Revenge

di evelyn80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno - Dieci anni dopo ***
Capitolo 3: *** Capitolo due - In volo verso Rio ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre - Il Museu Nacional ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro - Lupin entra in azione ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque - Finalmente vendetta ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 
 
Lupin, Jigen e Goemon erano asserragliati nella stanza da letto di quel piccolo appartamento, al primo piano di una palazzina cadente, oramai da due ore. Il loro ultimo colpo, il furto dello Smeraldo Mackay, era andato in fumo proprio grazie a colei che avrebbe dovuto, invece, aiutare i tre ladri nella loro opera: Fujiko Mine. Certo, non era una novità: Lupin era ormai abituato ai continui voltafaccia di quella donna. Anzi, forse era proprio per quello che ne era così tanto innamorato, a parte tutto il resto – petto, fianchi, cosce – ovviamente.
Questa volta, però, quella puttana arrivista non aveva soltanto preso il largo con il prezioso gioiello infilato nel solco tra i seni, ma aveva anche sguinzagliato alle calcagna dei suoi “amici” diversi membri di un clan malavitoso locale, interessati anch’essi alla grossa pietra verde. 
La piccola finestra che si affacciava sulla strada era già stata crivellata da diversi colpi di pistola. I frammenti di vetro sparsi sul pavimento luccicavano debolmente al tenue chiarore della luna che splendeva alta in cielo. Ogni tanto qualche sporadico sparo risuonava ancora nell’aria, cui Lupin e Jigen rispondevano prontamente.
Gli uomini non avevano paura per la loro incolumità. Nonostante fossero ancora giovani, si erano ritrovati in quella situazione decine e decine di volte e sapevano perfettamente come comportarsi per tirarsi fuori dai guai. Ciò che temevano davvero era che potesse succedere qualcosa a Michelle, la ragazza che da alcuni anni si era aggregata – senza il loro consenso, peraltro – a loro. Certo, in quei quattro anni di convivenza le avevano insegnato a difendersi ed a badare a sé stessa, cosa assolutamente necessaria quando fai parte di una banda di ladri, ma per quanto potesse aver imparato loro continuavano comunque a considerarla, ed a trattarla, come una sorta di sorellina minore. Ed, in effetti, era più giovane di loro di ben quindici anni, anche se si arrabbiava moltissimo quando glielo facevano notare. 
Michelle era rannicchiata contro il muro, la sua piccola Smith & Wesson calibro 38 special stretta in pugno. Quella pistola era stata un regalo di Jigen e per lei rappresentava non solo quello che effettivamente era – un’arma micidiale – ma anche il simbolo di quanto la sua vita era cambiata da quando aveva conosciuto il pistolero e gli altri. 
Benché tentasse con tutte le sue forze di rimanere calma, le sue dita non riuscivano a smettere di tremare. Neanche per lei quella era la prima esperienza di quel genere ma, questa volta, si sentiva stranamente inquieta. Trasse un profondo respiro nel tentativo di tranquillizzarsi, poi si sistemò meglio contro la parete e chiuse gli occhi.
La calma apparente si protrasse ancora per qualche minuto poi, all’improvviso, il suono acuto di alcune sirene lacerò il silenzio della notte, accompagnato dal vocione dell’Ispettore Zenigata amplificato dal megafono.
«LUPIN! Ti dichiaro in arresto!» latrò il poliziotto, sbracciandosi fuori dal finestrino della sua auto.
Una raffica di colpi, sparati dalla banda mafiosa, si riversò sulle volanti in arrivo. La prima della fila sbandò ed andò a schiantarsi contro un lampione, bloccando la carreggiata. Le altre auto furono costrette a frenare di colpo ed alcune si tamponarono vicendevolmente.
Jigen approfittò della confusione per sporgersi dalla finestra e sparare due volte. Il gemito di dolore ed il tonfo di due corpi che cadevano in rapida successione furono chiaramente avvertiti anche all’interno del piccolo appartamento.
Nel frattempo Zenigata e gli altri agenti si erano messi in posizione di difesa, rispondendo al fuoco. In breve tempo la piccola banda di malviventi fu sgominata, lasciando campo libero a Lupin ed agli altri. 
Il ladro gentiluomo ed il pistolero si scambiarono un cenno d’intesa. Era da tanto tempo che avevano progettato quella che, secondo Goemon, era una vigliaccata bella e buona, ma fino ad allora non avevano mai avuto l’occasione per portarla a termine. Entrambi gli uomini avevano convenuto che, per il bene di Michelle e per quello di loro stessi, sarebbe stato meglio abbandonare la ragazza prima che si facesse male sul serio. E chi meglio di Zenigata poteva prendersi cura di lei? O, almeno, questo era quello che i due speravano.
Prima che Michelle potesse alzarsi per seguire il resto della banda, con uno scatto felino Lupin balzò verso di lei e la ammanettò alla testiera del letto. Per la sorpresa alla ragazza scivolò la pistola di mano. Alzò il viso, incredula, fissando l’altro negli occhi. Arsenio si meravigliò di sé stesso quando non riuscì a sostenere il suo sguardo per più di pochi secondi.
«Che storia è questa?!» esclamò lei, strattonando inutilmente il braccio sinistro.
«È meglio così, credimi» le rispose il ladro, allontanandosi in fretta.
Michelle volse allora il viso verso Jigen. Il pistolero stava già varcando la piccola soglia, il capo chino.
«Daisuke! Perché?!» esclamò ancora, ma la sua domanda non ebbe risposta.
Risoluta a non farsi lasciare indietro la ragazza si alzò in piedi e prese a trascinare, con grande sforzo, il pesante letto di ferro, escoriandosi la pelle del polso. 
«Non potete lasciarmi qui!» gridò ancora, la voce incrinata, rivolta alla schiena di Goemon che, silenzioso e rapido come un gatto, stava scendendo le scale verso il piano terra. «Jigen! Jigen sei un bastardo!» esplose infine, quando capì che nessuno dei tre sarebbe tornato indietro, che non si trattava di uno stupido scherzo di quel mattacchione di Arsenio Lupin, che la stavano veramente abbandonando. 
Il pistolero si volse per un’ultima volta verso di lei, ma non ebbe il coraggio di dire niente. Con la mano calò ancora di più il cappello sugli occhi e spari nell’oscurità, i singhiozzi di Michelle come unico sottofondo alla loro fuga, alla sua fuga. 
«Ti odio, Jigen!» urlò per l’ultima volta Michelle, abbandonandosi infine ad un pianto dirotto.

Una volta sgattaiolati al sicuro sulla loro Fiat 500, posteggiata sul retro del piccolo edificio, Jigen si lasciò sfuggire un sospiro tremolante.
«Lo sai che abbiamo fatto la cosa giusta» tentò di consolarlo Lupin, posandogli una mano sulla spalla.
«Sì...» rispose l’altro in un sussurro. Si passò una mano sugli occhi poi si abbandonò sul sedile del passeggero, coprendosi il volto col cappello.
Goemon, a gambe incrociate sul piccolo divanetto posteriore, bofonchiò qualcosa riguardo all’onore dei Samurai, ma i due uomini seduti davanti parvero non prestargli attenzione. Arsenio avviò il motore truccato della piccola macchina e la banda di ladri più famosa del mondo sparì nella notte.

Quando Zenigata fece irruzione nel piccolo appartamento, convinto di riuscire a cogliere finalmente in flagrante il suo acerrimo nemico, ebbe una spiacevole sorpresa: si trovò davanti solo una ragazza urlante e piangente ammanettata al letto, che non parve nemmeno accorgersi dell’ingresso dell’ispettore né di tutti gli altri agenti di polizia.
Guardandosi attorno, il poliziotto notò subito, infilato in una crepa del muro, un piccolo biglietto giallo con una faccina sorridente e linguacciuta: quel dannato Lupin voleva beffarsi di lui, ancora una volta! Lo strappò dalla crepa con violenza e con altrettanta foga lo aprì, già pronto ad inveire ulteriormente contro il ladro, ma le poche parole che lesse lo lasciarono inchiodato sul posto: “Abbi cura di lei, Zazà”.
Stava ancora fissando, attonito, il biglietto, quando uno dei suoi uomini gli si accostò.
«Ispettore, abbiamo trovato questa» riferì, porgendogli un piccolo revolver Smith & Wesson con il tamburo aperto.
Zenigata lo prese, facendo cadere i proiettili nel palmo della mano, poi lo ripose in una delle enormi tasche del suo impermeabile. Infine si avvicinò alla ragazza, fissandola dall’alto in basso.
Non era la prima volta che la vedeva. Sapeva che faceva parte della banda di Lupin, anche se non ne aveva mai capito il ruolo. E, soprattutto, in quel momento non riusciva proprio a comprendere per quale motivo l’avessero così miseramente abbandonata a sé stessa, chiedendogli per giunta di averne cura!
Michelle alzò finalmente lo sguardo, fissando in faccia l’ispettore. Con un ultimo slancio d’orgoglio si impettì e sibilò «Beh? Che cosa aspetta ad arrestarmi?» Poi, come ricordandosi di essere già ammanettata, emise un altro sospiro accompagnato da un singhiozzo.
Con un cenno del capo, Zenigata diede ordine ad uno degli agenti di portarla via: forse non aveva preso Lupin, ma di sicuro avrebbe potuto fare un sacco di domande a quella ragazza. 
Mentre veniva trascinata verso le volanti lei alzò la testa e, rivolta più a sé stessa che non agli altri presenti, sibilò con voce chiara «Questa me la pagherai cara, Jigen Daisuke!»


Note dell'autrice:
Buongiorno a tutti! Questa è la prima storia che pubblico in questo fandom, e spero che possa piacervi. Fatemi sapere cosa ne pensate. 
Evelyn

 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno - Dieci anni dopo ***


Capitolo uno – Dieci anni dopo



Tre colpi secchi, battuti con decisione sulla porta, fecero alzare gli occhi all’ispettore Zenigata che abbandonò temporaneamente la lettura del rapporto che aveva davanti. L’uomo sapeva già chi stava per entrare, aveva riconosciuto l’inconfondibile modo di bussare.
«Avanti!» disse con voce chiara.
La porta si aprì ed una giovane donna in uniforme entrò, mettendosi rigida sull’attenti. Il poliziotto trattenne a stento un sorriso.
«Riposo, Michelle. Sai che non sono necessarie tutte queste formalità, nei miei confronti.»
La donna rilassò leggermente le spalle prima di parlare. «Sono pronta, ispettore!»
«Ne sei proprio sicura?» chiese l’altro, col tono di voce più dolce del solito.
«Certo che lo sono. Sono dieci anni che mi preparo per avere l’opportunità di seguirla ed aiutarla ad arrestare Lupin e la sua banda. Non posso più attendere oltre.»
«Lo so…» ammise a malincuore Zenigata, chinando lo sguardo. All’improvviso, senza volerlo, si ritrovò perso nei ricordi. I suoi pensieri corsero a quando Michelle era stata catapultata nella sua vita, proprio da Lupin & Company.
 
Passò tre giorni con lei, chiuso in una sala per interrogatori del commissariato di polizia più vicino. All’inizio tutto ciò che ottenne furono insulti, rivolti principalmente ai suoi ex compagni; poi, con un tatto che non credeva nemmeno di possedere, riuscì a farla aprire. Tra lacrime e singhiozzi, Michelle Duval gli raccontò la sua vita, il modo in cui aveva conosciuto Lupin e come si era unita alla sua banda. Mentre lei parlava anche lui stesso aveva ricordato quell’episodio, perché anch’egli era stato presente quando era successo.
La storia fu lunga e dettagliata: quattro anni in compagnia della banda di ladri più famosa del mondo non sono certo pochi e la ragazza non trascurò nessun particolare, spinta dalla rabbia cocente che ancora le fremeva in corpo.
Poi, subito dopo aver pianto tutte le sue lacrime e sfogato la sua frustrazione, Michelle lo sorprese.
«Deve proprio arrestarmi, vero ispettore?» chiese, tirando su rumorosamente con il naso. Quando lui esitò, aggiunse. «Mi faccia diventare una poliziotta, la prego!»
Zenigata la guardò sgranando gli occhi, temendo di non aver capito bene. «Che cosa hai detto?!»
«La scongiuro, mi dia la possibilità di vendicarmi!»
L’ispettore si grattò il mento, riflettendo intensamente. Doveva accontentarla, oppure avrebbe fatto meglio a spedirla dritta dritta in gattabuia? Ma quando alzò nuovamente lo sguardo per fissarla, nei suoi occhi vide una scintilla di determinazione che lo spinse ad esaudire la sua richiesta.
La prese sotto la sua protezione, portandola con sé alla sede dell’ICPO e facendola studiare ed allenare con i migliori maestri a disposizione. E Michelle si rivelò un’ottima studentessa. Superò brillantemente tutti i corsi di studi, e si rivelò la tiratrice migliore di tutta l’accademia. Di quell’abilità, Zenigata non si stupì affatto: era stato proprio Jigen a donargli la sua prima pistola e ad insegnarle ad usarla.
Durante gli anni trascorsi l’ispettore si era affezionato molto alla ragazza, al punto da tenerla il più lontano possibile dal centro dell’azione, benché lei avesse vivamente protestato più volte. Erano cinque anni, ormai, che Michelle gli chiedeva insistentemente di poter partecipare alla “caccia al ladro”, ed ora era arrivato al punto da non poter fare più niente per rimandare ulteriormente il suo ingresso in scena. Lui la considerava la sua pupilla, la sua degna discendente e lei lo sapeva.
Un po’ come gli era già successo con Oscar diversi anni prima, si era trovato a riflettere. E, proprio come Oscar, anche Michelle aveva la sua fissazione: lui era ossessionato da Fujiko, lei da Jigen…

 
«Ispettore?! Mi ascolta?»
La voce alterata di Michelle strappò Zenigata dalle sue riflessioni. Si passò una mano sugli occhi, come per ritrovare la concentrazione, poi alzò di nuovo lo sguardo su di lei.  «Scusami, ero distratto… Cosa mi stavi dicendo?»
«Le ho chiesto dove colpirà Lupin, questa volta.»
L’ispettore raccolse un biglietto da visita dalla scrivania e lo porse alla ragazza.
«Ecco, questo è il biglietto che ha ricevuto il direttore del Museo Nazionale di Rio de Janeiro» spiegò, mentre Michelle lo esaminava attentamente, gli occhi ridotti a due fessure. «Stando a quello che scrive il nostro amico comune, lui e la sua banda hanno intenzione di rubare il diamante Blue Hope che sarà esposto la prossima settimana, in occasione di uno scambio interculturale tra lo Smithsonian, dove normalmente è custodito, ed il Museu Nacional.» L’ispettore si interruppe per riprendere il biglietto, per poi farlo scivolare nella tasca della giacca. «Com’è logico, il direttore ha chiesto immediatamente il nostro intervento. Partiremo per Rio stasera stessa. Laggiù potremo contare sul supporto della polizia locale.»
Michelle annuì brevemente, poi fece l’atto di voltarsi e lasciare la stanza, ma Zenigata la bloccò.
«Michelle, aspetta» disse, aprendo un cassetto chiuso a chiave della sua scrivania. 
Lo sguardo interrogativo della giovane donna divenne quasi spaventato quando si accorse di ciò che il suo superiore stringeva tra le mani. Non la vedeva da dieci anni, ma non avrebbe mai potuto dimenticarsene. Era la sua vecchia pistola. 
«Credo sia giunto il momento di restituirti questa» riprese l’uomo. «Se vuoi veramente vendicarti di Jigen, quale arma migliore di questa per farlo?»
Michelle allungò una mano che tremava vistosamente. Riuscì a chiudere le dita sul calcio di legno lucido solo grazie ad un enorme sforzo di volontà. «Credevo che fosse andata perduta…» biascicò, fissandola come se stesse vedendo un fantasma.
«L’ho conservata io, per tutti questi anni. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere riaverla.»
Cercando di darsi un contegno la ragazza annuì, facendola scivolare nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena.
«Dentro ci sono ancora i proiettili originali» aggiunse Zenigata, alzandosi dalla poltroncina e dandole un’ulteriore involontaria scossa. «Non temere, li ho conservati con cura. Non faranno cilecca al momento di sparare. Ci vediamo in aeroporto tra due ore» concluse infine, dandole un’amichevole pacca sulla spalla mentre le passava accanto e lasciava la stanza. 
Sconvolta, Michelle si lasciò scivolare sulla sedia di fronte alla scrivania, prendendo nuovamente in mano la pistola. Se la posò in grembo e si mise a carezzarla lentamente, i polpastrelli che – nonostante i lunghi anni ormai trascorsi – riconoscevano ogni singola asperità della canna. Chiuse gli occhi e, per un attimo, tutto divenne buio.

