Schizzi di pensieri

di Meneldil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Contrasto ***
Capitolo 2: *** Ombre ***



Capitolo 1
*** Contrasto ***


Disclaimer: i personaggi del racconto non mi appartengono e la storia è stata scritta senza scopo di lucro.

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Mi rigiro la matita fra le dita. Un'estremità è rosicchiata. Strano, non lo avevo mai fatto prima …non da vivo. Tratto sempre con cura il materiale da disegno, con una sorta d'affetto. Ai tempi della scuola mi dava noia vedere i compagni mordicchiare la propria cancelleria, mi sembrava un gesto rozzo… infantile. Invece adesso mi sono ritrovato involontariamente a fare la stessa cosa.

Mi sento nervoso, ma in una maniera strana, che non riesco ad identificare. Non è proprio nervosismo, è più… angoscia. No, neppure quella, questo è qualcosa di nuovo, l'angoscia l'ho già provata, decisamente, anche più di quanto non avrei voluto. Paura? Forse paura, ma di cosa? Sono morto dentro, nell'anima, poi mi sono tagliato le vene e, come se non bastasse, al di là di ogni possibile previsione, sono riusciti ad uccidermi di nuovo. Di cosa posso avere paura ormai? Rabbia! Sì, probabilmente una sorta di rabbia. Non un'ira bruciante, né una furia violenta, nulla di tutto ciò. Assomiglia più ad un fastidio, una leggera ma diffusa esasperazione. Non posso dire che l'atteggiamento della gente nei confronti di noi… sì insomma, nei nostri confronti, non abbia fatto passi avanti. Almeno non ci sparano più a vista. Ma a volte gli sguardi diffidenti, che silenziosamente ti urlano dietro: “mostro” o “carogna”, o addirittura gli insulti diretti, vanno oltre il sopportabile. Si accumulano. Fanno male. E poi adesso c'è quella leggera sfumatura d'invidia. Sì, decisamente invidia. Perché loro escono senza fondotinta o lenti a contatto. Perché loro si accettano per quello che sono. Perché loro riescono a guardarsi allo specchio.

Dannazione, queste maledette lenti fanno davvero male, ricominciare a toglierle la notte non è stato sufficiente. Perché gli occhi stanno iniziando a lacrimarmi? Non dovrebbero farlo! Prima di tutto non dovrebbero nemmeno infiammarsi, sono morti! La destra nel reggere il lapis incerto fra le mie labbra trema leggermente, ma in modo persistente. Basta, sto mordendo la matita di nuovo. Devo smettere. Lo smalto sull'estremità ormai è completamente consumato. La scritta si legge appena.

2H. La mina è troppo dura, non è buona per il mio stile di disegno. Forse però per quegli occhi di ghiaccio, per quel viso cereo… Forse andrà bene lo stesso.

Non so perché abbia scelto proprio adesso di ricominciare a disegnare, dopo tutto questo tempo. È successo, a volte, da quando sono tornato, che, guardando un viso noto, la mente iniziasse a immaginare di ricalcarne i lineamenti e le ombreggiature. Ma niente di più. Oggi invece ecco la decisione, quasi inconsapevole, di fare spazio sulla scrivania. La prima matita trovata fra le mani. Un foglio bianco davanti. Incerto, quasi che fosse la prima volta. E in un certo senso lo è, la prima dopo la resurrezione. Cerco di capire cosa voglia realmente ottenere con questo ritratto, di solito non disegno senza motivo, forse è proprio schiarirmi le idee ciò di cui ho bisogno. Avere un foglio o una tela fra le mani mi ha sempre aiutato a riflettere.

