Ci Si Vede Sulle Stelle O Da Quelle Parti Là

di DarkYuna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nella vita, come per la morte, anche in amore, non si ha alcun controllo. ***
Capitolo 2: *** Magari il destino cambierà idea ***
Capitolo 3: *** Profumi di cielo e mare, d’estate e luna. ***
Capitolo 4: *** Un arcobaleno in bianco e nero ***
Capitolo 5: *** Apri la prigione del tuo dolore ***
Capitolo 6: *** Un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente ***
Capitolo 7: *** Più male di quanto riesca a sopportare ***
Capitolo 8: *** Cercherò nei tuoi segreti, la speranza di un amore ***
Capitolo 9: *** Un arcobaleno straripante di colori, che splende a mezzanotte ***
Capitolo 10: *** In una notte può cambiare tutto ***
Capitolo 11: *** Come miele tossico ***
Capitolo 12: *** Che la fine abbia inizio ***
Capitolo 13: *** Il tempo in una bottiglia ***
Capitolo 14: *** Un bacio prima di morire ***
Capitolo 15: *** Sto sfiorando piano il mio dolore, si muove lento come il mare ***
Capitolo 16: *** Profumo di notte, inverno e morte ***
Capitolo 17: *** Vorrei che fossimo eterni ***
Capitolo 18: *** L'ultimo ballo con la morte ***
Capitolo 19: *** Ci incontreremo quando saremo più pronti, meno arrabbiati, un po' più soli. Prenditi cura di te. ***



Capitolo 1
*** Nella vita, come per la morte, anche in amore, non si ha alcun controllo. ***


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PREFAZIONE
 
 
 
 
 
 
 
      
Otto ore, Dio sono otto ore che sono acquattata dietro questa colonna ad aspettare. Conosco le striature della dannata colonna a memoria, le frasi d’amore e d’addio scritte da pennarelli frettolosi e da mani veloci, appartenenti a proprietari che devono prendere un aereo per chi sa dove.
 
 
Ho il cuore a mille, parlo sottovoce con me stessa, come una pazza e dalle occhiate bizzarre delle persone in transito, deve essere proprio così che sembro: una pazza.
Sì, ma una pazza d’amore.
 
 
Otto ore e finalmente i passeggeri del volo Berlino – Helsinki, sono finalmente atterrati. Una fila di gente stanca, dal viso pallido e sbattuto, esce dal Gate otto.
Oddio eccolo!
Mi sento mancare, la colazione si rimescola selvaggia nello stomaco e sono sul punto di rimettere perfino la deliziosa cena preparata da Francesca ieri sera.
 
 
Quasi non posso crederci, ho dovuto aspettare otto ore, colpa mia che ho letto sul sito dell’aeroporto l’orario sbagliato, presa dalla fretta di vederlo, perdendo una giornata intera di lavoro solo per questo bramato momento. È bellissimo, d’altronde non può essere altrimenti, per chi guarda l’oggetto del proprio desiderio con occhi innamorati. È dimagrito però, molto, la maglia gli calza larghissima, sorride al bassista degli HIM, sembra felice, spero che sia così. A parte l’aspetto spossato, non credo che stia male, mi auguro che si sia divertito in Germania al festival “di non ricordo cosa”. Sono gelosa, spero che nessuna gli abbia preso davvero il cuore, ma poi che diritto ho di essere gelosa? Dio, quanto sono scema!
 
 
Trascina un trolley nero e sulle spalle ha il classico zainetto da viaggio, che fa da paio all’abbigliamento corvino, suo marchio di fabbrica. Si sistema il berretto di lana e d’improvviso alza gli occhi vero di me.
 
 
Mi nascondo dietro la colonna, presa alla sprovvista, mi sento una stalker, una pervertita, anzi, una spia in missione. Mi avrà vista? Provo a sbirciare e lui è tutto preso dal parlare con Linde. No, non mi ha vista, meno male.
 
 
Non voglio sembrare la classica fan svitata, però è ciò che sono, sono una fan e sono svitata per giunta. Quale povera imbecille trascorre otto ore in aeroporto, nell’attendere il cantante della propria band preferita?
Forse sono l’unica o forse no, però ho atteso questo giorno da dieci anni quasi, è la mia occasione, voglio giocare la mia partita, me lo merito, ho fatto tanta strada, versato un oceano di lacrime.
 
 
Ville mi passa accanto, fingo di giocare al cellulare, il bum bum del cuore bastona nelle orecchie, non si rende conto di niente, ignaro di chi sono e cosa provo per lui… ignaro della mia esistenza, ma non per molto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.
Nella vita, come per la morte, anche in amore, non si ha alcun controllo.
 
 
 
 
 
 
Voglio un amore doloroso... 
Voglio un amore doloroso, lento, 
che lento sia come una lenta morte, 
e senza fine (voglio che più forte 
sie della morte) e senza mutamento. 
Voglio che senza tregua in un tormento 
occulto sien le nostre anime assorte; 
e un mare sia presso a le nostre porte, 
solo, che pianga in un silenzio intento. 
Voglio che sia la torre alta granito, 
ed alta sia così che nel sereno 
sembri attingere il grande astro polare. 
Voglio un letto di porpora, e trovare 
in quell’ombra giacendo su quel seno, 
come in fondo a un sepolcro, l’Infinito.
-Gabriele D’annunzio
 
 
 
 
 
 
Le dita premono i tasti bianchi, inseguono la giusta nota, la melodia esatta, il ritmo fedele che interpreta il rumore corvino dell’anima, l’angoscia attecchita che solo un’artista solitario possiede, quell’isolamento aleatorio che crea un velo impenetrabile tra me e il mondo, lo stesso velo che mi tiene al sicuro in una prigione oscura.
 
 
Sì, ecco, ci siamo, il pianoforte prende vita sotto le mani, mi parla, racconta storie dimenticate, vicende segrete che reclamano la mia attenzione, vogliono essere svelate, è un amore che spezza l’anima, la riduce in brandelli e sgretola il cuore come sabbia fredda nel vento. Una serenata al tormento.   
Tre affondi, una pausa, replico l’identica armonia, due pause e daccapo. Mi piace. Lo scheletro della canzone inizia a prendere forma, siamo ancora in alto mare, ma sto imboccando la strada giusta. È come spogliare una donna, adagio per degustare appieno ogni attimo, un pezzo per volta, le forme sgorgano, le curve al posto giusto, il rosa della pelle, il  calore della lussuria, le morbidezze femminili e poi la visione dell’insieme.  
 
 
Tiro una boccata alla sigaretta, prendo la matita e lo spartito, scrivo con calligrafia rabberciata le note musicali, fumo di nuovo, nervoso, più per tenere occupata la mente, che per altro. Combino spezzoni diversi, li appunto, ma non ne sono soddisfatto, sembra che mi avvicini alla meta finale, però la manco per un pelo. Sono scontento di me stesso, non è una novità, sono scontento di me stesso da una vita, puntiglioso perfezionista, che perfetto non lo è stato mai.
Ricomincio da dove mi sono fermato, poggio la sigaretta nel posacenere, la bocca screpolata si schiude ed accompagna la cadenza languida del pianoforte e canto, nessun vocabolo ordinato, solo consonanti e vocali a casaccio. La mia voce un lamento intonato che riecheggia nel silenzio del soggiorno ottagonale.
 
 
L’abat-jour è l’unica luce che rischiara le tenebre, un uccello al di fuori della torre è l’interferenza molesta che mi distrae, di tanto in tanto una macchina transita, per il resto non vola una mosca. Nell’altra stanza, abbandonata sul ripiano della cucina nera, il cartonato di pizza che Irina ha portato per una cena romantica che è saltata: non sono in vena. È bella, indubbiamente, ma una bellezza gelida, distaccata, altre mille donne ho incontrato come lei in Finlandia. Mille donne che mi somigliano, prodotte in serie, introverse e fin troppo austere nel carattere impostato.
Basto io ad essere colmo di lacune, individualista, scontroso e indifferente, nel mio mondo non c’è spazio per un’altra come me. Nel mio mondo non c’è spazio più per nessuna. Punto.
A chi voglio rifilare balle? Posso risparmiarmi la recita, qui nessuno mi punta un obbiettivo addosso, qui posso essere sincero, qui non ho bisogno di fingere.
Dormo poco, non ho più fame, sono stanco, tuttavia continuo a suonare, piccolo sfogo personale per liberare il nido di malinconie al centro del petto. Fa male, non mi da pace e la solitudine non fa altro che ingigantire l’ansia, mi schiaccia, spezza il respiro e divora dal profondo.
 
 
Ruoto la sigaretta tra il pollice e l’indice, il fumo sale verso l’alto e si disperde nell’ambiente, in un chiaroscuro che serve ad accompagnare questa notte lunga un secolo. I minuti vanno avanti come macigni, le ore interminabili e l’alba una chimera irraggiungibile.
 
 
I polpastrelli vezzeggiano i tasti del pianoforte, ripetono la melodia scritta sul pentagramma, ora detesto quelle poche note, le ho scritte io? Fanno schifo. Fa tutto schifo, mi sento stretto, come se indossassi una camicia di forza, la casa mi va stretta o forse è la vita a calzarmi qualche taglia in meno.
Scuoto la testa, gratto i capelli scarmigliati, prendo il posacenere e balzo via dallo sgabello, per avvicinarmi alla finestra. Nel buio della notte, il lampione arancione attenua gli oggetti, le chitarre rotte appese alla recinzione del giardino, il gargoyle pensieroso e l’erba tagliata di fresco. Riesco a sentirne l’odore pungente, come di terra bagnata o pioggia rancida.
Fisso un punto impreciso, le venature del legno della staccionata, ma un movimento inaspettato cattura la fiacca attenzione, non capisco cosa sia, noto solo una chioma corvina che stona con la natura, una chioma corvina che non dovrebbe essere lì, una chioma corvina che è chiaramente la clandestina. Un po’ come il gioco che, da bambino, facevo con mia madre Anita, in una serie di oggetti accomunati da particolari sinonimi, dovevo trovare l’intruso. Jesse era più bravo di me.
 
 
Non faccio in tempo a prendere coscienza di cosa sta avvenendo che, un paio di colpi al portone, mi fanno sobbalzare dallo spavento. La cicca cade sulla mano, mi brucia, impreco, sono confuso, preso contro piede, mi sbarazzo di sigaretta e posacenere, e prima che possa raggiungere il cellulare per chiamare la polizia, una furibonda voce femminile tronca il perenne silenzio.
All’inizio non capisco, ha un accento strano, la rabbia distorce le frasi, colgo poche parole in un inglese stonato, se mi avesse a portata di mano mi cambierebbe i connotati. 
È la vicina di casa: una delle tante.
Una decina, forse quindici, non li ho contati, si sono trasferiti la settimana scorsa. Ho sentito dire che hanno comprato la casa in mattoni rossi adiacente alla torre, sono in così tanti lì dentro dato il prezzo alto dell’immobile, tutti giovani, non superano i trenta.
Per un po’ li ho osservati nel giorno del trasloco: sono forestieri. Di dove, non ne ho la più pallida idea, ma sono vitali, non fastidiosi, pieni di energia, li sento ridere dalla mia camera da letto, voci femminili che cantano, i ragazzi sono in netta minoranza. Quasi li invidio. Loro così tanti ed io solo come un cane.
 
 
Sento bussare di nuovo, è sul punto di buttarmi giù la porta, non ho paura, però sono infastidito: violazione di domicilio. Non chiamerò la polizia, ma la ramanzina non gliela toglie nessuno, specialmente stanotte che sono teso come una corda di violino.
Raggiungo il portone nero, lo spalanco, pronto a mostrare quanto poco posso essere gradevole in nottate devastanti come questa, ciononostante il piano non va esattamente come lo avevo prefissato e resto di sasso.
È lei… la ragazza delle rose.
 
 
L’appellativo è nato spontaneo, dopo averla vista piantare delle rose nel suo giardino, curarle con tanto amore e devozione, annaffiandole giorno per giorno, trattandole come creature vive. La prima volta l’ho vista per caso, dopo il trasferimento, poi è stato un appuntamento fisso, al pomeriggio, poco prima delle cinque, usciva di casa e tornava puntuale alle sette. Spesso ho pensato di seguirla, come uno sciocco, come se cercassi in quella ragazzina chissà cosa, forse me stesso, forse la scintilla di vita persa, forse ciò che nessuno riesce a darmi più.
 
 
Carina, è l’aggettivo giusto, non bellissima, non perfetta, non alta o magrissima, però è carina davvero, ha l’aria da dura, ma forse è solo scocciata. I capelli neri in un moderno taglio a caschetto, le sopracciglia scure ben definite danno lo giusto spessore ad un viso furente. È carina così arrabbiata, emana un’energia cupa che mi riscopro esserne attratto, come una falena con la luce più abbacinante. Ma gli occhi… oddio, quegli occhi… non è il colore a fare la differenza, non riesco ad isolare il particolare preciso che mi aggroviglia le budella in una danza di morte e distruzione, sono grandi, potenti, oscuri, violenti, così profondi che quasi ci cado dentro, celano misteri inenarrabili, mi assorbono, non posso fare a meno di contemplarli inebriato. È una strega, conscia del potere travolgente che mi rovescia addosso come lava bollente, esatto, lei è proprio fuoco indomabile, che mi avvolge e mi fa deflagrare in un incendio che mi consuma dal profondo. È giovane, anche troppo, sui vent’anni, spero non così giovane, a tratti appare una donna matura, in altri, una bambina capricciosa.
 
 
Arriccia la bocca morbida, scoprendo i denti bianchi e dritti.
<< La smetti di fare tutto questo macello? >>, esordisce sfrontata, mani sui fianchi e indocile fin nel midollo osseo. Mi affronta, quasi mi aggredisce verbalmente e mi piace, che Dio mi salvi, mi piace. << Sono le tre del mattino, ti sembra l’ora questa di lagnarti come una cicala in fin di vita? >>. La pronuncia stravagante la rende più buffa che minacciosa.
Mi viene da ridere, ma sono certo di aizzarla con tale atteggiamento, perciò mi limito a risponderle per le rime. Nessuno dei vicini si è mai lamentato in questi anni del mio comporre ad ore impossibili, ho il dubbio sul perché. Nel mio vecchio appartamento, lo stronzo del pianerottolo di fronte, mi aveva spedito in galera per due giorni.
 
 
<< Comprati un paio di tappi per le orecchie. >>, la liquido con nonchalance, faccio per chiudere il portone, ma lei è più veloce e mi tira una cinquina dritta, vigorosa e spietata sulla guancia. Non l’ho vista arrivare, sento solo il pizzicore sulla pelle. Sono spiazzato ed incazzato.
 
 
<< Stronzo cafone! >>.
 
 
<< Tu sei tutta pazza! Non solo ti introduci illegalmente nella mia proprietà, ma mi schiaffeggi pure? Due reati in meno di dieci minuti. >>. Avrei dovuto chiamarla davvero la polizia.  
 
 
Inarca le sopracciglia, livida in viso, sta per dare sfogo alla furia e il malcapitato è il sottoscritto. Se è in fase premestruale posso iniziare a scrivere il mio necrologio. Migé avrebbe potuto cantare al funerale o magari Linde, un’Ave Maria Heavy Metal, con chitarre distorte e voci roboanti.
 
 
<< Sta per arrivare il terzo reato! Se non la smetti di tenermi sveglia tutta la notte, giuro che ti spedisco a cantare all’opera nel coro dei soprani. >>. Ha tutta l’aria di volermi castrare sul serio. << Devo alzarmi alle sei e già mi sono giocata le prime tre ore, grazie a te! Che problemi hai? Non riesci a dormire? Hai mai provato i sonniferi, sono molto utili, sai? O preferisci una botta in testa? >>. È inesorabile, mi investe con insulti, offese ed ingiurie, ma non sono risentito, sono deliziato. Mi diverte e per poco non mi eccita.
 
 
Incrocio le braccia, poggiandomi allo stipite della porta. Le do una seconda, generosa occhiata, da capo a piede, piano, gustandomela tutta, le gambe slanciate, i fianchi morbidi, il seno né eccessivo e né carente, una terza di certo, accertandomi che se ne accorga, fin tanto da metterla in imbarazzo.
<< Sì, beh, la botta è ben accetta, ma non in testa. >>. La voce è calda, sensuale, mirata a turbarla e l’istante di smarrimento che le transita nelle iridi dorate, mi fanno capire che il proposito è andato in porto. È proprio come tutte le altre donne. Missione compiuta.  
 
 
Riprende il fretta il controllo delle emozioni.
<< Stronzo, cafone e pure pervertito! >>. È schifata, ma non sul serio, più disorientata, nondimeno la parola “sesso” le è balenata a carattere cubitali sul viso di porcellana. Ci ha pensato, anche se per pochissimo, ci ha pensato, e sono io il protagonista della fantasia erotica.  
Qualche anno in più e ci avrei provato sul serio, anche se, chiaramente, non è il mio tipo. Troppo giovane ed inesperta per riuscire a tenere il mio passo.
 
 
<< Non ho detto che la botta la darei a te. >>, replico tagliente, in questa guerra a suon di battute saccenti.
 
 
Mi lancia uno sguardo di puro odio: l’ho zittita. Evento biblico, ho chiuso la bocca ad una donna, no meglio, ad una ragazzina petulante che si atteggia da donna vissuta.
 
 
<< Ma vaffanculo! >>. Ruota su se stessa, non ha più voglia di continuare a giocare, ma io sì, ha dato un carattere nuovo a questa notte interminabile, ha portato parapiglia, chiarore e disordine. Non voglio lasciarla andare e non mi spiego la motivazione. Se non avesse rotto lei il muro del silenzio, non mi sarei sognato di fare la prima mossa, ma ora è qui e voglio capire cosa riesce a provocarmi dentro.
 
 
La blocco per un braccio, lei si ritrae in fretta, come se si fosse scottata.
<< Ma se insisti tanto, potrei fare uno strappo alla regola e darti una botta. Almeno sei maggiorenne? >>. Lo ammetto, dietro la burla, c’è un reale interesse per l’età anagrafica. Punzecchiarla è esilarante ed appagante.  
 
 
Inspira brusca, un sorriso forzato le allarga gli angoli della bocca.
<< Decidi tu o ti do un calcio in culo o lì dove non batte il sole! Cosa preferisci? >>. Non ha risposto alla domanda, qua va a finire che in galera ci finisco io per pedofilia.
 
 
<< Eh ma come sei aggressiva. Ti piace farlo violento? Non ti facevo tipa da sadomaso. Non dirmi che hai anche una raccolta di tutine in latex da sfoggiare per l’occasione. Confessa, collezioni fruste da usare sui poveracci che t’incontrano? Però ti avverto: a me piacedominare. >>. Calco di proposito la parola “dominare”, con un tono baritonale che allude ad un mondo nascosto, al mio modo di fare sesso, al fatto che nella vita di tutti i giorni, così come a letto, il potere spetta a me. Senza eccezioni. Non mi piace essere sottomesso, tutto qui.
 
 
<< Non ci pensare nemmeno! >>, la voce tradisce un pizzico di terrore nel trovarsi nel cuore della notte, nel giardino di uno sconosciuto, che fa palesi avances sessuali. Si è spinta oltre, senza soppesare gli esiti. << Sono terzo dan. Ho fatto pure kick boxing. Picchio forte io! >>
 
 
Me ne sono accorto, la guancia pulsa ancora. Jesse l’avrebbe messa alla prova, esperto di kick boxing sin da bambino, e mi sarei divertito a guardare la scenetta comica.  
<< E quindi? >>.
 
 
<< E quindi, mettimi anche un solo dito addosso e ti cambio i connotati! >>. Dietro l’atteggiamento da dura, un palese panico. << Ti spezzo le ossa e le uso per fare il gioco dei legnetti. >>.  
 
 
Tiro la bocca da un lato, che diavolo è il gioco dei legnetti?
<< Troppo violenta, tesoro. Hai bisogno di essere addomesticata, non è così che si conquista un uomo. >>.
 
 
<< E chi sarebbe l’uomo, tu? >>.
 
 
La bambina picchia duro e non solo con i fatti, provvista di una lingua biforcuta che sa il fatto suo. Uno ad uno. Parità.
Scoppio a ridere a crepapelle e la tipa sembra sorpresa, offesa, presa in giro. Il cipiglio scuro. Severa come una maestra di scuola verso il suo alunno più indisciplinato.
Gli avrei dimostrato chi era l’uomo, l’ho presa sul personale, punto sul vivo, sulla mia virilità di uomo.
 
 
<< Comprati un bel vestito, allora. >>, dico, stupendomi da tanto ardire. L’ho solo pensato e la bocca ha fatto il resto. Che cazzo sto facendo? Non so manco se è maggiorenne o no! Finirò in galera, me lo sento.
 
 
<< Per fare che? >>. Pare stupita.
 
 
Non posso più tirarmi indietro, mi sono scavato la fossa da solo. E meno male che non era il mio tipo!
<< Ti dimostro che sono un uomo, no? Stavi già pensando a male, eh? Che malfidata che sei. Ti porto a cena, scegli tu quando e dove. So essere un gentiluomo. >>.
 
 
Mi indica, sul punto di scoppiarmi a ridere in faccia.
<< Chi tu? Un gentiluomo? Hai bevuto? >>. Scuote la testa, stavolta sorride davvero, non si sforza, è un sorriso pieno, sentito. È simpatica e, solo ora che sorride, mi accorgo di essermi sbagliato in pieno, non è carina: è bellissima. La sua rabbia ha compromesso il mio giudizio.  
 
 
<< Di norma sì. Stanotte ho finito la scorta. >>.
 
 
<< Io a cena con te? Mai! >>. Gli occhi le brillano alla luce del lampione, il profilo rischiarato, il naso all’insù, il mento piccolo, le fattezze magre e femminili.
 
 
L’ammonisco con l’indice.
<< Mai dire mai, la mamma non te l’ha insegnato? >>.
 
 
Un secondo di smarrimento, diverso da quel che ha avuto poc’anzi, come se avessi detto la cosa più sbagliata a questo mondo. Passa in fretta, ed è di nuovo battagliera.
<< Ma senti questo. >>. Sembra sconvolta da tale richiesta. Una si intrufola nel giardino di uno scocciatore, per litigarci e invece ne riceve un invito a cena… guarda te i casi della vita.  
 
 
<< Mettiamola così allora… facciamo che verrai a cena con me, altrimenti ti denuncio per violazione di domicilio e fidati, che non sei la prima. La polizia locale è ben felice quando li chiamo. Almeno, per una volta, questa è una violazione domicilio piacevole. È più semplice così? >>.
 
 
Flette le sopracciglia, raggiungono l’attaccatura dei capelli soffici, boccheggia incredula ed incrocia le braccia. Non avrebbe ceduto facilmente.
<< Ricattatore! >>, sbotta sconcertata, come se fosse la prima volta che le accade un episodio simile. << E tu credi che io venga a cena con uno che non conosco e che fa il maniaco? Vaneggi? >>. Ci ha preso gusto ad offendermi.
 
 
Allungo la mano nella sua direzione. Mantiene le distanze: non si fida. 
<< Basta presentarsi e passa il problema. Ville. >>.
 
 
<< L’ho letto il nome al portone, non sono analfabeta. Ciò non toglie che resti comunque uno sconosciuto. >>. Fa un espressione buffa, come di un cartone animato che resta sulle sue, ma ha voglia di farsi passare la rabbia per approfittare dell’occasione. Ah l’orgoglio, è un cattivo consigliere, ne so qualcosa.
 
 
<< Ce l’hai un nome o ti devo perquisire alla ricerca di un documento? >>. Indossa un pigiama blu, un pigiama maschile, le calza grande, i pantaloni continuano a scivolarle per i fianchi. È più magra di quanto appare.  
Mi interessa davvero? Perché mi sono incaponito? Sono abituato alle donne, non le capisco, però le ho comprese un po’, sono strane, non vanno d’accordo neppure con se stesse, vogliono essere intese, ma non ti diranno mai cosa c’è che non va. La ragazzina è come le altre migliaia di donne che ho incontrato, basta conoscerla all’inizio, poi sarà stato tutto per scontato.
La solita solfa, insomma.
 
 
L’occhiata omicida che accompagna la fine della mia frase, mi fa intendere che non gradisce che la tocchi.
 
 
<< Ah vero, sei terzo dan. Mi spezzi le ossa se ti sfioro. >>, ricordo derisorio, la sto prendendo in giro e così facendo aumento l’astio.
 
 
<< Esattamente. >>, sputa con avversione. << Ma fai meno lo sbruffone che non ci metto niente a schiaffeggiarti di nuovo. E non ci vengo a cena con te, preferisco baciare un rospo, che venire a cena con te! >>. Detto questo, prima che posso prevedere le sue mosse, sgattaiola via, a passo di carica, le manca la “Cavalcata delle Valchirie” in sottofondo per rendere la scena perfetta. Scende lesta i gradini, scavalca il cancelletto come un gatto randagio e poi sparisce nel furore della notte.
 
 
Rido, rido forte, rido come non ridevo da un bel po’, è una risata sentita, divertita, che va avanti per un minuto, forse due, alla fine sono certo di una cosa. La ragazzina è pazza, mi ha ingiuriato, preso a schiaffi, denigrato e provocato, con una prestanza invincibile.
Se in meno di venti minuti è riuscita a destare quel fuoco spento dentro di me, l’ha alimentato e soffiato sopra, mi chiedo cosa riuscirebbe a fare se fosse stata una presenza costante nella mia vita.
Non ho la risposta, altre domande mi affollano la mente, desidero tornare a suonare, credo di aver trovato la strada giusta e voglio percorrerla tutta.









Note: 
E dopo due anni, alcune shot in questa sezione, rieccomi qui tornata. 

Beh, mi era dispiaciuto parecchio aver dovuto cancellare Inferno & Luce, ma dopo averlo pubblicato in ebook, ho preferito così, però non volevo non lasciare un segno importante di me nella sezione degli HIM.
Quindi riecco a voi la processione di tantiiiiiiiii capitoli, stavolta dal punto di vista di Ville.
Ci ho provato, Ville non è una persona facile da scrivere, mi sono azzardata ad interpretare le sue vesti per numerose ragioni, la decisione finale è giunta dopo una sana chiacchierata con la mia migliore amica, che mi ha spinto a provarci. Probabilmente il vero Ville non è così depresso, mi sa che questo Ville assomiglia più a me, che a quello reale xD

Sto tentando l'esperimento di scrivere al presente, spero di non fare gravi strafalcioni!

Siamo solo all'inizio, quindi non so che dire, penso che il capitolo sia chiaro, spero che possa piacere e che qualcuno lo commenterà. 

Come al solito, ci saranno di certo degli errori di ortografia, benché abbia letto sedici volte. Perciò, pardon!

Aggiornerò con una lentezza esasperante, fino a quando non invecchierete nell'attesa, però aggiornerò fino alla fine di questa lungaaaaaaaaaaaaaaaa traversata. 


Un abbraccio. 
DarkYuna. 

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Capitolo 2
*** Magari il destino cambierà idea ***


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2.
*Magari il destino cambierà idea*







 
Quando ti fidi degli amici sono due le possibilità o ti va bene o la prendi in quel posto.
Io, puntualmente, la prendo il quel posto.
 
 
Fa un freddo cane, la sera ad Helsinki i gradi scendono precipitosamente sotto lo zero e non si vede un cane per la via. Solo i temerari sfidano l’inverno gelido o i coglioni, come me.
Strofino le mani assiderate, la pelle è diventata dapprima cerea, poi di un blu puffo preoccupante, adesso sembra d’arcobaleno. Mi stringo nel cappotto e tremo. Odio l’inverno, odio il freddo ed odio dover soffrire così durante la brutta stagione.
 
 
Sette e trenta, Migé è in ritardo di tre quarti d’ora e meno male che gli ho detto di non lasciarmi come un fesso per strada. Mannaggia a me e a quando non mi sono preso quella fottuta patente!
Pesto i piedi, provo a riscaldarmi, ma niente, la corporatura scheletrica non è di grande aiuto. Lo studio di registrazione alle mie spalle è chiuso, quindi non posso tornare dentro, sono bloccato su un metro e mezzo di neve, in attesa che lo spazzaneve mi porti via con sé.
 
 
Sbuffo, il fiato si condensa in una nuvoletta di vapore e viene divorata dalla temperatura glaciale. Provo a telefonargli, cinque squilli e subentra la segreteria.
Stupido idiota che non sa nemmeno come si accende un cellulare! Gli mando un messaggio, ma niente, pare sia stato rapito dagli alieni.
Cambio traiettoria dello sguardo, mi perdo in un ricordo piccolo, un ricordo dimenticato, ma non abbastanza. La vista della neve lo fa riemergere dal mucchio del passato. Scuoto la testa, non sono in vena di malinconie, sono incazzato, voglio esserlo, senza dover mutare continuamente l’umore.
 
 
Non riesco a comporre musica, non mi sono calato nell’atteggiamento giusto, sono “scazzato”, parecchio, non sto bene in nessun luogo e nessun luogo è adatto per dare vita alle parole che spiegano, una volta di più, che l’amore fa schifo, l’amore annienta, l’amore è una piaga, una maledizione.
Sto di merda per colpa dell’amore, non per Irina, quello che c’è con lei non è amore. Ci prova, si sforza, vuole compiacermi, finge di essere ciò che non è, mente, continuamente, a se stessa e a me.
Attrae solo la parte bassa del mio corpo. Il cervello è tutta un’altra storia, se non si riesce a prendermi di testa, non c’è alcuna speranza di entrarmi nell’anima. Non è con lei che voglio svegliarmi la mattina, fare colazione, scherzare, raccontarmi, addormentarmi la notte. Fino a quando sarà solo sesso, con Irina, andrà bene, ma inizia a pretendere di più e quella pretesa porterà all’inevitabile fine delle scopate gratis.
 
 
Accendo una Marlboro rossa, una profonda boccata e intirizzisco da capo a piede. Inizio a camminare, se resto fermò lì, finirò sul notiziario delle sei del mattino.
 
 
È strana le mente umana, funziona da sola, come un essere animato e senziente che non ha niente a che fare con il corpo, opera di vita propria, nessun criterio, solo istinto primordiale. Non so il perché, le ho parlato una volta sola, anzi, litigato più che altro, una volta sola, da allora l’ho vista tre volte in due settimane.
La prima, di sfuggita, era su una macchina blu, guidava lei. Bella, sicura di sé al volante, accanto una ragazza. Non mi ha visto, ma io ho visto lei. La vedo bene.  
La seconda, stava rientrando in casa, ha accelerato il passo, poiché le venivo di fronte, non voleva parlarmi o ascoltare battutine pedanti. Ci saremmo comunque divisi, poiché il suo cancello conduceva in strada, mentre io dovevo svoltare all’interno del quartiere.
E l’ultima, forse la peggiore, mi sa che è stata quella sera che ho iniziato a pensarla più spesso. In compagnia di un ragazzo, ridacchiavano davanti casa sua. Passavo in bicicletta e per poco non mi schiantavo sul palo della luce.
 
 
Mi ero riscoperto geloso, come un deficiente, volevo vantare delle pretese, come se l’avessi vista per prima e il tipo stava sconfinando illegalmente. Ero stato infastidito di vederla con un altro, un sempliciotto, uno che si può trovare a fare il cascamorto alla prima che mostra interesse, uno che non batte chiodo manco per miracolo e, talmente infoiato, da volerlo infilare in ogni buco libero. Non se la merita.
 
 
Rifletto sui pensieri disconnessi, fumo piano, sconcertato.
Non se la merita? Ma che diritto ho di giudicare? Che me ne frega poi? Ci ho “parlato” una volta sola, ed è stata pure  una volta di troppo. Una così porta guai, specialmente a me che di guai ne ho a bizzeffe e ne attiro come una calamita.
Ho altro a cui pensare, che perdere il mio tempo dietro ad una ragazzina che può fare della sua vita ciò meglio le aggrada.
 
 
Gli anabbaglianti di una macchina mi accecano. L’auto parcheggia a pochi metri, dal finestrino aperto la faccia paffuta di Migé fa capolinea. Ha la barba da Vecchio Testamento, ci saranno forme di vita aliena tra i peli ispidi.
 
 
<< Alla buon ora, eh!  Mi si è congelato l’uccello. >>. Getto la cicca della sigaretta.
 
 
<< C’era traffico. >>, si scusa. Ha sempre questa mania di scusarsi che mi urta il sistema nervoso, lo fa da quando aveva otto anni. Si scusa per tutto, anche se è lui ad avere ragione.   
 
 
Mi guardo attorno.
<< Me se non c’è manco un cane. >>. Salgo accanto al posto del guidatore. L’interno dell’abitacolo è caldo e accogliente, una manna per chi è stato al freddo intenso. Fatico a ristabilire una normale temperatura. Batto i denti. << C’era traffico al bagno? >>, ipotizzo, per nulla serio.  
 
 
<< Cioè? >>.
 
 
<< Non sei andato a cagare? >>.
 
 
Cade dalle nuvole, non le capisce le mie battute, è inutile. Anche se le mie battute fanno davvero pietà, non sono capace neanche di raccontare le barzellette, dato che parto dalla fine.  
<< No. >>, nega confuso.
 
 
<< Allora va’ a cagare. >>. Scoppio a ridere, riprendo colorito, lo “scazzo” mi passa, ho voglia di una birra fredda, nonostante sia un ghiacciolo dalla testa ai piedi. Coerenza, questa sconosciuta.
 
 
Scuote la testa, non risponde: è abituato. Ingrana la marcia, procede piano, la neve lo spaventa, preferisce essere prudente. Migé è l’altra parte di me, quello buono, sincero e simpatico, mentre io sono l’esatto opposto. Ci compensiamo, in un qualche strano modo. Gli voglio bene, davvero. Uno dei pochi per cui provo affetto sincero.
<< Avevamo programmato qualcosa tra amici, ti va? >>.
 
 
Scrollo le spalle. Non ho voglia di tornare a casa, non ho voglia di uscire, non ho voglia della solitudine, non ho voglia della compagnia.
<< Dove? >>.
 
 
<< Al Corona Bar. Devi ridarmi la rivincita a biliardo. >>, rammenta. È una scusa. Mi conosce fin troppo bene, per lasciarmi da solo, quando sono strano e su di giri, ma silenzioso.   
 
 
<< Vai. Vediamo come va la serata. >>. Scruto Helsinki al di là del finestrino, il respiro appanna il vetro. Neve, negozi, poche persone, molte luci, luoghi in cui sono stato, flashback che vorrei cancellare. Un concentrato di sbagli ed angosce, et voilà, ecco a voi chi è Ville Valo.
 
 
Restiamo in silenzio, è per questo che Migé è il mio migliore amico, sa quando deve chiudere la bocca e quando no. Non è il tipico amico che deve parlarti a tutti i costi o farsi sentire ogni santo giorno per dimostrarti che ci tiene, rispetta le mie paranoie, le asocialità e il bisogno di solitudine perenne. So che non si offende, so che c’è, così come io ci sono quando lui ha bisogno.
Non sono proprio uno stronzo completo, benché io frequenti una persona ogni cent’anni, non ci penso due volte ad aiutarlo, quando è il momento.
 
 
<< Dobbiamo rivedere le ultime registrazioni. Ci sono delle cose che non mi convincono. >>. Non so il perché, il solo ronzio del riscaldamento mi disturba, come se, il silenzio amplificasse i nervi, faccia a faccia con i pensieri profondi, quelli che odio, che rivangano il trascorso, che non mi lasciano in pace, soprattutto la notte. E chi dorme mai!
 
 
Sono sensibile sulle nuove canzoni, lui lo sa, è un campo minato, calcola bene la risposta.
<< Lunedì passo allo studio per le demo e rivediamo le registrazioni. Ci sono novità? >>.
 
 
Scrollo le spalle, gratto inquieto il naso ed aggiusto il berretto.
<< Più o meno… non lo so. >>, rispondo vago. Che novità ci può essere? Sempre l’identica routine, sto solo, faccio schifo, vivo male e sopravvivo pure peggio. << Ci sto lavorando. Come va a casa, la famiglia? >>, cambio discorso, è meglio.
 
 
<< Tutto bene, progettiamo le vacanze natalizie, dopo l’Helldone ci faremo un viaggetto: un secondo viaggio di nozze. Ne abbiamo bisogno. >>. Da qualche mese, Migé e Vedrana hanno problemi coniugali, più che colpa sua è colpa della moglie. Sono di parte. Lei non capisce, malgrado ciò, dopo tanti anni di matrimonio, dovrebbe essere abituata ai ritmi serrati di una band, i concerti, i viaggi e le assenze.
Le donne sono tutte uguali, se non sono al centro delle attenzioni, allora è un casino, protestano, litigano e rompono le palle. Non ce n’è una che si accontenta. Aberro le relazioni stabili, per questo motivo.
 
 
Di nuovo penso alla ragazzina, per un inspiegabile istante, mi chiedo se è davvero come tutte le altre, in fondo, non ha mai accettato l’invito a cena, mentre conosco chi farebbe carte false per una chance così. Poi mi evita, è palese.
Invece di cadermi ai piedi, ha la faccia di una a cui faccio schifo, forse è per questo che mi fomenta, mi incaponisco sempre con chi mi rifugge come se fossi l’ottava piaga d’Egitto.
Mi piacciono le cose intricate, ha ragione mio padre, non sono fatto per la semplicità, io, la vita, me la complico a prescindere.
 
 
La macchina si ferma davanti al Corona Bar. C’è tanta gente, riconosco qualche faccia familiare, amici di sempre, compagni di bevute, c’è anche Linde. La sala da biliardo è affollata, la buona musica si accompagna al cicaleccio brioso e ad ottima birra.
Saluto qualcuno, mi chiedono come sto, non mi si vede molto in giro, specialmente quando sono concentrato su nuova musica, quindi, del mio arrivo, ne fanno un evento biblico, mi infastidisce la baraonda, le mani che mi toccano, le battute allusive su una qualche fidanzata nascosta, che mi tiene in ostaggio. Quante cazzate! Le parole pompose suonano false, sottintese ed ingannatrici.
 
 
Linde mi saluta con un cenno, poi si china sul tavolo da biliardo e due palle finiscono in buca. Burton non c’è, Gas ormai si è trasferito dall’altra parte del mondo. Ci siamo lasciati male con Gas, non gli è andata più a genio il fatto che fossi solo io a comporre, che lui suonasse e basta, si sentiva schiacciato dalla mia presenza, la sua opinione esclusa. Colpa mia, ci sono abituato. Faccio scappare le persone, ho un ego spropositato.
 
 
La confusione mi mette ansia, disturba e resto zitto in un angolo, spettatore passivo di una vita che non mi appartiene. Siedo su uno sgabello all’angolo, un po’ come quando, da bambino a scuola, ne combinavo una delle mie e la maestra mi metteva in castigo. Sono rimasto in punizione da allora.
Dieci minuti e sbadiglio annoiato, puntello i gomiti sulle ginocchia, rannicchiato in una posizione assurda, aggiusto il berretto che mi scivola sugli occhi e lo sguardo cade a tre tavoli da biliardo più in là. Su un caschetto corvino che identifico immantinente.
 
 
La ragazzina è qui.
 
 
Non da sola. Con lei c’è l’amica che ho visto nella sua macchina, altri quattro ragazzi e tre ragazze. Le femmine sono in netta maggioranza. Il coglione che sta frequentando, non c’è.
Ha in mano una stecca, si atteggia sicura, parla spedita, ride allegra, gli occhi brillano di una luce misteriosa. L’osservo meglio, i capelli non sono neri, sono di un castano mogano, qualche ciocca biondo scuro. Il corpo longilineo è risaltato da un paio di pantaloni attillati in similpelle neri, le delineano le gambe agili e un sedere che farebbe resuscitare i morti. La maglietta aderente dello stesso tessuto, tratteggia come una seconda pelle il seno perfetto e i fianchi magri. Ha dei ghirigori gotici sul davanti, che diventano trasparenti sul petto. Gli stivali con il tacco alto sono il tocco d’arte che completa l’abbigliamento sensuale, impossibile da non fissare e molti uomini presenti sono d’accordo con me.
È il suo turno, si protende sul tavolo e… la visuale è delle migliori, i pantaloni stretti le scoprono la schiena rosea, alzo la testa per osservare meglio il sedere da urlo, sodo e rotondo. Un colpo e manda sei palle in buca, lasciando di stucco gli amici. Capisco che la serata è sua, ha vinto più volte ed ha stracciato i ragazzi.
 
 
Sorrido senza motivo, è un sorriso stupido. Se fossi più spontaneo mi sarei avvicinato, a fare non so cosa, preferisco una birra, quindi vado al bancone per ordinarne una. Aspetto il mio turno, c’è una gran folla: è sabato sera.
Qualche giorno ancora ed Helsinki si sarebbe riempita di turisti per Natale, l’Helldone e cazzate varie. Detesto questo periodo, mi mette ansia, più di quanta già ne possiedo e, oltre la cena con la mia famiglia, passerò le vacanze da solo. È fuori discussione stare con Irina, magari una scopata veloce, giusto perché è Natale, ma poi ognuno a casa propria.
A Natale si è tutti più buoni, non io. O si è buoni tutto l’anno o la stronzata per pulirsi l’anima, non funziona con me. Per pulire la mia, di anima, non basterebbe la candeggina ultra sbiancante.  
 
 
Saluto la ragazza al bancone, che arrossisce fin nelle viscere, e chiedo la birra. Parlo poco, non sono in vena. Non sono mai in vena di parlare.
 
 
<< Offro io. >>, annuncia un’energica voce femminile, in inglese, accanto a me. Non l’ho manco vista arrivare, lei, la ragazzina. Il terzo dan, l’esperta di kick boxing, la tiratrice seriale di cinquine invisibili.  
Ha il viso sudato, un trucco pesante che non la penalizza, anzi, la trasforma in una donna matura. Non sono più certo che sia minorenne, è donna, è adulta, capace di provocare fantasie carnali che si affollano brutali nella mente. L’abbigliamento seducente non è d’aiuto per restare lucidi.
 
 
Le getto un’occhiata accesa al fisico allettante, non riesco a non stuzzicarla, è più forte di me. Mi accende.  
<< Vedo che alla fine hai deciso di indossare un completino della tua collezione sadomaso. Chi è il malcapitato stasera? >>.
 
 
Tira la bocca da un lato, un ghigno enigmatico, le labbra di un bordeaux scuro. Le iridi mi trangugiano, è più spigliata, meno austera, audace negli atteggiamenti, qualche birra di troppo ha rotto i freni inibitori.
<< A chi sto offrendo da bere? >>, domanda retorica. Ordina anche lei una birra, si appoggia al bancone e si avvicina. Il seno sfiora la mia mano a penzoloni sulla superficie lucida.   
 
 
Prendo la bottiglia in vetro verde di birra, la sorseggio e non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
<< A cosa devo questa gentilezza? >>. Sono diffidente, mi ha evitato come la peste fino ad oggi e questa sera è lei che fa la prima mossa. Come mai?
 
 
Sbuffa sonoramente.
<< Quanto sei pesante, oh! Se non la vuoi la birra, poco male, me la bevo io. >>. Fa per strappare il gentile regalo dalle mani, ma l’anticipo e le tolgo la bottiglia dalla traiettoria.
 
 
<< Non ti sembra di aver bevuto già troppo? >>. Da che pulpito viene la predica!
 
 
È colpita, come se non fosse abituata a ricevere queste apprensioni, sa che ho ragione. Non lo ammetterà mai. Tipico.
<< Non sei mio padre. >>, afferma arcigna. Ho toccato un tasto dolente. Rovista nei pantaloni in similpelle, ne estrae una banconota da cinque euro stropicciata e me la pianta malamente sullo stomaco. << Pagati la birra e vaffanculo. >>.
 
 
Si regge a malapena sugli stivali vertiginosi, afferra la sua di bottiglia e fa per andarsene.
Per la seconda volta sono io a fermarla per un polso, e come l’altra volta, non voglio che se ne vada, specialmente in quelle condizioni pietose. È smodatamente disinibita, attira numerosi sguardi maschili indecenti e ne sembra compiaciuta. Non sono geloso, mi dispiacerebbe se le accadesse qualcosa di brutto, quando posso benissimo evitarlo.
 
 
<< Che vuoi? >>, ringhia irosa, ha così tanto veleno in corpo, che può squagliarmi in un nanosecondo. << Ti ho dato i soldi, che altro vuoi? >>.   
 
 
<< Quietati ragazzina! >>, sbotto esasperato. Non è come le altre donne: è peggio.
 
