aut ego, aut nihil.

di heather16
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** vindicta ***
Capitolo 2: *** mea lux ***
Capitolo 3: *** fuga ***
Capitolo 4: *** oblivio ***



Capitolo 1
*** vindicta ***


E così era quello che volevi. Ti ho amata, venerata come una dea. Ti ho voluta, ti ho cercata, ti ho pregata con occhi stanchi, privi di sonno, di gioia, di vita. Ogni giorno che passava, scolpivo nella mia mente tutti i minimi particolari che caratterizzavano la tua figura, il tuo comportamento, i tuoi movimenti. Ogni giorno tu eri così gentile, e così divinammente, dolcemente, cordialmente fredda. Mille uomini che volevano te, che cercavano te. E tu ne accontentavi uno per uno, con uno sguardo, un sorriso, il permesso di un ballo ad una di quelle scintillanti serate. E IO? Dov’ero io?
E ora io sono cresciuto, sono diventato ciò che sono ora. E tu mi vuoi? È così? Questa sera alla corte dei Della Spiga io ero lì, e tutti i tuoi sguardi, sorrisi, passi di danza erano per me, con me. Lurida arrampicatrice sociale, questo sei. Ma io ero pazzo d’amore, accecato dalla passione; così credevi, vero? Quindi ti ho assecondata, ti ho mormorato dolci parole all’orecchio, ho sfiorato la tua mano passeggiando nel giardino, da perfetto ragazzino piccolo e inesperto. E come un fanciullino ho fremuto, quando mi hai portato nell’ala della notte dela tua bella reggia, ho arrossito quando mi hai invitato ad entrare nella tua stanza.
Allora, quando tu sei stata nuda davanti a me, quando alla luce della candela ho potuto studiare tutte quelle forme del tuo corpo che un tempo solamente sognavo, soltanto allora, ho liberato il mio nuovo ego furioso. E tu, come una gatta in calore, come una lurida Messalina coi fili d’oro fra i capelli, hai goduto come mai hai fatto in vita tua, ne sono certo. Ti ho posseduta, e poi tu, sfinita, hai dormito sul mio petto. Posso indovinare sicuro di aver ragione che nel tuo sonno c’ero io, come un amante che sarebbe potuto essere conveniente marito, o semplice forziere a portata di mano. Ma ora me ne vado; tu, lurida, tu, che eri la mia pura dea e ora giaci su di me, nuda e sporca di sesso. Io sono il mio nuovo dio; e al tuo risveglio con te ci saranno solo vergogna e polvere.


Nota
questa è in realtà una succosa (spero) presentazione del protagonista. diciamo un inizio in medias res. un dettaglio, quale la conquista di QUESTA donna, che vi anticipo per darvi un'idea dell'apice dello sviluppo psicologico del personaggio. nei prossimi capitoli tornerò un pochino indietro, alla prima adolescenza del mio giovane "eroe". spero vi piaccia!