Le braccia di Jigen la cinsero da dietro mentre, con le mani, le correggeva la posizione dei gomiti. Michelle sentì le narici riempirsi dell’odore del pistolero: un misto di tabacco, polvere da sparo e shampoo alla camomilla.
«Tieni le braccia più morbide» le disse l’uomo all’orecchio, solleticandole il lobo con la lunga barba appuntita. 
La ragazza si sentì quasi svenire e dovette mordersi l’interno delle guance per resistere alla tentazione di voltarsi e saltargli addosso. Probabilmente lui si sarebbe schernito e se ne sarebbe andato, come già era successo altre volte, ma in quell’occasione Michelle non poteva permetterselo: finalmente il pistolero aveva acconsentito a darle lezioni di tiro, anche se forse solo perché esasperato dalle sue continue richieste.
«Raddrizza la schiena» continuò ad istruirla Jigen, mettendole una mano al centro del dorso e premendo contro la spina dorsale per spingerla nella posizione corretta. «Divarica le gambe» aggiunse, dandole dei colpetti alle caviglie con la punta della scarpa. Quando il pistolero fu finalmente soddisfatto si allontanò di qualche passo, poi estrasse un piccolo revolver dalla tasca della giacca e lo mise in mano a Michelle. 
La ragazza lo guardò con tanto d’occhi.
«Perché mi guardi così?» chiese Jigen, con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Mi… mi stai regalando una pistola?! Credevo che, all’inizio, mi avresti fatto usare la tua…»
La frase di Michelle fu troncata dalla risata roca dell’uomo. «Io non cedo mai la mia pistola» le disse subito dopo aver smesso di sghignazzare. «Perciò ho deciso di prendertene un’altra. È una Smith & Wesson .38 special. Abbine cura.»
Dopodiché le indicò la fila di bottiglie di birra già debitamente sistemate a quindici metri di distanza. Michelle si mise di nuovo in posizione e sparò, mancando clamorosamente il bersaglio. Sparò gli altri quattro colpi in rapida successione, ma sempre senza alcun successo.
«Devi abbassare le spalle» la riprese Jigen, appoggiato al muro con l’inseparabile cicca spiegazzata tra le labbra. «Ricarica e riprova.»
La stessa scena si ripeté per varie volte finché Michelle non sbottò, frustrata. «Non ce la farò mai! Sono una schiappa!»
«Non demoralizzarti. Nessuno nasce maestro» le rispose il pistolero, sputando via il mozzicone e mettendosi di nuovo dietro di lei. Fece aderire il petto contro la schiena di Michelle, strappandole un singulto smorzato. «Prendi la mira» le disse, facendole di nuovo scivolare le mani lungo le braccia, «Allinea il mirino con la tacca di mira e prendi un bel respiro… ecco, così…»
La ragazza si lasciò sfuggire un altro gemito mentre il corpo di Jigen continuava a sfregarsi contro il suo. “Se non la pianta, stavolta lo violento sul serio!” pensò convulsamente. 
La barba dell’uomo solleticò Michelle di nuovo, questa volta sulla guancia, mentre le sue dita si stringevano sui polsi sottili della ragazza. «Ed ora spara» le sussurrò all’orecchio.
Mordendosi la lingua Michelle premette il grilletto, senza quasi guardare. La prima bottiglia della fila si frantumò, seguita dalle altre in successione.
«Hai visto? È solo questione di concentrazione» concluse il pistolero, allontanandosi di nuovo.
Lei si voltò a guardarlo in faccia, ansimante. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi ma, come sempre, quelli erano nascosti dalla tesa del cappello. Come in risposta al suo desiderio inespresso, Jigen lo sollevò col pollice, fissandola intensamente. La ragazza si sentì letteralmente sciogliere da quello sguardo e, ormai incapace di controllare i suoi istinti, si gettò con impeto tra le sue braccia.
Colto di sorpresa, l’uomo fu costretto a fare un passo indietro per non perdere l’equilibrio. Michelle si strinse forte a lui, poggiandogli la testa contro il petto. Il suo profumo delicato salì a solleticare le narici del pistolero, facendogli quasi girare la testa. Involontariamente si ritrovò a carezzarle dolcemente la schiena, mormorando il suo nome.
Lei alzò lo sguardo su di lui. «Mi hai regalato una pistola» mormorò, fissandolo ancora negli occhi, quei profondi pozzi neri che riusciva a vedere solo di rado. «Allora provi qualcosa per me?» aggiunse, speranzosa.
Jigen si mosse a disagio. «Michelle, ne abbiamo già parlato…» ma non fece in tempo a concludere la frase che le labbra della ragazza si posarono dolcemente sulle sue, leggere come una farfalla. Il corpo del pistolero fu percorso da un lungo brivido di piacere, ma con grande sforzo di volontà si costrinse a prenderla per le spalle e ad allontanarla da sé. «Michelle, lo sai come la penso. Punto primo: sei ancora minorenne. Punto secondo: sono tanto più vecchio di te che potrei essere tuo padre.»
La ragazza incrociò le braccia, offesa. «Parli come se fossi un vecchio bacucco! In fondo hai solo quindici anni più di me. Io ne ho diciassette e tu trentadue. Non mi sembra poi una cosa così grave!» Jigen fece per replicare ma lei continuò. «E poi smettila di dire che sono ancora minorenne! Fra tre mesi e mezzo compirò diciotto anni, e allora? Cambierà qualcosa, forse?»
«Ne riparleremo più avanti» borbottò lui cercando di cavarsi di impiccio, voltandole la schiena ed allontanandosi.
«Io ti amo, Daisuke» lo incalzò Michelle, rivolta alla sua nuca. «Non dimenticarlo.»
Attese che l’uomo fosse rientrato in casa, poi riprese ad esercitarsi con la pistola, la
sua pistola, il dono di Jigen. Tenendola stretta tra le mani, giurò a sé stessa che non l’avrebbe mai abbandonata…

Michelle riaprì gli occhi con un singhiozzo. Non si era nemmeno accorta di aver cominciato a piangere. La vista di quella pistola le aveva scatenato un tumulto di emozioni quasi incontrollabile. Ora più che mai, la voglia di vendicarsi dell’uomo che l’aveva tradita si fece strada nel suo animo, soffocandola. Si alzò dalla sedia con gambe tremanti e, dopo aver rimesso la pistola nella cintura dei pantaloni, lasciò l’ufficio dell’ispettore.
Aveva poco tempo a disposizione e doveva ancora preparare le valige. Se tutto fosse andato come previsto, nel giro di pochi giorni avrebbe finalmente portato a termine il suo scopo, ciò che aveva guidato la sua vita da dieci anni a quella parte. 
Quel pensiero le fece riprendere il controllo di sé. Scese nel garage del distretto e sfrecciò via sulla sua Ford Capri color arancione dinamite.



Spazio autrice:
Se siete arrivati a leggere fino alla fine (cosa che spero vivamente) vi sarete accorti che questa storia si basa principalmente sui ricordi, di Michelle ma anche di altri personaggi, che vengono presentati sotto forma di flash back. I ricordi non seguiranno un ordine cronologico, e spero di non aver creato confusione.
Evelyn

 

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Capitolo 3
*** Capitolo due - In volo verso Rio ***


Capitolo due – In volo verso Rio


Due ore dopo, la Ford Capri arancione entrò rombando nel parcheggio sotterraneo dell’aeroporto di Tokyo. Michelle ne scese portando con sé solo un piccolo bagaglio, contenente la sua uniforme e pochi altri oggetti personali, tra cui la vecchia Smith & Wesson. Con la borsa appoggiata sulla spalla percorse lentamente la strada che la separava dall’hangar privato dell’Interpol, dove l’attendeva già l’ispettore Zenigata.
Quando il poliziotto la vide arrivare fece un cenno al pilota del piccolo jet, per poi andarle incontro a grandi falcate.
«Bene arrivata» le disse quando le fu accanto, prendendole galantemente il piccolo borsone. «Sei pronta?»
La ragazza annuì, secca, allungando il passo per mantenersi al pari con l’uomo.
Una volta a bordo dell’aereo i due si accomodarono su poltroncine attigue. La hostess offrì loro da bere. Zenigata chiese un whisky liscio, mentre Michelle rifiutò di bere alcolici e si accontentò di un bicchiere d’acqua. Voleva rimanere lucida, per restare concentrata su ciò che progettava di fare da lunghissimo tempo, ormai.
L’odore del liquido ambrato che l’ispettore faceva ondeggiare nel bicchiere le ricordava fin troppo il suo passato. Lo whisky era il liquore preferito di Jigen ed il suo aroma pungente le fece tornare alla mente tutte le volte – troppe forse – in cui aveva visto il pistolero con la bottiglia in mano.
Scosse la testa per sgomberarla, poi si rivolse al suo superiore. «Come pensa di agire, ispettore?»
Zenigata sorbì un piccolo sorso prima di risponderle.
«Ci apposteremo all’interno del museo, nascosti in una stanza segreta comunicante con la sala in cui sarà esposto il gioiello» spiegò. «Le telecamere di sorveglianza poste lungo tutto il perimetro e nelle varie parti del museo ci consentiranno di controllare la situazione. Le forze di polizia locali saranno disposte sia all’esterno che all’interno. Non appena si farà vivo, gli salteremo addosso come segugi. Non temere, non ci sfuggirà questa volta!» concluse, dandole un buffetto di incoraggiamento sulla mano.
Michelle annuì di nuovo, ma dentro di sé non era affatto d’accordo. Non voleva catturare Lupin e la sua banda, oh no! Aveva intenzione di vendicarsi di Jigen, certo, ma se il pistolero fosse stato rinchiuso in una cella non ci sarebbe stato nessun divertimento. Aveva progettato le cose in grande e, per realizzarle, aveva bisogno che il pistolero fosse libero e non detenuto in un carcere di massima sicurezza.
Mentre il jet rollava sulla pista, la giovane donna si allacciò la cintura di sicurezza e si mise comoda. Il volo da Tokyo a Rio de Janeiro sarebbe durato almeno venti ore, ed avrebbero dovuto fare scalo in Europa. Aveva quindi tutto il tempo per mettere a punto tutti i dettagli del suo piano. 
Non appena l’aereo si alzò in volo oltrepassando la cortina di nuvole che copriva il cielo del Giappone, la ragazza trovò invece molto difficile concentrarsi. L’ispettore Zenigata aveva abbassato lo schienale, si era calato il cappello sugli occhi e si era addormentato quasi all’istante, iniziando a russare pesantemente. Michelle gli lanciò un’occhiata disgustata, poi tornò a fissare fuori del finestrino le nuvole che sfrecciavano rapide sotto di loro. Senza neanche rendersene conto, i suoi pensieri corsero al suo primo incontro con Lupin e la sua banda, quando era cominciato tutto.