 
Mi viene sotto il naso, minacciosa, un fuoco corvino, torva, intimidatoria e sto attento: la cinquina è in agguato. Anche il suo profumo è lussurioso, sensuale e mira a stregare.  
<< Ma tu, da me, che cazzo vuoi? >>. Scandisce sillaba per sillaba, calcando le parole in inglese, sono ridicole, impastate. Non è brilla, è ubriaca persa. Le iridi sono scure, brillanti e vedo le fiamme dell’inferno bruciare in esse.
 
 
Le lascio piano il polso.
Che voglio da lei, davvero? Non me lo so spiegare. Non capisco il perché ho pensato a lei varie volte, perché mi ha infastidito vederla con un altro e perché stasera mi preoccupo per lei. In fondo, che diavolo me ne frega?
 
 
<< Vuoi scopare, eh? >>, chiede d’un tratto derisoria, anzi, allude, come se gli uomini incontrati fino ad oggi avessero voluto solo questo da lei.
 
 
Il quesito mi rimbomba nella testa e mi confonde, turba e sconvolge. Non per l’interrogativo esplicito, sono abituato, di proposte così ne ricevo a bizzeffe. Sono sconcertato perché capisco che è quello che voglio io, che è quello che ho voluto sin dall’inizio, che ha suscitato una sequela inspiegabile di emozioni tenebrose e feroci, ha risvegliato la parte meno nobile di me. E più di questo, comprendo che non è solo il sesso che cerco, per quello c’è Irina, dalla ragazzina voglio altro. Qualcosa di carnale, immorale, sangue, intensità violenta, voglio saziarmi, sentirla dentro di me, più che nel corpo, nell’anima e voglio lo stesso, la voglio mia.
Deve essere mia.
 
 
A pochi metri di distanza, intravedo l’amica che è venuta a cercarla.
 
 
Non attende oltre, è impaziente e con un colpo inaspettato, mi lancia il contenuto della bottiglia in faccia. La birra mi inonda il viso, bagna il berretto, la maglia, puzzo peggio di quanto mi sbronzo. La gente ci guarda, stupefatta, la ragazza dietro al bancone è meravigliata e contrariata: lei non mi avrebbe riservato un simile atteggiamento.
 
 
Se ne va, vacillante sulle gambe, alzando un dito medio nella mia direzione.
Mi odia.
Mi piace.
Quella ragazzina, l’esperta di arti marziali, colei che mena meglio di Mike Tyson, l’innaffiatrice di birre, ha risvegliato il mio assopito interesse.
 
 
Sorrido: che la guerra abbia inizio. 









Note: 
Pubblicherò un capitolo al mese, salvo imprevisti. 

Eccoci giunti al secondo capitolo della ff. Se vi state chiedendo se ci si può "invaghire" di qualcuno di cui non si sa neppure
il nome, beh, fidatevi che si può. Comunque la ragazza è un tipo tosto e Ville non avrà vita facile. 

Migé e la moglie non hanno realmente problemi coniugali, l'ho inventato per esigenze di narrazione.

Grazie a chi ha letto la storia, spero che qualcuno mi lascerà un pensiero. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna
 
 
 






 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Profumi di cielo e mare, d’estate e luna. ***


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3.
*Profumi di cielo e mare, d’estate e luna.*








 
Il suono bianco, ritmico e rilassante del phon mi calma, distende i nervi e faccio fatica a tenere gli occhi aperti. Le tubature di casa si sono ghiacciate, colpa del gelo duro che si è riversato come un cazzotto su Helsinki. Fuori c’è neve, ne sta cadendo dell’altra e mi fa sentire claustrofobico.
Non esco, le ruote della bicicletta sdrucciolano sul ghiaccio e non voglio finire con il culo sull’asfalto, non è tanto piacevole come sensazione.
 
 
Sono in piedi dalle cinque, tento di scongelare i condotti, altrimenti resto senz’acqua fino all’anno prossimo. Dovevo fare la lavatrice, ho vestiti sporchi disseminati per tre piani e non ho più niente da mettere. Dannata vecchia torre, devo cambiare casa, sono più i problemi che devo risolvere che altro!
 
 
 
Irina ha chiamato, non ho risposto.
Non è la prima volta, d’altronde spera di occupare giornalmente il posto vuoto accanto a me, che invece, è, e resterà vuoto per molto, moltissimo tempo. A fatica mi sopporto da solo, figuriamoci se riesco a tollerare un altro essere umano, ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all’anno, fin quando le mie subdole membra cadranno.
Roba da pazzi!
 
 
Altri dieci minuti di phon, mi scoccio, lascio perdere, chiamerò l’idraulico, in fondo che ce li ho a fare i soldi se non li spendo? Sbadiglio, mi stiracchio e scendo in cucina, la scala a chiocciola in ferro cigola. All’inizio mi faceva girare la testa, ora nemmeno ci bado.
Il frigorifero è un mezzo deserto del Sahara, devo andare a fare la spesa, ho voglia di gelato al limone. Con la neve che scende a quintali, se esco adesso mi gioco la salute, la voce e pure un polmone.
Prendo il cellulare sul tavolino. Lo lascio nello stesso posto, dopo averlo perso sei volte per casa. Incontro il mio riflesso stanco nello specchio appeso alla parete in mattoni rossicci e prima che trovo il numero di Migé nella rubrica telefonica, tre colpi alla porta mi spaventano e allarmano.
 
 
<< Valo, so che sei in casa. >>. La voce arriva ovattata, più che femminile, sembra che stia parlando una vecchia che s’è fumata una ciminiera. La ragazzina ci ha preso l’abitudine a violare i miei spazi, mi svagherei parecchio a vederla portare via in manette dalla polizia. Ci penso meglio, mi divertirei solo a vederla in manette, alla mia completa mercé. L’idea mi stimola e non poco.
 
 
A proposito di sigarette, ne accendo una e mi avvio allettato ad aprire.
Ha l’aria stanca, come di chi ha bevuto come una spugna e vomitato l’anima. Il colorito è giallognolo, i capelli scombinati, i vestiti extralarge. Conosco quell’aspetto da post sbronza colossale. Tiene le braccia incrociate, trema visibilmente dal freddo, non è venuta a farmi la guerra, non ce la fa.
 
 
<< Non sai che esistono i campanelli? >>.
 
 
<< Non lo sai che non ce l’hai il campanello? >>.
 
 
<< C’è anche un cartello con su scritto “voglio essere lasciato in pace”. >>.
 
 
Mette le mani sui fianchi, ecco la guerriera in lei che riemerge.
<< E di grazia, in che modo si può conferire con sua maestà, se non hai un campanello come tutti gli altri esseri umani e non vuoi essere scocciato, eh? >>.
 
 
Sua maestà… che buffo. Non l’ha detto di proposito, è un caso. Non ha la più pallida idea di chi sono e non voglio dirglielo.  
<< Touché. >>. Glielo concedo, però se avessi avuto il campanello, adesso non saremmo qui, ne sono più che certo. Sono grato a me stesso, una volta tanto.
 
 
<< Ricomincia daccapo Valo, sei partito malissimo. >>. Poi imita la mia voce e ne resto colpito. << Buongiorno Amelia, mia cara, dolce e simpatica vicina. Qual buon vento ti ha portato dinanzi la mia porta, codesta mattina? >>.
 
 
Amelia.
Mi piace.
Suona bene, la lingua curva sui denti nel pronunciarlo, quasi volesse fare l’amore con le consonanti, specialmente la “l”. La mia lingua vorrebbe fare l’amore anche con la parte segreta di lei.  
 
 
Inarco le sopracciglia, assicuro la sigaretta in un angolo della bocca ed infilo le mani nelle tasche dei jeans, per riscaldarmi.
<< Cosa ti ha spinto ha scavalcare di nuovo il mio cancello, per importunarmi? >>, taglio corto.  
 
 
Schiarisce due volte la gola, si gratta la base della nuca, a disagio.
<< Senti, non sono un tipo che ci gira intorno. Eri al Corona Bar ieri sera? >>, chiede, non ne è sicura, l’alcool le offusca la memoria. Forse la sua amica gliel’ha raccontato e non ci ha creduto. So dove vuole andare a parare e sono piuttosto allettato, poiché finiamo a parlare di sesso ogni volta che ci incontriamo. È destino.
 
 
<< Mi hai chiesto di scopare. >>, vado dritto al sodo. Neppure io sono un tipo che ci gira intorno, preferisco arrivare al nocciolo della questione nel più breve tempo possibile. << E mi hai annaffiato con la tua birra. >>.
 
 
Impreca in una lingua che non conosco, ruota gli occhi al cielo e batte il piede destro. Sembra sul punto di replicare presuntuosa, ricoprirmi di insulti, magari mi tira una ginocchiata alle parti basse. Sono allerta, non si sa mai.
<< Scusa. >>, dice d’improvviso e mi spiazza. Resto senza parole, boccheggiante, perfino la sigaretta mi cade di bocca. Non me l’aspettavo, da una rompiballe del genere, tutto ci si può aspettare, ma non di ricevere delle scuse, dopo che mi ha tanto disprezzato.
Sono magnanimo, da sbronzo ho fatto di peggio.
 
 
<< Non bere più così tanto. >>, le consiglio saggio. Spero che non si incazzi di nuovo e mi accusi da comportarmi da padre. Okay, che ho quasi quarant’anni, ma non sono così vecchio e non mi ci sento. << Invece di uno “stronzo, cafone e pure pervertito” come me, potresti trovare uno che ci sta pure. >>.
 
 
Sorride dolce, si massaggia le tempie doloranti, ha recepito il messaggio. Le vorrei chiedere qualcosa in più su di lei, ma tutto ciò che dirò adesso, potrebbe remare a mio sfavore e non voglio darle un largo vantaggio. Non gradisco.
Poi lo dice, ed ho il coltello dalla parte del manico.
 
 
<< Come posso sdebitarmi? >>.
 
 
Potrei chiederle qualsiasi cosa, la cena è ancora in sospeso, tuttavia scenderei nel banale, invece ho bisogno di altro, qualcosa di semplice, niente di impegnativo, che mi vincoli a lei.
<< Tu guidi? >>. È una domanda a trabocchetto, so che ha la patente, voglio capire se è sincera, se posso fidarmi.
 
 
Gioca con una ciocca di capelli, se la porta dietro l’orecchio, increspa le sopracciglia e annuisce.
<< Sì, perché? >>.
 
 
Lo stomaco decide di parlare per me, con un gorgoglio interminabile, che scatena le ilarità dei presenti. Ho stranamente fame.
<< Nel mio frigo ci sono le balle di fieno e con questo freddo non mi conviene uscire a piedi o in bici. >>, spiego e aspetto che sia lei a proporsi.
 
 
<< Ti porto io. Dove vuoi andare? >>. È accondiscendente, si sente davvero in colpa per essere stata così sfacciata, mentre a me è piaciuta la sua sfacciataggine. È giovane, facilmente addestrabile. Non sembra sorpresa che io non abbia la patente o forse non vuole semplicemente essere una ficcanaso.
 
 
 
 
<< L’Alepa è proprio alla fine del quartiere, dall’altra parte della strada. >>. Prendo le chiavi di casa, chiudo il portone, scendiamo per le scale e siamo fuori dalla mia proprietà.
La macchina di Amelia è parcheggiata poco più avanti, il blu della carrozzeria è coperto da centimetri di neve. Mi guarda spesso, come se volesse dirmi qualcosa, ma si trattiene, non smette di fissarmi per tutto il tempo, sbalordita da non so cosa, prosegue fino a quando non saliamo nella macchina.
Ho voglia di scherzare, mi mette di buon umore.
 
 
<< Non sei minorenne, come pensavo. >>, la infastidisco di proposito, metto la cintura. Non so come guida, meglio andare sul sicuro.
 
 
Mette la cintura a sua volta, si muove lenta, con gesti meccanici, aggiusta lo specchietto retrovisore, poi si accomoda meglio sul sedile.
<< Ah, ah, ah. >>, ride forzatamente, spinge a fondo la frizione, avvia il motore, toglie il freno a mano. Guarda che non sopraggiunga nessuno, mette la freccia e parte. << Per tua informazione ho ventiquattro anni. >>.
 
 
<< Non l’avrei detto. >>, la sto prendendo in giro. La squadro come se stesse parlando in aramaico antico. << Ieri sera sei stata più convincente. >>.
 
 
Storce il naso.
<< Potremmo non parlare più di ieri sera, ti dispiace? Di solito non mi comporto così. >>. È turbata.
 
 
<< Così come? >>, la incalzo dispettoso, il senso di potere mi da alla testa e non riesco a fermarmi. << Ah, giusto, non chiedi agli uomini di scoparti. >>. Ho un tono risentito, come se la stessi giudicando, neppure tra di noi ci sia qualcosa di più, per giustificare un simile atteggiamento.
 
 
Mi scruta frastornata, ora seccata a sua volta. Sta per incenerirmi a parole o mi spinge fuori dalla macchina.
<< Che hai Valo, ti tira l’uccello e vuoi capire se la proposta è ancora valida? >>. Ingrana la seconda, mantiene un’andatura lenta, si distrae una manciata di secondi, ma ha la situazione sotto controllo. << Ti butta male, non cerco il sesso fine a se stesso. >>.
 
 
<< Tipico di tutte le donne. Infilate l’amore dappertutto. >>.
 
 
<< Non generalizzare, non sono come le altre donne. >>.
 
 
<< Anche questo è tipico delle altre donne. >>.
 
 
<< Dire di non essere come le altre donne? >>.
 
 
<< Proprio così. Ci tenete ad essere quella diversa, invece vi comportate tutte nello stesso modo. >>.
 
 
<< Non ci tengo a dimostrarlo, a dire la verità non me ne frega niente di essere o no come le altre donne. A questo punto potrei dire lo stesso di voi uomini, siete allupati sin dalla nascita, poi beccate quella che vi rincretinisce e smielate peggio delle donne. >>. La perfetta descrizione del mio atteggiamento. La ragazzina è più raziocinante di ciò che appare.
 
 
La studio meravigliato, forse mi sono sbagliato, non è come le altre donne. Mi disorienta, in certi momenti sembra una donna adulta, poi torna bambina e mi sento un’idiota ad andarle dietro.
 
 
<< Che c’è? >>, scoppia, sentendosi scrutata.
 
 
Che le dico? Che mi piace? Che abbiamo quindici anni di differenza? Che non so cosa voglio da me stesso, quindi figuriamoci se riesco a capire che pretendo da lei? Se tornassi alla sera precedente, accetterei e che Dio mi perdoni, avrei fatto sesso con lei tutta la notte, fino al sorgere del sole e anche oltre, fino a morirne.
Ho bisogno di sentirmi vivo. Lei mi fa sentire vivo. Non so il perché, quando si cerca disperatamente una cosa, una sensazione, un profumo, una persona, poi, come per magia, attraverso misteriosi ed intricati meccanismi, la vita ti accontenta, ma in strani modi, non come li desideriamo, ma in maniera strampalata.
Smaniavo per una scintilla, ed è arrivata, sotto forma di un’insolente ragazzina che mi spiazza, sfida ed eccita. Non voglio l’amore, ora più che mai, eppure sono certo che, se lascio che Amelia divenga una realtà costante, è così che finirà. È già successo. E fa male.
Non so se ce la faccio, non so se è davvero questo che voglio, non so se, quindici anni di differenza, possono essere un ostacolo da poter abbattere. Diverse esigenze, prospettive differenti, necessità che non combaciano. È difficile con una coetanea, figuriamoci con una persona più giovane.  
Indico il supermercato, come scappatoia, per nascondere i veri pensieri.
 
 
<< Siamo arrivati. >>. Mi sono salvato per un pelo.
Non se l’è bevuta, ma non indaga oltre, le sono grato. Mi ritrovo spesso in difficoltà in sua presenza.
 
 
<< Non lo prendi il carrello? >>, chiede. L’anticipo di qualche passo, ho solo una busta di plastica fregata alla cassa.
 
 
<< Di solito mi basta, non compro molte cose. >>. La birra è in cima alla lista, seguita dalla carta igienica e dalle tagliatelle.  
Scuote la testa, non apprezza.
 
 
<< È per questo che sembri un malato in fase terminale? Prendi il carrello, sfaticato! >>.
 
 
<< Paghi tu? >>.
 
 
Ruota gli occhi al cielo, sbuffa e si mette le mani sui fianchi.
<< Anche taccagno, sempre peggio! >>.
 
 
Ridacchio, prendo il carrello e la seguo. Da occhi esterni sembriamo una coppia sposata da anni, litighiamo pure come una coppia sposata da anni. L’idea della coppia mi affascina, il matrimonio molto, ma molto meno.
Si aggira tra gli scaffali, analizza i prodotti, a volte mi chiede ragguagli per le specialità locali. Getta scatole colorate nel carrello, parla di cosa potrei cucinare, ma non le ho detto che a malapena riesco a scaldare il latte senza farlo bruciare. Ride, è bella, parliamo di tutto, non utilizziamo discorsi profondi, solo chiacchierate di circostanza, non c’è dolore, nessuna pretesa, ci conosciamo così, tra cibi, ricette culinarie, aneddoti divertenti, battute stuzzicanti ed occhiate profonde.
Non mi sono mai svagato tanto nel fare una cosa così semplice e banale, come la spesa in un supermercato.
 
 
<< Sfamerò un esercito. >>, appuro, scaricando l’ultima busta di plastica, colma di prelibatezze varie, nella cucina. L’ho fatta entrare pure in casa mia, per aiutarmi a svuotarle la macchina. Sono sbalordito, ci vogliono mesi per convincermi a fare entrare una persona nella torre, mentre a lei sono bastati tre incontri.
 
 
<< Non fare scadere niente, a proposito. >>. Si dirige ai fornelli, come se fosse di casa, apre i pensili bassi alla ricerca di pentole e stoviglie. Li sceglie con cura. Non mi chiede il permesso, si mette a cucinare, neppure lo facesse tutti i giorni.
 
 
Mi seggo al tavolino poco distante.
<< Vuoi bruciarmi casa? >>.
 
 
<< In realtà intendevo avvelenare il proprietario e fregarmi la casa. >>. Il lato battagliero è sempre presente. << Comunque è una bellissima casa. Mi sorprende che non sia un immondezzaio. >>.
 
 
Accavallo le gambe, prendo l’ottava sigaretta della giornata e me la godo. Adoro come riesce ad essere sincera e l’attimo dopo riprenda a provocarmi.  
<< Ho chi mi aiuta. >>. Non muovo un dito, c’è la signora delle pulizie, per questo. Se fosse per me, ci sarebbero i pidocchi sui muri.
 
 
Rovista nelle buste, ha le idee chiare, sa già cosa cucinare.
<< Tua moglie ha un gran da fare. >>.
 
 
<< Non sono sposato. >>. Chissà cosa glielo fa credere.  
 
 
<< La tua fidanzata, allora. >>. Accende il fornello e mette la pentola con l’acqua a bollire. Gira su se stessa e resta a guardarmi.
 
 
Fatico a trattenere un sorriso malizioso. È la tecnica più vecchia di questo mondo.
<< Pensavo che non fossi una tipa che usa giri di parole. >>.
 
 
<< Infatti. >>, ci tiene a confermarlo.
 
 
<< Allora perché non me lo domandi direttamente? >>.
 
 
<< Cosa? >>, finge di non capire, però il rossore sulle guance la tradisce.
 
 
<< Se sto con qualcuna, visto che ti interessa. >>.
 
 
<< Ti piacerebbe! >>.
 
 
<< Sei come tutte le altre donne. Perché non ammetterlo e basta? Che male c’è? Quanto orgoglio. >>. Da che pulpito giunge la predica!
 
 
Flette un sopracciglio scuro, ticchetta le dita sul ripiano nero della cucina e vi si appoggia sopra.  
<< Ti monteresti la testa, è tipico di tutti gli uomini. Appena qualcuno mostra un po’ di attenzione, vi sentite un Dio sceso in terra. >>.
 
 
Poggio la sigaretta nel posacenere, espiro rapido il fumo e mi alzo. Mi avvicino pigro, atteggiamento accattivante.
<< Fidati, ho avuto altri mille motivi per montarmi la testa. Se una donna mi mostra interesse, non è la testa che ho intenzione di montarmi. >>.
 
 
Trattiene un sorrisino compiaciuto a stenti, è sbigottita, non si aspettava di riprendere a punzecchiarci come due adolescenti al primo amore.
<< Porco! >>, sbotta, ride. Prevedo la cinquina in anticipo e la schivo. << Vedo che hai i riflessi pronti. >>.
 
 
<< Imparo in fretta. >>. Le resto davanti, sono più alto di lei, mi arriva al cuore: è un segno. << E tu invece? Tuo marito deve avere un gran da fare con te. >>. Uso lo stesso gioco.
 
 
Strofina le labbra tra di loro, guarda da un’altra parte e poi di nuovo me.
<< Non sono sposata. >>. Ha la faccia offesa, come se le avessi appena dato della vecchia.
 
 
<< Il tuo fidanzato, allora? >>. Voglio capire se il coglione che ho visto in sua compagnia ha fatto breccia, prima di me.
 
 
 
<< Se fossi fidanzata, credi che starei nella casa di un uomo, completamente da sola con lui? >>.
 
 
<< Suona molto immorale, non credi? >>. La voce un sussurro di velluto caldo, che la investe e centra l’obiettivo.  
 
 
<< Credo che con te, tutto abbia un suono immorale. >>.
 
 
Annuisco, compiaciuto.
<< Sì, credo proprio di sì. >>. Avanzo di un altro passo, non so cosa sto facendo, però c’è troppa distanza tra di noi e la devo annullare.
 
 
Grava una mano al centro del mio petto, tra il cuore e i polmoni, penso che brami lo stesso, che mi voglia, che mi desideri, invece mi ferma.
<< Non così vicino. >>, annuncia seria. È la seconda volta che mi rifiuta, ed è strambo, una cosa a cui non sono abituato.  
Il due di picche è come acido sul mio orgoglio maschile. La butto sul ridere, per nascondere l’evidenza.
 
 
<< Hai paura che ti possa piacere? >>. Indietreggio di un passo, la mia presenza la mette in imbarazzo, più delle mie parole. È come una calamita, di una potenza travolgente.   
 
 
<< No, ho paura che tu ti sia fatto strane idee, Valo. Ti ho detto che devi fare finta che ieri notte non ci siamo mai incontrati, che io non ti abbia detto quelle parole. >>. Si sofferma, ci pensa, prende coraggio e prosegue. << Hai già chi ti compiace sotto quel punto di vista. >>.
 
 
Lo sa, sa di Irina. Non sono sorpreso, in fondo non mi sono nascosto, non ho niente di cui vergognarmi, sono stato sincero: non sono impegnato sentimentalmente. Non sono tenuto a dare tutte le spiegazioni.
 
 
<< Non fare la gelosa. >>, mi rotola fuori dalla bocca, la prendo in giro, però voglio tranquillizzarla, ma perché?
Scoppia in una squillante risata argentina, musicale, coinvolgente.
 
 
<< Non ho di questi problemi, Valo. >>, mente secca, glielo si legge in viso che è gelosa. Si volta sul piano della cucina, per nascondersi, traffica con posate, cibo e pentole. Dalla finestra di fronte a lei, la luce invernale di Helsinki le illumina il profilo deciso, i lineamenti soffici, la bocca dischiusa, il mento piccolo, il seno rotondo, le mani pallide. Mi piacciono le sue mani, curate, ceree, dalle dita affusolate, non porta smalto.
 
 
Torno a sedermi, accavallo le gambe e ricomincio a fumare. Non so cosa di preciso è cambiato, però so che mi piace averla tra i piedi, mi piace litigarci, provocarla, mi piace perfino quando mi rifiuta… mi piace lei.  









Note: 
Rieccomi qui con il terzo capitolo di questo mese. Spero che possa piacere e che non sia troppo "scurrile", diciamo che mi sono fatta un'idea di Ville che, quando inizia ad avere un certo rapporto confidenziale con una persona, non stia più lì a badare alle parolacce. Prendo esempio alcuni video con Migé, dove ha quel tipo di rapporto che sto provando a replicare con Amelia. 

Finalmente al terzo capitolo si è scoperto il nome della lei. La prova che per invaghirsi di qualcuno, non è necessario sapere tutto di quella persona, il cuore percorre strade misteriose alla mente umana. 


Conosco davvero uomini in grado di far riempire le pareti di pidocchi, se non ci fosse qualcuno che pulisce xD 

Ringrazio immensamente 
Lilith_s per aver commentato i primi due capitoli. Mi ha fatto veramente piacere rileggerti! 

Ringrazio anche i fantasmini che leggono in silenzio!


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna

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Capitolo 4
*** Un arcobaleno in bianco e nero ***


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4.
*Un arcobaleno in bianco e nero.*









 
Scuoto la testa, sbuffando come una vecchia teiera dimenticata sul fuoco. C’è qualcosa che non va, forse è la musica, no le parole, non c’è tormento senza luce, male dell’anima, cuori distrutti, manca di impeto ardente, difetta di poesia decadente.
In poche parole: fa schifo.
 
 
Migé è stupito, per lui va bene, anche Linde gli dà man forte, ma ho un nodo al centro del petto, un fuoco che non vuole saperne di accendersi, una melodia lontana nel tempo che suona in silenzio nel cervello e non riesco a rendere reale.
 
 
<< Per me ti sei svegliato con il culo storto. >>, commenta Burton, spostandosi ai lati del viso la tendina inanimata dei lunghi capelli.
 
 
Linde poggia la chitarra sul tappeto persiano, una pausa dopo ore di prove inconcludenti, è ciò che serve a tutti.
<< Probabile che quei gufi impagliati gli hanno cagato nel cervello, alla fine. >>.
 
 
Il bassista si accende la sigaretta, consapevole che non si può fumare nello studio di registrazione.
<< Irina dovrebbe passare più spesso a trovarti. >>. È ironico.
 
 
Il problema è proprio questo: vorrei che non passasse, che sparisse, che mi lasciasse in pace. Devo lasciarla, la situazione è andata anche fin troppo per le lunghe, sono crudele a tenerla in sospeso, vorrei che capisse, che troncasse lei per me, vorrei che non mi obbligasse a doverglielo dire di persona.
Le parole le trovo solo se sto scrivendo canzoni, dopo averci rimuginato per settimane, nei discorsi veloci faccio pietà e non dico mai quel che, invece, penso di dire in seguito.
Da qualche parte, nei corridoi, voci confuse, discorsi ovattati e profumo di caffè si mischiano all’interno dello studio di registrazione.
 
 
Metto le mani sui fianchi, sono gli amici di sempre, quelli che hanno trascorso la vita con me, eppure dovrebbero averlo capito che non amo parlare del perché sono depresso dal giorno prima che nascessi.
<< Volete che vi sputi in un occhio in ordine di vecchiaia? >>.
 
 
Migé si limita a scrollare le spalle.
<< Allora inizia con te, che ti comporti come un pensionato affetto da una grave forma di bipolarismo. >>, replica, ma non mi offendo. Ogni tanto mi ripaga con la mia stessa moneta per le innumerevoli volte che gli mollo certe battute che fanno piangere i polli. 
 
 
Stropiccio gli occhi pesti, sono stanco, ho dormito quarantacinque minuti la scorsa notte: nuovo record. Non sono in vena di replicare con battute spiritose, di ridare pan per focaccia, quindi mi limito ad imitare una risata ed esco dallo stanzone insonorizzato. La macchinetta degli snacks e bevande calde è un buon punto di ritrovo con me stesso, per rilassarmi e provare a non pensare… avvenimento più unico che raro. Ci sono dei divani coloratissimi che stonano sotto il gracile peso abbigliato di nero. Otto caffè non riescono a svegliarmi, a questo punto mi arrendo e cedo alla confusione imbottita nel cervello.
Non mi ero alzato, poiché non ho toccato il letto, forse dovrei staccare la spina, qualche giorno lontano, il problema sono io e la solitudine. Staccare la spina sì, ma non da solo, il cervello si avvita sempre in concetti assurdi, nel passato sbagliato, nelle occasioni perse e finisco con il deprimermi, anziché rilassarmi.
 
 
Poggio la testa sullo schienale morbido del divano, progetto seriamente di allontanarmi da Helsinki, benché ci sia la registrazione del CD in corso, ma in fondo, non cambia niente se ritardiamo un po’. Non mi accorgo del momento preciso in cui scivolo in un accogliente, confortante e piacevole dormiveglia, non mi rendo più conto dove sono, chi sono e i miei numerosi doveri. Il cervello è ancora in modalità organizzazione della gita fuori porta, stila una breve lista di cosa portare, ma è quando sono sul punto di decidere se andare in compagnia o meno, che l’immagine di Irina, viene cancellata da un paio di iridi di fuoco, un profumo invitante femminile, capelli a caschetto color cenere e un sorriso che brilla più del sole di mezzanotte finlandese.
Lei, la ragazzina. Amelia.
 
 
La mente gioca brutti scherzi, specialmente quando le barriere razionali crollano e si riflette con la semplicità sconvolgente di un bambino.
 
 
Scene insensate si susseguono veloci, spezzoni di vita quotidiana senza un criterio coerente o temporale. La vedo davanti a me, è luce, calore, dolcezza, mi tende la mano e mi tira fuori dalle mie tenebre. Mi abbraccia, ridiamo insieme, parliamo di tutto, facciamo la spesa, la bacio e arrossisce, cucina per me, la guardo estasiato, voglio fare l’amore con lei, sono felice, felice davvero, felice come non lo sono mai stato, sono felice da far schifo, sono felice ed ho paura, una paura che mi sgomenta, mi agita, mi atterrisce. Ed è nella paura che mi sveglio di soprassalto.
 
 
Scuoto la testa, gratto il collo e sono spaesato. Che diavolo di scherzo ha fatto il mondo onirico, stavolta? Sono lucido, di nuovo vigile, capisco che è solo uno stupido sogno, che non è quello che voglio e mi viene quasi da ridere. Ho avuto paura di un sogno, che imbecille che sono!
 
 
Migé è alla macchinetta degli snacks, ha due barrette di cioccolata in mano e sta comprando anche una merendina. Mi guarda di sbieco, sorpreso che lo stessi osservando.
<< Oh scusa, ti ho svegliato? Volevo mangiare qualcosa, visto che non metto niente sotto i denti dall’ora di pranzo. >>.
 
 
L’orologio in fondo alla saletta segna appena le tre di pomeriggio.
<< Ma non avevi pranzato all’una? >>.
 
 
Apre la barretta al cioccolato e caramello e con due soli bocconi, la ingurgita per intero.
<< Sì, e allora? >>, domanda, masticando a bocca aperta, mostrando il grumo di schifo che sputacchia in ogni dove. Si siede all’altro divano, proseguendo a mangiare come un buco senza fondo.
 
 
Scrollo le spalle e accavallo le gambe, il piede destro si muove frenetico.
<< Niente, non sia mai che tu muoia di fame in meno di due ore, eh! >>.
 
 
Si dà un paio di colpetti sulla pancia prominente a forma di cocomero. Un uomo incinto, altro che Schwarzenegger in Junior!
<< Devo tenermi in forma. >>. Ridacchia, mi scruta meglio, ingoia il boccone spropositato a stenti. << Hai una faccia di cazzo, che hai? >>.
 
 
Inarco le sopracciglia, con aria falsamente risentita.
<< Se non te ne sei reso conto, questa, è la mia faccia da trentanove anni. >>.
 
 
<< Oggi ce l’hai più a cazzo del solito. Mi sono perso qualcosa di importante? >>. Non a caso è il mio migliore amico, se non le capisse lui le mie “facce alla cazzo” chi le capirebbe?
 
 
Inspiro una grossa boccata di ossigeno e la lascio uscire piano dalla bocca. Una volta tanto ai miei polmoni arriva aria buona, oltre che nicotina dannosa.
<< Ho conosciuto una. >>, vuoto il sacco insicuro. Migé non è il tipo che giudica, è un buon ascoltatore, bravo consigliere, solo che non ama i rapporti ambigui che ho con le donne. Per lui, averne già una, è pure troppo, figuriamoci due o più.
 
 
<< E Irina? >>.
 
 
Il solo nome mi infastidisce. È un casino. Lei mi ama, per me è solo una buona scopata saltuaria, mi piace un’altra e quest’altra frequenta un marmocchio poppante.
Che merda è la vita!
<< Boh, non so. Sapevamo perfettamente entrambe che non era amore, a lei andava bene così, so che a me non va più bene così. >>.
 
 
<< Che cosa vorresti? >>.
 
 
<< Non lo so. Vorrei l’amore e al contempo vorrei stare solo. >>.
 
 
Apre di netto la merendina, fa scoppiare l’involucro come facevamo da bambini, le vecchie abitudini non si smentiscono mai, la contempla un po’, perso nei pensieri o sta valutando le mie parole.
<< E questa che hai conosciuto? Chi è? >>.
 
 
<< Non è di Helsinki: è straniera. >>. Alla mente torna il nostro primo incontro. Sorrido trasognante. << È diversa dalle altre. >>.
 
 
<< Sono sempre diverse, Ville, fino a quando non diventano come le altre. >>. I suoi problemi con la moglie non gli permettono di valutare lucidamente la situazione, ne prendo atto, ma non dico nulla. Non mi piace rigirare il coltello nella piaga.
 
 
<< Non sa nemmeno chi sono. >>. Strano, ma vero.  
 
 
Morde la merendina, è concentrato su di me, il cibo è in secondo piano. Mangia solo perché è un’azione automatica, dettata dal cervello.
<< Il tuo ego deve averne risentito. >>, scherza lui, c’è dell’altro e lo capisce al volo. << Sento che sta per arrivare un “ma”, ed è un “ma” bello grosso. >>. Quando si tratta di me, c’è sempre un “ma, bello grosso”.
 
 
Picchietto le dita sui braccioli colorati del divano, porto la testa all’indietro e sono di nuovo stanco, vorrei che le cose fossero più semplici. Uno schiocco di dita e tutto mi è chiaro, uno schiocco di dita e smetto di essere depresso, uno schiocco di dita e divento felice come nel sogno.
<< Ha quindici anni meno di me. >>.
 
 
Sbarra le palpebre, boccheggiante, non se l’aspettava, così come non si aspettava che un uomo di trentanove anni potesse correre dietro ad una ragazzina di ventiquattro. Suona sbagliato, adesso che ne sto parlando, quasi da depravato, flirtare con una persona così giovane.  
<< Cazzo, Ville! Potevi prendertela dell’asilo tra poco. >>.
 
 
<< Le battute di spirito non risolveranno la faccenda. >>, dico secco ed irritato.  
 
 
<< Come intendi risolvere la faccenda, allora? Hai intenzioni serie con la tipa, oppure sarà come per Irina? E con Irina che intendi fare? >>.
 
 
<< Voglio chiudere con Irina e in fretta. E con lei, non lo so, non so neppure se si sta frequentando con qualcuno, non so che cazzo fare, non so che voglio. >>.
 
 
<< Troppi “non so”, Ville, sei confuso e parecchio. Datti tempo, mai prendere decisioni affrettate quando si è confusi, tristi o incazzati. Se vuoi smettere di vedere Irina è okay, ma stai un po’ per fatti tuoi, non imbarcarti in una nuova relazione, se non sai cosa cerchi. Ha quindici anni in meno di te, non la conosco, ma è giovane e le donne a quell’età, si innamorano come respirano. Farvi male, basta niente. >>.
 
 
Puntello il gomito sul bracciolo, abbandono la testa sul palmo della mano e strofino il beanie di lana sui capelli ammassati. Ho mal di testa e la breve pennichella l’ha peggiorato.
 
 
<< Se devi fare una cosa sbagliata, almeno sii sicuro che sia la persona giusta. >>, aggiunge alla fine, riprendendo il suo passatempo preferito: ingollare schifezze.  
 
 
<< E questa dove l’hai sentita? >>. La bocca si apre in un sorriso divertito. Ci pensa lui a migliorarmi l’umore.
 
 
<< L’ho inventata sul momento. >>, rivela, masticando poco aggraziato. Deve averla letta su qualche libro. << Comunque, come si chiama la tipa? >>.  
 
 
Sono sbalordito, di solito Migé non fa domande sulle aspiranti amanti, perché si affeziona e poi, quando è finita, lui ci resta male.
<< Credevo che non ti interessasse. >>.
 
 
 
<< Ho chiesto solo il nome, mica ho detto che voglio conoscerla. >>.
 
 
<< Amelia. >>, pronuncio il suo nome con un so che di fiero, mi riempie la bocca, sento che mi sosta sulla lingua, che va dritto in gola, sempre più giù, fin nelle viscere.
 
 
<< Amelia e…? >>.
 
 
<< Amelia e basta. Non so nient’altro. >>.
 
 
L’occhiata del mio migliore amico basta a spiegare l’assurdità di invaghirsi di una ragazza di cui non conosco il cognome e niente che possa servire in questi casi. Potrebbe essere chiunque, ma il mio cuore ragiona così. A volte meno so e meglio è, scoprire troppo, porterebbe a deludere le aspettative. Fin quando mi fa sentire così vivo, preferisco sapere il meno possibile.
<< Ti conosco da quando avevamo otto anni e, ti giuro, ancora non riesco a capire come cazzo ragioni! >>.
 
 
<< Manco io. >>, interrompo, fa finta di non sentirmi e prosegue la ramanzina.
 
 
<< Come può piacerti una che sai a malapena come si chiama? Io non capisco che tipo di relazioni si possa avere? >>.
 
 
Mi stringo nelle spalle, non vedo dove sia il problema.
<< Mica devo sposarmela! >>.
 
 
<< Ma tu, dalle donne, cosa vuoi? Non vuoi avere una relazione stabile, non vuoi amarle, non vuoi sposarle, allora cosa? È solo sesso? >>.
 
 
Batto le palpebre, le domande mi hanno confuso, non ho una risposta, non lo so, sono spiazzato.
<< Il giorno in cui lo capirò, forse, sarà lo stesso giorno in cui morirò. >>. L’humour  nero non è di suo gradimento, detesta quando parlo della morte, specialmente della mia. Si deve ancora riprendere dal fatto che ci sono andato spesso vicino alla fine. A lui frega, a me no. Quando sarà il momento, sarà una vera liberazione e a quanto pare nessuno riesce a comprenderlo.
 
 
L’occhiata è poco amichevole.
<< Quando cominci a fare lo stronzo, mi fai venire voglia di mangiare di più. >>, si lamenta, finendo la “leggera e salutare” merenda pomeridiana. Alle cinque avrebbe mangiato di nuovo.
 
 
Balzo in piedi, la pausa è finita, bisogna tornare a lavorare sodo.
<< Vorrà dire che più tardi ti offro qualcosa io, per farmi perdonare, dai! >>.
 
 
Gli ritorna il sorriso, in fondo basta poco per farlo felice.
<< Almeno non fai il tirchio. >>.
 
 
<< Io non sono tirchio! >>.
 
 
<< Solo quando dormi. >>.
 
 
<< Io non dormo. >>.
 
 
<< Appunto. >>. 









Note: 
Ho aggiornato un po' prima, perché avrò un agosto impegnato e non so se riuscirò ad aggiornare in tempo, quindi questo capitolo vale per agosto. So che non ci sono stati grandi risvolti, che è venuto fuori un capitolo di passaggio, ma serviva l'opinione di qualcun altro e non tutti sono d'accordo o riescono a capire Ville. 
In fondo sarà capitato a tutti, essere amici di qualcuno per anni e anni e nonostante tutto, non riuscire ad essere compresi. 

Abbiamo un Ville confuso, che non sa cosa vuole, che da una parte vorrebbe e dall'altra preferirebbe starsene per conto suo. E Migé non è stato di grande aiuto nel far passare le nuvole. Chi aiuterà il prode Valo a fare chiarezza in quel casino di mente? xD Staremo a vedere. 


Ringrazio immensamente 
kuutamo e  _hell_inside_  per aver commentato gli scorsi capitoli, ringrazio anche i fantasmini che leggono solamente.

La storia può presentare errori ortografici.


Un abbraccio.
DarkYuna          

 
 

 

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Capitolo 5
*** Apri la prigione del tuo dolore ***



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5.
*Apri la prigione del tuo dolore.*







 
Ci sono giorni sì e giorno no, almeno per le persone normali funziona così.
Per me, che non è ben chiaro che razza di persona sono, ci sono solo i secondi, perché, a memoria, non riesco a ricordare di aver avuto mai una giornata sì, senza che si sia trasformata in una giornata no nell’arco di poche ore.
 
 
La sigaretta mi occupa le mani, all’inizio è stato il pretesto giusto per chi non sa dove mettere le mani sul palco, quando canto, poi ci sono rimasto fregato e adesso ho i polmoni neri peggio di una cava di carbone.
Mi piace stare da solo, in silenzio, non ho paura di trovarmi faccia a faccia con i miei demoni, non mi spaventano più: ci ho fatto amicizia. Non sono poi così male.
Sto in giardino, seduto nella costruzione a forma di lumaca, regalo su commissione di un vecchio amico.
Fumo e penso.
Penso e fumo.
Mi dondolo un po’, mi perdo in concezioni teologiche, su perché che non trovano riscontro, su risposte ad interrogativi mai posti. Fa freddo, la neve è aumentata, però sto bene all’aperto, lontano dal contatto umano.
 
 
 
Socchiudo le palpebre ed è proprio in quel momento che sento una voce familiare, cantare. Non è lontana, è più vicino di quanto mi sia sembrato all’inizio.
È francese, non capisco cosa dice, ma la musica è malinconica, decadente, sofferenza dell’anima, brandelli di cuore, sabbia del tempo dispersa al vento, un mare d’inverno. È una voce fredda, acuta, cristallina, trasmette strazio, nostalgia, lacrime che non si asciugano più, angoscia che non può essere mitigata, nessuna speranza di vita.
 
 
Mi basta alzare lo sguardo sulla finestra aperta dell’abitazione in mattoni rossi, sui miei vicini, nella casa dove abita lei, la stessa lei che decanta a parole lo strazio più cupo. Non mi serve conoscere la lingua, per identificare il linguaggio di chi è sceso all’inferno e non è più risalito.
So poco e niente di quella ragazzina, ma mai, come adesso, mi sembra di aver trovato un’anima affine in mezzo a migliaia di anime estranee.
Vorrei parlarle, niente di preciso, magari uno di quei discorsi stupidi, basta uno sguardo, di quelli che dicono molto, che fanno innamorare e morire, di quelli che non te li togli più di dosso, di quelli che cerchi nel buio.  
Si sente sola.
Mi sento solo.
 
 
Non so il perché, però ho voglia di lei, non fisica, è una voglia prettamente spirituale, sono istinto, mi alzo dal mio angolo pensieri, il pollice e l’indice scavano nella neve sporca di terriccio e tirano fuori un sasso di piccole dimensioni. Prendo la mira e centro il vetro della finestra aperta. Capisco che non è un caso che abbia lasciato la finestra aperta, vuole che io la senta, vuole che capisca, vuole che io entri nel suo mondo e lei nel mio: è il suo modo personale di chiedermi il permesso.
 
 
<< Ehi, Amelia! >>, sussurro concitato. Ma perché sussurro? Di cosa ho paura? Di essere sentito da orecchie indiscrete? Che il mio cuore possa udire il tono tremolante con cui pronuncio il nome? << Amelia, sono Ville. >>.
 
 
Trascorrono una manciata di secondi, forse un minuto, sono in piedi, nel mio giardino, le braccia abbandonate lungo i fianchi, sotto la finestra di una ragazza. Una versione dark e alquanto spiantata di un Romeo moderno, che non ha niente di romantico.
 
 
Si affaccia, ha la sclera arrossata, così come le orbite livide, ha pianto, parecchio e ne resto sconcertato. Sul colorito pallido, si può distinguere il percorso accalorato delle lacrime.
Sto per chiederle cosa c’è che non va, dov’è finito il suo sorriso, la vena battagliera, le battute saccenti. Che fine ha fatto il mio sole?
 
 
Infilo le mani nel cappotto, opto per una decisione diversa e sorrido. 
<< Ti offro un caffè, ti va? >>.
 
 
Non è la solita guerriera, è fragile, ha gettato l’armatura, se accetta non ci sarà più modo di dividere le nostre strade, ma sono più che certo della mia decisione e sono certo che è questo che voglio. È sbagliato, molto, specialmente se di mezzo ci sono così tanti cuori che rischiano di spezzarsi, almeno il mio non corre rischi: è un cumulo di macerie e disperazione.
 
 
Getta un’occhiata alle spalle, all’interno della stanza, poi di nuovo a me. Tira su col naso, si asciuga gli occhi, la tempesta interiore non è finita.
Mi fissa. Ha una dolcezza impalpabile nelle iridi di grano, assomiglia ad un tenero gattino in cerca di coccole, che voglio darle. Non sono io che le leggo dentro, è lei che mi divora a grandi bocconi e mi assorbe con il potere oscuro di cui fruisce.
 
