un limbo di nullità, che ho voluto davvero poter smettere di sentire qualunque cosa e così vivere priva di ogni preoccupazione e di ogni dolore. Ero talmente presa dalla situazione, da non riuscire a vedere che avrei perso ben più dei pochi momenti in cui credevo di essere sollevata. Solo ora, che non ho più nulla, mi rendo conto di quanto vaste siano le emozioni e le sensazioni, e di quanti momenti ho avuto diversi da quella tristezza e malinconica che ritenevo assolute.

Ora, ho la sicurezza di non poter più essere ferita, di non provare più dolore. Ed allo stesso tempo, l'ho pagata con tutto il resto.

Vorrei poter tornare indietro—se potessi.

Un foglietto cade dall'ultima pagina del libro, atterrando ai miei piedi, con il lato sul quale è stato scritto qualcosa rivolto verso l'alto. Una semplice indicazione, in una elegante calligrafia estremamente precisa – una lettera di colui che mi ha fatto venire fin qui, di colui che sembra conoscere la mia situazione.

Aula 16B, 15:15.”

 

Aidan Reiss è uno di quegli individui che, ai miei occhi, è sempre apparsa come una persona talmente diversa da stare sempre un gradino al di sopra degli altri, perfino nel suo insolito modo di essere. Non è un genio, né uno dei migliori per media scolastica; raramente risponde ai quesiti che gli vengono posti dai professori, limitandosi ad un secco ed indifferente “non lo so”, con un'aria annoiata e quasi sonnolenta. In classe, sembra avere un'aria di perenne stanchezza, accentuata dalle occhiaie che stazionano al di sotto dei suoi occhi, di una scolorita sfumatura nerastra, a suggerire che la notte non è il suo momento preferito per dormire. Nonostante tutto ciò, i suoi voti sono un continuo salire e scendere, che contrappongono risultati eccellenti, degni delle più alte graduatorie, ad alcuni disastrosi, talmente bassi da chiedersi se effettivamente siano stati ottenuti dalla stessa persona. Superficialmente, la sua passione non sembra indirizzata verso qualcuno in particolare e all'apparenza indossa sempre un'espressione annoiata, che muta solamente quando l'argomento di cui si sta parlando tocca in qualche modo la mitologia o il sovrannaturale. In quei momenti, nonostante resti lo stesso, la sua indifferenza sembra scalfirsi, come una crepa che si allunghi su una corazza dopo un colpo troppo pesante – la sua voce, pur mantenendo il distacco che la caratterizza, aumenta leggermente in velocità, come se tentasse di tenere a freno un torrente di parole limitandone il flusso prorompente.

Ho imparato che le sue nozioni riguardanti l'epica, la conoscenza dei bestiari medievali o di qualunque cosa che sia collegata a creature insolite e fuori di questo mondo, sfiorano l'assoluto. È come se, stanco degli esseri umani, abbia rivolto se stesso verso i mostri, verso il sovrannaturale, assorbendo il fantastico e l'invisibile, per allontanarsi dalla realtà che sembra ripugnarlo in tutto e per tutto.

Come me, sta seduto al suo posto senza parlare con nessuno, preferendo dormire o leggere libri di ogni genere, molto spesso tomi voluminosi e dalle pagine fitte di caratteri gotici ed insoliti, da cima a fondo, opere che tra le sue mani scorrono velocemente, al punto che mi sono chiesta se effettivamente li legga oppure se semplicemente ne scorre le pagine senza soffermarsi per più di un secondo su qualche illustrazione.

Non abbiamo mai parlato né abbiamo mai interagito davvero, così come con la maggior parte degli altri, dopotutto; ma se con il resto dei compagni ho scambiato almeno qualche frase di circostanza, non posso dire lo stesso di lui: in tutto questo tempo, non l'ho mai visto discorrere con qualcuno per più di qualche istante, in un rapido scambio di battute che si conclude con l'interlocutore che si allontana frettolosamente, tenendo lo sguardo basso o torcendosi le mani in preda a quello che sembra nervosismo o preoccupazione. Molto spesso, non si tratta nemmeno di nostri compagni di classe, a volte sono perfino di altre scuole, che lo attendono ai cancelli dell'istituto, per ripetere quella scena che ho visto tante volte; tuttavia, in alcune occasioni, li vedo allontanarsi insieme, senza che poi i due si vedano più l'uno accanto all'altro, dando segno di conoscersi o di essersi parlati, come se il loro rapporto si limiti a quello scambio di battute o a quella banale passeggiata verso un luogo indefinito; quando ho provato a chiedere ad alcuni interessati riguardo all'incontro, nessuno di loro ha risposto propriamente, dando solo risposte vaghe o generali, come se non ricordassero nei particolari quel che è accaduto, come se volessero nascondere qualcosa. Perfino i più ostinai cedono, quando gli interrogatori diventano infruttuosi.

Nel complesso, Aidan Reiss è un ragazzo che suscita domande e curiosità, oltre a spiccare tra le altre persone, quesiti che nascono e rimangono insoluti. Più lo guardo, più mi chiedo cosa possa esserci in lui. Fino ad ora, non ha mai mostrato interesse per una persona di sua spontanea volontà, come se semplicemente non gli interessasse intrattenere un rapporto con qualcuno al di fuori di se stesso.

Per tale ragione, quando apro la porta dell'aula 15B, una parte di me si sarebbe sorpresa, se ne fosse stata capace; seduto accanto alla finestra, con un enorme libro dall'aria antica, di un inquietante nero e dal titolo stampato in grosse lettere gotiche, aperto davanti agli occhi, sta proprio Aidan Reiss. La sua espressione non tradisce alcuna emozione, assorto com'è nella lettura di quel tomo che, ad una veloce occhiata, sembra essere un qualche testo medievale, una delle tante copie per la consultazione reperibili nella biblioteca del museo locale, anche se normalmente non sarebbe permesso portarne fuori; eppure, sembra che nel suo caso sia stata fatta un'eccezione. Non mostra la minima reazione, quando entro nella stanza semibuia. Il sole filtra appena tra le imposte tirate, che lasciano passare a malapena una fievole lama di luce che si fa strada a fatica nel buio, sufficiente per non far sprofondare totalmente nell'oscurità l'aula. La 15B è in disuso da un anno, ormai, e non viene pulita da molto tempo. I banchi sono ancora disposti in perfetto ordine, così come le sedie, tuttavia lo strato di polvere che vi si è accumulato sopra e la puzza di chiuso che riempie l'aria sono elementi più che sufficienti per capire che siamo i primi ad entrare qui da molto tempo. Normalmente, la porta sarebbe chiusa, ma in qualche modo è riuscito ad aprirla; poggiata davanti a lui, come a confermare i miei pensieri, c'è la chiave della classe, poggiata su quell'unico banco da dove è stata rimossa la polvere e che ospita non una ma due sedie, una di fronte all'altra in un implicito invito a sedermi.

“Azure Kuri. Diciotto anni. Ultimo anno. Vivi da sola da tre anni, dal quattordici Maggio, ad essere precisi, vero?” ovviamente si tratta di una domanda retorica perché il suo tono di voce non tradisce alcuna esitazione, perfettamente sicuro delle informazioni personali che sta snocciolando, una dopo l'altra, senza degnarsi di alzare lo sguardo dal libro, continuando imperterrito la sua lettura, “Tutti fatti vuoti, privi di significato, che possono essere scoperti senza alcuna fatica. Vuoti, esattamente come lo sei tu ora. Tra tutte queste, l'unica informazione davvero cruciale, è quella sul tuo attuale stato psicologico – o forse sarebbe meglio dire spirituale?” Finalmente, pronunciate queste parole, chiude il pesante volume e lo poggia delicatamente sul banco, rivelandone il titolo in latino. Notando la mia curiosità, o meglio, essendo incapace di provarne sarebbe meglio dire la mia attenzione per quel dettaglio, Aidan passa la mano sul dorso dell'opera, come a volerla accarezzare, “Questo è un bestiario. Contiene molte informazioni utili, seppur spesso erronee, sui fenomeni sovrannaturali ed occulti di questo mondo. Ma è una cosa di cui parleremo dopo,” mi fa cenno si sedermi, un invito accompagnato dal suo sguardo gelido che sembra volermi trapassare come una miriade di schegge gelate, “Vorrei discutere del tuo problema.”

In un'altra situazione, non avrei di certo lasciato che tutto questo potesse accadere. Non avrei nemmeno dato ascolto ad un biglietto simile che mi invitava in una classe abbandonata. Tuttavia, priva di ogni paura come sono ora, non posso che chiedermi come faccia a conoscere l'origine del mio problema. Gli indizi che mi ha dato fino ad ora sono sufficienti a farmi capire che sa tutto del gatto e della perdita delle mie emozioni. Non si tratta di curiosità, perché come ho detto non posso provarne, ma di una sorta di attrazione magnetica che mi spinge ad ascoltare quello che questo misterioso ragazzo vuole dirmi. Quando mi sono seduta di fronte a lui, spinge lateralmente il libro, in modo da avere spazio sufficiente tra di noi, e, appoggiati i gomiti al tavolo, unisce la punta delle dita, “Mi spiace per l'aria lugubre, il buio e la polvere, ma è l'unico modo per tenerlo fuori.”

“A chi ti riferisci?”

“Mh? Al gatto, a cos'altro? O meglio, immagino che abbia quell'aspetto, ma sicuramente non è che una forma come un'altra per lui. Probabilmente gli piacciono i felini,” indica la porta socchiusa, dove uno spiraglio mi restituisce appena un frammento del corridoio, dove la pallida luce pomeridiana entra strisciante attraverso le finestre e faticosamente illumina di più l'aula abbandonata, “Forse non riesci a vederlo.”

“—è qui?”

“Lui è sempre vicino a te,” spiega tranquillamente, come se stesse parlando non di una entità sovrannaturale, ma di un argomento qualsiasi e terribilmente normale, come il tempo o la verifica di matematica della scorsa settimana, “Ed allo stesso tempo ti è lontano. Non è questo, comunque, quello che importa. Iniziamo dal principio, che ne dici? Sono sicura che l'avrai capito, Kuri, ma quello che noi chiamiamo occulto, in realtà esiste.”