Non saprei dire cosa, in un unico incontro, mi abbia colpito di quel tipo, ma magari con calma capirò anche questo. Chiudo gli occhi, inspiro, ripenso ai suoi tratti. Il ricordo appare nitido, ma allo stesso tempo confuso. Traccio le proporzioni del volto, ma mi sfugge qualcosa. La mano scorre in rapidi tratti sulla pagina, ritrovando pian piano l'originaria scioltezza. Immagino le rughe d'espressione, ma ho l'impressione di non comprenderne il significato. Intanto però il suono familiare, tenue e frammentato della grafite sulla carta riempie la stanza e mi rilassa. Visualizzo quel suo sguardo distante, mi torna in mente la recente conversazione al cimitero. Il suo atteggiamento da discepolo e predicatore rivoluzionario mi ha infastidito, non capisco cosa credano di ottenere mettendo certe idee in testa alla gente. Certo, sono d'accordo con i loro princìpi, ma dare alle persone altri motivi per ritenerci diversi e pericolosi avrà esattamente il risultato opposto a quello che vogliamo ottenere! In un istintivo gesto di stizza traccio il profilo delle labbra in modo troppo marcato, forse anche lievemente sbilenco. Non lo correggo, ormai l'intero ritratto è un accozzamento di emozioni contrastanti. Poi però appare il ricordo del buio nel suo sguardo, mentre recitava quei pochi versi di una poesia. Sono sicuro che quel dolore non potesse appartenere alla stessa persona che parlava di redenzione e libertà dei non morti. Ho la sensazione di non aver capito nulla di lui.

Poso il lapis, riguardo il risultato dello schizzo. Le linee approssimative definiscono un espressione lievemente più accigliata di come l'avevo immaginata. La bocca è leggermente imbronciata. Lo sguardo interrogativo sembra riflettere le mie mille domande inespresse. Nel complesso non è male, potrebbe venirne fuori un bel disegno, ma ha qualcosa che mi inquieta. Chi sei Simon? Cosa nascondi dietro quegli occhi di vetro? Mi appoggio allo schienale della sedia stiracchiandomi, più per istinto che per vera e propria necessità. Mi succedeva così spesso di passare ore chino sulla scrivania o su un cavalletto che, anche solo per abitudine, riesco a percepire il ricordo delle gambe intorpidite per la prolungata immobilità, quasi come se lo stessi provando davvero. Era tanto che non mi sentivo così vicino alla sensazione di essere vivo.

Lo sguardo cade sull'orologio. È Tardi, ho perso completamente la cognizione del tempo. Finirò dopo il turno di lavoro. Faccio scivolare distrattamente il foglio nel primo cassetto della scrivania mentre con l'altra mano afferro le chiavi del pub. L'unica cosa che mi spinge a tornare in quel posto è la consapevolezza che presto sarò a miglia di distanza da qui, senza più attorno membri della HVF con il loro malcelato astio.

Ancora un altro giorno, Kieren, solo un altro giorno…

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Meneldil

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Capitolo 2
*** Ombre ***


Fame, silenzio, grida, ingordigia.

Scaffali, fremiti, lamenti, un corpo.

Lei, compagna di caccia dal giorno della resurrezione, lo sguardo privo di volontà, i gesti inconsapevoli, incoscienti, bestiali.

Morte, il cranio che impatta contro il metallo di una mensola. Voracità, bisogno, smania.

Quel corpo, probabilmente noto, ormai cadavere inerte, preda.

La tenebra svanisce, lo scenario si dissolve, il ricordo si allontana, nuovamente nascosto in agguato. Le immagini, spoglie di sentimenti nel momento in cui avvenivano, lasciano dietro di loro una scia di orrore, rimorso per quei gesti istintivi e contro natura, dettati dalla necessità e messi in atto senza alcuna coscienza.

Le allucinazioni mi hanno colto alla sprovvista, lo hanno sempre fatto, arrivavano quando mi sentivo debole, indifeso, smarrito, solo. Soprattutto quando ero solo. Ma erano mesi ormai che non tornavano più, sembrava che avessi raggiunto un certo equilibrio, credevo di aver ottenuto qualcosa, mi ero illuso che tutti questi sacrifici avessero dato un risultato. E allora come mai sono bastate una paio di battute di Gary e l'accenno di una rissa a ridurmi così? Disperato groviglio di tremiti raggomitolato sul ciglio di una strada, combattuto tra l'istinto di correre via e la paura di muovere un muscolo, come quando da bambini sotto le coperte ci si tormenta nell'indecisione, che sia meglio uscire allo scoperto, per controllare cosa abbia provocato un rumore sinistro, o forse rimanere rintanato e immobile fingendo di dormire.