 
<< Niente luoghi affollati. Pace e silenzio, per favore. >>, prega, la voce un soffio rauco nel venticello freddo che mi intorpidisce perfino i capelli. A parte casa mia, sul momento non mi viene nessun posto specifico che possano donare pace e silenzio. Poi la perenne lampadina fulminata nel cervello, torna a funzionare proprio quando più mi è utile.
 
 
Schiocco la lingua al palato, le schiaccio l’occhio e per una volta sono io il sole tra i due.
<< Ho quello che fa per te, ma guidi tu. >>.
 
 
L’ombra tenue di un sorriso, le intenerisce le labbra umide di lacrime e saliva. Sono morbide, soffici e si plasmerebbero a meraviglia sulle mie, come due tessere di un puzzle nate per incastrarsi a perfezione.  
 
 
<< Non so il perché, ma il mio sesto senso mi suggerisce che, se guidassi tu, non andremmo molto lontano. >>. Eccola lì la mia guerriera, quella che mi ha scambiato per un pungiball da schiaffeggiare una volta sì e l’altra pure, la ragazza delle rose che mi ha stregato l’anima.
 
 
<< Il tuo sesto senso ti suggerisce bene. >>, le concedo. Non è più una guerra, le ho accordato un armistizio. Preferisco combattere ad armi pari ed è per questo voglio che smetta di piangere. << Ti suggerisce nient’altro? >>. La sfumatura erotica non è voluta, è rotolata fuori spontanea.
 
 
Lo sguardo si rasserena, poi diventa fuoco liquido, magia nera, un diavolo tentatore che cerca di strapparmi il cuore dal petto. Riesco a percepirlo il pensiero indecente, faceva sul serio quando mi aveva chiesto di scopare, lo voleva davvero e lo vuole ancora. Desidera arrivarci per gradi, non subito, preferisce approfondire il rapporto. Dovrei dirglielo però: non ho l’amore facile.
Si sporge dalla finestra e quasi mi aspetto che reciti una battuta di Shakespeare, perfino lei sarebbe una Giulietta inusuale, con quei capelli a caschetto, il viso di porcellana, la bocca capace di mille incantesimi. Non ha l’aria dell’ingenua ragazza sprovveduta, mi scruta come se mi conoscesse, come se potesse spogliarmi l’anima e vedermi dentro.
Se abbasso le difese, sono fregato.
 
 
 
<< Non credo che ti piacerebbe saperlo. >>, mi asseconda. È strano. Passa da un’estremità all’altra, gioca con la mia mente, prima mi cerca, poi mi schiaffeggia, poi mi propone di scopare, prima sì, poi no, si rifiuta di baciarmi, poi boh.
 
 
L’ego maschile non se lo fa ripetere due volte e se c’è da flirtare è pronto. Porto le mani sui fianchi.
<< Mettimi alla prova. >>, proseguo stuzzicato. Sono curioso di cosa mi proporrà stavolta.
 
 
È tentata, riesco a percepirlo dai lineamenti affilati e spigolosi, dalle sopracciglia corrugate in un cipiglio scuro, dallo sguardo di fuoco penetrante. Non so che cosa voglio, non sono ancora in grado di rispondere alla domanda di Migé, però so che la voglio, non è un basso istinto fisico che posso soddisfare in una volta, è più una brama intrinseca, come la necessità di un abbraccio da una persona in particolare: da lei.
D’un tratto sono stanco del tira e molla, delle battutine impertinenti, che non possa essere facile.
Le piaccio?
Mi piace?
 
 
Allora cosa stiamo aspettando, di perdere altro tempo? Ce n’è rimasto così poco, specialmente io, mi sembra di aver buttato tutta la vita e che da un giorno all’altro, possa finire ogni cosa.  
Uno schiocco di dita e diventa semplice. Uno schiocco di dita e mi libero di Irina. Uno schiocco di dita e lei diventa mia. Uno schiocco di dita e questa catena gelida mi scarcera il cuore, così smetto di sanguinare, così guarisco.
 
 
<< Non giocare con me, Valo. >>. È quasi un fruscio, un ammonimento portato dal gelo ed è lampante che c’è qualcosa in più, un particolare che non spiego, un segreto così grande che potrebbe schiacciarmi sotto il peso incalcolabile.
Non ho la più pallida idea di dove stia sfociando il discorso, del perché crede che voglia giocare e farle del male. Qui, l’unico che si fa del male sono io, che si caccia in corpo quattro pacchetti di sigarette al giorno dall’età di quindici anni.
 
 
Infilo le mani nei jeans sdruciti, scalcio una pietra da un cumolo disordinato che fuoriesce dalla neve.
<< Facciamo una passeggiata? >>, le ripropongo, più perché non sono certo di cosa abbia visto in me o cosa crede che io voglia da lei. Non voglio giocare, non più.  
 
 
Quindici minuti dopo siamo tra le strade innevate della capitale, parla poco, non è in vena, mi piacerebbe chiederle perché piangeva, quegli occhi non meritano di riempirsi di lucciconi, ma faccio a botte con il mio silenzio, finché non raggiungiamo il luogo prestabilito.
 
 
Il Kamppi Chapel of Silence è una chiesa dal design innovativo, si trova al centro di Helsinki, nella piazza, di fronte al grande centro commerciale di Kamppi. Non è una cattedrale enorme, neanche una chiesa di medie dimensioni. Piccola, accogliente, intima, dove vengo spesso a sedermi per lasciarmi indietro i dubbi, le paturnie mentali e l’infelicità, così da starmene per un po’ per fatti miei. Fino ad oggi nessuno conosceva questo piccolo rifugio segreto.
Di pianta ovalizzata, realizzata in legno massello portante è alta una dozzina di metri. Gli interni, di firma ellittica, con dei tagli in luce al soffitto, restituiscono pace e tranquillità nel caos cittadino. L’entrata è sul retro, ed un po’ nascosta. Da fuori non si direbbe proprio che è una chiesa.
 
 
Entriamo insieme, ed è come essere proiettati direttamente in una dimensione parallela, dove il silenzio regna sovrano. Non sono credente, non lo sono mai stato, ma qui riesco a trovare quel briciolo di pace che ho smarrito molti anni addietro.
Amelia ammira la cappella estasiata, non c’è mai stata e ne resta molto colpita. Nell’edificio ci siamo solo noi due.
E benché sia vuota, preferiamo accomodarci all’ultimo posto, ben lontani da ogni forma di religione. Restiamo per qualche minuto per conto nostro, ognuno chiuso nel proprio mutismo, non ci guardiamo, però la sento vicina, più vicina di chiunque altro e non parlo di vicinanza fisica, quanto di quella spirituale.
 
 
Raddrizza la schiena, si porta i capelli dietro le orecchie piccole e dal taglio perfetto, bagna le labbra, la lingua mi distrae, e mi guarda. Il sorriso sboccia sulla bocca morbida, come un girasole che si apre alla stella madre più bella.
Abbiamo sotterrato l’ascia di guerra, mi scruta come se, lì con lei, non volesse nessun altro, oltre me. Ho l’impressione che mi conosca, che sappia come mi sento, cosa provo, dei miei problemi… ho l’impressione che lei sia la soluzione, l’ordine al mio caos, il paradiso che possa acquietare i miei demoni.
 
 
Perché il cuore mi batte come un furioso treno in corsa? Mi fa male, un dolore al centro del petto, coinvolge i polmoni, è una sensazione fredda e calda, si alterna, mi scompagina e atterrisce. Ha un sapore antico, so perfettamente com’è l’amore, ma è più di questo, è come un meraviglioso ricordo legato al passato, perso nei meandri dell’inconscio, che riemerge inaspettato, travolgendomi con emozioni violente, profane, primitive.
 
 
E mi sento spezzare, un tuono interiore, un terremoto silenzioso che mi scuote, un fuoco che brucia dalle viscere e mi divampa fin nel cervello. Iridi di rovente miele liquido, strazianti, dominanti, colme di segreti, mestizie e inquietudini, mi ghermiscono, conducono in terre straniere, parlano pur rimanendo mute, sorridono di una luce abbacinante e sono di una delicatezza che fa affliggere il cuore.
Eccole lì le parole che tanto inseguo, ce ne sono così tante da potersi ubriacare, sono un concentrato di amore e morte, di fatale leggiadria, un veleno dolcissimo che vorrei bere tutto d’un fiato, conscio di andare in contro alla mia eterna fine.
 
 
<< Va’ meglio? >>, chiedo gentile. Ho la mano che formicola, nella vorticosa smania di raggiungere la sua. Posso quasi sentire il calore della pelle, difetto di coraggio. Povero coglione!
 
 
Annuisce due volte, e con un fremito di pura estasi celestiale, è lei che rende reali i miei sogni proibiti. Si abbarbica sulla mia spalla, gravando la testa nell’incavo del mio collo e non ho più dubbi: è quello il suo posto. Annuso il profumo dolce dei capelli, è gradevole, come di zucchero filato e lo sento ficcarsi nelle narici, scivolarmi sulla lingua e scendere in gola, in una setosa carezza erotica.
 
 
<< Grazie. >>, bisbiglia, il respiro sfiora la pelle serica, è uno stimolo fortissimo, carnale, puramente sessuale, volto ad istigarmi, che non riesco a soffocare. Le è bastato respirarmi, per svegliare ogni più piccola cellula del corpo, reagisco alla sua presenza e mi sento eccitare, sudare nella vampa, ho il cuore che mi sta uscendo dal petto. È così imperativo il desiderio, che la testa incomincia a mulinare, scorgo la chiesa che mi vortica attorno, sono smarrito, perso nelle oscure cupidigie sfrenate di un uomo che sta sbagliando tutto. Sono troppo incasinato, lei così giovane, fresca, dolce… le spezzerò il cuore. E che qualcuno mi perdoni, è proprio questo che voglio, voglio spezzarle il cuore, riempirle l’anima di un amore funesto, ossessione brutale, bisogno spasmodico. Voglio il dolore e l’amore, mescolati assieme, talmente potenti da ucciderci entrambe.
 
 
Batto le palpebre, chiudo gli occhi, respiro tra i denti e deglutisco, nel disperato tentativo di ritrovare il controllo, la concentrazione smarrita. Non trovo redenzione, il suo profumo mi si è cucito addosso e mi avvolge nelle spire della dannazione.
Mi tocca le dita e le spalanco le palpebre addosso. È più vicina di quanto reputassi, la bocca è dischiusa a pochi centimetri dalla mia, si morde il labbro inferiore e mi fissa la mano, fin quando si fa audace e fa scorrere i polpastrelli fin sulle mie nocche.
 
 
<< Se ti infastidisce, mi fermo. >>, mormora demoralizzata, scoraggiata dal mio silenzio e dalla rigidezza del corpo, interpretandolo male. La sto facendo sentire a disagio e fuori luogo, quando è esattamente il contatto fisico che voglio.
 
 
<< Non dovrei dirla io questa frase? >>, la butto sul ridere e lei sogghigna, avverto il seno sfiorarmi e sussultare. Sposto il braccio su cui è rilassata e l’avvolgo più stretta a me… non mi infastidisce affatto, anzi, ne voglio di più.
 
 
Si accalca nelle spalle.
<< Ho l’impressione che le cose tra di noi, non siano propriamente canoniche. >>. Quel “noi” detto con leggerezza, mi attrae più del lecito.
 
 
Intreccio deciso le nostre dita, le stringo, giocherello con il pollice e lo rincorro, fin quando lo blocco con il mio.
<< Lascia che sia io l’uomo. >>, dichiaro con un tono caldo e basso. Rabbrividisce e si accosta così tanto che quasi posso avvertire il battito accelerato del cuore, pungermi le costole. Cerco qualcosa di particolare da dire, un pretesto per salire l’ennesimo gradino e sbloccare la situazione. È l’occasione giusta, l’atmosfera perfetta, è tutto così stupefacente, che non voglio finisca. << Esprimi un desiderio. >>.
 
 
<< Un desiderio? >>, fa eco sorpresa, ed alza la testa e così facendo solo la distanza di un respiro ci divide. Posso fissarla dritto in quegli occhi straordinari, d’oro scintillante, con pagliuzze verdi, che mi scavano, ammaliano e seducono. << Lo esaudirai tu? >>.
 
 
Se mostro incertezza, rischio di mandare tutto a monte. Ho voluto la bicicletta? Adesso pedalo.
<< Sì. >>, affermo risoluto.
 
 
L’ombra di un sorriso sibillino, le guance si sfumano di un rosa accesso e si illumina come il cielo dopo la pioggia.
<< Non sono sicura che tu possa esaudirlo. >>, risponde carezzevole, punzecchia armoniosamente, e mi sembra di leggere a chiari caratteri cos’è che desidera: desidero lo stesso. È così straordinariamente bella, mi riempie di sensazioni discordanti, veementi e tenui, in lei convivono delle caratteristiche che si trovano sparse in persone diverse, ma sono tutte qui ora, tra le mie braccia. Stupidamente mi rammenta il periodo da bambino, quando, ero fissato con il rosa e il nero e dipingevo i muri di casa dei miei genitori, con soli questi due colori, per la loro somma gioia e disperazione.
 
 
<< Io penso di sì. >>, è l’ultima cosa che dico, prima di annullare ogni barriera reale e astratta. Poggio impaziente la bocca arida sulla sua umida, ho atteso anche troppo, non so niente di lei, eppure non c’è nient’altro che ho inseguito dall’esatto momento in cui ha iniziato ad offendermi.
 
 
La bacio con convulsa inquietudine, affondo le mani nella capigliatura a caschetto e l’attiro prepotente sul mio corpo. Il sangue diventa lava bollente nelle vene, vengo colpito da una frenesia arcana, come quando si mangia troppa cioccolata, sono come drogato, dal profumo, dal sapore che mi invade il palato e mi sconvolge. Ci metto un solo secondo per intuire che il bacio non mi basta, non mi basterebbe neppure farci l’amore ogni giorno, forse l’intera vita non sarebbe sufficiente per spegnere lo spasmodico ed incessante bisogno che mi ha acceso dentro.
Provo a trovare un po’ di sollievo, stringendola più forte, ma perdo l’equilibrio, cado di schiena e me la trascino dietro. Colpisco con il gomito la panca di legno davanti a noi, fa un rumore sordo che riecheggia nella chiesetta e cadiamo insieme per terra. Mi è a cavalcioni, ho ricevuto una dolorosa gomitata alla bocca dello stomaco, ho battuto la nuca sul pavimento gelido e preso una testata sulle gengive. Il sapore ferroso del sangue, mi danza sulla lingua.
 
 
Alla fine scoppiamo a ridere e la sua risata ha un suono particolare, che mi affascina e tranquillizza. Dimentico il dolore, il frangente buffo, sono sbigottito di come è riuscita a distrarmi dal conflitto interiore e voglio una controprova.
 
 
Mi sorreggo sui gomiti e balzo in avanti, per incontrare una seconda volta le labbra gonfie e rosse. Sono meno prepotente, più calmo e l’assaporo fin nel profondo, il bacio diventa di un’intensità lacerante, il mio sangue si mescola con la sua saliva, nascosto tra le trame c’è un’onnipresente addio che mi costringe a non lasciarla andare, mi strazia nel profondo e mi dona un’amara dolcezza. Sono così assuefatto, da diventarne pericolosamente dipendente.
L’indice traccia la rotonda morbidezza delle gote, passando sullo zigomo, fin sul mento e per scherzo picchietto sul naso. Non vi è più alcuna ombra di tristezza, solo sfolgorante gioia incommensurabile.
 
 
<< Avevi ragione tu… puoi realizzare i miei desideri. >>, appura affettuosa, ha la felicità di una bambina al primo amore e mi sento male per quello che ho fatto, è come se la stessi ingannando, come se mi stessi approfittando di un’anima pura. Il fatto che sappia di Irina, non è un alibi per tenere due piedi in una scarpa, devo sbrogliare la matassa, prima che mi ritrovi in un mare di merda.
 
 
La voce mi manca, il cervello obbliga a recidere ogni legame, il cuore si squarcia al solo pensiero.
<< Vorrei che continuasse. >>, affermo con un tono rauco, come se fossi affetto da una forma acuta di raucedine mal curata.
 
 
<< Io dico che va bene. >>, replica con slancio, mi aspetto quasi che mi abbracci, ma si trattiene. Legge sul mio viso l’aperto disappunto. << C’è un “ma”, vero? È per l’altra? >>.
 
 
<< Non ti infastidisce? >>.
 
 
<< Non ho di questi problemi, ti ho detto. >>. È come se fosse disposta a tutto pur di avere una parte nelle mia vita, anche a sopportare un’altra donna, di dividermi. Sono certo che è solo questione di tempo, prima che esiga qualcosa di diverso, prima che mi voglia solo per sé, prima che mi chieda di giungere ad una scelta. Non voglio arrivare a quel limite, le cose devono chiarirsi molto prima. << È solo questo che ti preoccupa? >>.
 
 
Gratto la testa, scompigliando i capelli, che già fanno schifo di per sé.
<< Ti sei resa conto che ho quasi quarant’anni e tu solo ventiquattro? >>.
 
 
Si alza lentamente, scuote le ginocchia, togliendo la polvere dai jeans corvini e si siede sulla panca, lasciandomi come un fesso sul pavimento. Il vuoto mi schiaccia.
<< Il problema è di chi lo pone, Ville. >>.
 
 
<< Sono quindici anni di differenza. >>, insisto, come se non si rendesse conto di cosa stiamo parlando. Non è uno scherzo, sono un uomo di una certa età e lei una giovane ragazza, ho esigenze particolari, conduco una vita isolata, faccio un lavoro non propriamente facile. A ventiquattro anni si hanno pretese e necessità diverse, lo ricordo bene.  
 
 
<< So contare. >>, rimbecca scherzando, è troppo su di giri per afferrare la mia angoscia. << Non capisco cosa ti tormenta? Che possa piacermi poi qualcuno più giovane? Che sia un capriccio passeggero? Cosa? >>. Ho sbagliato: ha capito perfettamente.
 
 
Inarco un sopracciglio, boccheggiante.
<< Non voglio farti del male. >>, sono maledettamente sincero e mi maledico per aver giocato a carte scoperte.


<< Me ne faresti molto di più, se adesso ti tirassi indietro. >>, anche lei è maledettamente sincera.
 
 
In fondo era ciò che volevo, che per una volta, fosse facile… e sono stato accontentato.
Per adesso. 











Note:
Ho aggiornato prima di quanto pensassi, quindi spero di farvi cosa gradita, con questo capitolo. 
Finalmente è arrivato il bacio, beh, considerando che Ville desiderava "zompare" (ma quanto sono raffinata xD) addosso ad Amelia sin dall'inizio, direi che si è frenato anche troppo! 

Il Il Kamppi Chapel of Silence è una chiesa realmente esistente ad Helsinki, lì dove l'ho descritta ed è esattamente così com'è. 

La confusione di Ville, credo che l'abbiamo provata tutti all'inizio di una storia. Specialmente se hai faticato tanto per raggiungere un certo equilibrio e poi, un bel giorno, arriva qualcuno a minare quell'equilibrio faticosamente ottenuto. Ville, poi ci passa la vita a rimuginarci sopra. 

Ringrazio molto chi commenta ogni capitolo, spero di ricevere altri pensieri dai fantasmini che seguono in silenzio, per adesso vi ringrazio tutti. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   

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Capitolo 6
*** Un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente ***



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6.
*Un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente*






 
Cosa ci spinge verso una persona, rispetto ad un’altra? Cos’è che ci attrae in quel procedimento vincolante? Gli occhi, la bocca, la voce? O forse è un peculiarità più intrinseca, magari è legata ad una vita passata, chi si è incontrato prima e si è amato profondamente, è destinato a cercarsi nel rintocco delle ere future. In attesa di potersi ritrovare, ci si sente vuoti, soli, come se mancasse una parte fondamentale di noi e fino a quando non si è di nuovo completi in due, si rincorre un’utopia fantasiosa, un po’ come quando vuoi qualcosa che non sai cos’è, però la vuoi, però la cerchi, però non puoi farne a meno. E stai da cani.
Il senso di perdita verrà colmato unicamente nell’istante in cui si è giunti finalmente a casa.
 
 
Una volta ho avuto l’illusione di aver smesso la folle corsa dell’assidua ricerca, una volta ho creduto di potermi fermare, una volta ho creduto di aver trovato il mio posto nel mondo, in una persona. A mie spese ho imparato che non bisogna mai appoggiarsi a qualcuno oltre noi stessi: lei s’è spostata ed io sono caduto all’inferno.
 
 
Vorrei che Amelia fosse quella giusta, ma non lo è, nessuno è quella giusta, neppure io sono giusto per qualcuno.
Specialmente per lei.  
Ci sono numerosi pretesti che la rendono sbagliata per me. Innanzitutto l’età, quella luce nelle iridi, tipica di chi non ha mai assaporato il dolore fino in fondo. La confusione caotica che mi desta nell’anima, non tollero di perdere il controllo, non ho voglia di smarrire la bussola a quasi quarant’anni. Io voglio il controllo, anzi lo esigo.
Non sopporto chi me lo fa perdere.
 
 
Poggio la sigaretta consumata a metà sul posacenere, i polpastrelli pizzicano le corde della chitarra classica e, nonostante scaccio i ricordi della chiesa, ho una serie di flashback che mi esplodono nel cervello. Il profumo dolce, la morbidezza delle labbra e come è riuscita a farmi sentire: in pace.
Una pace che ha lasciato un’amarezza malsana nella strada verso il cuore, come di una medicina acre o eccessivamente stucchevole: ho il voltastomaco.
 
 
Stropiccio il naso più volte: se voglio comporre qualcosa di decente entro la fine della giornata, devo mettere un blocco al cervello, altrimenti ci divento vecchio in questo studio. La voce bassa, modulata, si unisce alle note inquiete e intanto che riprendo fiato, nella mente riecheggia la dolcezza malinconica della melodia che Amelia cantava dalla casa in mattoni rossi.
Le parole in lingua sconosciute, scivolano velenose nel corpo, perdurano nelle vene e si attardano nel sangue. Sono inquieto, vorrei alzarmi, stare seduto, correre lontano o nascondermi, il ricordo di lei provoca reazioni astruse, che non controllo, un tormento inumano, una decisione che non posso e non riesco a prendere.
 
 
L’amore è sempre un discorso difficile da affrontare, specialmente per chi, dell’amore, ne ha fatto una questione di mortale importanza, una dipendenza peggiore delle sigarette, peggiore di qualsiasi sostanza stupefacente sulla terra. Non so se voglio assuefarmi ancora una volta a quel sentimento, non so se sia la volta giusta o la persona giusta.
 
 
Socchiudo le palpebre, certo che sia un valido aiuto per scacciare il pensiero fisso che ho di lei, ma non appena mi isolo da tutto, i suoi occhi mi appaiono come un lampo a ciel sereno, impregnati di un fuoco insinuante che mi accende dal basso. Le lingue roventi mi attraversano i piedi, su per le caviglie, le ginocchia, una traccia indelebile nell’inguine, poi sempre più su, ed esplodono come un pallone aerostatico nel cervello.
<< E cazzo! >>, sbotto esasperato, poggio la chitarra a terra e sono un fremito che ha bisogno di uno sfogo fisico. Se fossi un tipo sportivo, saprei come scaricare la trazione accumulata in massa, malauguratamente sono più un uomo carnale e in questo momento necessito di una sola liberazione… non sono certo che sia la scelta più logica e se, soprattutto, dopo starei meglio.
 
 
Un leggero bussare alla porta dello studio di registrazione, mi distoglie dal casino interiore che mi tiene teso come una corda di violino.
Scorgo Irina al di là del vetro.
 
 
Merda! Non lei, non ora, non sono in vena. Rimandare è pericoloso. Sto complicando la vita di numerose persone, perché non sono capace di prendere una decisione sensata.
 
 
Le faccio un cenno con le dita e lei lo prende come un invito. Per Irina, qualsiasi cosa faccio o dico, lo interpreta in maniera positiva e non percepisce l’espressione distaccata.
 
 
<< Inizio davvero ad essere gelosa. >>, esordisce con un sorriso pieno, felice di vedermi dopo due settimane di lontananza.
L’ho evitata, lo ammetto. Ne è consapevole, non lo ammette.
Non sembra arrabbiata, non sa di Amelia, altrimenti avrebbe fatto una scenata di gelosia acuta e si sarebbe attaccata come un gatto sui coglioni. << La musica è davvero una rivale temibile, ma non credevo fino a questo punto. >>.  
 
 
È così diversa da Amelia, non solo fisicamente, soprattutto caratterialmente. Con lei è facile vivere, non devo sforzarmi, recitare ruoli, indossare maschere.
Con Irina… beh, non siamo giunti a questo punto per caso.
 
 
Deglutisco appena, accendo una sigaretta. Non la voglio intorno.
<< Ho delle scadenze da rispettare. >>, sono freddo, penso in fretta ad una scusa per andarmene, ho il cervello in panne.
 
 
Lo sguardo si fa sensuale, ha voglia di me, non ci metterà molto a trasformare le moine in pretese. Si fa avanti, passo sicuro, si morde il labbro inferiore.
<< Hai bisogno di rilassarti, Vi. Ti vedo testo. >>. Detesto quando si usano dei nomignoli, alterano il mio nome o lo limitano, come in questo caso.  
Ha un rossetto rosso che stona con il biondo chiaro del capelli e gli occhi di ghiaccio. Ora che la scruto meglio la trovo volgare, non capisco cosa ci abbia trovato in lei di attraente, non c’è molto di cui dialogare. È solo sesso fine è se stesso. E mi ha stancato.
 
 
Balzo giù dallo sgabello, per scoraggiare il tentativo di sedurmi. La reazione sarebbe stata differente se, al suo posto, ci sarebbe stata un’altra persona e, nel mentre prendo coscienza di quel che bramo, una fitta di panico si irradia alla bocca dello stomaco e mi fa pentire di aver abusato di caffè e sigarette.
<< Io credo che dovremmo pensare un po’ a noi due. >>, esordisco di getto, dandole le spalle, mi avvicino alla tastiera di Burton.
 
 
Ci mette qualche secondo per capire che non è un passo avanti quello che stiamo facendo, ma che stiamo drasticamente tornando al punto di partenza, se non peggio.
<< Che vuoi dire? >>, la voce trema, sta per piangere e la mia allergia alle lacrime mi fa essere più crudele di quanto avessi auspicato.
 
 
<< È chiaro ad entrambe che abbiamo obiettivi e bisogni diversi, che non combaciano. Non è una pausa ciò che chiedo, voglio che quello che ci sia, finisca. >>, dico e mi maledico, perché non vorrei usare quel tono duro, invece sono uno stronzo laureato con lode. Cerco di tenermi lontano, di non ricambiare lo sguardo affranto, però commetto un’imperdonabile sbaglio ed incontro un paio di occhi di cristallo, colmi di lucciconi bollenti. So perfettamente cosa sta provando, amare con tutto se stesso qualcuno che per te prova solo indifferenza, quasi fastidio e ti scarica come un sacco vecchio, per qualcuno che invece gli aggrada di più.
 
 
Non mi piace questo ruolo, mi calza stretto, ma sarebbe finita ugualmente, anche se Amelia non fosse stata la ragione di tale scelta. Quindi lo ammetto… è lei la ragione che mi sta obbligando a lasciare Irina, è proprio lei, perché so che le ha dato fastidio il fatto di essere la seconda donna, perché avrebbe dovuto condividermi, mentre io volevo essere la sua esclusiva.
Da una parte sono pieno di ardore, vorrei rivederla oggi stesso, dall’altro sono il verme della situazione, colui che ha scopato fin quando ha potuto ed ha spezzato il cuore ad una persona.
 
 
Si schiarisce la voce, ci mette un paio di secondi a parlare, le parole mancano, il dolore mi urla addosso.
<< Per te ero solo un’abitudine, per me sei della vita un po’ di più. >>. E poi lo dice, non si tiene niente, sa che non ci saranno altre possibilità per parlarci, quindi perché indugiare? << Ti amo… e almeno su questo non hai potere decisionale, Ville. Pensavo di essere qualcosa di diverso che allegro svago notturno, però… beh, mi sono sbagliata. >>. Un singhiozzo forte rompe la frase e le impedisce di terminare. Non dice “addio”, per lei non è finita, sono io che le ho sbattuto la porta in faccia. Fa un mezzo cerchio su se stessa, e così com’è entrata, se ne va, lasciandosi dietro un profumo d’oceano che mi rammenterà per sempre lei.
 
 
Adesso fa male, non un dolore insopportabile, so di averla perduta e, in un certo senso, mi ero affezionato a lei, più come un’amica che come un’amante. Il non rivederla più, mi rattrista.
Non ho il tempo di rimettere i pensieri al loro posto, ad abituarmi al nuovo e perentorio cambiamento, che Linde entra nello studio di registrazione, ha l’espressione sorpresa, come se si fosse scontrato con una donna in lacrime che conosce, correre via disperata. E forse è proprio ciò che ha visto.
 
 
<< Era Irina, quella? >>. Il pollice indica un punto impreciso alle spalle, mentre si richiude la porta alle spalle e si avvicina alla chitarra. Non la prende in mano, si siede sullo sgabello.
 
 
Mugugno parole senza senso, non ho voglia di parlarne, non ho bisogno di sentirmi dire castronerie, che ho sbagliato, che devo avere giudizio, che invaghirsi di una ragazza più giovane non è la giusta tattica per un’anticipata crisi di mezz’età. Le battute di spirito non sono ammesse.
 
 
<< Non è un buon momento? >>, interroga retorico. Capisce che non è aria, che è meglio se ci occupiamo di musica e scadenze da rispettare, è meglio lasciarmi perdere e se potessi, mi lascerei perdere anche io.
 
 
Mi seggo sul tappeto persiano, accanto alla scacchiera ferma in una partita a metà con Burton, poi mi sdraio e fisso il tetto color legno chiaro. Porto le braccia dietro la testa.
<< Che c’è che non va in me? >>, domando ad un Linde impreparato ad una conversazione intrinseca sulla complicazione del mio essere e del mio esistere. << Perché non posso essere come gli altri uomini di quarant’anni? Magari una moglie, dei figli, un lavoro più normale… e non questo perenne vuoto che mi assorbe? Mi alzo al mattino senza una ragione, non ho sogni, non ho obiettivi. Faccio le cose meccanicamente e non per una ragione precisa. >>. Non riesco a spiegare cosa provoca la voragine nel petto, che non accenna a richiudersi e può solo che allargarsi.
 
 
Il chitarrista ascolta in un silenzio assorto, interpretando le parole e i significati reconditi, dietro di esse. Di solito queste confessione le lasciamo a quando siamo ubriachi fradici e non da sobri e alle dieci del mattino.
<< Ville… >>, pronuncia il mio nome con quel tono da psicoanalista che prova a mettere ordine, lì dove esiste solo un caos perpetuo. << Non è detto che non essere come gli altri uomini, sia necessariamente un male. Che non essere sposato e privi di prole, sia sbagliato. Ho sempre pensato che le persone con una sensibilità differente dagli altri, fatichino a relazionarsi con chiunque. Pensaci un momento, non sei solo, sei selettivo e non vedo un grosso errore in questo modo da fare. Gli artisti privilegiano la solitudine, specialmente tu, che hai bisogno di stare per conto tuo a creare, devi metterti in contatto con la parte di te che di solito emerge in occasioni particolari, invece tu devi saperla fare emergere a comando, spremendola fino all’esaurimento. >>.
 
 
Intreccio le mani tra i capelli, portandoli tutti indietro, in un gesto di disperazione.
<< Perché, io che canto dell’amore, non riesco a dare amore? Perché faccio tutta questa fatica? >>.
 
 
<< Per lo stesso motivo. Tu, basilarmente, ti nutri di emozioni, le divori e ne vuoi di più profonde: non ti accontenti. Hai bisogno di qualcuno che ti emozioni tutti i giorni, non di finzioni che ti annoiano. Ognuno ha un modo diverso di amare, non siamo tutti uguali sotto questo punto di vista. Magari io ho trovato chi mi dava le emozioni di cui avevo bisogno, ed ho trovato la pace… forse la tua ricerca non è ancora terminata, ma non è detto che dipenda da te o che tu sia sbagliato. >>. Mi sembrano gli stessi discorsi di quando eravamo giovanissimi, solo che a quel tempo le ragazze mi respingevano, non ero io a cacciarle. << Tu hai bisogno di una donna che accende il fuoco che hai spento. >>.
 
 
“Fuoco”, si ripete nella mente e trovo buffo che abbia scelto proprio quella parola, perché l’unica donna che posso associare al fuoco è solo lei. Amelia. Colei che sembra nata dal fuoco dell’inferno, con fiamme corvine che le brillano negli occhi cangianti. Basta il pensiero per provocare una reazione imprevista, come di una morsa dolorosa che si chiude nel petto e, che Dio mi abbia in gloria, sono contento di saggiare quella sofferenza, che rischia di schiacciarmi.
Migé si è tenuto per sé la novità, altrimenti Linde ne avrebbe parlato liberamente e chiesto ragguagli.
 
 
<< E se non volessi? Se volessi stare solo? >>.
 
 
Schiocca la lingua al palato, ora sorpreso.
<< Sei tu che parli o la paura di ricaderci di nuovo? Non è detto che debba sempre andare a finire male, forse la prossima persona che incontrerai ti amerà a prescindere di tutto e tutti e la smetterai di fuggire. >>.
 
 
Ruoto la testa verso di lui, non avevo interpretato la questione sotto questo punto di vista. Forse è tale motivo che, benché Amelia mi piaccia, la mente la respinge a priori.
<< Da quanto sto fuggendo? >>.
 
 
L’espressione si alleggerisce, la chiacchierata all’inizio interiore, diventa quella tra due vecchi e buoni amici.
<< Più o meno da quando hai iniziato ad usare Irina per tenere le altre lontane. Hai creduto che ti bastasse solo qualche nottata divertente saltuaria e nulla di più, ma tu, più degli altri, hai bisogno di amore. >>. Poi sorride affabile. << Devo presumere che queste domande hanno un fine logico? Lei chi è? >>. È stupido pensare che, dopo quasi trent’anni d’amicizia con Linde, io possa nascondere segreti alla sua spiccata intelligenza.
 
 
<< Lasciamo stare. Migé ha già preso male la novità, tu mi daresti del deficiente patentato. >>.
 
 
Scrolla le spalle, rovista nei jeans e ne estrae il cellulare.
<< Io ti considero già un deficiente patentato. Comunque, perché dovrei avvalorare la tesi? >>. Nessuno riesce ad offendere gentilmente, come fa Linde, fa quasi paura.
 
 
<< È straniera. >>, dico, per rimandare il più possibile il peccato.
 
 
<< Anche Irina lo era. >>, rammenta, conscio che non è quella la bomba che mi tengo stretta.
 
 
Messo alle strette, sbuffo sonoramente.
<< Ha quindici anni meno di me. >>, rivelo alla fine, mi aspetto che reagisca come Migé, invece si chiude in un silenzio serafico, che quasi mi spaventa. Lui, al contrario del bassista, preferisce tenersi lontano dalle mie conquiste e le conosce solo se obbligato.
 
 
<< Credi abbia abbastanza maturità da poterti dare ciò che tanto cerchi? >>. Non commenta la mia scelta o l’età, si concentra su un diverso aspetto della vicenda.
 
 
Dal suo modo di affrontare l’argomento Irina, senza dare di matto o fare scenate tragiche, non credo sia questo il problema principale.
<< Mi domando se sono io abbastanza maturo per darle ciò che merita. >>.
 
 
Linde inarca un sopracciglio, una luce di stupore gli attraversa le iridi chiare. Poche volte l’ho visto sbalordito.  
<< Addirittura? Siamo già a questo punto? >>.
 
 
Mi stringo nelle spalle.
<< Non siamo a nessun punto, Linde. Penso che sia una ragazzina, che se dovessi comportarmi come ho fatto con Irina, non sono certo che… >>, sospendo la frase sconcertato e intanto che cerco una spiegazione ai pensieri enigmatici, capisco che non ho paura che sia io a stancarmi di Amelia, ma il contrario, capisco che ho paura di restare fregato, di arrivare al punto del non ritorno e finire come una merda pestata. Sarebbe ciò che merito, dopo aver fatto del male ad Irina, lo so, ma ho un terrore fottuto, perché è già accaduto in passato.  
 
 
<< Una donna che ti scatena tale reazioni intrinseche, vorrei proprio conoscerla. >>, è divertito da come la mia espressione contraddice le frasi. Usa la parola “donna” non a caso. Se esiste una persona in grado di provocarmi un simile terremoto interiore, non deve essere una persona qualunque.
 
 
<< Vorrei conoscerla anche io. >>, sussurro attonito da me stesso.
 
 
Si sporge per darmi una pacca al braccio, recupera le sigarette e dopo il discorso profondo, ha bisogno di una pausa.
<< Dipende solo da te, Ville. Puoi decidere se dare una possibilità a questa donna e fermarti o continuare a correre e restare solo dentro. >>.
 
 
Presto o tardi avrei dovuto prendere una decisione, anche se ciò che desidero adesso è potermi scavare una fossa e sotterrarmi il più velocemente possibile, per non dover scegliere.










Note:
Dopo un'eternità rieccomi di nuovo! Chiedo immensamente scusa, ma ho avuto un mare di cose da fare. 
In meno di un anno ho cambiato casa due volte e il trasloco mi ha portato via un mare di tempo. Però nuova casa, nuovo angoletto dove scrivere e pubblicare e quindi eccovi il capitolo di ottobre. 

Visto che purtroppo ho ancora un miliardo di cose da fare, l'angolo dell'autrice questo mese sarà povero, lascio a voi domande e commenti. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 
 

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Capitolo 7
*** Più male di quanto riesca a sopportare ***


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7.
*
Più male di quanto riesca a sopportare *







 
Palla verde in buca d’angolo e perdo la terza partita di seguito.
Amelia saltella contenta, come una bambina davanti ad un regalo inaspettato. La sera che aveva stracciato i suoi amici a biliardo, non era stata solo la fortuna di una volta: è davvero brava.
 
 
<< Battuto da una donna. >>, commento sarcastico, gettando vinto la mazza sul tavolo verde. È la prima volta che mi capita di perdere, specialmente contro una ragazzina che ha l’aria di non sapere  neppure cosa sia il biliardo, figuriamoci stracciarmi.
 
 
Batte le mani, gira attorno al tavolo per raggiungermi.
<< Andiamo Valo, non fare il maschilista petulante ed accetta la sconfitta con dignità. >>. Mi viene davanti e mi dà un leggero buffetto sul mento ispido. << E poi chi te lo dice che io sia una donna, magari ho il pacco regalo, anziché il tubero. >>. È da stamattina che si diverte a mie spese, non sono molto reattivo se vengo buttato giù all’alba da una colica a causa di cibo scaduto, che credevo sarebbe tornato buono solo cucinandolo.
 
 
Inarco un sopracciglio, non le riesco a stare dietro, sto ancora dormendo.
<< Il tubero? >>, faccio eco, sbadigliando e stropicciando il naso. Credo di essermi raffreddato, grazie a Migé che mi fa aspettare ore, prima di venire a prendermi con la macchina allo studio di registrazione. 
 
 
Schiocca le dita sotto il mio naso.
<< La patata! >>, strepita e si sono girati perfino fuori dal bar, per l’esclamazione che mi ha perforato i timpani. << Terra chiama Valo, Terra chiama Valo. C’è nessuno in casa? Non c’è gusto a prenderti in giro, se non reagisci. Ti vedo distratto. Devi offrirmi da bere su. >>. Ha l’aria turbata, la nasconde con maestria, ma so che la spaventa l’idea che io ci abbia ripensato su noi due, che voglia tirarmi indietro.
Non sa ancora che ho scelto di frequentare esclusivamente lei. Sono curioso della reazione, dato che non si comporta come le altre donne.
 
 
Afferra il bavero della mia felpa e, come se fossi un cagnolino scodinzolante, mi trascina al bancone.
<< Due birre. >>, ordina spigliata, sedendosi agile sullo sgabello.
 
 
Prendo posto dinanzi a lei, le ginocchia sfiorano le sue.
<< Facciamo due caffè eh, visto che l’altra volta hai dato di matto peggio del solito. Non oso pensare a cosa ti inventi stavolta se perdi la bussola. >>.
 
 
Tira la bocca da un lato, sfodera un sorriso malizioso, gli occhi vengono inondati da pensieri perversi, di cui sono il sommo protagonista.
<< Dì un po’, Valo, hai paura che possa abusare di te? >>.
 
 
Sospiro paziente, poggio il braccio sul bancone e ticchetto le dita sulla superficie lucida.
<< Come mai finiamo a parlare sempre di sesso, io e te? >>. Con tutti gli argomenti esistenti da trattare, l’epilogo è l’identico ogni volta. Non che mi dispiaccia, ma sembra un modo per tenersi lontana da domande personali.
 
 
Scrolla le spalle, ravviva il caschetto e si morde il labbro inferiore.
<< Non lo so, ispiri cose strane. >>, ammette, senza vergogna. Non teme di essere sincera, è come se volesse esattamente farmi sapere cosa pensa.
 
 
Il ragazzo del bar ci serve i due caffè, lei si fa scaldare del latte e poi lo innaffia con una bustina di miele. Ha gusti particolari.
 
 
<< Però se mi avvicino troppo, mi respingi. >>, faccio notare.
 
 
<< Ci siamo baciati nella chiesa. >>, mi ricorda, nemmeno voglia compensare il fatto che mi tratti come se avessi una malattia contagiosa.
 
 
<< E stamattina mi hai salutato, come se fossi tuo fratello. >>.
 
 
Increspa le sopracciglia e scoppia a ridere a crepapelle.
<< Fammi capire una cosa, se parlo di sesso ti imbarazza, ma se non ti salto addosso, ti scoccia. Non sei molto coerente con te stesso, ti pare? >>.
 
 
Bevo un paio di sorsi di caffè, zuccherandolo fin quando il sapore non è gradevole.
<< Non ho mai detto che mi imbarazza. >>, replico, stupito di aver dato tale impressione. Però ci ha preso nuovamente, non so se sia più colpa sua o mia, che confonde la coerenza.  
 
 
<< Parliamoci chiaro Valo, io non so niente di te. So solo che abiti in una torre come Raperonzolo, la notte ti lagni come una cicala, vai in giro con una bicicletta scassata e non hai il campanello di casa. >>.
 
 
Annuisco un paio di volte, assumendo espressioni buffe.
<< Direi che mi hai descritto bene. >>.
 
 
<< Però non so nient’altro, magari sei uno stupratore seriale ed io sono la tua prossima vittima. >>.
 
 
Sogghigno appena.
<< Ma non erano gli uomini ad avere il sesso piantato in testa? Comincio ad avere dei dubbi. >>.
 
 
Accavalla le gambe snelle e la gonna, già corta di suo, sale di qualche centimetro.
<< Te l’ho detto: forse sono un uomo. Però continuo a non sapere niente di te, che fai nella vita? >>.
 
 
Mi scappa da ridere, è così strano parlare con una persona che non sa che lavoro faccio, solitamente la gente si avvicina a me proprio per questo.
<< Canticchio in una band musicale. >>, la butto lì, senza approfondire l’argomento.
 
 
Boccheggia incredula, trasalendo sulla sedia, non riesce a stare ferma.
<< Vuoi dire che sei un vocalist? E dimmi, com’è che si chiama la tua band? Magari ho sentito qualcosa di vostro. >>.
 
 
Scrollo le spalle, è strano, non ne voglio parlare, la parvenza di normalità che c’è tra di noi deve restare tale. Se cambiasse il modo di vedermi, romperebbe la magia creatasi.
<< Più che lavoro faccio, secondo me c’è una cosa più importante da trattare. >>.
 
 
Batte le palpebre, ci pensa su per un po’, tuttavia niente di così fondamentale le viene in mente.
<< E cioè? >>. Lecca oscenamente il cucchiaino sporco di miele e il gesto naturale, mi deconcentra e non poco. << Se vuoi parlare ancora dell’altra donna, ti ho detto che non sono gelosa. >>, e mentre dice ciò, distoglie lo sguardo. Non è la prima volta che lo fa: sta mentendo. Altrimenti fa incessantemente l’amore con i miei occhi e non accenna a smettere.
 
 
<< Non c’è nessun’altra donna. >>, ammetto, sperando di farla felice. Se lo è lei, lo sono un po’ anche io.
 