Se potessi provare emozioni, questa affermazione suonerebbe terribilmente ridicola alle mie orecchie; se non avessi sperimentato in prima persona qualcosa di simile, che pure trovo inspiegabile, forse avrei riso. Ma il solo fatto che non ne sia in grado è una conferma a quello che ha detto ora Aidan. “Vuoi dirmi che esistono cose come spiriti e mostri?” chiedo, la voce neutra, proprio come è da un anno a questa parte. Priva di emozione.

“Il fatto che tu non possa vederli, non significa che non ci siano. Man a mano che l'uomo è progredito, si è appoggiato alla scienza e alla razionalità, andando gradualmente perdendo fiducia in se stesso e nella sua anima; in breve, ha iniziato ad ignorare questi fenomeni e si è perso nella strada della razionalità suprema,” il tono con cui vomita fuori questa sommaria esplicazione è annoiato, quasi l'avesse ripetuta innumerevoli volte, come un attore stanco di ripetere lo stesso copione per l'ennesima volta, e che ricorda ogni singola parte di esso a memoria, costretto a recitarlo nuovamente, ancora ed ancora.

“—Ho capito, stai scherzando.”

L'espressione di rassegnazione che attraversa fugacemente il suo volto vale più di ogni parola. Era un viso di chi se lo aspettava. Di chi sapeva che avrebbe ricevuto questa risposta, “Sono serissimo, mia cara Azure. Guarda i bestiari medievali, ad esempio,” indica il libro che sta abbandonato in un angolo del banco, facendo scorrere il polpastrello sui caratteri gotici impressi nella copertina con lentezza, “Come spieghi che siano pieni di descrizioni così accurate di esseri fantastici da sembrare veri, realmente esistiti? Secoli fa, quando la scienza non aveva accecato del tutto l'uomo, e ancora si riusciva a vedere spiriti e creature sovrannaturali...”

“Si tratta semplicemente della fantasia e degli errori di scrittori antichi, ecco tutto.”

“Questa è la giustificazione delle persone pigre, che non hanno la capacità di andare oltre a quel che vedono.”

Il silenzio che cade tra di noi è pesante come un macigno. Le cose che sta dicendo potrebbero essere facilmente classificate come i deliri di un pazzo o luna fantasia talmente sfrenata da sconfinare nella realtà, ma la sua voce è talmente seria, la sua espressione immobile, senza nessun cambiamento che indichi il minimo dubbio nel parlare di un tale argomento, che non posso far altro se non prestargli un po' di fiducia, “Cosa puoi dirmi del mio problema? Cosa vuoi fare con il… Gatto? Hai intenzione di ucciderlo?”

Riflette per un lungo istante, senza staccare gli occhi dallo spiraglio della porta che si affaccia sul corridoio, come se stesse osservando qualcuno. O qualcosa. Il Gatto dev'essere lì che aspetta, come trattenuto da qualcosa o qualcuno. Proprio come ha detto lui prima. “Vorrei evitarlo, se possibile,” risponde di colpo, tornando a posare la sua attenzione su di me, “Dopotutto ha ancora addosso le tue emozioni, e la violenza è un'opzione che si prende in considerazione solo contro esseri ostili e pericolosi, come i vampiri. Solitamente, quando i mostri predano gli umani come fonte di sostentamento, non c'è niente che si possa fare, se non ucciderli; ma in questo caso—”

“Il Gatto non è ostile?”

“Non lo è. Si tratta semplicemente di uno spirito errante che ti ha preso in simpatia – e deve aver udito la tua richiesta. Per questo, ha deciso di esaudire il tuo desiderio, e ti ha risucchiato le emozioni.”

Ha semplicemente esaudito un mio desiderio.

Inconsciamente, quante volte ho voluto non dover più provare nulla? Quante volte, di fronte allo specchio, incrociando il mio sguardo riflesso, ho stretto i pugni e mi sono morsa il labbro, imprecando silenziosamente contro il mondo, chiedendomi, senza nemmeno accorgermene, perché ancora non avessi perso ogni traccia dei miei sentimenti? La cosa mi dispiace davvero, poi? Anche se è così, non posso dirlo, perché anche il dispiacere scomparso in un battito di ciglia, insieme a tutto il resto. Ora come ora, non posso che ricambiare l'occhiata criptica, indecifrabile che Aidan mi sta lanciando, come se stesse tentando di scrutare i miei pensieri senza alcun successo, perché nulla traspare sul mio volto e nei miei occhi; non c'è nulla da mostrare, dopotutto, perché il filo dei miei pensieri è atipico e distaccato esattamente come ogni altra cosa in me. Pensare non suscita alcuna reazione diversa dalla semplice constatazione dell'immagine o della riflessione.

Dopo un lungo istante di silenzio, il ragazzo di fronte a me si poggia allo schienale della sua sedia, unendo la punta delle dita di fronte agli occhi, e socchiudendo appena le palpebre come se stesse pensando intensamente a qualcosa, prima di schiarirsi la voce e tornare a trapassarmi da parte a parte con uno sguardo indagatore, simile a coltelli che vogliano trafiggermi da parte a parte. Il suo viso è completamente neutro, mentre mi pone la fatidica domanda che sembra avere in serbo da un po'. È un quesito semplice, poco più di qualche parola, ma allo stesso tempo terribilmente importante nella sua banalità, perché in esso il cuore del nostro discorso – “A te sta bene così?”

È una domanda a cui è difficile dare una risposta adeguata, ed ho passato davvero molto tempo nel tentativo di scioglierne il nodo. Nonostante la catarsi delle mie emozioni, non riesco a dare una risposta definitiva. Non riesco a dire con sicurezza di stare meglio senza le mie emozioni perché, paradossalmente, non possiedo più un metro di giudizio; non provo più dolore, non mi sento più sola, non sono più una macchietta pallida lontana dal mondo, trasparente e dimenticata da tutti, questo è vero.

Ma è sufficiente questo a definire la mia situazione come migliore?

La verità è che…

“Da quando il Gatto ha rubato le mie emozioni, non posso di certo dire che la mia vita sia peggiorata. Dopotutto, l'essenza stessa di questo pensiero è un paradosso: senza la presenza di emozioni, non posso davvero dire se mi senta meglio o no. Tutto è divenuto di colpo… grigio. Un colore indefinito e stinto che sfuma i contorni degli oggetti, confondendo la realtà in un unico, grande mare monocromatico.

Le emozioni sono qualcosa di terribilmente importante. Non ci soffermiamo spesso su di esse, e quando lo facciamo, non è altro che una analisi superficiale: ci concentriamo sull'amore o sull'odio, sulla felicità o sulla tristezza, che sono solo mere forme elementari di uno spettro infinitamente più complesso. Ad esempio, banalmente, il cibo ed il gusto. Senza emozioni, esistono solo sapori che percepiamo come gradevoli o sgradevoli a livello fisico, non c'è qualcosa che ci piaccia o ci disgusti. Dolce e salato, al di fuori della sensazione che danno alla lingua, dello stimolo che inviano al cervello, sono esattamente la stessa cosa: non c'è modo di dire che uno sia migliore o più apprezzabile dell'altro.

A seconda della situazione, può essere considerato come un vantaggio – privi di golosità e dell'appagamento che deriva dal cibo, non si ha l'urgenza di mangiare più dello stretto necessario. Allo stesso modo si possono ignorare pietanze considerate dannose perché poco salutari o ipercaloriche, dato che scompare il fattore di soddisfazione legato al loro ingerimento.

Similmente, non esistono pulsioni sessuali. Privi di eccitamento, rimosse tutte le barriere emozionali, quello che rimane è un meccanico e sterile atto riproduttivo.

Leggere libri diviene inutile, al di fuori del mero scopo didattico, e la differenza tra generi, temi e stile sfuma: non si avverte noia o pesantezza nel leggere un tomo che altrimenti sarebbe potuto essere noioso, né divertimento o sospensione quando si tratta di un'opera di grande letteratura. Si può leggere qualunque cosa, senza alcun limite, al prezzo tuttavia di non notare differenze, senza avvertire alcun coinvolgimento per le vicende, al punto che un qualunque testo che non abbia scopo informativo, come un saggio o un trattato, perde del tutto la sua ragione d'essere.

È una cosa triste. O meglio, lo sarebbe se potessi effettivamente provare qualcosa, ma ciò estirperebbe il problema alla radice. È solo quando ho perso le emozioni che ho davvero realizzato come esse distinguano un essere vivente ed intelligente come l'umano dagli altri. Nell'ambito scientifico, molti si chiedono quale sia la differenza tra un uomo ed un sasso poiché gli elementi basilari che li compongono sono, di base, gli stessi se si scava sufficientemente in profondità. Le risposte più vaghe fornite sono quelle come “le strutture biologiche”, quelle più filosofiche tendono ad individuare il discrimine nella “coscienza”; io, invece, sono profondamente convinta che si tratti delle emozioni.

Dopo averle perse, tutto è divenuto uguale.

Il Gatto ha esaudito il desiderio inespresso che albergava in me, che si nutriva della mia disperazione e del mio dolore, aggrappandosi alle mie ferite e vivendo della mia sofferenza. Ha guardato attraverso di me, attraverso il mio animo lacerato, ed ha risucchiato ogni cosa.

Quindi, secondo te…

Lo ha fatto per aiutarmi?”

Aidan rimane in un profondo silenzio, dopo aver udito le mie parole, per un lungo, infinito istante, prima di rispondere. Si avvicina alla cattedra, le mani in tasca e le spalle leggermente curve, come schiacciate dal peso della sua riflessione, mentre vi si siede sopra cautamente, lasciando una gamba a penzolare qualche centimetro dal terreno, raccogliendo l'altra sotto al ginocchio; i suoi occhi gelidi guardano un punto indefinito di fronte a se, prima di spostarsi per l'ennesima volta su di me, affondando nell'infinito grigiore dei miei. Come se sperasse di trovare, nel mio sguardo vuoto, una risposta.

“Come ti ho detto, fondamentalmente, il Gatto non è malvagio. Le conseguenze delle sue azioni sono certamente imprevedibili ma ha agito in buona fede. Le mie ipotesi sono due;” si volta verso la lavagna, dopo aver preso un gessetto abbandonato nel cassetto della cattedra, e traccia su di essa un singolo numero – un uno, con due secchi movimenti della mano, dopodiché picchietta le nocche contro di esso, “Numero uno, probabilmente ha preso a cuore la tua situazione. Devi aver ispirato in questo spirito errante una certa tenerezza, abbastanza da spingerlo a rivelarsi ed accogliere in sé le tue emozioni.”