Michelle Duval aveva sedici anni. All’età di tre era rimasta orfana e, poiché non aveva nessun parente stretto che potesse prendersi cura di lei, i servizi sociali l’avevano affidata ad un orfanotrofio, gestito da un uomo tutt’altro che adatto a quel compito. Diabolico e perverso, il direttore amava distribuire punizioni incredibilmente violente ai piccoli ospiti che non si comportavano correttamente, arrivando persino ad abusare delle ragazzine più grandi.
La prima volta in cui Michelle era stata vittima della sua violenza aveva avuto quattordici anni e, da allora, ciclicamente aveva dovuto subire l’oltraggio e la vergogna di un rapporto sessuale non voluto, insieme ad altre ragazzine come lei.
Dopo due anni di stupri e sberle, ormai sull’orlo della disperazione, un giorno Michelle trovò miracolosamente aperta la porta delle cucine. Evidentemente qualche inserviente sbadato aveva dimenticato di richiuderla accuratamente a chiave dopo essere passato. Per un istante rimase come paralizzata, convinta di stare sognando, ma quando la maniglia si abbassò e l’uscio docilmente si aprì una molla scattò dentro di lei, spingendola avanti. Da lì riuscì a sgattaiolare abbastanza agilmente fino al muro di cinta del grande giardino, che scavalcò non senza difficoltà. Nel cadere dall’altra parte si ferì ad un ginocchio, ma strinse i denti e resisté al dolore pur di allontanarsi il più possibile da quell’inferno.
Camminò per due ore senza neanche badare a dove stesse andando quando, all’improvviso, si rese conto di trovarsi di fronte all’ingresso del museo della città. Stava suonando l’allarme. Michelle alzò lo sguardo, giusto in tempo per veder uscire dal portone principale due uomini che correvano a rotta di collo.
Il primo, barba e capelli lunghi, in completo nero e cappello in tinta tenuto premuto sulla testa con una mano, per non perderlo durante la fuga, le sfrecciò accanto mancandola di pochissimo. Il secondo, in giacca rossa, alto e magro, dinoccolato al punto da assomigliare ad una scimmia nei movimenti, correva con la testa voltata all’indietro, senza guardare dove andava.
«Ci vediamo, Zazà!» gridò in tono ironico, prima di andare a sbattere contro la ragazza che era rimasta impietrita a guardare la scena, con occhi sgranati.
Per l’impatto entrambi rotolarono a terra. Contrariamente a quanto Michelle si sarebbe aspettata, quello le si rivolse gentilmente, con un sorriso enorme stampato sul volto.
«Scusami chérie» le disse, alzandosi di scatto e porgendole la mano per aiutarla, «ma adesso non ho proprio tempo di fare la tua conoscenza…»
Le sue parole furono troncate da un vocione rimbombante che gridava: «Fermati Lupin!!!»
Un altro uomo in impermeabile marrone era appena uscito dal museo, facendo roteare un paio di manette, legate ad una fune, sopra la testa. Dietro di lui veniva un manipolo di poliziotti urlanti ed agitanti manganelli.
Lupin prese la mano di Michelle, gliela baciò galantemente e poi le strizzò l’occhio, prima di riprendere a correre.
«Addio mia cara, spero di rivederti un giorno!» le urlò mentre si allontanava, diretto ad una Mercedes anni ’30 decappottabile, color giallo limone, dove il suo socio già lo attendeva seduto dal lato del passeggero.
Ancora confusa ed intontita, Michelle lo fissò correre via per un istante, finché non fu ridestata dal rombo di passi alle sue spalle. L’ispettore di polizia ed il suo seguito di agenti avevano raggiunto la scalinata d’accesso e la stavano scendendo come una valanga umana. La ragazza, terrorizzata, si ritrovò a fissare la faccia deformata dalla rabbia dell’uomo in impermeabile e, temendo che se l’avessero acciuffata l’avrebbero riportata all’orfanotrofio, si mise a correre anche lei verso la macchina gialla, su cui l’uomo in giacca rossa era appena salito.
Con uno scatto felino, benché il ginocchio le facesse un male cane, Michelle riuscì a saltare a bordo dell’abitacolo un attimo prima che l’auto si staccasse dal marciapiede. Atterrò direttamente in braccio all’uomo in completo nero, facendogli saltare il cappello dalla testa. Quello fu subito catturato dal vento e volò via, andando a finire sull’asfalto, proprio davanti ai piedi dell’ispettore che continuava ad urlare al loro indirizzo, schiumante di rabbia.
«Ehi! Ma che modi!» esclamò l’uomo in nero, trattenendosi a stento dal buttare la ragazza giù dall’auto in corsa. «Mi hai fatto perdere il cappello! Me ne devi uno nuovo!»
«Ehi, chérie, che bella sorpresa!» proruppe il suo socio, voltandosi a guardarla con lo stesso sorrisone di poco prima. «Speravo proprio di rivederti, anche se non così presto e non in queste circostanze!» 
Con il pollice indicò dietro di sé: lo strepitante ispettore ed il manipolo di agenti stavano salendo sulle volanti, pronti all’inseguimento.
Michelle, ancora spaventata, si aggrappò con forza all’uomo che la teneva in grembo e che non aveva smesso di dimenarsi sul sedile.
«Ma si può sapere chi diavolo siete?» riuscì a malapena a balbettare, fissando con orrore le auto che correvano dietro di loro, mentre il rombo della Mercedes si faceva sempre più alto man mano che aumentavano i giri del motore.
«Io sono Arsenio Lupin III, e lui è il mio migliore amico, Daisuke Jigen» le rispose l’uomo in giacca rossa, strizzandole l’occhio. «Siamo due ladri professionisti, ed abbiamo appena rubato… questo!» 
E, con gesto teatrale, tirò fuori dalla tasca un diamante grande come una pallina da ping pong. «E tu chi sei, invece?» le domandò, subito dopo aver riposto la grossa pietra.
«Io… io mi chiamo Michelle, e sono appena scappata dall’orfanotrofio…»
«Anche tu una fuggiasca, eh? Interessante…» commentò Lupin, guardandola maliziosamente. «Beh, credo che non ci sia niente di male nel darti un passaggio, tu che ne dici, Jigen?»
«Fa come ti pare» rispose l’altro stringendosi nelle spalle, senza smettere però di lamentarsi per il cappello perduto.
«Benissimo! Allora, tieniti forte Michelle. Adesso faremo sul serio!»
Con quelle parole, il ladro premette a tavoletta sull’acceleratore, facendo scattare in avanti la potente auto d’epoca, che schizzò via sull’asfalto lasciando solo le impronte degli pneumatici dietro di sé.
Senza riuscire a trattenere un urlo la ragazza si aggrappò ancora più forte alle spalle di Jigen, affondandogli la testa nell’incavo del collo per non essere frastornata dal vento, provocato dalla precipitosa fuga. L’odore penetrante dell’uomo, uno strano mix di tabacco e polvere da sparo attenuato lievemente da un aroma più delicato, le penetrò nelle narici, quasi stordendola, e la sua barba ispida le solleticò la fronte. Oramai rassegnato, l’uomo le strinse delicatamente le braccia attorno al corpo, poi, nel tentativo di mettersi più comodo, issò le gambe appoggiando i piedi sul cruscotto. In questo modo Michelle scivolò ancora di più contro di lui. Con l’orecchio appoggiato contro il suo petto, la ragazza riuscì a sentire persino il battito del suo cuore, forte e regolare. Quel rumore ritmico e rassicurante ebbe il potere di calmarla e, senza che nemmeno se ne accorgesse, scivolò in un sonno senza sogni…


«Michelle? Vuoi qualcosa da mangiare?»
La mano di Zenigata la scosse leggermente, facendola sobbalzare. Immersa com’era nei suoi ricordi non si era resa conto di essersi appisolata. Si raddrizzò sulla poltrona, volgendo lo sguardo verso la hostess che le tendeva un vassoio carico di cibo. La ragazza lo accettò e si mise a mangiare, fingendo di non notare l’ispettore che si ingozzava come se non mangiasse da un mese.
Una volta finito il pasto controllò l’orologio: stavano volando da sole tre ore. Si stropicciò gli occhi per poi rimettersi a fissare fuori del finestrino. Stranamente, aveva voglia di riprendere il filo interrotto dei suoi pensieri, voleva tornare indietro nel tempo e rivivere quegli avvenimenti che le avevano segnato per sempre l’esistenza. Chiuse gli occhi, fingendo di dormire, e sprofondò di nuovo del passato.

Quando Michelle riaprì gli occhi, la Mercedes gialla stava ancora correndo lungo una strada costiera, ma l’andatura era decisamente calata. Evidentemente l’inseguimento era stato interrotto.
«Ben svegliata, chérie! Non temere, siamo quasi arrivati.»
La ragazza si raddrizzò, schiacciando involontariamente l’inguine di Jigen che lanciò un’imprecazione. Rossa per l’imbarazzo Michelle si scusò, guardando per la prima volta dritto in faccia l’uomo che la sorreggeva. Aveva lunghi capelli neri, folti e setosi, che gli spiovevano sul collo. I suoi occhi, altrettanto neri, parevano due pozzi profondi in cui era impossibile non perdersi. Il naso, lungo e sottile, sormontava una bocca dalle labbra altrettanto sottili e dal taglio deciso, al cui angolo stava una cicca spiegazzata. Le sue guance ed il suo mento erano coperti da una fitta barba nera, terminante in un pizzetto dal taglio caprino. Non aveva, invece, i baffi. Michelle giudicò che potesse avere circa trent’anni ed, in quel momento, pensò che fosse l’uomo più bello che aveva mai visto. Si sentì arrossire ancora di più e, per vincere l’imbarazzo, rivolse la sua attenzione all’altro uomo che continuava a guidare tenendo lo sguardo fisso sulla strada.
Lupin era più magro del suo socio. Con capelli corti e lunghe basette, il naso piccolo, la bocca larga ed il viso allungato, aveva un aspetto simpatico ed aperto, al contrario di Jigen che pareva invece rude e taciturno. Non appena si accorse che la ragazza lo stava osservando si voltò nella sua direzione, sorridendole e strizzandole l’occhio. 
Michelle rispose involontariamente al sorriso contagioso dell’uomo che, con un cenno della mano, le indicò una piccola palazzina cadente in fondo alla strada che stavano percorrendo.
«Eccoci qua!» esclamò allegramente, spegnendo il motore e saltando giù dall’auto.
«Questa è casa vostra?» chiese curiosa la ragazza, guardando l’edificio dal basso verso l’alto.
«Oh no, chérie, noi non abbiamo una casa. Questo è il nostro nascondiglio segreto» le rivelò il ladro, abbassando la voce in tono cospiratorio.
Con la bocca atteggiata ad una “O” di stupore Michelle rimase a guardare imbambolata la struttura cadente, fino a quando Jigen non la pungolò con un dito nella schiena.
«Ehi! Quando hai intenzione di scendere?!»
La ragazza si profuse in ulteriori scuse, affrettandosi ad aprire lo sportello. L’uomo in nero scese a sua volta e si raddrizzò, facendo schioccare le ossa della schiena, per poi avviarsi verso la porta d’ingresso. Michelle si guardò intorno per un po’, stupita e spaesata allo stesso tempo. Lupin le si avvicinò e le tese la mano.
«Bene, tesoro, le nostre strade si dividono qui. Abbi cura di te…»
«Cosa?!» esclamò la ragazza, facendo sobbalzare il ladro, «avete intenzione di abbandonarmi qui? Io non conosco nessuno!»
«Suppongo che tu non conosca nessuno in nessun’altra parte del mondo, se stavi in un orfanotrofio…»
«Conosco voi!» lo interruppe di nuovo lei. «Ti prego, non lasciatemi qui da sola!» lo implorò, giungendo le mani.
Lupin sospirò ed alzò gli occhi al cielo. «Va bene… Potrai rimanere un po’ con noi…»
«Oh grazie, grazie!» ed, in un impeto di euforia, Michelle gli gettò le braccia al collo, mandandolo per la seconda volta quel giorno a gambe all’aria. Per nulla dispiaciuto dell’incidente, Lupin si passò una mano sulla testa, ridendo, per poi accompagnare la ragazza all’interno.
«Siamo arrivati!» esclamò, facendo il suo ingresso nel piccolo salotto dove, oltre a Jigen, si trovavano un giovane samurai, seduto in meditazione sul pavimento a gambe incrociate, la lunga katana appoggiata sulle ginocchia, ed una giovane donna dai lunghi capelli castani ed il seno procace, messo in evidenza da una camicetta che a Michelle parve di due taglie più piccola del dovuto.
«Allora Lupin, hai preso il diamante da un milione di dollarucci!» lo apostrofò la donna in questione, per poi subito dopo aggiungere: «E questa chi e?!»
«Lei è Michelle» le rispose Lupin, mettendo una mano sulla spalla della ragazza e spingendola avanti. «È scappata dal suo orfanotrofio ed, essendo in fuga come noi, le abbiamo dato un passaggio» spiegò. «Michelle, lei è Fujiko» aggiunse subito dopo, presentandola, «e quel bel giovanotto tenebroso laggiù si chiama Goemon e, come puoi ben vedere, è un samurai.»
«Lieto di conoscerti» disse Goemon, aprendo per un istante gli occhi per guardare la nuova arrivata. Dal canto suo, Fujiko si era già dimenticata di lei e stava di nuovo pressando Lupin per avere il diamante. Arsenio la accontentò, tirandolo fuori dalla tasca e porgendoglielo. La donna lo baciò e poi lo fece scivolare nel solco tra i seni, dove il ladro lo osservò sparire con sguardo lascivo. 
Michelle, al vedere quella scena, storse silenziosamente il naso e fece una smorfia di disgusto. Con sua sorpresa, vide Jigen fare altrettanto prima di mettersi in testa un nuovo cappello ed accendersi un’altra sigaretta più storta della precedente. Dopodiché l’uomo in nero si abbandonò sul divano, incrociò le lunghe gambe magre e si versò una dose abbondante di whisky.
«Allora, qual è il prossimo colpo che hai in mente, Lupin?» chiese Fujiko, spingendolo via con malagrazia visto che il ladro in giacca rossa le stava ancora fissando il décolleté.
«Ho in mente un piano geniale!» le rispose, riprendendosi all’istante e tirando fuori dalla tasca un ritaglio di giornale, che appoggiò sul tavolo. La foto mostrava il primo piano di un famoso casinò, che Lupin aveva intenzione di svaligiare.
I tre soci si misero subito a discutere fitto fitto sul da farsi, soltanto Goemon rimase fermo immobile nel suo angolo, gli occhi chiusi ed apparentemente immerso in profonda meditazione. Michelle si sentì messa da parte ma capiva anche che i suoi salvatori avevano una vita – anche se criminale – da portare avanti. Con un sospiro si appoggiò con i gomiti al davanzale della finestra, fissando le luci della costa ed isolandosi dal resto del mondo, come spesso aveva fatto anche all’orfanotrofio, in cerca di quella libertà che non aveva mai avuto. Fu riscossa dal suo isolamento da Goemon. Il samurai si era alzato e le si era avvicinato, posandole una mano sulla spalla. Neanche lui pareva particolarmente interessato alla discussione accesa che si stava svolgendo alle loro spalle.
«Posso chiederti perché hai lasciato il tuo orfanotrofio?» le chiese, fissandola con sincero interesse.
Michelle chinò la testa, incerta se rispondere o no. Quando alzò di nuovo lo sguardo fu colpita dal modo in cui il giovane uomo la stava fissando, così decise di fidarsi e raccontò brevemente la sua storia, fatta di soprusi e violenze. Mano a mano che il racconto andava avanti il volto del samurai si faceva sempre più cupo. Quando infine la ragazza giunse alla sua conclusione, con un gesto rapido e preciso Goemon estrasse la sua spada dal fodero di legno.
«La mia zantetsu-ken sarebbe onorata di bagnarsi del sangue di quel bastardo» sibilò, prima di riporla nuovamente e tornare a sedersi a gambe incrociate sul pavimento.
Stupita e sconcertata, Michelle lo osservò rimettersi seduto, per poi voltarsi in direzione del tavolo dove Lupin, Jigen e Fujiko continuavano ad elaborare strategie su strategie.
«Bene, allora all’alba ci muoveremo!» esclamò il ladro in giacca rossa, ripiegando il ritaglio di giornale e riponendolo in tasca. «Adesso è ora di dormire… Buonanotte!» e salutando allegramente gli altri si incamminò verso una stanza attigua. 
Temendo di venire abbandonata e di rimanere di nuovo sola, Michelle strinse le mani all’altezza del petto ed esclamò, rivolta alla schiena di Lupin. «Portatemi con voi, vi prego!»
I quattro si voltarono a guardarla. Il ladro mosse qualche passo verso di lei.
«Vedi Michelle…» prese a spiegarle, nel tono più dolce di cui era capace, «devi capire che noi siamo ladri professionisti. Oggi ti abbiamo aiutata… e l’abbiamo fatto volentieri, senza chiederti niente, ma non possiamo assolutamente portarti con noi, cerca di comprendere…»
La ragazza chinò la testa, le lacrime che le pungevano agli angoli degli occhi. Aveva veramente sperato di poter andare via con loro e di cominciare una nuova vita…
La voce di Goemon ruppe il silenzio che si era venuto a creare. «Credo che dovrebbe venire con noi, Lupin.»
Il ladro lo guardò, stupito. «Mi spieghi perché, scusa?»
«Mi ha raccontato la sua storia. Michelle ha bisogno di qualcuno che la guidi, in questa fase della sua vita.»
«Mio caro Goemon, noi non siamo affatto le persone adatte, non ti pare?»
«Non ha nessun altro al mondo, solo noi» ribadì il samurai, in tono serio.
Lupin si guardò in giro, cercando l’opinione degli altri. Jigen e Fujiko si strinsero nelle spalle. Pareva che per loro non facesse nessuna differenza.
«E va bene, allora… Potrai venire con noi!» 
Michelle stava di nuovo per buttargli le braccia al collo, ma il ladro la bloccò alzando una mano. «Ma ad una condizione! Quando noi saremo occupati tu te ne rimarrai buona buona ad aspettarci, intesi?»
«Oh, si! Grazie, grazie!» 
E, per la terza volta, la ragazza fece finire Lupin a gambe all’aria con il suo entusiasmo.
Finalmente poterono ritirarsi per dormire. Arsenio e Fujiko presero una delle due porte che davano sulla stanza, ma dopo soli pochi secondi, accompagnato dal rumore di un sonoro ceffone, l’uomo tornò nel salottino tenendosi una mano premuta sulla guancia e, dopo aver borbottato qualcosa riguardo alla volubilità delle donne, si ritirò in un’altra cameretta. Goemon salì sul davanzale della finestra e con un agile balzo saltò sul tetto per continuare la sua meditazione. Jigen si buttò sdraiato sul divano, la testa appoggiata ad un bracciolo e le gambe accavallate.
Michelle si guardò per un po’ intorno, in cerca di un posticino dove potersi stendere e dormire, ma pareva che per lei non fosse rimasto altro posto. Si mise perciò a fissare con sguardo implorante l’uomo in nero, fino a che Jigen non alzò la tesa del cappello per rispondere alla sua occhiata. 
«Oh, al diavolo!» esclamò infine, «tanto ormai ci sono abituato.»
Si mosse, facendole spazio tra sé e la spalliera del divano e la ragazza si accoccolò contro di lui, appoggiandogli la testa sul petto. Senza riflettere, Jigen le circondò le spalle con un braccio in un gesto protettivo. Come già era successo prima, il battito forte e regolare del suo cuore le conciliò il sonno, facendola sprofondare ben presto nel mondo dei sogni. Dopo pochi minuti anche l’uomo si addormentò, cullato dal suo lento respiro.