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Capitolo 2
*** mea lux ***


Il mio nome è Giuliano. Sono il figlio bastardo dei conti De Gasperi. Il lurido figlio bastardo, a detta della mia matrigna, Luisa De Gasperi. Di nobile la mia famiglia ha solo il titolo. Siamo poveri, viviamo in un palazzotto che sta lentamente andando in rovina, e sempre meno sono i nostri possedimenti nelle campagne. Ho quindici anni, e mio padre dice che sembro una spiga di grano. E ovviamente non è un complimento. Non so perché abbia scelto questo nomignolo, forse per le mie gambe scheletriche, per i miei capelli biondo cenere, perché sono molto alto, o forse per tutte queste ragioni insieme. In ogni caso il sogno della mia matrigna era che io andassi in convento, più per levarmi dai piedi che per una mia propensione monacale, ma mio padre mi ha protetto, permettendomi di continuare i miei studi. Ho un fratellastro, di vent’anni, e poi ho Beatrice. È la mia sorellastra, ha diciotto anni, e presto andrà in moglie a qualche uomo facoltoso. Almeno, questo è quello che spera mio padre, dato che abbiamo bisogno di soldi. Diventare parassiti di qualche ricco signore recentemente è una delle più grandi aspirazioni di Ferdinando De Gasperi, e la cosa mi contraria non poco, perché ho una grande stima del genio di mio padre. Forse è vero che l’amore per la cultura e il disprezzo per gli affari economici punisce l’uomo con la mancanza di denaro.  Dunque, Beatrice è bella. Bellissima. Assomiglia a sua madre, che sembra un altero fiore appassito e gonfio d’odio, ma i suoi occhi celesti sono buoni e dolci come quelli del padre. È piccola e minuta, sul suo viso spiccano sempre due gote rosse deliziose. È gentile e intelligente, ed è la mia unica amica.
Voglio ora sfogare il mio genio, che talvolta stimo più di quello di mio padre. Sono frustrato, perché sono giovane, debole e fallito in partenza. Quando ero piccolo, e Beatrice per volere del padre già studiava la letteratura e la filosofia, e si poneva i primi quesiti sull’esistenza, mi diceva che la fortuna di ogni essere umano è semplicemente quella di esistere. Per una cagione o per l’altra, gli sfortunati non sono mai nati. Le sue parole erano così confortanti, mi davano l’illusione di essere speciale. Credevo ad ogni sua riflessione, e mi gustavo quei discorsi come un bambino, che dopo pianti disperati e vagiti acuti, finalmente poggia la bocca sul seno della madre, e succhia. Ma sono cresciuto, ho assaggiato l’amaro sapore delle lacrime, e ho capito che i veri sfortunati sono quelli che vengono al mondo dal nulla. Un bambino senza un padre o una madre è un bambino mai nato. Tutti lo odiano solamente per il suo esistere, quasi pensassero che questa fortuna tanto millantata da mia sorella fosse stata data alla persona sbagliata. Mio padre in fondo è convinto che io non valga nulla, la mia falsa famiglia mi detesta, e io sono costretto a vestire i panni del giovane fallito quando dentro voglio solo essere un re. Sì, perché ho la dolorosa consapevolezza che sono intelligente. Non sono superbo, so la verità. Perciò voglio riscrivere sulle pagine del destino  il mio futuro. Domani mattina me ne andrò di casa, nessuno saprà della mia partenza.  Troverò la mia via, e regnerò sul mondo, dimostrando a tutti che un figlio di nessuno è paragonabile a Gesù Cristo, perché come lui è definibile generato e non creato, e ne ha le stesse forze. Blasfemia? No.