Il freddo del vento muove le foglie degli alberi, ma non sfiora la mia pelle, così come qualche rara goccia di pioggia che mi cade addosso non sembra bagnare, non percepisco niente, neppure i miei stessi brividi o i singhiozzi, solo il livido colore della notte senza luna, il chiarore artificiale di un lampione e i riflessi malsani dei neon delle insegne. Un'imposta cigola dal primo pano di una casa, lascia filtrare dall'interno dell'edificio una luce pallida che illumina un viso anziano, invecchiato nella rigidità di quelle mura tanto da averne assunto i tratti ruvidi, marcati. I ritratti dei vecchi sono sempre una sorgente inesauribile di espressività, ogni ruga ne risalta un'emozione o un sentimento, dietro ogni tratto si nasconde un ricordo o un'esperienza. Da questo volto sgorgano a fiotti soltanto sospetto, diffidenza, ostilità. Caricatura degli sguardi che mi sento sempre addosso. Calco perfetto dei pensieri della gente verso di noi. Mostri.

Il desiderio ardente di sfuggire a quello scrutare gelido ha il sopravvento, corro, i passi incerti mi guidano verso casa, come se lì potessi essere al sicuro, voci inquiete mi perseguitano per tutta la strada, incubi ribaltati dove il mostro orrendo, spaventoso, cadaverico, con gli occhi infossati ed il viso digrignato, si fa vittima dell'eroe di guerra, con lo sguardo fiero, la medaglia al valore appuntata sul petto e la fascia dell'HVF stretta al braccio. Annego nell'oscurità del mio pensiero, soffocato dall'eco di risate di scherno, inciampo nel relitto di un insulto, sputato a mezza voce tempo fa, ore, mesi, giorni forse?

Poi finalmente a casa, salgo in camera, ma la smania febbrile che mi implora di fuggire non si calma. Cerco il passaporto, unica ancora di salvezza, sola via di fuga, accarezzo la pagina lucida si cui risalta la fototessera, scattata quando ancora non dovevo nascondermi sotto chili di fondotinta. Trovo la valigia, inizio a riempirla di vestiti, apro l'armadio, afferro cose a caso preso dalla fretta, improvvisamente mi ritrovo fra le mani la busta di plastica di Norfolk, con dentro i vestiti che avevo addosso il giorno del mio funerale, tentenno incerto, non sono sicuro di volerli abbandonare qui, in un armadio, a prendere polvere, ma ho deciso di volermi lasciare tutto questo alle spalle, quindo no, non ho alcuna intenzione di portarli con me a Parigi.

Chiudo la valigia con ancora il fiatone, ridicolo, non ho alcun bisogno di tutto questo ossigeno. Mi guardo intorno come se dovessi vedere questa stanza per l'ultima volta, mi mancherà, i ritratti e i dipinti attaccati da tutte le parti, le scatole da scarpe nascoste sotto il letto, dove ho conservato tutta la mia vita, quei pochi disegni segreti rinchiusi nel primo cassetto della scrivania, quelli che non mostravo mai a nessuno, dove in ogni tratto lasciavo un pezzetto della mia anima. E intanto immerso nei ricordi vado sfiorando le tele, i pennelli, le tavolozze e i fogli, passando un dito su un'ombreggiatura troppo marcata, appuntando un lapis, cercando di fare ordine sulla scrivania fino ad arrivare proprio a quel cassetto. Sfioro la chiave con la punta delle dita, la mano trema, serro il pugno, quasi aggrappandomi a quel piccolo oggetto infilato nella serratura, apro.