Michelle aprì gli occhi. Fuori era completamente buio e l’ispettore Zenigata stava di nuovo dormendo sulla poltroncina di fianco alla sua. Anche lei avrebbe dovuto dormire almeno un altro po’. Non poteva permettersi di essere stanca, non in quel momento. Reclinò lo schienale e chiuse nuovamente gli occhi, questa volta abbandonandosi tra le braccia di Morfeo.



Spazio autrice:
Questo capitolo è il più lungo di tutti. Spero che siate riusciti ad arrivare fino alla fine! Finalmente sappiamo come Michelle ha conosciuto Lupin e soci. Spero che vi sia piaciuto!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre - Il Museu Nacional ***


Capitolo tre – Il Museu Nacional 


Prima di atterrare all’aeroporto di Rio de Janeiro, il piccolo jet privato dell’ICPO sorvolò il Pan di Zucchero ed il Corcovado, con la statua del Cristo Redentore. Michelle li osservò attentamente, socchiudendo gli occhi per proteggerli dal riverbero del sole, per poi rivolgere lo sguardo verso il cuore della città pulsante. Individuò anche il Museu Nacional, grazie al meraviglioso giardino in cui era immerso. 
All’arrivo, trovarono ad attenderli una delegazione della polizia federale brasiliana che li accompagnò fino al Museo, dove furono accolti con tutti gli onori dal direttore in persona.
La giovane donna si guardò attentamente intorno, studiando l’ambiente circostante e tutti i vari nascondigli che il giardino poteva offrire. Se conosceva bene Lupin e la sua banda sapeva che, molto probabilmente, erano appostati lì attorno da qualche parte per mettere a punto la loro strategia.
Quando vide baluginare qualcosa tra i rami frondosi di un grosso pernambuco (1) capì di aver fatto centro. L’ispettore Zenigata stava guardando da tutt’altra parte, mentre spiegava animatamente al direttore del museo come aveva intenzione di contrastare il celebre ladro e Michelle si guardò bene dal rivelargli la sua scoperta. Aveva assolutamente bisogno che Jigen e gli altri fossero a piede libero per fare ciò che aveva in mente. 
«Venga ispettore, le mostro la sala di controllo» annunciò il responsabile, facendo un ampio cenno con la mano.
I due si incamminarono verso l’interno, varcando uno degli enormi portoni verdi e la ragazza li seguì, lanciando un’ultima occhiata in tralice verso l’albero.


Non appena i tre furono spariti all’interno, Lupin abbassò il binocolo.
«Uh uh! A quanto pare il nostro paparino si è trovato una nuova assistente!» annunciò a Jigen che stava appollaiato malamente sul ramo accanto, nel tentativo di evitare di conficcarsi nel sedere le grosse spine legnose di cui era ricoperto quel dannato albero. «Ed è anche una donna intelligente, oltre che affascinante!»
«Che cosa te lo fa pensare?» bofonchiò il pistolero, facendo sobbalzare la cicca spiegazzata che aveva tra le labbra.
«Il fatto che ci ha visto!»
«Come sarebbe a dire, ci ha visto?!»
«Beh, sì... credo che un raggio di sole abbia riflettuto su una lente del binocolo, prima…»
«A volte sei proprio un idiota, Lupin» sospirò Jigen, scuotendo piano la testa.
Nel frattempo Arsenio aveva ripreso a controllare la scena, osservando l’interno del museo attraverso le immense finestre. Il gruppetto – composto dal direttore, Zenigata e la giovane donna – si stava appena affacciando da uno dei terrazzi che ornavano la facciata principale.
«Guarda, eccola là!» esclamò il ladro, porgendo il binocolo all’altro.
Jigen lo portò agli occhi e sussultò.
«Oh mio Dio…» esalò, gli occhi e la bocca spalancati per lo stupore, al punto che la sigaretta gli sfuggì dalle labbra. Nonostante fossero passati dieci anni e nonostante la sua fisionomia fosse cambiata molto – non aveva più i capelli lunghi fino alla vita, non indossava più gli occhiali dalla leggera montatura di metallo, non aveva più le forme spigolose di una ragazzina ma le curve morbide di una donna – non avrebbe mai potuto dimenticare quel volto così delicato e determinato al tempo stesso.
«Niente male, eh?» gli diede di gomito il socio, ma il pistolero lo scacciò.
«Non l’hai riconosciuta?!» chiese, restituendo il binocolo a Lupin.
«No. Perché, chi è? La conosciamo?» 
«Guardala bene!» lo incalzò Jigen, mentre il ladro tornava a guardarla con il binocolo.
Non appena realizzò chi era la ragazza che gli stava di fronte, Arsenio cominciò a balbettare.
«Ma… ma… ma quella è Michelle! Che cosa diavolo ci fa in compagnia di Zenigata?»
«Prova ad indovinare! Non l’abbiamo forse lasciata nelle sue mani, dieci anni fa?»
«Beh, sì ma… doveva proprio diventare una poliziotta?!»
«Perché, secondo te aveva altre alternative?» chiese sarcastico il pistolero, per poi esalare un lungo sospiro. Mentre Lupin continuava ad osservare la scena bofonchiando tra sé e sé, Jigen fu travolto da un’infinità di ricordi. Il giorno in cui si erano conosciuti, la prima volta in cui le aveva insegnato a sparare, la prima volta in cui avevano fatto l’amore. Durante i quattro anni in cui avevano vissuto insieme, quella ragazza era riuscita a fare breccia nel suo duro cuore da gangster, lasciando un segno indelebile. All’improvviso un ricordo si fece strada, prepotentemente, nella sua mente. Incapace di contrastarlo, Jigen appoggiò la testa contro il tronco e chiuse gli occhi.

Nonostante Lupin e gli altri le avessero raccomandato più volte di non muoversi dal nascondiglio e di aspettare pazientemente il loro ritorno, Michelle aveva fatto di testa sua e li aveva seguiti di nascosto. La ragazza si era fatta beccare proprio nel bel mezzo di una sparatoria tra la banda di ladri e le guardie del corpo del miliardario che avevano ripulito, ed ora si contorceva come un’anguilla tra le braccia di un energumeno, nel vano tentativo di liberarsi.
Trattenendo a stento un’imprecazione Jigen si sporse dal suo nascondiglio, sparando al maggior numero di gorilla possibile tentando di attirare l’attenzione su di sé, mentre Lupin aggirava la ragazza e l’omaccione che la tratteneva.
Purtroppo per lui, Michelle strepitava e si agitava al punto che il gorilla, nello sforzo di tenerla ferma, voltò il capo e si accorse della sua presenza. Con un ruggito, lasciò cadere la ragazza a terra e si accanì contro Arsenio, sparandogli diverse raffiche di mitra e facendolo ballare sul posto come una marionetta mentre schivava i colpi.
Come comparso dal nulla, Goemon si parò davanti al socio, respingendo i proiettili con la spada. Ad ogni fendente i pallettoni cadevano al suolo, tagliati a metà come se fossero stati di burro.
Vedendo che il suo mitra poteva ben poco contro quel formidabile spadaccino l’energumeno cessò il fuoco, tornando indietro a recuperare la ragazza che era rimasta lievemente intontita dalla caduta e quindi non si era mossa per fuggire. Se la issò sulla spalla, trattenendola per le gambe, e fece per allontanarsi quando Jigen gli si parò di fronte, la pistola puntata dritta alla testa. Lungi dal lasciarsi intimidire, l’omaccione rialzò il mitra e sparò una sventagliata di colpi. Il pistolero fu lesto a buttarsi di lato, ma non abbastanza da evitare l’ultimo proiettile che lo colpì di striscio al braccio sinistro.
«Daisuke!» urlò Michelle, vedendo lo spruzzo di sangue colare tra le dita dell’uomo.
Lottando per non perdere la lucidità, Jigen si rialzò e, con le spalle coperte da Lupin e Goemon, prese lentamente la mira. 
«Non muoverti, Michelle!» le intimò, prima di sparare il suo ultimo colpo. Il proiettile si conficcò nel collo dell’energumeno, a pochi centimetri dal volto della ragazza che non riuscì a trattenere un grido di orrore. L’uomo che la sosteneva si abbatté al suolo senza neanche un gemito e finalmente Michelle fu libera di raggiungere i suoi amici.
«Daisuke, sei ferito!» urlò, gettandosi sul pistolero ed abbracciandolo. L’uomo ricambiò la stretta stringendo i denti per contrastare il dolore.
«E’ solo un graffio…» le rispose.
«Michelle! Non ti abbiamo forse ripetuto fino all’esasperazione di non seguirci?!» sputacchiò Arsenio, apparendo alle spalle del pistolero, con i pugni sui fianchi e lo sguardo serio.
«Questo non è il momento adatto» lo interruppe Goemon. «Torniamo prima al rifugio.»
Una volta di nuovo al sicuro, mentre Lupin rimproverava Michelle per la sua sventatezza, Jigen andò a farsi una doccia. Aveva bisogno di lavarsi da dosso la polvere ed il sangue. Si insaponò lentamente, dedicando grande attenzione al braccio ferito. Ad un esame più attento si rese conto che il proiettile gli aveva strappato un bel brandello di carne: una cicatrice in più che si andava ad aggiungere a quelle che già segnavano il suo corpo in vari punti. Si risciacquò accuratamente, lasciando che l’acqua gli appiattisse i lunghi capelli sulla nuca e le spalle, poi si avvolse un asciugamano intorno alla vita ed uscì dalla doccia.
Michelle lo stava guardando, seduta sulla tazza del water.
«Ehi! Ma che…» esclamò sobbalzando e, per poco, l’asciugamano non gli scivolò via di dosso. «Che cosa diavolo ci fai, qui?»
«Volevo scusarmi per come mi sono comportata. E solo colpa mia se oggi sei stato ferito.»
«E’ solo un graffio» ripeté lui, ma la smorfia di dolore che gli contorse le labbra convinse la ragazza del contrario.
«No! Non è affatto solo un graffio! Fammi vedere.»
Con un gesto deciso lo afferrò per il braccio sano e lo fece voltare verso di lei. Allungò le dita tremanti verso la ferita, poi si ritrasse prima di toccarla.
«Devo medicarti» disse, alzandosi di scatto e mettendosi a cercare garze e disinfettante.
«Faccio da solo…»
«No, ci penso io. Mi pare il minimo, dopo quello che hai fatto per me!»
Lo fece sedere sulla tazza poi, con grande delicatezza, pulì la lacerazione con l’acqua ossigenata ed infine la bendò perché non si infettasse.
«Grazie» mormorò Jigen, ma quando tentò di rialzarsi Michelle glielo impedì, mettendosi a sedere sulle sue gambe. Il pistolero si irrigidì involontariamente, il sedere a mandolino della ragazza molto – troppo – vicino al suo inguine coperto dalla sola spugna leggera dell’asciugamano.
Per un lungo istante lo sguardo di lei indugiò sul suo petto, magro ma dalla muscolatura ben delineata, coperto da una fitta e minuta peluria bruna che, dai pettorali, convergeva verso la linea alba per scendere verso il basso fino all’ombelico e poi ancora più giù, oltre l’orlo del telo, dove si andava a ricongiungere con quella più fitta del pube. Poi, con un sospiro, Michelle alzò di nuovo lo sguardo fino ad incrociare i suoi occhi e gli posò una mano sul viso, carezzandogli dolcemente la guancia ispida di barba per poi far scivolare le dita tra i suoi capelli ancora umidi, adagiati sulle sue spalle.
Lentamente, ma con fermezza, Jigen le prese le mani tra le sue, bloccandole davanti a sé. 
«Daisuke, io… credo di essermi innamorata di te…» esalò a quel punto Michelle dopo un altro sospiro tremolante e, mentre parlava, le sue guance si imporporarono. 
Lo stesso successe a quelle del pistolero che, trattenendo a stento un fremito di piacere, si costrinse a replicare.
«Ne sono lusingato, Michelle, ma… tu sei ancora minorenne, ed io sono troppo vecchio per te.»
La ragazza abbassò lo sguardo in un moto di delusione poi, all’improvviso, rialzò gli occhi risoluta e fece un’altra richiesta.  «Insegnami a sparare!»
«Cosa?!»
«Insegnami ad usare un’arma! In questo modo potrò difendermi e… aiutare anche voi, se necessario!»
«Non se ne parla nemmeno!» replicò Jigen, deciso, «le armi non fanno per te.»
«E perché no? Insegnami a sparare e poi lo vedremo se fanno o no per me!»
Gli avrebbe fatto quella richiesta molte volte, prima che lui si decidesse ad accontentarla…


«Jigen? Che cosa fai, dormi?»
Il tono canzonatorio di Lupin riscosse il pistolero dalle sue reminiscenze del passato.
«No. Stavo solo pensando» rispose, raddrizzandosi sul ramo.
«A Michelle? Ritorno di fiamma, eh?» sghignazzò Arsenio, dandogli di gomito.
«Non dire scemenze!»
«Oh, beh, allora se sei pronto possiamo anche scendere e riprendere il nostro giro di perlustrazione. Zazà e Michelle se ne sono appena andati».
Jigen annuì e, dopo essersi calato di nuovo ben bene il cappello sugli occhi, seguì il socio verso il retro dell’edificio, dove scivolarono silenziosi e furtivi come ombre.