“Non era questa la tua prima teoria? Vuoi dire che ne hai un'altra?” chiedo, incrociando le gambe e spostando leggermente la sedia verso di lui, in modo da poterlo guardare direttamente mentre se ne sta in piedi nella semioscurità, con il pezzo di gesso stretto tra le dita, “Qual è la seconda?”

Sembra pensarci per un altro momento, prima di rispondere. Si sistema meglio gli occhiali sul naso spingendone al centro la montatura, prima di tracciare un grande numero due, e sottolineandolo appena con due righe, come a volerne evidenziare l'importanza. Poi, le sue labbra si incurvano appena, come sogghignando, rivelando un sorriso affilato e compiaciuto, quasi speranzoso, “La seconda ipotesi sarebbe ben più problematica per te, ma molto più vantaggiosa ed interessante per me. Ci sono numerosi tipi di spiriti, in questo mondo, ma alcuni devono nutrirsi per continuare a rimanere ancorati alla nostra realtà ed evitare di svanire. Tra questi, una speciale tipologia si occupa di esaudire desideri degli esseri umani per poter esistere – la stessa tipologia che molti riconoscono nell'essere che Faust definisce come Mefistofele.”

“Questo Gatto quindi sarebbe uno di quei demoni che, per continuare a vivere, esaudiscono i desideri dell'uomo, non importa se dannosi?”

“Sei molto perspicace,” cerchia con un ampio gesto l'opzione numero due, “Ed in questo caso, sarebbe estremamente difficile riuscire a recuperare te stessa. Sempre ammesso che tu trovi questa situazione fastidiosa.”

Sorrido. Ma non è un vero sorriso, solo un'espressione vuota, con l'unico scopo di fare scena, di rafforzare le parole prive di espressione che escono dalla mia bocca.

“Ma io non posso sentire nulla.”

“Ah, perdonami. Colpa mia.”

L'intera situazione è ovviamente assurda e nessuno potrebbe crederci. Se trapelasse la voce che Aidan Reiss è una specie di cacciatore dell'occulto, che insegue spiriti e creature sovrannaturali che sono universalmente e razionalmente riconosciute come inesistenti, probabilmente sarebbe considerato un folle. Razionalmente parlando, tutto quello che ha detto fino ad ora non è altro che una grossa fantasia messa in piedi dalla sua mente.

Nessuno potrebbe crederci, se non fosse direttamente coinvolto. Solo dopo averlo provato sulla propria pelle, ci si può convincere che tutto quello raccontato da lui sia vero, e per quanto tutto questo potrebbe suonare assurdo alle orecchie di chiunque altro non si trovi nella mia posizione, io non posso che ammetterlo: Aidan ha ragione. Ogni cosa che mi ha detto corrisponde, a modo suo, a verità. Altrimenti, come avrebbe potuto accorgersi del mio problema, come avrebbe potuto collegare tutto e dare un significato tanto preciso, quasi scientifico, ad una stranezza come questa che va contro ogni logica?

Non so se voglio ottenere di nuovo le mie emozioni. Questo significherebbe tornare indietro a quel che ero prima. Significherebbe dover tornare a sentire il dolore del rifiuto del mondo intero, la sofferenza di essere poco più che una sfocata sagoma senza nome, dimenticata da tutti.

Razionalmente parlando, in questo stato di sospensione incolore, non potendo provare emozioni, non sto male per la mancanza di esse. Ma so benissimo che si tratta solamente di un effetto collaterale, come il non provare dolore ad un braccio che è stato reciso.

Mi trovo davanti ad un bivio dal quale, una volta imboccato, non potrò tornare indietro. Il prezzo da pagare in entrambi i casi è sufficientemente alto da poter divenire un rimpianto a cui guarderò indietro per la mia intera esistenza – con una differenza fondamentale: lo farò provando dolore e malinconia, o semplicemente senza poter sentire nulla, svuotata come sono ora di qualunque emozione?

—Voglio davvero tornare a soffrire perché inadatta a stringere un qualsiasi rapporto?

—Voglio davvero di nuovo provare dolore, dimenticata da tutto, da tutti?

—Voglio davvero ancora una volta sentirmi soffocare dal mio stesso vuoto?

Il mio silenzio dev'essere durato più a lungo di quanto pensassi, e deve aver fatto trasparire in qualche modo il mio dubbio, il mio conflitto, dato che Aidan, poggiato il gesso e venutomi vicino, piega leggermente la testa in avanti in modo da potermi guardare in viso, nonostante io tenga la testa leggermente abbassata a guardare il pavimento grigio sotto di me – grigio come ogni altra cosa. Incolore proprio come me.

“Ero partito con l'idea che tu volessi riprendere i tuoi sentimenti, e questo mi avrebbe dato l'opportunità di cacciare il Gatto. Ma se non è così, allora eviterò di metterti i bastoni tra le ruote, e lascerò le cose come stanno. Dopotutto, è un tuo diritto, quello di alienarti dal mondo...” sorride amaramente, “Nessuno meglio di me sa quanto questa realtà faccia schifo.”

Senza un'altra parola, prende il libro abbandonato sul banco, sfiorandone la copertina con i polpastrelli, lentamente, quasi stia pensando a qualcosa, prima di sospirare profondamente e scuotere la testa. Non incrociamo ancora gli sguardi. Mi passa semplicemente al fianco, senza nemmeno voltarsi verso di me, ed arriva alla porta della classe, aprendone del tutto lo spiraglio lasciato aperto e facendo entrare finalmente più luce, un rettangolo che trapassa il buio dell'aula e investe la sua figura, sfiorando appena la mia, toccandomi appena la spalla.

“Mi dispiace di averti disturbato, Kuri,” piega appena le spalle, “Spero che tu non te ne penta. Ammesso che tu possa, nel tuo stato.”

Apro la bocca.

Solo ora mi rendo conto – solo ora realizzo.

Fin dall'inizio, dal primo momento in cui mi ha vista. La prima cosa che mi ha detto, è stata il mio nome. Ed ha continuato a farlo, ancora ed ancora.

Mi ha visto, e si è ricordato di me. Mi ha osservato e si è interessato a me, a quella macchietta grigia che sta in un angolo della classe e che nessuno ricorda. Ha fatto tutto questo per se stesso, eppure lui sembra capirmi, sembra sapere come mi sono sentita – sembra conoscere il mio abbandono.

E mi ha continuato a chiamare per nome, fino alla fine.

“Quindi… è così che suona il mio nome.”

Non credo abbia sentito quel che ho detto. È stato un sussurro talmente fievole che sono riuscita io stessa a sentirlo a malapena.

Stringo i pugni.

“Aidan.”

Si blocca.

“Sì?”

“Tu sai perché è successo tutto questo, vero?” la mia voce è poco più di un respiro, appena percettibile, che vibra nell'aria polverosa della classe, che arriva fino a lui mano a mano che mi avvicino, ogni volta un nuovo passo nella luce proiettata dall'esterno attraverso la porta, “Sai qual era il mio desiderio. Lo sai, perché mi hai osservata. E per questo...” esito, “Ricordi il mio nome.”

Sbarra gli occhi e, dopo un istante di sorpresa, abbassa la testa di colpo, come preso dalle mie parole. Si porta una mano alle labbra, poggiando appena le dita su di esse, prima di schioccare la lingua, “Si trattava solo di informazioni necessarie al mio scopo nulla di più.”

“Oh, è così, quindi.”

“...Ma una volta che ho imparato qualcosa, non riesco a dimenticarla. Ho la memoria troppo buona.”

“Se è così, allora,” alzo gli occhi, incontro i suoi, e mi sembra che voglia risucchiare me, quanto lui cada nel nulla dei miei, in un turbinio di forze che si attirano e si respingono, “Voglio chiederti un patto.”

“Un patto?”

“Ti permetterò di cacciare il Gatto. Ti aiuterò per quanto mi sarà possibile.”

“Così riacquisterai le tue emozioni e sarà di nuovo tutto come prima,” stringe il libro, “Ne sei sicura?”

“Non sarà come prima. Perché tu promettimi che mi chiamerai per nome. Promettimi che ti ricorderai di me, vivida come ero.

Come dovrei ancora essere.”

L'intera realtà sembra essersi congelata, divenuta viscosa. Perfino l'aria che respiro sembra tanto appiccicosa da rimanere incastrata nei polmoni. È tutto sospeso, mentre il silenzio passa tra di noi, scorre tra le mie parole. Tutto immobile.

Ci siamo solo io e lui, di fronte ad un rettangolo di luce che ci investe e lacera le tenebre in cui eravamo.

Riesco a vederlo chiaramente in viso, ora.

Riesco a vedere come incurva le labbra.

Si volta immediatamente, nascondendosi al mio sguardo riparandosi dietro alle sue stesse spalle.

“Lo avrei fatto comunque,” risponde seccamente, “Una volta che ho imparato qualcosa, non riesco a dimenticarla. Ti avrei ricordato comunque…”

Aggiunge qualcosa sottovoce,

“Vivida com'eri.”

“Il patto è stretto,” dico, annuendo, “Ti ricordo che non potrai tirarti indietro, una volta siglato. Ma ormai è già troppo tardi, quindi non ti resta che ottemperare. Facciamo del nostro meglio per riuscire a catturare quel Gatto, Aidan.” Gli tendo la mano, e lui, gettando prima uno sguardo di sottecchi al di sopra della sua spalla, si volta a metà per stringerla, rivolgendomi un sogghigno di soddisfazione, “Cattureremo quello spirito e riavrai le tue emozioni, Kuri Azure,” dà un colpetto alla copertina del libro, “Sappi che non ho mai fallito, nemmeno una volta.”

Sinceramente, non so in cosa mi sto imbarcando. Sembra un'impresa folle e, se la raccontassi a qualcuno, probabilmente non riceverei che occhiatacce e sussurri derisori alle spalle. Tuttavia, una cosa è certa – ho dimenticato come come ci si sente, ad essere chiamati per nome.

Ma è qualcosa che voglio provare di nuovo.

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** III —To breathe, to live, to feel. ***


III

To breathe, to live, to feel.