I ritratti appesi alle pareti di casa sono sotto gli occhi di tutti ogni giorno; è vero, ogni tanto mi scopro a fissarli a lungo, perso in una sfumatura che ancora non avevo colto, ma per lo più ho fatto l'abitudine alla loro presenza, sono una compagnia che do per scontata. I disegni in questo cassetto invece li tiro fuori di rado, ma quando li riguardo conservano sempre lo stesso sapore che avevano nel momento in cui, per la prima volta, ho staccato la punta della matita dal foglio ed ho visto il risultato. Mantengono intatta l'emozione che mi ha spinto in primo luogo a disegnarli. Molti non avrebbero motivo di essere conservati se non per il valore affettivo, alcuni sono dei veri e propri grovigli di linee, indecifrabili per chiunque fuorché me, uno è perfino talmente vecchio da non poter quasi essere chiamato disegno, è più che altro una pagina di quaderno stropicciata, fortunata e solitaria superstite di un'età lontana e innocente detta infanzia. Dal margine strappato si vedono ancora affiorare le tracce di esercizi di spelling, scritti a penna con l'irregolare grafia della scuola primaria. Odiavo quel quaderno, sempre tempestato da croci blu, segni rossi e altre correzioni frenetiche di un isterico insegnante bigotto. L'unico motivo per cui questo frammento è sopravvissuto è racchiuso nei tratti, ormai quasi indistinguibili, tracciati sul retro del foglio. Contorni imprecisi di un viso che incomprensibilmente mi ispirava fiducia, al di là dell'atteggiamento da capo banda, che manteneva con la schiera di ragazzini che lo seguivano. Rick, volto di cui, col tempo, ho imparato a conoscere le insicurezze e i sentimenti. Volto che popola la maggioranza dei fogli del piccolo tesoro rinchiuso in questo cassetto. Dai ritratti rubati ad un attimo di debolezza ai disegni che immortalano momenti di allegria o squarci di quotidianità. Fogli che scorrono tra le mie mani, lasciando scivolare fuori dai margini e dai bordi delle pagine gocce di emozioni, che scivolano a valle e si accumulano, formando un nodo alla gola e un lago al centro del petto. E stringendo tra le mani questo mucchio inanimato di carta e inchiostro e grafite, che pure è capace di racchiude infiniti istanti di una vita, per quanto passata, conclusa, finita, lascio infine che il fiume di ricordi esondi, e impetuoso travolga tutto nell'irrazionalità della sua piena.

Fa male sentire di avere il bisogno di piangere ma non avere più lacrime da versare, è come essere sull'orlo di una rupe ma non avere la forza di lasciarsi andare, e vivere temendo il tuo stesso irrealizzabile desiderio di cadere.

Perché non posso cadere?

Perché mi è stata negata l'unica naturale certezza della vita?

Perché mi è stata negata la morte?

Perché la desidero ancora?

Mi sento vuoto dentro, sento vuote le mie azioni, vuote le azioni altrui, vuoto lo scopo da raggiungere.

Ma poi dal mucchio di fogli ne compare uno inaspettato, recente. Lo schizzo che poche ore prima avevo abbandonato, lasciandolo cadere in un cassetto qualunque era finito proprio lì, nel luogo a cui sembrava voler appartenere, fra i ricordi più intensi, tra le pietre miliari della mia breve storia. Ciao, Simon. Chi sei veramente? Perché hai il volto di una persona vera, che conosce la vita, il dolore, la morte, eppure parli con la voce di un profeta, che sa solo la risposta giusta per avere ragione e non dirti niente di vero?

In che cosa credi, Simon?

Che cosa ti spinge ad andare avanti nella tua missione?

C'è della luce dietro le ombre del tuo viso?

E così continuo ad interrogare il ritratto che ho fatto io stesso, cercando una risposta fra le righe, riempiendo pian piano di sfumature i vuoti bianchi del foglio, tentando di afferrare quell'idea che il disegno sembra aver colto e a me ancora sfugge. Cos'è quell'ombra che hai negli occhi, Simon? E come mai mi spinge a fare cose che non avrei mai fatto altrimenti? Non avrei mai affrontato Gary se tu ed Amy non foste stati lì in quel bar stasera, avrei continuato a subire passivamente le sue battute, i suoi insulti, i suoi cori dell'HVF. Cosa c'è in te che mi spinge a resistere? Non sono fatto per combattere, io non sono uno dei tuoi possibili seguaci, io mi sono già arreso molto tempo fa, e ancora nascondo i segni della mia resa sotto i polsi delle maniche di una vecchia felpa.

Io non sono qui per combattere un'altra vostra guerra, Simon, non di nuovo.

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Meneldil

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