 
Amelia fissa un punto preciso nel vuoto e si morde il labbro inferiore, pur di non far affiorare il sorriso vittorioso.
<< E cosa ti ha spinto a farlo? >>. Ora mi fissa, anzi no, mi divora, ha quello sguardo misterioso, sensuale e pericoloso, che diventa affilato come un cacciatore che scova la preda, deciso a ingurgitarla lentamente.
 
 
<< Non mi piace tenere due piedi in una scarpa, tutto qua. >>.
 
 
Tira un calcio potente agli stinchi.
<< Hai il romanticismo di un pinguino ibernato, Valo. Mamma mia, che pelandrone che sei oh! Hai detto di essere un cantante, perché non ci metti un po’ di poesia in quello che dici? >>.
 
 
Massaggio la parte dolente, nessuno mi aveva mai accusato di mancare di romanticismo, considerando quanto ne metto nelle canzoni che scrivo.
<< E che cosa dovrei dire? Che mi massacri di botte, appena apro bocca?!? >>.
 
 
Di getto arriva a due centimetri dalla mia bocca, annego nelle spighe di grano che ha negli occhi, sembra un sole che mi splende addosso. Il respiro batte prepotente sulla bocca dischiusa e quasi mi aspetto che faccia o dica qualcosa che farebbe partire in quinta l’eccitazione. Sono vigile e lucido.
 
 
<< La verità. Io, almeno, sono sincera. Tu inventi un sacco di balle, per nascondere l’ovvietà. >>, la voce è provocante, modulata, soffice, volta a stregare. E mi accorgo che sono finito nella tela del ragno, se cercassi di liberarmi, sarebbe peggio.
 
 
<< E cioè? >>.
 
 
<< Che ti piaccio, altrimenti perché lasciare del sesso sicuro, per una che a malapena ti bacia? >>. Si appoggia sulle mie cosce, per trovare equilibrio… ed è sciocco da parte mia, credere che lei abbia bisogno di me, per avere un equilibrio stabile, quando è l’esatto contrario.
 
 
<< Vuoi che giochi a carte scoperte? Non toglierebbe il romanticismo questo? >>. Non so più cosa sto dicendo, voglio baciarla e pregusto il sapore nella bocca.
 
 
<< No, giocare a carte scoperte, quando qualcuno ti piace, è sinonimo di fiducia, vuol dire che non hai bisogno di giochetti, strategie o cavolate varie, per fare il gradasso. Giocare a carte scoperte, significa che hai smesso di perdere tempo in futilità e invece usi il tempo che ti resta nel fare sul serio. >>. Sono turbato, confuso, preda di un incantesimo, un preludio di amore nero che se mi coglie, mi dannerà per l’eternità. La testa mi gira o forse è il bar a ruotare vorticoso attorno a noi. Si è accostata al muro che difende il mio cuore e so che è prossima a sfondarlo.
 
 
Blocco il mento tra il pollice e l’indice, non resisto oltre, ma lei scaccia via la mano e mi fissa con un’intensità che potrebbe uccidermi sul colpo. I suoi occhi hanno preso di nuovo fuoco e mi stanno ardendo sulla pira mortale di un sentimento che è la mia nemesi.
 
 
Le labbra umide si schiudono, credo che stia per baciarmi, invece mi imbroglia e si addossa all’orecchio. Mi è quasi a cavalcioni.
<< Ti devi innamorare. >>, annuncia lentamente, come una sentenza di morte. È velluto corvino che mi lambisce, è il diavolo che vuole l’anima e firmo il patto con il sangue. << Ti deve stringere un amore malsano che ti squarcia le budella, passione disperata, peggio di una malattia. Ti devo entrare nella testa, sfondarti il cuore, avvelenarti l’anima. >>. Le parole penetrano sotto la pelle, attraversano inesorabili i muscoli, spezzano le ossa ed intossicano il sangue e, mentre ancora sta sancendo le clausole del nostro trattato, capisco che ad ogni punto ci sto giungendo velocemente, come se mi fossi seduto per sbaglio su un ripido scivolo e dopo una spinta, stessi andando giù spedito.
 
 
Deglutisco turbato, tiro indietro la testa e fisso gli occhi spietatamente procaci. Non ho la forza di replicare.
 
 
<< È così che funziona con me. Sei ancora in tempo a tornare indietro, Ville. >>, pronuncia il mio nome come se avesse appena avuto un orgasmo sconvolgente, il desiderio espresso che le imperla la bocca.
 
 
Siamo due personaggi eccentrici di un romanzo scritto male, io non propriamente il canonico protagonista pieno di buone intenzioni, sentimenti puri e un cuore colmo di bontà. Parto già in un cumulo di errori imperdonabili, egoismo senza fine e desiderio fisico che copre ogni altro pensiero.
E lei, non è paragonabile a nessuna, mi farà del male, ci faremo del male e più ce ne faremo e più il filo che inizia a stringersi attorno a noi, diverrà robusto ed inossidabile. Non voglio questo rapporto e al contempo, lo bramo con ogni fibra del mio essere.
 
 
Volevo parlare dell’età che ci divide, come di un problema insormontabile, ma adesso non mi sembra più che sia l’incertezza principale, ho davanti a me una creatura libera, che segue l’istinto, passione impura, nessun tabù, promette di farmi toccare vette che non ho mai esplorato, più pericolosa di una droga… ne sono fortemente attratto e il mio corpo non lo nasconde.
L’erezione preme, soffocata dai jeans e dalla posizione scomoda.
Capisco che è sempre stata lei a tenere le fila del rapporto, intanto che mi illudevo di avere il controllo.
Non è amore ciò che provo, è smania che contorce lo stomaco in posizioni disparate, sto ardendo dall’eccitazione, ho fitte di schietta voglia che mi risalgono dal basso ventre ed esplodono in spasmi bollenti nella pancia. Non voglio solo possederla nel corpo, voglio arrivare fino all’anima, nell’antro tenebroso da cui è partita la stessa oscurità che mi ha gettato addosso.
 
 
La saliva azzerata, ho della carta vetrata nella gola.
<< Non voglio tornare indietro. >>. Ecco, ho firmato, non c’è più alcuna redenzione per me, non che ce ne fosse prima. Ora saranno solo fiamme dell’inferno e basta.
 
 
<< È cos’è che vuoi? >>. Mefistofele non ha finito di tormentare, ha ancora in serbo terrificanti sorprese.
 
 
<< Fare l’amore con te. >>, confesso in un fil di fiato, socchiudo le palpebre, ho la testa che scoppia, il corpo che reagisce ad ogni sorta di stimolo, anche un sospiro è adescatore. Spasimo che mi tocchi, che allevi lo strazio che ha infervorato e, se fosse d’accordo, ci potremmo benissimo rinchiudere nel bagno del bar per ore, se non giorni o anni. Non so se riesco a saziarmi.
Di nuovo la bocca mi respira addosso, sono un fremito, tremo. Trentanove anni di intelligenza, numerosi libri letti, concetti sostanziali, discorsi ragionevoli, tanto criterio, astuzia e sagacia, buttate nel cesso in un solo istante, per colpa di una ragazzina che ha capito come giocare con la mia mente.
 
 
<< E invece sono io che ti dico di no. >>, annuncia perfida, ed è come se mi gettasse un secchio di acqua gelata nell'intimo, che, anziché smorzare il fuoco, lo fa divampare. Non è acqua gelata, è benzina. Le sgrano gli occhi addosso, sono un misto tra lo sconcerto, l’incazzato nero e incredulità.
 
 
Salta giù dallo sgabello, rovista dal giacchetto nero, tira fuori un euro e me lo lancia. Lo afferro per un pelo.
Sto per chiederle dove cazzo sta andando, mi anticipa.
 
 
<< Ho un altro appuntamento. >>, comunica, sistemandosi le pieghe stropicciate della gonna. << Voglio capire se ne vale la pena oppure no, tenere un piede in due scarpe. Tu hai detto di no, vero? >>.
 
 
È un baleno, intuisco che sta andando verso il moccioso che le ronza attorno come merda con le ali. Affermare di essere furioso, è un sottile eufemismo, specialmente dopo la pantomima che ha inscenato, per farmi capitolare. L’afferro per un polso, strattonandola malamente.
Non dice una parola, ma le sto facendo male, è indubbio.
 
 
<< Geloso, Valo? >>, sibila, bella e maestosa come un cobra velenoso.
 
 
<< Non giocare, ragazzina. Potresti farti molto male. >>, calco la parola “molto” in una cristallina minaccia. Non le conviene fare simili trucchi, posso essere un uomo sgradevole e cattivo.
 
 
<< È quello che voglio. >>, conclude, si libera dalla presa ferrea e, senza voltarsi mai, se ne va dal bar. << Voglio farmi del male, molto male. >>.
 
 
Mi sento un perfetto coglione, osservo l’entrata neppure spero che torni indietro. Non accade. M’ha fregato, ci sono caduto con tutte le penne: sono un pollo.
 
 
<< Donne come quelle portano guai. >>, commenta saggio il barrista, intanto che asciuga i bicchieri lavati. Non ha capito di cosa stavamo parlando, visto che stavamo usando l’inglese, ma non ci vuole di certo un genio per giungere alle giuste conclusioni. << Fossi in te, le girerei alla larga. >>.  
 
 
Ha ragione lui, benché sia più giovane ed inesperto di me, ha centrato il punto. Facile parlare per chi non si trova nel cuore del ciclone, facile giudicare, facile consigliare sul da farsi, mentre l’unica cosa che vorrei adesso è commettere un duplice omicidio.
E cazzo… sono geloso! 










Note: 
Trasloco finito, finalmente posso ricominciare ad aggiornare con un capitoletto al mese. 
Mi piace molto come è uscito fuori questo capitolo, rileggendolo prima di pubblicarlo, credo di essere riuscita a trasmettere ciò che speravo. 
Povero Valo, per una volta non è lui ad ammaliare, ma è finito esattamente nella tela di un pericoloso ragno. Insomma, prima era lui ad avere un piede in due scarpe, adesso gli tocca essere geloso, in attesa che Amelia smetta di giocare con la sua mente e il suo cuore ed inizi a fare sul serio. 

Mi piacerebbe molto leggere cosa ne pensate di questo capitolo, di quelli precedenti e della storia in generale. 
Ce la sto mettendo tutta, spero possa piacervi l'andatura della storia. 

In questo capitolo, c'è un piccolo tributo ad un film che amo molto. 
La frase di Amelia: "Ti devi innamorare. Ti deve stringere un amore malsano che ti squarcia le budella, passione disperata, peggio di una malattia. Ti devo entrare nella testa, sfondarti il cuore, avvelenarti l’anima." E' una rivisitazione personale, a cui ho dato un tocco diverso, della frase pronunciata da Giancarlo Giannini nel film "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto". Un film che che consiglio di guardare per chi è amante delle emozioni d'amore forti. 
Mi cade sempre una lacrima alla fine. 

Beh detto questo, attendo speranzosa i vostri commenti. 



La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 

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Capitolo 8
*** Cercherò nei tuoi segreti, la speranza di un amore ***


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8.
*Cercherò nei tuoi segreti, la speranza di un amore*








 
La mia vita si divide principalmente in quattro parti fondamentali:
Mi alzo. Incazzato. Anche se non è che dormo un granché.
Fumo. Incazzato. Ormai ho due pezzi di carbone al posto dei polmoni.
Sopravvivo incazzato. E poi incontri gente che ti fa venire voglia di suicidarti per il ribrezzo.
Mi incazzo.    
Sì beh, canto anche, però lì non devo incazzarmi, almeno quell’aspetto va come dico io e non interferisce nessuno, non ho cagamenti di palle. E soprattutto non è un’attività che nuoce alla salute.
 
 
Poi ho incontrato Satana travestito da impertinente ragazzina tentatrice e tutto, l’alzarsi, il fumare, il sopravvivere e l’incazzarsi non è nulla se paragonato all’effetto nocivo e deleterio, che mi provoca quel diavolo infernale che sorride perfino delle sue malefatte.
Ho ancora un po’ di amor proprio conservato da qualche parte, dopo il danno e la beffa, non ho alcuna intenzione di chiamarla, parlarle o cercarla. Il comportamento da bambina immatura, che cerca il brivido del tenere un uomo adulto al guinzaglio, non è una soddisfazione che le darò, né ora e né mai.
 
 
<< Certo che, se io parlo per due ore e tu non mi ascolti, non è che faremo dei grossi passi avanti, fratello! >>. Jesse sta raccontando del nuovo Cd dei Vanity Beach su cui sta lavorando con Jonas. Vuole un mio parere, ma se fatico anche a seguire il filo del discorso, figuriamoci se sono di una qualche utilità sull’argomento. Ho momentaneamente interrotto anche la composizione della canzone chiave, per la nona fatica degli HIM.
Sono utile come un cactus nel deserto. Ho lo “scazzo” a livelli biblici.
 
 
La forchetta gioca con il contorno rimasto nel piatto, non ho più molto appetito, un senso di amarezza brucia alla bocca dello stomaco, la rabbia è l’emozione che ne fa da padrone oggi. Vorrei sfogarmi, ma, per mia somma sfortuna, ho lasciato andare l’unica valvola di scarico. Chiamare Irina per “ehi, ce la facciamo una scopata?” suona di cattivo gusto perfino per i miei bassi istinti.
La bicicletta è fuori discussione: la neve arriva alle ginocchia.
 
 
Getto malamente la posata nel piatto, fa un rumore che scuote i nervi. Teso come una corda di violino, avrei bisogno di un consiglio e non di una ramanzina, che cerchi di riportare un pezzetto di buon senso nei sentimenti.
Che poi, che sentimenti sono? Che provo? Vorrei strangolarla e al contempo iniziare una storia che sia tale, senza giochetti, sotterfugi o cavolate varie. Ero sincero nel dire che volevo fare l’amore con lei, mentre lei voleva solo farmi arrivare al punto di farmelo confessare. Se è la gelosia che desidera che io assaggi, c’è riuscita e sono furioso specialmente per questo.  
Dovevo chiamarla sul serio la polizia quella notte, ed evitarmi dolori al fegato o gastriti croniche.
 
 
<< Si può sapere che ti prende? >>. Non solo ho l’umore che è peggio del tempo in primavera ad Helsinki, ma sto anche rovinando l’uscita a pranzo con mio fratello. Già possiamo vederci relativamente poco, poi faccio pure l’asociale e tra poco ho un incontro con Seppo. << Assomigli ad una donna in fase premestruale! >>.
 
 
Affloscio le spalle sulla sedia, il ristorante è semideserto, quelle poche persone che chiacchierarono sono fastidiose.
<< Lascia stare, che è meglio! >>. Non è aria, lo si capisce dal mio non riuscire a stare fermo in una posizione per più di tre secondi. << Ha ragione papà: grande, grosso e coglione! Me li vado a cercare i guai, porca miseria! >>.
 
 
Aggrotta le sopracciglia, curva la bocca e puntella i gomiti sul tavolo. Smette di mangiare, si preoccupa e devo addossarmi anche la colpa di angustiarlo.
<< In che guaio ti sei cacciato? >>. Vuole aiutarmi, ogni altro dilemma passa in secondo tempo.
 
 
Inspiro profondamente, sbuffo, sarebbe meglio affogarsi nel fumo.
<< Hai presente… “tutte le pazzi le becchi tu, neppure avessi un radar?”. >>, imito perfettamente la sua voce, replicando la frase preferita per giudicare le mie ex.
 
 
<< Un’altra che voleva tagliarti i capelli, mentre dormivi? >>, prende in giro, anche se non condivido l’umorismo, un sorriso alleggerisce il peso sul petto.
 
 
<< Forse era meglio. >>. Sono frustato, incazzato e pure deriso: lo zimbello di tutti. Non lo tollero!
 
 
<< Credevo che Irina fosse piuttosto calma. >>, ipotizza, l’espressione sul mio volto gli fa capire che non è di Irina che stiamo parlando. << C’è un’altra? >>, boccheggia stupito, dalla velocità con cui rimpiazzo le persone. Però io non rimpiazzo nessuno, Irina, a suo modo, ha lasciato un posto vuoto dentro me, che non verrà più colmato.
 
 
<< Sono fregato >>, e finalmente lo dico ad alta voce. Sono bloccato in una specie di limbo, Amelia mi piace, però il suo atteggiamento mi da’ i sui nervi. Coinvolto sentimentalmente da non volerla lasciare andare, però la maniera in cui mi tratta, mi fa desiderare di mandarla al diavolo. Ed è quella l’intenzione.
Bella, forte, ma se non porta rispetto e non ispira fiducia, non ho nulla da spartire. Niente sconti di pena per nessuno.
 
 
<< Ahi! >>, è l’unica risposta che posso sperare. << Ti tiene per le palle? >>.
 
 
<< Qualcosa del genere. >>, borbotto rassegnato, faccio a pezzi la tovaglia bianca. << Ho lasciato Irina per lei. >>.
 
 
La mimica cambia, raddrizza la schiena e fa un sorrisino compiaciuto. Non gli stava bene la strana relazione con Irina.
<< E perché non glielo dici? >>.
 
 
Ho perso il filo del discorso.
<< Cosa? >>.
 
 
<< Che ti piace. Che hai preferito lei a tutte le altre. Che vuoi lei… perché è questo problema, giusto? Le donne sono fatte così, vogliono sentirsi dire le cose belle, vogliono essere le prime, vogliono sentirsi amate e apprezzate. >>, spiega e capisco in un lampo la vendetta maligna perpetuata ai miei danni da parte di Amelia, nel bar. È stata subdola nel non ammettere che la gelosia la divorava, preferendo farmela pagare nel peggiore dei modi.
Per un consiglio avrei dovuto parlare prima con mio fratello… chi può capirti meglio del tuo sangue?
 
 
Schiocco la lingua al palato, la mente si rifiuta di farle una simile confessione.
<< Ha più ego di quanto ne ho avuto io in trentanove anni. >>.
 
 
Controlla l’orario sul cellulare, è in ritardo: aveva un appuntamento dopo pranzo. Non ha più tempo per chiacchierare con me: è stato più utile di quanto pensassi. Ci salutiamo velocemente, le nostre vite non ci permettono di possedere un’esistenza normale, a volte desidero mollare tutto e ritirarmi a vita privata.
Ho abbastanza soldi per commettere una simile pazzia.  
 
 
Il ristorante non è lontano dalla torre, faccio quattro passi a piedi, sgranchisco le gambe, schiarisco le idee. Magari una vacanza prima che il nuovo Cd mi travolga con la promozione, interviste e tour, sarebbe l’ideale. È ciò che faccio ogni volta.
Passo dall’agenzia di viaggi, prendo un catalogo e lo sfoglio, mentre torno a casa. Ho il naso tra le pagine, sono assorto, ci sono mete che mi piacerebbe tornare a visitare con calma, rigorosamente da solo, come sempre e non mi accorgo la persona che mi spunta davanti e che quasi travolgo.
 
 
La conosco.
È l’amica di Amelia, la ragazza che era al Corona Bar con lei e che era venuta a cercarla. Ha le braccia conserte, furibonda.
Gli occhi nocciola sprizzano fulmini contro di me. I lunghi capelli castani sono legati in un’alta coda di cavallo, indossa abiti corvini, semplici, una t-shirt con teschi, jeans e converse.
Non ha un’aria amichevole.
 
 
<< Ville. >>, pronuncia il mio nome con ribrezzo, lo riempie di frustrazione e ira. Ha ben in mente che è me che cerca e non qualcun altro: mi stava aspettando davanti casa. << Sei il tipo che sta frequentando Amelia. >>. Non sono domande, conosce la faccenda per filo e per segno, non è una visita di cortesia questa e non le frega un fico secco di essere maleducata. Il suo inglese è più fluente, sicuro e marcato.  
Che impeto queste Italiane!
 
 
<< Quando non si diverte a giocare come il gatto fa con il topo… forse. >>. Il gatto non è il mio ruolo. Sono prevenuto, sarcastico e tagliente. Infilo le mani in tasca, blocco il catalogo sotto il braccio, cerco le chiavi in fretta, quest’incontro inaspettato non mi piace.
 
 
<< Senti coso, fai meno lo spiritoso, altrimenti ti spezzo la noce del collo prima che batti ciglio. >>, minaccia e fa sul serio. Non ha alcuna voglia di scherzare o perdere tempo.
 
 
<< Deve essere tipico delle Italiane, menare le mani. >>. Faccio per superarla, ma lei mi si para davanti, ho la netta impressione che non mi lascerà andare fin quando non avrà terminato con il terzo grado.
 
 
<< Pure razzista, oh! >>.
 
 
Mi scoccia che un’estranea si infili nei miei affari. Forse, così come ho raccontato tutto a Migé, Linde e mio fratello, anche lei si è sentita sicura nel rivelarlo alla sua amica.
<< Taglia corto, tesoro: ho da fare. >>.
 
 
L’espressione perde un po’ di grinta, sta per dire qualcosa che non mi farà dormire stanotte e su cui mi scervellerò per giorni. Me lo sento.
<< Tu non conosci Amelia. >>, inizia e mi accorgo che non voglio ascoltarla, che preferirei essere sordo, che nessuno dovrebbe interferire con la mia privacy. La loro giovane età mi preoccupa. E se fosse una strategia per farmi commettere un passo falso e vendermi con i giornali? Altre pressioni non le tollererei!
 
 
<< E non mi interessa neanche farlo. >>, congedo, ma lei insiste, afferra il mio polso per far sì che la stia bene a sentire.
 
 
<< Ma voi uomini che problemi avete? Chiudi la bocca e apri le orecchie! Tu non conosci Amelia. >>, ripete.
 
 
<< L’hai già detto. >>, faccio notare scocciato.
 
 
La ragazza prosegue, evitando di ricoprirmi di insulti ed è davvero vicina a farlo. Ha l’aspetto di una persona che, se non sto zitto, è capace di strapparmi la lingua.
<< Ci tiene a te. >>, e lo dice con una tale intensità da farmi rabbrividire. << Ci sono cose che non puoi capire, che non ti posso dire e che non sono in diritto a dirti. Se sarà il momento, Amelia stessa te le dirà. >>. C’è un segreto che mi tiene nascosto, un segreto che Amelia stessa mi tiene nascosto e non è un segreto da sottovalutare. Non si tratta di stupidaggini legate al mio mondo, è qualcosa che non ha a che fare con me, esclusivamente con lei.
Dietro ai comportamenti ambigui di Amelia, esiste una ragione ben precisa. È come se fosse un’anima tormentata affine, che esterna la propria dannazione in maniere differenti dalle mie, ma uguali.
 
 
<< C-che vuoi dire? >>. Perché la voce deve essere improvvisamente balbettante, come quella di un’idiota?
 
 
<< Ci tiene davvero a te, Ville, ci tiene… e non ti posso spiegare perché. Spegni le sue sofferenze, ne sta passando veramente tante e so che sei speciale per lei. Potresti aiutarla, come lei potrebbe aiutare te. >>.
 
 
Per un singolo, lungo ed interminabile secondo, lascio che le parole enigmatiche, che alimentano speranza, mi incantino, ma non posso dimenticare quanto bruciante sia la delusione e il tiro basso che mi ha tirato. Annego nell’orgoglio maschile.
 
 
<< Se sarà lei a venirmelo a dire e a chiedermi scusa per quel che è accaduto, allora, forse, potrei pensarci. Adesso, scusa, ma ho da fare. >>. Mi sottraggo dalla presa, la ragazza non aggiunge altro, la vedo scuotere la testa, osservarmi come se fossi un povero cretino e forse lo sono.
Ma se gliene lascio passare una, allora sarà sempre così. E se ha davvero coraggio, allora deve essere lei a venire da me a parlare.
Gli imbrogli non mi sono mai piaciuti, tantomeno i segreti e le prese in giro.
 
 
 
Chiudo la porta della torre e per me è un argomento definitivamente chiuso.
Per adesso.










Note: 
In arrivo il capitoletto di Novembre. 
Impressioni? 
Insomma dopo essere stato preso per i fondelli, direi che essere arrabbiati sia poco, no? A nessuno piace che qualcuno prenda in giro i propri sentimenti, se poi il malcapitato è Ville Valo, avremo l'ira eterna. 

So che ci sono capitoli un po' "sboccati" non è mia abitudine scrivere molte parolacce, ma di solito scrivo dal punto di vista femminile e, salvo eccezioni, le donne sono meno scurrili degli uomini. Mi sono trovata in conversazioni maschili anche peggiori di queste. Cerco solo di apportarmi il più possibile alla realtà di tutti i giorni. 

Ringrazio di cuore
 kuutamo che segue questa storia sin dall'inizio e non manca di farmi sapere cosa ne pensa. E poi ringrazio la nuova recensitrice  vero219 sono davvero molto contenta che la storia ti piaccia. 
Ringrazio anche i fantasmini che seguono questa storia in silenzio. 



La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   




 
 

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Capitolo 9
*** Un arcobaleno straripante di colori, che splende a mezzanotte ***


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9.
*Un arcobaleno straripante di colori, che splende a mezzanotte*






 
È come se le pareti di casa mi si stringessero addosso.
Accade sempre così, quando il cuore vuole trovarsi altrove, mentre la mente obbliga ad avere del buonsenso.
 
 
Cambio programma alla televisione, il pollice preme a casaccio i tasti neri con numeri bianchi del telecomando, non ci faccio caso, le immagini luminose si sostituiscono leste sullo schermo digitale e non le vedo veramente.
La televisione è sopravvalutata, spazzatura ambulante, non è vero che tiene compagnia. La uso poco e per quel poco, mi sento comunque solo come un cane.
Non ho voglia di leggere o suonare o uscire.
È come se il mio corpo si rifiutasse di rispondere ad alcun stimolo attivo, me ne sto spaparanzato sul divano, rilassato quanto stressato e non ho intenzione di muovere un solo muscolo. Sono in coma cosciente.
Stanco, non tanto da dormire e troppo per restare vigile.
 
 
Spengo. Fisso lo schermo, se ne sta lì, nero, sembra che voglia assorbirmi nell’infinito del suo vuoto e quasi lo lascerei fare.
La depressione non è causata da Amelia, non che mi sia passato l’astio, non sto bene da un po’, credevo che smettere con lo psichiatra e le medicine avrebbero impedito alle mani di tremare, di tornare vigile, di riprendere il controllo perso… ma sono io ad aver perso, ed ho perso me stesso.
Comincia ad essere difficile, portare queste mie valigie pesanti e nella strada che sto percorrendo, la solitudine è divenuta un abbraccio asfissiante.
 
 
Buffo, come la sera, riesca a far riemergere la parte più inquieta, addolorata e sconfortante del mio essere e spinga pensieri pessimistici che non riesco a soffocare. Non c’è nessuno che mi parli, quando ne ho così bisogno da non respirare, a volte vorrei svegliarmi in una casa piena di voci allegre… dei figli, una moglie. Persone che hanno tempo per stare con me giornalmente. Una famiglia. Mia.
E non rientrare più in un posto dove sono l’unico essere ad aggirarsi tra le stanze, come un fantasma in pena. Mancano solo le catene e il quadretto è perfetto!
D’improvviso la vita mi sembra vuota, inutile, difficile da vivere, solo problemi, falsità, maschere che mi circondano, non so quanto posso continuare in questo percorso turbolento, vorrei andarmene, non intendo partire, ma finirla sul serio.
 
 
Penso che il suicidio sia la giusta soluzione, certo, ci sarà chi dirà che sono stato un vigliacco, che ero un brav’uomo adesso che non ci sono più, che ero un figlio amato, un fratello presente… futilità che non mi toccano. Mi sembra di non trovare una ragione sensata che non mi spinga ad alzarmi e farmi fuori stanotte, ora, poi chissà quanto ci impiegheranno a rinvenire il cadavere.
Non ho paura della morte. Ho paura di continuare a sopravvivere senza motivazioni valide. E sono così stanco di combattere.
Le gambe si muovono da sole, le comanda una forza oscura e determinata, su cui non ho alcun potere, non intendo contrastarla. Salgo il primo gradino e il picchiare incalzante del portone, fa desistere il piede nudo a procedere.
No, non rinuncio, non mi interessa sapere chi è venuto ad interrompere i piani della fine, voglio solo che la pace giunga in fretta.
 
 
<< Valo andiamo, so che ci sei! >>, la voce di Amelia è forte e squillante, bella come un arcobaleno straripante di colori, che splende a mezzanotte. << Hai lasciato le luci del bagno accese… sono venuta con una richiesta di pace. Aprimi, non fare il musone troglodita! >>. Appena dopo, ricordo la stronza che è, e che non voglio incontrarla.
 
 
Il cervello è diviso dalla spasmodica voglia di andare alla porta per riempirla d’insulti e la necessità di interrompere il tediarmi: cammino su un precario equilibrio.
 
 
<< Se non apri, ti sfondo la porta: sai che sono capace! >>.
 
 
Ruoto gli occhi al cielo, sbuffo e abbandono le braccia lungo il corpo. Tu guarda se uno non si può ammazzare in santa pace!
Voglio morire… e voglio lei.
Riesce ad essere un impulso perfino più distruttivo ed imperativo della morte stessa. Il tira e molla è seccante e, benché io non ce la faccia, assecondo il gioco funesto che lei ha messo in piedi.
 
 
Apro di getto la porta, pieno di rancore, avversione ed ostilità.
<< Sai… >>, inizio sincero, con il tono di chi ha perso tutto e non gliene frega niente di essere cattivo o maleducato, il tono che può avere un condannato alle tenebre o un disperato stufo di sopportare. << Pagherei oro per vederti rompere una spalla contro l’ingresso, nel tentativo di sfondarlo. E più di questo, mi piacerebbe che provassi il dolore, così che ti passi la voglia di scherzare con me. >>. Chiamare la polizia per l’ennesima violazione di domicilio, potrebbe essere una terza, allettante, alternativa.
 
 
Se ne sta davanti a me, la mimica facciale si è spenta nell’istante stesso in cui ha scorto il mio viso, per poi divenire un lenzuolo bianco e nelle iridi un’immensità in sedizione. C’è un particolare sul mio volto che l’ha sconvolta.
È venuta per fare pace, tra le dita sottili una rosa bianca in segno di bonaccia. Dalle mani le cade il fiore, avanza con una rapidità invisibile e affonda sul mio petto, allacciando le braccia in vita, per stringermi con una dolce forza, un calore confortevole e una premura che non aveva mai avuto nei miei confronti.
È come se stesse abbracciando direttamente la mia anima in tumulto, acquietandola.
Mi ha spiazzato, però ricambio l’abbraccio inatteso. Il suo cuore contro il mio, respiro il suo ossigeno, mi riscaldo con il corpo bollente, il profumo dei capelli inonda le narici, abbandono l’armatura e mi affido a questa ragazzina che è arrivata un momento prima che mi togliessi la vita.
Non so come sia possibile, ma sono certo che abbia capito.
Il peso sul cuore si è alleggerito, le spine in esso hanno smesso di infilzarmi, l’attacco di panico è sfumato, le mani non tremano più. La visita allo psichiatra è rimandata.
 
 
<< Andiamo da qualche parte, ti va? >>. Quando è stata male lei, io l’ho salvata dagli abissi, adesso lei è scesa all’inferno per strapparmi dalle grinfie del mio male. Le ho perdonato di avermi trattato come un allocco, il modo in cui mi tiene stretto a sé, mi porterebbe a perdonarle perfino un omicidio.
 
 
<< Sono le cinque del mattino, i negozi sono tutti chiusi… >>.
 
 
Scrolla le spalle, alza il volto dal mio petto e gli occhi sfolgoranti rischiarano più della luna piena.
<< Non importa dove. Io e te, da qualche parte, a farti innamorare di me. >>, confida sincera. Ha smesso di prendersi gioco del sottoscritto, non ha più l’aria da ragazzina, ho una donna tra le braccia, addossata al mio corpo. È così bella da far male.
 
 
<< Basta scherzi? >>, voglio essere sicuro, è difficile fidarsi, specialmente se c’è il cuore di mezzo.
 
 
<< Facciamo un patto, Ville. Promettimi che, quando ti senti solo, tu mi chiami, mi cerchi, mi tiri giù dal letto, anche se sono le tre del mattino. Sfogati, raccontami tutto: vuota le tue soffitte. Usami, per alleviare il tuo dolore. >>. Ha capito, ha capito tutto, forse non ha intuito fino a che punto mi sarei spinto. Le donne hanno questa faccenda del sesto senso che le differenzia dagli uomini, sono empatiche e riescono a percepire la sofferenza da un chilometro. << Ti regalo qualche pezzo del mio, così rincolli il tuo. >>. Sorride, un’ombra malinconica mi spezza il respiro nei polmoni. Dopo l’incontro con la sua amica, c’è il segreto da rivelare, mi tiene nascosto qualcosa d’importante e glielo leggo a caratteri cubitali sul viso mesto.
 
 
<< Qualche pezzo, di cosa? >>.
 
 
<< Di cuore. >>.
 
 
Batto le palpebre, privo di parole altrettanto significative, sento un “bum bum” ritmato che azzera l’udito, un calore che nasce dal centro del petto e si irradia nel resto del corpo. Una strana corrente elettrica viaggia ad alta tensione sotto la pelle, è difficile resistere a questa trazione. Trascina categorica ad assaggiare le sue labbra al sapore di ciliegia, residui di un lucidalabbra sbiadito, è l’unica risposta che riesco a darle, ma è proprio il regalo che sognava da me.
<< Grazie. >>, la parola aleggia sulla mia bocca umida ed amata e solo io posso sapere quanta gratitudine c’è in quel semplicistico “grazie.”
 
 
<< Non c’è nessun altro. >>, mette in chiaro, anche se ci ero arrivato da solo. Se è venuta fin davanti la mia porta a fare pace, è un chiaro segnale. << Però non c’è stato mai davvero nessun altro. Volevo solo farti ingelosire. >>, mette le carte in tavola, ed è brutalmente sincera. Era ciò che volevo.
 
 
<< Il tipo che ho visto? >>.
 
 
Il sorriso si apre pieno, non mi sta deridendo.
<< Ah Ville, faccio fatica a relazionarmi con un uomo che a malapena riesce a scambiare tre parole, senza guardarmi le tette due volte di seguito. >>.
 
 
Anche io le ho guardato le tette, magari non subito e non dopo tre parole.
Faccio fatica a relazionarmi con donne che ambiscono a risplendere della mia fama, ecco perché con Amelia è così diverso.  
 
 
La sua mano trema e si addossa sulla guancia, segue le fattezze dello zigomo, scende sul mento ispido e resta incantata a contemplarmi. Ha gli occhi di un’innamorata persa, è più presa di quanto possa credere e forse lo sono anche io, mi sento preso, vivo, desiderato e… non più solo.
<< Ti rapisco per qualche ora, portati una giacca. >>, insiste, non stava scherzando, vuole davvero uscire a quest’ora, con questo freddo, in pieno inverno e la neve alta.
 
 
<< Dove andiamo? >>.
 
 
<< A vedere come nasce il giorno. Ho sempre pensato che non ci sia niente di più bello che affrontare la notte insieme, per vedere la luce risplendere. >>.
 
 
È lei il sole, la luna, le stelle, il cielo e la terra, il mare, il paradiso, l’inferno. Vivono diversi aspetti in lei ed ognuno di essi mi attrae come una falena con la luce, non posso fare altro: obbedisco.
Prendo una giacca, infilo le scarpe, calo il berretto sui capelli spettinati e la raggiungo nella macchina. L’interno è già caldo, il profumo differente, di cocco e di un’estate che è ben lontana.
 
 
Accende la radio, tiene il volume basso ed una canzone malinconica invade l’abitacolo accogliente. Non conosco le parole, non è inglese o una lingua che conosco, però è bella, avviluppa il cuore come una sciarpa morbida e la guardo con occhi diversi… più diversi di prima. È un’incognita stare con lei, ma non vorrei fare altro, è come se riuscisse a riempirmi e la sensazione è come di sazietà.
Mette in moto, si introduce prudente nella strada e nella solitudine della notte, ci addentriamo nella capitale.
 
 
<< Che lingua è? >>, chiedo curioso. Non ha l’aria di una ragazza molto sdolcinata, la musica lo è, trasmette un senso di amore amaro, lacrime e fine eterna. Due anime che la vita decide di far sfiorare un solo istante, per poi separarle per sempre.
 
 
<< Hindi. >>. Le luci arancioni che costeggiano la strada trasformano gli occhi in oro liquido, sulla bocca un sorriso tranquillo, è rilassata, a suo agio con me.
 
 
Metto la cintura, con Migé sono certo, di lei non molto, ha strani scatti nervosi, mentre guida.
<< E di cosa parla? >>.
 
 
Scrolla le spalle, aziona la freccia e svolta a sinistra alla fine del quartiere.  
<< Non lo so. >>. Non le sembra strano ascoltare una canzone di cui non comprende il significato, lo scemo sono io. << La devo sentire con il cuore, non con le orecchie. >>, continua e la frase appare più saggia di come l’ha detta.
 
 
<< Secondo te di cosa parla? >>. È un modo come un altro per comprenderla meglio e penetrare nella mente complicata. Possiamo fare a gara su questo fronte.
 
 
Il sorriso si fa dolce, mi scalda il cuore e scende dentro.
<< Di come l’amore possa essere il dono più doloroso a questo mondo, di come sia in grado di darti il paradiso, per poi ripagarti con l’inferno. >>. La macchina si ferma. È rosso. Si volta a scrutarmi, l’interno dell’abitacolo è in penombra, il viso sottile pallido, il momento è intenso. << Di come due anime si trovino nel caos dell’universo, per amarsi un solo istante e poi venire divisi dal destino. >>. Ha espresso esattamente il mio pensiero, i brividi si rincorrono su e giù per la schiena, sono assuefatto, ho il cuore in gola che batte come un forsennato, ed ho la consapevolezza, come quello di essere sveglio in un sogno, che è lei la persona che stavo aspettando, quella che cerchi spasmodicamente fra sette miliardi di anime sulla terra, quella che è parte di te, quella che vorresti avere accanto la notte, quella con cui non ci fai sesso, ma l’amore… quella che è “per sempre”.   
Sto per baciarla, scatta il verde, delle macchine dietro suonano forte i clacson e spezzano il frangente idilliaco.
 
 
Riparte con un affondo dell’acceleratore, sbuffa invisibile, voleva che ci baciassimo e ne è rimasta delusa: non per molto. Difficilmente riesco a toglierle gli occhi di dosso, è bella al volante, forte, assomiglia ad una valchiria, i capelli a caschetto sono tirati dietro le orecchie e lasciano liberi i lineamenti sottili e femminili.
Giovane, travolgente ed incantevole.
Termina la canzone e ne parte immediatamente un’altra, un violino disperato mi squarcia il petto e perdo ogni inibizione, forse è colpa della notte che fa affiorare la parte più nascosta di noi, il mancato suicidio, la stanchezza di recitare ruoli che non ci appartengono. Sembra facile vivere in questo momento.
 
 
<< Ancora Hindi? >>. La lingua della canzone sembra differente.
 
 
<< Turco. >>, corregge.   
 
 
Gravo il capo sul poggiatesta, rilassato.
<< Ho l’impressione che tu voglia che l’ascolti per un motivo preciso. >>.
 
 
Tira la bocca in un angolo, soddisfatta.
<< È un modo per farmi conoscere. È questo che vuoi, no? Ti faccio sentire queste canzoni, perché mi compongono: sono fatta di musica. >>.
 
 
A questo punto vorrei dirle di cercare un Cd degli HIM, ma non vorrei risultare il solito cantante che si pubblicizza anche in privato. Mi piacerebbe sapere quale, delle nostre canzoni, sceglierebbe per rappresentarla.  
<< Perché siamo qui? >>, chiedo ad un certo punto.
 
 
Getta un’occhiata allarmata dalla domanda bizzarra, non perde di vista la strada.
<< Che vuoi dire? >>. Non ha la più pallida idea dei filmini mentali che mi sto facendo.
 
 
Sto per aggiungere la motivazione alla singolarità che mi è rotolata fuori dalla bocca, però lei mi precede.
 
 
<< È così importante il “perché”, per te, Ville? Il perché siamo qui, il perché io e il perché tu? Il perché il mondo intero, il perché voglio stare qui o il perché tu hai scelto di seguirmi? È fondamentale per te capire o ti accontenti di accettare che io e te agiamo in base a ciò che sentiamo, anziché assecondare la ragione? Non ti va bene? >>.
 
 
Mi ha preso alla sprovvista, impiego qualche secondo di troppo a rispondere, i pollici si rigirano tra di loro, ho ancora qualche problema ad aprirmi totalmente, so che c’è molto di Amelia che non conosco, che mi blocca.
<< Non sei sincera. >>, confesso. Ecco l’ho detto, vorrei che abbattesse i suoi muri, così io farò ugualmente con i miei.
 
 
Aggrotta la fronte.
<< A proposito di cosa? >>.
 
 
<< A proposito di noi. >>. Non esiste ancora un “noi”, per ora siamo solo due entità ben separate, un “io” e una “lei”, che vorrebbero divenire un “noi”, ma che a fatica riescono a scrollarsi la propria solitudine di dosso.
 
 
Stringe le mani attorno al volante nero, fin quando le nocche si scoloriscono ed assumono una tonalità bianchiccia. La mascella contratta, gli occhi due fari nella notte sprizzano scintille oscure, è tesa come una corda di violino.
<< Mi pare di essere sincera o vuoi che lo sia di più? >>. È accondiscendente, come se non volesse nascondere niente su questo argomento e tenere segreto tutto il resto. << Che mi piaci è palese, altrimenti perché siamo qui? Cos’altro vuoi che ti dica? Che mi attrae la tua mente, come mi tieni testa, mi piacciono tuoi occhi, specialmente quando il sole si specchia in essi, il modo in cui sorridi o gli sguardi che fai, il suono della tua voce e della tua risata, il tuo profumo… che avrei fatto l’amore la notte stessa in cui ti ho incontrato, ma per te sarei stata come l’altra donna, mentre io speravo ad altro. >>, è brutalmente sincera, libera da ogni proibizione, una creatura di puro istinto, niente peli sulla lingua, non teme che possa deriderla, ingannarla o mollarla su due piedi stasera stessa. Sta correndo un grande rischio a vuotare il sacco in questo modo, ma perché fare un gioco della parti, perché dover attenersi a stupide regole, se mi piace perché devo ostacolarmi?
 
 
<< Ho desiderato lo stesso. >>, rivelo in un caldo sussurro. Non mi guarda, non da’ segni particolari, però il rossore sulle guance la tradisce. << Ma non sarebbe stato come l’altra donna, se è questo che ti preoccupa. >>.
 
 
<< Non è questo che mi preoccupa. >>, si affretta a dire. << Mi preoccupa che non sarebbe come lo spero. >>.
 
 
<< Ti avverto che non sono tipo da fiori e cioccolatini. >>.
 
 
<< Ed io non sono il tipo da smancerie, sia fisiche che a parole. Non mi piacciono e difficilmente mi lascio andare platealmente a queste forme di affetto. Dimostro amore in altri modi. >>.
Mi piace questo nostro mettere in chiaro i modi di fare, è come se ci stessimo preparando a buttarci in tutto e per tutto in questa stramba relazione. << E vorrei che ti facessi meno problemi, Ville. Mi piaci così come sei, anche se sei più grande di me, anche se sei asociale, anche se ti inventerai altri mille problemi. Non mi frega se fai le puzzette, se sei stitico o ti metti le mani nel naso, in fondo è così per tutti. >>.
 
 
Scoppio a ridere a crepapelle, rido così tanto da avere i crampi allo stomaco e da sentire dolore alla mandibola, ma rido, rido come non ho mai riso in vita mia. Rido di gusto, senza freni, rido perché è bellissimo ridere con lei. Rido perché credo di adorarla, rido perché è riuscita a farmi felice con poco.
 
 
Amelia parcheggia nei pressi del porto, lascia i riscaldamenti accesi, così da non gelare con queste temperature sotto lo zero.
 
 
C’è un bel panorama, si scorge la città addormentata, la cattedrale bianca, le rompighiaccio attraccate, il mare è una lastra lattescente. Il cielo si schiarisce ad est, mentre è più scuro ad ovest. Le luci albeggiano sulle tenebre e riescono a creare perfino un clima romantico, il momento leggero è passato, ce ne stiamo in silenzio in attesa del sole che tarda a sorgere.
La musica rompe il silenzio, è cambiata ancora, altra lingua sconosciuta, ma ho smesso di ascoltare con le orecchie, lo faccio con il cuore, come ha detto lei.
 
 
È l’enigma più bello con cui io abbia mai avuto a che fare e, mentre guarda la stella madre più luminosa nascere al giorno, io mi perdo nel contemplare il mio sole personale che è sorto stanotte… solo per me. 