 

Nonostante abbia riposto nelle mani di Aidan la mia fiducia, pensandoci per un istante con più calma, mi rendo conto di quanto la probabilità che tutto vada secondo i piani sia flebile. La mia è una situazione complicata, fuori dalla norma, perfino per uno come lui, che si professa un esperto del sovrannaturale, capace di vedere e combattere gli esseri invisibili all'occhio umano; per sua stessa ammissione, uno spirito che avvera i desideri dell'uomo non è così raro e convincerlo, sfruttando le sue conoscenze in materia in qualche modo, sarebbe un lavoro semplice, magari anche soddisfacente, ma che non richiederebbe particolare sforzo da parte sua.

In quel caso, mi ha detto chiaramente, io sarei il tassello più importante del puzzle: lui avrebbe fatto in modo di porre lo spirito vagante in condizione di accettare la mia proposta e risolvere il problema, ma lui avrebbe esaudito la mia richiesta solo se questa fosse stata completamente onesta.

“Nessun inganno potrà raggirarlo, perché lui è in grado di vedere dentro di te limpidamente. Se provassi esitazione, anche solo per un momento, allora sarebbe stato uno sforzo inutile.”

Rileggo quel messaggio per l'ennesima volta, mordicchiandomi il labbro, cercando di mettere ordine tra i miei pensieri, pieni di domande, per la maggior parte inutili, ma che ammontano tutte ad un solo, grande quesito: come potrei dimostrare al Gatto l'onestà assoluta delle mie intenzioni, se non c'è alcuna emozione, in me, in grado di farglielo capire?

Osservo l'icona del cellulare brillare leggermente, segno che il mio interlocutore sta scrivendo, mentre lentamente mi lascio cadere sul letto con un tonfo, un sospiro di stanchezza che sfugge dalle mie labbra. Passo una mano tra i capelli, sciogliendoli dall'elastico che li trattiene e spargendoli sul cuscino; non posso fare a meno di pensare come la stanchezza fisica rimanga sempre, perfino quando quella psicologica scompare, lasciando spazio solo ad un nulla incolore e piatto. Questo sospiro meccanico è la cosa più simile ad un'espressione emotiva che abbia fatto, negli ultimi anni.

Non posso dire che mi manchi provare qualcosa. La nostalgia è un sentimento e come gli altri mi è stato risucchiato via. Eppure, per qualche ragione che non riesco a comprendere, per qualche motivo che sfugge alla mia comprensione, ieri, in quella classe buia e polverosa, lontano da tutto e da tutti, ho sentito una scintilla accendersi dentro di me, e, per un secondo, brillare debolmente nel nulla.

Quella scintilla, scoccata nel momento in cui ho sentito il mio nome, nell'esatto istante in cui mi è stata tesa, per la prima volta, una mano attraverso lo spesso strato di apatia attorno a me, mi ha dato, per un momento solo, un briciolo di vago, smorto desiderio. Proprio come quando le braci di un fuoco muoiono nella cenere… ma possono essere ancora ravvivate.

“Troveremo un modo.”

La sua risposta secca non basta di certo a soddisfare i miei dubbi, ma decido di lasciare stare, dopotutto è lui l'esperto e se mi ha assicurato di non aver mai fallito, non ho altra scelta se non credergli. Dopotutto, non c'è nessun altro a cui potermi rivolgere. Il patto è stato stretto.

Ha promesso di ricordarmi, di chiamarmi per nome. Di non dimenticarsi della mia esistenza, così che io non sparisca di nuovo nella vuotezza del mondo sterile che mi ha già assorbito una volta ed in cui cammino ancora, aggirandomi per le sue strade deserte.

“E se non si trattasse di quel tipo di spirito?”

Fino ad ora, abbiamo ragionato in termini ottimistici. Abbiamo preso in considerazione l'opzione che, in fondo, il Gatto che mi segue e che ha esaudito il mio desiderio, lo abbia fatto solo per compassione, dopo aver ascoltato la mia preghiera; ma esiste anche il secondo, ben più difficile caso. Se si trattasse di un Mefisto, la situazione sarebbe ben più ostica. In quel caso, non lascerebbe andare la presa tanto facilmente, perché significherebbe perdere potere e nutrimento.

“In quel caso, dovrò inventare qualcosa di più… persuasivo.”

Lasciando da parte il cellulare, mi accovaccio sotto le lenzuola, nel tentativo di scacciare quel pensiero pessimistico dalla mia testa. So che si tratterà di un tentativo inutile, perché semplicemente, razionale come sono costretta ad essere, non mi è possibile allontanare del tutto un'opzione come quella.

Il caldo abbraccio delle coperte è sempre stato una delle mie uniche consolazioni. Lasciando che il tepore smorzi il gelo del mio corpo, posso per un secondo sfuggire alla realtà in cui sono reclusa. Nei momenti in cui, prima di perdere le mie emozioni, mi sentivo depressa o sola, terribilmente abbandonata, divorata dal mostro che cresceva in me, curavo le mie ferite rifugiandomi nell'unico luogo sicuro che conoscessi. Erano i momenti in cui desideravo non dover più soffrire a causa di me stessa.

Ed è stato proprio quel desiderio ad annullarmi, a togliermi quel briciolo di umanità. Sono sicura di averlo desiderato con tutta me stessa. Sono sicura di aver silenziosamente chiesto a qualcuno di venirmi a salvare, strappandomi via da quelle emozioni che mi stavano affliggendo.

Qualcuno ha risposto alla mia chiamata ed ha preso su di sé il mio peso. Eppure, sto per rinnegare questo dono che mi è stato fatto. È giusto così?

Sto forse commettendo un errore di cui mi pentirò per sempre?

Il filo dei miei pensieri viene spezzato dal vibrare del mio telefono, l'ennesimo messaggio dell'unica persona che perda tempo a scrivermi. Un messaggio breve e conciso, di poche righe, “Ho preparato tutto per domani. Alle cinque di mattina, fatti trovare davanti a casa tua.”

Guardo l'orario segnato sull'angolo destro dello schermo. Qualche minuto dopo la mezzanotte; fuori, il cielo è coperto da grandi nuvole scure, nascondendo la mezzaluna, ma il vento sembra starle lentamente spazzandole via, lasciandomi intravedere qualche lontano, morente punto luminoso.

Non devo portare con me nulla di particolare, per il rituale, per cui non c'è bisogno di prepararmi in qualche modo. Posso solo attendere pazientemente l'ora prestabilita ed uscire senza fare rumore, nella notte gelida e mordente. Mi metto il cappotto, per uscire sul balconcino, nella speranza di poter lasciare scorrere il tempo il prima possibile, lasciandomi catturare dal paesaggio. Un desiderio impossibile da realizzare, perché potrei osservare per ore lo stesso luogo senza provare noia, ma allo stesso tempo, per quanto bello, non mi riuscirebbe a catturare in alcun modo. Rimarrei semplicemente immobile, a guardare qualcosa, senza alcun pensiero nella testa.

Le luci della città sono quasi tutte spente, al di là di qualche lampione e delle sparute insegne luminose dei pub aperti tutta la notte, il cui stanco riverbero emette un alone sbiadito che non illumina davvero le tenebre, ma le rischiara a malapena, in un coraggioso sforzo di combattere il buio notturno.

Una delle cose che apprezzavo della scarsità dell'illuminazione notturna, era la nitidezza con la quale le stelle sono visibili ad occhio nudo. Alzando la testa, in una limpida notte estiva, ne ho osservate talmente tante da punteggiare il cielo da un lembo all'altro.

Dicono che la luce che intravediamo la notte, sia quella emessa da stelle morenti, così lontane da noi che riusciamo a vederle solo dopo che si sono incenerite. Molte di loro non vengono nemmeno notate, spegnendosi nel silenzio.

Affondo la mano nella tasca del cappotto, estraendo il cellulare. Nessun nuovo messaggio. Se ne sta silenzioso come sempre, senza nemmeno un accenno di vibrazione; nessuno mi ha mai cercata, quindi è qualcosa a cui sono abituata, ma per una volta, sento come il bisogno di scrivere io. È un qualcosa di indefinito – non si tratta di una sensazione, ma di una specie di istinto, come un vento che mi sospinga gradualmente.

Per questo, inizio a digitare, una parola dopo l'altra.

“Probabilmente non riuscirò a dormire.”

In altri casi, avrei esitato a scrivere un messaggio del genere…

“Rimani a parlare con me.”

Uno degli aspetti positivi di questa vuotezza, è il non dover essere comandanti dai moti vorticosi del nostro animo impazzito.

“Non lasciare che mi spenga da sola.”

Probabilmente, quando avrò riacquistato le mie emozioni, morirò di vergogna rileggendo queste brevi righe. Mi pentirò anche solo di averle pensate, forse non riuscirò a guardarlo in faccia.

Ma in quel modo, capirò di essere tornata a sentire qualcosa, in fondo al mio animo di carta.

“Ricordati il mio nome.”

Il gelo delle cinque del mattino è pungente e manda formicolii lungo le mie mani, nonostante abbia indossato dei guanti; in piedi di fronte al cancello, sul marciapiede di una strada buia, sistemo la sciarpa attorno al viso, nel tentativo di scacciare gli sbuffi di vento. Mi chiudo il cancello alle spalle, con un leggero tonfo, stando bene attenta a non sbatterlo troppo forte per non lacerare il silenzio della mattina, “Come facevi a sapere dove abito?”

“Accurate ricerche sul tuo conto,” Aidan, alle mie spalle, si giustifica senza troppo impegno, liquidando quello che potrebbe essere definito stalking con una semplice, secca risposta, “Tutto pronto?” Il mio mugolio di risposta sembra essere accettabile, perché subito si mette in marcia, facendomi cenno di seguirlo.

“Dove andiamo?” chiedo, arrancando dietro di lui, tremando per i brividi di freddo.

“In un posto che ho accuratamente scelto per te. Non è troppo lontano...” indica una stradina secondaria che si dipana a partire dalla via che stiamo attraversando ora, per poi snodarsi attraverso degli alti ed anonimi condomini, proprio come se ne vedono ovunque, senza alcun particolare, “e sopratutto, è adatto allo scopo.”

Senza aggiungere altro, mi rassegno a seguirlo senza fare ulteriori domande a proposito, preferendo invece chiedergli cosa avrei dovuto fare per permettergli di compiere al meglio la caccia. Dà una pacca al gonfio zaino che porta sulle spalle, stipato fino all'orlo, quasi sul punto di scoppiare, “Non c'è molto che tu debba fare. Devi solo riuscire a comunicare le tue intenzioni al Gatto. Se tutto andrà bene...”