All’uscita dal museo, dopo le verifiche ed i controlli di tutti i sistemi di sicurezza, Michelle aveva nuovamente lanciato un’occhiata furtiva al nascondiglio di Arsenio e Daisuke. Non si era meravigliata di trovarli ancora lì e, per un attimo, era stata tentata di rispondere al gesto di saluto che il ladro in giacca rossa le aveva rivolto. Sorrise tra sé e sé: allora anche loro l’avevano riconosciuta. Allungando il passo raggiunse Zenigata, per evitare che l’ispettore si insospettisse ed alzasse gli occhi sulla volta arborea del giardino, ma il poliziotto era talmente impegnato a tessere le lodi dell’Interpol che non si sarebbe accorto della presenza di Lupin nemmeno se gli fosse passato davanti. 
Michelle era molto legata a Zenigata. Era l’unico uomo che si fosse preso cura di lei dopo che Lupin & Company l’avevano abbandonata, ma non per questo era così cieca da non rendersi conto che l’ispettore, invecchiando, stava perdendo molti colpi. Oramai sull’orlo della settantina, Koichi Zenigata aveva perso molta della sua agilità e della sua lucidità, anche se niente al mondo avrebbe mai potuto distrarlo dall’unica cosa per cui aveva vissuto per tutti quei lunghi anni. Si sarebbe fermato solo quando avesse messo Lupin in gattabuia ma, Michelle ne era più che convinta, purtroppo per lui una cosa del genere non sarebbe mai successa.
Cercando di non sorridere troppo a quel pensiero la ragazza scivolò al suo fianco, sul sedile posteriore dell’auto della polizia federale che li portò al loro albergo.
Dopo aver ritirato le chiavi delle loro stanze, nel passare nella vasta hall, arredata con bellissime poltrone di pelle bianca, entrambi notarono una figura femminile vestita elegantemente, seduta con una valigetta poggiata sulle ginocchia nude.
Michelle fu la prima a riconoscerla ed, involontariamente, si lasciò sfuggire un sibilo serpentino di rabbia: Fujiko Mine. La donna che aveva sempre odiato, l’unico membro della banda di Lupin con cui non era mai riuscita a legare e con cui, forse, si era sempre sentita in competizione.  
Richiamato da quel suono così furioso anche Zenigata si voltò in quella direzione. Non appena anche lui la riconobbe i suoi occhi si ridussero a due fessure, poi avanzò a passo di marcia verso di lei, tirando fuori dalla tasca dell’impermeabile una delle numerose paia di manette che si portava sempre dietro.
«Fujiko Mine! Non riuscirete ad impossessarvi del diamante! Ti dichiaro in arresto!»
«Oh, buonasera ispettore. Mi dispiace deluderla, ma io sono qui in veste di rappresentate di una ditta di investimenti finanziari e sto aspettando il mio cliente! Non so niente di qualsiasi cosa abbia in mente Lupin» disse voltando il capo, sdegnata, e mettendo in mostra la vertiginosa scollatura del suo abito. «La pregherei quindi di non disturbarmi oltre!»
«Non mi fido di te, perciò ti terrò d’occhio!» la minacciò Zenigata, puntandole contro l’indice, per poi retrocedere e tornare al fianco di Michelle che aveva seguito la scena senza muoversi. Fujiko non l’aveva nemmeno degnata di uno sguardo e quindi le era passata totalmente inosservata. La cosa non le dispiacque: non voleva che quella donna le mettesse i bastoni tra le ruote. Mentre riprendeva a camminare al fianco dell’ispettore non riuscì però a trattenersi.
«La odio» sibilò tra i denti, lasciando trapelare i suoi pensieri, «non l’ho mai potuta sopportare!»
«Non farti venire il sangue amaro per lei. In fondo è solo una puttana arrivista anche se, devo ammettere, è molto difficile resistere al suo fascino.» La ragazza si voltò a fissare il suo superiore, sbalordita dalle sue parole, e Zenigata continuò. «Beh, sì, è successo anche a me… Ed ho potuto constatare di persona che a volte non è così brava come crede, nel mentire. Mi resi conto subito che il suo orgasmo era finto…» disse, rimuginando sul passato, grattandosi il mento squadrato.
Michelle inorridì. 
«Ispettore! Anche lei! Mi meraviglio del suo comportamento!» esclamò ed accelerando il passo raggiunse la sua stanza, per poi chiudersi dentro a chiave.
Zenigata la fissò sbattere la porta con sguardo stupito.
«Perché? Che ho detto?» si chiese, titubante, prima di raggiungere la propria camera.
Schiumante di rabbia e disgusto Michelle spalancò la finestra e si appoggiò al davanzale. Il vento caldo proveniente dall’Oceano Atlantico le sferzò il viso, facendo ondeggiare i suoi corti capelli a caschetto. Strinse i pugni e serrò gli occhi, mentre le lacrime le sfuggivano da sotto le palpebre. Possibile che Fujiko avesse il potere di rovinare sempre tutto? Anche Zenigata, l’uomo che aveva veramente amato come un padre, si era lasciato tentare dalle sue “grazie”? Aveva già provato una delusione come quella, forse ancora più forte…

Rinchiusi dentro il piccolo nascondiglio, una misera capanna celata tra gli alberi di una fitta foresta, senza niente da fare nell’attesa che si calmassero le acque smosse dall’arrivo imprevisto di Zenigata, Lupin si lasciò andare ad uno sbadiglio enorme per poi appoggiare le lunghe gambe, magre e dinoccolate, sul tavolo.
«Uffa, mi sto annoiando a morte! Facciamo un gioco?» propose, guardando speranzoso i suoi compagni.
Solo Michelle aveva annuito. Gli altri tre si erano stretti nelle spalle ma non avevano interrotto le loro attività. Jigen, stravaccato sul divanetto, non aveva smesso di leggere il giornale; Fujiko aveva continuato a passarsi lo smalto sulle unghie e Goemon non aveva aperto gli occhi per interrompere la sua meditazione.
«Che mortorio!» commentò Arsenio, per poi rivolgersi alla ragazza. «Intanto cominciamo noi. Conosci “Obbligo o verità?”»
Michelle scosse la testa.
«Se sceglierai obbligo dovrai fare qualcosa; se sceglierai verità ti farò una domanda e dovrai rispondere sinceramente. Se penserò che stai mentendo ti obbligherò comunque a fare qualcosa. Ci stai?» spiegò il ladro con il suo solito tono canzonatorio e la ragazza accettò.
«Allora: obbligo o verità?»
«Verità» rispose Michelle senza indugio.
«Mi vuoi spiegare una buona volta perché hai lasciato l’orfanotrofio e ti sei appiccicata alle nostre gonnelle?»
La ragazza si incupì per un istante e la sua espressione indusse Lupin a sedersi più comodo.
«Il direttore dell’istituto era un tipo che non aveva molto rispetto per le ragazzine sue ospiti» rispose dopo alcuni istanti di silenzio mentre Goemon, già a conoscenza della storia, serrava i pugni attorno alla sua spada. «Diciamo che ero stufa di essere abusata da lui…»
«Ti ha violentato?!» esclamò Arsenio, facendo sobbalzare anche gli altri tre, e Michelle annuì semplicemente in risposta.
«Che farabutto» commentò Jigen con voce cupa. Quando la ragazza alzò lo sguardo su di lui vide che Daisuke aveva alzato la tesa del cappello e la guardava, serio.
Dopo alcuni minuti di silenzio, Michelle si strinse nelle spalle. «Beh, ormai è passato molto tempo… Possiamo anche continuare a giocare, se vi va.»
«Ok, allora adesso tocca a te. A chi vuoi fare la domanda?» riprese Lupin, in tono più leggero. 
La ragazza annuì, voltandosi verso il samurai. «Goemon, obbligo o verità?»
«Obbligo.» 
«Potresti tagliare qualcosa? Mi piace così tanto, quando lo fai!»
Senza neanche aprire gli occhi Goemon estrasse la spada dal fodero e, con fendenti rapidi e precisi, tagliuzzò un foglio di carta posato sul tavolo fino a farne una fila di bamboline che si tenevano per mano, per poi porgerlo a Michelle con la punta della zantetsu-ken. Lei lo prese, ammirandolo meravigliata e ringraziando il samurai, soffiandogli un bacio sulla punta delle dita.
«Bene bene, ora tocca a te, Goemon!» disse Lupin fregandosi le mani, contento di svagarsi almeno un po’.
«Fujiko, obbligo o verità?»
La donna alzò lo sguardo dalle sue unghie. «Cosa? Stai dicendo a me? Uhm… verità.»
«Ti sei mai innamorata veramente di un uomo?»
La domanda suscitò un’ondata di mugolii da parte di Arsenio e Daisuke. Il samurai arrossì suo malgrado.
«Uh, ma che domande! Certo che sì!» rispose Fujiko, senza comunque riuscire a nascondere un vago disagio.
«E chi è il fortunato?» la incalzò subito Lupin. «Dimmi che sono io!» 
E, protendendo le labbra, il ladro tentò di strapparle un bacio, ricevendo al suo posto uno schiaffo talmente forte che gli lasciò l’impronta della mano della donna sulla guancia.
«Non è il tuo turno!» replicò lei, incrociando le braccia e fingendosi offesa. «Jigen, obbligo o verità?» chiese subito dopo, voltandosi verso il pistolero che chiuse lentamente il giornale.
«Verità.»
«Qual è il posto più strano in cui hai fatto l’amore?»
Lupin si voltò di scatto verso l’amico, curioso di conoscere la risposta ad una domanda così piccante. Anche Michelle non riuscì a nascondere la curiosità e, con il cuore che le batteva all’impazzata, si protese sopra il tavolo per sentire meglio, benché temesse le parole che stava per udire.
Daisuke si raddrizzò sul divano, togliendosi la cicca spiegazzata dalla bocca e schiacciandola nel posacenere stracolmo prima di rispondere.
«In una bara» disse, in tono cupo.
«Cosa?! Una bara?!» esclamò Lupin, sobbalzando. «Mi auguro almeno che la fortunata fanciulla non fosse morta!» aggiunse per sdrammatizzare, mettendosi a ridere.
«No, era viva e vegeta.»
«Mio Dio, che orrore!» gridò Fujiko, inorridita. «Ed io che credevo che fosse stato già abbastanza strano quando l’abbiamo fatto in quella stanzetta in cui ci avevano rinchiuso legati insieme, e tu la prima volta sei venuto nelle mutande soltanto al pensiero delle mie tette schiacciate contro di te!» (2)
Jigen arrossì vistosamente e, per nasconderlo, calò ancora di più il cappello sul volto. Lupin, che stava ancora sghignazzando, si bloccò all’improvviso nell’udire quelle parole, mettendosi a balbettare.
«Ma… Ma… Ma… Fujiko?! Mi stai dicendo che tu… e Jigen…»
«Tze, sai quante volte…»
A quel punto il ladro si voltò di nuovo verso Jigen che aveva ripreso il giornale. «Jigen?! Proprio tu?! Ed io che credevo tu fossi il mio migliore amico!»
«Lo sono, infatti.»
«Proprio un bell’amico! Sei andato a letto con la mia fidanzata!» urlò Arsenio, saltellando in piedi sulla sedia come uno scimmione.
«Io non sono la tua fidanzata…» rimarcò Fujiko, ma la sua frase fu interrotta dallo sbattere violento della porta. 
Quelle parole avevano spezzato il cuore di Michelle, ormai perdutamente innamorata di Daisuke. Le lacrime presero a scorrerle copiose sul viso mentre correva fuori dalla capanna, inoltrandosi tra gli alberi. Si sentiva una stupida. E, soprattutto, non riusciva a sopportare il fatto che avesse avuto rapporti proprio con Fujiko, quella donna che la considerava al pari di un insetto e che lei odiava con tutte le sue forze. Quanto avrebbe voluto liberarsi di lei!
Senza riflettere, la sua mano corse alla schiena dove, da quando Jigen gliel’aveva regalata, teneva la sua pistola. La estrasse e, con rabbia, si mise a sparare contro gli alberi che le venivano incontro mentre correva, svuotando in pochi secondi il piccolo tamburo.
Con ancora la pistola stretta tra le dita cominciò a prendere a pugni la corteccia del tronco che aveva di fronte, sbucciandosi le nocche, mentre ormai le lacrime le inondavano il volto.
All’improvviso una mano la afferrò per il polso sinistro. Con uno scarto istintivo si voltò per fronteggiare il suo assalitore, puntandogli contro la pistola ormai scarica. Jigen, che lo sapeva avendo contato gli spari, gliela tolse di mano per poi farla sparire dietro la schiena.
«Lasciami andare! Mi fai schifo!» gridò Michelle, tentando di divincolarsi, ma la stretta ferrea del pistolero non si allentò. «Hai fatto l’amore con Fujiko, ma non vuoi farlo con me!» urlò ancora, in preda ad una furia che la accecava al pari delle lacrime.
«Io non ho fatto l’amore con Fujiko» rispose con calma l’uomo, senza scomporsi.
«Ah no?»
«No. Io e lei abbiamo semplicemente fatto sesso.»
«E dov’è la differenza?!» strepitò la ragazza, ancora strattonando il braccio nel vano tentativo di liberarsi.
«Quello che il direttore dell’orfanotrofio ti obbligava a fare era forse amore?»
Quelle parole la fecero fermare di colpo, ferita nel profondo. Jigen ne approfittò per passarle il braccio libero dietro la schiena, facendola aderire al suo corpo. Michelle alzò il viso per guardarlo ed i suoi occhi si fissarono nei pozzi neri di Daisuke. Il pistolero accostò il volto a quello di lei, baciandola con tenera passione. Quando Michelle sentì che l’uomo stava socchiudendo la bocca la testa prese a girarle, ed il cuore le batté così forte che temette potesse scoppiargli. La lingua di Jigen scivolò, lenta e suadente, contro la sua, esplorando con lentezza e metodo la sua bocca ancora inesperta e digiuna di veri baci. Sentì le gambe piegarlesi e, se l’uomo non l’avesse sorretta, sarebbe scivolata a terra come un sacco vuoto. Daisuke fremeva contro di lei, come se si stesse trattenendo a stento dal compiere un passo più audace. Poi, lentamente le loro labbra si separarono.
«Questo è amore…» ansimò Jigen, a pochi millimetri dalle sue labbra, la barba a solleticarle il mento. «Ora capisci la differenza?»
«Allora mi ami, Daisuke?» chiese la ragazza, con voce tremolante.
«Più della mia stessa vita…»


Il dolce suono di quelle parole le risuonava ancora nelle orecchie. Michelle aprì nuovamente gli occhi, asciugandoseli rabbiosamente. Lei aveva creduto ciecamente a quelle parole, ed invece… Invece dopo pochi mesi l’avevano abbandonata nelle mani di Zenigata, quell’uomo che l’aveva sì trattata come una figlia, ma che ora invece l’aveva a sua volta delusa. Non riuscì a trattenersi e lanciò un grido che si perse nel tramonto di Rio de Janeiro.