Mi sveglio da un sonno agitato, pieno di progetti per il futuro, ma appena i miei occhi vengono irrorati della luce del mattino, come se la stessa fosse un’ondata di realtà, mi rendo conto che ancora niente è stato concluso, decido. E mi sento un fallito. Mi vesto, e mi rimiro nello specchio. Sono magro, i vestiti sembrano sempre troppo larghi, ho un volto triste, sciupato. Sono brutto. Scendo al piano di sotto. Nessuno mi ha aiutato a prepararmi, o mi ha svegliato con parole gentili. La mia matrigna non vuole. Mio padre non lo sa che sono trattato come un misero servetto, ma io non dico nulla. Ho paura di sentirgli dar ragione a lei. Anche perché ormai, date le difficoltà economiche, abbiamo problemi anche con la servitù. E poi ho troppa paura di quello che quella donna potrebbe farmi. Così sono stato costretto a tenere le tende tirate, e a percepire la luce dell’alba. Quella è la mia sveglia. Al tavolo della grande sala da pranzo siedono i miei fratelli e la mia matrigna. Mio padre, come al solito, sarà già chiuso nel suo studio a leggere di questioni aristoteliche eideologie platoniche, passando da un libro (e argomento) all’altro con notevole disinvoltura. La luce di una grande finestra illumina la tavola di un chiaro bagliore dorato. Saluto,e a malapena ricevo una risposta. Sedutomi poi in silenzio, inizio come tutti giorni a studiare i miei commensali. Mi piace percepire quella quotidianità di cui io in realtà non faccio parte, per poi nei sogni più intimi fingere, illudermi, di essere uno di loro. Mio fratello Tommaso sta sbocconcellando del formaggio, la bella Beatrice imburra un pezzo di pane. E poi c’è lei, la mia matrigna. Lei non mangia mai alla mattina. Si crogiola nell’osservare i suoi bei figli, e nel guardarmi con disapprovazione. Quando allungo una mano per prendere una fetta di pane mi fulmina con lo sguardo, e quando immergo il cucchiaio in una ciotola di porcellana di conserva, mi guarda come fossi un ratto che, salito sulla tavola, inizia a contaminare tutti i cibi di una lorda peste che presto dilagherà fra tutti i commensali. Mando giù a fatica il mio pasto. Ogni giorno è così. Quando non c’è mio padre, quella donna mi fissa con i suoi bellissimi e crudeli occhi neri, e mi toglie il respiro. Dio solo sa quante volte ho cercato il suo amore, quante volte dopo una caduta ho agognato un corpo caldo e morbido in cui potermi accoccolare per essere confortato. Ma nulla, lei mi odia e mi odierà per sempre. Beatrice sa cosa provo. Lei, con quel viso innocente che a volte pare quasi assente, vede e percepisce ogni cosa. Si alza-
-Vieni Giuliano, ho bisogno di prendere una boccata d’aria. Madre, possiamo andare?-
Luisa De Gasperi è una donna cattiva. Ma ama suo figlio. E suo figlio ama Beatrice, più di quanto lei da madre possa farlo. Quindi, sebbene disapprovi il suo rapporto con me, e odi a morte quel bel visino fresco e senza difetti, annuisce con aria greve.
-Grazie, non credo che avrei resistito un minuto di più.-
-Vuoi sapere una cosa? Nemmeno io.- ride lei. Camminiamo per un po’ in silenzio. Lei di cose da dire ne avrebbe, ma il suo obbiettivo sembra sempre quello di volermi far parlare. Lei vuole che io mi apra con lei, che le confidi ogni mio dolore e segreto. Perché tutto ciò che lei vuoleè aiutarmi, farmi star bene. Ma io sono un fallito, un idiota, un incapace, e sebbene siano tante le parole che vorrei sussurlarle all’orecchio, dirle ad alta voce, o gridare al mondo intero, non riesco a esprimermi. Sono un codardo.
La guardo, e lei mi dà la forza e la soluzione. Nei suoi occhi vedo cosa devo fare.ora so dove devo andare. Domani all’alba partirò. Ma oggi è ancora oggi, io sono ancora io, e la mite e bella Beatrice è ancora sull’erba verde a passeggiare con me, e ho ancora un giorno per dirle con gli occhi tutto ciò che vorrei.
 