“E se ci sbagliassimo?”

La mia domanda a bruciapelo sembra congelarlo sul posto, facendolo irrigidire di colpo. Senza voltarsi, dopo una lunga pausa, stringe i pugni, “Cosa intendi dire?”

“—Distruggere un desiderio che ho voluto, è davvero giusto?”

“Se hai dei dubbi, possiamo smetterla qui. Se hai dei dubbi, allora vuol dire che il Gatto non ti darà ascolto.”

“Sono io che ho scelto tutto questo. È stato un mio errore.”

Si gira di scatto, afferrandomi per le spalle, e tirandomi violentemente verso di sé, “Ascoltami bene. Tutti commettiamo degli errori. Tutti siamo deboli, in alcuni momenti, e perciò cediamo, invece di combattere. È normale.” la sua presa sulle mie scapole sottili si fa più forte. Quasi disperata. “Vuoi davvero vivere così? Non avevamo stretto un patto? Non volevi tornare a provare delle emozioni? Non volevi...” stringe i denti, la sua voce si affievolisce di colpo, la sua stretta diviene più debole ed incerta, “...non volevi forse che io ti ricordassi?”

I suoi occhi, prima sbarrati, dalle pupille tremolanti, distolgono rapidamente lo sguardo da me, abbassandosi, ma riesco quasi ad intravedere, dentro di loro, per un solo istante, qualcosa. Mi lascia andare, le braccia che ricadono inermi lungo i fianchi, la voce sottile, appena udibile, quasi come un sussurro, “Se vuoi andartene, fallo ora.”

Mi sento ancorata a terra, come da un peso invisibile, tale da non riuscire a muovermi. Non mi aspettavo una reazione così, da lui, che è sempre stato così calmo, così controllato. Sento ancora le sue dita avvinghiate attorno alle spalle, in quella presa quasi disperata, e mi accorgo che le spalle sono leggermente indolenzite.

Mi ha trattenuto, con tutta quella forza, con quelle parole così violente. È possibile che questo non sia un lavoro come un altro? È possibile che, forse… “—Cosa ti è successo?” affondo le mani nelle tasche della felpa, osservando il mio respiro condensandosi in nuvolette a contatto con il freddo mordente, “Ti è successo qualcosa, vero?”

“Ti sbagli. Non è accaduto nulla. Dimentica quello che ho detto.” nasconde il viso, tornando a darmi le spalle, e da un cenno con la testa verso il fondo della stradina, del quale riesco ad intravedere un mattonato, il selciato di una piazzetta come le altre, “Siamo arrivati. Se non te la senti, se non vuoi che le cose cambino, se senti di avere dei dubbi, allora vai.”

Stringo le labbra per un secondo, prima di scuotere la testa. Ha ragione, dopotutto… quel mio desiderio, non è stato una vera scelta. È stato solo un errore. Per quanto allora desiderassi di svuotarmi, ora, per qualche ragione, è come se una parte di me si rifiutasse di continuare a portare questa vuotezza nel petto.

Eppure, è strano… perché non dovrei provare alcuna emozione.

Quegli sprazzi all'interno del mio animo, come piccole lucciole morenti che si intravedono in una notte buia, potrebbero trattarsi di semplici reminiscenze, di illusioni generate dalla mia mente. Un mio inganno, un inconscio grido d'aiuto.

Dopotutto, ora non dovrei più perdere me stessa. Ora non mi sentirei mai più un nessuno tremolante, una figura che rischia di sbiadire. Una persona tra le tante, invisibile agli occhi del mondo.

Non ora che i suoi occhi mi guardano, fissi dentro ai miei vitrei, aspettando silenziosamente che io risponda. E quale migliore risposta potrei dare, se non muovere un passo in avanti, verso di lui, verso la fine della via sulla quale stiamo immobili, come davanti ai cancelli di un luogo sconosciuto?

Aidan sospira lentamente, come se avesse trattenuto il fiato fino ad ora, prima di voltarsi e seguirmi, affiancandosi a me, quando arriviamo sul limite del luogo da lui scelto. Un luogo che non conosco, desolato e spoglio, lasciato a se stesso, ad arrugginire e deteriorarsi. Un parco giochi circondato da una bassa ringhiera consumata dal tempo, in più parti contorta e stretta dall'edera che si arrampica su di essa come un serpente, a stritolare le barre di ferro ammaccate.

Le erbacce allungano i loro steli pungenti verso l'alto, ondeggiando al placido vento della fredda mattina. Il sole ancora è nascosto dagli edifici tutt'intorno, per cui, nella semioscurità, rischiarata a malapena da qualche lampione, dalla luce debole e sbiadita, riesco a fatica ad intravedere delle costruzioni di metallo ossidato e corroso, invecchiato e sporco, scivoli di plastica rotti, altalene cigolanti che oscillano tristemente, le catene che scricchiolano, uno spiazzo dove le mattonelle sono crepate e si sono arrese ai cespugli pungenti di rovi.

Un luogo desolato, lasciato a se stesso, all'abbandono. Dimenticato da tutto e da tutti, perfino da chi un tempo vi ha giocato, o si è seduto sulle sue fatiscenti panchine dalle assi marcite. I pezzi di ferraglia abbandonati negli angoli ed i cestini rovesciati, con spazzatura rimasta impigliata nell'erba, spuntano malconci a punteggiare lo spazio che intercorre tra un gioco e l'altro; un dondolo a forma di cavallo è poggiato malinconicamente su un fianco, strappato dalla sua molla ormai troppo debole perfino per rimanere dritta, accasciata tristemente al suolo, una piramide di corda di cui è rimasta soltanto l'impalcatura, come una sorta di silenzioso monumento funebre, a troneggiare nella luce tremolante che precede l'alba.

Il cielo è ancora tinto di macchie nerastre e sfoca, lentamente, verso un biancore che a malapena si intravede all'orizzonte, oltre i tetti dei condomini e delle casette, le cui facciate rimangono impassibili, indifferenti, guardando questo cimitero di acciaio ed erbacce.

“Perché siamo qui?” chiedo, seguendo con lo sguardo Aidan che inizia a preparare gli oggetti necessari al rituale, accovacciandosi nello spiazzo che sembra relativamente sgombero dai resti delle attrazioni e dai rampicanti. “Semplicemente, credevo fosse un luogo adatto a te. Un luogo abbandonato, di cui nessuno serba più ricordo, nonostante rimanga davanti ai loro occhi. Un luogo che, tuttavia, non è sempre stato così—che prima ha conosciuto qualcosa di diverso dalla desolazione.” Apre il libro, come a seguirne le istruzioni, gli occhi che si muovono febbrilmente lungo le righe di testo; inizia poggiare a terra diversi foglietti di carta, sul quale si è premurato di incidere diverse rune, intricati simboli che ai miei occhi non hanno nessun significato, premurandosi di trattenerli con un sasso, fino a formare un reticolo che vada ad abbracciare il selciato.

“Un vecchio parco giochi che ti somiglia. È quasi buffo, vero?” scrolla le spalle, osservando il sommario lavoro che ha messo in piedi, prima di richiudere il libro con un tonfo, prima che io possa osservarne il contenuto.

Scuoto la testa, “No. Hai ragione...” lascio che i miei occhi scorrano pigramente attraverso questo luogo, prima di sedermi sul bordo dello scivolo, tirandomi le ginocchia al petto, il mento sopra di esse, per osservarlo mentre continua ad allestire questo o quell'accorgimento, premurandosi, in particolare, di poggiare un pesante drappo nero in cima al basso lampione acceso, l'unico ancora funzionante, scacciando via l'unica fonte di luce artificiale, “...Credo funzionerà.” termino in un soffio.

In questo momento, nell'ora che oscilla tra la notte e l'alba, in cui ancora si intravede una debole luna faticosamente brillare in cielo, circondata da stelle morenti, ma ugualmente ardenti, mentre si avvicina inesorabilmente il momento in cui scompariranno, con l'arrivo della prima luce in lontananza, meno di un bagliore…

In questo momento, circondata dalle rovine di un luogo lasciato a sé, senza alcuna luce, i miei occhi stanchi, tremanti, riescono a distinguere una vaga figura, nell'ombra, accanto a me, accovacciata sotto le mie scarpe da ginnastica, che mi guarda con un muso senza alcuna forma. È poco più che un'ombra pallida ed indistinta, come se fosse proiettata da un lume terribilmente fioco; non è oscura come la notte, ma appena più chiara, per cui, strizzando le pupille, si intravede appena il contorno.

Un gatto che allunga il suo viso verso di me, senza sfiorarmi, ad un soffio dal toccare le dita che ho allungato inconsciamente per toccarlo.

“—È qui.” sussurro ad Aidan. Lui annuisce, la schiena poggiata contro quella struttura, no, quell'obelisco dal quale si estendono corde strappate come tentacoli abbandonati, penzolanti. Morti.

Aidan Reiss è un ragazzo che ha rifiutato il mondo attorno a sé, proprio come ho fatto io. Ha voluto, tuttavia, combatterlo a suo modo, senza scegliere di fuggire. Dev'essere per questo che ha deciso di divenire un esperto dell'occulto, per trovare qualcosa di interessante, di diverso da ciò che gli ha procurato dolore. È necessario, per affrontare degli esseri ultraterreni, che sfuggono all'umana comprensione, perdere la razionalità ed il contatto con il mondo – altrimenti, si rischierebbe di non riuscire più ad intravederli.

Dev'essere per questo che ha scelto un luogo così desolato. Così distrutto. Così lontano dal mondo, pur essendo parte di esso. Perché è uno specchio di me, di quel che rimane di me. Così, assorta nel buio, non ho potuto fare a meno di chiedermi, cosa mi fosse accaduto. Per quale motivo nessuno avesse mai posato lo sguardo su di me o mi avesse ricordato.

Il respiro mi manca, posso sentirmi ansimare, sempre più forte, proprio come prima, come quando mi sentivo divorare dal panico e non riuscivo a respirare. Mi sembrava di soffocare, nel mezzo di un mondo che mi stava ripudiando… No. Mi stava ignorando. Perché nessuno mi ha mai volto uno sguardo? Perché nessuno mi ha mai teso una mano?

Sono domande che ho ripetuto a me stessa tanto a lungo. Ho desiderato con tutta me stessa sparire. Le cose sarebbero andate meglio così, dopotutto; nessuno avrebbe sentito la mia mancanza. Nessuno ricordava nemmeno chi fossi.