(1) Pernambuco: tipico albero brasiliano, principalmente usato a scopi ornamentali nei giardini, il cui tronco, specialmente nei rami più giovani, è ricoperto di spine.
(2) Questo riferimento è tratto dalla storia presente in questo fandom “Lupin III – Legati” (che consiglio vivamente di leggere), il cui utilizzo mi è stato gentilmente concesso dalla sua autrice, Fujikofran, che ringrazio ancora per avermi permesso di fare questo accenno. 

Spazio autrice: Eccovi il nuovo capitolo. Lo so, è lungo, forse troppo, ma spesso quando scrivo mi lascio prendere la mano.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro - Lupin entra in azione ***


Capitolo quattro – Lupin entra in azione
 
Dopo aver riposato per qualche ora, Zenigata e Michelle tornarono al museo. La ragazza aveva fatto una doccia che l’aveva aiutata a calmarsi poi, invece di indossare la divisa, si era vestita con abiti civili.
«Voglio rimanere nella sala in cui è esposto il “Blue Hope”, ma senza attirare l’attenzione» spiegò all’ispettore quando questi gliene chiese il motivo. Zenigata annuì, approvando la sua scelta. Anche secondo lui era un bene che qualcuno rimanesse di guardia proprio davanti al gioiello, e chi meglio di lei poteva farlo?
Una volta giunti nuovamente nel giardino entrambi fecero un ultimo giro di perlustrazione e di controllo, verificando la posizione dei mezzi di supporto e dei poliziotti in rinforzo. Quando l’ispettore fu completamente soddisfatto i due presero posizione: l’uno nella sala di controllo interna, davanti ai monitor delle telecamere di sorveglianza, e l’altra nella sala espositiva dove, oltre alla leggendaria pietra dalla storia secolare, erano esposti alcuni quadri di pittori famosi, protetti dall’umidità brasiliana da teche in vetro antiproiettile.
In piedi davanti ad una di esse Michelle riusciva a controllare, riflessa nel vetro spesso, la scena che si svolgeva alle sue spalle: le persone entravano quasi con deferenza e, con altrettanta lentezza, sfilavano davanti alla campana che conteneva il cosiddetto “diamante maledetto”. La ragazza si era documentata ed aveva scoperto che quel gioiello, che pareva fosse stato sottratto dall’occhio di un idolo in un tempio indiano, era passato in diverse mani, spesso famose – come i re di Francia Luigi XIV e Luigi XVI – lasciando dietro di sé una scia di morti misteriose. Non la meravigliava il fatto che anche Lupin lo volesse: Arsenio aveva sempre avuto un debole per i monili stregati.
Controllò l’orologio. Data l’eccezionalità dell’evento, il museo sarebbe rimasto aperto fino a tarda ora. Era più che probabile che Lupin e soci aspettassero l’ora di chiusura, per colpire, ma Michelle sapeva per esperienza che, da loro, c’era sempre da aspettarsi delle sorprese. 
Per un attimo si lasciò distrarre dal quadro che aveva davanti. L’aveva scelto semplicemente perché, dalla sua posizione d’angolo, riflesso nella sua teca poteva vedere meglio ciò che accadeva nella stanza. Era una piccola tela quadrata di Gustav Klimt, rappresentante un bosco di betulle in autunno. Le foglie cadute formavano un tappeto rosso che contrastava con le cortecce bianche degli alberi. Quell’immagine la colpì come un pugno in pieno stomaco, portandola di colpo indietro nel tempo, ad un altro bosco autunnale di undici anni prima.

Da quando Jigen le aveva regalato la pistola, Michelle si esercitava ogni volta che poteva. Ed il tempo, in effetti, non le mancava quasi mai, visto che Arsenio, Daisuke e Goemon avevano l’abitudine di lasciarla spesso e volentieri di guardia al loro rifugio. A volte aveva insistito così tanto per avere la possibilità di seguirli che Lupin era stato costretto a cedere, ma la cosa era talmente rara da potersi contare sulla punta delle dita.
Quel giorno non avevano fatto eccezioni: l’unica differenza consisteva nel fatto che Jigen era rimasto al rifugio con lei. 
Decisa a sfruttare il tempo libero, Michelle uscì dalla baracca nascosta, ancora una volta, in mezzo ad un bosco. Prese di mira un vecchio albero secco e cominciò a sparare un colpo dietro l’altro, mandando tutti i proiettili in un raggio di pochi centimetri. Così occupata com’era, non si era accorta che anche Jigen era uscito.
Il pistolero si era sdraiato sul tappeto di foglie cadute, togliendosi la giacca per farne una sorta di cuscino improvvisato, appoggiando la testa contro il tronco d’albero più vicino. Con il cappello calato sugli occhi pareva che dormisse, mentre in realtà osservava attentamente la sua “allieva” all’opera. Era migliorata decisamente dalla prima volta in cui aveva sparato ed era diventata brava, molto brava; forse persino troppo per la sua giovane età.
«Non pensi di esserti esercitata abbastanza?» le chiese quindi, facendola sobbalzare.
«Daisuke… Ero talmente concentrata che non mi ero nemmeno accorta che eri lì.»
«Ho visto, infatti.»
«Perché dovrei smettere? In fondo non ho nient’altro da fare!»  rispose Michelle, voltandosi a guardarlo maliziosa. «O forse tu hai in mente qualcosa di più divertente?»
Jigen alzò la tesa del cappello, fissandola negli occhi. Ogni volta che lo faceva la ragazza si sentiva sprofondare in quei due pozzi neri che, dannazione a lui, mostrava solo di rado.
«Chissà…» le rispose, con il tono di voce più basso di un’ottava del solito.
«Non provocarmi, Daisuke! Lo sai che riesco a trattenermi a stento dal saltarti addosso!»
Gli occhi del pistolero non smisero di fissarla, facendole correre un brivido lungo la schiena. Lentamente, Michelle mise via il suo revolver, avvicinandosi poi all’uomo e cadendogli accanto in ginocchio. Jigen non aveva mai smesso di osservarla attentamente e non parve affatto sorpreso né dispiaciuto quando lei gli salì a cavalcioni, appoggiandosi con la schiena alle sue gambe accavallate.
Con un rapido gesto Michelle gli tolse il cappello e se lo mise in testa, strappandogli un’esclamazione di stupore. «Ehi! Il mio cappello!»
«Sta tranquillo, non te lo mangio mica! E poi, cos’avrà mai tanto di speciale?»
«Lo uso per mirare» rivelò il pistolero, tranquillo.
«Cosa?! Tu usi la tesa del cappello per mirare?!»
«Sì» rispose semplicemente, stringendosi nelle spalle. «È così che ho imparato dal mio maestro.»
Michelle lo fissò per qualche minuto senza parlare. «Daisuke Jigen…» riprese infine, «hai un nome giapponese, ma i tuoi occhi non sono a mandorla» e, mentre parlava, con l’indice gli sfiorò l’angolo esterno dell’occhio destro.
«Sono americano»  rispose lui, «ma, a causa di… divergenze… sul lavoro, ho dovuto abbandonare il mio nome e la mia nazionalità, rifugiandomi in Giappone.»
«Che passato misterioso…» mormorò Michelle, incuriosita. «Allora qual è il tuo vero nome?»
«Non esiste più. Io sono e rimango Jigen Daisuke.»
«Non puoi rinnegare ciò che eri!» esclamò la ragazza, stupita ed anche leggermente delusa. Era così curiosa di saperne di più…
«Io l’ho fatto, invece» replicò il pistolero in tono secco, facendola ammutolire.
Per alcuni istanti rimasero entrambi in silenzio, poi la ragazza si chinò verso di lui, andando a cercare le sue labbra. Jigen rispose dolcemente al bacio, passandole una mano tra i lunghi capelli castani. Con la barba le solleticò il mento, strappandole un risolino che fu subito soffocato dall’incontro tra le loro lingue. Daisuke cercò di attirarla ancora di più a sé ma Michelle fece resistenza, interrompendo il bacio. 
L’uomo la fissò sorpreso e lei, sorridendo maliziosamente, prese a sciogliergli il nodo della cravatta che poi fece roteare sopra la testa lanciandola via. Prese quindi a slacciare, con una lentezza quasi estenuante, i bottoni della sua camicia azzurra, scoprendogli il petto. La carnagione ambrata di Jigen risaltò sullo sfondo chiaro della stoffa. 
Il pistolero, col respiro ansimante, allungò le braccia sfiorandole la vita morbida. Michelle cominciò a carezzarlo a sua volta sui capelli, sul viso, sui pettorali. Il corpo di Daisuke reagì involontariamente alla sua stimolazione e, ben presto, la ragazza cominciò ad avvertire la sua virilità che premeva contro di lei. Si sfregò leggermente su di lui, strappandogli un cupo gemito.
«Vorresti… vorresti farlo proprio qui?» riuscì a domandare il pistolero, tra un ansito e l’altro.
«Non vorrai dirmi che l’uomo che ha fatto l’amore in una cassa da morto si fa dei problemi a farlo in un bosco» rispose la ragazza con un pizzico di sarcasmo. «Ed ora non puoi più nemmeno usare la scusa che sono minorenne, visto che ormai ho quasi diciannove anni! Voglio farlo, Daisuke, non ne posso più di aspettare, non l’hai ancora capito?»
Con uno scatto fulmineo, Jigen ribaltò le loro posizioni. Fece sdraiare Michelle al suo posto, dove le foglie conservavano il suo tepore, e si mise a spogliarla a sua volta, baciandola dolcemente su tutto il corpo e carezzandola con ruvida tenerezza. 
Michelle si infiammò a quelle attenzioni, cui non era mai stata abituata, ma quando Jigen si adagiò su di lei, pronto per penetrarla, al suo viso si sovrappose quello del direttore dell’orfanotrofio e la ragazza cominciò a tremare come una foglia. Il pistolero se ne accorse subito.
«Se non te la senti, non sei obbligata a continuare» mormorò, preoccupato.
Lei alzò il viso per fissarlo negli occhi. «Non fermarti, Daisuke… Ti prego, non fermarti.»
E così, lentamente e con tutta la dolcezza di cui era capace, Jigen la penetrò e la fece sua. Tra le sue braccia, Michelle si sentì finalmente una vera donna. Questo era amore, riuscì a riflettere incoerentemente, mentre si muoveva a ritmo con lui in una sorta di danza fatta di pura estasi. I baci di Jigen, le sue mani, il suo corpo la risvegliarono da quella specie di stasi in cui era inconsciamente entrata a seguito delle violenze subite. Quando raggiunse l’apice del piacere, il primo della sua vita, si sentì come esplodere. Non riuscì a trattenersi e gridò il nome del pistolero che, travolto pure lui dall’amore che provava nei confronti di quella ragazzina, così dolce ma determinata al tempo stesso, si lasciò andare, riversandosi come un fiume in piena dentro di lei.
Dopo alcuni minuti necessari per riprendere fiato, entrambi si rivestirono. Jigen si stese di nuovo a terra, con la testa appoggiata alle radici dell’albero e Michelle si accoccolò contro di lui, affondandogli il viso nell’incavo del collo, per inebriarsi del suo odore.
Fu così che Lupin e Goemon li trovarono al ritorno dal loro sopralluogo…


La potenza di quel ricordo così vivido destabilizzò Michelle che, improvvisamente, ebbe un capogiro. Fu costretta ad appoggiarsi alla parete per non cadere e, per alcuni istanti, perse il controllo di ciò che avveniva intorno a sé. Mentre la vista si schiariva pian piano, riuscì a notare con la coda dell’occhio tre uomini, dall’aspetto singolare ma che le sembravano terribilmente familiari. Raddrizzandosi con fatica li vide avvicinarsi alla campana contenente il diamante e chinarsi su di essa come normali curiosi, eppure c’era qualcosa che non la convinceva. Quando il più magro si mosse, capì cosa l’aveva insospettita: avrebbe riconosciuto quell’andatura dinoccolata ovunque! Quello era Lupin!
Fece appena in tempo a recuperare l’equilibrio che già il ladro aveva estratto alcune piccole bombe fumogene che, con un gesto teatrale, sparse per tutta la sala. Al contatto con il pavimento, le bombe sprigionarono il loro fumo acre, confondendo la vista e stordendo i presenti.
Michelle si coprì il viso con la manica, gli occhi che lacrimavano a contatto con il fumo al punto tale da impedirle quasi di vedere ciò che succedeva a pochi metri dal suo viso. All’improvviso un forte boato esplose nella sala. Voltandosi alla sua destra la giovane donna vide una sezione perfettamente circolare della parete della stanza cadere fragorosamente al suolo, alzando una nube di polvere che andò a mescolarsi al fumo. Subito dopo, il trillo acuto e penetrante del sistema d’allarme del museo le perforò le orecchie: Goemon aveva tagliato la campana di vetro e Lupin si era impadronito del diamante. 
Tossendo e lacrimando, Michelle si fece strada tra le macerie, scansando a gomitate i visitatori che, ancora increduli, si guardavano intorno spaesati, lanciandosi all’inseguimento della banda di ladri. Non doveva assolutamente perderli di vista. Correndo da una sala all’altra, la giovane donna attraversò le pareti tagliate dalla spada del samurai, arrivando all’esterno giusto in tempo per vederli salire sulla loro Fiat 500.
Lì si ricongiunse con l’ispettore Zenigata che, non appena aveva sentito scattare l’allarme, era uscito come una furia dalla sala di controllo facendo roteare le manette sopra la testa.
«Fermati Lupin!» gridò, saltellando sul posto come un ossesso, per poi lanciarsi all’inseguimento del suo acerrimo nemico, accompagnato da una fiumana di poliziotti federali. La scena era così simile a quella in cui aveva incontrato Lupin & Company per la prima volta che Michelle fu quasi tentata di mettersi a ridere. Mantenendo a stento la compostezza anche la giovane donna si buttò al volante di una delle gazzelle della polizia, partendo prima che qualcun altro potesse salire con lei.
Stringendo con fermezza lo sterzo si mise all’inseguimento dei suoi ex amici, deviando su una strada che, proseguendo a mezza collina, le consentiva di vedere meglio i movimenti degli altri. La Fiat 500 di Lupin stava percorrendo a tutta velocità una delle strette viuzze del centro della capitale, tallonata a breve distanza dalla volante da cui Zenigata si stava sbracciando e che era seguita, a sua volta, da una decina di altre auto stracariche di poliziotti. Michelle percorse ancora un breve tratto di strada in salita, fermandosi in una specie di piazzola sovrastante proprio la scena dell’inseguimento. Estrasse la sua Smith & Wesson e, mettendosi in posizione come le aveva insegnato Jigen, sparò due colpi in rapida successione, centrando entrambe le ruote dal lato sinistro della macchina dell’ispettore. Il poliziotto alla guida perse il controllo e l’auto, dopo aver compiuto un testacoda, si incastrò tra due edifici vicinissimi tra loro, ingombrando la carreggiata ed impedendo la prosecuzione dell’inseguimento. Zenigata scese dall’auto tentando di seguire correndo Lupin e gli altri, ma dopo soli pochi metri di strada fu costretto ad arrendersi, le mani premute sul petto ed il fiato corto.
Con un sorriso sghembo di soddisfazione, Michelle risalì a bordo e ripartì, recuperando ben presto il contatto visivo con la piccola automobile.