Nota: ecco il primo capitolo vero e proprio…  fatemi sapere cosa ne pensate. Lo dedico (uauh, che altezzosa, che fa le dediche come le autrici nei libri) alla mia amica Beatrice, domani è il suo compleanno e se mi leggerà vorrei solo dirle che le voglio bene…. Spero che con la descrizione di questa Beatrice, lei possa capire quanto è speciale…

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Capitolo 3
*** fuga ***


Passo la notte insonne. La mia mente vaga fra mille pensieri. C’è il mio piano. Ho deciso di partire all’alba, a cavallo, per Milano. Chiederò udienza a Massimiliano Sforza. Poi si vedrà. So già cosa dovrò fare. Ma non faccio in tempo a finire di pensare al mio colloquio con Massimiliano, che l’immagine della mia matrigna si materializza sulle palpebre chiuse, e rivedo ogni sguardo crudele, risento ogni parola di ghiaccio che quella serpe mi ha sibilato nel corso della mia vita. E poi appare Beatrice. Con il suo sguardo dolce, i suoi capelli di seta, quegli occhi così belli che mi fanno razionalizzare la situazione di nuovo. Tutto questo è una follia, sono uno smilzo bastardo di quindici anni, come posso sperare di aspirare ad essere un collaboratore di Massimiliano Sforza? Ma questa notte è mia, e mia soltanto, e per la prima volta respingo con forza le parole che immagino mi direbbe mia sorella. Dimentico chi sono. La società invero non è di grandi uomini, ma di uomini intelligenti. L’imperatore Claudio, un vecchio cornuto e zoppo, con quell’odiosa parlata balbettante, che fu amato dagli eserciti. Per cosa, se non per il suo genio, la sua furbizia, la sua anima? Io posso farcela. Io lo sento. E nessuno può fermarmi, sono solo con le mie forze. Sembra strano, in certi casi questa condizione di solitudine e abbandono a se stessi è preferibile a una vita cullato dagli amori famigliari. Perché chiunque, per odio o per amore, ti soffoca, ti impedisce di fare di te ciò che sei, perché ognuno ti conosce per ciò che a lui appari. Agli occhi del mondo ogni essere umano è lo specchio di chi lo guarda. Per questo solo l’individuo può sapere cosa vuole e cosa è. E sempre per questo, credo che tutti soffochino l’uomo, credendo di abbracciarlo. Nel mio caso la situazione è un’altra, perché chi mi soffoca è felice e consapevole di farlo. Chi non lo fa semplicemente mi ignora, considerandomi poco meno di niente. Mio padre non approverebbe mai la mia decisione di andarmene. In fondo, come ho già detto, non crede in me. Sono l’uccellino con la gamba spezzata, che la madre ha abbanndonato nel nido. Incapace di zampettare via, l’uccellino rimane solo e senza cibo né acqua, allora il buon contadino che lo trova a pigolare sull’albero lo tiene con sé. Lo nutre, lo cura. L’uccellino cresce, ma per il contadino sarà sempre un povero zoppo, anche quando ormai merlo dal becco giallo spiccherà il volo nonostante la zampa malata. Così mio padre ha voluto che studiassi, che avessi una vita normale, forse più per filantropia che per amore paterno.
La luce dell’alba filtra dalla finestra. Mi alzo con quella sensazione di nausea che si ha dopo aver passato una notte insonne, ma sono troppo eccitato per essere stanco. Indosso i miei vestiti più belli, che stranamente sembrano starmi bene. Metto in una cintura di cuoio con un fodero decorato la spada che mio padre mi regalò a dieci anni. È ciò che ho di più caro. Esco dalla stanza, non preoccupandomi troppo di non far rumore. Anche se uscissi camminando per i corridoi e qualcuno lo sentisse a nessuno importerebbe. Vado nello studio di mio padre. Da bambino qualche volta mi faceva entrare. È pieno di documenti carte, e quadri. Io so dove cercare. Vado verso la scrivania, apro il cassetto centrale e sollevo il doppio fondo. I denari che rimangono sono ben pochi, e mi piange il cuore a lasciare quel cassetto ancora più vuoto. Arraffo un sacchetto di monete, e me ne vado, richiudendo con cura il fondo e infilandomi nello stivale destro il bottino. Scendo le scale, vado nella libreria, cerco il passaggio che conduce alle cucine. Vuote. Prendo la porta di servizio, e finalmente esco. Il cielo è bianco e nuvoloso, l’aria fredda e umida. Vado verso le stalle. Il cavallo di mio fratello è lì. Il suo nome è Annibale, come il grande condottiero cartaginese. È altissimo, sembra quasi uno stallone, ed è nero come l’inferno. Questo è il genere di cavallo degli uomini terribili, grandi nel male, che incutono timore. Ci salgo con agilità. Una figura alta come me su un cavallo come questo deve fare un bell’effetto. Quasi… minaccioso. Stavolta vado piano. Se svegliassi qualcuno della servitù, allora sì che sarebbe un problema. Lasciarmi camminare per le sale della casa non è un importante, permettermi di andarmene a cavallo con dei soldi rubati sì. Passo davanti all’ala delle stanze da letto. Sto per attraversarle del tutto, quando inorridisco al suono di una finestra che si apre. Il mio primo pensiero è quello di spronare il cavallo e andarmene, ma ricordatomi poi dei miei discorsi sulla demagogia e la furbizia, mi costringo a rimanere fermo e a girarmi verso la spia. Il cielo bianco tinge il suo viso di un triste pallore. Beatrice mi guarda dall’alto, e posso immaginare la confusione impressa sul suo viso.
-Giuliano, cosa fai?-
-Me ne vado Beatrice.-
-Come sarebbe a dire che te ne vai?-
-Abbassa la voce. Vado a fare una passeggiata a cavallo. Tornerò.-
Lei non mi crede, è troppo furba; ha già notato il bel vestito, il cavallo rubato, la spada che pende dalla mia coscia. –Giuliano, ti prego.-
-Tornerò.-
-Giuliano!- ha già urlato fin troppo. Sento che un’altra finestra si sta aprendo. Non posso fermarmi ancora. Sprono il cavallo e parto al galoppo, lasciandomi indietro Beatrice, la mia casa, la mia matrigna, mio padre, mio fratello, la mia orrenda e tremenda vita. Mentre il vento mi sposta i capelli rido, rido e mi sento pazzo di gioia.