Ero un fantasma che camminava nei corridoi di una scuola, nelle strade di una città, nelle stanze di una casa.

Mi rannicchiavo e guardavo il mondo attraverso un velo tremolante e mi chiedevo perché fossi rifiutata. Cercavo rifugio dall'insensibilità, avvolgendomi in un calore che non avevo mai provato, di cui non avevo memoria.

Non potevo fare a meno di chiedermi il perché.

Perché fossi così—inesistente. Una come le altre, una persona tra le tante, senza una voce per parlare, senza un nome da chiamare.

Una senza nome… un'ombra indistinguibile dalle altre, proprio come questo gatto che mi sta accovacciato ai piedi.

“Parlagli.”

La voce di Aidan è lontana, come se provenisse da un abisso di tenebra, nonostante riesca a vederlo. Così vicino, così lontano…

“Digli come ti senti. Fagli capire cosa senti davvero.”

Sembra quasi sorridere. Ma forse è una mia impressione.

“Scommetto che capirà… come ho fatto io.”

Come si parla con un gatto? Questa è la domanda che vorrei porgli, ma so, inconsciamente, che si tratta di un quesito vuoto, privo di significato. Quello che ho davanti non è un gatto, ma uno spirito che ne ha assunto la forma, che ha sentito il mio disperato richiamo, urlato da una voce silenziosa. Esiste chi prova empatia, per me, che sono stata così sola, talmente distante da non ricordare nemmeno il calore di un briciolo di felicità, il gelo della disperazione?

Quasi avesse udito il mio richiamo, il gatto si alza in piedi, saltando sul mio grembo. Non ha peso, né consistenza apparente, eppure quando le mie dita sfiorano il suo corpo che tremola e si sfoca, come fosse un'immagine sbiadita sullo schermo di un vecchio, malconcio televisore, sento il suo pelo morbido al tocco.

Per prima cosa, vorrei davvero ringraziarlo. Nel momento più buio, quando ho desiderato solo di poter andarmene, quando credevo di essere sola, completamente sola, hai avuto pietà di me. Hai ascoltato il mio desiderio silenzioso e hai deciso di farmelo esaudire.

Vorrei dire di esserne stata felice, ma sarebbe una bugia. Dopotutto, non sentivo nulla, giusto?

Credevo che sarebbe andata bene così. Credevo che tutto sarebbe rimasto in questo modo e, fino alla fine della mia grigia esistenza, sarei rimasta immobile, ancorata al fondo di un mare senza emozione, divisa dal resto del mondo da un'increspatura talmente sottile, da stringermi come una seconda pelle.

Non ci trovavo nulla di male. Era quello che avevo desiderato.

Eppure, per un motivo che non riesco a comprendere, mi rendo conto solo ora di quanto questo dono sia stato, in realtà, un peso. Una catena stretta attorno ai miei polsi, che mi ha trattenuto, proprio come quando si chiude un uccello in una gabbia, per impedirgli di soffrire e farsi del male , scoprendo nel mondo al di fuori.

È successo qualcosa che ha acceso, in me, una fioca luce lontana, proprio come una solitaria stella nel cielo notturno o il chiarore di quest'alba che si avvicina. È successo solo un giorno fa, eppure è stato come se si fosse trattata di un'occasione che attendevo da tempo; come se avessi aspettato a lungo, senza saperlo, di trovare una crepa in questo guscio d'indifferenza.

A volte mi chiedo, perché tu abbia scelto me. Perché tu abbia teso l'orecchio ad ascoltare la mia richiesta. Avevo paura che potessi essere uno spirito malvagio ma, in fondo, non me ne importava davvero, finché non avessi più sofferto. Sono sicura che tu non avessi cattive intenzioni. Sono sicura che lo stessi facendo per me.

In fondo, hai solo esaudito la mia richiesta. Per questo, ho avuto dei dubbi. Gettare alle ortiche un desiderio è davvero giusto? Sono pronta ad abbandonare questo nulla, per tornare a sentire di nuovo qualcosa?

Non è facile ammetterlo, ma da qualche parte, forse, la mia razionalità forzata ha generato in me un surrogato di paura. I ricordi di quel che è stato persistono, non importa se le emozioni spariscono, perché riesco a ricordare tutto perfettamente – e, perciò, mi sono chiesta… sto sbagliando?

Alla fine, ho solo ottenuto quello che ho voluto.

Ci ho pensato, perché non volevo arrivare da te, tremante come una foglia, incapace di decidere e distruggere questa tua benedizione, questo tuo aiuto senza una motivazione, senza una sicurezza.

Ho riflettuto, ed ho capito che, fin dal primo momento in cui sei venuto ad aiutarmi… non ero più sola. Non ero più un fantasma invisibile, perché qualcuno mi aveva sentito.

Mi hai seguito per tutto questo tempo, senza che io lo sapessi. Aspettavi che succedesse qualcosa, vero? Era solo questione di tempo. Per questo, in fondo, ho capito che non c'è nulla da temere da te.

Forse ero davvero un fantasma, se l'unico ad avermi udito… è stato uno spirito.

Ti ringrazio. Ti ringrazio con tutta me stessa, per quel che hai fatto, per avermi udito.

Ho vissuto due anni lontana da ogni emozione. Proprio come avevo desiderato.

Non so dire se sia stato un errore.

Non so dire se me ne stia pentendo.

So solo che in questo momento—

Sento uno strano tepore.

Allungo le braccia a stringere il Gatto al mio petto. Il suo corpo inizia a divenire sempre più esitante, come se faticasse a rimanere impresso nella mia retina, ma lascia docilmente che io lo abbracci. Le sue basse, rincuoranti fusa, sembrano come un sussurro di conforto, una carezza balsamica al mio animo vibrante.

Mi dispiace tanto.

È stata dura… è stata davvero dura.

“Ma ora va tutto bene.”

I fogli runici di Aidan vengono sparpagliati via dal vento, strappati dai loro sassi. Qualche foglia secca si agita, mossa da un vento gentile, improvviso, che agita le ciocche dei miei capelli, spandendole all'aria, per un solo momento.

“Non sono più sola.”

Sorrido, accorgendomi di non stare più tenendo nulla, tra le braccia, di essere seduta, da sola, su uno scivolo. Solo aria gelida ad ascoltare il mio sussurro.

Le prime luci dell'alba illuminano debolmente le lacrime bollenti che scendono lungo le mie guance.

“Grazie di tutto. Ora ho qualcuno che si ricorda di me.

Ora non sono più una nessuno sbiadita.”

Sorrido alla figura di Aidan, assorta ad osservare la città che lentamente si sveglia. Un'alba come altre, su una città come le altre, su un parco giochi abbandonato.

“Qualcuno ricorda il mio nome.”

 

 

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Capitolo 4
*** IV —A fading no one. ***


In questo mondo, ci sono creature di ogni genere. Vivono attorno a noi, separati dalla nostra realtà da un leggero, impercettibile velo che si assottiglia quando si avvicina il crepuscolo, o quando determinate condizioni vengono soddisfatte. L'essere umano non se ne accorge, forse perché vedere uno spettro o un essere sovrannaturale significherebbe, per lui, vedersi crollare addosso le fondamenta del buonsenso e della razionalità. Sfuggono alla nostra comprensione e dev'essere questo il motivo per il quale non ci appaiono, per il quale le crediamo frutto di fantasie.

Eppure, ci sono alcune persone che riescono a percepire la loro presenza, a volte perfino a vederle; ma quando questo accade, è sinonimo di grande ferite, di un tentativo talmente grande di fuggire dalla realtà, sfuggendo ai suoi artigli, da dedicarsi ad un altro luogo più interessante, forse anche più pericoloso, ma che funge da rifugio per coloro che si sentono soli, abbandonati, impauriti e disgustati.

È una lezione che ho imparato sulla mia pelle e che, da una settimana a questa parte, non ho più dimenticato. Dall'istante in cui il Gatto è sparito dal mio abbraccio, dal momento in cui ho sentito le lacrime sgorgare dal mio viso, ho capito che quella parte di me, che per così tanto tempo credevo fosse sparita, è sempre stata in attesa, come dormiente. Aveva ragione Aidan, dopotutto: non si trattava di uno spirito maligno, ma solo mosso da compassione. Quando, in quel giorno di due anni fa, ha sentito la mia chiamata, rispondendo al mio disperato desiderio, ha esaudito la mia richiesta superficiale – quella di abbandonare ogni emozione.

Ma, allo stesso tempo, nella sua compassione, ha voluto aiutarmi; d'altronde, come ha detto l'esperto del sovrannaturale, questo genere di spiriti è simpatetico con l'essere umano, ferito e sofferente. Per tale ragione, il Gatto ha lasciato in me una scintilla, meno del guizzare della fiamma, meno del riverbero di una candela nell'oscurità; una minima luce, silenziosa, in attesa che, un giorno, si accendesse, risvegliando in me una parte di quelle emozioni che credevo di aver perduto.

Per realizzare il mio inespresso desiderio, quello di poter essere un qualcuno, per una volta, in questo mondo, per riuscire a plasmare in me l'accettazione che ho sempre cercato, ha lasciato un barlume di desiderio che si fosse acceso, qualora, un giorno, avessi voluto che qualcuno si ricordasse di me. Che qualcuno potesse chiamarmi per nome, camminare al mio fianco.

Perciò, ho sentito in me un vago desiderio di sentire, ancora una volta, il mio nome; perciò, lentamente, mutevoli e blandi frammenti morenti di emozione hanno, ogni tanto, vibrato dentro di me, come risuonando ad un richiamo che avessero atteso così tanto a lungo.

Aidan lo aveva capito, naturalmente, ma ha deciso di non rendermi partecipe per non rovinare il disegno del Gatto, per rendere quel graduale, crescente desiderio, autentico, tenendolo vivo nell'istante in cui ha minacciato di spegnersi, ricordandomi che, da quel momento, non sarei più dovuta essere sola. Mi ha ricordato che tra noi due, era nata una promessa che avrebbe rispettato, ricordandomi vivida com'ero.