Lupin, convinto di aver seminato i suoi inseguitori, rallentò la corsa.
«Chissà cos’è stato a farli fermare così di botto?» si chiese, grattandosi il mento.
«Che te ne frega. L’importante è che non siano più alle nostre calcagna» gli rispose Jigen, accendendosi una sigaretta rigorosamente storta. Non espresse però a parole il timore che potesse essere accaduto qualcosa a Michelle. Anche se era diventata una poliziotta, non poteva comunque negare a sé stesso di esserne ancora innamorato. «Ora non ci rimane che tornare al nostro nascondiglio» disse invece, tentando di reprimere il desiderio di far fermare Lupin e tornare indietro.
Non appena terminò la frase udirono una piccola esplosione: era scoppiata una gomma. Lupin riuscì a mantenere a stento il controllo della macchinina, che si fermò alcune centinaia di metri più avanti.
«Eh? Ma che è successo?» si chiese Arsenio, mettendo la testa fuori del finestrino ed accorgendosi di avere una gomma a terra. Dallo pneumatico spuntava qualcosa di stranamente scintillante. «Mi sa che ci hanno sparato ad una ruota!» aggiunse, scendendo e prendendo in mano l’oggetto. Era un proiettile modificato ed al suo interno il ladro vide un piccolo foglio di carta arrotolato. Lo prese, gli dette un’occhiata e poi si sporse dentro l’abitacolo. «Questo è per te, Jigen!» rise, porgendo il messaggio al suo socio.
Il pistolero lo afferrò delicatamente tra pollice ed indice poi si mise a leggerlo e, per lo stupore, alzò il cappello fino a scoprire gli occhi sgranati.
«“Se sei un uomo, fatti trovare domani mattina all’alba ai piedi del Redentore. Firmato Michelle Duval”, lesse a mezza voce, a beneficio degli altri due.
«Oh oh! A quanto pare anche la nostra Michelle non ha dimenticato il bel tenebroso pistolero del suo cuore!» scherzò Lupin, pungolandolo con il gomito.
«Smettila, idiota! Non credo che si tratti di un appuntamento galante.»
Dopo essere sceso a sua volta dalla macchina, Daisuke alzò lo sguardo verso la più probabile direzione di provenienza del tiro. Alcune decine di metri sopra di loro si snodava una strada. Ferma sul ciglio c’era un’auto della polizia. La sagoma scura ferma al suo fianco fece un cenno col capo, per poi risalire a bordo e scomparire.
«Michelle…» mormorò di nuovo il pistolero, seguendo con lo sguardo la volante che si allontanava. Lupin lo riscosse dal suo torpore.
«Allora, ci andrai?»
Jigen chinò lo sguardo sul bigliettino che stringeva ancora in mano. «Sì.»
«Vuoi che veniamo con te?» chiese Goemon, in tono quasi premuroso.
«No, questa è una faccenda che devo risolvere da solo.»
«Ok» accondiscese Lupin, «ma se avrai bisogno di noi non esitare a chiamarci!»
Mentre il ladro sostituiva la gomma, il silenzio di quel quartiere fu interrotto dal rombo possente di una motocicletta. Dopo pochi minuti, il mezzo si fermò di fianco alla Fiat 500. Fujiko tolse il casco e scosse la lunga chioma di capelli fulvi.
«Ciao Lupin!»
«Fu-Fu-Fujiko?! Che cosa ci fai tu qui?!»
«Zenigata mi ha detto che volevi rubare un diamante e così ho pensato di approfittarne!»
Con un gesto fulmineo, la donna passò le dita sotto al colletto della giacca di Lupin, il luogo segreto in cui di solito nascondeva la refurtiva di piccole dimensioni. «Scusami se non posso trattenermi. Bye bye!» aggiunse, subito dopo aver trovato ciò che cercava.
Facendo scomparire il gioiello nel solco tra i seni, Fujiko se ne andò facendo rombare il potente motore, lasciando i tre soci a bocca asciutta.
«E ti pareva…» esalò Lupin, incassando la testa nelle spalle. I due soci non gli risposero: Goemon pareva in profonda meditazione, ma forse stava solo pensando al modo migliore per redimere quella donna, di cui era profondamente innamorato; Jigen, invece, era già con la testa sul Corcovado, ai piedi della gigantesca statua del Cristo. Che cosa aveva intenzione di fare Michelle? E lui, come avrebbe reagito? L’amava ancora, era innegabile. Benché in quei dieci lunghi anni non fosse certo stato a digiuno di donne, quella ragazzina l’aveva comunque stregato. Ma non era forse vero che tutte le donne di cui si era perdutamente innamorato avevano fatto una brutta fine? 



Spazio autrice:
Ecco il nuovo capitolo della storia. Ormai siamo quasi agli sgoccioli. Ne manca più soltanto un e l'epilogo. Spero che anche questo sia di gradimento!

 

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque - Finalmente vendetta ***


Spazio autrice: consiglio di leggere la prima parte di questo capitolo (fino alla prima interruzione) ascoltando "Music of the mind" dei Jamiroquai, di cui metto il link  https://www.youtube.com/watch?v=Znuk94yD5rQ.
I tre cambi di ritmo della musica dovrebbero corrispondere agli altrettanti cambi di ritmo nella scrittura (o almeno così è nella mia testa :-) ).

 

Capitolo cinque – Finalmente vendetta





I primi raggi di sole mattutino illuminarono il volto del Cristo svettante sulla cima del Corcovado. Michelle, con i gomiti appoggiati alla balaustra della terrazza rivolta verso il Pan di Zucchero, si voltò ed alzò lo sguardo per ammirarlo dal basso. La statua era così imponente da farla sentire insignificante. Tornò a fissare il panorama di fronte a lei lasciandosi sfuggire un sospiro. Ce l’aveva fatta. Dopo dieci anni era finalmente giunto il momento della sua vendetta. Non aveva nessun dubbio sul fatto che Jigen si sarebbe presentato, ed ora aspettava con ansia il momento in cui l’avrebbe visto salire dalla lunga scalinata di accesso al belvedere.
Aveva approfittato dell’ora mattutina per presentarsi alla stazione della ferrovia a cremagliera e requisire il monumento, mostrando il suo tesserino dell’ICPO ed adducendo come scusa alcune operazioni di polizia. I gestori l’avevano guardata con sospetto, ma la pistola in bella mostra li aveva convinti ad eseguire i suoi ordini. Per ciò che aveva in mente di fare aveva assolutamente bisogno che ai piedi della statua non ci fosse nessun altro oltre a loro due, e sapeva che, per Jigen, una ferrovia chiusa non sarebbe stata certo un problema.
La lieve brezza che le scompigliava il caschetto castano le portò un suono di passi, inconfondibile alle sue orecchie. Voltandosi lentamente verso le scale che salivano dalla terrazza inferiore vide spuntare il cappello scuro, calato a celare gli occhi neri che tanto aveva amato.
Daisuke salì lentamente gli ultimi gradini, ed altrettanto lentamente la raggiunse. Poco prima che fosse al suo fianco Michelle gli voltò la schiena, appoggiandosi nuovamente con le braccia alla balaustra. Lui la imitò, mettendosi al suo fianco destro.
«Sapevo che saresti venuto» lo apostrofò, senza guardarlo.
«Non potevo certo mancare all’appuntamento» le rispose, accendendosi una sigaretta.
«Ancora spiegazzate come allora, vedo» disse Michelle, voltandosi finalmente verso di lui.
«Non ho cambiato abitudini» replicò Jigen, soffiando via il fumo della prima boccata. «Allora, cosa vuoi da me?» aggiunse subito dopo, alzando la tesa del cappello e fissandola negli occhi. Il suo sguardo, ancora così vivo e profondo, per poco non la fece vacillare.
«Non lo immagini?» gli rispose, senza nascondere l’astio nella voce.
«Vagamente.»
«Voglio vendicarmi per essere stata abbandonata!»
«Credevo che, dopo tutto questo tempo, tu ci avessi perdonato.»
«Io ti amavo, Jigen!» gridò Michelle con rabbia, «e tu mi hai solo usato!»
«Questo non è vero, e lo sai. Anch’io ti…»
«Bugiardo!» gridò di nuovo lei, interrompendolo. «Se l’avessi fatto non mi avresti lasciato nelle mani di Zenigata!»
«Era la cosa più giusta da fare. L’ho fatto per proteggerti» rispose Jigen, in tono calmo.
«Proteggermi?! Non farmi ridere, Jigen! Io voglio la mia vendetta! La voglio qui, e subito!»
«Che cosa hai intenzione di fare?»
Con un gesto fulmineo la giovane donna estrasse la Smith & Wesson da dietro la schiena, puntandogliela contro. Jigen non si mosse, come se non ne fosse stato affatto sorpreso.
«Ti sfido a duello! L’allieva contro il maestro!» sputò Michelle, rabbiosa. «Vince chi rimane vivo!»
«Non ho nessuna intenzione di ucciderti» replicò il pistolero, calando di nuovo il cappello sugli occhi.
«Lo hai già fatto, dieci anni fa! Ed ora combatti, se sei un uomo!»
Alzando il braccio Michelle sparò il primo colpo, facendogli volare via il cappello dalla testa. 
Jigen si chinò per raccoglierlo. «Se è questo che vuoi…» mormorò.
Il pistolero estrasse la sua Magnum e scartò di lato, per trovare protezione all’ombra della statua. Michelle lo seguì, correndo dietro di lui e sparando al suo indirizzo. Una volta al sicuro dietro l’enorme basamento di granito scuro, Jigen si sporse da dietro un angolo e rispose ai colpi, mantenendo una traiettoria bassa. Michelle balzò in alto per evitare i proiettili e corse nella direzione opposta, nel tentativo di prenderlo da dietro. Daisuke ritenne quella mossa prevedibile ed avventata, così invece di fuggire l’attese, ricaricando il tamburo nel frattempo. Quando non la vide sbucare da dietro l’ultimo angolo si fece lentamente avanti, ma quando sporse il viso per controllarne la posizione una pallottola gli fece saltar via la cicca dalla bocca. Si tirò indietro di scatto, perdendo l’equilibrio ed andando a sbattere col sedere per terra.
Michelle ricaricò l’arma a sua volta, dandogli il tempo di riprendersi dallo spavento. Non voleva che il gioco finisse troppo presto, voleva divertirsi, e poco importava che fosse stata lei a rimetterci la pelle. Tutto ciò che desiderava in quel momento era la vendetta.
Non appena Jigen corse via da dietro il basamento della statua, dirigendosi verso le scale, lei gli diede un certo margine di vantaggio prima di inseguirlo. Il pistolero si voltò in corsa, sparandole alcuni colpi che lei riuscì ad evitare accucciandosi dietro la balaustra. Sporgendosi tra le colonnine marmoree sparò un paio di proiettili a sua volta. Daisuke li schivò tuffandosi a terra e rotolando di lato, fino a nascondersi dietro ad una siepe. Allora Michelle si rialzò e scese a sua volta le scale per raggiungerlo, ma fu obbligata a cambiare direzione dalla sventagliata di colpi provenienti dal cespuglio. 
Acquattata dietro una panca di pietra, Michelle riuscì a sentire distintamente la voce di Jigen.
«Non ti sembra di aver giocato abbastanza?»
«No» rispose lei, con rabbia. «Non mi fermerò finché non avrò ottenuto ciò che voglio!»
Ricaricò la .38 special e sparò un paio di colpi verso il cespuglio. Da dietro le foglie, il pistolero rispose sparando a sua volta alcuni proiettili prima di lanciarsi nuovamente giù per la seconda rampa di scale. Michelle si alzò a sua volta per seguirlo, ma quando lui si voltò ancora e sparò, apparentemente a caso, una pallottola la colpì di striscio al braccio sinistro. 
Il dolore, violento ed improvviso, le strappò un grido involontario. Si strinse la parte colpita mentre il sangue cominciava a filtrarle tra le dita. All’improvviso le tornò alla memoria l’immagine di Jigen, ferito nello stesso punto per salvare lei. Le lacrime minacciarono di uscire, violente, ma scuotendo il capo Michelle le ricacciò indietro.
Nel rendersi conto di averla ferita, Jigen si fermò, stendendo il braccio sinistro verso di lei. «Michelle!» grido, trattenendosi a stento dal correrle incontro.
Ma la giovane donna non mostrò l’intenzione di arrendersi, anzi riprese l’inseguimento con più foga di prima. Si buttò giù per le scale con un urlo di rabbia, tenendo la pistola puntata davanti a sé e sparando a ripetizione, fermandosi solo quando fu costretta a ricaricare. Jigen approfittò del momento di stasi per riprendere la corsa, buttandosi a capofitto verso la stazione d’arrivo della ferrovia a cremagliera, ricaricando in corsa e sparando un altro paio di colpi dopo averlo fatto. Michelle si chinò per un istante soltanto, giusto il tempo di far passare i proiettili sopra la testa, poi si rialzò e, piantando ben bene le gambe sul gradino, prese la mira ed attese che Daisuke si voltasse di nuovo per spararle.
Non appena lo fece, la giovane donna lasciò partire il colpo che, con precisione millimetrica, andò a conficcarsi nel torace di Jigen, proprio all’altezza del cuore.
Il pistolero avvertì come una specie di pugno che lo fece balzare all’indietro. Il cappello volò via, strappato dalla caduta. Lo schizzo di sangue fuoriuscito dalla ferita gli imbrattò la camicia. Mentre cadeva all’indietro – quasi come al rallentatore, gli parve – lo fissò con sguardo lievemente sorpreso, come se non fosse suo. Poi, con un tonfo atterrò sulla schiena e rimase immobile, il respiro corto ed affannato.
Lentamente, Michelle gli si avvicinò, inginocchiandoglisi accanto. Daisuke volse lo sguardo verso di lei, ma non riuscì a metterla a fuoco.
«Non c’è… che dire…» riuscì a balbettare rocamente, «l’allieva… ha superato… il maestro…»
Michelle non parlò ma prese la sua mano destra tra le sue, intrecciando le dita con lui.
«Sarai… contenta…» riprese debolmente il pistolero, «sei riuscita… nel tuo intento…»
«Si» rispose la giovane donna, carezzandogli la guancia barbuta con la mano sinistra.
«Sono contento… di morire… per mano tua. Ti amo… Michelle. Non ho… mai smesso… di farlo…»
Un lieve sorriso si dipinse sulle labbra di lei. Senza smettere di carezzarlo si piegò su di lui e lo baciò lievemente sulle labbra. «Buon riposo, Daisuke» gli sussurrò, prima di chiudergli le palpebre.