Note:
Dato che ieri notte ho finalmente finito di scrivere questa storia, ho deciso di velocizzare i tempi, così per non lasciarvi troppo in sospeso e
per non impiegare una vita per farvela leggere. 

Un capitoletto carino carino, dopo che il povero Ville era stato trattato come un baccalà fritto. Penso sia abbastanza chiaro che Amelia è sul serio interessata, voleva solo tenere Ville in sospeso, per farlo ingelosire. Tattiche femminili, giusto per non gettarsi subito ai piedi del Secco xD 
Alla fine i sentimenti prevalgono sempre. 

In questo capitolo mi sono basata ad un evento realmente accaduto. Nel 2000 Ville ha tentato davvero il suicidio, io ho solo provato ad ipotizzare come ci si possa sentire in quei momenti. 

Detto questo, ringrazio come sempre chi recensisce e chi legge solamente. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 
 

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Capitolo 10
*** In una notte può cambiare tutto ***


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10.
*In una notte può cambiare tutto*









 
Non ho dormito.
In realtà non è più  al singolare, bensì al plurale, quindi mi correggo: non abbiamo dormito.
Dividere la notte con un’altra persona, non per farci l’amore, ma per parlare, parlare di tutto, di episodi passati, di speranze future, progetti presenti, ricordi che credevo cancellati, di stupidaggini, sorrisi velati, risate aperte.
Gli altri si svegliano, noi dobbiamo andare ancora a dormire.
 
 
Il cuore caldo, sono stanco, però sereno e non mi sembra di esserlo mai stato prima di adesso. Devo avere l’aria sbattuta, la faccia inguardabile, il colorito di un cadavere, non credo che importi… importa più con chi sono.
 
 
Amelia siede dall’altra parte del tavolino, tuffa il cucchiaino nel caffèlatte, raggi pallidi di un sole timido le rischiarano una parte del volto.
Non è così che la immaginavo, tuttavia sono ben felice di essermi sbagliato. Non è più la bambina che credevo, è una donna nel corpo di una ragazza.
Ci sono troppe cose che dovrebbero preoccuparmi e nessuna di queste pare sfiorarmi adesso.
 
 
<< Ho superato il test? >>, chiede ad un certo punto. << Oppure sei ancora convinto che possa ripensarci? >>. Puntella i gomiti sul tavolo, intreccia le dita tra di loro e vi poggia sopra il mento.
 
 
Zucchero il caffè, accavallo le gambe e soffoco uno sbadiglio.
<< La vita non è un test. >>, dico saccente, lei è troppo allegra per scorgere il pizzico di paura che celo tra le parole.
Si sporge in avanti, poggia la sua mano sulla mia, in un gesto naturale e semplice, ma è come se l’avesse fatto ogni giorno negli ultimi dieci anni.
 
 
<< Fidati Ville, lo so meglio di chiunque altro. >>, chiude il discorso, ma voglio saperne di più.
 
 
Temporeggio, formo al meglio il discorso, poi le parole si inceppano ed esce un calderone di vocaboli messi alla cavolo.
<< Ci sono un paio di cose che dovremmo chiarire. >>.
 
 
Un misto di stupore e perplessità le transita sul viso, riesce a riprendere subito il controllo dell’espressione.
<< Spara, Valo. >>. Non teme le domande, mi affronta sempre e comunque.
 
 
<< La sera che ci siamo incontrati al Corona Bar, ricordi? >>.
 
 
Soffoca una risata briosa, morde la brioche al cioccolato e sta attenta a non sporcarsi.
<< Ricordo poco e niente: ero un po’ brilla. >>, ammette con un sorriso malizioso. Crede che voglia tornare sull’argomento sesso.  
 
 
Lascio perdere la battuta, sorvolo la frase e miro al punto.
<< Hai detto qualcosa a proposito di tuo padre. >>, la butto alla leggera, non so che reazione possa avere, lei riesce a spiazzarmi.
 
 
Allontana lo sguardo e si allontana anche da me, stringe le labbra, deglutisce e raddrizza le spalle guardinga. Sembra sul punto di scendere in battaglia e mi dispiace aver rotto la situazione pacifica.
<< Beh… >>, la bocca si piega in amaro ghigno, <<… sono la prova che non si dovrebbe mai perdere il controllo, davanti a qualcuno che ti piace. >>.
 
 
Mi sbilancio. Allungo una mano e la poggio sulla sua, la pelle è improvvisamente fredda.
<< Non ci vedo niente di male a perdere il controllo davanti a qualcuno che ti piace. >>, dico, ma non lo penso davvero, non vorrei mai che Amelia mi vedesse ubriaco fradicio, riverso sul mio vomito o su qualcosa di peggio. Ci tengo ad essere meglio di ciò che sono davvero.
 
 
È indecisa se rendermi partecipe delle ombre che le incupiscono i lineamenti, oppure restare chiusa nel guscio. Fissa le nostre mani congiunte, le dita si intrecciano tra di loro e stringe.
<< Se alla fine te ne esci con qualcosa tipo il Complesso di Elettra, perché sto frequentando un uomo più grande di me, giuro che ti arriva un calcio tu sai dove! >>.
 
 
Mano sul cuore.
<< Giuro! >>. Che è strana è palese, non che io sia un esempio di normalità, però è bella vestita di eccentricità e mistero. È capace davvero di farmi diventare un soprano con un calcio!
 
 
<< Non ho mai avuto un buon rapporto con lui. Da due caratteri forti ed opposti, non c’è molta speranza che ne esca qualcosa… è per questo che alla fine me ne sono andata di casa: voglio vivere come meglio credo. >>, il tono è basso, dolce, a tratti triste, negli occhi il film della vita che scorre rapido, come una cascata.
 
 
<< Trasferendoti dall’altra parte dell’Europa, in una casa con un mare di gente… un po’ estremo, non ti pare? >>. Per una persona amante della solitudine come me, è impensabile quel tipo di scelta.
 
 
<< Loro sono la famiglia che mi sono scelta. È un “mare di gente” che mi travolge, mi fa sentire viva e felice. Ognuno rispetta lo spazio dell’altro, è meglio di quanto tu creda. È difficile da spiegare, ma si sono trasferiti qui per me. >>.
 
 
Non conosco nessuno a questo mondo che sarebbe in grado di fare lo stesso per il sottoscritto, però lei ne sarebbe capace, non ne sono certo al cento per cento, ma se le cose si approfondiranno, potrebbe essere un’opzione concreta.
<< È un bel gesto. >>, giudico sincero. << Dal modo in cui la tua amica mi ha trattato, capisco che sei una persona molto importante. >>. Solo qualcuno di davvero speciale, è amata in questo modo. Sono irrimediabilmente attratto.
 
 
Increspa le sopracciglia scure, la faccia è sorpresa, non ne sa niente.
<< Francesca? >>. È sbiancata.
 
 
<< Era al Corona Bar con te. >>, le espongo, per farle capire a chi mi sto riferendo.
 
 
Non si spiega cosa abbia potuto spingere la sua amica a venire a parlarmi, che poi, più che parlarmi, mi ha praticamente inondato di frasi concitate, che mi hanno confuso maggiormente.
<< Mi sa che devo incazzarmi! >>, inizia, come se volesse prendere le distanze da ciò che mi è stato detto.
 
 
<< Voleva solo cavarmi gli occhi via dalle orbite, però ero piuttosto risentito e le ho risposto per le rime. Non so cosa tu le abbia detto, ma sarebbe stata capace di evirarmi. >>, scherzo, non me la sono davvero presa per l’accaduto. Trovo amorevole che la ragazza l’abbia difesa in quel modo vigoroso.
 
 
<< Francesca è molto… come dire… >>.
 
 
<< Materna? >>, suggerisco. Assomigliava ad una madre che combatteva per i propri cuccioli.
 
 
<< In un certo senso, se non consideriamo il fatto che è più giovane di me. È un rapporto reciproco, ci siamo incontrate in un periodo difficile delle nostre vite e abbiamo legato subito. >>.
 
 
Piego le spalle, accavallo le gambe e mi sporgo verso di lei.
<< C’è tanta gente che ti vuole bene. >>, noto. Non sono sorpreso, Amelia è una ragazza speciale e l’ho capito dal primo incontro, comprendo che dietro la corazza che ostenta con orgoglio, c’è una fragilità pura, delle debolezze che la rendono di una bellezza malinconica, le iridi sono un oceano d’oro costellato di dolori inenarrabili. Non sono affascinato da lei solo per la bellezza o il modo di tenermi testa, avverto un’anima affine alla mia, come due dannati che si incrociano all’inferno.
 
 
<< Ce ne è tanta che ne vuole anche a te. >>, ribatte certa.
Sì, è vero, ce n’è tanta che ne vuole anche a me, allora perché, solo dopo averla conosciuta, ho smesso di sentirmi abbandonato?
Abbatto ogni vergogna e faccio lo schietto, come fa lei. Ben presto scopro che è liberatorio confessarle tutto.
 
 
<< E tu me ne vuoi? >>.
 
 
Morde il labbro inferiore, non vuole ridere, sarebbe un largo vantaggio, però la bocca la tradisce. Basta questo.
Ha l’aria di una bambina, con le gote rosa, gli occhi deliziosi e una dolcezza che intenerisce il cuore.
 
 
<< Se intendi in senso affettuoso del termine, come un fratello… beh non direi. >>.
 
 
Metto i gomiti sul tavolo e l’atmosfera allegra, mi contagia.
<< E allora, come? >>, insisto deliziato. Non voglio metterla in difficoltà, ma adoro il rapporto di pura lealtà che si è instaurato tra di noi. C’è qualcosa in lei che mi fa bene dentro.
 
 
Le iridi si tramutano in fuoco incandescente, le fiamme mi avvolgono e ardono vivo. Ciò che cerco è in quegli occhi infernali, capaci di stregarmi senza proferir parola.
<< Come qualcuno che vorrei avere accanto domani mattina quando mi sveglio, ed ogni giorno d’ora e in avanti. >>, svela onesta. Dietro l’ammissione, c’è una richiesta sottintesa, che ho intenzione di assecondare… non vorrei che fosse programmato, vorrei che avvenisse naturalmente, ma la spontaneità con cui l’ha detto l’ha reso meglio delle mie aspettative.
 
 
E con l’identica autenticità, vedo il mio riflesso specchiarsi negli occhi di grano, è il volto di un uomo innamorato… e Dio! Sono innamorato di lei, e non so quando è accaduto di preciso, è stato indolore e semplice, come la carezza di un’onda sulla rena umida, dove una luna piena si riflette sulle acque limpide, che hanno dimenticato di essere inquinate dalla vita.
Nonostante la spontaneità, non ce lo saremmo mai detto, eppure è nei nostri occhi la verità, abbiamo passato tutta la vita ad aspettarci, a cercarci nella folla, a volerci e adesso siamo disposti a prenderci.
Non dico niente, le parole si sono bloccate in gola, non riesco ad essere romantico come vorrei, è probabile che le frasi che lei vorrebbe sentirsi dire arriveranno più tardi, quando sarà troppo tardi per dirle. Eppure sono tutte qui, che si dibattono nel cuore, desiderose di uscire.
Prendo un tovagliolo, rovisto nella tasca interna del cappotto e con la penna nera, scrivo sul pezzo di carta.
 
 
Bury Me Deep Inside Your Heart.     
            
          
La calligrafia è rabberciata, spero che capisca, se glielo leggessi a voce toglierebbe il pathos del momento. Sarebbe un peccato.
 
 
Legge una volta sola, non sa che è una canzone, s’illumina dei miei colori preferiti, il sorriso è pieno sul volto sereno.
Quando mi scruta, ha un calore che penetra sotto la pelle, scivola nei muscoli, tra le ossa e arriva al sangue. 
 
 
<< Che significa? >>.
 
 
<< Vorrei che l’ascoltassi. >>. Gradirei che non mi prendesse per un coglione e fortunatamente non è quella la reazione.
 
 
<< È una tua canzone? >>. 
 
 
Annuisco, bagno le labbra e le spiego il perché spero che l’ascolti.
<< Non sono capace di ricambiare a parole: tu sei più brava di me. Magari se l’ascolti, capisci. >>.
 
 
<< E non vuoi cantarmela tu? >>.
 
 
Non ho bisogno di pensarci, replico di getto.
<< No. >>.
 
 
Ci resta male, nasconde bene le emozioni, specialmente la delusione.
<< Perché? >>.
 
 
<< Perché poi vorrei fare l’amore con te. E non una volta sola, ma più volte, non riuscirei a saziarmi. >>, spiego e vengo travolto dalla veridicità delle mie stesse parole. Se abbatto anche l’ultima barriera e lascio che la brama divenga realtà, non potrò più tornare indietro.
 
 
È stupefatta, mi scruta come se l’avessi appena ferita a morte e non per quello che ho detto, ma per come l’ho detto.
<< È come se non volessi. >>, la voce è un sussurro afflitto.
 
 
<< Lo voglio con ogni fibra del mio essere. >>.
 
 
E lei capisce. Sono un libro aperto, che legge sapientemente, forse siamo lo stesso tipo di libro, ecco perché sa, senza che io debba spiegarmi.
 
 
<< Se hai paura, chiudi gli occhi. >>, mormora sibillina e cerca nuovamente la mia mano. Non intuisco cosa voglia intendere, per questo prosegue nella spiegazione. << Chiudi gli occhi, Ville, fa’ come ti dico. >>. È illecito il modo in cui pronuncia il mio nome, è un suono dolce e al contempo peccaminoso sulla lingua.
 
 
Abbasso le palpebre, il buio mi avvolge e non la vedo più.
 
 
<< Senti questo? >>. Stringe la presa sulla mano. << Nell’oscurità della vita, nel dolore, nella paura, in qualsiasi cosa di negativo tu possa pensare in questo momento e che credi io non sia pronta ad affrontarla con te. La mia mano sarà sempre nella tua e mai ti abbandonerà. >>. Bacia le nocche in un gesto del tutto imprevedibile, che trasmette una sensazione strana alla bocca dello stomaco, un nodo in gola che soffoca, delle spine che perforano il cuore e lo fanno sanguinare copiosamente.
 
 
Com’è possibile? Come riesce a farmi sentire in paradiso e all’inferno nell’identico istante?
È come se mi somigliasse, come se comprendesse il linguaggio indecifrabile dei miei pensieri e riuscisse ad entrare nella parte più segreta ed oscura di me.
 
 
<< Avresti potuto aspirare a di meglio. >>, sussurro sconvolto, dalla violenta tempesta che si è scatenata in me.
 
 
Curva le spalle all’ingiù.
<< Beh, anche tu. Hai detto di essere un cantante, no? Magari una stangona chilometrica, secca, bionda, con tanto di occhi azzurri. >>. La perfetta descrizione di Irina. << Eppure sei qui, con me che sono una persona qualunque, a fare colazione, a parlare e a ridere. >>.
 
 
Sto per dirle che non è una persona qualunque… per me, ma vengo interrotto da una canzone in finlandese che passa la radio.
 
 
Alza l’indice, s’illumina e il sorriso risplende.
<< Mi piace questa canzone! >>.
Eccola di nuovo la ragazzina, so che non è solo questo, che in lei vivono molteplici sfumature e desidero conoscerle tutte.
 
 
Yhtenä iltana, dei Sara, una band alternative rock/metal di Kaskinen, ovest Finlandia.   
 
 
<< Sai di cosa parla? >>. La sua passione di ascoltare canzoni, senza capirne le parole è un aspetto di lei, che mi diverte.
 
 
<< Qualcosa mi dice che stai per svelarmelo. >>.
 
 
Sorrido paziente, tendo l’orecchio e traduco qualche parola.
<< Parla di ciò che può accadere durante una sera… >>. Resta in silenzio, contempla estasiata, ha l’aria di una giovane al primo amore e temo di essere io l’artefice del suo primo dolore in campo sentimentale. Non me lo perdonerei. << Durante una sera si farebbe voto di amare. Durante una sera il mondo potrebbe essere giusto. Durante una sera gli adulti potrebbero tornare di nuovo bambini. Il mondo potrebbe essere ancora cantare e suonare... >>.
 
 
<< E per te, cosa potrebbe accadere durante una sera? >>.
 
 
Mi sono innamorato, durante una sera.
<< Ho incontrato te. >>, limito a dire, faccio fatica ad avere la stessa spigliatezza nel dire ciò che provo. Ogni volta che l’ho fatto, hanno piantato un pugnale al centro del cuore.
 
 
Rigira il tovagliolo tra le mani.
<< Cosa accadrà, una volta che ho sentito questa canzone? >>.
 
 
<< Cosa vorresti che accadesse? >>.
 
 
Socchiude la bocca morbida, ha l’aria di chi ci sta pensando, ma la risposta è già pronta per essere esternata.
<< Che ti fidassi di me. >>.
 
 
<< Perché credi che non mi fidi di te? >>.
 
 
<< Quando ti dico ciò che sento, fai una strana smorfia, come se pensassi che ti prenda in giro. >>.
 
 
Non me ne sono mai accorto, sono spiazzato.
<< È così? Mi stai prendendo in giro? >>.
 
 
Per la prima volta scorgo la mimica più seria, profonda ed intensa che abbia mai visto in lei.
<< Non potrei. Non si gioca sui sentimenti… non si gioca con un cuore che soffre. >>.
 
 
Sono sulla difensiva.
<< Chi ti dice che sto soffrendo? >>.
 
 
<< Hai promesso di essere sincero, Ville. Il dolore è parte di te, ce l’hai scritto negli occhi, è ricamato nella tua voce, nei sorrisi sbiaditi, nelle parole che usi. >>. Deve essere stata più attenta, di quel che credessi.
 
 
Non me la sento di discutere di questo, è stata una nottata bellissima e una mattina che vorrei non finisse mai.
<< E tu? Tu ti fidi di me? >>.
 
 
<< Perché non dovrei? Hai lasciato il certo per l’incerto. Hai lasciato l’altra per me, hai lasciato qualcuno che ti stava dando tutto, per me, che ancora non ti sto dando niente. >>. La semplice spiegazione è disarmante.
 
 
<< Non hai paura che ti faccia soffrire? >>.
 
 
<< Io vivo come se non dovessi mai soffrire, Ville. Vivo come se non dovessi morire mai o come se dovessi morire domani, per questo non ci tengo a perdere tempo in stupide futilità. Voglio qualcosa? Me la compro. Ho fame? Mangio. Mi piace qualcuno? Glielo dico e accetto le conseguenze del mio gesto. >>.
 
 
Sarebbe magnifico avere questa visione facile della vita, la smetterei di aver bisogno di morire e godrei ogni giorno, gustandolo appieno. Ho così tanto da imparare da lei.
 
 
<< Hai troppe perplessità. >>, prosegue, notando la reazione sbigottita alle sue affermazioni. << Cos’è che vuoi davvero? Cosa credi ti farebbe stare bene? Cosa potrebbe darti pace? >>.
Sembra disposta ad arrivare in capo al mondo, solo per farmi felice.
 
 
<< È sorprendente come le tre domande, abbiano la medesima risposta. >>.
 
 
<< Cioè? >>.
 
 
<< Tu. >>.










Note: 
Non volevo lasciarvi a Natale senza un regalino, quindi ecco il capitoletto di Dicembre, giusto in tempo per augurarvi Buon Natale. 

Beh, le cose iniziano a farsi sempre più serie. Credo che questo sia uno dei miei capitoli preferiti in questa storia, sia perché sono riuscita a scriverlo con una semplicità incredibile, sia perché sia Ville ed Amelia sono senza maschere, sinceri, ancora qualche dubbio, ma dopo aver affrontato la notte insieme, alla luce del giorno sono ancora più certi di voler stare insieme. 

La canzone all'interno del capitolo è: Yhtenä iltana, dei Sara. Mi è stata fatta ascoltare da un buon amico e l'ho amata sin da subito. Se potete, ascoltatela mentre leggete, perché era la stessa che ascoltavo io mentre scrivevo. Non ho trovato traduzioni in italiano o in inglese, quindi mi sono arrangiata a tradurmela da sola e, visto che non sono un portento in finlandese, anche se mi ci impegno da anni, spero che, come traduzione sia accettabile. 

Detto questo, ringrazio come sempre chi commenta e chi mi segue in silenzio. 
Buon Natale a tutti e felice anno nuovo. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 

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Capitolo 11
*** Come miele tossico ***


 
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11.
*Come miele tossico*








 
Lo zippo scatta su se stesso ed uccide la fiamma con cui ho acceso l’ultima sigaretta del pacchetto finito di Marlboro rosse, comprato solo stamattina. L’accartoccio e lo butto poco più in là.
Sdraiato sul tappeto dello studio di registrazione, fisso il soffitto, accanto a me un foglio stropicciato, cosparso di cancellature, scarabocchi, simboli, disegni idioti e parole. È la canzone che sto cercando da diversi mesi: l’ho scritta in dieci minuti.
 
 
Le orecchie sono occupate da un paio di cuffiette, collegate all’Ipod dato in prestito da Amelia. L’ha riempito con una colonna sonora personale, comprese quelle che abbiamo ascoltato in macchina, la famosa notte che ha impedito alla morte di passarmi a prendere.
 
 
Nessuna di loro è nella sua lingua natia.
 
 
Le musiche hanno un nucleo di tristezza consolidato, che si ripete in ognuna di esse, sfiorano l’anima con petali corvini imbrattati di sangue, rendono l’amore un sentimento profondo, lo caricano di una potenza in grado di sfondarti il cuore.
Se prova passioni simili alle mie, sono veramente fottuto!
 
 
Fumo nervoso, le parole in spagnolo sono travolgenti, di un’intensità che si attacca come miele tossico, mutano i sentimenti, rendono chiaro e limpido ciò che sento, come lo sento e soprattutto per chi lo sento.
Chiudo gli occhi e la vedo, un sorriso abbacinante solo per me, le iridi sono spighe di grano, i morbidi capelli a caschetto scompigliati dal vento, il profumo brioso, il suono melodioso della voce… ed è buffo, perché quando penso a lei, è sempre estate. Non vi è dolore, neppure nell’immaginazione, se c’è Amelia, io sto bene, anche se è solo un frutto di una mente fantasiosa.
Quando sto con lei, il tempo pare fluire via come acqua tra le dita, quando lei non c’è, non faccio altro che pensarci e godere dei ricordi trascorsi insieme. È fissa, nel cervello e non riesco a schiodarcela neppure un istante.
 
 
Adoro la sensazione di piena vita che è riuscita a ficcare nelle vene, sono un concentrato di idee, fatico a stare fermo e sorrido come un coglione la maggior parte del giorno.
Sbuffo: è un sospiro di un uomo innamorato e… sorrido. Di nuovo.
 
 
Nel pomeriggio ho un appuntamento con Seppo, devo fargli leggere la bozza della canzone, sto per togliere via le cuffiette, quando odo un rumore differente di riproduzione, il suono è mutato, è una canzone registrata al momento, non è frutto di vocalist famosi, lingue straniere e significati incomprensibili.
 
 
<< Caro brontolone, se sei arrivato fin qui, vuol dire che non ti sei annoiato o peggio: addormentato. >>, la voce di Amelia è dolce, esuberante, ha quel tono divertente che adoro. È una macchia d’arcobaleno. << Spero che ti sia piaciuto questo piccolo regalo, perché c’è un altro regalo in arrivo. >>.
 
 
Poche note di una chitarra, l’inizio è inconfondibile, una sequela di brividi caldi e freddi si rincorrono giù per la schiena.
 
 
Bury Me Deep Inside Your Heart
 
 
È la voce di una sirena quella che canta per me, si esprime con le frasi che avrei voluto rivelare, esperta di mille incantesimi, un richiamo affranto di un cuore innamorato. Non mi sono mai sentito così, travolto dall’influsso intrinseco di sentimenti a me ignoti, un legame incondizionato mi lega a lei, non voglio spezzarlo, naufrago volontario alla deriva del suo mare in tempesta. Sono inchiodato a terra, lo stomaco sottosopra, ho uno squarcio al centro dei polmoni, da cui sgorga lava liquida, che mi liquefa con una delicatezza fatale.
Fa’ l’amore con le parole che ho scritto io e non riesco a non vagheggiare di fare lo stesso con lei, se fosse qui adesso. Niente ragione, solo istinto, cuore, anima, passione e un sentimento che è come una luce accecante nel labirinto delle tenebre. Il mio corpo sul suo, il respiro deformato dal piacere, battiti violenti di cuori agitati, smania su labbra umide e dischiuse… potrei morire in qualsiasi istante.
 
 
Scopro che le fantasie sono così veritiere, da far rispondere il resto del corpo agli impulsi della mente, sono eccitato, innamorato, in grado di andare a piedi da lei, anche per un bacio lungo una vita e annullarmi in esso.
Venderei me stesso al Diavolo per quel bacio.
 
 
Un colpetto al piede spezza il sortilegio di morte, apro gli occhi di getto e Migé, in piedi di fianco a me, è peggio di una doccia fredda su un tizzone ardente. Tolgo le cuffie e spengo l’ipod.
 
 
Inarca un sopracciglio cespuglioso, esamina assorto.
<< Credevo fossi morto! >>, scherza con aria seria, sedendosi sullo sgabello, accanto al basso.
 
 
Mai stato più vivo prima d’ora.
<< Riflettevo. >>, spiego vago. So che non vuole sentir parlare di Amelia, non sa come relazionarsi con le numerose conquiste, specialmente questa che è così giovane.
 
 
<< La tua ragazzina ti ha fatto diventare coscienzioso? >>.
 
 
Confuso e parecchio seccato, aspetto che continui, ma non lo fa.
<< E cioè? >>.
 
 
Si posiziona meglio sullo sgabello, per evitare di scivolare.
<< Qualcuno ti ha visto qualche giorno fa in compagnia di una giovane ragazza, con capelli scuri e a caschetto. >>.
 
 
Scrollo le spalle, infilo l’ipod nella giacca, ripiego il foglio con su scritta la canzone e lo conservo.
<< E quindi? Sapevi già che la stavo frequentando. >>. Non devo giustificarmi con lui per le mie azioni. Sono grande e vaccinato e frequento chi cavolo mi pare e piace.
 
 
<< Sì, ma dopo che me ne hai parlato, credevo l’avresti lasciata. Dato il problema rilevante. >>.
 
 
Arcuo talmente tanto le sopracciglia da sfiorare l’attaccatura dei capelli.  
<< Non te ne ho parlato in cerca di un pretesto per far cessare la cosa. >>. Non gradisco il tono con cui si riferisce a lei. Ha portato rispetto a tutte le altre donne, allora perché si comporta così se si tratta di Amelia?  
 
 
<< E allora perché? >>.
 
 
<< Perché è importante per me. >>, accetto schietto. E dopo che ha impedito di uccidermi, lo è divenuta ancora di più. Come posso lasciarla? Il solo pensiero mi provoca strane reazioni, un sottile dolore che potrebbe farmi impazzire seduta stante. << E perché ho intenzioni serie. >>.
 
 
Sospira paziente, gratta una tempia.
<< Ville, le tue “intenzioni serie”, le conosco bene. Le ami, giusto il tempo che ti diano ciò che ti serve, poi le butti fuori dalla tua vita come se non valessero niente. Non ti ho mai sentito dire “è la donna giusta, voglio sposarla”. >>. Dietro il tono burbero, si cela l’ennesima litigata con la moglie, la storia non andrà avanti per molto, il divorzio aleggia nell’aria e riesco ad avvertirlo anche io, che non centro niente.
 
 
<< E non comincerò adesso. Sai come la penso sul matrimonio. >>.
 
 
<< Non la penseresti ancora così sul matrimonio, se fosse la persona giusta. Se devi ferirla, lasciala finché sei in tempo. Hai detto che ha quindici anni meno di te, no? In pratica è una bambina, quanto può saperne dell’amore, rispetto a te? Forse sei perfino il suo primo amore o magari nessuno le ha mai spezzato il cuore, vuoi essere tu il primo? Stai giocando con il fuoco, un fuoco che brucerà solo lei, perché tu sei stato già ustionato abbastanza e non senti più niente. >>.
 
 
Ha maledettamente ragione, non posso nasconderlo, almeno con me stesso, ma sono preso così tanto che, se concerno anche la sola possibilità di un futuro dove Amelia non c’è, fa riaffiorare un attacco di panico in piena regola.
 
 
Balzo in piedi, sono furibondo: fa sempre male sentirsi sbattere la verità in faccia. Gli pungolo sul petto.
<< Tu non la conosci. >>.
 
 
Guarda l’indice minaccioso che aleggia vicino al viso paffuto.
<< È vero, non la conosco, ma conosco te. Tu le farai del male, così come lo hai fatto ad Irina. >>.
 
 
Scuoto la testa, incerto.
<< Che vuoi dire? >>.
 
 
<< È in ospedale, ha tentato di uccidersi con un cocktail di alcool e farmaci… >>. La notizia mi manda sotto shock. << Tu giochi con la vita delle persone, Ville, sei solo in cerca di emozioni che ti ridiano ciò che tu hai perso, ma una volta che hai spremuto fino all’ultima goccia, abbandoni e cerchi altro! >>. È furibondo, si alza in piedi ed è un faccia contro faccia.
 
 
Mi riversa addosso rabbia e rancore e sono come uno schiaffo potente in piena faccia, facendomi indietreggiare.
Non ho considerato questo aspetto della faccenda, quando ho lasciato Irina, non credevo fosse così innamorata di me da arrivare ad un simile gesto disperato, per cessare per sempre di soffrire.
 
 
Deglutisco due volte, boccheggio in cerca di ossigeno, devo respirare, sto per avere una crisi di panico. Migé sta ancora parlando, le orecchie si rifiutano di ascoltare altro, ruoto su me stesso e vado fuori dalla stanza insonorizzata, barcollo tra i corridoi dello stabile e una volta fuori, il malessere non migliora.
Ho un cedimento psicologico, sto male, non riesco a mettere a fuoco le persone e il paesaggio circostante, fatico a riprendermi, è come se il cervello fosse risucchiato in un buco nero. Non riesco a capire cosa possa aiutarmi a non crollare, il cervello fa una veloce lista delle persone fidate che possano venirmi a prendere e, una dopo l’altra, i familiari e poi gli amici vengono scartati.
 
 
Resta solo lei, la stessa lei che adesso vorrei non chiamare, vorrei che non ci fosse, vorrei non averla mai baciata, vorrei non averle dato speranze. Perché temo che finisca come Irina.
 
 
Non so da dove sia spuntato il cellulare, cerco frenetico il numero salvato in rubrica e la telefonata parte.
 
 
<< Ciao Ville! >>, risponde allegra, vorrei che ci fosse un altro modo, so che sto per spaventarla, ma non ho altra scelta. È già in macchina, sento i tipici rumori del traffico. << Ti è piaciuto il regalo? >>.  
 
 
<< Amelia. >>, dico a fatica, la testa gira come una trottola, ho un terrore fottuto di morire sul colpo e che lei non giunga in tempo a tirarmi fuori dall’inferno. << Sto male, per favore… allo studio di registrazione, vieni a prendermi. >>. È la prima volta che prego qualcuno a quel modo, poco importa se sto apparendo debole, non sopravvivrò altri dieci minuti in questo stato. 
 
 
 
Non se lo fa ripetere due volte, non sta lì a farmi domande idiote, non perde tempo, ha intenzione di venire a salvarmi ancora una volta.
 
 
Provo ad aprire il secondo pacchetto di sigarette, le mani tramano e formicolano e cadono sulla neve alta. Ho due fitte di seguito al petto e devo sorreggermi al muro dello studio, per evitare di fare la stessa fine delle Marlboro.
Le orecchie percepiscono in maniera ovattata, eppure riconosco immediatamente la voce di Amelia che pronuncia il mio nome, riempiendolo di inquietudine visibile. Il viso è un tonico lenitivo, le mani mi afferrano in vita e mi stringe, timorosa che stia per svenire.
Mi trascina nella macchina calda, inclina il sedile e sale al suo posto, sfrecciando a tutta velocità con i finestrini aperti. Il freddo di Helsinki mi sbatte in faccia, ossigeno puro che filtra dalle narici, la velocità mi distrae dalla crisi aggressiva e finalmente riesco a respirare.
 
 
Volto il capo dalla sua parte, è concentrata mentre guida tra le strade scivolose, non le frega niente di prendere una multa o di infrangere il codice stradale.
<< Non andare in ospedale. >>, sussurro, anticipando le sue mosse.
 
 
Getta un’occhiata sconcertata, è pallida come un cencio.
<< Perché? >>.
 
 
 
<< È passato. >>, la rassicuro e le metto una mano sul ginocchio, per tranquillizzarla.
 
 
Mette la freccia, ed accosta.
<< Cos’è stato? >>. Si protende verso di me, accarezza la fronte umidiccia e le dita si intrecciano alle mie. La sua pelle è fredda.
Faccio fatica a divulgare la debolezza che le ho scaricato addosso, ma la mimica angustiata, il panico negli occhi e il tono colmo di terrore, mi fa capire che siamo andati al di là del semplice rapporto tra due persone che si piacciono, ci siamo addentrati nella tana del bianconiglio e adesso le toccherà sorbirsi tutti gli orrori. È la sincerità ciò che ci siamo ripetuti, quindi intendo essere sincero, anche nello schifo che ho fatto.
 
 
<< È stato un attacco di panico. >>, ammetto, preferisco non guardarla, se notassi anche una sola nota di disgusto, potrebbe cadermi addosso il castello di carta che mi sono costruito da solo.
 
 
<< Cosa l’ha scatenato? >>, chiede, come se fosse ferrata sull’argomento. Non è schifata da me, anzi, sembra che voglia aiutarmi ad affrontare la questione spinosa.
 
 
Schiarisco la gola, copro gli occhi con un braccio ed ho paura che la crisi ritorni. Non accade. Lei riesce a placare l’anima.
<< L-la donna che stavo frequentando… ha fatto una cazzata, per me. >>.
 
 
Distende le gambe, cerca una posizione più comoda sul sedile e ragiona su ciò che ho detto. Non mostra un briciolo di gelosia, risentimento o rabbia.
<< E ti senti in colpa? >>, centra in pieno il punto. << Se vogliamo parlare di colpa, in questo caso, la colpa è mia. È colpa mia se l’hai lasciata, no? Quindi non vedo il perché debba sentirti male se, per colpa mia, la suddetta donna abbia fatto questa cazzata per te. >>.
 
 
La scruto spiazzato, il modo in cui ha messo la faccenda, non mi fa stare meglio. Sono ancora una merda.
<< Ho scelto io di lasciarla, indipendentemente da te. Sarebbe accaduto ugualmente, con lei non è stato amore, sapeva perfettamente cosa ci fosse tra di noi, così come sapeva che non sarebbe durata a lungo. >>.
 
 
Grava il capo sul poggiatesta, ha uno sguardo strano, è pallida, occhiaie scure, le iridi spente, la bocca esangue. Non sembra essere in gran forma.
<< Perché sentirsi in colpa per la scelta di qualcun altro? Quindi se tutte le tue ammiratrici fanno cazzate perché ti amano, tu ti sentirai sempre in colpa? >>.
 
 
<< Non è lo stesso discorso. >>.
 
 
<< Secondo me sì. >>, insiste e per un momento il suo ragionamento prende il sopravvento. Ha un tono glaciale, le parole si fanno crudeli e non riconosco più la ragazzina di sempre, quella spigliata, allegra e solare: la sua luce s’è spenta.
 
 
<< Che ti prende? >>.
 
 
Le spalle si curvano, sembra stia portando un gravoso peso, di cui non riesce a liberarsi. È sul punto di confessare, poi desiste.
<< Lascia stare, Ville, non capiresti e… francamente non capisco neppure io. >>.
 
 
Attendo che si spieghi meglio, che dia una motivazione a quel comportamento senza cuore e all’atteggiamento insensibile.
<< Cosa non capisci? >>.
 
 
La vedo deglutire lenta, ispira e poi volta la testa.
<< Tu non sei pronto per una storia seria ed io sono così incasinata, da non volere incasinare te. Sei già un caso disperato di tuo, senza che io ci metta il resto. >>. Avvicina la mano alla chiave, pronta ad avviare la macchina. << Dove vuoi che ti porti, visto che in ospedale non vuoi andare? >>.
 
 
Inarco un sopracciglio, un graffio leggero scalfisce il cuore. Dapprima non fa male, ma quando lo scruto meglio, avverto un dolore sordo trafiggermi da una parte all’altra. Migé sarà contento, in fin dei conti.
<< Pensavo che di te potessi fidarmi. >>, l’accuso risentito. È più che risentimento, è furia cieca, l’ho chiamata in un momento in cui sono stato debole e lei ha attaccato quando più ero vulnerabile.
 
 
La testa scatta, sbarra le palpebre e boccheggia offesa.
<< Non mi sembra di averti dato motivo di ricrederti. >>.
 
 
Aggiusto il sedile, non sto più male e le ho dato anche troppi vantaggi.
<< Me lo stai dando adesso, Amelia. Credevo che fossi diversa, invece sei esattamente come tutte le altre. >>, le riverso addosso lo shock per la notizia di Irina, il modo in cui il mio migliore amico mi ha trattato e il suo volermi scaricare come un sacco di merda. È il capro espiatorio di ogni mio dolore. << Che coglione sono stato nell’aver chiamato proprio te, no? Magari eri troppo impegnata con qualche altro scemo e ti ha scocciato dover mollare il gioco, per correre a soccorrere me. >>. L’acidità nelle parole le si getta addosso e la uccide.
 
 
<< Chi credi di essere per giudicarmi? >>. La voce è un sibilo letale, suona come una minaccia ed è resa più devastante da quegli occhi senza vita. Sembra morta. << Tu hai visto solo ciò che ti conveniva vedere e non mi interessa mostrarti cosa c’è dietro l’apparenza. La tua vita è troppo distante dalla mia… per un momento mi sono illusa che i nostri mondi si sarebbero potuti incontrare e magari coesistere, solo ora capisco che era una stupida utopia che abitava nella mia testa. Finisce qui qualsiasi cosa credi stesse nascendo. Scendi dalla macchina, Ville. >>, la sentenza giunge inaspettata ed inesorabile e mi affonda in un mare di stalattiti che infilzano la carne viva, facendo un male cane.
 
 
Non aggiunge altro.
Non aggiungo altro.
 
 
Apro lo sportello e il freddo di Helsinki è uno schiaffo gelido sul volto provato. Lei non attende oltre, mette in moto e, con gesti lenti, goffi e meccanici, si immette nel traffico e sparisce all’incrocio.
 
 
Io le donne non le capisco.  











Note:
Se fossi meno prigra, aggiornerei più spesso, però ahimé, sono molto pigra e vi toccano aggiornamenti lentissimi. 
Comunque, mica pensavate veramente che sarebbero state tutte rose e fiori, vero? "Sadismo" è il mio secondo nome e capirete il perché. 

Per descrivere l'attacco di panico, mi sono documentata a lungo e non è stato facile. Visto che so che Ville ne ha sofferto e ne soffre ancora, ho voluto mettercelo, come parte integrante della sua vita. Uno dei tanti demoni che deve combattere giornalmente. 

Ringrazio come sempre tutti quelli che commentono, che seguono e i fantasmini. 
La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 

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Capitolo 12
*** Che la fine abbia inizio ***


 
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12.
*Che la fine abbia inizio*








 
L’odore di disinfettante impregna il corridoio lungo, dalle pareti bianche e sterili dell’ospedale mezzo vuoto. La luce al neon si riflette su un pavimento lucido del blu più brutto che abbia mai visto.
L’anziana infermiera ha detto che è la camera dodici del reparto femminile, al quarto piano. Ascensore rotto, sto sfiatando, spaventosamente fuori forma. A che servono le ore trascorse in bicicletta a scorrazzare per la città, se non ce la faccio neppure a farmi un paio di rampe di scale? Dannate sigarette!
 
 
La mano destra è occupata da un mazzo di fiori: girasoli, tulipani e papaveri. Mai pari, non ho voluto sapere il perché. Il negoziante ha detto che sono l’ideale per augurare un “guarisci presto”… certo… l’ideale, se non fossi stato io la causa della “malattia”.
 
 
Con che faccia tosta mi presento in ospedale da Irina, dopo che è stato proprio il sottoscritto a mandarcela? A che pro regalare dei fiori ad una donna a cui non ho regalato neanche un minuto di felicità?  
Sentirmi in colpa è un sottile eufemismo, per spiegare lo stato d’animo da merda pestata! Non ho chiesto consiglio a nessuno, Migé non mi parla, Linde è indaffarato, i miei genitori sono fuori dalla lista e Jesse troppo impegnato con il Cd.
E poi Amelia… che mi ha mollato, quando ho mostrato la parte più debole e fragile. Che fregature le donne! Specialmente quelle che ti piacciono e che ti feriscono a morte. Ho provato a chiamarla tre volte, l’orgoglio è un subdolo nemico che avvelena la mente e i pensieri.
 
 
L’ho vista uscire stamattina con degli amici, non sorrideva, era pallida, sembrava non avesse dormito, di nuovo spenta. Si teneva in coda al gruppo, assorta da chissà quali pensieri angosciati e, prima di salire nella macchina, ha alzato il viso verso la torre, l’unico istante in cui un guizzo luminoso le ha attraversato il viso spossato. E poi di nuovo l’oblio.
 
 
Sono io che riduco così le persone, ha ragione Migé, sono tossico per chi mi sta attorno, faccio del male gratuito, non so amare e quel che è peggio, ferisco chi prova affetto per me.
 
 
Camera dodici.
 
 
Un indistinto chiacchiericcio proviene dalla stanzetta illuminata da un pallido sole, che è destinato a sparire nell’arco di qualche minuto, è la televisione, trasmette un programma di intrattenimento stupido e poco istruttivo. Io e Irina siamo esattamente l’opposto anche in questo.
Ieri notte, mentre ero sul divano ad impigrire, avevo immaginato di avere più coraggio, mille discorsi diversi, un’entrata trionfale, mentre adesso sbuco come un pagliaccio che si è mangiato la lingua. Non posso cincischiare a lungo, devo entrare.
Provo ad aggiustare almeno la giacchetta sgualcita, con poco successo, i fiori sono la cosa più bella, non spero che possa perdonarmi in qualche modo, ma tentar non nuoce.
 
 
Irina è sdraiata supina, i capelli di un biondo sbiadito sono intrecciati tra di loro lungo la spalla, ha un colorito giallognolo, le iridi di ghiaccio quasi trasparenti, assomiglia ad un cadavere. La flebo risale dal braccio destro, ha due bendaggi ai polsi: non ha tentato solo di avvelenarsi. È peggio di quanto credessi.
La signora nel lettino adiacente si accorge di me prima di lei e se ne esce con una frase infelice e parecchio fuori luogo. È una di quelle che apre la bocca, solo per farne uscire castronerie di livello apocalittico.
 
 
<< E questo bel giovanotto, è venuto a trovare te? >>. Solo le anziane mi etichettano “giovanotto” a quasi quarant’anni suonati.
 
 
Irina ci impiega qualche secondo per capire che la signora sta parlando con lei. Volta fiacca la testa, gli occhi raccapriccianti mi mettono a fuoco, non risplendono, nessuna vita, il sole è tramontato per sempre e mi ricordano Amelia quella mattina, aveva lo stesso sguardo vitreo ed inanimato.
 
 
Schiarisco la voce, sono completamente in imbarazzo.
<< Salve. >>, farfuglio a disagio. Attraverso ad occhi bassi la stanzetta bianca e sterilizzata, poggio il mazzo di fiori sul tavolino sotto la finestra e sosto per poco in quell’angolo: cerco un coraggio che non ho. Fisso la punta consumata delle converse usurate, prendo una grande boccata d’ossigeno e quando sono certo di iniziare un discorso sensato di scuse, Irina mi precede.
 
 
<< A che servono? >>, chiede atona, con una voce stanca, bassa, rauca, che a stenti riconosco. Sta parlando dei fiori. << Non sei mai stato tipo da fiori e cioccolatini… l’hai detto la sera stessa che ci siamo conosciuti. >>. Trovo assurdo che rammenti ciò che ho detto quasi un anno fa.
 
 
È la stessa frase che ho ripetuto ad Amelia, è la frase che dico a tutte, la frase che uso come alibi per non mostrare troppo affetto per chi mi sta accanto. Lo faccio perché, scegliere un regalo per qualcuno, significa dargli importanza, spendere del tempo scegliendo il meglio, è il chiaro segnale di essere innamorati per davvero e non solo a parole.
Vuol dire trasformare in gesti, quel che è solo nel cuore.
E non l’ho mai fatto davvero, perché non sono stato sul serio innamorato negli ultimi anni.
 