Siamo tornati a casa mia quando il sole era già a metà del suo arco mattiniero, ma nella situazione in cui versavo, non sono potuta andare a scuola. Tutte le sensazioni rimaste sopite mi sono esplose in petto di colpo ed ho dovuto fare affidamento ad Aidan, per non rimanerne preda. Ho provato una sorta di profonda malinconia, per tutto quel che è accaduto, come quando si guarda indietro ad un qualcosa di non esattamente felice, ma che, in un certo senso, ha inciso abbastanza sulla nostra vita da rimanerne una parte importante, abbastanza da sentirne il distacco.

Abbiamo parlato di quel che avremmo fatto, di come affrontare questa situazione, per i giorni a venire. La soluzione migliore è stata, ovviamente, quella di evitare eccessivi contatti con l'esterno, in particolare con la scuola, ora che sono tornata in possesso delle mie facoltà emozionali, almeno finché non le avrò normalizzate. Fortunatamente, a detta dell'esperto, grazie allo spettro delle emozioni opportunamente lasciato dal Gatto, il recupero delle mie sensazioni non è stato tanto traumatico quanto pensava.

Siamo entrambi rimasti piuttosto sorpresi dalla complessità del disegno di quello spirito misterioso, di come, pur di riuscire a sollevare il dolore dalle mie spalle, di guarirmi dalla mia apatia e dal mio desiderio di distacco, avesse lasciato in me un rimasuglio che si sarebbe, un giorno, potuto attivare. Forse, in cuor mio, ho sempre saputo che perdere le mie sensazioni non era la via giusta per trovare sollievo, per trovare un posto in questo mondo che mi appare, anche ora, a tratti, insensibile e crudele.

Ho avuto del tempo per riflettere su quel che mi è accaduto, di vagliare me stessa, i miei desideri. In me, non si è mai spento il desiderio di essere riconosciuta da qualcuno. Di essere ricordata. Di non essere un evanescente nessuno.

All'inizio, è stato difficile abituarmi nuovamente a quel torrente di emozioni. Per una settimana, ho dovuto essere estremamente cauta in ogni mia azione, in ogni mio movimento, come se vedessi il mondo a colori per la prima volta; abituata a sentire nulla, solo un divorante, infinito vuoto, ho dovuto lentamente tornare a controllare le mie emozioni, le mie reazioni. Ho pianto lacrime di felicità per ogni nuovo sapore, per ogni nuova sensazione che ho sentito nascere nel petto, rendendomi conto di quanto fossi stata privata di un frammento così importante di me stessa.

Aidan ha trascorso con me gran parte della prima settimana, complice la scusa di portarmi appunti e compiti dalle ultime lezioni, aiutandomi al meglio delle sue possibilità a rimettere insieme i miei pezzi. Ogni giorno, presentandosi di fronte a casa mia nonostante il gelo pungente, si è premurato di continuare a starmi accanto, aiutandomi con la riabilitazione. Quando gli ho chiesto se fossi, in un certo modo, un peso per lui, per il suo lavoro, ha semplicemente scrollato le spalle, rispondendomi che avrebbero aspettato.

A suo dire, non sono così frequenti i casi di presenze sovrannaturali che richiedano il suo intervento, e di recente non sembrano essersi verificati casi degni della sua attenzione, all'infuori del mio, se non qualche voce che lo ha insospettito, ma sulla quale si sarebbe preso il tempo giusto per indagare, prima di contattare l'interessato... o viceversa.

Così, mentre io ho fatto pigramente intere colonne di esercizi di matematica e sfogliato decine di pagine di letteratura, l'ho osservato semplicemente essere lì, con me, e leggere, scribacchiare appunti, ogni tanto sparire per un po' di tempo in qualche ricerca al computer, ma senza mai allontanarsi da casa mia, almeno finché il sole non è calato ogni volta lasciando il posto alla luna e al cielo scuro della mordente sera.

Da domani mattina, potrò tornare a scuola, in classe, dove abbiamo deciso che terrò un comportamento simile a quello che ho avuto fino ad ora, procedendo lentamente, per non creare scompiglio, fino a dare una nuova immagine di me a tutto il resto del mondo.

Il salotto è una stanza piuttosto sobria, con una grande porta finestra che si spalanca sulla città; quando le tende non sono tirate, sul fare del tramonto, la stanza si tinge di una miriade di colori, sfumature del cielo rosseggiante che vanno dal purpureo al rosato, in una soffusa atmosfera quasi surreale. Adagiata sul divano color crema, riesco ad intravedere, perfino attraverso gli spiragli lasciati dalle mie dita poggiate sul volto, i giochi di luce che si riflettono sullo specchio e poi sul muro immacolato, producendosi in strane, vaghe ombre dall'opaco colore quasi roseo.

Il ticchettare dell'orologio da parete indica lo scorrere inesorabile del tempo, un altra giornata che lentamente volge al termine, anche questa scivolata tra le mie dita mentre mi riapproprio delle mie emozioni. Mi rendo conto solo ora di quanto tempo sia passato, di quanto velocemente sia sparito, senza che me ne accorgessi, senza riuscire a sentirne il sapore. Non ho potuto fare a meno di chiedermi, se abbia veramente vissuto, nell'arco di questi due anni, o se semplicemente mi sia limitata a respirare.

—Hai vissuto, o hai solo respirato?

Una domanda a cui non troverò mai davvero una risposta.

Due anni sono passati nel grigiore di una vita senza alcuna emozione. Due anni che non potrò mai più riavere indietro. Per questo, ora, sono come presa da una frenesia divorante, dall'urgenza di riuscire, in qualche modo, a riappropriarmi dei miei sentimenti il prima possibile, per recuperare almeno una parte di quel tempo perso. Mi sento come un malato provi di nuovo a camminare dopo tanto tempo passato immobile, su un letto di ospedale; è faticoso riuscire ad abituarmi, nonostante lentamente tutto stia volgendo verso la normalità. A volte, è quasi nauseante la quantità di sentimenti che germogliano, sopratutto se ripenso al passato, se richiamo alla memoria quel che è accaduto anche solo pochi giorni fa.

Lentamente, mi volto su un fianco, in modo da poterlo guardare mentre è impegnato nel suo studio, a scribacchiare appunti uno dopo l'altro, tormentando il cappuccio della sua penna meccanica, in preda all'indecisione. La sua fronte, a volte, sembra come corrucciarsi, forse per la delusione, per il nervosismo di non riuscire a determinare, esattamente, quale genere di creatura si sia messa in contatto con me, nel momento del bisogno.

Mentre siamo seduti, uno di fronte all'altro, nel piccolo salotto di casa mia, io sdraiata sul divano, lui intento a scorrere il suo bestiario poggiato sul tavolo, mi chiedo se sia il caso di chiedergli di quale spirito si trattasse. Dopotutto, non ho mai saputo quale essere sia venuto in mio soccorso, udendo la mia supplica, e come abbia deciso di offrire il suo aiuto in un modo tanto contorto e subliminale, ma efficace.

“Ci sono molte scelte. Avrebbe potuto essere un Silfe, uno spirito dei venti, ma non ne sono sicuro. È una teoria piuttosto flebile. Potrebbe trattarsi di un essere di natura totalmente diversa, per questo sto tentando di individuare esattamente la sua identità.” chiude il libro, con un grosso sospiro di rassegnazione, poggiando il mento sulla mano, lo sguardo che vaga verso il tramonto rossastro del pomeriggio invernale, “Forse non lo scopriremo mai. A volte succede. Il mondo dell'occulto è ben più contorto e sconosciuto di quanto tu possa immaginare.”

“Dev'essere un lavoro terribilmente duro, il tuo,” rifletto, mentre, a fatica, mi alzo in piedi, stiracchiandomi, tendendo il corpo snello, prima di sedermi di fronte a lui, scoccandogli uno sguardo di sottecchi. Mi sono chiesta, più volte, il motivo che abbia spinto Aidan Reiss ad interessarsi del mondo dell'occulto, come sia riuscito, per primo, a trovarvi rifugio. Ho pensato alle più disparate ragioni, ma nessuna di esse sembra riuscire a convincermi. Una volta, nel nostro primo incontro, ha detto con un tono quasi di amarezza, che nessuno, meglio di lui, può capire quanto questo mondo faccia schifo. Quanto lo disgusti.

Possibile che si tratti solo di questo? Repulsione per la nostra realtà? Oppure, dietro di esso, c'è un'altra ragione che mi sfugge e che non posso riuscire a comprendere?

Nonostante sia riuscito a guardare attraverso di me senza alcun problema, per quanto io sia un libro aperto ai suoi occhi, lui è una figura piena di incognite, di punti di domanda. Ma è quello che ci sia spetta da chi si immerge in un mondo privo di razionalità e che sfugge ad ogni logica, dopotutto; un minimo di mistero che lo avvolge e lo nasconde. A volte, ho l'impressione che le sue espressioni siano false, forzate, come simulate; sono certa, però, che quando ha tentato di trattenermi, quando ha voluto con tutto se stesso farmi desistere dal fuggire... In quel momento, voglio credere che sia stato completamente onesto. Voglio credere che abbia dato voce a tutti i suoi pensieri, senza alcun timore o remora.

Di fronte al parco abbandonato, che ha scelto per me, perché ha pensato mi rispecchiasse, è come se per un istante avesse lasciato aprirsi una incrinatura su di sé. Mi ha chiesto di dimenticare quel che ha detto. Come se potessi farlo così semplicemente, come se potessi dimenticare quelle parole come se nulla fosse.

Ed è stato in quel momento, che mi sono chiesta cosa possa essergli accaduto davvero, se forse qualcosa che si sia verificata in passato lo possa aver spinto a tendermi la sua mano.

Nonostante ciò, ha mantenuto la sua promessa, con tutto se stesso. Con ogni sua capacità, con ogni sforzo, non ha rotto il nostro patto. Mi ha promesso che avrebbe ricordato il mio nome... E fino ad ora, ha continuato, ogni giorno, a chiamarmi per nome. Come a volermi ricordare il nostro patto, come se tentasse di dirmi che, d'ora in poi, non mi dovrò più sentire come un pallido spettro che sparisce dalle vite altrui, come un manichino senza volto.

“Il rientro a scuola sarà difficile,” ragiona ad alta voce, con tono assente, “Sopportare gli sguardi di tutti, le voci, sopratutto quando ci vedranno insieme. Ma non dovresti metterci molto ad abituarti, perché—”

“Aidan.”