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Capitolo 4
*** oblivio ***


A cavallo per tutta la giornata, senza fermarmi mai. Il vento diventa pioggia, la pioggia tempesta. Cala la notte e decido di fare una breve sosta per mangiare un boccone e lasciar riposare il mio cavallo, così quando vedo un piccolo ostello mi fermo. Ma non scendo da cavallo. Una sensazione di calore mi strizza le budella e sale fino al cervello. Cado privo di sensi nel fango gelido. La notte. È buio. Sono solo. Dio, voglio una donna qui con me. Voglio mia madre. Non c’è. Un paradiso in terra. La notte. È buio. Sono solo. Massimiliano Sforza avrà il mio cavallo. Lo donerò a lui e lui mi farà re del suo ducato. Terreno. Regno. Gli donerò Beatrice, la farò fottere da lui e da suo fratello, se mi garantirà gloria e fama. No! Beatrice! Non te ne andare, non sposarti con nessuno! Sei l’unica qui che mi capisce! La notte, è buio, sono solo! Per Dio, voglio il mio cavallo, datemi il mio cavallo! Le oche, sono dappertutto! Loro mi vedono, e quella troia, lei mi vede! Si… troia, troia! Lurida scrofa, immergi il tuo viso di pietra e diamante nella conserva di mele alla mattina! Inutile. Papà. Non mi lasciare nemmeno tu. Ti voglio bene. Mi manchi. Scusa. Beatrice. Ti amo. Riprendo i sensi la mattina dopo. Tento di alzarmi, ma la mia testa gira. Tutto gira in verità: le travi del soffitto, le piastre di terracotta del pavimento, le gocce di pioggia sulla finestra. Ho freddo, e subito un dubbio terrorizzante mi trafora il cervello. Una donna vecchia e grassa entra. –Di grazia, dove sono?- nella mia testa la mia voce era scura, il mio tono severo. Invece sembro esattamente ciò che sono: poco più di un bambino. -State buono voi. Adesso vi porto una pezzuola fresca e vi riprenderete.- -Donna! Dove sono?- decisamente più convincente, ma non abbastanza da incutere timore. Ma almeno lei mi risponde, seppur ridacchiando: -Siete a qualche miglio da Monza, signore.- Sereno, risprofondo tra le lenzuola. I miei genitori non mi troveranno mai. Io stesso non riesco a capire come ho fatto ad arrivare così in fretta. E senza sbagliare mai strada. Febbricitante ma felice chiudo gli occhi. Per i seguenti due giorni rimango a letto, nutrito e coccolato. Alla mattina del terzo giorno mi alzo, e faccio per vestirmi. I denari scomparsi. Non faccio in tempo ad interrogarmi che qualcuno rientra. Stavolta è un uomo, dev’essere il padrone della locanda. -Signorino, vedo che vi siete rimesso in forze!- Non gli chiedo nulla sui soldi, potrebbe essere un malinteso, potrei averli persi cavalcando, non voglio creare problemi. Un modo lo troverò per pagare. -Grazie per le cure offertemi dalla sua gentile moglie.- - In fondo è suo padre che mi ha permesso di metter giù…- la frase rimane sospesa. Le parole si fanno pesanti per colui che sapeva di non doverle pronunciare, e per me che purtroppo temo di averle udite fin troppo bene. Un nuovo dubbio mi assale. –Perché mio padre vi ha aiutato?- -La riportiamo a casa signorino De Gasperi.- -No. No!- faccio per correre verso la porta, ma l’oste mi blocca la strada. Metto mano alla spada. -Non costringetemi ad usarla!