 
<< Migé mi ha detto. >>, è la ridicola risposta. Non so dire altro e vorrei sputarmi in faccia, per la freddezza delle parole, il distacco nei gesti e l’impassibilità dinanzi a ciò che le ho fatto, anche ora che sono faccia a faccia con la mia colpa.
 
 
<< Sei venuto a compatirmi? >>, interroga con sdegno. << O forse sei qui per il perdono? >>.
 
 
La signora nel lettino accanto, capisce che non è aria, scalcia le coperte e farfuglia qualcosa a proposito del bagno, sparendo dietro la piccola porta che conduce alla toilette. Ci si barrica quasi dentro. Forse così pettegola non è, dopotutto.
 
 
<< Nessuna delle due. Sono venuto a chiederti perché? Perché sei arrivata a questo? Era necessario? Cosa credevi di fare? >>.
 
 
Un riso di scherno si apre sulla bocca slavata.
<< Proprio tu vieni a farmi simili domande, Ville? >>. Mi guarda a lungo, gli occhi sono delle lame insanguinate che le trafiggono l’animo, vorrebbe che provassi lo stesso dolore e lo vorrei anche io, in fondo sono abituato. << Credevo che il mio amore sarebbe bastato per entrambe, che un giorno ti saresti svegliato e ti saresti accorto che provavi qualcosa per me. Poi ti ho visto con quella ragazza nel bar, come la guardavi, il modo in cui le tenevi la mano, il tuo sorriso… ed ho capito, anche se lo sapevo. Rassegnarsi è tutto un altro discorso, credevo di essere più forte, ma non lo sono. >>. Ecco chi aveva detto a Migé di avermi visto nel bar assieme ad Amelia e, mentre io ero felice, spensierato e tranquillo, nello stesso momento stavo spezzando il cuore ad un’altra persona.
 
 
Piego le spalle, sono sobbarcate dal ponderoso peso del mio sbaglio, aver messo in chiaro le cose, non l’ha preservata dal finire in un lettino d’ospedale, perché il suo amore per me è così devastante da non volerlo più provare.
 
 
<< Avrei pagato oro per vederti guardare me, come guardavi lei, gesti affettuosi, tenermi la mano, sorridermi solo perché eri felice di vedermi. Solo perché ero io! >>, le parole si spezzano malamente, trattiene un singhiozzo, le lacrime però scivolano bollenti sul viso smunto. Si volta dall’altra parte, non vuole che la veda piangere, preferisce preservare la dignità. << Non so cosa hai raccontato a quella ragazza, se sapeva di me… non farle ciò che hai fatto a me, perché, mentre tu nel petto non hai un cuore, le persone che fai entrare nel tuo letto ce l’hanno un cuore e lo usano. >>, termina gelida. Non aggiunge più niente, non riesco a replicare alcunché, ha ragione, cosa potrei mai dire? Vuole che me ne vada.
 
 
Abbasso la testa colpevole, non chiedo scusa, non c’è perdono in terra per averla annientata. Vorrei provare odio per me stesso, ma non c’è niente dentro di me, un vuoto incolmabile che si è allargato e che rischia di trascinarmi al suo interno.
Esco nel corridoio, incontro l’infermiera che mi ha dato le indicazioni e la saluto con un cenno, devo avere una faccia terribile, visto che mi scruta confusa, nemmeno fossi un fantasma.
 
 
E per la prima volta da quando sto frequentando Amelia, ho paura. Ho paura che possa fare la stessa fine, ho paura di romperle il cuore, ho paura di farla soffrire, ho paura che lei, anziché finire in ospedale, finisca direttamente al cimitero. Nello stesso momento in cui me la figuro bellissima, cerea, priva di vita, adagiata nella tomba, una bestia ferita si contorce convulsa nel petto e ulula un dolore che non è in grado di sopportare.
Ha ragione Migé, non posso continuare così, non posso usare le persone a mio piacimento e poi gettarle, non posso dare speranza a chi prova qualcosa per me e poi spingerle fuori dalla mia vita senza pietà. Questo circolo vizioso deve finire.
 
 
Svolto l’angolo, sono assorto da diversi pensieri, alcuni sono sensati, altri no. Forse la devo smettere di essere un tipo che non regala fiori e cioccolatini, forse per trovare un po’ di pace in questa vita, devo dare una grande svolta e lavorare su me stesso. Decido, non appena esco dall’ospedale, vado di filata al primo fioraio e compro delle rose, poi la migliore marca di cioccolatini, magari mi faccio consigliare da qualche commessa, visto che non sono un patito di cibi zuccherini.
 
 
Alzo lo sguardo disattento e, in fondo al corridoio illuminato da forti luci al neon, riconosco una chioma castana familiare. L’amica di Amelia è qui, con lei ci sono due ragazzi, uno con lunghi capelli biondi e ricci, che le tiene un braccio dietro la schiena e l’altro con capelli corti e neri. Stanno parlando con un medico, hanno una mimica agitata, afflitta, sembra che il dottore gli stia comunicando una notizia terribile.
D’un tratto la ragazza affonda il viso tra le mani e scoppia in un pianto convulso. Quello con i capelli lunghi e ricci l’abbraccia e l’altro le lambisce affettuoso un braccio.
Una terribile sensazione si aggroviglia alla bocca dello stomaco, come di uno spaventoso presagio che mi inchioda sul posto. Sono sul punto di rimettere il miscuglio rivoltante di caffè e sigarette. Vorrei avvicinarmi di più per sentire la tragica notizia, al contempo ho il terrore di ascoltare delle parole che non voglio sentire. La voce nella testa grida un solo nome.
 
 
Nelle orecchie riecheggiano le parole che ho usato per descrivere gli occhi di Irina e che hanno rimembrato lei: “non risplendono, nessuna vita, il sole è tramontato per sempre.”.
 
 
Deve essere questo il grande segreto, il segreto che lei cercava di non rivelarmi, il segreto che la sua amica ha provato a farmi capire invano, il segreto che, benché non ne intuisca i risvolti, conosco perfettamente.
Il cervello mi obbliga a fuggire via il più lontano possibile, mentre i piedi, un battito funereo alla volta, si avvicinano inesorabili al quartetto.
 
 
Il capellone è il primo a vedermi, sussurra concitato qualcosa nell’orecchio della ragazza e l’obbliga a voltarsi. Il dottore se ne va e l’altro ragazzo mi squadra sbalordito. Non capisco se è perché sanno chi sono o perché sanno chi sono per Amelia.
Si asciuga in fretta le lacrime, ma le è impossibile nascondere l’evidenza. Un miliardo di domande si riversano sulla lingua, nessuna di essa si articola a parole, non ho il coraggio di chiedere ragguagli su ciò che è praticamente evidente ai miei occhi. Non può mentirmi.
E prima che possa pretendere un chiarimento, lei alza una mano per fermarmi. È così distrutta che fatica perfino a respirare. Qualsiasi sia il problema, le fa talmente male che non ha la forza per affrontarmi.
 
 
<< Non io. È alla macchinetta degli snacks. >>. Indica un punto indefinito alle sue spalle, nell’altro corridoio.
 
 
Scorgo una piccola saletta quadrata, provvista di due divani ed una lunga panca bianca. Amelia è seduta nel bel mezzo di quest’ultima, scruta il paesaggio innevato al di fuori della finestra, ha un viso sbattuto, gli occhi vitrei, scuri, non ride più. È rannicchiata, tiene strette le ginocchia al petto, come se intendesse colmare un vuoto che nessuno riesce a riempire. Gli ultimi bagliori del giorno invernale, la trasformano in un angelo bellissimo, etereo, quasi impalpabile, un mero frutto di un’arida immaginazione.  
Deve essere la vita, penso, mentre trascino le gambe pesanti, ciò che ho fatto ad Irina si sta ripercuotendo sull’unica persona che è in grado di farmi sentire vivo, felice ed amato.
 
 
Io ho tolto qualcosa a lei, il destino sta facendo ugualmente a me.
 
 
Il rumore dei passi mi annunciano, lei si volta di scatto, credendo che fossi qualcuno dei suoi amici, non si aspetta di vedermi e, se possibile, impallidisce maggiormente.
Boccheggia sconvolta, deglutisce e scende piano le gambe sul brutto pavimento dalle mattonelle blu.
<< Che ci fai qui? >>, domanda innocente, sta cercando di insabbiare l’accaduto, di evitare le spiegazioni, prende tempo per inventare una bugia.
 
 
 
 
Fino ad oggi ci siamo ripromessi di essere sinceri, non intendo spezzare questa catena, pertanto vado dritto al sodo, come piace a lei, come piace a me, come piace a noi.  
 
 
<< Quanto tempo? >>. Ho la saliva azzerata, un fuoco infernale che sta divampando nel petto, le lingue incandescenti inceneriscono i polmoni, il cuore e soprattutto l’anima. Vorrei essere sordo per non sentire la risposta, cieco per non guardarla in quello stato e muto per non chiedere.
Se la sua amica è distrutta a tal punto, non si tratta di una banale influenza o di una malattia curabile. La morte è venuta a farle visita e, come in una fiaba degli orrori, lo sgomento di vederla stesa in una bara, fredda ed immobile, sta prendendo mostruosamente vita.
 
 
Le linee di apprensione sulla fronte si appianano, ha smesso di cercare una scusa per spiegare la presenza in ospedale.
<< Due mesi. >>, annuncia la dolce voce da bambina, che in un istante intossica il sangue e mi uccide sul colpo. La mano cerca un appiglio sul muro liscio, le gambe tremano e non riesco a sorreggere il peso.
 
 
<< Cos’è? >>. Voglio sapere il nome del demone che me la sta strappando via per sempre.
 
 
<< Linfoma di Hodgkin allo stadio terminale. >>. Ne ho sentito parlare, ma non so cosa sia, il perché nessuno l’abbia curata o perché diavolo devono restare due mesi proprio a lei. << Credevo di avere più tempo. >>, aggiunge e con mio sommo terrore comprendo.
 
 
<< Tu lo sapevi? >>, sbotto scandalizzato. Non ho ancora incassato il colpo, che ne ricevo subito un altro, non fa male come il primo, ma mi centra dritto in faccia. Sul naso, considerando che non respiro più. Ho bisogno di fumare.
 
 
Annuisce, abbassa la testa e allunga le gambe, forse intorpidite dalla precedenza posizione.
<< So anche chi sei. La sera che ho bussato a casa tua la prima volta, sapevo benissimo chi fossi. >>, confessa, non ha il coraggio di guardarmi in faccia. Le ho chiesto la verità la sera che ha impedito che mi uccidessi, ed è la verità che mi sta raccontando.
 
 
Terzo pugno in faccia, in bocca stavolta, non sono più in grado di proferir parola. Non so se sono più disperato perché la ragazza di cui sono innamorato sta per morire o perché tutto ciò che ho vissuto con lei fino ad oggi è una fottuta menzogna.
 
 
<< Sono ad Helsinki perché volevo spendere, ciò che rimaneva della mia vita, con te. Non speravo di riuscire ad avvicinarmi tanto, non speravo molto ad essere sincera, anche come amici andava bene. Ma quando hai aperto la porta, quella notte, ho capito che nessuna misura affettiva sarebbe stata abbastanza, se non l’amore stesso. >>.
 
 
 
Un precipizio si apre sotto i miei piedi e ci cado dentro, come Alice nel Paese delle Meraviglie, ma non sono meraviglie quelle che vivo, sono delle atrocità disumane.
La fisso con le palpebre sbarrate, sono sconvolto, traumatizzato, affranto, avverto i lucciconi pungermi gli occhi, voglio urlare e prendermela con lei, per essersi avvicinata a me, nonostante fosse consapevole che mi avrebbe dato un dolore devastante. La miccia è vicina dall’esplodere, però non accade, lo stoppino si spegne e d’un tratto la furia per le menzogne si affievolisce: ci sono cose più importanti.
Solo ora mi è chiaro il motivo per cui i suoi amici si sono trasferiti dall’altra parte d’Europa per lei, perché suo padre era contrario, perché ha quel modo leggero di vivere, perché fa tutto ciò che le passa per la mente, perché ha confessato in fretta i suoi sentimenti.
 
 
Mi siedo sul divano davanti a lei, ci sprofondo dentro, getto la testa sull’apice dello schienale ed è come essere morto. Scruto il soffitto senza vederlo davvero.
<< Perché non mi hai dato possibilità di scelta? >>. Non sono adirato, non posso esserlo, tuttavia ho uno squarcio dentro, che ha aperto lei, alla fine mi ha fatto del male, ma non come lo avevo immaginato. << Perché hai permesso che mi innamorassi di te in questo modo? >>.
 
 
Ispira brusca, mentre le rivelo per la prima volta che sono innamorato di lei, perdutamente, senza possibilità di redenzione, dannato per l’eternità. A che serve tacerglielo?
<< Se avessi avuto possibilità di scelta, non avresti scelto tutto questo, non avresti scelto me, Ville… non ti saresti mai innamorato di una persona in fin di vita. >>.
Mi conosce meglio di quanto mi conosca io.
 
 
Sollevo la testa pesante, l’emicrania è in agguato. È bellissima, nonostante sia provata, deve essere venuta in ospedale per delle analisi o per una cura che è stata inefficace. È lo splendore di una condannata a morte, o forse sono io che la sto guardando con occhi diversi, gli occhi di qualcuno che osserva intensamente una persona che sa gli verrà portata via. Cerco di imprimere nella memoria i tratti, la forma della bocca, le iridi cangianti, il naso piccolo, i capelli a caschetto, le mani affusolate. Il profumo dolce, le sensazioni violente che mi trasmette.
No, non riesco ad accettarlo, non sopravvivrò a tale scoperta. La sua amica ha pianto, io farò molto peggio.  
 
 
<< Quando avevi intenzione di dirmelo? >>.
 
 
<< Mai. >>.
 
 
<< Mi hai scaricato di proposito? >>.
 
 
Tortura le dita, arpiona gli indici tra di loro, le costa molto essere schietta in tale frangente.
<< Volevo che non fosse troppo tardi per te. Ho capito che era da egoisti cercare la mia felicità, a discapito della tua… non era giusto. >>, riconosce. Lei ha fatto esattamente quello che ho fatto io con tutte le altre, con Irina, solo che si è fermata prima. Non abbastanza, comunque, altrimenti non farebbe così male.
Amelia è la versione di me al femminile, ma con un cuore.
 
 
Protendo la mano e la poggio sulle sue, ha la pelle gelida, sta più male di come appare, mi si stringe il cuore, deve amarmi ad un tale livello per essersi trasferita ad Helsinki per me, per scegliere me come compagno in questo ultimo viaggio, ma ha preferito preservare il mio cuore, per non farmi soffrire.
Il secondo dopo l’ho strattonata tra le mie braccia, sulle mie ginocchia, le bocche un sigillo estremo che suggellano l’amore e la morte. La stringo con una tale forza a me, che ho paura di spezzarla, ma adesso le avverto, una dopo l’altra, le onde devastanti di sofferenza brutale che mi abbattono e mi fanno colare a picco nei meandri degli abissi.   








Note: 
E niente, penso che il capitolo sia già abbastanza carogna di suo, senza che io aggiunga nulla. 

Complimenti a chi c'era arrivato. Ah, e Buon San Valentino a tutti xD 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 

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Capitolo 13
*** Il tempo in una bottiglia ***


 
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13.
*Il tempo in una bottiglia*







 
È la prima volta che sono innamorato perdutamente di una persona, senza averci fatto l’amore un paio di volte. Credevo fosse importante per me, che gusto c’è a stare assieme ad una persona impedita a letto, che non ti soddisfa e che per di più è totalmente negata?
Un azzardo comprare la merce senza essere provata!
Invece mi ritrovo con una ragazza che ho baciato a malapena tre volte, capace di incantarmi, che è riuscita a smuovere qualcosa di oscuro nei meandri del mio essere… per soli due mesi, poi sarà il male più devastante che abbia mai saggiato. Non l’ho presa bene, ma per le urla e i comportamenti da pazzo psicolabile, preferisco attendere la sua assenza, magari i miei genitori sono le persone appropriate per darmi la forza necessaria per affrontare tale situazione.
 
 
 
Asciugo le lacrime silenziose, mentre la tengo stretta sul cuore, lei si abbarbica meglio e il letto cigola. Ne ha viste di donne questo letto, ma mai donne vestite, mai donne con malattie inguaribili, mai donne che lo fanno cigolare per abbracciarmi e non per fare sesso.
Si può amare senza aver mai condiviso il corpo, ma solo l’anima e il cuore.
 
 
Apre gli occhi e mi scruta con uno sguardo intenso, abissale, puro, che mi pugnala più e più volte, infilzando la stessa ferita. Ricordo una frase di Bukowski, sembra scritta per lei, cucita addosso: “Sembri tutta equilibrata, ma in realtà sei emotivamente disturbata. E poi hai questi enormi occhi, e la cosa certe volte mi travolge.
Vorrei recitargliela, le parole mancano, così come tutto il resto.
Non riesco a rendermi conto che il suo tempo è limitato, che il mio tempo con lei è limitato, che due mesi sono relativamente pochi per tutto quello che avrei voluto fare con lei. E mi sento schiacciare sotto il peso insopportabile degli eventi.
 
 
<< Non pensarci, Ville. >>, sussurra mesta sulla mia bocca asciutta, ho la carta vetrata in gola e un nodo ai polmoni.
 
 
Schiarisco più volte la voce, non sono certo che non tremi. Devo darle forza, non il contrario. Non sono in grado di dare coraggio ad una condannata a morte.
<< Non posso. >>, replico e percepisco il crollo dei nervi sfondarmi le costole, incenerirmi lo stomaco e inzaccherare malamente il cervello. Mi manca l’aria, tuttavia non oso muovermi, voglio godermi l’attimo fino in fondo.
 
 
<< Io non ho paura. >>, afferma e quello è il colpo di grazia, perché ho talmente paura per lei e, egoisticamente, anche per me, che non riesco a formulare un pensiero logico da quando l’ho saputo.
Che cosa posso risponderle? Cosa si dice in questi casi? Che cazzo devo fare?
 
 
Una straziante sensazione di caos brutale si fa beffe della mia mente, è come se non riuscissi a rassegnarmi in alcun modo e avessi appena perso qualsiasi forma di pace acquisita, grazie a lei. Solo ora capisco davvero perché è meglio che gli esseri umani non sappiano la data della propria morte, altrimenti c’è il rischio di schiattare di crepa cuore prima di quel giorno.
Sto per scoppiare, Amelia sembra intuirlo, deve essere già accaduto a tutte le persone care intorno a lei, perché sa esattamente come smorzare l’agitazione fatale. Balza in ginocchio sul letto, poi scende in piedi sul pavimento e stende il braccio, mano aperta verso di me.
 
 
<< Balliamo. >>, propone con un sorriso vero, non c’è niente di finto o artificioso, non sta cercando di mascherare l’angoscia, è davvero contenta di essere lì con me e di invitarmi a ballare.
 
 
<< Non riesco ad accettarlo. >>, confesso alla fine. Stupidamente sono certo che rendendola partecipe, io possa sentirmi meglio, invece no, non è così, sto di merda. Decisamente.
 
 
È ferma nella medesima posizione, l’offerta è ancora valida.
<< Nessuno ti ha chiesto di farlo. Io non l’ho accettato… se l’avessi fatto, non sarei qui. >>. Smuove la mano sotto il mio naso, non vuole più parlarne, io invece non vorrei fare altro, ho bisogno di trovare una ragione, un perché concreto, una spiegazione che possa darmi un briciolo di rassegnazione. Non ne vengo a capo e sono sul punto d’impazzire. << Balla con me, Ville, ti prego. >>. E come se gli occhi da cerbiatta non fossero una motivazione abbastanza convincente, la voce è un dolce sussurro che riecheggia melodiosa nelle orecchie.
 
 
<< Non c’è musica… e poi non so ballare. >>, mormoro, la voglia di mostrarmi contento è pari a zero.
 
 
Sbuffa, è di nuovo bambina, la stessa bambina che mi ha schiaffeggiato, deriso e lanciato frecciatine. È la stessa Amelia di sempre, se non fosse per il colorito malato della pelle.
<< Oh quante scuse! Non ti ho mica chiesto di partecipare ad una gara, eh? Devi ballare con me, pestarmi i piedi e muoverti in maniera scoordinata, nient’altro! Credi di potercela fare? >>.
 
 
Avverto il viso contratto rilassarsi, le sopracciglia abbandonare il cipiglio scuro, la bocca distendersi e il mal di testa salutarmi affannosamente.
<< Ce li pestiamo a vicenda? >>, riesco a dire, in un barlume di letizia, fasulla come una banconota da sei euro.
 
 
<< Ti avverto: sono una pestatrice di piedi provetta! Dubito che potrai competere con me. >>. Si atteggia a gran donna e lo è davvero una gran donna, una donna che sta guardando in faccia la morte, continuando a vivere al massimo fin quando potrà.
 
 
Le prendo gentile la mano, scendo dal letto e siamo uno di fronte all’altra. L’afferro lentamente in vita, lei mi getta le braccia al collo ed arriva al mio cuore, vi poggia l’orecchio sopra.
<< Eccola, la musica… >>.
 
 
Non sono portato, imito i suoi passi, miracolosamente nessuno dei due pesta i piedi al proprio compagno e non c’è nient’altro per un tempo indefinibile. Annuso il profumo di zucchero filato che proviene dai capelli morbidi e lucenti.
<< Cosa vorresti che facessi per te? >>. Suona molto come: “esprimi un ultimo desiderio, lo esaudirò”. Ho un groppo dolorosissimo in gola, deglutisco più e più volte, ma non riesco a mandarlo giù.  
 
 
Solleva il viso, l’espressione è di pura estasi.
<< Niente di più di quel che già stai facendo. Comportati come se non l’avessi saputo, segui il tuo istinto. Dopo un po’ ci farai l’abitudine. Cosa avresti fatto oggi, se non ci fossimo incontrati in ospedale? >>.
 
 
Rammento la promessa che mi ero fatto dopo aver visto Irina.
<< Volevo comprarti un mazzo di fiori e dei cioccolatini, per chiederti di ripensarci dopo la decisione che avevi preso. >>.
 
 
Le iridi di grano brillano di una luce ammaliante.
<< Pensavo non fossi tipo da fiori e cioccolata. >>.
 
 
Scrollo le spalle, azzardo una mossa di danza che riesce a stenti, la faccio ruotare su se stessa e poi è di nuovo al sicuro tra le mie braccia.
<< Essere gentile, di tanto in tanto, può fare solo che bene. >>.
 
 
<< Mi piacciono i fiori, e la cioccolata è sempre una buona idea per fare pace in maniera dolce. >>.
 
 
Sono vicino dal dirle che conosco una maniera ancor più dolce di fare pace, però mi trattengo, suona squallido, non ho la più pallida idea di come debba comportarmi, di cosa sia giusto dire o fare, e cosa no.
 
 
Si avvicina in punta di piedi al mio orecchio e, come se avesse letto nei pensieri più inaccessibili e scabrosi, dà voce alle fantasie.
<< Conosco una maniera ancor più dolce di fare pace. >>. Nota l’espressione smarrita, sto combattendo contro me stesso, una guerra che non avrà vincitori, solo vinti. << Guarda che non sono vergine. >>, aggiunge, preoccupata che sia questo il problema fondamentale che mi ha trasformato in un ghiacciolo vivente.
 
 
Scoppio in una frenetica risata, che non è proprio una risata, almeno all’inizio è così, poi qualcosa scatta, un clic nella testa. Sciolgo l’abbraccio, siedo sul letto e affondo il volto tra le mani, scoppiando in un pianto selvaggio, che non accenna a calmarsi minimamente, anzi, più ci penso e più sono certo che il cervello cederà e perderò la ragione.
 
 
Amelia si inginocchia ai miei piedi, lambisce i capelli e bacia la fronte, provando a dare un sollievo che dovrei darle io.
<< If I could save time in a bottle, the first thing that I'd like to do, is to save every day, till Eternity passes away, just to spend them with you. >>, inizia a cantare con voce soave, amabile, che fa anche più male del silenzio stesso. Ora sono certo che non sarò in grado di vederla morire, senza che io possa fare nulla. << If I could make days last forever, If words could make wishes come true, I'd save every day like a treasure and then. Again, I would spend them with you. >>. Non conosco questa canzone, le parole restano impigliate nel cuore, scritte indelebili, stampate per sempre a fuoco.
 
 
I suoi occhi sono lo specchio limpido e trasparente dei sentimenti, non attende che sia io a fare la prima mossa, non ha più tempo per attenersi ai ruoli, lo sguardo diviene languido, asciuga le lacrime con l’indice, poi lo sostituisce con le labbra. Traccia una scia di baci, si sofferma sulle gote, s’attarda a gustare il sapore salato e caldo dei lucciconi, si tiene lontana dalla bocca, preferisce farmi agognare il più importante dei contatti, accende un fuoco corvino che sarà la mia fine. Ho così voglia di lei che le blocco il viso tra le mani e sono io a baciarla con un’intensità in grado di annientarmi immantinente.
È anche più di un bacio, è il bisogno spasmodico di fermare il tempo che scivola via, la necessità di far cessare l’urgenza vorticosa che è insorta nel petto.
Non riesco a capire come mi sento, non ne vengo a capo, è come essere spezzati a metà, una parte vuole una cosa e l’altra l’esatto opposto, entrambe combattono per inseguire la brama concupiscente in due direzioni differenti. Vogliono la stessa cosa: lei.
Al contempo, vorrei frenarmi, mi sto addentrando in un labirinto privo d’uscite, sto per vedere quanta è profonda la tana del bianconiglio.
Una voce nel cervello grida di non farlo, ma ho smesso di seguire la ragione molti anni fa e se devo soffrire come un cane, preferisco essere felice da far schifo finché la vita me lo permetterà.
Sono pasta modellata tra le mani affusolate, potrebbe farmi fare qualsiasi cosa desideri ed io non opporrò alcuna resistenza.
 
 
<< Voglio che tu mi dica tutto, Amelia, ogni cosa ti passi per la testa, non devi risparmiarmi niente. >>, mormoro a stenti, tra un bacio e l’altro e, mentre sto per proseguire la frase, mentre sto per dirle che voglio esserci fino alla fine, lei poggia una mano sulla mia bocca per zittirmi e mi guarda… no, non mi guarda negli occhi, mi guarda nell’anima. 
 
 
<< Voglio fare l’amore con te, Ville. >>, rivela, assecondando ciò che le ho detto. Si alza in piedi, inducendomi a fare lo stesso. Riprende a baciarmi con trasporto, è lei a condurre il gioco, lascio che sia così, non ho bisogno di dimostrare la mia bravura, non è più una gara a chi vince sull’altro.
Lei ha già vinto.
 
 
Immagino che non abbia aspettato altro da chissà quanto. La regola fondamentale “mai legamenti con le fans”, è andata a farsi allegramente benedire, visto che non la vedo neppure più come un essere umano, è una creatura celestiale , che ho incontrato per fortuna e che resterà con me per poco, troppo poco, tempo. Voglio amarla, come non ho mai amato nessuna prima, né dopo.
 
 
Mi sfila via la maglia, ha qualche difficoltà, sono troppo alto. Ridacchiamo complici, ci baciamo ancora e ancora, la spoglio con estrema dolcezza, di solito sono impaziente, intemperante, sbrigativo, ma voglio che avvenga tutto con infuocata calma, devo ricordarmi anche i particolari più futili della nostra prima volta insieme. Ne sono come ossessionato.
Fantasticare il suo corpo nudo è niente in confronto ad avercelo tra le braccia, è calda, soffice, di velluto, prova a nascondere alcune cicatrici che le hanno provocato le cure inefficienti.
Se solo fossi stato più attento, avrei capito molto prima.
Deve aver sopportato così tanto dolore, da farmi sentire male. E solo ora capisco il perché non siamo finiti prima a letto, il piccolo heartagram tatuato sul cuore è la prova evidente dell’immenso amore che nutre per me ed ha preferito celarlo fin quando ha potuto.
 
 
Ne traccio i contorni, lo bacio, arrossisce. Adoro il colorito vivace che hanno ripreso le gote, gli occhi sfavillanti sono fissi nei miei, non riesce a guardarmi dalla vita in giù, è agitata, ho l’impressione che stia tremando, più nervosa di quanto lasci vedere.
Sorrido tenero, finalmente spetta a me tranquillizzarla, non lo faccio con le parole, qualsiasi cosa dicessi adesso suonerebbe eccessivamente melensa, stupida e ridicola. Lascio che sia il mio corpo a darle la calma che ha perso.
Il letto è fin troppo grande per ospitare due anime che ne stanno divenendo una sola. È sotto di me, dentro di me, nel sangue, scorre come lava fluida, l’avverto in ogni più piccola cellula che mi compone, è un’unione che supera la comprensione umana, è così forte che taglia i ponti con la realtà. Un’unione carnale e spirituale che mi ha assorbito totalmente.
Se questo è il paradiso, non rimpiango di aver abbandonato l’inferno, con tutti i demoni e i mostri. Lei non è Satana, è l’angelo più bello del paradiso, che Dio mi ha concesso in cessione e che presto rivorrà al suo fianco.
 
 
Il respiro cresce, non riesco ad essere più dolce e pacato come speravo, la lussuria è così forte da agire per me, cerco l’appagamento fisico e non resisterò a lungo. D’un tratto Amelia si agita, inarca la schiena, la bocca umida dischiusa, le palpebre chiuse tremano, sono io ad averla portata a quel punto, il piacere impetuoso l’invade.
Basta questo per scatenare il mio.
Inizia con una calma quasi impalpabile, cresce in maniera esponenziale ed è come annegare in un mare di luce, ma, anziché essere desolante e spaventoso, è benessere puro, godimento che non ha fine… ed avevo ragione io, poiché, nel momento stesso che l’apice è stato toccato, intuisco che, benché io abbia quasi quarant’anni e certi azzardi non mi sono più concessi, sono di nuovo pronto a ricominciare e che non mi basterà tutto il pomeriggio o la notte intera per saziarmi di lei. 










Note: 
Dopo averci riflettuto a lungo e dopo la recente notizia dello scioglimento degli HIM, ho deciso di non scrivere più sugli HIM e su Ville. 
Era una decisione che aleggiava già da tempo, ma il loro scioglimento ha reso effettiva la mia scelta. 
Quindi, questa è l'ultima ff che scriverò su di loro e non ce ne saranno altre, mai più. Porterò, comunque a termine questa storia. 

Detto ciò, la canzone all'interno della storia è quella che ha dato il titolo al capitolo "Time in a bottle" di Jim Croce. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   




 
 
 

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Capitolo 14
*** Un bacio prima di morire ***


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14.
*Un bacio prima di morire*








 
A quanti è capitato di vedere una persona e pensare “io con lei ci passerei tutta la vita?” immagino a tanti, anche a più di quanto si possa credere, sembra una frase banale, ridondante, stucchevole, esageratamente estrema per essere presa sul serio. Lo credevo anche io, specialmente per il sottoscritto che non riesce a mantenere un rapporto stabile per più di due anni, figuriamoci se sono mai riuscito a fare una simile previsione a lungo termine.
 
 
Eppure nella vita ci si sbaglia, e di grosso per giunta.
 
 
Perché adesso, in questo letto fitto d’amore, testimone di come è possibile fondere la propria anima attraverso il corpo, studio accorto e silenzioso Amelia dormire al mio fianco, ed ho un pugnale piantato nel centro del cuore sanguinante: io con lei, non ci posso passare la vita. Ma è esattamente ciò che bramo.
Buffo come cerchiamo di ottenere proprio quel che non possiamo avere.
 
 
Lei si volta nella mia direzione, sorride allettata, stropiccia gli occhi assonnati e sembra l’inizio di una favola. L’orologio segna le dieci di sera inoltrate, sono più di otto ore che siamo a letto.
Mi fissa a lungo, non dice niente, la bocca pian piano lascia il posto ad un’incurvatura afflitta, è bloccata in pensieri tetri a cui non ho libero accesso.
<< Secondo te com’è morire? >>, chiede, ed è la prima volta che affrontiamo il discorso, con nessuno dei due che cerca di rendere meno amara la pillola all’altro. Riesco a scorgere il panico negli occhi di grano.
 
 
Le prendo la mano tra le mie, stringo forte, bacio le nocche e la tengo sul cuore.
<< Ho letto che è come addormentarsi, dopo una lunga giornata stancante… quasi non ci si accorge di niente. >>, mento oscenamente, ho talento in questo, tutta la mia vita è stata una menzogna. Sono disposto a tutto per cancellarle via la paura.
 
 
Distoglie lo sguardo, nuovamente assorta nel suo mondo, la bocca si dischiude e ricomincia a parlare, senza mai incontrare i miei occhi.
<< Come si dice “ti amo” in Finlandese? >>, interroga atona, sono più che sicuro che lo sappia, ma non ha l’aria di scherzare, quindi ho il beneficio del dubbio, ed evito le battutine da coglione.
 
 
<< Minä rakastan sinua. >>, espongo calcando la “r”, con tono intimo, baritonale ed intuisco che non ho solo tradotto il modo più famoso al mondo per esprimere i propri sentimenti, ma che io quel “ti amo”, lo provo per davvero. << Non lo sapevi? >>.
 
 
A quel punto sorride furba, la recita è stata scoperta.
<< Certo che lo sapevo! >>, afferma birbante. << Credi che, dopo un decennio che ti seguo come artista, non abbia imparato una cosa così importante nella tua lingua? Ma quando mi ricapiterà più sentirtelo dire?!? >>. Non è certa che due mesi siano abbastanza per sfociare in un “ti amo” vero e non detto per pura pietà.
 
 
Scuoto la testa, rassegnato ad essere imbrogliato da una ragazzina che ha preso totalmente il mio cuore.
<< Mai dire mai. >>. Però non lo dico, ho troppo sgomento per confermare ciò che sento, ma non ce n’è bisogno, sono già fottuto.
 
 
<< Io ti amo. >>, lei lo dice, con una voce forte, chiara, intrisa di passioni indelebili. È meno vigliacca di me. Se la situazione fosse stata diversa, se avesse avuto più tempo, non me l’avrebbe confessato ora e se l’ha fatto, non è sicura di arrivare alla fine dei due mesi, ogni istante, potrebbe essere l’ultimo. << So che non è lo stesso per te, Ville. E non voglio che sia lo stesso, perché sarebbe una bugia. Ed hai promesso di essere sincero, così come lo sono io, dicendoti che ti amo. >>.
 
 
Scivolo più vicino, le accarezzo teneramente il viso, è così evidente ora la sua malattia. Come ho fatto a non accorgermene prima?
<< Sono sincero quando dico che sono innamorato di te, Amelia. Forse non è amore al tuo medesimo livello, ma so che sono legato a te in modo indissolubile e il solo pensiero che… >>, la voce viene a mancare, il tono non è dei più felici, stavolta non piango e mi costa cara, << … è come se mi stessero strappando via il cuore dal petto. >>.
 
 
<< Resterò con te anche dopo, Ville. >>, è un modo come un altro per rinfrancarmi, ma non sarà così, dopo non la vedrò più, toccherò più… non ci sarà più niente dopo. << Smetti di tormentarti, voglio che questi mesi siano i più belli per entrambe. >>.
 
 
Storco il naso, sforzo un sorriso pienamente fasullo, è per rasserenarla. Ho bisogno di parlarne con qualcuno, sto per esplodere, domani mattina ci saranno delle decisioni fondamentali da prendere, Seppo capirà: l’uscita del Cd è posticipata. Anelo donare ad Amelia quello che le avrei dato negli anni, lo concentrerò tutto in una volta.
 
 
<< Voglio presentarti alcune persone. >>, asserisco, è entrata nel mio mondo e adesso deve essere il mio mondo. Migé dovrà farsela piacere, senza “se” e senza “ma”. << E poi voglio mostrarti Helsinki. >>.
 
 
Flette le sopracciglia, mi guarda come se fossi uscito di senno e forse lo sono davvero, perché la realtà d’improvviso appare capovolta.
<< Conosco già Helsinki. >>.
 
 
<< Sì, ma non come voglio mostrartela io. >>. Metto una mano sul cuore e l’altra la tengo aperta a mo’ di giuramento. << Prometto niente malinconie. >>.
 
 
Le dita mi vezzeggiano, tracciano svolazzi fiabeschi sul petto, si perdono tra i tatuaggi, risalgono su per i rovi del braccio, fin tra i capelli scarmigliati.
<< Prometti che sarai tu felice, perché io lo sono già. >>. Un piccolo bacio sulla bocca, come la brezza marina estiva al mattino, breve e che lascia una traccia permanente. Ne voglio di più.
 
 
<< Farò del mio meglio. >>, altra bugia. Ho così paura del domani, che mi sto aggrappando a lei, neanche fossi un naufrago alla deriva.
 
 
Ticchetta l’indice sul pomo d’Adamo, indecisa se proseguire sulla linea della schiettezza o evitare per non peggiorare la situazione. Ha le iridi intrecciate alle mie ed un contatto visivo che ha del prodigioso, rabbrividisco per il trasporto che vedo in essi, non è nulla di prettamente fisico, il corpo non centra niente.
 
 
<< Se avessi potuto, avrei voluto avere dei figli con i tuoi occhi. >>.
 
 
In precedenza questi discorsi mi avrebbero fatto fuggire a gambe levate, mentre adesso, una piccola parte di me, sperduta, oscura e che non sapevo di possedere, ambisce ardentemente l’identica cosa. Non ho mai voluto davvero dei marmocchi che urlano per casa, una moglie, un nucleo familiare che dipenda da me, eppure è un smania prepotente a tal punto che cancella ogni altra aspirazione.
Di nuovo rincorro ciò che non sarà mai mio.  
 
 
<< Oh, sono sopravvalutati. >>, la butto lì per farla sorridere. Ogni volta che ci riesco, la reputo una piccola vittoria personale. << Sarebbero stati meglio con i tuoi: così caldi, accoglienti e… >>. La sua frase risuona nelle orecchie, “se avessi potuto” ha detto, non era un modo per farmi un complimento diretto, cerca di indicare altro.
 
 
<< Non posso averne, Ville. Però avrei voluto… >>. Non termina la frase, ha già confessato abbastanza per un giorno solo, ma preferirei che continuasse, che dicesse tutto ciò che le passa per la testa e non ometta niente.  Le cure l’hanno resa sterile e a questo punto mi pare da deficienti aver messo il preservativo per fare l’amore con lei, d’altronde non posso essere più mortale della malattia stessa.  
 
 
<< Anche io avrei voluto… con te. >>. E sono così franco da fare schifo.
 
 
È colpita, non si aspettava una simile risposta. Poi si lascia andare ad un sorriso aperto, quasi divertito.
<< Avrei voluto vederti a cambiare pannolini. >>, nonostante stiamo parlando di dolore, un futuro che non le è concesso e di un evento funesto, riesce a ridere in faccia alla morte. Non avrei la stessa forza.
 
 
Scrollo le spalle, poggio le testa sul suo cuscino, avverto il profumo dei capelli e il calore della pelle, fissiamo il soffitto, come se vi fosse uno schermo che trasmette un discreto film romantico.
<< Ho a che fare con gente psicopatica da quando ho iniziato a cantare, cosa vuoi che sia cambiare dei pannolini? >>. Ridiamo complici, condividiamo il momento dilettevole, ci scordiamo temporaneamente del resto.
 
 
<< Promettimi una cosa, Ville. >>, aggiunge, ora seria. << Promettimi che non ti fermerai, una volta che non ci sarò più. Promettimi che vivrai la vita fino in fondo, che sarai più sincero con te stesso, che non ti negherai niente e che ti innamorerai di nuovo. >>. È consapevole di chiedermi la luna, che è anche troppo perfino per uno come me. Ho faticato ad innamorarmi di lei, figuriamoci se ci riuscirò ancora, dopo averla persa.
 
 
<< Non siamo in un film, Amelia, dove lui si ricrea una vita. Io non sono come gli altri. Non puoi pretendere questo, okay? >>. Il cervello si avvita vorticoso in una sequela di immagini che non riesce a tollerare. Ho di nuovo il respiro mozzato nei polmoni. Scalcio via le coperte, siedo affranto, ho una strana adrenalina che non mi permette di stare fermo, balzo in piedi, infilo i pantaloni del pigiama e divoro il pavimento a gran falcate. La stanza mi si è stretta addosso, come una camicia di forza.
 
 
<< Non fare così. >>, prega affranta. Si è pentita di avermi detto la verità.
 
 
A quel punto sbotto, fuori controllo, non riesco a sopportare la situazione.
<< E come devo fare, Amelia?! Dimmelo tu, perché io non so cosa cazzo fare?! Non so cosa cazzo dire, come cazzo comportarmi, che cazzo devo inventarmi perché tu non muoia! >>. Porto le mani alle tempie, per segnalare che è una circostanza più grande di me, che non posso rassegnarmi a questo destino, mi rifiuto. Impreco in finlandese, esordisco con numerose bestemmie nella mia lingua, lei si puntella sui gomiti, deve aver già assistito a tale reazioni, perché non si scompone, attende solamente che la sfuriata cessi. << E non guardarmi così, diamine! Dimmi qualcosa, qualsiasi cosa! >>.
 
 
È paziente, come una mamma davanti ad un figlio capriccioso.
<< Cosa vuoi sentirti dire, per stare meglio? >>.
 
 
Scuoto la testa, gesticolo energicamente, sono un concentrato deflagrante composto da un miliardo di pensieri diversi e nessuno raziocinante che possa sedarmi. Ha quegli occhi grandi da bambina, che mi spezzano a metà, perché una ragazza così giovane deve morire? Ho pensieri egoistici: perché proprio lei? Dov’è la giustizia in questo cazzo di mondo?
 
 
<< Dimmi come devo fare per non farti morire! Dimmi che c’è una speranza, dimmi che posso salvarti. Dimmelo, ti prego! >>. Non è amore, ma ne sono pericolosamente vicino. Non sopravvivrò un solo giorno senza di lei, come sarà il resto di questo schifo, quando resterò solo?
 
 
Dischiude le labbra rosee, è sul punto di dire qualcosa, poi desiste, sistema meglio la coperta sul seno e si siede. Batte la mano sul letto.
<< Vieni qui, Ville. Calmati e vieni qui. >>.
 
 
Punto un dito a mo’ di avvertimento.
<< Non dirmi di calmarmi. >>.
 
 
Scuote leggermente la testa, si apre in un risolino divertito.
<< Questa frase dovrei dirla io o sbaglio? >>.
 
 
Perdo un briciolo di rabbia angosciata.
<< Continuiamo ad invertirci i ruoli io e te. Adesso mi tocca fare la parte della donna con una sindrome premestruale al maschile. >>.
 
 
<< Dovrei avere qualche assorbente da prestarti. >>, gioca, riuscendo a trasformare il mio dispiacere ancora una volta. Non vuole farmi soffrire, però è inevitabile. Invita a sedermi accanto a lei di nuovo e l’assecondo. Prende le mie mani. << Cercherò di resistere fin quando potrò, Ville. È l’unica promessa che posso farti. Adesso ho qualche motivo in più per resistere. >>.
 
 
Un nodo penoso si attanaglia in gola, se non mi libero, finirò per soffocare nelle mie stesse lacrime. Vorrei dirle tante cose, le parole periscono nella bocca, sono all’inferno con un angelo, alla fine le fiamme la divoreranno ed io non potrò fare niente.
<< Perché proprio io? >>.
 
 
A quel punto le sopracciglia si rilasciano, le pieghe sulla fronte si appianano e gli occhi sono un concentrato puro di calore. Scuote le spalle, come a minimizzare.
<< Non lo so… è il mio cuore che ha deciso, non io. E quando i miei amici mi hanno proposto di trascorrere ad Helsinki gli ultimi mesi, è stato come ricevere il miracolo che tanto speravo. >>.
 
 
Smetto di respirare, curvo le spalle, metto su una gobba che farebbe invidia al “Gobbo di Notre Dame”, del famoso cartone animato. Mi guarda come se il tanto agognato miracolo fossi io.
<< Io non posso perderti. >>, riconosco a mezza voce e vengo assalito selvaggiamente dall’autenticità delle parole. Sono stato di merda dopo che ha provato a lasciarmi per evitarmi un dolore più grande, al resto non riesco nemmeno a pensare.
 
 
Fa’ male. Fa’ mancare il respiro. Fa’ morire dentro.
 