Il mio sussurro è talmente basso che non sono sicuro che l'abbia udito, preso com'è a far spaziare lo sguardo sulla città arrossata dal sole. Evito di incrociare i suoi occhi, di guardarlo anche solo per un istante, di nascosto. Nascondo il mio viso abbandonando il braccio sugli occhi, schiudendo leggermente la bocca, come a voler sussurrare qualcosa. La mia bocca trema un secondo, esitanti, mentre lui mormora una risposta.

“Sì?”

Lasciando che l'aria entri nei miei polmoni in una grande boccata, in un respiro profondo, chiudo gli occhi, trovando la forza per chiedergli, una volta sola, “Puoi pronunciare il mio nome?”

Per un lungo istante, di colpo, è immobile, quasi stia riflettendo sulla mia richiesta improvvisa, che lo ha preso di contropiede. Lo sfogliare febbricitante delle pagine del suo libro si interrompono, come in silenziosa attesa.“Hai paura scompaia di nuovo?” la sua risposta è esitante, posso avvertirla dalla lieve vibrazione nel suo tono, nonostante cerchi di dissimularlo, “Ti ho già detto che—”

Senza aprire gli occhi, senza osare guardare il mondo, dischiudo appena le labbra, “Ti prego.”

Per un istante, è come se trattenesse il respiro, quasi in bilico. Mi sembra quasi di vederlo, lì seduto che tiene il libro sulle ginocchia, senza osare guardarmi, senza osare posare lo sguardo su di me, mentre morbidamente, con un tono leggermente esitante, sussurra, in un respiro, “Kuri.”

Un tiepido calore si allunga nel mio corpo, insieme al sorriso che, spontaneamente, si incurva sul mio viso, al suono di quella semplice parola, di quel nome come un altro. Mi sento—viva. Presente. Come se questa fosse stata la prova della mia esistenza. Una sensazione che credevo non avrei mai provato, una vaga scintilla di pallida gioia, che affonda le sue radici nel mio petto.

“Grazie.” Apro un occhio, per osservarlo mentre si mordicchia il labbro, nel rispondermi, “Non è nulla. Era un patto e sto solo facendo la mia parte.”

Non riesce ad essere del tutto convincente. Per quanto il suo tono sembri naturale, persino convinto, riesco quasi ad avvertirvi una lieve vibrazione. Potrei pensare che stia fingendo, se non fosse per quelle parole, piene di rabbia e frustrazione, così diverse da ogni altra che mi aveva rivolto prima, pronunciate in quel vicolo, solo una settimana fa.

“Non volevi forse che io ti ricordassi?”

Ho aspettato tanto a lungo che qualcuno mi si rivolgesse così. Ho atteso così tanto di essere riconosciuta da qualcuno, da aver perso ogni speranza. In quel momento, forse, devo essere apparsa tanto miserabile, da spingere quello spirito ad aiutarmi. Un Gatto che mi ha rubato le emozioni, premurandosi di lasciarne in me un barlume, in modo che, un giorno, avessi potuto liberarmi dalla soffocante sensazione di essere sbiadita, trasparente.

“Grazie, Aidan.” ripeto, nascondendo il volto nell'incavo del mio gomito, così che non possa vedere le lacrime bollenti di liberazione che stanno sgorgando dai miei occhi, scorrendo brucianti lungo le mie guance, “L'ho aspettato per così tanto tempo.”

Lui non si muove, per venirmi a consolare, a poggiarmi una mano sulla spalla, ad asciugare le mie lacrime. Semplicemente, rimane immobile, come bloccato, senza muovere un muscolo, limitandosi ad abbassare appena la fronte.

“L'ho fatto per me. È stato un lavoro come un altro.”

Bugiardo.

Sei proprio un pessimo bugiardo, Aidan Reiss. Non sapresti ingannare nessuno, con quel tono, con quell'espressione sulla faccia. Sei proprio senza speranza.

Un bugiardo senza speranza.

Il sorriso sul mio viso non è ancora sparito, quando gli rispondo, con voce rotta, “Capisco.”

Probabilmente, se raccontassi questa storia a qualcuno, riceverei solo occhiatacce e sussurri alle spalle. Chi crederebbe mai che le mie emozioni sono state rubate da un Gatto, o meglio, uno spirito dalla forma di un gatto?

Era quello che credevo. In fondo andava bene così.

Nessuno avrebbe creduto all'esistenza di mostri spaventosi e spiriti gentili che abbiamo perso la facoltà di vedere, perché la nostra razionalità ci ha divorato e surclassato. Non ci avrei creduto nemmeno io, se non lo avessi vissuto nella mia pelle.

Non c'era qualcuno a cui volessi dirlo. Non c'era alcuna persona a cui importasse di me, dopotutto.

C'è una vecchia leggenda, che molti definiscono sciocca o melensa, una favola come le altre, frutto di innumerevoli secoli di tradizione giunti fino a noi. Un filo rosso collegherebbe alla nascita coloro che, in un modo o nell'altro, sono destinati ad incontrarsi, ad incrociare i propri cammini e, per una ragione qualsiasi, finiscono per essere legati indissolubilmente. Si tratta di un filo invisibile e vibrante, che si tende ma non si spezza, non importa quanto grande sia la distanza, o quanto tempo possa passare; semplicemente, questo filo rimane, inscindibile, a collegare due persone.

Priva di emozioni, piena solo di una visione razionale e scevra da ogni influenza della mia anima, lo avevo classificato come uno sciocco mito, destinato a rimanere, come gli altri, in un vago cassetto della memoria, una storiella adatta a chi volesse illudersi di aver seguito un cammino approntato dalle inesistenti forze del fato.

Eppure, alla luce dei nuovi avvenimenti, non posso fare a meno di chiedermi se effettivamente qualcosa del genere possa esistere sul serio. Se esistono mostri e spiriti, è così strano che qualcuno sia legato ad un'altra persona, per una ragione sovrannaturale che sfugge alla nostra comprensione? Alcuni fatti che sembrano accadere per caso, che sembrano verificarsi solo per coincidenze nella vita di tutti i giorni, e che ci portano poi a conoscere una certa persona verso la quale sentiamo un irresistibile richiamo, una persona che sembra essere l'unica in grado di sentirci, quale altra spiegazione potrebbero avere? Possibile si tratti solo di casualità, di probabilità scientifiche, di processi biochimici all'interno del nostro cervello?

Il ritorno a scuola è stato piuttosto difficile. Per quanto abbia deciso di procedere per gradi, non sono riuscita ad assumere lo stesso atteggiamento di prima; per la prima volta, mi è sembrato di notare degli occhi puntarsi fugacemente su di me, forse perché ho salutato, per la prima volta, la classe con un balbettio poco convinto. O forse perché quel ragazzo taciturno e sul quale ogni tanto circolano strane voci, quell'Aidan Reiss che se ne sta sempre sulle sue, mi è venuto a parlare come se nulla fosse. Mi ha rimproverato, ovviamente, perché non sono riuscita ad attenermi minimamente al piano, dandomi della senza speranza; l'imbarazzo è stato troppo forte, qualcosa a cui non sono abituata, e credo di essere arrossita talmente tanto che, anche se non avessi esitato nel salutare la classe dopo la settimana di malattia, qualcuno avrebbe comunque notato il mio cambio d'atteggiamento.

Ora che siamo seduti in un angolo del cortile della scuola, durante la pausa pomeridiana, mi rendo conto anche di quante voci potrebbero essere iniziate a circolare, tra loro, sul mio comportamento, o sul mio rapporto con Aidan, o su chissà quante altre cose. Ho l'impulso di fuggire da qualche parte, ma allo stesso tempo, per qualche motivo, mi sento stranamente—esistente. Non per le occhiate, che per la prima volta non mi sono passate attraverso come fossi fatta di pietra, non per le voci, che per una volta, in qualche modo, sono riuscite a pronunciare parzialmente il mio nome nel modo corretto, ma perché qui, seduta a sentire la brezza gelida invernale, mi rendo conto di poter finalmente rispondere ad una domanda che credevo impossibile. Ora, per la prima volta... Mi sento come se non stessi solo respirando.

La leggenda del filo rosso potrebbe essere, semplicemente, una storia come un'altra. Si tratta, dopotutto, di una favoletta non diversa da quella di demoni che stringono patti con gli uomini, o spiriti che esaudiscono desideri. Non voglio credere che sia effettivamente vera, solo perché questi esistono davvero. Voglio pensare che abbia un fondo di verità perché io stessa credo di aver sentito il filo attorno alla mia mano tendersi, stringersi, quasi come chiamarmi, facendo in modo che il mio cammino si incrociasse con la persona all'altro capo.

C'è chi, forse non troverà mai la persona all'altro capo del filo, perché troppo lontana, perché separata da ostacoli insormontabili. Io, invece, voglio avere fiducia; voglio dire di aver avuto la fortuna di incontrarla. Di aver trovato l'unica persona che, nel mio mondo incolore, sia riuscita ad ascoltarmi e a tendermi una mano. Quando tutti mi ignoravano, quando ero una senza nome, una nessuno che minacciava di sparire, divorata dal nulla che avevo all'interno, che mi circondava, solo una persona è riuscita a riaccendere in me una scintilla. Solo una persona mi ha dato un vago colore da seguire.

Perciò, sono sicura che si sia trattato di qualcosa che ci ha legato indissolubilmente. Sono sicura che solo la persona, dall'altro capo del filo, potesse essere in grado di udire un grido di aiuto silenzioso, che nemmeno io conoscevo.

“Aidan.” lo interrompo di colpo, la sua espressione corrucciata che si distende quando incrocia il mio sguardo. Sento gli occhi umidi. Mi affretto ad asciugare le lacrime, “Sono finalmente qualcuno.”

“Sei sempre stata qualcuno, Kuri.”

Nonostante tenti di nasconderlo, ho intravisto il suo sorriso. Il primo che mi abbia mai mostrato. Alzo il mignolo, puntandolo contro il cielo, perché socchiudendo gli occhi, contro la luce del sole pallido, forse vedrei davvero il filo che ci unisce.

Mi chiedo quanti spiriti gentili e quanti mostri spaventosi esistano a questo mondo.

Mi chiedo cosa ricorderò, negli anni a venire, di questi giorni. Sono sicura che, per quante cose mi possano accadere, non riuscirò mai a dimenticare...

Non riuscirò mai a dimenticare i giorni in cui sono stata senza nome.

I giorni in cui sono stata una nessuno trasparente. 

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