- l’oste con quello sguardo perso che hanno tutti i villici, mi guarda con occhi e bocca spalancati, come un pesce poco prima di spirare. Ma non si muove. La rabbia è tale che mi acceca. Sguaino la spada, e come un fulmine colpisco nel grasso petto l’uomo. Boccheggia, ondeggia, sputa sangue e cade. Lo guardo, paralizzato dal terrore. Ho ucciso un uomo. In un instante ho eliminato cinquant’anni di una vita. In un istante una creatura animata è diventata un pezzo di carne ancora caldo. Sento dei passi. Dev’essere la moglie. Non posso fermarmi, perciò scappo, scappo veloce giù per le scale, spintonando la vecchia che mi guarda stupita. Solo quando arrivo alla porta sento un urlo femminile. Deve essere arrivata in camera. Intanto la piccola compagnia di ubriaconi (o quasi) ai tavoli, ai quali certamente l’oste aveva parlato di me, si alzano, e fanno per fermarmi. Corro come il vento, arrivo alle stalle, trovo il mio cavallo, salgo, tiro le redini e via come il vento. Galoppo finchè la debolezza non mi costringe a fermarmi. Lego il cavallo a un albero e mi accascio vicino a un masso. Cerco di rimettere a posto la mia testa. Probabilmente l’oste ha riconosciuto i blasoni sulla sella del cavallo. Probabilmente ha pensato io fossi un ladro, ma forse qualcuno gli ha detto che il figlio bastardo del duca era fuggito. Chissà, una guardia ubriaca, o una donnetta venuta a divertirsi. Ma c’è ancora qualcosa di strano: come fa un oste che vive a Monza a sapere di me, della mia famiglia e come può ricevere notizie sulla mia fuga cos’ in fretta? Per la prima volta da quando sono uscito dalla locanda mi guardo intorno.quei campi mal curati, l’inconfondibile campanile della chiesa del piccolo paese di Vertelli, che riuscivo a vedere dalla mia stanza. Devo essere a poche miglia da casa. Devo aver girato in tondo. Non mi sono mai sentito così stupido. La donna deve avermi detto un paese qualsiasi, per farmi credere al sicuro così da rimanere buono e tranquillo. Sono senza un soldo, senza una strada. Poi, l’immagine della bocca dell’oste, aperta, stupida e grondante sangue si visualizza nella mia mente. Non posso credere di avere ucciso. Un senso di nausea sale su dalla mia gola. Tiro fuori la spada dal fodero, e la esamino ancora sporca di sangue. Ma poi un altro pensiero, più freddo, più maligno, mi viene alla mente. Un certo fastidio. I bambini da piccoli sognano di uccidere mostri alati, tiranni meschini, e io da perfetto inetto, ho ucciso un povero oste. Quello che inizialmente era orrore lentamente si trasforma in rabbia. Quello stupido oste, se solo mi avesse preso sul serio, se solo si fosse spostato. Ho ucciso inutilmente un uomo senza valore, che non meritava nemmeno di essere passato a fil di spada. Potrei sembrare freddo, ma non riesco a non essere deluso. Cerco di organizzare un piano d’azione. Ripartirò a cavallo, e al primo viandante domanderò la via per Milano. No, no. Ormai sono paranoico. Dire a qualcuno dove sono diretto potrebbe essere rischioso. Ma cosa sto dicendo? Non tutti sanno chi sono. Dio, se solo Beatrice fosse qui con me a consigliarmi. Ebbene, mi alzo, monto a cavallo e continuo a trottare sulla via principale. Dopo una ventina di minuti scorgo un uomo. È un contadino, che porta sulla schiena una fascio di rami secchi. -Uomo, qual è la strada per arrivare in Milano?- Il vecchio, gentile e umile come solo chi è nato alle dipendenze di qualcuno ed è vissuto servo può essere, mi risponde che la strada è lunga, sono quasi due giorni a cavallo, ma Milano non è difficile da raggiungere. Mi indica soltanto una vaga direzione da prendere, con il braccio destro, ma a me va bene. Al confine con il ducato Estense chiederò ancora la strada, e poi passerò per i boschi, per non essere visto. In effetti a nessuno potrebbe importare di un fanciullo a cavallo. Ma se qualcuno mi chiedesse chi sono? Se poi quel qualcuno avesse informazioni da comunicare eventualmente a chi mi cerca? Ma poi, chi mi cerca? Per la mia famiglia la mia partenza è stata una liberazione… però hanno chiesto di me, se all’osteria è accaduto quel che è accaduto. Non so più se la mia è paranoia o presunzione.

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