 
Mi accarezza, allevia, il contatto è di una dolcezza disumana, spezza il cuore già frantumato e sono alla deriva. Non sono in grado di fare alcunché, mi sento totalmente inutile, come la pioggia su un fiume.
Grava il palmo aperto sul petto, lì dove giace l’heartagram che cancella il frutto di un amore finito, di cui porto ancora le cicatrici indelebili.
<< Non fin quando vivrò qui. >>, dice, ma è una frase che per me non ha senso, anzi, mi fa incazzare parecchio. Voglio che viva al mio fianco, non nel mio cuore. Le detesto le frasi fatte, quelle che sembrano nascondere un grande significato, ma che invece sono vuote ed inutili. << Tu mi hai già salvata, Ville. Non credo che potesse esserci null’altro a questo mondo che io volessi, se non te. >>.
 
 
La contemplo in quegli occhi grandi come l’oblio, il fuoco si è attenuato, ma non si è spento, sono io ad alimentarlo. Ho salvato lei, ma chi salverà me, dopo? L’attiro angoscioso tra le mie braccia, nell’unico posto in cui posso garantirle un po’ di sicurezza, potrei proteggerla da tutto… non dalla morte stessa.
Respiro il profumo della pelle nuda, dopo esserle stato dentro e diviene quasi un dolore fisico la concezione di dovermi separare da lei adesso, figuriamoci nel fatidico momento. 









Note: 
Dai, anche per questo mese vi ho elargito la mia personale dose di agonia. 
Dopo questi due capitoli dove Ville ha "digerito" la notizia, dal capitolo prossimo le cose saranno un susseguirsi veloce di eventi. Concentrare quello che sarebbe accaduto in una vita, in poco tempo, non sarà cosa facile. 


Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 



La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 

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Capitolo 15
*** Sto sfiorando piano il mio dolore, si muove lento come il mare ***


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15.
 
*Sto sfiorando piano il mio dolore,
si muove lento come il mare
*









 
La neve ha smesso di scendere un paio di giorni fa, al suo posto uno scrosciante temporale ha reso le strade un vero attentato alla vita dei cittadini finlandesi. Almeno il fracasso degli spalaneve è cessato e la notte ho ripreso a chiudere occhio.
Picchietto la fronte sul vetro freddo ed umido della finestra, sembrerebbe una giornata vuota, atona e solitaria, come ne ho vissute a bizzeffe nel passato, se non fosse che il soggiorno è stipato da otto persone, incluso me.
L’umore funereo non è mai stato al massimo della sua forma come adesso, va di pari passo con il tempo invernale.
 
 
Prendo un profondo respiro, nella mente ho un groviglio disomogeneo di pensieri che fanno a pugni gli uni con gli altri, mi volto verso i miei dubbiosi ospiti che se ne stanno in silenzio ad attendere.
 
 
Mio padre è seduto sulla poltrona verde alla mia sinistra. Ha sempre amato sedersi lì, accavallare le gambe e riscaldarsi al caminetto. Di solito lo accende lui, oggi è spento e freddo, come tutto in questa torre.
Mia madre è in cucina a preparare il caffè, Jesse e Seppo sono dall’altra parte della stanza ottagonale, il primo ha il cellulare in mano. Linde fuma pacato, Burton è chiuso in un silenzio serafico e, la persona più difficile da convincere a presenziare oggi è stato proprio il mio migliore amico.
Amelia verrà in un secondo momento, non appena finirò di raccontare il sisma che ha sconvolto la mia vita, voglio presentarla a coloro che sono più importanti.
Attendo che mia madre porti il vassoio in metallo con una manciata di tazzine blu e un grossa caffettiera fumante, l’aroma caldo si diffonde in tutta casa in un istante. E mi ricorda lei, il mio dolce angelo.  
 
 
Nessuno pare abbia capito il motivo che li ha condotti qui, tranne Migé forse ha intuito qualcosa, per questo ha un cipiglio scuro che gli arriccia le sopracciglia in un’espressione evidentemente contrariata.
Li guardo in faccia uno ad uno e poi do il via alla giostra degli orrori.
 
 
<< Non c’è un modo delicato che io possa usare per dirvi il perché vi ho voluto vedere qui tutti insieme oggi. Avrei prima potuto avvertire la mia famiglia e poi tutti gli altri, ma già non sono in grado di affrontare il discorso con me stesso, figuriamoci se posso ripeterlo con calma singolarmente. >>. Mi stacco dalla finestra chiusa, faccio qualche passo adiacente al muro in mattoni rossicci, che fa parte della costruzione originale della torre, prima della ristrutturazione totale. << Come qualcuno sa, ho conosciuto una ragazza che sto frequentando da un po’ di tempo. >>.
 
 
Migé, quello che credo essere il mio migliore amico, schiocca la lingua al palato per interrompermi. Non riesce a frenare la lingua.
<< Una ragazzina che ha quindici anni meno di te. >>, confessa furente e la patata bollente fa il giro di indignazione sui volti dei presenti. In un attimo è un susseguirsi di borbottii stupiti, alcuni indignati, domande a cui non ho intenzione di rispondere. La confusione mi innervosisce, perché non è questo che volevo dire, non me ne frega un cazzo della sua età, non più ormai.
Migé, traditore, figlio di un cane!
Mia madre è perplessa, crede che questa situazione possa danneggiare la mia persona. Si avvicina per estraniarsi dalla baraonda, ma mi allontano di colpo e al centro della stanza perdo le staffe. Mio padre è certo che sono la vittima di una presa in giro bella e buona.
 
 
<< Basta! >>, grido talmente tanto, che quasi mi sembra udire  i vetri delle finestre tremare. << Se dovete farvi cogliere dall’isteria di massa quando lei verrà, allora lì è la porta, andatevene! >>. Indico perentorio il portone nero. Non accetto repliche, non meritano di sapere null’altro se si stanno fermando all’apparenza.
 
 
Linde ha seguito la faccenda in silenzio, non si è unito al cicaleggio stolto, ha preferito osservare e tirare le somme per conto suo.
<< Non è della sua età che vuoi parlarci, giusto? C’è dell’altro? >>. Così come era stato l’unico a darmi un buon consiglio, ora era l’unico a capirmi come nessuno mai.
 
 
Schiarisco la voce, non so se voglio portare Amelia tra di loro, per quanto possa essere forte e tener testa alle persone che compongono il mio mondo, in fondo è come gettare un agnello coperto di sangue in una gabbia di leoni famelici. Non so se voglio. Non so se voglio parlare della sua malattia, non so se voglio condividerla con loro e di conseguenza il mondo intero.
È fragile, delicata, ed è mia!
 
 
<< Due mesi. >>, rotolano fuori le parole e perdo tono nel dirlo. << Solo due mesi. >>. Nessuno capisce: ovvio! Nemmeno io capisco, adesso che lo sto dicendo di nuovo, le frasi mi si spaccano nel cervello e sono di nuovo sul punto di scoppiare, ma a piangere stavolta.
 
 
<< In che senso “due mesi”? >>, incalza disorientato Burton.
 
 
Stringo i pugni, tiro su con il naso, mi gira la testa e nelle orecchie ho un concerto di fischi.
<< Sono i mesi che le restano da vivere. >>, alla fine riesco a dirlo, ma non ci credo, mi sento pazzo, è come se stessi raccontando una balla colossale perfino a me stesso. Però è così, le notizie sconvolgenti sono quelle che più fatichiamo ad accettare, le rigettiamo, le neghiamo a noi stessi, tuttavia è impossibile sfuggire alla realtà. Alla fine ci devasta sempre.
Stavolta non fiata nessuno, nessuno ha il coraggio di rompere il silenzio desolante in cui vivo imprigionato da un paio di giorni, ora non sparano sentenze a casaccio sulla mia Amelia. Hanno smesso di credere che mi stia usando, per chi sa quale scopo malvagio.
 
 
<< Cosa vuoi che facciamo per questa ragazza? >>. Mio padre è il primo a parlare accondiscendente. Ha la mia stessa faccia di quando l’ho scoperto in ospedale. Vorrebbe abbracciarmi, ma tra uomini fatichiamo a dimostrarci affetto in maniera plateale, specialmente tra un padre troppo espansivo e un figlio così burbero.
Una barriera invisibile ci separa da tempo.
 
 
<< Trattatela bene, ma non compatitela, non lo sopporterebbe. Fatelo per me: è davvero importante. È una brava persona e sento di volerle molto più che bene. Voglio che questi ultimi due mesi siano i più belli, spensierati e felici della sua vita. >>. Non sono calmo, è solo una maschera, una delle tante. L’orgoglio mi tiene in piedi, anziché lasciarmi trasformare in un fantoccio inanimato, che non sa fare altro che piangere a dirotto.
 
 
<< Preferisci posticipare l’uscita del cd? >>, chiede Seppo con tatto, le occhiaie si son fatte di colpo più pronunciate, il colorito giallognolo e mi fissa come se riuscisse perfettamente ad indossare i miei panni, però non mi invidia affatto.
 
 
<< Volevo già parlartene. >>.
 
 
Lui annuisce energico, scuote le spalle ed è completamente d’accordo.
<< Nessun problema, parlo io con quelli dell’etichetta discografica. Qualcosa mi inventerò. >>.
 
 
<< Perché non ce ne hai parlato prima? >>. Mia madre è costretta a sedersi. È pur vero che non conosce Amelia, ma conosce me, sa che questa situazione mi sta uccidendo, stavolta non può alleviare il mio dolore in alcun modo.
 
 
Scrollo le spalle, metto le mani in tasca e mi avvicino di nuovo alla finestra.  Il mio sguardo non incontra quello di Migé. Mai. Da una parte sono adirato e dall’altra sono ferito come mai prima d’ora. Il colpo basso che mi ha sferrato non verrà facilmente perdonato, ancor meno dimenticato.  Sono una persona che porta rancore.
 
 
<< L’ho scoperto da poco, mamma. >>. Per evitare di farmi soffrire maggiormente, ha tentato di lasciarmi. Non ce l’ha fatta, così come non ce la faccio io a stare lontano da lei. È quasi un concetto contro natura.
Non riesco ad accettare che presto ci penserà la vita a farmi stare lontano da lei, per sempre. Non riesco a darmi pace. Non riesco più a respirare.
Sto sfiorando piano il mio dolore, si muove lento come il mare, penso a lei… e adesso lo avverto chiaramente lo squarcio che si è spalancato sul cuore, non ero riuscito neppure a scorgerlo fino a quel momento. Ne avverto i contorti che minacciano di allargarsi spietatamente, il sangue che sgorga abbondante, un veleno corvino che si mischia con esso ed intossica il corpo, il cervello e soprattutto l’anima. A volte smetto di ragionare, perché la pazzia dilaga selvaggia, non posso far altro che riflettere. Non ci credo, ma so per certo che è vero.
 
 
<< Sei sicuro che non possa essere curata? >>, prova Jesse. La sua voce è più vicina di quanto mi aspettassi. Grava un a mano sulla mia spalla e prima di mostrare il mio volto, asciugo con il pollice la lacrima che è sfuggita al controllo.
 
 
<< No. Sono tornato in ospedale con lei, le analisi sono chiare. Ha smesso di curarsi da quando ha scoperto che non c’è niente da fare. >>. È stato un strazio che avrei preferito risparmiarmi, eppure continuo a sperare in un miracolo, per questo ho così tanto insistito. Bramavo che il dottore dicesse che si era sbagliato, che c’è ancora speranza, che lei sarebbe guarita, ma non è stato così.
Lei muore.
Io sopravvivo.
E il cuore si spezza maggiormente.
Sorprendente come il cuore possa spezzarsi in così tante parti, senza che nessuno possa notarlo, sentire la carne lacerarsi, la sofferenza gridare straziante. Accade tutto in completo silenzio, però è il caos.
Devo sforzarmi per rimanere impassibile, deglutisco più volte, ricurvo le sopracciglia ed ispiro, funziona poco, mantengo la padronanza sulle emozioni.
È una processione di asserzioni di circostanza, cliché abbastanza ovvi, tutti si avvalgono della facoltà di pronunciare luoghi comuni che sono vuoti, non posso pretendere oltre, non possono guarirla, non sono in grado di farla restare con me. Non ne hanno il potere.
 
 
<< Vuoi che consultiamo altri dottori? >>, chiede mio padre. Si alza in piedi, tocca il mio braccio e non riesce ad infondere il coraggio che vorrebbe. << Magari c’è ancora qualcosa da fare, che non è stata presa in considerazione? >>.
 
 
Ci spero, anche se la speranza è proprio una gran puttana!
<< Ti farò avere le analisi prima che ve ne andiate. >>, non faccio in tempo a concludere la risposta, il bussare scandito sul portone d’ingresso interrompe la conversazione tragica.
 
 
Due “toc toc” distanziati e poi tre tutti insieme: è Amelia.
 
 
In una situazione normale, sarei stato felice… certo lo sono, ma è una felicità abbattuta, che non può durare, che mi lascia l’amaro in bocca.
<< Via quelle facce da funerale, vi prego. Fingete… >>, gesticolo incontrollato. Che devono fingere? Li ho già sconvolti abbastanza, come possono fingere? << … fingete qualcosa. >>,  termino desolato ed arreso e sono già un passo fuori dalla stanza.
 
 
È strano che Amelia non abbia già iniziato a chiamarmi a gran voce, solitamente mi affibbia quegli adorabili nomignoli che, ben presto, mi sono reso conto non poterne fare a meno.
Dietro la porta c’è una figura pallida, grandi occhi del grano, i capelli bagnati di doccia. Indossa un lungo maglione grigio, leggins neri e stivali color fumo. Quell’abbigliamento mi ricorda la prima notte che ci siamo incontrati, non le rende giustizia, il corpo è velato da abbondanti strati di tessuto, come se volesse coprirsi dal mondo intero. È zuppa dalla testa, ai piedi.
Sembra trascorso un secolo.
Non è più la ragazzina impertinente, terzo dan, sempre pronta a schiaffeggiarmi e a fare chiare allusioni sessuali. Non è più lei.
Deve soffrire più di quanto mostra, e mi assomiglia anche in questo: attrice provetta nell’offuscarlo.
Porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, tiene le braccia incrociate, come se stesse morendo di freddo.
Il solo vederla mi tocca il nucleo pulsante del cuore, come un pugnale rovente che si infilza nella carne viva. È di una bellezza che si marchia a fuoco dentro di me, una sirena che mi devasta, riesco a scorgere la dolcezza che cela ai più… e poi, con un agghiacciante spasmo al centro del petto, capisco. Non sono più annientato dentro.
C’è riuscita.
La amo.
La amo così tanto da restarne scioccato.
La amo e la amo ancor di più, perché non ho più tempo per amarla.
Sono fottuto.   
 
 
<< Ho dimenticato l’ombrello. >>, farfuglia a mo’ di scusante. Il fiato caldo si condensa tra noi due e si disperde nel gelo dell’atmosfera. << E devo aver fatto anche tardi, so che l’appuntamento era per mezz’ora fa, ma è che… >>, non le lascio nemmeno il tempo di capire il perché le ho impedito di parlare, che è già tra le mie braccia e sto annegando nella sua bocca.
È così imperativo il bisogno che ho di lei, che non mi permettere di ragionare razionalmente. La bacio a lungo, è un continuo addio che intossica il sangue e rende ogni contatto una dolce tortura che non vorrei avesse mai fine.
 
 
<< Ehi, ehi, con calma. >>. Tira indietro la testa meravigliata e mi fissa come se le avessi parlato una lingua sconosciuta. Non è abituata ad essere trattata così e non è neppure un mio comportamento abituale, per questo è strano. Mi conosce. << Cosa ho fatto per questa calorosa accoglienza? >>.
 
 
Non la lascio andare, la tengo stretta tra le mie braccia finché mi è possibile.
<< Niente. >>. Poi la butto sul ridere, per evitare che riesca a leggere negli occhi ciò che mi affanno a tacere. << È perché sei arrivata in ritardo. >>.
 
 
Blocca il mio mento tra il pollice e l’indice.
<< La prossima volta che devi mentirmi, cerca di essere più convincente. Se ti applichi bene, magari ci credo. >>, sussurra dolcemente e regala un lieve bacio su una bocca impreparata. << Niente più occhi rossi, okay? Me l’hai promesso. >>.
 
 
<< È solo raffreddore. >>, provo a contraddirla, ed è del tutto inutile. Amelia è perfettamente a conoscenza di cosa si dibatte nell’inferno della mente, è come se potesse sfogliare i contenuti miseri e provasse a renderli meno opprimenti.
 
 
Le labbra si dischiudono, hanno una forma ironica, non ha voglia di parlare della sua malattia, preferisce ridere di me con me. Sente le voci dei presenti nella torre e si zittisce all’istante.
<< Hai ospiti? Vuoi che ripassi? >>. Non vuole essere invadente, impormi la sua presenza e disturbarmi, ma non ha capito che adesso tutta la mia vita ruota attorno a lei e non può ripassare, deve restare.
 
 
Le stringo la mano, strattonandola gentilmente all’interno.
<< Vieni, ci sono persone che voglio presentarti. >>.
 
 
Inarca un sopracciglio, presa palesemente contro piede. Non aveva creduto sul serio quando le avevo detto che volevo che entrasse totalmente nella mia vita. Beh, facevo sul serio!
<< Aspetta, sono un disastro! >>.
 
 
L’attiro veemente e la stringo forte.
<< Sei la ragazza più bella su cui abbia posato gli occhi. >>, bisbiglio con voce bassa e suadente. Picchietto l’indice sul naso all’insù.
 
 
Resta abbacinata da ciò che ho detto, da come l’ho detto e per la maniera accattivante che utilizzo nel contemplarla.
<< Attento Valo, potrei crederci sul serio. >>.    
 
 
Devi credermi sul serio, perché io ti amo.
 
 
È così facile pensarlo, allora per quale maledetto motivo è altrettanto difficile dirlo? Che problemi ho? Non devo rimandare niente, oggi è un dono e l’indomani è un’incognita.  
La bocca si sigilla, non le proferisco quelle parole e me ne pento seduta stante.
 
 
Lascio che conosca la mia famiglia, mio padre, mia madre e Jesse. Sono bravi a fingere, a non far trapelare nulla, ma Amelia mi guarda spesso, con quegli occhi da predatrice che tutto sanno e tutto vedono, e non le ci vuole molto per intuire che ho vuotato il sacco. Se non lo avessi confidato a qualcuno, sarei esploso. Non me ne fa una colpa.
Scambia qualche parola con Seppo e Burton, Linde è affascinato dalla maniera spigliata con cui mi prende in giro, per lui ho bisogno di una ragazza che mi tiene con i piedi ben piantati a terra e non dell’ennesima che mi venera a prescindere. Ho trovato l’avversario giusto, con cui far cadere l’armatura.  
Migé si tiene in disparte, ha preso il posto di mio padre sulla poltrona verde, scruta muto l’intera scena. Spesso lo colgo a fissare me o Amelia, a volte sembra arrabbiato, altre dispiaciuto, non so cosa gli passi per la testa e per ora non lo voglio sapere. Non è il momento di appianare il diverbio, questo è il momento di stare con la mia sirena e nient’altro viene prima.
È impegnata con mia madre, sarà dura concentrare in poco tempo, ciò che sarebbe accaduto in anni, ma ce la sta mettendo tutta, solo per farmi felice. In fondo è ciò che fa ogni madre, per far contento il proprio figlio.
 
 
Uso una scusa qualsiasi e tiro via Amelia dalla baraonda dove l’ho catapultata, sorbirsi famiglia e amici di un uomo che sta frequentando da poco, beh, non deve essere facile, anche se è perfetta perfino in questo.
In cucina il vocio concitato giunge ovattato e riacquistiamo un briciolo di intimità. Amelia li ha conquistati tutti e ne sono estasiato. D’altronde non poteva essere diversamente, se c’è riuscita con me, che sono un caso disperato, con gli altri è stata una passeggiata.
 
 
Tra le mani ha la tazzina con il caffè, soffia solo sul liquido scuro, però non lo beve: è persa in un pensiero segreto. È accanto alla finestra.
 
 
<< Sei così silenziosa. >>, noto amaro, mi sistemo meglio sulla sedia e accendo una sigaretta. Temo che abbia dei ripensamenti, che averle presentato famiglia ed amici in un sol colpo, l’abbia spaventata e adesso cerchi un modo carino per scaricarmi.
 
 
Morde un angolo della bocca e non capisco se è perché le piace quando fumo o perché è preoccupata.
<< Mi dispiace che per colpa mia, tu abbia litigato con Migé. >>, sentenzia ed è incredibile, poiché, anche se è palese che per lei io sia un libro aperto, ero certo di essere un attore più convincente. Povero il mio ego che ne risente continuamente.   
 
 
Espiro velocemente il fumo.
<< Non devi preoccuparti di questo, davvero. Abbiamo litigato un miliardo di volte, appena mi passa lo “scazzo” vedremo cosa c’è da fare e da dire. >>.
 
 
Piega le spalle all’ingiù, poggia la tazzina sul ripiano nero della cucina.
<< È per l’altra, vero? Per quello che ha fatto? È per questo che lui ce l’ha con me? >>.
 
 
Scuoto la testa, tuttavia mentire non porterà da nessuna parte.
<< Lo sbaglio l’ho fatto io. Non sono ciò che si possa definire una “persona semplice”, mi piacerebbe esserlo, ma non è così. Ho fatto del male ad Irina e ne ho fatto anche a Migé… ne sto facendo anche a te. >>.
 
 
Spalanca le palpebre all’inverosimile, sembra sul punto di scoppiare in una nervosa risata.
<< Non dire cazzate, Ville! E non prenderti colpe che non sono tue. >>. Si stacca dal muro e lascia che i piedi la guidino all’interno della cucina, nessuna direzione precisa. << Anche io ho sofferto per amore, che credi? Non sono mica una sprovveduta! Ma non ho mai pensato di togliermi la vita per questo… certo, ho impiegato due anni per riprendermi, poi ho scoperto la malattia ed ho smesso di stare male. Quando decidiamo di agire, siamo noi a deciderlo, nessun altro lo fa per noi. Lei ha avuto scelta, io non ne ho data a te. Semmai, qui, la carnefice sono io. Eppure, benché io dovrei, quando ti guardo, non riesco a sentirmi in colpa di essermi avvicinata a te con l’inganno. >>.
 
 
Ho una fitta acuta di gelosia, non so il perché, tuttavia mi gongolavo nel pensiero di essere il suo primo amore, invece il dolore l’ha macchiata anche in quella sfera.
 
 
Sorrido accondiscendente, spengo la sigaretta nel posacenere e, mentre mi transita davanti, le afferro la mano per fermarla.
Potessi arrestare questo istante per sempre…
<< Se tornassi indietro, vorrei che ti avvicinassi di nuovo a me con l’inganno. Perché tu, quella notte, mi hai cambiato la vita. >>. 











Note:
Sì lo so che pubblico ad orari impossibili, quando tutti dormono ed io no. Ma che volete farci, sono una persona notturna! 
Devo dire che rileggendo questo capitolo, prima di pubblicarlo, ne sono davvero entusiasta, ci sono parti qui e la che suonano proprio bene e che hanno grandi significati, spero che possano piacere anche a voi. 

Mi sono trovata nella situazione di dover infilare in due mesi, ciò che che, di norma, viene fatto in una vita e, non è per nulla facile.Come sempre, c'è molto di me in ciò che scrivo, specialmente nelle emozioni descritte in Ville.  
Il giorno in cui scriverò qualcosa di allegro o comico, sarà l'apocalisse xD 



Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 

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Capitolo 16
*** Profumo di notte, inverno e morte ***


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16.
 
*Profumo di notte, inverno e morte *






 

 
L’aria è irrespirabile, afosa, pesante, riconosco trame di crisantemi, incenso e sacralità che si incuneano come un cazzotto nel naso, giù per la gola e bruciano lo stomaco. Non riesco a respirare, non è un attacco d’asma, però gli assomiglia.
Sono in una chiesa, non rammento come ci sono giunto, sono tutti vestiti di nero, mia madre, mio padre, Jesse. Riconosco Linde, Burton, Seppo, amici di sempre e poi Francesca, con i due ragazzi che ho incontrato in ospedale e molti altri giovani. Piangono tutti e sono sommerso da una sequela di emozioni terrificanti, un incubo che diviene realtà. La voce del prete è un confuso sussurro di fondo, le orecchie si rifiutano di ascoltare, sto rinnegando la realtà, anche se so perfettamente cosa sta accadendo e non è come lo avevo immaginato: è peggio.
 
 
Seduto al primo posto, cerco tra la moltitudine di persone… lei, la mia bellissima sirena. Non è da nessuna parte, i suoi occhi invisibili nella folla amareggiata.
Solo alla fine intuisco che sto guardando nella parte sbagliata, perché Amelia è qui, ma non tra i vivi… il corpo freddo ed immobile è adagiato in una bara bianca dinanzi all’altare. Indossa un vestito elegante nero che le fascia il corpo smilzo e la fa assomigliare ad una Biancaneve in versione gotica, solo che lei non è stata avvelenata dalla mela della strega cattiva, la malattia dunque ha vinto.
Nessuno la risveglierà, tantomeno io, che non sono un principe azzurro e nel mio bacio non c’è nessun potere per ridarle la vita.
 
 
Uno schianto cupo si sbriciola nel petto, ho il cuore in schegge insanguinate e lo vedo tintinnare sul pavimento di marmo, perdo sangue dagli occhi. Un urlo agghiacciante scoppia in bocca.
Devo andare da lei, non possono portarmela via, non sono ancora pronto.
Cado in ginocchio e mi trascino come un verme fino alla bara.
 
 
La morte l’ha resa un angelo pallido, le labbra cremisi sono piene, i capelli neri le ricadono lisci sul cuscino di seta bordeaux. Non mi guarda più con gli occhi di grano irrorati dall’intensa luce dell’amore, non sorride più innamorata, ha smesso di arrossire quando la osservo, niente più battute a mie spese, la pelle è gelida e rigida, non vi è più niente della mia Amelia in quel corpo privo di vita, è solo un involucro vuoto che ha le sue fattezze.
 
 
Affondo il viso nell’incavo del collo, ha addosso ancora il profumo dolce di zucchero filato, le lacrime rosse le macchiano il volto di porcellana, invoco il nome sconvolto e mentre sto per toccarle la bocca con la mia, mi sveglio di soprassalto nel mio letto.
Il cuore è un treno in corsa che non accenna ad arrestarsi, sono zuppo di sudore dalla testa ai piedi, i capelli appiccicati alla fronte bagnata e respiro come se avessi corso per un’ora. Amelia è serenamente addormentata al mio fianco, in penombra è proprio come nel mio incubo, ma è ancora viva, calda e bellissima accanto a me.
Deglutisco a fatica, affondo disperato il viso tra le mani, sono talmente turbato che non riesco a riprendermi, era così vero ciò che il mondo onirico ha mostrato, che sto per avere una crisi di panico in piena regola. Scalcio via le coperte e vado a sciacquarmi la faccia in bagno. Nello specchio riflette l’immagine di un uomo divorato dalla paura e dal dispiacere, sono teso come una corda di violino sul punto di spezzarsi da un momento all’altro, non so per quanto tempo riuscirò a mantenere il controllo o a sopportare l’intera faccenda.
 
 
Io non posso perderla.
 
 
Salgo in terrazzo, il quadro nel complesso di Helsinki è una groviglio ordinato di case, alberi spogli, strade bagnate, residui di neve e luci arancioni dei lampioni. La notte è una coperta che abbraccia la città, il mare un nastro corvino che si perde nell’oscurità.
Gli occhi si smarriscono all’orizzonte e scorgo alcuni lampi nelle tenebre, segno che un bell’acquazzone invernale verrà a fare visita alla capitale il giorno dopo.
Le mani tremano visibilmente, mentre accendo una sigaretta che non trasmette la giusta calma che di solito ne traggo. Non basta fumare per spegnere la sensazione di malsana molestia che ho alla bocca dello stomaco. Sto male e non ne esco. Getto il mozzicone qualche minuto dopo.
 
 
<< È davvero bellissimo qui sopra. >>, mormora la dolce e stanca voce di Amelia. È avvolta in un plaid grigio, piedi nudi, intravedo la sottoveste bianca e rimembro il sogno, anche se lì era vestita di nero. È la prima volta che sale fin in terrazza, ha paura dell’alto e se l’ha fatto è perché, invece di preoccuparmi io per lei, lei lo fa per me.
Non sono nemmeno bravo nel prendermi cura di una persona a cui tengo, non sono bravo a niente!
 
 
Annuisco appena, volto le spalle alla mia Helsinki e sono tutto per lei.
<< È troppo freddo, torna di sotto, tra poco ti raggiungo: altrimenti ti ammalerai. >>. Non credo che riuscirò a riprendere sonno, inizierò la processione dei caffè e Red Bull alle quattro del mattino.
 
 
Scuote le spalle, avanza pigra e sorride armoniosamente.
<< Non sarà un’influenza ad uccidermi, Ville. Ti ho promesso che resisterò più a lungo possibile… perché, invece, non mi dici cos’è che agita il tuo sonno? >>. Ancora spero di potergli dare a bere le mie balle, ma siamo troppo uguali per far sì che ci creda.
 
 
Volto il viso al di là del cornicione, non voglio che mi scruti, conosce già la risposta ed inizio a fare fatica ad articolare parole sulla malattia. Auspico vivamente che non parlandone, la morte non passerà a prenderla. Il nodo in gola si fa in maggior misura pressante.
<< Niente di importante, faccio sempre fatica a dormire la notte, non preoccuparti. >>, mento sfacciatamente, lei finge di credermi, concepisce che non riesco a parlarne, che mi fa male solo ponderarlo e non sono in grado di affrontare il discorso.
 
 
Poggia le mani sul petto ossuto, poi è la volta del viso morbido, ascolta i battiti del mio cuore in fibrillazione. Vorrei che il resto della mia vita potesse trascorrere così e sapere che non accadrà, mi porta di nuovo al limite della stabilità mentale.  
<< Se credi di non poter sopportare questo contesto, posso andarmene, Ville.  So che ti sto chiedendo troppo. >>.
 
 
Allarmato dal poter essere separato da lei prima del previsto, mi fa sobbalzare e per risposta la stringo così tanto, quasi da farle male.
<< Non dirlo. >>, la supplico innervosito. Le parole escono tremanti e rivelano lo stato d’animo appeso ad un fragile filo. È come essere in apnea.
 
 
Scosta il volto, ha gli occhi grandi colmi di lacrime, mi scruta nemmeno fossi un angelo sceso in terra, ed ho i brividi, ma non per il freddo. È la prima volta che la vedo piangere ed è come una stilettata. Le mani scivolano in su, percorrono il non pettoruto torace, lo sterno, le spalle, le guance scavate e tira indietro i capelli sudati. È costretta ad issarsi in punta di piedi a causa della mia altezza.
<< Sono i tuoi occhi l’ultima cosa che voglio vedere. >>, e mi uccide definitivamente. È buffo come si possa arrivare ad amare perdutamente una persona entrata da poco nella propria vita, che si è destinati a perdere. E più prendo coscienza di ciò e più la amo.
La amo, perché non potrà essere mia per sempre. Il mio bisogno di lei aumenta, ogni secondo, sempre più e non fa ragionare. Niente razionalità, solo cuore ed istinto.
Gli amori impossibili, sono quelli che durano per l’eternità.
 
 
<< Amelia… >>, sussurro, non è mia intenzione articolare una frase decente, sono senza parole, vorrei che potesse sentire ciò che si dirocca nell’anima, perché a voce non riesco a spiegarlo.
 
 
Poggia l’indice sulla mia bocca.
<< Ti amo abbastanza per tutte e due, non devi preoccuparti di questo. Se tu non provassi qualcosa, non saremmo qui. >>, è come se stesse tentando di rassicurarsi.
 
 
Con sgomento, afferro cosa si cela dietro l’espressione malinconica.
<< Non lo faccio per pietà. Credi sia così meschino? >>. Perché non riesco a pronunciare quel “ti amo” che avverto fin nelle viscere? Perché lo taccio con caparbia? Perché ho così paura?  
 
 
I lineamenti si rilassano e le iridi brillano.
<< Credo che tu sia sotto pressione a causa mia. Sono successe troppe cose negative a causa mia. Con quella donna, Migé e adesso ti tolgo anche il sonno. >>.
 
 
Tiro un angolo della bocca da un lato, mi sforzo di sorriderle.
<< Sai cosa ho letto una volta, da qualche parte? >>.
 
 
Scuote la testa, assomiglia ad una bambina che segue zelante la lezione dal suo maestro.
<< No, cosa? >>.
 
 
<<  Si dice che gli amori migliori sono quelli che, prima di aggiustarti la vita, te la incasinano. >>.
 
 
Lambisce con entrambe le mani la mia faccia.
<< Spero di poterti aggiustare la vita adesso… te l’ho incasinata anche abbastanza. >>, ammette, con un sorriso afflitto.
 
 
<< L’unica cosa che hai fatto fino ad oggi, è aggiustare tutto ciò che di sbagliato c’era nella mia vita e in me. Mi hai salvato in modi che non si possono spiegare: c’eri quando ne avevo bisogno. Non hai incasinato niente. >>.
 
 
Mi perdo nel mare d’oro che le si agita nelle iridi, nulla può battere lo sguardo innamorato della donna che si ama, perché riesco a vedere il riflesso di un uomo non più sbagliato, pieno di colpe imperdonabili, demoni famelici, adesso sono la persona più perfetta di questo mondo.
Morirò senza Amelia, è questa la realtà, inutile prendersi in giro, quando il suo cuore si fermerà, il mio farà ugualmente, perché non c’è vita senza amore, così come non esisterò più io senza di lei.
Una balzana idea varca la mente in un baleno, non ho panico stavolta, non rigetto il concetto a prescindere, è bislacco che adesso voglia fare qualcosa da cui sono sempre fuggito. Appare semplice, facile, come bere un bicchiere d’acqua o respirare.
 
 
<< Faresti qualcosa per me? >>, esigo esitante, ciò nonostante mi basta incontrare quegli occhi grandi per smettere di avere paura di vivere.
 
 
<< Tutto quello che vuoi. >>. Non è dubbiosa, non teme che possa pretendere chissà cosa, magari sarebbe in grado di tornarsene in Italia, se solo glielo chiedessi, ma sono una creatura composta da puro egoismo e non sono in grado di staccarmi da lei, nemmeno per un momento.
 
 
Batto più volte le palpebre, è incredibile che sia giunto questo giorno alla fine, eppure sono certo che sia il passo giusto da fare e la persona giusta con cui farlo.
<< Sposami. >>, dichiaro sincero ed onesto e la mia voce si perde nel silenzioso inverno scandinavo.
Per una manciata di secondi non esiste altro che la mimica piacevolmente spiazzata di Amelia, il vento che soffia delicato su di noi, il rossore acceso sulla pelle pallida e il cuore che ha ingranato la quinta.
 
 
Deglutisce appena, il sorriso nasce come un alba carminio su una distesa di neve bianca, le labbra si strofinano tra di loro. 
<< È come se avessi detto di sì. >>, replica, ma la risposta stona di netto con le aspettative.
 
 
Increspo le sopracciglia, non è possibile che abbia capito male, non possono esserci malintesi in questo. Il cuore ha una brusca frenata e il responso è come una secchiata d’acido sull’orgoglio maschile.
<< È un no? >>, sbotto incredulo. Chiedo ad una donna di sposarmi e lei mi rifiuta? Roba da matti! Ci sono donne che farebbero carte false e lei non accetta?
Si deve essere capovolto il mondo!
 
 
<< So che il tuo ego ne sta risentendo, Ville, ma sì: è un no. Suonerebbe fasullo e forzato, chiedere ad una persona di sposarti, senza amarla davvero, dopo così poco tempo, solo perché sai che non resterà per sempre con te, non credi? Non voglio che tu faccia nulla per pietà, devi essere te stesso fino alla fine. >>. Distoglie lo sguardo, schiarisce la voce e l’emozione le tira un brutto scherzo. Le lacrime scendono spedite, rigando le gote arrossate. << Ma ti giuro che non avresti potuto dirmi cosa più bella di questa, Ville. Davvero, non credevo che avresti potuto farmi più felice di così… e invece puoi. >>.
 
 
Sono più deluso di quanto lascio vedere, è come una frustata in pieno volto, la ferita aperta infiamma. Volevo un “sì” e non riesco ad accettare un “no”, il concetto di riferirmi a lei come “mia moglie” era allettante.
<< Non è pietà la mia. >>, assicuro risentito. La amo davvero.
 
 
Sospira teatrale, vuole sgonfiare la bolla del matrimonio, allontanarsi dalla proposta. Lo sta facendo per me, solo che non ne comprendo la bislacca motivazione.
Si appoggia al cornicione in legno bianco e guarda giù.
<< E cosa faranno le tue fans, eh? Immagino un aumento di suicidi improvvisi nel mondo. >>. Poi sorride maliziosa, tornando ad essere la ragazzina solare di sempre. << Beh, ammetto che l’idea di sposare Ville Valo ed averlo tutto per me, fin quando mi sarà concesso, è una cosa che mi alletta parecchio, non mi sono mai vantata in vita mia di riuscire ad ottenere un qualcosa molto ambito da migliaia di donne… però, no, non è per me tutto ciò. Io voglio avere solo te e basta, senza contratti che ci obbligano a stare insieme o che si sappia in giro. >>. Il profilo è baciato dal bagliore aranciato di un lampione in strada. È triste, sconsolata, devastata, solo ora riesco a scorgere al di là della maschera, non è così che aveva progettato la sua vita e questo frangente con me.
In una condizione normale, io non le avrei chiesto di sposarla e lei avrebbe accettato di farlo: l’esatto contrario di quel che è avvenuto stanotte.  
Preferisce restare in anonimato, si illude che così, dopo che non ci sarà più, sarà più facile ricominciare. Se la notizia di noi due trapelasse o se accettasse di sposarmi, diverrebbe impossibile tornare a vivere, perché, a quel punto, sarebbe ovunque.
Ed è ciò che desidero.
Non vuole tenermi legato a sé, anche dopo la morte, ma è proprio questo il punto, io sono già legato a lei, sia in questa vita che in quella dopo.
 
 
<< Io non voglio morire. >>, confessa a stenti e i lucciconi brillano una luce di angoscia. << Non adesso che ci sei tu, non adesso che sei entrato nella mia vita, non adesso che sono felice, non adesso… non adesso. Non è giusto che dopo che ci ho provato per anni, adesso mi restano pochi mesi da condividere con te. Non è giusto! >>.
 
 
Il respiro mi trema in gola, non ho niente di sensato da dire per poterla consolare, mi stringo alle sue spalle e l’avvolgo in un abbraccio di autentica emozione. L’impulso è quello di portarla via, ma dove? Non esiste posto a questo mondo dove rifugiarci, la morte se la porta dentro e non potrà mai essere un nemico da seminare.









Note: 
Ho aggiornato un po' prima del solito, tanto la storia l'ho terminata di scrivere e quindi posso velocizzare i tempi. 
Beh, che dire è un capitoletto un po' di passaggio, giusto per creare più dolore ed angoscia un po' in tutti e dare maggiore introspezione ai pensieri di Ville. Mai una gioia per Ville, nelle mie storie xD
Ho proprio il melodramma nel sangue, sarà il Secco che ispira ciò.


Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
  

 

 
 

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Capitolo 17
*** Vorrei che fossimo eterni ***


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17.
 
*Vorrei che fossimo eterni *








 

Il quadrante della macchina è come la prima volta che ho aperto il libretto d’istruzione di un elettrodomestico: in aramaico antico.

Fisso sgomento le lancette, le spie, i disegni bislacchi sullo sfondo nero, leve e bottoncini di cui non comprendo la funzione. Le nozioni -delle quattro volte a tempo perso- di quando ho frequentato la scuola guida, sono sfumate da qualche parte nel passato nebuloso. Preferibilmente nel dimenticatoio, assieme alle figure di merda e alle ex psicolabili.

 

 

<< Per prima cosa, metti la cintura. >>, suggerisce Amelia, seduta al mio fianco, che fa esattamente la stessa cosa. La proposta è giunta da lei, all’inizio credevo fosse una buona idea, quasi divertente, ma ora non ne sono più tanto certo.

Ai sedili posteriori Francesca e il suo fidanzato riccioluto Leo, stanno assistendo alla pietosa scena. Siamo parcheggiati in un grosso spiazzale allo scoperto, non ci sono pericoli, né altre macchine, un buon luogo per imparare a guidare, evitando di uccidere qualcuno.

 

 

<< Credo che sarebbe meglio rimandare. >>, mormoro pentito, non sono molto portato per la guida e mi sento parecchio scoraggiato.

 

 

Ricevo una pacca confortante.

<< Andiamo Ville, la prima volta mi si è spenta la macchina quattordici volte. Tu puoi fare di meglio. >>, ride Francesca, scatenando le ilarità dei presenti.

 

 

Amelia sorride, ma non mi prende in giro apertamente come gli altri, è da un po’ che non sono più la vittima preferita di punzecchiamenti vari. Ho l’impressione che stia male e che non dica nulla per non far preoccupare chi la ama, specialmente il sottoscritto.

<< Premi la frizione. >>, dice tranquilla, per togliere la marcia. Non ha paura che ci sia un incapace alla guida della sua macchina, si fida anche troppo e ne sono stupito. << Magari potresti provare a riprendere la patente. >>.

 

 

Scuoto le spalle, ho smesso di tentare tanti anni fa.

<< Se hanno cambiato istruttore, potrebbe essere. L’ultima volta sono entrato in una pescheria: è andato sotto shock per tre settimane. >>, cerco di sdrammatizzare e ci riesco, riprende colore, ha una posa rilassata, malgrado ciò sta attenta se faccio mosse avventate.

 

 

<< Non è difficile. Solitamente, se la marcia è ingranata, si schiaccia a fondo la frizione e si mette in moto, ma visto che la marcia è tolta, ti basta solo mettere in moto. >>. Indica la chiave inserita nel nottolino. È ancorata ad un portachiavi con la bandiera della Finlandia, Jack Skeleton e una piccola croce gotica.

 

 

Avvio il motore senza uccidere nessuno, è già un passo avanti.

 

 

<< Ora premi la frizione a fondo ed ingrana la marcia. >>, gesticola piano e replica con le mani, ciò che devo fare. Sembra più facile quando è lei a guidare. << Senza lasciare la frizione, premi l’acceleratore e porta la lancetta dei giri a due. >>.

 

 

Ho capito la metà di ciò che sta spiegando, non faccio in tempo a premere l’acceleratore, che mollo la frizione d’improvviso, la macchina sobbalza in avanti e si spegne.

 

 

<< Siamo ad uno! >>, sbotta Francesca concitata, iniziando a tenere il conto dei miseri fallimenti.

 

 

La faccia di Leo si insinua tra i sedili.

<< Meno male che non ho fatto colazione, altrimenti vi replicavo in diretta la scena dell’Esorcista. >>.

 

 

Amelia rimane in una paziente serenità, si aspettava già che sarebbe finita così. Non ha fretta, si gode in pieno la circostanza spensierata, tuttavia avverto che la situazione è cambiata, che è diversa, come una farfalla che sta vivendo oltre le sue capacità. Anche se ha promesso di resistere, non è lei che può decidere quando morire o no.

 

 

<< Non è meglio usare la bicicletta? >>, prego sconfortato. La utilizzo da tutta la vita, perché cambiare le abitudini adesso?

 

 

<< Non sei stanco di dipendere dagli altri, Ville? >>. È un quesito strano, che inquieta e non poco, è come se volesse rendermi completamente autonomo prima che lei se ne vada. Vuole essere certa che starò bene, nonostante tutto. << Non devi dipendere da nessuno, nemmeno da me. >>.

 

 

Di colpo un silenzio pesante cala nella macchina, è una sensazione asfissiante che si incunea nella gola e stringe i polmoni fino a soffocare. Amelia deve aver tenuto una conversazione su questo argomento in precedenza, con i suoi amici: loro sanno qualcosa che ignoro.

Se fossimo stati da soli, le avrei detto che adoro dipendere da lei, invece le rivolgo un’occhiata lancinante, affranta e l’allegra atmosfera si è disinvoltamente frantumata.

 

 

Riprovo di nuovo a mettere in moto, tengo la frizione schiacciata, ingrano la marcia e attendo ulteriori spiegazioni. Sono invaso dal fuoco della determinazione. Non sono io che la sto salvando, non posso fare niente per la mia dolce sirena, ma è lei che prova a fare qualcosa per me… per me, per cui c’è ancora speranza.

 

 

 

<< Porta la lancetta dei giri sul numero due e mentre lo fai, lascia piano la frizione, fin quando la macchina prenderà a muoversi. >>.