  
Quando il pistolero riaprì gli occhi gli occorsero alcuni istanti per mettere a fuoco l’ambiente circostante. Un basso soffitto di pietra, illuminato fiocamente dalle fiamme di un piccolo fuoco, lo sovrastava. Era disteso su un pagliericcio, a torso nudo, ed una vistosa fasciatura gli attraversava il petto. C’era qualcuno che si muoveva intorno a lui. Si voltò in direzione del rumore e vide una sagoma seduta per terra a gambe incrociate, intenta a ravvivare il fuoco. A fatica alzò una mano e se la passò sugli occhi.
«Dove mi trovo?» mormorò, con voce più roca del solito.
«Stai tranquillo, non sei all’inferno» rispose una familiare voce femminile.
«Michelle? Sei tu?»
La sagoma si voltò. Alla luce tenue delle fiamme Jigen riconobbe la giovane donna.
«Sì, sono proprio io.»
«Come mai non sono morto?» chiese in tono incerto, come se non fosse del tutto sicuro di essere ancora vivo.
«Ho usato un proiettile soporifero molto speciale» spiegò Michelle, «un prototipo dell’Interpol. La pallottola si frantuma al contatto con il corpo umano, penetrando nella carne solo per pochi millimetri. E’ molto facile rimuovere i frammenti.» Col mento ammiccò in direzione di una ciotola contenente diversi pezzettini di metallo insanguinato. «Il sonnifero poi fa il resto.»
«Perché non mi hai ammazzato, allora? Parevi così determinata a farlo» gemette Daisuke, tentando di raddrizzare la schiena.
«Aspetta, sei ancora debole» lo fermò la ragazza, avvicinandoglisi ed aiutandolo a mettersi più comodo. «Dovevo chiederti perché mi hai abbandonato» rispose poi alla sua domanda, mettendosi seduta al suo fianco in modo da poterlo guardare comodamente negli occhi, quei pozzi neri che non avevano mai smesso di tormentarla.
Jigen trasse un lungo respiro prima di rispondere. «Perché ti amavo troppo.»
«Mi pare un controsenso» borbottò lei, sarcastica, incrociando le braccia sul petto.
«No, non lo è. Devi sapere che sono perseguitato da una specie di strana maledizione: tutte le donne di cui mi innamoro perdutamente fanno una brutta fine.»
«Ovvero?» chiese Michelle alzando un sopracciglio, acida.
«Di solito muoiono. A volte anche per mano mia» rispose cupo l’uomo, fissandola dritto negli occhi. «Ora capisci perché ho deciso di lasciarti nelle mani di Zenigata? Non volevo che anche tu finissi come le altre.»
«Che premuroso…»
«Pensala come ti pare, ma è proprio per questo che ho agito così!» Si interruppe per un istante, guardandosi intorno. «Dove siamo?» chiese quindi, curioso.
«In una sorta di stanza ricavata nella roccia, ai piedi del Corcovado. Probabilmente è stata usata dagli operai al tempo della costruzione della statua del Cristo. L’ho scoperta per caso stanotte, ed ho pensato che faceva proprio al caso mio.»
Senza preavviso, Michelle salì a cavalcioni del pistolero, mettendosi seduta proprio sul suo inguine. L’uomo si irrigidì, sorpreso, mentre il suo corpo rispondeva autonomamente al dolce stimolo appena ricevuto. La giovane donna se ne accorse immediatamente.
«Beh, almeno una parte di te e viva e vegeta, devo dire» scherzò, sfregandosi su di lui con malizia.
«Te l’ho detto, non ho mai smesso di amarti. Anche se, una volta, non eri così diretta.»
«Sono cresciuta, Jigen. E, a dire tutta la verità, anch’io non ho mai smesso di amarti. Di odiarti e di amarti. Ed ora sei qui… tutto per me…»
Gli carezzò dolcemente il petto, la fasciatura bianca che contrastava col colorito ambrato della sua pelle. Daisuke trattenne rumorosamente il fiato mentre la sua erezione diventava sempre più vistosa. Alzando lentamente le braccia, Michelle tolse la camicetta, rivelando la fascia sul braccio sinistro.
«Ti ho fatto molto male?» chiese il pistolero, sfiorando il bendaggio.
«Non molto. Così, ora abbiamo anche la stessa cicatrice» rispose la donna, toccando il segno bianco che spiccava sul suo bicipite, testimone di quando Daisuke aveva rischiato la vita pur di salvarla.
Senza aggiungere altro, il pistolero le prese il viso tra le mani, attirandola a sé. Michelle non si fece pregare e piegandosi su di lui lasciò che le loro labbra si unissero e che le loro lingue danzassero insieme. Gli passò le mani tra i lunghi capelli, venati da qualche raro filo d’argento, mentre Jigen le carezzava dolcemente la schiena e ed i fianchi.
Dopo alcuni lunghi minuti di baci e carezze Michelle si staccò, strappando a Daisuke un gemito di disappunto. Ma la giovane donna aveva in mente ben altro. Con lentezza studiata gli slacciò i pantaloni, calandoglieli insieme agli slip, poi si spogliò a sua volta e tornò a sedersi su di lui, lasciando che la sua virilità le scivolasse dentro. Gettando indietro la testa, cominciò a muoversi lenta e suadente su di lui. Jigen si lasciò scappare un altro gemito mentre, con le mani, percorreva tutto il suo corpo. 
Si amarono intensamente, come mai avevano fatto prima di allora, con bisogno ed ardente desiderio. I loro corpi ed i loro respiri si fusero insieme e Michelle si sentì di nuovo completa. Daisuke si perse dentro di lei, dandole tutto l’amore di cui era capace e ricevendone altrettanto in cambio. Travolti dal piacere, raggiunsero l’orgasmo l’uno subito dopo l’altra e Michelle accolse il suo seme dentro di sé, gemendo il suo nome come se, in tutti quei dieci, lunghi anni non avesse vissuto che per quel momento.
Infine si accasciò sul suo petto, dove Jigen l’accolse stringendola amorevolmente tra le braccia.
«Mi sei mancato da morire, Daisuke» sospirò la giovane donna, affondando il naso nel suo collo ed inebriandosi ancora una volta del suo odore.
«Anche tu a me, Michelle» rispose il pistolero, baciandola dolcemente sulle labbra.
Dopo un istante di silenzio, Michelle formulò un’ultima domanda. «In questi dieci anni, quante volte sei stato a letto con Fujiko?»
Jigen si irrigidì involontariamente prima di rispondere con un’altra domanda. «È davvero così importante?»
Dopo aver fatto un lungo sospiro, la giovane donna scosse la testa. No, ormai non era più importante perché, per quante volte Fujiko avesse potuto possedere il suo corpo, il cuore di Daisuke – ormai Michelle ne era certa – apparteneva soltanto a lei.
Trascorsero così, nascosti insieme, due giorni durante i quali si amarono più e più volte, saziando la loro fame e la loro sete di desiderio, come se tutto ciò fosse più che necessario per mantenerli in vita e non avessero bisogno di niente altro che non fossero i loro corpi fusi insieme. Alla fine, però, entrambi si resero conto che non potevano continuare ancora per molto.
«Lupin ti avrà dato per disperso» scherzò Michelle, adagiata contro di lui sul pagliericcio dopo aver fatto l’amore per l’ennesima volta.
«Anche Zenigata, credo. Avrà allertato la polizia di tutto il Brasile, per ritrovarti.»
La giovane donna sorrise a quell’idea. «E’ un brav’uomo, ma a volte non ha proprio il senso della misura.»
Jigen rispose al suo sorriso, strappandole poi un bacio. «Ci rivedremo?» chiese infine alla sua schiena, mentre Michelle si rivestiva.
«Credo proprio di sì!» rispose lei, strizzandogli l’occhio con fare malizioso. Poi, dopo avergli lanciato un bacio, uscì dal loro nascondiglio con passo sicuro.
Il pistolero sorrise tra sé e sé, poi indossò i suoi soliti abiti, si calcò il cappello in testa ed uscì a sua volta, diretto verso il rifugio che divideva con gli altri due soci, sperando vivamente che Lupin fosse ancora in zona.


Quando Zenigata la vide salire le scale della Questura di Rio de Janeiro, si buttò letteralmente verso di lei. 
«Michelle! Ma allora sei viva! Temevo che ti fosse successo qualcosa!» gridò il poliziotto, stritolandola tra le braccia.
«Stia tranquillo» si schernì lei, cercando in tutti i modi di liberarsi dalla sua stretta ferrea, «sto bene!»
Finalmente l’ispettore si decise a lasciarla andare, fissandola da capo a piedi con occhio critico come per accertarsi che gli avesse detto la verità. «Quel dannato Lupin è fuggito un’altra volta, ma noi…» cominciò poi a sbraitare, ma Michelle lo interruppe.
«Voglio rassegnare le mie dimissioni, ispettore.»
«Cosa?!» chiese Zenigata, incredulo, fissandola ad occhi sgranati. «Ma non siamo ancora riusciti a catturare Lupin e la sua banda!»
«E’ vero, ma io ho avuto la mia vendetta.»
«Davvero?! E come?»
«Questo è un mio segreto, ispettore.»
Il poliziotto la scrutò ancora a lungo, ma quando lesse la determinazione nel suo sguardo abbassò le spalle e sospirò, rassegnato.
«E sia… Mi dispiace molto lasciarti andare, sei una brava poliziotta! Ma, se è questo che vuoi…»
«Sì, ispettore, è proprio ciò che voglio.»
A malincuore, Zenigata le fece compilare il modulo di dimissioni che firmò personalmente; poi, dopo aver ritirato il suo distintivo e la sua pistola d’ordinanza, abbracciò Michelle e la baciò sulla fronte.
«Addio, Michelle, abbi cura di te.»
«Arrivederci ispettore.»
Finalmente libera, Michelle raggiunse l’aeroporto col suo borsone sulla spalla, pronta a tornare a casa.



Ri-spazio autrice:
Ed eccomi di nuovo. Spero che l'ascolto abbia reso l'idea. Tra l'altro quella "canzone" è stata proprio la principale ispiratrice di questa storia. Infatti, fin dalle prime volte in cui l'ho ascoltata, mi faceva venire in mente l'immagine di Jigen nel duello che poi ho cercato di descrivere.
Spero sia riuscito bene.


 

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Epilogo



Un’esplosione squarciò la parete laterale del palazzo, facendo crollare pezzi di mattoni e calcinacci ovunque. Lupin e la sua banda al gran completo saltarono fuori dal varco, emergendo dalla polvere come fantasmi. In lontananza si udivano già le sirene della polizia. 
Senza riuscire a trattenere le risa per il successo appena ottenuto, Arsenio guidò gli altri verso la loro auto, baciando nel frattempo la piccola scatola portagioie contenente la preziosissima spilla di rubini e topazi che avevano appena trafugato.
«È andato tutto liscio come l’olio!» esclamò, entusiasta, saltando una siepe ed atterrando a pochi metri dalla macchina. Gli altri lo seguirono, altrettanto esaltati, per poi prendere posto sull’auto.
Con un gran rombo di motore, la Ford Capri color arancione dinamite balzò in avanti, sfrecciando sull’asfalto. Quasi per farsi notare passò davanti alla facciata dell’edificio, dove si erano ammucchiate le auto della polizia, chiamata dalla vittima. 
Proprio davanti all’ammasso di gazzelle stava l’ispettore Zenigata che agitava sopra la testa le sue famose manette. «Fermati Lupin! Ti prenderò!»
La Capri rallentò fino a fermarsi, mentre il finestrino del guidatore veniva abbassato.
«Ciao Zazà!» lo apostrofò Arsenio, sporgendosi dal sedile posteriore. «Scusaci, ma abbiamo proprio fretta, non possiamo fermarci a giocare con te! Ci vediamo! Viaaaaaa!»
La mascella dell’ispettore cadde mentre rimaneva a fissare, come imbambolato, davanti a sé. Ma non era stata la presa in giro di Lupin a fargli quell’effetto, bensì la vista della persona che stava guidando la macchina.
Michelle Duval, ex agente dell’Interpol e sua collaboratrice personale, lo stava salutando amichevolmente con la mano. «Arrivederci ispettore» disse, mentre Zenigata continuava a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. «Non se la prenda, non ho niente contro di lei, ma ora so che questa è la mia vera vita!» 
Pigiando l’acceleratore a tavoletta, la giovane donna fece partire di scatto la macchina, lasciando l’impronta delle gomme sull’asfalto ed inondando l’ispettore con i fumi di scarico che lo fecero tossire.
«Michelle!» gridò infine, quando riuscì a riprendere fiato, «ti arresterò! Vi arresterò tutti, prima o poi!»
Ben presto la sagoma dell’ispettore divenne solo un puntino saltellante nello specchietto retrovisore. Con entrambe le mani strette sul volante della sua adorata auto, Michelle si sentì più viva che mai.
«Complimenti chérie, sei stata bravissima!» si congratulò Arsenio, dandole una pacca sulla spalla.
«Grazie Lupin. Era ora che ti decidessi a lasciarmi scendere in campo!»
Il ladro sghignazzò, grattandosi la testa con aria un po’ colpevole, ma ormai la giovane donna aveva completamente perso ogni interesse per lui. Il suo sguardo si era fuso con quello di Jigen, seduto al suo fianco sul sedile del passeggero. Il pistolero protese il braccio per stringere la mano destra di lei. «Sono contento che tu sia tornata, Michelle. Ti amo.»
«Ti amo anch’io, Daisuke Jigen.»

 
Fine





 
Spazio autrice: ed eccoci dunque arrivati alla fine della storia. Spero che vi sia piaciuta, ovviamente. Chiedo venia per il disegno: non è mai stato il mio forte, ma non potevo non pubblicare la mia "opera". Spero che Jigen mi perdoni per come l'ho disegnato, della Ford Capri, invece, sono abbastanza soddisfatta. Perché una Capri color "arancione dinamite"? Perché è l'auto dei miei sogni, di cui sono letteralmente innamorata!
Grazie a tutti coloro che hanno letto, e un abbraccio particolare a Fujikofran per avermi seguita!


 

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