 

 

Mantengo l’acceleratore a metà, piano lascio il pedale della frizione e la macchina avanza lenta, senza scossoni, sobbalzi ed imprevisti. È più facile di come era avvenuto durante le lezioni di guida da ragazzo, Amelia è un’istruttrice superba, comprensiva e soprattutto paziente.

Non usciamo mai dallo spiazzale, altrimenti ci beccheremo una multa salata e il sequestro del mezzo. Alla fine della lezione, tra risate e battutine a mie spese, riesco a guidare egregiamente ed ho fatto spegnere la macchina solo sette volte.

 

 

La serata trascorre in pizzeria, qualche birra, una margherita divorata in men che non si dica, due coppie di innamorati, quattro persone totalmente diverse, legati indissolubilmente da un filo invisibile che non si scioglierà mai più.

Torno ad essere un ragazzino di quarant’anni tra ventenni, sono la nota che stona, eppure, per stasera non voglio darci peso.

Francesca e Leo si allontanano dal tavolo, più per assicurarsi che il resto dell’ordinazione non sia stata mangiata dagli alieni, che per darci un po’ intimità.

Amelia non è la stessa, è spesso silenziosa, presente il più possibile, ma è chiusa nel suo mondo, mi guarda come se volesse imprimere nella mente le fattezze del mio viso. Ho una brutta sensazione che mi impedisce di vivere con la giusta serenità l’uscita in pizzeria, temo che il paradiso possa trasformarsi in inferno, da un momento all’altro.

 

 

Sorseggio la birra, c’è divieto di fumo, ed ho voglia di scaricare la tensione con le sigarette, vorrei evitare discorsi penosi, ma non sopporto quella quiete tetra.

Sto per chiederle cosa c’è che non va, quando è lei ad anticiparmi, con una proposta che mi coglie alla sprovvista e sconvolge non poco.

 

 

<< Voglio fare l’amore con te. >>, rivela con una voce di velluto ammaliante, persuasiva e dannatamente carnale. Il viso di un angelo e gli occhi di un diavolo. << È da quando ti sei seduto alla mia macchina, che non penso ad altro. >>.

 

 

Batto più volte le palpebre, stupito. Mentre io credevo che stesse rimuginando su concetti lugubri, lei invece immaginava tutt’altro.

<< Era a questo che pensavi? >>, chiedo, ancora scioccato e non capisco il perché ne sono esterrefatto.

 

 

Piega la bocca carnosa in un ghigno malizioso.

<< E a cos’altro? Non l’avevi capito? >>.

 

 

Scuoto la testa, ed inarco un sopracciglio. Ho capito le donne, ma lei resta sempre una piacevole incognita, capace di disorientarmi.

 

 

<< Voglio fare l’amore con te, adesso. >>, specifica e la luce negli occhi diviene un fuoco corvino indomabile, deflagra nel basso ventre, che si contrae al suono della sua richiesta e risponde con un ingombrante desiderio nei pantaloni. Sono costretto ad allargare le cosce per trovare sollievo.

Scruto l’interno della pizzeria, gli altri tavolini sono occupati da clienti che chiacchierano tra di loro, nessuno bada davvero a noi o a me in particolare. Nessuno sta ascoltando la nostra conversazione.

 

 

Mi sporgo attraverso il tavolino, per avvicinarmi a lei e sussurrare.

<< Adesso? >>. Continuo a comportarmi come un coglione patentato. Almeno per essere un decerebrato la patente me l’hanno regalata alla nascita.

 

 

Scoppia in un’argentina risata cristallina, che è un piacere per le orecchie.

<< Pensavo per Natale, ma visto che manca ancora più di un mese, direi adesso. Non dirmi che non vuoi? >>, mi sfida apertamente e non c’è neppure bisogno che finisca la frase, che le ho già afferrato la mano e, come due adolescenti in preda agli ormoni, ci infiliamo nel bagno della pizzeria.

La chiave non c’è, potrebbe entrare chiunque e il pericolo rende il momento più eccitante.

 

 

La bacio con urgenza, non possiamo intrattenerci ad amarci con la giusta dolcezza, sarà sesso allo stato puro. Mi ritrovo contro il muro, sbalordito da tanta impetuosità, lascio che sia lei a comandare, a farmi suo, a governare il corpo, il cuore e l’anima. Divora la mia bocca come se dopo solo la morte l’attendesse, fruga nei pantaloni e, con un brivido di pura estasi, scova la mia cupidigia per lei. Sono completamente in suo potere.

Poggio la testa sulle mattonelle fredde, ed inarco la schiena sotto le carezze esperte, a malapena avverto le labbra umide scivolare sul collo. Tremo dal piacere e prima che io perda totalmente la concezione del tempo e dello spazio, la spingo verso il lavandino, non c’è gentilezza, solo una veemente passione impulsiva di soddisfare i bassi istinti, è come scaricare tutta la preoccupazione, il dolore e la rabbia in una sola volta.

Le mani accecate dalla passione, vengono sostituite dalle sue, che riescono a mantenere la giusta calma. I jeans scivolano sulle gambe magre e lisce, si piega verso il lavabo ed allarga il più possibile le cosce, nonostante i pantaloni le limitano le azioni, esibendomi la paradisiaca visione del suo sedere morbido e le intimità umide svelate ai miei occhi affamati.

Dire che sono senza parole è un sottile eufemismo, per spiegare che, ancora una volta, è stata in grado di confondermi.

 

 

<< È così che devi prendermi. >>, annuncia accalorata.

Zero preliminari, nessun preludio a ciò che sta per accadere di lì a poco.

 

 

Non me lo faccio ripetere due volte, che le sono già dentro per dare sollievo alla mia eccitazione e alla sua. Amelia è costretta a tenersi assicurata ai lati del lavandino, le spinte sono forti, profonde e colpiscono esattamente il punto più delicato in lei. Difficilmente riesco a rallentare la folle corsa, le stringo i fianchi e l’attiro verso di me. Da fuori quel bagno saturo di odori lussuriosi, sospiri soffocati, rumori liquidi di carne che incontra altra carne, riesco ad udire la musica e il mondo che continua a girare, mentre il mio s’è fermato da un bel pezzo.

Non so quanto possa resistere, sono un pezzo di ferro incandescente che sta ardendo vivo nelle brame dell’inferno, avverto i primi spasmi dell’orgasmo farsi strada imperiosi, scalciando smaniosi per salire in superficie.

Mi basta sfiorare la pelle serica tra le sue gambe, per innescare l’esplosione devastante che la fa sciogliere contro il lavandino e, nella foga brutale dell’attimo, è l’anelito di puro godimento che innesca il mio piacere. Affondo dentro di lei e supero il limite terreno che mi lega ad Amelia, siamo fusi in un unico essere, una sola anima con un cuore che scandisce il ritmo dell’amore.

 

 

Restiamo un paio di minuti così, mi fischiano le orecchie, respiro a fatica, non riesco a rendermi conto di cosa è appena successo, è stato come dominare un altro essere umano, non come se l’avessi denigrata, ma più come un rapporto consensuale dove uno dei due vuole essere preso con la “forza” per aumentare il godimento.

 

 

<< N-non sono sicura di non cadere. >>, ammette, sembra sul punto di mettersi a ridere, non si aspettava un simile trattamento alla sua fantasia erotica.

 

 

<< Ti aiuto. >>, le dico e vorrei aiutarla in tutto, invece le mie forze si limitano a rimetterla in piedi fisicamente e nulla più.

Lentamente l’aiuto a raddrizzarsi. È bellissima, sudata, il caschetto leggermente scompigliato, gli occhi due tizzoni accesi, le labbra schiuse, le guance arrossate. Con un’accortezza che non sapevo di possedere le rialzo i pantaloni e sistemo i miei, mi prendo cura di lei, perché è ancora scossa per ciò che abbiamo fatto.

Non la smette di scrutarmi estasiata, poi il sorriso appagato, diviene un misto tra amarezza e dolcezza, che mi si stringe nel petto come un nodo di cemento armato.

Le prendo il viso tra le mani, rendendomi conto di quanto sia riuscita a soggiogarmi, come nessuno mai era riuscito in precedenza. Nemmeno Jonna. Mi tiene in pugno, seppur non si è mai sforzata nel farlo.

 

 

La traggo a me premendo le labbra sulle sue, in una comunione di amore, che non avrei mai immaginato di volere, tanto meno di riverire. È la persona giusta, che il destino ha deciso di non lasciarmi.

<< Non guardarmi come se fossi la tua vita. >>, la prego turbato, mentre l’abbraccio e sono io che rischio di cadere stavolta… cadere nell’abisso.

 

 

<< Vorrei che non fosse così, Ville. Ti giuro che ho provato ad andarci piano, ma non posso. È che, quando si tratta di te, io non riesco a fare a meno di amarti con ogni fibra di me stessa. >>.

 

 

Chiudo gli occhi, immergo la bocca nei capelli e respiro il profumo fresco dello shampoo. Deglutisco appena.  

<< Sposami. >>, espongo nuovamente, consapevole che sarà un secondo “no”, per le ragioni che mi ha spiegato, vorrei che fosse in grado di leggermi nel pensiero, perché questo è il mio modo del tutto personale che ho per dirle che la amo.

Si alternano attimi di totale lucidità, ad attimi in cui il solo concetto di perderla, strazia l’anima e spegne la ragione. Non riesco a pensarlo, figuriamoci se sarò abbastanza forte per viverlo.

Capisco che sono fatto di lei, è dentro di me, nelle cellule che mi compongono, nel sangue che scorre nelle vene, ma è più di questo, avverto la sua essenza che mi ha plasmato, una parte di lei vivrà per sempre dentro di me e viceversa.

 

 

<< Non sarà un contratto a legarmi a te, Ville. Io sono completamente e totalmente tua… non hai bisogno di una firma su un foglio. >>, sussurra sul mio torace, alza il viso e negli occhi languidi vedo il mio riflesso: il riflesso di un uomo disperatamente innamorato. << Però ammetto che continua a piacermi come lo dici. Ha qualcosa di così… come dire: solenne. Sembra tu faccia sul serio. >>.

 

 

Adesso sono profondamente offeso, cosa del mio atteggiamento non la convince?

<< Usciamo di qui, entriamo nella prima chiesa e sposami, Amelia. >>, la voce è arrochita dal bruciante desiderio di farla mia in questa vita e in quelle avvenire. Ho come l’impressione che, se un qualche Dio esiste davvero ed accoglie la nostra unione, mi darà modo di rincontrarla anche nelle vite a seguire. Lo so che è una riflessione stupida, però mi dona conforto e vorrei realizzarlo sul serio.  

 

 

Schiocca la lingua al palato e fa un passo indietro.

<< Nah, Valo, non lo vuoi veramente. Non è un buon affare legarsi in quel modo ad una malata terminale, non sono un serio investimento a lunga scadenza. >>, la butta sul ridere, mentre io non ho alcuna intenzione di demordere.

 

 

<< Perché fai così? Io voglio davvero che tu diventi mia moglie. Non scherzo. >>.

 

 

Il sorriso pieno, man mano si spegne e una sottile malinconia le affluisce nello sguardo dolce.

<< Non me lo chiederesti, se non stessi morendo, Ville. È questo che ti spinge, sei mosso da compassione, tutto questo che sta accadendo è perché ti faccio pena. >>, inspiro brusco, pronto ad interromperla, lei alza le mani per farmi tacere. << Non intendo “pena” nel senso negativo del termine. Chiamo le cose con il proprio nome. Sposarmi non è quel che vuoi davvero. Credi di volerlo, ma non è così. È una situazione particolare, dove le emozioni, le sensazioni e le percezioni sono alterate, lo capisco bene. Probabilmente in un frangente normale, non mi avresti neppure calcolata. >>. C’è amarezza nelle parole. Piedi ben piantati per terra, anche troppo. Cosa le fa credere che ciò che provo sia finzione?

 

 

Stropiccio il naso, devo spiegarmi come si deve. Ha il vantaggio di essere brava con i discorsi, ma questo non significa che abbia ragione.

<< Amelia, ho quarant’anni. Alcune relazioni alle spalle, ne so qualcosa di amore e vita, ho fatto molte esperienze e, senza offesa, una venticinquenne non ha tale potere di farmi provare cose non vere. Quando ho capito che con te era diverso, ancora non ero a conoscenza della malattia. Non sono mosso da compassione o qualsiasi altra diavoleria, tu possa pensare. >>. Le prendo la mano e la poggio sul mio petto, così da avvicinarla di nuovo a me. << Senti questo? Senti come batte energico e veloce? Sei tu che gli fai questo effetto. >>.

 

 

Diviene un arcobaleno, sorride colpita, ora mi crede senza riserve e, anche se siamo in uno squallido bagno di una pizzeria qualunque, il fatidico “ti amo” è risalito su per la gola, rotola sulla lingua ed aspetta che io apra la bocca per colmare il breve spazio che ci divide.

 

 

D’un tratto qualcosa va indiscutibilmente storto.

 

 

Un rumore basso e cavernoso rincara minaccioso dai polmoni di Amelia e deflagra in un colpo di tosse sfregante.

Non assimilo subito ciò che sta avvenendo, ho il sangue in faccia, una chiazza scura sulla maglietta e tra le mani un liquido vischioso me le fa ritrarre atterrito. La bocca ansimante di Amelia è sporca di cremisi, altro sangue pericoloso le cola giù per il mento, sulla maglia, ce l’ha sugli avambracci. Negli occhi individuo per la prima volta, una paura cieca, ha perso il controllo, indietreggia verso il lavandino. Non vuole che la tocchi.

Sono fuori di me, le mie mani la raggiungono, non riesco a fermare l’attacco, sono totalmente inutile, intanto che la donna che amo sta morendo sotto i miei occhi terrorizzati.  

Non respira e nel tentativo di trovare ossigeno, un secondo colpo di tosse, le fa espettorare una quantità impressionante di sangue, sembra un rubinetto aperto. Piega malamente la schiena, spalanca all’inverosimile le palpebre ed inspira convulsa, come se stesse avendo un attacco violento di asma.

Il terzo colpo di tosse è devastante, c’è sangue ovunque, le esce anche dal naso e l’emorragia non accenna ad arrestarsi. Sento un brusio indistinto, poi riconosco che è la mia voce che implora il suo nome, riempendolo di un panico palpabile.

Tutto tace, come la calma prima di una tempesta.

 

 

Le iridi calde spariscono, lasciando solo la sclera bianca, un ultimo colpo di tosse le sconquassa il torace provato e prima che cada a peso morto sul pavimento, riesco ad afferrarla, ma lei non si muove più. 









Note: 
Uhm, forse sono una brutta persona, però era inevitabile che scrivessi una cosa simile, sono un tantino sensibile alla morte, per questo ho fatto molta fatica scrivere questo capitolo e la storia in generale. La trama era questa sin dall'inizio. Credo che tutti aveste intuito, ad un certo punto, come sarebbe andata a finire. 
Comunque, questo non è l'ultimo capitolo, ce n'è ancora qualcuno prima della fine. Non sto cercando di darvi false speranze, pardon! 
Cosa dirvi... non so scrivere cose allegre, il dolore è qualcosa che conosco bene e che, in un modo o nell'altro, è sempre ben presente in ciò che scrivo. 

Non dirò "se il capitolo vi è piaciuto" perché, non credo che possa piacere un episodio così, spero almeno che vi abbia colpito e che sia riuscita a trasmettervi un po' di me.
 

Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 

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Capitolo 18
*** L'ultimo ballo con la morte ***


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18.
 
*L'ultimo ballo con la morte *








 
Il corridoio dell’ospedale è un via vai di gente di fretta e silenziosa, mi passano davanti come se fossi trasparente, a volte ricevo occhiate sconcertate, qualche infermiera mi ha chiesto se sto bene.
Il sangue di Amelia è sulle mani, asciutto sulla stoffa della maglietta, secco sul viso pallido. Ho la faccia di uno che è uscito vivo da un incidente mortale, ma non credo di essere veramente vivo, probabilmente solo nelle funzioni basilari del termine… è come se qualcuno mi avesse strappato il cuore, però non muoio. C’è una forte sensazione funesta ed oppressiva, che grava al centro del petto e so che presto la percezione, diverrà una straziante realtà.
 
 
Francesca è in un mare di lacrime, Leo non riesce ad arrestare la tempesta. È bastato uno sguardo per giungere alla conclusione più ovvia: stiamo attendendo entrambe la notizia peggiore.
Lui dovrà dare sollievo al dolore della sua amata.
Io dovrò sopravvivere al mio di dolore e nessuno potrà dare sollievo a questo.
 
 
Seduto su una scomoda e fredda panchina di metallo, di un terribile verde acido, ho gli avambracci poggiati sulle ginocchia e le mani imbrattate di bordeaux, tremano visibilmente. Sono svuotato, niente forze, non riesco a muovere un solo muscolo, la schiena è curvata, nemmeno portassi un peso ponderoso su di essa. Fisso le mattonelle bianche, vedo disegni onirici che non esistono, forse sono delle visioni, magari sono sotto shock e non me ne rendo conto.   
Non lo so come sto.
Come sta, uno che ha visto la propria donna rovesciare un secchio di sangue dalla bocca e poi non mostrare più segni di vita? Come posso stare? Come cazzo posso stare?
 
 
Schiudo la bocca, inspiro profondamente e l’ossigeno invade un corpo scosso, non riesco a riprendermi e non sapere come lei stia, mi uccide lentamente e profondamente.
Non ho il coraggio di chiamare nessuno, né mia madre o mio padre o Jesse, non so se voglio affrontare questa situazione da solo. Sì, ci sono Francesca e Leo, ma nessuno dei due ha il coraggio di dirmi alcunché, parlano in italiano tra di loro e sono tagliato fuori. Ho capito che Leo ha telefonato a degli amici che stanno arrivando, così intuisco che, l’unica persona che vorrei fosse qui in questo frangente drammatico è il migliore amico che ha condiviso con me bei momenti e attimi di merda.
Non abbiamo avuto modo di chiarirci, eppure non credo che solleverà pretesti se, adesso, gli chiedo un briciolo d’aiuto.
 
 
Fatico a tenere il cellulare in mano, senza che ci sia pericolo di farlo fracassare al suolo. Il numero è salvato in rubrica, basta premere il bottone verde e lo porto all’orecchio.
Mi allontano di qualche passo da Francesca e Leo, non perché ci sia pericolo che capiscano ciò che dica, ma perché sto cercando un posto per crollare.
 
 
Due squilli, poi la voce incolore e fredda del mio migliore amico, è come un’àncora di salvataggio in un mare di atrocità.
<< Sì? >>.
 
 
<< Migé… >>, la voce esce in un debole sussurro, non sono in grado di parlare, di spiegare, di chiedere aiuto. Gravo il corpo contro un muro e poi mi lascio scivolare sul pavimento freddo, la testa abbandonata sulla parete.
 
 
<< Ville, che succede? >>, chiede lui, ha intuito che c’è qualcosa che non va ed arriva immantinente alla soluzione più ovvia che potesse esserci. << Lei è…? >>. Non riesce a dirlo, la domanda insicura si spezza.
 
 
<< Sono in ospedale. Ti chiedo solo di venire, non so quanto le resti… non sono in grado di affrontare tutto questo da solo… è stato orribile. >>, confesso in uno sbuffo distrutto. << Ho bisogno d’aiuto. >>. È la prima volta che formulo chiaramente una richiesta simile, non l’ho fatto neppure quando ero io ad essere ad un passo dalla morte.
 
 
<< Sarò lì in cinque minuti, Ville. >>, promette e poi il silenzio opprimente conferma che ha riattaccato per sbrigarsi a raggiungermi.
 
 
Infilo il cellulare nella tasca dei jeans, allungo le gambe, chiudo gli occhi e mi rilasso, totalmente sfinito. Perdo la cognizione del tempo, scivolo in un dormiveglia angoscioso, i minuti mi passano addosso come un carro armato dai cingoli chiodati, che si diverte a fare avanti e indietro su di me.    
 
 
Qualcuno si schiarisce la gola, impacciato.
Un anziano dottore in camice bianco, mi sosta davanti.
Di Francesca e Leo non vi sono tracce, nel corridoio. Migé ancora non è arrivato.
 
 
<< Signor Valo? >>, domanda il dottore. Non ha tirato ad indovinare, è certo che sia io.
 
 
Balzo in pieni con non poche difficoltà, ho gli arti inferiori intorpiditi, è come se avessi trascorso una vita a dormire in una posizione scomoda. Ho un tuffo dolorosissimo al cuore.
<< Come sta Amelia? >>.
 
 
Il dottore deglutisce, aggiusta nervoso un paio di occhialetti tondi e gratta più volte la nuca, poi la sentenza di morte: scuote la testa dispiaciuto.
<< Purtroppo non supererà la notte. >>.
 
 
Ed io perdo la ragione.
Tiro un pugno devastante contro la parete, mi agito come un indemoniato, il dolore dell’anima è l’unica cosa che riesco a sentire. Pronuncio numerosi “no” senza senso, il cervello si spegne, esplodo in tutto il dispiacere che ho represso nelle settimane precedenti.
Aveva detto che avrebbe combattuto per restare con me, invece la malattia se la sta portando via prima del tempo.
 
 
<< Voglio vederla. >>, grido veemente. Non me ne frega un cazzo se è contro il regolamento, se il dottore inventerà qualsiasi altro pretesto per impedirmi di starle vicino, non mi fermeranno neppure con i lacrimogeni!
L’uomo è paziente, calmo, anche troppo per i miei gusti. È abituato a persone che muoiono tutti i giorni, ma io no, non l’accetto la morte, la detesto, benché io abbia danzato con lei a lungo. Adesso ha deciso di danzare con la donna che amo.
 
 
Annuisce.
<< Sono venuto proprio per questo: ha chiesto di vederla. >>.
Il dottore mi fa strada attraverso il reparto, conducendomi al terzo piano. Non c’è conversazione, cos’altro può dirmi, dopo avermi rivelato che Amelia sta morendo?
Indica la penultima porta, all’interno di un reparto che sa di decesso e crisantemi: come nel mio sogno.
Non fa raccomandazioni, non dice di fare attenzione, di non farla stancare, non ce n'è più bisogno. Non si perde in inutili convenevoli o frasi di circostanza, è chiuso in un desolante silenzio.
 
 
Amelia è distesa in un letto, sommersa da numerosi tubicini, flebo che le iniettano medicinali del tutto inutili, macchinari collegati al corpo magro. Sembra così piccola ed indifesa e la visione d’insieme mi frantuma definitivamente.
Piango, ma forse stavo già piangendo da prima e me ne accorgo solamente ora.
È sveglia, i suoi occhi trovano in fretta i miei e a fatica si toglie il respiratore dalla bocca cerea. Prova a sussurrare qualcosa, ma la voce non collabora.
 
 
Mi inginocchio impetuoso accanto a lei, le prendo la mano e ne bacio la pelle fredda. Il mio aspetto l’ha spaventata, ho ancora il suo sangue addosso.   
<< Non sforzarti, Amelia. Resta con me il più possibile. >>, prego prostrato. << Devi guarire. Devi tornare a casa con me. Voglio ancora litigare con te, voglio svegliarmi con te al mio fianco. Ti voglio per casa, ad aggiustarmi la vita. Ti voglio con me, per sempre. >>, mormoro affranto, non penso con lucidità, farfuglio cose senza senso. Sapevo che questo momento sarebbe giunto, ma non si è mai pronti a perdere la persona che si ama.
 
 
<< Suona bene. >>, bisbiglia mantenendo quel guizzo divertente, non articola bene le parole, la voce è roca, bassa. Deglutisce spesso e stringe gli occhi: parlare le provoca sofferenza. << Promettimi, che continuerai a… vivere, Ville… per me. Promettimi che… dopo di me… tu non smetterai, di proseguire. Promettimi che, farai… tutto ciò che… non abbiamo fatto insieme. >>.
 
 
Scuoto la testa, cercando di zittirla. Le forza che impiega per esprimersi, le sottraggono minuti preziosi.
<< Shhh, ti prego, non dire niente. >>. Sono un misto di lacrime, singhiozzi e gemiti involontari.
 
 
Stringe debolmente la mia mano, fa’ sul serio.
<< Promettilo, Ville. Promettimi che stanotte s-arò solo io… a morire. Voglio che tu viva. Devi farlo! >>.
 
 
Increspo le sopracciglia e gravo la testa nell’incavo del suo collo, attento a non intaccare i tubicini o a farle male.
<< Te lo prometto, Amelia. Ti prometto che continuerò a vivere, che non smetterò di proseguire, che farò tutto ciò che non abbiamo fatto insieme. Prometto. >>. Ma non posso promettere che, stanotte, sarà solo lei a morire, perché morirò con lei. Le scosto una ciocca spettinata di capelli, portandogliela dietro l’orecchio.
 
 
<< Ci si vede sulle stelle o da quelle parti là. >>, farfuglia con un sorriso di autentica serenità, di come qualcuno che ha smesso finalmente di soffrire e sta assaporando la pace.
E con mio sommo orrore, assimilo che è l’ultima volta che le posso parlare, poiché trascorrerò il resto dei miei giorni senza di lei. Metto da parte l’incapacità di non essere in grado di assemblare due parole decenti in fila, è la mia ultima occasione.
 
 
<< Voglio che tu sappia una cosa, Amelia. Niente di ciò che c’è stato tra di noi è stato dettato dalla pietà, niente di ciò che ho vissuto era fasullo, niente di ciò che ci siamo detti era una bugia. Ogni istante vissuto insieme è stato l’istante più bello della mia vita. Io non potrò mai e poi mai dimenticarti, perché io ti amo. >>. E finalmente lo dico. La amo, come non sono mai stato in grado di amare una persona, la amo più di me stesso e nel mentre dico di amarla, sono sul punto d’impazzire, perché sta per lasciarmi.
 
 
Non mi sono accorto il momento preciso, durante il discorso, in cui la presa sulla mia mano si è allentata.
Batto le palpebre e un supplizio penetrante si lacera al centro del petto, seguito da un suono continuo proveniente dal macchinario che misura i battiti cardiaci.
Alzo spaesato il viso, la testa gira come una trottola, vado sotto shock.
Gli occhi vitrei di Amelia fissano un punto indefinito sul soffitto, lacrime calde sono scivolate sul viso immobile, le labbra sono socchiuse e in un angolo un rivolo di sangue sta ancora scorrendo.
 
 
Un urlo disumano scoppia distrutto dalla bocca, cado a terra e ripeto parole inconsulte, il suo nome si spezza in gola e vado totalmente alla deriva. Il dolore mi schiaccia sotto un peso incalcolabile, sono un concentrato di disperazione, colpe imperdonabili, dolcezze mancate e tempo prezioso che ho lasciato fluire via.
Non ha sentito il “ti amo” che tanto anelava e che non sono stato in grado di rivelargli prima. Le promesse che mi ha chiesto, le hanno prosciugato le ultime forze e l’hanno uccisa.
 
 
In una lesta processione, uno dopo l’altro, dottori ed infermieri irrompono nella stanza satura di alcool etilico, si accaniscono sul corpo senza vita della persona che amo. Provano a rianimarla, iniettano liquidi inefficaci, il suo cuore non riparte, ha smesso di combattere definitivamente.
Lei non è più qui.
 
 
Delle mani mi afferrano per le spalle, inducono via di forza, non riesco a ribellarmi, sono come un’onda che viene trascinata via dalla potenza del mare. Mi ritrovo dietro al vetro che dà nella camera, fisso sconcertato una scena che fatico ad assimilare, niente appare reale, sembra di assistere ad un film a rallentatore, dove la protagonista è appena morta e colui che la ama, resta solo, in un covo di tormento: niente lieto fine per noi.  
 
 
In una circostanza così feroce, violenta e brutale, ritorna alla mente scompaginata le parole della canzone che, io ed Amelia, avevamo ascoltato la mattina dopo il mio tentato suicidio, in quel bar: Yhtenä iltana, dei Sara. La canzone che a lei piaceva tanto.           
In una notte può accadere qualsiasi cosa.
In una notte ho incontrato colei che è diventata il mio cuore.
In una notte ho capito di amarla più di me stesso.
In una notte ho scoperto che l’avrei persa per sempre.
In una notte l’ho persa.
 
 
Addio amore mio. 









Note: 
Beh, ehm, siccome lo scorso capitolo non era stato abbastanza strappalacrime, ho la netta sensazione che questo sia stato anche peggio. Lo so, sono un pochetto infame (ma proprio poco xD), però, volevo che questo capitolo fosse incentrato sull'esatto momento in cui Amelia sarebbe morta, per me, in un certo senso, era importante descriverlo. Dopo tante storie con i "ti amo" che volano a raffica, qui, invece è accaduto che lei è deceduta senza sentire Ville che glielo confessava. 
Tutto quel tempo e Ville si è ridotto all'ultimo a dirle che l'ama ed Amelia non l'ha neppure sentito. (La smetto di girare il coltello nella piaga). 
I lieto fine, comunque, non fanno per me, si era capito, no? 

Vi comunico che, il prossimo capitolo, sarà definitivamente l'ultimo e quindi siamo giunti all'epilogo di questo lungo e doloroso viaggio. 

Non so il perché, questa storia mi ha ricordato una delle prime ff che lessi in questa sezione nel lontano 2008, dove la protagonista si suicidava dopo la morte della madre (se l'autrice si riconosce, mi farebbe piacere rileggerla, grazie). Credo che poi sia stata cancellata, ma ha lasciato una grande impronta dentro di me. Molte delle ff dedicate a Ville e, che sono state di seguito cancellate, mi hanno portata ad amare maggiormente Ville e gli HIM. (Non ve ne frega nulla, lo so xD). 

 
Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 

 
 

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Capitolo 19
*** Ci incontreremo quando saremo più pronti, meno arrabbiati, un po' più soli. Prenditi cura di te. ***


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19.
 
*Ci incontreremo quando saremo più pronti, meno arrabbiati, un po' più soli. Prenditi cura
di te.*







 
 
 
 
Il bicchiere è vuoto, la bottiglia di alcool è destinata a fare l’identica fine. Altre quattro le faranno compagnia.
Fuori ha smesso di piovere, il temporale si dirocca solo nell’anima, silenzioso, ma infernale. Sono stravaccato sul divano, non ho alcuna intenzione di fare alcunché, a parte bere fino ad affogare nel mio stesso vomito.
 
 
Due giorni fa hanno sotterrato Amelia, per me non è mai accaduto sul serio. Aspetto che da un momento all’altro bussi euforica alla porta, magari dopo aver scavalcato temeraria il cancello e mi riempia di epiteti buffi e spiritosi.
 
 
Ho conosciuto i suoi genitori.
 
 
Sua madre le somiglia tantissimo, stessi occhi, uguale colore di capelli, con un taglio diverso, più lungo, temperamento opposto, così mite e mansueto, vedere la mia Amelia nei tratti di una donna adulta, ha provocato un attacco di panico. Lei non arriverà più a quell’età, non potrà invecchiare… con me. Il padre era colmo di rimorsi, un perdono che nessuno potrà mai donargli, ha permesso alla rabbia di farlo allontanare da sua figlia e non potranno più chiarirsi.
Mi è venuta la nausea alla parola “condoglianze”.
Chiunque fosse amico o parente di Amelia, sapeva di me, del suo amore folle, di come avesse attraversato l’Europa intera per vivermi nel breve tempo che le era stato concesso. Si comportavano come fossi uno di famiglia.
È stato un incubo e, da quell’incubo non mi sono ancora svegliato.
 
 
Mia madre ha passato la mattinata con me, in serata toccherà a Jesse. Hanno tutti paura per la mia sanità mentale, si danno il cambio, cercano di non lasciarmi a lungo da solo, con un simile dolore che si ciba delle mie carni.
Io ho promesso, anche se è una promessa che mi costa cara.
Non morirò, non tenterò di togliermi la vita, sopravvivrò fin quando potrò, l’ho giurato ad Amelia. E se non altro, questo impegno, voglio mantenerlo.  
Se almeno i ricordi smettessero di fluire impetuosi nella mente, provare a continuare sulla mia strada, sarebbe meno funesto e più semplice. Invece no, lei è lì, con gli occhi di zucchero, il sorriso pieno, la voce cristallina, il profumo d’amore, i baci di miele, la pelle di velluto. Il tempo trascorso con lei è come la più potente droga e, adesso che è scaduto, sono in violenta astinenza. Una dolorosa astinenza.
 
 
La bottiglia vuota di birra rotola dalla mano, sul tappeto, battendo nel cumolo di bottiglie vuote. L’alcool non riesce a stordirmi quanto vorrei, ho un senso di nausea pressante che risale dallo stomaco, sono ancora sotto shock, non so se mi sono ripreso e se ci riuscirò mai.
Il cervello non vuole ammettere la realtà ed io sono d’accordo con lui.
Socchiudo un momento gli occhi, non dormo e non mangio da parecchi giorni e, se posso ignorare gli effetti della fame, è il sonno che tradisce e sono nelle lande di Morfeo, prima che possa capirlo.
 
 
Una sensazione di calore gradevole, come un balsamo, lambisce la crepa tossica che imperversa al centro del petto, richiude le fenditure profondissime nel cuore e per un attimo non c’è sofferenza.
 
 
Una voce in lontananza canta in francese, una nenia atroce, di cui non comprendo le parole, però è come se volesse rammentarmi di qualcosa di importante o qualcuno che è così presente nei ricordi, che adesso è solo un’ombra di passaggio, che fugge via. Corro verso la voce, è lei la soluzione, corro su per delle scale a chiocciola, che non hanno mai fine. Non importa quanto lunga sia la traversata, che sono privo di forze e non c’è luce in questo posto desolante, l’importante è correre.
Sono sulla terrazza della torre. È buio. Non riesco a scorgere il cielo o la terra, solo l’abisso delle tenebre.
E lei è lì: la proprietaria della voce.
Amelia.
È ancora qui con me.
Non riesco a rammentare il perché, il solo vederla, causa una devastazione di tale portata. Inizio a piangere come un bambino.
È in piedi sul cornicione bianco, in bilico, tra la terrazza e l’oblio del nulla. Alzo una mano verso di lei, sgomentato per dove si trova, vorrei che scendesse, che tornasse con me, ma so che non posso fare niente. Mi fissa con una leggiadria disarmante, sorride mentre canta e prima che possa raggiungerla, si butta giù di spalle.
 
 
Mi sveglio di soprassalto, ho il cuore che è un treno in corsa, sono sudato, mi gira la testa, disorientato. La notte è calata, ho dormito più di quanto pensassi: l’alcool ha fatto effetto.
Ho la bocca che è peggio del Sahara alle quattro di un afoso pomeriggio estivo, gli occhi gonfi e pesti, le palpebre come incollate, un bruciore di stomaco che nemmeno un estintore può domare.
È stato come perdere Amelia una seconda volta.
 
 
Sto ancora metabolizzando l’accaduto, quando tre colpi alla porta mi fanno sobbalzare dallo spavento e, per un lunghissimo, doloroso ed infinito istante, sono sicuro che sia lei.
 
 
<< Ville?! Ville sono Francesca. Scusa l’orario, ma ti devo parlare. >>. La voce è debole, fiacca, piena di una sofferenza che sto saggiando anche io e di cui non mi libererò mai più.
 
 
Faccio per parlare, ma le parole escono atone, rauche e basse. Schiarisco più volte la gola, ed è come se avessi della carta vetrata in corpo.
<< Arrivo. >>, vocio alla fine, per evitare che se ne vada.
Ho desiderato così tanto che Amelia fosse ancora qui con me, che la delusione è un cazzotto potente che sbriciola i resti del cuore, come sabbia corvina tra le dita.
 
 
Non ha dormito nemmeno lei, ha l’aria stravolta, deve aver pianto da poco. L’aspetto non è dei migliori, come il mio, d’altronde.
Tra le mani, tiene stretto un diario vissuto, dalla copertina nera e scritte in lingue differenti, anche in finlandese.
È fuori luogo e grottesco chiedersi “come stai?”, quindi nessuno dei due lo fa, il silenzio è già abbastanza desolante di suo, perché aggiungere altra legna al fuoco? Francesca è di poche parole come me.
Forse è per questo che lei era la migliore amica di Amelia, ed io l’uomo che l’amava: ci somigliamo.
 
 
<< Preferisco non entrare. >>, dice, anticipando la stupida domanda di routine. È strano come un lutto di tale portata, annulli i cliché, le idiozie e le consuetudini. Le maschere cadono e le persone vengono allo scoperto. Porge il diario e attende che lo prenda. << Era di Amelia: mi ha chiesto di dartelo… alla fine. Voleva che lo avessi tu. >>. Asciuga via una lacrima, è rabbiosa nel gesto. Non vuole piangere, anche se non smetterà mai di farlo.
 
 
<< G-grazie. >>, balbetto sorpreso. Solo ora mi rendo conto di non avere niente di Amelia, né una foto, né qualcosa che le appartenga, solo la voce registrata sul suo mp3 e basta.
 
 
Francesca deglutisce e, senza girarci ulteriormente attorno, mi sgancia la bomba.
<< Noi stiamo partendo, Ville. >>, confessa fredda. << Abbiamo esaudito tutti i desideri di… i suoi desideri. Torneremo in Italia alla fine della settimana. >>. Sono riusciti perfino a sotterrarla nella terra che tanto amava, non poi così distante da me. Francesca non riesce a pronunciare il nome di Amelia. << È importante che tu avessi questo pezzo di lei. Grazie per averla amata, Ville. Grazie per esserti preso cura di lei, fino alla fine. Grazie, perché era te che voleva vedere, prima di morire. >>. Le parole scivolano d’improvviso fino all’anima, un cannone sparato a tradimento, un singhiozzo mi riempie la bocca e lo soffoco a stenti. Porto una mano sulle labbra e lotto per non sciogliermi in un lamento di lacrime.
 
 
<< Spero che, un giorno ci rivedremo. >>.
 
 
Un sorriso triste le sfugge, poi di nuovo la distruzione.
<< Lo spero anche io. >>, conclude. Siamo abili bugiardi, è l’ultima volta che le nostre strade s’incrociano. << Ciao Ville. >>, dice, per poi darmi le spalle e andarsene, saltando allo stesso modo di Amelia in cancelletto, senza attendere che glielo apra.
 
 
<< Addio Francesca. >>, mormoro nel silenzio della sera, oramai non può più udirmi. Sento che con Francesca, sto perdendo un'altra parte di Amelia e un’altra parte di me.
 
 
Richiudo la porta, torno a poltrire sul divano. Fisso assente il diario, non sono certo di volerlo leggere e d’altra parte so che mi aggrapperò a quelle pagine, piene della sua essenza, fino a morirne.
Cincischio pochi minuti, forse ore, alla fine, esausto dal tira e molla con me stesso, apro la copertina e sfoglio la prima pagina.
La data riportata risale al 2010: gli ultimi sei anni della sua vita.
È tutto scritto in inglese, poco e niente in italiano. È come se sapesse che, un giorno, io avrei letto il suo passato.
 
“Si può amare così tanto una persona che non si conosce?
Come può accadere tale miracolo?

Io non so niente di Ville, magari è un rompi balle di prima categoria, forse ha delle abitudine che detesto, delle usanze a cui non sono avvezza.
Eppure, anche se penso alle cose peggiori che potrebbe mai fare o dire, io lo amo lo stesso. Sarei disposta a tutto, pur di trascorrere un solo istante con lui.
Non è forse questo l’amore? Adorare i pregi, ma amare immensamente i difetti?
Perché se è così, io lo amo.”.
 
Nella pagina seguente, vi è incollata una foto proveniente da Seiska, un giornale di gossip locale, dove mi si affibbiava un probabile flirt con un’attrice finlandese. Poi smentito.
Accanto, Amelia ha scritto:
 
“Solo chi ami veramente, può ferirti così. O si ama totalmente o non si ama affatto, vorrei provare meno sentimenti per lui, ma non posso.”.
 
Continuo a sfogliare, a leggere di spezzoni di vita quotidiana, i problemi con il padre, poesie a me dedicate, fantasie divertenti in grado di strapparmi un sorriso, ritrovo la mia Amelia tra quelle righe, la sua vitalità, i nomignoli bizzarri che mi affibbiava. Probabili incontri, dove risultavo più un principe tenebroso, che un povero coglione con quindici anni in più di lei.  
Poi quando ha scoperto di essere malata: il giorno del mio compleanno.
 
“L’unica cosa che ho è la mia vita, l’unica cosa che potevo dargli, la cosa più preziosa. Era già sua, ma adesso, adesso che la mia vita ha un tempo, che so che non durerà, che prima o poi giungerà alla fine, una fine prematura.
Non voglio morire se prima non gli parlerò, non lo guarderò dritto negli occhi, non lo vedrò sorridere grazie a me.
Un abbraccio, non chiedo troppo.
Poi sarò pronta per morire.”.
 
Una fitta desolante mi si stringe nei polmoni, rendendo difficile la semplicistica azione di respirare.
Lei mi amava più di quanto avrei mai potuto amarla io, in un’eternità intera. E non sono neppure stato in grado di dirgli che io, in fondo, l’amavo davvero.
 
 
“Oggi l’ho visto!!!
Credo di non essere mai stata più felice in vita mia. In aeroporto.

Stanco, ma bellissimo. Lui è sempre bellissimo, però, forse è perché lo guardo con gli occhi di una persona innamorata persa.
Avrei pagato oro per corrergli tra le braccia e perdermi in lui.
Basta, ho deciso!
Qualche giorno e poi parto all’attacco con il piano. Non resisto oltre, non ho tutto questo tempo per aspettare.
Vorrei che ci fosse un modo diverso, vorrei non ingannarlo, ma se sapesse che lo amo, non avrei neppure una possibilità.”.
                  

 
Ha scritto del nostro primo bacio al Kamppi Chapel of Silence, di tutte le volte che siamo stati insieme, soffermandosi su dei particolari a cui non ho mai badato.
Mi ha guardato bene, più di quanto abbiano mai fatto altre persone e non parlo solo dell’aspetto fisico, ha visto in me cose che non le avevo mai detto. Mi conosceva, pur sapendo poco.  
Quando ho scoperto della malattia, la sera che abbiamo fatto l’amore. E poi ancora, sapeva che la morte era più vicina di quanto i dottori le avessero detto, specialmente perché aveva smesso di curarsi.
Ultima pagina.
 
“Mio dolce Ville,
so che starai di certo storcendo il naso, pensando: “più che dolce, sono andato a male!”, però fidati, quando ti dico che sei più dolce di quanto credi.
Hai reso la mia vita un paradiso, in modi che mi sono impossibili spiegarti e il regalo più grande l’hai fatto quando mi hai permesso di entrare nella tua vita, per trascorrere ciò che rimaneva della mia, con te.
Probabilmente passioni violente, hanno epiloghi altrettanto violenti e ciò che provo per te, solo la morte può interromperlo. Non “finirlo”, perché io ti amerò per l’eternità e per ogni altra vita che ci sarà.
Hai promesso di vivere per me, di volerti bene, di combattere.
Non sarai mai solo, anche se non mi vedrai, anche se non potrai udirmi o toccarmi, sarò al tuo fianco, così come è stato prima di incontrarci.
Non sei fatto per le ovvietà, me l’hai ripetuto tante volte, però io sarò lì ad aspettarti, amore mio, quando la tua vita cesserà di esistere. Nel tuo letto, dopo aver vissuto a pieno tutta la tua esistenza, fatto tutto ciò che devi, non prima, me l’hai promesso.
Potrei scrivere altre cento pagine, per provare a spiegarti ciò che provo per te, ma per stavolta ti accontenterai con un Ti Amo Ville.
Ci si vede sulle stelle o da quelle parti là.”.
 
 
Ti amo Amelia, ci si vede sulle stelle o da quelle parti là.
 
 
 
 
 
 
Fine.







 
 
Note:
E come dicono i francesi: "c'est la vie". 
Come ho già annunciato, l'idea era questa sin dall'inizio... sarò discendente di Leopardi: "mai 'na gioia" proprio. Magari si incontreranno in una prossima vita, come è scritto nel titolo. 
Il titolo non è opera mia, è una frase trovata sul web.

Insomma con questa storia ho dato proprio il peggio di me e giunti a questo difficilissimo e dolorosissimo finale, non so proprio se tornerò a scrivere in questa sezione, anche se di recente ho pubblicato una shot. Per un po', un bel po' mi terrò lontana da questa sezione, prediligendo altre sezioni, un po' per mettere alla prova me stessa e un po' per provare altri tipi di narrazione. 
Quindi, per ora, è un addio. 

Ringrazio tutte coloro che hanno seguito questa storia, a quelle che hanno commentato, rendendomi immensamente felice ed i fantasmini silenziosi. 
 
Ringrazio come sempre chi legge, chi commenta e chi fa il fantasmino. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   

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